Ascoltatemi, o gente dal cuore ostinato, che siete lontani dalla giustizia!
Io faccio avvicinare la mia giustizia; essa non è lontana,
la mia salvezza non tarderà; io metterò la salvezza in Sion,
e la mia gloria sopra Israele.
Isaia 46:12-13

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Predicazioni
Dio con noi
    MATTEO 1
  1. Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
  2. E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
  3. Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
  4. Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
  5. Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
  6. Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
    SALMO 145

  1. Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
  2. Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
  3. L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
  4. Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
  5. Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
    GENESI 2
  1. L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
  2. gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
    ISAIA 53
  1. Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
    GIOVANNI 20
  1. Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
  2. Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
    PROVERBI 8
  1. Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
  2. quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
  3. quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
  4. io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
  5. mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
    GENESI 2
  1. E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
    GIOVANNI 3
  1. Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
    1 CORINZI 15
  1. Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
    GENESI 3
  1. E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
    ISAIA 7
  1. Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
    GIOVANNI 12
  1. “Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
    ESODO 3
  1. E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; 
  2. e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
    ESODO 29
  1. Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
  2. E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
    GIOVANNI 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.

Marcello Cicchese
febbraio 2024

Una grande gioia

ATTI 2

  1. Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
  2. Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
  3. E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
  4. E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
  5. e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
  6. E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
  7. lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.

ATTI 4

  1. E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
  2. E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
  3. Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
  4. e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.

LUCA 2

  1. Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
  2. E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
  3. E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
  4. Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.

MATTEO 2

  1. Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.

ATTI 8

  1. Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
  2. E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
  3. Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
  4. E vi fu grande gioia in quella città.

ATTI 13

  1. Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
  2. Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
  3. E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
  4. E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
  5. Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
  6. Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
  7. E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

ROMANI 15

  1. Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
  2. affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
  3. Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
  4. poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
  5. mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
  6. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
  7. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
  8. E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
  9. Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.


    Marcello Cicchese
    maggio 2016

L'interesse di Cristo
FILIPPESI, cap. 1

  1. Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo, 
  2. per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio. 
  3. Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, 
  4. sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.

FILIPPESI, cap. 2

  1. Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione, 
  2. rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento
  3. Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso, 
  4. cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri. 
  5. Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, 
  6. il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, 
  7. ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini; 
  8. trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce. 
  9. Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome, 
  10. affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra, 
  11. e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
  12. Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore; 
  13. infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo. 
  14. Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute
  15. perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo, 
  16. tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato. 
  17. Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi; 
  18. e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.


Marcello Cicchese
novembre 2006

Salmo 92
Salmo 92
    Canto per il giorno del sabato.
  1. Buona cosa è celebrare l'Eterno,
    e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
  2. proclamare la mattina la tua benignità,
    e la tua fedeltà ogni notte,
  3. sul decacordo e sul saltèro,
    con l'accordo solenne dell'arpa!
  4. Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
    io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
  5. Come son grandi le tue opere, o Eterno!
    I tuoi pensieri sono immensamente profondi.

  6. L'uomo insensato non conosce
    e il pazzo non intende questo:
  7. che gli empi germoglian come l'erba
    e gli operatori d'iniquità fioriscono, per esser distrutti in perpetuo.
  8. Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
  9. Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
    ecco, i tuoi nemici periranno,
    tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.

  10. Ma tu mi dai la forza del bufalo;
    io son unto d'olio fresco.
  11. L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
    le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi
    che si levano contro di me.
  12. Il giusto fiorirà come la palma,
    crescerà come il cedro sul Libano.
  13. Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
    fioriranno nei cortili del nostro Dio.
  14. Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
    saranno pieni di vigore e verdeggianti,
  15. per annunziare che l'Eterno è giusto;
    egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.

Marcello Cicchese
gennaio 2017

Saggezza che viene da Dio
PROVERBI 2
  1. Figlio mio, se ricevi le mie parole e serbi con cura i miei comandamenti,
  2. prestando orecchio alla saggezza e inclinando il cuore all'intelligenza;
  3. sì, se chiami il discernimento e rivolgi la tua voce all'intelligenza,
  4. se la cerchi come l'argento e ti dai a scavarla come un tesoro,
  5. allora comprenderai il timore del Signore e troverai la scienza di Dio.
  6. Il Signore infatti dà la saggezza; dalla sua bocca provengono la scienza e l'intelligenza.
  7. Egli tiene in serbo per gli uomini retti un aiuto potente, uno scudo per quelli che camminano nell'integrità,
  8. allo scopo di proteggere i sentieri della giustizia e di custodire la via dei suoi fedeli.
  9. Allora comprenderai la giustizia, l'equità, la rettitudine, tutte le vie del bene.
  10. Perché la saggezza ti entrerà nel cuore, la scienza sarà la delizia dell'anima tua,
  11. la riflessione veglierà su di te, l'intelligenza ti proteggerà;
  12. essa ti scamperà così dalla via malvagia, dalla gente che parla di cose perverse,
  13. da quelli che lasciano i sentieri della rettitudine per camminare nelle vie delle tenebre,
  14. che godono a fare il male e si compiacciono delle perversità del malvagio,
  15. i cui sentieri sono contorti e percorrono vie tortuose.
  16. Ti salverà dalla donna adultera, dalla infedele che usa parole seducenti,
  17. che ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio.
  18. Infatti la sua casa pende verso la morte, e i suoi sentieri conducono ai defunti.
  19. Nessuno di quelli che vanno da lei ne ritorna, nessuno riprende i sentieri della vita.
  20. Così camminerai per la via dei buoni e rimarrai nei sentieri dei giusti.
  21. Gli uomini retti infatti abiteranno la terra, quelli che sono integri vi rimarranno;
  22. ma gli empi saranno sterminati dalla terra, gli sleali ne saranno estirpati.

Marcello Cicchese
aprile 2009

Sovranità e grazia di Dio
ROMANI 8
  1. Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
  1. Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
  2. Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
  3. E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
  4. Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
  1. Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
  2. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
  3. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
  4. Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
  1. Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
  2. Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
  3. Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
  4. Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
  5. Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
  6. Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
  1. Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
  2. Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
  3. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
  1. Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Preghiera sacerdotale 1

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.

    ATTI 10

  1. Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni: 
  2. vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui. 
  3. E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno. 
  4. Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse 
  5. non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.


Marcello Cicchese
agosto 2017

Preghiera sacerdotale 2

    GIOVANNI 17

  1. Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te, 
  2. poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato. 
  3. E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo. 
  4. Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare. 
  5. Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse. 
  6. Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola. 
  7. Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te; 
  8. poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato. 
  9. Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi; 
  10. e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro. 
  11. Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi. 
  12. Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta. 
  13. Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza. 
  14. Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  15. Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno. 
  16. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 
  17. Santificali nella verità: la tua parola è verità.
  18. Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo. 
  19. E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
  20. Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola: 
  21. che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
  22. E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno; 
  23. io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
  24. Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
  25. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato; 
  26. ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.


Marcello Cicchese
ottobre 2017

Un sabato sacro
ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

Marcello Cicchese
maggio 2017

Benedizione a domicilio?
GENESI 12
  1. Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
  2. io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
  3. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
  4. Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
  5. Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
  6. Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
  7. Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
  8. Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.

MARCO 10
  1. Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
  2. Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
  3. Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
  4. Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
  5. Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
  6. Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
  7. Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
  8. I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
  9. È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
  10. Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
  11. Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
  12. Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
  13. Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
  14. il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
  15. Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».

PROVERBI 10
  1. Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.

Marcello Cicchese
giugno 2006


Salmo 56
Salmo 56
  1. Abbi pietà di me, o Dio, poiché gli uomini anelano a divorarmi; mi tormentano con una guerra di tutti i giorni;
  2. i miei nemici anelano del continuo a divorarmi, poiché sono molti quelli che m'assalgono con superbia.
  3. Nel giorno in cui temerò, io confiderò in te.
  4. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; in Dio confido, e non temerò; che mi può fare il mortale?
  5. Torcono del continuo le mie parole; tutti i lor pensieri son vòlti a farmi del male.
  6. Si radunano, stanno in agguato, spiano i miei passi, come gente che vuole la mia vita.
  7. Rendi loro secondo la loro iniquità! O Dio, abbatti i popoli nella tua ira!
  8. Tu conti i passi della mia vita errante; raccogli le mie lacrime negli otri tuoi; non sono esse nel tuo registro?
  9. Nel giorno che io griderò, i miei nemici indietreggeranno. Questo io so: che Dio è per me.
  10. Con l'aiuto di Dio celebrerò la sua parola; con l'aiuto dell'Eterno celebrerò la sua parola.
  11. In Dio confido e non temerò; che mi può fare l'uomo?
  12. Tengo presenti i voti che t'ho fatti, o Dio; io t'offrirò sacrifizi di lode;
  13. poiché tu hai riscosso l'anima mia dalla morte, hai guardato i miei piedi da caduta, affinché io cammini, al cospetto di Dio, nella luce de' viventi.

Marcello Cicchese
agosto 2016

Una lampada al piede
Salmo 119
  1. La tua parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero.
  2. Ho giurato, e lo manterrò, di osservare i tuoi giusti giudizi.
  3. Io sono molto afflitto; Signore, rinnova la mia vita secondo la tua parola.
  4. Signore, gradisci le offerte volontarie delle mie labbra e insegnami i tuoi giudizi.
  5. La mia vita è sempre in pericolo, ma io non dimentico la tua legge.
  6. Gli empi mi hanno teso dei lacci, ma io non mi sono allontanato dai tuoi precetti.
  7. Le tue testimonianze sono la mia eredità per sempre, esse sono la gioia del mio cuore.
  8. Ho messo il mio impegno a praticare i tuoi statuti, sempre, sino alla fine.

Marcello Cicchese
gennaio 2008

Il peggiore dei profeti
MATTEO

Capitolo 12
  1. Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
  2. Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!

GIONA

Capitolo 1
  1. La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
  2. 'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
  3. Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
  9. Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
  11. E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
  13. Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
  14. Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.

Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'

Marcello Cicchese
febbraio 2015

Salmo 27
Salmo 27
  1. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò?
    Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
  2. Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
  3. Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
  4. Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
  5. Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
  6. E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.

  7. O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
  8. Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!»
    Io cerco il tuo volto, o Signore.
  9. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
  10. Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
  11. O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
  12. Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
  13. Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
  14. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!

Marcello Cicchese
dicembre 2007

Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015



Allerta terrorismo, Israele avverte: l’Iran vuole attaccare le Olimpiadi

Il capo della diplomazia israeliana, Israel Katz, ha inviato una lettera al Quai d’Orsay: «Vogliono colpire la nostra delegazione»

di Giusy Iorlano

FOTO
La squadra olimpica israeliana all'aeroporto Ben Gurion in partenza per Parigi
Misure di sicurezza senza precedenti nella capitale francese, già blindata alla vigilia della cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici di Parigi 2024, mentre arrivano potenziali minacce di attentati durante l’atteso evento sportivo. Il livello di allerta è altissimo soprattutto per il rischio di un atto terroristico di matrice islamista, ancora di più dopo l’avviso trasmesso a Parigi da Israele.

• La lettera al ministro degli Esteri francese
  Il capo della diplomazia israeliana, Israel Katz, ha avvisato la Francia del rischio di attentati terroristici contro la delegazione israeliana da parte di terroristi legati all’Iran. Una lettera al ministro degli Esteri francese Stephane Sejournè, citata dal Times of Israel, paventa un possibile «complotto sostenuto dall’Iran per attaccare la delegazione israeliana alle Olimpiadi di Parigi» da parte di chi «cerca di minare il carattere celebrativo di questo gioioso evento». Gli 88 atleti israeliani presenti ai Giochi di Parigi sono soggetti a protezione 24 ore su 24 da parte dei servizi di sicurezza francesi e sono anche sorvegliati da funzionari dello Shin Bet, per le minacce di cui sono oggetto a causa della guerra a Gaza.
  «Attualmente disponiamo di valutazioni riguardanti la potenziale minaccia rappresentata dai terroristi iraniani e da altre organizzazioni terroristiche che mirano a compiere attacchi contro i membri della delegazione israeliana e i turisti israeliani durante le Olimpiadi», ha scritto Katz.
  Nelle scorse ore, la procura federale belga ha annunciato l’arresto di sette persone nell’ambito di una serie di perquisizioni in tutto il Paese che avevano come obiettivo le attività di un terrorista e la possibile preparazione di un attentato. «In questa fase non abbiamo dettagli sui luoghi o sugli obiettivi, ma ciò che è stato trovato suggerisce che si stava preparando un attacco», ha detto Arnaud d’Oultremont, un portavoce dell'ufficio del pubblico ministero.
  Inoltre, da qualche giorno è in circolazione sui social media un video con un militante di Hamas che minaccia la Francia, ma per esperti di sicurezza sarebbe «un falso» da attribuire alla propaganda filorussa. Nel filmato un uomo, con il volto nascosto da una kefiah e con una bandiera palestinese sul petto, accusa la Francia di sostenere Israele, prima di brandire quella che sembra la testa di Marianna, figura simbolica della Repubblica francese, con un berretto frigio, decapitata e insanguinata. E' stato diffuso da siti e profili social spesso non autenticati e utilizzati per scopi di propaganda e disinformazione da parte di reti russe, anche in Africa.

(Milano Finanza, 26 luglio 2024)

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Gli incontri di Netanyahu con Biden e Harris

di Ugo Volli

• La visita alla Casa Bianca
  Dopo il grande discorso al Congresso, per Netanyahu ieri è stato il giorno degli incontri alla Casa Bianca, prima con il presidente Biden e poi separatamente con la vicepresidente e probabile candidata democratica Kamala Harris. Da quando nel dicembre del 2022 si è costituito il governo israeliano di centrodestra, Netanyahu non era mai stato invitato nella sede della presidenza americana, com’è consueto per i primi ministri di Israele, anche se in questo periodo si è incontrato alcune volte con Biden. Dunque la visita stessa ha un significato politico di riconoscimento e di accordo, pur nelle differenze emerse fra gli alleati in questi mesi.

• Il colloquio con Biden
  L’incontro di Netanyahu con Biden, probabilmente l’ultimo durante questa presidenza, ha avuto un tono soprattutto affettuoso. Il primo ministro di Israele ha ringraziato di nuovo, come aveva fatto nel discorso al Congresso, il presidente per il suo lungo impegno, esprimendo apprezzamento per una collaborazione durata decenni; Biden ha iniziato il suo intervento ricordando il suo incontro con Golda Meir, cui assisteva un giovane suo collaboratore di nome Rabin. Sono passati più di cinquant’anni… Dopo un colloquio personale, all’incontro hanno partecipato le delegazioni e Netanyahu, inclusi i rapiti e le loro famiglie. Per quel che se ne sa non ci sono state decisioni politiche nuove: Biden ha insistito sulla possibilità di un accordo di cessate il fuoco e Netanyahu ha illustrato la posizione israeliana, che accetta in linea di principio la proposta americana, con le note condizioni. Ma è evidente che le trattative con l’attuale amministrazione non avvengono al livello del presidente, semmai passano per il segretario di stato Blinken, anche lui presente alla Casa Bianca, ma che interagisce continuamente con la leadership israeliana, anche con frequenti visite in Medio Oriente.

• Incontro con Kamala Harris
  Più nuovo e più delicato era l’incontro con Kamala Harris, personaggio nuovo che potrebbe diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti, con cui Netanyahu non ha avuto quasi contatti in passato. Harris ha un marito ebreo, ma si appoggia ai settori più di sinistra del partito democratico e viene da uno stato, la California, che è la culla dell’atteggiamento “woke” che è tendenzialmente anti-israeliano L’incontro personale, a quanto dicono le indiscrezioni è andato bene, ma subito dopo Harris ha fatto una dichiarazione in cui precisa la posizione sulla guerra, evidentemente pensando alla campagna elettorale.

• La dichiarazione di Harris
  “Ho avuto un incontro onesto e costruttivo con il primo ministro Netanyahu, gli ho detto che mi assicurerò sempre che Israele possa difendersi, anche contro l’Iran e le sue milizie, come Hamas e Hezbollah. Ho sempre avuto un impegno per l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele, che ha il diritto di difendersi, ma è importante il modo in cui lo fa. Hamas ha iniziato la guerra massacrando 1.200 persone, alcuni americani sono tuttora tenuti in ostaggio. Ho espresso la mia preoccupazione per la sofferenza a Gaza, l’uccisione di civili e la terribile situazione umanitaria. Ciò che è accaduto a Gaza è devastante: immagini di persone affamate in fuga verso la salvezza, non possiamo ignorarne la sofferenza e la tragedia, non starò in silenzio. Grazie al presidente, ora c’è un accordo sul tavolo. È giunto il momento che la guerra finisca in modo che Israele sia al sicuro, gli ostaggi siano liberati, la sofferenza a Gaza finisca e i palestinesi ricevano il loro diritto alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione. Ho detto a Netanyahu che era ora di concludere l’accordo di tregua”.

• Delusione israeliana
  La reazione israeliana a questo discorso, in particolare alla richiesta di “terminare subito la guerra” è stata molto criticata. E’ uscita una indiscrezione attribuita a “funzionari israeliani” in cui si dice, fra l’altro: “La dichiarazione di Kamala dopo l’incontro è stata molto più critica di ciò che ha detto a Netanyahu a porte chiuse”, aggiungendo che Netanyahu è turbato dal fatto che Kamala abbia identificato l’obiettivo della trattativa sugli ostaggi come la fine della guerra, mentre Israele sostiene che deve poter riprendere i combattimenti per completare lo smantellamento di Hamas. “Quando i nostri nemici vedono che c’è un divario tra Stati Uniti e Israele, non si impegnano a cercare accordi e puntano verso l’escalation regionale. Ci auguriamo che le critiche pubbliche di Harris nei confronti di Israele non diano ad Hamas l’impressione che ci sia un divario tra Stati Uniti e Israele e di conseguenza rendano difficile il raggiungimento dell’accordo”. In sostanza è chiaro che Harris intende muoversi già in campagna elettorale accentuando la distanza fra Israele e Usa e che se venisse eletta i rapporti fra i due alleati sono destinati a incontrare un periodo difficile. Oggi Netanyahu vola in Florida a incontrare l’altro candidato ed ex presidente Donald Trump.

(Shalom, 26 luglio 2024)

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Kamala Harris danneggia gli sforzi per un accordo sugli ostaggi

di Gabor H. Friedman

Secondo un alto funzionario israeliano, il fatto che Kamala Harris abbia sottolineato pubblicamente la “terribile crisi umanitaria” a Gaza e la necessità di “porre fine alla guerra” è stato dannoso per i negoziati sugli ostaggi arrivati ad un punto cruciale.
  La vicepresidente ha sollevato la sua preoccupazione anche riguardo alla situazione umanitaria di Gaza durante il suo incontro con Netanyahu, osserva il funzionario israeliano, aggiungendo che il premier ha offerto ad Harris un resoconto “dettagliato e fattuale” della situazione sul campo a Gaza, e che ha respinto le sue affermazioni riguardo all’acuta insicurezza alimentare, alla sofferenza dei civili e all’alto numero di persone innocenti uccise.
  Il funzionario fa riferimento a una direttiva impartita da Netanyahu dopo che Israele era finito sotto tiro all’inizio della guerra per le foto di uomini palestinesi legati e spogliati fino alla biancheria intima dopo essere stati arrestati dalle truppe israeliane. I sospetti erano combattenti di Hamas che Israele voleva confermare non avessero addosso esplosivi. In seguito al clamore suscitato dal filmato, Netanyahu ha ordinato all’IDF di permettere ai sospetti di rivestirsi immediatamente dopo il completamento delle ispezioni.
  “Il problema è davvero il danno ai civili palestinesi?”, si chiede il funzionario israeliano.
  “Cosa dovrebbe pensare Hamas quando sentirà questo?”, continua il funzionario, suggerendo che tali discorsi porteranno il gruppo terroristico ad inasprire le sue richieste. “Spero che non porti a una regressione nei colloqui, perché abbiamo fatto molti progressi”.
  Nonostante la delusione dei funzionari israeliani per le dichiarazioni pubbliche di Harris, essi ipotizzano che i legami con l’amministrazione Biden non si deterioreranno man mano che il vicepresidente e presunto candidato democratico assumerà un ruolo più ampio.
  “Siamo su un percorso di cooperazione e di chiusura delle lacune e perfezionamento dei dettagli… ma è per questo che la conferenza stampa di Harris è stata così problematica”, afferma il funzionario israeliano.
  Poco prima in un briefing con i giornalisti con riferimento alla conferenza stampa di Kamala Harris dove la vice-presidente aveva espresso “perplessità” sulla guerra a Gaza, un alto funzionario israeliano aveva affermato: “Spero che le dichiarazioni rilasciate da Harris nella sua conferenza stampa non vengano interpretate da Hamas come un chiaro segnale di disaccordo tra Stati Uniti e Israele, rendendo così più difficile la conclusione di un accordo”.
  “Quanto più i nostri nemici vedono che c’è un completo allineamento di posizioni tra Israele e gli Stati Uniti, tanto più aumentiamo le possibilità di garantire il rilascio degli ostaggi e diminuiamo le possibilità di una guerra regionale”, ha aggiunto il funzionario israeliano. “Quanto più il divario si allarga tra i nostri paesi, tanto più ci allontaniamo da un accordo e quindi aumentiamo anche la possibilità di un’escalation regionale”.

