Odiare Israele usando Netanyahu come paravento
di Davide Cavaliere
«Blogger» presso Il Sole 24 ore, Ugo Tramballi è specializzato nel diffondere la peggior propaganda palestinese, che cerca di spacciare sotto forma di analisi «imparziali». Il giornalista, infatti, è uno di quelli che ama celara la propria avversione per Israele dietro a un discorso anti-Netanyahu e, più in generale, «antifascista».
Come tutti i conformisti di sinistra rimpiange Yitzhak Rabin, trasformato in santo laico dopo l’omicidio, dimenticando che i suoi compagni e amici progressisti, forse lui stesso, ma non lo sappiamo, non mancarono di accusare anche il leader laburista di «fascismo», soprattutto in relazione alla frase sulla necessità di rompere le braccia ai palestinesi che tiravano pietre durante la prima Intifada.
Tramballi è ossessionato dalla destra israeliana. Non esiste, praticamente, suo articolo che non contenga un riferimento a un presunto «messianismo ebraico» o alle «destre nazional-religiose». Si è convinto che Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir siano la versione ebraica di Hamas e che vogliano realizzare il progetto della «Grande Israele». Si tratta del riciclo della menzogna fabbricata, negli anni Trenta, da Amin Al-Husseini, il Muftì filonazista di Gerusalemme, secondo cui i sionisti volevano impadronirsi di tutte le terre arabe e radere al suolo la moschea di al-Aqsa.
In realtà, Ben-Gvir e Smotrich, sono solo due ebrei israeliani fieri di esserlo, che non intendono continuare a fare da bersaglio ai terroristi di Hamas per soddisfare i sogni irenici e ingenui di gente come Tramballi. Mentre compila i suoi trafiletti per Il Sole 24 ore su come faccia fatica ad accettare un governo «nazional-religioso», gli israeliani, soprattutto se residenti in Giudea e Samaria, cercano di non farsi sparare lungo la strada che li riporta a casa o di evitare che le loro auto di seconda mano vengano rubate e portate nel territorio controllato dalla «Autorità Palestinese».
I cosiddetti «coloni», che il nostro dipinge come subumani «razzisti», sono persone normali che ogni giorno si battono per vivere in una terra nella quale hanno diritto di risiedere.
Tramballi, sebbene ami sfoggiare il suo curriculum di giornalista, non ha compreso nulla della realtà israeliana e della mentalità islamica, ancorato com’è a idee e concetti sconfessati dalla realtà. Il jihad condotto da Hamas e da Hezbollah col supporto dell’Iran non è la reazione violenta a una disputa territoriale. Gli arabi-palestinesi non combattono una guerra per la terra, bensì una guerra ideologica, «santa», volta a sterminare i circa sette milioni e mezzo di ebrei che vivono nei confini dello Stato d’Israele.
A questi fanatici, Tramballi vorrebbe regalare uno stato, anzi, a suo dire lo vorrebbero tutti: «lo stato palestinese che invocano l’amministrazione Biden, cinesi, russi, europei, Sud globale, arabi buoni e cattivi. Tutto il mondo, tranne Israele». Viene da chiedergli: dove dovrebbe sorgere questo «Stato palestinese»? Sui monti della Giudea così che i cecchini arabi possano mirare più facilmente agli israeliani? Oppure in una Gaza nuovamente retta da un gruppo jihadista?
Israele è un Paese piccolo e stretto, circondato da grandi e instabili Stati arabo-musulmani. Sottrargli altro territorio equivarrebbe a condannarlo a morte. Inoltre, come ha chiarito Yoram Ettinger proprio su queste pagine: «Uno stato palestinese significherebbe una base navale o aera russa al suo interno, e possibilmente una base militare iraniana che sconvolgerebbe drammaticamente il corrente equilibrio dei poteri nel Mediterraneo, già il ventre molle dell’Europa. Comporterebbe anche la devastazione di ciò che resta dei centri cristiani di Giudea e Samaria. Betlemme e Bet Jalla una volta erano centri a maggioranza cristiana fino agli Accordi di Oslo del 1993».
Sono queste, però, considerazioni strategiche e politiche che non interessano a Tramballi, troppo impegnato a sfoggiare i suoi buoni sentimenti e a coccolare il «Sud globale», gli arabi «buoni» e soprattutto quelli «cattivi», che difende con un ardore sospetto. Non si stanca mai, infatti, di ripetere che «Hamas non può essere sconfitto». Nel ’39 avrebbe detto che Hitler non poteva essere sconfitto (e avrebbe avuto ben più ragioni per pensarlo).
Secondo lui, Netanyahu dovrebbe accettare un accordo con Hamas, ossia con macellai imbottiti di Captagon, per far cessare una guerra che, a suo dire, non può essere vinta. In altri termini: vuole preservare il dominio di Hamas nella Striscia, così che in futuro possa esserci un nuovo 7 ottobre.
Tramballi, come direbbe John Bolton, è uno che fa della diplomazia un fine quando è solo un mezzo. Decenni di accomodamenti con Hamas non hanno prodotto nessuna pace, perché adesso dovrebbe essere diverso? Dubitiamo abbia una risposta razionale. I suoi articoli trasudano una pelosa indignazione, ma non forniscono nessuna soluzione concreta. Si limita a evocare idee platoniche e concetti puri: «Pace» e «Democrazia».
Non si capisce mai se sia un collaborazionista del jihad o un ingenuo utopista. Forse, la seconda ipotesi è la più probabile. Il conflitto israelo-palestinese gli permette di sfoggiare la sua «umanità». Leggere Tramballi è il miglior modo per continuare a non capire nulla del Medio Oriente, in compenso aiuta a farsi un’idea delle dimensioni del suo ego.
(L'informale, 7 settembre 2024)
........................................................
Ecco come Hamas vuole prolungare i colloqui per mettere pressione a Israele
Da rabbrividire, un documento rinvenuto dalla Bild rivela la tattica di Hamas per garantirsi la sopravvivenza militare attraverso una forza araba di interposizione, il tutto ignorando completamente la popolazione di Gaza
Un documento di Hamas appena rivelato indica che la principale preoccupazione del gruppo terroristico nei negoziati per il cessate il fuoco con Israele è quella di riabilitare le sue capacità militari, e non di alleviare le sofferenze della popolazione civile di Gaza. Lo ha riferito venerdì il quotidiano tedesco Bild. Il documento della primavera 2024, che Bild ha dichiarato di aver ottenuto in esclusiva, senza offrire ulteriori dettagli, sarebbe stato trovato su un computer a Gaza appartenente al leader di Hamas Yahya Sinwar. Il documento illustra le strategie e gli obiettivi di Hamas nei negoziati con Israele su un potenziale accordo che vedrebbe il rilascio di ostaggi in cambio di un cessate il fuoco e della liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Secondo il rapporto, Hamas è indifferente al fatto che la guerra in corso finisca rapidamente, dando invece priorità al mantenimento delle capacità militari del gruppo terroristico, allo “sfinimento” degli apparati militari e politici di Israele e all’aumento della pressione internazionale su Israele. Sebbene il gruppo terroristico ammetta nel documento che la guerra, giunta al 12° mese, ha diminuito le sue capacità militari, Hamas cerca ancora di “migliorare importanti clausole dell’accordo, anche se i negoziati continueranno per un periodo prolungato”. In particolare, il documento non menziona le vittime civili palestinesi. Il rapporto dice anche che Hamas ha definito una strategia di guerra psicologica attraverso gli ostaggi, chiedendo di “continuare a esercitare una pressione psicologica sulle famiglie degli [ostaggi], sia ora che nella prima fase [del cessate il fuoco], in modo da aumentare la pressione pubblica sul governo nemico”. Questa strategia è stata dimostrata dalla pubblicazione periodica da parte di Hamas di video di ostaggi che implorano il loro rilascio. Nell’ultima settimana, Hamas ha pubblicato tali video con ostaggi i cui corpi sono stati recentemente recuperati a Gaza, pochi giorni dopo la loro esecuzione da parte del gruppo terroristico. Nel documento, Hamas pianifica anche punti di discussione, incolpando “la testardaggine di Israele” di ritardare un accordo. Secondo quanto riferito, il documento elenca anche i principali obiettivi di Hamas in un accordo. Uno è garantire il rilascio di 100 prigionieri palestinesi detenuti da Israele e condannati all’ergastolo, di solito per omicidio. Un altro presunto obiettivo di Hamas è che le forze dei Paesi arabi stazionino lungo il confine tra Israele e Gaza come parte di un cessate il fuoco più permanente, per fare da cuscinetto tra Israele e Hamas, consentendo così a Hamas di recuperare e riorganizzarsi sotto la protezione di queste forze. In particolare, Israele avrebbe anche suggerito che una coalizione di forze arabe amministri l’enclave in futuro. A differenza della proposta di Hamas, il piano israeliano prevede che le forze arabe assicurino che Hamas non riabiliti le sue capacità militari. Va inoltre notato che il documento non menziona il Corridoio di Filadelfia, nonostante la striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sia diventata di recente un punto critico nei negoziati. Questo potrebbe essere attribuito al momento in cui il documento è stato scritto, dato che Israele ha preso il controllo del Corridoio di Filadelfia solo a maggio. Si ritiene che 97 ostaggi rimangano a Gaza, compresi i corpi di almeno 33 morti confermati dall’IDF. Hamas ha rilasciato 105 civili durante una tregua di una settimana alla fine di novembre, e quattro ostaggi sono stati rilasciati prima.
(Rights Reporter, 7 settembre 2024)
........................................................
Sinwar pronto a fuggire con gli ostaggi: il ruolo chiave del corridoio di Filadelfia
di Luca Spizzichino
Secondo fonti dell’intelligence israeliana riportate dal Jewish Chronicle, il leader di Hamas Yahya Sinwar starebbe pianificando di utilizzare il corridoio di Filadelfia per fuggire con i leader rimanenti dell’organizzazione e con gli ostaggi israeliani verso il Sinai, per poi essere trasferiti in Iran. Queste informazioni sono state ottenute dall’interrogatorio di un alto funzionario di Hamas catturato e dall’analisi di documenti sequestrati dopo il recupero dei corpi di sei ostaggi il 29 agosto.
Sinwar sembra ormai consapevole che la guerra è persa per Hamas e che la sua unica via di salvezza è la fuga. Il capo dell’organizzazione terroristica palestinese vede un’unica soluzione per sopravvivere: abbandonare Gaza e cercare rifugio fuori dai confini. In quest’ottica, il controllo del corridoio di Filadelfia diventa cruciale per attuare il suo piano.
Tuttavia, Israele si è fermamente opposta a cedere il corridoio, ritenendo che farlo rappresenterebbe un grave rischio per la sicurezza nazionale. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, durante una conferenza stampa, ha spiegato che il corridoio di Filadelfia è la “linfa vitale” che ha permesso ad Hamas di rafforzarsi negli anni grazie al contrabbando di armi e rifornimenti. Cedere questo passaggio, secondo Netanyahu, significherebbe permettere a Hamas di continuare le proprie operazioni militari, e una volta perso il controllo, Israele non sarebbe in grado di riappropriarsene a causa delle inevitabili pressioni internazionali.
Nonostante il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant abbia proposto di concedere temporaneamente il controllo del corridoio per facilitare il rilascio di 33 ostaggi, Netanyahu rimane categoricamente contrario. Secondo il Primo Ministro, una concessione temporanea rischierebbe di trasformarsi in una perdita definitiva, compromettendo la sicurezza di Israele e rafforzando ulteriormente Hamas.
(Shalom, 6 settembre 2024)
........................................................
Giovani Palestinesi d’Italia esaltano il 7 ottobre
Appello al Ministro dell’interno Matteo Piantedosi
|
|
FOTO
il messaggio pubblicato dalla Associazione dei Giovani Palestinesi d’Italia che si configura come reato di apologia di delitti di terrorismo, punito dall’art. 414 del Codice Penale
|
|
L’Associazione Italia-Israele di Milano denuncia con ferma condanna l’iniziativa di “giovani palestinesi” che il 5 ottobre prossimo a Roma intendono promuovere una manifestazione, che in modo blasfemo esalta come “rivoluzione” l’esecrando genocidio perpetrato da Hamas in Israele al confine con Gaza nel Pogrom del 7 ottobre 2023. Proporre e diffondere l’odio, il genocidio, la violenza e il terrorismo, come strumenti per annientare l’avversario, è contrario alla nostra Carta costituzionale che esalta i valori della pace, della convivenza e del dialogo civile. Inoltre, definire – come i promotori – lo Stato d’Israele (membro dell’ONU) “invasore e Stato coloniale” senza neppure nominarlo, è contrario ai diritti dell’autodeterminazione dei popoli, internazionalmente riconosciuti dalle Nazioni Unite. Desiderosi di un costruttivo confronto nella verità e nella giustizia, anche per la dignità e la difesa dei legittimi diritti palestinesi, facciamo appello, pertanto, al Signor Ministro degli Interni, perché manifestazioni simili alla suddetta del 5 ottobre vengano severamente vietate. Associazione Italia-Israele di Milano Email: itaisraele.milano@gmail.com Milano, 4 settembre 2024
(Bet Magazine Mosaico, 6 settembre 2024)
........................................................
Autobus e linee di trasporto riservate agli ebrei
Il doppio scandalo dell’iniziativa del sindaco di Londra Khan
di Iuri Maria Prado
Nei giorni scorsi il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha comunicato con entusiasmo la sperimentazione di una nuova linea di autobus che collegherà direttamente, per la prima volta, due zone della città densamente abitate da ebrei. Un provvedimento per rendere più spedito lo spostamento da un punto all’altro? Macché. Serve invece a limitare il pericolo che, lungo le tappe del tragitto, i passeggeri ebrei siano esposti ad aggressioni, aumentate a livelli mai registrati prima. Le comunità ebraiche interessate hanno accolto con favore l’iniziativa, e si può capire. Dovrebbe tuttavia far riflettere e suscitare qualche trasalimento il fatto che nel 2024, in una città europea, ci si costringa a organizzare linee di trasporto riservate agli ebrei perché altrimenti c’è caso che li accoppino. Quelli, d’accordo, preferiscono così, e appunto c’è da capirli: perché se devi scegliere tra il ghetto ambulante e le botte o le coltellate, beh, per evitare queste scegli quello e tanti saluti. Ma la società costretta a presidiare sé stessa perché, se lasciata libera si sfogherebbe violentemente su una minoranza, è in buona salute? E gli amministratori costretti a separare quella minoranza dal resto della società che minaccia di aggredirla, preservandone l’incolumità al prezzo di incapsularla in una riserva semovente, possono ritenersi soddisfatti? Non si dice che quel sindaco avrebbe dovuto rinunciare a fare qualsiasi pubblicità dell’iniziativa, questo magari no. Ma farne sfoggio tutto contento, come lui ha creduto di fare, significa non accorgersi del doppio scandalo che una simile vicenda drammaticamente denuncia: lo scandalo di una situazione in cui gli ebrei devono temere per la propria incolumità, e lo scandalo di una società che per proteggerli deve ricorrere a un regime speciale loro dedicato. Se il discorso pubblico europeo non fosse ormai destituito di qualsiasi tempra civile, se non fosse ormai completamente ottuso nella propria capacità di intelligenza delle cose, qualcuno con influenza e voce in capitolo avrebbe identificato e denunciato in quella “piccola” vicenda londinese l’enorme spettro di una trafila speculare. Non è successo. Ma non accorgersi di quanto sia grave dover ricorrere a uno statuto speciale per “proteggere” gli ebrei, sia pur solo relativo a un po’ di fermate di bus, significa non accorgersi che i lombi della società sono maturi per dare fuori materia di segno esattamente opposto. Il ghetto faceva due cose. Disegnava il perimetro di qualche guarentigia. Circoscriveva l’ambito del pogrom.
(Il Riformista, 6 settembre 2024)
........................................................
Il primo computer in Israele
La costruzione del primo computer nello Stato ebraico è iniziata circa 70 anni fa. Il WEIZAC rimase in funzione fino al 1963. Einstein era ancora scettico.
di Jörn Schumacher
|
|
FOTO
Il WEIZAC in funzione
|
|
Nel 1955, il WEIZAC (Weizmann Automatic Calculator) fu il primo computer ad entrare in funzione in Israele. Era anche uno dei primi grandi calcolatori al mondo e il prodotto di alcuni rinomati scienziati ebrei emigrati.
Anche Albert Einstein faceva parte del comitato che doveva decidere sulla realizzazione del progetto. Era scettico, e si chiedeva se avesse senso costruire computer costosi. Il gruppo comprendeva anche John von Neumann, sulla cui idea si basò il primo computer di Israele e, in ultima analisi, del mondo intero. Nato nel 1903, il figlio di un banchiere ebreo di Budapest emigrò negli Stati Uniti nel 1933 ed è tuttora considerato uno dei più grandi matematici del XX secolo.
L'iniziatore del progetto fu il fisico e matematico Chaim L. Pekeris, trasferitosi in Israele dagli Stati Uniti nel 1948. Einstein gli chiese perché il piccolo e povero Paese di Israele avesse bisogno di un computer. Von Neumann rispose: “Non si preoccupi di questo problema. Se nessun altro usa il computer, Pekeris lo userà sempre!”.
Il “Weizmann Automatic Calculator”, in breve WEIZAC, fu costruito presso il Weizmann Institute tra il 1954 e il 1955. Eseguì i primi calcoli nell'ottobre 1955. Il WEIZAC gettò le basi dell'industria informatica e tecnologica israeliana. Per sei anni è stato l'unico computer in funzione in Israele.
Per l'input e l'output si usava il nastro perforato e successivamente il nastro magnetico. Il WEIZAC era costantemente occupato. Gli utenti (soprattutto di altre istituzioni) erano desiderosi di tempo di calcolo e chiedevano che venissero messi a disposizione altri computer.
• Calcolo di maree e atomi
Il WEIZAC fu utilizzato per la ricerca matematica, ad esempio per risolvere problemi legati al calcolo delle maree oceaniche. Ciò richiedeva calcoli complessi che non potevano essere eseguiti manualmente in modo significativo.
I calcoli con WEIZAC richiedevano centinaia di ore. Hanno permesso agli scienziati di creare mappe che riflettevano in modo molto accurato le fluttuazioni delle alte e basse maree in tutto il mondo. Di conseguenza, i ricercatori del Weizmann hanno previsto la posizione esatta di un punto dell'Atlantico meridionale in cui non si verificano mai alte e basse maree. Le misurazioni effettuate nel corso della scoperta hanno confermato l'esistenza e la posizione di questo punto.
In un'altra ricerca, gli scienziati hanno utilizzato WEIZAC per calcolare lo spettro di un atomo di elio - che consiste di tre particelle: il nucleo atomico e i due elettroni che si muovono intorno ad esso. Ancora oggi, risolvere le relazioni dinamiche tra tre corpi è considerato un compito matematico molto complesso. Tuttavia, il problema dell'atomo di elio è stato completamente risolto e ha fornito risultati confermati sperimentalmente dal Brookhaven National Laboratory negli Stati Uniti.
In altri progetti, WEIZAC è stato utilizzato per calcoli volti a studiare diversi modelli teorici della struttura interna della Terra, tenendo conto dei suoi diversi strati. Questi studi si basavano sui calcoli della propagazione delle onde d'urto attraverso i diversi strati; dopo il verificarsi di diversi terremoti in tutto il mondo, sono stati effettuati confronti con le misurazioni reali.
• Il progetto consumava un quinto del budget dell'Istituto Weizmann
Chaim Weizmann nacque nel 1874 nell'attuale Bielorussia e inizialmente era un chimico. Weizmann, che in precedenza aveva insegnato a Manchester, divenne direttore dell'Istituto di ricerca Daniel Sieff, fondato a Rechovot nel 1934. Fu anche attivo politicamente e si impegnò per la creazione di uno Stato ebraico; nel 1949, Weizmann divenne il primo presidente israeliano. Tuttavia, continuò a vivere a Rechovot e a occuparsi dell'istituto di ricerca, che prese il suo nome.
Per la costruzione del primo computer in Israele, Weizmann mise a disposizione 50.000 dollari USA, che rappresentavano un quinto del budget totale dell'Istituto Weizmann. Oggi l'importo corrisponderebbe a un valore di circa 680.000 dollari USA.
L'ingegnere americano Gerald Estrin fu responsabile della costruzione del WEIZAC. Tra gli altri, reclutò Aviezri Fraenkel, un matematico ebreo di Monaco emigrato in Israele nel 1939, per unirsi al suo team. Weizmann stesso non visse abbastanza per vedere il completamento del computer; morì il 9 novembre 1952.
Il WEIZAC rimase in funzione fino al 29 dicembre 1963. Ancora oggi si trova presso l'Istituto Weizmann e può essere visitato. Il suo successore fu inizialmente chiamato “WEIZAC 2”, ma su consiglio dello studioso di cabala Gershom Scholem gli fu dato il nome di “Golem”. Si trattava di un'allusione al Golem di Praga, che secondo una leggenda medievale era una creatura di argilla che prendeva vita.
Il primo computer al mondo è considerato lo “Z3”, costruito nel 1941 dal tedesco Konrad Zuse. Egli costruì il primo computer controllato da un programma durante il tumulto della Seconda Guerra Mondiale, completamente da solo. La sua presentazione nel suo laboratorio di Berlino attirò poca attenzione all'epoca.
(Israelnetz, 6 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Parashà di Shofetim: Cosa succede dove non ci sono giudici
di Donato Grosser
La parashà inizia con queste parole: “Porrai su di te dei giudici (shofetìm) e dei ufficiali (shotrìm) in tutte le città che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; ed essi giudicheranno il popolo con giusti giudizi (Devarìm, 16:18). Rashì (Troyes, 1040- 1104) commenta questo versetto nel modo seguente: “I shofetìm sono i giudici che decidono la legge; i shotrìm sono gli ufficiali che governano il popolo seguendo gli ordini dei giudici…” e quindi usano anche metodi coercitivi affinché le decisioni dei giudici vengano obbedite. R. Yaakov Yosef Hakohen di Polnoye (Ucraina, 1710-1783), che fu il principale discepolo del Ba’al Shem Tov, compose un’opera dal titolo Toledot Ya’akov Yosef che fu pubblicata nel 1780 a Koretz in Ucraina. È un libro molto prezioso perché fu il primo libro di Chassidismo ad andare in stampa. In quest’opera che comprende commenti alla Torà, r. Ya’akov Yosef citò centinaia di volte gli insegnamenti del Ba’al Shem Tov. In questa parashà, r. Ya’akov Yosef si sofferma sulla parola “Porrai su di te”. Egli afferma che questo significa che devi giudicare te stesso nello stesso modo in cui tu giudichi il tuo prossimo. Inoltre r. Ya’akov Yosef aggiunge che da questo versetto si può imparare come resistere alle tentazioni dello yetzer hara’, dell’istinto naturale. L’uomo è come una piccola città e lo yetzer hara’ è paragonato a un Re che la mette d’assedio. L’uomo deve quindi proteggere le sette “porte” della sua città che sono i due occhi, le due orecchie, le due narici e la bocca. La bocca è la “porta” più importante e richiede maggiore protezione. Infatti nei Pirkè Avòt (Massime dei Padri, 1: 16) r. Shim’on ben Gamliel disse: “Ho trascorso la mia vita tra i maestri e non ho riscontrato nulla di meglio per l’uomo che il silenzio, e non è la sola teoria quel che conta, ma la teoria vissuta e praticata, e chiunque si prolunga in discorsi inutili porta il peccato”. Così pure nel vedere e nel sentire, afferma r. Ya’akov Yosef, bisogna saper avere giudizio su cosa guardare e su cosa sentire. R. Avraham Kroll (Lodz, 1912-1983, Gerusalemme) in Bepikudekha Asicha (p.372) cita i Proverbi di Salomone (6:6-8) dove è scritto: “Và, pigro, alla formica; considera come si comporta, e diventa savio! Essa non ha né capo, né ufficiale, né governante; prepara il suo cibo nell’estate, e raduna il suo mangiare durante la raccolta”. Nel Midràsh (Devarìm Rabbà, 5:2) i maestri si soffermano sull’espressione “considera come si comporta e diventa savio”. Viene citato r. Shim’on figlio di Chalaftà il quale racconta che una volta una formica aveva fatto cadere un chicco di grano. Le altre formiche si avvicinavano per annusarlo e nessuna glielo portava via. Per questo nel Talmud (‘Eruvìn, 100b) è detto che se non ci fosse stata data la Torà avremmo potuto imparare le leggi del furto dalla formica. Nel versetto succitato dei Proverbi è anche scritto che la formica “non ha né capo, né ufficiale, né governante”. Rashì spiega: “Che non la ammonisca e le faccia restituire quello che ha rubato dalla sua compagna”. Questa affermazione è problematica perché appare contraddire quello che disse r. Shim’on ben Chalaftà che le formiche non portarono via il chicco di grano caduto da una loro compagna. Ma nello stesso midràsh viene citato Shim’on figlio di Yochay che dice che nel nascondiglio di una formica trovarono una quantità enorme di grano. E se le formiche stanno attente a non rubare da dove veniva questa enorme quantità di grano? Rav Kroll conclude che è per questo che re Salomone sottolinea che se non c’è un capo, un ufficiale e un governante, si può stare attenti a non toccare un chicco di grano che non ti appartiene e d’altra parte rubare in grande scala.
(Shalom, 6 settembre 2024)
____________________
Parashà della settimana: Shoftim (Giudici)
........................................................
Un rapporto svela la strategia di Hamas per nascondere le perdite di combattenti a Gaza
In un rapporto citato dal quotidiano Haaretz e riportato dal Times of Israel, una fonte ha spiegato che per Hamas la guerra con Israele non si limita al campo di battaglia, ma include anche la battaglia per preservare la propria immagine globale. Nascondendo le informazioni sui combattenti uccisi e concentrandosi solo sulle perdite civili, Hamas spera di ottenere maggiore sostegno internazionale nella sua lotta contro Israele. Tuttavia, a Gaza, la segretezza con cui Hamas gestisce le proprie operazioni contrasta nettamente con la trasparenza che lo stesso gruppo mostra in Cisgiordania. In quest’ultima area, non esita infatti a rivelare i nomi dei combattenti uccisi dall’esercito israeliano e li svela pure con orgoglio. Hezbollah, in Libano, segue una prassi simile: mantiene un elenco aggiornato delle sue vittime negli scontri con Israele. Questo approccio solleva interrogativi: perché questa segretezza a Gaza per nascondere le perdite dei suoi soldati? Si tratta di una strategia per preservare la loro forza morale o c’è qualcosa di più? Un altro aspetto è legato al timore delle ritorsioni. A Gaza, chi perde un familiare affiliato a Hamas può avere paura a parlarne apertamente, temendo ripercussioni. Citando residenti anonimi della Striscia di Gaza, il rapporto – che giunge nel bel mezzo della guerra – afferma che la norma non ufficiale viene applicata a tal punto che perfino i familiari degli agenti di Hamas uccisi si astengono dal lutto pubblico. «C’è paura di parlare pubblicamente degli agenti di Hamas, compresi quelli che sono stati uccisi», ha detto un residente di Gaza ad Haaretz, spiegando che c’era paura di essere etichettati come «traditori» o «collaboratori» e di essere molestati dal gruppo terroristico. Secondo le voci che circolano per le strade, se i nomi degli uomini armati uccisi venissero resi pubblici, le persone in tutto il mondo potrebbero sentirsi meno colpite dalle sofferenze dei gazawi, e questo potrebbe giustificare il bombardamento di Gaza, ha detto un altro residente, conosciuto con lo pseudonimo di Adnan. «Finché si mostrano filmati e storie della popolazione civile, nessuno protesta. Ma se qualcuno osa criticare Hamas o nominare un combattente ucciso, verrà considerato un traditore e trattato come tale». Bushra (nome di fantasia), una donna che vive in questa realtà difficile, racconta qualcosa di sorprendente: spesso i familiari non sanno nemmeno cosa fanno i loro cari quando entrano in Hamas. Quando poi muoiono in combattimento, la notizia arriva in modo frammentato, come un eco lontano. A volte ci vogliono giorni, settimane addirittura, prima che i genitori ne siano informati. La notizia della loro morte viene trasmessa solo per passaparola diffondendosi da una persona all’altra fino a raggiungere i loro cari. Nonostante tutto questo silenzio soffocante, la gente di Gaza ha imparato a trovare informazioni in modi diversi. Non si può sempre contare sulle vie ufficiali, perciò molti si affidano ai social. Questi strumenti digitali sono diventati essenziali per cercare di capire chi è stato ucciso. È una rete sotterranea di notizie che non sarà perfetta, ma, senza altro, è quello che c’è. Nel frattempo, il Ministero della Salute di Gaza, che è sotto il controllo di Hamas, ha diffuso cifre impressionanti: oltre 40.000 persone sarebbero state uccise o risultano disperse dall’inizio del conflitto. Ma quei numeri, dicono gli esperti, non possono essere verificati in modo indipendente, e c’è anche da dire che non fanno distinzione tra chi fosse un civile e chi un combattente. Israele, dal canto suo, ha dichiarato di aver eliminato circa 17.000 combattenti di Hamas e 1.000 terroristi nel famoso attacco del 7 ottobre. Le autorità israeliane continuano a sottolineare che fanno il possibile per limitare i danni ai civili, puntando il dito contro Hamas, accusandoli di usare la popolazione come scudi umani, nascondendosi tra case, scuole, ospedali e, addirittura, moschee. Un dato interessante viene da una recente analisi dell’Associated Press: da giugno, la percentuale di donne e bambini uccisi è scesa sensibilmente. Come mai? Pare sia dovuto a un cambiamento nelle tattiche di Israele, cosa che va a contraddire quanto detto da Hamas. A ottobre, oltre il 60% delle vittime erano donne e bambini. Ma già ad aprile, quel numero era sceso sotto il 40%. Eppure, questa riduzione non ha attirato grande attenzione, né dalle Nazioni Unite né dai media. Hamas, da parte sua, non sembra aver mostrato interesse a correggere questi dati in pubblico. Ci si rende conto, insomma, che questa guerra non è fatta solo di proiettili e bombe, ma anche di informazioni. Ogni parte cerca di modellare la propria narrativa per guadagnare terreno, mentre la popolazione civile resta, come sempre, intrappolata in mezzo. E, alla fine, che cosa sono? Numeri. Freddi numeri. Questa mancanza di trasparenza da parte di Hamas non sembra solo una strategia di guerra. È anche un modo per mantenere un certo controllo sulla narrativa interna. Tuttavia, in tutto questo gioco di potere, fatto di silenzi e mezze verità, trovare la realtà diventa sempre più complicato. Alla fine, come sempre, sono i civili a pagarne il prezzo più alto. Bloccati in una guerra di cui spesso non comprendono né le cause né l’orizzonte.
(Bet Magazine Mosaico, 5 settembre 2024)
........................................................
Ostaggi – Il Global Imams Council condanna la violenza di Hamas
«Prendere di mira e brutalizzare i civili, soprattutto quelli indifesi e trattenuti contro la loro volontà, è un atto di malvagità assoluta e una grave violazione delle leggi stabilite da tutte le principali tradizioni religiose, Islam incluso».
È una ferma condanna quella espressa dal Global Imams Council dopo l’assassinio a sangue freddo dei sei ostaggi israeliani da parte di Hamas. Fondata dopo l’invasione irachena e siriana dell’Isis e non nuova a prese di posizione contro l’odio, l’ong islamica raggruppa oltre 1400 leader religiosi musulmani in tutto il mondo, sciiti e sunniti, con l’obiettivo di contrastare e disinnescare il radicalismo interno a quel mondo. Una piccola ma significativa goccia nel mare di tanta violenta intolleranza, anche perché il documento è stato emesso nel corso di un seminario in Iraq, paese che ha più volte guardato verso Israele (anche in questi mesi) con propositi distruttivi.
«Riteniamo Hamas direttamente responsabile della morte e della sofferenza di tutte le vite innocenti perse dal 7 ottobre, poiché le sue azioni non solo hanno portato morte e distruzione nella regione, ma hanno anche causato immense sofferenze al popolo palestinese», precisano gli imam aderenti alla ong, definendo le tattiche di Hamas «sconsiderate e disumane» per l’utilizzo di scudi umani, per aver intensificato il ciclo delle violenze e più in generale per aver indebolito la causa della giustizia e della pace. Il Consiglio Globale degli Imam si scaglia anche contro il regime iraniano, che a suo dire «condivide la stessa responsabilità per queste tragedie, per via del continuo sostegno e appoggio alle azioni di Hamas». Chissà cosa penserà di questa nota Ahmad al-Tayyib, Grande Imam dal 2010 di Al-Azhar, la massima espressione dell’Islam sunnita, che aveva definito il 7 ottobre un’azione di «resistenza dell’orgoglioso popolo palestinese».
(moked, 5 settembre 2024)
........................................................
"Quando a Forlì si attuò la soluzione finale da parte delle SS eliminando ebrei e antifascisti"
Ricorre l'ottantesimo anniversario del primo eccidio di settembre in via Seganti
|
|
FOTO
Il monumento che ricorda le vittime dell'eccidio
|
|
Sono trascorsi ottant'anni da primo eccidio di settembre in via Seganti. Ricostruisce lo storico Gabriele Zelli: "Nel tardo pomeriggio del 5 settembre 1944, il gruppo di nazisti delle SS che si era insediato a Forlì provenienti da Roma, avendo lasciato la capitale in seguito all'arrivo dell'esercito alleato, e fascisti italiani della Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) prelevarono dal carcere di via della Rocca ventuno persone. L’Aussenkommando della Sicherheitsdienst (Sd) di Forlì deteneva i prigionieri sia negli scantinati trasformati in prigione della propria sede in viale Salinatore 24, con una capacità di circa cinquanta posti (per i quali non sono sopravvissuti registri o documenti), sia nel carcere civile di via della Rocca, dove aveva un ufficio con due uomini addetti agli interrogatori dei prigionieri politici (per il quale esistono i registri di ingresso e uscita)".
"Nove dei ventuno prelevati erano parenti di Tonino Spazzoli e furono tutti deportati nei campi di concentramento - prosegue Zelli nel racconto -. Gli altri dodici prigionieri, dieci ebrei e due antifascisti, vennero portati alla caserma “Caterina Sforza” in via Romanello, un luogo di "visita medica" per coloro che dovevano essere deportati in Germania. Da viale Salinatore, altri otto prigionieri - quattro donne e quattro uomini - furono trasferiti sempre in via Romanello. Questi movimenti facevano parte di una decisione presa dai comandanti tedeschi Karl Schütz e Hans Gassner nel tentativo di mantenere segrete le eliminazioni e giustificare le sparizioni con la deportazione in Germania. In tarda serata, le venti persone furono caricate su diversi automezzi e portate verso l’aeroporto. All’altezza delle “casermette” del Ronco, occupate dalle truppe tedesche che le avevano ribattezzate Caserma “Adolf Hitler”, alcuni automezzi svoltarono, mentre gli altri proseguirono verso l’aeroporto, dove li attendevano gli esecutori. Le uccisioni non ebbero testimoni diretti".
|
|
FOTO
Il primo monumento in granaglia a ricordo delle vittime della strage dell'aeroporto e collocato nel 1946 in via Seganti
|
|
"Alle cinque del mattino successivo, 6 settembre, gli altri prigionieri furono prelevati dalle casermette, condotti all’aeroporto e eliminati - prosegue il drammatico racconto -. Le venti vittime furono uccise in tre gruppi: uno composto da dieci persone e due da cinque. Non sappiamo quanti furono uccisi la sera e quanti al mattino. Tra le vittime si trovavano, tra gli altri, Edoardo Cecere, colonnello dell’XI Brigata Casale, uno dei primi a salire in montagna per combattere i tedeschi; Pellegrina Rosselli del Turco, moglie del marchese Gian Raniero Paulucci De Calboli; Pietro Alfezzi, partigiano appartenente ai GAP; Chino Bellaganba, dipendente del Comune di Cesena e dirigente dell’Ufficio Leva, accusato di aver alterato documenti per sottrarre giovani alla deportazione in Germania e forse anche per favorire ebrei. Solo nel 2005 la famiglia di Bellaganba scoprì che era stato fucilato a Forlì, analogamente a quanto accadde per Lissi Lewin, che nel 2000 scoprì che il fratello Lewin fu eliminato nello stesso contesto e luogo".
(ForlìToday, 5 settembre 2024)
........................................................
L’Idf rivela: gli ostaggi uccisi sono stati trovati in un tunnel sotto un’area per bambini
di Michelle Zarfati
L’IDF ha recentemente rivelato di aver ritrovato l’entrata del tunnel, in cui gli ostaggi Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Carmel Gat, Almog Sarusi, Alexander Lobanov e Ori Danino sono stati uccisi, sotto un’area civile, in un cortile per bambini.
In un video pubblicato dall’esercito, un soldato ha spiegato che l’IDF ha ricevuto informazioni chiare sulla posizione dell’entrata del tunnel, un elemento importante per determinare la posizione esatta in cui operare. “Come potete vedere, il tunnel era nascosto nel cortile di un luogo utilizzato dai bambini, un luogo dove i ragazzi dovrebbero essere al sicuro e non essere usati come scudi umani per Hamas”, ha spiegato il soldato nel video. La 162ª Divisione dell’IDF e lo Shin Bet hanno localizzato il tunnel in un cortile utilizzato per far giocare i bambini, in un’area ad uso civile piena però di trappole.
“Questo è un altro esempio dell’uso cinico da parte di Hamas dello spazio civile per attività terroristiche” ha aggiunto l’IDF che ha recuperato i corpi degli ostaggi da un tunnel sotto la città di Rafah, a Gaza. I corpi sono stati trovati a solo un chilometro da dove Kaid Farhan al-Alkadi, 52 anni, di Rahat, è stato trovato vivo la scorsa settimana. Da quando Alkadi è stato salvato, l’IDF ha dato istruzioni di prestare la massima attenzione nella zona. Tuttavia, è possibile che Hamas abbia ucciso le sei vittime, sapendo che l’esercito era vicino e che gli ostaggi potevano essere salvati vivi dall’esercito israeliano.
(Shalom, 5 settembre 2024)
........................................................
Scoperto a Gerusalemme un Sigillo di Pietra di 2.700 anni fa
L’oggetto, inciso con scritta specchio, serviva al suo proprietario sia come amuleto che per firmare legalmente documenti e certificati
Un sigillo in pietra estremamente raro e insolito del periodo del Primo Tempio, di circa 2.700 anni, recante un nome inciso in scrittura paleo-ebraica e una figura alata, è stato scoperto nei pressi della parete meridionale del Temple Mount, nel Giardino Archeologico di Davidson, durante gli scavi condotti dalle Antichità Israel Autorità e organizzazione Città di David. Secondo il Dr. Yuval Baruch e Navot Rom, direttori degli scavi per conto dell’Autorità Israel Antichities:
Il sigillo, realizzato in pietra nera, è uno dei più belli mai scoperti negli scavi nell’antica Gerusalemme, ed è eseguito al più alto livello artistico.
L’oggetto, inciso con scritta specchio, serviva al suo proprietario sia come amuleto che per firmare legalmente documenti e certificati. Ha un taglio convesso su entrambi i lati, e un foro perforato attraverso la sua lunghezza, in modo che possa essere attaccato ad una catena ed essere indossato al collo. Al centro una figura è raffigurata di profilo, possibilmente un re, con le ali; indossa una lunga camicia a righe e va verso destra. La figura ha una criniera di lunghi riccioli che copre la nuca del collo, e sulla testa c’è un cappello o una corona. La figura alza un braccio in avanti, con un palmo aperto; forse per suggerire qualche oggetto che tiene. Su entrambi i lati della figura è incisa un’iscrizione in paleo-ebraico:
Secondo l’archeologo e assiriologo Dr. Filip Vukosavovi, della Israel Antiquity Authority, che ha studiato il sigillo:
Si tratta di una scoperta estremamente rara e insolita. È la prima volta che un ‘genio’ alato – una figura magica protettiva – viene trovato nell’archeologia israeliana e regionale. Le figure dei demoni alati sono note nell’arte neo-assira del IX – VII secolo a.C., ed erano considerate una sorta di demoni protettivi.
I ricercatori ritengono che l’oggetto, sul quale originariamente apparve l’immagine del demone, fosse indossato come amuleto al collo di un uomo di nome Hosh ʼayahu, che ricopriva una posizione di alto livello nell’amministrazione del Regno di Giuda. In virtù della sua autorità e del suo status, questo Hosh ʼayahu si è permesso di nobilitare se stesso e ostentare un sigillo con incisa su una figura che ispira lo stupefacente, che incarna un simbolo di autorità. Il Dr. Vukosavovi afferma:
Sembra che l’oggetto sia stato realizzato da un artigiano locale che ha prodotto l’amuleto su richiesta del proprietario. È stato preparato ad altissimo livello artistico.
L’ipotesi è che, dopo la morte di Hosh ‘ayahu, suo figlio Yeho ‘ezer abbia ereditato il sigillo, aggiungendo il suo nome e il nome di suo padre su entrambi i lati. Questo lo fece, forse, per appropriarsi direttamente a sé stesso delle qualità benefiche che credeva che il talismano incarnasse come oggetto magico. Il nome Yeho ‘ezer ci è familiare dalla Bibbia (Chron. I 12:7) nella sua forma abbreviata – Yo ‘ezer, uno dei combattenti di re Davide. Inoltre, nel libro di Geremia (43:2), che descrive gli eventi di questo stesso periodo, viene menzionata una persona con un nome parallelo, ‘Azariah ben Hosh ‘aya. Le due parti del suo nome sono scritte in ordine inverso al nome del proprietario del sigillo, e il suo secondo nome è lo stesso, compare nella sua forma abbreviata. Questa scritta nel testo corrisponde al nome del sigillo appena scoperto ed è quindi appropriata per questo periodo. Secondo il Prof. Ronny Reich dell’Università di Haifa:
Confrontando la forma delle lettere e la scrittura con quelle di altri sigilli e bulle di Gerusalemme si evidenza che, a differenza dell’attenta incisione del demone, l’iscrizione dei nomi sul sigillo è stata fatto in maniera approssimativa. Non è impossibile che forse è stato Yeho ‘ezer stesso a incidere i nomi sull’oggetto.
Il Dr. Yuval Baruch, Direttore degli scavi e Vicedirettore presso l’Israel Antiquites Authority, afferma:
Questa è un’ulteriore prova delle capacità di lettura e scrittura che esistevano in questo periodo. Contrariamente a quanto si può pensare comunemente, sembra che l’alfabetizzazione in questo periodo non fosse solo riservata all’élite della società. La gente sapeva leggere e scrivere – almeno a livello base – per le esigenze del commercio. Conosciamo molti sigilli in scrittura paleo-ebraica, provenienti dai dintorni della Città di Davide e del periodo del Regno di Giuda. La figura di un uomo alato in uno stile neo-assiro è unica e molto rara negli stili glifici del tardo primo Tempio. L’influenza dell’Impero Assiro, che aveva conquistato l’intera regione, è chiaramente evidente qui. Giuda in generale, e Gerusalemme in particolare all’epoca, era soggetta all’egemonia dell’Impero assiro e ne fu influenzato – realtà questa che si riflette anche negli aspetti culturali e artistici. Il fatto che il proprietario del sigillo abbia scelto un demone come insegne del suo sigillo personale può attestare la sua sensazione di appartenere al contesto culturale più ampio, proprio come le persone oggi in Israele, che si vedono parte della cultura occidentale. Tuttavia, all’interno di quel sentimento, questo Yeho ʼezer ha tenuto saldamente la sua identità locale, e quindi il suo nome è scritto in ebraico e il suo nome è un nome ebraico che appartiene alla cultura di Giuda. Negli ultimi anni, le testimonianze archeologiche sono in aumento, specialmente negli scavi della Città di David e alla base del Monte del Tempio, testimoniano l’entità dell’influenza della cultura assira soprattutto a Gerusalemme.
Il Ministro israeliano del patrimonio artistico rabbi Amichai Eliyahu ha accolto con favore la scoperta:
La spettacolare e unica scoperta negli scavi dell’Autorità per le Antichità Israeliane e della città di David ci apre un’altra finestra sui giorni del Regno di Giuda durante il periodo del Primo Tempio, e attesta i legami internazionali di quell’amministrazione. Così facendo, dimostra l’importanza e la centralità di Gerusalemme già 2.700 anni fa. È impossibile non lasciarsi commuovere da un incontro così poco mediato e diretto con un capitolo del nostro passato.
(ExPartibus, 5 settembre 2024)
........................................................
Conversione secolarizzata
di Antonio Cardellicchio
Un antisemitismo che è aumentato del 400 per cento, con ossessiva violenza. Un aumento vertiginoso, dopo la Shoah e il 7 ottobre, indicatore di un mondo molto storto e cieco. La vittoria politica e mediatica di Hamas e Hezbollah, dei loro padroni e soci, con questa stortura e cecità del mondo, che segue e adotta la voce dei genocidi sadici, stupratori, tagliagole, nuovo Isis, e anche peggio.
La polarizzazione-lacerazione del popolo di Israele, vista da lontano è, in un certo senso, un effetto dell’assedio antisemita e della pressione pesante e costante della cosiddetta comunità internazionale ribaltata contro l’indipendenza ebraica e consociata con il terrore israelofobico. E anche delle difficoltà a fronteggiarlo. Vista da vicino, costituisce l’esplosione di una situazione incandescente, insostenibile di un Paese assediato da sette lati, da una morsa sterminazionista, davanti a scelte di per sé difficili, dilemmatiche, irte di inevitabili contraddizioni.
Da un lato Israele, in guerra di difesa da mostri implacabili, isolato dall’ondata antisemita senza vergogna e limiti, ricattato dalla lacerante necessità della liberazione degli ostaggi – assassinati e seviziati con orribile, inenarrabile ferocia – si mostra un’ultra democrazia dove ognuno esprime la sua, perfino i vertici militari dissentono, sono rese pubbliche le riunioni del gabinetto di guerra, libere manifestazioni di piazza, sciopero politico illegale, accanito e puntiglioso dibattito permanente.
Perfino alcuni dei dichiarati nemici di Israele si confessano colpiti da tanta visibilità iper-democratica. Una realtà in netto spartiacque con l’oscurità totalitaria dei nemici genocidi e dei regimi loro alleati e sponsor. Ma è una vitalità che rischia fortemente di convertirsi in mortalità.
La luminosa definizione del grande rabbino pensatore Lord Jonathan Sacks sull’ebraismo, grande “modello autocritico”, rischia di trasformarsi in un modello autodistruttivo.
Una opposizione isterica accusa il governo di essere “per la morte”, la maggioranza accusa l’opposizione di essere allineata e complice di Hamas sulla controversia per la liberazione degli ostaggi. Le minoranze di sinistra non accettano le scelte della maggioranza legittima degli Ebrei di Israele per la guerra di difesa dalla pianificazione sterminazionista di un nemico totalitario, genocida, sadico, apocalittico. Contrastano l’esigenza prioritaria di un’unità nazionale antiterrorista, strumentalizzano a fini di parte politica la comprensibile, umanissima rabbia delle famiglie degli ostaggi nelle mani dei mostri torturatori-assassini.
Ma il popolo e il governo di Eretz Israel, nella piena realizzazione della cultura e dell’etica ebraica del primato della vita contro la mistica fascista della morte di Hamas, hanno il diritto-dovere di salvare la vita e la libertà di tutte le famiglie e le persone, ebrei e minoranze.
Mentre il primo ministro Netanyahu si destreggia con una certa abilità tra la priorità della difesa, con la sconfitta dei nazisti del 7 ottobre, e la necessità di liberare gli ostaggi, una parte dell’opposizione lo demonizza in termini analoghi a quelli ostentati dalla costellazione Hamas, Hezbollah, Iran e Putin. Si tratta di una grave, inammissibile forma di allineamento a chi vuole eliminare Israele. Netanyahu non viene criticato per il 7 ottobre indifeso, o per l’illusione di addomesticare Hamas con finanziamenti e permessi di soggiorno; ma mostrificato per la fermezza su ragioni elementari di difesa di Israele.
Gli oppositori non vogliono la capitolazione di Hamas, ma di fatto agiscono per la capitolazione ad Hamas, con effetti letali.
Una strategia di cedimenti e complicità con la guerra psicologica programmata da Yahya Sinwar. Un “pizzino” a lui attribuito stabilisce in modo esplicito: massacro degli ostaggi prima della liberazione da parte di Tsahal, scaricare la colpa su Netanyahu, fare degli ostaggi una rendita criminale incentivata dalla piattaforma politica degli organizzatori delle manifestazioni; preparare nuovi 7 ottobre.
Sinwar, prigioniero di Israele per crimini efferati, liberato nello scambio di un’enorme massa di terroristi con il soldato Gilad Shalit, curato con la massima cura in un ospedale israeliano, conosce bene la realtà, la lingua, l’opinione pubblica israeliana, e la sfrutta per alimentare divisioni laceranti.
Da qui il suo ordine ai mostri infernali, di catturare quanti più ostaggi possibili. Per questo, cedere sugli ostaggi significa incentivare nuovi ostaggi di nuovi 7 ottobre.
La società israeliana condanna i gruppi estremisti minoritari che compiono azioni di violenza simmetrica su comunità e persone arabe palestinesi in Giudea e Samaria, dovrebbero condannare altrettanto la propaganda simmetrica ad Hamas, contro la volontà di difesa della maggioranza del popolo di Israele.
L’isteria e la virulenza antisemita di massa di questo ultimo anno punta a dividere gli ebrei in Israele, e le comunità ebraiche della diaspora da Israele.
Come per millenni l’antigiudaismo cristiano voleva la conversione dei “perfidi Giudei”, oggi si vuole una conversione secolarizzata, cioè la rottura degli ebrei da Israele come una nuova forma di battesimo forzato. Oppure l’uniformazione a un’idea astratta e omogenea di “umanità”, con la rinuncia alla propria diversità-particolarità ebraica.
Da qui, la valanga di stereotipi antiebraici riverniciati, da una storia millenaria di discriminazione, persecuzione, eliminazionismo fisico.
L’attuale antiebraismo israelofobico è un concentrato di filisteismo, tartufismo, bigottismo, laico e religioso. Il più diffuso e ottuso conformismo di massa, una mistura di cecità ideologica e analfabetismo trionfante. La parola “filisteo” viene dall’ebraico ‘Pelishtin’, a designare gli appartenenti ai filistei, antica popolazione immigrata sulla costa di Israele, tradizionale avversaria del popolo ebraico.
L’ebreo tra gli Stati è l’oggetto di un attacco concentrico. Il bombardamento mediatico contro Israele che affianca quello fisico, non è solo un potente tossico antiebraico di falsificazione e mostrificazione, ma è un delitto di conoscenza, che corrode e annulla il tessuto democratico di quei paesi che ancora in qualche modo lo mantengono.
Il potere illimitato dei media limita ulteriormente i poteri limitati delle democrazie liberali in un punto nevralgico. La deliberazione democratica di fonda sulla conoscenza, secondo il noto principio chiave “Conoscere per deliberare” (l’insistenza di Luigi Einaudi e Marco Pannella). Quando i media seguono la voce di Hamas, Hezbollah e soci e diventano una mezza Al Jazeera, non solo compiono un’aggressione quotidiana antiebraica ma ribaltano una conoscenza fondata sulle fonti e gli eventi reali. Dunque, la degenerazione della democrazia, in un mare di demagogia populista, di isteria vendicativa. Il sistema informativo normalizza Hamas, e per questo si pone su un terreno anti-democratico. La demagogia sostituisce la democrazia, non si limita a corromperla.
La quotidiana dose mediatica di oppio antiebraico è la forma attuale della persecuzione. L’antiebraismo si rivela la punta d’assalto di un pensiero unico massificato contro il pensiero libero, plurale e creativo.
Il terzo totalitarismo, quello islamista califfale terrorista, oltrepassa l’eredità, che pure contiene, del nazifascismo tedesco e del comunismo, raggiunge livelli senza precedenti di azione genocida, a livelli sadici e apocalittici. Anche la sola “equidistanza” tra Hamas e Israele è incivile, è una forma di collaborazionismo con il nuovo nazismo. E i Quisling dell’islam sono tanti.
La barbarie antisemita in atto è doppia: antisemitismo ancestrale, stratificato, ora carsico ora emergente, nel senso dell’”inconscio collettivo” (Jung) e la barbarie digitale virale (B. H. Lèvy) con l’idiozia dell’istante. Un totalitarismo mediatico per l’uomo-massa con l’esclusione sistematica di conoscenza e pensiero. Un meccanismo implacabile per disumanizzare l’ebreo e umanizzare il terrorista disumano.
Siamo al caso limite di osservare una relativa giustificazione della Shoah: se gli Ebrei sono tanto cattivi e duri, se sono percepiti come nazificati, vorrà dire che il nazionalsocialismo hitleriano qualche ragione doveva pure averla. Qualche intellettuale di sinistra proclama risentito che la Shoah l’hanno fatta i suoi nemici, i nazifascisti; ma ora, davanti al 7 ottobre del totalitarismo nazi-islamico, con il peggioramento di una ferocia esibita, lui sta dalla parte di costoro o, nel migliore dei casi, si pone come equidistante.
Per gli ebrei, un’assimilazione coatta sembra essere l’unico modo per sfuggire alla condanna a morte. Ma neppure questo è possibile, perché anche gli ebrei assimilati, “pacifisti”, “filo-palestinesi”, vengono ammazzati lo stesso, e certe volte per primi.
(L'informale, 5 settembre 2024)
........................................................
Sciopero nazionale in Israele, la Corte ne decreta la fine
Scintille tra Biden e Netanyahu mentre il paese piange i sei ostaggi.
di Anna Balestrieri
Lunedì 2 settembre, centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade di Israele, esprimendo la loro furia per il fallimento del governo nel concludere un accordo di cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas. La giornata di sciopero ha portato gran parte del paese a fermarsi, in seguito all’appello del sindacato più grande del paese, Histadrut, per bloccare l’intera economia. Le proteste si sono diffuse in città come Gerusalemme, Tel Aviv e Cesarea, dopo che sei ostaggi sono stati uccisi a Gaza e i loro corpi recuperati dai soldati israeliani.
• GLI ADERENTI ALLO SCIOPERO Lo sciopero ha coinvolto diverse categorie di lavoratori e servizi pubblici. Uffici governativi e municipali, inclusi ministeri cruciali come quello dell’Interno e parti dell’ufficio del Primo Ministro, sono stati chiusi. Anche molte aziende private hanno aderito allo sciopero. I voli da e per l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv sono stati sospesi per due ore. Gli ospedali e le strutture sanitarie hanno operato secondo un orario ridotto, simile a quello del fine settimana, e in modalità di emergenza. Nonostante il sostegno di molte istituzioni, alcune categorie non hanno partecipato allo sciopero. Ad esempio, il sindacato degli insegnanti ha scelto di non aderire, sebbene il personale di supporto nelle scuole abbia partecipato. Tuttavia, le principali università israeliane, tra cui l’Università Ebraica di Gerusalemme e l’Università di Tel Aviv, hanno aderito alla protesta.
• “SCIOPERO POLITICO”: LA SENTENZA DELLA CORTE DEL LAVORO La Corte del Lavoro di Tel Aviv ha ordinato la fine dello sciopero dopo otto ore, affermando che era di natura politica e non legata a motivi economici. Lo sciopero è stato il primo di questa portata dal marzo 2023, quando il paese si era fermato a causa delle controverse riforme giudiziarie proposte da Netanyahu.
• LE CRITICHE A NETANYAHU Molti manifestanti hanno preso di mira le residenze del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, accendendo falò e scandendo slogan come “Tu sei il leader – tu sei colpevole!” vicino a una delle sue residenze private a Cesarea. A Tel Aviv, i manifestanti fuori dall’ambasciata americana hanno gridato “Vergogna!” fino a tarda notte. Le critiche a Netanyahu si sono intensificate, con alcune famiglie degli ostaggi che lo hanno accusato di ritardare gli sforzi per un accordo. Più di 100 ostaggi, vivi e morti, sono ancora detenuti a Gaza, la maggior parte catturata durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando oltre 1.200 persone furono uccise e più di 200 prese in ostaggio. Durante una conferenza stampa lunedì sera, Netanyahu ha respinto le critiche, incluse quelle del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, affermando che Hamas deve fare concessioni. Il premier israeliano ha chiesto perdono alle famiglie dei sei ostaggi per non averli riportati a casa vivi, ma ha promesso di vendicarsi e far pagare un “prezzo pesante” a Hamas per le loro morti.
• LA REAZIONE DI HAMAS Hamas ha risposto intensificando le minacce, avvertendo che altri ostaggi torneranno “nelle bare” se Israele tenterà di liberarli militarmente. Il disaccordo su un’area di confine nota come il corridoio di Philadelphi ha ulteriormente complicato i negoziati per un cessate il fuoco. Netanyahu insiste sul controllo di questa striscia di terra lungo il confine di Gaza con l’Egitto per prevenire il contrabbando di armi da parte di Hamas, ma questa posizione è stata duramente criticata, incluso dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, che ha definito la priorità del corridoio un “disgusto morale”.
(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2024)
____________________
Missione compiuta: nel tunnel di Sinwar staranno brindando.
........................................................
Il Regno Unito sospende la vendita di armi a Israele. Netanyahu: “Vergognoso, incoraggia i terroristi”
di Luca Spizzichino
La decisione del governo britannico di sospendere la vendita di alcune componenti per armi destinate a Israele ha suscitato forte indignazione da parte di leader israeliani e organizzazioni ebraiche. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha duramente criticato la mossa, definendola “vergognosa” e avvertendo che essa non farà altro che incoraggiare Hamas, il gruppo terroristico responsabile del massacro di oltre 1200 persone il 7 ottobre, tra cui 14 cittadini britannici.
In una dichiarazione molto dura, l’ufficio del premier israeliano ha affermato che “la decisione vergognosa della Gran Bretagna non cambierà la determinazione di Israele a sconfiggere Hamas, un’organizzazione terroristica genocida che ha brutalmente assassinato 1200 persone il 7 ottobre, inclusi 14 cittadini britannici”. Tracciando un parallelo con la lotta del Regno Unito contro la Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, il governo israeliano ha aggiunto: “Invece di schierarsi con Israele, una democrazia che si difende contro la barbarie, la decisione fuorviante della Gran Bretagna non farà altro che incoraggiare Hamas”.
La decisione del Regno Unito è stata annunciata dal Segretario degli Esteri David Lammy, che ha dichiarato che la sospensione di circa 30 licenze di esportazione di armi, tra cui parti per aerei da caccia, elicotteri e droni, è stata presa dopo una revisione che ha concluso che esiste un rischio reale che queste armi possano essere utilizzate in violazione del diritto umanitario internazionale.
Anche il Rabbino Capo del Commonwealth, Sir Ephraim Mirvis, ha espresso profonda preoccupazione per la decisione del governo britannico, affermando su X che “è incredibile che il governo britannico, alleato strategico di Israele, abbia annunciato una sospensione parziale delle licenze per armi in un momento in cui Israele sta combattendo una guerra per la sua stessa sopravvivenza su sette fronti, forzata il 7 ottobre, e proprio nel momento in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo da crudeli terroristi venivano sepolti dalle loro famiglie”.
Mirvis ha aggiunto che “questo annuncio servirà a incoraggiare i nostri nemici comuni. Non contribuirà alla liberazione dei restanti 101 ostaggi, né contribuirà al futuro pacifico che desideriamo”.
L’annuncio del Regno Unito ha anche sollevato critiche interne, con esponenti del partito conservatore e gruppi pro-Israele che hanno messo in dubbio la saggezza e il tempismo della decisione. Helen Whateley, portavoce del Partito Conservatore, ha insinuato che la decisione potrebbe essere stata influenzata dalla pressione dei membri laburisti, piuttosto che basata su un’analisi strategica corretta.
Tuttavia, il Segretario alla Difesa britannico, John Healey, ha difeso la decisione, sottolineando che il Regno Unito ha il dovere “di dire le verità più difficili” ai suoi “amici più stretti” e ha ribadito l’impegno del Regno Unito a sostenere Israele in caso di un nuovo attacco diretto.
Mentre la sospensione riguarda solo una parte delle 350 licenze di esportazione attive verso Israele, alcuni critici ritengono che il governo britannico non sia andato abbastanza lontano. Amnesty International ha richiesto una sospensione totale delle esportazioni di armi verso Israele, comprese quelle destinate al programma dei jet F-35, preoccupata per l’impatto delle armi britanniche nel conflitto in corso.
Nonostante la parziale sospensione, Netanyahu ha ribadito la determinazione di Israele a vincere questa guerra, dichiarando che “con o senza armi britanniche, Israele vincerà questa guerra e garantirà il nostro futuro comune”.
(Shalom, 4 settembre 2024)
........................................................
Il boicottaggio contro Israele tocca il più grande fondo sovrano norvegese
Il Consiglio per l'Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere diverse aziende (israeliane e non) che producono armi o componenti per armi usate da Israele
Il fondo sovrano norvegese da 1.700 miliardi di dollari denominato Government Pension Fund Global potrebbe essere costretto a cedere azioni di società che violano la nuova e più severa interpretazione degli standard etici per le imprese che aiutano le operazioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania. Il 30 agosto il Consiglio per l’Etica del più grande fondo sovrano del mondo ha inviato una lettera al ministero delle Finanze norvegese che riassume la definizione recentemente ampliata di comportamento aziendale non etico. La lettera non specifica il numero e i nomi delle società che potrebbero essere vendute, ma suggerisce che si tratterebbe di un numero ridotto, se il consiglio della banca centrale, che ha l’ultima parola, dovesse seguire le raccomandazioni del consiglio. Secondo il Consiglio, una società è già stata individuata per essere disinvestita in base alla nuova definizione. “Il Consiglio per l’Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere alcune altre società dal Fondo Pensione Governativo Global, oltre a quelle già escluse”, scrive l’organismo di vigilanza, indicando il nome formale del fondo sovrano norvegese. Il fondo è stato un leader internazionale nel campo degli investimenti ambientali, sociali e di governance (ESG). Possiede l’1,5% delle azioni quotate a livello mondiale di 8.800 società e le sue dimensioni sono influenti. Dall’inizio della guerra a Gaza, in ottobre, l’organo di controllo etico del fondo sta indagando per verificare se un numero maggiore di aziende non rientri nelle linee guida per gli investimenti consentiti. Nella lettera si legge che, con la nuova politica, “ci si aspettava che la portata delle esclusioni aumentasse un po’”. Tra le società che l’organo di controllo potrebbe esaminare vi sono RTX Corp, General Electric e General Dynamics. Secondo le organizzazioni non governative, queste società producono armi utilizzate da Israele a Gaza. Secondo i dati del fondo, al 30 giugno il fondo deteneva investimenti in Israele per un valore di 16 miliardi di corone (1,41 miliardi di dollari) in 77 società, tra cui aziende del settore immobiliare, bancario, energetico e delle telecomunicazioni. Rappresentano lo 0,1% degli investimenti complessivi del fondo.
(Rights Reporter, 4 settembre 2024)
........................................................
Eliminato dall’IDF Muhammad Wadiyya: responsabile dell’invasione del 7 ottobre a Netiv Haasara
di Michelle Zarfati
Eliminato, in un recente attacco aereo israeliano, Ahmed Fawzi Nasser Muhammad Wadiyya, comandante della compagnia Nukhba di Hamas, responsabile di aver guidato l’invasione e il massacro del 7 ottobre di Netiv Haasara, un moshav vicino al confine di Gaza. L’uomo era arrivato a Nevit Haasara con il parapendio e lì aveva supervisionato il massacro di 22 dei 900 residenti della comunità.
Wadiyya, è tra gli otto terroristi di Hamas che sono stati eliminati ieri in un’operazione congiunta dell’IDF e dello Shin Bet, durante la quale i caccia dell’aeronautica hanno attaccato un complesso utilizzato da Hamas vicino all’area dell’ospedale Al-Ahli a Gaza City. L’IDF ha confermato che l’attacco ha mirato ad eliminare alcuni membri del Battaglione Daraj-Tuffah, uno dei quali coinvolto nella fornitura di bombe utilizzate per violare la barriera di sicurezza di Gaza. L’esercito ha confermato di aver adottato misure di sicurezza per ridurre al minimo i danni ai civili durante l’operazione.
Ahmad Wadia, il 7 ottobre aveva fatto irruzione nella casa della famiglia Ta’asa. Mentre gli altri terroristi uccidevano il quarantaseienne Gil Ta’asa davanti ai suoi figli più piccoli, Koren, 12 anni, e Shay, 8 anni, l’uomo aveva preso possesso della casa della vittima e lì era stato ripreso dalle telecamere di sicurezza della famiglia mentre apriva il frigorifero e beveva una Coca-Cola, proprio di fronte ai due bambini feriti e sanguinanti. Un filmato agghiacciante, annoverato ormai tra le immagini più scioccanti del massacro del 7 ottobre.
(Shalom, 3 settembre 2024)
........................................................
Ostaggi e terrorismo psicologico: il piano di Hamas per colpire Israele dall’interno
di Luca Spizzichino
Se Israele continuerà ad attaccare la Striscia di Gaza, gli ostaggi torneranno a casa “dentro le bare“. Questa è la minaccia lanciata da Hamas attraverso una dichiarazione di Abu Obeida, portavoce delle Brigate Ezzedine Al-Qassam. Il gruppo terroristico prosegue la sua guerra psicologica, cercando di dividere l’opinione pubblica, soprattutto in Israele, e attribuendo la responsabilità della morte degli ostaggi al governo di Netanyahu.
Un piano dettagliato è emerso da un pizzino manoscritto ritrovato nei tunnel di Gaza. Secondo quanto riportato da La Repubblica, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno trovato un elenco di punti, mostrato da Channel 12, uno dei canali televisivi israeliani più informati, che sembra essere stato redatto da Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza.
Dal documento emerge l’intenzione di Hamas di intensificare la pressione sulla questione degli ostaggi, con l’obiettivo di destabilizzare l’andamento della guerra. Si evidenzia inoltre come Hamas miri a sfruttare le divisioni sociali all’interno della società israeliana. Per raggiungere questo scopo, il piano prevede la diffusione di immagini e video degli ostaggi israeliani, l’intensificazione della pressione psicologica sul ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e, cosa più importante, “spingere sulla linea narrativa che Netanyahu è responsabile unico di quanto sta succedendo”.
L’ultimo punto del documento fornisce una risposta all’uccisione di Hersh e agli altri cinque ostaggi. L’esecuzione degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre viene presentata come un mezzo per contrastare la narrativa israeliana secondo cui un’intensificazione militare aumenterebbe le probabilità di liberarli. In questo contesto, Hamas ha recentemente impartito nuove istruzioni alle guardie su come gestire gli ostaggi nel caso in cui le truppe israeliane si avvicinassero ai luoghi in cui sono detenuti.
(Shalom, 3 settembre 2024)
........................................................
Netanyahu ha ragione: gli errori della coppia Biden/Harris
Gli ostaggi sono stati uccisi da Hamas a Rafah, cioè dove Biden, Harris, Egitto e Qatar (praticamente tutti i negoziatori) non volevano che Israele andasse.
di Franco Londei
Quello che sta avvenendo intorno all’assassinio dei sei ostaggi da parte di Hamas ha davvero dell’incredibile. A partire da Biden alla Harris passando per migliaia di manifestanti nonché pseudo giornalisti “esperti” sui social, attribuiscono al Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, la colpa di quelle morti. A Netanyahu viene rimproverato di non essersi arreso ad Hamas. Sì, è esattamente quello di cui è accusato il Premier israeliano. Per Biden, Harris e contestatori vari, Israele doveva deporre le armi e permettere ad Hamas di rientrare in pompa magna nella Striscia di Gaza. Così, come se niente fosse. Nessuno dei tanti che contestano Netanyahu ha il coraggio di affermare che su Rafah aveva ragione. Nessuno dirà che se a suo tempo fosse stato permesso a Netanyahu di entrare a Rafah a quest’ora probabilmente il conflitto sarebbe finito. Invece lo hanno bloccato, lo hanno minacciato, gli hanno fermato o rallentato la fornitura di armi per costringerlo a non attaccare quello che palesemente era la base di Hamas. Anzi, se c’è una cosa di cui rimproverare il Premier israeliano, è quella di non aver attaccato sin da subito la roccaforte dei terroristi. Dicevano che non poteva garantire la sicurezza di centinaia di migliaia di civili, invece l’IDF ha spostato un milione di civili in due settimane e ha smantellato la Brigata Rafah di Hamas. I gruppi umanitari dicevano che sarebbe stata una strage, invece non c’è stata nessuna strage. L’IDF ha scoperto decine di tunnel che portavano in Egitto. Già l’Egitto, il “negoziatore imparziale” che come Hamas non vuole la presenza israeliana nel Corridoio Filadelfia, quel corridoio da dove sono passati indisturbati milioni di metri cubi di cemento, migliaia di missili, polvere da sparo, armi di ogni tipo. Il Cairo voleva rivedere il trattato di pace con Israele se l’IDF attaccava Rafah. Forse sarebbe il caso che sia Gerusalemme a rivedere il trattato di pace con l’Egitto visto che è palese la sua connivenza con Hamas. Forse sarebbe il caso che Israele revochi all’Egitto il permesso di entrare con mezzi pesanti nella Penisola del Sinai e che addirittura sia di nuovo Israele a controllare quel territorio, visto che l’Egitto non ci riesce. Come sarebbe il caso che Joe Biden e Kamala Harris chiedano scusa a Netanyahu e ai genitori degli ostaggi per non aver permesso a Israele di fare il suo lavoro quando era il momento e per le frasi del tutto fuori luogo pronunciate ieri, perché è stato Hamas e non Netanyahu a uccidere gli ostaggi e lo ha fatto a Rafah, cioè proprio dove l’Amministrazione americana non voleva che Israele andasse.
(Rights Reporter, 3 settembre 2024)
........................................................
Il nemico è Sinwar, non Netanyahu
di Giovanni Giacalone
Le manifestazioni di piazza e lo sciopero generale che si sono verificate in Israele in risposta alla scoperta, da parte delle IDF, dei corpi di sei ostaggi, assassinati a sangue freddo da Hamas, hanno aiutato l’organizzazione terroristica palestinese a raggiungere i suoi obiettivi di sopravvivenza e di perseveranza nell’uccidere israeliani. Secondo le fonti, Hersh Goldberg-Polin (23), Carmel Gat (39), Eden Yerushalmi (24), Almog Sarusi (26), Alex Lobanov (32) e Ori Danino (25), tutti catturati il 7 ottobre, sono stati colpiti a distanza ravvicinata in uno dei tunnel di Rafah, circa 24-72 ore prima dell’arrivo dell’IDF. Il fatto è avvenuto la scorsa settimana, molto probabilmente dopo che Qaid Farhan al-Alkad è stato recuperato vivo dall’esercito. Ciò che risulta assurdo è che una parte consistente dell’arena politica e degli attivisti israeliani stiano incolpando il Primo Ministro Benjamin Netanyahu per la morte dei sei ostaggi, piuttosto che Hamas. Caroline B. Glick ha presentato il problema in modo estremamente chiaro e approfondito in un articolo per il Jewish News Syndicate, nel quale ha anche affermato:
“All’unisono, Benny Gantz, Yair Lapid, Yair Golan e i loro subordinati si sono uniti ai gruppi di sinistra che hanno usato tumulti di massa, violenza politica e il caos generale dal 2019 nel tentativo di estromettere Netanyahu dal potere e hanno invitato gli israeliani a scendere in piazza in risposta alle esecuzioni degli ostaggi e a fare cadere il governo attraverso la violenza. Il comportamento di gente come Lapid, Gantz, Golan, del 90% degli organi di informazione israeliani e del resto dei rappresentanti della sinistra, solleva la domanda: hanno perso la testa”?
A quanto pare, molti in Israele e all’estero sembrano odiare Netanyahu più di Hamas e del suo leader assassino, Yahya Sinwar. Dopo tutto, abbiamo visto i doppi standard della comunità internazionale, con continue pressioni su Israele per fermare l’offensiva a Gaza invece di spingere Hamas all’angolo e costringerlo a rilasciare gli ostaggi. Netanyahu può piacere o meno e può essere sostenuto o meno, ma qui la questione è molto più grande e riguarda principalmente la sicurezza e la protezione dello Stato di Israele e dei suoi cittadini. In secondo luogo, la guerra di Israele con Hamas ha un impatto più ampio sulla guerra transnazionale all’estremismo e al terrorismo islamista, perché Hamas non è solo un’organizzazione terroristica palestinese, è anche uno strumento iraniano per la destabilizzazione e un’ideologia (che può essere sconfitta, contrariamente a quanto alcuni hanno affermato). “Se Israele cade nelle mani degli islamisti, l’Occidente è il prossimo”. Abbiamo sentito questa affermazione in diverse occasioni da parte della leadership israeliana e non potrei essere più d’accordo. Abbiamo avuto tutti sotto gli occhi le situazioni nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Francia, con gli islamisti in massa nelle strade, nelle università e in alcuni casi con il loro ingresso persino in politica. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che Israele si arrenda quando sta per raggiungere il suo obiettivo di sconfiggere Hamas a Gaza. Dobbiamo affrontare la realtà per quella che è, perché vivere nella fantasia è pericoloso. La possibilità di vedere gli ostaggi tornare a casa a causa di una decisione presa da Hamas è estremamente remota se non impossibile. L’organizzazione terroristica palestinese non ha alcun interesse a rilasciarli perché è l’unica leva che ha per sopravvivere e mantenere il controllo su Gaza. Inoltre, il numero di ostaggi ancora vivi è plausibilmente molto piccolo. Hamas sta facendo un uso eccellente delle emozioni di molti israeliani per raggiungere i suoi obiettivi e, sfortunatamente, queste persone stanno aiutando i terroristi loro malgrado. Ovviamente, non possiamo biasimarle, non possiamo aspettarci che tutti abbiano una mente fredda per affrontare una questione così problematica come il terrorismo. Ma dovremmo aspettarci un po’ più di responsabilità dall’establishment politico in un momento in cui è in gioco la sopravvivenza del paese. Cos’è il terrorismo, dopotutto? L’uso deliberato della violenza perpetrata contro i civili per raggiungere obiettivi politici (Boaz Ganor). Violenza fisica e psicologica. Omicidi, stupri, mutilazioni e poi l’uso di tattiche psicologiche per torturare ulteriormente la mente della popolazione al fine di fargli fare pressione sull’establishment politico. Sinwar vuole sopravvivere e vuole garanzie che non verrà eliminato; Hamas vuole mantenere il controllo su Gaza. Questo risultato equivarrebbe alla sconfitta di Israele. Hamas vuole che l’IDF se ne vada dal corridoio Filadelfia in modo da potere riprendere le forniture di armi e uomini. In effetti, Israele non può permetterlo, poiché centinaia di tunnel tra Gaza e il territorio egiziano sono stati scoperti e distrutti. È incredibile come tutto questo traffico abbia potuto svolgersi sotto gli occhi delle autorità egiziane che, curiosamente, non si sono accorte di nulla. Lasciare che Hamas riprenda il controllo di Gaza e lasciare Sinwar al suo posto causerebbe più morti israeliane, più attacchi come l’eccidio del 7 ottobre (come affermato dai rappresentanti di Hamas) e sarebbe una vittoria anche per il regime iraniano. Dopo tutto, i precedenti negoziati e le concessioni a Hamas hanno portato al 7 ottobre, questo è un dato di fatto. C’è un principio chiamato “ragione di Stato” che in alcuni casi deve essere applicato. Questo è uno di questi. Non si può pensare di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini, la sopravvivenza di una nazione in guerra per l’interesse di pochi. Lo Stato ha il dovere di proteggere tutti, e cedere alla richiesta di Hamas andrebbe nella direzione opposta. Inoltre, come già detto, è ingenuo credere che Hamas rilascerà gli ostaggi rimasti, perché sono plausibilmente pochi e sono l’unica garanzia che ha per la sua sopravvivenza. Sinwar trascinerebbe questa situazione per mesi, anni, mentre allo stesso tempo ricostruirebbe l’organizzazione, riprenderebbe Gaza e continuerebbe a uccidere israeliani. Hamas è un’organizzazione terroristica composta da spietati assassini, va tenuto bene a mente prima di affidarci alla sua parola. L’unico modo per riportare a casa gli ostaggi rimasti è attraverso l’azione militare. Quanto all’Amministrazione Biden, sarebbero felici di andare alle elezioni con il “successo” di un cessate il fuoco per cercare di calmare la rabbia del loro elettorato filo-islamista. Di nuovo, tutto a scapito di Israele. Questo è il momento per tutti di essere uniti contro Hamas, contro il terrorismo islamista. Sarebbe anche un ottimo momento per prendere Sinwar.
(L'informale, 3 settembre 2024 - trad. Niram Ferretti)
____________________
La società occidentale, che nella sua ideologia libertaria sostiene un ordine inevitabilmente destinato a degradare in libertino caos, ha nella sua struttura originale un’intrinseca tendenza all’autodistruzione. Tendenza sostenuta soprattutto dalla parte sinistra della società, quella più “moderna”, più aperta anche a laceranti modifiche “evolutive”, come quelle invocate dall’anglosassone cancel culture. L’ideologia autodistruttiva della società occidentale è penetrata ormai anche in Israele, ed è condivisa soprattutto dalla parte laica di sinistra della società. E' possibile allora che la tendenza autodistruttiva dell’Occidente stia mietendo i suoi frutti più dissolventi proprio nello Stato che per tanti aspetti è in posizione d'avanguardia nel mondo: Israele. Qual è infatti la parte politica dello Stato ebraico che oggi di fatto ne caldeggia l’autodistruzione favorendo gli atti di chi ha dichiarato apertamente di volerlo distruggere? E’ la parte che più di altre sottolinea l’importanza del rapporto privilegiato con quello stato occidentale che più occidentale non ce n’è: gli Stati Uniti. I quali potrebbero pensare che se proprio si va verso l’autodistruzione, è meglio che i primi a farlo siano gli ebrei con il loro Stato. Ci stanno gli ebrei? M.C.
........................................................
UK – Rav Mirvis: Chi taglia armi a Israele rafforza i suoi nemici
Il governo britannico ha annunciato un parziale alle taglio alle esportazioni di armi in Israele perché, così ha presentato la questione il ministro degli Esteri David Lammy, sarebbe stato rilevato un «chiaro rischio che possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale» nel corso delle operazioni militari a Gaza. L’annuncio, accolto con «profonda amarezza» dal governo israeliano, ha suscitato reazioni anche nelle istituzioni ebraiche d’Oltremanica. Tra i più colpiti sembra esserci il rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth, rav Ephraim Mirvis, intervenuto con un preoccupato “cinguettio” su X. Secondo il rav, in carica dal 2013, la decisione del governo Starmer non sarà d’aiuto alla causa della pace e non aiuterà nemmeno gli ostaggi ancora prigionieri di Hamas, incoraggiando al contrario «i nostri comuni nemici». Colpisce il rav che il taglio sia stato comunicato «nel momento in cui Israele combatte una guerra per la sua sopravvivenza su sette fronti impostigli il 7 ottobre e nel momento stesso in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo venivano sepolti dalle loro famiglie». E sgomenta inoltre che venga accreditata dal ministro «la falsità secondo cui Israele stia violando il diritto internazionale umanitario, quando in realtà fa di tutto per rispettarlo».
Nessuno «dovrebbe dimenticare le ragioni per cui Israele è oggi in guerra», ha commentato la Jewish Leadership Council (JLC) sottolineando come il 7 ottobre i terroristi di Hamas abbiano invaso Israele «per uccidere, mutilare, torturare, stuprare e rapire». Ma non è finita lì, viene ricordato, perché negli undici mesi successivi «Israele ha dovuto affrontare nuove minacce ai suoi confini, mentre Hamas continuava a minacciare da Gaza, mentre Hezbollah colpiva dal Libano e gli Houthi cercavano di espandere il conflitto dallo Yemen». Senza dimenticare «l’importante offensiva» lanciata in aprile dall’Iran, in combutta con i suoi alleati regionali. In considerazione di tali eventi, conclude JLC, non è questo il momento «di intraprendere azioni che limitino la capacità di Israele di difendersi». Anche per Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies of British Jews, la decisione dell’esecutivo «rischia di inviare un messaggio pericoloso a Hamas e ad altri nemici del Regno Unito, che possono commettere atrocità spaventose, condannate dal governo britannico, e tuttavia vedere ancora Israele castigato».
(moked, 3 settembre 2024)
........................................................
Il numero dei terroristi di Hamas responsabili del 7 ottobre è il doppio di quanto si era inizialmente stimato
Un’indagine approfondita, a cura delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) della Divisione Gaza, ha portato ad aggiornare il numero dei terroristi, autori del pogrom del 7 ottobre 2023, quando su direttive di Hamas, hanno invaso i confini occupando il sud di Israele. Sarebbero ben 7000 i gazawi complici del massacro, praticamente il doppio di quanto in origine si credeva. I nuovi risultati sono stati diffusi dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Tenente Generale Herzi Halevi. Come riporta il sito Algemeiner, quel terribile giorno nel Negev nordoccidentale si sono infiltrati circa 3800 terroristi dell’unità Nukhba di Hamas, in aggiunta ad altri 2200 terroristi e saccheggiatori, sempre provenienti da Gaza. E ancora, circa 1000 terroristi sono rimasti all’interno della Striscia mentre lanciavano su Israele, solo in quel momento, ben 4300 razzi, aiutando gli altri nella traversata sul territorio israeliano, compiendo uccisioni e stupri di massa, rapimenti e altre inaudibili atrocità. I confini sono stati violati in 119 punti e non 60 come si riteneva in precedenza. In quello che è stato definito il giorno peggiore per gli ebrei dopo la Shoah sono stati assassinati 1200 esseri umani, 251 rapiti a Gaza, di cui 101 ancora in ostaggio, oltre a migliaia di feriti. «L’indagine operativa non è ancora stata conclusa e continua in conformità con la valutazione della situazione e in vista dei vincoli operativi. Una volta conclusa, sarà presentata al pubblico in modo trasparente», ha affermato il portavoce dell’IDF.
(Bet Magazine Mosaico, 3 settembre 2024)
........................................................
Stiamo facendo il gioco di Hamas
di Maurizia De Groot Vos
Sebbene le contestazioni mosse al Primo Ministro Benjamin Netanyahu non siano campate in aria, sebbene il Governo avrebbe potuto senza dubbio fare qualcosa di più per liberare gli ostaggi, quello che sta accadendo in Israele è esattamente quello che voleva Yahya Sinwar quando ha ordinato di giustiziare i sei ostaggi ritrovati morti dall’IDF.
Il capo terrorista dall’inizio della guerra ha indovinato ogni mossa mediatica riuscendo persino a trasformare degli spietati assassini in vittime innocenti. Questo grazie ai tantissimi megafoni anti-israeliani che non hanno perso occasione per diffondere le veline di Hamas e le tante bugie sul conflitto.
Ieri abbiamo avuto centinaia di conferme eclatanti di questo “aiuto al terrorismo” quando la vasta platea anti-israeliana sui social ha usato la tragedia dei sei ostaggi assassinati da Hamas per capovolgere totalmente la verità.
Uno dei casi più eclatanti, quello messo in piedi ad arte da Tiziana Ferrario che è riuscita in un Twitt a sciacallare sui morti per poi riversare tutta la responsabilità su Netanyahu facendo appena un cenno ad Hamas. Non sazia di tanto odio ha persino chiesto la fine delle operazioni in Cisgiordania, chiaramente senza sapere né il perché né gli obiettivi di quella operazione.
Ora, non sto dicendo che sono contenta di questo governo, tutt’altro, non sto dicendo che Benjamin Netanyahu non abbia severe responsabilità sia su quanto successo il 7 ottobre, figlio di una scelta politica suicida, che sullo sviluppo della guerra (tra i tanti errori, perché il corridoio Filadelfia non è stato occupato da subito?), sto però dicendo che quello che stiamo vedendo oggi in Israele è esattamente quello che voleva Hamas.
Comprendo il dolore dei genitori dei ragazzi assassinati come comprendo quello dei parenti di coloro che sono ancora in mano di Hamas, ma questo loro comportamento non può che portare ad un ulteriore irrigidimento delle posizioni di Netanyahu, perché cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere ad Hamas.
Lo sa benissimo Yahya Sinwar che infatti gioca cinicamente sui sentimenti dei parenti dei rapiti e sulle vite dei pochi che ancora saranno in vita, aiutato in questo dai tanti megafoni anti-israeliani sempre pronti ad aiutare la causa dei terroristi.
(Rights Reporter, 2 settembre 2024)
____________________
Che l’azione delle famiglie degli ostaggi sarebbe stata una carta preziosa in mano a Hamas avrebbe dovuto essere subito evidente a tutti coloro che sono dalla parte di Israele, e quindi avrebbe dovuto essere “compresa” quanto si vuole ma fortemente “osteggiata”. Perché non è avvenuto? Per non fare un favore a Netanyahu, questa sarebbe la risposta di molti, se volessero essere sinceri fino in fondo. Dire che “cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere a Hamas” è come dire che Netanyahu aveva ragione e i suoi avversari torto. Ma l’odio implacabile per Netanyahu, dentro e fuori Israele, ha qualcosa di arcano, proprio come l’odio per Israele, con cui in molte menti indissolubilmente si confonde. Da riflettere. M.C.
........................................................
«Noi ebrei traditi dai progressisti»
L'editore: «A sinistra dilaga l'antisemitismo: inseguono i musulmani per qualche voto in più. Dal 7 ottobre mi sento solo perfino a Livorno, dove la mia famiglia arrivò 500 anni fa. La Digos mi consiglia di non andare in giro».
di Carlo Cambi
Livorno è la sola città a non aver mai conosciuto un ghetto ebraico; i sefarditi vennero chiamati da Ferdinando I de' Medici a fertilizzare la nascente città nel 1591 e dettero vita a una loro cucina, una loro cultura e a una loro lingua: il bagitto. Joseph Belforte nel 1805 stampò il primo libro di preghiere in ebraico e poi suo figlio Salomone Belforte dette vita ad una casa editrice che è il faro della cultura ebraica nel mondo. Attività che continua con Guido Guastalla, 82 anni, ma scritti solo sulla carta d'identità, scampato da neonato alla Shoah laureato in filosofia con Nicola Badaloni, amico personale di Giorgio Amendola, con una militanza giovanile nel Pci, grandissimo mercante d'arte ed editore per scelta: essere un pilastro della cultura ebraica.