(Rights Reporter, 26 luglio 2024)

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Saldatura strutturale, tuttavia l’Iran adesso è più forte

di Niram Ferretti

Nel discorso che ha tenuto ieri al Congresso degli Stati Uniti, interrotto ripetutamente da applausi e standing ovation nei suoi punti più salienti, Benjamin Netanyahu ha messo in luce con chiarezza e determinazione alcuni punti salienti della guerra a Gaza che si appresta a entrare nel suo decimo mese, come conseguenza dell’eccidio perpetrato da Hamas  in Israele il 7 ottobre scorso.
Il premier israeliano ha evidenziato che si tratta di una guerra che pone il confronto tra la barbarie e la civiltà. Da una parte i jihadisti che il 7 ottobre hanno fatto il loro ingresso in Israele uccidendo barbaramente 1200 cittadini, uomini, donne, bambini, entrando nei kibbuzim a sud, e, casa per casa, cercando e assassinando nel modo più atroce gli abitanti, quindi rapendone 255, dall’altra, l’esercito israeliano, che, con il massimo impegno di minimizzare la morte dei civili, ha risposto all’attacco subito dichiarando guerra a Hamas. A questo proposito, Netanyahu ha voluto menzionare il colonnello John Spencer, tra i massimi esperti di guerra urbana, il quale ha evidenziato come Israele abbia adottato “più precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi esercito nella storia e oltre quanto richiesto dal diritto internazionale”.
Questo confronto tra barbarie e civiltà, ed è questo uno degli aspetti fondamentali dell’intervento di Netanyahu, pone strutturalmente sullo stesso versante Israele e gli Stati Uniti, e dall’altro l’Iran, la principale forza destabilizzatrice del Medio Oriente, finanziatore di Hamas, di Hezbollah e degli Houti. Netanyahu ha voluto ricordare che il principale avversario dell’Iran non è Israele ma sono gli Stati Uniti.

    “Il regime iraniano ha combattuto gli Stati Uniti dal momento in cui è salito al potere. Nel 1979 prese d’assalto l’ambasciata americana e tenne in ostaggio decine di americani per 444 giorni. Da allora, i terroristi per procura dell’Iran hanno preso di mira gli Stati Uniti in Medio Oriente e altrove. A Beirut hanno ucciso 241 militari americani. In Africa hanno bombardato le ambasciate americane. In Iraq hanno fornito esplosivi per mutilare e uccidere migliaia di soldati americani. Negli Stati Uniti mandarono addirittura gli squadroni della morte. Hanno inviato qui gli squadroni della morte per assassinare un ex segretario di stato e un ex consigliere per la sicurezza nazionale. E come abbiamo appreso di recente, hanno persino minacciato sfacciatamente di assassinare il presidente Trump”.

Nel combattere Hamas a Gaza, Israele non sta solo combattendo per se stesso, ma anche per gli Stati Uniti, questo è un concetto che Netanyahu ha voluto ribadire, così come ha sottolineato che gli Stati Uniti, nei decenni hanno provveduto a fornire ad Israele sostegno militare, ma non senza una contropartita rilevante da parte dello Stato ebraico.

    “Per decenni, l’America ha fornito a Israele una generosa assistenza militare, e un Israele grato ha fornito all’America informazioni decisive che hanno salvato molte vite. Abbiamo sviluppato congiuntamente alcune delle armi più sofisticate sulla Terra. Scelgo attentamente le mie parole: abbiamo sviluppato congiuntamente alcune delle armi più sofisticate sulla Terra, che aiutano a proteggere entrambi i nostri paesi”.

La saldatura di intelligence e militare tra Israele e gli Stati Uniti è una saldatura strutturale. Ciò che si congiunge sull’asse valoriale è congiunto su quello pratico. L’Iran e tutti i suoi delegati si pone sul versante opposto, e qui va fatta una considerazione; l’Amministrazione Biden, che Netanyahu ha ritualmente ringraziato per la sua vicinanza a Israele, sta proseguendo nei confronti del regime di Teheran la stessa politica di appeasement messa in atto dall’Amministrazione Obama, e conclusasi nel 2015, con la stipula dell’accordo sul nucleare iraniano. E di fatto, in controluce al discorso di ieri, appare quello precedente a questo, del marzo 2015, in cui Netanyahu metteva in guardia dal pericolo di un simile accordo, non solo per la sicurezza di Israele ma per quella degli Stati Uniti.
Nel 2021 Joe Biden tolse le sanzioni applicate da Donald Trump dal 2018 in poi, scongelando 250 miliardi di dollari bloccati e permettendo alle esportazioni iraniane di greggio di arrivare al loro picco. Nel novembre 2020, quando Biden vinse le elezioni, l’Iran arricchiva l’uranio al 3,67%, mentre adesso è arrivato al 90%.
Auspicare sulla carta la sconfitta di Hamas, mentre, al contempo si arricchiscono le casse del suo principale sponsor e di quello che Netanyahu ha indicato giustamente come un nemico accanito di entrambi i paesi, evidenzia, se ce ne fosse ancora bisogno, come questa amministrazione americana svolga una politica dei due forni che certamente non giova agli interessi di Israele, ma nemmeno ai propri. Donald Trump, che Netanyahu ha doverosamente ringraziato per quello che ha fatto per Israele e con il quale si incontrerà venerdì, è tra coloro che lo sanno meglio.

(L'informale, 26 luglio 2024)

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Parashat Pinchas: il vero valore di un leader e il senso del tempo

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

La parashà di questa settimana contiene uno dei grandi principi della leadership. Il contesto è questo: Mosè, sapendo di non essere destinato a guidare la generazione successiva attraverso il Giordano verso la terra promessa, chiese a Dio di nominare un successore. Si ricordò di ciò che era accaduto quando si era allontanato dagli israeliti per soli 40 giorni. Erano stati presi dal panico e avevano costruito un vitello d’oro. Anche quando era presente, c’erano stati momenti di conflitto e, nella memoria recente, c’era anche la ribellione di Korach e di altri contro la sua leadership. La possibilità di una spaccatura o di uno scisma se fosse morto senza un successore designato era immensa. Così disse a Dio: “Che il Signore, il Dio che dà respiro a tutti gli esseri viventi, nomini qualcuno su questa comunità che esca davanti a loro e entri davanti a loro, uno che li guidi fuori e li porti dentro. Il popolo del Signore non sia come pecore senza pastore”. (Numeri 27:16-17)
Dio scelse Giosuè e Mosè lo fece entrare. Un dettaglio nella richiesta di Mosè, tuttavia, mi ha sempre lasciato perplesso. Mosè chiese un capo che “uscisse davanti a loro e rientrasse davanti a loro, uno che li guidasse fuori e li facesse rientrare”. Questo è sicuramente dire due volte la stessa cosa. Se esci davanti al popolo, lo guidi fuori. Se entri davanti al popolo, lo fai rientrare. Perché allora dire due volte la stessa cosa?
La risposta viene dall’esperienza diretta della leadership stessa. Una delle arti della leadership – ed è un’arte, non una scienza – è il senso del tempo, il sapere cosa è possibile fare e quando.
A volte il problema è tecnico. Nel 1981 c’era la minaccia di uno sciopero dei minatori. Margaret Thatcher sapeva che il Paese aveva scorte di carbone molto limitate e che non avrebbe potuto sopravvivere a uno sciopero prolungato. Così negoziò un accordo. In pratica, si arrese. In seguito, in modo molto silenzioso, ordinò di aumentare le scorte di carbone. La volta successiva che ci fu una disputa tra i minatori e il governo (1984-1985), c’erano grandi riserve di carbone. La Thatcher si oppose ai minatori e, dopo molte settimane di sciopero, questi ammisero la sconfitta. I minatori possono aver avuto ragione entrambe le volte, o torto entrambe le volte, ma nel 1981 il Primo Ministro sapeva di non poter vincere, e nel 1984 sapeva di poterlo fare.
Una sfida molto più temibile si presenta quando sono le persone, e non i fatti, a dover cambiare. Il cambiamento umano è molto lento. Mosè lo scoprì nel modo più drammatico, attraverso l’episodio delle spie. Un’intera generazione perse la possibilità di entrare nella terra promessa. Nati in schiavitù, non avevano il coraggio e l’indipendenza mentale per affrontare una lotta prolungata. Ci sarebbe voluta una nuova generazione nata in libertà.
Se non sfidi le persone, non sei un leader. Ma se le sfidi troppo o troppo in fretta, succederà un disastro. Prima ci sarà il dissenso. Le persone inizieranno a lamentarsi. Poi ci saranno le sfide alla tua leadership. Esse diventeranno sempre più clamorose, più pericolose. Alla fine ci sarà una ribellione o peggio.
Il 13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca, Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat si strinsero la mano e firmarono una Dichiarazione di principi destinata a far progredire le parti verso una pace negoziata. Il linguaggio del corpo di Rabin, quel giorno, fece capire che aveva molte remore, ma continuò a negoziare. Nel frattempo, mese dopo mese, il disaccordo pubblico all’interno di Israele crebbe.
Nell’estate del 1995, due fenomeni furono particolarmente eclatanti: il linguaggio sempre più offensivo usato tra le fazioni e diversi appelli pubblici alla disobbedienza civile, che suggerivano agli studenti in servizio nelle forze di difesa israeliane di disobbedire agli ordini dell’esercito se fossero stati chiamati a evacuare gli insediamenti come parte di un accordo di pace.
Gli appelli alla disobbedienza civile su qualsiasi scala significativa sono un segno di una rottura della fiducia nel processo politico e di una profonda spaccatura tra il governo e una parte della società. Anche il linguaggio violento nell’arena pubblica è pericoloso. Testimonia una perdita di fiducia nella ragione, nella persuasione e nel dibattito civile.
Il 29 settembre 1995 ho pubblicato un articolo a sostegno di Rabin e del processo di pace. In privato, tuttavia, gli scrissi e lo esortai a dedicare più tempo a vincere la discussione all’interno di Israele. Non bisognava essere un profeta per vedere il pericolo che correva nei confronti dei suoi concittadini ebrei.
Passarono le settimane e non ebbi sue notizie. Poi, il 4 novembre 1995, a Motzei Shabbat, sentimmo la notizia che era stato assassinato. Andai al funerale a Gerusalemme. La mattina dopo, martedì 7 novembre, mi recai all’ambasciata israeliana a Londra per porgere le mie condoglianze all’ambasciatore. Mi consegnò una lettera, dicendomi: “È appena arrivata questa per lei”.
L’abbiamo aperta e l’abbiamo letta insieme in silenzio. Era di Yitzhak Rabin, una delle ultime lettere che ha scritto. Era la sua risposta alla mia lettera. Era lunga tre pagine, profondamente commovente, un’eloquente riaffermazione del suo impegno per la pace. Ancora oggi è conservata, incorniciata, sulle pareti del mio ufficio. Ma era troppo tardi.
Questa, nei momenti critici, è la più difficile delle sfide della leadership. Quando i tempi sono normali, il cambiamento può avvenire lentamente. Ma ci sono situazioni in cui la leadership richiede che le persone cambino, e questo è qualcosa a cui resistono, soprattutto quando vivono il cambiamento come una forma di perdita.
I grandi leader vedono la necessità di cambiare, ma non tutti lo fanno. Le persone si aggrappano al passato. Si sentono al sicuro nel modo in cui le cose erano. Vedono la nuova politica come una forma di tradimento. Non è un caso che alcuni dei più grandi leader – Lincoln, Gandhi, John F. e Robert Kennedy, Martin Luther King, Sadat e lo stesso Rabin – siano stati assassinati.
Un leader che non riesce a lavorare per il cambiamento non è un leader. Ma un leader che tenta un cambiamento eccessivo in un tempo troppo breve fallirà. Questo, in definitiva, è il motivo per cui né Mosè né tutta la sua generazione (con una manciata di eccezioni) erano destinati ad entrare nella terra. È un problema di tempi e ritmi, e non c’è modo di sapere in anticipo cosa sia troppo veloce e cosa troppo lento, ma questa è la sfida che un leader deve sforzarsi di affrontare.
Questo è ciò che Mosè intendeva quando chiese a Dio di nominare un leader “che li preceda e avanzi, che li conduca fuori e li faccia rientrare”. Si trattava di due richieste distinte. La prima – “uscire davanti a loro ed entrare davanti a loro” – riguardava qualcuno che li guidasse dando l’esempio personale senza aver paura di affrontare nuove sfide. Questa è la parte più facile.
La seconda richiesta – quella di qualcuno che “li conduca fuori e li riporti dentro” – è più difficile. Un leader può essere davanti e al contempo vedere, quando si gira, che nessuno lo segue. È uscito “davanti” alla gente, ma non l’ha “condotta fuori”. Ha guidato, ma la gente non l’ha seguito. Il suo coraggio non è in dubbio. E nemmeno la sua visione. Ciò che è sbagliato in questo caso è semplicemente il suo senso del tempo. Il suo popolo non è ancora pronto.
Sembra che alla fine della sua vita Mosè si sia reso conto di essere stato impaziente, aspettandosi che le persone cambiassero più velocemente di quanto fossero in grado di fare. Questa impazienza è evidente in diversi punti del libro dei Numeri, soprattutto quando perse le staffe a Merivà, si arrabbiò con il popolo e colpì la roccia, perdendo così la possibilità di guidare il popolo attraverso il Giordano e nella terra promessa.
Guidando il popolo, troppo spesso ha trovato persone non disposte a seguirlo. Rendendosene conto, è come se avesse esortato il suo successore a non commettere lo stesso errore. La leadership è una battaglia costante tra i cambiamenti necessari e quelli che le persone sono disposti a fare. È per questo che i leader più visionari sembrano, nel corso della loro vita, di aver fallito. Così è stato. E così sarà sempre. Ma in realtà non hanno fallito. Il loro successo arriva quando, come nel caso di Mosè e Giosuè, altri completeranno ciò che hanno iniziato.
Di Rabbi Jonathan Sacks 5771, 5484

(Bet Magazine Mosaico, 26 luglio 2024)
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Parashà della settimana: Pinehas (Fineas)

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Netanyahu negli Usa parla al Congresso: “Batteremo l’Iran anche per gli alleati”

Il premier israeliano a Washington pronuncia discorso bipartisan. Il ricordo del 7 ottobre, con lui Noa Agamani e i soldati feriti. Intanto negli Emirati avanza un piano per Gaza che coinvolge l’Italia.

di Paolo Mastrolilli

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NEW YORK — «Questo non è uno scontro tra le civiltà, ma tra la civiltà e la barbarie». E la barbarie è manovrata dall’Iran, nemico comune di Israele, Usa e Occidente, contro cui bisognerebbe costruire una “Alleanza di Abramo” per sconfiggere il terrorismo e ridisegnare il Medio Oriente. È il cuore del messaggio lanciato ieri da Netanyahu, nel discorso tenuto al Congresso.
  Il premier dello Stato ebraico era stato accolto da scetticismo e proteste, anche per le spaccature della campagna presidenziale, al punto che la candidata democratica Harris e il vice repubblicano Vance hanno disertato l’appuntamento. Però ha scelto un tono bipartisan, ringraziando Biden e Trump, perché l’obiettivo era rinsaldare l’alleanza con gli Usa, chiunque vinca il 5 novembre.
  Netanyahu ha iniziato raccontando gli orrori del 7 ottobre, ricordando gli ostaggi come Noa Argamani presente in aula, ed esaltando l’eroismo dei soldati intervenuti a salvare i civili. Poi però si è rivolto contro i manifestanti che fuori dal Congresso contestavano il suo intervento, perché «si sono schierati col male».
  Hamas, come Hezbollah o gli Houti, è solo il braccio di questo male, che ha la mente altrove: «L’Iran finanzia le proteste, perché vuole provocare il caos negli Usa». Perciò gli studenti che hanno paralizzato le università americane, e i docenti che li hanno difesi, «sono gli utili idioti» di Teheran. Discorso simile per la Corte dell’Aia, che vorrebbe arrestarlo per crimini contro l’umanità, mentre lui sostiene che «il nostro esercito ha fatto più di quanto richiesto dalla legge per proteggere i civili», usati invece da Hamas come scudi.
  Il premier ha inquadrato questi fenomeni nell’antisemitismo risorgente, ma ha puntato il dito soprattutto contro l’Iran, che è il regista degli attacchi, ma dopo Israele mira all’America e all’intero Occidente, come aveva anticipato l’ayatollah Khomeini minacciando l’esportazione della rivoluzione islamica. Perciò ha spiegato che «la nostra lotta è la vostra lotta», e ha usato le parole di Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale per chiedere aiuto: «Dateci gli strumenti per finire il lavoro. Vinceremo, e la nostra vittoria sarà la vostra».
  Per il futuro ha detto che «non vogliamo occupare Gaza, ma demilitarizzarla, consegnandola ad un’autorità civile palestinese che non abbia l’obiettivo di uccidere gli ebrei». Da qui si potrebbe partire per ridisegnare l’intero Medio Oriente, partendo dalla “Alleanza di Abramo” che isoli l’Iran.
  Sullo sfondo del discorso, e degli incontri di oggi con Biden e Harris, e domani Trump, si muovono passi per cercare una soluzione di lungo termine. Il sito Axios ha rivelato che giovedì gli Emirati Arabi Uniti hanno ospitato ad Abu Dhabi un incontro a cui hanno partecipato il ministro degli Esteri Abdullah Bin Zayed, l’inviato del presidente Biden per il Medio Oriente Brett McGurk e del dipartimento di Stato Tom Sullivan, e il ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer, ex ambasciatore negli Usa e stretto consigliere del premier.
  Sul Washington Post David Ignatius ha spiegato che lo scopo era discutere un piano per il dopoguerra, partendo dal meccanismo già usato con gli Accordi di Abramo, che potrebbe coinvolgere l’Italia. Il primo passo sarebbe la formazione di un governo unitario gestito dall’Autorità Palestinese, affidato all’ex premier Salam Fayyad. Ciò consentirebbe di avviare la “fase due” del piano di pace illustrato da Biden e passare alla riorganizzazione della regione. L’autorità guidata da Fayyad avrebbe il potere di invitare partner internazionali, col mandato di un anno per stabilizzare Gaza. Si tratterebbe di fornire intelligence, aiuti, ma anche sicurezza.
  I Paesi considerati sono Emirati, Egitto, Marocco e Qatar tra gli arabi, mentre fra gli altri sono menzionati Italia, Ruanda, Brasile, Indonesia e un paese dell’Asia centrale. L’operazione verrebbe approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu, per evitare il veto della Russia nel Consiglio di Sicurezza. Seguendo la proposta avanzata dal ministro della Difesa israeliano Gallant, la zona di sicurezza garantita dalla presenza internazionale si espanderebbe progressivamente dal Nord della Striscia verso Sud. L’accordo non c’è ancora, ma il fatto che Dermer abbia aperto la porta lascia sperare che anche Netanyahu non sia contrario.

(la Repubblica, 25 luglio 2024)


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Harris e Vance disertano l’aula durante il discorso di Netanyahu. Scontri alle proteste pro Palestina

La democratica e il vice di Trump si contendono il voto musulmano.

di Anna Lombardi

NEW YORK — Decine di banchi vuoti, almeno un cartello con scritto “criminale di guerra” — stretto fra le mani della deputata del Michigan di origini palestinesi Rashida Tlaib, che per questo ha litigato con la collega della Florida Anna Paulina Luna — applausi bipartisan con tanto di standing ovation (con legislatori rimasti però ostinatamente seduti), e consensi meno caldi dal lato dell’aula dove sedevano i dem.
  È un Congresso diviso quello che ieri ha accolto il primo discorso davanti alle camere riunite dal 2015 che il premier Benjamin Netanyahu ha pronunciato in una Washington blindata dove già da martedì si susseguono manifestazioni, scontri ed arresti. Fragorose proteste di migliaia di manifestanti filo palestinesi che hanno assediato il premier israeliano anche davanti al suo hotel, l’iconico Watergate, contro i quali la polizia ha usato anche spray al peperoncino.
  Ci sono state defezioni importanti soprattutto fra le file dei dem, ma anche qualche repubblicano si è defilato: come il deputato Thomas Massie del Kentucky, un trumpiano che però ha spesso posizioni di politica estera diverse da quelle del partito. Circa cinquanta erano già state annunciate, altre sono avvenute mentre l’oratore, che ha parlato per circa un’ora, era sul podio. Grande e criticata assente la vicepresidente Kamala Harris che, per ruolo, avrebbe potuto moderare la seduta. «Impegni elettorali presi in precedenza» si è giustificata, ma qualcuno insinua che in un momento politicamente delicato la neocandidata alla Casa Bianca abbia preferito non farsi ritrarre col primo ministro israeliano che incontrerà comunque oggi in privato.
  «Una decisione irragionevole e inconcepibile» l’ha attaccata lo speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson, dimenticando di bacchettare l’altro grande assente in ordine d’importanza, il candidato repubblicano alla vicepresidenza J.D. Vance. Anche lui ufficialmente altrove per motivi elettorali ma c’è chi sussurra che la vera ragione dell’assenza sia quella di non lasciare a Harris le intere simpatie dell’elettorato arabo. «Sono solidamente schierato con il popolo di Israele», si è limitato a far sapere.
  Tra i numerosi big dell’asinello a non partecipare in tanti avevano definito la loro scelta una «forma di protesta contro i sanguinosi bombardamenti di Gaza». Tra gli assenti anche l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, che invece ha preferito incontrare le famiglie israeliane vittime delle azioni di Hamas, la pasionaria Alexandria Ocasio-Cortez, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Insieme a figure più moderate come il deputato californiano di origini indiane Ami Bera e il potente leader afroamericano della Carolina del Sud James Clyburn. Parole molto dure erano state pronunciate dal senatore “socialista” Bernie Sanders: «Sono d’accordo con la Corte penale internazionale e con la commissione indipendente dell’Onu sul fatto che Netanyahu e Yahya Sinwar siano criminali di guerra». I leader dem di Camera e Senato erano lì al suo ingresso, lo hanno salutato solo con un cenno del capo e se ne sono andati poco dopo; mancavano anche tutti i membri democratici della commissione Esteri del Senato: «Vuol solo rafforzare il suo sostegno in patria e noi non vogliamo essere parte di propaganda politica», hanno detto.
  Non uno schieramento compatto, comunque: il senatore moderato della Virginia Joe Manchin e quello della Pennsylvania John Fetterman sono stati gli unici non repubblicani a stringere la mano a Netanyahu dopo il discorso.

(la Repubblica, 25 luglio 2024)


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Il discorso di Netanyahu al Congresso Usa

di Ugo Volli

• UNA PROVA DIFFICILE
  Con un grande discorso al Congresso americano riunito per ascoltarlo, Benjamin Netanyahu ha superato con successo una delle prove più difficili della sua lunga carriera politica. Era la quarta volta che Netanyahu parlava al Congresso, un record che nessun altro leader straniero ha uguagliato nella storia. Ma le circostanze erano particolarmente difficili. Metà dei democratici, a partire dalla vicepresidente Kamala Harris che per ufficio presiede il Senato, avevano annunciato la loro assenza, con pretesti vari o esplicitamente per boicottarlo. L’America è profondamente divisa in due fronti contrapposti su tutto e purtroppo anche sulla valutazione della guerra di autodifesa di Israele. L’annuncio di qualche giorno fa della rinuncia di Joe Biden a correre per le elezioni presidenziali ha completamente cambiato il quadro politico, vincolando ogni tema a una campagna elettorale estremamente polarizzata e polemica. Il compito di Netanyahu era di cercare di mostrare ai parlamentari e al popolo americano che il sostegno a Israele è essenziale e dev’essere condiviso da tutti. Ci è riuscito con un discorso di quasi un’ora, interrotto da grandi applausi in piedi quasi ad ogni frase.

• IL 7 OTTOBRE
  Il punto di partenza dell’intervento è che la guerra fra Israele e Hamas “non è uno scontro di civiltà” (secondo la nota analisi di Samuel P. Huntington che un paio di decenni fa ha identificato i conflitti culturali come matrice della politica internazionale contemporanea), ma “uno scontro fra civiltà e barbarie”. Netanyahu ha paragonato il 7 ottobre all’attacco di Pearl Harbour e all’attentato alle Twin Towers (solo “20 volte più grande in rapporto alla popolazione”), ha riassunto i terribili eventi di quel giorno, ha presentato ai deputati Noa Argamani, la ragazza rapita e liberata dopo una lunga prigionia dall’intervento dell’esercito israeliano, e anche alcuni soldati che hanno compiuto in quel giorno atti di eroismo, ha polemizzato molto duramente coi manifestanti anti-israeliani (che “non conoscono la differenza fra bene e male e si schierano dalla parte degli assassini”). Ma ha evitato di polemizzare direttamente coi democratici che li sostengono o “comprendono il loro impulso morale”, come ha detto Kamala Harris di recente.

• RINGRAZIAMENTI
  Anzi il Primo Ministro israeliano non ha lesinato ringraziamenti al presidente Biden, ricordando la sua visita in Israele dieci giorni dopo il 7 ottobre, il suo autodefinirsi “sionista”, l’appoggio americano da lui deciso in occasione degli attacchi. Lo spirito “bipartisan” è stato rispettato quando poco dopo nel discorso Netanyahu ha citato Trump, non solo per esprimergli solidarietà per l’attentato di pochi giorni fa, ma anche per ringraziarlo di quel che ha fatto durante la sua presidenza: gli accordi di Abramo, lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan.

• L’IRAN
  Il nucleo del ragionamento politico ha occupato la seconda parte del discorso. La guerra non è solo contro Hamas, ha detto Netanyahu, e neppure contro Hezbollah e gli Houti. Dietro a questi e agli altri gruppi terroristi c’è l’Iran. E l’obiettivo vero dell’Iran non è Israele ma gli Stati Uniti. L’Iran ha capito dalla “rivoluzione islamica” di Khomeini che deve innanzitutto distruggere Israele per unificare sotto il suo dominio tutto il Medio Oriente e poter usare il suo potere per combattere il sistema occidentale guidato dagli Usa e conquistare il mondo all’Islam. Dunque è l’Iran che va sconfitto. Per questo “quando noi combattiamo questa guerra, lo facciamo per noi, ma anche per voi, la nostra guerra è anche la vostra guerra, la nostra vittoria sarà anche la vostra vittoria”. Noi combattiamo, i nostri soldati sono eroici. Ma abbiamo bisogno dell’appoggio dell’America: devo ripetere quel che ottant’anni fa ha detto Churchill: dateci gli strumenti necessari, cioè le armi e noi ci difenderemo e vinceremo anche per voi.

• VISIONI PER IL DOPOGUERRA
  Dopo aver difeso l’azione dell’esercito israeliano dalle accuse false e infamanti di genocidio a Gaza (perché “è Hamas che usa i civili come scudi umani, che spara da ospedali, scuole, moschee”, mentre Israele si sforza in tutti i modi di evitare i danni ai civili), Netanyahu ha esposto per la prima volta in modo chiaro la sua prospettiva per il dopoguerra. Israele non vuole governare Gaza, ma deve avervi libertà di movimento militare per impedire il ritorno del terrorismo; vi sarà un’amministrazione civile composta da palestinesi non coinvolti con il terrorismo. Sul piano geopolitico più vasto del Medio Oriente, il primo ministro israeliano ha proposto la costituzione di un’ “alleanza di Abramo”, composta da tutti i paesi amici di Israele (o che facciano la pace con esso) e dell’America: come dopo la seconda guerra mondiale l’America costituì la Nato per sconfiggere l’imperialismo sovietico, così bisogna fare ora in Medio Oriente.

• “VI PROMETTO CHE VINCEREMO”
  Tutta il discorso è stato punteggiato dall’impegno fondamentale di Netanyahu: “vi prometto che vinceremo, sconfiggeremo Hamas e libereremo i rapiti, non avrò riposo fino a che non li avrò riportati a casa. La conclusione del discorso è stato il riconoscimento degli Stati Uniti come garanzia della libertà in tutto il mondo, l’appello a “democratici e repubblicani” a continuare ad appoggiare Israele, l’espressione della gratitudine dello stato ebraico al suo grande alleato, La promessa di fedeltà, la convinzione che “quando stiamo assieme, vinciamo contro tutti i nemici della civiltà”. Un grande discorso, il migliore che si potesse fare in queste circostanze, con l’obiettivo di toccare il cuore dell’America più vera e profonda. Oggi Netanyahu vedrà Biden e domani Trump.

(Shalom, 25 luglio 2024)

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Gli Stati Uniti si oppongono alla designazione dell'UNRWA come "organizzazione terroristica”

Miller ha sottolineato la natura controproducente di queste azioni, affermando che non facilitano in alcun modo la consegna di aiuti umanitari ai civili di Gaza.

Una proposta di legge israeliana per etichettare l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) come "organizzazione terroristica" ha suscitato una forte reazione da parte degli Stati Uniti. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha respinto con fermezza questa descrizione mercoledì, invitando il governo israeliano e la Knesset ad abbandonare la proposta di legge.
  Miller ha sottolineato la natura controproducente di queste azioni, affermando che non facilitano in alcun modo la consegna di aiuti umanitari ai civili di Gaza. Ha ribadito il continuo sostegno di Washington al lavoro dell'UNRWA, nonostante le attuali tensioni.
  La proposta di legge, che ha superato una prima lettura nel parlamento israeliano lunedì, chiede di interrompere tutti i legami con l'agenzia delle Nazioni Unite. Il testo dovrà ora essere esaminato più dettagliatamente in commissione. Israele accusa l'UNRWA, che impiega più di 30.000 persone al servizio di 5,9 milioni di palestinesi nella regione, di avere "più di 400 terroristi" tra il suo personale a Gaza. Queste accuse hanno portato gli Stati Uniti a sospendere i finanziamenti all'agenzia, in seguito alle accuse di un possibile coinvolgimento di alcuni dipendenti dell'UNRWA negli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Da allora, tuttavia, diversi Paesi hanno ripreso a sostenere finanziariamente l'agenzia, tra cui Regno Unito, Germania, Unione Europea, Svezia, Giappone e Francia.

(i24, 25 luglio 2024)

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Giovane soldato della mia comunità in condizioni critiche

Adesso hanno colpito uno di noi. Preghiamo per la guarigione del nostro amico Yoni.

di Michael Selutin

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I nostri giovani combattenti non sono mai al sicuro a Gaza

GERUSALEMME - Di Shabbat, come fanno gli ebrei ortodossi, passo molto tempo in sinagoga. Ho il mio posto fisso dove mi siedo al mattino durante le preghiere e di pomeriggio nel mio studio della Torah.
  Qualche settimana fa, durante la preghiera del mattino, improvvisamente una famiglia israeliana si è venuta a sedere nei posti dietro di me, cosa che non mi è affatto piaciuta. La mia congregazione è composta per lo più da "chutznikim", persone che come me sono immigrate in Israele da adulte. Quindi, rispetto ai "sabra”, gli israeliani autentici, siamo più civilizzati. Durante la preghiera non si parla, si resta al proprio posto e si cerca di concentrarsi nel colloquio con Dio.

• Una caotica famiglia sacerdotale
  Questa famiglia invece è composta da alcuni ragazzi che evidentemente hanno difficoltà a stare seduti in silenzio, il che mi disturba durante la mia santa meditazione. Devo dire però che sono molto simpatici, sempre di buon umore. E sono anche Kohanim. In altre parole, sono discendenti del biblico Aron, il primo sacerdote (Kohen) del popolo di Israele.
  In quanto Kohanim, questa famiglia ha il compito di recitare la benedizione sacerdotale sulla congregazione durante la preghiera del mattino, e uno di loro è invitato per primo a pronunciare la benedizione sulla Torah prima della sua lettura. In passato, nella nostra congregazione purtroppo non avevamo sempre dei Kohanim durante le preghiere dello Shabbat, adesso invece ne abbiamo regolarmente tre, il che ci fa molto piacere.
  Qualche settimana fa ho chiesto al padre come mai il figlio maggiore non era venuto alla preghiera del mattino e lui mi ha risposto che in quel momento era in missione a Rafah, a Gaza. "Kol HaKavod!" (Complimenti!) ho detto: “Possa egli essere sicuro e avere successo!".
  Lo Shabbat prima avevo visto il giovane durante le preghiere di mezzogiorno, quando era stato il primo a essere chiamato a recitare la benedizione sulla Torah. Indossava pantaloncini corti, infradito, sorrideva e non sembrava per niente un terrificante militare. Ma quanti diciannovenni con il loro viso lattiginoso hanno l'aspetto di soldati incalliti?

• La terribile notizia
  Quella domenica mattina, come prima cosa mia moglie mi ha chiesto: "Conosci quel ragazzo della nostra congregazione che è stato gravemente ferito a Rafah?".
  "Come, scusa?" Ho pensato di non aver sentito bene e ho subito guardato i messaggi nel gruppo WhatsApp della nostra comunità. Sì, era lì. Il soldato senza nome e gravemente ferito di cui avevo letto la notizia la sera prima era il nostro Kohen! L'avevo visto il giorno prima e in quel momento si trovava in condizioni critiche in ospedale. Probabilmente, al termine dello Shabbat era tornato nella sua unità nella Striscia di Gaza .
  Sembra che l'edificio di Rafah dove si trovava sia stato colpito da un missile anticarro.
  La nostra congregazione ha immediatamente organizzato incontri di preghiera e persino un autobus per portarci al Muro Occidentale a pregare per il nostro giovane. Da allora recitiamo salmi, preghiamo regolarmente per la sua guarigione e cerchiamo di sostenere la famiglia come possiamo.
  Sono passati alcuni giorni e non ho ancora notizie sulle condizioni del nostro santo militare. E devo ammettere che ho paura di chiedere. Finché non sento niente, vuol dire che è ancora vivo, e così deve rimanere.
  Se volete unirvi anche voi alle nostre preghiere per Yoni, pregate per una completa guarigione di Yehonatan Aharon ben (figlio di) Yisraela.

(Israel Heute, 25 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Scholz: armi a Israele e contrasto all’Iran

«Abbiamo fornito armi a Israele e non abbiamo deciso di smettere di farlo», ha dichiarato il cancelliere tedesco Olaf Scholz nel corso del consueto incontro estivo a Berlino con la stampa. Al cancelliere è stato chiesto se il recente parere della Corte internazionale di Giustizia – secondo cui Israele deve «porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati» – possa incidere sul sostegno militare di Berlino a Gerusalemme. Scholz ha replicato che il suo esecutivo non ha preso una decisione in merito e per il momento nulla è cambiato. «Ma naturalmente decidiamo caso per caso», ha aggiunto.
  Secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma tra il 2019 e il 2023 Israele ha importato il 69% delle armi dagli Stati Uniti e il 30% dalla Germania.
  Intanto il governo Scholz prosegue nella stretta contro le organizzazioni islamiche ritenute pericolose. Dopo aver messo al bando due associazioni legate a Hamas a novembre, ora ha ordinato la chiusura del Centro islamico di Amburgo, accusato di fare propaganda per il regime iraniano e di sostenere il gruppo terroristico libanese Hezbollah. La polizia ha perquisito e chiuso la Moschea Blu di Amburgo, una delle più grandi e antiche del paese e gestita dal Centro islamico.
  Secondo i servizi di intelligence tedeschi, ha spiegato la ministra dell’Interno Nancy Faeser, l’organizzazione «diffonde un antisemitismo aggressivo» e «propaga in modo aggressivo e militante l’ideologia della cosiddetta “rivoluzione islamica”» in Germania.
  Anche altre tre moschee, a Berlino, Francoforte e Monaco, sono state perquisite e chiuse. «È molto importante per me fare chiarezza: non stiamo agendo contro una religione. Facciamo una netta distinzione tra gli islamisti, contro i quali intraprendiamo azioni dure, e i molti musulmani che appartengono al nostro paese e vivono liberamente la loro fede», ha affermato Faeser.
  La Moschea Blu è sotto osservazione dal 1993 e nel 2017 è stata formalmente indicata dalle autorità di sicurezza come «strumento» del regime iraniano. Secondo l’intelligence di Berlino, negli ultimi anni il Centro islamico che la gestisce ha «lavorato attentamente per creare una falsa immagine di tolleranza», mentre in segreto promuoveva «la rivoluzione islamica».
  Per Ulricke Becker, direttrice di ricerca del Mideast Freedom Forum di Berlino, il bando del Centro islamico sarebbe dovuto avvenire molto prima. «Non è un centro religioso, ma il più importante avamposto della Repubblica islamica dell’Iran in Europa. Serviva come centro di diffusione dell’ideologia rivoluzionaria ed era direttamente subordinato alla dittatura islamista in Iran», spiega Becker sulla Jüdische Allgemeine. Ora, aggiunge l’esperta, «tutti gli agenti iraniani devono essere espulsi e le strutture del regime in Germania devono essere distrutte». d.r.

(moked, 25 luglio 2024)

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Netanyahu incontra i leader evangelici in vista del suo discorso al Congresso

"I cristiani d'America sono fermamente al fianco di Israele", afferma il pastore John Hagee.

Netanyahu incontra i leader cristiani evangelici a Washington il 23 luglio 2024
Foto1    Foto2
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha trovato il tempo, durante la sua fitta agenda a Washington questa settimana, di incontrare i leader delle due principali comunità di fede che rappresentano il sostegno americano a Israele: la leadership comunitaria ebraica e i leader cristiani evangelici.
In due eventi separati, mercoledì sera, il Primo Ministro ha ringraziato i leader delle comunità per il loro forte sostegno a Israele.
Il Primo Ministro ha sentito che stanno pregando per la restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza, per la protezione dei soldati israeliani e per la sicurezza dello Stato di Israele.
Netanyahu ha anche ringraziato gli evangelici per le loro energiche attività tra i giovani delle loro comunità, incoraggiandoli a continuare a sostenere Israele.
Il Primo Ministro ha affermato di essere molto consapevole del loro profondo impegno nei confronti di Israele e della forza del loro sostegno alla verità e ai valori condivisi.
All'evento cristiano hanno partecipato circa 15-20 leader evangelici pro-Israele. Tra i partecipanti c'erano il pastore di Christians United for Israel (CUFI) John Hagee, il presidente del Family Research Council Tony Perkins, il direttore esecutivo del Philos Project Luke Moon, la televangelista Paula White, il presidente di Friends of Zion Mike Evans e Jordanna McMillen, direttrice della Israel Allies Caucus Foundation.
Era presente anche un gruppo di pastori evangelici latini, tra cui Carlos Ortiz.
Sebbene i due gruppi condividano la fede in Dio e siano entrambi incrollabili nel loro amore e preoccupazione per lo Stato ebraico e nella sua difesa, vi sono alcune importanti differenze tra loro. Mentre per quanto riguarda la scelta politica il gruppo ebraico è diviso, i leader cristiani pro-Israele votano quasi unanimemente i Repubblicani.
E mentre la comunità ebraica è al primo posto per lo Stato ebraico, sia in termini di parentela che di responsabilità, la comunità cristiana che sostiene Israele, più numerosa,  fa molto di più per assicurare il sostegno politico dell'America a Israele.
"Il nostro messaggio oggi al primo ministro e al popolo ebraico di Israele e degli Stati Uniti è che i cristiani d'America sono fermamente al fianco di Israele", ha detto il pastore Hagee.
"Siamo sconvolti dal modo in cui il nostro governo ha trattato il popolo ebraico e vogliamo che il popolo israeliano sappia che lo sosteniamo fermamente. Riteniamo che abbiano tutto il diritto di essere completamente vittoriosi in questo conflitto militare e siamo qui per dirglielo", ha aggiunto.