- Guardandolo da Livorno c'è un rigurgito di antisemitismo? Come si vive da ebreo? «Si vive nell'ansia perché l’antisemitismo è potente e pervasivo. Ho visto che a Roma e a Milano, le ha animate Klaus Davi, ci sono state iniziative per rispondere dopo il 7 ottobre al clima di odio verso di noi; qui a Livorno, è strano a dirsi, siamo soli. È la stessa atmosfera del '38, la comunità nazionale ci dice di stare tranquilli, di stare nascosti. Ci sentiamo traditi dalla sinistra come gli ebrei italiani che erano in larga misura fascisti si sentirono traditi da Mussolini. Una mano ce l'ha data il governo: ha blindato l'ingresso della sinagoga, ha affidato alla Folgore, i paracadutisti del generale Roberto Vannacci, la nostra sicurezza. Il sindaco di Livorno, Luca Salvetti, indipendente eletto dal Pd che non si è mai fatto vedere nella nostra comunità, quando il 12 ottobre abbiamo fatto una manifestazione per il massacro perpetrato da terroristi di Hamas ci ha impedito di esporre la bandiera di Israele».
- Anche nell'unica città senza ghetto essere ebrei e diventato rischioso? «Io sono in là con gli anni e non mi faccio intimidire, ma mia moglie dice di sì, Su un social un ragazzotto pro Pal mi ha apostrofato: ebreo torna a casa. Gli ho replicato: sono già a casa mia. Ci stiamo da 2.200 anni in Italia, ci siamo da prima di Cesare. E poi dove devo andare? Se mi dite che Israele, perché occupa i territori, deve sparire, dov'è la mia casa? Giorni fa in piazza Grande qui a Livorno c'era una manifestazione pro Palestina, sempre con gli slogan “a morte Israele", che significano "morte agli ebrei". Una funzionaria della Digos mi ha ripetuto: Guastalla non stia in piazza, vada a casa, è meglio per lei e per noi. Le ho risposto: le pare che io non possa stare nella mia città, libero dove la mia famiglia è arrivata mezzo millennio fa? Una signora che passava ha aggiunto: gli ebrei hanno fatto Livorno; si devono rintanare quelle m.... che fanno confusione. Dopo il 7 ottobre però i nostri giovani sono andati via, siamo rimasti in 400 tutti in là con l'età».
- È un clima da triangolo giallo? «È ancora più pervasivo. Mi spiego con un episodio. Il professor Samuele Rocca che vive tra Milano e Gerusalemme ha scritto un bellissimo libro sui Cesari e l'ebraismo. Doveva presentarlo all'Università di Pisa dove c'è il Cise, centro studi sull'ebraismo. Ebbene il professor Arturo Marzano - delegato alle attività gender dell'ateneo che ha dedicato un suo libro al proprio compagno: un inviato Onu a Gaza - storico dell'Asia nonché fratello di tanta sorella -, e la dottoressa Carlotta Ferrara degli Uberti che dovrebbe occuparsi di antisemitismo, hanno deciso che il libro di Rocca non doveva essere presentato perché lui insegna all'Università di Ariel che secondo loro sta nei territori occupati. In realtà Ariel è in Samaria, ma Rocca non è potuto entrare all'Università di Pisa e ha subito una sorta di "linciaggio mediatico" in chat. Siamo alla discriminazione e all'esaltazione della Palestina che è un falso storico».
- ln che senso la Palestina è un falso storico? «Non è mai esistita una nazione palestinese, né mai c'è stato un popolo palestinese. Si è determinato solo dopo che gli ebrei alla fine dell'Ottocento hanno fertilizzato i terreni e hanno prodotto sviluppo economico nell'area, cosi alcune tribù arabe che venivano dai Paesi confinanti si sono insediate in quelle terre. A creare la Palestina è stata l'Unione sovietica che nel '64 s'inventa l'Olp e agita una sorta di colonialismo ebraico perché ha bisogno di strappare l'Occidente, perseguendo il disegno ateista alla Robespierre, dalla sua radice. Cosi iniziano a circolare parole d'ordine come razzismo, antisionismo che è sinonimo di antisemitismo e s'inventano la Palestina».
- L'antisemitismo sta tutto a sinistra? «Sì, duole dirlo, ma è così: oggi la sinistra è antisemita. Su questo la sinistra è cambiata molto. Quando ci fu il massacro di Sabra e Shatila nell’82, mio figlio che andava al liceo fu bersaglio di intolleranza. Arrivarono a telefonare a mia moglie dicendole: sei convinta che tuo figlio sia a scuola, ma ce lo abbiamo noi e non lo rivedrai. Allora il sindaco di Livorno Pino Raugi e l'onorevole Nelusco Giachini del Pci vennero a casa nostra a offrirci solidarietà e protezione. Oggi vanno dietro ai pro Pal. Il clima è cambiato. Molti nostri amici prendono le distanze da noi. E sono convinti che aprire ai musulmani, aprire indiscriminatamente all'immigrazione, sia segno di progresso. Si sono dimenticati in fretta della testimonianza di Oriana Fallaci. A destra ci sono rarissimi episodi di antisemitismo. Prendo per esempio Ignazio La Russa: il presidente del Senato è da sempre amico della famiglia Meghnagi e della comunità milanese».
- Ha ragione Olaf Scholz in Germania a preoccuparsi? «Sì, ha ragione Scholz e noi in Italia dovremmo stare attenti. L'islam si presenta con la faccia buona, dialogante, ma ha in testa l'umma: il creare un mondo solo islamico dove noi, cristiani ed ebrei perché obbedienti alle religioni del libro, siamo considerati dhimmi: gli schiavi privilegiati. L'islam è convinto che Abramo fosse musulmano e che poi il mondo si è corrotto e la loro missione è di ricostituire attraverso la umma, che è insieme religione e Stato, l'armonia del mondo. Hanno deciso di conquistarci: in Gran Bretagna ormai quasi tutti i sindaci sono islamici. Usano l'immigrazione come mezzo di istillazione dell'islam e ci sono anche forme terroristiche. Tra l'altro per loro non esiste il concetto di popolo, esiste solo quello di ubbidienza religiosa. Loro negano che esista il popolo d'Israele che fu cosi designato da Dio quando affidò a Mosè il compito di guidarlo nella terra promessa, perciò vogliono la distruzione d'Israele».
- L'Europa è sotto scacco dell'islam? «Sì e non lo dico io. Lo ha detto l'abate e vescovo di York, che in un libro scrive: l'Europa è in preda a un cupio dissolvi. Lo ha gridato quasi Shmuel Trigano - di cui sto pubblicando un bellissimo libro su Gerusalemme: è uno dei massimi intellettuali francesi - che mi ha confidato: sono reduce da un incontro con i socialisti, mi hanno spiegato che loro stanno con i musulmani perché sono di più degli ebrei e hanno tanti voti. Sembra di sentire Jean Luc Mélenchon. Per gli ebrei in Francia la vita sta diventando impossibile. Dal Sud, dove c'è stato l'ultimo attentato, la diaspora verso Israele è continua. Mia moglie che è vicepresidente della comunità delle donne ebree riceve continuamente appelli dalla Francia».
- Bisogna dunque fermare l'immigrazione? «Bisogna integrare facendo rispettare la nostra identità. Quando Giovanni Paolo II ha posto il tema delle radici giudaico-cristiane, aveva ben presente che l'Europa avrebbe avuto bisogno di rafforzarsi per poter ospitare».
- Ma Francesco predica porte aperte ... «Francesco fa del marketing della fede: ha capito che i musulmani sono di più e si accoda a loro. Non ha la forza teologica di Ratzinger. A Francesco di rispondere al bisogno di sacro dell'uomo non interessa nulla. Per tenersi buoni gli islamici tifa per l'immigrazione indiscriminata e ha azzerato i rapporti con gli ebrei; tra i cattolici i focolarini e i comboniani sono pro Pal e pro islam. Se ne accorgeranno: l'islam è come i coccodrilli. Il vescovo di Livorno da noi non è mai venuto, neppure dopo il 7 ottobre, e pensare che un tempo il dialogo tra ebrei e cattolici era quotidiano».
- È vero che lei fa il tifo per Donald Trump? «Sì, per gli ebrei americani e anche per noi. Con Kamala Harris i conflitti non finiranno mai. E poi come si fa a credere a una che ha allestito alla convention democratica lo spazio Lgbtq+ per gli americani di religione islamica? Ma lo sanno che cosa succede ai gay nell'islam e anche in Palestina? Basta questo per pensare che Trump è meglio».
- E la simpatia per il generale Vannacci? «Nasce dall'aver constatato che è un uomo colto: tre lauree, parla sei lingue, si è formato a Parigi, ha una visione dell'Europa che molti non hanno e conosce perfettamente il pericolo islamico. Mi ha detto una sera a cena: "Guastalla, si rende conto che dicono di me che sono antisemita? Io che ho combattuto come ufficiale della Folgore contro il terrorismo islamico". Mi sono accorto che i giornali mainstream gli fanno dire cose che lui neppure si sogna. E sono convinto che abbia una statura istituzionale molto alta».
- Eppure lei è stato comunista, militante del Pci, Come mai tanta distanza? «Sono stato convintamente comunista fino al '67 quando ci fu la guerra dei 6 giorni. Allora Emilio Sereni venne e mi disse: compagno Guastalla, devi scegliere tra la tua appartenenza ebraica e il partito. Io lo guardai e dissi: voi pensate che si possa scambiare un' appartenenza che si perpetua da 3.500 anni per una storiella che ha appena 70 anni? Me ne andai, tenendo buoni rapporti. Ma ripensandoci mi spiego tante cose di questi nostri giorni difficili e penso a persone degnissime come Emanuele Fiano. Chissà che fatica fanno».
(La Verità, 2 settembre 2024)
........................................................
Grazie al fatto che Israele esiste, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia
di Paolo Salom
[Voci dal lontano occidente] Abbiamo avuto altri momenti difficili in passato. Ma questo 5784 promette di essere il più duro da decenni a questa parte. Eppure, mentre si avvicinano Rosh haShanah, Kippur e la stagione delle feste autunnali, nonostante le difficoltà che il futuro ci presenterà, è forse giunto il momento di rasserenarci un pochino. Perché dico questo? Lo scorso novembre, a poche settimane dal 7 ottobre, ho avuto l’occasione di parlare con Lior Keinan, vice ambasciatore di Israele a Roma. Allora, lo ricordo bene, eravamo tutti in stato di choc. E ricordo la sorpresa sul volto del diplomatico che cercava di infondere nell’interlocutore (io) la giusta dose di fiducia, nonostante l’impazzimento del lontano Occidente. “È presto per pensare a come sarà il dopo – mi aveva spiegato tra l’altro parlando del conflitto a Gaza -. Ma se vogliamo aprirci alla speranza, e dobbiamo farlo anche in queste ore buie, dobbiamo essere onesti e dire che una parvenza di normalità potrà esserci soltanto quando Hamas uscirà dall’equazione”. Ecco: queste parole, pronunciate all’inizio di una guerra non voluta da Israele e comunque atroce per tutti, potevano sembrare propaganda, wishful thinking, mentre tutto sembrava precipitare nell’assurdo di una ferocia che stava avvolgendo il mondo intero, con le frange di estremisti pro palestinesi impegnate ad attaccare gli ebrei ovunque si trovassero. Eppure, il vice ambasciatore aveva visto con obiettività la situazione e, oggi, possiamo dire che aveva ragione: nonostante il duro prezzo pagato, le vittime civili, i soldati e i riservisti bruciati nei loro anni più belli in difesa di Israele, si comincia a intravedere una luce diversa attorno allo Stato ebraico. E di conseguenza anche attorno a noi. È fallito il tentativo dell’Iran di isolarlo (di fronte ai missili lanciati dagli ayatollah si sono mobilitati Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia). Sono falliti tutti i movimenti di pressione per separare le comunità della Golah dai fratelli in Terra di Israele. Hamas è ridotta al lumicino. E, soprattutto, nonostante la paura, gli ebrei hanno scelto di resistere, combattere (con le parole) e non cedere alla tentazione di lasciare tutto o nascondersi di fronte all’oscena rappresentazione di un antisemitismo “moderno” studiato e riproposto dai soliti noti. Insomma, possiamo dire che il peggio è alle nostre spalle? No. Non è il momento di fare previsioni. Il futuro non è conoscibile. Però è onesto dire che quest’anno ci ha messo tutti a dura prova. Ma, anche grazie al fatto che Israele è lì, nella Terra dei nostri Padri e delle nostre Madri, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia che spazzano il mondo come se l’umanità non avesse imparato nulla dal passato. Dunque, sì, viviamo un’era di cambiamenti grandi e terribili (a volte). Ma la nave che ci trasporta ha dimostrato di saper affrontare le onde più alte. Scusate le metafore. Credo che un briciolo di retorica, in un momento come questo, sia giusto concedersela. Auguro a tutti Shanà tovà umetukà: sia davvero dolce e sereno per ciascuno di noi. Am Israel chai.
(Bet Magazine Mosaico, 1 settembre 2024)
........................................................
Il rabbino capo del Sudafrica sferza Canterbury e il Vaticano
|
|
FOTO
Warren Goldstein, rabbino capo del Sudafrica
|
|
Il rabbino capo del Sudafrica, Warren Goldstein, ha criticato in maniera molto dura sia l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby che Papa Francesco. In videomessaggio postato su Twitter/X ha accusato i due leader religiosi di «abbandonare il loro più sacro dovere di proteggere e difendere i valori della Bibbia». Invece, sostiene, «Papa Francesco e l’arcivescovo anglicano sono indifferenti agli omicidi di cristiani in Africa e alla minaccia del terrorismo in tutta Europa, e allo stesso tempo sono ostili ai tentativi di Israele di combattere le forze jihadiste guidate dall’Iran».
Come ha ricordato Jenni Frazer su JewishNews il 28 agosto, l’arcivescovo Welby ha raccontato di aver visitato i cristiani palestinesi molte volte negli ultimi decenni, aggiungendo: «Mi è chiaro che il regime imposto dai governi israeliani nei Territori palestinesi occupati è un regime di discriminazione sistemica. Sono consapevole di come questo abbia un impatto sui cristiani palestinesi, minacciando il loro futuro e la loro sopravvivenza. È chiaro che porre fine all’occupazione è una necessità legale e morale».
Il rabbino Goldstein ha criticato in particolare il sostegno dato dall’arcivescovo Justin Welby alla sentenza della Corte internazionale di giustizia secondo cui la presenza di Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è illegale e ha osservato che l’arcivescovo «dovrebbe sapere che Gerusalemme era la capitale di Israele prima che si sentisse parlare di Gran Bretagna».
Nè Lambeth Palace, la sede della residenza ufficiale dell’arcivescovo di Canterbury, né l’ufficio del rabbino capo del Regno Unito Sir Ephraim Mirvis hanno dato disponibilità a commentare.
(moked, 1 settembre 2024)
........................................................
I difficili rapporti con l’Egitto e i negoziati di pace
di Ugo Volli
• La decisione del gabinetto e le trattative
Il consiglio di gabinetto – l’organo ristretto del governo israeliano che ha la responsabilità della conduzione della guerra – su proposta del primo ministro Bibi Netanyahu e con il solo voto contrario del ministro della difesa Yoav Gallant, ha stabilito giovedì notte che anche nel quadro di un possibile accordo di cessate il fuoco, le forze armate di Israele dovranno restare a presidiare il “corridoio Filadelfia”, cioè il breve tratto di confine (14 km) che separa Gaza dall’Egitto. È una decisione importante, perché proibisce all’equipe negoziale che ricomincia oggi a Doha per l’ennesima volta le trattative per una tregua, di accettare una delle tre richieste centrali di Hamas, lo sgombero di Israele dal corridoio Filadelfia. Le altre due pretese, altrettanto problematiche, sono la possibilità per gli sfollati di rientrare nella parte settentrionale della Striscia senza subire alcun controllo, il che evidentemente permetterebbe ai terroristi di insediarvisi di nuovo con le loro armi, e l’impegno di Israele a non riprendere le operazioni belliche alla fine della tregua. Sembra che vi sia aggiunta di recente la richiesta del capo dei terroristi Sinwar di una garanzia per la sua vita.
• Da dove vengono le armi di Hamas
Chi ha ragionato in questi 11 mesi sulla forza imprevista di Hamas e sulla sua capacità di continuare a combattere nonostante l’autodifesa di Israele e il blocco imposto da molti anni sull’importazione di materiali di uso bellico, chi si è interrogato sulla consistenza dei grandi arsenali di armi e in particolari di missili che si continuano a scoprire, sull’addestramento dei terroristi da parte di istruttori iraniani, sulle macchine sui carburanti e sui prodotti necessarie per scavare tunnel più lunghi della metropolitana di Londra, si è certamente chiesto da dove tutte queste notevolissime risorse militari provenissero. La risposta è doppia: in parte minore questo materiali sono importati con gli aiuti umanitari: ancora pochi giorni fa si sono scoperti esplosivi nascosti fra gli aiuti alimentari dell’Onu. Ma la maggior parte viene dal contrabbando nel corridoio Filadelfia, cioè dall’Egitto.
• L’Egitto e il contrabbando
Si tratta di un punto molto delicato. L’Egitto ha sempre sostenuto di combattere questo contrabbando, e ha molto propagandato alcune operazioni di distruzione dei tunnel da cui esso era condotto. Ma di fatto si è comportato in maniera opposta, favorendo di nascosto l’importazione di armi. Molti si sono sorpresi vedendo che Al Sisi si è opposto ferocemente alla presa israeliana del corridoio; ma si è visto presto il perché. Oltre 80 tunnel di contrabbando sono stati scoperti nella zona, alcuni abbastanza grandi da far passare camion.. Le armi vengono da lì, e così il cemento, gli esplosivi, gli esperti iraniani e a quanto sembra anche cinesi. Ovviamente Hamas vuole che l’esercito di Israele se ne vada dal Filadelfia proprio per poter riprendere il contrabbando di armi che è vitale per continuare la guerra (si dice che vi sono carichi interi di missili nascosti fra i beduini del Sinai). La meraviglia è che l’Egitto lo sostenga. In teoria, si dice, Hamas è un braccio di quella stessa Fratellanza Musulmana di cui il generale Al Sisi si è liberato con un colpo di stato nel 2013 e quindi dovrebbe essere un nemico del regime attuale. Ma sono passati 10 anni, si dice che perfino i parenti del dittatore abbiano parte nel grande business economico del contrabbando militare, e molti funzionari del regime vi prendano parte. Ma soprattutto vi sono ragioni politiche per questo atteggiamento.
Il confine fra Israele ed Egitto è lungo 266 chilometri lungo il Negev e negli ultimi 45 anni non vi sono state difficoltà in questo, anche se non sono mancati alcuni incidenti provocati dalla parte egiziana, come il lancio di missili su Eilat o l’assassinio di due militari israeliani di guardia qualche anno fa. Perché dunque Al Sisi non vuole assolutamente la sorveglianza israeliana degli ultimi 14 chilometri che sono il corridoio Filadelfia? Le ragioni sono diverse. Da un lato, nonostante la pace firmata da Begin e Sadat nel 1979, che costò la vita a quest’ultimo, Israele è sempre nella psicologia collettiva egiziana il nemico storico contro cui l’esercito egiziano combatté nelle guerre nel 1948, ‘56, ‘67. ‘73, sempre perdendole. A differenza dei più recenti “accordi di Abramo”, la pace con l’Egitto è sempre stata “fredda” senza aperture commerciali o turistiche: la “normalizzazione” è sempre deplorata, la propaganda antisemita è sempre diffusa fra le masse e anche ai più alti livelli. L’esercito dell’Egitto, nonostante le enormi difficoltà economiche del paese, ha condotto un piano di riarmo imponente, comprando aerei in Cina, sottomarini in Germania, migliaia di carri armati in Usa. Oggi in Medio Oriente è il meglio armato dopo Israele e Iran; la speranza di una rivincita è sempre sottintesa, anche i dirigenti egiziani sanno di non poterla evocare. Al Sissi insomma sembra voler ripetere certe mosse della Turchia. Sunnita sì, potenzialmente nemico dell’Iran, ma senza nessuna simpatia per Israele.
• Perché restare sul confine
In questo quadro la sopravvivenza di Hamas, soprattutto se oltre che dall’appoggio iraniano dipende anche dalla complicità egiziana al contrabbando di armi, è una cosa che al vertice egiziano evidentemente non dispiace. E questa è anche la ragione per cui Israele fa bene a non fidarsi e a non cedere all’illusione di una delega all’Egitto di un passaggio così essenziale alla sua sicurezza come il corridoio Filadelfia. La divisione che si è avuta negli ultimi mesi fra il vertice militare e quello politico su questo tema deriva anche dall’esperienza dell’incapacità di barriere elettroniche e delle forze internazionali di garantire la sicurezza del paese, come si è visto purtroppo il 7 ottobre, ma anche prima con Unfil in Libano, con le forze di interposizione dell’Onu fra Israele ed Egitto che si sono squagliate nel 1973, le numerosi operazioni a Gaza lasciate a metà perché lo stato maggiore assicurava che si fosse restaurata la mitica “deterrenza”. Insomma, nonostante l’immensa fiducia che tutto il paese ha nell’impegno e nella dedizione delle forze armate, fra i politici della maggioranza e nei media c’è diffidenza sulla concezione strategica dello stato maggiore.
• Sono davvero mediatori?
Vi è un dato in più da tener presente, Le trattative per il cessate il fuoco non sono condotte direttamente fra Israele e Hamas o il suo burattinaio Iran: fra le due parti si interpone da un terzetto di “mediatori”, gli Usa, il Qatar e l’Egitto. L’amministrazione americana certo non vuole la distruzione di Israele, ma nemmeno la sua vittoria che sconfesserebbe la politica di Obama, Biden e se vincerà di Harris di accordo con l’Iran. Gli Usa oltretutto fanno il possibile per estendere questo modo di vedere all’interno di Israele, sia nell’ambito politico che negli apparati di sicurezza, fino influenzare fortemente la delegazione negoziale. Il Qatar è il più diretto protettore di Hamas, ne ospita i dirigenti e ne gestisce la propaganda con la sua rete Al Jazeera. Ma anche l’Egitto, per i motivi appena visti, non è certo neutrale nei confronti di Israele. Dunque, come accade con le organizzazioni politiche internazionali (per esempio l’ONU) e le corti come quella dell’Aja, Israele deva difendersi un ambiente sostanzialmente ostile. Quando ci si interroga sulla difficoltà del governo israeliano di prendere decisioni e iniziative forti, bisogna pensare che resistere a queste pressioni è un compito difficilissimo, ma essenziale per il futuro del paese.
(Shalom, 1 settembre 2024)
........................................................
Perché ci interessiamo di Israele
L'articolo che segue è presente da anni nella sezione di Presentazione del nostro sito. Lo ripresentiamo ora in questa forma sia perché molti vanno subito alle notizie di attualità e rimandano ad altri momenti letture più impegnative, sia perché intendiamo ribadire, anche nei particolari, che l'atteggiamento di fondo con cui ci poniamo nei confronti di Israele non è cambiato col passar del tempo e con lo scorrere degli avvenimenti. Dire questo è tanto più importante in quanto dopo il 7 ottobre le simpatie per Israele, da sempre molto poche, sono drasticamente diminuite nelle statistiche. Per noi non è così, la ripresentazione di questo articolo vuol esserne una conferma.
Il problema di Israele in realtà è stato sempre il problema dell'esistenza di Israele. La ragione del disagio non va cercata in quello che gli ebrei fanno o sono. La gente non li odia perché fanno gli strozzini o hanno il naso adunco: il problema sta nel fatto che ci sono.
Da una parte questa constatazione può tagliare le gambe agli ebrei di buona volontà, quelli che vogliono avere un comportamento giusto e rispettoso verso gli altri, che cercano di evitare atteggiamenti di superbia che possano ferire, che fanno sforzi per favorire il dialogo e lo stare insieme dei diversi. Tutto questo è buono e lodevole in sé, ma non cambia il fatto che le cose buone può farle soltanto qualcuno che c'è. E più un ebreo si muove, anche per venire incontro al suo prossimo non ebreo, più gli fa sentire che c'è. E questo non fa che aumentare l'avversione del non ebreo ostile.
UNA MALATTIA DEI GENTILI
D'altra parte, proprio questa amara constatazione può liberare l'ebreo da un inutile senso di colpa. «Sarò imperfetto, farò molte cose sbagliate, sarò un poco di buono come tanti altri - può pensare - ma se i guai provengono dal fatto che ci sono, allora la colpa non è mia, perché io ho il diritto di esserci, come tutti gli altri».
Sì, su questo punto gli ebrei possono tranquillizzarsi: il "problema Israele" in realtà è una malattia dei gentili.
C'è un particolare della vita di Theodor Herzl che fa capire quanto può essere pesante per un ebreo il sentirsi non accolto dall'ambiente circostante, e quanto può essere grande e sincero il desiderio di fare qualcosa per venire incontro alle aspettative degli altri. Riporto alcune notizie della sua vita tratte da "A History of Israel from the Rise of Zionism to our Time", di Howard M. Sachar.
Herzl non era un religioso, e in gioventù tendeva piuttosto all'assimilazione. Provava anzi un po' di disagio davanti ai comportamenti sconvenienti di certi "cattivi ebrei". Ma il suicidio di un suo caro amico, Heinrich Kana, molto probabilmente dovuto ai disagi legati al suo essere ebreo, lo scosse profondamente. Nella sua attività di giornalista cominciò allora a dedicare sempre più attenzione all'antisemitismo, e nel privato continuò a rimuginare dentro di sé su quello che si poteva fare per eliminare questa piaga sociale. Un'idea che gli venne in mente, e che riportò soltanto nelle sue note, fu «una volontaria e onorevole conversione» di massa degli ebrei al cristianesimo. Immaginava che la cosa sarebbe dovuta avvenire «alla chiara luce del sole, in un pomeriggio di domenica, con una solenne, festosa processione accompagnata dal suono delle campane ... con fierezza e gesti dignitosi». L'autore aggiunge che Herzl lasciò cadere quasi subito quest'idea, ma il semplice fatto che gli sia venuta in mente fa intuire il peso che aveva in cuore, e la sua sincerità nella ricerca di una soluzione che non danneggiasse nessuno.
Resta la domanda del perché. Perché i gentili non sopportano la presenza degli ebrei come persone, come popolo, come nazione? Anche qui le spiegazioni date sono innumerevoli, ma quella biblica resta la più semplice, ed è anche quella giusta: gli ebrei ricordano Qualcuno. Qualcuno a cui non si vuole pensare perché non si vuole che ci sia. O, se proprio deve esserci, che almeno stia zitto. Si sarà capito che è il Dio d'Israele, l'unico vero Dio, che non solo ha creato i cieli e la terra, ma li ha creati con la sua parola, e quindi ha parlato, e continua a parlare. Cosa che a molti non fa piacere.
Si capisce allora perché periodicamente si è sempre fatto avanti qualcuno che ha manifestato la "buona intenzione" di beneficare l'umanità risolvendo una volta per tutte il problema nell'unico modo adeguato: sterminando gli ebrei. E questa non è un'idea che sia venuta in mente per la prima volta a Hitler. L'intenzione risale ai tempi biblici. Sentiamo come prega il salmista:
"O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio! Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto contro di te: le tende di Edom e gl'Ismaeliti; Moab e gli Agareni; Ghelal, Ammon e Amalec; la Filistia con gli abitanti di Tiro; anche l'Assiria s'è aggiunta a loro; presta il suo braccio ai figli di Lot" (Salmo 83:1-8).
Tramano insidie contro il tuo popolo, congiurano, si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto, dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Sembra di assistere a una seduta della Lega Araba. Anche loro, infatti, hanno stretto un patto, che dà tutta l'impressione di essere soltanto contro Israele.
In questo salmo c'è tutta la spiegazione del "problema Israele". Abbiamo detto che la causa profonda dell'ostilità verso gli ebrei sta nel fatto che ci sono, e infatti qui si dice: "distruggiamoli come nazione". Abbiamo detto che non si vuole che gli ebrei ci siano perché non si vuole che la loro presenza tenga vivo un ricordo, e qui si dice: "... e il nome d'Israele non sia più ricordato!". Abbiamo detto che quello che non vuol essere ricordato è il Dio d'Israele, e qui si dice che i popoli stringono un patto contro di te, cioè contro Dio che ha scelto Israele.
Il salmista non prega dicendo: "Aiuto, Signore, siamo in mezzo ai guai, liberaci dai nostri nemici", come avremmo fatto noi che pensiamo sempre e soltanto agli affari nostri. Il salmista dice: "I tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa". Quello che succede a noi è un problema tuo, dice il salmista a Dio, perché i nostri vicini stanno congiurando "contro quelli che tu proteggi", e allora se noi andiamo a fondo, sarà il tuo nome che ci va di mezzo. Diranno che non sei un Dio potente, che non sei stato capace di proteggere il tuo popolo, arriveranno fino a Gerusalemme, al monte che tu hai scelto per tua dimora (Salmo 68:16), e faranno quello che vuol fare Arafat (anacronismo calcolato), «poiché hanno detto: Impossessiamoci delle dimore di Dio» (Salmo 83:12). E nel seguito il salmista non chiede al Signore di aiutare il popolo d'Israele, ma di colpire i nemici di Dio. Cattiveria? No, difesa del nome di Dio e desiderio che i popoli vicini, proprio quelli che vogliono far sparire il nome d'Israele dalla terra (tanto da non volerlo nemmeno scrivere sulle carte geografiche del Medio Oriente), si ravvedano e cerchino il nome del SIGNORE, buttando nella spazzatura tutti gli altri nomi. Infatti conclude:
Copri la loro faccia di vergogna perché cerchino il tuo nome, o SIGNORE! Siano delusi e confusi per sempre, siano svergognati e periscano! E conoscano che tu, il cui nome è il SIGNORE, tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra (Salmo 83:16-18).
Il salmista quindi non va in depressione per l'odio che sente contro Israele, e non si limita neppure a dire a se stesso: "Io ho il diritto di esistere come tutti gli altri", ma in sostanza dice a Dio: "Tu hai il dovere di farmi esistere per tutti gli altri".
Ma è chiaro che chi osa pregare in questo modo deve anche, coerentemente, lui per primo, cercare e onorare il nome del Signore. E questo è il vero problema di Israele.
EBREO, GENTILI... E CRISTIANI
Cominciamo adesso a dire qualcosa su di noi, che ci professiamo cristiani e abbiamo un particolare rapporto con Israele e con gli ebrei.
Diciamo anzitutto che mentre il dualismo ebrei-gentili è giustificato biblicamente ed è chiaro nella sua formulazione, anche se non sempre nella sua esatta delimitazione, la contrapposizione ebrei-cristiani è ambigua e fuorviante. Anzitutto, entrambi i termini sono di radice ebraica. Se invece di usare la derivazione dal greco si usasse quella dall'ebraico, si dovrebbe parlare di "messianici", invece che di "cristiani", e allora il collegamento con l'ebraismo sarebbe più evidente. Ma a parte questo, non ha senso contrapporre ebraismo e cristianesimo come se fossero due religioni che una volta si combattevano ma adesso hanno finalmente imparato la civile arte del dialogo e della coesistenza pacifica. O meglio, il senso è che quando questo avviene, vuol dire che s'incontrano due religioni create dagli uomini, senza reale collegamento con la rivelazione biblica. All'inizio i cristiani erano tutti ebrei. Solo dopo qualche anno ai cristiani ebrei si sono aggiunti anche i gentili, che adesso certamente sono in larga maggioranza. Ma questo non giustifica una delimitazione di campo tra ebrei e cristiani.
Prendiamo infatti i principali documenti dei cristiani: i vangeli. Qualcuno forse pensa che i vangeli siano libri da sacrestia, che parlino di chiese, messe, sacramenti, processioni, statue della madonna, cattedrali. Chi li conosce sa invece che non c'è niente di tutto questo. E molti forse sarebbero sorpresi nel sapere che nei vangeli il termine "chiesa" è usato solo 3 volte in due soli versetti, mentre il termine "Israele" è usato 30 volte in altrettanti versetti. Un rapporto di 1 a 10. Questo dà una prima idea di questi libri che, contrariamente a quello che si può pensare, hanno un carattere interamente ebraico, anche se sono scritti in greco. Una persona che cominciasse a leggere l'Antico Testamento e proseguisse nel Nuovo fermandosi ai vangeli, potrebbe legittimamente chiedersi: "Ma che c'entrano i non ebrei in tutto questo?". Un ebreo nato in Israele e cresciuto con un'educazione ortodossa, che in età adulta si è deciso infine a leggere i vangeli, non solo vi ha ritrovato un paesaggio a lui ben familiare, ma a un certo momento si è chiesto: "Ma come fanno i gentili a capire questi libri?" E la domanda è comprensibile, perché per veder comparire il primo gentile che occupi un posto significativo nella storia della salvezza si deve arrivare al capitolo 10 del libro degli Atti.
Riporto un passo del vangelo che dovrebbe essere noto, ma non è molto sottolineato:
Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: «Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio». Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: «Mandala via, perché ci grida dietro». Ma egli rispose: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele». Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, aiutami!» Gesù rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini». Ma ella disse: «Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le disse: «Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi». E da quel momento sua figlia fu guarita (Matteo 15:22-28).
E' un passo tosto. Ci presenta un Gesù che entra a fatica nelle varie iconografie religiose o laiche. C'è da scommettere che il racconto riesce a scontentare tutti. Scontenta i palestinesi, perché vedono una di loro umiliarsi in modo indecoroso davanti a un ebreo; scontenta gli ebrei, perché si sentono chiamare "pecore perdute" e perché non possono lasciare Gesù ai polacchi e al loro Papa, come avrebbero fatto più che volentieri; scontenta gli antisemiti, perché vedono un Gesù che privilegia in modo inaccettabile gli ebrei; scontenta i promotori dei rapporti umani tra israeliani e palestinesi, perché il dialogo si deve fare su un piano di parità e non in quel modo; scontenta infine tutti quelli dal cuore tenero, perché "così non ci si comporta, ed è pure maleducazione non rispondere, e poi, sì, va bene, la donna alla fine è stata esaudita, ma a prezzo di quale umiliazione! Non si fa così!"
Non è possibile entrare qui nella spiegazione di quel passo del vangelo, ma vale la pena segnalarlo perché è uno di quei passi della Bibbia che si riescono a ingranare in modo legittimo nel contesto solo se si ha una comprensione della rivelazione biblica che tiene conto in modo corretto del posto che occupa Israele nella storia della salvezza.
C'è anche un'altra donna non ebrea che Gesù ha trattato in modo non proprio conforme a certi canoni di comportamento usualmente accettati: la donna samaritana. Gesù la incontra e le chiede un favore. Lei si sorprende, prima in modo positivo, perché Gesù si degna di rivolgerle la parola, poi in modo negativo, perché certe parole di Gesù sulla sua vita privata avrebbe volentieri fatto a meno di sentirle. E alla fine, dopo aver capito che Gesù era un profeta, gli pone un problema teologico:
«I nostri padri hanno adorato su questo monte, ma voi dite che a Gerusalemme è il luogo dove bisogna adorare». Gesù le disse: «Donna, credimi; l'ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma l'ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l'adorano, bisogna che l'adorino in spirito e verità». La donna gli disse: «Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa». Gesù le disse: «Sono io, io che ti parlo!» (Giovanni 4:20-26).
C'è un altro fondamentale errore, molto comune, che deve essere corretto. La Bibbia dei cristiani si divide in Antico e Nuovo Testamento, e, com'è noto, la parola testamento significa patto. Si parla dunque di due patti che Dio ha fatto con gli uomini. Il lettore provi a fare un test con se stesso, e eventualmente anche con altri. Che patti sono? Dove si parla nella Bibbia di questi due patti? Con chi ha fatto Dio i due patti? Forse soltanto a quest'ultima domanda molti si sentirebbero sicuri di poter dare la risposta giusta: l'antico patto è stato fatto con gli ebrei, e non vale più; quello nuovo è stato fatto con i cristiani, e vale ancora. La risposta è sbagliata. Da Abraamo in poi, tutti i patti di cui parla la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) sono stati conclusi sempre e soltanto con il popolo d'Israele. E di tutti questi patti, soltanto uno è da considerarsi superato, ma non per scadenza dei termini o per progresso culturale, come potrebbero pensare i laici illuminati, ma semplicemente perché è stato violato da una delle due parti: il patto con Mosè. Tutti gli altri patti, quelli con Abraamo, con Davide e il nuovo patto, sono sempre in vigore perché sono patti incondizionati, che Dio si è impegnato a mantenere soltanto per essere fedele al suo nome. Non possono essere violati, e quindi sono sempre validi.
Nell'ultima cena Gesù ha parlato di patto quando ha detto ai suoi dodici discepoli ebrei: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Marco 14:24). Questa frase non è una formula magica che fa cambiare il vino in sangue, anche perché in quel momento il sangue di Gesù stava ancora scorrendo nelle sue vene; questo è un linguaggio tipicamente ebraico, come quello che usò Mosè quando suggellò il patto con Dio al Sinai:
Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo e disse:
«Ecco il sangue del patto che il SIGNORE ha fatto con voi sul fondamento di tutte queste parole»(Esodo 24:8).
Nella Bibbia ogni patto importante doveva essere suggellato con il sangue, e quindi questo è accaduto anche per il nuovo patto. Dice infatti l'evangelista Luca:
«Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi» (Luca 22:20).
Il sangue del patto, dunque, è quello di Gesù, ma il contraente umano del nuovo patto, chi è? La risposta si trova nell'Antico Testamento, prima che nel Nuovo:
«Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d'Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore», dice il SIGNORE; «ma questo è il patto che farò con la casa d'Israele, dopo quei giorni», dice il SIGNORE: «io metterò la mia legge nell'intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo. Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello, dicendo: "Conoscete il SIGNORE!" poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande», dice il SIGNORE. «Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò del loro peccato» (Geremia 31:31-34).
Geremia scrive mentre sta per avvenire il tragico dramma della presa e della distruzione di Gerusalemme, cioè in un momento in cui si poteva pensare che la storia d'Israele sarebbe finita lì. Parla del patto che essi violarono, riferendosi evidentemente a quello del Sinai, e annuncia un nuovo patto. Ed è questo il patto di cui parla Gesù nell'ultima cena, come viene anche attestato dalla citazione del passo di Geremia che si fa in Ebrei 8:8-13. Ma si noti che questo nuovo patto è stato fatto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda, non con i cristiani, non con la chiesa. Fino a quel momento noi gentili non eravamo stati neppure interpellati, non sapevamo niente, eravamo tutti ignoranti, come Pilato. Come lui non avremmo potuto capire chi era Gesù, e come lui l'avremmo condannato a morte.
L'apostolo Paolo, che qualcuno considera un traditore del popolo ebraico, sottolinea invece che agli israeliti "appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse" (Romani 9:4). Mentre ai gentili dice:
Ricordatevi che un tempo voi, stranieri di nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:11-12).
Noi gentili eravamo dunque senza speranza e senza Dio nel mondo perché eravamo senza Cristo, cioè senza Messia. Ed è a questo punto che viene fuori la caratteristica inattesa del nuovo patto che Dio ha stabilito con la casa d'Israele. Per una precisa volontà rivelata da Dio agli apostoli, questo patto apre la possibilità di estendere anche ai non ebrei la grazia spirituale che è compresa in questo patto: il perdono dei peccati e il dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, come Dio ha promesso alla casa di Giuda.
Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. Con la sua venuta ha annunziato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito. Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l'edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore. In lui voi pure entrate a far parte dell'edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito (Efesini 2:13-22).
In questo modo abbiamo toccato il punto fondamentale della fede cristiana che avvicina ebrei e gentili, perché inserisce questi ultimi (i lontani) nell'ambito della benedizione promessa ai primi (i vicini): la persona di Gesù, che però nel presente resta ancora una pietra di scandalo e un elemento di divisione.
«E voi, chi dite che io sia?» chiese a un certo momento Gesù ai suoi discepoli (Matteo 16:15). La risposta fu data, ed era quella giusta, ma solo un ebreo poteva darla: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16:16). Solo chi risponde nello stesso modo a questa domanda, entra a far parte di quell'unico corpo di cui parla l'apostolo Paolo.
Ma se il Messia è già venuto, che cosa si deve fare di tutte le profezie messianiche che parlano di un regno di Israele trionfante e vittorioso? Un giorno tutte inevitabilmente si compiranno, perché il Messia, che una prima volta è venuto come servo sofferente dell'Eterno per espiare i peccati del popolo d'Israele e di tutti gli uomini, un giorno ritornerà come il Leone della tribù di Giuda per regnare sul mondo da Sion. I cristiani evangelici letteralisti non "spiritualizzano" l'Antico Testamento, facendone un'allegoria della chiesa. Quando la Scrittura parla di Israele, intende sempre e soltanto Israele, mai la chiesa, anche se spesso si possono trarre utili analogie e applicazioni pratiche. Per questo i cristiani fedeli alla Bibbia aspettano che le sue parole riguardanti il futuro di Israele si compiano, predicando il vangelo a tutti gli uomini e cercando di occupare il giusto posto nel tempo dell'attesa.
MA ALLORA VOI VOLETE SOLTANTO CONVERTIRCI!
L'obiezione che i cristiani s'interessino di Israele soltanto per convertire gli ebrei dev'essere attentamente esaminata. E' assolutamente vero che tutti i cristiani desiderano, o dovrebbero desiderare, che ogni persona, ebreo, musulmano, ateo, cristiano nominale o altro ancora, si ravveda, creda nel Signore Gesù Cristo e sia salvato, perché sta scritto che
In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati (Atti 4:12).
E' chiaro dunque che un cristiano fedele non si esime mai dall'annunciare il vangelo, tanto meno a un ebreo. Anzi, l'apostolo Paolo dice che il vangelo dev'essere annunciato prima di tutto agli ebrei, poi agli altri.
Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (Romani 1:16).
Chiedere a un vero cristiano di non parlargli mai di Gesù equivale a dirgli di stare alla larga. E se richiesto, naturalmente questo avverrà.
L'annuncio del vangelo è un compito che il cristiano deve e vuole svolgere verso ogni essere umano, senza distinzione, mentre l'interesse per Israele è dettato dalla particolare, unica posizione che questo popolo occupa nella storia della salvezza.
TRE MOTIVI
Ci sono almeno tre motivi per cui i cristiani s'interessano di Israele e degli ebrei.
1. Manifestare amore. Gli ebrei avvertono che verso di loro c'è un odio gratuito, cioè un'ostilità che non può essere interamente spiegata da nessuna motivazione razionalmente giustificabile: sono odiati perché ci sono. E anche quando l'ostilità non si concretizza in atti di violenza, la percezione di questi sentimenti di avversione li fa soffrire. Abbiamo detto che questo non dipende dagli ebrei, ma dal rapporto degli uomini con Dio. L'astio contro gli ebrei non è che l'espressione dell'umana ribellione contro Dio, è quindi manifestazione di peccato. I credenti in Gesù sanno di aver ricevuto il perdono dei peccati attraverso il Messia d'Israele, vivono in comunione con Dio e di conseguenza diventano partecipi del suo amore verso il suo popolo. L'amore dei veri cristiani verso Israele è quindi un amore gratuito, cioè un sentimento che non può essere spiegato da nessuna motivazione o interesse razionalmente giustificabili: il popolo d'Israele viene amato soltanto perché c'è, perché è un'espressione della volontà di quel Dio con cui i cristiani vivono in comunione d'amore. Sarebbe una grave perdita per gli ebrei se fossero capaci di percepire soltanto l'odio gratuito contro di loro, senza saper riconoscere e avvertire anche l'amore gratuito di cui sono oggetto. Se è vero che non c'è popolo sulla terra che sia stato tanto odiato, è anche vero che non ce n'è un altro che sia stato tanto amato. E anche se in questo periodo della storia del mondo l'odio è molto più appariscente dell'amore, non è vero che sia più reale.
2. Mettersi dalla parte della verità e della giustizia. Le ingiustizie nel mondo sono infinite, e altrettante sono le menzogne, ma quelle che si commettono contro Israele sono uniche per grandezza, estensione e sfacciataggine. Il credente in Gesù Cristo deve stare sempre dalla parte della verità e della giustizia, quindi è suo compito prendere la parola per difendere chi viene ingiustamente colpito, quando ne ha l'occasione e la possibilità. Questo dev'essere fatto verso tutti, ma si potrebbe dire, con l'apostolo Paolo, prima al Giudeo e poi al Greco. Chi, pur essendo adeguatamente informato, non è capace di riconoscere gli enormi soprusi e le spudorate calunnie che deve subire Israele, ha una coscienza morale assopita e un'intelligenza critica ottusa. E queste forme di rilassamento spirituale un vero cristiano non se le deve permettere.
3. Essere vigilanti. Quello che succede agli ebrei, prima o poi ha delle conseguenze sul resto del mondo. Questo è stato ormai accertato, e vale in primo luogo per il corpo dei veri credenti in Gesù Cristo che il Nuovo Testamento chiama "chiesa". Per poter colpire il popolo d'Israele, l'Avversario spirituale di Dio cerca di confondere e fuorviare prima di tutto quelli che potrebbero essergli d'aiuto, e questi sono proprio gli autentici seguaci di Gesù. In tempi difficili per Israele, i credenti vengono messi sotto pressione in vari modi, soprattutto attraverso false informazioni e false dottrine. Questo è successo in Germania ai tempi del nazismo: le persecuzioni contro i cristiani sono state poche perché pochi sono stati i cristiani che hanno capito quello che stava veramente succedendo, e molti sono stati sedotti da false dottrine che si accordavano con la realtà diabolica che si stava svolgendo sotto i loro occhi. Non sono stati soltanto i "Deutsche Christen", con il loro pervertito "cristianesimo positivo" nazionalsocialista, a profanare il nome di Cristo: molte altre chiese e movimenti cristiani, anche evangelici, hanno subito l'influsso dell'ideologia del tempo, e se non sempre hanno adottato dottrine perverse dal punto di vista biblico, certamente si sono lasciati trasportare in un'annebbiata atmosfera di torpore che non ha permesso loro di rendersi conto della realtà in cui vivevano. E questo non deve più accadere. O per lo meno, per quel che ci riguarda non vogliamo che accada più. Anche per questo riteniamo nostro dovere interessarci di Israele e, per quanto possibile, aiutare altri a capire quello che succede, in modo da saper prendere al momento opportuno la giusta posizione che le circostanze richiedono.
UN'ULTIMA OSSERVAZIONE
Secondo la nostra comprensione della Bibbia, i veri cristiani non devono cercare di costituirsi come forza politica organizzata al fine di esercitare un potere sul resto della società. Devono vivere come semplici cittadini nella società in cui si trovano, assumendosi di volta in volta le responsabilità sociali che a loro competono, ma come comunità devono essere presenti solo come testimoni di Gesù Cristo, e in quanto tali assumere come arma soltanto la parola: la Parola di Dio innanzi tutto, e la parola umana che l'accompagna, ma senza fare ricorso ai consueti mezzi di lotta politica organizzata.
Certo, questa è una debolezza, ma una debolezza voluta, perché sorretta dalla parola di Dio giunta fino a noi anche attraverso un noto ebreo, nato a Tarso di Cilicia, allevato a Gerusalemme, educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri (Atti 22:3):
I Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i gentili pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1 Corinzi 1:22-25).
(Notizie su Israele, 1 settembre 2024
|
........................................................
Il corridoio Filadelfia e gli ostaggi: la posta in gioco
di Niram Ferretti
A seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, a cui è succeduta l’operazione militare israeliana a Gaza, due sono stati indicati da parte di Israele come gli obiettivi da conseguire: la distruzione dell’operatività militare di Hamas all’interno della Striscia e la liberazione dei civili e dei militari rapiti. Nel corso dei mesi, questi due obiettivi hanno iniziato ad alternarsi nella gerarchia delle priorità.
• L’OBIETTIVO PRINCIPALE. QUALE? Quando sussisteva ancora il gabinetto di guerra, di cui faceva parte anche Benny Gantz come membro dell’opposizione per rappresentare, al di là delle divergenze politiche con il governo in carica, l’unità nazionale a fronte della situazione di emergenza, fu quest’ultimo a dichiarare che l’obiettivo principale da raggiungere era la liberazione degli ostaggi. Recentemente è stato il turno di Daniel Hagari, portavoce dell’IDF, il quale ha ribadito il concetto durante una conferenza stampa, per poi correggersi subito dopo, a seguito dell’aspro rimbotto arrivatogli da un “alto funzionario del governo”, definizione di copertura per indicare Netanyahu, che gli ha fatto presente come gli ostaggi siano solo uno degli obiettivi da raggiungere, non il principale.
Dopo mesi di inconcludenti negoziati tra Israele e Hamas per raggiungere un cessate il fuoco che consenta, nel corso del suo adempimento, la liberazione dell’ultimo centinaio di ostaggi prigionieri nella Striscia, si è giunti ieri a un alterco tra Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant nel corso di una riunione ristretta durante la quale Netanyahu ha ribadito con fermezza che la precondizione insindacabile di un eventuale accordo con Hamas è che l’IDF resti a presidio del corridoio Filadelfia ai confini con l’Egitto. Questa condizione è irricevibile per la formazione jihadista, essendo il corridoio il principale snodo per l’ingresso di armi e il passaggio di uomini, e, sulla cui piena funzionalità, l’Egitto è, con ogni evidenza, connivente. Da qui la causa dell’alterco con Gallant, che, alla pari delle famiglie degli ostaggi più vocianti in piazza contro Netanyahu, lo ha accusato di volere la loro morte.
• DIVERGENZE STRUTTURALI Lo scontro tra i due, la cui convivenza, fin da prima dello scoppio della guerra non è stata agevole, basti ricordare l’annuncio fatto da Gallant l’inverno scorso, mentre Netanyahu era in visita a Londra, che la riforma della giustizia allora in corso metteva a repentaglio la sicurezza di Israele, è solo l’ultimo episodio di uno attrito ben più ampio.
Da una parte ci sono coloro che ritengono che essendo la completa sconfitta di Hamas un obiettivo irrealistico, sia necessario spostare la priorità della guerra dalla disarticolazione della formazione jihadista alla liberazione degli ostaggi. È questa la posizione esplicita della Casa Bianca, espressa a chiare lettere da Joe Biden a maggio, quando affermò che essendo riuscito a depotenziare fortemente Hamas e non rischiando più un nuovo 7 ottobre, Israele poteva accontentarsi e che ora era necessario raggiungere il cessate il fuoco. È la posizione condivisa da una parte dell’apparato militare e dei Servizi, ed è la posizione dell’opposizione guidata da Benny Gantz. Si tratta, di fatto, di un gruppo cospicuo, spalleggiato dagli Stati Uniti, il quale ha anteposto al concetto di vittoria quello di una sconfitta mitigata dal successo dal recupero degli ostaggi rimanenti. Ma non esistono in guerra sconfitte mitigate, permettere a una residualità di Hamas di permanere nella Striscia anche se gli ostaggi fossero tutti liberati equivarrebbe a una sconfitta.
Dall’altra parte ci sono coloro i quali ritengono che l’obiettivo primario sia la sicurezza di Israele e la messa in ginocchio definitiva di Hamas. È la ragione per la quale Netanyahu ha voluto mettere ai voti dopo la riunione di ieri, la decisione di non derogare dalla presenza dell’IDF lungo l’asse del corridoio Filadelfia.
Hamas può essere definitivamente sconfitto nella Striscia, ma, per potere conseguire questo risultato, è evidente che la presenza israeliana al suo interno e lungo i suoi confini dovrà essere protratta, e questo significa non una manciata di mesi, ma di anni, esattamente quello che non vuole accada l’Amministrazione Biden e una eventuale Amministrazione Harris che, qualora entrasse in carica, in Medio Oriente proseguirebbe esattamente la medesima politica dell’amministrazione attuale, lesiva per la sicurezza e gli interessi dello Stato ebraico.
(L'informale, 31 agosto 2024)
........................................................
Violenza dei coloni? Un pioniere prende posizione
Già prima della guerra, la violenza dei coloni israeliani attirava sempre più l'attenzione dei media internazionali. Con lo scoppio della guerra, la situazione è peggiorata. Che cosa ha da dire un colono stesso su questa delicata questione?
di Merle Hofer e Sandro Serafin
|
|
FOTO
Benny Katzover a Elon Moreh, Samaria
|
|
Benny Katzover siede nell'insediamento di Elon Moreh in uno scenario mozzafiato: Alle sue spalle si estende il panorama biblico delle montagne Garisim ed Ebal; nella valle tra di esse si trova la città palestinese di Nablus, la biblica Shechem (Sichem). Katzover, magro e in camicia blu, ne parla con entusiasmo: È qui che si stabilì il popolo ebraico, dice, quando entrò nella terra con Giosuè. È storicamente e geograficamente il cuore di “Eretz Israel”.
Ma in questo momento Katzover sta mescolando il suo caffè, inclinando la testa da un lato e con un sorriso leggermente sofferto sul volto. Stiamo parlando di un argomento spiacevole: la “violenza dei coloni”. Per molti, il termine stesso è irritante perché associa i coloni in quanto tali alla violenza - coloni, come Katzover. Il 77enne si è fatto un nome come pioniere fin dall'inizio, è stato uno dei primi coloni a Hebron e successivamente ha guidato il movimento in Samaria, la Cisgiordania settentrionale.
• Qui, l'86% ha votato per Ben-Gvir “Quel radicale?”, chiede una donna israeliana quando a Gerusalemme le raccontiamo chi abbiamo incontrato. Non solo Katzover è considerato un radicale da molti, ma l'intero villaggio di Elon Moreh: alle elezioni della Knesset del novembre 2022, circa l'86% ha votato per il Sionismo religioso - l'alleanza dell'attuale ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir e del ministro delle Finanze Bezalel Smotritsch, che sono molto controversi in Israele e a livello internazionale.
Per molti si tratta di un'equazione semplice: Ben-Gvir uguale radicale e radicale uguale violenza. Katzover si presenta come tutt'altro che radicale. Si percepisce il suo amore per il Paese e la sua storia. La sua narrazione è calma, concreta. E dopo un breve sospiro appena accennato, commenta a lungo il tema della “violenza dei coloni”.
• “Danneggiano la reputazione dello Stato” Katzover non nega il fenomeno. E non c'è dubbio che egli rifiuti la violenza: “Ci danneggiano e fanno cose che non sono giuste. Danneggiano sia il progetto di insediamento sia la reputazione dello Stato”, afferma Katzover, che ha presieduto il Consiglio regionale della Samaria negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Allo stesso tempo, Katzover sottolinea che si tratta di una piccola minoranza.
Spiega il fatto che l'attenzione internazionale sulla questione sia aumentata enormemente dicendo che il mondo sta - “ancora una volta” - trattando Israele con i tipici due pesi e due misure. Ma le cose stanno proprio come si dicono? Il problema non è forse diventato più grande? L'organizzazione israeliana di sinistra “Yesh Din” ha affermato all'inizio dell'anno scorso che il 2023 sarebbe diventato l'anno con il maggior numero di violenze da parte dei coloni da quando ha iniziato a occuparsi del problema nel 2006.
Come spesso accade in questo conflitto, una categorizzazione esatta e oggettiva è difficile. D’altra parte, bisogna dire che un ufficiale di polizia nazional-religioso, anch'egli colono e di stanza a Hebron, afferma di avere sempre più a che fare con israeliani violenti in Cisgiordania. Le immagini di coloni che incendiano proprietà palestinesi, ad esempio, non possono essere negate e sono oggetto di un acceso dibattito sulla stampa israeliana.
• Problemi giovanili La spiegazione comune che la stampa tedesca dà a questo fenomeno è che il governo israeliano di destra, in carica dal dicembre 2022, ha concesso ai coloni una sorta di lasciapassare. Il fatto che il ministro della Sicurezza sia Itamar Ben-Gvir, che comunque proviene dalla scuola di pensiero della destra radicale kahanista, dà agli autori delle violenze la sensazione di avere il coltello dalla parte del manico e di poter fare quello che vogliono.
E’ raro però ascoltare una prospettiva interna come quella di Katzover. Quando gli viene chiesto di parlare degli autori di violenza della cosiddetta gioventù delle colline - giovani israeliani che hanno fatto della conquista delle colline della Cisgiordania la loro missione per gli insediamenti israeliani - dice: “È un tipo di gioventù che esiste in tutto il mondo. Vanno male a scuola, non vogliono assumersi responsabilità, non riconoscono i loro insegnanti, nessuno indica loro una strada”.
Non sarebbero quindi diversi dai giovani tedeschi che, in condizioni di vita disordinate, scivolano verso l'estremismo di sinistra, l'estremismo di destra o l'islamismo e alla fine cercano il senso della loro vita nella violenza: “Alcuni di loro poi trovano il loro scopo all'esterno lavorando con pecore e capre, e a volte sotto forma di violenza”, spiega Katzover, riferendosi ai coloni violenti della gioventù delle colline, alcuni dei quali egli stesso conosce. Per loro le forze di sicurezza israeliane, esercito e polizia, diventano spesso un nemico.
• Ingiustizia nei confronti dei coloni? Katzover condanna il loro comportamento. Eppure mostra un po' di comprensione. I giovani delle colline vedono molte ingiustizie, dice: “Quando gli arabi si appropriano di terre in Cisgiordania, nessuno fa nulla. In effetti, le costruzioni arabe illegali nella Zona C, cioè le parti della Cisgiordania che sono completamente sotto il controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo, sono un problema importante tra gli israeliani nazional-religiosi: l'organizzazione israeliana di destra Regavim ha registrato 81.317 edifici arabi illegali e 4.382 edifici ebraici illegali nel 2022.
“Forse il governo interviene contro 100 o 200 edifici arabi”, afferma Katzover. “Ma quando i giovani delle colline salgono sulle colline, contro di loro arriva l'intero esercito a causa delle pressioni internazionali: vengono picchiati, trascinati via, i loro edifici distrutti”. Questa ingiustizia contribuisce alla radicalizzazione, soprattutto tra i giovani: “Non si fanno pensieri complessi”, dice Katzover: “Cresce invece in loro un sentimento: non c'è giustizia, non possiamo contare sul nostro governo, sul nostro esercito o sulla polizia - quindi prendiamo la situazione nelle nostre mani!”.
• “La gioia è l'arma più forte” Sta facendo qualcosa Katzover contro tutto questo? Quando questi giovani vengono alle sue visite guidate sul Monte Kabir, vicino a Elon Moreh, cerca di spiegare loro: “Quando lanciate delle pietre, sono solo le pietre ad essere riportate, non quello che state facendo”. Katzover è convinto che ai giovani delle colline non si debba rispondere con la violenza, ma con l'educazione e l'amore. In questo modo si vedono anche risultati evidenti: “Il 70-80% finisce per arruolarsi nell'esercito, cosa che inizialmente era considerata da loro molto negativa”.
Katzover torna ai ricordi del suo tempo, la “battaglia per la Samaria”, come la chiama lui stesso: “Abbiamo combattuto l'intera battaglia quasi esclusivamente senza alzare le mani contro gli altri o causare danni”. Anche il rabbino Zvi Yehuda Kook, il grande leader del movimento dei coloni “Gush Emunim”, esigeva questo, dice Katzover: “Cosa facevamo invece? Cantavamo. Cantare significa gioia. E la gioia è un'arma molto più forte di qualsiasi altra arma”.
(Israelnetz, 31 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
“Gli ebrei diffondono il male nel mondo”: i post antisemiti dei diplomatici palestinesi
di Luca Spizzichino
Un’inchiesta condotta dal gruppo investigativo Gnasher Jew ha rivelato che numerosi diplomatici palestinesi, tra cui ambasciatori e funzionari di alto livello, hanno fatto dichiarazioni antisemite sui social network. La ricerca ha portato alla luce post che celebrano le azioni terroristiche di Hamas, paragonano Israele alla Germania nazista e chiedono l’eliminazione dello Stato di Israele. Il rapporto, pubblicato dal Jewish Chronicle, ha analizzato centinaia di post provenienti da oltre 30 profili di diplomatici e account ufficiali delle ambasciate, sollevando serie preoccupazioni sulla legittimità dei rappresentanti dell’Autorità Palestinese sulla scena internazionale.
Il 7 ottobre, Hassan Albalawi, vice capo della missione palestinese presso l’Unione Europea, ha celebrato i terroristi di Hamas definendoli “eroici”, mentre Adel Atieh, ambasciatore palestinese presso l’UE, ha descritto i terroristi come “il popolo dei potenti”. Khuloussi Bsaiso, diplomatico palestinese alle Nazioni Unite, ha condiviso una mappa del Medio Oriente senza Israele, commentando: “La Palestina come dovrebbe essere”.
Questi esempi di retorica estremista si ripetono in diverse parti del mondo. Rana Abuayyash, console presso la missione palestinese a Londra, ha condiviso un post in cui la bandiera israeliana si trasforma in Hitler, oltre a un video in cui Netanyahu viene ritratto sotto la figura del dittatore nazista. In Francia, Hala Abou-Hassira, ambasciatrice palestinese a Parigi, ha tentato di giustificare gli attacchi di Hamas, mentre la diplomatica Nadine Abualheija ha definito Hamas “membri della resistenza palestinese” che hanno “colpito soldati israeliani illegali”.
In Africa, il console palestinese in Costa d’Avorio ha condiviso un’immagine di un paracadutista con il messaggio “qui per la vittoria”, mentre Thaer Abubaker, ambasciatore in Guinea e Sierra Leone, ha descritto il 7 ottobre come un giorno “eroico” e ha accusato gli ebrei di “diffondere il male nel mondo”. In un post di novembre, Abubaker ha paragonato le immagini di corpi della Shoah a quelle provenienti da Gaza, scrivendo: “Per 75 anni hanno fatto ciò che sostenevano che Hitler avesse fatto”.
Dennis Ross, ex consigliere per il Medio Oriente di diverse amministrazioni statunitensi, ha dichiarato: “L’Autorità Palestinese non può affermare di essere per la pace e poi sostenere ciò che Hamas ha fatto. Se si vuole una soluzione a due stati, questi tweet sollevano dubbi su che tipo di stato si stia cercando di creare.”
Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch, ha accusato i diplomatici di “ipocrisia e doppiezza”, sostenendo che “nonostante la pretesa di conformità ai principi di pace, diritti umani e diritto internazionale dell’UE, in realtà questi funzionari difendono apertamente e promuovono le atrocità di Hamas”. Neuer ha aggiunto che i diplomatici dovrebbero essere trattati come “collaboratori di Hamas”.
Caroline Turner, direttrice di UK Lawyers for Israel, ha definito i risultati dell’inchiesta “allarmanti” e ha espresso la speranza che “ora che tutto ciò è venuto alla luce, i paesi ospitanti reagiranno e richiederanno ai diplomatici di lasciare il loro territorio”.
L’inchiesta di Gnasher Jew, che ha evidenziato un allineamento con la retorica di Hamas, solleva interrogativi sul ruolo futuro dell’Autorità Palestinese nella governance di Gaza e nella costruzione di una soluzione a due stati.
(Shalom, 30 agosto 2024)
........................................................
IDF: i medici delle forze speciali il 7 ottobre
I medici dell’IDF delle unità d’élite raccontano le vite che hanno salvato e quelle che non hanno potuto salvare.
Il Cap. G. di Egoz è stato tra i primi a entrare a Kissufim, salvando la vita del comandante; il Cap. Y. dei Duvdevan, ha trovato il suo migliore amico tra i feriti che ha curato sotto il fuoco a Kfar Aza; il Cap. D. di Maglan ha prestato soccorso medico a Nahal Oz e ha aiutato ad eliminare i terroristi; L’Unità Egoz è stata tra le prime a essere dispiegata nel sud di Israele il 7 ottobre. “Quel giorno avrei dovuto volare in missione negli Stati Uniti”, racconta il capitano Dr. G., medico dell’unità, che è stato uno dei primi ad arrivare all’avamposto di Kissufim insieme al comandante dell’unità. “Quando ho sentito i primi allarmi sull’infiltrazione di terroristi, ho raccolto rapidamente il mio equipaggiamento e mi sono diretto a sud”. Durante il primo giorno di guerra, il capitano Dr. G. ha curato 37 feriti, sia civili che soldati, sotto il fuoco, salvando loro la vita. Uno dei momenti più significativi per lui fu quando sentì la radiocronaca del grave ferimento del comandante dell’unità, il ten. col. M. “Lo abbiamo evacuato con un veicolo blindato e quando l’ho visitato per valutare le sue condizioni, ho pensato che fosse morto”, ricorda. “La sua ferita era estremamente grave e abbiamo deciso di iniziare l’intervento sul campo. Sono riuscito a stabilizzarlo ed è stato trasportato da un elicottero 669 al Soroka Medical Center. È stata una delle ferite più critiche che abbia mai trattato”. Il dott. G. ha già trattato vittime sotto il fuoco, ma “non mi sono mai imbattuto in un’intensità e in un numero tale”, dice. “Si opera con il pilota automatico. I razzi cadevano a soli 50 metri da noi e non c’era tempo per pensare a se stessi o per elaborare ciò che stava accadendo. L’obiettivo è fare il più possibile nel minor tempo possibile, per salvare quante più vite possibile”. Il capitano Dr. Y., medico dell’Unità Duvdevan, si stava recando a Kfar Aza quando si è imbattuto nelle scene terribili e ha capito che si trattava di un “evento senza precedenti, a cui non eravamo preparati”. La prima persona che il dottor Y. ha curato è stato un agente di polizia gravemente ferito, segnando l’inizio di due giorni di evacuazione dei feriti sotto il fuoco, stabilizzazione e trasporto in ospedale. “Ci sono stati molti salvataggi complessi”, ricorda. “Abbiamo salvato un membro della squadra di pronto intervento da un tetto attraverso una soffitta e un riservista ferito che giaceva sull’erba in una kill zone, circondato da veicoli blindati. Le decisioni venivano prese con risorse limitate e dovevamo considerare il quadro più ampio, sapendo che l’uso di attrezzature per un ferito poteva impedire le cure per un altro”. Uno dei momenti che rimarranno impressi nella memoria del dottor Y. è stato il trattamento del suo migliore amico dell’unità, che è stato gravemente ferito ed è poi morto per le ferite riportate. “È stato incredibilmente difficile”, racconta. “Ci siamo sempre addestrati per eventi di massa, ma la mente umana non riusciva a concepire qualcosa di così devastante come quello che è successo. Ma una cosa che mi aiuta ad affrontare la situazione è sapere che abbiamo davvero salvato delle vite, e che ci sono stati momenti di luce molto significativi durante i combattimenti”. Dopo sette anni di studi e altri anni di addestramento, abbiamo sempre parlato di salvare vite sul campo di battaglia, e all’improvviso è stato reale”. Dopo i primi giorni di combattimenti, il dottor Y. e altri medici militari si sono allenati con professionisti medici di alto livello in Israele. “Posso dire con certezza che ora siamo più preparati di prima. Proteggere i soldati e i civili è l’essenza del lavoro”, dice. “Ogni soldato sul campo deve sapere che dietro di lui c’è un medico che si prenderà cura di lui in caso di necessità, e io cerco di dare loro quella spinta in avanti: qualunque cosa accada, vinceremo”. Il capitano Dr. D., medico dell’Unità Maglan, è stato inviato la mattina del 7 ottobre nel settore di Nahal Oz, dove è rimasto con l’unità per tre giorni, curando i feriti e aiutando a liberare l’area dai terroristi. “Al mattino stavo effettuando i richiami della riserva quando ho iniziato a ricevere chiamate dai soldati sul campo per i feriti”, ricorda. “Ho passato le chiamate a un’altra squadra e sono uscito. Ogni volta che incontravamo un ferito, ci fermavamo e lo curavamo. Quando siamo arrivati a Nahal Oz, la missione era di riprenderla. La sfida principale è stata l’evacuazione dei feriti”. Dopo aver liberato il kibbutz, le forze armate hanno iniziato ad andare di casa in casa per evacuare i residenti e portarli ai punti di raccolta. “Erano terrorizzati dopo quello che avevano passato, ma vedere i soldati ha dato loro forza. Insieme a un’unità di ricognizione di Givati, abbiamo fatto tutto il possibile per calmarli ed essere presenti”, racconta il dottor D.. Ciò che risalta maggiormente nei suoi ricordi è lo spirito di unità e di determinazione. “Mentre mi recavo all’unità, sono andato a prendere il mio vice, che mi ha riferito che la presenza dei riservisti era al 100% e che anche coloro che non erano stati chiamati cercavano di arrivare il più velocemente possibile per aiutare. C’erano paramedici e medici con più di 50 anni, e anche quelli che si trovavano all’estero e che sono stati immediatamente avvisati del loro arrivo. È stato molto toccante e ha dimostrato la nostra forza. Oltre a questo, ho un profondo amore personale per le città di confine di Gaza. È la zona più bella di Israele, e vederla dopo gli orrori, bruciata e martoriata, è straziante”.
(Israele 360, 28 agosto 2024)
........................................................
Idf, 'ucciso il capo di Hamas a Jenin, in Cisogiordania'
Le forze israeliane hanno ucciso nelle ultime ore il capo di Hamas a Jenin (Cisgiordania), Wassem Hazem, e altri due terroristi che si trovavano con lui: lo hanno reso noto in un comunicato congiunto l'esercito (Idf) , l'agenzia di sicurezza e la polizia del Paese.
L'operazione è avvenuta nell'area della Samaria settentrionale.
"Hazem era coinvolto nell'esecuzione e nella direzione di attentati con armi da fuoco e bombe, e sviluppava continuamente le attività terroristiche nell'area della Giudea e della Samaria", si legge nella nota.
(ANSA, 30 agosto 2024)
........................................................
L’operazione antiterrorismo delle forze israeliane in Samaria
di Ugo Volli
• “CAMPI ESTIVI”
Da due giorni è iniziata una grossa operazione delle forze armate di Israele in Giudea e Samaria, incentrata finora sul nord di quest’ultima regione, in particolare su Tulkarem, una città di 65 mila abitanti vicinissima alla linea armistiziale del 1949, nella zona in cui essa è più vicina al mare, a meno di 20 chilometri da Netanya. L’operazione è una parte della guerra in corso, ma è abbastanza importante da meritare un nome proprio, “campi estivi”. Per capirne la ragioni bisogna considerare la situazione del conflitto.
• SETTE FRONTI
Si parla spesso di una guerra fra Israele e Hamas o di una “guerra di Gaza”, ma ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la strage a tradimento compiuta il 7 ottobre dell’anno scorso dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica, seguita dalle devastazioni e dagli eccidi compiuti anche dai “civili innocenti” usciti dalla striscia di Gaza, è stata solo il primo colpo di una guerra voluta dall’Iran con l’obiettivo della distruzione dello stato ebraico. Questa guerra, oltre ai fronti politico, diplomatico, legale e propagandistico, assale Israele da sette linee di attacco: Gaza innanzitutto, dal sud; i missili di Hezbollah. dal nord; i bombardamenti degli Houti dallo Yemen, dal sud-est; quelli che vengono dalla Siria al nord-est e dall’Iraq a Est, il terrorismo interno degli arabi israeliani, che per fortuna questa volta è stato molto raro; quello che viene dai sudditi dell’Autorità Palestinese in Giudea e Samaria.
• I PERICOLI DAL TERRITORIO DELL’AUTORITÀ PALESTINESE
Quest’ultimo fronte è per certi versi il più pericoloso, perché è il più vicino e il più permeabile. La barriera di separazione fra Israele e territori amministrati dall’Autorità Palestinese, molto tortuosa, è lunga circa 730 chilometri, spesso è solo un recinto elettronico; essa è in parte incompleta e viene spesso superata clandestinamente da lavoratori illegali e talvolta da terroristi. Le distanze sono tali che lo sparo di razzi anche non avanzati dalle alture della Samaria sulle città del centro di Israele, a partire da Tel Aviv, o sull’aeroporto Ben Gurion, oppure dalle parti di Ramallah a Gerusalemme, concederebbe ai bersagli solo pochissimi secondo di preavviso per mettersi al riparo. Le città arabe sono per lo più labirinti tortuosi difficili da penetrare. L’Autorità Palestinese, che dovrebbe avervi la sovranità, ha da sempre rinunciato al monopolio dell’uso delle armi che sono una caratteristica degli stati moderni, accettando la presenza di gruppi terroristici e in generale appoggia con la scuola, i mezzi di comunicazione, ma anche con la complicità pratica di tutte le sue istituzioni, il terrorismo. Spesso si scopre che i quadri terroristi sono suoi funzionari e in particolare membri delle sue polizie. Il rischio di un nuovo 7 ottobre a partire da queste località è molto alto. Un rischio concreto che i soliti appelli “pacifisti” a partire da quello del segretario dell’Onu Guterres al solito ignorano.
• GLI INTERVENTI ESTERNI
Insomma le zone della Giudea e Samaria controllate dall’Autorità Palestinese sono focolai di terrorismo. Israele è dovuto intervenire molte volte per bloccare il pericolo, con operazioni anche molto massicce, come durante la cosiddetta “seconda Intifada” del 2000-2002, quando di qui arrivavano a decine nelle città israeliane gli attentatori suicidi. Solo grazie a questi interventi queste zone non si sono trasformate in qualcosa di equivalente a Gaza, ma molto più grave per le dimensioni e le ragioni appena esposte. Hamas investe pesantemente sulla popolazione araba dell’Autorità Palestinese e i sondaggi rivelano che vi gode di una popolarità altissima. Anche la Turchia vi si è messa da tempo al lavoro per promuovere una piattaforma islamista, ma soprattutto l’Iran ha iniziato a importarvi armi avanzate e terroristi addestrati. Di conseguenza i militari dell’esercito e delle forze di confine, guidate da servizi di informazione che in questo caso funzionano molto bene, non hanno mai smesso di intervenire quando giungeva notizia dello sviluppo di bande terroristiche pronte ad agire localmente e nel territorio israeliano vero e proprio.
• L’OPERAZIONE ATTUALE
Negli undici mesi trascorsi dal 7 ottobre vi sono state decine di interventi locali, soprattutto a Jenin (altra località del nord della Samaria, investita anche in questi giorni), con l’uso di forze travestite, ma anche di schieramenti corazzati e di appoggi aerei, che hanno eliminato alcune centinaia di terroristi, scoprendo depositi e fabbriche di armi ed esplosivi spesso nei sotterranei di moschee, scuole e ospedali. L’operazione in corso fa parte di questa serie, investendo una località, Tulkarem, che finora non era emersa alla cronaca, ma che di recente è stata all’origine di numerosi attentati, fra cui quello ultimamente fallito a Tel Aviv. Finora è stata eliminata una dozzina di terroristi legati a Hamas, una decina è stata arrestata. Tra gli eliminati c’è anche Muhammad Jaber, detto “Abu Shujaa”, pericolosissimo capo della rete nel “campo profughi” del sobborgo di Tulkarem di Nur Shams, coinvolto in numerosi attacchi terroristici. L’operazione continua.
(Shalom, 30 agosto 2024)
____________________
Da qui si dovrebbe capire quanto è stupido lo slogan: "Due stati che vivono l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza". Ma la stupidità antiebraica (quando non è peggio) è contagiosa. M.C.
........................................................
L’odio antisraeliano nei campus americani: come il boicottaggio a Israele è diventato ‘normale’
di Nathan Greppi
Nel 2006, quando il BDS e gli appelli al boicottaggio d’Israele erano ancora molto meno diffusi rispetto ad oggi, i vertici dell’AAUP (American Association of University Professors) pubblicarono una dichiarazione in cui si opponevano pubblicamente ai boicottaggi universitari, ritenendoli in contrasto con la libertà accademica. Il 9 agosto 2024, poco meno di un ventennio dopo, la stessa AAUP ha adottato una nuova dichiarazione, in cui si afferma che i boicottaggi non costituirebbero una violazione della libertà accademica come avevano sostenuto fino a quel momento.
Questo è solo uno dei tanti effetti della crescente ostilità verso Israele nel mondo accademico statunitense, che in diversi casi ha alimentato un clima d’odio nei confronti degli studenti ebrei in quanto tali. Tanto che in certi atenei, come ad esempio la Columbia, le iscrizioni degli studenti ebrei sono crollate nei mesi successivi al 7 ottobre, a causa di un contesto percepito come troppo ostile.
Chi da anni è testimone diretto di questo clima d’odio, e ne ha costantemente seguito l’evoluzione, è Cary Nelson, docente emerito di inglese presso l’Università dell’Illinois e già presidente dell’AAUP dal 2006 al 2012. Studioso della poesia americana moderna, è autore e curatore di diversi saggi sull’antisionismo universitario, tra cui The Case Against Academic Boycotts of Israel (2014), Israel Denial (2019) e Hate Speech and Academic Freedom (2024).
- Lei è stato presidente dell’American Association of University Professors. Sì, e sono stato anche un membro del loro “Comitato A”, quello che ne stabilisce le politiche, fino al 2015. Nel complesso, ho trascorso 23 anni nella direzione dell’AAUP, alla quale sono tuttora iscritto.
- Come è cambiato, nel corso degli anni, il loro approccio nei confronti dei boicottaggi? L’AAUP è nata nel 1915. In oltre un secolo di storia, erano sempre rimasti fedeli all’idea che una volta adottata una certa politica, non si faceva marcia indietro; si poteva modificarla o migliorarla, ma non si metteva in atto un capovolgimento totale della propria posizione. Che io sappia, la retromarcia fatta sulla loro precedente posizione in merito al boicottaggio costituisce il primo caso di questo genere dal 1915 ad oggi; proprio per questo, non mi sarei mai aspettato questa loro ultima decisione.
Tra l’altro, vi è un fatto curioso: quando l’AAUP formula la prima bozza di una dichiarazione, sceglie due o tre persone che la scrivono per poi discuterne con la direzione per eventuali modifiche. Tra coloro che scrissero la prima bozza della dichiarazione contro i boicottaggi del 2006, vi era Joan Scott, una docente di Princeton. Sebbene in un primo momento fosse fortemente schierata contro qualunque boicottaggio, nel giro di un anno e mezzo cambiò idea, e si schierò a favore dei boicottaggi cercando di spingere l’associazione a cambiare direzione. Per molto tempo non ci è riuscita, ma ora invece sì.
- In precedenza, c’erano già stati altri episodi controversi legati all’AAUP? Seguendone l’evoluzione, direi che soprattutto a partire dal 2015 l’associazione ha sempre più preso una deriva antisionista, che prima non c’era. Questa deriva è testimoniata da vari episodi; nel 2020, conferirono un premio a Rabab Abdulhadi, docente di origini palestinesi che insegna alla San Francisco State University. Tutte le attività della Abdulhadi sono funzionali al suo impegno politico, per cui organizza eventi antisionisti e cerca di fare assumere nella sua facoltà accademici con le sue stesse idee. Pertanto, conferirle un premio significa premiare il suo attivismo antisionista.
Un altro episodio risale al 2022, quando l’AAUP cercò di formulare una nuova definizione di antisemitismo, alternativa a quella dell’IHRA; lo fecero in maniera stupida e irresponsabile, senza avere nel comitato competente nemmeno uno studioso esperto di antisemitismo.
- Quali potrebbero essere gli effetti a lungo termine del loro cambio di direzione? Nei prossimi anni si moltiplicheranno le risoluzioni per boicottare le università israeliane. La loro precedente posizione era fondata sul principio secondo il quale la comunicazione aperta al di là dei confini nazionali è fondamentale per la libertà accademica. Ora questo principio è minacciato, perché molte persone cercheranno di boicottare gli atenei israeliani, almeno per un po’. Non credo che vedremo iniziative analoghe contro le università russe o cinesi, ma solo contro quelle israeliane.
- Nel dicembre 2023, ha fatto scalpore la testimonianza alla Camera delle presidi di Harvard, MIT e dell’Università della Pennsylvania, in cui alla domanda se invocare il genocidio degli ebrei nel campus violasse i loro codici di condotta, hanno risposto che “dipende dal contesto”. Cosa ha pensato, vedendo quella scena?
Sembrava che avessero tutte consultato lo stesso avvocato e, a giudicare dal risultato, direi che non era uno bravo. Non so se lei conosce l’espressione in inglese “soft ball question”.
- No, mi spiace. Che cosa significa? Nel baseball, esiste la “hard ball”, la palla più dura che usano i giocatori professionisti della Major League, e poi c’è la “soft ball”, più morbida e utilizzata dai dilettanti. Per “soft ball question”, si intende una domanda facile. E in questo caso, quando uno ti chiede se invocare il genocidio degli ebrei viola il tuo codice di condotta, come ha fatto con le tre presidi la deputata repubblicana Elise Stefanik, si sarebbe dovuto semplicemente dire “sì, assolutamente”. Eppure, di fronte ad una domanda tanto semplice, non sono riuscite a dare una risposta intelligente. Hanno dato l’impressione di essere persone senza fibra morale. È stato imbarazzante, non solo per loro, ma più in generale per l’istruzione superiore, che sembra aver smarrito la propria strada.
- Per le sue posizioni, lei è mai stato preso di mira dagli attivisti del BDS nella sua università? Ricevo spesso mail piene di insulti, e alle riunioni può capitare che qualcuno si metta a dire cose spiacevoli su di me o mi dica che non dovrei poter insegnare se ho posizioni filoisraeliane; poi, c’è da dire che io sono attivo nel movimento contro il boicottaggio e per la difesa d’Israele sin dal 2006, per cui ormai ci sono abituato.
Ci sarebbe da fare una distinzione tra prima e dopo il 7 ottobre; dopo quella data, molti accademici ai quali non era mai successo nulla prima hanno iniziato ad essere presi di mira. Personalmente non ho mai subito atti di violenza fisica per fortuna, ma ad alcuni miei colleghi invece è successo.
- In un suo articolo apparso nel novembre 2023 sulla rivista “Fathom Journal”, riportava il caso di Lara Sheehi, già docente di psicologia alla George Washington University che ha giustificato l’operato di Hamas in nome della “liberazione”… A gennaio, dopo le polemiche per le sue parole, la Sheehi ha annunciato di essersi dimessa dal suo incarico alla George Washington University e di averne accettato uno nuovo a Doha, in Qatar. Tuttavia, quello che molti non sanno è che già nel 2023 la Sheehi non era alla George Washington, perché si era presa un anno sabbatico. Provi a indovinare dove lo ha trascorso.
- A Doha? Esattamente. In quel periodo ha viaggiato tra il Qatar e gli Stati Uniti per partecipare a vari eventi, ma credo che abitasse principalmente a Doha. Pertanto, il suo nuovo incarico è il frutto di mesi trascorsi laggiù a intessere relazioni. Già nel 2021, lei aveva dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas; e pur non potendo provare nulla, dubito che la sua scelta di stabilirsi in Qatar sia stata casuale.
- A parte il caso specifico della Sheehi, quanto è diffuso il giustificazionismo del 7 ottobre nel mondo accademico americano? Se guardiamo più in generale all’Occidente, mi sembra che i docenti universitari che hanno dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas e di approvare ciò che ha fatto il 7 ottobre si trovano principalmente nei paesi anglofoni. È negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito che molti accademici hanno affermato testualmente che il 7 ottobre era “bellissimo”, “una liberazione”, “la cosa migliore avvenuta nel mondo da che ho memoria”. Forse c’entra il fatto che in Europa i discorsi d’odio vengono maggiormente puniti.
Se gli accademici che hanno sostenuto il terrorismo sono stati subito criticati, certi gruppi studenteschi si sono schierati in pochi giorni dalla parte di Hamas. Uno dei più estremi è SJP (Students for Justice in Palestine), al quale si è recentemente allineato un nuovo gruppo, FJP (Faculty for Justice in Palestine). Tuttavia, questo secondo gruppo nasconde i nomi dei suoi affiliati, e hanno dichiarato il loro sostegno a SJP mantenendo l’anonimato.
- Già nel 2018, lei ha raccontato a “Mosaico” che a sostenere il BDS fosse anche l’associazione ebraica di estrema sinistra JVP (Jewish Voice for Peace), usata dagli antisionisti come foglia di fico per difendersi dalle accuse di antisemitismo. Rispetto al 2018, che cosa è cambiato?
Oggi JVP gioca un ruolo molto più importante di quello che poteva avere nel 2018; hanno molti portavoce presenti negli accampamenti allestiti nelle università americane, e vengono continuamente messi sotto i riflettori.
Per fare un esempio, in occasione dell’accampamento all’UCLA, l’Università della California a Los Angeles, diversi studenti ebrei querelarono l’università perché gli accampati avevano impedito loro di muoversi nel campus e recarsi in biblioteca; di fatto, bloccavano intenzionalmente l’accesso agli studenti ebrei. In quell’occasione, l’FJP rilasciò un documento in cui dichiaravano di non poter essere antisemiti, in quanto avevano esponenti di Jewish Voice for Peace tra i loro sostenitori.
- Cosa dovrebbero fare le istituzioni accademiche per contrastare l’odio verso gli ebrei e Israele negli atenei? Quali tattiche andrebbero adottate? Qui all’Università dell’Illinois, io e il mio collega Brett Kaufman abbiamo creato un gruppo accademico chiamato Faculty for Academic Freedom and Against Antisemitism, presente nei campus di Chicago e Urbana-Champaign. Finora hanno aderito più di 80 persone in pochi mesi. A differenza dei nostri avversari, che si nascondono dietro l’anonimato, noi abbiamo un Comitato Esecutivo i cui membri sono tutti indicati con i loro nomi sul nostro sito.
Un’altra iniziativa a cui ho contribuito, assieme a due amici che insegnano all’Università del Minnesota e a Berkeley in California, è stata la pubblicazione di una dichiarazione contro i boicottaggi accademici. Possono firmarla accademici da tutto il mondo, non solo americani, e finora ha già raccolto più di 3.400 firme.
(Bet Magazine Mosaico, 30 agosto 2024)
........................................................
Conferenza di Mordechai Kedar a Milano
COMUNICATO STAMPA
Domenica 8 settembre, a Milano, ore 18, Mordechai Kedar terrà una conferenza organizzata dalla Comunità Ebraica dal titolo:
“Che cosa dovrebbe fare lo Stato di Israele per assicurare il proprio futuro”
Iscrizione obbligatoria.
Per informazioni: segreamar@gmail.com
(Emanuel Segre Amar, 30 agosto 2024)
........................................................