Alla domanda se Netanyahu abbia fatto un buon lavoro nel costruire forti legami tra i cristiani pro-Israele, Hagee ha risposto: "Penso che il primo ministro abbia fatto un buon lavoro, punto e basta. Penso che [lo abbia fatto] in un'atmosfera di ostilità in molti ambienti che non merita. Ha fatto un ottimo lavoro nel gestire gli affari dello Stato di Israele. Ma soprattutto con la comunità cristiana. Siamo amici dal 1985 e abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, e lui ha sempre teso la mano in amicizia".
Il pastore Tony Perkins ha spiegato: "Penso che Israele e il popolo ebraico non abbiano un sostenitore, un alleato e un amico più grande dei cristiani evangelici e credenti nella Bibbia in questo Paese".
"Condividiamo il libro e i valori. E come credenti, crediamo in ciò che dice Genesi 12: 'Coloro che benedicono Israele saranno benedetti'. E così, mentre molti nel mondo si stanno allontanando, noi non lo faremo", ha proseguito.
"Il nostro messaggio al Primo Ministro è: preghiamo per te e crediamo", ha detto. "Io prego per il Primo Ministro ogni mattina, per nome, e prego che, come Dio ha fatto in passato, dove ha manifestato la sua potenza a favore di Israele, lo faccia di nuovo", ha aggiunto.
Perkins ha spiegato perché la maggior parte dei cristiani pro-Israele vota repubblicano e sostiene l'ex presidente Donald Trump alle prossime elezioni.
"Come evangelici, votiamo per i candidati che sono più vicini ai principi e alle verità bibliche secondo cui viviamo. E abbiamo visto una netta divisione tra i due partiti in questo Paese. E l'ultima amministrazione del presidente Trump è stata quella più chiaramente in linea", ha detto.
Il pastore Mario Bramnick ha detto che il suo messaggio al primo ministro è semplice: "Mantenete la linea". Ha aggiunto che la comunità è "così contenta che egli sia forte come leader della nazione di Israele e protegga la sua sovranità e sicurezza".
"A nome di milioni di cristiani, preghiamo per lui. Siamo al suo fianco. Siamo onorati che sia qui e siamo molto orgogliosi che si rivolga al nostro Congresso".
Per Bramnick, le strette relazioni tra le comunità religiose ebraiche e cristiane sono estremamente importanti.
"Lavoriamo molto con la comunità ebraica. Organizziamo molti eventi cristiano-ebraici. Penso che la comunità cristiana, che è a favore di Israele, abbia mostrato per la maggior parte la sua solidarietà e il suo sostegno a Israele. E penso che sia molto importante stare uniti a sostegno del Primo Ministro e del diritto di Israele a difendersi", ha dichiarato.
Bramnick ha sostenuto che la chiave per proteggere la sicurezza di Israele è non cedere alle pressioni dell'attuale governo per la creazione di uno Stato palestinese.
"Una soluzione a due Stati sarebbe molto dannosa e servirebbe solo a premiare il terrorismo che abbiamo visto il 7 ottobre".
Evans, che dirige il Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme ed è un amico di lunga data di Netanyahu, ha spiegato che "senza il sostegno dei cristiani negli Stati Uniti, ci sarebbe poco sostegno per Israele".
Gli evangelici, ha detto, "sono il fondamento del sostegno all'intero Stato di Israele. Sì, la comunità ebraica è forte in una certa misura, ma gli evangelici sono impegnati al 100% in Israele. E questo perché per noi è un fatto biblico”.
“Tra gli evangelici di tutto il mondo Netanyahu ha più sostegno di Donald Trump. Non c'è nessuno che sia più rispettato dagli evangelici di Benjamin Netanyahu, e questo è in parte dovuto al fatto che ci capisce e si è impegnato a intrattenere strette relazioni con noi fin dall'inizio".
Oltre al discorso al Congresso di mercoledì, Netanyahu ha programmato incontri con il presidente Joe Biden e la vicepresidente Kamala Harris a Washington e con Donald Trump in Florida.

(Israel Heute, 24 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il partito democratico americano, Israele e l’ONU

di David Elber

Il parere consultivo espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia, venerdì 19 luglio scorso, è solo l’ultimo – per ora – capitolo dell’incessante attacco portato avanti dall’ONU ai danni di Israele. Ancora una volta, quello che sorprende, non è tanto il parere della Corte, ma, la reazione di sdegno e sorpresa espressa dal governo di Israele che, ad ogni chiodo messo, da un organo dell’ONU, su quella che dovrebbe essere la bara dello Stato ebraico, esprime stupore e rabbia ma nel concreto non fa nulla per proteggersi. Si ha la netta sensazione che i politici israeliani sottostimino la portata del lawfare intrapreso dai paesi islamici e dai loro alleati all’ONU. Quando un giorno dovranno affrontare le conseguenze di embarghi, sanzioni economiche e boicottaggi decisi dall’ONU, la situazione sarà così grave che rimediare sarà impossibile.
  Quello che stupisce più di ogni altra cosa è che la classe politica israeliana sembra del tutto ignara che i paesi islamici, non potendo distruggere Israele militarmente, lo stanno facendo un poco alla volta per mezzo dell’ONU e in maniera apparentemente “democratica e legittima”.
  Qui ci occuperemo di uno “strano” legame che intercorre tra le amministrazioni democratiche USA e i passi compiuti dall’ONU contro Israele. Si intende dimostrare che l’ONU sta portando avanti l’agenda politica del partito democratico americano relativo al conflitto tra Israele e gli arabi, impersonificati dai “palestinesi”. La regia di questa agenda politica ha avuto una potente accelerazione con le due amministrazioni Obama (2009-2017) e con quella Biden (2021-2025), che di fatto, per quanto concerne la politica mediorientale, ne è la continuazione.
  I capitoli principali di questo legame sono iniziati con Obama e proseguono oggi con Biden, con l’interruzione rappresentata dall’Amministrazione Trump. Si tratta di una agenda politica volta a fare scomparire Israele un po’ alla volta e ha il nome accattivante e seducente di “due popoli per due Stati”, ma, nella realtà, prevede alla conclusione del suo percorso la creazione di un solo Stato per un popolo e questo non è quello ebraico.

• Gettare le basi: Barack Obama
  Barack Obama, fin dal suo insediamento aveva le idee molto chiare in merito al conflitto israelo-palestinese: fare pressioni politiche unicamente su Israele affinché accondiscendesse a tutte le richieste arabe. Tuttavia, la sua agenda politica incontrò un grosso ostacolo: Benjamin Netanyahu. Siccome il premier israeliano dimostrò fin da subito poco incline a “suicidare” il proprio paese, Obama attuò una duplice strategia: utilizzare l’ONU come mezzo per portare avanti la propria agenda politica e demonizzare Netanyahu fino a renderlo pari al “male assoluto”, trasformandolo in un “ostacolo alla pace” a livello politico e mediatico.
  Con Obama presidente si assistette dunque ai seguenti passi:
  1. Riconoscimento dell’inesistente “Stato” di Palestina all’ONU, come Stato osservatore nel 2012.
  2. Ammissione dell’inesistente “Stato” di Palestina presso il Tribunale Penale Internazionale, aprile 2015.
  3. Apertura delle indagini presso il Tribunale Penale per crimini di guerra per l’operazione Margine Protettivo del 2014 e la “questione degli insediamenti”.
  4. Approvazione di una blacklist di aziende che operano in Giudea e Samaria da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU (unico caso al mondo).
  5. Approvazione della risoluzione 2334 nel dicembre 2016 (quando Trump aveva già vinto le elezioni presidenziali) nella quale si dichiaravano gli “insediamenti ostacolo alla pace”.
Con l’amministrazione Trump (2017-2021) questa agenda politica venne di fatto “congelata” così come vennero congelati i fondi USA all’UNRWA e ai terroristi dell’Autorità Palestinese, e, di conseguenza, si fermarono gli atti di terrorismo nei confronti degli israeliani. Infine, si trovò arenato “congelato” anche il procedimento penale a carico di Israele presso il Tribunale Penale Internazionale. Procedimento ripreso nel febbraio 2021 dopo solo un mese dall’insediamento dell’Amministrazione Biden. Alcune settimane fa il procuratore Karim Khan – insediato con il benestare di Biden – ha avanzato una richiesta di arresto nei confronti di Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant.
  Con Biden presidente abbiamo assistito ai seguenti passi:
  1. Rifinanziamento americano dell’Autorità Palestinese e dell’UNRWA e un conseguente drastico aumento del terrorismo antiebraico sfociato nell’eccidio del 7 ottobre 2023.
  2. Creazione da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, nel maggio del 2021, di una “commissione perpetua” (unico caso al mondo) per investigare i “crimini” di Israele.
  3. Risoluzione dell’Assemblea Generale, il 30 dicembre 2022, con la quale si chiedeva alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo (quello formulato venerdì 19 luglio) in merito alla legalità dell’occupazione dei “territori palestinesi” da parte di Israele.
  4. Accusa di genocidio a carico di Israele presso la Corte di Giustizia Internazionale, gennaio 2024, presentata dal Sud Africa e non cassata dalla Corte.
  5. Riconoscimento, nel maggio 2024, dell’inesistente “Stato” di Palestina, come Stato membro dell’Assemblea Generale e non più come Stato osservatore. Questo ha portato, come conseguenza politica, al riconoscimento dell’inesistente “Stato” di Palestina da parte di Irlanda, Norvegia, Spagna e Slovenia.
Questi sono, solo, i capitoli principali del libro sulla delegittimazione di Israele che si sta scrivendo all’ONU con la compiacenza americana, ma molto altro è avvenuto e sta avvenendo.
  L’agenda politica portata avanti dai democratici americani non ha programmaticamente lo scopo di distruggere Israele ma tuttavia è ampiamente utilizzata dai paesi islamici per il loro intento programmatico: cancellare l’unico Stato ebraico esistente. In pratica, le amministrazioni democratiche sono diventate un strumento politico in mano alle teocrazie islamiche che vogliono perseguire la distruzione di Israele e non la pace nella regione, a meno che essa non coincida con la distruzione dello Stato ebraico (cosa sempre più evidente).

Soluzione
  Israele è troppo piccolo e debole per vincere la guerra all’ONU. Solo gli USA possono farlo. Come?
  Per prima cosa sperando che non vinca una amministrazione democratica alle prossime elezioni di novembre. Perché l’accelerazione che ha avuto, all’ONU, la guerra di delegittimazione contro Israele non ha precedenti e altri 4 anni a guida democratica potrebbero essere fatali per Israele. Solo un personaggio come Donald Trump, completamente fuori dagli schemi e imprevedibile, potrebbe portare gli Stati Uniti a sospendere tutti i finanziamenti che gli USA danno ai terroristi arabi, e alle organizzazioni internazionali, ad iniziare dall’ONU, le quali, unite, stanno facendo una guerra legale (lawfare) sempre più serrata nei confronti di Israele. Se questo non bastasse gli USA dovrebbero lasciare l’ONU e chiudere il Palazzo di Vetro di New York. Lasciare che l’ONU si trasferisca altrove, magari a Ginevra, come negli anni ’20 e ’30 durante l’esistenza della Società delle Nazioni, e aspettare che imploda e si autodistrugga essendo ormai capitanata da Stati canaglia sempre meno contrastati dalla UE. Infine, rifondarne una nuova attuando le riforme necessarie che impediscano agli Stati che non rispettano i basilari diritti umani di farne parte. Questa è l’unica concreta alternativa al tentativo lento ma inesorabile di distruggere Israele, grazie all’ONU ostaggio dei suoi nemici.

(L'informale, 24 luglio 2024)

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Com’è lontana la Cina se sceglie Mosca, Teheran e Hamas: la crisi di una diplomazia decennale

Cina e Israele: dalla collaborazione economica alla distanza politica. Strette relazioni commerciali con Israele, una “intesa cordiale” e interessi comuni: porti, commerci, high-tech… Un’amicizia che rischia di sfumare a causa della vicinanza della Cina all’Iran e dal rifiuto di riconoscere il massacro del 7 ottobre. Ma oggi la Cina rivendica un ruolo da protagonista sullo scacchiere mediorientale e non rinuncia ad affermare la propria leadership anche qui

di Giovanni Panzeri

Da sempre, la Cina ha tradizionalmente mantenuto un approccio cauto verso gli equilibri mediorientali, adattando la sua politica alla realtà di una regione normalmente soggetta alla supremazia statunitense. Ecco perché, fino a poco tempo fa, la Cina si era generalmente limitata a sviluppare rapporti commerciali ed economici con tutte le potenze della regione, in particolare Iran, Israele e Paesi del Golfo, senza tuttavia cercare di diventarne un referente militare e diplomatico.
  La situazione è tuttavia cambiata e, nel corso dell’ultimo decennio, Pechino ha iniziato a mettere gradualmente in discussione la supremazia americana, accompagnando al lancio della Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative) una serie di iniziative diplomatiche volte a espandere la propria influenza nella regione e rendere la Repubblica Popolare il principale arbitro nel gestire i conflitti mediorientali. È in questo senso che si possono leggere, ad esempio, la sua partecipazione alle trattative sul nucleare iraniano nel 2015, la riconciliazione tra Iran e Arabia Saudita nel 2023, il riconoscimento del regime talebano in Afghanistan e il recente tentativo di ricomporre il conflitto tra le due principali fazioni palestinesi, Hamas e Fatah.
  Il cambio di passo, compiuto da Xi Jinping nel 2014, è stato determinato dal fatto che la Cina ha iniziato a vedere l’estensione della sua influenza nella regione come una necessità fondamentale per la sicurezza nazionale. “Nel tempo -, spiega Alexandra Tirziu nel suo report al GIS (Geopolitical Intelligence Service) –, quest’influenza crescente potrebbe permettere alla Cina (…) di stringere trattati regionali in linea con la necessità di proteggere il suo Stato-partito e perseguire l’obiettivo di formare un ordine globale alternativo”. È da sottolineare che pur intervenendo in modo sempre più deciso nella regione la Cina è finora riuscita a mantenere buone relazioni con tutte le parti in causa, incluso lo stato d’Israele, il principale alleato del rivale americano nel settore, con cui Pechino ha sviluppato nell’ultima decade rapporti economici e commerciali sempre più stretti, nonostante il suo sostegno formale alla causa palestinese e i rapporti con l’Iran. Proprio questa relazione tuttavia rischia di essere messa in forse dallo scoppio del recente conflitto tra Israele, palestinesi e iraniani.
  Ma come versa lo stato delle relazioni sino-israeliane oggi? Nel corso dell’ultimo decennio i rapporti commerciali ed economici tra Cina e Israele si sono fatti sempre più stretti e fitti. La Repubblica Popolare è infatti diventata nel giro di pochi anni il principale partner commerciale dello Stato ebraico in Asia e il secondo, dopo gli Stati Uniti, a livello mondiale. Gli investimenti cinesi in vari settori dell’economia israeliana, dall’hi-tech alle infrastrutture fino agli scambi culturali, sono fioriti soprattutto tra il 2013 e il 2019 per poi essere limitati pesantemente dalle pressioni statunitensi sul loro alleato mediorientale. Al contrario i rapporti prettamente commerciali sono rimasti fiorenti, e caratterizzati da una forte esportazione in Israele di prodotti cinesi, aumentata fortemente durante gli anni della pandemia.Tuttavia se i rapporti commerciali sono, per ora, rimasti stretti, negli ultimi anni i rapporti diplomatici si sono fatti gradualmente più freddi, in parte in seguito alle pressioni degli USA, in parte a causa del deciso sostegno cinese alla causa palestinese e all’Iran, anche in seguito allo scoppio del nuovo conflitto il 7 ottobre 2023.
  Gli israeliani sono infatti rimasti oltraggiati dall’esitazione cinese nel condannare gli attacchi di Hamas e dal rifiuto di condannare il contrattacco iraniano dello scorso aprile. Di contro, invece, la Cina ha disapprovato fermamente l’intervento israeliano nella Striscia di Gaza, l’attacco israeliano alla sede dei pasdaran iraniani in Siria e sostenuto la denuncia di Israele per genocidio presentata dal Sudafrica alla Corte di Giustizia Internazionale. Una serie di azioni che lo Stato ebraico vede come una negazione del suo diritto a difendersi da parte della Repubblica Popolare.
  Inoltre la Cina ha ospitato una delegazione di Hamas e Fatah a Pechino lo scorso aprile, con lo scopo di promuovere la riconciliazione delle due fazioni palestinesi. Come spiega il quotidiano Guardian, Xi Jinping ritiene infatti che “l’unità palestinese sia una precondizione necessaria alla formazione di un coerente piano di governo di Gaza e della Cisgiordania, in qualunque modo si risolva il conflitto”. Dal canto loro, gli israeliani hanno inviato una delegazione parlamentare a Taiwan, firmato una dichiarazione congiunta all’Onu che condanna la Cina per violazioni dei diritti umani contro gli uiguri, sembrerebbe stiano pensando a modi di diminuire la dipendenza dalla Cina nel settore hi-tech e fermare l’acquisizione cinese di una parte del porto di Haifa.
  Un sondaggio rilasciato a maggio dall’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv rivela inoltre che il 54% della popolazione israeliana considera la Cina un paese ostile, mentre solo il 15% la vede come un alleato. Una tendenza completamente invertita rispetto al 2017.

• Le relazioni sino-iraniane
  Le sempre più strette relazioni diplomatiche e militari sino-iraniane sono inoltre un altro dei fattori che mettono a rischio i rapporti tra lo Stato ebraico e la Repubblica Popolare.
  Non a caso, nonostante si fosse precedentemente schierata contro gli esperimenti nucleari iraniani, Pechino si è molto avvicinata al regime persiano negli ultimi anni, sperando di usarlo per contrastare l’influenza americana nella regione. Nel 2021 la Cina ha infatti stretto un accordo di cooperazione venticinquennale con lo Stato iraniano che, come riportato su Limes, prevede “l’investimento di 280 miliardi di dollari nelle industrie iraniane di petrolio, gas e petrolchimica e altri 120 miliardi nelle strutture delle telecomunicazioni e dei trasporti del paese”. A questo accordo è seguita, nel 2023, una serie di 20 accordi bilaterali stretti con il defunto presidente persiano Raisi, durante “la prima visita di stato in Cina di un leader persiano negli ultimi 20 anni”. Dal punto di vista della cooperazione militare, sempre secondo Limes, Pechino rifornisce l’Iran di armi e carburante per missili, oltre ad organizzare esercitazioni militari navali trilaterali con Iran e la Russia, l’ultima delle quali si è tenuta nel 2024.
  Questa crescente cooperazione si è sviluppata nonostante le riserve cinesi verso le operazioni degli Houti, sostenute dall’Iran, che hanno bloccato ai commerci navali la rotta che per raggiungere l’Europa passava attraverso lo stretto di Hormuz.
  Conclusioni? È difficile prevedere come le relazioni evolveranno in futuro, ma è bene ricordare che, nonostante le tensioni, Israele e Pechino rimangono tuttora stretti partner commerciali, come testimonia tra l’altro il fatto che la Cina sia diventata il principale fornitore di automobili per Israele nel 2024.
  Tuttavia, come scrive il Guardian, è chiaro “che siamo ben lontani dal 2017, quando Netanyahu si recava a Pechino parlando di ‘un matrimonio in paradiso’”.

(Bet Magazine Mosaico, 24 luglio 2024)

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A Londra tutto pronto per accogliere i primi Giochi Europei giovanili Maccabi

di Claudia De Benedetti

Londra ospiterà i primi EMYG, Giochi Europei Giovanili del Maccabi. Dal 30 luglio al 6 agosto, giungeranno nella capitale del Regno Unito giovani provenienti da tutta Europa, da Israele, dagli Stati Uniti e dall’Argentina per un appuntamento in cui alle gare sportive saranno affiancate visite turistiche, incontri culturali e ricreativi, senza naturalmente trascurare la celebrazione dello Shabbat e la conoscenza dell’ebraismo britannico con la sua storia e le sue numerose comunità.
  Il Presidente del Maccabi Italia Vittorio Pavoncello è riuscito nella non facile impresa di comporre una delegazione numerosa e motivata che sarà guidata dal Presidente del Maccabi Milano Alfonso Nahum. 43 atleti provenienti da Milano e Roma e 5 dirigenti rappresenteranno l’Italia, partecipando alle competizioni di futsal under 16 e under 18 anni, di basket e di tennis. I Giochi sono stati progettati dai giovani per i giovani, con l’intento di limitare le formalità e infondere nei partecipanti la condivisione degli ideali del Maccabi, del sionismo, della vicinanza allo Stato d’Israele, alle famiglie degli ostaggi, delle vittime dei pogrom di Hamas del 7 ottobre e della guerra.
  Degna di nota è l’attenzione per gli atleti con esigenze speciali per cui sono stati organizzati eventi dedicati e inclusivi in collaborazione con enti ebraici inglesi altamente qualificati e con l’organizzazione dedicata allo sport disabili Special Olympics Great Britain. Il programma educativo e culturale per l’EMYG è stato preparato dal team educativo del Maccabi GB in collaborazione con il dipartimento educativo del Maccabi mondiale e con gli educatori più attivi e stimati dell’ebraismo britannico.
  Jonathan Prevezer, presidente del Maccabi Gran Bretagna, ha spiegato: “Siamo entusiasti di poter offrire ai partecipanti un’esperienza straordinaria, crediamo fermamente nello sport come strumento per rafforzare l’identità ebraica e il legame tra comunità ebraiche”. Il Maccabi inglese ha collaborato con il Maccabi Europa per la realizzazione dei Giochi che, nelle edizioni precedenti aperte a tutte le categorie, erano stati ospitati a Roma nel 2007, poi a Vienna, Berlino e Budapest.
  “Sono stati anni molto difficili – ha detto David Beesemer, Presidente del Maccabi Europa – La pandemia del Covid, la guerra in Ucraina, i massacri perpetrati da Hamas, la guerra in Israele sono state le sfide cui abbiamo dovuto rispondere senza esitazioni. Il Maccabi GB è un solido partner che annovera una delle nostre più forti organizzazioni territoriali”.

(Shalom, 24 luglio 2024)

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Parigi 2024, la sinistra radicale di Mélenchon getta la maschera: “Niente atleti ebrei ai Giochi”

di Stefania Campitelli

Antifà, pro Palestina e, neanche a dirlo, orgogliosamente antisemiti. A Parigi la gauche radicale guidata da Jean-Luc Mélenchon si prepara alla crociata antiisraeliana ai Giochi Olimpici. Come se non bastassero i guai del dopo voto, con Emmanuel Macron alle prese con il grattacapo della composizione del governo (“si farà ad agosto, ha detto) dalle file della France Insoumise piovono strali contro i ‘nemici ebrei’.

Giochi olimpici di Parigi, sinistra choc: niente ebrei
  “Siamo a pochi giorni da un evento internazionale che si terrà a Parigi, i Giochi Olimpici. E sono qui per dire no, la delegazione israeliana non è la benvenuta a Parigi. Gli atleti israeliani non sono i benvenuti ai Giochi Olimpici di Parigi. Dobbiamo usare questo evento e tutte le leve che abbiamo per mobilitarci”. Così uno scatenato  Thomas Portes, deputato dell’ultrasinistra. Prima del comizio antisionista in un raduno propalestinese nella Seine-Saint-Denis, intervistato da Le Parisien ha detto la diplomazia francese “deve esercitare pressioni sul Cio affinché la bandiera e l’inno israeliani non siano ammessi durante questi Giochi Olimpici, come avviene per la Russia”. Anche il compagno di partito Aymeric Caron la pensa così: “La bandiera israeliana, macchiata dal sangue degli innocenti di Gaza, non dovrebbe essere sventolata a Parigi”.

Intimidazioni e minacce di morte agli atleti
  Il clima per la delegazione israeliana, partita per Parigi in vista dell’apertura dei Giochi di venerdì, è pessimo. Nel weekend alcuni atleti hanno ricevuto minacce di morte e telefonate minatorie. Il primo messaggio inviato per mail è firmato da un’entità che si è identificata come “l’Organizzazione di Difesa del Popolo” (che non esiste). “L’Organizzazione per la Difesa del Popolo annuncia che intende danneggiare qualsiasi presenza israeliana alle Olimpiadi. Se verrete, tenete conto che intendiamo ripetere gli eventi di Monaco 1972”. Addirittura tra cui il portabandiera della Cerimonia di apertura, il judoka Peter Paltchik, e il nuotatore Meiron Amir Cheruti, hanno ricevuto inviti ai loro funerali.

Arad: ci sentiamo emissari dello Stato di Israele
  “Ci sentiamo come emissari dello Stato di Israele. I nostri atleti, ognuno di loro è qui per realizzare i propri sogni, ma c’è un altro livello, di missione nazionale”, ha detto Yael Arad, presidente del Comitato Olimpico di Israele, durante una conferenza stampa all’aeroporto Ben Gurion prima del volo. “La delegazione spera ovviamente di tornare in Israele con delle medaglie, ma la nostra prima vittoria è che siamo qui, che non ci siamo arresi, che dal 7 ottobre abbiamo partecipato a centinaia di gare… Ciò che ci guida è la bandiera di Israele”. Le parole dei parlamentari di Mélenchon hanno scatenato la reazione della comunità ebraica francese.

La comunità ebraica: stanno mettendo un bersaglio sui nostri sportivi
  Yonathan Arfi,  presidente del Consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia, ha detto che dal 7 ottobre France Insoumise legittima Hamas e “sta mettendo un bersaglio sulla schiena degli sportivi israeliani”. Poi ha ricordato gli undici atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi ai Giochi Olimpici di Monaco nel 1972. Il ministro degli Esteri francese, Stéphane Séjourné, ha definito le parole del deputato di France Insoumise “irresponsabili e pericolose” affermando che la delegazione israeliana «è benvenuta». Il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, ha aggiunto che le prese di posizione di Portes “puzzano di antisemitismo” e ha annunciato un dispositivo di sicurezza rafforzato h24 per gli sportivi israeliani.

(Secolo d'Italia, 24 luglio 2024)

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Nessuno deve entrare nel Monte del Tempio prima della venuta del Messia

La tensione spirituale nel popolo d'Israele è sempre parte della politica del Paese. Per molti all'estero, questo è semplicemente incomprensibile.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Perché i politici israeliani citano versetti della Bibbia e promesse dei profeti nei loro discorsi? Perché l'esistenza di Israele in questa terra viene confermata dalla legge biblica e non dal diritto internazionale? Questo e molto altro continua a emergere nei media israeliani e anche noi ne diamo notizia. Negli ultimi giorni i media del Paese, soprattutto quelli religiosi, sono tornati a tuonare. Che c'entra il redentore con un ministro che entra nel Monte del Tempio?

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Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, dopo la sua visita al Monte del Tempio, il 18 luglio 2024

Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, si è nuovamente recato sul Monte del Tempio accompagnato da numerosi agenti di polizia. In una dichiarazione, ha affermato di pregare per il ritorno dei rapiti, in modo che "non si verifichino prese di ostaggi o sottomissioni spietate". Il Ministro degli Interni israeliano Moshe Arbel ha condannato la visita del suo collega di governo Itamar Ben-Gvir al Monte del Tempio ebraico, poche ore dopo che il suo partito ortodosso Shas aveva invitato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu a non preoccuparsi dei voti nella coalizione, ma a far tornare gli ostaggi israeliani adesso, il più presto possibile.
"Sono venuto qui, nel luogo più importante per lo Stato di Israele, per il popolo di Israele", ha detto Ben Gvir sul posto, "per pregare per le donne e gli uomini rapiti nella Striscia di Gaza, affinché possano tornare a casa, ma senza accordi avventati e senza sottomissione". Il contesto reale della sua visita alla spianata del Tempio era l'imminente visita del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti. Subito dopo la dichiarazione dello Shas, ha inviato un messaggio a Netanyahu esortandolo a "raggiungere un accordo e a non preoccuparsi dei voti della coalizione". In cambio, Ben-Gvir ha detto di pregare e di lavorare duramente affinché il Primo Ministro continui ad avere la forza di resistere alle pressioni politiche interne e di lottare fino alla vittoria. Ben-Gvir ha chiesto un aumento della pressione militare e l'interruzione delle forniture di carburante a Hamas e ai palestinesi, al fine di vincere.
Il Ministro degli Interni Moshe Arbel, membro di spicco del partito ortodosso di Arie Deri, ha reagito con critiche alla visita di Ben-Gvir al Monte del Tempio . "È già stato deciso e stabilito, i grandi rabbini di Israele e il Consiglio Rabbinico Capo hanno insistito fortemente affinché fossero erette recinzioni e hanno solennemente avvertito che nessuno può entrare nell'area del Monte del Tempio fino alla venuta di Shiloh (il Messia), che allora sarà in mezzo a noi, e come è scritto: 'Verserò su di voi acqua pura e sarete purificati'". Arbel ha attaccato personalmente Ben-Gvir: "Verrà un giorno in cui il tempo delle continue provocazioni del signor Ben-Gvir finalmente finirà. La Torah - la parola di Dio - non passerà".

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Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, prega al Muro occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme il 18 luglio 2024 dopo la sua visita al Monte del Tempio.

Fino a una decina di anni fa, era normale per gli ebrei non entrare nella spianata del Tempio, per non entrare inavvertitamente nel luogo del Santo dei Santi. Dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967, questa era la regola del Gran Rabbinato. Tuttavia, con lo spostamento a destra dopo il fallimento degli accordi di Oslo, i coloni ebrei sono entrati sempre più spesso nella spianata del Tempio, contro il volere della leadership ortodossa del Paese. Il Gran Rabbinato e i coloni religiosi del Paese sono in disaccordo su questo punto. Gli ebrei ortodossi vogliono aspettare la venuta del Messia per costruire il Tempio ed entrarvi insieme a lui. Invece i  coloni, come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, non sono d'accordo e vogliono affrettare la venuta del Messia.
Shiloh (שילו) è un nome dell'Antico Testamento che indica il Messia. Il nome è menzionato solo una volta in tutta la Bibbia, in Genesi 49, dove Giacobbe benedice i suoi dodici figli con parole profetiche poco prima della sua morte e si riferisce al Re e Redentore che verrà:

    "Lo scettro non si allontanerà da Giuda, né il bastone del sovrano dai suoi piedi, finché non venga Shiloh, e le nazioni gli obbediranno".

Tradotto, Shiloh significa: portatore di pace, operatore di pace, eroe forte, Messia. In Giosuè 18, Shiloh (שילה) è menzionato come luogo del tempio dopo che i figli di Israele hanno iniziato a conquistare la Terra Promessa:

    "E tutta la comunità dei figli d'Israele si radunò a Shiloh e vi eresse il tabernacolo; e il paese fu loro sottomesso".

Chiunque abbia ragione, il punto è che il Redentore d'Israele, il Messia, e Shiloh interessano il popolo di Sion e sono una parte vibrante della politica del Paese.
Il ministro religioso della cultura Amichai Eliyahu, che appartiene al partito di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ha attaccato il suo collega ortodosso Arbel per le sue critiche a Ben-Gvir e ha detto: "Signor Arbel, per duemila anni il popolo d'Israele ha lottato per tornare nella terra dei suoi padri e non ha mai smesso di desiderare il restauro del Monte del Tempio, la casa del nostro Dio. Il tempo della sottomissione di fronte ai media e dell'umiliazione di fronte al nostro nemico passerà più rapidamente di quanto durerà la potenza ebraica e di la capacità di resistere fieramente contro coloro che vogliono distruggerci". Sia Eliyahu che Ben-Gvir sono a favore di una posizione chiara nei confronti dei palestinesi. Non si tratta di una questione politica, ma spirituale. Così la intendono i musulmani e così la intende gran parte della popolazione ebraica del Paese.
Nelle reti palestinesi, la visita di Ben-Gvir al Monte del Tempio è stata presentata nel seguente modo:

    Il momento in cui il ministro della Sicurezza nazionale della potenza occupante, Itamar Ben Gvir, fa irruzione nel complesso della Moschea di Al-Aqsa (al-Haram al-Sharif) sotto la pesante protezione delle forze di occupazione.

Per questo motivo i palestinesi hanno riportato la visita del ministro religioso Ben-Gvir alla Piazza del Tempio ebraica in un momento delicato, nel bel mezzo della guerra, cosa che non avveniva per la prima volta. L'agenzia di stampa palestinese ha riferito che Ben-Gvir era accompagnato da numerosi poliziotti; e che i poliziotti israeliani hanno impedito ai fedeli musulmani di entrare nella moschea di Al-Aqsa mentre il ministro visitava il Monte del Tempio. Non so se questo sia vero, ma quello che so è che il Monte del Tempio ebraico è al centro dell'intero conflitto tra Israele e i suoi nemici musulmani. I musulmani non vogliono vedere ebrei sulla spianata accanto alla moschea di Al-Aqsa, e in Israele una parte dell'attuale governo insiste nel far capire ai palestinesi che la spianata del Tempio fa parte della storia biblica e quindi appartiene politicamente a Israele. Questa tensione spirituale nella popolazione si è espressa ancora una volta qualche giorno fa.

(Israel Heute, 23 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Alla Knesset in mostra lettere e oggetti dei soldati ebrei nella Prima Guerra Mondiale

di Luca Spizzichino

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In occasione dei 110 anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Knesset ha celebrato i battaglioni militari ebraici, composti da migliaia di soldati, che hanno combattuto durante il conflitto. All’interno del parlamento israeliano è stata allestita una mostra di oggetti unici provenienti dalla tenuta di Ze’ev Jabotinsky che fanno luce sulla fondazione della legione ebraica.
Moshe Foxman Shaal, direttore del Knesset Museum, ha sottolineato l’influenza dei battaglioni ebraici sulla coscienza ebraica. “Hanno distrutto l’immagine dell’ebreo perseguitato e indifeso e hanno presentato al mondo soldati ebrei pronti a combattere per il loro paese e per l’istituzione della loro patria”.
  Tra gli oggetti esposti, oltre a varie lettere e telegrammi, ci sono anche diversi oggetti personali di Jabotinsky, tra cui una bussola militare realizzata dalla S. & Mordan Co., che utilizzò durante il suo servizio nel battaglione ebraico, e il distintivo del suo cappello risalente al periodo del servizio. Il distintivo fu progettato in seguito alla pressione esercitata da Jabotinsky sul generale Geddes, comandante del dipartimento di reclutamento dell’esercito britannico. L’unità di combattimento ebraica portava il suo emblema, a forma di menorah a sette bracci, con il motto coniato da Jabotinsky: la parola ebraica “Kadima” (Avanti).
  Tra i documenti presenti alla mostra ci sono anche un telegramma di Joseph Trumpeldor a Ze’ev Jabotinsky e una lettera dei soldati del battaglione di Gerusalemme, allora in Egitto, alla Commissione sionista, in cui si richiedeva cibo kasher, accordi per la preghiera e altro ancora.
  La Knesset espone anche una lettera inviata dal comandante del Battaglione dei Muli di Sion, John Henry Patterson, pochi giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione Balfour. Nella lettera, Patterson esorta Edmond James de Rothschild a fare pressione sul War Cabinet inglese affinché invii un battaglione di soldati ebrei addestrati al fronte e consenta loro di partecipare alle battaglie in Israele contro l’esercito ottomano.
  La mostra include una rara fotografia di gruppo che mostra Ze’ev Jabotinsky (al centro) con un gruppo di soldati del 38th Royal Fusiliers Battalion. I soldati hanno una Stella di David blu ricamata sulle maniche.

(Shalom, 23 luglio 2024)

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Ciclismo – Squadra israeliana festeggia la sua prima top 10 al Tour

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Derek Gee nella cronometro conclusiva del Tour de France – Foto: Noa Arnon

Se ci si dovesse basare sulle speranze della vigilia, l’obiettivo non è stato raggiunto. La Israel Premier Tech (IPT) aveva l’ambizione di vincere almeno una tappa al Tour de France partito da Firenze a fine giugno e appena conclusosi a Nizza. La squadra israeliana ci è andata vicina varie volte, raggiungendo piazzamenti significativi in più di una frazione. Soprattutto con il suo sprinter tedesco Pascal Ackermann due volte terzo.
  Ma in casa IPT l’umore non è mai stato così alto. Perché per la prima volta nella sua ancora giovane storia, impresa impensabile appena poche settimane fa, il team israeliano è riuscito a piazzare un suo ciclista nella top 10 della classifica generale. «È solo l’inizio», ha esultato la Israel Premier Tech celebrando la Grande Boucle da inaspettato protagonista del suo Derek Gee, 26 anni, tra gli atleti più competitivi di questa edizione, almeno tra quelli “normali” che hanno fatto altra corsa rispetto ai “marziani” Pogacar, Vingegaard ed Evenepoel. Il canadese Gee le prime scintille del suo talento le aveva già sprigionate al Giro d’Italia dello scorso anno, al suo esordio tra i professionisti, conquistando il simbolico titolo di corridore più combattivo. Anche al Tour la combattività è stata la sua cifra, ma più sapientemente gestita nel corso delle tre settimane di gara. Merito anche dei suoi compagni di squadra, che si sono sacrificati per assisterlo al meglio nelle tappe più dure tra Alpi e Pirenei. Sulle salite del Tour 2024, Gee ha a lungo combattuto con l’italiano Giulio Ciccone, distintosi soprattutto nella prima parte della corsa e beffardamente uscito dai primi dieci all’ultima tappa, per via della deludente prestazione nella cronometro finale.
  La Israel Premier Tech festeggia il miglior risultato mai conseguito a un Tour. In passato era già arrivata nella top 10 di una grande corsa a tappe due volte, entrambe con l’irlandese Daniel Martin giunto quarto alla Vuelta di Spagna del 2020 e decimo al Giro d’Italia del 2021. Un’altra top 10 ora alla portata è quella della classifica a punti dei team professionistici che determina anche la presenza nel World Tour, l’élite del movimento ciclistico. In virtù degli ottimi risultati d’inizio stagione, cui lo stesso Gee ha contribuito arrivando terzo al Giro del Delfinato, la Israel ha scalato ben sette posizioni in graduatoria rispetto al 2023. È al momento l’11esima squadra al mondo e in una sfida tutta “mediorientale” punta a scalzare al decimo posto la Bahrain – Victorious, in precedenza quinta. Vento in poppa invece per l’altra squadra del Golfo, la UAE Team Emirates, saldamente prima grazie alle imprese di Pogacar.

(moked, 23 luglio 2024)

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Che cosa significa la rinuncia di Biden per Israele

di Ugo Volli

• Un cambiamento significativo
  La decisione di Biden di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali è una notizia importante per tutto il mondo, ma soprattutto per Israele, impegnata in una guerra difficilissima con un appoggio americano che è stato sì militarmente decisivo in alcuni momenti del conflitto (per esempio all’inizio, quando si temeva un attacco di grandi dimensioni degli Hezbollah in contemporanea con l’inizio della campagna di Gaza, oppure quando ad aprile scorso l’Iran ha cercato di bombardare direttamente lo Stato ebraico), ma per lo più ha agito da freno alla capacità di Israele di difendersi, per esempio impedendo a lungo l’ingresso a Rafah o addirittura bloccando gli indispensabili rifornimenti di munizioni e ricambi. Il giudizio sugli effetti di questo improvviso cedimento di Biden alle pressioni del suo partito sono difficili da determinare oggi.

• La visita di Netanyahu
  Per gli americani non è la cosa più importante, ma per Israele è molto significativo che la rinuncia sia avvenuta subito prima della visita di Netanyahu, che parte oggi per gli Stati Uniti e ha un appuntamento con Biden proprio domani alla Casa Bianca, il primo da quando è tornato primo ministro nel 2022. Il viaggio di Netanyahu, che mercoledì parlerà al Congresso in seduta comune, cambia completamente significato in questo contesto. È vero che Biden resta presidente e avrà la responsabilità delle politica americana ancora per quasi sei mesi: è dunque importante chiarirgli direttamente il punto di vista di Israele sulla guerra. Ma anche in questo ruolo è ormai chiaramente una “anatra zoppa” (lame duck, come si dice nel gergo politico americano) che tenderà ad avere sempre meno potere decisionale vero. L’intervento parlamentare di Netanyahu poi si svolgerà nel contesto di una campagna elettorale tornata molto incerta e sarà valutato soprattutto per questo.

• Il difficile giudizio su Biden
  È presto per valutare Biden e la sua presidenza. Probabilmente il vecchio politico, che ha frequentato Israele fin dai tempi di Golda Meir, è sincero quando si proclama sionista, cosa che ha fatto ancora due giorni fa. È vero che tiene all’esistenza di Israele, come ha dimostrato anche visitando il Paese in guerra poco dopo il 7 ottobre – un gesto che nessun presidente americano aveva mai fatto. Ma il suo appoggio per lo Stato ebraico si inquadra entro una politica di “equilibrio” con i nemici che lo vogliono distruggere, prima di tutto l’Iran. La sua ideologia è ancora quella di Obama e prima di Carter, con l’obiettivo di una pacificazione con l’Islam e con l’idea che l’America e in generale l’Occidente debba “pagare dei debiti” al Terzo Mondo e che il “rispetto dei diritti umani” venga prima di ogni altra considerazione, incluse le condizioni concrete che li rendono possibili, vale a dire la capacità della democrazia di difendersi.

• Le prospettive
  Che cosa avverrà ora nella politica americana è difficile da prevedere. È possibile che la candidatura di Kamala Harris, che come vicepresidente è la scelta più ovvia per sostituire Biden, si consolidi e che dunque le elezioni di ottobre si giochino fra lei e Trump. Il profilo politico della Harris non è ben definito, fra la linea dura contro il crimine e l’immigrazione di certe fasi della sua carriera e l’alleanza implicita con i settori più radicali del partito democratico che sembra perseguire nell’ultimo periodo. Alcune dichiarazioni recenti di “comprensione” per le proteste universitarie contro Israele vanno purtroppo in questa direzione. Il fatto che abbia un marito ebreo non è probabilmente molto rilevante. Ma è possibile anche che emergano nuove candidature di personalità politicamente meglio definite come i governatori di alcuni stati, ma meno note al grande pubblico. È chiaro che il rischio per Israele è la prevalenza dell’ala sinistra dei democratici, chiaramente contraria ormai allo Stato ebraico, che ha avuto parecchia influenza durante gli ultimi anni. Se questo fosse il risultato della nuova candidatura, verrebbe a cadere anche la garanzia parziale offerta dall’orientamento personale di Biden. Non a caso il voto ebraico, tradizionalmente allineato con i democratici, si è riorientato verso Trump, in particolare quello dei molti israeliani che dopo l’immigrazione hanno conservato la cittadinanza americana.