Reè. Vedere è capire
di Ishai Richetti
Se qualcuno ci ponesse di fronte ad una scelta, preferiremmo essere ciechi o sordi? D-o non voglia che accada mai, ma diciamo che dovessimo scegliere, quale dei due preferiremmo? Un’idea tratta dalla Parashà di questa settimana, la Parashà di Re’é interviene su questa domanda. Il primo versetto recita: “Vedi, oggi ho posto davanti a te benedizioni e maledizioni” (Devarim 11:26). La prima domanda che sorge di fronte a questo versetto è: D-o ha posto qualcosa di tangibile e visibile davanti agli ebrei? La risposta immediata è che no, D-o attraverso questo versetto sta descrivendo concetti intellettuali di benedizioni e maledizioni. Cosa intende quindi la Torà quando usa la parola “Vedi”? Ovviamente, la parola “vedi” è figurativa ed è usata qui per riferirsi a una comprensione. Nel nostro esprimerci, usiamo “vedi” in riferimento a una comprensione di qualcosa come in “Vedi cosa ti sto dicendo?” perché la vista è il nostro senso più affidabile e forte. (Radak in Zecharia 1:9.). Per spiegare questa idea, prendiamo come esempio un cane e il suo senso dell’olfatto. Poiché il senso più affidabile e forte di un cane è l’olfatto, se potesse parlare e volesse esprimere la sua comprensione di un’idea, direbbe: “Lo sento! Ora capisco cosa intendi”. Questa spiegazione fa sorgere tuttavia un’altra domanda: Se la vista è il nostro senso più forte ed è quindi la ragione per cui la nostra Parashà inizia con quella parola, come mai in altri punti la Torà usa la parola “udire” per riferirsi alla comprensione? L’esempio più lampante si trova in una delle preghiere più famose, nello Shemà: “Ascolta, Israele, D-o Nostro Signore, D-o è Uno“. Perché la Torà non usa sempre la parola “vedere” in allusione all’interiorizzazione di una comprensione di qualcosa se questo è il nostro senso più affidabile? Inoltre, se la vista è il nostro senso più forte, l’Halachà dovrebbe considerare più seriamente responsabile chi acceca qualcuno piuttosto che chi abbia reso sordo una persona. Tuttavia, il Talmud in Baba Kama 85b stabilisce che chi rende sordo qualcuno deve pagare molto di più che se lo acceca. Non dovrebbe essere il contrario? Per rispondere a tutte queste domande, dobbiamo introdurre un altro fattore nell’equazione oltre alla questione del senso più forte e affidabile. Quel problema è la comunicazione con il prossimo. Helen Keller una volta disse: “Se mi chiedessi: Se potessi riavere uno dei miei sensi, la vista o l’udito, quale sceglierei? Sceglierei l’udito. Essere ciechi ti taglia fuori dal mondo, ma essere sordi ti taglia fuori dal relazionarti e comunicare con le persone. Io scelgo le persone rispetto al mondo”. Il risarcimento per aver provocato danni all’udito è più alto rispetto al risarcimento previsto per i danni provocati alla vista perché perdere la capacità di relazionarsi e condividere con gli altri è una privazione più grave. La vista può essere il nostro senso più forte, ma le relazioni umane e la comunicazione sono più vitali per l’esistenza umana. La Torà, quando sceglie di usare l’espressione “vedere” o “sentire”, desidera trasmettere messaggi diversi e specifici per indicare la comprensione di qualcosa. Quando la Torà usa la parola “shema”, “ascolta”, l’indicazione è che dobbiamo prendere un impegno che coinvolge il nostro intelletto. “Re’é”, – vedi – significa che dobbiamo prendere un impegno che coinvolge le nostre emozioni. “Ascoltare” richiede una comprensione più ampia e profonda, mentre “vedere” richiede una reazione più ampia a una comprensione che è già presente. “Ascoltare” richiede una comprensione più ampia e profonda perché quando siamo in grado di ascoltare qualcuno siamo in grado di comunicare veramente bene con lui. Per quanto significativa sia la lingua dei segni per i non udenti, non può purtroppo sostituire completamente i livelli più alti e profondi di comunicazione tra le persone che si sperimentano attraverso l’udito che permette una percezione migliore. La “Vista” è usata per raccogliere le nostre emozioni a una grande reazione per una comprensione che abbiamo già perché la vista è il nostro senso più forte e affidabile. Vedere è davvero credere ed è spesso molto più facile impegnarsi in qualcosa quando la vediamo piuttosto che se la sentiamo solamente. Questo spiega una differenza molto affascinante nella fraseologia usata dallo Zohar e quella usata dal Talmud. Molto spesso, quando il Talmud presenta nuove informazioni e fatti, viene usata la frase introduttiva “Vieni e ascolta”, “Ta Shmà”. Quando lo Zohar presenta nuove informazioni, viene usata la frase introduttiva “Vieni e vedi”, “Yuh chazi”. Perché questa differenza? Quanto abbiamo discusso, ci aiuta a capirlo. Il Talmud include tutta la Torà rivelata e razionale, che è nota come “niglé”, rivelata. Questa sezione della Torà comporta un grande e profondo pensiero logico e la comprensione dell’intelletto. Ecco perché “l’udito” è estremamente necessario, poiché “l’udito” realizza una comunicazione chiara su un piano razionale. Lo Zohar è l’opera principale del misticismo ebraico e va oltre il regno della razionalità e della logica, verso il mondo del soprannaturale e del nascosto. È “nistar”, la Torà nascosta. “Vedere” è il senso che può suscitare le nostre emozioni e una grande reazione e la funzione principale dello Zohar è quella di rafforzare le nostre passioni ed emozioni per la nostra anima e il nostro spirito. Ecco perché Rav Avraham Yeshaya Karelitz, noto come Chazon Ish, dice che quando si studia lo Zohar si sperimenta la dolcezza del nostro Padre Celeste e, probabilmente è anche questo il motivo per il quale lo studio dello Zohar è soggetto ad alcune regole ben precise. Nel primo versetto della Parshà di Re’é, l’uso dell’espressione “vedere” è il più appropriato in base all’argomento. D-o sta descrivendo una cerimonia di giuramenti per osservare le mitzvot della Torà che prevede benedizioni e maledizioni. Questa cerimonia avrebbe avuto effettivamente luogo in linea temporale molto più tardi rispetto al momento in cui vengono pronunciate queste parole, quando gli ebrei avrebbero attraversato il fiume Giordano per entrare in Israele. Perché allora D-o dice: “Guarda, ho posto davanti a te oggi, benedizioni e maledizioni”? Le benedizioni e le maledizioni non venivano poste davanti a loro in quel momento, quindi perché usare la parola “oggi”? Come sappiamo la Torà non usa mai parole superflue o che non comportino un insegnamento.. Anche se secondo Rashi qui il versetto si riferisce in effetti alla cerimonia che avverrà diversi anni successivi nella Terra di Israele sul Monte Gherizim e sul Monte Eval, lo Sforno interpreta il versetto diversamente, come un ammonimento: Fai molta attenzione in modo da non essere come le nazioni del mondo che si relazionano a tutto con scarso entusiasmo, cercando sempre di trovare una via di mezzo. Ricorda che Io ti presento oggi la scelta tra due estremi opposti. La Berachà, la benedizione, è un estremo in quanto ti fornisce più di quanto ti serve, mentre la Kelalà, la maledizione, è l’altro estremo che si assicura che tu abbia meno dei tuoi bisogni di base. Hai la scelta di entrambi davanti a te; tutto ciò che devi fare è fare una scelta. Questo versetto apparentemente semplice, di apertura della Parashà, è in realtà pregno di significati. Dopo aver usato la comprensione che avviene attraverso l’udito, “Shemà Israel”, comprensione basilare ed importantissima, può arrivare il momento in cui sarà possibile usare la comprensione che avviene attraverso il senso della vista, Re’é, che non può esserci senza la comprensione precedente. Questo insegnamento è importante anche oggi. Molte delle opinioni e delle decisioni che prendiamo sono prese solo utilizzando uno dei sensi di cui siamo dotati, spesso il senso guidato dalle emozioni. Questo senso può però portarci a decisioni errate. La Torà ci dà le istruzioni su come dobbiamo comportarci: Come prima cosa dobbiamo capire che “Shemà Israel”. ascolta Israele, il Signore è il tuo D-o, il Signore è Uno. Successivamente saremo in grado di capire che “vehaya im shamo’a tishmà el mitzvot H’ Elokecha“, e avverrà, quando osserverai le mitzvot che il Signore tuo D-o ti dà e farai quanto è bene ai Suoi occhi, solo allora porterai la berachà nella tua vita e solo allora potrai veramente arrivare a “Re’é”, vedere che in realtà l’unica via da percorrere, anche se ci viene data la scelta del libero arbitrio, necessario perché a livello semplicistico se non ci fosse non avrebbe senso il concetto di ricompensa e di punizione, è quella della berachà, quella che ci porterà solo benedizioni nelle nostre vite.
(Morashà, 30 agosto 2024)
____________________
Parashà della settimana: Re'eh (Vedi!)
........................................................
Leader di Hamas dalla Turchia: “riprendere attentati suicidi”
Come sempre i "coraggiosi leader di Hamas" chiamano al sacrificio (degli altri) mentre loro vivono nel lusso e accumulano ricchezze
di Sarah G. Frankl
L’alto funzionario di Hamas Khaled Mashal ha invitato mercoledì a riprendere gli attentati suicidi in Cisgiordania e ha incoraggiato i palestinesi e i sostenitori della causa palestinese a impegnarsi nella “resistenza effettiva contro l’entità sionista”. Secondo Sky News Arabia, durante un discorso a una conferenza a Istanbul, in Turchia, Mashaal ha detto che il gruppo terroristico di Hamas vuole “tornare alle operazioni [suicide]”. La guerra con Israele a Gaza e i frequenti raid dell’IDF contro le entità terroristiche palestinesi in Cisgiordania sono una situazione “che può essere affrontata solo con un conflitto aperto”, ha detto Mashaal. “Loro ci combattono con un conflitto aperto e noi li affrontiamo con un conflitto aperto”. “Il nemico ha aperto il conflitto su tutti i fronti, cercando tutti noi, che combattiamo o meno”, ha detto, sembrando riferirsi all’assassinio dell’ex leader di Hamas Ismail Haniyeh avvenuto a Teheran il 31 luglio. Israele non ha confermato né smentito il suo coinvolgimento nell’uccisione di Haniyeh, residente in Qatar e capo dell’ala politica del gruppo terrorista. “Ripeto il mio appello a tutti a partecipare su più fronti all’effettiva resistenza contro l’entità sionista”, ha aggiunto Mashaal, che per un breve periodo era stato visto come uno dei candidati a sostituire Haniyeh, prima che le redini venissero affidate al leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar. All’inizio di agosto, Hamas ha rivendicato la responsabilità di un’esplosione a Tel Aviv, che ha dichiarato essere un attentato suicida condotto come operazione congiunta con la Jihad islamica palestinese, e ha giurato che sarebbero seguiti altri attacchi simili. Una persona è rimasta moderatamente ferita nell’attacco del 18 agosto, quando la bomba è esplosa all’interno dello zaino dell’uomo che la trasportava, uccidendolo all’istante. Gli attentati suicidi in Israele sono rari dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000, quando centinaia di israeliani furono uccisi in una serie di attentati mortali. In seguito all’intifada, Israele ha costruito la barriera di sicurezza in Cisgiordania, che è stata ritenuta utile per sventare ulteriori tentativi di attentato. Recentemente, nel corso della guerra a Gaza, le autorità di sicurezza israeliane hanno individuato tentativi di Hamas e di altri gruppi terroristici in Cisgiordania di tornare a compiere attentati di questo tipo. Nel marzo di quest’anno, un aspirante attentatore suicida è stato ucciso mentre cercava di infiltrarsi in Israele dalla Cisgiordania. Altri tentativi di attacco sono stati sventati negli ultimi mesi in fasi precedenti.
(Rights Reporter, 29 agosto 2024)
........................................................
Gli ebrei in fuga dall’occidente
Israele combatte stabilmente su sette fronti. Ma la guerra contro Israele fa meno paura dell’antisemitismo in giro per il mondo. Storia dei numeri record di immigrati (più 29 mila) che cercano riparo nello stato ebraico.
Le operazioni militari lanciate ieri dall’esercito israeliano in quattro città della Cisgiordania ci ricordano che i fronti sui quali combatte lo stato di Israele sono ormai, e anche con una certa stabilità, non meno di sette, se si vogliono escludere da questo calcolo altri collaborazionisti del terrore come alcune università americane, come alcune federazioni dei giornalisti europei, come i collaborazionisti delle Nazioni Unite, che pur da posizioni diverse combattono da mesi battaglie simmetriche contro Israele, giustamente osservate con affetto dagli ayatollah iraniani. C’è il fronte della Cisgiordania, con tutte le sue problematiche, comprese purtroppo anche le azioni di terrore portate avanti da alcuni coloni. C’è il fronte di Gaza con i suoi terroristi di Hamas. C’è il fronte del Libano con i suoi Hezbollah. C’è il fronte iraniano con i suoi pasdaran. C’è il fronte dello Yemen con i suoi houthi. C’è il fronte della Siria con le sue milizie al soldo dell’Iran. C’è il fronte dell’Iraq con i suoi combattenti teleguidati da Teheran. Vivere in Israele, oggi, significa essere circondati da professionisti del terrore che in modo esplicito sognano di spazzare via uno stato dalla mappa geografica, from the river to the sea. Ma nonostante questo, la potenza generata in giro per il mondo dall’emergere dell’intifada globale, dall’odio irriducibile contro gli ebrei, dalla nuova internazionale dell’antisemitismo ha generato in molti ebrei che si trovano fuori da Israele un senso di insicurezza superiore rispetto a quello percepito dagli ebrei che vivono in mezzo ai sette fronti che assediano ormai da mesi lo stato di Israele.
Lunedì scorso, un rapporto speciale del ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione israeliano ha fatto emergere un dato sorprendente e per alcuni versi drammatico. Nonostante la guerra in corso, il numero di nuovi immigrati arrivati in Israele dal 7 ottobre ha raggiunto delle cifre che non si vedevano da anni e in particolare negli ultimi dieci mesi in Israele sono arrivati 29 mila immigrati che hanno scelto di beneficiare della “aliyah”, la legge che riconosce a qualsiasi ebreo il diritto legale all’immigrazione assistita, all’insediamento in Israele e alla cittadinanza israeliana.
Tra i paesi da cui sono arrivate più domande ce ne sono quattro in particolare. C’è il Regno Unito, che ha registrato un aumento del 63 per cento di richieste rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. C’è il Canada, che ha registrato un aumento di richieste pari all’87 per cento. Ci sono gli Stati Uniti, che hanno registrato un 62 per cento in più di richieste. E c’è, infine, il caso spaventoso della Francia, che ha registrato, rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente, un balzo di richieste pari al 355 per cento (355: non è un refuso). Per Israele, avere a che fare con un boom di immigrati, che cercano rifugio, che cercano sicurezza, che cercano protezione, è un segnale incoraggiante, che mostra la capacità, da parte dello stato ebraico, di proiettarsi ancora nel futuro e di dare, nonostante tutto, un senso di sicurezza a tutti gli ebrei che in giro per il mondo non si sentono più sicuri. Ma per i paesi da cui scappano gli ebrei questi numeri certificano purtroppo una verità diversa, che in troppi continuano a non voler vedere. La macchina dell’antisionismo che è tornata a macinare odio dopo il 7 ottobre provando a creare confusione rispetto a chi sono gli aggrediti e chi sono gli aggressori in medio oriente è una macchina il cui lavorio produce ormai da mesi un effetto preciso che coincide con la legittimazione progressiva dell’odio non contro Israele ma contro gli ebrei. Giorni fa, l’agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha condotto un sondaggio su 8 mila ebrei provenienti da 13 paesi europei e ha rivelato che il 96 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver avuto a che fare con l’antisemitismo nella propria vita quotidiana anche prima dell’attuale guerra a Gaza. Secondo lo stesso rapporto, il 76 per cento degli intervistati ha nascosto la propria identità “almeno occasionalmente”, il 34 per cento ha detto di essere restio a visitare eventi o siti ebraici perché non si sentiva sicuro, il 4 per cento ha dichiarato di aver subìto aggressioni fisiche, il doppio rispetto al sondaggio precedente condotto nel 2018, e il 60 per cento degli intervistati non è soddisfatto della risposta del proprio governo nazionale al crescente antisemitismo. Il paese più colpito da questo fenomeno è la Francia, paese che ha osservato con terrore l’esplosione causata da una bombola di gas che ha provocato quattro giorni fa un incendio di fronte alla sinagoga Beth Yaacov che solo per caso non si è tradotto in una strage. In Francia, si diceva, il 74 per cento della comunità ebraica ha dichiarato di ritenere che l’attuale conflitto abbia influito sul proprio senso di sicurezza e gli atti di antisemitismo sono quasi triplicati dall’inizio dell’anno, con 887 eventi registrati nel primo semestre contro i 304 registrati nello stesso periodo del 2023. Immaginare che Israele possa avere un futuro, nonostante il tentativo dei terroristi di mezzo mondo di cancellare il futuro dall’orizzonte di Israele, è una notizia incoraggiante. Prendere atto del fatto che l’intifada globale ha messo gli ebrei di mezzo mondo nella condizione di non sentirsi più liberi di professare la propria fede al punto di sentirsi più sicuri in un paese in guerra che in un occidente che la guerra la guarda da lontano dovrebbe essere il primo passo per comprendere cosa è diventato oggi l’antisemitismo, cosa c’è dietro l’antisionismo e cosa vuol dire difendere Israele per difendere anche la nostra libertà.
Il Foglio, 29 agosto 2024)
........................................................
Quando la censura viene dalla stampa
Indagare, riferire, illustrare, informare, fare riflettere. Sono questi gli obiettivi di una stampa al servizio del cittadino, non importa se lettore di un giornale, radioascoltatore o fruitore del web. La politica attiva invece no, non fa parte della missione istituzionale di una testata che si voglia libera. Certo, nel gioco dei media è ammesso sposare una battaglia o manifestare le proprie preferenze per quel politico o, meglio sarebbe, per alcune scelte di qualche amministratore. Qua in occidente, poi, si dà tutto per scontato dimenticando che in tanti paesi i giornalisti non sono affatto liberi: da questo punto di vista gli appelli ai governi perché garantiscano la libertà della stampa e l’incolumità dei giornalisti vanno sempre appoggiati. Eppure, dalla lettera-appello che 58 fra organizzazioni giornalistiche e ong hanno inviato all’alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, traspare qualcosa di inquietante. Perché non si tratta (solo) di un testo per la libertà della stampa e la tutela dei giornalisti ma di un appello contro. Contro Israele considerato non una democrazia in lotta contro il radicalismo islamico fomentato dall’Iran, campione di violenza domestica e internazionale, ma come un’entità assassina, violenta, torturatrice. Della quale si arriva a chiedere nientemeno che l’espulsione dagli accordi di associazione con l’Ue.
In questo caso le associazioni dei giornalisti non solo rincorrono la politica ma la superano in corsa. Un segnale spaventoso: Israele è in guerra con Hamas? E noi chiediamo l’allontanamento dello stato ebraico dall’Europa. Noi giornalisti riteniamo che la libertà di stampa, leggi la democrazia, in Israele sia in pericolo? Anziché invocare la fine della guerra meglio assestare una pedata nei denti a chi rischia la vita tutti i giorni per estrarre civili innocenti dai tunnel della morte. Fra i firmatari della lettere appello c’è la Fnsi italiana in compagnia della European Federation of Journalists (Efj) e di una serie di sigle analoghe dai paesi più diversi: non mancano la Tgs e la Gcd, due sigle turche, la Ppf pachistana e ben tre organizzazioni spagnole (Fape, Fesp e Spa-Fesp): sono le nuove sentinelle della nostra libertà (di essere sempre contro Israele). dan.mos.
(moked, 29 agosto 2024)
........................................................
20 ostaggi come scudi umani attorno a Sinwar mentre Hamas affronta una rivolta interna
di Luca Spizzichino
Sarebbero soltanto 20 gli ostaggi sotto il controllo diretto di Hamas e questi verrebbero usati come scudi umani per proteggere il leader Yahya Sinwar. È quanto riporta il quotidiano inglese The Jewish Chronicle. Il ricercato numero 1 dalle forze di difesa israeliane, architetto del 7 ottobre, si nasconderebbe in tunnel sotterranei, circondato dai prigionieri, nel tentativo di evitare un attacco mirato da parte di Israele. Nonostante l’intelligence israeliana abbia identificato più volte i nascondigli del leader di Hamas, gli attacchi sono stati evitati per non mettere a rischio la vita degli ostaggi.
La situazione degli ostaggi a Gaza è ulteriormente complicata dalle tensioni interne tra Hamas e i gruppi terroristici minori operanti nella Striscia. Gli altri ostaggi, sia vivi che morti, sono detenuti da gruppi terroristici minori come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, le Brigate dei Mujahideen, le Brigate al-Nasser Salah al-Deen e le Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Questi gruppi hanno rotto i contatti con Sinwar, manifestando un crescente malcontento e stanno pianificando un colpo di stato per prendere il controllo della leadership di Hamas. Le tensioni tra queste fazioni terroriste e Sinwar nascono da profondi disaccordi riguardanti l’identità e il numero di prigionieri palestinesi da includere in un eventuale accordo di scambio per la liberazione degli ostaggi. Mentre Sinwar insiste sulla priorità del rilascio dei prigionieri affiliati a Hamas, questi gruppi minori pretendono che anche i loro membri siano inclusi nella lista, rifiutando qualsiasi compromesso con Israele.
Nonostante avessero seguito le direttive del capo di Hamas durante l’attacco del 7 ottobre, ora questi gruppi si ribellano alla sua autorità, rendendo ancora più complesso raggiungere un accordo con Israele. Sinwar, dal canto suo, cerca di ottenere condizioni favorevoli per la sua sicurezza personale, chiedendo la fine delle operazioni militari israeliane e garanzie americane che Israele non proseguirà la guerra dopo il rilascio degli ostaggi. Inoltre, Sinwar vuole la promessa di non essere eliminato una volta liberati gli ostaggi.
Nel frattempo, Sinwar sembra guadagnare tempo, sperando in un conflitto regionale più ampio che distragga l’IDF. Hamas sta anche incoraggiando attività terroristiche in Cisgiordania per sovraccaricare ulteriormente l’esercito israeliano. A tal fine, Sinwar ha incaricato Zaher Jabarin, terrorista considerato il banchiere di Hamas che è stato detenuto in Israele, ora operativo dalla Turchia, di attivare cellule terroristiche per creare ulteriore caos e pressione sull’IDF. Jabarin, che riceve fondi dall’Iran, è considerato responsabile del recente aumento delle attività terroristiche nella regione.
(Shalom, 28 agosto 2024)
........................................................
Ex ostaggio Moran Stella Yanai: sopravvissuta a Gaza tra torture, richieste di riscatti e pressione per convertirsi all’Islam
Una dopo l’altra, come lacrime amare di un puzzle, spuntano via via le testimonianze di chi è miracolosamente sopravvissuto dall’inferno di Gaza e che ora prova a ricomporre una tragedia che sembra non avere fine. Dei sopravvissuti come l’ex ostaggio Moran Stella Yanai, 41 anni, che in un’intervista rilasciata domenica a N12, ha raccontato ulteriori dettagli sulla sua detenzione. Moran, un’avvenente giovane donna, che come altre incolpevoli vittime di quel maledetto 7 ottobre ha avuto il solo torto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Moran ce l’ha fatta, così come ce l’hanno fatta altri, ma la sua vita non potrà mai più essere come quella di prima. In un’intervista rilasciata il 29 novembre dell’anno scorso – e ora riportata alla luce dal Jerusalem Post arricchita da ulteriori dettagli – la donna ha dichiarato che durante la sua prigionia da parte dei terroristi di Hamas, questi ultimi hanno chiesto a suo padre un riscatto per la sua liberazione, minacciandola di morte se si fosse rifiutato. Non solo: hanno cercato anche di farle pressione affinché si convertisse all’Islam. «Un giorno, verso mezzogiorno, io e altri due ostaggi eravamo seduti in una stanza, preparati a qualsiasi scenario potesse verificarsi nella stanza adiacente (dove si trovavano i terroristi), quando all’improvviso ho sentito “abuha abuha” più volte», ha raccontato agli intervistatori. Dopo aver sentito ripetere la frase in arabo che significava “suo padre, suo padre”, Stella ha raccontato di aver iniziato a prestare maggiore attenzione alle conversazioni dei suoi rapitori. Uno di loro le si è avvicinato e ha cominciato a porle domande molto precise: «Tuo padre ti ama?», le ha chiesto. Lei ha risposto determinata: «Certamente, più di ogni altra cosa». I rapitori stavano chiaramente cercando di ottenere un riscatto per la sua liberazione, consapevoli che il padre sarebbe stato disposto a pagare una somma considerevole pur di riaverla. Hanno quindi iniziato a raccogliere il maggior numero possibile di informazioni sulla situazione finanziaria della famiglia. La pressione psicologica esercitata durante questi interrogatori aveva l’obiettivo di manipolare e terrorizzare Stella, rendendo la situazione ancora più angosciante. Sebbene Stella non sia ancora del tutto sicura se si trattasse di una semplice estorsione di denaro o se fosse parte di una strategia più complessa per destabilizzare psicologicamente la sua famiglia, ha affermato: «Fa parte dei loro giochi mentali, non stanno giocando solo con noi, ma anche con le nostre famiglie». Ha aggiunto che «non finisce con la nostra morte o il nostro rapimento; continuano a torturare e abusare delle nostre famiglie». Ma non è finita qui. L’ex ostaggio ha poi spiegato che quasi ogni giorno uno di loro entrava nella stanza e diceva che sarebbe stato meglio per lei essere musulmana. «Una volta il terrorista ha mandato uno dei suoi compagni a prendere un velo da mettermi e mostrarmi cosa significa essere una donna musulmana», ha raccontato Stella sempre a N12. La donna ha anche dichiarato che occasionalmente i suoi rapitori le portavano un Corano per leggerle dei versetti, chiedendole di lodare Dio: «Se ti convertissi all’Islam ti libereremmo prima», l’hanno intimata i suoi rapitori. «Come donna, la mia più grande paura è stata di essere venduta. Che qualcuno mi avrebbe sposato con la forza e che avrei dovuto convertirmi all’Islam», ha riferito Stella ribadendo che l’intera esperienza è stata traumatica per tutta la sua famiglia. Ha raccontato che quando suo padre ha iniziato a ricevere i messaggi di riscatto, «è andato in stato di shock». Ha ricevuto una foto di sua figlia (non una scattata in cattività) e gli è stato detto «che se non avesse pagato entro un’ora, avrebbero iniziato a ucciderci uno a uno. Cerco di immaginare mio padre in quella situazione, a cui è stato detto che entro un’ora avrebbero ucciso sua figlia se non avesse mandato i soldi. Penso a lui e a quanto gli stava passando per la testa: avrebbe potuto spezzargli il cuore. I miei genitori hanno vissuto un trauma non inferiore al mio».
(Bet Magazine Mosaico, 28 agosto 2024)
........................................................
Il “Mandela” palestinese: una miniatura
di Davide Cavaliere
«La verità, vi prego, su Marwan Barghouti», si dovrebbe chiedere in questi giorni, parafrasando W.H. Auden. Di recente, il terrorista palestinese, in carcere in Israele dal 2002, è stato oggetto di alcuni articoli elogiativi e quasi apologetici, come quello del post. Barghouti, con sempre maggiore insistenza, è presentato come il solo leader palestinese capace di concordare una pace con lo Stato ebraico e gestire il post-Hamas a Gaza.
Si tratta, come sanno tutti coloro che guardano alla realtà mediorientale senza lenti ideologiche, di una pia illusione. Barghouti, infatti, non è il «Nelson Mandela della Palestina», bensì un assassino sanguinario imbevuto di antisemitismo.
Durante la prima Intifada, nel 1987, emerse come una delle principali figure militari del partito Fatah. Guidò i palestinesi in violenti scontri contro le forze militari e gravi attentati a danno dei civili israeliani. Nello stesso anno, fu arrestato da Israele ed estradato in Giordania, dove rimase fino al 1994, anno in cui tornò in Cisgiordania secondo i termini degli Accordi di Oslo. Nel 1996 fu eletto al «Consiglio legislativo palestinese», dove salì di grado fino al titolo di Segretario generale di Fatah nei «Territori occupati». Tuttavia, in seguito, ebbe un litigio con Yasser Arafat, la cui amministrazione accusò di corruzione.
Con lo scoppio della Seconda Intifada, nel 2000, Barghouti divenne un leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Capeggiò marce verso i posti di blocco israeliani con l’intento di provocare i soldati dell’IDF e causare scontri. Divenne una presenza visibile in molte manifestazioni e funerali di «martiri» palestinesi coperti dalla stampa araba e occidentale. Nei discorsi che tenne in tali eventi, Barghouti esortò le folle a persistere nel tentativo di espellere con la forza Israele dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza.
Sotto il suo comando, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si resero responsabili di numerosi attacchi contro Israele, tra cui un attentato suicida in un bar di Gerusalemme nel marzo 2002, in cui persero la vita 11 civili e ne rimasero feriti più di 50, e altri due attentati kamikaze a Tel Aviv nel gennaio 2003, che provocarono la morte di 23 persone e il ferimento di oltre un centinaio.
Barghouti fu catturato dall’esercito israeliano a Ramallah, sua città natale, nell’aprile del 2002 con l’accusa di terrorismo e per l’omicidio di 26 persone. Nel corso del processo, ribadì il suo sostegno alla «resistenza» armata. Alla fine, fu condannato per omicidio con ben cinque sentenze all’ergastolo.
Dal suo eremo carcerario, nel 2007, ebbe un ruolo importante anche nell’elaborazione dell’accordo della Mecca tra Hamas e Fatah, che esortava le due parti a porre fine agli scontri militari tra fazioni a Gaza e a concentrarsi nella lotta all’«occupante sionista».
Un terrorista pluriomicida non può garantire né una pace duratura né la sicurezza d’Israele. Bisogna, pertanto, sperare che la leadership israeliana lasci Barghouti scontare pienamente la sua pena nella prigione di Ofer e non commetta il medesimo errore fatto con Arafat, ossia credere che un lord of terror possa mai diventare una colomba.
(L'informale, 28 agosto 2024)
........................................................
Liberato dall’IDF l’ostaggio Qaid Farhan Alkadi
di Michelle Zarfati
Dopo 326 giorni di prigionia nelle mani di Hamas, l’IDF ha tratto in salvo l’ostaggio Qaid Farhan Alkadi.
Alkadi, beduino residente della zona di Rahat, era stato catturato il 7 ottobre mentre lavorava come guardia al Kibbutz Magen vicino al confine con la Striscia di Gaza. Il salvataggio ha avuto luogo in un tunnel nel sud di Gaza, dove Alkadi è stato trovato da solo durante una complessa operazione che ha coinvolto Shayetet 13, le forze della 401a Brigata, di Yahalom e Shin Bet sotto il comando della 162a Divisione. Il cinquantaduenne, sposato e padre, è in condizioni stabili, e dopo l’operazione di salvataggio è stato subito portato in ospedale per una valutazione medica.
“Siamo felici di tutto questo e speriamo possa riprendersi al più presto” ha detto Hathem, il fratello dell’ex ostaggio. Il primo ministro Benjamin Netanyahu si è congratulato con le forze di sicurezza per il salvataggio, ribadendo l’impegno dello Stato ebraico nel riportare a casa tutti gli ostaggi. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha elogiato l’operazione, definendola come un esempio di determinazione dei soldati dell’IDF per raggiungere tutti gli obiettivi della guerra.
Anche il presidente Isaac Herzog ha accolto con gioia la notizia, celebrando il ritorno di Alkadi come un momento di sollievo per l’intero Paese. Alkadi è uno dei sei beduini rapiti durante il massacro del 7 ottobre. Tra loro anche Samer al-Talalqa, 25 anni, che è stato accidentalmente ucciso dall’IDF insieme ad Alon Shamriz e Yotam Haim; Yousef al-Ziadna, 49 anni, della zona di Rahat, che è stato rapito con i suoi figli Hamza, 22 anni, Bilal, 18 anni e Aisha, 17 anni. Aisha e Bilal sono stati rilasciati grazie all’accordo raggiunto con Hamas alla fine di novembre dello scorso anno.
Inoltre, Hamas detiene ancora Hisham al-Sayed, un civile israeliano beduino detenuto nella Striscia di Gaza dal 2015.
Il salvataggio di Alkadi è l’ottavo avvenuto grazie al l’IDF dall’inizio della guerra. A giugno, Noa Argamani, Almog Meir Jan, Shlomi Ziv e Andrey Kozlov sono stati salvati dal campo di Nuseirat, nella Striscia di Gaza durante quella che è stata definita “operazione Arnon”. A febbraio, Fernando Simon Marman e Louis Har sono stati salvati da Rafah., mentre il soldato dell’IDF Ori Magidish è stato recuperato grazie all’incursione di terra avvenuta a Gaza alla fine di ottobre.
(Shalom, 28 agosto 2024)
........................................................
I patetici tentativi di far passare l’attacco di Hezbollah come “deliberatamente moderato”
di Franco Londei
È incredibile come la propaganda anti-ebraica riesca a far passare per buone delle vere e proprie frottole. Lo abbiamo visto a Gaza dove la suddetta propaganda anti-ebraica è riuscita a trasformare le veline di Hamas in “informazione attendibile”, come se fosse la Reuters, lo vediamo adesso con lo sventato massiccio attacco di Hezbollah contro Israele. La corsa a sminuire la brillante operazione preventiva, per altro aiutata dai satelliti americani, che ha impedito un attacco pesantissimo contro Israele, l’altrettanto patetica spinta a cercare di far credere che l’attacco di Hezbollah contro Israele sia stato “volontariamente debole”, producono una intollerabile alone di leggerezza intorno a quella che invece è stata una delle più brillanti operazioni di Israele degli ultimi decenni, nonché un importantissimo avviso all’Iran sullo strapotere militare israeliano. Una leggerezza che a quanto pare colpisce anche siti web amici, che sembrano fare a gara con Haaretz per dimostrare quanto siano “progressisti”. Su questi fantomatici “siti web progressisti” sostengono che «nuove informazioni indicano che Nasrallah ha ordinato che la risposta fosse significativamente ridimensionata a causa delle tensioni tra i centri di potere all’interno di Hezbollah». La verità è significativamente diversa. Hezbollah aveva preparato un attacco massiccio su diversi obiettivi in Israele, tanto massiccio da tirare fuori dai rifugi gli ingombranti lanciatori dei missili Fatah 110 (o Petah 110) in grado di colpire con precisione qualsiasi luogo in Israele. Una mossa che non poteva sfuggire né a Israele né ai satelliti americani. In un tempo particolarmente breve sono stati individuati migliaia di lanciatori di ogni tipo. Non decine, non centinaia, MIGLIAIA di lanciatori pronti a sparare razzi e missili di ogni tipo contro il territorio israeliano. L’attacco preventivo israeliano è stato così violento, così di grande portata che in meno di mezzora ha distrutto buona parte dei lanciatori allo scoperto lasciando a Hezbollah appena 300 tra razzi e droni. Nessun missile balistico. Uno che prepara migliaia di lanciatori tra cui decine di missili balistici, che quindi intende lanciare decine di migliaia di missili sullo Stato Ebraico, non ha in mente una «attacco significativamente debole», come vorrebbero farci intendere alcune patetiche “menti”, tutt’altro, ha in mente un attacco di grandissime proporzioni. Tra un po’ arriverà qualche invasato a spiegarci che Israele ed Hezbollah si erano accordati prima, che Nasrallah aveva fornito a Israele le coordinate di dov’erano i lanciatori ecc. ecc. La cruda e semplice verità è che Hezbollah ha ricevuto una lezione di indicibile grandezza, qualcosa che neppure gli israeliani osano quantificare pubblicamente per paura di mettere Nasrallah in un angolo e umiliarlo più di quanto non lo sia già stato. L’altra verità è che adesso Israele non vuole una guerra sul suo confine nord, non prima di aver eliminato del tutto la minaccia di Hamas, che rimane il fronte principale.
(Rights Reporter, 28 agosto 2024)
........................................................
Dal 7 ottobre più di 29.000 persone sono immigrate in Israele
Negli ultimi 11 mesi sono immigrate in Israele più di 29.000 persone in base alla Legge del Ritorno, tra cui 150 immigrati arrivati martedì 27 agosto dalla Francia. Questo annuncio di Yaakov Hagoel, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale (WZO), segna una netta inversione di tendenza dopo il forte calo dell’immigrazione nei mesi successivi all’attacco di Hamas. Come si legge su i24news, gli analisti attribuiscono questo rinnovato interesse a un’ondata di antisemitismo in Europa, negli Stati Uniti e altrove, dopo la campagna militare di Israele a Gaza. “Il 7 ottobre è scoppiata una guerra non contro lo Stato di Israele, ma contro il popolo ebraico. Oggi, in molti Paesi del mondo, è difficile essere ebrei, a scuola, al lavoro o durante la preghiera”, ha detto Hagoel agli immigrati francesi. I dati sull’immigrazione erano crollati subito dopo l’attentato del 7 ottobre. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, nell’ottobre 2023 sono immigrate in Israele solo 1.163 persone, rispetto alle 2.364 di settembre. Nell’ottobre 2022, la cifra era di 6.091 persone. Le cifre sono però aumentate lentamente nei mesi successivi. Da ottobre ad aprile sono arrivati in Israele più di 12.000 immigrati, secondo i dati del governo e dell’Agenzia Ebraica per Israele. Un portavoce di Nefesh B’Nefesh, che sostiene l’immigrazione nordamericana in Israele, ha dichiarato che l’immigrazione generalmente rallenta in autunno e in inverno. Da parte sua, Yigal Palmor, portavoce dell’Agenzia Ebraica, ha aggiunto: “Abbiamo registrato un notevole aumento delle richieste di aliyah, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia, ma anche in Canada e nel Regno Unito. Questo significa che la tendenza si invertirà sicuramente nei prossimi mesi, quando la situazione della sicurezza si stabilizzerà, come tutti speriamo che accada”.
(Bet Magazine Mosaico, 28 agosto 2024)
........................................................
Leni Riefenstahl, a Venezia un nuovo sguardo alla regista di Hitler
Fra i progetti fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, al via mercoledì 28 agosto, ci sarà anche Riefenstahl. Il nuovo documentario di Andres Veiel si presenta come un’introspettiva sulla celebre regista del Terzo Reich, Leni Riefenstahl, nota per aver diretto i capisaldi della propaganda nazista Trionfo della volontà e Olympia, dedicato ai Giochi di Berlino 1936. Tramite video privati, registrazioni e documenti inediti intende offrire un nuovo sguardo all’autrice che, pur vantando un legame diretto con Adolf Hitler, negò durante tutta la sua vita – terminata nel 2003 a 101 anni – qualsiasi legame stretto con il Führer o il ministro Goebbels. Come ha anticipato il Guardian, una lettera sembrerebbe confermare un suo coinvolgimento nel massacro degli ebrei in Polonia del 1939, che dopo la caduta del Reich ha sempre negato, sostenendo di non saperne nulla.
• Riefenstahl fu coinvolta in alcuni crimini di Hitler? Le anticipazioni del documentario
|
|
FOTO
La regista Leni Riefenstahl in uno scatto dell’epoca
|
|
Il nuovo documentario di Andres Veiel, che il pubblico non accreditato potrà vedere a Venezia la sera di giovedì 29 agosto, è il primo progetto a vantare un accesso totale alla tenuta della regista Leni Riefenstahl. Analizzando alcuni documenti personali, è spuntata fuori una lettera del 1952 in cui sembra essere certificata una sua responsabilità, seppur indiretta, nel massacro compiuto dai nazisti a Kónskie, nel centro-sud della Polonia, nel settembre 1939. Firmata da un ufficiale di grado inferiore al marito della regista, il maggiore della SA Peter Jacob, racconta che Riefenstahl avrebbe sollecitato a «rimuovere gli ebrei» da un mercato in cui doveva girare una scena. «Sbarazzatevi di loro», avrebbe intimato ai soldati, che risposero sparando direttamente su alcune persone in fuga. Parole che contrastano con quanto avrebbe detto nel 1976, confessando di aver conosciuto gli orrori compiuti dagli uomini di Hitler solo dopo la guerra.
«Se questa affermazione è vera, Riefenstahl ha giocato un ruolo cruciale nella morte degli ebrei a Kónskie», ha spiegato Veiel al Guardian. «I suoi conseguenti sensi di colpa potrebbero spiegare la sua negazione di aver assistito al crimine». Nel documentario troveranno spazio anche circa 30 ore di conversazioni telefoniche, registrate su cassetta, che la regista ebbe con ex membri del partito nazista che la tranquillizzarono dicendo che «moralità, decenza e virtù» del Reich non sarebbero morte con la sconfitta nella guerra mondiale. In risposta, Riefenstahl avrebbe concordato convinta che il popolo tedesco fosse «predestinato» a questo sviluppo. Nell’archivio sono spuntate lettere di ammiratori e corrispondenze in cui lei si rammarica per «gli ideali assassinati» del nazismo.
• Il documentario a Venezia racconta anche la realizzazione di Olympia Il progetto racconta anche Riefenstahl durante la realizzazione del documentario sulle Olimpiadi di Berlino 1936. La regista avrebbe più volte sottolineato il suo disprezzo per le persone fisicamente non all’altezza degli ideali nazisti di forza e bellezza che aveva promosso nel Trionfo della volontà. Dopo aver concluso Olympia, il collega Willy Zielke che ne curò il prologo fu ricoverato per psicosi ed esaurimento nervoso e successivamente sterilizzato con la forza. Pur a conoscenza di tutto ciò, Leni Riefenstahl non avrebbe fatto nulla in suo favore. Nelle 700 scatole di archivio, Veiel ha detto di aver trovato «un’attivista ancora convinta dell’ideologia nazista fino alla fine dei suoi giorni». A riprova della teoria, su un calendario è comparso l’appunto «Vota NPD», il partito neonazista.
(Lettera 43, 28 agosto 2024)
........................................................
“Sionista” è il nuovo lasciapassare, il nuovo capo di imputazione dell’inesausta retorica antisemita
di Iuri Maria Prado
Prima del 7 ottobre la dicitura “sionista” evocava una realtà ignominiosa ed era usata come un insulto in qualche scantinato neonazista o presso irrilevanti platee filo-terroriste bardate di kefiah. Nel giro di pochi mesi, all’esito di un processo indisturbato e lungo un binario di ignoranza mostruosa, quel termine – “sionista” – è diventato il contrassegno di una specificità maligna, la patacca dell’oltranzismo usurpatore e razzista che l’ebreo ostenta senza pudore dopo essersi levato dal petto la stella gialla che lo manteneva al suo posto.
Che cosa significhi “sionismo”, a quale movimento culturale, civile e politico quel termine rimandi, a quale realtà storica e sociale esso si riferisca, ecco, tutto questo semplicemente sfugge all’orizzonte delle cognizioni della fanciulla che, a capo di un corteo “pacifista”, a pochi passi dal Ghetto che fu rastrellato, grida “fuori i sionisti da Roma”. Sfugge, il significato del termine, sia al bifolco che dice all’ebreo “sionista di merda” sia all’avvocato che, difendendo in giudizio il responsabile di propaganda neonazista, spiega che il proprio assistito si limita a “combattere le politiche sioniste”.
I pionieri ottocenteschi e gli ebrei palestinesi socialisti che hanno costruito Israele sulla scorta dell’anelito sionista – uno dei tanti nell’arco di tempo che preparava e vedeva consumarsi il collasso dei sistemi colonial-imperiali – probabilmente non immaginavano che, cent’anni dopo, il loro liberarsi e difendersi dalla persecuzione millenaria di cui erano destinatari sarebbe diventato il nuovo capo di imputazione dell’inesausta retorica antisemita.
Il disprezzo e l’odio per il “sionista” erano i sentimenti di cui non aveva bisogno l’antisemitismo genocidiario prima della fondazione dello Stato Ebraico, perché il disprezzo e l’odio per gli ebrei erano autosufficienti e non occorreva ammantarli di troppe giustificazioni. Oggi – per quanto la propaganda anti-ebraica abbia assunto tratti di spigliatezza impensabili anche solo un anno fa – la libertà di dirsi antisemiti e la facoltà di esercitare la violenza antisemita trovano un impedimento solo nominalistico, un ostacolo che l’uso di quel termine, “sionista”, rimuove d’un colpo e con efficacia perfetta. Ma attenzione. Rispetto alle tradizionali menzogne (l’ebreo ladro, deicida, usuraio, pedofilo, portatore di malattie) che hanno scritto i capitoli della Bibbia antisemita e sono state usate per giustificare la persecuzione degli ebrei, l’addebito di “sionista” è simultaneamente più detestabile e pericoloso perché corrompe e trasfigura il significato di quella parola e la riformula in senso infamante.
(Il Riformista, 28 agosto 2024)
........................................................
Israele stringe il cerchio attorno al leader di Hamas latitante
Il tempo potrebbe essere scaduto per Yahya Sinwar. “Più di una volta siamo stati a pochi minuti di distanza”, ha dichiarato un ex agente dello Shin Bet.
di David Isaac
Il 61enne capo di Hamas Yahya Sinwar ha abbandonato i tunnel e si è travestito da donna per evitare di essere scoperto, come ha riferito lunedì il quotidiano britannico Daily Express, facendo sì che la mente del massacro del 7 ottobre fosse soprannominata “Mrs Dodgefire” sui social media. Finora, Sinwar è riuscito a evitare il colpo di grazia che Israele sta pianificando per lui - un destino che Israele ha riservato a molti leader di Hamas, tra cui Ismail Haniyeh a Teheran e Mohammed Deif a Gaza. Ma il tempo non sembra essere dalla parte di Sinwar. “Più di una volta ci siamo trovati a pochi minuti di distanza”, ha dichiarato al Daily Express Shalom Ben Hanan, un ex ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shin Bet) che è stato determinante nella caccia a Sinwar. “Come abbiamo scoperto in altre operazioni di eliminazione, Sinwar non rimane in tunnel sotterranei o in zone speciali sotterranee per più di 24-36 ore alla volta”, ha aggiunto Ben Hanan. “Sa che possiamo trovare questi nascondigli sotterranei con una tecnologia avanzata. E sa che deve continuare a muoversi nel caso in cui venga commesso un errore o troviamo fonti che ci dicono dove si trova. In questo modo può evitare di commettere un errore fatale”, ha detto. Un altro vantaggio per Israele è che Sinwar è impopolare presso una parte della popolazione della Striscia di Gaza. “Credono che li abbia portati alla rovina e che la situazione non potrà che peggiorare più a lungo rimarrà in vita”, ha dichiarato una fonte anonima al giornale. Il generale di brigata Dan Goldfuss, comandante della 98esima divisione paracadutisti delle Forze di Difesa israeliane, ha confermato in un'intervista rilasciata a Channel 12 l'11 agosto che le forze israeliane avevano mancato Sinwar per pochi minuti durante una missione: “Eravamo vicini. Eravamo nella sua zona. Siamo scesi sottoterra. La zona era 'calda’. Abbiamo anche trovato un sacco di soldi lì. Il caffè era ancora caldo. Le armi erano state... lasciate pochi minuti prima”. In un servizio domenicale sulla caccia a Sinwar, il New York Times ha riferito che egli aveva lasciato un bunker il 31 gennaio, pochi giorni prima dell'arrivo delle forze israeliane. Gli israeliani hanno diffuso un filmato di Sinwar di ottobre che lo mostra mentre cammina in un tunnel con alcuni dei suoi figli.
• ELETTRONICA RICONOSCIBILE
Il successo di Sinwar nell'eludere l'individuazione è dovuto principalmente al fatto che non usa mezzi di comunicazione elettronici rintracciabili ed è modellato su Osama bin Laden. “Si ritiene che si tenga in contatto con l'organizzazione che guida attraverso una rete di corrieri umani”, secondo il Times. Il giornale ha intervistato più di due dozzine di funzionari israeliani e statunitensi e ha scoperto che entrambi i Paesi hanno investito “enormi risorse” nella ricerca di Sinwar. Gli americani stanno monitorando le comunicazioni e hanno aiutato Israele con radar di terra per mappare la vasta “rete di tunnel” di Hamas. “Abbiamo fornito sforzi e risorse significative agli israeliani nella caccia ai vertici di Hamas, in particolare a Sinwar”, ha dichiarato il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan. “Abbiamo avuto persone in Israele sedute in una stanza con gli israeliani che lavoravano su questo problema. E, naturalmente, abbiamo molta esperienza nella ricerca di obiettivi di alto valore”. Gli Stati Uniti sono motivati in parte dalla speranza che, con la morte di Sinwar, Israele possa dichiarare la vittoria e porre fine alle operazioni militari, si legge nel rapporto. Lo Shin Bet, insieme all'Intelligence militare delle Forze di Difesa israeliane, ha istituito un'unità speciale per rintracciare una lista approvata dal Gabinetto di leader di Hamas da uccidere, tra cui Sinwar è il più importante. Sebbene sia riuscito a sfuggire alle forze israeliane, l'anello intorno a lui si sta stringendo. Nelle prime settimane di guerra, Sinwar si è nascosto nei tunnel di Hamas a Gaza City, ma da allora si è trasferito a Khan Yunis. Ha anche usato telefoni cellulari e satellitari e ha persino parlato con membri di Hamas a Doha, ma da allora ha smesso di farlo. “Le agenzie di intelligence americane e israeliane sono state in grado di monitorare alcune di queste chiamate, ma non sono riuscite a localizzare la sua posizione”, riporta il Times. In passato rispondeva ai messaggi nel giro di pochi giorni, ma i negoziatori degli ostaggi e altre persone affermano che ora impiega molto più tempo a rispondere. E mentre si affidava a un gruppo ristretto di leader politici e militari di Hamas a Gaza per le decisioni politiche, quella cerchia si sta restringendo, ha osservato il Times. Tra i confidenti di Sinwar uccisi ci sono >MDeif,
Marwan Issa, Rawhi Mushtaha, Izzeldin al-Haddad e Muhammad.
(Israel Heute, 27 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Iniziate in Israele le commemorazioni del 7 ottobre
Undici mesi dopo l’attacco a sorpresa di Hamas, sono iniziate domenica scorsa le commemorazioni per alcune delle centinaia di vittime; con l’anno bisestile, ulteriori cerimonie segnano un anniversario di un anno, ponendo una sfida logistica per le famiglie e l’esercito Le funzioni commemorative per i soldati dell’IDF e le vittime del terrorismo uccisi il 7 ottobre sono iniziate domenica, segnando 11 mesi ebraici dall’attacco a sorpresa di Hamas alle città di confine di Gaza. Poiché centinaia di soldati dell’IDF e di civili israeliani sono caduti in quel tragico sabato – la maggior parte prima del tramonto del 22 di Tishrei – le prime commemorazioni si terranno il 22 di Av, da domenica sera a lunedì sera. Negli anni passati, i rappresentanti dell’IDF e i membri delle unità potevano essere al fianco delle famiglie in questo giorno difficile. Tuttavia, l’infuriare della guerra rappresenta una sfida unica, con scelte difficili da affrontare per i soldati delle unità che hanno subito gravi perdite. Molti non hanno potuto partecipare ai funerali a causa dei combattimenti in corso, e quelli che ora possono partecipare alle commemorazioni devono decidere quale cimitero visitare e quale tomba di un compagno onorare. Quest’anno, essendo un anno bisestile nel calendario ebraico, vedrà un’impennata di commemorazioni nelle prossime settimane. Alcune famiglie osservano l’anniversario degli 11 mesi, seguito da commemorazioni che segnano un anno dalla morte, mentre altre aderiscono alla tradizione di tenere una commemorazione anche il 13° mese durante un anno bisestile. Alcune famiglie scelgono di tenere tutte e tre le commemorazioni. “Abbiamo un centro di comando centrale all’interno del Dipartimento vittime dell’IDF, dove gli ufficiali addetti alle vittime si coordinano con le famiglie per stabilire le date preferite”, ha spiegato il tenente colonnello Meital Samet-Cohen, capo della sezione di collegamento con le famiglie dell’IDF. “Le famiglie comunicano i loro desideri e noi ci coordiniamo con l’Unità per le commemorazioni del Ministero della Difesa, occupandoci di tutto, dagli impianti audio, ai baldacchini, ai trasporti, fino all’organizzazione di un cantore militare per la cerimonia”. E ha aggiunto: “Lavoriamo a stretto contatto con le famiglie per ogni data scelta, comprese quelle che optano per più commemorazioni”. Per quanto riguarda la situazione attuale, il tenente colonnello Samet-Cohen ha dichiarato: “I rappresentanti delle unità parteciperanno alle commemorazioni, probabilmente dal fronte interno, poiché siamo ancora impegnati in combattimento. Il nostro principio guida è quello di mantenere il legame con l’unità, segnato dal colore del berretto e dalle insegne”. Il tenente colonnello Samet-Cohen ha anche sottolineato le sfide logistiche, dicendo: “Riceviamo richieste da parte di famiglie in lutto che chiedono che un nipote o uno zio in combattimento partecipi alla commemorazione, e ci mettiamo in contatto con i comandanti per sottolineare l’importanza, come facciamo per i membri dell’unità”. Nonostante le numerose commemorazioni – dovute sia alle gravi perdite che all’anno bisestile – manteniamo standard elevati e forniamo tutto il supporto necessario, il che comporta notevoli sfide logistiche”. Un problema sollevato è stato quello della programmazione di più commemorazioni nello stesso cimitero. “Per esempio, nella stessa sezione ci sono soldati caduti nello stesso giorno e le loro famiglie hanno chiesto di tenere le commemorazioni alla stessa ora, il che non è ideale”, ha spiegato Samet-Cohen. “Chiediamo alle famiglie di modificare leggermente l’orario. Il giorno dei funerali, molti si sono svolti in tempi stretti, soprattutto nelle aree a portata di razzo. Oggi, durante i funerali, ci concentriamo sul distanziare gli orari per dare a ogni famiglia il tempo di cui ha bisogno. È un processo delicato e sensibile. I nostri ufficiali addetti alle vittime lavorano 24 ore su 24 con immensa sensibilità, che è molto apprezzata nonostante le sfide”.
(Israele 360, 27 agosto 2024)
........................................................
Il Ministro della Sicurezza raccoglie contrasti
Lo Status quo prevede che soltanto i musulmani possono pregare sul Monte del Tempio
GERUSALEMME - Il Ministro della Sicurezza israeliano Itamar Ben-Gvir (Forza ebraica) ha ribadito ancora una volta la sua opinione secondo cui i fedeli ebrei e musulmani hanno gli stessi diritti sul Monte del Tempio. Così come i musulmani possono pregare al Muro del Pianto, lo stesso diritto dovrebbe valere per gli ebrei sul Monte del Tempio. Se potesse, vi costruirebbe sopra una sinagoga, ha dichiarato lunedì alla Radio dell'esercito israeliano. Ben-Gvir ha anche chiesto: “Perché un ebreo dovrebbe avere paura di pregare? Perché poi Hamas si arrabbierebbe?” Non è vero che si permette di fare tutto quello che vuole sul Monte del Tempio: “Se avessi fatto tutto quello che volevo fare, la bandiera israeliana avrebbe sventolato lì molto tempo fa”. Ma impedire alle persone di pregare è illegale: “Le regole attuali permettono la preghiera sul Monte del Tempio, punto e basta”.
Dopo la conquista del Monte del Tempio da parte degli israeliani nella Guerra dei Sei Giorni, è stato concordato lo status quo: La polizia israeliana è responsabile della sicurezza sul Monte, mentre il Waqf, l'autorità religiosa musulmano-giordana, è responsabile delle questioni religiose. Questo stabilisce che i non musulmani non possono pregare sul Monte del Tempio.
• LINEA DEL GOVERNO: LO STATUS QUO RIMANE INVARIATO Le dichiarazioni del ministro sono state immediatamente registrate dall'opposizione: l'Autorità Palestinese (AP) ha definito la richiesta “un invito esplicito a distruggere la Moschea di Al-Aqsa e a sostituirla con un luogo di culto ebraico”. Il Ministero degli Esteri ha invitato gli alleati internazionali a “esercitare pressioni su Israele per costringerlo a porre fine alle pratiche, alle dichiarazioni e agli atteggiamenti provocatori di Ben-Gvir”. Gli israeliani sono stati più rapidi dell'Autorità palestinese nel presentare le loro critiche: Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha immediatamente fatto sapere che “non c'è stato alcun cambiamento dello status quo ufficiale sul Monte del Tempio”. Il ministro degli Interni Moshe Arbel, del partito ultraortodosso Shass, ha invitato Netanyahu a licenziare immediatamente il ministro della Sicurezza. La sua “scarsa capacità di pensiero [ted. Mangel an Denkvermögen] potrebbe costarci sangue”. Le richieste di Ben-Gvir sono “irresponsabili e mettono in discussione l'alleanza strategica di Israele con gli Stati musulmani come parte dell'alleanza contro il malvagio asse iraniano”, ha affermato. Anche Giordania, Egitto e Arabia Saudita hanno commentato l'incidente. La Giordania ha spiegato che il Monte del Tempio è destinato esclusivamente alla preghiera musulmana. Lo Stato prenderà tutte le misure necessarie “per prevenire gli attacchi di Ben-Gvir al Monte del Tempio”. Il Ministero degli Esteri saudita ha ribadito il suo “categorico rifiuto di queste dichiarazioni estremiste e provocatorie e il suo rifiuto delle continue provocazioni di musulmani in tutto il mondo”.
• DILEMMA: DIVIETO O ALLENTAMENTO? Anche la rivista ultraortodossa “Jated Ne'eman” si è dichiarata fortemente in disaccordo con la richiesta. Martedì ha stampato in prima pagina un articolo in arabo che condanna le richieste del ministro. Ha scritto: “Con la sua stupidità, il ministro Ben-Gvir sta mettendo in pericolo gli abitanti della Terra d'Israele”. Inoltre, hanno chiarito: “A nome dei nostri venerati rabbini, dichiariamo pubblicamente: è noto che secondo la legge ebraica, la Halacha, l'ascesa ebraica al Monte del Tempio, a cui i musulmani si riferiscono come ‘complesso di Al-Aqsa’, è rigorosamente vietata a tutte le generazioni. Questo punto di vista non è cambiato e rimane immutato”. Il Monte è venerato dagli ebrei religiosi come un luogo sacro perché lì sorgevano i due templi ebraici. Molti ebrei religiosi osservano gli antichi divieti rabbinici di visitare il sito. Questo è dovuto al timore di entrare accidentalmente nel “Santo dei Santi”. Negli ultimi anni, tuttavia, sempre più credenti hanno chiesto di poter pregare anche su quel monte. Secondo l'organizzazione “Bejadenu” (Nelle nostre mani), che lavora per rafforzare i legami ebraici con il Monte del Tempio, circa 50.000 ebrei hanno visitato il Monte del Tempio dall'inizio dell'anno ebraico 5784.
(Israelnetz, 27 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Davos: ragazzo ebreo aggredito al grido ‘Free Palestine’
Ennesimo atto antisemita in Europa, questa volta accaduto nella cittadina svizzera di Davos: come riporta la RSI, venerdì 23 agosto un ragazzo ebreo residente in Inghilterra sulla Promenade di Davos è stato colpito da due uomini che hanno gridato più volte “Free Palestine”. “Mi hanno colpito all’improvviso. Li ho spinti via e sono scappato. Mi hanno seguito, e urlandomi contro “Free Palestine”, mi hanno sputato in faccia”, ha dichiarato il ragazzo, Eli, alla Radio Svizzera Italiana. “All’inizio ero abbastanza perplesso – ha dichiarato il segretario generale della Federazione svizzera delle comunità israelite Jonathan Kreutner -. Non è una cosa che succede spesso in Svizzera. E negli ultimi tempi non ho mai sentito che una cosa così sia successa a Davos.” La vittima ha sporto denuncia, mentre la polizia per ora non si sbilancia. Non è la prima volta che nella cittadina svizzera si registrano episodi antisemiti. Nel febbraio di quest’anno un locale del comprensorio sciistico di Pischa, vicino a Davos, aveva appeso alla propria porta il cartello “non si affittano più attrezzature da sci agli ebrei”.
(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2024)
........................................................
Antica pietra del Tempio di Gerusalemme in esposizione
di Michelle Zarfati
L’archeologia ha spesso il potere di parlarci dal passato. Sei anni dopo essere caduta dal Muro Occidentale, a Gerusalemme, una massiccia pietra del peso di circa 400 chilogrammi (quasi 900 libbre) è stata trasferita per l’esposizione al pubblico. La pietra ora “riposa” accanto ad altri massi caduti nel Giardino Archeologico di Gerusalemme al Davidson Center. Nel 2018, poco dopo la preghiera serale per il giorno del digiuno di Tisha B’Av, la pietra si è staccata dal muro ed è caduta da un’altezza di diversi metri, sulla piattaforma della sezione Ezrat Yisrael vicino alla piazza del Muro Occidentale. Una donna, intenta a pregare è stata testimone di tutta la scena.
Da allora, la pietra è stata sottoposta a test e ricerche archeologiche approfondite, secondo la Jewish Quarter Reconstruction and Development Company. “Questa pietra, rappresenta una testimonianza importante di migliaia di anni di preghiera, speranza e fede”, ha spiegato il CEO della Jewish Quarter Reconstruction and Development Company Herzl Ben Ari. “Lo studio di questi massi è più di un semplice evento fisico; è un’opportunità per collegare il passato con il presente, apprezzare la ricca storia di questo luogo sacro e preservare la connessione tra le generazioni”.
Dopo la caduta, l’Israel Antiquities Authority ha condotto un’indagine ingegneristica sulla conservazione dei massi del Muro del Pianto. Che ha poi portato all’esposizione della pietra. Ezrat Yisrael, il sito in cui è caduta la pietra, si trova a sud della piazza centrale del muro ed è riconosciuta come la nota area di preghiera delle donne del Muro Occidentale – parte dell’antico muro di contenimento del Monte del Tempio. D’ora in poi, il masso verrà esposto e sarà visibile assieme a molte altre pietre simili, una testimonianza dal passato di quanto l’area del Tempio di Gerusalemme abbia sempre avuto una forte sacralità per il popolo ebraico.
(Shalom, 27 agosto 2024)
........................................................
Sinwar si muove a Gaza vestito da donna: la rivelazione dell’intelligence israeliana
Secondo fonti dell’intelligence israeliana citate dal Daily Express e riprese da i24news, Yahya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza, ha adottato una strategia di sopravvivenza a dir poco inaspettata. L’uomo più ricercato da Israele starebbe camminando per le strade di Gaza travestito da donna, lasciando periodicamente i tunnel sotterranei per evitare di essere individuato.
Shalom Ben Hanan, ex alto funzionario dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno di Israele), ha spiegato che Sinwar non rimarrebbe nei tunnel per più di 24-36 ore, consapevole del fatto che la tecnologia moderna consente di individuarlo anche sottoterra. Questa tattica di continui spostamenti e camuffamenti sarebbe la sua risposta agli incessanti sforzi di Israele per catturarlo o eliminarlo.
I servizi segreti israeliani stanno attualmente combinando mezzi tecnologici e intelligence umana per cercare di localizzare Sinwar. Ritengono che si trovi spesso in luoghi visibili, mescolato alla popolazione civile, il che complica notevolmente le operazioni per neutralizzarlo.
In un articolo, il New York Times ha rivelato un’operazione segreta condotta dalle forze d’élite di Tsahal lo scorso gennaio. Questi commando si sono infiltrati nei tunnel nel sud della Striscia di Gaza nella speranza di catturare Yahya Sinwar. Tuttavia, il leader di Hamas sarebbe riuscito a fuggire poco prima dell’arrivo delle forze israeliane, svanendo nel nulla. Il quotidiano americano conclude con una nota critica: “La sua capacità di sfuggire alla cattura o alla morte ha impedito a Israele di ottenere un successo militare nella guerra”.
(Bet Magazine Mosaico, 26 agosto 2024)
........................................................
La scoppola di Israele a Hezbollah cambia tutto
Solo tra qualche giorno potremo avere veramente l'idea di quanto forte sia stata la scoppola inferta da Israele a Hezbollah. Ma già da ora cambia tutto sul fronte nord.
di Maurizia De Groot Vos
Non credo in tutta onestà che ieri ci si sia resi conto delle reali dimensioni dell’attacco preventivo condotto da Israele contro Hezbollah. I caccia israeliani hanno sorpreso allo scoperto migliaia di lanciatori di ogni tipo, dai razzi katiuscia fino ai pachidermici lanciatori per i missili balistici Petah 110 che – nei piani di Hezbollah – insieme ai droni dovevano essere quella seconda ondata che avrebbe colpito i bersagli designati dopo che migliaia di razzi avevano saturato le difese israeliane. A Hezbollah sono rimasti circa 300 razzi da lanciare su Israele. Piccola curiosità, tra le poche cose che sono riusciti a colpire c’era un allevamento di polli, fatto questo che ha scatenato l’ilarità sui social, specie da parte araba, che ha prodotto una infinità di meme su “Nasrallah lo sterminatore di polli”. Il patetico discorso del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, andato in onda ieri sera sulla rete del gruppo terrorista nel quale affermava che l’attacco era stato un successo, è servito solo a confermare quanto grossa fosse stata la sberla ricevuta da Hezbollah. Parliamo della distruzione di migliaia di lanciatori con relativi equipaggi, anche se Hezbollah parla di soli tre morti. Una pioggia di bombe concentrata in poco tempo come non si era mai vista che non solo ha dimostrato l’efficienza dell’aviazione israeliana, ma soprattutto ha dimostrato la letalità della intelligence di Gerusalemme. Ora sul fronte nord cambia tutto. Anche se Nasrallah ha fatto capire che intende muoversi verso una de-escalation, Israele rimane fermo sul punto che Hezbollah si deve ritirare oltre la linea blu delimitata dal fiume Litani. Non solo, se i terroristi libanesi intendessero riprendere con lo stillicidio di razzi visto dall’8 ottobre ad oggi, si sbagliano di grosso. Israele intende far rientrare le migliaia di sfollati dai villaggi e kibbutz del nord il prima possibile. Il che vuol dire applicazione alla lettera e in tutte le sue componenti della risoluzione 1701 dell’ONU. Spetta a UNIFIL farla rispettare, diversamente lo farà Israele.
(Rights Reporter, 26 agosto 2024)
........................................................
Carenze logistiche nell'IDF: un esercito sotto pressione nel bel mezzo del conflitto
La guerra in corso sta rivelando segni di carenze logistiche all'interno di Tsahal, l'esercito israeliano, sollevando preoccupazioni sulla sua capacità di sostenere le operazioni a lungo termine. Recenti rapporti indicano una carenza di uniformi di tipo B e di veicoli blindati usurati e fatiscenti. Mentre l'esercito sostiene di avere l'85% di controllo dei propri strumenti nelle unità di manovra e che la carenza di uniformi riguarda solo alcune unità, le testimonianze dei soldati sul campo dipingono un quadro molto più preoccupante.
I prolungati combattimenti a Gaza e nel nord di Israele hanno messo a dura prova le risorse dell'IDF. In molte unità, i soldati si trovano ad affrontare una “economia dei pezzi di ricambio”, in cui la gestione delle risorse sta diventando critica. Tra i problemi più urgenti c'è la mancanza di parabrezza per carri armati e veicoli blindati, essenziali per la sicurezza e l'efficacia delle operazioni militari. Nonostante le rassicurazioni dell'esercito sulla disponibilità di uniformi, molti soldati, in particolare quelli in addestramento, riferiscono di una grave carenza di uniformi B, che a volte li costringe a indossare abiti strappati a causa della mancanza di rifornimenti.
La situazione è aggravata dalle condizioni sul campo. I soldati impegnati in turni prolungati hanno difficoltà a cambiare le uniformi e alcuni sono costretti a combattere in veicoli blindati i cui sistemi essenziali, come l'aria condizionata, non funzionano più. Questi malfunzionamenti tecnici aggiungono ulteriore stress ai combattenti, che devono operare in condizioni già estremamente difficili.
Per far fronte a queste sfide, l'IDF ha introdotto una “economia di guerra” volta a dare priorità alla distribuzione dei pezzi di ricambio. Ad esempio, i motori ricondizionati vengono trasferiti in via prioritaria alle unità di manovra di Gaza e del nord, dove sono più urgentemente necessari. L'esercito ha anche abbassato il limite di chilometraggio per i veicoli RCM, cercando di rinnovare le attrezzature più vecchie per rafforzare la capacità di affrontare le minacce attuali.
Tuttavia, gli ufficiali militari riconoscono che queste misure non sono sufficienti a soddisfare completamente le esigenze logistiche. Un cessate il fuoco a Gaza potrebbe fornire un'opportunità cruciale per aumentare il livello di abilità degli strumenti e delle attrezzature dell'IDF, consentendo di effettuare riparazioni e ristrutturazioni essenziali dopo lunghi mesi di combattimenti. Questa tregua sarebbe fondamentale per ripristinare la piena capacità operativa dell'esercito israeliano e garantirne la prontezza per le sfide future.
In breve, la situazione logistica dell'IDF sottolinea le crescenti pressioni di un conflitto prolungato. Le attuali carenze, sebbene gestite in modo proattivo, rivelano la fragilità della catena di approvvigionamento militare in tempo di guerra. Il ritorno alla piena efficienza dipenderà non solo dalla fine delle ostilità, ma anche dalla capacità dell'IDF di ripristinare rapidamente le proprie risorse e di adattarsi a un ambiente sempre più complesso ed esigente.
(JForun, 26 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Torino celebra 600 anni di storia ebraica: città capofila della Giornata Europea della Cultura Ebraica 2024
Il 15 settembre, il capoluogo piemontese sarà al centro delle celebrazioni europee con un ricco programma di eventi dedicati al tema della famiglia, tra tradizione e dialogo interculturale
di Caterina Malanetto
TORINO – Domenica 15 settembre 2024, Torino sarà il cuore pulsante della venticinquesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica#d22d14;">, un appuntamento che coinvolge 27 Paesi europei e ben 106 località italiane. La scelta del capoluogo piemontese come città capofila non è casuale: quest’anno ricorrono infatti i 600 anni dalla nascita della comunità ebraica torinese#d22d14;">, la cui presenza fu attestata per la prima volta nel 1424. Un anniversario che rende ancora più significativo l’evento, che verrà inaugurato simbolicamente a Torino alla presenza delle autorità locali e nazionali.
• UN EVENTO DI PORTATA INTERNAZIONALE Coordinata a livello europeo dall’AEPJ (European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage) e in Italia dall’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), la Giornata Europea della Cultura Ebraica è un’occasione per conoscere e apprezzare il patrimonio storico, architettonico e artistico ebraico, e riflettere sul contributo fondamentale che ebrei ed ebraismo hanno dato e continuano a dare alle società in cui vivono.
L’Italia si distingue come Paese leader dell’iniziativa, vantando la più ampia partecipazione e la maggiore diffusione territoriale in Europa. Questo successo è il frutto di una virtuosa collaborazione tra le Comunità Ebraiche, i Comuni, gli Enti locali e numerose associazioni, che ogni anno rendono possibile la realizzazione di un programma ricco e variegato.
• IL TEMA DEL 2024: LA FAMIGLIA Il tema prescelto per l’edizione 2024 è “la famiglia#d22d14;">“, un argomento che verrà declinato attraverso molteplici prospettive artistiche e culturali. Dalle appassionanti storie di famiglia narrate nella Bibbia alle famiglie ebraiche che hanno segnato la storia, la riflessione si allargherà alla concezione ebraica dell’educazione, fondata sulla continuità della tradizione e, al contempo, sulla valorizzazione dell’unicità di ogni individuo.
Inoltre, la Giornata offrirà l’opportunità di esplorare l’idea biblica e talmudica delle “famiglie della terra”, un concetto che afferma l’uguaglianza di ogni popolo e individuo, tutti figli di un unico Dio, e quindi meritevoli degli stessi diritti fondamentali di libertà, rispetto e solidarietà.
Questo approccio permetterà di collegare passato e presente, tradizioni e trasformazioni, affrontando temi cruciali per le famiglie contemporanee, come le questioni sociali, etiche e bioetiche. L’obiettivo è tracciare un punto di vista ebraico sulla famiglia, senza dimenticare la pluralità e diversità di tempi, geografie e interpretazioni.
• UN RICCO CALENDARIO DI EVENTI Il programma di Torino e delle altre città italiane partecipanti sarà costellato di eventi: conferenze, mostre, spettacoli, visite guidate e laboratori permetteranno ai visitatori di immergersi nella cultura ebraica, esplorando sia le sue radici storiche sia la sua influenza contemporanea.
Tra le iniziative di rilievo, spicca il progetto “Itinerari Culturali Ebraici in Emilia Romagna#d22d14;">”, realizzato dall’Enciclopedia Treccani in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Questo progetto mira a valorizzare le località emiliane che partecipano alla Giornata, promuovendo la conoscenza del ricco patrimonio ebraico della regione.
• TORINO E LA SUA EREDITÀ EBRAICA Torino è stata scelta come città capofila anche per il ruolo centrale che la comunità ebraica ha rivestito nel tessuto sociale e culturale della città. Sin dal XV secolo, la presenza ebraica ha contribuito a plasmare l’identità del capoluogo piemontese, arricchendolo con un patrimonio culturale, architettonico e intellettuale di grande valore.
La Sinagoga di Torino#d22d14;">, situata nel cuore della città, è uno dei simboli di questa eredità, così come il Cimitero Monumentale Ebraico#d22d14;">, testimonianza della lunga storia della comunità. Durante la Giornata, questi luoghi saranno aperti al pubblico, offrendo l’occasione di scoprire storie, tradizioni e monumenti che raccontano secoli di vita ebraica a Torino.
• UN'OCCASIONE DI DIALOGO E INCONTRO La Giornata Europea della Cultura Ebraica si fonda sulla convinzione che la disponibilità a conoscere e riconoscere l’altro sia il principale strumento per contrastare vecchi e nuovi stereotipi. Attraverso la promozione del dialogo interculturale, l’evento rappresenta un’opportunità per rafforzare i legami tra le diverse comunità e per costruire una società più inclusiva e solidale.
Con la sua lunga storia e la sua ricchezza culturale, Torino sarà il palcoscenico ideale per questa giornata di celebrazione, riflessione e incontro, un’occasione unica per riscoprire il valore dell’identità ebraica e il suo ruolo cruciale nella nostra storia comune.
(Quotidiano Piemontese, 26 agosto 2024)
........................................................
Johnson & Johnson acquista l’israeliana V-Wave per curare il cuore
È una delle “exit” meglio pagate nella storia delle startup israeliane. Il colosso farmaceutico Johnson & Johnson ha annunciato l’acquisto dell’israeliana V-Wave, specializzata nella produzione di apparecchi biomedici per il trattamento dell’insufficienza cardiaca e dell’ipertensione polmonare, per la cifra di 1,7 miliardi di dollari. Al centro dell’acquisizione c’è un piccolo impianto, frutto di oltre due decenni di ricerca. “Questa tecnologia aiuta a trattare i pazienti con insufficienza cardiaca riducendo la pressione nell’atrio sinistro, migliorando i sintomi clinici come la mancanza di respiro dei pazienti”, ha affermato Gadi Keren, l’ex direttore del dipartimento di cardiologia dell’ospedale Ichilov di Tel Aviv e sviluppatore del dispositivo. Come racconta la Tribune Juive, “la sua a messa a punto ha richiesto più di un decennio di ricerche, tra cui la sperimentazione animale conclusa nel 2013 e un primo impianto sull’uomo in Israele. Ciò che rende questo successo particolarmente notevole è l’impegnativo percorso normativo che V-Wave ha seguito:.la società ha preso la via di aiuto anticipato della Food & Drugs Administration degli Stati Uniti, nota per essere molto rigorosa per i dispositivi medici”.
(moked, 26 agosto 2024)
........................................................
Un bombardamento preventivo di Israele scongiura il massiccio attacco pianificato da Hezbollah
di Ugo Volli
• LA MINACCIA
Fiammata di guerra al Nord. Dopo più di tre settimane dall’eliminazione del suo numero due, Fouad Sukar, avvenuta a Beirut il 30 luglio, e l’annuncio continuamente ripetuto di una prossima “terribile vendetta”, il movimento terrorista Hezbollah ha provato a mantenere la minaccia. La notte scorsa ha messo in posizione di lancio molte migliaia di missili e centinaia di droni, che avevano per obiettivo le città di Israele e a quanto pare in particolare le sedi di Tel Aviv del comando dell’esercito e del Mossad. Israele però ha dimostrato ancora una volta di avere fonti di informazione in profondità nei comandi di Hezbollah e inoltre possiede avanzatissimi strumenti tecnologici di osservazione perennemente puntati sull’apparato terrorista in Libano. Ha quindi compreso perfettamente in anticipo la minaccia e ha reagito secondo piani ben predisposti in anticipo, da un lato allertando la popolazione civile e sospendendo per qualche ora le operazioni all’aeroporto Ben Gurion, dall’altro bombardando massicciamente le rampe di lancio di Hezbollah.
• L’AZIONE Come comunicano le fonti militari in Israele, circa cento jet da combattimento delle forze aeree israeliane si sono alzati all’alba e hanno colpito e distrutto migliaia di lanciarazzi di Hezbollah che si trovavano nel Libano meridionale. La maggior parte di questi lanciatori erano puntati verso il nord di Israele e alcuni verso il centro di Israele. Più di quaranta aree di lancio in Libano sono state colpite durante gli attacchi. Circa seimila razzi, droni e lanciatori che Hezbollah aveva pianificato di lanciare contro Israele sono stati distrutti. Si stima che Hezbollah sia riuscito finora a sparare in tutto 210 missili e una ventina di droni, senza provocare danni gravi o vittime. L’organizzazione terroristica ha affermato prima che erano attese ondate aggiuntive, poi ha sostenuto che Israele non era riuscito a impedire la sua vendetta, che ora era compiuta.
• LA DICHIARAZIONE DI NETANYAHU Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha aperto la riunione del gabinetto politico-di sicurezza nella sede dei comandi militari a Tel Aviv, facendo riferimento all’attacco preventivo. “Stamattina abbiamo identificato i preparativi di Hezbollah per attaccare Israele. In accordo con il ministro della Difesa e il capo di stato maggiore delle forze armate, abbiamo ordinato all’aeronautica di avviare un’azione per eliminare la minaccia”, ha detto Netanyahu. “Abbiamo intrapreso potenti azioni per sventare le minacce, eliminando migliaia di razzi che erano diretti verso il nord di Israele. Siamo determinati a fare tutto il possibile per difendere il nostro Paese, per far tornare i residenti del nord nelle loro case in sicurezza e per continuare a sostenere una semplice regola: chiunque ci faccia del male, noi gli faremo del male”.
• UNA VITTORIA SIGNIFICATIVA Riaperto l’aeroporto Ben Gurion, normalizzata la situazione nelle città, ritornati alla base gli aerei israeliani, questo scambio di colpi sembrerebbe concluso con una netta vittoria israeliana. L’incapacità di Hezbollah di portare danni in Israele, anche per rappresaglia a un colpo importante come l’uccisione di Sukar, va al di là delle più ottimistiche previsioni. Israele si è potuto difendere da solo, senza far ricorso all’aiuto delle forze americane nella regione e ha potuto mostrare l’efficacia e la legittimità della sua azione preventiva. Gli obiettivi colpiti sono esclusivamente militari e non dovrebbero poter essere usati nella campagna di delegittimazione contro lo stato ebraico – mostrando così anche la precisione tecnica delle armi israeliane e il livello elevato delle sue informazioni sul nemico. La propaganda di Hezbollah e dell’Iran sulla vendetta si è risolta in un’azione debole e fallimentare, che rafforza per contrasto il prestigio delle forze armate israeliane e la loro capacità di deterrenza.
• LE PROSPETTIVE Ci sono ora due possibilità per i nemici di Israele. O l’asse terrorista incassa una nuova sconfitta e non compie ulteriori azioni aggressive, o prova a reagire rilanciando la minaccia, il che porterebbe a un’escalation, fino alla guerra regionale da molti temuta. Per il momento i segnali vanno nella prima direzione. Israele dal canto suo non vuole che il conflitto si estenda, ma non può accettare che vaste aree della Galilea siano ancora sotto la minaccia continua di Hezbollah e quindi ha la necessità di colpire ancora le armi e l’organizzazione terroristica e di allontanarla dai propri confini. Continuerà quindi a colpire le strutture e le truppe, in particolare i comandanti del gruppo terrorista, ma probabilmente senza continuare il livello di intensità di oggi.
(Shalom, 25 agosto 2024)
........................................................
Non imitate i gentili, nella vanità della lor mente
di Marcello Cicchese
EFESINI, cap. 4:
- Questo dico adunque, e protesto nel Signore, che voi non camminiate più come camminano ancora gli altri gentili, nella vanità della lor mente;
- intenebrati nell'intelletto, alieni dalla vita di Dio, per l'ignoranza che è in loro, per l'induramento del cuor loro.
- I quali, essendo divenuti insensibili ad ogni dolore, si sono abbandonati alla dissoluzione, da operare ogni immondizia, con insaziabile cupidità.
- Ma voi non avete così imparato Cristo;
- se pur l'avete udito, e siete stati in lui ammaestrati, secondo la verità che è in Gesù:
- di spogliare, quant'è alla primiera condotta, l'uomo vecchio, il qual si corrompe nelle concupiscenze della seduzione;
- e d'essere rinnovati per lo Spirito della vostra mente;
- e d'esser vestiti dell'uomo nuovo, creato, secondo Iddio, in giustizia, e santità di verità.
La traduzione del testo qui riportato è tratta dalla Bibbia di Giovanni Diodati, che fino alla prima metà del secolo scorso era la traduzione largamente più usata nel mondo evangelico italiano. La usiamo qui non perché sia l’unica, autentica versione italiana ispirata, ma per volgere l’attenzione su termini ed espressioni ora poco usate, ma appunto per questo capaci di attirare l’attenzione sul loro significato. Chi vuole, può confrontare questo testo con quello ora più usato della Nuova Riveduta. Si può subito fissare l’attenzione sul termine adunque, da cui si capisce che le esortazioni morali che seguono vanno viste come una conseguenza della possente esposizione dottrinale che l’apostolo Paolo ha fatto nei capitoli precedenti. Paolo parla a persone che sono state ammaestrate secondo la verità che è in Gesù, dunque è una trattazione di moralità che procede dalla divina verità, non un moralismo generico prodotto da umana ideologia. Paolo si rivolge a chi conosce e ha accettato la verità esposta nei capitoli precedenti, ma il suo dire può essere utile anche a chi non li conosce ancora, perché chi è davvero in una posizione di ricerca, è bene che sappia subito qual è il gusto della verità esposta nella Bibbia. Perché se non è di suo gusto deve essere libero di rivolgersi altrove, senza però avere la libertà di evitarne le conseguenze. Risalta subito l’espressione altri gentili, che in altre edizioni è tradotta con “pagani”. E’ un’incertezza collegata al termine greco “etnos”. Chi sono gli “etnici” del Nuovo Testamento? Sono i generici non credenti in Gesù (pagani) o i non ebrei (gentili)? La domanda è tutt'altro che oziosa, perché da come si traduce possono scaturire diversi significati. In questo testo la Diodati traduce altri gentili, anche se il termine altri non compare nell'originale, ma è per sottolineare che si intendono i gentili altri, cioè quelli che essendosi convertiti a Cristo hanno preso le distanze dai costumi depravati dei loro simili che si rotolano in ogni immondizia, con insaziabile cupidità. Non è così che avete imparato Cristo, ricorda Paolo. I gentili infatti hanno dovuto imparare che esiste un Messia, perché non lo sapevano; gli ebrei invece lo sapevano, e anche se molti di loro non avevano riconosciuto in Gesù il Messia promesso dai profeti, sapevano perfettamente che la legge di Mosè non avrebbe mai approvato i costumi qui descritti dall'apostolo. Non avevano dunque bisogno di raccomandazioni così forti, proprio come oggi non è necessario raccomandare a ebrei ultraortodossi di non partecipare a
licenziose manifestazioni gay pride o a idolatrici festival psy-trance, perché lo sanno già, e infatti non vi partecipano. Anche se non credono in Gesù. Nelle
traduzioni si riconosce una linea di tendenza costante: più sono moderne, più si attenuano in esse i riferimenti all'ebraicità del testo. Il concreto si evolve in astratto e lo storico in universale. Ecco un esempio di traduzione molto moderna: "Vi prego, dunque, anzi vi scongiuro nel nome del Signore: non vivete più come quelli che non credono in Dio, con i loro pensieri vuoti e confusi!" Gli etnici sono diventati quelli che non credono in Dio e i dissoluti che si rotolano nell’immondizia sono
persone con pensieri vuoti e confusi, senza riferimento a storia e costumi.
Molto meglio si presenta la vecchia traduzione cattolica del Martini: "Questo adunque io dico, e vi scongiuro nel Signore, che non camminiate più, come camminano le nazioni nella vanità de' loro pensamenti". Qui gli etnici sono le nazioni, in chiara opposizione a ciò che sono gli ebrei. La distinzione tra ebrei e gentili, espressione della differenza tra Israele e le nazioni, si risolve nella realtà storica del Messia Gesù, ed è presente dall’inizio alla fine nella lettera agli Efesini. Valga per tutti un brano del capitolo 2, riportato appositamente nella versione Diodati:
- Perciò, ricordatevi che già voi gentili nella carne, che siete chiamati incirconcisione da quella che è chiamata circoncisione nella carne, fatta con la mano;
- in quel tempo eravate senza Cristo, alieni dalla cittadinanza d'Israele, e stranieri de' patti della promessa, non avendo speranza, ed essendo senza Dio nel mondo.
- Ma ora, in Cristo Gesù, voi, che già eravate lontani, siete stati approssimati per il sangue di Cristo.
- Perciocché egli è la nostra pace, il quale ha fatto de' due popoli uno; e avendo disfatta la parete di mezzo che facea la separazione,
- ha nella sua carne annullata l'inimicizia, la legge de' comandamenti, posta in ordinamenti; acciocchè creasse in sé stesso i due in un uomo nuovo, facendo la pace;
- e li riconciliasse amendue in un corpo a Dio, per la croce, avendo uccisa l'inimicizia in sè stesso.
- Ed essendo venuto, ha evangelizzato pace a voi che eravate lontani, e a quelli che eran vicini.
- Perciocché per esso abbiamo gli uni e gli altri introduzione al Padre, in uno Spirito.
Quelli che qui sono i gentili nella carne in altre traduzioni diventano gli stranieri di nascita, ma sono sempre i soliti etnici,
che secondo i casi sono presentati come stranieri o pagani, senza riferimento esplicito a ciò a cui si oppongono: gli ebrei come cittadini di Israele. Può sembrare una raffinatezza esegetica, ma la dissolvenza della distinzione tra ebrei e gentili nella lettura del Nuovo Testamento o, peggio ancora, il mescolamento confuso dei due termini, può alterare in modo serio la comprensione della persona di Gesù nella sua dimensione storica e salvifica.