• Il rischio immediato
  Oltre alle prospettive future, vi è anche un rischio immediato. La guerra contro Israele guidata dall’Iran si è scontrata in questi mesi coi limiti stabiliti dall’amministrazione americana, ribaditi sul terreno dalla presenza di importanti gruppi aeronavali. Questa è forse la ragione per cui Hezbollah e direttamente l’Iran hanno evitato di utilizzare la maggior parte delle loro forze, limitandosi finora a un conflitto di intensità relativamente bassa sul fronte libanese e siriano. La turbolenza politica negli Usa potrebbe indurre gli strateghi iraniani a sfidare questi ostacoli cercando di forzare la situazione e aprire un secondo fronte di guerra sul terreno mentre le truppe israeliane sono ancora massicciamente impegnate a Gaza. Insomma è possibile il primo risultato della rinuncia di Biden siano degli attacchi per testare la risolutezza americana (e quella israeliana).

(Shalom, 22 luglio 2024)

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Olimpiadi a Parigi, si parte il 26 luglio. Israele è nella stessa barca dell'Italia

La cerimonia di apertura conterà oltre cento leader mondiali attesi in tribuna secondo l'Eliseo

Mancano quattro giorni all'inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi. E sono Giochi di pace in tempi di guerra: perché Parigi 2024 si aprirà in un contesto di forti tensioni geopolitiche, tra il conflitto in Ucraina, la guerra tra Israele e Hamas, e l'allerta terrorismo sempre alta in Francia, tra minacce endogene di 'lupi solitari' che potrebbero entrare in azione o il rischio attentati in larga scala da parte di organizzazioni terroristiche internazionali. Nella République già segnata in quest'ultimo decennio dalla lunga scia di attentati jihadisti che ha straziato la Francia e l'Europa, dalla redazione di Charlie Hebdo fino alla strage sulla Promenade des Anglais a Nizza, passando per Bataclan, Hypercacher, e tanti altri episodi di ultraviolenza e terrorismo, l'attuale amministrazione di Emmanuel Macron promette un dispositivo senza precedenti per garantire la sicurezza di Paris 2024.
Solo per la cerimonia di apertura, il 26 luglio con oltre cento leader mondiali attesi in tribuna secondo l'Eliseo, il ministro dell'Interno, Gérald Darmanin, ha annunciato uno schieramento di 45.000 agenti nell'Ile-de-France, la regione iper-centralizzata di Parigi che concentra in sé quasi il 20% della popolazione d'Oltralpe. Tra le 90 imbarcazioni con a bordo 206 delegazioni che sfileranno lungo la Senna, per sei chilometri, tra la zona di Bercy (est) e la Tour Eiffel (Ovest), uno dei natanti più sorvegliati sarà quello con a bordo le delegazioni di Italia e Israele sulla stessa barca per questioni di ordine alfabetico,.
Nel Paese che conta le comunità musulmana ed ebraica più folta d'Europa, gli israeliani verranno sorvegliati 24 ore su 24, sia nelle gare, sia al Villaggio olimpico e negli spostamenti, incluso da forze di sicurezza inviate da Israele. E a quattro giorni dal via, il ministro degli esteri Stéphane Séjourné ha rassicurato tutti dopo le polemiche sul crescente antisemitismo in Francia: «garantiremo la sicurezza della delegazione israeliana e assicureremo che sia la benvenuta per i Giochi olimpici».

(Il Messaggero, 22 luglio 2024)

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Quel giorno buio in cui gli ebrei lasciarono Rodi

Ottant’anni fa, a guerra ormai persa dai nazisti, la deportazione ad Auschwitz. Erano oltre 1700, tornarono in 178. Ecco le loro voci

di  Marcello Pezzetti

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Sopravvissuti a Ostia nel 1946 (Modiano è il quarto da sinistra)

«La vita a Rodi era un paradiso. La città divisa in quattro quartieri: quello ebraico, quello turco, quello greco e poi col tempo vennero gli italiani». (Rahamin Cohen). «Era una vita bellissima, quieta, calma, nessuno ci disturbava» (Stella Franco). «Il nostro non era un ghetto, era un quartiere liberissimo; ognuno poteva uscire liberamente come qualsiasi non ebreo» (Joseph Varon). «A Rodi, c’erano le prigioni. Nessun ebreo è mai entrato in una prigione, mai. Neanche uno» (Alberto Israel). Questo il ricordo di Rodi, l’“isola delle rose”, di alcuni ebrei sopravvissuti alla deportazione ad Auschwitz. Rodi, per secoli parte dell’Impero Ottomano, con le isole del Dodecaneso nel 1912 era stata occupata dagli italiani, che nel 1924 ne ottennero la sovranità. Questi, da subito, giudicarono la comunità ebraica locale, composta da oltre 4.500 persone, «ligia alle leggi», dunque affidabile. Quando ne ebbero la possibilità, quasi tutti gli ebrei scelsero la cittadinanza italiana, pur mantenendo come madrelingua il ladino (giudeo-spagnolo). «Abbiamo passato degli anni bellissimi con gli italiani» (Rachele Cohen).

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        Sami Modiano, deportato e sopravvissuto, con la moglie Selma,
che riuscì a nascondersi dai nazisti                                   

Nonostante gli ottimi rapporti con l’amministrazione italiana, a causa della mancanza di lavoro molti giovani emigrarono negli Usa, in Sudamerica, nel Congo Belga, in Rhodesia del Sud e in Palestina, per cui la comunità si dimezzò. «La maggior parte dei ragazzi partiva perché non c’era avvenire per loro sull’isola. Incominciavano a lavorare e una volta più o meno sistemati mandavano a cercare una ragazza di Rodi» (Lea Gattegno). La situazione cambiò bruscamente nel 1938, quando venne estesa anche nel Dodecaneso la legislazione antiebraica. «Mi hanno detto: “Tu non sei più italiano, non vai più alla scuola italiana, sei fuori dalla scuola, fuori dal palazzo del fascio, fuori da tutto!”. Ti tolgono qualcosa a cui vuoi bene… fa male, fa molto male» (Alberto Israel). Nel 1943, nei giorni successivi all’8 settembre, gli italiani – 35mila militari contro poco più di 7mila tedeschi – incredibilmente capitolarono e l’isola passò saldamente nelle mani delle forze di occupazione tedesche, che lasciarono comunque in vita un governo italiano collaborazionista. Per dieci mesi, tuttavia, le autorità naziste non diedero l’impressione di occuparsi della comunità ebraica locale, che visse questo periodo nella più irreale ingenuità.

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Rachele Capelluto con le sorelline gemelle Giulia Gioia e Fortunata, uccise ad Auschwitz

Il pericolo sembrava venisse solo dai bombardamenti degli inglesi, che nella primavera del 1944 colpirono più volte il quartiere ebraico, vicinissimo al porto, provocando diversi morti. Molti ebrei, conseguentemente, abbandonarono il quartiere e si rifugiarono nei villaggi vicini. Nel frattempo, in quelle settimane gli italiani completarono un elenco degli ebrei residenti nell’isola, per passarlo alle autorità tedesche. I nazisti avevano in ogni caso già stabilito la sorte che sarebbe toccata alla comunità ebraica, nonostante la guerra fosse ormai persa.
Ad organizzare gli arresti e la deportazione furono il responsabile del Servizio di sicurezza di Atene Anton Burger, uomo di Eichmann, già Comandante del campo-ghetto di Theresienstadt, e il Comandante delle forze armate tedesche dell’isola, il generale Ulrich Kleemann. Il 18 luglio fu diffuso l’ordine, per tutti gli ebrei dell’isola di sesso maschile di età superiore ai 15 anni, di presentarsi alla Kommandantur per un controllo dei documenti di identità. «È venuta una macchina decappottabile e c’erano due o tre tedeschi delle Ss, della Gestapo e un ebreo greco. Lui parlava il ladino e disse: “Dovete fare un controllo delle carte d’identità perché siete tutti sparsi. Venite domani all’aviazione e vi daremo la nuova carta d’identità. Era un traditore, quel figlio di puttana» (Alberto Israel).
Il giorno seguente toccò alle donne e ai bambini. «Fuori dalla caserma c’erano un sacco di donne che piangevano e si disperavano. Poi esce il presidente della Comunità e dice che anche tutte le donne con i figli avrebbero dovuto presentarsi il giorno dopo, con il necessario, piccoli bagagli e tutti i gioielli» (Stella Levi). «Quello che faceva l’interprete diceva “non succederà niente, i tedeschi si comporteranno bene con voi, vi porteremo in un’isola presso Rodi e starete lì fino alla fine della guerra…”. Eravamo brava gente… e ci abbiamo creduto» (Stella Franco). «Ci siamo consegnati, che altro ci rimaneva da fare? Non è che ci fosse un posto poi dove scappare, dove nascondersi» (Virginia Gattegno). «E dopo, man mano, dovevamo passare in fila a depositare i preziosi» (Rosa Levi). «Sa cosa hanno fatto molti? Sono andati nei bagni e hanno buttato lì tutti i gioielli. Perché avevano capito…» (Rachele Alhadeff). «Che sappia io, nessun italiano ha nascosto ebrei. E questo è grave: questo popolo che io ammiravo tanto, così pieno di umanità in tante occasioni, ci ha abbandonato» (Stella Levi).

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Un gruppo di giovani ebrei di Rodi (archivio Stella Levi)

In quegli stessi giorni, il giovane console turco, Selâhattin Ülkümen, intervenne con notevole coraggio presso le autorità naziste per impedire la deportazione degli ebrei in possesso della cittadinanza turca, facendo leva sulla neutralità del suo Paese. Ne furono individuati 42, e questi si salvarono. Il 22 luglio, con le vittime ancora sull’isola, venne ordinato il sequestro di tutti i loro beni, mobili e immobili. Il 23 luglio, nello stesso giorno in cui le truppe sovietiche liberavano il campo di sterminio di Majdanek, fu dato l’ordine di imbarco. «Domenica 23 luglio i signori tedeschi fanno partire le sirene, come se ci fosse un bombardamento. Tutti dovevano andare in un rifugio, ma era una messa in scena. Noi, ci hanno messi in fila per cinque, e dovevamo tenere la testa bassa» (Sami Modiano). «La città era morta. Al porto c’erano tre caicchi e hanno messo quasi 600 persone in ognuno» (Alberto Israel). Ed ebbe inizio il viaggio più lungo di tutte le deportazioni naziste. «C’erano ancora gli escrementi delle bestie che avevano portato prima, e urina dappertutto. Ma là dentro non c’erano animali, maiali, capre, ma persone, vecchi con i loro malanni, bambini, neonati, mamme che allattavano, donne che aspettavano…» (Sami Modiano). «Dove ci hanno messi dentro, pidocchi grandi così…» (Stella Benveniste). «Dormivamo a turno sopra le spalle di mamma e di papà» (Rosa Cappelluto). «Ci sono stati morti… abbiamo dovuto buttarli a mare» (Sami Modiano). «Eravamo lì come ipnotizzati. Non capivamo più cosa succedeva» (Alberto Israel).
All’arrivo al Pireo, il responsabile dell’Ufficio dei trasporti annunciò, dopo un controllo, l’arrivo di navi con il seguente carico: «Otto tonnellate di uvette, 37 di vitelli, 82 di carbone, 37 di attrezzi, 14 di oggetti di valore 298 di recipienti vuoti e rottami, 33 soldati e 1733 ebrei». Vennero portati tutti nel carcere ateniese di Haïdari, per gli ebrei del territorio il campo di transito per Auschwitz. Qui, dove non pochi morirono, rimasero dal 31 luglio al 3 agosto.
«Il primo morto ammazzato l’abbiamo avuto ad Haïdari: un uomo che ha cercato di prendere dell’acqua da una fontanella per i suoi figli piccoli» (Sami Modiano). «Non c’era l’acqua, non ci siamo lavati neanche la faccia. Tutto puzzava, tutto sporco, ma non era colpa nostra» (Stella Franco). «Mio nonno è morto di sete lì a Haïdari» (Matilde Cohen).
Il 3 agosto, dalla stazione ferroviaria di Atene iniziò l’ultima parte del trasporto, forse ancor più allucinante, che sarebbe durata quasi 10 giorni. «Tutti ammassati, ci si sdraiava a turno. Non mi ricordo che abbiamo parlato. Ci si teneva vicini e basta» (Virginia Gattegno). «Mia mamma è stata tutti quei giorni seduta per terra abbracciata a me che ero tra le sue gambe, con le mani attorno alla mia testa, senza muoversi, con una temperatura nel vagone di oltre 40 gradi» (Alberto Israel). «La disgrazia che è capitata più forte è questa: eravamo accompagnati anche da soldati italiani che avevano aderito ai tedeschi» (Rahamin Cohen).
E poi, il 16 agosto, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. «Poi siamo arrivati... eravamo già più morti che vivi...» (Virginia Gattegno). Sulla rampa, il medico delle Ss di turno eseguì la tristemente famosa “selezione iniziale”: i giovani vennero divisi dagli anziani e dai “non abili al lavoro”, e alcune giovani madri dai loro piccoli. Degli oltre 1.700 ebrei “selezionati”, 346 uomini e 254 donne furono immessi nel campo; gli altri vennero inviati alla morte col gas. Tornarono in 178, 135 donne e 43 uomini. Il 16 agosto l’antica e mite comunità ebraica di Rodi finì di esistere.

(la Repubblica, 22 luglio 2024)

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Teorie di un complotto ebraico dietro al tentato omicidio di Trump raggiungono milioni di persone

di David Fiorentini

L’antisemitismo rimane probabilmente la forma di odio più longeva ancora in circolazione. In ogni epoca ha trovato una nuova maschera dietro la quale nascondersi, evolvendosi in ogni contesto per riproporsi come la profetica soluzione ai più disparati problemi sociali.
L’ossessione per un presunto complotto globale dietro le quinte delle principali aule parlamentari, con a capo la setta segreta di turno, è un mito senza tempo, che molto spesso ha individuato nel popolo ebraico il suo principale protagonista. Ormai sono ben note ad esempio le bufale secondo cui gli ebrei avrebbero creato il Covid-19 per manipolare le dinamiche economiche mondiali e poi poter vendere il vaccino per un ulteriore guadagno.
La speculazione più recente oggi giunge dagli Stati Uniti, quando in seguito all’attentato all’ex presidente e candidato repubblicano Donald J. Trump, non si è perso neanche un secondo per additare gli ebrei.
Come riporta a Jewish News il Centre for Countering Digital Hate (CCDH) di Washington DC, svariati post sulla piattaforma X che “hanno falsamente promosso il coinvolgimento ebraico nel tentativo di assassinio sostenendo che un cecchino dei servizi segreti presente al momento indossava un filo rosso al polso, associato alla Kabbalah” hanno ricevuto più di 8,8 milioni di visualizzazioni.
Numeri molto preoccupanti, che mostrano da un lato la crescente presenza di un antisemitismo sempre meno velato, e dall’altro l’incapacità delle piattaforme di social media di moderare e contrastare queste palesi manifestazioni di odio, con il 95% dei post presi in esame che non presentava alcun tipo di fact checking.
“Nel mercato della disinformazione, che in effetti è ciò a cui molte piattaforme di social media si sono ridotte, un mercato di menzogne, i contenuti estremisti sono la tua moneta di scambio”, ha spiegato Imran Khan, amministratore delegato e fondatore del CCDH, auspicando una forte legislazione in grado di costringere i colossi dei social a cambiare le proprie linee guida e prevenire la diffusione dell’odio.

(Bet Magazine Mosaico, 22 luglio 2024)

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Si accende lo scontro fra Israele e i ribelli Houti dello Yemen

di Ugo Volli

• Il bombardamento
  Nella giornata di sabato una potente squadra dell’aviazione israeliana composta di 18 bombardieri F35 e F15 ha attaccato il porto strategico di Hodeida affacciato sul Mar Rosso nello Yemen occidentale. È il principale porto militare degli Houti, i ribelli yemeniti appoggiati dall’Iran, il centro logistico in cui essi ricevono le armi dall’Iran ed è anche la sede della principale raffineria del paese. Il bombardamento è stata la risposta all’attacco di un drone lanciato dagli Houti nella notte fra giovedì e venerdì, che ha colpito il centro di Tel Aviv a pochi passi dall’ex ambasciata americana – un luogo altamente simbolico. Il drone ha ucciso un cittadino israeliano, da poco immigrato dalla Bielorussia e ne ha feriti diversi altri.

• Perché la risposta
  Il colpo del drone non sorprende. Si tratta dell’attacco numero 220 proveniente dallo Yemen sul territorio israeliano in questi mesi di guerra. Israele non aveva mai risposto direttamente, in seguito a un accordo con gli Stati Uniti che guidano una coalizione internazionale che cerca di impedire ai pirati yemeniti di bloccare la navigazione internazionale sul braccio di mare che porta al canale di Suez, causando gravi danni all’economia di mezzo mondo. Tutti questi attacchi aerei dallo Yemen non avevano prodotto gravi danni. Ma questa volta gli Houti sono riusciti a raggiungere la capitale economica di Israele, anche perché il loro drone era stato sì rilevato dall’antiaerea ma non riconosciuto come ostile forse in quanto proveniente dal Mediterraneo, cioè da Ovest. C’è stata fra venerdì e sabato una discussione fra chi, soprattutto negli alti gradi militari, voleva una risposta quasi solo simbolica, come fu quella all’attacco missilistico iraniano il 14 aprile, e chi come Netanyahu riteneva necessaria una risposta concreta e dunque pesante. Alla fine è prevalsa l’opinione del primo ministro e l’attacco è stato duro ed efficace. Gli Houti hanno subito minacciato rappresaglie, ma non è detto che ne siano davvero in grado. Un missile sparato dallo Yemen contro Israele nella notte fra sabato e domenica è stato abbattuto da un antimissile israeliano “Arrow”.

• Lontananza
  La distanza fra Israele e lo Yemen è di oltre 1800 chilometri (come, per intenderci, fra Roma e Stoccolma). Gli aerei israeliani sono riusciti a percorrerla in andata e in ritorno portandosi le decine di tonnellate di bombe scaricate su Hudeida e tornando sani e salvi. Determinante è stato il rifornimento in volo non solo di aerei cisterna israeliani, ma anche di forze della Nato, fra cui almeno un velivolo italiano; il che significa che al di là delle posizioni politiche, la coalizione occidentale funziona ed è in grado di mettersi in opera velocemente. Bisogna anche tener conto che la distanza fra Israele e i luoghi strategici dell’Iran è inferiore a quella con lo Yemen. Oltre che una lezione per gli Houti, questa operazione è stata dunque anche un avvertimento implicito agli ayatollah: l’aeronautica israeliana è in grado di fare sul loro territorio non solo spedizioni dimostrative come quella di aprile, ma anche bombardamenti pesanti, contro cui le loro armi antiaeree sono impotenti, come si è visto in questi due casi. È un avvertimento importante non solo perché l’Iran è la centrale di comando da cui dipendono tanto gli Houti quanto Hamas, ma anche perché, come ha detto il Segretario di Stato Blinken in un comunicato di sabato cui pochi hanno prestato la giusta attenzione, all’Iran mancano solo due settimane per realizzare le componenti decisive del suo armamento atomico.

• Il quadro strategico
  Lo scambio di colpi con gli Houti, atteso da tempo dato che la coalizione internazionale si è mostrata incapace di bloccare l’aggressione dei ribelli yemeniti alla libertà di navigazione nel Mar Rosso, rende evidente uno dei fronti su cui deve combattere Israele. Contemporaneamente, fra giovedì e sabato, vi sono state importanti azioni contro Hamas a Rafah e Gaza City, scambi di colpi molto intensi con Hezbollah in Libano, diverse operazioni antiterrorismo nel territorio dell’Autorità Palestinese; vi è stato poi un tentativo di bombardamento su Haifa partito dall’Iraq ed è stata anche pubblicata la deliberazione del tribunale dell’Aia che ha dichiarato illegittima la presenza israeliana in Giudea e Samaria. Insomma, è sempre più chiaro che quella in corso non è una semplice operazione antiterroristica o una guerra con Hamas, che si potrebbe chiudere con un cessate il fuoco che liberasse i rapiti. Si tratta di una guerra su sei o sette fronti militari e altri politici e giuridici, la cui posta è l’esistenza stessa dello Stato di Israele. È una guerra diretta dall’Iran, di cui pochi in Occidente capiscono l’estensione e l’obiettivo. Israele ha i mezzi e la volontà per vincere. È importante che l’Europa e gli Usa non lo lascino solo, perché il pericolo è grande.