Questo avviene in modo particolare nella spiegazione dei Vangeli, i testi più noti e più maltrattati del Nuovo Testamento; e in modo ancora più particolare nella spiegazione di quel testo estremamente sensibile che è il
Sermone sul Monte (Matteo cap. 5,6,7). Nel limitato contesto di questo articolo ci limitiamo a poche dichiarazioni schematiche sul Sermone sul Monte (SM):
- Il SM è storia, non morale universale.
-
Il SM è storia di Israele, particolare nazione distinta dalle altre nazioni
- Il SM è il discorso programmatico con cui il Messia di Israele si presenta al suo popolo.
I primi ascoltatori a cui Gesù rivolge il suo messaggio sono evidentemente cittadini di Israele. Il fatto che la storia del Messia sulla terra si sia conclusa con la sua morte, la sua risurrezione, la sua ascesa al cielo, con tutte le conseguenze eterne riportate nei testi del Nuovo Testamento, permette ai credenti di ogni
provenienza di ritornare su quel testo e riconoscervi, per l'azione dello Spirito Santo, la voce di Gesù che ora siede alla destra del Padre, ma questo non autorizza a cancellare Israele nella spiegazione storica di quelle parole. Prendiamo a esempio un passaggio molto caro ai credenti di ogni epoca:
Non siate dunque in ansia, dicendo: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno (Matteo 6:31-34, NR).
Anche qui compaiono i pagani. Chi sono? Il termine è sempre lo stesso: etnos, che in altri casi nella Nuova Riveduta viene tradotto con stranieri, che sostituisce quello che nella vecchia Riveduta era tradotto con gentili. Si noti: col passar del tempo la traduzione si allontana sempre più dal riferimento a Israele: i gentili diventano stranieri e questi in qualche caso diventano pagani.
I gentili invece ci sono ancora nella Nuova Diodati:
"Poiché sono i gentili quelli che cercano tutte queste cose; il Padre vostro celeste, infatti, sa che avete bisogno di tutte queste cose"; e in tre "antiche" traduzioni cattoliche; Ricciotti: "Sono i gentili che cercan tutto ciò, mentre il Padre vostro sa che n'avete bisogno";
Tintori: "Tutte queste cose preoccupano i gentili; or il Padre vostro sa che avete bisogno di tutto questo"; Martini: "Imperocché tali sono le cure de' gentili. Ora il vostro Padre sa, che di tutte queste cose avete bisogno".
La scelta di preferire in questo passaggio il termine pagani
nasconde il fatto che Gesù, rivolgendosi ai cittadini di Israele, abbia voluto dire di non imitare i gentili, cioè i non ebrei, che essendo senza speranza e senza Dio nel mondo, sono condannati a chiedersi con ansia: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?"
Ai suoi connazionali Gesù ricorda che loro hanno un Padre celeste che si prende cura di chi lo conosce e lo teme, secondo la parola della Scrittura che hanno ricevuta: "Come un padre è pietoso verso i figli, così è pietoso il Signore verso quelli che lo temono" (Salmo 103:13). Ed è per questo che li invita a pregare: "Padre nostro, che sei nei cieli, ecc." (Matteo 6:9-13).
A ciò si aggiunge che l'esortazione a "cercare prima il regno e la giustizia di Dio" (Matteo 6:33) acquista il suo pieno significato all'interno della storia di Israele, che dunque in nessun caso può essere trascurata per far posto a generiche raccomandazioni di natura morale.
Nella lettera ai Romani la distinzione tra ebrei e gentili è presentata in termini di giudei e greci. La caratteristica negativa principale dei gentili, frutto di ignoranza e idolatria, è proprio la depravazione morale a cui Dio li ha abbandonati (Romani 1:24-31). La caratteristica negativa degli ebrei invece è diversa.
Paolo si rivolge al singolo giudeo per fargli notare che sì, è vero, lui ha ricevuto la legge di Dio, la conosce, la insegna, ma... non la osserva (Romani 2:17-24). Per concludere che "tutti, Giudei e Greci, sono sotto il peccato" (Romani 3:9), e tutti, indipendentemente dalla legge, possono essere giustificati da Dio stesso mediante la fede in Gesù Cristo (Romani 3:21-31).
CONSIDERAZIONI ATTUALI
• Ebrei e non ebrei Volendo trarre una prima impressione di carattere umano dalla distinzione fin qui fatta tra ebrei e gentili, non si direbbe che i primi si presentino più “cattivi” dei secondi. Uso appositamente questo termine poco teologico perché spesso quello che sottende a riflessioni apparentemente oggettive dei gentili sugli ebrei è proprio un viscerale sentimento di misurazione della cattiveria. Sono bravi, certo - si pensa - però prima o poi il loro carattere viene fuori: sono duri, vendicativi. Perché loro hanno la legge mosaica, la legge del taglione: vendetta, vendetta, vendetta. Oggi i gentili pensano di trovare una conferma in quello che sta avvenendo a Gaza: inorridiscono per quello che i palestinesi stanno subendo dagli ebrei a Gaza, ed emettono su di loro un severo giudizio accusatorio nel nome di una universale moralità a cui gli ebrei sembrano incapaci di arrivare. Attenzione, chi pensa così, o chi soltanto rumina così nel sottofondo della sua mente, considera gli ebrei una categoria umana inferiore, non in termini di biologia, ma di umana moralità. Questa base di antisemitismo morale potrebbe spiegare l’estensione, l’intensità e la gratuità dell’odio diffuso contro gli ebrei: perché sarebbero esseri moralmente deficitari da cui i “normali” umani si sentono minacciati.
Chiamo “antisemitismo teologico” questo tipo di odio sociale perché si ricollega a Dio e al suo Avversario. E’ la ragione per cui queste “considerazioni attuali” sono precedute da riflessioni di carattere biblico, anche perché da questo vago umore antisemita possono essere colpiti anche i cristiani. Anche i cristiani evangelici. Va detto allora che il Dio della Bibbia non presenta il suo popolo
come particolarmente malvagio,
se messo a
confronto con gli altri popoli. Israele è stato traditore, adultero, di collo duro, ribelle, ma rispetto a Dio, nel confronto con quella Parola che ha avuto l’onore di ricevere in esclusiva, ma non è più malvagio degli altri popoli. E’ vero il contrario. E questo è dovuto proprio al fatto di aver ricevuto e custodito, sia pur malamente, quella parola della legge che hanno ricevuta da Dio al Sinai. Quindi va detto una volta per tutte, in modo semplice e chiaro: gli ebrei non sono soltanto i più bravi tra gli uomini, sono anche i più buoni. Punto. Molti alzeranno le sopracciglia, ma i cristiani evangelici
che potrebbero avere su questo dubbi dottrinali possono essere rassicurati: nessuno va in paradiso per la sua bontà, nemmeno gli ebrei. I passi biblici commentati sopra sono lì a ricordarlo.
La dichiarazione dunque merita di essere spiegata e soppesata bene, ma in ogni caso va mantenuta. Con la stessa chiarezza e determinazione con cui altri insistono a dire che gli ebrei sono i più cattivi.
• Ebrei e altri ebrei. Dopo aver detto qualcosa sul dualismo ebrei-gentili in fatto di moralità, si può provare a dire qualcosa sul dualismo laici-religiosi che bolle nella pentola israeliana. Chi sono i più buoni? Candida domanda volutamente ingenua. In forma schematica presentiamo i due ideali campioni estremi intorno a cui si raccolgono, in varie graduazioni, i componenti dei due schieramenti: l'ultraortodosso e il laico integrale. Il primo fa dipendere la sua vita e quella della sua nazione dal Dio di Israele; il secondo esclude ogni dio dalla sua vita personale e vorrebbe vederlo escluso da Israele anche come nazione. Al campione ultraortodosso si potrebbe applicare quello che dice l'apostolo Paolo al giudeo:
Ecco, tu ti chiami Giudeo, ti fondi sulla legge e ti glori in Dio, conosci la sua volontà e distingui le cose importanti, essendo ammaestrato dalla legge, e sei convinto di essere guida di ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre, istruttore degli insensati, insegnante dei bambini, avendo la forma della conoscenza e della verità nella legge (Romani 2:17-20);
e chiedergli poi se le cose che dice di fare alla gloria di Dio, poi le fa davvero.
Ma il campione laico, a chi
potrebbe essere paragonato? Dice di non credere in Dio, o comunque di non far dipendere la sua vita da nessun eventuale dio. Dunque i laici, direbbe Paolo,
sono "senza speranza e senza Dio nel mondo" (Efesini 2:12), proprio come i gentili, di cui poco dopo dice che
"... camminano nella vanità della lor mente;
intenebrati nell'intelletto, alieni dalla vita di Dio, per l'ignoranza che è in loro, per l'induramento del cuor loro.
I quali, essendo divenuti insensibili ad ogni dolore, si sono abbandonati alla dissoluzione, da operare ogni immondizia, con insaziabile cupidità" (Efesini 4:17-19).
Dunque, se sul piano della condotta morale i religiosi corrono il rischio di inorgoglirsi, essere legalisti, imporre precetti asfissianti nel nome del Dio di Israele, sullo stesso piano morale i laici corrono il rischio di assomigliare tremendamente ai gentili nella vanità della lor mente, nella libertina dissolutezza, nella depravazione dei costumi nel nome del dio di questo mondo decaduto e corrotto. Sono rischi, non è detto che avvenga così, ma è serio chiederselo. Ma che dire dall’esterno? Che opinione avere di quello che avviene oggi in Israele, come gentile che storicamente ha imparato il Messia dagli ebrei? Dico allora che se proprio dovessi dire la mia, se fossi costretto a scegliere tra gli ortodossi che mi tirano le pietre se faccio il nome di Gesù davanti a loro e i laici che vogliono convincermi ad applaudire i gay pride e a partecipare ai festival psy-trance, sceglierei senza esitazione i primi.
(Notizie su Israele, 25 agosto 2024
|
........................................................
Israele colpisce obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria
Il ministero della Difesa siriano ha accusato Israele di aver effettuato attacchi aerei su diversi siti nel centro del Paese nella notte di venerdì.
“Alle 19:35 circa (1635 GMT), il nemico israeliano ha lanciato un’aggressione aerea dalla direzione del Libano settentrionale, prendendo di mira diversi siti nella regione centrale”, ha dichiarato, aggiungendo che sette civili sono rimasti feriti.
Una fonte sul posto ha dichiarato che gli attacchi aerei israeliani in Siria, diretti contro le posizioni dell’esercito e del suo alleato libanese Hezbollah, hanno ucciso tre combattenti sostenuti dall’Iran.
“Gli attacchi israeliani hanno finora ucciso tre combattenti filo-iraniani e ne hanno feriti altri 10”, ha detto la fonte.
Sempre secondo la fonte gli attacchi hanno preso di mira “stazioni di rifornimento di fortuna affiliate a Hezbollah nella campagna di Homs, e hanno colpito depositi di armi appartenenti al gruppo e due siti dell’esercito siriano nella campagna di Hama”.
Dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, Israele ha effettuato centinaia di attacchi nel Paese, colpendo principalmente l’esercito e i suoi alleati sostenuti dall’Iran.
I raid si sono intensificati dopo che l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre ha scatenato la guerra a Gaza, poi si sono attenuati dopo che un attacco del 1° aprile, attribuito a Israele, ha colpito un edificio consolare iraniano a Damasco uccidendo due generali della Guardia rivoluzionaria.
Le tensioni sono tornate a salire dopo l’uccisione di due alti combattenti sostenuti dall’Iran il mese scorso, un fatto che ha scatenato minacce di rappresaglia da parte di Teheran e dei suoi alleati, che hanno incolpato Israele.
Le autorità israeliane raramente commentano i singoli attacchi in Siria, ma hanno ripetutamente affermato che non permetteranno all’Iran di espandere lì la propria presenza.
(Rights Reporter, 24 agosto 2024)
........................................................
La gioiosa festa ebraica di Purim
Ieri abbiamo parlato di Ephraim Kishon, notando con rammarico che di questo autore non si trovano libri tradotti in italiano. Anche nella speranza che un giorno si trovi qualcuno disposto a farlo, presentiamo qui la traduzione dal tedesco di un breve scorcio del libro “Drehen Sie sich um, Frau Lot!” (Si volti, signora Lot!).
La festa ebraica più gioiosa è Purim, che commemora il trionfo della regina Ester sul malvagio Haman. È l'unica volta nella nostra storia che un antisemita viene impiccato prima che avvenga il pogrom. Questo evento unico viene festeggiato dai nostri bambini facendo un enorme rumore, rivolto direttamente ai timpani dei genitori. I bambini possono fare tutto quello che vogliono a Purim. Si vestono da adulti, si comportano di conseguenza e causano molti spiacevoli incidenti.
Ricordo fin troppo bene una di queste tradizionali feste di carnevale con i bambini che invadono le strade. Un amore caldo, totalizzante e assolutamente globale per l'umanità si è acceso in me quando ho visto tanti vivaci monelli scatenarsi sotto il sole dorato. Il mio cuore batteva forte al pensiero che queste figure in filigrana dai costumi colorati sono tutti bambini ebrei che si godono la vita. Ogni tanto mi fermavo ad accarezzare i capelli di un piccolo sceriffo, a chiacchierare con un osservatore delle Nazioni Unite di tre anni o a salutare un pilota a forma di Pollicino. Sono rimasto particolarmente colpito da un piccolo poliziotto che, con la sua uniforme blu copiata nei minimi dettagli, aiutava i suoi colleghi adulti a controllare il traffico a un incrocio di Dizengoff Boulevard. Sono rimasto lì a guardarlo per minuti, affascinato.
Alla fine si gira verso di me: “Vada avanti, signore, vada avanti”, dice con faccia impassibile. “Perché? Mi piace molto stare qui!” e gli faccio l'occhiolino sorridendo. “Adonì (signore)! Non mi contraddica!” “Ora mi fai davvero paura. Vuoi imprigionarmi, vero?” Il poliziotto in miniatura arrossisce infastidito fino alle orecchie: “La sua carta d'identità, la sua carta d'identità!” cinguetta. “Eccola qui, tesoro. Serviti pure!” E gli porgo due biglietti del cinema che avevo trovato nella borsa. “Cosa diavolo dovrei fare con questi?” Ormai non ce la faccio più, lo prendo tra le mie braccia e gli chiedo dove abitano i suoi genitori per poterlo portare a casa quella sera. Ma il mio piccolo amico si offende; nemmeno la gomma da masticare che gli ho comprato da un ambulante lo calma. E quando gli pizzico le guance rosee, tira fuori un fischietto e lo fa suonare. Poco dopo arriva la macchina della polizia a sirene spiegate. Mi arrestano e mi portano alla stazione di polizia più vicina, dove sono messo in custodia per comportamento scorretto verso un funzionario in servizio. Il ragazzo era un vero poliziotto.
(Notizie su Israele, 24 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
"La lista di proscrizione". Il nuovo Pci scheda i sostenitori di Israele. Ci sono Funaro e Carrai
Sul suo sito il partito elenca persone e aziende ’amici’ dello Stato ebraico. La replica di Fdi: "Una incitazione razzista alla violenza inaccettabile". Il console onorario: "Questa ‘minaccia’ non fermerà il mio operato".
"La sinistra del (nuovo) Partito Comunista arriva a stilare liste di proscrizione contro ebrei e amici di Israele. Imprenditori, decine di giornalisti e politici di vari schieramenti, tra cui la senatrice di Fratelli d’Italia Ester Mieli, sono additati come i nemici contro cui scagliarsi. Una incitazione razzista alla violenza inaccettabile, con tanto di obiettivi in carne ed ossa identificati". Lo scrive sui social il responsabile Organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli. Il riferimento è a un documento prodotto dal (nuovo) Partito Comunista dal titolo ’Sviluppare la denuncia e la lotta contro organismi e agenti sionisti in Italia’. Politici, giornalisti, intellettuali, imprenditori, manager e non solo. Il portale del nuovo Partito Comunista Italiano ha pubblicato una lista con i personaggi famosi italiani che hanno pubblicamente sostenuto Israele.
Tra i tanti nomi, come quelli di John Elkann, Ester Mieli, Gabriele Albertini, Claudio Lotito, alla voce "sionisti esponenti di partiti politici delle larghe intese o rappresentanti di fondazioni ed enti pubblici o associazioni attivi nel sostegno alle iniziative dello Stato sionista d’Israele", compare anche Sara Funaro. Poco sotto, al punto "società medico-sanitarie israeliane attive in Italia ed esponenti che dirigono, posseggono quote", c’è invece Marco Carrai.
La pubblicazione ha sollevato una condanna bipartisan. Con Donzelli che scrive: "Difenderò sempre il diritto di Israele di esistere in sicurezza e sarò sempre avversario di comunisti e antisemiti". Anche Carrai commenta l’accaduto: "Il nuovo Partito comunista italiano lancia liste di proscrizione per scatenare la caccia all’ebreo? È quello che sembra emergere con evidenza da un loro comunicato dove invitano a ‘sviluppare la denuncia e la lotta contro organismi e agenti sionisti in Italia’ e fanno un lungo elenco di persone, tra cui giornalisti, politici, imprenditori, e di società a vario titolo legate ad Israele e che secondo gli estensori sarebbero prova che ‘entità sionista è parte integrante del sistema di potere della Repubblica Pontificia".
E ancora: "Essere inseriti in questo elenco - continua Carrai - conferma la necessità delle battaglie che da sempre porto avanti e certo questa ‘minaccia’ non fermeranno il mio operato".
Dura anche la critica del Pd: "È l’ennesimo episodio di una lunga serie di atti antisemiti che ci riportano a tempi molto bui della storia dell’Europa. Solidarietà alle persone e alle organizzazioni coinvolte. Presenteremo una interrogazione alla Camera (tra i firmatari il deputato dem Federico Gianassi), al Senato e al Parlamento europeo per chiedere tutela per le persone coinvolte e per avere certezza che il ministero dell’Interno stia agendo immediatamente e con fermezza per perseguire i responsabili di quella lista e per arginare i crescenti fenomeni di antisemitismo", commentano i dem Ascani, Carè, De Luca, Fassino, Stefano Graziano, Guerini, Madia, Porta, Provenzano, Quartapelle, Alfieri, Camusso, Crisanti, Franceschini, Giacobbe, Malpezzi, Sensi, Zampa, Picierno.
(La Nazione, 24 agosto 2024)
........................................................
Enzo Sereni, partigiano anti-nazista che scelse Israele
Ottant’anni fa moriva, ucciso a Dachau, l’intellettuale romano. Fondò un kibbutz nella Palestina mandataria ma volle tornare in Europa per combattere il Reich
di Mirella Serri
|
|
FOTO
Il kibbutz Ghivat Brenner
|
|
Le baracche nel lager nel quartiere di Gries-San Quirino, a Bolzano, erano ancora in fase di allestimento quando Samuel Barda vi arrivò il 25 agosto 1944. Quella data segnò per Enzo Sereni, questo il vero nome di Barda, l’inizio della fine: di lì a poco venne trasferito in un luogo per lui del tutto sconosciuto, Dachau. Le torrette del campo che si delinearono all’orizzonte apparvero spaventose ai prigionieri. «Il capo-lager venne con un elenco e chiamò Barda, capitano paracadutista inglese», racconta un sopravvissuto. «Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia e questo capitano, alto un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze». Il 17 novembre 1944 al “capitano” fu ordinato di cambiare cella, avvertendolo di non portare con sé la propria coperta perché ne potesse usufruire il nuovo inquilino. Il giorno successivo venne fucilato. Ricorrono adesso gli 80 anni dalla scomparsa dell’antifascista catturato dai nazisti della Todt nei pressi di Lucca dopo che si era lanciato dall’aereo. Enzo, che aveva trascorso tanti anni all’estero, ora voleva dar man forte alla Resistenza: Sereni-Barda fu uno dei primi ebrei italiani a trasferirsi in Palestina e a dar vita al kibbutz Givat Brenner. Era un intellettuale, un agente segreto, un pacifista intransigente e divenne un pioniere del sionismo socialista. L’esperienza di Sereni fu unica nella storia della lotta al nazifascismo. Forse anche per questo oggi il suo nome non occupa il posto che merita nelle pagine di storia. Come i suoi fratelli, Enrico e il più noto Emilio, antifascista e futuro senatore comunista, Enzo era nato a Roma in una famiglia borghese. Suo padre era il medico di Vittorio Emanuele III e suo zio Angelo era presidente della comunità ebraica romana. Appena il regime si insediò al potere Enzo, ancora studente, intuì che l’aria stava diventando mefitica per chi teneva alla libertà. Laureato in filosofia, con gli amici Carlo e Nello Rosselli cominciò a coltivare il sogno di una “democrazia agraria” da realizzare in Palestina. Dopo la promessa di Lord Balfour di dare vita a un “focolare ebraico” e di destinare parte del territorio palestinese agli insediamenti ebraici, Enzo riteneva che fosse necessario rimediare «all’ingiustizia perpetrata nei confronti dei fratelli arabi». Era un socialista riformista e pensava che incentivando lo sviluppo economico si sarebbero realizzate nuove forme di convivenza tra arabi ed ebrei. Addio dunque ai dotti studi e ai libri: poco più che ventenne, con la giovane moglie Ada Ascarelli si trasferì in Erétz Yisra’él. Secondo lui in Palestina non c’era bisogno della speculazione filosofica ma del lavoro manuale. Si impiegò in un agrumeto e diede vita al primo kibbutz italiano.Al lavoro di bracciante rinunciò quando Hitler si insediò alla Cancelleria del Reich: l’Agenzia ebraica lo mandò in missione speciale in Europa. Eccolo per circa una decina di anni in viaggio senza sosta da Parigi a Danzica, da Praga a Vienna ad Amsterdam e poi anche in America. Contrabbandava passaporti falsi e valuta; riuscì a portare in salvo migliaia di ebrei, in particolare molti giovani. Nel 1939 Enzo ritornò nella capitale e ottenne dai correligionari romani informazioni riservate sulle forze armate del Duce che poi trasmise agli inglesi. Mise anche in guardia gli ebrei capitolini, avvertendoli che dovevano lasciare il paese al più presto. Nessuno gli credette: dopo i primi provvedimenti razziali, gli venne detto, le acque sembravano essersi calmate e la popolazione era solidale con gli ebrei. Quando iniziò la guerra Enzo fu costretto a una nuova rinuncia, mise in cantina l’utopia pacifista, si arruolò nella British Army. In Egitto si occupò dei prigionieri di guerra italiani e antifascisti. In Iraq aiutò altri ebrei nella fuga. Dopo il rastrellamento da parte dei nazisti del ghetto di Roma prese la decisione che segnò la sua vita. L’Italia ora era occupata dai tedeschi e aveva bisogno di lui. Sua moglie, i suoi superiori in Palestina e anche gli ufficiali inglesi cercarono di dissuaderlo. Non poteva paracadutarsi: in quanto quarantenne era considerato troppo avanti con l’età, ma lo fece comunque. Il compagno di volo che si lanciò con lui il 5 maggio del 1944 ricorda di aver sentito nella notte il richiamo del suo fischietto di salvataggio. Barda fu catturato, condotto a Verona e rinchiuso nei sotterranei. Poi il suo destino fu deciso in Germania. Sparì nel nulla. La moglie non ebbe più notizie. Quando Ada rientrò nella Penisola, alla fine della guerra, divenne agente del Mossad, organizzò le spedizioni che portarono dall’Italia in Israele migliaia di ebrei con il tacito assenso del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi (a lei è stata dedicata la miniserie tivù Exodus. Il sogno di Ada). Finalmente trovò a Dachau la scheda di Enzo: “Schmuil”, non c’era nemmeno il vero nome. Lo avevano ammazzato ignorando la sua identità. In un certo senso è rimasto senza una precisa identità anche nel Dopoguerra: a differenza di suo fratello Emilio, la cui lotta antifascista è stata sempre giustamente riconosciuta e valorizzata dal partito comunista con convegni, opere, scuole e strade a lui intestate, Enzo è stato trascurato dalla memoria collettiva. Era un combattente solitario e per la sua avventurosa solitudine, per il pionieristico coraggio, merita di essere riscoperto e ricordato. In questo momento storico, per il tenace pacifismo, per la critica al fascismo e al razzismo, per la predicazione della convivenza tra arabi e israeliani, la sua figura è più attuale che mai. Può diventare un simbolo nei nostri tempi di acuti conflitti.
(la Repubblica, 23 agosto 2024)
........................................................
Il capo dell’intelligence Haliva si dimette per il fallimento del 7 ottobre
Il capo uscente dell’intelligence dell’IDF, Haliva, dice di non aver avvertito del 7 ottobre e chiede un’indagine di Stato.
Il prossimo capo della Direzione dell’Intelligence militare, il Magg. Gen. Shlomi Binder, chiede di concentrare gli sforzi sulla missione “urgente” di restituire gli ostaggi Il Magg. Gen. Aharon Haliva, nel suo ultimo discorso come capo della Direzione dell’Intelligence Militare, ha affermato mercoledì di essere responsabile per non aver dato un avvertimento prima dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Nel suo discorso di dimissioni, ha lasciato intendere che si aspetta che anche altri ufficiali si assumano la responsabilità delle loro mancanze e ha chiesto una commissione d’inchiesta statale sulle mancanze che hanno portato alla guerra. “Quel sabato non abbiamo portato a termine la missione più importante che ci è stata affidata, quella di fornire un preavviso di guerra”, ha detto durante una cerimonia di consegna alla base Glilot, vicino alla città centrale di Herzliya, che ospita alcune unità del Direttorato. “La responsabilità dei fallimenti della Direzione dei servizi segreti militari ricade su di me”, ha detto Haliva. Ad aprile Haliva aveva dichiarato che avrebbe lasciato l’IDF per il suo coinvolgimento nei fallimenti che hanno portato all’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas. Lo sostituirà il Magg. Gen. Shlomi Binder, ex comandante della Divisione Operazioni dell’IDF.
“La responsabilità e l’esempio personale sono un valore fondamentale dell’IDF e della leadership in generale. L’assunzione di responsabilità non è fatta di parole, ma di azioni. La mia decisione di porre fine al mio ruolo e di dimettermi dall’IDF è la norma a cui sono stato educato… è ciò che ci si aspetta da chi marcia in avanti e da chi carica al fronte”, ha detto. Haliva ha anche chiesto di istituire una commissione d’inchiesta statale su “tutti gli aspetti che hanno portato alla guerra, in modo che ciò che è accaduto a noi non si ripeta mai più”. Le ripetute richieste di una revisione indipendente del 7 ottobre sono state respinte dai leader del governo, che a quanto pare temevano di essere criticati, insistendo sul fatto che le indagini devono attendere la fine della guerra contro Hamas. Il nuovo capo della Direzione dell’Intelligence militare, Binder, ha detto durante la cerimonia che Israele deve dedicare i suoi sforzi di intelligence alla restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza, mentre si prepara a un’escalation con Hezbollah in Libano. “Siamo nel mezzo di una guerra giusta, una guerra dura e lunga, che può espandersi, e continueremo a impegnarci per raggiungere i suoi obiettivi. Dobbiamo dedicare i nostri sforzi alla restituzione di 109 ostaggi nella Striscia di Gaza. È una missione nazionale, etica, di estrema importanza e urgente”, ha detto. “Dobbiamo continuare ad aumentare la nostra preparazione per la campagna che si sta espandendo nel nord, e costruire un buon quadro di intelligence per la difesa e l’attacco, e per le arene più lontane, come questa direzione ha dimostrato di recente”, ha continuato Binder. Oltre a combattere e a prepararsi all’escalation, Binder ha detto che la Direzione dell’Intelligence dovrà anche indagare su se stessa, fare ammenda e migliorare dai propri errori. “Dove abbiamo fallito, dovremo indagare e migliorare; dove abbiamo commesso errori, impareremo e cambieremo; dove sono state aperte fratture, per quanto grandi siano, insisteremo per ripararle e ci pentiremo”, ha detto. “Il popolo israeliano non ha un altro Paese, lo Stato di Israele non ha un’altra IDF e l’IDF non ha un’altra Direzione dell’Intelligence”, ha aggiunto Binder. La nomina di Binder a questo ruolo è stata vista come controversa, in quanto in precedenza era a capo della Divisione Operazioni della Direzione Operazioni – e potrebbe essere stato coinvolto in fallimenti legati al 7 ottobre. Haliva è il primo alto ufficiale dell’IDF a dimettersi per l’attacco del 7 ottobre. (Un altro generale di alto livello dell’intelligence, che aveva intenzione di dimettersi a causa dell’attacco, si è dimesso dopo che gli era stato diagnosticato un cancro). A giugno, il Brig. Gen. Avi Rosenfeld, capo della Divisione Gaza, ha annunciato le sue dimissioni per l’attacco del 7 ottobre. Nelle prossime settimane sarà sostituito dal brig. gen. Barak Hiram, ex capo della 99a divisione. Altri alti ufficiali della difesa hanno dichiarato di essere responsabili dell’invasione mortale compiuta da Hamas il 7 ottobre, tra cui il capo dell’agenzia di sicurezza Shin Bet e il capo di stato maggiore dell’IDF. Nessuno di loro ha ancora annunciato l’intenzione di dimettersi, anche se si prevede che molti lo faranno una volta che la situazione della sicurezza si sarà stabilizzata. Tuttavia, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e la maggior parte dei membri del suo governo hanno ripetutamente rifiutato di assumersi la responsabilità del loro ruolo nella serie di fallimenti strategici e operativi che hanno portato all’assalto di Hamas, insistendo sul fatto che la questione della loro responsabilità sarà affrontata solo dopo la guerra. Circa 3.000 terroristi guidati da Hamas hanno fatto irruzione dalla Striscia di Gaza nel sud di Israele il 7 ottobre, compiendo una furia omicida di intensità e ampiezza senza precedenti. L’IDF ha faticato a organizzare una risposta, con le basi più vicine al confine invase e la catena di comando apparentemente interrotta nel caos. L’assalto ha causato la morte di circa 1.200 persone in Israele, con altre 251 persone rapite e gran parte dell’area devastata. La maggior parte delle vittime erano civili.
(Israele 360, 22 agosto 2024)
........................................................
Trovati esplosivi in sacchi contrassegnati Unrwa a Rafah
GERUSALEMME - Le Forze di difesa di Israele (Idf) hanno affermato di aver trovato degli esplosivi in sacchi contrassegnati Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) durante la perquisizione di un edificio nei pressi in una scuola nel quartiere Tel Sultan di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Nel corso dell’operazione, hanno spiegato le forze israeliane, il 50mo battaglione della Brigata Nahal ha inoltre trovato “armi, giubbotti militari e documenti dell’intelligence nemica”. Nella zona di Tel Sultan, le forze appartenenti alla 162ma Divisione delle Idf hanno diretto negli ultimi giorni attacchi aerei “contro terroristi armati e siti terroristici”.
(Agenzia Nova, 23 agosto 2024)
........................................................
Medico del Soroka Medical Center di Beer Sheba arrestato per aver giurato fedeltà all’ISIS
di Luca Spizzichino
Un medico del Soroka Medical Center di Beer Sheba è stato arrestato con l’accusa di aver giurato fedeltà all’ISIS ed è stato formalmente incriminato, come riferito giovedì dalla polizia israeliana. In un’operazione congiunta tra la polizia e lo Shin Bet, Muhammad Azzam, 34 anni, residente a Beer Sheba e originario di Nazareth, è stato tratto in arresto.
Secondo il Ministero della Giustizia, Azzam leggeva online contenuti estremisti affiliati all’ISIS dal 2014. A seguito delle indagini, l’8 agosto la Procura distrettuale meridionale ha depositato un atto d’accusa contro di lui. Nell’atto d’accusa, presentato dall’avvocato Hofit Kantorovich, si evidenzia che sul telefono del medico sono stati trovati numerosi file multimediali, tra cui video di esecuzioni, decapitazioni e corpi mutilati. Inoltre, sono state rinvenute cartelle intitolate “Materiali esplosivi” e “Preparazione di veleni”, oltre ad altro materiale sospetto.
Secondo l’accusa, Azzam avrebbe deciso di unirsi ufficialmente all’ISIS e giurato fedeltà ad Abu Hafs al-Hajri al-Qurashi, il nuovo califfo dell’organizzazione, dopo il 7 ottobre. Dopo il massacro compiuto da Hamas, il medico avrebbe inviato video delle atrocità ai suoi amici con toni di scherno e soddisfazione.
Azzam resterà in custodia fino alla conclusione di tutti i procedimenti legali, come richiesto dall’accusa. La richiesta di detenzione ha sottolineato che il suo comportamento rappresenta un pericolo per la collettività, soprattutto considerando il suo ruolo di medico in un ospedale.
“L’amministrazione dell’ospedale prende molto seriamente le accuse e ne è scioccata”, ha dichiarato il Soroka Medical Center in un comunicato, secondo quanto riportato da Maariv. “Il caso è in fase di indagine e gestione da parte delle autorità legali competenti e siamo fiduciosi nella loro gestione della questione”, ha commentato.
(Shalom, 23 agosto 2024)
........................................................
Satira made in Israel
Ephraim Kishon, uno dei satirici di maggior successo del XX secolo
Quando giocava a “poker ebraico” con il suo amico Jossele, si giocava senza carte: il primo pensava a un numero e lo diceva ad alta voce, poi l'altro annunciava il numero che aveva pensato e se era più alto di quello dell'altro, il secondo aveva vinto. Non sorprende che il satirico israeliano Ephraim Kishon vincesse sempre in questo gioco contro Jossele.
Indimenticabile è anche la storia del Blaumilchkanal (Canale del latte blu), che lo stesso Kishon trasformò in film nel 1969: in essa, un uomo fuggito da un manicomio pratica un buco nella strada del centro di Tel Aviv con un martello pneumatico senza alcun motivo; ma nessuno lo ferma, anzi ottiene il sostegno non solo della polizia, ma di tutte le autorità della città.
Ephraim Kishon è stato uno degli autori israeliani più conosciuti in Germania e uno dei satirici di maggior successo del XX secolo. I suoi racconti, le sue opere teatrali e le sue sceneggiature erano per lo più pungenti nei confronti delle autorità e dell'establishment, ma avevano anche una visione affettuosa delle eccentricità degli abitanti dell'Israele moderno. Gli oltre 50 libri di Kishon sono stati tradotti in 37 lingue, con 43 milioni di copie stampate in tutto il mondo. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Israele per il lavoro di una vita nel 2002 e il Premio tedesco Münchhausen per la satira nel 2001.
• FUGA DA UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO Kishon è nato il 23 agosto 1924 a Budapest, nella capitale ungherese, da una famiglia ebrea laica. Il padre era direttore di banca, la madre segretaria. La famiglia non era religiosa.
All'età di 17 anni vince il premio nazionale per il miglior racconto. Dopo aver lasciato la scuola nel 1941, non potendo studiare a causa delle leggi ebraiche, iniziò un apprendistato come orafo. Tre anni dopo fu deportato e internato in vari campi di lavoro.
Riuscì a fuggire durante il trasporto in un campo di concentramento in Polonia. Assunse l'identità di un operaio slovacco non ebreo e il nome di Stanko Andras. La maggior parte della sua famiglia morì nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. Solo i suoi genitori e sua sorella Agnes sopravvissero alla persecuzione degli ebrei. Nella sua autobiografia Nichts zu lachen. Memorie (Non c’è niente da ridere. Memorie) , pubblicata in tedesco nel 1993, Kishon racconta la sua vita quasi incredibile.
Kishon ha studiato storia dell'arte e scultura a Budapest. Ha cambiato il suo cognome in Kishont. A sua insaputa, una zia inviò la satira di Kishon sulle teste calve al concorso nazionale per romanzi organizzato dal principale giornale letterario ungherese nel 1948. Vinse il primo premio e divenne membro della redazione del giornale satirico “Ludas Matyi”.
• LASCIARE L'UNGHERIA A CAUSA DEI COMUNISTI Kishon e la sua prima moglie Eva decisero di lasciare l'Ungheria a causa dei comunisti. Nel 1949 giunsero in Israele su una nave di rifugiati. Un ufficiale dell'immigrazione gli diede il nome di Ephraim Kishon. Il suo primo libro, una raccolta di racconti umoristici, fu pubblicato con il titolo Der Neueinwanderer, der uns auf die Nerven geht (Il nuovo immigrato che ci dà ai nervi). Dal 1952, con lo pseudonimo di “Chad Gadja” (agnellino), scrive una rubrica quotidiana per il più importante quotidiano israeliano “Ma'ariv” - per oltre 30 anni.
La sua carriera internazionale inizia nel 1959: il “New York Times” sceglie la sua raccolta satirica “Turn around, Mrs Lot” come libro del mese. Inoltre, fonda il teatro “The Green Onion” a Tel Aviv.
Nello stesso anno, l'ormai divorziato Kishon sposò la pianista Sara Lipovitz - quella che nei suoi libri è “la moglie migliore di tutte”. Nei decenni successivi scrisse opere teatrali, radiofoniche e satire. Lavorò anche come regista.
Kishon aveva un grande pubblico soprattutto in Germania: solo in tedesco sono stati pubblicati 32 milioni di suoi libri. In Israele, nel 1968, il suo libro sulla Guerra dei Sei Giorni - Pardon, wir haben gewonnen (Pardon, abbiamo vinto) - ha suscitato grandi critiche. Alcuni media vi videro tendenze nazionaliste. Tuttavia, nel 2002 ha ricevuto il Premio Israele per il lavoro culturale svolto nel corso della sua vita, dalle mani del Ministro dell'Istruzione Limor Livnat.
Nella primavera del 2002, Sara Kishon muore di cancro. Un anno dopo, Ephraim Kishon sposò Lisa Witasek, una scrittrice viennese di 32 anni più giovane. Negli ultimi anni, Kishon visse alternativamente a Tel Aviv e nella casa che aveva acquistato ad Appenzell (Svizzera) nel 1981. Kishon ha lasciato tre figli: il figlio maggiore Rafi è veterinario, il figlio Amir vive a New York, la figlia Renana a Tel Aviv. Il figlio di Kishon, Rafi, mantiene vivo il ricordo del padre, tra l'altro con letture dei suoi libri in tedesco.
• AUTORE ISRAELIANO PARTICOLARMENTE APPREZZATO DAI TEDESCHI Dalla sua morte nel 2005, lo studio di Ephraim Kishon a Tel Aviv è rimasto intatto. La studiosa tedesca di letteratura Birgit Körner ha avuto il permesso di rovistarlo e recentemente ha scritto un libro su Kishon. Il titolo è: Israelische Satiren für ein westdeutsches Publikum. Ephraim Kishon, Friedrich Torberg und die Konstruktionen ‚jüdischen Humors‘ nach der Schoah (Satire israeliane per un pubblico tedesco occidentale. Ephraim Kishon, Friedrich Torberg e le costruzioni di 'umorismo ebraico' dopo la Shoah).
L'autrice ricorda, ad esempio, che Kishon non ha mai affrontato nei suoi racconti la storia oscura che legava Germania ed ebraismo. Ma era anche capace di essere politico. Nel racconto Wie Israel sich die Sympathien der Welt verscherzte (Come Israele si è giocata la simpatia del mondo) del 1963, scrive di come gli Stati arabi stiano distruggendo Israele; la comunità internazionale non può impedire che lo Stato ebraico venga spazzato via otto anni dopo la sua fondazione e dieci anni dopo la Shoah.
Recentemente è stata pubblicata la biografia Ephraim Kishon. Ein Leben für den Humor (Ephraim Kishon. Una vita per l'umorismo) di Silja Behre. L'autrice esplora, tra l'altro, la questione del perché i tedeschi abbiano amato così tanto questo autore israeliano. Per lui, l'entusiasmo dei tedeschi per le sue satire era una fonte di soddisfazione - e un'ironia della storia, scrive l'autrice.
(Israelnetz, 23 agosto 2024)
*
Ephraim Kishon, una perla nascosta di Israele
di Marcello Cicchese
Per perfezionare il mio tedesco, anni fa ho letto molti libri di Ephraim Kishon. Ed è stata una buona scelta, perché per tradurre la fine ironia di scrittori umoristici è necessario avere una grande padronanza di entrambe le lingue, saperne godere e riprodurre la musicalità. Nell’impossibilità di gustare le finezze dello stile ebraico, ho spesso goduto di quello che riusciva a fare il traduttore tedesco. Ricordo le stranezze del matto di Blaumilchkanal che, uno scavo dopo l’altro, convince i funzionari a scavare un lunghissimo canale che piano piano arriva fino al mare. Per arrivare infine a scoprire che non serve assolutamente a niente. Una irridente stoccata alle autorità preposte.
In un altro caso, si vede un impiegato statale che pratica la corruzione come dovere di ufficio, ma alla fine è stanco e vorrebbe smettere, ma non può. Chiede ai superiori di poter rinunciare a guadagni illeciti; è perfino disposto ad essere abbassato di stipendio, ma è impossibile: il sistema richiede che tutti continuino così. Smettere di rubare non è possibile. E anche qui c’è un sorridente accenno a pratiche presenti in tutto il mondo, che anche Israele non ha voluto farsi mancare.
In Pardon, wir haben gewonnen, il contestato libro scritto dopo la guerra dei sei giorni, l’autore riferisce che in quei giorni di aspro combattimento il suo bambino (7/8 anni) aveva deciso di praticare austere forme di rinuncia personale in solidarietà con i soldati in guerra. Tra queste, aveva deciso di non farsi tagliare più i capelli. L’autore allora descrive, con fine ironia, le difficili argomentazioni militari che ha dovuto trovare per far desistere suo figlio da questo nobile proposito.
Si può dire che Ephraim Kishon è in Israele quello che Giovannino Guareschi è in Italia. Anche i suoi libri, come quelli di Guareschi, sono stati tradotti in moltissime lingue. Anche lui, come Guareschi, è stato considerato uno scrittore di destra, e dunque, poiché in molte parti del mondo occidentale in fatto di cultura è la sinistra che comanda, anche lui, come Guareschi, è stato boicottato in patria.
Kishon avrebbe potuto essere una perla per Israele, da presentare con vanto al mondo, e invece si è preferito, soprattutto in Italia, tradurre romanzieri “di grido” come Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossmann, che hanno il grande vantaggio di piacere al mondo perché “criticano” Israele. Non è il valore dei loro romanzi che qui si discute, ma il posto che hanno voluto occupare gli autori in rapporto al loro paese. Non si discute il valore letterario delle loro opere, ma anche senza averle lette si può dubitare che avrebbero avuto lo stesso successo se gli autori non fossero stati israeliani che criticano Israele. Ho letto soltanto il romanzo “Giuda” di Amos Oz, e sinceramente non mi è parso che i suo tentativo di imitare Dostoevskij sia riuscito. E non intendo procedere oltre in altre letture.
Resta ancora una domanda: perché Ephraim Kishon ha avuto tanto successo in Germania e così poco, per non dire nulla, in Italia? Si troverà un giorno anche in Italia un ebreo bilingue che sappia rendere in italiano le leggerezze umoristiche della lingua ebraica di Kishon? Sarei il primo a leggerle, e a farne propaganda. Le pesantezze di monumenti letterari come quelli sopracitati sono fin troppe: da Israele si vorrebbe veder arrivare aria nuova. M.C.
(Notizie su Israele, 23 agosto 2024)
........................................................
Parashat Ekev. Solo la fede può salvare una società dal declino e dalla caduta
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Qual è la vera sfida per mantenere una società libera? Nella parashà di Ekev, Mosè ha in serbo per noi una grande sorpresa. Ecco le sue parole: State attenti a non dimenticare il Signore vostro Dio… Altrimenti, quando mangerete e sarete sazi, quando costruirete belle case e vi ci stabilirete, e quando le vostre mandrie e i vostri greggi diventeranno grandi e il vostro argento e il vostro oro aumenteranno e tutto ciò che avete si moltiplicherà, allora il vostro cuore si inorgoglirà e dimenticherete il Signore vostro Dio, che vi ha fatto uscire dall’Egitto, dal paese della schiavitù… Potresti dire a te stesso: “La mia potenza e la forza delle mie mani hanno prodotto questa ricchezza per me”. … Se mai dimenticherai il Signore tuo Dio… io testimonio oggi contro di te che sarai sicuramente distrutto”. (Deuteronomio 8:11-19) Ciò che Mosè stava dicendo alla nuova generazione era questo: “Pensavate che i quarant’anni di vagabondaggio nel deserto fossero la vera sfida e che una volta conquistata e colonizzata la terra, i vostri problemi sarebbero finiti. La verità è che in quel momento inizierà la vera sfida. Sarà proprio quando tutti i vostri bisogni fisici saranno soddisfatti – quando avrete terra e sovranità, ricchi raccolti e case sicure – che inizierà la vostra prova spirituale. La vera sfida non è la povertà ma l’agiatezza, non l’insicurezza ma la sicurezza, non la schiavitù ma la libertà. Mosè, per la prima volta nella storia, stava accennando a una legge della storia. Molti secoli dopo è stata articolata dal grande pensatore islamico del XIV secolo, Ibn Khaldun (1332-1406), dal filosofo politico italiano Giambattista Vico (1668-1744) e, più recentemente, dallo storico di Harvard Niall Ferguson (1964-…). Mosè stava raccontando il declino e la caduta delle civiltà. Ibn Khaldun sosteneva in modo simile che quando una civiltà diventa grande, le sue élite si abituano al lusso e alle comodità e il popolo nel suo complesso perde quella che lui chiamava asabiyah, la solidarietà sociale. Il popolo diventa quindi preda di un nemico conquistatore, meno civilizzato di lui ma più coeso e motivato. Vico ha descritto un ciclo simile: “Gli uomini dapprima avvertono ciò che è necessario, poi considerano ciò che è utile, quindi si occupano delle comodità, poi si dilettano dei piaceri, presto diventano dissoluti nel lusso e infine impazziscono sperperando i loro beni”. Bertrand Russell (1872-1970) lo dice con forza nell’introduzione alla sua Storia della filosofia occidentale. Egli pensava che le due grandi vette della civiltà fossero state raggiunte nell’antica Grecia e nell’Italia rinascimentale. Ma era abbastanza onesto da vedere che proprio le caratteristiche che le avevano rese grandi contenevano i semi della loro stessa fine: Ciò che era accaduto nella grande età greca si ripeté nell’Italia rinascimentale: i tradizionali vincoli morali scomparvero, perché considerati associati alla superstizione; la liberazione dalle catene rese gli individui energici e creativi, producendo una rara fluorescenza del genio; ma l’anarchia e il tradimento che inevitabilmente derivarono dal decadimento della morale resero gli italiani collettivamente impotenti e caddero, come i greci, sotto il dominio di nazioni meno civilizzate di loro ma non altrettanto prive di coesione sociale. Nel suo libro Civilization: the West and the Rest (2011), Niall Ferguson sostiene che l’Occidente ha dominato il mondo grazie a quelle che definisce sei “killer applications”: concorrenza, scienza, democrazia, medicina, consumismo ed etica protestante del lavoro. Oggi però sta perdendo fiducia in se stesso e rischia di essere superato dagli altri. Tutto questo è stato detto per la prima volta da Mosè e costituisce un argomento centrale del libro di Devarim. Se presumete – dice alla generazione successiva – di aver conquistato voi stessi la terra e la libertà di cui godete, diventerete compiacenti e autocompiaciuti. Questo è l’inizio della fine di qualsiasi civiltà. In un capitolo precedente Mosè usa la parola grafica venoshantem, “invecchierete” (Deuteronomio 4:25), a significare che non avrete più l’energia morale e mentale per fare i sacrifici necessari alla difesa della libertà. Le disuguaglianze aumenteranno. I ricchi diventeranno auto-indulgenti. I poveri si sentiranno esclusi. Ci saranno divisioni sociali, risentimenti e ingiustizie. La società non sarà più coesa. Le persone non si sentiranno legate tra loro da un vincolo di responsabilità collettiva. Prevarrà l’individualismo. La fiducia diminuirà. Il capitale sociale diminuirà. Questo è accaduto, prima o poi, a tutte le civiltà, per quanto grandi. Per gli israeliti – un piccolo popolo circondato da grandi imperi – sarebbe stato disastroso. Come Mosè chiarisce verso la fine del libro, mettendo in guardia il popolo dalle maledizioni che lo avrebbero colpito se avesse perso l’orientamento spirituale, Israele si sarebbe trovato sconfitto e devastato. Solo in questo contesto si può comprendere il progetto epocale che il libro di Devarim propone: la creazione di una società capace di annullare le normali leggi di crescita e declino delle civiltà. È un’idea sorprendente. Come si può realizzare? Attraverso l’assunzione e la condivisione di responsabilità da parte di ciascuno nei confronti della società nel suo complesso. Conoscendo la storia del proprio popolo. Studiando e comprendendo le leggi che governano tutti. Insegnando ai propri figli affinché anch’essi diventino alfabetizzati ed esprimano la loro identità. Regola 1: Non dimenticare mai da dove vieni. Quindi si mantiene la libertà istituendo tribunali, lo stato di diritto e l’istituzione della giustizia. Prendendosi cura dei poveri. Garantendo a tutti le condizioni fondamentali necessarie per la dignità. Includendo le persone isolate nelle celebrazioni popolari. Ricordando l’alleanza nei rituali quotidiani, settimanali e annuali e rinnovandola in un’assemblea nazionale ogni sette anni. Assicurando che ci siano sempre profeti che ricordino alle persone il loro destino e smascherino le corruzioni del potere. Regola 2: non allontanarsi mai dai propri principi e ideali fondamentali. Soprattutto, deriva dal riconoscere un potere più grande di noi stessi. Questo è il punto che Mosè sottolinea maggiormente. Le società invecchiano quando perdono la fiducia nella trascendenza. Quindi perdono la fiducia in un ordine morale oggettivo e alla fine perdono la fiducia in se stessi. Regola 3: Una società è forte quanto la sua fede. Solo la fede in Dio può portarci a onorare i bisogni degli altri così come i nostri bisogni. Solo la fede in Dio può motivarci ad agire per il bene di un futuro che non vivremo abbastanza da vedere. Solo la fede in Dio può farci smettere di fare il male quando crediamo che nessun altro essere umano lo saprà. Solo la fede in Dio può darci l’umiltà che sola ha il potere di superare l’arroganza del successo e la fiducia in se stessi che porta, come afferma Paul Kennedy in Ascesa e caduta delle grandi potenze (1987), al sovrasfruttamento militare e alla sconfitta nazionale. Verso la fine del suo libro “Civilization” Niall Ferguson cita un membro dell’Accademia cinese delle scienze sociali, parte di un team incaricato di scoprire perché l’Europa, rimasta indietro rispetto alla Cina fino al XVII secolo, ne prese il sopravvento, ottenendo notorietà e dominio. All’inizio, ha detto, pensavamo che fosse colpa delle vostre armi. Avevate armi migliori delle nostre. Poi abbiamo approfondito e abbiamo pensato che fosse il vostro sistema politico. Poi abbiamo cercato ancora più a fondo e abbiamo concluso che era il vostro sistema economico. Ma negli ultimi 20 anni abbiamo capito che in realtà era la vostra religione. È stato il fondamento (giudaico-cristiano) della vita sociale e culturale in Europa a rendere possibile l’emergere prima del capitalismo e poi della politica democratica. Solo la fede può salvare una società dal declino e dalla caduta. Questa è stata una delle più grandi intuizioni di Mosè, e non ha mai smesso di essere vero. Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 23 agosto 2024)
____________________
Parashà della settimana: Va-yelech (E rivolse)
........................................................
Un tuffo nel passato: scoperti i segreti delle incisioni di Timna, nel sud di Israele
di Nicole Nahum
Un team di studiosi dell’Università ebraica di Gerusalemme ha fatto un notevole passo avanti nella decifrazione delle incisioni rupestri nel parco di Timna, nel sud di Israele. Grazie all’uso di una tecnologia tridimensionale all’avanguardia, i ricercatori sono riusciti a rivelare molti dei particolari che hanno ispirato queste opere, risalenti al XIV secolo a.e.v.
Il parco di Timna è celebre per i suoi antichi resti legati alla produzione del rame, datati al VI millennio a.e.v. Tuttavia, le emblematiche incisioni rupestri hanno sempre rappresentato un enigma anche per i più esperti. Recentemente, un software innovativo sviluppato dal Computational Archaeology Laboratory, insieme all’uso di uno scanner 3D, ha permesso al team guidato dal Prof. Lior Grossman e dalla studentessa di dottorato Lena Dubinskydi esaminare in dettaglio le tecniche utilizzate da questi antichi artisti.
“Abbiamo scoperto che le decisioni degli scultori erano guidate da precise scelte visive e teoriche” ha dichiarato il Prof. Lior Grossman. Infatti, i risultati dello studio, riportati nel Journal of Archaeological Method and Theory, in collaborazione con il parco di Timna, il Lev Academic Center e la Charles W. Wilson Foundation, rivelano che le incisioni non erano solo frutto di abilità tecniche, ma anche di considerazioni estetiche e concettuali dell’epoca.
Il focus principale dell’analisi è stato incentrato su due incisioni: quella del carro, la più grande del parco, e un’altra che segue il canone egizio, raffigurante faraoni. “Analizzando le tecniche usate e i segni degli utensili nelle miniere di rame, abbiamo potuto delineare un linguaggio visivo unico” ha spiegato Lena Dubinsky.
Questa metodologia innovativa non solo chiarisce il mistero delle incisioni di Timna, ma apre anche nuove prospettive per future indagini archeologiche. Tale studio ha permesso dunque di esaminare con maggiore precisione il patrimonio culturale israeliano, fornendo strumenti per una comprensione più approfondita delle culture passate.
(Shalom, 23 agosto 2024)
........................................................
Gaza - Israele denuncia silenzio Unrwa sulle “scuole del terrore”
In precedenza il complesso ospitava la scuola Salah al-Din a Gaza City. Hamas ha trasformato la struttura in uno suo centro di comando, «da dove pianificava ed eseguiva attacchi contro l’esercito e lo stato d’Israele». Per questo, ha reso noto Tsahal, il complesso è stato attaccato nelle scorse ore. Prima di colpire, «sono state adottate numerose misure per mitigare il rischio di danneggiare la popolazione civile», ha spiegato l’esercito in una nota. La presenza di terroristi in scuole a Gaza è stata più volte denunciata da Israele. «Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale e opera dall’interno di infrastrutture e rifugi civili nella Striscia di Gaza, sfruttando brutalmente la popolazione per le sue attività terroristiche», ha ribadito Tsahal dopo l’operazione nella scuola Salah al-Din. La struttura in precedenza era sotto la gestione dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che ha condannato il raid israeliano. «Ancora una volta sembra vogliate ingannare il mondo», ha replicato il portavoce di Tsahal Nadav Shoshani, denunciando il silenzio dell’Unrwa sull’uso di Hamas della scuola come centro terroristico. «Perché non menzionate questo fatto?».
Nei mesi passati altre strutture scolastiche sono state al centro di operazioni militari. Nella sola Gaza City, le scuole Hassan Salame, Nasser e al Tabin. Quest’ultima, colpita a inizio agosto, era una base operativa sia di Hamas sia del movimento Jihad islamica. Almeno una ventina di terroristi dei due movimenti sono stati eliminati nell’attacco di Tsahal, ha dichiarato Shoshani, invitando i media internazionali ad «agire con cautela nei confronti delle informazioni rilasciate dalle fonti di Hamas, che si sono dimostrate decisamente inaffidabili». Il riferimento era ai numeri dati dal ministero della Salute di Gaza secondo cui almeno 70 palestinesi erano morti nel raid.
(moked, 22 agosto 2024)
........................................................
Gaza, l’ufficio di Netanyahu: Israele non ha accettato di ritirare i militari dal Corridoio di Filadelfia
Israele non ha accettato di ritirare i militari delle Forze di difesa israeliane (Idf) dal cosiddetto Corridoio di Filadelfia, zona cuscinetto lungo il confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza. Lo ha reso noto ieri sera l’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, smentendo alcune indiscrezioni che erano state diffuse dai media in precedenza. In un comunicato, l’ufficio del premier ha dichiarato: “Israele insisterà sul raggiungimento di tutti i suoi obiettivi di guerra, così come sono stati definiti dal gabinetto di sicurezza, compreso il fatto che Gaza non costituisca mai più una minaccia per la sicurezza di Israele. Ciò richiede la messa in sicurezza del confine meridionale”. Fra le condizioni per il raggiungimento di un accordo con Israele sul cessate il fuoco a Gaza, il movimento islamista palestinese Hamas chiede il ritiro completo delle Idf dalla Striscia, compreso il Corridoio di Filadelfia. Ieri sera, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha discusso con Netanyahu le trattative per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e la liberazione degli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas. Secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, la conversazione, a cui ha partecipato anche Kamala Harris, vicepresidente e candidata democratica alle elezioni di novembre, si è incentrata anche sulle modalità per evitare ulteriori escalation in Medio Oriente. In precedenza, una fonte aveva riferito al portale di informazione statunitense “Axios” che il presidente Usa avrebbe avuto un colloquio telefonico con il primo ministro israeliano per esortarlo a mostrare maggiore flessibilità, in modo da raggiungere un accordo per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza. Secondo quanto dichiarato da una fonte di “Axios”, la conversazione si sarebbe incentrata sulla nuova richiesta di Netanyahu che le Forze di difesa israeliane rimangano dispiegate lungo il Corridoio di Filadelfia. Negoziatori israeliani e funzionari statunitensi hanno affermato che questa nuova richiesta rappresenta un ostacolo significativo per un possibile accordo e Biden vorrebbe che Netanyahu ammorbidisse la sua posizione sulla questione. Al momento, tuttavia, il premier israeliano non ha cambiato idea sulla sua richiesta.
(Agenzia Nova, 22 agosto 2024)
........................................................
Il capo degli 007 israeliani chiede perdono per l’attacco di Hamas
Haliva: la responsabilità ultima ricade su di me
HERZLIYA – Il dimissionario capo dell’intelligence militare israeliana Aharon Haliva ha ammesso di avere la “responsabilità ultima” per non aver protetto gli israeliani dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. “A nome mio e di tutta l’ala dell’intelligence, chiedo perdono”, ha detto visibilmente commosso durante una cerimonia di passaggio di consegne presso la sede dei servizi segreti a Herzliya, nel centro di Israele.
(askanews, 22 agosto 2024)
........................................................
Come Hezbollah mette a rischio i civili libanesi
di Nathan Greppi
Dall’inizio della guerra scoppiata dopo il 7 ottobre, è stato fatto più volte presente il fatto che Hamas non esita ad utilizzare scuole e ospedali come depositi di armi, oltre a non offrire alcun rifugio alla popolazione civile di Gaza nei propri tunnel.
Recentemente, è giunta la conferma che anche Hezbollah adotta tattiche simili, non esitando ad usare i civili libanesi come scudi umani; martedì 20 agosto, l’IDF ha annunciato che nella notte di lunedì le loro forze aeree hanno distrutto due lanciamissili appartenenti a Hezbollah nel Libano meridionale.
Ben Tzion Macales, analista indipendente ed esperto di geolocalizzazione ripreso dal Jerusalem Post, ha spiegato che “i lanciamissili erano collocati a soli 620 metri da una base dell’UNIFIL. Qualcuno da quelle parti non ha fatto il proprio lavoro, ammesso che siano realmente interessati a farlo”.
Secondo Macales, proprio come Hamas anche Hezbollah nasconde le proprie armi vicino alla popolazione civile: “Il deposito di armi distrutto ieri nella Valle della Bekaa era anch’esso situato in un appezzamento di terra agricolo, avendo un impatto sul terreno e gli edifici circostanti”, ha dichiarato. “Allo stesso modo, a luglio, un altro deposito situato in mezzo a edifici di uso civile è stato distrutto dall’IDF a Tiro. Diverse persone rimasero leggermente ferite da cocci di vetro in seguito all’attacco, che dimostra la prossimità di queste armi ai civili, mettendo a rischio i villaggi e le città vicine”.
Sempre vicino a Tiro, un altro deposito di armi di Hezbollah era stato distrutto a giugno, in mezzo ad una zona industriale. “Anche qui, nessuno rimase ferito durante l’attacco israeliano, ma comunque la scelta di Hezbollah di collocarlo lì dimostra qual è la loro considerazione delle vite umane”, ha spiegato Macales.
A causa di questo loro modus operandi, in passato c’è chi tra i libanesi ha provato ad opporsi: ad aprile, la popolazione cristiana del villaggio di Rmeish, nel sud del Libano, ha reagito contro dei terroristi di Hezbollah sospettati di aver cercato di piazzare dei lanciamissili nel villaggio, e in particolare vicino a chiese e scuole.
(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2024)
........................................................
Il capo di Hamas, Yahya Sinwar, intrappolato sotto terra
Funzionari statunitensi ritengono che il leader di Hamas Yahya Sinwar voglia trovare un accordo con Israele, dal momento che è “intrappolato” nel sottosuolo e sta esaurendo le munizioni e i rifornimenti. Lo ha scritto il giornalista del Washington Post David Ignatius in un articolo di opinione pubblicato mercoledì.
Tuttavia pur con il desiderio di un accordo, Ignatius osserva che Hamas sta “giocando una partita di attesa”, sperando che l’Iran o Hezbollah attacchino Israele, una mossa che trasformerebbe il campo di battaglia.
Ma l’Iran probabilmente deluderà Hamas. Riferisce infatti che i funzionari statunitensi ritengono che i leader iraniani abbiano deciso di ritardare l’attacco a Israele, scoraggiati dalle forti minacce degli Stati Uniti.
Secondo Ignatius, Teheran sta esortando Hezbollah a colpire Israele al suo posto.
Da parte di Hezbollah, i funzionari statunitensi ritengono che il suo leader Hassan Nasrallah abbia fatto marcia indietro rispetto al piano iniziale di lanciare una raffica di missili su Tel Aviv e che sceglierà invece di colpire altri obiettivi.
(Rights Reporter, 22 agosto 2024)
........................................................
La Turchia blocca Israele, boom dei prezzi di ortofrutta
La decisione del governo turco di bloccare gli scambi commerciali con Israele a causa dei bombardamenti di quest’ultimo sulla Striscia di Gaza sta contribuendo all’aumento dei prezzi di frutta e verdura per i consumatori israeliani, secondo quanto riportato dal Daily Sabah. Dopo una prima limitazione delle esportazioni di 54 tipi di prodotti, come riporta Fruitnet, a maggio le autorità turche hanno introdotto un divieto generalizzato a causa del continuo peggioramento della situazione umanitaria a Gaza. “In seguito alla sospensione delle importazioni dalla Turchia a causa del suo boicottaggio di Israele, si è verificato un aumento dei prezzi di frutta e verdura”, ha confermato l’emittente pubblica israeliana KAN. Il commercio bilaterale tra i due Paesi ammontava a quasi 7 miliardi di dollari l’anno prima della sospensione di quest’anno. In risposta, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha dichiarato che il Paese si sta concentrando sulla produzione locale e sulle importazioni da Paesi alternativi. I prezzi sono stati influenzati anche dalla sospensione cautelativa da parte di Israele delle verdure provenienti dalla Giordania dopo la scoperta di batteri del colera nel delta del fiume Yarmouk. Il Consiglio israeliano delle piante e delle associazioni agricole ha chiesto il sostegno finanziario del governo per abbassare i costi agricoli e ridurre i prezzi per i consumatori.
(Corriere Ortofrutticolo, 22 agosto 2024)
........................................................
L’IDF ha ucciso Khalil al-Maqdah, uno dei capi dell’ala militare di Fatah in Libano
di Luca Spizzichino
In un attacco aereo a Sidone, l’IDF ha ucciso Khalil al-Maqdah, uno dei comandanti dell’ala militare di Fatah in Libano. Al-Maqdah, leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, è stato colpito mentre viaggiava in auto. L’esercito israeliano ha confermato l’operazione, dichiarando che il terrorista, insieme al fratello Mounir, guidava il braccio armato di Fatah. Entrambi sono stati accusati di “dirigere attacchi terroristici e contrabbandare armi” in Giudea e Samaria, e sono stati descritti come “collaboratori” delle Guardie rivoluzionarie iraniane.
Secondo le informazioni di intelligence riportate da Israel Hayom, Khalil al-Maqdah collaborava con la Forza Quds iraniana, il ramo delle operazioni estere delle Guardie rivoluzionarie. “Nel marzo 2024 è stato rivelato che armi erano state introdotte di nascosto in Giudea e Samaria e distribuite a cellule terroristiche reclutate e dirette dall’infrastruttura di Khalil e Mounir in Libano,” ha affermato l’esercito in un comunicato. “I funzionari responsabili della direzione e dell’esecuzione del contrabbando di armi in Israele e degli attacchi terroristici sono iraniani, guidati da Jawad Jaafari, capo dell’Unità 4000, un’unità per operazioni speciali nell’ala di intelligence dell’IRGC, insieme ad Ashgar Bakari, comandante dell’Unità 840, un’unità per operazioni speciali della Forza Quds iraniana”, ha aggiunto l’IDF.
“La IDF e lo Shin Bet continueranno costantemente ad agire per monitorare e contrastare le attività che mettono a repentaglio la sicurezza dello Stato di Israele e dei suoi cittadini, al fine di denunciare e ostacolare i tentativi iraniani di compiere attività terroristiche contro lo Stato di Israele”, conclude il comunicato.
L’attacco è stato commentato anche sul profilo X in ebraico dell’IDF, accompagnato da un video aereo che mostra il momento in cui l’auto su cui viaggiava Khalil al-Maqdah è stata colpita. È la prima volta dall’inizio della guerra che Israele prende di mira un membro della Brigata dei Martiri di Al-Aqsa.
(Shalom, 22 agosto 2024)
........................................................
ONU – Ambasciatore Israele: vittime 7 ottobre cancellate da mostra sul terrorismo
|
|
FOTO
Gilad Erdan, ambasciatore israeliano (uscente) alle Nazioni Unite
|
|
In occasione della Giornata internazionale della memoria e del tributo alle vittime del terrorismo la sede dell’Onu di New York, il Palazzo di Vetro, ospita la mostra Memories. Nell’esposizione si citano gli attacchi terroristi dell’11 settembre 2001 e alla maratona di Boston del 2013, oltre a riferimenti ad attentati in Indonesia e in Kenya. «Ma cosa manca?», chiede in un video Gilad Erdan, ambasciatore israeliano (uscente) alle Nazioni Unite. «Non c’è una sola menzione di un attacco compiuto dai palestinesi contro gli israeliani. Stiamo per commemorare un anno dal più grande attacco terroristico contro ebrei e israeliani dalla Shoah, eppure le Nazioni Unite non pensano di doverlo mostrare sui propri muri», accusa Erdan.
Il diplomatico mostra poi la presenza nell’esposizione di una vittima palestinese del terrorismo. «In modo fuorviante c’è scritto grande Palestina in modo che i visitatori pensino che la persona sia stata colpita in Israele. Ma se si leggono le scritte in piccolo si scopre che in realtà è stata ferita in Nuova Zelanda».
Sul sito delle Nazioni Unite si legge che la mostra – promossa da un programma internazionale di supporto alla vittime del terrore – mira a sensibilizzare l’opinione pubblica, ricordando che dietro ogni vittima e sopravvissuto al terrorismo c’è una storia personale. Inoltre si vuole «sottolineare l’importanza di prevenire gli attacchi terroristici e l’emergere di nuove vittime». Non però quando si tratta d’Israele, denuncia Erdan. «Non c’è luogo più corrotto e moralmente distorto delle Nazioni Unite. Dobbiamo unirci per diffondere questo messaggio in tutto il mondo, chiedendo la chiusura e lo smantellamento di questa organizzazione e l’istituzione di un nuovo organismo che rappresenti veramente valori nobili», conclude l’ambasciatore.
Alla fine del suo mandato, il diplomatico ha aumentato il tono dello scontro nei confronti dell’Onu. In una recente intervista all’emittente i24News ha dichiarato che la sede delle Nazioni Unite a New York è «inutile» e dovrebbe essere «chiusa e cancellata dalla faccia della terra». Parlando dei suoi quattro anni da inviato all’Onu, ha affermato di essere «soddisfatto del lavoro svolto. Tuttavia, provo anche un’immensa frustrazione e angoscia per il fatto che questo edificio, che potrebbe apparire imponente dall’esterno, in realtà è corrotto e distorto».
(moked, 21 agosto 2024)
........................................................
Haifa prepara il più grande ospedale sotterraneo del mondo
La struttura del Rambam Health Care Campus è preparata per l'eventualità di una guerra totale con Hezbollah in Libano.
di Etgar Lefkovits
HAIFA - File di letti d'ospedale con annesse attrezzature per l'ossigeno fiancheggiano il parcheggio sotterraneo. Quattro sale operatorie, un reparto di maternità e un centro di dialisi sono tra le strutture che il Rambam Health Care Campus di Haifa, noto anche come Rambam Medical Center, ha sistemato a tre livelli inferiori nel suo parcheggio. Il più grande ospedale del nord di Israele ha creato il più grande ospedale sotterraneo del mondo e si sta preparando per una possibile guerra totale contro Hezbollah in Libano. L'ospedale di emergenza sotterraneo fortificato Sammy Ofer, di tre piani e del valore di 140 milioni di dollari, è stato costruito dopo la seconda guerra del Libano contro l'organizzazione terroristica nel 2006, quando la procura iraniana ha sparato circa 70 razzi contro la città portuale settentrionale per oltre un mese, facendo tremare l'ospedale prima che venisse dispiegato il sistema di difesa aerea Iron Dome. “Abbiamo preso l'impegno che uno scenario del genere non deve ripetersi”, ha ricordato il direttore dell'ospedale, il professor Michael Halberthal, durante una visita alla struttura domenica.
|
|
FOTO
Uno dei tre piani dell'ospedale sotterraneo di Haifa
|
|
L'ospedale sotterraneo di emergenza con più di 2.000 posti letto, operativo ma inutilizzato negli ultimi dieci anni, è essenzialmente un parcheggio di 1.500 auto che è stato convertito senza soluzione di continuità in un ospedale di guerra fortificato che è pienamente operativo entro otto ore. A quasi due decenni dall'ultima grande guerra con Hezbollah, le minacce alla sicurezza sono solo aumentate. Il gruppo terroristico sciita, che lancia razzi contro Israele quasi quotidianamente dal massacro di Hamas del 7 ottobre che ha scatenato la guerra di Gaza, è meglio addestrato e più pesantemente armato. Gli esperti stimano che abbia un arsenale di 150.000 razzi con cui può colpire praticamente tutto il Paese. Halberthal ha detto che l'esercito israeliano ha ipotizzato che, in caso di guerra totale, Hezbollah avrebbe lanciato un razzo su Haifa ogni quattro minuti per 60 giorni, causando migliaia di vittime. “Volevamo una certezza per poter continuare a lavorare e ridurre il tempo di esposizione nel caso di un improvviso attacco missilistico sul nord di Israele”, ha dichiarato. La struttura, che è stata modellata su quella di Singapore, è stata finanziata per il 30% dallo Stato e per il resto da filantropi ebrei e cristiani e da associazioni di beneficenza. Durante la pandemia di coronavirus, è stata ampliata per diventare la più grande struttura COVID-19 in Israele. Data la situazione di tensione con Hezbollah - Israele ha ucciso un alto dirigente di Hezbollah a Beirut il mese scorso, dopo che un razzo di Hezbollah aveva ucciso dodici bambini israeliani che giocavano a calcio sulle alture del Golan - l'ospedale sotterraneo è di nuovo operativo. Uno dei tre piani di 20.000 metri quadrati è stato sgomberato dalle auto e messo in attesa negli ultimi 10 mesi, mentre l'ospedale sotterraneo curava centinaia di vittime di guerra, tra cui bambini drusi feriti durante l'attacco alle Alture del Golan. Servizi igienici, docce e persino un asilo nella struttura sotterranea possono ospitare 8.000 persone a pieno regime. La struttura è dotata di elettricità, acqua, ossigeno, cibo e gas per essere autosufficiente per diversi giorni, secondo il direttore dell'ospedale. Un centro di comando sotterraneo fortificato dell'ospedale, dotato di televisori con schermo intelligente e di un sistema informatico all'avanguardia, è stato donato dalla Federazione Internazionale di Cristiani e Ebrei.
• NIENTE PANICO
|
|
FOTO
I letti sono pronti per essere trasferiti al centro dialisi sotterraneo di Haifa
|
|
Non c'è bisogno di farsi prendere dal panico, ma i cittadini sono preoccupati”, dice Tal Siboni, responsabile del centro di emergenza del Comune di Haifa, che dal 7 ottobre è ospitato in un bunker sotterraneo. I telefoni squillano a vuoto, ma siamo preparati”. La città di 300.000 abitanti, di cui il 12% arabi, è stata in tensione come molte altre città israeliane negli ultimi 10 mesi. Circa 60.000 israeliani sono stati evacuati dalle loro case nel nord di Israele in seguito agli attacchi dal Libano, e alcuni si sono trasferiti ad Haifa. Il sindaco di Haifa, Yona Yahav, ha dichiarato che Hezbollah potrebbe sparare fino a 4.000 proiettili al giorno contro il nord di Israele in una guerra totale. “Mi accusano di essere troppo pessimista, ma è meglio essere troppo pessimisti”, ha detto lunedì, confermando le sue osservazioni, che hanno fatto alzare le sopracciglia nel mondo arabo e sono state riportate dai media. “Siamo noi l'obiettivo”, ha detto. “Il leader di Hezbollah , Hassan Nasrallah, lo dice apertamente”. Nel frattempo, la città ha ridotto la quantità di materiali pericolosi nelle sue industrie petrolchimiche nelle ultime due settimane come misura di sicurezza in conformità con una direttiva militare, ha detto Yair Zilberman, direttore della preparazione alle emergenze e della sicurezza della città. “Ci sono sforzi diplomatici per disinnescare il conflitto, ma siamo pronti a tutto”, ha dichiarato il portavoce delle Forze di Difesa israeliane, il maggiore David Avraham, durante una conferenza stampa ad Haifa, con vista sui porti della città. All'ospedale, in una calda e soleggiata giornata estiva, un flusso costante di pazienti attraversa l'ingresso principale, apparentemente ignaro dei preparativi in corso tre piani più in basso. “Dobbiamo essere ottimisti”, dice Halberthal. “A un certo punto, tutto questo dovrà finire”.
(Israel Heute, 21 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Ex comandanti della NATO lodano Israele per la condotta umana in guerra
Un gruppo militare di alto livello respinge le accuse della Corte penale internazionale ed elogia gli sforzi dell'IDF per proteggere i civili.
Nonostante le critiche diffuse dai media e le sfide legali, la condotta di Israele durante la guerra di Gaza in corso ha ricevuto un forte elogio da parte di ex capi militari della NATO. Nonostante le accuse della Corte Penale Internazionale (CPI) contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant, il Gruppo Militare di Alto Livello (HLMG) - composto da ex capi di stato maggiore e alti funzionari militari di diversi Paesi della NATO - ha elogiato le Forze di Difesa Israeliane (IDF) per il loro approccio umano nel conflitto. Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha richiesto un mandato di arresto per Netanyahu e Gallant con l'accusa di crimini di guerra, comprese le accuse di aver affamato e ucciso intenzionalmente i civili. Tuttavia, l'HLMG ha presentato una memoria amicus curiae alla CPI, confutando queste accuse e fornendo le prove che l'IDF ha compiuto sforzi straordinari per proteggere i civili mentre conduceva operazioni militari a Gaza. L'HLMG, che comprende leader militari di Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Francia, Spagna, Finlandia e Paesi Bassi, ha dichiarato che gli sforzi di Israele per garantire la consegna di cibo e aiuti umanitari a Gaza superano di gran lunga quelli tipicamente intrapresi dagli eserciti moderni. “È nostra opinione militare che lo Stato di Israele e l'IDF stiano rispettando in buona fede tutti gli obblighi legali internazionali per facilitare la fornitura di aiuti umanitari a Gaza”, ha scritto il gruppo. Gli esperti militari hanno sottolineato che nessun'altra forza armata ha eguagliato il successo di Israele nel facilitare la consegna degli aiuti ai civili in territorio nemico mentre era attivamente impegnata nelle ostilità. L'HLMG ha evidenziato la creazione da parte dell'IDF di una Cellula di Mitigazione del Danno Civile (CHMC), un'innovazione tecnologica che utilizza una mappa digitale aggiornata ogni ora per monitorare le concentrazioni di civili. Questo strumento viene consultato quando si pianificano gli attacchi aerei e si scelgono le munizioni, assicurando che l'IDF riduca al minimo le vittime civili. L'HLMG ha descritto il CHMC come una misura “estremamente insolita” e “senza precedenti”, notando che non è a conoscenza di nessun'altra forza militare che impieghi una metodologia comparabile per mitigare il rischio per la vita dei civili. Oltre a ciò, l'IDF ha anche implementato ampi sistemi di allerta, tra cui milioni di lanci di volantini, telefonate e messaggi di testo, per avvisare i civili dell'imminenza di azioni militari. Questi sforzi, secondo l'HLMG, dimostrano l'impegno di Israele ad aderire al diritto internazionale e a proteggere le vite dei civili anche durante un conflitto attivo. La loro dichiarazione è in netto contrasto con la narrazione di violenza indiscriminata spesso riportata da alcuni media e sottolinea la complessità di condurre operazioni militari in aree densamente popolate come Gaza. Mentre il dibattito continua sulla scena internazionale, il sostegno di questi alti ufficiali militari può giocare un ruolo cruciale nel plasmare la percezione globale della condotta di Israele nella guerra di Gaza.
(Israfan, 21 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
I dubbi su Alcide De Gasperi
di Elisabetta Fiorito
Settant’anni fa moriva Alcide De Gasperi, precisamente il 19 agosto 1954. Molti sono gli articoli commemorativi di questi giorni in cui si ricorda anche che sullo statista democristiano è in corso una causa di beatificazione in Vaticano, ormai ferma da oltre un decennio. Ma nuove nubi si addensano sul primo Capo di Stato dell’Italia repubblicana e primo Presidente del Consiglio. Un libro dello storico milanese Augusto Sartorelli, “L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen” descrive gli anni giovanili a Vienna dove il giovane studente italiano abbraccia le tesi del controverso e antisemita borgomastro Karl Lueger che “combatteva gli ebrei artificiosamente identificati con la borghesia capitalista”. De Gasperi fu grande ammiratore di Lueger — spiega Sartorelli — che di lui disse: “Era il campione cristiano che liberò Vienna dal giogo degli Ebrei”. In un articolo su “Il Domani d’Italia”, il 15 maggio 1902, De Gasperi scrive che “in Austria dal 1860 al 1885 circa spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. Alla testa della corrente liberale stava la nazione ebrea, Vienna e l’Austria erano completamente sotto il giogo degli ebrei. Giornalisti si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali tenevano gli operai cristiani in condizione di schiavi; commercianti facevano coi grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica”. Parole che non lasciano dubbi su come De Gasperi etichettasse gli ebrei il male del mondo.
Ma da dove nasce tutto questo odio del futuro statista? È presto detto. Alcide De Gasperi nasce a Pieve Tesino, Borgo Valsugana, in Trentino, il 3 aprile del 1881 da una famiglia di umili origini di stretta osservanza cattolica. E Trento è il luogo dove, durante la Pasqua del 1475, viene ritrovato un bambino morto, Simonino e dove, a causa delle predicazioni del frate francescano Bernardo da Feltre, al quale ancora oggi è intestata una piazza vicino a viale Trastevere, il vescovo principe Johannes Hinderbach sostiene con forza la tesi che il bimbo sia stato vittima di un omicidio rituale, la famosa accusa del sangue, perpetrato dalla locale comunità ebraica. La storia ha il tragico epilogo nella condanna a morte, con confessioni estorte grazie alla tortura, di quindici ebrei, il più giovane di 15 anni, il più vecchio di 90 anni.
“Il bambino – ricorda Sartorelli – da subito considerato un martire, era diventato oggetto di un culto destinato a durare per quasi cinque secoli”. Un culto che lo stesso De Gasperi difendeva. Come scrive Antonio Polito nel suo libro “Il costruttore – Le cinque lezioni di De Gasperi”, “nel 1903, un giovane avvocato liberale trentino, Giuseppe Menestrina (studente in Giurisprudenza a Graz poi avvocato ndr) amico e compagno di scuola di De Gasperi, diede alle stampe uno studio che smontava completamente le false accuse e che fu però accolto molto male dalla curia trentina. In quell’occasione Alcide difese invece il culto, provocando una dolorosa ma radicale rottura dell’amicizia con Menestrina, che gli tolse il saluto per 15 anni”.
Si potrebbe dire, tesi di un giovane che si deve ancora formare, ma passiamo al 1938. De Gasperi è ormai un politico navigato, ha 57 anni, dapprima deputato del partito popolare di Don Sturzo, poi arrestato dai fascisti, rilasciato grazie all’intermediazione del vescovo di Trento Celestino Endrici, lavora dal 1929 alla Biblioteca Vaticana. Dopo la pubblicazione del Manifesto della Razza del 1938, la Chiesa ribadisce l’incompatibilità del razzismo con la dottrina cattolica. Sul numero 16 del 16-31 agosto dell’Illustrazione Vaticana, De Gasperi scrive che le tesi del Manifesto della razza “si distinguono nettamente dalle dottrine più conosciute dei razzisti tedeschi, “discriminare non significa perseguitare” e che “il governo fascista non ha nessun piano persecutorio contro gli ebrei”, ma penserebbe soltanto a una specie di “numero chiuso” alle professioni. De Gasperi conclude augurandosi che “il razzismo italiano si attui in provvedimenti concreti di difesa e di valorizzazione della nazione ed è da credere che l’elemento universalista contenuto nel fascismo può nutrirsi delle vive tradizioni della Roma cristiana che gli offrono il modo di conciliare, è il caso di dire ‘romanamente’, la fierezza del popolo con la sua gentile umanità”. Una posizione a dir poco ambigua.
Ritroviamo Alcide De Gasperi nelle memorie di Ada Sereni, moglie dell’eroe Enzo Sereni, artefice dell’emigrazione ebraica in Israele dal 1945 al 1948 che descrive ne “I clandestini del Mare”, ed. Mursia, la cosiddetta Aliyah Beth. “Giunsero pure molti telegrammi di solidarietà – scrive Ada Sereni – primo fra tutti quello del presidente del consiglio italiano Alcide De Gasperi” per la vicenda delle navi Fede e Fenice bloccate al porto di La Spezia durante la Pasqua ebraica del 1946 e che darà luogo alla vicenda dell’Exodus. Ma più interessante è l’incontro che Ada Sereni ha con De Gasperi nel 1948 all’indomani delle prime elezioni politiche della repubblica vinte dalla Democrazia Cristiana. Fino a quel momento, la nazione è stata guidata da un governo di unità nazionale sempre da De Gasperi, tra i quali figurava anche il cognato di Ada, Emilio Sereni fratello di Enzo, ministro dei lavori pubblici e appartenente al Pci.
Il voto Onu di novembre sancisce la nascita dello Stato ebraico che si prepara alla guerra già annunciata dalle nazioni arabe. Ada Sereni ha necessità di trasportare armi nella Palestina mandataria prima della dipartita dei britannici prevista il 15 maggio del 1948. “In quelle settimane di passione – scrive Ada Sereni – mi fu detto chiaramente, anche dai nostri più fervidi sostenitori, che solo se De Gasperi avesse approvato saremmo stati aiutati a far transitare i difficili carichi. De Gasperi non ci volle ricevere a Roma, ma ci fissò l’appuntamento a Trento (anche qui si potrebbe presagire una scorrettezza ma la materia era delicata). Per venticinque minuti, De Gasperi mi mise sotto un fuoco di fila di domande ben centrate. Infine, concluse: ‘quello che chiedete è praticamente il nostro aiuto a farvi vincere la guerra in Palestina. Qual è l’interesse dell’Italia alla vostra vittoria?’ La mia risposta fu pronta. Primo: l’Italia non ha nessun interesse ad essere circondata da paesi arabi troppo forti. Secondo: sono tre anni che ci aiutate a far defluire dall’Italia i profughi; se perderemo la guerra in Palestina ci sarà un riflusso di masse di profughi; per ragioni geografiche la maggior parte arriverà in Italia: che interesse avete a riprenderli? De Gasperi rimase un attimo silenzioso e disse: ‘allora cosa possiamo fare per voi?’ Chiudere un occhio e possibilmente due sulle nostre attività in Italia. ‘Va bene’, disse alzandosi”. Verrebbe da dire più spaventato dalla prospettiva che l’Italia potesse essere invasa dai profughi ebrei.
“Sul tema degli ebrei – prosegue invece Sartorelli sul suo libro – la voce di De Gasperi sembrò forse riaffiorare nel 1945 dopo la caduta del governo Parri. Nel corso di una conversazione con lo statista democristiano per la formazione del nuovo governo, Pietro Nenni, accennando all’avversione dei liberali e dei democristiani per il Partito d’Azione, annota nel suo diario che ‘De Gasperi ha parlato dello spirito semitico dei Professori del Partito d’azione’. Un’affermazione che sembra essere congruente con il pensiero del primo De Gasperi, quello del Trentino asburgico”. Il partito d’Azione era nato nel 1942 sulle ceneri di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e di cui faceva parte nel 1945 Vittorio Foa.
Assolve parzialmente De Gasperi, Antonio Polito. “Vale la pena ricordare che solo nel 1965, undici anni dopo la sua morte – scrive il giornalista nel suo libro sullo statista – l’arcivescovo di Trento Alessandro Maria Gottardi decise finalmente la soppressione del culto e la rimozione della salma del piccolo Simonino dalla chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Trento”. E che proprio in quell’anno chiudeva il Concilio Vaticano II con il documento Nostra Aetate che toglieva dopo due millenni l’accusa di deicidio nei confronti degli ebrei.
Viene da chiedersi allora: fu De Gasperi un uomo del suo tempo, antisemita perché lo era la Chiesa dell’epoca come si chiede lo stesso Sartorelli? Probabilmente è anche così, ma purtroppo troppi dubbi restano.
(Shalom, 21 agosto 2024)
........................................................
Il premier “non è certo che ci sarà un accordo”: Israele resterà al confine con l'Egitto
Netanyahu ha anche informato le famiglie degli ostaggi: "L'operazione di ieri sera per recuperare i corpi degli ostaggi è solo una delle tante che stiamo conducendo. Non posso rivelare tutto. Stiamo lavorando costantemente a queste e ad altre operazioni”.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha espresso scetticismo su un potenziale accordo con Hamas, sottolineando l'impegno di Israele a mantenere posizioni strategiche chiave. Nel frattempo, le famiglie in lutto hanno espresso preoccupazione per un possibile scambio di prigionieri, facendo un parallelo con il controverso accordo di Gilad Schalit del 2011.
“Non sono certo che ci sarà un accordo, ma se si concretizzerà, salvaguarderà gli interessi e gli asset strategici di Israele”, ha dichiarato martedì Netanyahu durante un incontro con il Forum dell'Eroismo - famiglie in lutto che hanno perso soldati nella campagna Spade di Ferro in corso - e il Forum della Speranza - famiglie degli ostaggi del 7 ottobre.
Netanyahu ha anche informato le famiglie: “L'operazione di ieri sera per recuperare i corpi degli ostaggi è solo una delle tante che stiamo conducendo. Non posso rivelare tutto. Stiamo lavorando costantemente a queste e ad altre operazioni”.
Il primo ministro ha dichiarato con fermezza che Israele non rinuncerà in nessun caso al controllo del Corridoio di Filadelfia e del Corridoio di Netzarim, riferendosi al confine tra Gaza ed Egitto e ad un corridoio chiave est-ovest nella Striscia di Gaza. “Forse sono riuscito a convincere Blinken? Gliel'ho detto chiaramente: In nessun caso Israele si ritirerà dalle posizioni strategiche che ha conquistato durante questo conflitto”.
“Queste sono ore cruciali per il popolo israeliano”, ha detto Yehoshua Shani, padre del capitano Uri Shani, caduto a Kisufim, all'inizio dell'incontro. “Siamo profondamente preoccupati per un potenziale accordo che potrebbe compromettere la sicurezza di Israele”, ha continuato. “Voglio mostrare una fotografia scattata l'anno in cui Gilad Shalit è stato rilasciato, che ritrae dei bambini di 10 anni, mio figlio e Eitan Mor, attualmente prigioniero a Gaza. Mentre lei spingeva per l'accordo su Shalit, sono stati gettati i semi del disastro del 7 ottobre. Esortiamo il Primo Ministro a non ripetere gli errori dell'accordo Shalit che ci hanno fatto tornare indietro. Siamo aperti a un accordo, ma non a uno che metta a rischio la nostra sicurezza nazionale”.
Itzik Buntzel, padre di Amit Buntzel, caduto nella Striscia di Gaza, ha dichiarato: “Siamo qui questa mattina per un incontro del 'Forum dell'eroismo' con il primo ministro, viste le informazioni contrastanti che circolano nella sfera pubblica e nei media. Intendiamo guardare il primo ministro negli occhi e chiedere chiarezza su ciò che sta realmente accadendo e su quali termini si stanno discutendo”.
E ha aggiunto: “Allarmante è il fatto che stamattina abbiamo appreso che lo Stato non dispone di un elenco completo degli ostaggi e delle vittime. Iniziare i negoziati senza sapere chi tra gli ostaggi è vivo è profondamente preoccupante. Come possiamo impegnarci in trattative se mancano informazioni così cruciali?”.
“È impensabile che si arrivi a un accordo con implicazioni di vasta portata per la sicurezza di Israele senza una piena trasparenza. Esigiamo risposte dal Primo Ministro. Non siamo semplicemente un'altra stella sulla bandiera americana, ma una nazione sovrana. Non esiste uno scenario in cui Israele capitola e Hamas riprende il controllo di Gaza come se nulla fosse”.
Itzik Fitusi, che ha perso suo figlio Yishai, un combattente del Golani caduto il 7 ottobre, ha detto: “Sono qui per assicurarmi che il Primo Ministro rimanga risoluto nel salvaguardare la sicurezza di Israele, con in mente il benessere di tutti i cittadini. Oggi ricorrono 19 anni dall'espulsione dalle nostre case e siamo testimoni delle conseguenze del disimpegno. Intendo ricordargli tutto quello che è successo da allora”.
Danny Steinberg, padre del Comandante della Brigata Nahal, Colonnello Yonatan Aharon Steinberg, ha aggiunto: “La mia posizione riflette i precedenti incontri con il Primo Ministro, in cui egli è stato incrollabile nel suo impegno verso le decisioni del governo di smantellare Hamas e di assicurare la restituzione di tutti gli ostaggi. Il Forum dell'Eroismo sostiene un accordo, ma che includa tutti gli ostaggi, compresi quelli uccisi. Sosterremo un accordo che non comprometta gli asset strategici o abbandoni il Sud e lo Stato. Prevediamo un accordo globale che garantisca il ritorno di tutti gli ostaggi e porti sicurezza sia al Sud che, se possibile, al Nord. Questa è la nostra visione dell'accordo. Siamo qui per sentire in prima persona cosa sta accadendo”.
(Israel HaYom, 20 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Israele – La ferrovia unisce il paese, anche in tempo di guerra
di Adam Smulevich
La “normalità” di Israele in questa estate di guerra scorre anche sui binari del suo sistema ferroviario. Sessantasei stazioni e un totale di 1.138 chilometri, di proprietà statale. Non solo tutte le stazioni sono aperte, ma nessuna comunicazione è stata interrotta con le aree più esposte ad eventuali attacchi da parte dell’Iran o dei suoi alleati. In un paio d’ore, partendo da Tel Aviv, si possono così raggiungere sia Nahariya che Sderot. La prima, al confine con il Libano, teme in ogni momento un attacco di Hezbollah e tiene pronti i rifugi. La seconda, travolta dai terroristi di Hamas lo scorso 7 ottobre, si trova a pochi chilometri dalle aree di combattimento a Gaza.
La stazione di Sderot, all’occorrenza un bunker, è stata riaperta a marzo. Vari treni assicurano un collegamento con la “capitale” regionale Beer Sheva così come con le località di Netivot e Ofakim, segnate entrambe dal 7 ottobre. In questa parte del paese i viaggiatori sono oggi pochi: qualche civile e soprattutto soldati, in transito da casa alle basi in cui prestano servizio (e viceversa). Più affollata la linea Tel Aviv-Gerusalemme, utilizzata da un buon numero dei passeggeri in transito all’aeroporto Ben Gurion, l’unico collegamento aperto tra Israele e il resto del mondo. Per andare dalla capitale alla Città Bianca ci vogliono poco più di trenta minuti. Con la precedente linea d’epoca ottomana il tempo di percorrenza era oltre il doppio rispetto a quello attuale. Quando fu inaugurata, il 26 settembre del 1892, per salire fino agli ottocento metri di Gerusalemme si impiegavano tra le tre e le sei ore, partendo tra l’altro da Jaffa visto che Tel Aviv ancora non esisteva.
La ferrovia dell’alta velocità tra Gerusalemme e Tel Aviv è stata inaugurata nel 2018, nel 70esimo anniversario dalla fondazione dello Stato ebraico, imprimendo una svolta a un sistema in crescita ma ancora lacunoso sotto vari punti di vista. Per l’elettrificazione totale della rete si dovrà attendere ancora. Almeno il 2030, scrivono alcuni organi di informazione. Restano poi da inserire nel sistema alcune importanti città oggi non raggiungibili con il treno. Come Eilat, località tra le più turistiche d’Israele, separata dal resto del paese da centinaia di chilometri di deserto. Oppure Nazareth, in Galilea, che sarà la destinazione di una nuova linea in costruzione con partenza da Haifa. L’inaugurazione è prevista per il 2027 e sono attesi circa 120mila passeggeri al giorno.
(moked, 20 agosto 2024)
........................................................
La festa di Tu B’Av dopo il 7 ottobre: sentimenti a contrasto
di Michal Colafranceschi
È stata una celebrazione diversa dal solito quella di Tu B’Av di quest’anno, caduto proprio il 19 di agosto. In questo giorno, il 15 di Av, a breve distanza dal 9 di Av che rappresenta il giorno di lutto per la distruzione del Beth Hamikdash, abitualmente esplode un’ondata di allegria e vitalità con questa festa, Tu B’Av appunto, dedicata all’amore e all’agricoltura.
La Mishnà di Ta’anit racconta che in questa giornata i giovani, vestiti di bianco, si riunivano per danzare e conoscersi, abbattendo solo per questo giorno l’antica tradizione che impediva i matrimoni tra tribù diverse, trasformando Tu B’Av in un simbolo di riunificazione. Inoltre, il 15 di Av segnava l’ultima opportunità per raccogliere legna prima del riposo invernale e coincideva con la fine della vendemmia, quando l’uva veniva raccolta per produrre il vino. Questa giornata è diventata un momento di grande gioia per Am Israel, che celebra l’amore in ogni angolo del mondo.
Quest’anno, però, il significato di Tu B’Av è stato immerso in una tristezza profonda. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, molti giovani sono ancora prigionieri nelle mani di Hamas, lontani dai loro cari e impossibilitati a celebrare Tu B’Av. Da qui è nata la storia di Ziv Abud, una giovane donna che, seduta sul lungomare di Tel Aviv, con il tramonto a farle da sfondo, ha organizzato una cena romantica, stringendo tra le mani una foto di Eliya Cohen, il suo grande amore, ostaggio a Gaza da 318 giorni. Vestita con un abito rosso, Ziv ha preparato un tavolo per due e ha parlato con i passanti, condividendo la sua speranza nel ritorno di Eliya e il desiderio di poter celebrare il matrimonio che lui stava pianificando.
L’ultimo ricordo che ha del suo amato è legato al Nova Festival del 7 ottobre, pochi istanti prima che i missili iniziassero a cadere, che i colpi di arma da fuoco si avvicinassero e che il terrore esplodesse, con il massacro perpetrato da Hamas con distruzione, uccisioni, stupri, rapimenti. Ziv riuscì a sopravvivere, mentre il suo amato fu portato via a Gaza.
In questo giorno speciale, Ziv e molti altri giovani vivono un contrasto straziante tra la gioia prevista e la realtà del dolore. Alcuni sono tutt’oggi vittime e ostaggi di Hamas, mentre altri ragazzi lottano tra la vita e la morte lungo i confini di Erez Israel, per assicurare al popolo ebraico di portare avanti la simchà, il sentimento di gioia e speranza, in un momento di grande oscurità.
(Shalom, 20 agosto 2024)
........................................................
Corridoio di confine Filadelfia o ostaggi?
Israele non deve ripetere lo stesso errore e rinunciare al corridoio di confine Filadelfia.
di Aviel Schneider
|
|
FOTO
Il corridoio di confine Filadelfia
|
|
GERUSALEMME - L’uomo non può vivere senza un'ancora di salvezza, e per il regime di Hamas a Gaza, il corridoio di confine di 12 chilometri di Filadelfia tra la Striscia di Gaza e il Sinai egiziano era un'ancora di salvezza. Sotto il corridoio di confine, che Israele ha riconquistato negli ultimi mesi , c'era un gran numero di tunnel per i contrabbandieri. Questo sistema di tunnel serviva ad Hamas come linea di rifornimento e veniva usato per contrabbandare armi e razzi. Israele deve fare attenzione a non ripetere lo stesso errore e a restituire il corridoio di confine in mani straniere. Non c'è alternativa alla presenza di forze israeliane lungo il corridoio di confine egiziano per garantire una reale sicurezza. Questi 12 chilometri, che per anni sono stati un inferno per Israele, fanno parte della strada più bella di Israele, la Strada 10. La 10, che corre parallela al confine egiziano, è una delle strade asfaltate più lunghe di Israele, a mio avviso sicuramente la più bella del Paese, ma anche la meno percorsa. Per la maggior parte dell'anno è quasi completamente deserta. Le restrizioni di sicurezza vietano il traffico civile incontrollato su questa pittoresca stradina lunga 200 chilometri, che si estende dall'estremità sud-occidentale del confine con la Striscia di Gaza fino a Eilat, dove si congiunge con la Strada 12. Il corridoio di confine Filadelfia era l'arteria principale per il sangue e l'ossigeno nella Striscia di Gaza. Quasi tutto ciò che esiste nella Striscia di Gaza, armi, razzi, munizioni, sigarette, droghe, banconote, bestiame, persone e tutto ciò che si può pensare è entrato nella Striscia palestinese attraverso il corridoio di confine Filadelfia con la consapevolezza e l'interesse dell'Egitto. L'Egitto non è una democrazia. Nulla avviene lì senza autorizzazione e l'importazione di tali quantità rispondeva alle esigenze del sistema di gestione delle relazioni internazionali del Cairo con Gerusalemme. All'esterno, l'Egitto rispetta il trattato di pace con Israele, mentre nel sottosuolo ha armato il regime di Hamas a Gaza. Per alcune figure chiave della parte egiziana, come Mohammed el-Sisi, il figlio del presidente egiziano, si è trattato di un affare da miliardi di dollari. Sotto il patrocinio egiziano, è stato portato nella Striscia di Gaza un vasto materiale. I camion hanno attraversato la Striscia. Questo non è possibile senza l'autorizzazione delle autorità egiziane, soprattutto perché Hamas è una propaggine della Fratellanza Musulmana radicale in Egitto, che è osteggiata dal presidente egiziano Fattah el-Sisi. Quello che è successo non può ripetersi. Per ricordare, prima del ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nell'estate del 2005, ci sono state diverse considerazioni su come controllare il corridoio di confine Filadelfia. La presenza di forze israeliane sul confine richiedeva un'ampia zona di sicurezza. La larghezza necessaria, fino a 300 metri, avrebbe richiesto la demolizione di migliaia di case a Rafah e nell'area circostante. Un piano prevedeva la creazione di un canale d'acqua lungo 12 chilometri alimentato dal Mediterraneo per prevenire attacchi e tunnel. Alla fine, Israele ha commesso l'errore di ritirarsi completamente dal confine, lasciando il controllo all'esercito egiziano. In cambio, Israele ha permesso il dispiegamento di quasi 1.000 soldati egiziani aggiuntivi nella zona demilitarizzata del Sinai, come stabilito dal trattato di pace. All'inizio del 2008, l'Egitto ha eretto un muro di sbarramento alto 3 metri, poiché Hamas aveva già fatto saltare le precedenti barriere di filo spinato. Ma anche il muro di cemento e acciaio è stato fatto saltare da Hamas in diversi punti, così che decine di migliaia di palestinesi della Striscia di Gaza hanno potuto fare acquisti e camminare sul lato egiziano per giorni, fino a quando il confine non è stato nuovamente chiuso dagli egiziani. Tutto questo è accaduto sotto il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert. Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni nel 2009 e ha governato il Paese fino ad oggi, con una breve interruzione (da giugno 2021 a dicembre 2022). Negli anni successivi Hamas, in collaborazione con le autorità egiziane, ha costruito nella Striscia di Gaza il sistema di mostri sotterranei che Israele ha esposto al pubblico mondiale negli ultimi mesi. Questo spiega come Hamas abbia potuto lanciare migliaia di razzi contro Israele in tutte le sue guerre contro Israele tra il 2009 e il 2014. Il tutto grazie ai tunnel sotto il corridoio di confine Filadelfia. Israele stesso è rimasto sorpreso e ha messo in imbarazzo il suo partner di pace, l'Egitto, che per anni aveva ripetutamente promesso a Israele di non permettere tunnel sotto il corridoio di confine. Oggi possiamo capire che la preoccupazione per l'intelligence distrae dal vero problema, ovvero l'obbligo delle forze armate israeliane di difendere il popolo anche se l'esercito viene sorpreso. Il nemico ha sconfitto la divisione meridionale di Gaza di Israele il 7 ottobre non grazie all'intelligence, ma perché Israele non aveva il margine di sicurezza e le riserve di difesa necessarie. “L'intelligence e la difesa israeliana hanno fallito a causa della politicizzazione dell'esercito. Invece della logica militare e del pensiero militare, la leadership della sicurezza israeliana ha usato il calcolo politico. Non è questo il loro compito. Il loro compito è sconfiggere Hamas. Questo è il loro compito”, hanno spiegato nei giorni scorsi gli esperti di sicurezza. Gli stessi meccanismi stanno funzionando ora e Israele non deve cadere in questa trappola. Diverse fonti hanno sottolineato che lo Stato Maggiore israeliano è pronto a lasciare il corridoio di confine Filadelfia e dispone di soluzioni per impedire la costruzione di nuovi tunnel in caso di emergenza. Se questo fosse l'unico modo per liberare gli ostaggi israeliani. Dobbiamo assumerci la responsabilità dei nostri confini. Yahya Sinwar comprende molto bene questa necessità. Sa come sopravvivere e vuole sopravvivere. Questo è il suo elisir di lunga vita. Ecco perché la prima cosa che vuole è questo ossigeno, senza il quale ha un serio problema. E Israele non deve permetterlo. Yahya Sinwar è uno psicopatico che ha dimenticato il suo guru spirituale. Chi ha reclutato Sinwar è stato Abdallah Yussef Azzam, ideologo islamista palestinese, mente di al-Qaeda e mentore di Osama bin Laden, il padre della jihad islamica. Una delle cose più dolorose per Sinwar è la perdita del suo Paese. Se si rende conto di aver perso un territorio a causa della sua megalomania, questo è il momento di dirgli che ora può o perdere, o perdere ancora di più. Se Israele rinuncia di nuovo al corridoio di confine, manterrà in vita l'ancora di salvezza per Hamas e Sinwar. Questo non deve accadere, in nessun caso. I mediatori americani ed egiziani stanno esercitando enormi pressioni su Israele affinché rinunci al corridoio di confine, altrimenti non ci sarà alcun accordo sugli ostaggi. È lecito chiedersi se Israele sia in grado di resistere a queste pressioni. Negli ultimi giorni, parallelamente ai negoziati di Doha e del Cairo per un accordo sugli ostaggi, le forze armate israeliane hanno intrapreso azioni ancora più massicce del solito contro Hamas nella Striscia di Gaza, al fine di esercitare ancora più pressione su Hamas e Sinwar e infine uccidere Sinwar. Non sarà una decisione facile per Israele quando dovrà scegliere tra il corridoio di confine Filadelfia e il rilascio degli ostaggi israeliani.
(Israel Heute, 20 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Hamas e la Jihad Islamica rivendicano l’attentato fallito a Tel Aviv
Ma la polizia e lo Shin Bet pensano ci siano dietro Iran e Hezbollah
Le forze di sicurezza israeliane stanno indagando sulla possibilità che
l’Iran e il suo proxy libanese
Hezbollah siano collegati al tentativo di attentato suicida di domenica da parte di un palestinese a Tel Aviv, hanno riferito lunedì 19 agosto i media ebraici.
Hamas ne ha rivendicato la responsabilità, insieme alla Jihad islamica palestinese, anche se l’attentatore non risulta essere affiliato a nessuno dei due. Tuttavia, la polizia e il servizio di sicurezza Shin Bet ritengono che l’attentatore, residente a Nablus in Cisgiordania, possa aver
ricevuto indicazioni dall’Iran o da Hezbollah, data la sofisticatezza del suo esplosivo, che alla fine è risultato difettoso, secondo quanto riportato da Channel 12 news e dall’emittente pubblica Kan.
• L’attentato fallito Un uomo che trasportava la bomba è stato ucciso nell’incidente di domenica 18 agosto, secondo quanto riferito dalla polizia sul posto. L’attentatore era un
palestinese della zona di Nablus, in Cisgiordania, e trasportava l’ordigno esplosivo in una borsa di riserva, hanno riferito i media israeliani in lingua ebraica. Un passante di 43 anni a bordo di uno scooter elettrico è rimasto ferito nell’esplosione.
Secondo la polizia israeliana, l’ordigno esplosivo, che “probabilmente è stato costruito in Cisgiordania”, era “grande e significativo e se non fosse esploso all’esterno avrebbe ferito molte persone”, ha detto Amar.
Secondo Channel 12, il terrorista ha camminato per circa un chilometro (0,6 miglia) nel sud di Tel Aviv prima che l’esplosivo di 8 chilogrammi (17 libbre) nel suo zaino esplodesse in un’area non affollata, uccidendolo e ferendo un’altra persona.
La polizia inizialmente non era sicura che l’esplosione fosse il risultato di un tentativo di attacco terroristico e ha avuto difficoltà ad accertare l’identità dell’uomo morto, di cui “non è rimasto nulla”, ha detto Amar. Ha aggiunto che un rapido controllo di laboratorio ha rivelato che il deceduto proveniva dalla Cisgiordania, e a quel punto la polizia ha concluso che l’esplosione era stata concepita come un attacco terroristico.
Separatamente, Canale 12 ha detto che il Consiglio di Sicurezza Nazionale ha informato diversi funzionari israeliani attuali ed ex su possibili minacce contro di loro da parte dell’Iran e di Hezbollah.
Sebbene non vi fossero al momento avvertimenti concreti di un attacco terroristico, la polizia ha dichiarato di aver rafforzato la propria presenza nelle grandi città a seguito di quello che sarebbe stato il primo attentato suicida in Israele dal 2016.
“Se il terrorista fosse entrato in una sinagoga vicina, sarebbe stata una tragedia terribile”, ha dichiarato il capo della polizia di Tel Aviv Peretz Amar in una conferenza stampa lunedì sera.
“Si è trattato di un attacco terroristico, con la detonazione di un potente ordigno esplosivo”, hanno dichiarato la polizia e lo Shin Bet in un comunicato congiunto. “I cittadini sono invitati a essere vigili”.
Secondo il comandante della polizia del distretto di Ayalon, Haim Bublil, l’assalitore potrebbe aver pianificato di colpire la vicina sinagoga o il centro commerciale, ma non è chiaro il motivo per cui la bomba sia esplosa.
Il portavoce della polizia israeliana Eli Levy ha dichiarato che è stato un “miracolo” che l’incidente non sia stato un attacco con un alto numero di vittime.
“È avvenuto un grande miracolo. Si tratta di un incidente molto difficile su cui stanno indagando la polizia e lo Shin Bet”, ha dichiarato a Kan News.
• Le rivendicazioni In una dichiarazione, le Brigate Al-Qassam di Hamas hanno affermato che le loro “operazioni di martirio” (attacchi suicidi) all’interno di Israele continueranno finché “continueranno i massacri e la politica di assassinio dell’occupazione” – un riferimento alla campagna militare di Israele a Gaza e all’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniyeh nella capitale iraniana di Teheran il 31 luglio, mai rivendicata da Israele.
Il fallito attentato suicida di domenica è avvenuto circa un’ora dopo l’arrivo del Segretario di Stato americano
Antony Blinken a Tel Aviv per sollecitare un cessate il fuoco a Gaza.
Nel frattempo, le autorità israeliane hanno dichiarato che il livello di allerta era stato innalzato a Gush Dan, l’area metropolitana che comprende Tel Aviv, dove le forze di sicurezza stavano effettuando perquisizioni.
(Bet Magazine Mosaico, 20 agosto 2024)
........................................................
Kamala sceglie un sostenitore del terrorismo come “collegamento” con gli ebrei americani
di Daniel Greenfield
“Al Congresso sta aumentando la pressione affinché Biden faccia di più per fermare l’assalto di Israele a Gaza?”, gli venne chiesto in un’intervista del 2021, mentre infuriavano i combattimenti per fermare gli attacchi di Hamas contro Israele.
“Spero che possa usarlo come leva per convincere gli israeliani a fermarsi”, rispose Ilan Goldenberg, futuro consigliere di Kamala per il Medio Oriente e nuovo “collegamento” con la comunità ebraica.
Un’Amministrazione Kamala potrebbe essere peggiore per gli ebrei dell’Amministrazione Obama?
Una prima risposta è arrivata con l’annuncio che la campagna Harris-Walz aveva scelto Ilan Goldenberg come PROPRIO “collegamento” con la comunità ebraica. Freedom Center Investigates aveva già tracciato il profilo di Goldenberg quando era consigliere di Kamala per il Medio Oriente.
Membro del team di Kerry sotto Obama, i cui attacchi faziosi contro Israele e il cui sostegno all’Iran e ai terroristi islamici in Israele hanno contribuito a provocare l’attuale crisi regionale, Goldenberg ha trascorso gli anni precedenti al 7 ottobre facendo tutto il possibile per far sì che l’attacco di Hamas si realizzasse.
E il periodo successivo in cui ha ricoperto il ruolo di consigliere di Kamala e ha imposto sanzioni agli israeliani.
Ilan Goldenberg aveva precedentemente sostenuto un accordo in cui “Hamas avrebbe mantenuto alcune delle sue capacità militari” e sostenuto che “metà delle cause profonde sono azioni israeliane, in particolare concentrandosi su Gaza. E l’altra metà è dovuta alla scelta di Hamas di usare la violenza e armarsi in risposta”.
Aveva perorato un maggiore flusso di denaro a favore di Hamas e sostenuto che Israele avrebbe dovuto consentire ai lavoratori di Gaza l’ingresso nel paese. “Una volta c’erano 25.000, 100.000 abitanti di Gaza che lavoravano all’interno di Israele. Deve accadere di nuovo”. Ciò ha portato al 7 ottobre.
La nuova “liasion” ebraica di Kamala si è opposta a ogni singola mossa pro-Israele da parte sia dei repubblicani che dei democratici, che si trattasse di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, riconoscere le alture del Golan o persino tagliare gli aiuti al programma “pay-to-slay” dell’Autorità Nazionale Palestinese. Invece, ha sollecitato mosse anti-Israele tra cui un riconoscimento unilaterale di uno Stato “palestinese” sul territorio di Israele.
Ilan Goldenberg era stato un acceso sostenitore dell’Iran Deal e aveva partecipato a un evento organizzato da NIAC: Iran Lobby. Aveva sostenuto che “In seguito a un accordo nucleare di successo, le relazioni degli Stati Uniti con l’Iran dovrebbero passare da quelle di un avversario a quelle di un concorrente”.
E Ilan Goldenberg faceva parte del team responsabile e difensore dell’opposizione dell’Amministrazione Obama a Israele presso l’ONU.
Un recente articolo su Tablet di Michael Doran del “Center for Peace and Security in the Middle East” aveva descritto Goldenberg come colui che ha svolto un “ruolo molto entusiasta” nel programma dell’Amministrazione Biden per sanzionare gli ebrei in Israele. Finora quelle sanzioni hanno preso di mira un allevamento di capre israeliano, un fornaio israeliano che ha sparato a un terrorista e una madre israeliana di 8 figli, che ha lavorato con i sopravvissuti di aggressioni sessuali e ha guidato le proteste contro le politiche di Biden che hanno premiato Hamas.
Invece di essere associato alla comunità ebraica, Goldenberg era legato a gruppi anti-israeliani tra cui “J Street”, “Peace Now” e “Israel Policy Forum”: che hanno accolto con favore la sua nomina. Goldenberg aveva una rapporto flebile con gruppi ebraici, ma aveva partecipato a un evento per NIAC, Iran Lobby, ed è stato un vigoroso sostenitore dell’accordo che ha rafforzato il terrorismo iraniano.
Ma tutto questo potrebbe non essere l’aspetto più inquietante della mossa della vicepresidente Kamala Harris.
I precedenti contatti ebraici erano solitamente coinvolti nella vita comunitaria ebraica e potevano parlare di una varietà di questioni. Ilan Goldenberg è semplicemente un attivista anti-israeliano i cui unici problemi sono dare potere all’Iran e a Hamas. Kamala ha riassunto la comunità ebraica nel gruppo a sostegno del suo programma anti-israeliano senza nemmeno riconoscere che ci sono ebrei americani.
Un collaboratore di Kamala ha dichiarato che Goldenberg sarebbe stato “il principale collegamento della campagna con i leader e le parti interessate della comunità ebraica e avrebbe consigliato la campagna su questioni relative alle relazioni tra Stati Uniti e Israele, alla guerra a Gaza e al Medio Oriente in senso più ampio”.
Non c’è menzione di nulla che potrebbe interessare agli ebrei americani all’interno dei confini nazionali.
Gli ebrei americani non sono il governo israeliano o una sua estensione. E tuttavia per Kamala, questo è tutto ciò che sono. L’assistente di Kamala non è riuscito a pensare agli ebrei americani se non in termini di politica estera.
I portavoce di Kamala nella comunità ebraica sostenevano che, poiché suo marito è di origine ebraica, lei capisce gli ebrei. Se non altro, gli ebrei americani le sono apparentemente estranei.
Invece di scegliere qualcuno della comunità ebraica o uno dei suoi assistenti politici, Kamala ha scelto qualcuno la cui unica funzione sarà quella di giustificare le sue politiche anti-israeliane alla comunità ebraica e che filtrerà ogni tentativo della comunità ebraica di contrastarle.
Cosa possono aspettarsi gli ebrei americani da Ilan Goldenberg e, in una certa misura, da Kamala Harris?
Durante le operazioni militari del 2021 contro Hamas, Goldenberg ha spiegato perché Biden stava solo fingendo di sostenere Israele. “Quello che Biden ha deciso di fare per il momento è dire privatamente agli israeliani di fermarsi o di fermarsi presto, continuando a sostenerli pubblicamente. Questo lo aiuta a costruire un sostegno politico… ma quando arriverà un momento, si spera presto… in cui Biden dirà, ‘OK, basta, dovete fermarvi o la nostra posizione pubblica inizierà a cambiare. La nostra posizione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove vi abbiamo difeso, inizierà a cambiare. Dovete fare in modo che tutto questo finisca’”.
“Ma se avesse iniziato semplicemente criticandolo pubblicamente, penso che la convinzione, almeno nell’Amministrazione Biden, sia che potrebbe essere stato effettivamente l’occasione per il primo ministro Netanyahu di opporsi agli Stati Uniti e dire che ‘non prendiamo ordini dagli Stati Uniti. Dobbiamo fare ciò che è meglio per la nostra sicurezza’ e in un certo senso usare il disaccordo con gli Stati Uniti come un grido di battaglia politico per se stesso in patria. E quindi penso che questo sia uno dei motivi per cui l’Amministrazione Biden ha scelto, almeno all’inizio, di sostenere pubblicamente Israele”.
Bugie, inganni e manipolazioni con lo scopo di rafforzare Hamas e distruggere Israele.
Ogni singolo “rabbino” presente nel raduno virtuale “Jewish Americans for Kamala Harris” organizzato da Haile Sofer, ex consigliere di Kamala, e dal suo Jewish Democratic Council of America, era un attivista anti-Israele. Sofer e la JDCA, che in precedenza avevano salutato la richiesta del senatore Schumer che Israele smettesse di combattere Hamas, hanno celebrato la nomina di Goldenberg.
La campagna di Kamala e i suoi alleati politici stanno guidando una rottura fondamentale con Israele, anche prima delle elezioni, mascherandola con discorsi allegri a vantaggio di alcuni dei loro donatori.
La nomina di una delle figure di politica estera più ostili e persistenti come “collegamento” con la comunità ebraica invia un messaggio potente: questa amministrazione sarà anti-Israele tanto quanto lui e che Kamala riconfigurerà il proprio rapporto con gli ebrei americani attorno alle sue politiche anti-Israele. Nemmeno Obama è arrivato a tanto. Cosa ci dice il fatto che Kamala lo stia già facendo adesso?
(L'informale, 20 agosto 2024 - trad. Niram Ferretti)
........................................................
La vendetta che non c’è stata e le trattative
Le rappresaglie annunciate – e non realizzate
di Ugo Volli
Sono passate quasi tre settimane dall’eliminazione a Beirut del numero due di Hezbollah, Fouad Sukar, e di quella a Teheran di Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas; quasi un mese dall’attacco dell’aeronautica militare israeliana contro il porto di Hodeida nello Yemen. È stata una serie di colpi durissimi ai satelliti dell’Iran, per cui ciascuno di loro ha promesso vendetta. Lo hanno fatto anche gli ayatollah, con dichiarazioni infuocate del leader supremo dell’Iran Ali Khamenei. Si è a lungo discusso sulla forma che avrebbe avuto la rappresaglia di questo “asse del male”; si sono sprecate dichiarazioni pro e contro: c’è stata un grande stato d’allarme da parte di Israele; gli Usa hanno spedito in Medio Oriente un terzo della loro flotta; vi sono state missioni diplomatiche per indurre a miti consigli gli ayatollah, respinte con sdegno da loro. Ma almeno fino al momento in cui questo articolo viene scritto (domenica sera), niente è successo se non il consueto scambio di colpi fra Israele, che mira a eliminare capi militari e risorse strategiche di Hezbollah e i terroristi libanesi, che puntano invece piuttosto su case e automobili civili. Il lento e minuzioso lavoro di smantellamento delle risorse militari di Hamas è proseguito, contrastato da agguati e da pochi lanci di missili ormai incapaci di raggiungere bersagli significativi.
• PERCHÉ NON È ACCADUTO
Insomma non c’è stata la catastrofe prevista. Hezbollah ha detto che per reagire aspettava la conclusione delle trattative sul cessate il fuoco promosse dagli Usa, l’Iran ha sostenuto che si sarebbe vendicato al momento più opportuno, gli Houti hanno ripetute le solite minacce apocalittiche. È un’inazione che costa all’asse del male una notevole perdita di faccia. Perché non è successo niente? Non certo perché Iran e soprattutto (per via della vicinanza geografica) Hezbollah manchino dei proiettili con cui potrebbero bombardare Israele facendo probabilmente gravi danni. E neppure per la presenza americana che non ha dissuaso gli ayatollah a cercare di farlo ad aprile. Quel che è successo è probabilmente che alcuni colpi, come la reazione israeliana di aprile molto moderata ma abbastanza penetrante da mostrare la capacità di colpire in profondità e poi il bombardamento stesso di Hodeida, non più vicino dei siti atomici dell’Iran, hanno convinto gli ayatollah che non era nel loro interesse scatenare un conflitto aperto, che avrebbe sì potuto far molto male a Israele, ma avrebbe forzato la posizione americana in favore dello Stato ebraico e avrebbe comportato la distruzione del programma nucleare di Teheran e lo smantellamento di Hezbollah. Un classico caso di deterrenza. È possibile che questa guerra inizi davvero, perché l’Iran si potrebbe decidere a volerla (ma allora non sarebbe più vista dal mondo come una reazione, bensì un’iniziativa nuova e una pericolosa escalation) o perché Israele di fronte a una minaccia incombente potrebbe ritenere necessario un attacco preventivo come accadde nella Guerra dei Sei Giorni. Ma per il momento la guerra segue altre strade più tortuose e indirette.
• IL NEGOZIATO
Una di queste è la trattativa per il cessate il fuoco, voluta con tutte le forze dall’amministrazione Biden. Bisogna dire che a Israele questo negoziato non conviene. Da quel che si capisce gli Usa e i due “mediatori” (che non sono affatto a metà fra le parti, dato che il Qatar è il più diretto protettore di Hamas e l’Egitto ha assunto una posizione più chiaramente antisraeliana via via che emergevano i tunnel di Rafah e la sua complicità con Hamas) vorrebbero che Israele cedesse in cambio di una piccola parte degli ostaggi (una trentina “vivi o morti”, secondo Hamas) non solo una quantità di condannati esperti e pericolosi che darebbero nuova linfa al terrorismo, come hanno fatto quelli scambiati per Gilad Shalit, fra cui lo stesso Sinwar; ma anche concessioni sul terreno tali da rischiare di rendere inutili i terribili sacrifici compiuti da Israele per difendesi da Hamas.
• QUEL CHE VUOLE HAMAS
Riprendendo una sintesi di fonte israeliana, ci sono tre ostacoli principali sul cammino per raggiungere un accordo sugli ostaggi. Hamas vuole sopravvivere e riarmarsi per mantenere il controllo della Striscia di Gaza. Per questo ha bisogno in primo luogo che Israele si ritiri dal “tubo dell’ossigeno” del corridoio Philadelfi (il confine fra Gaza e l’Egitto), in modo che più razzi, armi ed esplosivi fluiscano dall’Egitto. Hamas vuole poi anche consentire a tutti, compresi i terroristi armati, di tornare nel nord di Gaza in modo da ristabilirvi il suo dominio: una possibilità che Israele ha cercato di evitare in tutti i modi, in particolare istituendo a metà della striscia un filtro sorvegliato dalle truppe, il corridoio Netzarim. Infine, Hamas vuole un impegno scritto con garanzie internazionali che, qualunque cosa succeda, Israele non riprenderà alcuna azione militare contro di loro a Gaza. In sostanza, Hamas vuole poter dire che ha vinto la guerra e anche vincerla davvero, perché secondo queste condizioni, si ritroverebbe subito nella condizione di potersi riarmare e di riprendere l’offensiva quando lo ritenesse vantaggioso.
• IL CONTROLLO DELLA STRISCIA
La questione di chi governerebbe Gaza sarebbe in questo caso poco significativa: nell’Autorità Palestinese e soprattutto negli “innocenti civili di Gaza” ci sono evidenti e permanenti simpatie per Hamas, che la riporterebbero al potere anche dopo elezioni o un commissariamento dell’Autorità Palestinese; un corpo di pace internazionale sarebbe totalmente inefficace di frenare i terroristi, come si vede anche in questi giorni con l’Unifil in Libano; i finanziatori e i fornitori d’armi, Iran in testa, sono pronti a sostenere il riarmo. I paesi occidentali hanno mostrato, cercando di impedire l’ingresso israeliano a Rafah, la ripulitura di Filadelfi, le operazioni che l’esercito israeliano ha fatto in questi mesi, di non volere la distruzione di Hamas, in cui peraltro non crede l’opposizione israeliana e anche certi settori delle agenzie di sicurezza e dell’esercito. E però solo un controllo di sicurezza israeliano, protratto per parecchi anni, renderebbe impossibile la ripetizione del 7 ottobre.
• IL DIFFICILE COMPITO DEL GOVERNO DI ISRAELE
Oggi fra la resa nelle trattative che richiede Hamas, appoggiato dall’amministrazione Biden, dall’Europa e naturalmente da Russia, Cina e paesi musulmani, vi è solo la volontà della maggioranza degli israeliani e l’azione del governo, che viene spesso attaccata per questo soprattutto con una campagna violentissima contro Netanyahu. Il quale, da abile ed esperto politico qual è, mentre cerca di dare tempo all’esercito perché continui il suo difficile lavoro sul terreno, non si contrappone frontalmente alle pressioni americane, ma cerca di far vedere che i veri nemici della pace ancora oggi sono Hamas e i suoi protettori. Chi ama Israele non può che sperare che abbia successo.
(Shalom, 19 agosto 2024)
........................................................
L’“accordo” con Hamas promosso dagli USA è una trappola per Israele e favorisce l’Iran
di Giovanni Giacalone
Il nuovo “accordo” per un cessate il fuoco a Gaza promosso dall’amministrazione statunitense non sembra includere il controllo israeliano sul corridoio Filadelfi né la presenza delle IDF nel corridoio Netzarim della Striscia di Gaza centrale per impedire il ritorno dei terroristi di Hamas a nord, come richiesto dal Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
Come spiegato dal Times of Israel, i funzionari statunitensi hanno precedentemente affermato che il ritorno delle forze armate di Hamas nel nord di Gaza costituirebbe una violazione dell’accordo. Tuttavia, i mediatori ora hanno proposto una clausola che dà a Israele il diritto di riprendere le ostilità militari contro Hamas se le armi dovessero essere spostate nel nord di Gaza.
L’articolo del Times of Israel ha anche spiegato che, secondo fonti di sicurezza israeliane, il ritiro dal corridoio Filadelfi per sei settimane non consentirebbe a Hamas di riarmarsi in modo significativo. Inoltre, Israele ed Egitto implementerebbero degli accordi riguardanti il confine tra Gaza ed Egitto.
Le ragioni strategiche e tattiche per cui questo “accordo” consentirebbe a Hamas di riarmarsi e riprendere il potere a Gaza sono state perfettamente spiegate da Seth Frantzman in una analisi per il Jerusalem Post ed è difficile non essere d’accordo con lui.
Di fatto, sei settimane sono un lasso di tempo enorme e Hamas riacquisterebbe facilmente le forze e inizierebbe a colpire di nuovo Israele. A quel punto, l’IDF dovrebbe rispondere e la guerra ricomincerebbe. Solo uno sprovveduto può seriamente credere che abbandonare i due corridoi non rafforzerebbe Hamas e che non ci sia una evidente ragione se l’organizzazione terroristica vuole che l’IDF si ritiri da questi luoghi.
Lasciare che Hamas si riorganizzi e si riarmi non farà altro che prolungare il conflitto e mettere a repentaglio altre vite israeliane, comprese quelle di coloro che sono appena tornati a sud. Inoltre, che dire delle centinaia di soldati dell’IDF che sono morti durante la campagna per sradicare Hamas? Sono morti per niente? E poi, ci si può fidare dell’Egitto? Considerando tutti i tunnel che sono stati trovati tra Gaza e il territorio egiziano?
Sfortunatamente, questa è solo una parte del problema, perché con Yahya Sinwar ancora in vita, Hamas potrebbe di fatto rivendicare la vittoria, poiché Israele passerebbe dall’obiettivo di “sradicare Hamas” a quello di lasciarlo sopravvivere e riprendere il controllo della Striscia.
È anche importante tenere presente che, durante la riorganizzazione, Hamas cercherebbe molto probabilmente di ritardare il più possibile il rilascio degli ostaggi ancora in vita, perché questa è l’unica leva che ha l’organizzazione terroristica per evitare la distruzione.
Un altro problema costante è l’Iran. L’eliminazione di Ismail Haniyeh a Teheran è stata un duro colpo per il regime iraniano. Accettare un simile “accordo” porterebbe il regime da una posizione di estrema debolezza a una di forza, presentandosi al mondo come “magnanimo” per non aver risposto all’eliminazione del leader terrorista palestinese sul proprio suolo in cambio della “pace” a Gaza, quando sappiamo tutti molto bene che il regime iraniano ha tutto l’interesse a salvare e riarmare il suo delegato palestinese a Gaza. Di fatto questo non è un problema per l’attuale amministrazione statunitense che sta perseguendo una politica di appeasement con l’Iran, ma va sicuramente contro gli interessi di Israele.
Va inoltre aggiunto che dopo aver sentito per mesi la dirigenza israeliana parlare di una lotta globale contro il terrorismo islamista, contro Hamas “che non è più solo un’organizzazione terroristica ma anche un’ideologia transnazionale”; sul fatto che se Israele capitola, poi toccherà al resto dell’Occidente, sarebbe piuttosto singolare vedere Netanyahu stringere un accordo con Hamas. Soprattutto perché l’organizzazione terroristica palestinese adesso si trova in una posizione di estrema debolezza. Ci sono paesi che, in un momento in cui Israele è stato costantemente preso di mira da gran parte della comunità internazionale, hanno messo a rischio la propria sicurezza interna per schierarsi con esso contro il terrorismo islamista. Questi paesi potrebbero iniziare a riflettere se ne valeva la pena.
L’Amministrazione Biden e altri membri della comunità internazionale interessati alla “pace” dovrebbero piuttosto fare pressione su Hamas affinché liberi gli ostaggi senza condizioni, data l’attuale debolezza di Hamas (grazie alla campagna militare israeliana) invece di spingere per una trappola che porterebbe altri terroristi assetati di sangue sul campo pronti a uccidere gli israeliani. Tuttavia, ciò non sta accadendo.
Ricordiamo che Israele è uno Stato democratico sovrano, mentre Hamas è un’organizzazione terroristica inserita nella lista nera di Stati Uniti, Canada, UE e Regno Unito. Questo “accordo” sarebbe un suicidio politico per Netanyahu, una minaccia importante per la sicurezza di Israele e potrebbe anche avere ripercussioni su quei partner internazionali che si schierano con Israele contro il terrorismo islamico.
Questo “accordo” è solo un modo per l’Amministrazione Biden di salvare il regime iraniano e mantenere in vita Hamas. Donald Trump è stato molto chiaro quando ha consigliato a Netanyahu di terminare Hamas il più velocemente possibile e che questo è l’unico modo per uscire dalla palude.
(L'informale, 19 agosto 2024)
........................................................
Paralimpiadi 2024 Israele: quando la vittoria è la vita stessa
di David Fiorentini
Cala il sipario sui Giochi Olimpici di Parigi 2024, un’edizione storica per la delegazione israeliana che raggiunge un nuovo record di medaglie, ben 7, un oro, cinque argenti e un bronzo. Ma lo spettacolo non finisce qui, è già in partenza la squadra paralimpica dello Stato ebraico, con 28 fantastici atleti pronti a scendere in campo per i Giochi Paralimpici che si terranno dal 28 agosto all’8 settembre.
Dal taekwondo, al tennis in carrozzina, fino al canottaggio, 28 incredibili storie da diversi background, che dimostrano la strabiliante resilienza di chi di fronte alle peggiori avversità ha trovato la forza di rialzarsi e raggiungere le massime manifestazioni sportive mondiali.
• NUOTO
Israele porterà cinque talentuosi nuotatori ai Giochi, tra cui i gemelli Marc e Ariel Malyar di 24 anni. Alle Paralimpiadi di Tokyo 2020, Marc ha vinto tre delle nove medaglie di Israele, portando a casa l’oro nei 200 metri misti individuali e nei 400 metri stile libero e un bronzo nei 100 metri dorso nella classe di disabilità S7. Entrambi i fratelli sono nati con una paralisi cerebrale e hanno scoperto il loro talento durante una sessione di idroterapia presso il centro sportivo di Ilan Haifa.
Altri campioni in carica di ritorno in vasca sono Ami Dadaon, vincitore dell’oro nei 200 metri e nei 50 metri stile libero e argento nei 150 metri misti individuali nella divisione S4, oltre che detentore del record mondiale nei 100 metri stile libero, e Iyad Shalabi, oro nei 100 metri e 50 metri dorso nella classe S1, che tra l’altro è stato il primo cittadino arabo israeliano a vincere una medaglia individuale alle Paralimpiade.
Infine, la nuotatrice Veronika Girenko, tornerà per la terza edizione a competere nel dorso, rana, stile libero e misti individuali nella divisione S3.
• TENNIS IN CARROZZINA
Tra i giocatori di tennis in carrozzina, spicca il portabandiera Adam Berdichevsky, sopravvissuto al massacro del 7 ottobre nella sua casa nel Kibbutz Nir Yitzhak, dove i terroristi di Hamas hanno ucciso sette persone. Berdichevsky ha perso una gamba nel 2007 durante un incidente in barca in Thailandia e ha gareggiato sia in singolo che in doppio nel 2016 e nel 2020.
Dopodiché, gareggeranno il tennista numero 3 al mondo, Guy Sasson, campione in carica dell’Australina Open 2024, e due debuttanti: Maayan Zikri e Sergi Lysov.
• GOALBALL
Un altro sport molto seguito dal Comitato Paralimpico Israeliano è il goalball, riservato ad atleti con disabilità visive, a cui parteciperà la squadra femminile, composta dalla portabandiera Lihi Ben David, Noa Malka, Lihi Ben David, Roni Ohion, Gal Khamrani, Uri Mizrahi ed Elham Mahmid.
• CANOTTAGGIO/KAYAK
Per il canottaggio due di coppia, debutteranno Shahar Milfelder e Saleh Shahin, la prima è stata diagnosticata con un cancro aggressivo all’età di 16 anni e le è stata asportata gran parte del bacino, il secondo, di origine drusa, è stato ferito durante un attacco terroristico nel 2005 mentre prestava servizio come guardia di sicurezza al checkpoint di Karni al confine con Gaza. La coppia è data tra i favoriti in seguito alla promettente medaglia d’argento vinta alla scorsa edizione della Coppa del Mondo di Canottaggio 2024.
Nelle categorie individuali invece, figureranno Shmulik Daniel, reduce da una grave lesione spinale mentre prestava servizio nell’esercito nel 2005 e alla sua seconda Paralimpiade, Moran Samuel, argento a Tokyo e bronzo a Rio, e le due kayakiste debuttanti, Talia Eilat, bronzo agli Europei 2023, e Kfar Sirkin, medico e quarta agli Europei 2022.
• BOCCE
Nadav Levy, nato con paralisi cerebrale, è alla sua terza partecipazione come giocatore di bocce, dopo aver vinto l’oro ai Campionati Europei 2023.
• PARA-BADMINTON
Campioni agli Europei di Para-Badminton nel 2018, tornano per il doppio Nina Gorodetsky e Amir Levi.
• CICLISMO A MANO
Per il ciclismo a mano, scende in pista Amit Hasdai (nella foto in alto), quarto agli Europei 2023 e alla sua prima gara paralimpica. Hasdai è stato gravemente ferito durante l’Operazione Scudo Difensivo nel 2002, a soli 19 anni.
• TAEKWONDO
Per Israele, competeranno il due volte campione del mondo paralimpico, Assaf Yassur, e Adnan Milad, i quali hanno perso le mani dopo essere rimasti gravemente fulminati.
• TIRO A SEGNO
Infine, per il tiro al segno, tornerà per la seconda volta Yulia Chernoy, immigrata in Israele dal Kazakistan a 19 anni e che ha vinto il bronzo nel tiro libero a 50 metri ai Campionati del Mondo in Australia nel 2019 e che ha gareggiato come canottiera alle Paralimpiadi del 2016.
Una nutrita delegazione, tra debuttanti e campioni in carica, la cui partecipazione ai Giochi di Parigi è un inno alla vita e alla sportività, che sicuramente sarà un messaggio di speranza per i milioni di israeliani che li sosterranno da casa.
(Bet Magazine Mosaico, 19 agosto 2024)
........................................................
Meno consenso, più coraggio
A cura di Giulio Meotti
Cohen ha incarnato una politica in cui la parola “consenso” veniva pronunciata prima di discutere qualsiasi cosa che potesse essere controversa.
|
Secondo Mr. Consensus, il mondo dovrebbe essere connesso attraverso l’Onu, il Fondo monetario internazionale e l’Ue
|
Immaginate, è l’11 settembre 2001 e ho 31 anni” scrive Ayaan Hirsi Ali su Commentary. “Mi sono stabilita nei Paesi Bassi, dove mi sono assimilata alla cultura olandese. Vivo la vita di una trentunenne olandese media. Vivo a Leida. Vado ad Amsterdam per lavoro. Condivido un appartamento con il mio ragazzo. Guido una macchina. Vado in vacanza. Ero arrivata in Olanda nel 1992, una rifugiata dalla Somalia, e in soli nove anni riesco a vivere una vita non diversa da quella di tutti i miei amici olandesi. Quando ho iniziato il mio lavoro presso un think tank socialdemocratico ad Amsterdam, erano felici di avermi. Ero una storia di successo di integrazione razziale e sociale. Mi ero laureata in Scienze politiche all’Università di Leiden; stavo discutendo con i miei colleghi sull’eredità di vari primi ministri olandesi. E’ stato in questo think tank che ho incontrato per la prima volta un uomo che era la perfetta rappresentazione di un tipo che in seguito avrei considerato ‘Mr. Consenso’. Il suo nome era Job Cohen ed era il presidente del consiglio di amministrazione. Quando ho iniziato l’incarico, era appena diventato sindaco di Amsterdam e innegabilmente era un uomo dell’establishment. Ha celebrato il matrimonio civile dei futuri sovrani ed è stato particolarmente amico di lei. All’epoca Cohen sedeva in molti dei consigli di amministrazione più importanti della nazione, non solo nei think tank, ma anche nel mondo dell’arte e della politica. Era al centro dell’intersezione dove politica, mondo accademico e cultura si incontrano. Era estremamente rispettato e, cosa più importante per lui, una figura rispettabile. La sua politica era saldamente nel mezzo: quel ‘vecchio centrosinistra’ che ora sembra decisamente bizzarro. Ha incarnato e sostenuto una politica in cui la parola ‘consenso’ veniva pronunciata prima della discussione di qualsiasi cosa che potesse essere lontanamente controversa. Era il signor Consenso. E ce n’erano molti, molti in tutta Europa e negli Stati Uniti che si comportavano proprio come lui.
Mr. Consensus e i suoi cloni hanno incarnato la leadership in occidente dal periodo che va dal crollo del comunismo sovietico nel 1989 all’11 settembre. Ciò a cui abbiamo assistito, nei due decenni successivi, è una crisi del mondo creata da Mr. Consensus e le conseguenze delle sue decisioni o la loro mancanza. Per capire perché l’occidente è andato in declino sotto la sua guida nell’ultimo quarto di secolo, è necessario comprendere la sua visione del mondo. Prima dell’11 settembre ero una grande ammiratrice del suo tipo di politica, di tutto ciò che riguarda il consenso. Per me, vivere in una società in cui il compromesso era il re e l’esito di qualsiasi conflitto poteva essere caratterizzato dal fatto che ‘entrambe le parti hanno vinto’ è stato incredibilmente avvincente. Mi ha convinta. Un’altra caratteristica di Mr. Consensus è il suo amore per la ‘collaborazione’. Dopo la caduta del Muro di Berlino e l’emergere di un ordine unipolare con gli Stati Uniti al timone, Mr. Consensus, così abituato ad avere le due potenze dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti su entrambi i lati, si è battuto per il multilateralismo. Quando sono andata al think tank, sono stata inserita nel portafoglio dell’immigrazione. Era il campo politico più ricercato. Volevo fare qualcosa di più ambizioso dell’immigrazione. E di certo non volevo essere il candidato simbolico della diversità. Ma sono stata lusingata da Job Cohen, che mi ha detto che ero un ottimo esempio di integrazione!
Le cose sono cambiate dopo l’11 settembre. Ho iniziato a scontrarmi con i miei colleghi del think tank. Tutti iniziarono a sostenere che forse l’America se l’era cercata. Nixon, Israele, il petrolio: solo una lista infinita di ragioni per cui Bin Laden e al-Qaeda avevano attaccato gli Stati Uniti. Ma man mano che il tempo passava e ottenevamo sempre più informazioni sui 19 uomini che dirottarono i quattro aerei, divenne chiaro per me che l’attacco non era una risposta alla politica estera americana. No, questi uomini erano guidati da una visione politica teocratica del mondo che era completamente estranea alla società occidentale: l’islamofascismo. Questo è stato il mio primo conflitto con i miei colleghi del think tank. La mia prospettiva è stata respinta completamente perché era una narrazione che minava la loro politica di consenso. Si sono trovati nella morsa della dissonanza cognitiva mentre lottavano per afferrare l’idea che la politica al di fuori dell’Olanda o forse dell’occidente post Guerra fredda potrebbe non riguardare solo l’identificazione di interessi estranei e concorrenti e la resa a concessioni che renderebbero tutti felici. Alcune persone non vogliono concessioni. Alcune persone sono semplicemente tue nemiche. Odiano te e la tua società e faranno tutto il possibile per degradarti e distruggerti. Un massimalismo che Mr. Consensus non riesce a calcolare.
Sulla scia dell’11 settembre, poiché ero una giovane immigrata nera, ingenua, tutti nei media olandesi hanno immediatamente iniziato ad attaccarsi a me per ottenere la mia opinione su queste cose. E ovviamente l’ho data. Ho scritto i risultati della mia ricerca, citando i migliori lavori accademici disponibili. Ho detto loro che i lavoratori ospiti migranti provenienti da paesi musulmani mandavano i loro figli in scuole per soli musulmani, ascoltavano solo i canali radiofonici e televisivi dedicati agli insegnamenti musulmani e si sposavano solo all’interno delle loro comunità. Ero una rifugiata, non una lavoratrice ospite, ed ero scappata dalla mia famiglia, quindi non ero soggetta allo stesso soffocante controllo sociale che la maggior parte dei musulmani subiva in Olanda. Ma potevo capire perché coloro che erano rimasti intrappolati nel ghetto stavano fallendo. In quel periodo nei Paesi Bassi emergeva un altro politico. Il suo nome era Pim Fortuyn, ed era un chiaro oppositore di Mr. Consensus. Fortuyn ha definito l’islam arretrato e ha sostenuto che la società olandese sarebbe cambiata irreparabilmente dall’immigrazione di massa dai paesi islamici. E quando i giornalisti mi hanno chiesto riguardo ai commenti di Fortuyn, non ho potuto essere in disaccordo con lui. Per aver detto queste cose sono stata minacciata da molti musulmani nei Paesi Bassi e in Europa, compresi i membri della mia famiglia allargata. E il partito socialdemocratico di cui facevo parte, il partito al governo del paese, si è trovato in una situazione scomoda. Da un lato mettevo in imbarazzo i socialdemocratici dando punti al loro avversario. Dall’altro, sono stati costretti a fornirmi la protezione della polizia dalla minaccia di quegli stessi musulmani che Pim Fortuyn aveva identificato come arretrati. Quindi la leadership del partito di centrodestra del paese mi ha chiesto di unirmi a loro e ho accettato. Passando al partito di centrodestra, avrei potuto difendere le idee della libertà di parola, dell’emancipazione delle donne, della libertà di coscienza, del libero mercato, della libera stampa: tutte queste cose che hanno reso grande l’Olanda.
Quasi un quarto di secolo dopo, in occidente ci sono persone che sono legate al dogma islamista più che mai. Sono nelle nostre università, nelle nostre strade e nelle nostre istituzioni politiche, dove ora dettano la politica e minacciano di influenzare le elezioni se non ottengono ciò che vogliono. La realtà, che Mr. Consensus nega, sta travolgendo tutti in Europa occidentale. L’immigrazione illegale non ha portato all’utopia ma sempre più al traffico di droga e di esseri umani. La leadership emersa per far fronte a queste crisi, e che ho visto personificata per la prima volta in Cohen tanti anni fa, ha messo da parte la vecchia saggezza secondo cui un leader deve affrontare la realtà che trova sul campo e non il risultato che desidera. Secondo Consensus, il mondo è e dovrebbe essere connesso attraverso le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale e l’Ue. Il loro ruolo di primo piano si basa sulla convinzione che attraverso il commercio, gli aiuti, la migrazione umanitaria e pianificata, saremo protetti da tutte le forze che cercano di sovvertire le nostre società e ci augurano del male. Indulgendo in questa fede infondata nel solo soft power mentre si affamano i nostri bilanci per la difesa nazionale, ci troviamo disposti a contemplare concessioni all’Iran, alla Cina, a Putin e persino a Hamas! L’ex sindaco di Amsterdam ha recentemente rilasciato un’intervista che mi ha incuriosito. Si è ritirato dalla politica e vive nella bellissima e verdeggiante città di Haemstede, nel lusso tranquillo fuori Amsterdam. E’ il capo della Fondazione volontaria per l’eutanasia. Un giudice della Corte suprema dei Paesi Bassi di nome Huib Drion immagina un mondo in cui la morte possa essere provocata nel momento scelto dal consumo di due piccole pillole. Cohen si è ritirato in un quartiere protetto che rimane in ogni sua forma tradizionale ed europeo. Viaggia in macchina. Non sa davvero, o forse non gli interessa, cosa succede adesso nei quartieri.
Mr. Consensus e i suoi cloni hanno preso una decisione dopo l’altra che collettivamente hanno alienato le loro popolazioni e le hanno rese insicure. Hanno di fatto abolito il Dio cristiano e lo hanno sostituito con un astratto ‘buonismo’ in nome del consenso. Per loro, essere ateo, come lo ero io in passato, significava essere ai livelli più alti dell’intelligenza raggiungibile. Mentre ci sono radicali nelle strade che dichiarano guerra alle fondamenta stesse del nostro sistema occidentale, Mr. Consensus si comporta con aristocratica indifferenza. Ha scelto di non credere a nulla. Questo tipo di leadership deve scomparire. Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma. Dobbiamo porre l’accento sulla restaurazione. Dobbiamo sfidare Mr. Consensus e ritenerlo responsabile. Gli islamisti e gli utili idioti che si definiscono ‘woke’ e scandiscono i loro slogan di morte sono stati in grado di prosperare nel vuoto morale creato da Mr. Consensus. Non abbiamo la pillola di Drion nella tasca posteriore. E non la vogliamo. Vogliamo qualcosa di più forte. Più potente. Piuttosto che Mister Consenso, troviamo Mister Coraggio”.
(Il Foglio, 19 agosto 2024 - trad. Giulio Meotti)
........................................................
USA – La stanchezza degli ebrei usati come una clava politica
Gli ultimi dieci mesi sono stati difficili per gli ebrei americani. Sul Forward, Nora Berman ha scritto: «La guerra ci ha allontanato da parenti e amici, ha diviso le nostre sinagoghe e persino le app per gli appuntamenti sono in subbuglio, con profili in guerra pieni di emoji schierati. Ma la cosa peggiore è il modo in cui la nostra identità ebraica – e le reali minacce antisemite che affrontiamo – è diventata uno strumento politico, sfruttato sia a destra che a sinistra».
La scorsa settimana il candidato alla vicepresidenza, il senatore JD Vance, ha insinuato che Kamala Harris sia stata convinta a non scegliere il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro come suo compagno di corsa perché è ebreo. Nonostante Shapiro, quella stessa sera, avesse proclamato durante un comizio per Harris di essere orgoglioso del proprio ebraismo, tra gli applausi. Trasformare la questione profondamente personale di come gli ebrei gestiscono i potenziali conflitti tra la propria identità personale e quella pubblica in un referendum sulla vitalità politica degli avversari non è appannaggio solo della destra. I Democratic Socialists of America (DSA) si sono vantati, su X: «La scelta di Walz ha dimostrato al mondo che DSA e i suoi alleati a sinistra sono una forza che non può essere ignorata». E hanno aggiunto che la pressione della sinistra ha fatto sì che Harris rinunciasse a scegliere «un potenziale vicepresidente che ha legami diretti con l’IDF e che ha sostenuto ferocemente il genocidio in corso in Palestina». Per la cronaca: Shapiro ha “solo” completato un progetto di servizio scolastico in Israele come volontario non militare in una base dell’esercito, oltre al lavoro in un kibbutz e in una pescheria. Ed è favorevole al cessate il fuoco e alla soluzione dei due Stati.
Ma, scrive Berman, essere una pedina politica è parte dell’esperienza ebraica: usati dai partiti di tutto lo spettro politico per rappresentare i mali o i successi che ritenevano utili al momento questa volta ci si confronta con una realtà diversa, sia per quanto accaduto il 7 ottobre e per la conseguente guerra di Israele contro Hamas, ma anche, e soprattutto, per il ruolo dei social media. Tutto viene trasmesso sui nostri telefoni 24 ore su 24, 7 giorni su 7, spesso senza contesto e con una retorica volutamente aggressiva. Scrive Berman che è inevitabile: ciò che coinvolge gli ebrei è una questione grande e complessa e viene sfruttata (e amplificata) sui social media. Gli ebrei sono stati trasformati in un’idea, che viene usata come una clava.Tutti sono diventati esperti di Medio Oriente e hanno opinioni sempre più polarizzate sugli ebrei: la destra e la sinistra USA si sfidano su chi sia il migliore protettore degli ebrei e chi il più grande perpetratore dell’antisemitismo.
Trump ha detto ripetutamente che gli ebrei che votano per i democratici sono «sleali nei confronti di Israele» e dovrebbero farsi «esaminare la testa». Dopo che Alexandria Ocasio-Cortez – le cui critiche a Israele non l’hanno resa particolarmente popolare tra gli ebrei americani – ha ospitato una conversazione in livestream sull’antisemitismo e l’antisionismo con due esperti ebrei, la DSA ha ritirato il suo appoggio, definendo la sua sponsorizzazione del panel «un profondo tradimento».
La repubblicana Elise Stefanik durante l’interrogazione ai presidenti delle università sull’antisemitismo, nel dicembre 2023, è riuscita a trattare gli ebrei contemporaneamente come vittime, menti del movimento anti-DEI (Diversity, Equity, Inclusion) che griderebbero all’antisemitismo per far licenziare una donna nera, e strumento politico spuntato di un politico ambizioso. Ha fatto in modo che la realtà di ciò che gli ebrei realmente provano sparisse: l’antisemitismo è reale ed è in aumento.
E gli ebrei sono esausti non solo a causa dell’antisemitismo, ma anche perché spesso le accuse di antisemitismo vengono tirate fuori per motivi che poco hanno a che fare con la loro sicurezza. È un’accusa che si sta svuotando di significato, più viene usata come insulto e più verrà percepita come falsa, e pericolosa. Si chiede Berman: «Come possiamo, come comunità, elaborare il lutto e affrontare questa guerra profondamente dolorosa quando il nostro essere ebrei continua a essere politicizzato per un numero apparentemente infinito di cause? Come possiamo affrontare adeguatamente le questioni politiche che ci stanno a cuore – tra cui non solo Israele e l’antisemitismo, ma anche i diritti riproduttivi e la giustizia climatica, se la nostra identità non è vista come parte della nostra umanità, ma come un argomento politico? A questo punto, ogni volta che vedo qualcuno che parla a nome degli ebrei, o un titolo di giornale su ciò che pensano gli ebrei, vorrei chiudere il mio computer portatile, spegnere il telefono e dormire. Non voglio più preoccuparmene, è questo il risultato più pericoloso di tutti».
(moked, 18 agosto 2024)
........................................................
Reuven, l’ufficiale dell’IDF che il 7 ottobre ha corso per 12 kilometri
Il giovane ufficiale dell’IDF che il 7 ottobre ha corso per 12 kilometri fino al confine con Gaza per combattere i terroristi È stata la corsa più difficile che abbia mai fatto”: il sottotenente Avichail Reuven racconta la sua storia eroica, che Netanyahu ha condiviso brevemente con il Congresso il mese scorso con una standing ovation.
|
|
FOTO
Il sottotenente Avichail Reuve
|
|
Quando il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si è rivolto al Congresso degli Stati Uniti alla fine di luglio, ha nominato quattro soldati israeliani che, a suo dire, sono stati degli eroi dopo il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas. Il primo di questi soldati è stato il giovane ufficiale dell’IDF, il sottotenente Avichail Reuven, che quel sabato ha corso per 12 chilometri fino al confine con Gaza per aiutare a combattere i terroristi.
Reuven si trovava a casa dei suoi genitori nella città meridionale di Kiryat Malachi il 7 ottobre quando è stato svegliato dalle sirene. All’epoca stava ancora frequentando l’addestramento per ufficiali, ma dopo aver sentito la notizia di una massiccia infiltrazione di terroristi nelle comunità di Gaza al confine con Israele, decise di andare ad aiutare anche se non era stato chiamato.
“Ho detto a mio fratello e a un amico che mi sarei recato al confine. Ho detto che se fosse successo qualcosa, avrei semplicemente ucciso i terroristi. Mi sembrava che i ragazzi ridessero un po’ di me”, ha raccontato. Mi hanno detto: “Sei pazzo ad andare, non c’è motivo di venire con te”. Ho anche cercato amici con una macchina per andarci, ma non ho trovato nessuno, così ho deciso che sarei andato all’interscambio e avrei cercato di trovare un passaggio”.
Reuven indossò la sua uniforme, ancora umida di bucato, e si è fblinkn
avviato con il suo fucile e il suo berretto rosso da paracadutista. Non sapendo esattamente dove stesse andando, Reuven ha aspettato allo svincolo principale vicino a casa sua che qualcuno si fermasse per dargli un passaggio, ma nessuno lo ha fatto, così ha deciso di iniziare a correre.
“È stato difficile, correre con l’uniforme bagnata, con le sirene per tutto il tempo e i razzi che cadevano nella zona”, ha raccontato. Dodici chilometri e un’ora dopo, Reuven si è ritrovato di nuovo sull’autostrada, accaldato e assetato, ma determinato ad andare avanti. “È stata la corsa più difficile che abbia mai fatto. È stata la corsa più lunga che abbia mai fatto in uniforme, con il caldo. Un incubo”, ha detto.
Dopo aver camminato ancora un po’ lungo l’autostrada, Reuven ha finalmente trovato un passaggio con un civile il cui figlio era stato al festival musicale Supernova, dove i terroristi di Hamas hanno ucciso circa 360 persone e preso più di 40 ostaggi durante la loro furia nel sud di Israele. Reuven ha raccontato che ancora oggi non conosce il nome dell’uomo, ma l’autista gli ha dato dell’acqua e lo ha lasciato ad uno svincolo fuori Ashkelon quando ha capito che non avrebbe potuto raggiungere il luogo del rave e aiutare suo figlio senza un’arma.
Allo svincolo, Reuven è riuscito a prendere un altro passaggio, con un’auto della polizia, fino a un posto di blocco vicino a Zikim, la sede di una base di addestramento dell’IDF che era tra i siti infiltrati dai terroristi quel giorno.
“Ho discusso un po’ con gli agenti di polizia. Ho detto loro: ‘Io entro. Se non con voi, entro da solo”, ha raccontato Reuven, aggiungendo che mentre parlava con loro è arrivato il vice comandante di un battaglione di ricerca e soccorso di Zikim, che ha chiamato solo Alexander, e i due sono entrati insieme nella base.
Poiché erano nel pieno dell’addestramento di base, molti dei soldati della base di Zikim non erano completamente addestrati, così quando sono arrivati i terroristi, i comandanti della base hanno riunito tutti in due rifugi antiatomici e si sono avvicinati alla recinzione per combattere i terroristi. Sei comandanti e un soldato dell’addestramento di base sono stati uccisi durante i combattimenti. Reuven e l’altro comandante si sono uniti alla battaglia non appena sono arrivati.“Qui c’era il caos più totale. Metà della base era bruciata. Si sentivano molte grida e si vedevano i terroristi correre per tutta l’area”, ha raccontato Reuven.
Lui e un altro comandante hanno unito le forze per combattere i terroristi e hanno raggiunto un rifugio antiatomico dove erano in attesa circa 30 soldatesse dell’addestramento di base, una delle quali era ferita. Reuven le ha curato la ferita. “Ho detto loro: “Ascoltate, ho bisogno di tre ragazze forti. È per questo che vi siete arruolate in un’unità di combattimento. Ora è il vostro momento di dimostrare che siete delle combattenti”.
Poi ha detto ai tre soldati di stare all’ingresso del rifugio antiatomico e di sparare in testa a tutti i terroristi che avessero visto. Poi si è diretto verso un secondo rifugio antiatomico per controllare i tirocinanti maschi, dove c’erano altri soldati feriti. Per le due ore successive, ha corso per la base combattendo contro i terroristi e raccogliendo barelle e acqua per i soldati nei rifugi antiatomici.
Alla fine, Reuven ha incontrato il col. (ris.) Erez Eshel, che aveva raggiunto Zikim dalla sua casa di Ma’ale Adumim. “Incontro un giovane soldato impegnato in una missione e non capisco chi sia. Non so il suo nome”, ha detto Eshel, aggiungendo di aver salvato il numero di telefono di Reuven con il nome ‘Sabato, soldato di Simchat Torah’.
“È completamente dentro, sa maneggiare la sua pistola, è calmo, è concentrato e può gestire qualsiasi cosa. È un vero super soldato”, ha detto Eshel. I due sono rimasti ancora un po’ a Zikim prima di dirigersi verso le vicine Yiftah, Kfar Aza e, infine, Kibbutz Be’eri, una comunità di circa 1.000 residenti di cui 101 civili sono stati uccisi il 7 ottobre, insieme a 31 membri della sicurezza. Complessivamente, i terroristi hanno ucciso circa 1.200 persone, per lo più civili, e preso 251 ostaggi durante l’attacco di Hamas a Israele quel giorno. L’IDF ha trascorso i giorni successivi a combattere i terroristi e ad arrestare o uccidere gradualmente tutti coloro che erano rimasti in Israele.
“Non dirò che è l’unico soldato che ho preso, ma è l’unico soldato che ha resistito a tutti i combattimenti fino a domenica mattina presto, quando l’ho collegato alla sua compagnia”, ha detto Eshel. Eshel ha raccontato al comandante della scuola ufficiali dell’IDF nel sud di Israele, nota come Bahad 1, ciò che Reuven ha fatto il 7 ottobre, e il comandante lo ha riferito a Netanyahu. Reuven ha completato il suo addestramento da ufficiale con distinzione e ha accompagnato Netanyahu negli Stati Uniti il mese scorso, dove ha ricevuto una standing ovation quando il primo ministro ha condiviso la sua storia durante il discorso alla sessione congiunta del Congresso.
“Nelle prime ore del 7 ottobre, Avichail ha sentito la notizia della sanguinosa furia di Hamas. Ha indossato la sua uniforme, ha preso il suo fucile, ma non aveva un’auto. Così ha corso per otto miglia fino al fronte di Gaza per difendere il suo popolo”, ha detto Netanyahu ai legislatori statunitensi.
“Avete sentito bene. Ha corso per 12 kilometri, è arrivato in prima linea, ha ucciso molti terroristi e ha salvato molte vite. Avichail, tutti noi onoriamo il tuo straordinario eroismo”. Reuven è ora un comandante di compagnia per i paracadutisti in addestramento di base, e insiste nell’includere lunghe corse nel processo di addestramento dei suoi soldati. Reuven è il secondo figlio di nove nati da immigrati israeliani provenienti dall’Etiopia. Durante l’adolescenza ha faticato a finire la scuola superiore ed è stato classificato come giovane a rischio. Per questo motivo, non aveva i requisiti per essere reclutato nell’IDF come paracadutista, ma Reuven era determinato e ha lottato per il suo posto nell’unità.
Reuven ha dichiarato non intende ritirarsi dall’IDF a breve. “Voglio continuare a lavorare nell’esercito. È la mia missione, è ciò in cui credo”, ha detto.
(Israele 360, 18 agosto 2024)
........................................................
Un rivivere dai morti
II CRONACHE, cap. 36
- Caldei incendiarono la casa di Dio, demolirono le mura di Gerusalemme, diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi, e ne distrussero tutti gli oggetti preziosi.
- E Nabucodonosor deportò a Babilonia quelli che erano scampati dalla spada; ed essi furono assoggettati a lui e ai suoi figli, fino all'avvento del regno di Persia
- (affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia), fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati; infatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono compiuti i settant'anni.
- Nel primo anno di Ciro, re di Persia, affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia, l'Eterno destò lo spirito di Ciro, re di Persia, il quale, a voce e per iscritto, fece pubblicare per tutto il suo regno questo editto:
- "Così dice Ciro, re di Persia: 'L'Eterno, l'Iddio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, l'Eterno, il suo Dio, sia con lui, e parta!'”.
MATTEO, cap. 1
- Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abraamo.
- Abraamo generò Isacco; Isacco generò Giacobbe; Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli;
- Giuda generò Perez e Zerac da Tamar; Perez generò Chesron; Chesron generò Ram;
- Ram generò Amminadab; Amminadab generò Nason; Nason generò Salmon;
- Salmon generò Boaz da Raab; Boaz generò Obed da Rut; Obed generò Isai;
- Isai generò Davide, il re. E Davide generò Salomone da quella che era stata moglie di Uria;
- Salomone generò Roboamo; Roboamo generò Abiia; Abiia generò Asa;
- Asa generò Giosafat; Giosafat generò Ieoram; Ieoram generò Uzzia;
- Uzzia generò Iotam; Iotam generò Acaz; Acaz generò Ezechia;
- Ezechia generò Manasse; Manasse generò Amon; Amon generò Giosia;
- Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli al tempo della deportazione in Babilonia.
- Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Sealtiel; Sealtiel generò Zorobabele;
- Zorobabele generò Abiud; Abiud generò Eliachim; Eliachim generò Azor;
- Azor generò Sadoc; Sadoc generò Achim; Achim generò Eliud;
- Eliud generò Eleazar; Eleazar generò Mattan; Mattan generò Giacobbe;
- Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo.
- Così da Abraamo fino a Davide sono in tutto quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici generazioni e dalla deportazione in Babilonia fino a Cristo quattordici generazioni.
- La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
- Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente.
- Ma, mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo.
- Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”.
- Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
- “Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”,
che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi”.
- E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l'angelo del Signore gli aveva comandato; prese con sé sua moglie
- e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio, al quale pose nome Gesù.
MATTEO, cap. 2
- Essendo Gesù nato a Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode, dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo:
- “Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo”.
- Udito questo, il re Erode fu turbato e tutta Gerusalemme con lui.
- Radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
- Essi gli dissero: “In Betlemme di Giudea, poiché così è scritto per mezzo del profeta:
- 'E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele'”.
- Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa
- e, mandandoli a Betlemme, disse loro: “Andate, domandate diligentemente del bambino e, quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché venga anche io ad adorarlo”.
- Essi dunque, udito il re, partirono e la stella che avevano visto in Oriente andava davanti a loro, finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra.
- Essi, vista la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
- Ed entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
- Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per altra via.
- Quando furono partiti, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode cercherà il bambino per farlo morire”.
- Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto;
- là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: “Chiamai mio figlio fuori dall'Egitto”.
- Allora Erode, vedendosi beffato dai magi, si adirò gravemente e mandò a uccidere tutti i maschi che erano in Betlemme e in tutto il suo territorio dall'età di due anni in giù, secondo il tempo del quale si era esattamente informato dai magi.
- Allora si adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia:
- “Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più”.
- Ma dopo che Erode fu morto, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse:
- “Alzati, prendi il bambino e sua madre e vattene nel paese d'Israele, perché sono morti quelli che cercavano la vita del bambino”.
- Ed egli, alzatosi, prese il bambino e sua madre ed entrò nel paese d'Israele.
- Ma, udito che in Giudea regnava Archelao invece d'Erode, suo padre, temette di andare là e, essendo stato divinamente avvertito in sogno, si ritirò nelle parti della Galilea
- e venne ad abitare in una città detta Nazaret, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti, che egli sarebbe stato chiamato Nazareno.
GIOSUÈ, cap.6
- Poi i figli d'Israele bruciarono la città e tutto quello che conteneva; presero soltanto l'argento, l'oro e gli oggetti di bronzo e di ferro, che misero nel tesoro della casa dell'Eterno.
- Ma a Raab, la prostituta, alla famiglia di suo padre e a tutti i suoi Giosuè lasciò la vita; e lei ha dimorato in mezzo a Israele fino al giorno d'oggi, perché aveva nascosto i messaggeri che Giosuè aveva mandati a esplorare Gerico.
RUT, cap 4
- E tutto il popolo che si trovava alla porta della città e gli anziani risposero: “Ne siamo testimoni. L'Eterno conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d'Israele. Spiega la tua forza in Efrata, e fatti un nome in Betlemme!
- Possa la progenie che l'Eterno ti darà da questa giovane, rendere la tua casa simile alla casa di Perez, che Tamar partorì a Giuda!”.
ESODO, cap. 25
- Mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro.
- Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
GENESI, cap. 35
- Poi partirono da Betel. C'era ancora un certo tratto di strada prima di arrivare a Efrata, quando Rachele partorì: ebbe un parto difficile.
- Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere, perché ecco un altro figlio”.
- E mentre l'anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino.
- Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme.
- Giacobbe eresse una pietra commemorativa sulla sua tomba. Questa pietra commemorativa della tomba di Rachele esiste tuttora.
GEREMIA, cap. 31
- Così parla l'Eterno: “Si è udita una voce in Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più”.
- Così parla l'Eterno: “Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché la tua opera sarà ricompensata”, dice l'Eterno, “essi ritorneranno dal paese del nemico;
- e c'è speranza per il tuo avvenire”, dice l'Eterno, “i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini.
(Notizie su Israele, 18 agosto 2024)
|
........................................................
Israele ridimensiona l’ottimismo su un accordo con Hamas. Ma Biden insiste
Dopo tanti anni siamo tornati alla fallimentare “Obama’s vision”: meglio un cattivo accordo [per Israele] che nessun accordo
di Sarah G. Frankl
Un alto funzionario israeliano ha dichiarato all’emittente pubblica Kan che a Doha sono stati effettivamente compiuti progressi su diversi aspetti controversi dell’accordo sugli ostaggi in corso di negoziazione.
Tuttavia, il funzionario fa notare che questi progressi sono stati fatti solo tra Israele e i mediatori.
Non è ancora chiaro come Hamas risponderà a questi nuovi accordi.
Un gruppo di negoziatori israeliani di livello inferiore rimarrà a Doha nel fine settimana per continuare i colloqui con i mediatori e un altro gruppo di livello inferiore si recherà al Cairo domani per incontri simili.
Il Qatar e l’Egitto hanno talvolta diviso i negoziati per far sì che il primo si concentri sugli aspetti relativi agli ostaggi e il secondo sul ritiro delle truppe israeliane dalle aree chiave all’interno e intorno a Gaza, come i corridoi Netzarim e Philadelphi e il valico di Rafah.
Le delegazioni di livello inferiore mireranno a colmare le lacune rimanenti prima che i negoziatori più importanti si riuniscano nuovamente alla fine della prossima settimana al Cairo per cercare di finalizzare un accordo.
- MA BIDEN INSISTE E LANCIA UN MONITO
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden avverte Israele e altri attori di non intraprendere azioni che potrebbero minare il cessate il fuoco e l’accordo per il rilascio degli ostaggi che la sua amministrazione sta cercando di finalizzare.
“Oggi ho ricevuto un aggiornamento dalla mia squadra di negoziatori sul campo a Doha e ho dato loro l’ordine di presentare la proposta globale di ponte presentata oggi, che offre la base per giungere a un accordo finale sul cessate il fuoco e sul rilascio degli ostaggi”, ha dichiarato Biden in un comunicato.
“Ho parlato separatamente con l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim, e con il presidente dell’Egitto, Sissi, per esaminare i significativi progressi compiuti a Doha negli ultimi due giorni di colloqui, ed essi hanno espresso il forte sostegno del Qatar e dell’Egitto alla proposta degli Stati Uniti come co-mediatori in questo processo”, continua il presidente.
“I nostri team rimarranno sul posto per continuare il lavoro tecnico nei prossimi giorni e gli alti funzionari si riuniranno nuovamente al Cairo prima della fine della settimana. Mi riferiranno regolarmente”.
“Ho inviato il Segretario Blinken in Israele per riaffermare il mio fermo sostegno alla sicurezza di Israele, per continuare i nostri intensi sforzi per concludere questo accordo e per sottolineare che, con il cessate il fuoco completo e l’accordo per il rilascio degli ostaggi ormai in vista, nessuno nella regione dovrebbe intraprendere azioni per minare questo processo”, aggiunge Biden.
È ancora una volta la “Obama’s vision”: meglio un cattivo accordo [per Israele] che nessun accordo
(Rights Reporter, 17 agosto 2024)
........................................................
Ex ostaggio: perché devo vivere questa esperienza?
È stata trattenuta dai terroristi di Hamas per diverse settimane: l'ex ostaggio Mia Shem sta ancora lottando con le conseguenze di questo trauma.
GERUSALEMME - L'ex ostaggio di Hamas Mia Shem soffre ancora per le esperienze vissute nella Striscia di Gaza. Ha dichiarato all'emittente televisiva “Kanal 13” che vede le immagini della sua guardia. “Vado a letto e lo vedo davanti a me. Lo vedo e ho paura. Non riesco a dormire, il mio respiro è lento”.
Durante la prigionia, ha sognato di essere a casa. Ma poi si è svegliata in un tunnel del terrore. “Ecco da dove viene la paura di dormire e di svegliarsi da un'altra parte”.
• Fluttuazioni di energia e domande difficili
Ha anche paura di guidare un'auto e di essere colpita all'improvviso. “È una cosa che c'è sempre. Non appena il sole tramonta, gli impulsi si intensificano”. Deve anche affrontare forti fluttuazioni: Ci sono momenti in cui è piena di energia, ma nel giro di un secondo ha la sensazione di non riuscire più a stare in piedi.
Trova questo stato insopportabile: “A volte mi chiedo: 'Perché? Perché? Perché non mi hanno sparato il 7 ottobre? Perché devo vivere questa esperienza?”.
Tuttavia, può guardare a uno sviluppo positivo: il suo braccio, ferito durante il rapimento, è quasi completamente guarito. Descrive la sua guarigione come un “miracolo” e “soprannaturale”. “Non ci ho nemmeno fatto caso. Ma all'improvviso ho potuto tenere il cellulare in mano”.
Mia Shem è stata rilasciata alla fine di novembre nell'ambito di uno scambio di ostaggi. La 21enne era stata il primo ostaggio a comparire in un video di propaganda di Hamas a metà ottobre. I terroristi l'avevano rapita dal Nova Festival.
(Israelnetz, 17 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Tra guerra e salvezza: l’evacuazione di bambini malati di cancro da Gaza con l’assistenza di Israele
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che giovedì
11 bambini malati di cancro sono stati evacuati dalla Striscia di Gaza per ricevere cure mediche
. Questa è stata la prima evacuazione medica dal territorio da quando l’offensiva israeliana ha chiuso il valico di Rafah con l’Egitto lo scorso maggio. I bambini hanno attraversato il valico di Kerem Shalom, diretti in Giordania, accompagnati ciascuno da una scorta femminile.
Israele attualmente controlla tutti i punti di trasferimento in entrata e in uscita da Gaza, nel mezzo della guerra contro il gruppo terroristico Hamas, e ha consentito a un numero limitato di pazienti di lasciare l’enclave per ricevere cure. Lo sforzo è stato coordinato da Israele, Egitto, Stati Uniti e altri partner internazionali, secondo quanto affermato dall’esercito israeliano in una dichiarazione. Questa evacuazione è avvenuta dopo settimane di crescente pressione su Israele affinché permettesse ai palestinesi vulnerabili di lasciare Gaza, dove una guerra prolungata ha decimato il sistema sanitario.
I gruppi umanitari sperano che questa evacuazione apra la strada a una nuova rotta per i palestinesi gravemente malati e feriti che cercano cure mediche all’estero. Tuttavia, non è ancora chiaro dove saranno trattati i pazienti e se le autorità israeliane prevedano ulteriori evacuazioni.
Questi sforzi riflettono la complessità della situazione: nonostante il conflitto e le tensioni politiche,
esistono canali di cooperazione umanitaria che mirano a salvare vite umane
, soprattutto quelle dei bambini, considerati le vittime più vulnerabili della guerra. Tuttavia, queste iniziative avvengono in un contesto di grande difficoltà, segnato da continui combattimenti e tensioni politiche tra Israele e i territori palestinesi.
- DETTAGLI SULL’EVACUAZIONE Come riportato dal Times of Israel, Nermine Abu Shaaban, coordinatrice dell’evacuazione dei pazienti per l’OMS, ha confermato che i bambini sono stati trasferiti attraverso il valico di Kerem Shalom in Israele e diretti nella vicina Giordania per le cure. Sette dei bambini sono stati trasportati in ambulanza, mentre i restanti in autobus. L’evacuazione è stata organizzata dall’OMS in collaborazione con due enti di beneficenza statunitensi.
Uno dei bambini trasferiti, Mecca Zorab, di 2 anni, è già stata sottoposta a tre interventi chirurgici nella Striscia di Gaza, dopo la scoperta di un tumore alla testa tre mesi fa. Sua madre, Fatima, è stata vista mentre teneva e baciava la mano della piccola, distesa su una barella in ambulanza con un tubo respiratorio. Avendo un altro neonato di cui prendersi cura, Fatima non può accompagnare la figlia; la nonna della bambina ha quindi preso il suo posto.
Israele consente a ogni paziente di essere accompagnato da una scorta femminile, controllata dai servizi di sicurezza, che può portare con sé una borsa di vestiti, un telefono cellulare e un caricabatterie.
Intanto
il ministro della Difesa Yoav Gallant
ha confermato le evacuazioni, dichiarando che l’operazione, «condotta insieme a COGAT e all’IDF, ha evacuato bambini e pazienti che necessitavano di cure mediche in Giordania, a seguito di una missione umanitaria simile condotta diverse settimane fa».