(Shalom, 21 luglio 2024)

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I primi 1.000 avvisi di leva agli ultraortodossi

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Dopo decenni di lotte e di fronte alla feroce opposizione della leadership ultraortodossa, oggi l’IDF inizierà a inviare gli avvisi di leva alle reclute degli studenti delle yeshiva.
Gli ordini di leva saranno inviati questa settimana a circa 1.000 giovani ultraortodossi in età di leva. A questi ultraortodossi verrà chiesto di partecipare alla procedura di tzav rishon (primo ordine) presso gli uffici di reclutamento. L’IDF sta cercando di evitare un confronto con la società ultraortodossa e ha messo in atto un processo di selezione in cui ha cercato di identificare gli uomini Haredi che sarebbero stati i più facili da arruolare.
Tra le persone identificate dall’IDF come potenziali arruolati ci sono uomini che ricevono una busta paga che indica che lavorano e non passano la maggior parte del tempo in yeshiva, uomini che possiedono uno smartphone e uomini che non erano presenti in una yeshiva durante le verifiche delle presenze effettuate dal Ministero dei Servizi Religiosi.
Nonostante questi tentativi, la leadership spirituale del settore ultraortodosso non accetta il provvedimento. Sul giornale Yated Ne’eman, di orientamento religioso, venerdì è apparsa una vignetta in cui si vedono gli ordini di arruolamento gettati in un cestino all’interno di una yeshiva, mentre gli studenti siedono davanti a un Talmud aperto, un’interpretazione visiva delle istruzioni dei rabbini haredi lituani, guidati da Rabbi Dov Lando, secondo cui gli studenti delle yeshiva non dovrebbero presentarsi per l’arruolamento nell’IDF.
Nei giorni scorsi, anche i rabbini del Consiglio dei Saggi della Torah di Shas si sono uniti all’ordine di non presentarsi, pubblicando una lettera che recita: “A partire da ora, quando non è ancora stata stabilita una nuova legge che regoli lo status dei membri delle Yeshiva, non si deve obbedire a nessun ordine di leva o di arruolamento, nemmeno a uno tzav rishon (primo ordine), e quindi non ci si deve presentare affatto agli uffici di reclutamento”.
I rabbini dello Shas hanno anche aggiunto che “ci sono elementi, guidati dall’Alta Corte di Giustizia e da funzionari legali, che stanno lavorando per danneggiare il mondo della Torah e per danneggiare il popolo della Torah, e quindi è doveroso per noi ora rimanere fermi, e chiarire a queste persone e al mondo che non c’è nessun potere al mondo che possa riuscire, Dio non voglia, a disconnettere gli studiosi della Torah dal Talmud”.
Coloro che non hanno aderito al messaggio sono i rabbini dei principali movimenti chassidici in Israele, i rebbes dei movimenti Gur, Belz e Vizhnitz. I tre non hanno firmato tali lettere e hanno anche detto a coloro che li hanno consultati che in questa fase un giovane ultraortodosso che riceve uno tzav rishon dovrebbe recarsi all’ufficio di reclutamento per non litigare con l’esercito, e che in seguito esamineranno come mantenere l’esenzione per chi studia in yeshiva.
Un’altra voce che si è sentita negli ultimi giorni è quella del rabbino Dovid Leibel, capo della rete di kollel Achvas Torah, che negli ultimi anni ha cercato di creare percorsi personalizzati per gli ultraortodossi nell’esercito. La scorsa settimana, una manifestazione di manifestanti ultraortodossi si è svolta intorno alla sua casa, dopo aver scoperto che egli si sarebbe incontrato con alti ufficiali dell’esercito per discutere del reclutamento di giovani ultraortodossi.
Leibel ha anche tenuto una lezione ai suoi studenti in cui si è opposto allo spirito militante dei rabbini Haredi, dicendo: “A lungo andare, tutto il nostro settore dovrà trovare una sorta di accordo, non è possibile vivere nel Paese e stringere la mano al governo, all’esercito e alla legge e vedere chi batterà per primo le ciglia”.
Il rabbino ha anche fatto riferimento all’opinione di alcuni ultraortodossi che dicono di non arruolarsi perché non fanno parte dello Stato, che non riconoscono. Questi ultraortodossi credono che l’esilio non sia ancora finito, fino alla venuta del Messia ebraico. Il rabbino ha detto: “Ci siamo seduti in esilio con i sionisti, quindi ora dovremmo comportarci come in esilio, chinare la testa davanti ai proprietari terrieri, non andare a ubriacarci e gridare ‘Siamo noi a gestire il Paese’”.
L’IDF ha avuto difficoltà a stimare quanti giovani avrebbero risposto al primo bando di leva. I primi 3.000 ordini decisi nell’ambito della sicurezza saranno distribuiti dall’IDF in tre lotti, ciascuno a distanza di due settimane.
Il generale di brigata Shay Taib questa settimana ha giustificato la decisione di agire in questo modo, dicendo: “Si tratta di una popolazione su cui abbiamo essenzialmente zero dati. Se mi chiedete quanti della popolazione generale si faranno avanti, so come tirare fuori una cifra che si avvicina alla realtà. Questa è una popolazione per la quale non abbiamo dati e non posso stimare quanti si presenteranno. Dopo un ciclo, avremo due settimane di apprendimento e miglioramento, un altro ciclo e un’altra procedura di miglioramento”.

(Israele360, 21 luglio 2024)

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I protocolli dei medici israeliani per assistere gli ostaggi liberati

Allo Sheba Center di Tel  Aviv uno staff di esperti ha elaborato procedure ad hoc per curare i rapiti da Hamas Si credeva che i ricoverati volessero stare da soli, invece desideravano il contatto fisico con dottori e famiglie.

di Luciano Bassani

Il ritorno a casa di persone che sono state rapite e tenute in cattività pone dei problemi inusuali e di difficile gestione sia sanitaria che etico comportamentale. Qual è la prima cosa che dici a un rapito che scende da un elicottero? Che tono di voce usi? Lo abbracci? Lo tocchi? Cosa dici quando ti chiede «Perché mia madre non è qui per incontrarmi?».
  «Abbiamo fatto pratica più e più volte finché non abbiamo trovato le soluzioni migliori e le persone più adatte a soddisfare ogni prigioniero», ha affermato il dottor Itai Pessach, medico di terapia intensiva pediatrica, direttore dell'ospedale pediatrico Edmond and Lily Safra presso lo Sheba Medicai Center (Tel Aviv). Pessach dirige la squadra medica speciale dello Sheba che si prende cura degli ostaggi di ritorno. Si stima che delle 251 persone rapite a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, 120 sono state rilasciate nel corso del tempo. Tutti sono stati trasportati direttamente negli ospedali israeliani, di cui 36 allo Sheba, più che in qualsiasi altro ospedale. In un webinar organizzato dall'American Friends of Sheba Medicai Center il 1° luglio, Pessach ha spiegato che l'ospedale pediatrico è stato ritenuto il centro medico più adatto per prendersi cura di ostaggi di qualsiasi età. «Fin dall'inizio, abbiamo capito che i rapiti avrebbero avuto bisogno di un ambiente tranquillo e protettivo per ridurre l'ansia e di un posto in cui avremmo potuto ospitare anche le loro famiglie, cosa che facciamo sempre nel nostro ospedale pediatrico», ha detto. Inoltre, davamo per scontato - purtroppo erroneamente - che i bambini rapiti sarebbero stati liberati per primi e in tempi rapidi.
  «Pensavamo che ci sarebbero voluti alcuni giorni prima che i bambini rapiti venissero restituiti e abbiamo iniziato a prepararci per fornire loro le cure specifiche e delicate di cui avrebbero avuto bisogno. Non potevamo immaginare che persino un'organizzazione terroristica feroce come Hamas avrebbe tenuto prigionieri i bambini per un lungo periodo», ha detto Pessach. Se poi pensiamo che tra i rapiti c'era un neonato di dieci mesi, Kfir Bibas, è difficile farsi qualche illusione con questi personaggi. Circa 120 professionisti sono stati selezionati con cura per essere addestrati nella squadra speciale che ha aiutato gli ostaggi liberati. Tra loro ci sono psichiatri specializzati nei traumi dei soldati e dei prigionieri di guerra, esperti nel trattamento delle donne che hanno subito aggressioni sessuali e personale con esperienza nel lavoro con bambini vittime di violenza. «Abbiamo dovuto raccogliere molto knowhow perché nessun operatore sanitario lo aveva mai fatto prima, né in Israele né in nessun altro posto al mondo», ha detto Pessach. «Non c'era un protocollo basato sulle prove, quindi abbiamo dovuto crearlo». Lo Sheba ha persino chiesto il parere di esperti in traumatologia che avevano avuto a che fare con ragazze rapite da Boko Haram in Nigeria, bambini rapiti dai cartelli della droga in Messico e bambini in zone di guerra come Bosnia e Ucraìna.
  «Abbiamo simulato diversi tipi di scenari di ritorno e li abbiamo messi in pratica più volte. Abbiamo svolto un processo approfondito per comprendere il modo giusto di accogliere le persone che hanno subito un'esperienza così orribile e impedire che si verificassero ulteriori danni psicologici». Sulla base delle raccomandazioni raccolte, l'ospedale pediatrico Safra ha predisposto con cura un'area apposita, protetta dalla stampa e dal pubblico, per accogliere gli ostaggi. «Ci siamo assicurati che le luci fossero soffuse perché alcuni di loro erano stati tenuti sottoterra e avevano dovuto acclimatarsi lentamente alla luce», ha detto Pessach.
  «Abbiamo sostituito molti mobili per farla sembrare più una stanza di un boutique hotel che una stanza di un paziente. Non sapevamo quali sarebbero state le loro condizioni mediche, ma dovevamo essere pronti a fornire cure avanzate. Siamo stati in grado di passare da una terapia intensiva a una «stanza di hotel» in pochi minuti per fornire le cure mediche necessarie in un ambiente sicuro», ha aggiunto. Il team ha persino pensato di allestire una cucina con chef in cui preparare qualsiasi piatto desiderato dai rapiti rimpatriati, nonché un salone per capelli, unghie e trattamenti per il viso per le ex prigioniere che potessero aver bisogno di questi servizi per «sentirsi esseri umani», ha affermato Pessach. Sono state esaminate le cartelle cliniche di ogni prigioniero per determinare le probabili necessità, come ad esempio occhiali da vista rotti o portati via. Pesach si ricordò di un prigioniero la cui prescrizione specifica per occhiali non era immediatamente disponibile. «Così una persona ha chiesto a un'altra che ha chiesto a un'altra ancora - è così che funzionano le cose in Israele - e in meno di un'ora, nel cuore della notte, abbiamo trovato un optometrista che è andato nel suo negozio, ha preparato gli occhiali e li ha portati allo Sheba».
  Un altro motivo per cui l'ospedale pediatrico era il luogo più appropriato per accogliere gli ostaggi è che il personale è esperto nel dare con delicatezza le brutte notizie. «Avevamo molte brutte notizie da dare ad alcuni dei prigionieri, soprattutto ai primi ad essere rilasciati dopo 50 giorni», ha detto «Non sapevano che altri erano stati rapiti. Non sapevano che altre comunità erano state aggredite il 7 ottobre. Non sapevano che alcuni dei loro familiari erano morti e altri erano stati fatti prigionieri. «Volevamo dare questa notizia in modo molto controllato e sicuro, su misura, consultandoci con i loro familiari». Nonostante tutta questa meticolosa preparazione, Pessach ha detto che i protocolli sono stati modificati in base all'esperienza effettiva. La conoscenza accumulata è stata condivisa con altri ospedali che hanno ricevuto ostaggi, e viceversa. Lo staff aveva dato per scontato, ad esempio, che i rapiti di ritorno non avrebbero voluto parlare o essere toccati, come è tipico delle vittime di violenza. Avevano dato per scontato che inizialmente i rapiti avrebbero voluto avere contatti solo con persone selezionate e che avrebbero dovuto essere protetti dagli altri. «Ma invece era il contrario; desideravano ardentemente il contatto fisico con noi e le loro famiglie, e volevano condividere le loro esperienze e il loro dolore. Volevano parlare, e volevano vedere gli amici il più velocemente possibile, per provare gioia e felicità. Non volevano essere lasciati soli», ha detto Pessach. «Ora sappiamo che dobbiamo ancora proteggerli in una certa misura, ma dobbiamo anche dare loro molta scelta. Gli ultimi quattro rapiti che sono tornati volevano davvero interagire con i loro amici e familiari, quindi glielo abbiamo permesso fin dall'inizio», ha aggiunto. «Si tratta di un processo continuo di apprendimento della soluzione esatta appropriata per ogni prigioniero che ritorna». Pessach ha affermato che tutti gli ostaggi hanno subito un trauma psicologico e fisico significativo. E sebbene ognuno abbia sofferto in prigionia, le esperienze e le reazioni individuali sono state molto diverse. «Le loro condizioni dipendevano da dove venivano trattenuti e con chi venivano trattenuti. Quelli trattenuti da soli (alcuni sono stati trattenuti da soli per 50 giorni, quasi senza alcuna interazione umana) hanno avuto un'esperienza molto diversa a livello fisico e psicologico rispetto a quelli trattenuti con altri ostaggi o con familiari», ha spiegato. «Quelli tenuti sottoterra erano esposti a condizioni più dure di quelli tenuti in appartamenti. Anche le persone nello stesso gruppo avevano esperienze diverse a seconda di come i loro rapitori si relazionavano con ciascuno di loro». I bambini che sono tornati a casa, ha aggiunto, erano generalmente più resilienti degli adulti. «Ci sono almeno altri 120 ostaggi ancora a Gaza», ha detto Pessach. «Non possiamo semplicemente sederci e aspettare che tornino. Ogni secondo, le loro vite sono a rischio e la loro salute è compromessa. Noi in Israele e in tutto il mondo dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che tornino. Siamo pronti a riceverli in qualsiasi momento e a dare loro la migliore assistenza possibile, ma non è abbastanza. Abbiamo solo bisogno che tornino qui».

(La Verità, 21 luglio 2024)

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“L’antisemitismo cova sempre sotto la cenere”: intervista a Magdi Allam

di Niram Ferretti

Magdi Allam, o meglio, Magdi Cristiano Allam, da quando, nel 2008, si convertì al cristianesimo, uscendo definitivamente dal perimetro dell’Islam, e dunque diventando apostata, scelta per la quale è prevista la condanna a morte, è da molti anni schierato a fianco di Israele e delle sue ragioni, al punto che Hamas lo ha designato come legittimo bersaglio. Ciò nonostante, con coraggio e determinazione, ha sempre continuato a dire ciò che ritiene necessario dire.

- Nel 2003 ti è stata concessa la scorta a seguito di quello che è stato valutato come un pericolo concreto riguardo alla tua persona. Vorresti brevemente ricordare quali sono le ragioni di questa decisione?
  «Nel marzo del 2003 ero editorialista ed inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”. Mi trovavo a Kuwait City per seguire gli sviluppi della seconda guerra del Golfo, culminata con l’uccisione di Saddam Hussein e il sovvertimento dell’Iraq. L’allora Direttore del Sisde, i Servizi segreti interni, il generale dei Carabinieri Mario Mori, comunicò all’allora Direttore di “La Repubblica”, Ezio Mauro, che dovevo rientrare immediatamente in Italia. Il Sisde era stato informato dai Servizi segreti egiziani, ben presenti a Gaza che fu occupata e amministrata dall’Egitto dal 1948 al 1967, che Hamas mi aveva di fatto condannato a morte per le mie pubbliche denunce sulla stampa e in televisione degli attentati terroristici suicidi perpetrati da Hamas contro i civili israeliani. È da allora che lo Stato mi ha affidato una scorta. La mia esplicita e totale denuncia del terrorismo islamico e della predicazione d’odio dai pulpiti delle moschee contro ebrei e cristiani, Israele e l’Occidente, mi ha portato successivamente a subire condanne e minacce di morte anche da parte di supposti rappresentanti di un “islam moderato” in Italia, legati ideologicamente a Hamas e ai Fratelli Musulmani. Nel 2007, dopo la pubblicazione del mio saggio “Viva Israele”, e nel 2008, dopo la mia conversione dall’islam al cristianesimo ricevendo il battesimo dalle mani del Papa Benedetto XVI, sono stato il civile più scortato d’Italia, a causa dell’impennata delle condanne e delle minacce da parte dei terroristi e degli estremisti islamici».

- Veniamo all’attualità. Recentemente sei stato oggetto di attacchi diretti da parte di Zulfiqar Khan, un predicatore pakistano che si trova a Bologna già noto per le sue invettive contro Israele e per considerare Hamas in modo favorevole. A seguito di ciò hai scritto una lettera aperta al ministro degli Interni Piantedosi. Cosa hai da dire su questa vicenda?
  Il 30 giugno 2024 ho partecipato a un convegno dal titolo “Il 7 ottobre nella geopolitica di Israele”, a San Miniato, in provincia di Pisa, organizzato dal “Centro Ghesher”. Il 6 e il 7 luglio, sul profilo Facebook del Centro islamico Iqraa, sono stati pubblicati due video di altrettanti sermoni del sedicente imam pachistano Zulfiqar Khan, tenuti di fronte ai fedeli della sua moschea, dal titolo “Scarsa conoscenza di Magdi Allam”, in cui mi condanna e mi rivolge degli avvertimenti. Mi preoccupa il fatto che, nonostante questo sedicente imam, sia già stato diffusamente denunciato dalla stampa per le sue affermazioni violente soprattutto contro gli ebrei, Israele e Stati Uniti, ma anche nei confronti degli omosessuali e della nostra civiltà laica; nonostante il Ministero dell’Interno abbia specificato che è un soggetto “attenzionato” dalle Forze dell’ordine; nonostante sia stata chiesta la sua «espulsione immediata» da parte del vice-Presidente del Consiglio, Segretario federale della Lega ed ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini; nonostante sia stato oggetto di un’interpellanza parlamentare da parte del Senatore Marco Lisei e del Deputato Sara Kelany del Partito di maggioranza al Governo, Fratelli d’Italia, in cui si chiede al Ministro dell’Interno di intraprendere delle azioni nei suoi confronti; ebbene, ciononostante, questo sedicente imam mi ha voluto riservare due sermoni e altrettanti video in 48 ore per condannarmi sostanzialmente come “nemico dell’islam” e “collaborazionista di Israele”. Ho pertanto deciso il 15 luglio di pubblicare una “Lettera aperta” al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, evidenziando che negli ultimi anni, senza una carica pubblica e scarsa visibilità televisiva, la scorta assegnatami si è ridotta notevolmente, a un livello che reputo inadeguato alla mia condanna a morte che resta immutata. Ho fatto presente che lo scrittore Salman Rushdie, condannato a morte nel 1989 per il suo romanzo “I versi satanici” dal Fondatore della Repubblica Islamica dell’Iran, l’imam Khomeini, si è salvato miracolosamente da un attentato terroristico islamico ben 33 anni dopo, il 12 agosto 2022. Perché la condanna del “nemico dell’islam” non decade mai, così come l’obbligo di ucciderlo resta valido fino alla sua morte.

- Il tuo impegno a favore di Israele è un impegno di vecchia data e ben noto. Quali sono, se puoi riassumerle, le ragioni essenziali della tua vicinanza?
  «Sono nato e cresciuto nei primi vent’anni in un Egitto impregnato di odio assoluto nei confronti di Israele e di un pregiudizio viscerale nei confronti degli ebrei. Sulla carta geografica nei testi di Storia in lingua araba il territorio che va dal Giordano al Mediterraneo e dal Libano al Sinai, veniva indicato come “Palestina”. Israele veniva additato come “entità sionista”, creata dall’imperialismo americano. Il regime autoritario e guerrafondaio di Nasser concepiva Israele come un cancro da estirpare, mobilitando il popolo e investendo tutte le risorse per annientarlo e far trionfare un’unica “Nazione araba”, dal Marocco ad ovest all’Iraq ad est. Ero al Cairo il 5 giugno 1967. Scoppiò la “Guerra dei sei giorni” voluta da Nasser. La Radio annunciava l’approssimarsi della “eliminazione del nemico sionista”. Sentii il fragore delle bombe con cui l’aviazione israeliana distrusse gli aerei militari egiziani a terra, determinando in poche ore la sconfitta dell’Egitto. Avevo 15 anni ed una fidanzatina che, soltanto allora, scoprii che era ebrea. In una società laica non ci si declinava per identità religiosa. Ma allora esplose la caccia all’ebreo. Fui prelevato da casa, trasferito in un centro dei Servizi segreti, mi accusarono di essere una spia di Israele.Presi atto che dall’odio nei confronti di Israele si era rapidamente passati all’odio nei confronti degli ebrei, a prescindere che fossero cittadini egiziani o di altri Stati. Successivamente si è passati all’odio di tutti i “diversi”. Prima i cristiani, anche se sono gli autentici egizi non islamizzati. Poi i musulmani eterodossi, non praticanti, sostanzialmente laici. Infine l’odio contro tutti i musulmani che non si sottomettono all’arbitrio e alla tirannia dei gruppi estremisti e terroristici islamici. Ho così compreso che solo riconoscendo il diritto di Israele ad esistere come Stato del popolo ebraico, si garantisce il diritto alla vita di tutti, ebrei, cristiani, musulmani eterodossi e musulmani praticanti ma non sottomessi ai terroristi islamici. Ecco perché “Viva Israele” è un inno alla vita di tutti.