La maggior parte degli ospedali a Gaza ha chiuso dopo aver esaurito carburante o scorte, oppure a causa di raid delle forze israeliane contro terroristi che utilizzavano le strutture.
Israele ha presentato prove che Hamas e altri gruppi terroristici si rifugiano negli ospedali
. Il Ministero della Salute di Gaza ha affermato che circa 28.000 pazienti necessitano di cure mediche fuori Gaza.
Careeman al-Farra, cinque anni, anche lei inclusa nell’evacuazione di giovedì, ha ricevuto una diagnosi di tumore del sangue da neonata e in precedenza aveva ricevuto cure fuori Gaza. Sua madre ha detto che il tumore è tornato poco prima della guerra. «Non c’era un posto pulito dove stare o dove essere ben nutrita per aiutarla con le sue condizioni mediche – ha dichiarato Zaher al-Farra –. Abbiamo cercato di fornirle queste cose, ma è stato difficile perché siamo stati sfollati da un posto all’altro».
- ALLARME POLIO A GAZA: UN’AZIONE URGENTE NECESSARIA Il conflitto ha anche contribuito alla diffusione di malattie letali come la poliomielite, che rappresenta una grave minaccia per la popolazione di Gaza. Gli operatori umanitari delle Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme, sottolineando l’importanza di un intervento immediato per fermare la trasmissione del virus.
Secondo un aggiornamento congiunto dell’OMS e dell’UNICEF, saranno necessari almeno due cicli di vaccino antipolio orale per bloccare la diffusione del poliovirus. Questo avvertimento è arrivato dopo che il Global Polio Laboratory Network ha identificato il poliovirus di tipo 2 derivato dal vaccino in campioni di acque reflue prelevati a Khan Younis e Deir Al-Balah il 23 giugno scorso.
- PARALISI: UNA TRAGICA CONSEGUENZA A fine luglio, le autorità sanitarie di Gaza hanno riportato tre casi di paralisi, con campioni inviati in Giordania per ulteriori analisi. Sebbene la “paralisi flaccida acuta” possa avere molte cause, l’OMS non esclude che il poliovirus sia all’origine di questi casi, anche se i risultati definitivi sono ancora attesi. (La paralisi flaccida acuta – PFA – è una sindrome a inizio rapido e improvviso, caratterizzato da paresi o paralisi degli arti con possibile concomitante interessamento dei muscoli respiratori e della deglutizione, che raggiunge il massimo grado di severità nel giro di 1-10 giorni).
L’OMS aveva già avvertito che, nonostante l’elevata copertura vaccinale contro la poliomielite a Gaza prima della guerra, i mesi di conflitto hanno creato «l’ambiente perfetto» per la mutazione del virus vaccinale in una forma più virulenta, capace di provocare paralisi tra i non completamente immunizzati.
- OSTACOLI ALLA CAMPAGNA DI VACCINAZIONE Le agenzie ONU sono preoccupate per i possibili ritardi nella consegna del vaccino e delle attrezzature necessarie per la catena del freddo, fondamentali in un contesto segnato da combattimenti intensi e instabilità. Le tensioni regionali legate al conflitto a Gaza minacciano di complicare ulteriormente le operazioni di vaccinazione.
In risposta a questa emergenza, le Nazioni Unite hanno fatto appello per la realizzazione di pause umanitarie che permettano di vaccinare i bambini e ridurre il rischio di trasmissione. Il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha già approvato la distribuzione di 1,23 milioni di dosi del nuovo vaccino orale antipolio di tipo 2 (NOPV2), destinato a immunizzare oltre 640.500 bambini sotto i 10 anni a Gaza.
Per garantire il successo di questa campagna di vaccinazione di massa, le agenzie ONU hanno insistito sulla necessità di un accesso sicuro e duraturo, nonché sulla protezione degli operatori sanitari. Attualmente, solo 16 dei 36 ospedali di Gaza sono «parzialmente funzionanti», mentre solo 48 delle 107 strutture sanitarie primarie restano operative.
- UN SISTEMA SANITARIO AL COLLASSO Il conflitto ha avuto un impatto devastante sul sistema sanitario di Gaza, riducendo drasticamente i tassi di immunizzazione e aumentando il rischio di malattie prevenibili. Questo, unito alla scarsa qualità dell’acqua e alla distruzione dei servizi igienico-sanitari, aggrava ulteriormente la situazione.
La copertura vaccinale di routine contro la poliomielite a Gaza è scesa dal 99% nel 2022 a meno del 90% nel primo trimestre del 2024. Senza un’azione rapida e coordinata, la poliomielite potrebbe tornare a flagellare una popolazione già stremata da anni di conflitti.
- GLI OSPEDALI ISRAELIANI E IL PROGRAMMA “SAVE A CHILD’S HEART” Gli ospedali israeliani, in particolare quelli situati vicino a Gaza, curano regolarmente bambini provenienti dai Paesi arabi, inclusi i territori palestinesi. Questi pazienti vengono trasportati in Israele per ricevere trattamenti avanzati per ferite da conflitto, malattie gravi o condizioni croniche non gestibili nelle strutture locali, spesso sovraccariche o danneggiate dal conflitto.
Ad esempio, l’ospedale Wolfson di Holon, vicino a Tel Aviv, è noto per il suo programma “Save a Child’s Heart” (SACH), che offre interventi chirurgici cardiaci salvavita a bambini da tutto il mondo, inclusi molti provenienti dai territori palestinesi.
A novembre 2021, il programma “Save a Child’s Heart” aveva portato in Israele più di 4.500 bambini da oltre 65 Paesi, con circa il 50% provenienti dall’Autorità Nazionale Palestinese, dalla Giordania, dall’Iraq e dal Marocco, oltre al 30% dall’Africa e il resto da Asia, Europa orientale e Americhe. (Fonte: Wikipedia).
- LA DISPUTA TRA GALLANT E NETANYAHU Lo scorso luglio è emersa una disputa pubblica tra il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e il primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo alle cure mediche per i bambini di Gaza. Gallant aveva proposto di allestire un ospedale da campo vicino al confine con Gaza per compensare la chiusura del valico di Rafah, che impediva ai palestinesi di ricevere cure all’estero. Tuttavia, Netanyahu ha bloccato l’iniziativa, suscitando critiche da parte del Ministero della Difesa, che lo ha accusato di mettere in pericolo vite umane per motivi politici. La disputa riflette le tensioni interne al governo, con Gallant che aveva precedentemente proposto di inviare i bambini malati all’estero, proposta inizialmente accettata da Netanyahu ma mai attuata. - BAMBINI SENZA CONFINI TRAUMATIZZATI Nel conflitto israelo-palestinese,
i bambini rappresentano le vittime più vulnerabili
. Durante le recenti escalation di violenza, come il conflitto tra Israele e Hamas nel 2023, centinaia di bambini palestinesi e israeliani hanno perso la vita, e molti altri sono rimasti feriti. A Gaza, dove la densità di popolazione è elevata e le infrastrutture sono gravemente compromesse dai bombardamenti, i bambini spesso si trovano intrappolati nelle aree di conflitto, senza vie di fuga sicure.
L’impatto psicologico sui bambini è altrettanto devastante.
Molti soffrono di disturbi post-traumatici da stress (PTSD)
, ansia e depressione, vivendo in costante paura di nuovi attacchi. Le scuole, un tempo considerate rifugi sicuri, sono state talvolta colpite, privando i bambini del diritto all’istruzione e di un senso di normalità. In Israele, i bambini vivono sotto la costante minaccia dei razzi lanciati da Gaza, e anche se il sistema Iron Dome riesce a intercettare molti di questi attacchi, il trauma psicologico di vivere in una zona di conflitto è profondo.
Le organizzazioni internazionali, come UNICEF e Save the Children, continuano a lanciare appelli per la protezione dei bambini in questo conflitto, sottolineando l’importanza di garantire loro accesso a cure mediche, sostegno psicologico e un ambiente sicuro per crescere. Tuttavia, fino a quando la violenza non cesserà, i bambini continueranno a essere tra le principali vittime di questo conflitto irrisolto.
(Bet Magazine Mosaico, 17 agosto 2024)
........................................................
Olavi Syvanto e i primi credenti messianici di lingua ebraica a Beersheva
Olavi Syvanto è stato una forza trainante nella fondazione e nella crescita della comunità messianica nel sud di Israele. È scomparso il 1° luglio.
di Gershon Nerel
GERUSALEMME - Nel 1966, quando ero ancora un adolescente, conobbi a Beersheva una speciale coppia finlandese cristiana:
Olavied
Esther Syvanto. Frequentavano regolarmente le mie stesse funzioni dello Shabbat pomeridiano, nei locali dell'Alleanza Cristiana e Missionaria (C&MA) nel vecchio quartiere turco, al numero 15 di Patriarchs Street. A quel tempo Beersheva era una piccola città polverosa e in rapido sviluppo nella parte settentrionale del deserto del Negev. I beduini venivano spesso in visita e al mercato. L'area urbana si riempì profeticamente di migliaia di olim (nuovi immigrati) che si riversavano nella città desertica, soprattutto dal Nord Africa, dall'Europa orientale, dall'India e dal Pakistan. La mia famiglia è arrivata a Beersheva dalla Romania nel 1964.
- UNA MINI-COMUNITÀ
Nell'agosto del 1964, anche Warren
e Linda Graham
, giovani missionari americani, si stabilirono nel sito C&MA di Beerscheva con i loro figli piccoli. La loro visione era quella di condividere il messaggio del Signore Yeshua con gli israeliani. Olavi e la sua famiglia, allora con tre figli - Kari, Helena e Anneli e più tardi anche il figlio minore Jonathan - sostennero i Graham come meglio poterono. Insieme ad alcune altre famiglie del quartiere, tra cui Tibi
e Marcella Vardi
e Larry
ed Eila Goldberg
, formammo una piccola comunità di lingua ebraica. Ci riunivamo nella grande casa turca della missione. La partecipazione media alle riunioni del fine settimana era di circa 12-15 persone. Tuttavia, gli studi biblici e le riunioni di preghiera infrasettimanali, che si tenevano nella piccola cappella di pietra in fondo al cortile murato, erano frequentati solo da una mezza dozzina di persone. Warren, il pastore americano, che all'epoca parlava a malapena l'ebraico, insisteva senza timore nel tenere le sue lezioni bibliche in un ebraico stentato. Olavi cercava cautamente di assisterlo linguisticamente. Solo dopo diversi anni di coraggiosi sforzi, Warren riuscì a parlare correntemente l'ebraico. Durante le funzioni, Linda, l'energica moglie di Warren, suonava il pianoforte e talvolta un piccolo organo di legno. Tutti insieme cantavamo canzoni ebraiche tratte dall'innario Shir Chadash (Nuovo Canto). Questo libro, che conteneva 212 canti, la maggior parte dei quali tradotti in ebraico dall'inglese e dal tedesco, era stato compilato da Bernice Cox
Gibson
, un'altra missionaria americana della C&MA. Nella compilazione di Shir Chadash, stampato a Gerusalemme nel 1957, Gibson fu assistita da Ruth Laurence
, una missionaria britannica che lavorava nel Paese sotto il Mandato britannico dal 1927. Ruth Laurence, comunemente nota come “Laurie”, si trasferì a Beersheva negli anni Cinquanta. All'epoca aveva circa 50 anni e faceva parte della piccola comunità cristiana del luogo. Laurie parlava correntemente l'ebraico e viveva nel suo piccolo appartamento a Shikun Gimel, un nuovo quartiere della Beersheva moderna costruito principalmente per gli olim, fuori dal fatiscente quartiere turco. Da lì, sempre con le sue lunghe gonne, si recava regolarmente alle riunioni della comunità, sia in estate che in inverno, con la sua pratica bicicletta. Laurie ha scritto due libretti in ebraico per bambini: Dalla bocca degli asini e Conversazioni nelle stalle del re - Da un cavallo. Quando è andata in pensione, si è trasferita nell'Oxfordshire, in Inghilterra. - DALLA FINLANDIA A BEERSHEVA PASSANDO PER LA SVEZIA
Olavi nacque in Finlandia nel 1935 e si trasferì nello Stato di Israele con i genitori finlandesi e la loro famiglia nel settembre 1949, all'età di 14 anni, stabilendosi a Tiberiade. Questo avvenne due anni dopo che suo padre Kaarlo
aveva già visitato il Paese per cercare in anticipo un luogo adatto per vivere. La visione di Kaarlo era quella di distribuire Bibbie, il Tanakh e il Nuovo Testamento, principalmente in ebraico ma anche in altre lingue, a seconda delle necessità, alla crescente e variegata popolazione di Olim sparsi in tutto il Paese. Nel 1954, all'età di 19 anni, Olavi sposò Esther in Svezia, poi tornarono in Israele come coppia e si trasferirono nel kibbutz Netzer Sereni, vicino a Rehovot. Lavorarono nel kibbutz per circa due anni e impararono l'ebraico, ma alla fine dovettero partire. Mentre Esther e i bambini rimasero con la madre in Svezia tra il gennaio 1958 e il giugno 1959, Olavi fece il servizio militare obbligatorio in Finlandia. Poco dopo tornarono in Israele. Il pastore Leigh Irish
, che aveva sostituito il pastore Griebenow
alla guida del centro C&MA di Gerusalemme, venne a sapere da Kaarlo Syvanto che Olavi stava cercando un lavoro. Senza ulteriori indugi, Irish invitò Olavi a trasferirsi a Beersheva - per rimanervi e lavorare principalmente come tuttofare nella Casa della Bibbia, che aveva bisogno di molti lavori di ristrutturazione. La Casa della Bibbia era stata aperta da Bernice Gibson nel 1957. A quel tempo, la città contava già 40.000 abitanti.
- NEL NEGEV
Nel 1959, Olavi e la sua famiglia si trasferirono nel vecchio e piccolo edificio della Casa della Bibbia, in via Rambam 39. Negli anni Cinquanta e Sessanta, si trovava dietro un alto muro di pietra, con uno stretto cortile di fronte all'ingresso. Bibbie in varie lingue e versetti della Bibbia erano esposti in una piccola vetrina nel muro che dava sulla strada. Olavi era responsabile del negozio e di rispondere a tutti i tipi di domande e ai visitatori che volevano parlare della Bibbia, ecc. Tuttavia, non era un missionario ufficiale della C&MA. Nel corso degli anni, molte delle spese del negozio biblico sono state coperte dalle generose donazioni di credenti in Finlandia. Negli anni '70, il vecchio edificio turco fu demolito e fu costruito un nuovo edificio a tre piani. Dal 1964 Olavi e la sua famiglia vivevano in una nuova casa a Omer, un sobborgo di Beersheva. Di tanto in tanto, davanti alla Casa della Bibbia si svolgevano manifestazioni anti-missionarie di ebrei ortodossi. I dimostranti urlanti e vestiti di nero hanno lasciato segni indelebili su alcuni dei figli di Olavi dai capelli biondi. I piromani hanno distrutto anche i libri e la vetrina del negozio è stata infranta due volte. Più tardi, un ebreo ortodosso con la barba lunga, andò da Olavi e si scusò: “Non posso credere che noi ebrei che abbiamo vissuto la Notte dei cristalli in Europa ti stiamo facendo questo nel nostro Paese”. Dall'inizio degli anni '60, Olavi “curò gli interessi” della C&MA a Beersheva (William F. Smalley, Alliance Missions in Palestine, Arab Lands and Israel 1890-1970, New York 1971, p. 532). Durante la sua lunga collaborazione con la C&MA, Olavi aveva anche imparato l'inglese. - DALLO STILE AMERICANO A QUELLO LOCALE
Prima che i Graham arrivassero a Beersheva, i missionari della C&MA, il Rev. Laird Kroh
e sua moglie, vivevano nella loro casa di missione al 15 di Patriarchs Street (1953-1962). Non riuscivano a comunicare in ebraico e le funzioni religiose erano tutte in inglese. I pochi olim indiani che vi partecipavano parlavano tutti inglese. Un numero maggiore di olim si recò alla casa della missione, soprattutto per le celebrazioni natalizie, principalmente per il rinfresco festivo. Le riunioni settimanali della congregazione si tenevano la domenica mattina alle 10:00, quando gli israeliani erano al lavoro. La Pasqua veniva celebrata secondo il calendario cristiano generale. Il sito era allora definito una “chiesa americana”, non un luogo per la gente del posto. Queste cose sono cambiate gradualmente dopo l'insediamento dei Graham. Passo dopo passo, l'ebraico è diventato la lingua franca delle attività nella proprietà. Olavi fu un grande sostenitore di questo processo. Ad esempio, le lezioni e le altre attività per i bambini, alcuni dei quali provenivano anche dal vicinato, si svolgevano in ebraico. I genitori li mandavano a queste attività perché volevano semplicemente avere del tempo libero per loro stessi. Olavi andava a prendere i bambini a casa con il minibus della missione. Le riunioni di Shabbat sostituivano le funzioni domenicali e i sermoni erano incentrati sulle festività ebraiche. Dopo che il dottor Tom Adler
, uno psichiatra ebreo messianico, e sua moglie Bianca
si unirono alla congregazione, il gruppo che si riuniva si chiamò ufficiosamente “Assemblea di Beersheva” , senza avere uno status giuridico proprio. Il dottor Adler è morto in Nuova Zelanda. - UN FILANTROPO
Olavi era un uomo tranquillo, serio, amichevole e leale. La sua testimonianza evangelistica sulla verità della Bibbia era sincera e convincente. Gli piaceva particolarmente parlare dell'imminente adempimento delle profezie della fine dei tempi riguardanti Israele. Ripeté pazientemente questi temi per decenni. Ha proclamato il Vangelo del Messia principalmente su base individuale, attraverso amicizie personali e contatti con persone di ogni tipo. Olavi, per esempio, fece amicizia con i miei scettici genitori nel dicembre 1973, poco dopo la fine della guerra dello Yom Kippur, Olavi venne a trovare mio padre che era venuto a visitarmi nella penisola del Sinai. Vestito con un'uniforme dell'IDF che aveva ricevuto da mio padre, Olavi volle incoraggiarmi sul posto, mentre prestavo servizio nel Corpo medico dell'IDF non lontano dal Canale di Suez.
|
|
FOTO
Olavi (a sinistra), Gershon con la giacca, il padre di Gershon (a destra). Sinai, dicembre 1973, per gentile concessione di Gershon Nerel
|
|
Olavi non solo visitò e parlò con molti altri olim, ma entrò anche in contatto con i beduini che spesso venivano a Beersheva. Di tanto in tanto si recava in qualche tenda beduina e cercava di fare amicizia con la gente, che a quel tempo, molto più di oggi, era nomade. Uno di questi beduini, Sallah
, professò addirittura la fede nel Signore Yeshua e fu battezzato nel pozzo ornamentale tra la casa della missione turca e la porta di via dei Patriarchi. Il lavoro di routine della missione di Beersheva veniva interrotto di tanto in tanto dalla partenza dei missionari stranieri per le vacanze. Queste assenze non erano semplici vacanze. Sebbene fornissero tempo per le riunioni di famiglia, venivano anche utilizzate per tenere conferenze, promuovere il lavoro missionario e raccogliere donazioni. Soprattutto durante le vacanze dei missionari in America, Olavi era il fedele custode delle proprietà della C&MA a Beerscheva. Era lì per rispondere alle domande e risolvere i problemi. - UN CONTRIBUTO SPECIALE
Un progetto unico che Olavi avviò fu la revisione del Nuovo Testamento ebraico di Franz Delitzsch. Ha proposto a mia moglie e a me di rivedere alcune parole arcaiche nella traduzione ebraica di Delitzsch. Dopo un'attenta riflessione e preghiera, abbiamo accettato la proposta e abbiamo iniziato a lavorare sull'aggiornamento di parole e termini che negli ultimi 150 anni hanno cambiato significato o hanno assunto nuove connotazioni e sfumature dall'ebraico moderno. Siamo stati particolarmente soddisfatti del fatto che lo stile e la sintassi dell'ebraico classico del NT di Delitzscher fossero molto vicini al Tanakh. Questo ha fornito un collegamento linguistico naturale tra il Tanakh e il Nuovo Testamento Nel 2003, dopo circa un decennio, l'intero lavoro di revisione è stato completato. Questo periodo ha incluso anche le consultazioni con Mirja Ronning
, sorella di Olavi. Ho chiamato la nuova edizione “ Versione del NT del Negev” perché è stata creata da Olavi nel Negev. Essendo una persona pratica, Olavi si occupò anche della pubblicazione della nuova edizione, che fu stampata insieme al Tanakh. Olavi non solo sapeva esattamente dove trovare la carta più fine e sottile in Finlandia e come fare la rilegatura con il colore da noi suggerito, ma ha anche trovato i fondi necessari. Oggi, dopo più di 20 anni in cui la “versione Negev” è disponibile gratuitamente, è ancora felicemente utilizzata dalla mia congregazione messianica e da altri amici in Israele. - FINE PACIFICA
Olavi è morto serenamente nel sonno il 1° luglio 2024 a Omer. È stato sepolto quattro giorni dopo a Beersheva. Aveva 89 anni ed è stato amato e stimato da molti.
(Israel Heute, 17 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
____________________
Negli anni scorsi abbiamo riportato diversi articoli di Gershon Nerel. Ne citiamo soltanto uno: “Gli ebrei messianici nella storia e nell’epoca presente”. Altri possono essere trovati usando la chiave “Cerca” in alto a destra.
........................................................
Il comico prende di mira una coppia di israeliani: i due costretti ad andarsene
di Michelle Zarfati
Sembra che gli israeliani ormai non possano neppure più andare a vedere uno spettacolo di stand up Comedy senza essere derisi e umiliati. È ciò che è successo ad una coppia, quando il comico americano Reginald D Hunter, ha deriso una coppia di israeliani durante uno dei suoi spettacoli del Festival Edinburgh Fringe, secondo quando riportato da una recensione apparsa sul Telegraph lunedì.
Hunter, che era già stato coinvolto in una vicenda legata all’antisemitismo nel 2006, ha raccontato nel corso del suo spettacolo di un aneddoto avvenuto con sua moglie in cui il comico avrebbe detto a lei: “Mio Dio, essere sposato con te è come essere sposato con Israele”. Anche se la maggior parte del pubblico ha riso in risposta alla battuta, la coppia di israeliani, seduta in prima fila, ha gridato: “Non è divertente”.
Quando i due hanno preso la parola, dicendo di non trovare divertente la freddura del comico, poiché offensiva, il pubblico ha cominciato ad insultare i due a suon di “Palestina libera” e altri slogan del genere.
Durante il triste spettacolo, il comico ha rincarato la dose, dicendo alla coppia: “Potete dire che non fa ridere, ma se lo dite a una stanza piena di gente che ride, fate la figura degli stupidi”.
Hunter avrebbe inoltre deriso i due fino alla fine. Secondo la stampa locale infatti, il comico avrebbe continuato a fare battute offensive anche dopo che il pubblico ha spinto la coppia ad andarsene. La campagna contro l’antisemitismo – un ente inglese di beneficenza, guidato da volontari, e volto ad esporre e contrastare l’antisemitismo – ha definito l’incidente “estremamente preoccupante”, sottolineando come “fare battute sugli ebrei e perseguitarli in uno show sia qualcosa di sbagliato e nauseante. Spettacoli del genere non possono essere travestiti da commedia”.
Hunter, che è apparso in vari programmi della BBC, era già noto al pubblico per le sue battute provocatorie sugli ebrei. Nel 2006 il comico aveva detto che la vera Shoah era quella ruandese e non quella ebraica come detto da sempre. Tuttavia, eventi di questo genere si erano già verificati qualche mese fa in Inghilterra. A febbraio, un uomo israeliano era stato buttato fuori da un teatro di Londra, durante lo spettacolo del comico Paul Currie, dopo che si era rifiutato di applaudire alla bandiera palestinese. Durante lo spettacolo, Currie aveva tirato fuori bandiere ucraine e palestinesi chiedendo al pubblico presente in sala di alzarsi e applaudire, cosa che l’uomo israeliano si era rifiutato di fare. Quando gli era stato chiesto perché, l’uomo aveva risposto : “Mi è piaciuto il tuo spettacolo fino a quando non hai tirato fuori la bandiera palestinese”. In risposta, Currie avrebbe urlato all’uomo “ di uscire immediatamente dal suo spettacolo” mentre diversi membri del pubblico facevano il tifo per il comico gridando “Free Palestine”.
(Shalom, 16 agosto 2024)
........................................................
Gaza - Colpiti oltre 30 obiettivi da Israele nelle ultime 24 ore
GERUSALEMME - L'aeronautica militare israeliana ha colpito oltre 30 obiettivi nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore. Lo hanno reso noto le Forze di difesa di Israele (Idf) in un rapporto mattutino, spiegando che sono stati presi di mira edifici e infrastrutture utilizzate da gruppi terroristici palestinesi, nonché cellule di miliziani armati.
Nel frattempo sono proseguite le operazioni dell’esercito a Rafah e Khan Yunis, nel sud della Striscia, e nei pressi del corridoio di Netzarim, nell’area centrale. In particolare, le Idf hanno riferito che a Khan Yunis è stata bombardata con l’artiglieria una zona da cui in precedenza erano stati lanciati dei razzi verso il nord dello Stato ebraico. Sempre a Khan Yunis, i militari della Brigata paracadutisti hanno fatto irruzione in un edificio, al cui interno hanno trovato armi, lanciarazzi e ordigni esplosivi.
Nella parte centrale della Striscia di Gaza, i riservisti della Brigata Harel hanno invece individuato diversi cunicoli e ucciso alcuni miliziani con un drone. Le Idf hanno anche reso noto che la Marina militare ha eliminato con bombardamenti dalle sue navi “un certo numero di terroristi che rappresentavano una minaccia per le truppe che operano nella Striscia di Gaza”.
(Agenzia Nova, 16 agosto 2024)
........................................................
Attacco al villaggio palestinese, condanna unanime: «Estremismo contrario ai nostri valori»
Ferme condanne da parte di tutto l’arco politico israeliano per quanto accaduto in Cisgiordania, nel villaggio palestinese di Jit, attaccato da un gruppo di estremisti israeliani. Dal primo ministro Benjamin Netanyahu al presidente dello stato Isaac Herzog, la censura della violenza è stata unanime. «I responsabili di ogni atto criminale saranno arrestati e perseguiti», ha affermato Netanyahu. Secondo alcune ricostruzioni, decine di estremisti, alcuni a volto coperto, hanno lanciato bombe molotov e appiccato incendi nel villaggio. «Si tratta di una minoranza estremista», ha sottolineato Herzog, che danneggia «il nome e la posizione di Israele nel mondo. Questa non è la nostra via, e certamente non è la via della Tora e dell’ebraismo. Le forze dell’ordine devono agire immediatamente contro questo grave fenomeno e assicurare i trasgressori alla giustizia», ha concluso il presidente, invitando a non sottovalutare la minaccia.
Nell’attacco a Jit è stato ucciso il 23enne Rashid Sada. Sulle dinamiche della sua morte sta indagando l’esercito. Intervistato da ynet, il capo del villaggio Naser Sada ha denunciato l’azione come terrorismo. «Quattro auto e quattro case sono state date alle fiamme. Ci siamo svegliati con l’odore degli incendi, con i bambini spaventati. Se i nostri giovani non fossero usciti per cercare di respingere i violenti, il disastro sarebbe potuto essere maggiore», ha affermato Sada al media israeliano. Il giovane rimasto ucciso è un suo parente. «È uscito per cercare di reagire ed evitare che la sua casa venisse bruciata. È stato colpito senza alcun motivo».
Jit è considerato un villaggio abbastanza tranquillo, scrive Itamar Eichner di ynet. «La maggior parte dei suoi abitanti lavora nel commercio e nell’agricoltura. Le organizzazioni terroristiche di solito non vi operano. Le forze di sicurezza sono rimaste inorridite dalle violenze della scorsa notte, e un funzionario ha detto che sono avvenuti senza un motivo apparente», riporta Eichner.
«Mentre i nostri soldati combattono sui vari fronti per difendere lo Stato di Israele, un manipolo di estremisti, che non rappresentano i valori dell’insediamento in Samaria, si ribellano e attaccano civili innocenti», ha dichiarato il ministro della Difesa Yoav Galant. Oltre a condannare le violenze, Gallant ha ribadito il proprio sostegno a Tsahal, Shin Bet e polizia «affinché affrontino con severità la questione. I disordini di questi estremisti sono contrari a ogni imperativo morale e ai valori dello Stato di Israele». Dichiarazioni simili sono arrivate dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, secondo cui quanto accaduto a Jit «non ha nulla a che fare con gli insediamenti. Sono criminali da condannare».
Fuori dal coro, la posizione espressa dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. «Ho detto al capo di stato maggiore che il fatto di non dare la possibilità ai soldati di sparare a qualsiasi terrorista che lanci pietre provoca eventi», come quello di Jit. «Allo stesso tempo, è inequivocabilmente vietato farsi giustizia da soli», ha dichiarato Ben-Gvir. «Chi deve occuparsi del terrorismo e della deterrenza, anche contro i terroristi del villaggio di Jit, è l’esercito».
Una fonte all’interno delle forze sicurezza, riporta ancora Eichner su ynet, ha definito gli incidenti «come gravi e senza un innesco. Secondo la fonte, negli ultimi mesi questo tipo di attività allarmanti sta aumentando e si sta intensificando».
Dall’opposizione, il leader del partito centrista di Unità nazionale Benny Gantz ha parlato di «una manciata di persone che dovrebbero stare dietro le sbarre. Stanno minando i principi dell’ebraismo e dello Stato d’Israele». Yair Golan, capo di una nuova alleanza tra i partiti di sinistra, ha puntato il dito contro l’esecutivo di Netanyahu: «Non si tratta di una minoranza estremista o un problema minore, ma di un gruppo violento che gode di un enorme sostegno da parte del governo».
(moked, 16 agosto 2024)
........................................................
A Kherson ritrovata una fossa comune e resti umani di vittime della Shoah
di Olga Flori
In Ucraina, a Henichesk, le autorità russe hanno ritrovato i resti umani di 61 ebrei (50 adulti e 11 bambini) assassinati durante la Shoah. Lo riporta il sito Ynet. La città di Henichesk, nell’Oblast di Kherson, è sotto il controllo russo dal 2022. Qui le autorità del Cremlino stanno conducendo un’indagine per genocidio sui resti rinvenuti eseguendo un accurato scavo archeologico e analisi genetiche sui resti ossei riesumati, secondo quanto riportato dal canale televisivo Vesti Crimea. Un portavoce della Commissione investigativa russa che si sta occupando di supervisionare gli scavi ha spiegato a Ynet news che i resti ossei rimessi in luce si trovavano all’interno di una trincea anticarro della seconda guerra mondiale scavata per difendersi dal nemico nazista. I tedeschi però raggiunsero Henichesk da un lato diverso della città e la fossa venne così utilizzata per gettarvi centinaia di corpi di vittime di esecuzioni, molte delle quali erano di religione ebraica. All’inizio del Novecento a Henichesk vivevano oltre quattromila ebrei. La popolazione di religione ebraica si ridusse notevolmente nel tempo e nel 1939 nella città si contavano solo 947 ebrei. Si tratta di numeri indicativi influenzati anche dall’arrivo di rifugiati e di altri individui di religione ebraica che i nazisti trasferirono forzosamente nella città. I dati archivistici suggeriscono che nell’area in cui sono già stati ritrovati i 61 corpi sarebbero stati sepolti migliaia di cadaveri che potrebbero tornare alla luce nel corso degli scavi archeologi russi.
(Shalom, 16 agosto 2024)
........................................................
L'aereo privato di Abramovich arriva in Israele, minacciato da nuove sanzioni
L'aereo, modello LX-RAY, è atterrato all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv secondo un programma internazionale di tracciamento dei voli, senza che sia possibile confermare se Abramovich, proprietario della Chelsea, di origine ebraica, viaggiasse sullo stesso volo e sia entrato in territorio israeliano .
Abramovich è già stato oggetto di sanzioni da parte del Regno Unito, del Canada e di altri paesi insieme ad altri oligarchi russi per la sua presunta stretta relazione con il presidente russo Vladimir Putin, e anche l'Unione Europea (UE) ha annunciato che intende sanzionarlo come parte di un pacchetto coordinato con il Gruppo dei Sette Paesi più sviluppati (G7) contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina.
Questa decisione arriva dopo che sabato la Premier League gli ha tolto il permesso di manager del Chelsea, un altro passo dopo il congelamento dei suoi beni da parte del governo britannico.
L'inclusione di Abramovich nella nuova lista sanzionata coincide con l'apertura di un'indagine da parte del Portogallo per verificare se ci fossero irregolarità nella concessione della nazionalità che gli era stata concessa in quanto discendente di ebrei sefarditi.
Tuttavia, la possibile presenza del magnate in Israele alimenta le polemiche, dopo che media e analisti avvertono che il Paese potrebbe diventare un rifugio fiscale per gli oligarchi russi di origine ebraica che cercano di stabilirsi e investire per evitare sanzioni internazionali.
Lo Stato ebraico non ha ancora imposto sanzioni alla Russia, con la quale mantiene un atteggiamento "misurato" a causa del suo accordo di sicurezza in Medio Oriente, e diversi miliardari ebrei legati dalla loro vicinanza al Cremlino possiedono da anni passaporti israeliani.
Oltre agli investimenti significativi e alle iniziative imprenditoriali nel Paese, alcuni hanno anche contribuito con significative donazioni finanziarie a progetti no-profit di vario genere, sia in Israele che nel resto del mondo ebraico.
Da parte sua, Abramovich ha acquisito la cittadinanza israeliana nel 2018 ed è diventato la seconda persona più ricca del Paese.
Due giorni prima dell'invasione dell'Ucraina, ha fatto una donazione di un milione di dollari al Museo dell'Olocausto di Gerusalemme, Yad Vashem, ma l'istituzione ha deciso di rinunciare al denaro e ha annunciato che avrebbe tagliato i rapporti con il magnate due settimane dopo.
Gli Stati Uniti hanno recentemente esortato Israele ad aderire alle sanzioni contro la Russia e i suoi oligarchi.
Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha assicurato che "Israele non sarà un modo per evitare le sanzioni imposte alla Russia dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali".
Secondo lui, diversi ministeri come quelli degli Affari Esteri, delle Finanze, dell'Economia o dell'Energia stanno esaminando la questione insieme alla Banca d'Israele o all'Autorità aeroportuale.
(Aurora, 16 agosto 2024)
........................................................
Il fustigatore di Israele benevolo con Teheran
di Davide Cavaliere
Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, è una vecchia conoscenza de L’Informale.
Venuto fortemente alla ribalta in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, in merito alla quale ha espresso una condivisibile posizione pro-Kyiv, Parsi ha però continuato a essere una delle principali voci dell’antisionismo accademico.
Ostile a Israele, che considera uno Stato «razzista» e di «apartheid», da lui paragonato alla Serbia di Milošević e al Sudafrica di Vorster, ha sempre malcelato la sua simpatia per il regime iraniano e le sue propaggini, Hamas in primis, che nel 2017 vedeva incamminata sulla via della «moderazione».
Gli interventi di Parsi consistono, principalmente, nel condannare Israele come solo responsabile di tutte le tensioni in corso in Medio Oriente e del mancato raggiungimento di una pace duratura coi suoi vicini arabi. Sostenere tale posizione significa sottostimare o ignorare non solo le responsabilità dei «palestinesi», ma anche il fanatismo religioso e il millenarismo dei nemici islamici dello Stato ebraico.
L’inveterata avversione del professore per Israele lo ha condotto a paragonare le organizzazioni terroristiche islamo-palestinesi, come Hamas, ai resistenti che lottavano contro l’occupazione nazi-fascista. Nel 2015, sulla sua pagina Facebook, ha condiviso il video della seduta parlamentare del 6 novembre 1985, quando l’allora presidente del consiglio, Bettino Craxi, parlò della «legittimità» della lotta armata palestinese, definendo il contenuto di quel discorso «principi elementari di diritto internazionale». Al contrario, in tempi più recenti, commentando l’eliminazione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha affermato: «Ogni volta che Israele compie omicidi mirati in un Paese terzo toglie un mattone alla costruzione del sistema internazionale».
Insomma: se i palestinesi sequestrano la neve di un Paese terzo e uccidono un passeggero ebreo, stanno compiendo un atto legittimo in accordo coi «principi elementari di diritto internazionale»; Israele, invece, se elimina il pericoloso capo di una organizzazione terroristica in visita a una teocrazia che vorrebbe un secondo Olocausto, «toglie un mattone alla costruzione del sistema internazionale».
Se è certamente vero che il diritto internazionale prevede che l’occupato possa resiste militarmente all’occupante, questo non vale per il caso palestinese. Israele, infatti, come si è a lungo spiegato su queste pagine, non «occupa» alcun territorio che non gli spetti legalmente. Inoltre, gruppi armati come l’ex OLP o Hamas, non hanno come obiettivo alcuna «resistenza», bensì la cancellazione stessa dello Stato ebraico e lo sterminio della sua popolazione, come dichiarato esplicitamente nei loro statuti.
Sempre sul suo profilo Facebook, il 19 novembre 2019, commentando il rigetto statunitense della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 2016, che stabiliva l’illegalità degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria (Cisgiordania), Parsi scriveva: «Ennesimo grande contributo alla pace e al dialogo nella regione di questa pessima amministrazione. Poi ci stupisce che gli umiliati e offesi ricorrano alla lotta armata? Quando invece è esattamente ciò che si vuole provocare, per giustificare una repressione senza limiti, senza fine, senza umanità. Povera Palestina e poveri palestinesi». Israele, dunque, starebbe «provocando» la lotta armata dei cosiddetti «palestinesi», peccato però che quest’ultimi pianifichino il massacro di tutti gli ebrei fin dai tardi anni Venti del Novecento, quando lo Stato d’Israele nemmeno esisteva.
Parsi si è distinto per il suo aperto sostegno all’Accordo sul nucleare iraniano, il celebre JCPOA, definito come un «successo» di Obama. In un articolo per Il Sole 24 Ore del 2015, riportato per intero sulla sua pagina Facebook, ha definito il regime di Teheran «non più estremista come ai tempi della presidenza di Ahmadinejad» e «pienamente affidabile sulla natura esclusivamente civile del proprio programma nucleare». Tre anni dopo, più precisamente il 30 aprile 2018, Netanyahu mostrò in diretta televisiva parte dell’archivio segreto sul nucleare iraniano che agenti del Mossad, col supporto di alcuni dissidenti iraniani, avevano trafugato a Teheran e portato in Israele. I documenti provavano l’intenzione iraniana di dotarsi di un’arma atomica.
Clamorosi errori nelle analisi, cattivo controllo delle idee e dei concetti, ignoranza brutale dei fatti storici, sistematica incapacità di comprendere la mentalità islamica… questi sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano Vittorio Emanuele Parsi.
Com’è possibile che un soggetto simile, che considera la Repubblica islamica dell’Iran come un attore più razionale e affidabile d’Israele, passi per un luminare dello studio delle relazioni internazionali da ascoltare con attenzione? Mysterium tremendum.
(L'informale, 15 agosto 2024)
........................................................
Parashat Vaetkhannan: la nazione e l’alleanza
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
È una delle grandi storie di tutti i tempi e Mosè l’aveva prevista tremila anni prima che accadesse. Eccolo parlare nella parashà di questa settimana: “Vedi, io ti ho insegnato i decreti e le leggi che il Signore, mio Dio, mi ha comandato, perché tu li segua nella terra che stai per entrare a possedere. Abbiate cura di osservarli, perché questa sarà la vostra saggezza e la vostra comprensione agli occhi delle nazioni, che sentiranno parlare di tutti questi decreti e diranno: Certamente questa grande nazione è un popolo saggio e comprensivo!
Quale altra nazione, infatti, ha decreti e leggi come questa Torà che oggi vi presento?” (Deuteronomio 4:5-8)
Mosè credeva che sarebbe arrivato un momento in cui l’idea di una nazione fondata su un’alleanza con Dio avrebbe ispirato altre nazioni con la sua visione di una società basata non su una gerarchia di potere, ma sulla pari dignità di tutti, sotto la sovranità e a immagine di Dio; e sulla regola della giustizia e della compassione. “Le nazioni” avrebbero apprezzato la saggezza della Torà e i suoi “giusti decreti e leggi”.
È successo. Come ho sostenuto molte volte, lo vediamo più chiaramente nella cultura politica e nel linguaggio degli Stati Uniti.
Ancora oggi la politica americana si basa sull’idea biblica di alleanza. I presidenti americani invocano quasi sempre questa idea nei loro discorsi inaugurali, con un linguaggio che deve le sue cadenze e i suoi concetti al libro di Devarim.
Così, ad esempio, nel 1985 Ronald Reagan parlò dell’America come di “un popolo sotto Dio, dedicato al sogno di libertà che Egli ha posto nel cuore dell’uomo, chiamato ora a trasmettere quel sogno a un mondo in attesa e speranzoso”.
Nel suo discorso inaugurale del 1989, George Bush pregò: “C’è un solo uso giusto del potere, ed è quello di servire le persone. Aiutaci a ricordarlo, Signore. Amen”. Nel 1997, Bill Clinton disse: “La promessa che abbiamo cercato in una nuova terra la ritroveremo in una terra di nuove promesse”. George W. Bush nel 2001 disse: “Siamo guidati da un potere più grande di noi che ci ha creati uguali a Sua immagine”. Nel 2005, all’inizio del suo secondo mandato presidenziale, dichiarò: “Dal giorno della nostra fondazione, abbiamo proclamato che ogni uomo e ogni donna su questa terra hanno diritti, dignità e un valore incomparabile, perché portano l’immagine del Creatore del cielo e della terra”.
Nel 2009 Barack Obama ha concluso il suo discorso con queste parole: “Che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova ci siamo rifiutati di lasciare che questo viaggio finisse, che non siamo tornati indietro né abbiamo vacillato; e con gli occhi fissi all’orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e lo abbiamo consegnato in modo sicuro alle generazioni future”.
Si tratta di un linguaggio esplicitamente religioso, senza paragoni in nessun’altra società democratica del mondo, e si legge come un Midrash sostenuto sul Deuteronomio.
Come è successo? È iniziato con l’invenzione della stampa da parte di Johannes Gutenbergin Mainzin nel 1439, seguita in Inghilterra nel 1476 da William Caxton. I libri divennero meno costosi e più accessibili. L’alfabetizzazione si diffuse. Poi, nel 1517, arrivò la Riforma, con la sua enfasi sull’individuo piuttosto che sulla Chiesa, e sulla sola Scriptura, l’autorità della “sola Scrittura”.
Poi è arrivata la traduzione della Bibbia in volgare. Tendiamo a dimenticare che la Bibbia ebraica è un’opera sovversiva. Non è un libro che predica la sottomissione. Parla di profeti che non temono di sfidare i re e di Saul che perse il suo trono perché disobbedì alla parola di Dio. Quindi le autorità avevano buone ragioni per non rendere disponibile la Bibbia in una lingua comprensibile alla gente. Nel XVI secolo era vietato tradurla in volgare. Nel 1530 apparve la grande traduzione di Tyndale (è stato un riformatore religioso del XVI secolo e uno studioso che tradusse la Bibbia nell’inglese dei suoi giorni). Tyndale pagò con la vita: fu arrestato, dichiarato colpevole di eresia, strangolato e bruciato sul rogo nel 1536.
Tuttavia, come hanno scoperto le tirannie contemporanee, è difficile fermare la diffusione delle informazioni resa possibile dalle nuove tecnologie. Le Bibbie inglesi continuarono a essere stampate e vendute in gran numero, in particolare la traduzione di Ginevra del 1560 che fu letta da Shakespeare, Cromwell, Milton e John Donne, oltre che dai primi coloni inglesi d’America.
La Bibbia di Ginevra conteneva un commento a margine. I suoi commenti erano brevi ma a volte esplosivi. Questo vale in particolare per la storia delle levatrici ebree, Shifra e Puah (Esodo capitolo 1) – il primo caso registrato di disobbedienza civile, il rifiuto di obbedire a un ordine immorale. Il Faraone aveva ordinato loro di uccidere tutti i bambini maschi israeliti, ma loro non lo fecero. Commentando questo fatto, la Bibbia di Ginevra dice che “la loro disobbedienza in questo era lecita”. Quando poi il faraone ordina agli egiziani di annegare i bambini maschi israeliti, la Bibbia di Ginevra commenta: “Quando i tiranni non riescono a prevalere con l’inganno, scoppiano in aperta collera”. Questa non era altro che una giustificazione per la ribellione contro un re tirannico e ingiusto.
Le Bibbie di Tyndale e di Ginevra diedero vita a un gruppo di pensatori noti come Ebraisti Cristiani, tra i quali il più famoso – è stato definito il Rabbino Capo dell’Inghilterra rinascimentale – fu John Selden (1584-1654). Selden e i suoi contemporanei studiarono non solo il Tanach, ma anche il Talmud babilonese, in particolare il trattato Sanhedrin, e il Mishnè Torà di Maimonide, e applicarono i principi giudaici alla politica del loro tempo.
Il loro lavoro è stato descritto in un recente studio, The Hebrew Republic, del filosofo politico di Harvard Eric Nelson. Il quale sostiene che la Bibbia ebraica ha influenzato la politica europea e americana in tre modi. In primo luogo, gli ebrei cristiani tendevano a essere repubblicani piuttosto che realisti. Essi sostenevano l’opinione – sostenuta nel giudaismo da Abarbanel – che la nomina di un re in Israele ai tempi di Samuele fosse un peccato (tollerato) piuttosto che l’adempimento di una mitzvah. In secondo luogo, hanno posto al centro della loro politica l’idea che uno dei compiti del governo sia quello di ridistribuire la ricchezza dai ricchi ai poveri, un’idea estranea al diritto romano. In terzo luogo, utilizzarono la Bibbia ebraica – in particolare la separazione dei poteri tra il re e il Sommo Sacerdote – per sostenere il principio della tolleranza religiosa.
Fu questo storico incontro tra i cristiani e la Bibbia ebraica nel XVII secolo che portò alla nascita della libertà sia in Inghilterra che in America. I calvinisti e i puritani che guidarono le rivoluzioni inglesi e americane erano saturi della politica della Bibbia ebraica, in particolare del libro di Devarim.
In effetti, il mondo moderno offre quanto di più vicino la storia possa offrire a un esperimento controllato di libertà. Delle quattro rivoluzioni che hanno segnato la modernità, due, quella inglese (1640) e quella americana (1776), erano basate sulla Bibbia ebraica, e due, quella francese e quella russa, erano basate sulla filosofia secolare, rispettivamente di Rousseau e di Marx. Le prime due hanno portato alla libertà. Le seconde due si sono concluse con la soppressione della libertà: in Francia con il Regno del Terrore (1793-94), in Russia con il comunismo stalinista.
Apprezzando il contributo della Bibbia ebraica alla libertà, John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti, scrisse: “Insisterò sul fatto che gli Ebrei hanno fatto di più per civilizzare gli uomini di qualsiasi altra nazione. Se fossi ateo e credessi in un cieco destino eterno, continuerei a credere che il destino ha ordinato agli ebrei di essere lo strumento più essenziale per civilizzare le nazioni”. Lettera di John Adams a François Adriaan van der Kemp (16 febbraio 1809)
L’ironia è, ovviamente, che non c’è nulla di simile nel discorso politico dello Stato di Israele contemporaneo. La politica di Israele è laica nel linguaggio e nelle idee. I suoi fondatori erano animati da alti ideali, ma dovevano più a Marx, Tolstoj o Nietzsche che a Mosè. Nel frattempo, la religione in Israele rimane settaria piuttosto che fondante per la società.
Certo, c’è chi si rende pienamente conto del significato del Sefer Devarim e della politica dell’alleanza per lo Stato attuale. Il pioniere è stato il defunto professor Daniel Elazar, che ha dedicato una vita intera alla riabilitazione della teoria politica giudaica. Il suo lavoro è continuato oggi, tra gli altri, dagli studiosi del Centro Shalem.
L’importanza di questo aspetto non sarà mai sottolineata a sufficienza. Ogni volta che in passato gli ebrei hanno perso la loro visione religiosa, o quando la religione è diventata una forza di divisione anziché di unione, alla fine hanno perso anche la loro sovranità. In quattromila anni di storia non c’è mai stata, né in Israele né fuori, una sopravvivenza secolare degli ebrei.
È ironico che la cultura politica degli Stati Uniti sia più ebraica di quella dello Stato ebraico. Ma Mosè aveva avvertito che sarebbe stato così. Osservate attentamente le leggi della Torà, disse Mosè, “perché questa è la vostra saggezza e comprensione agli occhi delle nazioni”. Mosè sapeva che i gentili avrebbero visto ciò che gli ebrei a volte non vedono: la saggezza della legge di Dio quando si tratta di sostenere una società libera.
La politica israeliana deve recuperare la visione della giustizia sociale, della compassione, della dignità umana e dell’amore per lo straniero, enunciata da Mosè e mai superata nei secoli successivi.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 16 agosto 2024)
____________________
Parashà della settimana: Vaetchanan (Io supplicai)
........................................................
A chi conviene un accordo per il cessate il fuoco a Gaza?
Non riesco a capire perché si chieda la resa di Israele e non quella di Hamas
di Franco Londei
Oggi è il giorno cruciale. In Qatar (la location è segreta) si cerca un accordo per il cessate il fuoco a Gaza che convinca tutte le parti in causa.
TUTTE LE PARTI IN CAUSA. Solo questo dovrebbe far capire che non ci sono solo DUE parti in causa, cioè Israele e Hamas, ma che le parti in causa sono molteplici e non è azzardato dire che un accordo per il cessate il fuoco a Gaza convenga principalmente a tutti fuorché a Israele.
(1) Gli Stati Uniti: sono la parte in causa più importante. Pur non essendo in discussione il sostegno a Israele, gli Stati Uniti devono guardare anche alla loro politica interna che, specialmente nel campo Democratico, non è sempre a favore di Israele. Ne viene fuori un patetico teatrino da parte della Amministrazione Biden che se non fosse così pericoloso sarebbe divertente. Il Presidente Biden – e di riflesso la candidata DEM Kamala Harris – hanno tantissimo da guadagnare da un accordo per il cessate il fuoco a Gaza e lo spingono con tutte le loro forze, anche a costo di fare un accordo disastroso per Israele. Il JCPOA punto due.
(2) L’Iran: e la seconda parte in causa più importante, poco sotto agli Stati Uniti. Nonostante abbiano dato il via alla guerra tra Israele e Hamas, favorendo il massacro del 7 ottobre, e nonostante sostengano di voler attaccare Israele per l’eliminazione di Ismail Haniyeh, in realtà si sono accorti di aver fatto gli sbruffoni un po’ troppo presto. Non possono attaccare Israele perché non hanno ancora la bomba (ma sono lì) e perché sanno che la risposta di Gerusalemme sarebbe devastante, sia per il loro programma nucleare che per la loro economia (e non è detta che non spinga una rivolta interna), ma non possono nemmeno tirarsi indietro dopo tutte le sparate che hanno fatto. Un accordo per il cessate il fuoco a Gaza permetterebbe agli Ayatollah di non attaccare Israele e farebbe credere a milioni di musulmani che il merito di tutto sia iraniano. È l’unica via d’uscita che hanno.
(3) Erdogan (la Turchia): la salvezza di Hamas e la sua uscita dall’orbita iraniana è l’obiettivo principale della Fratellanza Musulmana di cui Erdogan è il capo indiscusso. Il palese passaggio dei terroristi di Gaza sotto l’ombrello iraniano ha fatto alterare non poco il rais turco. Oggi come oggi l’unico modo per salvare Hamas è un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, e in mezzo alle minacce verso Israele, Erdogan è sempre stato il principale sponsor di tale accordo. Anche oggi la Turchia è in Qatar e si è opposta fermamente alla partecipazione iraniana ai colloqui. In caso di accordo si prenderebbero tutto il merito lasciando Erdogan con un pugno di mosche.
(4) L’Egitto: incredibilmente al Cairo ritengono che il loro confine con Gaza sia più sicuro se dall’altra parte ci sono i terroristi di Hamas e non Israele. In tutta onestà non riesco a spiegare questo atteggiamento egiziano se non con un calcolo di interessi. Per anni gli egiziani hanno chiuso gli occhi mentre dal suo confine entravano a Gaza migliaia di missili e milioni di tonnellate di cemento che hanno permesso ad Hamas di creare la cosiddetta “metropolitana di Gaza”. Chi o cosa ci ha guadagnato non mi è dato sapere. Sono quasi convinto che dietro ci sia un accordo sulla sicurezza. P.S. L’Egitto considera Hamas un gruppo terrorista.
(5) Hamas (Yahya Sinwar): poi ci sono loro, i terroristi di Hamas. Yahya Sinwar è già un eroe per quasi tutto il mondo islamico, se riuscisse a sopravvivere e ad ottenere un cessate il fuoco a Gaza che farebbe sopravvivere anche Hamas, diverrebbe colui che per primo ha sconfitto Israele. Per lui, al di là delle stupidaggini sui social, il cessate il fuoco è questione di vita o di morte.
Poi ci sarebbe Israele, o meglio, ci dovrebbe essere Israele. Per Gerusalemme un cessate il fuoco a Gaza deve essere temporaneo e unicamente finalizzato alla liberazione degli ostaggi.
Perché Israele non è nella lista? Perché strategicamente per Gerusalemme un simile accordo equivarrebbe ad una sconfitta e quindi – contrariamente a tutti gli altri – non è nel suo interesse farlo se non (come detto) in forma temporanea e finalizzato al rilascio dei pochi ostaggi rimasti in vita.
Ciò detto, rimango ancora sbalordito dal fatto che nessuno, tra i tanti sostenitori della pace, abbia chiesto la resa di Hamas per porre fine a conflitto. Sembra quasi che ci sia l’interesse affinché Hamas sopravviva. In compenso, chiedendo un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, chiedono di fatto la resa di Israele. Valli a capire certi pacifisti.
(Rights Reporter, 15 agosto 2024)
........................................................
Israele: immigrazioni in calo nel 2023, ma il 2024 promette una ripresa
di Nicole Nahum
Secondo un rapporto dell’Ufficio Centrale di Statistica, nel 2023 l’immigrazione in Israele ha subito un notevole calo, con una diminuzione del 38,4% rispetto all’anno precedente e l’arrivo di soli 46.033 nuovi immigrati.
Questa flessione è stata principalmente causata dagli attacchi terroristici del 7 ottobre e dalla successiva guerra a Gaza e nel nord di Israele. Tuttavia, i primi mesi del 2024 mostrano segni di ripresa, con un aumento degli arrivi di nuovi immigrati.
La Russia rimane la principale fonte di immigrazione, con 33.116 persone, che rappresentano il 72% del totale degli immigrati. Altri Paesi di rilievo in questo senso sono gli Stati Uniti (2.413 immigrati), l’Ucraina (2.091), la Bielorussia (1.840) e la Francia (1.006).
La maggior parte dei nuovi arrivati proviene dunque dai paesi dell’ex Unione Sovietica, costituendo l’83,6% del totale. Rispetto agli anni precedenti, l’età media degli immigrati è più bassa, con una presenza minore di bambini e anziani e una maggiore percentuale di persone in età lavorativa.
Quasi la metà dei nuovi immigrati si è stabilita nel centro di Israele, in particolare a Tel Aviv. Altre destinazioni popolari includono Haifa, i distretti meridionali e settentrionali e Gerusalemme.
Nonostante dunque il significativo calo dell’immigrazione nel 2023, quest’anno presenta già numerosi segnali di ripresa, cambiamento che potrebbe influenzare significativamente il panorama socioeconomico del Paese nei prossimi anni.
(Shalom, 15 agosto 2024)
........................................................
Il panorama partitico nel moderno Stato di Israele
Il panorama dei partiti israeliani è complesso. Il suo sviluppo è strettamente legato ai vari campi sionisti e alle loro ideologie. La categorizzazione dei partiti politici in “sinistra” e “destra” avviene lungo gli assi delle opposte visioni sull'identità dello Stato e sul conflitto con i palestinesi; la dimensione socio-economica svolge un ruolo subordinato nella politica israeliana.
di Gundula Madeleine Tegtmeyer
Israele è una democrazia parlamentare. Gli organi dello Stato sono separati nei rami legislativo, esecutivo e giudiziario secondo i principi della separazione dei poteri. Le istituzioni sono la presidenza, la Knesset (parlamento unicamerale), il governo (gabinetto), la magistratura e l'ombudsman, il revisore dei conti dello Stato. Il potere giudiziario è guidato dalla Corte Suprema di Gerusalemme.
La storia del sionismo è caratterizzata da forti differenze ideologiche, che si riflettono ancora oggi nel panorama dei partiti israeliani. Una digressione storica ha lo scopo di fornire un orientamento nella complessità.
Theodor Herzl è considerato il padre del sionismo politico, ma non ha il copyright del termine. Il pubblicista austro-ebraico Nathan Birnbaum utilizzò per la prima volta i termini “sionista” e “sionismo” già nel 1890.
Due anni dopo, Birnbaum creò anche il termine “sionismo politico”. La sua opera “Die Nationale Wiedergeburt des Jüdischen Volkes in seinem Lande als Mittel zur Lösung der Judenfrage” ebbe un ruolo decisivo nel primo Congresso sionista, che ebbe inizio il 29 agosto 1897 a Basilea. I delegati ebrei decisero di creare uno “Stato ebraico” in Palestina, all'epoca parte dell'Impero Ottomano.
• GLI EBREI COME NAZIONE
Durante l'incontro, Herzl parlò della sua visione secondo cui gli ebrei dovevano ottenere uno Stato indipendente nella “famiglia delle nazioni”. Per il giornalista, la religione non era il ruolo più importante per definire i suoi sforzi. Egli considerava piuttosto gli ebrei come una nazione di unità storica ed etnica. Herzl e il suo fedele compagno Max Nordau propagarono il sionismo politico a Basilea, presumibilmente anche per ottenere l'approvazione dei poteri politici consolidati che controllavano la regione mediorientale. Non tutti condividevano l'approccio diplomatico di Herzl.
Ascher Zvi Hirsch Ginsberg, meglio conosciuto come “Achad HaAm” (“uno del popolo”), dubitava fortemente che gli sforzi diplomatici di Herzl avrebbero avuto successo. Giunse a questa conclusione dopo due viaggi in Palestina nel 1891 e nel 1893. Accusò Theodor Herzl e Max Nordau di aver trascurato i valori ebraici.
In quanto principale rappresentante del cosiddetto sionismo culturale, la dottrina del “centro spirituale-culturale ebraico” in Palestina, Achad HaAm riponeva le sue speranze nell'educazione, concentrandosi sull'etica e sui valori ebraici. Era convinto che solo questi potessero risolvere la “crisi ebraica” e allo stesso tempo fungere da baluardo contro il pericolo dell'assimilazione nella diaspora ebraica. Di conseguenza, Sion come centro spirituale e culturale aveva la priorità sullo sviluppo politico ed economico e sulla creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
Chaim Weizmann riuscì a riunire le due fazioni sioniste. Fu presidente dell'Organizzazione sionista mondiale e in seguito divenne il primo presidente israeliano.
• RACCOLTA DI FONDI PER IL FONDO NAZIONALE EBRAICO
Leon Mozkin, Nahum Sokolov e Weizmann erano rappresentanti del cosiddetto “sionismo sintetico”. Questo era emerso nel 1907 durante l'ottavo Congresso sionista dell'Aia da una sintesi del sionismo politico, pratico e culturale. Gli obiettivi principali erano l'intensificazione delle attività sioniste, anche nella diaspora, e la raccolta di fondi sufficienti per il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), noto in ebraico come Keren Kajemet LeIsrael (KKL).
L'approccio alla realizzazione degli ambiziosi obiettivi è stato caratterizzato da realismo politico, pragmatismo e grande flessibilità nel tentativo di raggiungere un comune denominatore con i partner riguardo all'idea sionista. A partire dal decimo Congresso ebraico, riunitosi a Basilea dal 9 al 15 agosto 1911, il “sionismo sintetico” fu dominante.
Il rabbino Shmuel Moghilever era tra i partecipanti al primo Congresso sionista. Aveva ascoltato con attenzione i discorsi di Herzl. Ma lo studioso ebreo non era convinto di ciò che propagandava. La sua conclusione: molta diplomazia e poca religione. Come alternativa spirituale, Moghilever, insieme ai rabbini Jehuda Schlomo Alkali e Zvi Jehuda Kalischer, diede vita al “sionismo religioso”.
Al quarto Congresso ebraico di Londra, nel 1900, si svolse un vivace dibattito tra le varie fazioni sulla rivendicazione della leadership culturale. I sionisti religiosi, guidati dal rabbino Yitzchak Jacob Reines, erano uniti dalla convinzione che il ritorno del popolo ebraico alla terra d'Israele avrebbe portato la tanto agognata “età redentrice e messianica”.
• ATTIVITÀ CULTURALI
Due anni dopo, nel 1902, il Quinto Congresso Sionista decise che le attività culturali facevano parte del programma sionista, e così Reines e Se'ev Javez fondarono nello stesso anno a Vilnius l'organizzazione religiosa Mizrachi. L'acronimo ebraico sta per merkaz ruhani (centro spirituale).
Il credo dell'organizzazione è che la fondazione dello Stato di Israele sia un dovere religioso derivato dalla Torah. Israele sarà redento solo dopo la comparsa del Messia. Lo slogan di Mizrachi è: “La terra di Israele per il popolo di Israele secondo la Torah di Israele”.
Il principale ideologo di questo moderno sionismo religioso in Palestina fu il rabbino ashkenazita Abraham Isaac Kook. Era convinto che i sionisti laici e non religiosi avrebbero realizzato involontariamente con il loro insediamento nella terra di D’o il grande piano di redenzione per il popolo ebraico.
I sostenitori di questa ideologia di redenzione sono considerati nello spettro politico israeliano come nazionalisti religiosi e sostenitori della “Grande Israele”, cioè la terra promessa agli ebrei da D’o nella Bibbia ebraica, la cui estensione, tuttavia, è descritta in diversi modi. Kook è considerato il padre spirituale del sionismo religioso moderno.
• ATTIVO A FAVORE DELLA DICHIARAZIONE BALFOUR
Chaim Weizmann e il rabbino Avraham Kook furono profondamente coinvolti nelle attività che portarono alla Dichiarazione Balfour del 1917. Essa prende il nome dall'allora ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour. Nella dichiarazione, la Gran Bretagna si dichiarò d'accordo con l'obiettivo del sionismo, fissato nel 1897, di stabilire un “focolare nazionale” per il popolo ebraico in Palestina.
Midrachi è il più antico partito religioso di Israele, da cui si è scisso nel 1922 il partito operaio sionista-ortodosso “HaPoel HaMisrachi” (Lavoratori di Mizrachi). È considerato un predecessore del Partito religioso nazionale. Il suo slogan è “Tora vaAvoda” (Torah e Lavoro) ed è considerato un sostenitore della creazione di kibbutzim e moshavim.
• SIONISMO PRATICO
Anche il medico e giornalista Leon Pinsker era preoccupato per il futuro del popolo ebraico. Non poteva rassegnarsi a quella che definiva la “resa umiliante con cui il suo popolo, gli ebrei, accettano l'umiliazione”.
Nella sua opera “Autoemancipazione”, Pinsker lancia un appello urgente agli ebrei per “ripristinare l'onore nazionale e far rinascere in noi il sentimento di autodignità”. Come sostenitori ideologici del cosiddetto “sionismo pratico o del lavoro”, anche Menachem Ussishkin e Moshe Leib Lilienblum erano convinti che gli ebrei dovessero colonizzare la terra per creare dei fatti.
Arthur Ruppin, fortemente coinvolto nella seconda Aliyah (ondata migratoria), aprì l’“Agenzia Palestina” a Giaffa nel 1908. I suoi acquisti di terreni plasmarono il futuro degli insediamenti sionisti e con essi il carattere dello Stato ebraico. Ruppin è uno dei padri fondatori di Tel Aviv.
Il credo del “sionismo pratico” era “la salvezza attraverso il lavoro”. I sostenitori di questa teoria divennero la corrente principale del “sionismo socialista”, il cui padre spirituale fu Moses Hess (1812-1875) con la sua opera “Roma e Gerusalemme: l'ultima questione di nazionalità”. Il pioniere del socialismo e del sionismo era un amico intimo di Karl Marx. Moses Hess è stato deposto nel cimitero di Kinneret, vicino al Kibbutz Degania.
La sua lapide recita: “Moses Hess. Autore di Roma e Gerusalemme. Uno dei padri del socialismo mondiale e foriero dello Stato di Israele”. Una caratteristica del sionismo socialista è lo sforzo di creare una società contadina in Palestina. Le radici di molti movimenti di insediamento affondano nel sionismo socialista.
• SIONISMO SOCIALISTA COME "REDENZIONE"
Prima del terzo Congresso sionista di Basilea del 1899, Nahman Syrkin dichiarò che il “sionismo socialista” rappresentava la “redenzione” ebraica, grazie alla fusione delle idee socialiste e comuniste con l'idea sionista del nazionalismo ebraico. Anche Dov Ber Borochov considerava il sionismo come una necessità storica ed economica per gli ebrei, e il ruolo di pioniere della liberazione nazionale ebraica era riservato al proletariato ebraico.
Molti immigrati della seconda (1904-1914) e terza Aliyah (1919-1923) erano sionisti socialisti. Nel 1933, Chaim Arlosoroff si recò nella Germania nazista per negoziare l'“Accordo HaAvara” (accordo di trasferimento) con il governo tedesco.
L'approccio di Arlosoroff fu accolto con incomprensione e rifiuto da molti ebrei. Fu assassinato a Tel Aviv il 16 giugno 1933, appena due giorni dopo il suo ritorno in Palestina. Non è ancora stato chiarito se si sia trattato di un atto criminale o di un omicidio politico.
Anche Berl Katznelson, cofondatore di “Maschbir”, una catena di grandi magazzini israeliani, e di “Kuppat Holim Me'uhedet”, la terza organizzazione israeliana per l'assicurazione sanitaria e i servizi medici, si professò socialista. Tra gli altri rappresentanti figurano il secondo presidente di Israele, Yitzhak Ben Zvi, e il primo primo ministro di Israele, David Ben-Gurion.
Ben-Gurion era un membro del Mapai, acronimo di “Mifleget Poalei Eretz Ysrael” (Partito del Lavoro della Terra d'Israele). Il Mapai fu fondato negli anni '30 come gruppo moderato del partito marxista-sionista russo “Poalei Zion”, i “Lavoratori di Sion”. Sotto la guida di Ben-Gurion, il Mapai divenne il principale partito del Parlamento israeliano.
• FONDAZIONE DEL PARTITO LABURISTA
Ben-Gurion lasciò il Mapai per protesta contro i rapporti del suo partito con Pinchas Lavon durante l'affare dello spionaggio di Lavon . Nel 1965 fondò un nuovo partito, il Rafi. Si tratta dell'acronimo di Reshimat Poalei Yisrael, il “Bar del Lavoro Israeliano”.
Tre anni dopo, il Mapai si fuse con Rafi e Achdut HaAvoda/Poalei Zion per formare il partito laburista Avoda. Fino al 1977, tutti i primi ministri appartenevano a Mapai o ad Avoda . Il principale avversario del Partito Laburista era il partito conservatore di destra Cherut (Libertà) di Menachem Begin.
I cosiddetti “territorialisti” svolgevano un ruolo di outsider tra i movimenti sionisti. Nahman Syrkin sosteneva la versione socialista del sionismo. Guidato da Israel Zangwill, il piccolo gruppo si separò dopo il settimo Congresso sionista del 1905 e fondò l'“Organizzazione territoriale ebraica”.
Il suo obiettivo era quello di creare un territorio ebraico sufficientemente grande e denso, non necessariamente in Terra d'Israele e non necessariamente completamente autonomo. La Dichiarazione Balfour del 1917 e la conseguente rinascita sionista rinnegarono il movimento, portandolo allo scioglimento.
• SECESSIONE DEI REVISIONISTI
La posizione e la politica moderata di Chaim Weizmann nei confronti degli inglesi fu sempre più criticata da alcuni sionisti. Ci fu un'altra scissione all'interno dei ranghi sionisti: nel 1925 si separarono i cosiddetti Revisionisti, guidati da Se'ev Jabotinsky e dal suo successivo successore Menachem Begin.
I revisionisti sottolineavano l'eredità storica del popolo ebraico nella Terra d'Israele come base costitutiva del concetto nazionale sionista. Sostenitori del liberalismo economico, erano anche strenui oppositori del cosiddetto “sionismo operaio” e dell'instaurazione di una società comunista. I revisionisti sostenevano una dura azione militare contro gli arabi che avevano attaccato le comunità ebraiche.
• ULTERIORE RADICALIZZAZIONE
Un gruppo di membri, tra cui Menachem Begin, si radicalizzò ulteriormente e fondò nel 1943 l'Irgun Zva'i Le'umi,l'“Organizzazione militare nazionale”, spesso chiamata Irgun all'estero ed Ezel in Israele. Un altro gruppo scissionista, il gruppo Lechi, fu reclutato da ambienti revisionisti. Il nome è l'acronimo di Lochamei Cherut Yisrael, i “Combattenti per la libertà di Israele”.
Dopo la fondazione dello Stato, l'organizzazione sionista revisionista si fuse con il movimento Cherut fondato da Ezel, guidato da Begin, che era anche il comandante di Etzel. Insieme formarono il partito Cherut, il “Partito della Libertà”, una componente del Likud fondato da Menachem Begin nel 1973. Il nome del partito Likud significa “unione” e corrisponde in larga misura ai valori del revisionista Jabotinsky.
Jabotinsky era un rappresentante del liberalismo del XIX secolo. Sosteneva un sionismo che metteva da parte le differenze sociali e di classe e si concentrava sulla creazione di uno Stato ebraico che tutti gli ebrei potessero chiamare casa. Esercitò una profonda influenza sulla gioventù ebraica, incoraggiandola a lasciarsi alle spalle la mentalità da ghetto e ad essere orgogliosa del proprio ricco patrimonio ebraico.
Diffuse la sua ideologia attraverso il movimento giovanile da lui fondato, Betar, noto anche come Beitar. Il nome si riferisce sia a Betar (fortezza), l'ultima fortezza ebraica caduta nella rivolta di Bar-Kochba nel 135 d.C., sia all'abbreviazione modificata del nome ebraico dell'organizzazione: “B erit Tr umpeldor” o “B rit J osef Tr umpeldor”, dal nome di Joseph Trumpeldor.
Questo attivista sionista contribuì a organizzare il Corpo dei Muli di Sion e a portare gli immigrati ebrei in Palestina. Trumpeldor morì nel 1920 in difesa dell'insediamento di Tel Hai e divenne un eroe nazionale ebraico. Nel 1977, il Likud sostituì per la prima volta al governo il socialista Avoda, dopo ben 30 anni di opposizione.
• Ben-GURION CONTRO LA SEPOLTURA DI JABOTINSKY
I revisionisti sono classificati come sostenitori del “Grande Israele”, uno Stato ebraico su entrambe le sponde del fiume Giordano. Begin è stato il settimo Primo Ministro dal 1977 al 1983. Jabotinsky fu sepolto nel Nuovo Cimitero Montefiore di Farmingdale, New York, in conformità con una clausola del suo testamento. Ben-Gurion rifiutò di permettere a Jabotinsky di essere sepolto nuovamente in Israele.
Il “sionismo rivoluzionario”, guidato da Avraham Stern, Israel Eldad e Uri Zvi Greenberg, è spesso classificato ideologicamente come revisionista. Tuttavia, si differenzia per alcuni aspetti fondamentali. A differenza dei revisionisti nazionali, prevalentemente laici, questo movimento considera il sionismo solo come un mezzo per raggiungere l'obiettivo reale: Malchut Yisrael, il “Regno di Israele” che comprende un Tempio ricostruito. Il movimento Cherut Zion è considerato un sostenitore del “Grande Israele”.
Nell'attuale panorama partitico israeliano, i seguenti blocchi sono principalmente contrapposti: Il blocco nazional-conservatore del Likud e i partiti nazionalisti minori di destra, il partito laburista socialdemocratico e il blocco di sinistra Meretz, nonché i partiti religiosi, tra i quali l'“Agudat Israel” (Unione di Israele) è stato fondato nel 1912 da ebrei tedeschi strettamente ortodossi come partito antisionista. Il Partito Nazionale Religioso costituisce tradizionalmente l'ala religiosa del movimento sionista ed è stato alleato del Mapai e del Partito Laburista fino al 1977.
Avigdor Lieberman ha fondato Israel Beiteinu (Israele è la nostra casa) nel 1999. Il partito si descrive come “un movimento nazionale con una chiara visione di seguire l'audace percorso di Se'ev Jabotinsky”, il fondatore del sionismo revisionista. Rappresenta principalmente gli immigrati dall'ex Unione Sovietica.
• NUOVI PARTITI
Achrajut Leumit è una scissione dal Likud, poi rinominata Kadima (Avanti). È stato fondato nel 2005 da Ariel Sharon e Zippi Livni. Kadima si considerava un partito liberale al centro dello spettro dei partiti israeliani e si collocava quindi politicamente tra il Likud e Avoda. Nonostante sia stato al governo per due volte, si è sciolto nel 2015 a causa di conflitti interni al partito. Il partito liberale HaTnua (Il Movimento) è una scissione di Kadima.
Yesh Atid (C'è un futuro) è un partito liberale e centrista in Israele. È stato fondato nell'aprile 2012 dall'ex giornalista televisivo Jair Lapid. Suo padre era l'ex politico Shinui e ministro della Giustizia israeliano Josef “Tommy” Lapid. Shinui in ebraico significa “cambiamento” o anche “trasformazione”. Il partito si batte per una “soluzione a due Stati”, con uno Stato palestinese smilitarizzato accanto a uno Stato ebraico di Israele. I blocchi di insediamento dovrebbero rimanere parte di Israele, non è riconosciuto il diritto al ritorno per i palestinesi e Gerusalemme dovrebbe rimanere la capitale unita di Israele.
Jamina, noto anche come Jemina (a destra), è il nome di un gruppo parlamentare della Knesset. Dal 2019 all'inizio del 2021 è stata un'alleanza tra il partito conservatore nazionale HaJamin HaChadash (la Nuova Destra) e l'Unione dei Partiti di Destra, composta dai partiti nazional-religiosi HaBait haJehudi (Jewish Home) e Ha-Ichud HaLeʾumi (Unione Nazionale).
Quando è stata fondata con la scissione dal partito nazional-religioso Mafdal, l'alleanza si chiamava Tkuma, in ebraico “rinascita”. Dal gennaio 2019, il suo presidente è il membro della Knesset Bezalel Smotritsch, che dal 2023 è presidente del partito religioso di destra Mafdal-HaTzionut HaDadit (Partito nazionale religioso - Sionismo religioso). Attualmente è Ministro delle Finanze.
L'alleanza è stata sciolta dopo le elezioni parlamentari del settembre 2019. Jamina si è riformata per le elezioni del 2020 e ha formato una fazione comune della Knesset. HaBait haJehudi ha lasciato la fazione Jamina nel maggio 2020 e anche Tkuma ha lasciato la fazione nel gennaio 2021, il che significa che dopo le elezioni parlamentari del 2021 la fazione era composta solo da deputati del partito HaJamin HaChadash . Naftali Bennett è stato presidente del partito Nuova Destra dal 2018 al 2022, avendo precedentemente guidato il partito Jewish Home dal 2012 al 2018.
• SHASS COME «KINGMAKER»
I governi in Israele dipendono sempre dai partiti religiosi come partner di coalizione. Il partito Shass, che si è separato da Agudat Israel nel 1984 ed è stato fondato dal rabbino ultraortodosso Ovadia Josef, morto nel 2013, è emerso come la forza religiosa più forte. Il nome Shass sta per “Guardiani della Torah sefardita”. Ovadia Josef era considerato un cosiddetto “kingmaker” nella politica israeliana. Uno dei suoi slogan di campagna elettorale era. “Keder che vota per Shass ottiene un posto nel Giardino dell'Eden!”.
Dal 29 dicembre 2022, l'attuale governo è il gabinetto Benjamin Netanyahu, che ha sostituito il gabinetto Bennett-Lapid in carica dal giugno 2021. L'attuale governo israeliano è politicamente più a destra di qualsiasi altro precedente.
I partner della coalizione sono il Likud, i due partiti degli Haredim, molto spesso detti “ultraortodossi” , Shass e United Torah Judaism (UTJ), nonché l'alleanza di partiti radicali Sionismo religioso, composta dal suo partito omonimo, Ozma Yehudit , e dal partito minore Noam . Tutti i partiti appartengono al campo della destra.
Ozma Jehudit (Forza ebraica) e in precedenza Ozma LeJisrael (Forza per Israele) è un partito religioso, ultranazionalista e antiarabo fondato il 13 novembre 2012 da Arie Eldad e dal kahanista Michael Ben-Ari. I due avevano lasciato l'Unione Nazionale per fondare un nuovo partito in vista delle elezioni per la 19esima Knesset. Ozma LeJisra'el è in parte il discendente ideologico del partito vietato Kach.
Dopo che due partiti hanno lasciato l'Unione Nazionale, il partito HaTikva (Speranza) di Eldad e il Chasit Jehudit Le'umi (Fronte Nazionale Ebraico) di Michael Ben-Ari si sono uniti per formare un partito comune. Il suo presidente è Itamar Ben-Gvir.
• IL KAHANISMO COME RADICE
Il kahanismo è un ramo del sionismo religioso. Si basa sul punto di vista del rabbino ortodosso e politico Meir Kahane, fondatore della Lega di Difesa Ebraica e del partito Kach, che mescola l'ultranazionalismo con il fondamentalismo religioso, il razzismo e l'ostilità verso i goyim. Goy è un termine yiddish per indicare i non ebrei e ha una connotazione dispregiativa.
Inoltre, giustifica anche la violenza. La visione del mondo di Kahane è caratterizzata dal sionismo revisionista di Jabotinsky, che era spesso ospite nella casa dei genitori di Kahane. In gioventù, Meir Kahane è stato un membro attivo della Gioventù Betar fondata da Jabotinsky, che può essere considerata il precursore dei partiti israeliani Cherut e Likud. Il partito è presieduto dal Ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir.
Noam, in ebraico “favore”, che significa “gradito a Dio”, è un partito politico di estrema destra, ebraico ortodosso e sionista religioso in Israele. È stato fondato nel 2019 da una corrente molto conservatrice del movimento sionista religioso. Il partito è presieduto dal rabbino Dror Arje. Il suo leader spirituale è il rabbino Zvi Thau, fondatore e direttore della Yeshiva di Har Hamor a Gerusalemme. Noam è stato registrato per le elezioni parlamentari del settembre 2019. La sua campagna aggressiva contro le persone LGBT è stata criticata in tutto il Paese e Noam ha tirato le somme annunciando, due giorni prima del voto, che non si sarebbe candidata.
I media israeliani hanno anche collegato l'aumento del numero di casi di odio e violenza contro la comunità LGBT alla campagna elettorale del partito Noam con il controverso slogan “Israele sceglie di essere normale”.
• RAFFORZARE L'IDENTITÀ EBRAICA
Nelle elezioni del 2011, Noam ha ottenuto un seggio alla Knesset come parte di un'associazione di liste chiamata “Sionismo religioso”. Noam è favorevole al rafforzamento dell'identità ebraico-religiosa dello Stato di Israele, all'espansione dell'istruzione ebraico-religiosa, anche nelle scuole pubbliche, a un'osservanza più rigorosa dello Shabbat e alla protezione del “matrimonio e della famiglia tradizionali”. Noam è fortemente contrario all'introduzione del matrimonio omosessuale.
In sintesi, si può dire che in Israele, la categorizzazione dei partiti politici in “sinistra” e “destra” avviene lungo gli assi delle opposte visioni sull'identità dello Stato e sul conflitto con i palestinesi; la dimensione socio-economica svolge un ruolo subordinato nella politica israeliana.
(israelnetz, 15 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Dopo l’Aifa, è ora di chiedere scusa
L'agenzia ha ammesso ufficialmente che i preparati a mRna non bloccavano i contagi. Chi ha insultato, minacciato e privato di libertà e lavoro gli italiani deve fare ammenda.
di Silvana De Mari
L'Aifa riconosce finalmente quello che qualsiasi persona con la capacità di leggere una scheda tecnica avrebbe dovuto capire dall'inizio, da quello sciagurato dicembre 2020, quando, osannato come un Messia, il cosiddetto vaccino anticovid è arrivato. Si trattava e si tratta di un farmaco sperimentale, sperimentato per un tempo assolutamente insufficiente, con delle sperimentazioni in doppio cieco che invece si vedevano benissimo, e che non aveva scritto in nessun punto della scheda tecnica di avere un qualche valore per evitare la trasmissione della malattia.
Il cosiddetto green pass non aveva nessun senso. La gioia isterica con cui molti sprovveduti controllavano o si facevano controllare il green pass, non aveva nessun senso. Non aveva nessun senso l'isterico e ignobile odio scatenato contro di noi abbastanza intelligenti da capire l'inutilità e la pericolosità di questo cosiddetto vaccino. Non avevano nessun senso le squallide e violente parole di David Parenzo che invitava sputare sulla nostra pizza, Selvaggia Lucarelli che ci augurava di diventare poltiglia verde e un tale Andrea Scanzi che si augurava di vederci morire. Esigo le scuse di Mario Draghi, per le sue ridicole parole: «Muori e fai morire», e soprattutto per le vessazioni indecenti a chi rifiutava un intruglio privo di capacità di immunizzare per aver costretto innumerevoli persone che adesso hanno effetti collaterali spaventosi a inocularsi questa roba per poter lavorare o salire sul mezzo pubblico. Muori e fai morire e se non muori ti faccio 100 euro di multa. Esiste un qualsiasi provvedimento di qualsiasi personaggio politico di qualsiasi epoca che raggiunga il livello di ridicolo dei 100 euro di Draghi per chi non muore? Esigo le scuse degli Ordini dei Medici e in particolare del presidente dell'Ordine dei Medici di Torino dottor Guido Giustetto, esigo le sue scuse personalmente, perché il dottor Giustetto con commovente sprezzo del ridicolo ha messo la sua firma sotto una Pec che mi ingiungeva di farmi iniettare per immunizzarmi farmaci incapaci di immunizzare, quindi neanche lui nonostante la laurea in medicina è capace di leggere la scheda tecnica di un farmaco. Esigo le sue scuse personali per essersi permesso anche un richiamo in quanto, anche da sospesa in quanto non inoculata, stavo continuando a fare telemedicina. Difficile infettare qualcuno da un'altra parte dell'Italia attraverso un computer.
Quindi a questo punto è evidente che le regole contro i medici che rifiutavano la cosiddetta immunizzazione, non erano per la salvaguardia della salute pubblica, ma per la persecuzione del dissidente costretto alla fame. Questo è quanto di più ignobile i presidenti degli ordini potessero fare. Le alternative sono due: o i presidenti degli ordini dei medici hanno deficit cognitivi per cui non sono in grado di leggere la scheda tecnica di un farmaco, oppure stavano eseguendo ordini. Entrambe le ipotesi sono inquietanti. Una persona perbene dopo una tragedia di questo genere dovrebbe porgere scuse e soprattutto dovrebbe dimettersi immediatamente. Il dottor Sandro Sanvenero è l'unico Presidente di Ordine che si è rifiutato di mandare la Pec dell'infamia. Quindi capire e battersi era possibile. Ora tutti gli altri presidenti si dimettano. Esigo le scuse del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per non aver difeso la libertà più elementare, quella del proprio corpo, libertà che molte dittature hanno osato ledere, come sarebbe stato dove suo dovere, anzi per aver dichiarato ufficialmente che a quelle libertà non bisognava appellarsi. Esigo le sue scuse al popolo italiano e anche le sue dimissioni sarebbero un gesto perbene.
(La Verità, 15 agosto 2024)
........................................................
ONU – Gilad Erdan saluta e accusa: dal Palazzo di Vetro solo silenzi
Per quattro anni l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan è stato la voce di Gerusalemme alle Nazioni Unite. Spesso è andato all’attacco, denunciando il doppio standard e i pregiudizi degli organismi internazionali contro Israele. Dopo il 7 ottobre il lavoro del diplomatico, membro del Likud e più volte ministro nei governi di Benjamin Netanyahu, si è intensificato. Ai colleghi ambasciatori ha ribadito il diritto dello stato ebraico a difendersi e ha condannato i silenzi di molti sulle violenze di Hamas. È accaduto anche in quella che, ormai a fine mandato, probabilmente sarà la sua ultima sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La riunione è stata richiesta d’urgenza dall’Algeria in merito all’attacco di Tsahal alla scuola di Al-Taba’een a Gaza. Erdan si è presentato all’incontro con le immagini dei terroristi di Hamas eliminati nella scuola. Criticando fortemente il Consiglio, ha denunciato: «Vi siete riuniti per questi terroristi che hanno usato una scuola come base del terrore, ma per i bambini di Majdal Shams, uccisi dal fuoco dei razzi di Hezbollah, non avete trovato il tempo per una sessione urgente! Vergognatevi!». Il riferimento dell’ambasciatore è all’attacco dei terroristi libanesi compiuto il 27 luglio contro un villaggio druso nel nord d’Israele. Attacco in cui sono morti dodici bambini che stavano giocando in un campetto da calcio.
Erdan ha poi criticato il Consiglio per la sua «indifferenza» nei confronti della minaccia di un attacco iraniano contro Israele. «La cosa più incredibile è la vostra inazione nel condannare e fermare il più grande pericolo per l’intera regione: l’Iran». Un tema più volte sottolineato nel corso del suo mandato. Nel suo recente discorso di commiato, Erdan ha denunciato: «Anche oggi, mentre l’Iran minaccia apertamente di ‘punire’ Israele, le Nazioni Unite tacciono. L’Iran interpreta il silenzio del mondo e dell’Onu come un via libera ad attaccare lo stato ebraico. Proprio come il vergognoso silenzio del mondo quando i nazisti decisero, alla Conferenza di Wannsee del 1942, il genocidio del popolo ebraico».
(moked, 14 agosto 2024)
........................................................
Quest’accordo s’ha da fare
di Niram Ferretti
Tutti lo vogliono l’accordo con Hamas, ovvero l’accordo di capitolazione di Israele. Lo vogliono in primis gli Stati Uniti, in modo da conferire a Joe Biden che a sua volta potrà consegnarlo alla delfina Kamala Harris, il suo primo e vistoso successo in politica estera, lo vuole il braccatissimo e ormai a corto di fiato dead man walking Yahya Sinwar, lo vogliono Teheran e Hezbollah, pegno da pagare per non attaccare Israele in attesa del prossimo round, lo vogliono le Cancellerie internazionali e lo vuole una parte consistente dell’establishment israeliano, è, ovviamente, quella che Daniel Pipes, qui su l’Informale ha definito la lobby degli ostaggi.
In questo scenario, la parte del villian, a lui assegnata già da tempo, spetta a Benjamin Netanyahu, presentato come colui che continuamente cerca di fare arenare l’accordo, ostaggio dell’impresentabile copia di ultranazionalisti, Smotrich e Ben Gvir.
Da quando, a fine maggio, Joe Biden rilanciò l’accordo intestandosene la paternità, Netanyau è stato presentato come il fastidioso addensatore di codici e codicilli, mica come Hamas, che, ne ha ostacolato e ne ostacola l’adempimento.
Ora, per ferragosto, giorno in cui si incontreranno i negoziatori, Bibi è stato messo con le spalle al muro. Quest’accordo s’ha da fare, se non lo farai, l’Iran attaccherà (ed è superlativo vedere il confermarsi dell’asse americano-iraniano, fatto di intese, rassicurazioni, reciproci interessi, ancora più estesi se diventerà presidente o presidenta il brocco trasformato in purosangue, Kamala Harris).
Netanyahu in realtà chiede rassicurazioni precise, che Hamas non possa utilizzare a suo vantaggio, come ha fatto tutti questi anni con la complicità egiziana il varco Filadelfi, per contrabbandare armi, e del quale esige il controllo, così come vuole che si instauri un meccanismo che impedisca agli sfollati di ritorno, migliaia e migliaia di nascondere al suo interno uomini armati, e poi c’è, tra le altre cose la questione del numero di prigionieri di massima sicurezza che Hamas vorrebbe venissero rilasciati in cambio degli ostaggi, tra cui lo zar del terrore, il pluriergastolano, il “Mandela” palestinese, secondo la pubblicistica della propaganda, Marawan Baraghouti. Questo e altro. D’altronde, come ha già detto Yoav Gallant, non l’ultimo della fila, e certo non il primo a dirlo, Israele deve rinunciare al suo obiettivo di vittoria, ovvero smilitarizzare completamente Gaza da Hamas, dopo dieci mesi di guerra e più di trecento soldati israeliani morti pour la patrie, si riportino a casa gli ostaggi, quel che resta, e si finisca così. Biden sarà contento, Khamenei pure, e insieme a loro tutti gli altri.
Tocca dunque a Netanyahu in questo ultimo round, decidere cosa è meglio per Israele, cedere al ricatto, perché di questo si tratta e di niente altro, mascherato da saggia decisione per evitare l’escalation, ovvero soprattutto preservare l’Iran da un massiccio contrattacco israeliano se dovesse attaccare Israele, oppure tenere duro sui requisiti fondamentali, preservare la sicurezza dello Stato, togliersi dal fianco definitivamente la spina di Hamas, e prepararsi, dopo anni all’appuntamento fatidico con il suo principale antagonista, il regime di Teheran.
(L'informale, 14 agosto 2024)
........................................................
Un Aron ha-Kodesh e la memoria ritrovata: la storia della famiglia Gentilli
di Ruben Caivano
Custodito presso il Museo Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme, un antico Aron ha-Kodesh in legno, proveniente da San Daniele del Friuli, è stato al centro di una scoperta storica significativa. Quest’Arca sacra, che ha custodito i rotoli della Torah della piccola comunità ebraica di San Daniele per quasi quattro secoli, ha portato alla luce la storia della famiglia ebraica Gentilli di Mereto di Tomba, località vicina a San Daniele. Questa scoperta è stata possibile grazie al ricercatore Denis Passalent, originario della stessa provincia, il quale, motivato dalle sue origini familiari, ha dedicato tredici mesi alla ricerca tra archivi civici e statali.
Dopo oltre ottant’anni di silenzio, Passalent è riuscito a ricostruire la storia di Norma Stella Colombo e Moisè Vittorio Gentilli. La coppia, ben integrata nella comunità locale e gestori di un negozio di alimentari, si trasferì a Venezia nel 1930 per sfuggire alla crescente propaganda fascista. Nel 1943, mentre tentavano di fuggire in Svizzera, i Gentilli furono arrestati a Olgiate Comasco e deportati ad Auschwitz nel febbraio del 1944, insieme a cinque familiari e al celebre scrittore Primo Levi. Nessuno di loro fece ritorno.
Questa storia è presto diventata oggetto di una serie di iniziative culturali e commemorative che hanno permesso alla comunità di Mereto di Tomba di riconnettersi con il proprio passato. In collaborazione con lo storico Valerio Marchi, autore di un libro sulla famiglia Gentilli, il 21 gennaio 2024 è stata organizzata una cerimonia ufficiale presso il municipio del paese, durante la quale sono state installate due pietre d’inciampo davanti all’ultima residenza nota dei Gentilli. La commemorazione ha incluso la partecipazione dell’artista Davide Merello, che ha realizzato una serie di illustrazioni raffiguranti cinque luoghi significativi per i Gentilli; queste illustrazioni sono state stampate come cartoline e distribuite insieme a un elenco di libri sulla vita ebraica italiana, offrendo così la possibilità di avere un contatto diretto con la storia.
(Shalom, 14 agosto 2024)
........................................................
Israele-Iran, siti atomici, raffinerie e porti: gli obiettivi di un conflitto. Hezbollah minaccia i civili
Piani di offensiva a confronto: nel mirino di Teheran anche i palazzi del potere e le città più popolate. Tel Aviv punta a distruggere lanciamissili e nascondigli
di Sara Miglionico
I “mappatori” degli obiettivi sono al lavoro da settimane, in Iran come in Israele. Un’opera certosina che va avanti da anni, e alla quale soprattutto gli israeliani hanno aggiunto il contributo dell’Intelligenza artificiale.
Ma l’insegnamento del 7 ottobre è che la tecnologia non basta, e allora ci sono gli Hezbollah che all’ombra di Teheran progettano incursioni oltre confine dal Libano nel Nord di Israele, e mattanze tra i civili e razzi sulle zone più abitate. A dispetto delle raccomandazioni politiche degli Ayatollah che non vorrebbero la guerra totale. Quale sarà la ritorsione iraniana all’assassinio del leader di Hamas Haniyeh a Teheran, e la risposta promessa da Israele, è un gigantesco interrogativo.
• GLI OBIETTIVI L’unico punto fermo, in realtà, sono proprio i potenziali bersagli. In Israele molti e ravvicinati come il Porto di Ashdod, coi suoi dodici moli alla foce del fiume Lachish, 40 km a sud di Tel Aviv, o la centrale elettrica di Hadera con la sua potenza di 148 megawatt a Haifa. E poi le basi militari, specie gli aeroporti. Come il Ramat David a Afula, a soli 20 km da Haifa e accanto all’omonimo kibbutz, aeroporto storico se proprio qui, nel 1942, si addestravano i piloti ebrei per farsi paracadutare dalla Raf oltre le linee tedesche. E ancora il Pengrion Airport, e la base Nevatim, 15 km a est-sudest di Beersheba, nel deserto del Negev. E poi le raffinerie che fumano lungo la costa. E il centro di osservazione satellitare di Or Yehuda, distretto di Tel Aviv. Ma non compaiono solo gli obiettivi militari nel mirino di Khamenei e dei pasdaran.
Il momento topico è stato il 1° aprile, quando i caccia F-35 con la Stella di Davide hanno scagliato 6 missili sulla sezione consolare dell’Ambasciata iraniana a Damasco, Siria, uccidendo il generalissimo Mohammad Zahedi, già capo delle forze di terra Irgc, i pasdaran impegnati fuori dall’Iran. In una spettacolare e largamente attesa Operation True Promise di risposta iraniana, oltre 300 missili e droni hanno volato verso Israele, e uno lo ha raggiunto. I target primari erano, allora, militari, a cominciare dalla base aerea del Negev e dalla Centrale dell’Intelligence sul Monte Hermon, cioè le infrastrutture direttamente coinvolte nell’attacco. Ma adesso non è escluso che vi siano altri bersagli. Politici. Istituzionali. I bunker dei vertici dello Stato ebraico. I palazzi del Potere. Gerusalemme, per via della Spianata delle Moschee, sembra invece godere di una sorta di immunità “religiosa”. I generali di Tsahal, l’esercito israeliano, e i vertici politico-militari, a loro volta, hanno avvertito Teheran che se l’attacco sarà condotto per fare danni e vittime il più possibile, «senza restrizioni e senza regole» come chiede Hezbollah, la reazione israeliana sarà micidiale.
• LE DEBOLEZZE DI TEL AVIV Il bersaglio grosso in Israele è il centro di ricerca nucleare di Dimona, 10 km dall’omonima terza città del Negev. Che però è super-protetto, e già nella guerra del Golfo 2002-2003 fu difeso dai Patriot. In Iran, ben più vulnerabili ai raid israeliani sono gli impianti nucleari di Natanz. Per gli Ayatollah, un fiore all’occhiello da proteggere a ogni costo. Il “boccone” più ghiotto è concentrato attorno a Isfahan. Le batterie di missili S-300 sono dislocate in forze attorno a Teheran, una base navale importante e un aeroporto militare si trovano a Bandar-e Bushehr, ma 100 chilometri a sud di Isfahan sorge il complesso per l’arricchimento dell’Uranio di Natanz, e 20 km a nord del Centro di tecnologia nucleare di Isfahan due siti che sono il cuore del programma atomico iraniano.
Quello sarebbe il primo obiettivo di una contro-risposta israeliana. Senza contare che gli 007 di Tel Aviv saprebbero dove colpire uno i “most wanted”, i capi e comandanti più ricercati. E c’è infine un’altra variabile, una guerra nella guerra, sottotraccia finora.
La guerra delle milizie proxy filo-iraniane che con fastidiosa costanza attaccano le basi americane disseminate in ben 13 Paesi della regione, specie in Iraq, Siria e Giordania. Basi più o meno segrete. Quelle aeree di Al-Asad e Al Harir nel Nord dell’Iraq. La caserma di Al-Tanf in Siria, il centro d’addestramento nel campo di Al-Omar a Deir ez-Zor, nella Siria orientale, adiacente agli impianti petroliferi. E, ancora, piccole basi nella provincia siriana di Hasakah, e in Giordania l’avamposto strategico “Torre 22”.
(Il Messaggero, 13 agosto 2024)
........................................................
Perché l’Iran non ha (ancora) attaccato Israele e cosa può succedere
Da giorni si vive nell'allarme di un attacco imminente dell'Iran a Israele, considerato responsabile dell'uccisione del leader di Hamas Haniyeh. Ma la strategia frena Teheran dal rispondere direttamente. Più probabile la pista Hezbollah
di Maurizio Perriello
Attacco imminente, vendetta tremenda, escalation inevitabile. Da giorni il mondo occidentale vive la psicosi della grande offensiva dell’Iran nei confronti di Israele, imperdonabile responsabile dell’uccisione dell’ex leader politico di Hamas Ismail Haniyeh mentre si trovava a Teheran.
Un film già visto, una storia ritrita, che però giustamente desta forte preoccupazione visti gli arsenali in gioco. Finora però gli attacchi diretti sono stati pura scenografia, letteralmente telefonati, con le intelligence militari in costante dialogo per avvisare tempistiche e portata del raid aereo con droni e missili. Stavolta potrebbe essere diverso, certo, per via della componente irrazionale che, in tempo di guerra, fa saltare ogni logica tattica e strategica.
• Proclami di guerra, ma nessuna escalation: cosa vogliono Iran e Israele? Già una settimana fa l’annuncio della chiusura dello spazio aereo iraniano era stata data come prova principe di un attacco imminente a Israele. E invece niente. Ad aprile il maxi attacco con 300 droni e missili doveva essere l’apocalisse in terra. E invece niente. I blitz israeliani contro obiettivi in terra iraniana sono stati visti come la miccia definitiva per far esplodere il Medio Oriente. E invece niente. Perché né Israele né l’Iran hanno finora lanciato attacchi diretti su larga scala? Cosa li frena?
Cominciamo con un perché molto intuitivo, ma necessario: nessuno dei due Stati vuole l’escalation incontrollata. Israele perché è circondata da nemici e deve ancora vedersela col solo Hamas, sulla carta il più debole degli agenti di prossimità filo-iraniani riuniti nella cosiddetta Mezzaluna sciita (in dizione occidentale) o Asse della Resistenza: Hezbollah e Houthi. Il conflitto per Tel Aviv è già abbastanza largo, da nord (anche in Siria) a sud ma anche verso l’interno della Penisola Arabica. Lo Stato ebraico si dice pronto a impegnarsi su sette fronti: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq e Yemen. E il settimo è l’Iran.
Nelle ultime settimane lo Stato ebraico ha voluto mostrare i muscoli, facendo vedere al mondo e in particolare agli Stati Uniti di essere in grado di gestire contemporaneamente i tre grandi fronti di guerra: a Gaza, in Libano e in Yemen. Ma si è trattato di attacchi estemporanei, che non hanno spostato gli equilibri del conflitto più ampio. E che non hanno impensierito l’Iran, al contrario dello smacco simbolico dell’uccisione di Haniyeh a Teheran, onta che il popolo persiano non può davvero sopportare. Eppure neanche la Repubblica Islamica ha interesse nel compiere un attacco diretto allo Stato ebraico.
Nella pratica militare, l’escalation si verifica quando una o più parti di una crisi aumentano l’intensità o espandono la portata dei loro sforzi bellici, violando le regole non scritte di un conflitto. Ad aprile, ad esempio, lo Stato ebraico ha intensificato lo scontro uccidendo diversi membri di alto livello del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a Damasco. Un attacco insolito, sia per il grado dei militari uccisi sia per il fatto che aveva come obiettivo una struttura diplomatica. Dopo la risposta scenografica iraniana, Israele è riuscito a risolvere la crisi senza aggravare ulteriormente la situazione, ma per farlo ha dovuto studiare un attacco altamente calibrato che trasmettesse una minaccia senza violare le regole non scritte che hanno governato il conflitto con Teheran negli ultimi decenni.
• Le cinque possibili risposte da parte dell’Iran L’Iran ha già dimostrato in più occasioni di riuscire a stemperare l’ondata emotiva provocata dagli attacchi subiti da parte del suo nemico esistenziale. Come dopo ,Ebrahim Raisi, svolta cruciale per la Repubblica Islamica che però non cambiò di una virgola la sua politica estera. Proprio perché gli imperativi strategici di una potenza imperiale vengono prima di ogni altro dossier. Un principio che dobbiamo applicare anche agli attuali segnali di escalation imminente, pena il ritrovarci costantemente travolti dagli eventi, senza memoria e senza studio, dunque senza futuro. Stringendo, Teheran ha cinque principali opzioni di risposta:
- non fare nulla, proseguendo sul terreno della propaganda anti-israeliana e passando come l’unica parte ragionevole e desiderosa di pace che vuole evitare a tutti i costi l’escalation;
- intraprendere azioni di basso profilo come attacchi informatici;
- eseguire una o più uccisioni mirate ai danni di Israele;
- lanciare attacchi di fuoco indiretto;
- ordinare ai suoi clientes di condurre incursioni in terra israeliana.
Le prime due opzioni sono le meno probabili, almeno come operazioni singole che ne escludono altre. Il leader supremo dell’Iran ha già messo a rischio la propria reputazione e qualsiasi mossa percepita come una “non risposta” sarebbe politicamente inaccettabile. Le uccisioni mirate contro gli israeliani sarebbero l’opzione meno grave per una potenziale escalation, ma Teheran deve affrontare ostacoli sia politici sia pratici. Omicidi mirati contro una figura simile ad Haniyeh in Israele probabilmente fornirebbero una risposta sufficiente senza arrivare a un’escalation drammatica, ma una figura del genere in Israele non esiste.
Lo Stato ebraico non ha il tipo di alleati non statali che presentano bersagli molto simili a Haniyeh, quindi Teheran dovrebbe probabilmente intensificare il conflitto prendendo di mira funzionari politici o militari israeliani. Per quanto riguarda i limiti pratici per una simile mossa, non ci sono prove di infrastrutture iraniane segrete in Israele paragonabili a quelle necessarie per uccidere Haniyeh. L’Iran potrebbe attaccare figure del governo israeliano al di fuori di Israele, come Teheran e i suoi satelliti hanno ripetutamente fatto negli ultimi decenni. Tali attacchi rischiano però anche di intensificare il conflitto, diffondendolo in nuovi teatri geografici e affrontano problemi pratici propri: un’uccisione mirata o un bombardamento di un’ambasciata richiederebbero tempo per essere pianificati, indebolendo il segnale deterrente che l’Iran cercherà di inviare.
La Repubblica Islamica potrebbe allora condurre attacchi di fuoco indiretto attraverso i suoi partner non statali come Hezbollah, come accaduto finora insomma. Infine, potrebbe spingere i suoi satelliti a condurre incursioni di terra più convenzionali in Israele, come quella di Hamas del 7 ottobre 2023. Questa è l’opzione più esplosiva di tutte, che tuttavia l’Iran non deve perseguire se è seriamente intenzionato a evitare la guerra aperta e totale.
• Perché Teheran non vuole la guerra diretta Dal punto di vista tattico, l’Iran preferisce continuare nella sua proxy war a bassa intensità con frequenti e contenuti combattimenti, che tengano sotto costante pressione Tel Aviv, utilizzando i propri satelliti fondamentalisti nella Penisola Arabica. Al netto dei consueti slanci propagandistici, come l’appello del ministro degli Esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, ai Paesi islamici affinché “sostengano il diritto della Repubblica Islamica a difendersi da qualsiasi atto di aggressione, al fine di garantire la stabilità e la sicurezza dell’intera regione”. Paesi musulmani (ben 57) che, riuniti nella voce congiunta dell’Organizzazione per la Cooperazione islamica (Oic), hanno determinato senza appello che Israele ha la piena responsabilità nell’uccisione di Haniyeh.
Dal punto di vista strategico, invece, l’Iran vuole e deve distruggere i tentativi di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e monarchie arabe, cioè il mondo musulmano (sunnita). Un’operazione complessa, molto difficile da portare a termine, che si concretizza nel sabotaggio degli ormai celebri Accordi di Abramo che vedono il riavvicinamento fra Stato ebraico e Arabia Saudita in particolare.
Finora Teheran ha evitato un attacco diretto a Israele, costruendo appositamente attorno al Grande Satana proprio quell’Asse della Resistenza formato da milizie sciite, e dunque filo-iraniane, che condividono l’agenda anti-ebraica dell’impero persiano. Come certificato dalle dichiarazioni del nuovo presidente Massoud Pezeshkian il quale, durante una telefonata con Emmanuel Macron, ha ricordato come uno dei principi fondamentali dell’Iran sia quello di “evitare la guerra e cercare di stabilire la pace e la sicurezza nel mondo”.
Proviamo a dare un’ulteriore pennellata, per capire meglio il momento dell’Iran. Distratto da una profonda crisi interna, con una nuova leadership che deve imporsi come guida di un popolo velleitario, il Paese potrebbe anche impegnarsi con meno forza nella lotta su più fronti contro Israele. Anche alla luce di una serie di segnali di percepita debolezza che vanno avanti da mesi, nel segno della violenza fondamentalista. A cominciare dal 3 gennaio, quando un gruppo di jihadisti ha ucciso almeno 84 persone in due esplosioni vicino alla tomba del generale Qassem Soleimani, capo della Forza d’élite iraniana Quds.
Il mese precedente, il gruppo terroristico sunnita Jaish al-Adl aveva invece ucciso 11 agenti di polizia iraniani. L’Iran, nel disperato tentativo di mostrarsi forte, ha lanciato missili contro il Pakistan, dicendo che stava prendendo di mira Jaish al-Adl. Ma il Paese confinante, dotato di armi nucleari, ha risposto per le rime con missili e aerei da combattimento, compiendo il primo bombardamento su suolo iraniano dalla guerra con l’Iraq negli Anni Ottanta. Mesi prima dell’attacco telefonato di Israele, dunque.
Già allora il “grande bluff” della potenza iraniana era stato dunque scoperto, con Teheran che ha accettato di stemperare la contesa col Pakistan. La credibilità imperiale di Teheran è stata ulteriormente compromessa dal conflitto contro Israele e potrebbe dunque subire una nuova spallata dalla lotta interna per il potere. Un ruolo importante sarà giocato dai gruppi di fatto più potenti del Paese: le Guardie Rivoluzionarie e gli influenti esponenti religiosi di Qom.
• Quanto è probabile un attacco diretto dell’Iran a Israele? Secondo molti analisti, lo smacco subìto col caso Haniyeh potrebbe far scattare la rappresaglia diretta di Teheran, anche se finora lo scontro con lo Stato ebraico è stato delegato alla triade Hamas-Hezbollah-Houthi. Dal punto di vista del sentimento popolare e della gloria, elementi primari in imperi così antichi, l’Iran ha necessità di rispondere all’attacco di Israele. Necessità politiche interne, dunque. In questo caso, la risposta dovrebbe essere più incisiva dell’attacco missilistico e dei droni del 13 aprile, per soddisfare i sostenitori della linea dura ai vertici di Pasdaran e Repubblica Islamica. Ma anche per il bisogno strategico di scoraggiare ulteriori attacchi israeliani sul suo territorio. Come fare dunque a rispondere con forza evitando l’escalation e una guerra più ampia?
Se attacco sarà, lo scenario più probabile vedrebbe allora l’iniziativa proprio degli adiacenti miliziani libanesi, i quali devono ancora scatenare il loro reale potenziale bellico, almeno 10 volte superiore a quello di Hamas, che da solo sta dando filo da torcere a Tel Aviv, e molto più equipaggiato e pronto alla guerra dello stesso esercito libanese. Ne sono convinti anche i funzionari israeliani, sospettando un raid nei prossimi giorni. Come riferito dall’emittente israeliana Channel 12, citata dal Times of Israel, Tel Aviv ha trasmesso a Hezbollah e Iran che qualsiasi danno ai civili nello Stato ebraico per la loro azione di rappresaglia sarà “una linea rossa che porterà a una risposta sproporzionata”.
• La pista Hezbollah Anche Hezbollah, dal canto suo, ha una propria agenda al di là di quella iraniana. Proseguendo lo scontro a bassa intensità, i miliziani libanesi cercano di minare ulteriormente l’immagine di Israele come grande potenza securitaria del Medio Oriente. A giugno, per la prima volta, i fondamentalisti sciiti hanno celebrato in lungo e in largo di essere riusciti a respingere l’attacco di un jet israeliano sparando missili terra-aria in direzione del velivolo militare nemico, che aveva violato lo spazio aereo del Paese.
Gli Stati Uniti, sponsor di Israele del quale faticano sempre più a contenere l’intransigenza violenta, sanno benissimo che una “piccola guerra regionale” non è un’ipotesi realistica. Una delle preoccupazioni più vibranti di Washington è che il Libano potrebbe essere inondato di combattenti delle milizie filo-iraniane presenti in Siria, Iraq e persino nello Yemen che vorrebbero unirsi ai combattimenti. Un funzionario dell’esercito israeliano ha dichiarato che una guerra con Hezbollah o un’operazione limitata in Libano avrebbero “enormi implicazioni” per Tel Aviv in termini di costi di vite umane e di risorse da dirottare e impiegare.
Al di là della possibilità (molto bassa al momento) di attacco diretto iraniano, dovremmo preoccuparci molto anche della risposta dei soli Hezbollah. Sostenuto dall’Iran, il “Partito di Dio” rappresenta di fatto la più grande minaccia militare per Israele. Come ha dimostrato nel 2006, quando resistette all’assalto a tutto campo di Tel Aviv, col quale è in stato di guerra da decenni, da quando lo Stato ebraico lanciò una devastante invasione nel 1982 inviando carri armati fino alla capitale Beirut. Da allora il gruppo libanese non ha fatto altro che rafforzarsi, accumulando armi sempre più sofisticate ed esperienza e combattendo al fianco del governo siriano. E incrementando anche il suo risentimento verso lo Stato ebraico attraverso la “dottrina Dahiya” di guerra asimmetrica – dal nome di un quartiere di Beirut controllato da Hezbollah – che prevede di prendere di mira le infrastrutture civili.
Nonostante i proclami e le minacce odierne, Israele non avrebbe l’intenzione di invadere la parte di Libano controllata da Hezbollah. E, dall’altro lato della barricata, anche i fondamentalisti sciiti hanno tutto l’interesse a non accelerare l’escalation col nemico confinante. In altre parole a Iran e Hezbollah conviene che il conflitto resti a bassa intensità e tenga impegnato Israele a lungo, mentre dall’altra parte c’è più urgenza di inasprire il conflitto ma neanche l’opportunità e la forza necessarie.
(Milano Finanza, 13 agosto 2024)
........................................................
Cartolina dall’apartheid israeliano
Arabi, ebrei, orientali, africani, europei, laici, religiosi, tradizionalisti… un sabato pomeriggio in un parco pubblico d’Israele
di Adam Gross
Sabato scorso, Shabbat, ore 17.30. Un parco pubblico locale, lungo la costa settentrionale d’Israele. Clima soleggiato, 34 gradi, una fresca brezza di mare mentre si avvicina la sera.
L’erba, il parco giochi, le panchine, una fila di piccoli scogli piatti, gli alberi ombrosi, il cortile in cemento della scuola adiacente, la fontanella per bere, il rifugio antiaereo e i sentieri che passano in mezzo a tutto questo.
Una partita di calcio nel cortile in cemento. Adolescenti religiosi in pantaloni scuri, camicie bianche e kippah nere. Per lo più mizrachi (ebrei di origine mediorientale), altri di origine africana, altri ancora di origine europea.
Quattro donne arabe che indossano l’hijab camminano nel parco, fermandosi per bere alla fontanella prima di riposare sull’erba all’ombra degli alberi.
Bambini piccoli giocano sulle strutture per arrampicarsi sotto lo sguardo dei giovani uomini della vicina yeshiva hesder (studi religiosi combinati con servizio militare ndr). Due spingono delle carrozzine, due hanno armi a tracolla, uno entrambe le cose. Le loro mogli, il capo avvolto in grandi foulard, chiacchierano su alcune panchine lì vicino.
Accanto a loro, due nonne dall’aspetto russo bevono il tè con una terza di origine africana che fuma una sigaretta.
Una coppia di mezza età di origine europea in t-shirt, pantaloncini, sandali e occhiali da sole coordinati, porta a spasso il barboncino.
Donne di origine est-asiatica, forse anche qualche europea, siedono in cerchio sull’erba, una specie di attività di meditazione e yoga. O forse pilates. Chissà.
Tre donne etiopi di varie età, in tradizionali abiti bianchi e fluenti, stanno sulla panchina accanto al rifugio mentre il marito di una di loro gioca con il figlio tirando una palla da tennis sul muro del rifugio.
Lungo la linea di scogli accanto al parco giochi, il locale rabbino Chabad-Lubavitch (uno dei più grandi movimenti chassidici ndr), con un lungo cappotto nero e un cappello Fedora nero, recita pesukim (versetti della Torah) a bambini per lo più europei e mizrachi, laici e tradizionalisti, poi offre loro dei dolci.
Cinque adolescenti in costume da bagno passano sulla strada che sale dalla costa.
Un gruppo di ragazzini, religiosi, tradizionalisti e laici, di origine mizrachi, europea e africana, sciamano intorno alle altalene in attesa del loro turno.
Una donna araba in hijab ne spinge due con sopra le sue figlie.
Nei pressi, due bambini poco più che neonati, un maschio e una femmina, di etnia mista, nei loro bei vestitini di Shabbat, con la madre di origine africana e il padre di origine europea che li tengono d’occhio.
E accanto a loro, sulla grande altalena rotonda a forma di cesto, tre ragazzi di origine mizrachi giocano a fare la lotta, ognuno cercando di spingere giù l’altro mentre l’altalena ondeggia sempre di più.
Un jet da combattimento passa rombando a bassa quota. Nessuno ci fa caso.
(Da: Times of Israel, 11.8.24)
(israele.net, 13 agosto 2024)
........................................................
"Non si può essere terzi: Gerusalemme va difesa"
di Mario Sechi
Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia hanno lanciato l’ultimo appello all’Iran, la Difesa israeliana è in stato di massima allerta, il Pentagono ha spostato la portaerei USS Abraham Lincoln per affiancarla alla USS Theodore Roosevelt, il ministro degli Esteri Israel Katz ha ricordato che «è il momento per le democrazie di tutto il mondo di schierarsi con Israele e adottare misure decisive contro l’Iran e i suoi alleati, prima che sia troppo tardi».
Sono le mosse diplomatiche e militari che precedono un attacco, quello dell’Iran contro Israele. È un segno del destino che il massimo allarme arrivi nel giorno in cui il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, invoca sanzioni contro esponenti del governo di Israele, la nazione aggredita dai tagliagole di Hamas, minacciata ogni giorno dall’Ayatollah Ali Khamenei che promette che «Gerusalemme sarà nelle mani dei musulmani e il mondo musulmano celebrerà la liberazione della Palestina». Se stiamo scrivendo il nostro destino, sapere che il mondo libero è nelle mani (anche) di un personaggio come Borrell, ci fa venire i brividi.
L’Unione europea è distante dalla realtà, dopo la strage del 7 ottobre ha subito dimenticato qual è la posta in gioco, ha svolto consapevolmente il ruolo dell’utile idiota di Hamas e dell’Iran. Dietro questo carro funebre della libertà, si sono accodati i gazzettieri del sistema dell’informazione ciclostilata, che si sono bevuti i comunicati di Hamas, hanno dipinto come «volto pragmatico» un terrorista sanguinario come Yahya Sinwar, conosciuto a Gaza come «il macellaio di Khan Yunis». Per soprammercato, dopo la morte del boia dell’Iran, il presidente Ebrahim Raisi, hanno spacciato il suo successore, Massoud Pezeshkian, come un «moderato», lo stesso che in queste ore ha detto al cancelliere tedesco Olaf Scholz che l’Iran ha «il diritto di rispondere». La moderazione dell’Iran è forse quella della sua gang in Libano, Hezbollah, che ha bombardato un campo di calcio dove giocavano dei bambini? Tutti sperano nella pace, è giusto fare ogni sforzo, ma bisogna uscire dalla retorica, perché «non si può ragionare con una tigre quando la tua testa è nella sua bocca» (Winston Churchill ne L’ora più buia). Questa è la posizione oggi di Israele, una democrazia minacciata, un popolo di fronte a una sfida esistenziale.
Mentre scrivo, è in corso una gigantesca partita a scacchi: sono in campo massa di manovra, strategia e tattica, linee di comando e controllo, una battaglia psicologica fatta di pazienza e sorpresa. Nella guerra tra Israele e Hamas (leggere Iran) che è in corso da 312 giorni, l’elemento della «sorpresa» in teoria non c’è, la risposta di Khamenei dopo l’eliminazione a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Hanyeh, è ampiamente «telefonata», ma le mosse a disposizione restano tante.
• PRIMA IPOTESI L’operazione via aria con uno sciame combinato di missili e droni per bucare il «barrage» di Israele con un’azione coordinata è la mossa attesa, già sperimentata (senza successo) dall’Iran nell’attacco dello scorso aprile: Hezbollah può colpire a Nord, gli Houthi dello Yemen lanciare droni via Mar Rosso e provare a penetrare la difesa aerea dal Mar Mediterraneo (è già accaduto con il drone che ha viaggiato per 2mila chilometri e ha colpito Tel Aviv), Hamas e altri gruppi possono far decollare razzi dalla Striscia di Gaza e Teheran naturalmente può usare basi di lancio nei suoi confini e in Iraq.
Lo sciame è atteso dal sistema radar di Israele e degli alleati, dalle batterie anti-aeree Iron Dome, dagli intercettori americani, inglesi e francesi.
• L’ALTRO SCENARIO Questo è uno scenario in cui la risposta israeliana è puramente difensiva. Ma esistono le varianti, le abbiamo già viste: l’Ucraina è stata un teatro di sperimentazione proprio per l’Iran che produce i droni per i russi, sempre in quel conflitto abbiamo visto Kiev cogliere di sorpresa la Russia, sfondare i confini a Kursk e penetrare nel territorio di Mosca per una trentina di chilometri; dieci mesi fa, il 7 ottobre del 2023, i terroristi di Hamas entrarono in Israele e scatenarono la caccia all’ebreo. Nessuno può escludere un’operazione condotta da piccole unità all’interno di Israele, né si può scartare l’idea che Netanyahu e i suoi generali decidano di contrattaccare per neutralizzare obiettivi militari e «tagliare» l’arsenale di Teheran.
La superiorità di Israele e degli alleati sul piano della massa d’urto a disposizione e della tecnologia è indiscussa, ma in un conflitto vince chi pensa in fretta e bene. Questa guerra nasce da un calcolo errato di Hamas e dell’Iran, dall’idea che dopo la strage il governo israeliano rispondesse come nelle altre guerre di Gaza, una risposta minore e via di nuovo con gli assassini, gli assalti, i lanci di razzi sulla popolazione inerme, come prima più di prima. Ma la ferocia, la caccia all’ebreo, ha improvvisamente messo gli israeliani di fronte alla realtà di un nuovo Olocausto, così si è decisa la «guerra lunga» a Gaza e l’eliminazione di tutti i comandanti di Hamas e di Hezbollah. La guerra l’hanno innescata loro, con il regime iraniano che dichiarava il 7 ottobre 2023 come «Giornata epica della gioventù palestinese», la celebrazione della carneficina, della violenza sulle donne, della presa degli ostaggi, della minaccia permanente su un popolo. I nemici di Israele hanno dimenticato una lezione di Sun Tzu: «Nell’operazione militare vittoriosa prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia». La pace si prepara, si difende, si conquista. La citano tutti, la costruiscono solo i coraggiosi.
Libero, 13 agosto 2024)
........................................................
Gli ospedali israeliani fanno scorta
Parcheggi sotterranei trasformati in reparti ospedalieri mentre il centro medico mette al sicuro le scorte essenziali; anche se non sono state emanate nuove direttive, gli ospedali israeliani si sono preparati a eventi di massa; “Ogni paziente riceverà le migliori cure”.
Nelle scorse settimane, il Ministero della Salute ha dato istruzioni agli ospedali di tutto il Paese di assicurarsi di avere scorte adeguate di farmaci e di gasolio per i generatori, per mantenere le normali operazioni in caso di collasso delle infrastrutture elettriche.
Agli ospedali israeliani è stato consigliato di accumulare scorte per almeno tre mesi. Inoltre, alcuni ospedali hanno ricevuto l’ordine di assicurarsi sufficienti scorte di sangue e di prepararsi a dimettere rapidamente i pazienti per far posto a potenziali vittime di guerra.
Gli eventi della scorsa settimana, tra cui le uccisioni mirate del capo militare di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e del capo del politburo di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran, insieme alle minacce di ritorsione da parte dell’Iran e del gruppo militante libanese, non hanno richiesto nuove direttive. Tuttavia, gli ospedali si stanno assicurando di essere pronti ad affrontare eventi di massa o scenari ancora più gravi.
In un’intervista, quattro direttori di ospedali israeliani hanno parlato della loro preparazione, sottolineando che i loro piani sono orientati verso incidenti a lungo termine piuttosto che verso crisi a breve termine.
• Centro medico Emek, Afula “Abbiamo preparato le infrastrutture per altri 150 letti sotterranei, oltre ai 150 che già avevamo”, ha detto il direttore dell’Emek Medical Center, dottor Maor Maman. “In sostanza, ora abbiamo un ospedale sotterraneo pienamente operativo e aree fortificate, pronte a curare 300 pazienti in condizioni protette, oltre alle nostre attività di chirurgia e pronto soccorso”.
In previsione di un conflitto intenso e prolungato, gli ospedali si stanno preparando anche per uno scenario definito “isola isolata”, in cui le strade di accesso sono danneggiate e la fornitura di attrezzature mediche e cibo è interrotta.
“Stiamo facendo scorte di cibo, gasolio e attrezzature mediche per diversi mesi, creando un’infrastruttura di emergenza che ci permetterà di mantenere la continuità operativa e di fornire assistenza a un gran numero di pazienti”, ha proseguito il dottor Maman.
Oltre all’Emek Medical Center, altri ospedali nel nord di Israele potrebbero trovarsi in prima linea nella guerra. La potenziale carenza di personale medico, che potrebbe aggravarsi con il richiamo dei riservisti, potrebbe essere mitigata dagli studenti di medicina e dalle squadre mediche di emergenza. Ad esempio, le équipe mediche degli ospedali privati di Nazareth assisteranno gli ospedali regionali come lo Ziv di Safed, mentre il personale degli ospedali del centro di Israele sarà inviato agli ospedali del nord.
• Centro medico della Galilea, Nahariya “Siamo pronti da dieci mesi”, ha dichiarato il prof. Masad Barhoum, direttore del Galilee Medical Center di Nahariya, l’ospedale più settentrionale di Israele, che di recente ha subito un pesante lancio di razzi dal Libano, che ha provocato gravi ferite a una persona del posto.
“Tutti i pazienti e il personale sono sottoterra o in edifici fortificati, come le unità di terapia intensiva e il pronto soccorso”, ha spiegato il Prof. Barhoum. “Le nostre squadre sono già addestrate per eventi di massa ad hoc. Abbiamo distribuito telefoni satellitari alla direzione, che attiveremo solo se, per carità, ci sarà un’interruzione delle reti di comunicazione”.
“Al momento non ci sono istruzioni speciali da parte del Ministero della Salute o del Comando del Fronte Interno. Tuttavia, deve essere chiaro che nessuno ci spezzerà o ci esaurirà. Ogni ferito, sia esso soldato o civile, che entra nel centro medico riceverà le migliori cure.
“In qualsiasi momento potrebbe verificarsi un evento di massa, seguito da un altro. Da un momento all’altro potrebbe scoppiare una mini-guerra o una guerra. Dobbiamo essere pronti. Potremmo essere tagliati fuori per qualche tempo e ci siamo organizzati per essere pronti a curare i feriti e a far funzionare le sale operatorie per servire i pazienti. Questa guerra non sarà come la Seconda guerra del Libano, durante la quale sapevamo più o meno quando sarebbe scoppiato l’incendio.
“Siamo l’ospedale più vicino a qualsiasi confine e, personalmente, l’unico scenario che mi tiene sveglio la notte è la possibilità che non tutti i tunnel di attacco siano stati scoperti. Le nostre équipe mediche sono residenti della zona e vivono la realtà dei razzi che cadono non solo sull’ospedale ma anche sulle loro case. Pertanto, non possono essere esauriti. Quando la tua vita è minacciata, non puoi essere esausto”.
Nel nord di Israele, il Rambam Health Care Campus di Haifa dovrebbe servire come centro di accoglienza principale per i feriti provenienti dagli ospedali regionali, con quasi 2.000 posti letto disponibili nelle strutture sotterranee dall’inizio delle ostilità.
Ci si sta preparando a potenziali escalation di sicurezza non solo nel nord, ma in tutto Israele. In caso di guerra e di incidenti di massa, si prevede che gli ospedali del centro d’Israele diventeranno il punto di riferimento per l’evacuazione delle vittime di traumi; le strutture principali sono lo Sheba Medical Center di Tel Hashomer, il Sourasky Medical Center di Tel Aviv e il Rabin Medical Center di Petah Tikva.
• Centro medico Rabin, Petah Tikva In risposta all’escalation delle tensioni regionali, la direttrice del Rabin Medical Center, dott.ssa Lena Koren-Feldman, ha sottolineato la maggiore prontezza dell’ospedale. “Negli ultimi giorni abbiamo rafforzato e aggiornato la nostra preparazione globale iniziata il 7 ottobre”, ha dichiarato la dott.ssa Koren-Feldman.
“Il nostro ospedale sotterraneo dispone di 350 posti letto e di altri 150-200 posti letto completamente fortificati nella nostra torre di degenza. Complessivamente, l’ospedale può ospitare 800 letti che forniscono protezione secondo i protocolli del Ministero della Salute”.
“Tutti i letti di emergenza sono attrezzati per trasformarsi in unità di terapia intensiva, in grado di supportare pazienti ventilati. Ci stiamo preparando ad affrontare missili a lungo raggio con un potenziale esplosivo e danni significativi. Prevediamo situazioni in cui decine di persone arrivano in ospedale contemporaneamente e siamo preparati a gestire ondate di incidenti di massa. Il nostro pronto soccorso è completamente fortificato, compresa la banca del sangue”, ha spiegato.
“In termini di forniture di gasolio e acqua, ne abbiamo a sufficienza per tre mesi. Secondo le linee guida del Ministero della Salute, possiamo operare come “isola isolata”, supportata da generatori. Tutti i servizi medici disponibili in qualsiasi momento, anche durante la guerra, rimarranno accessibili. Non ci sarà nessun servizio medico non disponibile qui, e potremo riprendere rapidamente i trattamenti oncologici. Tuttavia, gli interventi chirurgici non urgenti potrebbero essere rimandati. Ogni reparto conosce l’ordine di trasferirsi nell’area di emergenza in caso di allarme e ha organizzato le proprie liste di inventario”.
Centro medico Sheba, Tel Hashomer “Conduciamo valutazioni quotidiane della situazione e abbiamo compilato una lista di controllo delle nostre forniture, superando i requisiti stabiliti dal Ministero della Salute e dal Comando del Fronte Interno”, ha spiegato il dottor Amir Greenberg, vicedirettore delle operazioni e dei servizi di emergenza del Centro Medico Sheba, descrivendo i loro continui sforzi di preparazione. “Inoltre, siamo preparati per uno scenario cibernetico, che ci consente di continuare a operare in modo funzionale nel caso di un attacco cibernetico che interrompa i nostri sistemi”.
Secondo il dottor Greenberg, il mantenimento dei servizi medici di routine è fondamentale, anche durante un conflitto intenso. “Seguiamo le linee guida del Comando del Fronte Interno e dell’Autorità Suprema di Ospedalizzazione. Abbiamo un protocollo per ridurre i ricoveri, anche se non lo abbiamo fatto negli ultimi tempi. Riprendiamo rapidamente l’assistenza medica regolare”, ha osservato.
“Le persone hanno bisogno di vari trattamenti e noi ci sforziamo di mantenere i servizi medici di routine, compresi gli interventi chirurgici programmati. Abbiamo 18 sale operatorie fortificate approvate per gli interventi chirurgici. Dovremmo fornire personale medico a un ospedale nel sud, designato come risorsa nazionale in tempo di guerra. Il Magen David Adom invierà squadre e noi invieremo squadre mediche a questo ospedale entro 30 minuti in elicottero.
“Inoltre, il Ministero della Salute ha dato istruzioni a noi e a Rabin di assistere il Centro medico Ziv di Safed. I nostri medici e infermieri si sono già recati a Safed e noi ci uniremo a loro per fornire l’assistenza necessaria. Ci siamo anche coordinati con l’ospedale di Nahariya e vi abbiamo inviato le nostre squadre. Siamo preparati ad affrontare un evento di massa di grandi dimensioni, avendo pianificato tutti gli scenari. Dato il ruolo del nostro ospedale come riserva per l’intero Paese, saremo in un centro di comando ampliato con valutazioni della situazione e riserve di personale per qualsiasi minaccia a Israele”, ha concluso.
(Israele360, 13 agosto 2024)
........................................................
Il postino informatore dietro all’eliminazione di Deif
di Olga Flori
Un uomo, incaricato di consegnare messaggi per conto del capo della Brigata di Rafah, Mohammed Shabaneh, ha permesso all’IDF di localizzare ed eliminare il 13 luglio Mohammed Deif, comandante delle Brigate Al Qassam e leader dell’ala militare di Hamas. Secondo quanto riportato da alcuni media, le informazioni fornite dall’uomo hanno consentito all’esercito israeliano di eliminare Deif durante un incontro con Ra’fat Salama, capo della Brigata di Khan Yunis.
L’uomo, che trafficava i messaggi tra terroristi, appartiene ad una importante famiglia di Rafah. Interrogato dalle forze militari israeliane, ha fornito ad Israele preziose informazioni, come una mappa del territorio di Rafah e della rete di tunnel sotterranei utilizzati dai terroristi, oltre a dettagli sui luoghi di produzione di armi, missili ed esplosivi.
Grazie al suo ruolo, conosceva anche le posizioni di numerosi miliziani di Hamas. L’informatore avrebbe quindi avvisato Israele della presenza di Deif nell’area dove si stava nascondendo Salama, permettendo all’esercito israeliano di eliminare uno dei più ricercati terroristi di Hamas con un attacco aereo.
In precedenza, l’IDF aveva già tentato di eliminare Deif con un attacco aereo, colpendo la stanza in cui si trovava, ma lui era riuscito a salvarsi facendosi scudo con alcuni oggetti. Il 13 luglio, l’aeronautica militare israeliana ha fatto sorvolare cinque coppie di aerei e droni sopra il luogo dell’incontro tra Deif e Salama per oltre un giorno e mezzo, in attesa dell’autorizzazione a colpire i terroristi.
(Shalom, 13 agosto 2024)
........................................................
La negazione della continuità: il 7 ottobre e la Shoah
di Matthias Kuntzel
Ebrei che fingono di essere morti in mezzo a mucchi di cadaveri, madri che coprono la bocca dei loro bambini per evitare di essere scoperte, prigionieri costretti a consegnare i loro vicini agli assassini, persone stuprate, torturate e bruciate vive: gli orrori del 7 ottobre ricordano indubbiamente il nazismo. E ci sono davvero fili di continuità che collegano il terrore antiebraico delle SS Einsatzgruppen a quello di Hamas.
Uno di questi filoni ha a che fare con gli atteggiamenti verso l’Olocausto. Mentre la maggior parte dell’umanità considera l’assassinio di 6 milioni di ebrei come un crimine gigantesco, tra gli islamisti troviamo persone che descrivono apertamente gli omicidi come un brillante risultato dei nazisti che dovrebbe essere ripetuto o completato. Un esempio importante è il predicatore Yusuf al-Qaradawi, morto nel 2022. Nel corso della sua vita era diventato il leader più importante e più popolare dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani, la cui propaggine palestinese è Hamas. Queste sono le parole che urlò ai milioni di spettatori del canale televisivo Al-Jazeera all’inizio del 2009:
“Nel corso della storia, Allah ha imposto al popolo [ebraico] chi lo avrebbe punito per la sua corruzione. L’ultima punizione è stata eseguita da Hitler. […] Riuscì a metterli al loro posto. Questa fu una punizione divina per loro. Se Allah vorrà, la prossima volta sarà per mano dei credenti.[1]”.
Qui, Qaradawi sosteneva che gli ebrei fossero responsabili dell’Olocausto, che era una “punizione divina” per la loro “corruzione” applicata da Hitler, il quale agiva come strumento di Allah. Ma non era stato sufficiente. Qaradawi riteneva che fosse necessario un ulteriore ciclo di punizioni, inflitto questa volta dai musulmani. Qaradawi proclamava quindi un nuovo Olocausto e la fine di Israele come una missione religiosa comandata da Allah. I terroristi di Hamas la pensano negli stessi termini.
Un altro filone di continuità ha a che fare con la specifica storia ideologica di Hamas. La sua organizzazione ombrello, la Fratellanza Musulmana, iniziò a ricevere fondi nazisti da Berlino già negli anni ’30. Agenti nazisti fornirono assistenza ai suoi leader e organizzarono serate di formazione congiunta sulla “questione ebraica”. Decenni dopo, questo seme diede i suoi frutti.
Nello Statuto di Hamas del 1988, che è ancora in vigore, “gli ebrei” sono dichiarati nemici del mondo e causa di entrambe le guerre mondiali, mentre i Protocolli degli Anziani di Sion sono citati come prova del comportamento ebraico. L’articolo 7 dichiara: “Il Giorno del Giudizio non arriverà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei (uccidendo gli ebrei)”.
Le scoperte fatte dai soldati israeliani nella Striscia di Gaza, come il libro del co-fondatore di Hamas Mahmoud al-Zahar intitolato La fine degli ebrei, che glorifica l’Olocausto e chiede che venga completato,[2] e le edizioni arabe del Mein Kampf, un libro che è stato recentemente il numero 6 nella lista dei bestseller palestinesi, si adattano a questo programma.[3] Il 7 ottobre, coloro che sono stati incitati in questo modo sono passati all’azione. Volevano la “fine degli ebrei” e avrebbero continuato a scatenarsi senza l’intervento delle forze israeliane.
Il fatto che non sia stato possibile impedire questo rinnovato omicidio di massa di ebrei è la prova di un fallimento da parte degli israeliani e del mondo occidentale e, in effetti, della comunità internazionale nel suo complesso. Dopo tutto, il programma genocida di Hamas era noto nel mondo arabo dal 1988 e nei paesi di lingua tedesca dal 2002. Tragicamente, non è stato preso sul serio. E cosa è successo dopo? Come hanno reagito l’opinione pubblica mondiale e l’Occidente al 7 ottobre alla luce dell’esperienza dell’Olocausto e di 40 anni di “educazione” sul tema?
Fino ad oggi, la maggior parte del mondo non ebraico si rifiuta di sostenere e mostrare solidarietà nei confronti degli ebrei colpiti dal terrorismo. Come nel 1938, sta ancora una volta abbandonando gli ebrei. Nel luglio 1938, 31 dei 32 stati che presero parte alla Conferenza di Evian rifiutarono di accettare i rifugiati ebrei dalla Germania nazista e dall’Austria occupata dai nazisti. Solo la Repubblica Dominicana era disposta a farlo. 85 anni dopo, c’è ancora una volta scarso segno di empatia verso gli ebrei, che si trovano ad affrontare un massiccio aumento dell’ostilità antisemita in tutto il mondo.
Non c’è un serio dibattito internazionale sulla questione di cosa abbia effettivamente generato lo scoppio del 7 ottobre e su come l’odio per le donne e gli ebrei ivi manifestato possa essere spiegato e prevenuto in futuro. I ricercatori dell’Olocausto hanno scritto molto sull’antisemitismo eliminazionista. Dopo il 7 ottobre, tuttavia, questa conoscenza non è stata applicata e lo Statuto di Hamas è stato appena menzionato nei dibattiti successivi. Di conseguenza, ciò che gli ebrei in tutto il mondo hanno percepito come una cesura esistenziale è stato trattato nelle università e dalle agenzie governative nel mondo occidentale come un episodio: le persone hanno continuato come se nulla fosse accaduto.
Allo stesso tempo, le iniziali espressioni di solidarietà nei confronti di Israele si sono rapidamente trasformate in campagne di accusa. Quasi ovunque, Israele – e quindi gli ebrei – sono stati ritenuti responsabili del terrorismo di Hamas e l-eccidio è stato interpretato come una risposta a 56 anni di “occupazione”. Sfortunatamente, anche importanti ricercatori dell’Olocausto – professori che dovrebbero saperlo – hanno articolato tali strategie discolpanti, che rafforzano l’antisemitismo in tutto il mondo. Tra loro c’è Omer Bartov, professore di studi sull’Olocausto e il genocidio alla Brown University di Providence, Rhode Island, USA.
• La colpa di Israele?
Interrogato sulle cause del massacro del 7 ottobre, Bartov, in un’intervista al quotidiano Frankfurter Rundschau, ne ha attribuito la colpa esclusivamente alle politiche di Israele e all’“oppressione di milioni di palestinesi”. Ciò ha portato a “violenza, rabbia e sete di vendetta” da parte delle persone colpite. L’attacco di Hamas deve quindi essere visto “come un tentativo di richiamare l’attenzione sulla difficile situazione dei palestinesi”. [4] A prima vista, questa interpretazione sembra plausibile, ma non coglie il punto.
In primo luogo, travisa le azioni di Hamas e quindi le sue motivazioni: il 7 ottobre non è stato un atto spontaneo di vendetta e rabbia, ma un attacco strategico che era stato meticolosamente preparato per mesi. Inoltre, i leader di Hamas ammettono apertamente che le loro azioni non sono in alcun modo intese ad alleviare la “difficile situazione dei palestinesi”. Al contrario, traggono vantaggio dalla catastrofe nella Striscia di Gaza perché possono sfruttarla per mettere alla gogna Israele in modo ancora più efficace nel perseguimento del loro vero obiettivo, lo sterminio di Israele e degli ebrei.
In secondo luogo, il massacro non è stato una risposta alle provocazioni di Israele. Nei mesi e negli anni precedenti, il paese aveva compiuto sforzi per stabilizzare la situazione nella Striscia di Gaza e aumentare il suo tenore di vita. Ecco perché i governi israeliani hanno permesso per anni che i soldi del Qatar arrivassero ad Hamas, e perché a decine di migliaia di residenti di Gaza è stato permesso di lavorare in Israele. Tuttavia, la speranza di stabilità si è rivelata un’illusione; la crudele ricompensa è arrivata il 7 ottobre.
In terzo luogo, l’odio religioso di Hamas verso gli ebrei non può essere una reazione alle politiche di Israele perché è stato originariamente formulato e sviluppato dai suoi gruppi predecessori negli anni ’30. Questo odio, promosso dal nazionalsocialismo, ha preceduto la fondazione di Israele ed è sempre stato più la causa della violenza che una reazione ad essa. Questo odio è diretto contro tutti gli ebrei, non importa quanto siano impegnati a fare la pace con i palestinesi, come è stato il caso di molti di quelli massacrati il 7 ottobre, ed è diretto contro tutto ciò che Israele fa.
In quarto luogo, i ricercatori concordano sul fatto che l’antisemitismo è un fantasma che non ha nulla a che fare con i veri ebrei o con le critiche alle loro attività. Bartov ignora questo fatto quando afferma nell’intervista sopra menzionata che Israele ha causato il terrorismo di Hamas del 7 ottobre. Dimentica che l’antisemitismo contraddice la nostra logica quotidiana di causa ed effetto. Proprio come non c’era una causa razionale per l’omicidio dei sei milioni, non c’era nemmeno una causa razionale per i pogrom che seguirono le accuse di omicidio rituale o per il massacro del 7 ottobre: puro odio e le più feroci delle ideologie erano e sono all’opera in questi casi.
• L’Olocausto è un argomento tabù?
Nell’intervista sopra menzionata pubblicata dal quotidiano Frankfurter Rundschau poco più di una settimana dopo l’eccidio, Omer Bartov ha criticato tutti i tentativi di collegare il terrorismo di Hamas all’Olocausto come “fuorvianti” e “motivati da ideologie”. Poco più di un mese dopo, insieme a Christopher R. Browning, Michael Rothberg e A. Dirk Moses, nonché ad altri dodici colleghi, ha pubblicato una Lettera aperta sull’uso improprio della memoria dell’Olocausto. In essa, i firmatari, tra cui Stephanie Schüler-Springorum, direttrice del Centro di ricerca sull’antisemitismo di Berlino, non solo si oppongono all’uso improprio della memoria, che esiste e dovrebbe essere criticato. Rifiutano anche qualsiasi riferimento all’Olocausto nei nostri sforzi per comprendere le cause dell’eccidio.
È vero che la loro lettera aperta menziona il fatto che il 7 ottobre ha ricordato a molti ebrei l’Olocausto e anche i pogrom precedenti. Allo stesso tempo, tuttavia, respinge con veemenza questa associazione:
“Fare appello alla memoria dell’Olocausto oscura la nostra comprensione dell’antisemitismo che gli ebrei affrontano oggi e travisa pericolosamente le cause della violenza in Israele-Palestina.[5]”. Questa affermazione fondamentale della Lettera Aperta è notevole sotto diversi aspetti. Da un lato, implica che l’antisemitismo a cui gli ebrei sono esposti “oggi” ha poco o nulla in comune con l’odio per gli ebrei che culminò nell’Olocausto. Come abbiamo già visto, questo è sbagliato. Le relazioni ideologiche, storiche e semantiche che collegano l’antisemitismo di Hamas con quello dei nazisti e la letteratura accademica che dimostra questa connessione possono essere trascurate solo da persone determinate a trascurarle.
Chi ignora questo, inoltre, non solo incolpa Israele per l’odio verso gli ebrei nel mondo arabo, ma banalizza anche questo odio, supponendo che esso abbia un movente razionale.
Un esempio di questa banalizzazione è stato fornito dal politologo americano Marc Lynch. In una recensione di un libro sulla prestigiosa rivista Foreign Affairs, Lynch elogia Qaradawi come “un’icona per gli islamisti non violenti mainstream”. Tuttavia, ammette anche che Qaradawi è “certamente ostile verso Israele”. Qui, Lynch si riferiva presumibilmente anche al discorso citato sopra, in cui Qaradawi aveva descritto l’Olocausto come “punizione divina” e dichiarato: “Se Allah vuole, la prossima volta sarà per mano dei credenti”. Agli occhi di Lynch, questa minaccia non era antisemita, ma semplicemente un’espressione di critica a Israele.
Tuttavia, l’autore del libro recensito, Paul Berman, non era d’accordo con questo. Lynch “si nasconde dietro eufemismi – in questo caso la sua frase ‘ostile verso Israele’, quando ciò che intende realmente è ‘hitleriano'”, ha scritto Berman nel numero successivo di Foreign Affairs. Lynch, tuttavia, non era d’accordo sul fatto che potesse aver inteso “hitleriano”. Invece, in una risposta, ha ribadito la sua affermazione errata secondo cui Qaradawi stava semplicemente esprimendo “visioni estremamente ostili verso Israele” nelle sue dichiarazioni.[6]
Contrariamente a tutte le prove, Lynch, come molti dei suoi colleghi, difende il dogma della discontinuità, ovvero la tesi secondo cui non c’è alcun collegamento tra l’odio di Hitler per gli ebrei e l’odio islamista per Israele. Errori di valutazione di questo tipo hanno contribuito e continuano a contribuire alla minimizzazione dell’odio radicale per gli ebrei da parte della Fratellanza Musulmana e di Hamas e hanno quindi contribuito a rendere possibile la catastrofe del 7 ottobre.
La Lettera Aperta di Bartov e altri prosegue dicendo che invocare la memoria dell’Olocausto “rappresenta pericolosamente in modo errato le cause della violenza in Israele-Palestina”. Quindi c’è un “pericolo” quando metto in relazione la mia conoscenza dell’Olocausto con il 7 ottobre? E di che pericolo si tratta?
Presumibilmente, il motivo per cui ritengono che invocare la memoria dell’Olocausto non sia solo sbagliato, ma “pericolosamente sbagliato”, è perché farlo mina la dicotomia tra la perfidia sionista da una parte e l’innocenza palestinese dall’altra. Naturalmente, ci sono molte ragioni per cui si potrebbe desiderare di criticare le politiche di Benjamin Netanyahu e l’approccio all’attuale conflitto militare. Tuttavia, tale critica diventa ingiusta se ignora sistematicamente tutte le forze che vogliono la distruzione di Israele.
Ma è proprio questo che fa la Lettera Aperta. Mentre l’eccidio di Hamas viene ripetutamente banalizzato come una “crisi attuale”, i firmatari muovono l’accusa di “uccisione diffusa” esclusivamente contro Israele, la cui storia di 75 anni ritengono responsabile della “spirale di violenza”. “Non esiste una soluzione militare in Israele-Palestina”, hanno scritto poche settimane dopo il 7 ottobre, senza dire come la serie di omicidi di Hamas avrebbe potuto essere fermata in modo non militare.
L’8 dicembre 2023, Jeffrey Herf e Norman J.W. Goda hanno pubblicato una contro-dichiarazione firmata da altri 31 accademici, respingendo l’accusa di abusi dell’Olocausto. In essa, descrivono gli eventi del 7 ottobre come “il più importante omicidio di massa di ebrei dall’Olocausto ad oggi” e sottolineano che “in termini di idee, c’è un collegamento nazista con Hamas”.
Essi affrontano “la forma distintiva di odio islamista verso gli ebrei emersa negli anni ’30 con la Fratellanza Musulmana” e sottolineano che “questo mix di odio islamista ed europeo verso gli ebrei, pur non essendo condiviso dall’intero mondo arabo/musulmano, ha mantenuto un’ombra sul Medio Oriente per quanto riguarda l’esistenza di uno Stato ebraico”.
Essi criticano la spinta antisionista del documento di Bartov e concludono chiedendo uno “sguardo impassibile alle connessioni tra passato e presente nella dittatura di Hamas e nelle sue azioni”. [7] In una breve risposta, il primo gruppo ha respinto la contro-affermazione e ha ribadito la sua posizione.[8]
• Il fallimento dell’educazione sull’Olocausto
Quando Bartov e i suoi cofirmatari respingono con tanta veemenza ogni associazione con la Shoah, stanno fuggendo dalla realtà: dopo il 7 ottobre, la storia dell’Olocausto non può più essere separata dal presente.
I mesi successivi al massacro hanno rivelato il fallimento della precedente educazione occidentale sull’Olocausto, che non ha mai voluto sapere nulla delle conseguenze dell’ideologia nazista nel mondo musulmano. Nel novembre 2023, Dani Dayan, CEO di Yad Vashem, lo ha riconosciuto: “Noi di Yad Vashem siamo esperti di ideologia nazista, non dell’ideologia barbarica di Hamas. Non l’abbiamo studiata”. [9]
Questa ignoranza deve finire. Se si vuole affrontare la nuova sfida, ogni futura commemorazione della Shoah deve essere una commemorazione anti-antisemita che non tabuizzi più l’odio genocida degli ebrei che sopravvive dopo Auschwitz e in Medio Oriente.
Allo stesso tempo, la lotta contro l’antisemitismo dovrebbe sempre essere condotta con l’obiettivo di risvegliare una consapevolezza dell’Olocausto che tenga conto non solo dell’unicità del crimine, ma anche dell’unicità dell’odio che lo ha reso possibile.
I veri protagonisti di questo odio sono oggi a Teheran. Per loro, l’eccidio del 7 ottobre è stato solo un assaggio di ciò che hanno in mente.
____
1. MEMRI, #2005, 28 gennaio 2009 Qaradawi non è un caso isolato, come dimostra vividamente lo studio di Meir Litvak ed Esther Webman, From Empathy to Denial. Arab Responses to the Holocaust, Londra 2009.
2. Il presidente Isaac Herzog alla conferenza sulla sicurezza di Monaco presenta testi antisemiti trovati a Gaza, 17 febbraio 2024.
3 “Non c’è bisogno di scusarsi: Hamas è davvero il “nuovo nazismo””, Jewish News Syndicate, 06.03.2024
4. Ulrich Seidler, ricercatore sul genocidio sull’attacco di Hamas: “Netanyahu ha seminato il vento”, Frankfurter Rundschau, 16 ottobre 2023.
5. Lettera aperta sull’abuso della memoria dell’Olocausto, The New York Review of Books, 20 novembre 2023. Enfasi: MK. Oltre ai cinque sopra citati, la lettera è stata firmata anche da Karyn Ball, Jane Caplan, Alon Confino, Debórah Dwork, David Feldman, Amos Goldberg, Atina Grossmann, John-Paul Himka, Marianne Hirsch, Raz Segal e Barry Trachtenberg.
6. Marc Lynch, ‘Verità velate: l’ascesa dell’Islam politico e dell’Occidente’, Foreign Affairs, luglio/agosto 2010 e Paul Berman, ‘Islamismo svelato e Marc Lynch’, ‘Le risposte di Lynch’, Foreign Affairs, settembre/ottobre 2010.
7. Jeffrey Herf, Norman J.W.Goda e altri 31 studiosi, “Una lettera aperta su Hamas, l’antisemitismo e la memoria dell’Olocausto”, The New York Review of Books, 8 dicembre 2023. I 31 sono Joseph Bendersky, Russell A. Berman, Paul Berman, Richard Breitman, Magnus Bretchken, Martin Cüppers, Havi Dreifuss, Ingo Elbe, Tuva Friling, Sander Gilman, Stephan Grigat, Susannah Heschel, David Hirsh, Günther Jikeli, Martin Kramer, Matthias Küntzel, Meir Litvak, Dan Michman, Joanna B. Michlic, Benny Morris, Cary Nelson, Bill Niven, Alvin Rosenfeld, Gavriel Rosenfeld, Roni Stauber, Norman A. Stillman, Karin Stögner, Izabella Tabarovsky, James Wald, Thomas Weber ed Elhanan Yakira.
8. Ibid.
9. Detlef David Kauschke, ‘Never again is now’, Jüdische Allgemeine, November 9, 2023.
(L'informale, 13 agosto 2024 - trad. Niram Ferretti)
........................................................
Tisha Be Av – Il lutto e la speranza
Brano tratto dal programma “Feste e celebrazioni ebraiche” di Rai Radio 1 – 12 agosto 20
di Rav Giuseppe Momigliano
Nel calendario ebraico la data del 9 di Av – Tisha Be Av si distingue quale giornata di digiuno, di preghiere e di lutto nel ricordo della distruzione del primo e del secondo santuario di Gerusalemme. Il primo quello costruito dal re Salomone e distrutto nel 586 a.e.v. dalle truppe babilonesi agli ordini del sovrano Nabucodonosor. Il secondo edificato dagli ebrei tornati dall’esilio di Babilonia e distrutto nel 70 e.v. dai soldati romani agli ordini di Tito. Nella stessa data e in giorni a essa vicini sono altresì ricordati altri tragici eventi della storia ebraica, tra cui la cacciata degli ebrei dalla Spagna, nel 1492 e alcuni tra i più terribili episodi della Shoah. Questa giornata, che già riassume molteplici tristi ricordi e significati, si svolge quest’anno in un clima di particolare angoscia e sgomento per i drammatici eventi in corso iniziati con l’orrendo massacro del 7 ottobre. Nel libro biblico delle Lamentazioni – Ekhà – che viene letto la sera e la mattina del nove di Av viene espresso il ricordo della prima distruzione di Gerusalemme, sono descritte le sofferenze le umiliazioni subite, il senso di smarrimento per una catastrofe che si credeva impossibile a realizzarsi, malgrado i numerosi avvertimenti dei profeti, troviamo il senso di solitudine per essere stati abbandonati e traditi da paesi che si ritenevano amici fidati, incontriamo la sollecitazione a riflettere sulle colpe che avevano determinato la caduta del Tempio, percepita come una punizione divina; vengono anche lette elegie che associano l’antica catastrofe con altre avvenute nel corso della lunga storia del popolo ebraico, durante queste letture i fedeli sono seduti a terra come è consuetudine delle persone in lutto si leggono i testi alla fioca luce di candele, dopo aver rimosso i paramenti e gli ornamenti sacri delle sinagoghe.
Per comprendere le ragioni per cui la distruzione del Santuario sia così fortemente sentita ed evocata e si mantenga nel ricordo dopo quasi duemila anni, dobbiamo ricordare il valore e l’importanza che il pensiero ebraico attribuisce al Santuario e in una più ampia visione anche alla città di Gerusalemme. Il Santuario non era solo un edificio consacrato ove si compivano i riti e le offerte sacre prescritte nella Torà: era molto di più. Già il luogo ove era stato edificato aveva, secondo la tradizione, un significato speciale essendo il posto nel quale il Signore aveva messo alla prova il patriarca Abramo fino al punto che questi aveva legato sull’altare il figlio Isacco per l’estremo sacrificio, un gesto di fede profonda che D-o giura al patriarca di ricordare come particolare merito di benedizione per il popolo che da lui sarebbe disceso; anche per questa particolarità del luogo ove era posto, il Bet Hamikdash rappresentava l’espressione concreta dell’intenso legame mistico e spirituale tra l’Eterno e il popolo ebraico, un legame basato sui comandamenti di santità al quale Israele si era impegnato e attraverso i quali la Shekhinà , la Presenza divina si irradiava dal Santuario a tutto il popolo, come scritto nel Libro dell’Esodo “Mi faranno un Santuario ed IO dimorerò in mezzo a loro”; non solo, il Santuario era idealmente considerato come il cuore pulsante dell’universo attraverso il quale si manifestava più intensamente la provvidenza divina, era percepito come sorgente di vita, di benedizione e di prosperità materiale e spirituale per il mondo intero. Questo luogo sacro rappresentava anche un segno ideale e concreto di unità per tutto il popolo ebraico, infatti tre volte all’anno, nelle feste di Pesah, di Shavuot e di Sukkot, ovvero Pasqua, Pentecoste e Capanne, gli ebrei provenienti da ogni luogo, dentro e fuori la terra d’Israele, salivano al Tempio di Gerusalemme a rendere omaggio al Signore e a rinsaldare i legami di fraternità e condivisione. Il Santuario avrebbe dovuto essere il luogo in cui la manifestazione del servizio di fede all’Eterno si coniugasse con la ricerca della giustizia e della misericordia, per questo la corte suprema, il Sinedrio, aveva la sede principale presso il Santuario. Purtroppo questa sintesi di fede, giustizia e misericordia fu spesso gravemente disattesa e prevaricata causando la profanazione della stessa santità di Yerushalaim (Gerusalemme) e risultando quindi, come più volte ribadito dai profeti, causa della distruzione del Santuario stesso.
Il ricordo di Gerusalemme e del Santuario distrutto accompagna l’ebreo ogni giorno, nelle tre preghiere quotidiane, nelle celebrazioni dei giorni di festa, in tanti gesti e particolari della ritualità e della vita, fino a caratterizzare persino il momento più lieto della vita, la cerimonia del matrimonio che si conclude con la rottura di un bicchiere al termine delle benedizioni nuziali e la pronuncia delle tre formule di impegno solenne a mantenere il ricordo di Gerusalemme, come sono espresse nel salmo 137: “Se ti dimenticherò, o Yerushalaim, che la mia destra dimentichi (come muoversi), possa la mia lingua rimanere attaccata al palato se non conserverò il tuo ricordo, se non eleverò Yerushalaim al di sopra della mia più grande gioia”. Per riflesso, anche le parole di conforto nel momento di grande dolore per la perdita delle persone più care esprimono il ricordo della distruzione del santuario “Il Signore vi conforti insieme a tutti color che si dolgono per Yerushalaim e Zion.”
La memoria della distruzione del Santuario – come già accennato – è anche occasione per riflettere sulle cause che lo hanno determinato, nella tragica fine del primo Santuario furono il diffondersi in Israele dell’idolatria mediata dai popoli circostanti, nonché l’incapacità di realizzare quel modello di giustizia e di attenzione solidale per i più deboli che è un motivo dominante nella legislazione biblica; nella distruzione del secondo Tempio furono soprattutto determinanti le lacerazioni interne, le infinite rivalità, lo smarrimento di parole e dialoghi di pace all’interno stesso del popolo ebraico. Meditazioni anche nel presente di assoluta attualità.
Il libro di Ekhà della Lamentazioni che si apre con le espressioni di sgomento e dolore accorato si chiude invece con le parole di speranza, con l’invocazione all’Eterno affinché il dialogo si riapra e il legame con il Signore, da cui dipende la vita dell’uomo, possa rinsaldarsi: “Facci tornare o Signore a Te e ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico”. Questa ritorno sincero a D-o è una sollecitazione che possiamo intendere come un appello a tutti gli uomini, come condizione affinché giungano a compimento le promesse di pace dei Profeti, quando il Santuario ricostruito e la città di Gerusalemme non saranno più obiettivi di conquiste belliche, realizzate o progettate, ma diverranno meta di percorsi di pace e di ispirazione, quando i popoli- come preannuncia il Profeta Isaia si inviteranno l’un l’altro a salire sul Monte del Signore a Gerusalemme, per riceverne insegnamento, nel tempo in cui “Nessun popolo alzerà la spada contro l’altro e non impareranno più la guerra” (Isaia 2, 1-4).
(moked, 13 agosto 2024)
........................................................
Iran: difesa o attacco, qual è la strategia migliore?
Il precario equilibrio: un nuovo approccio alla minaccia iraniana
In un contesto geopolitico in continua evoluzione, la strategia degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran solleva interrogativi. Mentre Washington predilige una postura difensiva e de-escalation, alcuni esperti mettono in discussione questo approccio, sostenendo che potrebbe rivelarsi controproducente a lungo termine.
Nonostante la sua retorica bellicosa, il regime iraniano presenta notevoli vulnerabilità. I suoi sistemi di difesa aerea sono considerati relativamente obsoleti e la sua capacità di effettuare attacchi aerei a lungo raggio rimane limitata. Queste debolezze spiegano in parte la strategia di "guerra per procura" adottata da Teheran, che si affida a gruppi alleati come Hezbollah e Hamas per compiere azioni ostili contro Israele.
Di fronte a questa situazione, sta emergendo un nuovo approccio strategico. Invece di concentrarsi esclusivamente sulla difesa e sulla de-escalation, alcuni sostengono una postura più offensiva. L'idea sarebbe quella di presentare una minaccia credibile agli interessi strategici dell'Iran, colpendo potenzialmente le sue installazioni militari, nucleari e petrolifere e le infrastrutture critiche.
Questa strategia si basa sul presupposto che il regime iraniano, consapevole delle sue debolezze, potrebbe essere dissuaso dall'intraprendere azioni su larga scala se percepisse un rischio reale per la sua stabilità. Gli attuali sforzi dell'Iran per acquisire sistemi avanzati di difesa aerea dalla Russia testimoniano questa consapevolezza.
Tuttavia, questo approccio non è privo di rischi. Un'escalation potrebbe portare a un conflitto regionale più ampio. Tuttavia, i sostenitori di questa strategia sostengono che sarebbe preferibile affrontare questa eventualità ora, prima che l'Iran rafforzi significativamente le sue capacità difensive e potenzialmente sviluppi armi nucleari.
Il programma nucleare iraniano rimane una preoccupazione fondamentale. Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, l'Iran potrebbe avere abbastanza uranio arricchito per sviluppare un'arma nucleare nel prossimo futuro. Questa prospettiva altererebbe radicalmente l'equilibrio di potere nella regione.
Una simile strategia di deterrenza offensiva invierebbe anche un forte messaggio agli alleati regionali degli Stati Uniti, come l'Arabia Saudita e la Giordania, che percepiscono l'Iran come una grave minaccia. Potrebbe anche influenzare i calcoli strategici di potenze come la Russia e la Cina, che negli ultimi anni hanno rafforzato i loro legami con Teheran.
Tuttavia, questo approccio solleva questioni etiche e pratiche. Come si può calibrare una tale minaccia senza che l'escalation sia fuori controllo? Come garantire che questa strategia non alimenti ulteriormente le già alte tensioni regionali?
In definitiva, trovare un equilibrio tra una deterrenza credibile e la prevenzione di un conflitto aperto rimane una sfida importante. Con l'evolversi della situazione, è fondamentale che tutte le parti interessate mantengano canali di comunicazione aperti ed esplorino
vie diplomatiche insieme alle loro strategie di sicurezza.
(JForum.fr, 12 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Intelligence Israele: l’Iran potrebbe attaccare nel brevissimo periodo
Diverse notizie circolate domenica sera indicavano che Israele si aspettava il lancio di un grande attacco iraniano entro pochi giorni, anche se i militari hanno cercato di minimizzare sottolineando che le istruzioni ai civili erano invariate.
Le notizie hanno segnato un’inversione di tendenza rispetto alla precedente ipotesi prevalente, secondo la quale la Repubblica islamica – sottoposta a forti pressioni internazionali – avrebbe rinunciato all’intenzione iniziale di lanciare un imminente attacco su larga scala in risposta all’assassinio del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh avvenuto a Teheran il 31 luglio, che Israele non ha confermato né smentito.
Ci si aspettava invece che l’Iran lasciasse la risposta al gruppo terroristico libanese Hezbollah, il cui massimo comandante militare Fuad Shukr è stato ucciso da Israele in un attacco aereo a Beirut alcune ore prima dell’assassinio di Haniyeh. Israele ha incolpato Shukr di essere dietro a molti attacchi contro i civili, tra cui un razzo che il mese scorso ha ucciso 12 bambini in un campo di calcio a Majdal Shams, sulle alture del Golan.
Ma il sito di notizie Axios, citando due fonti anonime, ha riferito domenica che l’attuale valutazione di Israele è che l’Iran lancerà un attacco diretto al Paese entro pochi giorni, possibilmente prima che giovedì si tengano i nuovi colloqui per il cessate il fuoco e l’accordo sugli ostaggi.
Il rapporto affermava che la questione era divisiva all’interno dell’Iran. Il Presidente Masoud Pezeshkian vuole evitare una risposta dura, mentre il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche vuole lanciare un attacco più ampio di quello del 13-14 aprile, quando centinaia di droni e missili sono stati lanciati nel primo attacco diretto dell’Iran contro Israele. Quasi tutti i proiettili e gli UAV sono stati intercettati durante l’attacco.
Una delle fonti citate nel rapporto ha affermato che la situazione è “ancora fluida” a causa dei disaccordi.
Il rapporto affermava che il Ministro della Difesa Yoav Gallant aveva parlato domenica con il Segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin e gli aveva detto che i preparativi militari dell’Iran suggerivano che l’Iran si stava preparando per un attacco su larga scala contro Israele.
Il Pentagono ha poi confermato l’esistenza della telefonata, aggiungendo che Austin ha ordinato il dispiegamento del sottomarino missilistico guidato USS Georgia in Medio Oriente in seguito all’escalation delle tensioni. L’annuncio dei movimenti di un sottomarino è raro per gli Stati Uniti.
In un comunicato, il Pentagono ha aggiunto che Austin ha anche ordinato al gruppo d’assalto Abraham Lincoln di accelerare il suo dispiegamento nella regione.
Il Magg. Gen. Pat Ryder, addetto stampa del Pentagono, ha dichiarato che Austin ha parlato con Gallant e ha ribadito l’impegno dell’America “a compiere ogni passo possibile per difendere Israele e ha sottolineato il rafforzamento della posizione e delle capacità militari degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente alla luce dell’escalation delle tensioni regionali”.
La Lincoln, che si trova nell’Asia Pacifica, aveva già ricevuto l’ordine di recarsi nella regione per sostituire il gruppo d’assalto della portaerei USS Theodore Roosevelt, che dovrebbe iniziare a rientrare negli Stati Uniti. La settimana scorsa, Austin aveva detto che la Lincoln sarebbe arrivata nell’area del Comando Centrale entro la fine del mese.
Domenica non era chiaro cosa significasse il suo ultimo ordine, o quanto più rapidamente la Lincoln si dirigerà verso il Medio Oriente. La portaerei ha a bordo i caccia F-35, oltre agli F/A-18 che si trovano anch’essi sulle portaerei.
Ryder non ha nemmeno detto quanto velocemente il sottomarino missilistico guidato USS Georgia raggiungerà la regione.
Nel frattempo, domenica sera l’emittente pubblica Kan e il notiziario Channel 13 hanno riferito che la valutazione aggiornata di Israele è che Teheran intende lanciare un grande attacco questa settimana.
Channel 13 ha riferito, senza citare fonti, che potrebbe esserci un attacco combinato da parte dell’Iran e di Hezbollah, sia simultaneamente che successivamente. Il network ha detto che un fattore che ha ritardato l’attacco promesso è stata la pressione francese sull’Iran e su Hezbollah affinché non lanciassero un grande attacco durante le Olimpiadi di Parigi, che si sono concluse domenica.
Nonostante le crescenti voci di un attacco di grandi dimensioni, il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha dichiarato domenica sera che non ci sono stati cambiamenti nelle linee guida di emergenza per i civili.
“A seguito delle ultime notizie riguardanti i piani dell’Iran, chiariamo che, in questa fase, non ci sono cambiamenti alle linee guida del Comando del Fronte Interno”, ha detto Hagari su X.
“L’IDF e l’establishment della difesa monitorano i nostri nemici e gli sviluppi in Medio Oriente, con particolare attenzione all’Iran e agli Hezbollah, e valutano costantemente la situazione”, ha detto, aggiungendo che le truppe sono “schierate e preparate con un alto livello di prontezza”.
“Se sarà necessario cambiare le istruzioni, le aggiorneremo con un messaggio ordinato sui canali ufficiali”, ha aggiunto Hagari.
Le tensioni alle stelle hanno visto molte grandi compagnie aeree cancellare o ritardare i loro voli verso Israele e verso altri Paesi della regione.
Domenica scorsa, Gallant ha detto alle reclute militari che Israele opererà come non ha mai fatto prima se dovesse essere attaccato in un modo senza precedenti dall’Iran e da Hezbollah.
“Abbiamo capacità significative. Spero che ne tengano conto e che non scatenino una guerra su altri fronti”, ha detto alle reclute nella base militare di Tel Hashomer.
Ha aggiunto che Israele sta combattendo per la sua esistenza in un “ambiente ostile”.
Ha sottolineato alle reclute che si stavano arruolando in un momento “impegnativo” e “significativo” della storia.
(Rights Reporter, 12 agosto 2024)
........................................................
L’italiana che guida il museo di Tel Aviv: “È un errore boicottare l’arte di Israele”
Parla Tania Coen-Uzzielli che guida l’istituzione: “Critichiamo Netanyahu, dialoghiamo con i palestinesi, salviamo le opere nei bunker. Ma questo non basta, l’antisemitismo è tornato”
di Daniele Castellani Perelli
|
|
FOTO
Tania Coen-Uzzielli, direttrice italiana del museo d'arte moderna di Tel Aviv
|
|
TEL AVIV - La paura degli attacchi nemici. Il dolore delle famiglie degli ostaggi. Le proteste contro il governo Netanyahu e la delusione per il boicottaggio internazionale contro Israele «che cela il ritorno dell’antisemitismo». C’è un luogo di Tel Aviv che sintetizza tutto ciò che oggi scorre nelle vene del Paese, ed è il suo Museo d’arte moderna. Fondato nel 1932, 16 anni prima della nascita di Israele, dal 7 ottobre è anzitutto diventato un simbolo di attivismo perché qui davanti c’è la cosiddetta “Piazza degli ostaggi”, lì dove si incontra per manifestazioni ed eventi “Bring Them Home Now”, l’associazione dei familiari degli ostaggi di Hamas.
C’è la lunga tavolata con una sedia per ognuno di loro, pronta per il giorno in cui tornerà. C’è la riproduzione di un tunnel di Hamas. Ci sono i gazebo con il merchandising dell’associazione, che così finanzia la propria lotta perché tutta Israele, e anzitutto il suo governo, non dimentichi mai la necessità di arrivare a uno scambio di prigionieri.
Dal 7 ottobre, però, il museo è in prima linea anche sul tema degli attacchi nemici, dai missili di Hamas a quelli di Hezbollah fino alla tanto attesa e temuta rappresaglia iraniana in seguito all’uccisione a Teheran del leader di Hamas Ismail Haniyeh. Da quel giorno, infatti, il bunker del museo è doppiamente protagonista: ospita i cittadini durante gli allarmi e protegge le storiche opere d’arte, che qui sono state trasferite.
La regista di tutte queste operazioni è una donna italiana. Si chiama Tania Coen-Uzzielli e dal 2019 è la direttrice del museo. Romana cresciuta alla Garbatella, dopo il liceo Socrate si è trasferita a Gerusalemme, dove si è laureata. Trascorso un periodo in California ha lavorato per vent’anni al Museo d’Israele di Gerusalemme prima appunto di trasferirsi a Tel Aviv. «Siamo l’esempio di come nell’ultimo decennio i musei di arte si siano trasformati radicalmente e siano diventati luoghi di dialogo e teatro di espressione politica, e in qualche modo seppur nel senso più deleterio ciò è dimostrato anche dalle proteste per il clima – ci racconta – Noi siamo una risorsa pubblica fisica e mentale, siamo aperti fisicamente nelle emergenze, siamo un rifugio durante gli allarmi, un riparo dal caldo e dalla pioggia, ma siamo anche luogo di conforto e sostegno per le famiglie degli ostaggi e per le loro battaglie. Abbiamo sentito il bisogno di reinventarci come istituzione culturale rilevante, ed essere così più attenti a ciò che succede nella comunità, sentendone il battito del cuore. Ma abbiamo anche preso posizione contro le politiche del governo Netanyahu, e in particolare durante la protesta contro la riforma giudiziaria che mette in pericolo le fondamenta stesse della democrazia in Israele. Abbiamo proiettato live, su un maxischermo, uno dei dibattiti più critici intorno al tentativo del governo di limitare i poteri della Corte Suprema dando accesso gratuito ai visitatori. Una chiara presa di posizione per esprimere la nostra preoccupazione».
|
|
FOTO
Un'opera d'arte del museo d'arte di Tel Aviv viene portata nel bunker sotterraneo
|
|
«Siamo un’avanguardia storica del Paese – ricorda Tania Coen-Uzzielli – il primo sindaco della città Meir Dizengoff fondò il Museo (all’inizio proprio a casa sua) per affermare l’importanza delle istituzioni culturali in una società che si stava formando. E non dimentichiamo che proprio nelle stanze del museo, in una delle sue collocazioni precedenti, David Ben Gurion proclamò la Dichiarazione d’indipendenza di Israele. Siamo un Paese nato in un museo d’arte e a volte purtroppo ce ne dimentichiamo».
Nonostante tutto ciò, il Museo d’arte di Tel Aviv vive una fase drammatica nei suoi rapporti internazionali: «Siamo un museo da un milione di visitatori e da venti mostre l’anno, tra i primi cento al mondo, e siamo da sempre attivi nella scena artistica internazionale. Ma ad oggi tutte le nostre collaborazioni con istituzioni internazionali sono state cancellate, per ragioni politiche. Artisti e istituzioni ci voltano le spalle a causa delle politiche del nostro governo. A marzo 2025 avevamo previsto una mostra di Marina Abramovic in collaborazione con la Royal Academy di Londra, ma è saltata». Stessa cosa per un progetto con il Centre Pompidou, racconta Coen-Uzzielli con amarezza: «Un paradosso. Nella città più aperta e cosmopolita, dedita alla libertà e all’uguaglianza, con il nostro attivismo abbiamo tenuto alto il nome di Israele, abbiamo dato voce ai tormenti della nostra comunità, abbiamo mandato il messaggio che siamo ancora una democrazia dove è possibile il dissenso, abbiamo dimostrato che l’arte è il luogo della complessità, senza considerare il dialogo con la comunità e gli artisti palestinesi e le iniziative per attirare un pubblico arabo a partire dai licei. Eppure veniamo penalizzati e visti all’estero come espressione del nostro governo».
|
|
FOTO
La tavola apparecchiata davanti al museo di Tel Aviv con i posti riservati agli ostaggi nelle mani di Hamas, per quando torneranno
|
|
Ci vede anche dell’antisemitismo o è solo ostilità verso le politiche di Netanyahu? «Guardi, io ero l’ultima dei mohicani su questo, ma comincio a ricredermi, perché io sono la prima a criticare Netanyahu e l’uccisione di troppe vittime innocenti a Gaza, ma è imperativo anche condannare il terrorismo e l’attacco atroce di Hamas il 7 ottobre. Si applicano due pesi e due misure, e la sensazione è che ci sia un chiaro rigurgito di antisemitismo».
Oggi il Museo d’arte, come tutta Tel Aviv, scruta il cielo e aspetta i missili iraniani in rappresaglia a un’azione del governo. La direttrice si prepara: «Le opere del piano terra, più sicuro, le abbiamo lasciate lì per il pubblico che ancora e nonostante tutto arriva, mentre quelle del piano superiore, più a rischio, le abbiamo trasferite nel bunker. Ci sono tele di Picasso, Matisse, Rothko, Pollock, Munch, Chagall. È il nostro tesoro. Lo abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni passate, e il nostro compito è di custodirlo per quelle future».
(la Repubblica, 12 agosto 2024)
........................................................
Israele va avanti con gli attacchi mirati: ucciso altro capo di Hamas
Sinwar apre alla tregua
di Amedeo Ardenza
Domenica il rabbinato delle Israel Defense Forces (Idf) ha dato disposizione ai militari operativi al fronte di non digiunare per Tisha Be Av. Il digiuno del 9 del mese ebraico di Av inizia questa sera e termina martedì sera. Al pari del più conosciuto digiuno del Kippur prevede l’astensione dal bere e dal mangiare per 25 ore consecutive, ma «digiunare durante un turno operativo è proibito: sarebbe un rischio per la vita», hanno spiegato i rabbini.
Le Idf vogliono al contrario che i propri effettivi al fronte siano in forze e all’erta tanto più il 9 di Av, il giorno più luttuoso del calendario ebraico in cui viene ricordata la distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme da parte del sovrano babilonese Nabucodonosor II nel 586 a.C e poi del Secondo Tempio da parte di Tito nel 70 d.C.
Una data ghiotta, al contrario, per il regime iraniano che da oltre una settimana ha promesso fuoco e fiamme contro Israele salvo però “dimenticarsi” di attaccare. «L’attacco arriverà quando arriverà» è la linea dietro alla quale si trincera oggi la Repubblica islamica.
L’Iran è diviso fra la voglia di dare una lezione all’entità sionista che ha ardito uccidere il capo di Hamas Ismail Haniyeh mentre visitava Teheran e il timore di subire una forte reazione che mini l’economia del Paese. Il regime degli ayatollah è grandemente impopolare fra gli iraniani e non è questo il momento di rischiare uno scossone.
Gerusalemme, da parte sua, continua a lavorare su due assi. Il primo, preparando la difesa in caso di un massiccio attacco dell’Iran (o di uno dei suoi alleati. E intanto gli Usa comunicano che il sottomarino USS Georgia, capacità di 154 missili da crociera Tomahawk, ha appena partecipato nel Mediterraneo ad esercitazioni congiunte, anche con la Marina italiana): Israele organizza il fronte esterno con gli Usa e i paesi arabi moderati mentre prepara la popolazione su quello interno. Il secondo, continuando a martellare Hamas nella Striscia Gaza. Ieri il portavoce in lingua araba delle Idf, Avichay Adraee, ha ordinato ai civili in diverse zone dell’area di Khan Younis di evacuare nella zona umanitaria designata da Israele nelle prime ore di domenica mattina, dopo che sabato erano stati lanciati quattro razzi sulla comunità di confine israeliana di Kissufim. In seguito le Idf hanno attaccato sia il sito di lancio di Khan Younis sia un edificio utilizzato dall’unità missilistica di Hamas. Il giorno prima un membro anziano delle forze di sicurezza di Hamas, Walid Alsousi, era stato ucciso in un attacco aereo nella Striscia di Gaza. Il governo di Benjamin Netanyahu esercitando una pressione costante sul gruppo del terrore allo scopo di metterlo spalle al muro.
Di fatto ieri i mediatori egiziani e del Qatar avrebbero riferito ai funzionari israeliani che il nuovo leader di Hamas Yahya Sinwar, la mente dietro al pogrom del 7 ottobre del 2023 in cui quasi 1.200 israeliani sono stati uccisi da Hamas, sarebbe disponibile a un accordo per il cessate il fuoco a Gaza.
L’intesa passerebbe dalla liberazione degli ostaggi ancora in vita - sono 115 quelli ancora trattenuti a Gaza. Dalla Germania ieri anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto a Netanyahu durante un colloquio telefonico di trovare un’intesa con Hamas.
Nuovi problemi per il governo israeliano arrivano intanto dalla Cisgiordania. Domenica un civile israeliano di 20 anni è stato ucciso mentre un 33enne è stato ferito. I due uomini viaggiavano in due diverse auto lungo la Strada 90, l’asse nord-sud che attraversa la regione. Contro le loro auto ignoti hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco. Le forze di sicurezza hanno dato il via a una caccia all’uomo nell’area.
Sempre ieri il presidente israeliano Isaac Herzog ha telefonato a un padre arabo-israeliano la cui figlia assieme ad altri tre donne e una bambina è stata aggredita da alcuni coloni in Cisgiordania quando la loro auto è entrata per errore nell’insediamento illegale di Givat Ronen. La bambina è stata minacciata con un’arma da fuoco. Herzog si detto «inorridito» nell’apprendere dell’attacco. «Siamo tutti fratelli e sorelle, cittadini dello Stato di Israele e tutti meritiamo un trattamento uguale e adeguato, senza paura e senza violenza», ha affermato il capo dello stato.
Libero, 12 agosto 2024)
........................................................
In Ucraina si è dissolta un’intera generazione
A oggi i soldati morti sarebbero 150.000, poco meno i feriti. Il presidente ha sempre mostrato una certa opacità nel diffondere i dati sui caduti, irritando Washington. Se a questi si sommano i giovani fuggiti, il Paese rischia di perdere le classi nate intorno al 2000.
di Simone Di Meo
La prima vittima di una guerra è la verità. Tutto è avvolto dalla nebbia lattiginosa dei segreti militari e dalle detonazioni della propaganda. Il marketing bellico uccide più del tritolo.
E così succede che oggi, anno del Signore 2024, sappiamo con precisione quanti furono i morti (40.000) della battaglia di Canne del 2 agosto 216 a.e., tra gli eserciti di Roma e di Cartagine, ma non quelli dell'esercito di Kiev, impegnato da oltre due anni e mezzo in uno scontro sanguinosissimo con la Russia. Nell'era della comunicazione globale e dei social che accendono e spengono le rivoluzioni bisogna affidarsi a stime tagliate con l'accetta per tentare di capire. Gli stessi Stati Uniti pare si siano lamentati con l'alleato per la scarsità di informazioni sull'andamento del conflitto. Volodymyr Zelensky non vuole offrire nessuna informazione al nemico. Del quale, però, gli analisti occidentali son riusciti a ricostruire tutto o quasi, nonostante gli eredi del Kgb non brillino certo per trasparenza. Perché sui numeri di Kiev c'è questo imbarazzo a indagare?
Quel poco che sappiamo è frutto di ricerche e analisi di enti indipendenti e solo a fatica riesce ad arrivare sui media occidentali. Qualche mese fa, il presidente ucraino ha annunciato che sono stati trucidati 31.000 connazionali durante i combattimenti. Da Washington han fatto filtrare un'altra stima, invece: i soldati ucraini ammazzati sarebbero almeno 70.000. Secondo alcuni studi geopolitici americani la cifra sarebbe, invece, più del doppio: 150.000. I feriti ucraini sarebbero circa 120.000.
Il dato rilevante, però, è in filigrana: se pure le vittime di Kiev fossero solo quelle rìferite da Zelensky, ci troveremmo di fronte a una catastrofe assoluta in termini militari considerato che, in appena 30 mesi, l'Ucraina avrebbe totalizzato all'incirca la metà delle vittime patite dagli Usa nei vent'anni di guerra in Vietnam (58.000) e in Afghanistan (69.000). Di questo, tuttavia, nessuno sembra preoccuparsi sul fronte orientale. Tranne i diretti interessati, chiaramente. Che, non a caso, si stanno organizzando per evitare la naja a tutti i costi. Chi può scappa (ma su questo torneremo più avanti), tanti altri si nascondono: in cantina, sulle montagne, semplicemente chiudendosi in casa.
Da quattro mesi sono aumentati i reclutamenti forzati. Il Parlamento ha approvato una legge che restringe le maglie delle esenzioni mediche e di altro tipo mentre un'altra norma, assai contestata in patria, ha abbassato l'età della leva da 27 a 25 anni. Qualche deputato aveva addirittura proposto di farla precipitare a 22 anni ma e stato prontamente sconfessato da Zelensky che non può permettersi una rivolta civile.
Si calcola che i maschi ucraini della fascia di età 25- 26 anni potranno arrivare a rinforzare le truppe con 470.000 nuove unità per portare il potenziale complessivo dell'esercito a circa 1 milione di soldati (rispetto al 1.400.000 dei russi che ingaggiano alla velocità stellare di 30.000 militari al mese). Eppure, ancora troppo poco per i rapporti di forza in campo: in alcune aree, Mosca soverchia i rivali di 7 uomini a 1. Una proporzione che non deve stupire considerando che la fascia d'età 15-64 anni in Russia (l'unica rilevabile dall'ultimo censimento disponibile) è il triplo di quella rivale.
Dunque, non sappiamo quanti ucraini hanno perso la vita ma di sicuro sono troppi. Altrimenti Bohdan Krotevych, il capo di Stato maggiore della brigata Azov, non avrebbe accusato il generale Yu.rii Sodol, comandante supremo delle Forze armate, di «uccidere più soldati ucraini di qualsiasi generale russo», mandati al massacro contro i cannoni ex sovietici, favorendone così la destituzione ad opera di uno Zelensky inferocito per la cattiva pubblicità arrecatagli.
L'unica certezza è che una intera generazione (quella nata a ridosso del nuovo millennio) rischia di scomparire in Ucraina e, con essa, le speranze di ripopolare un Paese che ha già sofferto, dopo la disgregazione dell'Unione sovietica, un esodo almeno pari a quello registrato in questi mesi di combattimenti. Dal 2022 sono scappati circa 6 milioni di persone (per lo più bambini, donne e anziani: la coscrizione obbligatoria arriva fino a sessant'anni, infatti) per rifugiarsi in Europa. Altri 3,7 milioni si sono spostati verso le zone occidentali della nazione per raggiungere più velocemente la Polonia nel caso di un'escalation che coinvolgesse pure la Bielorussia di Alexander Lukashenko. Le difficoltà di reclutamento di Kiev emergono, inoltre, dalla scelta, assai sofferta, di concedere la libertà condizionale a circa 20.000 detenuti in cambio del loro impiego sul campo di battaglia.
E poi ci sono gli arruolamenti coatti: nelle strade, nei cinema, nelle palestre, alle uscite di metropolitane e stazioni ferroviarie si aggirano gli ufficiali dell'esercito che consegnano gli avvisi di leva a quanti, fino a quel momento, sono riusciti con qualche stratagemma a evitare di vestire la mimetica. Nessuno ha voglia di andare a morire con un fucile in mano in Ucraina. Su Telegram sono stati aperti canali specifici per monitorare gli spostamenti delle pattuglie dei militari come Uzhhorod Radar o Kyiv Weather. Quest'ultimo (200.000 iscritti) usa i colori dei semafori per passare notizie riservate contrabbandate da informazioni meteo: rosso se c'è pioggia (i rastrellamenti sono attivi), giallo se è nuvoloso (bisogna fare attenzione a muoversi) oppure verde se il cielo è sereno (via libera). Chi non riesce a vincere la paura semplicemente non esce più di casa. O si muove soltanto alle prime luci dell'alba.
Tanti renitenti si allontanano provando ad attraversare a nuoto il Tysa, il corso d'acqua che separa l'Ucraina dalla Romania. Secondo le autorità, sarebbero almeno 6.000 gli uomini in fuga (ma la stima più verosimile è che siano almeno tre volte tanto) lungo quella dorsale. Diverse centinaia di corpi sono state ritrovate sulle rive di quello che è stato ribattezzato il «fiume della morte» e da qualche mese sono comparsi corpi di guardia per evitare defezioni di massa. Altri renitenti acquistano per cifre che vanno dai 2.000 ai 10.000 dollari a testa dei visti fasulli (fabbricati dai russi, peraltro) che gli consentano di oltrepassare il confine. A occuparsi del business sono 56 bande di ex contrabbandieri di sigarette.
E Mosca? I russi morti in guerra oscillano in una forbice tra le 350.000 e le 500.000 vittime (secondo il segretario alla Difesa Usa, Lloyd J. Austin III) fino a un picco di 728.000 (stima del giornale Economist). Secondo il settimanale inglese, circa il 2% della popolazione russa maschile, tra i 20 e i 50 anni, potrebbe essere finita sotto terra o rimasta gravemente ferita.
Nessuno, però, conferma né smentisce dal Cremlino. Pure la matematica in guerra è un'arma non convenzionale.
(La Verità, 11 agosto 2024)
........................................................
Il Generale Naaman
II RE, cap. 5
- Naaman, capo dell'esercito del re di Siria, era un uomo tenuto in grande stima e onore presso il suo signore, perché per mezzo di lui l'Eterno aveva reso vittoriosa la Siria; ma quest'uomo forte e valoroso era lebbroso.
- Alcune bande di Siri, in una delle loro incursioni, avevano portato prigioniera dal paese d'Israele una piccola fanciulla, che era passata al servizio della moglie di Naaman.
- Lei disse alla sua padrona: “Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria! Lui lo libererebbe dalla sua lebbra!”.
- Naaman andò dal suo signore, e gli riferì la cosa, dicendo: “Quella fanciulla del paese d'Israele ha detto così e così”.
- Il re di Siria gli disse: “Ebbene, va'; io manderò una lettera al re d'Israele”. Egli dunque partì, prese con sé dieci talenti d'argento, seimila sicli d'oro e dieci cambi di vestiti.
- E portò al re d'Israele la lettera, che diceva: “Quando questa lettera ti sarà giunta, saprai che ti mando Naaman mio servo, perché tu lo guarisca dalla sua lebbra”.
- Quando il re d'Israele lesse la lettera, si stracciò le vesti, e disse: “Sono io forse Dio, con il potere di fare morire e vivere, che costui manda da me un uomo perché io lo guarisca dalla sua lebbra? È cosa certa ed evidente che egli cerca pretesti contro di me”.
- Quando Eliseo, l'uomo di Dio, ebbe udito che il re si era stracciato le vesti, gli mandò a dire: “Perché ti sei stracciato le vesti? Costui venga pure da me e vedrà che c'è un profeta in Israele”.
- Naaman dunque arrivò con i suoi cavalli e i suoi carri, e si fermò alla porta della casa di Eliseo.
- Eliseo gli inviò un messaggero a dirgli: “Va', làvati sette volte nel Giordano; la tua carne tornerà sana, e tu sarai puro”.
- Ma Naaman si adirò e se ne andò, dicendo: “Ecco, io pensavo: Egli uscirà senza dubbio incontro a me, si fermerà là, invocherà il nome dell'Eterno, del suo Dio, agiterà la mano sulla parte malata, e guarirà il lebbroso.
- I fiumi di Damasco, l'Abana e il Parpar, non sono forse migliori di tutte le acque d'Israele? Non posso lavarmi in quelli ed essere purificato?”. E, voltandosi, se ne andava infuriato.
- Ma i suoi servi gli si avvicinarono per parlargli, e gli dissero: “Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che ti ha detto: 'Làvati, e sarai purificato'?”.
- Allora egli scese e si tuffò sette volte nel Giordano, secondo la parola dell'uomo di Dio; e la sua carne tornò come la carne di un bambino piccolo, e rimase puro.
- Poi tornò con tutto il suo seguito dall'uomo di Dio, andò a presentarsi davanti a lui, e disse: “Ecco, io adesso riconosco che non c'è alcun Dio in tutta la terra, tranne che in Israele. E ora, ti prego, accetta un regalo dal tuo servo”.
- Ma Eliseo rispose: “Com'è vero che vive l'Eterno di cui sono servo, io non accetterò nulla”. Naaman insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
- Allora Naaman disse: “Poiché non vuoi, permetti almeno che sia data al tuo servo tanta terra quanta ne portano due muli; perché il tuo servo non offrirà più olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma soltanto all'Eterno.
- Tuttavia, voglia l'Eterno perdonare questa cosa al tuo servo: quando il mio signore entra nella casa di Rimmon per adorare, e si appoggia al mio braccio, anch'io mi prostro nel tempio di Rimmon, voglia l'Eterno perdonare me, tuo servo, quando io mi prostrerò così nel tempio di Rimmon!”.
- Eliseo gli disse: “Va' in pace!”
(Notizie su Israele, 11 agosto 2024)
|
........................................................
«Ha ucciso mio figlio. Ho fatto nascere il nipote di Haniyeh»
TEL AVIV - Galit ha perso il figlio nel massacro del 7 ottobre. Il suo lavoro da ostetrica all'ospedale Soroka di Beer Sheva l'aiuta a non pensare mentre fa venire al mondo nuove vite. Ma il destino perverso, pochi mesi dopo l'assassinio di Itay, l'ha messa davanti a una prova feroce: tra le partorienti che stava assistendo c'era una giovane beduina, con il cognome del boia, Haniyeh. Il capo politico di Hamas, dei terroristi che quel sabato nero hanno fatto fuoco contro il suo ragazzo valoroso.
"Un giorno di marzo, su un letto del reparto tra le donne pronte a entrare in sala parto c'era lei, una donna con il nome di Ismail Haniyeh, era la nipote, l'ho riconosciuta", ha raccontato Galit parlando per la prima volta alla tv pubblica israeliana Kan. Tentando di descrivere la tempesta di sentimenti che in un attimo si sono abbattuti sul suo animo in lutto: rifiuto, conflitto interiore, incapacità di reagire, il respiro che manca, la razionalità che vuole cedere alle emozioni, la ragione che preme, l'imperativo di fuggire. "La mia prima reazione è stata quella di scappare fuori, riprendere fiato. Mi sono chiesta come avrei potuto aiutare la nipote di chi ha ucciso mio figlio. È stato uno schiaffo del destino e della realtà con cui devo fare i conti ogni giorno", ha ricordato Galit. Un momento agghiacciante da affrontare, come se non fosse bastato quello che già aveva vissuto a ottobre. "Dentro di me, dopo i primi momenti di shock, ho sentito il bisogno di dimostrare a me stessa che potevo continuare a fare il mio lavoro, continuare nella mia missione. Proprio al Soroka di Beer Sheva, un ospedale che è un modello di convivenza tra arabi e israeliani". Nonostante il dolore, Galit ha deciso di assistere la donna a partorire: "Suo zio ha ucciso mio figlio, non ero costretta a far nascere il suo bambino, poteva aiutarla un'altra ostetrica al posto mio. Ma ho deciso di andare avanti, di procedere con professionalità e distacco, l'ho assistita a dare alla luce suo figlio", ha detto, certa di aver fatto la cosa giusta, "ora spero tanto che questa donna ricordi il trattamento che ha ricevuto e lo trasmetta ai suoi figli".
Galit poi ha voluto ricordare quella mattina del 7 ottobre.
|
|
FOTO
Soroka Medical Center - Beersheva
|
|
Era di turno in ospedale quando la prima sirena ha incominciato a suonare. "Stavo accudendo un neonato palestinese. Nel reparto erano ricoverate solo due pazienti, entrambe palestinesi, una di Betlemme e l'altra di Nablus", ha detto richiamando alla mente i ricordi, "avevamo instaurato un bel rapporto. Dentro di me pensavo, speravo, che insieme tra donne avremmo potuto salvare il mondo". Alle sette del mattino è arrivata la telefonata dal marito che la esortava a non uscire da Beer Sheva, "fuori c'era il caos. Sparano ovunque per strada". In quel momento il figlio più giovane, Itay, si era unito alla squadra di emergenza del Moshav Niftachim, nella zona di Eshkol, nel nord ovest del Negev, per aiutare i residenti del villaggio vicino assediato dai terroristi. Poco dopo le sette un'altra telefonata del marito Oded: "'Itay è stato ucciso'. Ho fatto una corsa in macchina per vederlo per l'ultima volta", ha proseguito Galit.
"Ancora oggi, ogni mattina e sera vedo quell'immagine, non potrò mai dimenticare". Oded è rimasto per cinque ore abbracciato al suo corpo per paura che i terroristi lo rapissero da morto. Dopo un'attesa infinita i soccorritori sono arrivati, hanno salvato il cadavere di Itay dai tunnel di Gaza.
Dopo alcuni mesi, Galit è tornata al lavoro. Per settimane aveva rifiutato l'idea di "portare il lutto nella sala parto, dove invece ci deve essere gioia e vita". Oggi non si sente più ottimista come prima del 7 ottobre, e riconosce che ci vorrà tempo per affrontare le ferite. Soprattutto dovrà finire la guerra. L'ospedale Soroka, dove vanno a partorire le donne palestinesi sarà il posto giusto per ricominciare a credere in un futuro migliore.
(ANSAmed, 9 agosto 2024)
........................................................
L’allestimento in corso
Dopo l’uccisione di Fuad Shukur a Beirut e Ismail Hanyieh a Teheran, Israele sembrava avere acquisito un vantaggio considerevole.
Dopo mesi di incertezza e confusione sulle sorti della guerra a Gaza, e a seguito del discorso al Congresso di Netanyahu tenuto il 24 luglio e sostanzialmente centrato sul pericolo dell’Iran, nemico comune di Israele e degli Stati Uniti, la situazione appariva entrata in una nuova fase, quella caratterizzata da una maggiore determinazione israeliana ad affrontare spavaldamente i propri nemici, giungendo a dare, particolarmente all’Iran, un segnale molto chiaro sul grado della propria capacità di colpire all’interno del paese obiettivi di alto profilo, esibendo al mondo le falle del suo sistema di sicurezza e il suo livello di penetrazione.
I due colpi assestati da Israele hanno generato l’immediata reazione minacciosa di Hezbollah e di Teheran, in sintesi dell’Iran, con minacce congiunte di attacchi su Israele e la prevedibile risposta che nell’eventualità di questi attacchi Israele avrebbe risposto con forza.
Questo scenario sembra, (nuovamente è necessario ricorrere al condizionale), appartenere già al passato, perché subito, la Casa Bianca è intervenuta per scongiurare l’eventualità di una escalation, consigliando all’Iran di soprassedere nel proprio interesse e in quello americano, ovvero a scapito di quello di Israele. Si è quindi provveduto a dare una accelerata ai moribondi accordi con Hamas che l’Amministrazione Biden vuole concludere da maggio imponendoli a Israele; accordi che prevedono che gli ostaggi rimanenti vengano liberati e che Hamas resti nella Striscia, perché è punto fermo di questa Amministrazione che Hamas non possa essere sconfitto. Per poterlo fare, Israele dovrebbe restare altri lunghi mesi a Gaza, probabilmente, volendola bonificare, anni e questa è una eventualità che né a Washington né a Teheran considerano accettabile.
Ecco dunque riapparire la figura del pluriomicida Marwan Barghouti, star del terrorismo palestinese, che Hamas chiede venga liberato, un Sinwar all’ennesima potenza, anche lui liberato dopo ventidue anni di carcere nel 2011, per riavere indietro il soldato Gilad Shalit.
L’ex leader di Fatah sarebbe la figura scelta dall’Amministrazione Biden come plenipotenziario dell’Autorità Palestinese all’interno della Striscia. Non è certo un mistero che essa voglia che Gaza sia amministrata da quest’ultima, magari in concorso con Hamas e nonostante l’esplicita indisponibilità di Netanyahu.
Questo è l’allestimento in corso.
(L'informale, 10 agosto 2024)
........................................................
L'approccio timido dell'Italia nei confronti di Hamas e dei Fratelli Musulmani alimenta la violenza antisemita
L'aumento dell'antisemitismo in Italia è stato più evidente dopo il 7 ottobre, con una pletora di predicatori pro-Hamas che hanno fatto sentire la loro voce e solo una parte è stata punita per la loro odiosa narrazione.
di Giovanni Giacalone
Stiamo assistendo a una normalizzazione della narrativa d'odio contro gli ebrei in tutta Italia, spesso mascherata da "antisemitismo". I predicatori d'odio pro-Hamas attaccano frequentemente gli ebrei e Israele sui social media italiani e nei comizi pubblici. Non è una novità. Tuttavia, nel maggio 2021, durante un discorso di strada nella piazza principale di Bologna, chiamata Piazza Maggiore, il predicatore pakistano Zulfiqar Khan ha affermato che:"... gli ebrei sono crudeli e usano l'intelligenza per danneggiare gli altri".
• Impennata di incidenti antisemiti dopo il 7 ottobre Poi, più recentemente, nel novembre 2023, durante la trasmissione televisiva mainstream italiana "Dritto e Rovescio", Khan, lo stesso predicatore pakistano Khan, ha dichiarato: "Gli israeliti sono i terroristi e gli ingannatori secondo la Bibbia", ha postato sulla pagina Facebook del Centro islamico due video simili a fatwa in cui ha attaccato verbalmente l'italo-egiziano Allam, accusandolo di aver diffamato l'Islam, di apostasia e di aver parlato a una conferenza pro-Israele.
• Ministri italiani reticenti a condannare Vale la pena notare che il 9 luglio 2024, in occasione di una risposta a un'interrogazione parlamentare sull'attività di Khan, il ministro dell'Interno italiano, Matteo Piantedosi, ha definito le posizioni del predicatore "intransigenti". Ma il Ministro Piantedosi deve capire che le posizioni di Khan non sono "intransigenti", bensì odiose ed estremamente pericolose.
• Mancanza di azione sui finanziamenti al terrorismo Il 10 ottobre, a soli tre giorni dall'inizio della guerra, un attivista palestinese, Mohammed Hannoun, ha dichiarato che l'attacco a Israele perpetrato da Hamas era "autodifesa". Il 19 luglio, durante un sermone tenuto come imam di una moschea di Genova, in Italia, ha accusato Israele di distruggere ospedali, scuole e moschee a Gaza. Nel luglio 2023, il Ministero della Difesa israeliano ha chiesto alla polizia italiana di sequestrare il denaro di Hannoun. Nonostante il congelamento dei conti, nel giugno 2024 Hannoun ha aperto una nuova associazione benefica denominata "Cupola d'oro" e ha ricominciato a raccogliere fondi.
• Sostegno politico italiano di noti attivisti Hannoun ha ricevuto anche il sostegno di figure politiche italiane di sinistra come Laura Boldrini, Nicola Fratoianni, Michele Piras, Alessandro Di Battista e Stefania Ascari, come indicato in diverse occasioni dalla stampa italiana, ma tutta questa situazione non sembra essere esclusivamente politica. Hannoun ha un sostegno alternativo in Italia sotto forma di attivisti religiosi. Il 27 gennaio 2024, Giorno della Memoria, una manifestazione non autorizzata a favore dei palestinesi, guidata da Hannoun e da altri noti attivisti palestinesi, si è tenuta in via Padova a Milano, una strada piena di musulmani.
• Numerose organizzazioni terroristiche sono attive in Italia Presi singolarmente, questi casi potrebbero non sembrare troppo significativi, ma una volta collegati, sorgono molte domande. L'impressione è che le cose vengano trattate in modo diverso rispetto ai casi riguardanti l'ISIS o Al-Qaeda perché è in gioco la causa palestinese. È importante ricordare che l'Italia è stata anche molto aperta e tollerante nei confronti dei Fratelli Musulmani (MB), presenti e attivi sul territorio italiano.
• Mancano interventi Purtroppo, finora, a differenza di quanto accaduto negli anni con l'ISIS, si sono visti pochissimi interventi contro i sostenitori di Hamas. L'unico caso noto è l'espulsione del cittadino algerino Amor Branes, 56 anni, avvenuta nell'aprile del 2024, per aver condiviso sui social media contenuti pro-Hamas e jihadisti. Va inoltre notato che il membro delle Brigate al-Aqsa (leader della "Rapid Response-Tulkarem Unit"), Yaesh Anan, e due complici, sono stati arrestati in Italia centrale nel gennaio 2024 solo dopo una richiesta di estradizione inoltrata da Israele. Sarebbe quindi opportuno assistere a un maggior numero di arresti ed espulsioni di sostenitori di Hamas, perché la sua ideologia e attività operativa non è meno pericolosa di quella portata avanti dall'ISIS o da al-Qaeda.
• La narrativa antiebraica si è diffusa in Europa Il problema della diffusione della narrativa e dell'attività antiebraica e antiisraeliana da parte di predicatori e attivisti islamisti coinvolge l'intero continente europeo, e non solo l'Italia. Le autorità europee hanno stretto la rete sui gruppi estremisti islamici, con raid di alto profilo, deportazioni, restrizioni finanziarie e un giro di vite sulle loro attività online. Francia e Germania sembrano essere i due Paesi che finora hanno adottato una posizione più dura nei confronti di questo tipo di attività.
• In Francia Ad esempio, nel febbraio 2024, Mahjoub Mahjoubi, un imam della piccola città francese di Bagnols-sur-Ceze, è stato deportato in Tunisia, meno di 12 ore dopo il suo arresto. Nei suoi sermoni, il predicatore incoraggiava la discriminazione delle donne, la radicalizzazione e si riferiva agli ebrei come "il nemico".
• In Germania Le autorità hanno adottato misure severe contro i sostenitori di Hamas e Hezbollah, limitando i cortei pro-palestinesi, mentre alle scuole è stata concessa la facoltà di vietare le bandiere palestinesi e le sciarpe kefiah. In tutto il Paese, l'uso dello slogan filopalestinese "Dal fiume al mare" è un reato penale. Inoltre, recentemente sono state arrestate anche cellule di Hezbollah, mentre il centro islamico sciita di Amburgo è stato chiuso.
(ynet, 10 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
La ginnasta israeliana Daria Atamanov accede alla finale delle Olimpiadi di Parigi
|
|
FOTO
Daria Atamanov si esibisce durante la finale del cerchio della Coppa del Mondo di Sofia 2024
|
|
La ginnasta israeliana si è assicurata un posto in finale piazzandosi settima nella classifica generale con un punteggio complessivo di 130.450 punti. Si è distinta soprattutto con la sua routine su nastro, eseguita sulla canzone Shir Lamaalot di Gad Elbaz.
Nel corso della sua carriera, Atamanov ha vinto medaglie oro e argento ai Mondiali di ginnastica 2022, e dopo un infortunio che l'ha tenuta fuori dalle competizioni per dieci mesi, nel 2023 ha vinto nuovamente la medaglia di bronzo nella competizione generale.
Dopo la competizione generale, Atamanov ha espresso in dialogo con i media locali che era “davvero commossa, le mie emozioni sono state ovunque tutto il giorno” e ha aggiunto che “ha cercato di dare il massimo in ogni routine. Ora sono concentrata sul domani e spero di fare molto meglio di oggi”.
Finora, Israele ha raggiunto il record assoluto ai Giochi Olimpici di Parigi 2024, con sei medaglie vinte.
(Aurora, 10 agosto 2024)
........................................................
«Il disgelo verso Assad lo tiene lontano dalla guerra»
Intervista all'analista Lorenzo Trombetta: «Vari paesi arabi ed europei stanno rivedendo le loro posizioni sulla Siria. È un aspetto positivo per Damasco che così si rafforza anche se il paese continua essere diviso».
di Michele Giorgio
Nello scontro che può sfociare in una guerra aperta tra Israele, sostenuto da Usa e Occidente, e l’Asse della resistenza guidato dall’Iran, si è notata l’assenza in un ruolo da protagonista della Siria stretta alleata di Teheran e del movimento sciita libanese Hezbollah. Damasco ha condannato l’offensiva israeliana contro Gaza e i massacri di palestinesi e nei giorni scorsi anche le uccisioni del leader di Hamas Ismail Haniyeh e del capo militare di Hezbollah, Fuad Shukr. Ma l’atteggiamento del presidente siriano Bashar Assad è prudente, volto a restare nelle retrovie e non sulla linea del fronte. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Trombetta, analista e specialista di Siria e Libano ed autore di libri e studi sul Medio Oriente.
- Come spiega la linea di basso profilo che Damasco ha adottato in una fase così critica dello scontro con Israele?
Per dare una spiegazione dobbiamo tenere presente che ci sono due piani, uno dietro le quinte o comunque sottotraccia, e un altro più in superficie. Quello sottotraccia mi sembra più rilevante: Bashar Assad è impegnato ad accreditarsi non soltanto con i paesi arabi, ma anche con alcuni paesi europei, in particolare il club di Cipro di cui l’Italia è parte. Proprio l’Italia è stata di recente il primo paese del G8 ad aver nominato per la prima volta dal 2011 un ambasciatore a Damasco. Anche se è un incaricato d’affari perché non può presentare le credenziali ad Assad, il mandato è stato elevato rispetto al passato, a partire dal fatto che è residente a Damasco e non a Beirut. Questo denota la tendenza di certi paesi europei a rivedere le relazioni con il governo siriano. Assad cerca di raccogliere i frutti dell’avere atteso tanti anni che i cadaveri dei suoi nemici passassero sul fiume. Questa politica di attesa e di mantenimento di una posizione gli ha consentito, e anche alla Russia (sua alleata, ndr), di osservare dinamiche che si posizionavano nell’idea dello status quo. Certo, non nella situazione precedente al 2011 (quando sono cominciate proteste popolari contro Damasco, ndr) ma comunque all’interno di equilibri che non sono stati scalfiti in maniera determinante. Assad sta riuscendo a rimanere ai vertici del potere anche cercando le sponde esterne, prima con alcuni paesi arabi come l’Arabia saudita o gli Emirati, poi con paesi europei.
Francia, Gran Bretagna e Stati uniti, insieme alla Germania, che pesano nel G8, ancora si oppongono formalmente a ogni tipo di normalizzazione dei rapporti con Damasco. Gli altri grosso modo stanno rivedendo le loro posizioni nei confronti di Damasco. Questo è un aspetto positivo dal punto di vista di Assad, che rafforza la sua posizione, al di là del fatto che la Siria continui a essere divisa, che ci siano zone fuori dal controllo governativo e che le stesse aree sotto controllo sono un mosaico dove imperversano signori della guerra di varia natura. Comunque, Assad sta là. E come lo era per suo padre Hafez, il tempo è dalla sua parte. Più tempo passa e più il pareggio diventa una vittoria.
- Quanto tutto questo si ricollega alla superficie, alla linea cauta scelta dalla Siria nella crisi regionale?
Ciò che avviene sottotraccia spiega l’assenza o quasi della retorica bellicistica che ci si aspettava a sostegno di Hezbollah o dell’Iran. Assad ha bisogno di conservare le proprie risorse ed energie e di non inimicarsi nessuno perché, in questo contesto, alcuni dei suoi interlocutori sono proprio quelli che sostengono Israele o sono contro Hamas e Hezbollah. L’Italia, ad esempio, è esplicitamente filoisraeliana. L’Arabia saudita e gli Emirati sono degli attori che fanno il gioco degli Stati Uniti e in definitiva di Israele. Pertanto Damasco, in questo momento, ritiene che sia meglio non puntare troppo i piedi sulla resistenza se vuole portare a casa i risultati di cui parlavamo prima. Assad preferisce non esporsi con dichiarazioni che non servirebbero a molto. Hezbollah comunque dispone di una certa libertà di movimento nel territorio siriano, a ridosso del Golan. Senza dimenticare che la Russia, che pure sostiene Assad, mantiene un collegamento tattico, militare con Israele e potrebbe aver detto a Damasco di mantenere una linea più accorta.
- Se la stabilità è la parola d’ordine, quanto pesa e quanto è rischiosa per Damasco la mancanza di controllo su tutto il territorio siriano?
Alcune delle aree non controllate dal governo costituiscono un problema perché, prima di tutto, non consentono l’estrazione delle risorse energetiche che garantiscono l’accumulo di capitale a favore del potere centrale. Ma questa assenza di controllo non mette a rischio la stabilità, anche perché attraverso intermediari e poteri locali, le zone sganciate comunque mantengono interazioni economiche, finanziarie e commerciali con Damasco. È una situazione che si è sedimentata. Quanto durerà? Anni, forse dieci, venti o trenta anni, nessuno può dirlo e dire come evolverà.
(il manifesto, 10 agosto 2024)
........................................................
Israele si prepara ai possibili attacchi di Hezbollah e del regime iraniano
di Luca Spizzichino
Le minacce di ritorsione da parte del regime iraniano e di Hezbollah continuano a intensificarsi in seguito all’uccisione di Ismail Haniyeh e Fuad Shukr. In particolare, Hezbollah ha dichiarato l’intenzione di attaccare Israele, anche nel caso in cui l’Iran decidesse di accogliere le richieste degli Stati Uniti. Secondo il Wall Street Journal, Washington avrebbe inviato un messaggio diretto al presidente iraniano Masoud Pezeshkian, entrato in carica il 28 luglio, avvertendolo che il suo governo e l’economia iraniana potrebbero subire conseguenze devastanti se Teheran optasse per un attacco su vasta scala contro Israele.
Le opzioni sul tavolo per colpire il regime degli ayatollah spaziano da azioni mirate contro le forze proxy nella regione, fino a bombardamenti diretti contro gli impianti nucleari di Teheran. Avi Melamed, ex funzionario dell’intelligence israeliana, ha dichiarato in un’intervista al The Jewish Chronicle che la risposta di Israele sarebbe proporzionale all’entità dell’attacco iraniano. “Un attacco significativo da parte dell’Iran verrebbe probabilmente contrastato da una risposta di pari intensità”, ha spiegato Melamed. “Se l’attacco iraniano venisse sventato o intercettato da Israele e dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti, la risposta israeliana potrebbe essere limitata. Tuttavia, se l’attacco iraniano fosse ampio e riuscito, la reazione israeliana porterebbe a una distruzione simile in Iran e nelle aree controllate dai suoi proxy nella regione”.
Anche l’ex direttore generale della CIA, David Petraeus, ha sottolineato che la risposta di Israele dipenderà dalla gravità dell’attacco iraniano. Dopo il primo, e finora unico, attacco diretto dell’Iran contro Israele, l’IDF ha condotto raid aerei contro la città iraniana di Isfahan. Sebbene l’operazione fosse di portata limitata, ha dimostrato la capacità e la determinazione di Israele nel colpire strutture chiave del programma nucleare iraniano. In alternativa, Israele potrebbe prendere di mira un obiettivo militare strategico, come un silo missilistico o una base navale.
Secondo due funzionari statunitensi citati dal Wall Street Journal, Teheran non dispone delle risorse necessarie per condurre una campagna militare significativamente più ampia rispetto all’attacco di aprile contro Israele, durante il quale furono lanciati circa 300 missili e droni, la maggior parte dei quali venne abbattuta dalle difese israeliane e dai loro alleati regionali. Un articolo pubblicato giovedì sul The Guardian suggerisce che Teheran potrebbe optare per azioni mirate contro i responsabili dell’esecuzione di Haniyeh, anziché lanciare un attacco su larga scala contro Israele.
Mentre il Paese continua a prepararsi per un possibile attacco da parte di Hezbollah, il gabinetto di sicurezza israeliano si è riunito giovedì sera. L’incontro si è svolto in una sala di comando sotterranea, dove sono state simulate diverse situazioni di emergenza. Secondo il canale israeliano Channel 12, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, potrebbe ordinare un attacco nei prossimi giorni.
Secondo Channel 13, Hezbollah starebbe pianificando di colpire un alto funzionario israeliano come rappresaglia per l’uccisione del comandante Fuad Shukr, avvenuta il 30 luglio scorso.
Il quotidiano israeliano Israel Hayom ha sottolineato che un imminente attacco di Hezbollah potrebbe provocare gravi danni, considerata la vicinanza del gruppo terroristico al territorio israeliano. Israele ha già avvertito che qualsiasi danno arrecato a civili, soldati o basi dell’IDF non sarà tollerato e verrà risposto con fermezza. Sia l’Iran che Hezbollah stanno quindi valutando attentamente le loro prossime mosse.
(Shalom, 9 agosto 2024)
........................................................
Una festa della vita - ospiti di Avishay!
Le esperienze di un sopravvissuto di Kfar Azza che - dopo il massacro di Hamas e durante la guerra che da allora continua - sta lavorando per ricostruire la sua vita. Una storia di coraggio, resilienza e speranza.
di Brigitte B. Nussbächer
GERUSALEMME - È stata una celebrazione della vita quella che si è tenuta a Reutlingen il 27 luglio 2024. Più precisamente, una celebrazione della sopravvivenza.
Perché l'ingegnoso chef, il maestro dei sapori, delle spezie e degli ingredienti, che ci ha viziato con le sue prelibatezze, era uno dei sopravvissuti del Kibbutz Kfar Azza. Uno che si è salvato durante lo Shabbat nero (7.10.23) dopo il brutale attacco di Hamas a Israele.
E che non si è arreso!
Conosciamo Avishay dall'aprile 2024, quando siamo andati a trovarlo nel suo kibbutz distrutto al confine con Gaza e ci ha mostrato le case bruciate e le rovine di Kfar Aza. Compresa la sua casa danneggiata
Nove mesi sono passati da allora. Gli abitanti del villaggio non sono potuti tornare e il kibbutz non può essere ricostruito perché la guerra con Hamas continua e i razzi qui cadono ancora regolarmente.
Avishay vive ora con la sua famiglia a Herzliya. Il talentuoso chef, che ha già servito tre presidenti israeliani (Perez, Rivlin e Herzog), è molto richiesto. Non solo in Israele.
Quest'estate sta visitando degli amici in Germania e sta lavorando al suo sogno di aprire un ristorante tutto suo. Si chiamerà "Two-Three-Two" ("2-3-2"), come la strada che in Israele corre da Ashkelon lungo la Striscia di Gaza fino a Kerem Shalom e al valico di frontiera con l'Egitto. Egli tornava a casa sempre attraverso questa strada. Il 7 ottobre, la strada illuminata dal sole si è trasformata in un viale della morte, con centinaia di persone che giacevano uccise in auto parzialmente bruciate. Ma Avishay vuole riportare in vita il termine "2-3-2" con nuove e diverse connotazioni.
• VIVERE ISRAELE - IN GERMANIA Con l'aiuto di amici israeliani impegnati, si sta organizzando una serata all'insegna del motto "Vivi Israele con tutti i tuoi sensi".
Hannelore e Kerstin di Reutlingen non hanno risparmiato sforzi per creare un ambiente meraviglioso per le arti culinarie di questo chef gourmet - e gli ospiti si godono tutti i dettagli amorevoli e, naturalmente, i piatti meravigliosamente deliziosi, che hanno un sapore così diverso dalla cucina tedesca. Avishay diventa così un rappresentante del suo Paese e ogni piatto trasmette un messaggio di freschezza, varietà e unicità.
•
VIVERE A KFAR AZZA Ma ha anche un altro messaggio: racconta le sue esperienze nel kibbutz prima e durante il massacro di Hamas. Delly (della CSI), che è un forte sostenitore di Israele, in particolare delle vittime del terrore, conosce Avishay da oltre 12 anni, lo ha invitato in Germania e ha preparato un’accurata traduzione in modo che nemmeno una virgola del suo messaggio vada persa.
Inizia con la storia dei suoi antenati. La sua famiglia materna ha vissuto in Israele per 12 generazioni, molto prima della fondazione dello Stato nel 1948; quella di suo padre per 3 generazioni. Tutti hanno contribuito alla costruzione di Israele. Lui stesso ha sempre vissuto a Kfar Azza fin dalla nascita, si è sposato e ha vissuto con sua moglie Shani e i suoi due figli piccoli in una bella casa alla periferia del villaggio.
Parla degli anni precedenti al 2005, prima che Israele si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza nella speranza di portare la pace nella regione. Parla dei villaggi israeliani nella Striscia di Gaza che erano conosciuti come Gush Katif e di come lui e la sua famiglia si recavano sulle bellissime spiagge di Gaza per nuotare e mangiare.
Avishay descrive la coesistenza con gli arabi, come gli abitanti del kibbutz aiutavano i palestinesi senza rendersi conto che a volte sostenevano indirettamente Hamas. E del 2005, quando Israele ha evacuato con la forza i propri connazionali dalla Striscia di Gaza. Questo avvenne senza che i palestinesi dessero nulla in cambio, come sacrificio di Israele per la pace nella regione.
Ma le cose sono andate molto diversamente da quanto sperato! Hamas è diventato il potere dominante e la coesistenza è cambiata. Gli attacchi dalla Striscia di Gaza aumentarono. Sempre di più, sempre più razzi. La casa dei suoi genitori e quella di sua sorella furono colpite, anche prima del 2024.
•
IL 7 OTTOBRE Poi la mattina del 7 ottobre. Le sirene hanno suonato per ore come mai prima. Quando finalmente si calmò e osò uscire dal rifugio, sentì gli spari dei terroristi e capì che stava accadendo qualcosa di terribile. Non avendo armi, ha preso il coltello più grande dalla cucina e ha barricato se stesso e la sua famiglia come meglio poteva nel rifugio.
Poi sono cominciati ad arrivare i messaggi via WhatsApp, uno dopo l'altro. Messaggi disperati, richieste di aiuto, senza sosta, per ore e ore. Famiglie le cui case erano state invase dai terroristi o incendiate. Persone che hanno dovuto assistere all'uccisione dei loro cari davanti ai loro occhi e al rapimento di altri. Persone inermi e indifese di fronte a questa orgia di violenza e brutalità.
Ha cercato di contattare i suoi genitori, che vivevano nello stesso villaggio, ma gli hanno scritto che non potevano parlare perché altrimenti i terroristi che erano in casa li avrebbero sentiti. Cercò di chiamare sua sorella a Beeri, ma non riuscì a raggiungerla. Passarono ore interminabili e terribili: sempre più messaggi e poi, a volte, un improvviso e terribile silenzio. Voleva aiutare i suoi amici, ma sua moglie lo pregava di restare con lei e i bambini. Entrambi si rendevano conto che se i terroristi fossero venuti a casa loro, non avrebbero avuto alcuna possibilità. Decisero che in questo caso lui avrebbe lottato con il coltello per darle la possibilità di togliersi la vita e quella dei bambini. Dopo tutto, da quello che avevano sentito dagli altri, preferivano morire piuttosto che essere rapiti. Il figlio piccolo aveva solo 3 mesi all'epoca.
Quella notte furono finalmente salvati dall'IDF: da soldati che arrivarono dopo 23 ore di inferno e che si aspettavano di trovare solo cadaveri. Invece hanno evacuato una donna con un bambino di tre mesi in braccio e un bambino di otto anni che stringeva il suo orsacchiotto. Era buio, quindi non si riusciva a vedere bene tutto quello che c'era sulla strada verso il veicolo che li ha portati via. Negev, il figlio maggiore di Avishay, era stupito che così tante persone si fossero "sdraiate a dormire" durante il tragitto... Avishay è ancora oggi contento che suo figlio non abbia capito che si trattava di cadaveri. Furono la prima famiglia a essere salvata da Kfar Azza. La battaglia per liberare il kibbutz dai terroristi durò in tutto 78 ore.
Da quel giorno, Avishay ha lavorato per ricostruire la sua vita: pezzo per pezzo. Questo lavoro costruttivo lo aiuta a far passare in secondo piano i terribili ricordi.
Ha avuto molto tempo per pensare. E oggi dice: si poteva prevedere. Ma la gente in Israele era troppo sicura di sé e troppo credulona. Ora è tutto finito. Combatteranno finché non riporteranno a casa tutti gli ostaggi", dice, indicando la maglietta che indossa e che molti in Israele indossano: "Riportateli a casa". E continueranno a combattere finché Hamas non sarà sconfitto. Perché Hamas rappresenta il male per eccellenza.
Hanno creduto nella pace per tutti questi anni. E non odiano tutti i musulmani. Ma il male deve essere messo al suo posto, altrimenti continuerà a diffondersi. Questa è la missione attuale di Israele.
•
PENSATE IN MODO AUTONOMO! Poi si rivolge a noi, ospiti della tranquilla Reutlingen, e dice: "Voi tedeschi siete un popolo meraviglioso. Qui tutto funziona perché ognuno fa quello che gli viene detto". Ma avverte anche: "Imparate a pensare con la vostra testa, a giudicare le cose da soli, a non lasciarvi trascinare dal mainstream. Iniziate a riflettere in modo critico e chiedetevi perché gli ebrei in Germania oggi hanno di nuovo paura di dichiarare il loro essere ebrei per strada. La storia si ripete - e voi avete giurato: mai più!
Avete accolto milioni di musulmani. Non dico che non sia una buona cosa, ma assicuratevi che non vi superino. Fate capire loro che sono i benvenuti, ma che ci si aspetta che si adattino. Difendete i vostri valori e la vostra identità. Perché in un futuro non troppo lontano saranno molti di più e, se non state attenti, imporranno i loro valori e la loro cultura al vostro Paese. Nel bel mezzo di una democrazia e grazie alle maggioranze democratiche, avranno una voce molto forte".
Sono parole che risuonano e fanno riflettere...
Poi arriva alla fine: sarà un finale con brio, proprio come il suo dessert, che prepara davanti al suo pubblico stupito. Una combinazione di originalità e ingegno, presentata con un sorriso all'angolo della bocca e gli occhi lucidi. Veloce, semplice e delizioso.
• FINALE CON BRIO! [in italiano nel testo, ndt] Questo è il suo messaggio finale: "Il fatto di essere qui davanti a voi oggi, di poter raccontare la mia storia, è la mia vittoria!".
Il 7 ottobre si celebrava Simchat Torah, l'ultima festa ebraica di Sukkot (Tabernacoli) ed era il suo compleanno ebraico. Il fatto che sia sopravvissuto al massacro in questo giorno è come una rinascita per lui. Un nuovo inizio. Se e quando potrà tornare a Kfar Aza è attualmente del tutto incerto. Nella migliore delle ipotesi, tra diversi anni. Ma lui vuole sfruttare al massimo questo tempo e vivere i suoi sogni. Come questa sera! Festeggiare la vita. Festeggiare Israele! La sua sopravvivenza!
Che meraviglioso messaggio di resilienza e speranza.
Saremo lieti di accoglierti presto in Germania, Avishay!
Shalom chaver shelanu - Le hitraot! Addio, amico nostro! A presto!
(Israel Heute, 9 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
........................................................
Tregua Israele-Hamas prima dell'escalation iraniana: cosa può succedere a Gaza
Il nuovo leader Sinwar avrebbe chiesto agli esponenti del gruppo terroristico fuori Gaza di perseguire un cessate il fuoco, prima di un grave scontro tra Tel Aviv e Teheran. Vertice decisivo il 15 agosto. Tutti gli scenari e l'ipotesi della pace in tre tempi dopo 308 giorni di guerra e almeno 40mila morti.
Una tregua con Israele, prima dell'escalation iraniana: è stato il nuovo leader di Hamas, Yahya Sinwar, a chiedere agli esponenti del gruppo terroristico fuori Gaza di perseguire un cessate il fuoco, prima di un grave possibile scontro tra Israele e Iran. E' quel che riferisce la tv israeliana Channel 12. Sinwar, così si sostiene, starebbe subendo forti pressioni da parte dei suoi comandanti militari a Gaza. Avrebbe inoltre informato i leader del gruppo in Qatar che nessuno di loro potrà partecipare ai colloqui sul rilascio degli ostaggi, a parte il suo vice Khalil al-Hayya e l’alto funzionario Ghazi Hamad.
• IL VERTICE DECISIVO A FERRAGOSTO Qatar, Egitto e Stati Uniti affermano che stanno invitando Hamas e Israele a riprendere i colloqui per il cessate il fuoco a Gaza. Certo è che giovedì prossimo, a Ferragosto, una delegazione israeliana si incontrerà con i mediatori di Usa, Qatar ed Egitto per provare a concordare i dettagli. Lo ha confermato nelle scorse ore l'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. "Seguendo la proposta degli Stati Uniti e dei mediatori, Israele manderà la delegazione negoziatrice il 15 agosto in un luogo da definire per riassumere i dettagli dell'attuazione dell'accordo quadro", si legge in una nota ufficiale.
La nota israeliana è arrivata poco dopo che Stati Uniti, Egitto e Qatar, in qualità di mediatori, avevano chiesto a Israele e Hamas di "riprendere le discussioni giovedì 15 agosto a Doha o al Cairo per colmare tutte le lacune rimanenti e iniziare l'attuazione dell'accordo senza ulteriori ritardi". Nella nota, firmata dal presidente americano Joe Biden, dal suo omologo egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e dall'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, si evidenzia che "è tempo di fornire sollievo immediato sia alla popolazione sofferente di Gaza che agli ostaggi e alle loro famiglie".
Mancano "solo" i dettagli, che quando c'è di mezzo la questione palestinese non sono evidentemente mai solo dettagli.
• 308 GIORNI DI GUERRA E 40MILA MORTI La guerra a Gaza è scoppiata il 7 ottobre dello scorso anno, 308 giorni fa, dopo un attacco di Hamas contro Israele che ha provocato circa 1.200 morti e 251 rapiti. Dopo più di 10 mesi di escalation, l'offensiva israeliana ha lasciato almeno 40.000 morti nella Striscia di Gaza - la maggior parte dei quali bambini e donne - e più di 90.000 feriti, 10.000 dispersi sotto le macerie e 1,9 milioni di sfollati sopravvissuti in una crisi umanitaria senza precedenti nella storia recente.
Le trattative per una tregua sono arenate da tempo. I paesi mediatori cercano da mesi di raggiungere un cessate il fuoco che consenta l'ingresso massiccio di aiuti umanitari nell'enclave palestinese e il rilascio dei 111 ostaggi che Hamas continua ad avere tra le mani (molti non sarebbero più in vita, impossibile avere numeri certi). L'accordo di cessate il fuoco proposto dai mediatori si basa sui principi delineati dal presidente Biden il 31 maggio 2024 e sostenuti dalla risoluzione 2735 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
In sintesi, il documento prevedeva una prima fase che sarebbe consistita in sei settimane durante le quali ci sarebbe stato un cessate il fuoco completo, le truppe israeliane si sarebbero ritirate da tutte le aree popolate della Striscia e diversi ostaggi sarebbero stati scambiati con palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane. In questo periodo, Israele e Hamas dovrebbero negoziare i dettagli della seconda fase, che implicherebbe "la fine definitiva delle ostilità", il rilascio del resto degli ostaggi, compresi i soldati, e il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia. La terza e ultima fase comprenderebbe un "grande piano di ricostruzione" per l'enclave palestinese e la restituzione dei corpi degli ostaggi assassinati.
• UN SOLO CESSATE IL FUOCO IN 10 MESI Dallo scoppio della guerra è stato raggiunto solo un cessate il fuoco a novembre di una settimana, che ha consentito il rilascio di 105 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi. I negoziati per una nuova tregua sono stati bloccati dalla richiesta di Hamas che il cessate il fuoco fosse definitivo e dall'insistenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di riprendere i combattimenti finché il gruppo islamico non sarebbe stato annientato.
Ora la rinnovata speranza affinché le armi tacciano, nel bel mezzo della crisi innescata dall'assassinio dell'ex capo politico di Hamas Ismail Haniyeh in un attacco del 31 luglio a Teheran che le autorità iraniane attribuiscono a Israele. Tra l'ipotesi di un cessate il fuoco in tempi brevi e una possibile guerra regionale, Gaza attende: sono giorni decisivi.
(Today, 9 agosto 2024)
........................................................
Usa, Qatar ed Egitto chiedono a Israele e Hamas di riprendere i negoziati il 15 agosto
Stati Uniti, Egitto e Qatar hanno invitato Israele e Hamas a riprendere il 15 agosto il negoziato per un cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio della scarcerazione di prigionieri politici palestinesi.
Il presidente Usa Joe Biden, quello egiziano Abdel Fattah El Sisi e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, in una dichiarazione congiunta diffusa ieri in tarda serata, hanno affermato che i colloqui si svolgeranno a Doha o al Cairo.
“Un accordo quadro è ora sul tavolo e mancano solo i dettagli della sua attuazione”, hanno detto. “Non c’è altro tempo da perdere né scuse da nessuna delle parti per ulteriori ritardi. È tempo di rilasciare gli ostaggi, iniziare il cessate il fuoco e implementare questo accordo”. I tre sono anche offerti di presentare “una proposta di collegamento finale” per risolvere i problemi rimanenti.
Il primo ministro Netanyahu ha detto che i negoziatori israeliani saranno presenti. Ma proprio Netanyahu nelle scorse settimane ha presentato nuove richieste per il cessate il fuoco a Gaza che, sostengono anche fonti israeliane, ostacolano un accordo con Hamas. Netanyahu e diversi dei suoi ministri, continuano a parlare di cessate il fuoco temporaneo e non definitivo come vorrebbero i palestinesi dopo 10 mesi di offensiva militare israeliana che ha ucciso almeno 40mila persone, tra cui migliaia di minori, e distrutto gran parte della Striscia.
Un funzionario statunitense ha precisato al giornale Haaretz che per la tregua “il grosso del lavoro è fatto” ma ha avvertito che il 15 agosto non ci sarà la firma dell’accordo e che restano da risolvere alcune questioni rilevanti.
Non c’è stato ancora alcun commento immediato da parte di Hamas che da qualche giorno ha nominato Yahya Sinwar – già suo capo a Gaza e che dall’attacco nel sud di Israele del 7 ottobre scorso vivrebbe nascosto in tunnel sotterranei per sfuggire alla cattura – alla guida di tutta l’organizzazione in sostituzione di Ismail Haniyeh assassinato a Teheran da un missile o una bomba di Israele. È tuttavia opinione diffusa che Hamas accetterà di partecipare ai colloqui, malgrado l’uccisione di Haniyeh.
La situazione umanitaria a Gaza infatti è sempre più critica e Israele continua i suoi attacchi. Ieri i raid aerei, facendo almeno 40 morti e decine di feriti tra i civili, hanno colpito altre due scuole. Secondo l’esercito israeliano in esse si nascondevano combattenti di Hamas. Il movimento islamico smentisce categoricamente l’uso delle scuole per nascondere i suoi combattenti.
I mediatori è che l’annuncio della ripresa dei colloqui per il cessate il fuoco a Gaza, serva anche ad allentare la tensione in Medio oriente. L’Iran e Hezbollah al momento non rinunciano alla risposta contro Israele per vendicare le uccisioni di Ismail Haniyeh e di Fuad Shukr, il capo militare del movimento sciita libanese colpito da Israele a Beirut, poche ore prima dell’assassinio del capo politico di Hamas.
(Pagine Esteri, 9 agosto 2024)
........................................................
Israele accetta la proposta dei mediatori: “Colloqui per cessate il fuoco a Gaza riprenderanno il 15 agosto”
Ricominceranno il 15 agosto i colloqui per la tregua a Gaza. Israele ha accettato la proposta di Usa, Qatar ed Egitto che in una nota congiunta chiedevano di tornare a Doha o al Cairo per chiudere l’accordo sul cessate il fuoco e sul rilascio degli ostaggi.
di Eleonora Panseri
I colloqui per il cessate il fuoco a Gaza riprenderanno il 15 agosto. Israele ha accettato la proposta dei mediatori statunitensi, qatarioti ed egiziani che chiedevano in una nota congiunta di tornare a Doha o al Cairo per chiudere l'accordo sulla tregua e sulla liberazione degli ostaggi.
"A seguito della proposta degli Stati Uniti e dei mediatori, Israele invierà il 15 agosto una delegazione di negoziatori nel luogo concordato per concludere i dettagli dell'attuazione di un accordo", ha affermato l'ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu in un comunicato.
Nella nota congiunta, firmata dal presidente americano Joe Biden, il suo omologo egiziano Abdel Fattah al Sisi e l'emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, si evidenzia la necessità di "fornire sollievo immediato sia alla popolazione sofferente di Gaza che agli ostaggi e alle loro famiglie".
• Cosa prevede l'accordo per il cessate il fuoco
I paesi mediatori stanno cercando da mesi di raggiungere una tregua che permetta l'ingresso a Gaza degli aiuti umanitari, così come il rilascio dei 111 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. L'accordo proposto dai mediatori si basa sui principi delineati dal presidente Biden e sostenuti dalla risoluzione 2735 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Il documento prevede una prima fase della durata di sei settimane durante le quali ci sarebbe un cessate il fuoco completo, il ritiro delle truppe israeliane da tutte le aree popolate della Striscia e lo scambio di ostaggi con palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane.
In questo periodo, Israele e Hamas dovrebbero negoziare i dettagli della seconda fase, che implicherebbe "la fine definitiva delle ostilità", il rilascio del resto degli ostaggi, compresi i soldati, e il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia. La terza e ultima fase comprende un "grande piano di ricostruzione" per l'enclave palestinese e la restituzione dei corpi degli ostaggi assassinati.
Dopo più di 10 mesi di conflitto, l'offensiva israeliana ha lasciato quasi 40mila morti nella Striscia di Gaza – la maggior parte dei quali bambini e donne -, più di 90mila feriti, 10mila dispersi sotto le macerie e 1,9 milioni di sfollati sopravvissuti.
• Ripresa dei colloqui arriva in un momento di crisi per il Medio Oriente
L'annuncio della ripresa dei colloqui per un cessate il fuoco arriva nel mezzo di un momento di crisi in Medio Oriente, scatenata il 31 luglio dalla morte dell'ex capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso in un raid israeliano a Teheran che le autorità iraniane attribuiscono a Israele. Hamas ha di recente nominato Yahya Sinwar, leader militare di Hamas a Gaza, come successore di Haniyeh.
Dall'inizio della guerra, cominciata a fine novembre, è stato raggiunto solo un cessate il fuoco di una settimana, che ha consentito il rilascio di 105 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi.
I negoziati per una nuova tregua sono stati bloccati dalla richiesta di Hamas di rendere il cessate il fuoco definitivo e dalla volontà del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di proseguire i combattimenti finché il gruppo palestinese non fosse stato "estinto".
• Il capo del Pentagono chiama il ministro della Difesa Gallant: "Difenderemo Israele"
Il capo del Pentagono LLoyd Austin ha ribadito al ministro della Difesa israeliana, Yoav Gallant in una telefonata che gli Stati Uniti continueranno i loro sforzi per scoraggiare l'aggressione di Iran e Libano, difendere Israele e proteggere le forze statunitensi in Medio Oriente.
"Ho chiamato oggi il ministro della Difesa israeliano Gallant per informarlo sulla presenza delle forze statunitensi e rafforzare il mio ferreo sostegno alla difesa di Israele. Gli F-22 Raptor statunitensi arrivati oggi nella regione rappresentano uno dei tanti sforzi per scoraggiare l'aggressione, difendere Israele e proteggere le forze statunitensi nella regione. Ho anche sottolineato l'importanza di concludere un accordo di cessate il fuoco a Gaza che rilasci gli ostaggi" ha scritto su X.
(fanpage.it, 9 agosto 2024)
........................................................
“Come si vive l’attesa nei rifugi d’Israele”
di Alex Zarfati
“La ritorsione iraniana è vicina”, “Israele pagherà per i suoi crimini”, “Nuove armi pronte contro Israele”. L’uccisione dei Ismail Haniyeh della scorsa settimana scuote i vertici iraniani e quelli dei volenterosi carnefici loro affiliati. Che, una volta ripresisi dal clamore dell’attacco seguito alla strage di Majdal Shams, hanno cominciato subito a spargere minacce sul devastante attacco che starebbero per scatenare su Israele. Il mondo, letto attraverso i titoli dei media, sembra davvero stare con il fiato sospeso, in trepidante attesa dell’attacco alle città israeliane.
Gli indugi apparentemente soddisfano gli iraniani, pronti a farne un altro capitolo per i manualetti sulla guerra psicologica che i loro proxies conoscono bene. Sembra però non soddisfare una certa classe di giornalisti a caccia di indiscrezioni su come gli israeliani vivano i momenti che li separano dall’attacco. Richieste di foto e video sulla preparazione dei mamad, le “safe room” di cui Israele è disseminata, piovono in queste ore sugli italo-israeliani. Si tratta di un capitolo nuovo della spettacolarizzazione dell’informazione deprecabile come la pornografia del dolore, che mostra volti, dolori, intimità e li usa come scorciatoie per ottenere clamore in luogo di altre forme di giornalismo. La corsa alla difesa d’Israele oggi diventa prepotentemente d’interesse per reporter che vogliono descrivere l’atmosfera generale di inquietudine nelle città dello stato ebraico.
La verità è che non c’è nulla di interessante nei rifugi d’Israele. Né nel vivere questa crisi gli israeliani sono diversi da chi ovunque si trovasse a vivere situazioni analoghe. I rifugi pubblici sono scatole di cemento, spesso situate nei sottoscala. In aree aperte sono casette anonime, come quelle rese tristemente famose per aver ospitato il sette ottobre gli scannatoi artigianali dove sono morti tanti giovani.
Quelli casalinghi sono arredati come una stanza normale della casa. Nella mia dormiva mia figlia Emma di 2 anni, in compagnia di un contenitore pieno di cose utili in caso di emergenza, lasciato accanto al fasciatoio e al cestino per i pannolini. Non c’è nulla di eccitante nelle storie di vita che raccontano delle corse ai luoghi sicuri alle quali gli israeliani sono abituati, impiegando la stessa inquietudine proporzionalmente adottata nelle faccende quotidiane.
Perché, anche lì, c’è chi viene colto da attacchi d’ansia persino per un colloquio di lavoro, non dissimilmente da ciò che accade nel resto del mondo. Non occorre quindi intervistare un residente di Sderot o Haifa per rendersi conto che non sia una gran vita, quella di vivere sotto il tiro di ordigni che possono abbattersi su abitazioni, scuole, uffici e reparti maternità. O, similmente disturbare una mamma chiedendogli come si sentirà quando proteggendo gli affetti dovrà farsi strada con in braccio i figli dalle espressioni terrorizzate.
Tutti in Israele sanno che razzi, droni e missili balistici provocano distruzione, dividono famiglie, uccidono, costringono gli anziani a ripararsi sotto tettoie dei bus, cartelloni pubblicitari, gabinetti pubblici, scivoli dei giardini d’infanzia. Che quindi certi sentimenti sono inevitabili.
L’estate non è mai stato un momento dell’anno in cui l’informazione ha proposto pagine di giornalismo memorabili. Ma dobbiamo sconfessare una nuova forma voyeuristica acchiappa-click che scava tra le rughe d’espressione dei cittadini d’Israele per scoprire l’acqua calda: che sì, anche gli israeliani possono essere vittime di confusione e ansia. Che sebbene abbiano sviluppato una certa resilienza che ce li mostra indifferenti giocare a racchettoni in spiaggia noncuranti dello scintillio delle testate iraniane, anche tra loro di tanto in tanto c’è chi cede al panico.
Piuttosto, sarebbe più opportuno che nelle redazioni si lavori per far luce sul perché Israele riceva minacce da Paesi come Iraq, Yemen, Pakistan, che non possono nemmeno inventarsi fantasiose rivendicazioni territoriali come foglia di fico dei loro intenti distruttivi. Che sarebbe più idoneo soffermarsi sulla strage già dimenticata dei bambini drusi che ha innescato questo crescendo militare. O magari sul perché sia “normale” che ad uno stato che siede tra pari alle Nazioni Unite sia concesso di predicare apertamente la distruzione di un altro.
Lo scavare per trovare l’affanno degli israeliani – sostenuto da quell’intimo desiderio di osservare i dolori degli altri – invece alimenta il potere della suggestione che i leader di Hezbollah e di Hamas hanno usato a piene mani in questa guerra, con l’obiettivo di minare il morale della popolazione israeliana. Siamo certi che qualcuno sia disposto ad accogliere con soddisfazione le incertezze d’Israele, magari pregustando il momento in cui i morti di Gaza potranno in qualche modo essere bilanciati da qualche lutto israeliano.
Ma la denuncia di quei media che prestano la loro voce alle organizzazioni terroristiche e ai regimi illiberali è d’obbligo. Ancora è in circolo l’immagine caricaturale degli israeliani muscolari e spietati con i palestinesi, tanto da sembrare alieni nella loro freddezza di carnefici. Oggi, aspettandosi la complicità dei media occidentali, gli ayatollah vorrebbero proporci un’altra versione di loro, altrettanto convincente benché opposta: quella degli israeliani in confusione mentre aspettano la loro ritorsione, perché pavidi, effemminati e fiacchi.
Quando vedrai un nuovo articolo su “Come si vive l’attesa nei rifugi d’Israele” sappi dunque che si allontanerà ancora un po’ il momento in cui ebrei e israeliani verranno trattati per quello che sono, non più per la proiezione della propaganda, del senso di colpa e del pregiudizio altrui. Sarà sorprendente scoprirli né più alti, né più bassi, né più intelligenti, né più stupidi. Soprattutto né più eroici, né più codardi, di fronte ad una minaccia concreta, di quanto non lo sia la metà del mondo che ancora ragiona.
(Progetto Dreyfus, 8 agosto 2024)
........................................................
L’Iran userà Hezbollah e darà una risposta limitata per evitare la vendetta israeliana
A Gerusalemme sono anni che cercano la scusa giusta per attaccare le centrali nucleari iraniane. Figuriamoci se i Pasdaran vanno a rischiare di perdere tutto a pochi metri dalla meta
di Maurizia De Groot Vos
Al di là delle parole, l’Iran non ha nessuna intenzione di “vendicare” l’affronto subito con l’eliminazione di Ismail Haniyeh con una azione che provochi una pesante reazione israeliana.
A Teheran i Guardiani della Rivoluzione (IRGC) sanno benissimo che a Gerusalemme sono anni che aspettano la scusa buona per attaccare le centrali nucleari iraniane e, a differenza degli Ayatollah, non sono molto propensi a innescare uno scontro diretto con Israele perché sanno che gli israeliani hanno la tecnologia per arrivare a colpire duramente le centrali.
Magari non le distruggeranno come avverrebbe con le bombe anti-bunker americane, che Washington non fornisce a Israele, ma sono in grado di fermare il programma nucleare iraniano per anni.
La risposta iraniana sarà quindi -a mio avviso – molto blanda, non perché gli americani hanno convinto gli iraniani, ma perché proprio gli iraniani sono convinti che non è nel loro interesse farlo. Poi, per un sunnita come Ismail Haniyeh meno che meno.
Toccherà quindi a Hezbollah vendicare l’onore degli Ayatollah, come sempre del resto, perché nonostante Teheran abbia le mani su ogni conflitto in Medio Oriente, da quello in Siria a quello in Yemen passando per Gaza, non si è mai esposta direttamente.
Secondo la CNN che cita fonti di intelligence, Hezbollah sarebbe pronto a colpire Israele prima e in maniera più massiccia dell’Iran. Evidentemente a Nasrallah non interessa minimamente il fatto che così facendo farà entrare in guerra il Libano che con queste vicende non c’entra niente. Un Libano che ha un suo esercito armato e addestrato dagli Stati Uniti ma evidentemente non in grado di difendere il proprio paese da Hezbollah.
Sicuramente entreranno in azione anche le milizie sciite basate in Iraq e in Siria così come gli Houthi dello Yemen, ma Teheran dovrebbe tenersi fuori dai giochi che contano.
Sarà sufficiente ad evitare agli Ayatollah una seria risposta israeliana? A Teheran pensano di si, probabilmente perché rassicurati dagli americani. Ma Netanyahu ha dimostrato più volte di non stare tanto a sentire i “consigli” americani. Vedremo, le prossime ore saranno decisive.
(Rights Reporter, 8 agosto 2024)
........................................................
Yahya Sinwar, il massimo responsabile del 7 ottobre, è il nuovo capo politico di Hamas
di Ugo Volli
• La nomina
Hamas ha annunciato ieri di avere nominato Yahya Sinwar come nuovo presidente del suo politburo, cioè capo politico, in sostituzione di Ismail Haniyeh, eliminato la settimana scorsa a Teheran. Non sappiamo chi e come e con che modalità abbia fatto questa scelta, anche perché si tratta di una decisione piuttosto controversa dentro l’organizzazione terroristica. Nei giorni scorsi infatti il candidato più forte per questo ruolo era sembrato il vice di Haniyeh, cioè Khaled Mashal, fortemente appoggiato dalla Turchia di Erdogan; poi quando era emerso che la vicinanza di costui con la Turchia era sgradita a Hezbollah e dunque anche all’Iran, si era fatto il nome di Mohamed Ismail, un personaggio sconosciuto al grande pubblico, considerato una delle figure finanziarie più potenti dell’organizzazione terroristica, che lavora nell’ombra.
• Il senso politico
In generale si pensava che Hamas avrebbe conservato la sua scelta organizzativa degli ultimi anni di tenere all’estero la direzione politica del movimento terrorista, lasciando a Gaza quella militare oltre che “l’organizzazione governativa” del territorio controllato. E invece la scelta è stata di concentrare tutti i ruoli di vertice sulla figura di Sinwar, che era il capo di Gaza e ora, dopo l’eliminazione di Mohammed Deif, comandante militare del gruppo terrorista, ha assunto anche questa posizione. Il senso politico della scelta è chiarissimo, come ha anche dichiarato un portavoce del movimento terrorista: la scelta è “un forte messaggio all’occupante (Israele) che Hamas continua il suo percorso di resistenza”.
• Un cambiamento soprattutto organizzativo
Ciò non vuol dire affatto, come hanno dichiarato alcuni politici e media europei che Haniyeh fosse un “leader relativamente moderato” o addirittura “l’uomo delle trattative” e che Hamas, in seguito alla sua eliminazione, “corra il rischio di radicalizzarsi”. Dentro l’organizzazione terroristica vi sono naturalmente ruoli e fazioni personali che competono per il potere. Ma Haniyeh non era meno favorevole alla violenza e al terrorismo né odiava meno Israele di Sinwar e dei suoi compari; ha sempre approvato e propagandato tutte le operazioni condotte dai terroristi ed è celebre l’immagine in cui avendo saputo del 7 ottobre si prosternava per ringraziare Allah del successo. Stava all’estero come misura di sicurezza per garantire continuità al movimento in caso di combattimenti a Gaza, anche se la protezione fornitagli da Qatar e Iran è stata alla fine penetrata da Israele. Semplicemente Hamas ha deciso di rinunciare a questa divisione di compiti e la facilità di comunicazione che essa consentiva per ostentare la propria identificazione con la lotta armata dei terroristi a Gaza.
• Sinwar
Chi sia Sinwar è ben noto. Nato nel 1962 a Khan Yunis nella striscia di Gaza allora governata dall’Egitto, presto arruolato nel movimento terrorista islamico, Sinwar si fece un nome nel 1989 per aver rapito ucciso con le proprie mani due soldati israeliani e quattro arabi che considerava collaboratori. Arrestato e condannato a quattro ergastoli, ha trascorso 22 anni nelle carceri israeliane, conquistandosi con la violenza un ruolo di leader fra i terroristi detenuti. Fu poi nel 2011 uno dei 1026 terroristi scambiati per la vita di Gilad Shalit – il che fa pensare al rischio che le liberazioni di terroristi richiesta anche in questo momento da Hamas per liberare i rapiti porti a nuovi crimini e nuovi rapimenti. Sinwar divenne subito uno dei più crudeli e influenti capi di Hamas a Gaza, ottenendo nel 2015 la qualifica ufficiale di terrorista del governo americano e poi il ruolo di leader di Hamas nella Striscia. È il principale organizzatore e responsabile delle stragi del 7 ottobre. Personaggio furtivo e prudente in maniera paranoica, dall’inizio dell’operazione israeliana non si è più visto, anche se è emersa qualche sua foto. Si ritiene che sia nascosto in uno dei tunnel dei terroristi, a Rafah o forse a Khan Yunis, sempre circondato per sicurezza da un gruppo di ostaggi. Sembra che solo un paio di persone fidatissime sappiano esattamente come raggiungerlo. È oggi il principale obiettivo della caccia al terrorista dell’esercito israeliano, ma purtroppo ancora non è stato trovato.
• I commenti israeliani
Il ministro degli Esteri Israel Katz ha così commentato martedì l’annuncio di Hamas: “La nomina dell’arciterrorista Yahya Sinwar come nuovo leader di Hamas, in sostituzione di Ismail Haniyeh, è un’altra valida ragione per eliminarlo rapidamente e cancellare questa vile organizzazione dalla faccia della terra”. E il portavoce delle forze armate di Israele Daniel Hagari: “C’è un solo posto per Yahya Sinwar, ed è accanto a Mohammed Deif e al resto dei terroristi del 7 ottobre. Quello è l’unico posto che stiamo preparando e che intendiamo ospitare per lui”.
(Shalom, 8 agosto 2024)
........................................................
La nomina di Sinwar, la Casa Bianca e Netanyahu
di Niram Ferretti
La decisione di Hamas di proclamare Yahya Sinwar alla propria direzione sostituendo Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran pochi giorni fa, rappresenta la risposta alla determinazione di Israele di eliminare progressivamente i maggiorenti di Hamas e di continuare l’operazione militare a Gaza fino ad obiettivo raggiunto, la disarticolazione della capacità operativa di Hamas all’interno della Striscia.
Questo obiettivo è in palese contrasto con quello americano, il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, per il quale, nelle ultime ore, Antony Blinken si è rivolto direttamente a Sinwar, sottolineando ciò che peraltro ha ripetuto costantemente in questo ultimo periodo, che la decisione finale spetta a lui.
Il problema di questa affermazione è che la decisione finale non spetta all’organizzatore dell’eccidio del 7 ottobre, ma a Israele, e, nello specifico a Benjamin Netanyahu. Sta al premier israeliano e non a un jihadista fanatico per il quale le vite umane valgono come quelle dei moscerini, stabilire se un eventuale accordo con chi ha massacrato 1200 dei suoi concittadini rapendone 254, garantisca a Israele e non agli assassini il massimo vantaggio.
Ma non è questa la postura della Casa Bianca, da mesi in rotta di collisione con l’esecutivo Netanyahu. Le prospettive sono infatti divergenti e si basano su opposte convinzioni; per gli americani Hamas non può essere sconfitto militarmente da Israele, ma solo depotenziato, dunque occorre da parte di Israele prendere coscienza di questa realtà dopo dieci mesi di guerra, e trovare un accordo politico. Per Israele, al contrario, Hamas può essere sconfitto militarmente. I dieci mesi di guerra in corso hanno già fatto sì che l’organizzazione sia di fatto prossima al collasso, ma per arrivare alla vittoria, sarà necessario e inevitabile che esso occupi Gaza per il periodo necessario a bonificarlo e dedicarsi quindi a operazioni di controinsorgenza terroristica, ciò che l’Amministrazione Biden non desidera che accada.
La Casa Bianca ha la necessità di chiudere l’accordo con Hamas, in particolar modo adesso, dopo l’uccisione di Haniyeh e il rischio di un escalation regionale. Un accordo con Hamas, un cessate il fuoco, comporterebbe quella momentanea distensione necessaria a forzare poi Israele ad ammorbidirsi e a cedere terreno ai suoi nemici.
Il paradosso è che, in questa prospettiva, sia gli Stati Uniti che i loro alleati all’opposizione in Israele, e per opposizione non si intendono solo i partiti politici avversi a quelli al governo, ma una fetta dell’esercito e dei Servizi nonché attori terzi che fomentano le manifestazioni di piazza per la liberazione degli ostaggi, costi quel che costi, presentano Netanyahu come l’intransigente, colui che non vuole venire a patti, il cinico e spregiudicato calcolatore, non Sinwar.
Di tutto questo Netanyahu è perfettamente conscio e sa che può contare sull’intransigenza di Sinwar, per il quale il prerequisito fondamentale ad ogni accordo è che Israele lasci Gaza, consegnando la vittoria a Hamas.
La nomina di Sinwar a capo politico di Hamas, indurisce ulteriormente lo scontro e rafforza la posizione di Netanyahu, il quale ora, davanti a sé, al posto del “moderato” Haniyeh ha colui che è in assoluto meno disposto a scendere a patti.
(L'informale, 7 agosto 2024)
........................................................
Il kibbutz Be'eri risorge lentamente dalle ceneri del 7 ottobre
"Voglio che Be'eri diventi migliore, che i residenti siano più felici. I residenti qui hanno perso i loro cari, ma in fondo Be'eri è la nostra casa", ha detto Sharon Shevo, sopravvissuto al 7 ottobre.
di Amelie Botbol
Quando ci siamo avvicinati ai villaggi distrutti nel sud di Israele, tra cui il Kibbutz Be'eri, il sistema di navigazione GPS ci ha detto: "Continua dritto sulla strada 232". Questa strada è comunemente chiamata "strada della morte" dai sopravvissuti al massacro di Hamas del 7 ottobre.
La comunità, un tempo molto ospitale, non può più essere visitata senza invito. Mentre aspettavamo l'arrivo del nostro ospite lunedì, abbiamo notato decine di auto parcheggiate all'ingresso del kibbutz, eppure non si sentiva un solo suono, a parte le esplosioni lontane della Striscia di Gaza.
Sharon Shevo, residente a Be'eri, che ha quasi perso un braccio e tutta la sua famiglia nell'invasione, ci avrebbe fatto da guida durante la nostra visita. Shevo lavora nell'edilizia ed è attualmente impegnato nella riqualificazione del kibbutz.
Ha accettato di guidarci attraverso i quartieri distrutti e di mostrarci dove tra qualche anno saranno costruite le nuove unità abitative che accoglieranno i residenti.
"Attualmente siamo nella complessa fase di pianificazione della ricostruzione", dice Shevo.
"La situazione della sicurezza non è ancora tale da poter immaginare un ritorno definitivo; la guerra non è ancora finita. Nel frattempo, stiamo pianificando come sarà la futura Be'eri", ha spiegato.
Al momento, nel kibbutz non ci sono né illuminazione stradale, né negozi di alimentari, né scuole. Tuttavia, la mensa è ancora in funzione e serve il pranzo e la cena a una manciata di residenti.
È solo la quinta volta dal 7 ottobre che Shevo ha accettato di guidare i visitatori per le strade di Be'eri e di rivivere il giorno più terribile della sua vita.
"C'è il concetto di casa in contrapposizione a quello di abitazione. Le nostre case sono state distrutte e non abbiamo più una casa", ha detto.
Il 7 ottobre, 101 residenti del Kibbutz Be'eri sono stati uccisi da Hamas. Trenta sono stati presi in ostaggio e 11 sono ancora prigionieri.
Nella famigerata clinica dentistica di Be'eri, dove cinque membri del kibbutz, tra cui tre membri della Protezione Civile - Gil Buyum, Shachar Zemach e Eitan Hadad - e due membri dello staff, Amit Man e il dottor Daniel Levi Ludmir, sono stati uccisi a sangue freddo da Hamas, abbiamo incontrato una delegazione di rettori di università indiane.
Mentre Hassi Yehezkel, residente a Be'eri, attraversava il kibbutz con la figlia su un golf cart, si è fermata e ci ha salutato. Ha espresso la sua gioia per il ritorno a casa, ma ha anche detto che è troppo presto per la sua famiglia per tornare in modo permanente.
"Alcuni residenti pensano che non dovremmo permettere ai visitatori di entrare nel kibbutz, mentre altri, tra cui io e la mia famiglia, pensano che sia importante mostrare agli altri quello che è successo qui", ha spiegato Ella Gelbard, sopravvissuta all'attacco.
"Questo disastro potrebbe essere subito cancellato dalla memoria pubblica se non lavoriamo per condividere le nostre storie con i media e il pubblico", ha detto.
Gelbards è cresciuto nel kibbutz. I suoi genitori erano fondatori e i suoi quattro fratelli vivevano tutti a Be'eri fino al 7 ottobre.
"Non so se posso dire che stiamo bene mentalmente. Non ne sono sicuro. Ma fisicamente stiamo bene. Alcune delle nostre case sono in attesa di essere demolite dopo essere state bruciate da Hamas o utilizzate come base temporanea dai terroristi. Ogni casa racconta una storia diversa", ha detto.
Quando ci siamo fermati in una piazza vuota in mezzo a una fila di case, alcune delle quali quasi intatte, Shevo ci ha spiegato che quella piazza vuota era la casa di Yossi Sharabi, dalla quale lui e il fidanzato di sua figlia, Ofir Engel, sono stati rapiti da Hamas.
Il 16 gennaio è stata confermata la morte in contumacia di Sharabi, ucciso da Hamas durante la prigionia. Engel è stato rilasciato nell'ambito di un accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas alla fine di novembre, in cui sono stati rilasciati 105 prigionieri, per lo più donne e bambini.
Quando gli è stato chiesto se temeva che la cancellazione dei quartieri devastati avrebbe portato alla negazione, Shevo ha spiegato che lui e tutti i residenti sapevano che cosa era successo, e questo gli bastava. Ora è il momento di ricominciare, ha detto.
"Voglio che Be'eri sia migliore. Voglio che i residenti siano più felici. Non possiamo vivere con il ricordo della perdita, dobbiamo andare avanti con le nostre vite. I residenti qui hanno perso i loro cari, ma alla fine della giornata Be'eri è la nostra casa", ha spiegato.
"Una casa non è solo mura, ma anche comunità e valori che vengono trasmessi ai figli. Abbiamo famiglie e generazioni che vivono nel kibbutz dal 1947. Dobbiamo ricostruire, e poiché il 7 ottobre ha divorato le nostre vite, ricominceremo da zero", ha aggiunto.
"Distruggeremo i quartieri danneggiati e ricostruiremo nel kibbutz, ma lontano dai quartieri dove i nostri cari sono stati uccisi, almeno all'inizio. Questo aiuterà le nostre anime a guarire", continua Shevo.
Il kibbutz Be'eri riceverà quasi 100 milioni di dollari per la ricostruzione. Si tratta della somma più consistente mai stanziata per una delle comunità al confine con la Striscia di Gaza, attaccata dai terroristi di Hamas il 7 ottobre scorso.
I fondi statali fanno parte della Direzione Tkuma (rivitalizzazione in ebraico), istituita per supervisionare la ricostruzione delle comunità colpite dall'attacco nel sud di Israele. Tra due mesi dovrà inviare a Gerusalemme i piani di costruzione definitivi.
In molti casi, il 7 ottobre, i bunker e i rifugi non fornivano una protezione ermetica contro l'invasione. Shevo ha spiegato che nessun meccanismo di sicurezza è impeccabile.
"È impossibile prevedere il prossimo scenario. Non possiamo prendere una casa e sigillarla. Non possiamo vivere in una prigione", ha detto.
"C'è sempre il rischio che qualcuno si introduca o dia fuoco", ha aggiunto.
Shevo non ha ancora ricevuto informazioni sui sistemi di sicurezza che saranno installati nel nuovo edificio. Presume che i rifugi saranno probabilmente dotati di una serratura interna.
Quasi 350 terroristi di Hamas, tra cui 100 membri dell'unità Nukhba del gruppo terroristico, sono riusciti a infiltrarsi nel Kibbutz Be'eri, nel sud di Israele, il 7 ottobre, a causa di un fallimento catastrofico delle forze di sicure |