- Dopo l’eccidio di Hamas perpetrato in Israele il 7 ottobre scorso, abbiamo assistito a un rigurgito di antisemitismo senza precedenti. È qualcosa che ti ha meravigliato o te lo aspettavi?
  «L’antisemitismo, o più chiaramente anti-ebraismo, ha sempre covato sotto la cenere in Italia e nell’Europa dove si è consumata la Shoah, l’Olocausto di sei milioni di ebrei. Di fatto c’è stata una continuità tra la partecipazione del regime fascista di Mussolini alla Shoah, e la politica filo-araba e filo-islamica dell’Italia repubblicana, dettata dalla strategia dell’Eni, l’Ente nazionale idrocarburi. La necessità di acquisire il petrolio e il gas degli Stati arabi ed islamici, ha forgiato sin dal dopoguerra la politica estera dell’Italia e dell’Europa, a scapito di Israele. L’anti-ebraismo è radicato nel cristianesimo, fondato sul pregiudizio che sarebbero stati gli ebrei a uccidere Gesù. Così come è radicato nelle ideologie della destra nazista e fascista e della sinistra comunista, rappresentando gli ebrei come una casta oligarchica che controllerebbe la ricchezza del mondo e determinerebbe le sorti dell’umanità. Il pregiudizio nei confronti degli ebrei si è riverberato su Israele, gettando ombre sulla sua nascita e mettendo in discussione il suo diritto ad esistere. Si tratta di un pregiudizio radicato e diffuso, presente sia ai vertici delle istituzioni, anche se non palesato, sia tra le masse dove invece viene manifestato esplicitamente e persino violentemente. La conferma la si è avuta quando Israele ha legittimamente reagito alla strage perpetrata dai terroristi islamici di Hamas il 7 ottobre 2023, con 1200 israeliani massacrati in poche ore. Ebbene, si sono capovolte le responsabilità, incolpando non Hamas ma Israele di crimini contro l’umanità e persino di “genocidio del popolo palestinese”.

- Nell’islam ci sono due filoni di antisemitismo, quello originario che troviamo nel Corano e negli hadit e quello di importazione occidentale che soprattutto in Medio Oriente è stato diffuso capillarmente dalla propaganda del Terzo Reich, a partire dalla metà degli anni ’30. Entrambi li troviamo esemplificati nello Statuto di Hamas del 1989. Cosa hai da dire in proposito?
  Maometto è stato uno stragista degli ebrei, così come il Corano è il testo più anti-ebraico della Storia. Nel 627 a Medina Maometto partecipò personalmente allo sgozzamento e alla decapitazione di circa 900 ebrei maschi adulti della tribù ebraica dei Banu Quraiza, mentre i bambini e le donne furono catturati, seviziati e venduti come schiavi. I terroristi islamici non sono delle “schegge impazzite” che violano e oltraggiano il “vero islam”, ma all’opposto sono i musulmani che più di altri ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Tutto ciò che fanno i terroristi islamici corrisponde all’attuazione di “fatwe”, responsi giuridici islamici emessi da autorità religiose, vincolanti per i fedeli. Le fatwe si fondano sulla “sharia”, la legge islamica, basata sul Corano, il loro testo sacro che sostanzia e invera Allah; sulla Sunna, la raccolta dei detti e dei fatti attribuiti a Maometto; e sulla Sira, la biografia di Maometto. Anche la decapitazione di neonati e bambini trova una sua legittimazione in delle fatwe emesse dal “Grande imam” dell’Università islamica di Al Azhar, concepita come l’equivalente del “Vaticano dell’islam sunnita”, in quanto principale riferimento sul piano della sharia per la stragrande maggioranza dei musulmani nel mondo che appartengono alla comunità sunnita. Queste fatwe si basano sui seguenti principi: 1) Tutti gli israeliani sono forze di occupazione. 2) Gli attentati terroristici, compresi gli attentati terroristici suicidi, sono operazione di “martirio” e sono legittime sul piano della sharia. 3) L’islam legittima gli attentati terroristici anche per uccidere i bambini e le donne. Il 4 aprile 2002 Ahmed Al Tayeb, attuale Grande imam dell’Università islamica di Al Azhar, equiparabile al “Papa dell’islam sunnita”, quando all’epoca era il Mufti d’Egitto, massimo giureconsulto islamico, legittimò il terrorismo suicida affermando: “Le operazioni di martirio in cui i palestinesi si fanno esplodere sono permesse al cento per cento secondo la legge islamica. La soluzione al terrore israeliano risiede nella proliferazione degli attacchi suicidi che diffondono terrore nel cuore dei nemici di Allah. I paesi, governanti e sovrani islamici devono sostenere questi attacchi”. Sempre il 4 aprile 2002, lo scheikh Mohammad Sayed Tantawi, nella sua veste di Grande imam dell’Università islamica di Al Azhar, ricevendo al Cairo il deputato arabo-israeliano Abdel Wahhab Darawsheh, emise una fatwa in cui sentenziò: “I cittadini israeliani sono forze di occupazione. Quindi le operazioni di martirio sono la più elevata forma di Jihad. Gli attacchi suicidi sono un precetto islamico finché il popolo della Palestina riconquisterà la sua terra e farà arretrare la crudele aggressione israeliana. I giovani che le attuano hanno venduto a Allah la cosa più preziosa. Le operazioni di martirio contro qualsiasi israeliano, inclusi i bambini, le donne e i giovani, sono legittime dal punto di vista della legge islamica. Il popolo palestinese intensifichi le operazioni di martirio contro il nemico sionista, in quanto la manifestazione più alta del Jihad”.Lo Statuto di Hamas ricalca il Corano, Maometto e la storia di 1400 anni di odio islamico nei confronti degli ebrei. Vi si afferma che la Palestina non potrà essere ceduta, anche per un solo pezzo, poiché essa appartiene all’islam fino al Giorno del giudizio. “Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un bene inalienabile (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al Giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa”.L’articolo 7 dello Statuto presenta il Jihād contro il sionismo come rispondente alle parole, proferite secondo Bukhari e Muslim dallo stesso Maometto, per le quali i musulmani combatteranno ed uccideranno gli ebrei. “Benché […] molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihād, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – le benedizioni e la salvezza di Allah siano su di Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo.”

- Sono anni che la tua voce si fa sentire relativamente all’Islam, di cui denunci senza tentennamenti la sua incompatibilità con l’ordine democratico liberale, esattamente quello che diceva tra gli altri, Giovanni Sartori. Quindi, per te, il problema non è il cosiddetto “islamismo” la presunta degenerazione jihadista dell’Islam, ma l’islam stesso?
  «Sono stato musulmano per 56 anni. Ho sempre detto che bisogna distinguere tra i musulmani come persone e l’islam come religione. Sono consapevole che ci sono i “musulmani moderati”, persone che antepongono la ragione e il cuore ad Allah e a Maometto. Il problema è l’islam, che è un sistema di potere che salda in modo indissolubile la dimensione religiosa e quella secolare, dove pertanto il peccato diventa reato. L’islam nasce nel 622 quando Maometto, cacciato dai suoi concittadini della Mecca perché si ostina a affermare che bisogna adorare solo il dio pagano arabo Allah, uno dei 360 idoli che componevano il Pantheon politeista arabo, costituisce a Medina la “tribù dei musulmani”, di cui lui assume sia la guida politica, sia la guida religiosa essendosi auto-insignito a “Messaggero di Allah”. Il Corano è concepito come un testo increato al pari di Allah. Pertanto, da 1400 anni i musulmani ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah vi prescrive. Mentre fede e ragione convivono armoniosamente nell’ebraismo e nel cristianesimo, l’islam si fonda sulla sola fede.In questo contesto, sono proprio gli integralisti, gli estremisti e i terroristi islamici coloro che più di altri ottemperano letteralmente e integralmente al Corano e a Maometto. Il Corano legittima e ordina di odiare, discriminare e uccidere i miscredenti, a partire dagli ebrei e dai cristiani. Maometto ha perpetrato crimini contro l’umanità, uccidendo, sgozzando e decapitando personalmente i suoi nemici. È stato il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il vero leader politico dei “Fratelli Musulmani” a livello mondiale, il grande burattinaio del radicalismo e del terrorismo islamico, a dire correttamente: “Non c’è un islam moderato e un islam non moderato. L’islam è l’islam”.

- L’Europa di oggi è un continente che sembra del tutto incapace di affrontare la sfida strutturale che pone l’islam, non è già, demograficamente e culturalmente, una battaglia persa?
  «L’Europa si trova nella condizione in cui versava nel 476, anno della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Siamo una civiltà decaduta, dei popoli condannati all’estinzione, degli Stati nazionali collassati. Oggi, come allora, la causa scatenante del declino è il tracollo demografico. L’Imperatore Caracalla, figlio dell’Imperatore Lucio Settimio Severo, berbero africano di Leptis Magna, nel 212 con la “Constitutio Antoniana” concesse la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero. Era lo “ius soli” dell’epoca. Da Sud arrivarono i berberi per colmare la carenza di contadini nelle campagne. Da Nord affluirono i barbari per consolidare le fila dell’Esercito. E fu proprio un barbaro inquadrato nell’Esercito romano, il generale Odoacre, a destituire con un colpo di stato militare nel 476 l’ultimo Imperatore Romano d’Occidente Romolo Augusto o Augustolo, perché aveva appena 15 anni. L’Impero Romano d’Occidente finì non per la forza dei barbari, ma per la propria intrinseca debolezza. Non fu un omicidio, ma un suicidio. È la stessa realtà che si sta verificando in questa Europa. A fronte di un tracollo demografico senza pari nella Storia, sono gli stessi europei che spalancano le proprie frontiere agli islamici, i nuovi barbari, favorendo la sostituzione etnica e accelerando l’islamizzazione demografica. Di fatto l’Europa è già a un livello avanzato di islamizzazione, innanzitutto a causa della proliferazione delle moschee e delle scuole coraniche, che non sono luoghi di culto pari alle sinagoghe e alle chiese, ma dei presidi territoriali al cui interno si forma la “comunità islamica”, si pratica il lavaggio di cervello per forgiare i combattenti alla “Guerra santa islamica”, si inculca l’odio e si predica la sottomissione all’islam dell’insieme dell’umanità. La differenza è che mentre i barbari europei recepirono la civiltà romana e parteciparono alla fondazione del Sacro Romano Impero, costituito grazie al miracolo di San Benedetto e della rete dei monasteri benedettini, i nuovi barbari islamici rigettano pregiudizialmente la nostra civiltà laica e liberale dalle radici ebraico-cristiane e finiranno per sottometterci alla tirannia dell’islam».

(L'informale, 21 luglio 2024)

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A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio

Il 18 febbraio 1984 fu rinnovato il Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede, originariamente concluso nel 1929 sotto il governo fascista. Dopo quarant'anni di Repubblica democratica, il vecchio Concordato era diventato un oggetto talmente osceno nella sua formulazione clericale che nel paese si cominciava seriamente a parlare dell'opportunità di abolirlo. Tenuto presente che in quegli anni a capo del governo si trovava il socialista Bettino Craxi, fu la stessa Chiesa Cattolica che, nel timore si arrivasse davvero ad abolirlo, spinse la Democrazia Cristiana ad attivarsi per arrivare ad un aggiornamento dello strumento concordatario che lo rendesse presentabile a una popolazione ormai pronta a sganciarsi da certe indicazioni dell'autorità ecclesiastica.
  La parte socialista del governo però era meno desiderosa di aggiornare il Concordato, perché molti  avrebbero preferito la sua pura e semplice abolizione. Per qualcuno infatti la presenza nella Costituzione di un paese democratico di un rudere come il Concordato fascista era considerata un vulnus, un'anomalia costituzionale da risanare con la pura e semplice abolizione dell'articolo 7 della Carta che ne regola la presenza.
  Poiché però i democristiani si appoggiavano proprio su questo articolo per la difesa del Concordato,  altre forze di governo fecero notare che nella Carta esiste anche un articolo 8, ancora inattuato, che prevede la possibilità per lo Stato di fare intese con confessioni religiose non cattoliche, cosa che fino a quel momento non era mai avvenuta. Si arrivò dunque a richiedere l'attuazione dell'articolo 8 come condizione per il mantenimento dell'articolo 7.
  Intuito il pericolo, le forze cattoliche di governo corsero ai ripari e si misero a cercare organizzazioni religiose non cattoliche a cui offrire la possibilità di fare intese con lo Stato. La prima in assoluto fu la Chiesa Valdese, che dopo un serio lavoro di elaborazione presentò il testo di una formale richiesta di un'Intesa con lo Stato.
  I Valdesi erano consapevoli di assumere una posizione diversa da quella degli altri evangelici, e di poter essere accusati di voler partecipare agli illeciti vantaggi di una posizione di privilegio dei cattolici. Vollero allora che nel testo dell'Intesa fosse ripetuta quasi in ogni articolo la dizione "senza oneri per lo Stato", a marcare la differenza con la Chiesa Cattolica, a cui molti laici rimproveravano  il privilegiato e illecito uso di finanze pubbliche. Purtroppo, dopo pochi anni la Chiesa Valdese non riuscì più a conformarsi a quella solenne dichiarazione, perché si lasciò attrarre dalla ghiotta possibilità di avvalersi dei soldi dell'8 per mille. All'inizio ci fu contrasto interno fra i Valdesi, tanto che lo stesso Moderatore della Tavola Valdese di quel momento si rifiutò, per motivi personali, di sottoscrivere la clausola relativa all'8 mille e si fece sostituire nella firma. Ma il risucchio del Concordato ebbe comunque  il suo effetto e la prebenda istituita dallo Stato per i sottoscrittori di intese fu ricevuta con soddisfazione.
  La possibilità di arrivare a concludere intese fu offerta nei primi anni anche ad altri evangelici, tra cui il movimento delle "chiese dei Fratelli". Si aperse allora anche in quel  movimento un intenso dibattito, che in certi momenti prese la forma di una netta contrapposizione: intesa sì o intesa no?
  Nel 1986 fu deciso allora di preparare un convegno per discutere il tema, cosa che poi avvenne nel 1989, dopo diversi seminari e studi in sedi locali. Per il convegno furono indicati due relatori: uno a favore delle intese, uno contro.  Alla fine, anche per altre ragioni, la richiesta di intesa con lo Stato non ci fu.
  Nella convinzione che  al di là della particolare situazione storica di quel tempo, la questione di allora continua a presentarsi in altra forma in ogni generazione, riportiamo il testo della relazione contro l'intesa. Il tema in sostanza riguarda il rapporto fra Dio e Cesare, fra i credenti in Cristo e le Autorità civili. Non è un argomento di poco conto, perché il variare dell'atteggiamento delle Autorità, come sta avvenendo anche negli ultimi anni, pone a tutti domande nuove a cui il credente in Cristo è chiamato a rispondere sulla base di un fondamento antico: le Sacre Scritture. M.C.

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I motivi biblici, teologici e storici per cui non è bene fare intese con lo Stato

Relatore: Marcello Cicchese

• PREMESSA
  Si può dire ancora qualcosa di nuovo sui rapporti tra chiesa e stato? I passi della Bibbia che ne parlano non sono forse sempre gli stessi? E le interpretazioni che ne sono state date nella storia della chiesa non sono ormai ben note? Non sarebbe più semplice limitarsi a dichiarare da che parte si sta, mettendosi all'ombra di qualche grande dottore della chiesa o di qualche corrente teologica ben assestata?
  Effettivamente, non è facile dire cose originali su questo argomento; ma poiché in tutte le cose veramente importanti l'originalità non è affatto importante, anche in questo caso non si tratta di riuscire a sorprendere gli uditori con qualche idea brillante e nuova, ma semplicemente di cercare la verità. Non una verità astratta e teorica, ma, più concretamente, la vera, la giusta strada da percorrere oggi per rimanere nell'itinerario preparato da Dio per i suoi figli.
  Questo itinerario dobbiamo percorrerlo noi, e non i nostri progenitori: è naturale quindi che siamo noi a interrogare la Bibbia e a verificare se le risposte trovate nel passato sono proprio autentiche e se, comunque, si adattano alla situazione di oggi. Se le risposte del passato si riveleranno ancora valide e percorribili, sarebbe da pazzi cercarne altre. Se invece non sarà così, lo stesso fatto di averlo capito ci darà indicazioni sufficienti per imboccare quella strada nuova che ci apparirà essere la strada giusta.
  La costituzione italiana e la situazione politica del nostro paese ci spingono a considerare di nuovo i rapporti della chiesa con lo stato, a causa della ormai nota questione delle "intese". Siamo quindi costretti a cercare nella Bibbia, con passione, quello che Dio ha da dirci. Dobbiamo farlo con umiltà e fiducia.
  Con umiltà, perché dobbiamo lasciare che la Bibbia resti parola di Dio, e quindi non parola nostra, e tanto meno parola nostra a cui abbiamo posto in calce la firma falsa di Dio.
  Con fiducia, perché possiamo essere certi che quando apriamo la Bibbia per prendere insieme una decisione di fondamentale importanza, Dio non ci lascia privi della capacità di intendere chiaramente il giusto senso delle sue parole. Se veramente desideriamo fare la volontà del Signore, possiamo accogliere con fiducia l'invito di Giacomo: "Chi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data" (Giacomo 1:5).
  Nel tempo della scelta una sola è l'interpretazione giusta delle Scritture; tutte le altre sono sbagliate, anzi ingannevoli, perché sono altrettanti messaggi falsi con cui il Nemico tenta di mettere fuori strada il popolo di Dio.
  Rispetto alla vastità del tema, una relazione come questa non può che essere stringata e incompleta, ma vuol essere almeno un tentativo di pensare biblicamente su un argomento che ci riguarda tutti, senza alcuna preoccupazione di apparire conservatore o progressista, di destra o di sinistra. E anche quando le cose vengono dette con forza e convinzione, il desiderio fondamentale è che i lettori facciano come i credenti di Berea, che "esaminavano ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così" (Atti 17:11).

• LE AUTORITÀ SONO DA DIO
  Quando il Nuovo Testamento prende in considerazione la società civile organizzata, ne parla quasi sempre in termini di "autorità". In questo articolo verrà usato spesso anche il termine "stato", senza attribuire ad esso particolari significati giuridico-filosofici, ma solo per intendere quel complesso di istituzioni civili che hanno autorità sul singolo cittadino.
  La prima affermazione fondamentale che ci viene dalle Scritture è che le autorità sono da Dio. Questo non è mai stato un fatto ovvio e scontato, e non lo è neppure oggi. Anzi, se non ci fossero nella Bibbia affermazioni così chiare, forse molti di noi avrebbero già concluso che le autorità sono dal diavolo.
  A rigor di logica la conclusione potrebbe anche essere corretta: se tutto il mondo "giace nel maligno" (1Giovanni 5:19) e Satana è "il principe di questo mondo" (Giovanni 14:30), sarebbe naturale dedurne che i potenti di questa terra sono soltanto dei semplici vassalli che esercitano il potere in nome del "principe".
  Ma la Bibbia non dice questo, e noi dobbiamo prenderne atto con tutte le dovute conseguenze.
  Se le autorità fossero dal diavolo, i credenti non solo non avrebbero obblighi di ubbidienza nei loro confronti, ma anzi, sarebbero loro ad avere autorità sulle "autorità", perché Gesù Cristo ha vinto il maligno e ha dato ai suoi discepoli il potere di cacciare i demoni (Marco 16:17) e "su tutta la potenza del nemico" (Luca 10:19).
  Invece, proprio perché le autorità sono da Dio, i credenti non solo non hanno alcun potere su di loro, ma anzi devono esprimere la loro sottomissione al Signore anche nella doverosa sottomissione alle autorità umane che Dio ha stabilito.
  E' notevole il fatto che la Bibbia parli di autorità solo per sottolineare i doveri dei credenti. Ai cristiani si chiede sottomissione, onore e preghiere. Alle autorità non si chiede nulla. E soprattutto, non si chiede nulla che riguardi la chiesa. Non si dice, per esempio, che le autorità debbano essere moralmente sottomesse alla chiesa; non si dice neppure che la debbano onorare standola rispettosamente a sentire tutte le volte che parla di problemi sociali.
  La Bibbia presenta con pochi tratti i compiti assegnati da Dio alle autorità, ma non dice che cosa si deve fare quando queste non assolvono i loro compiti. Certamente non conferisce alla chiesa l'incarico di sorvegliarle e di rimproverarle quando si comportano male. Anche se le autorità un giorno dovranno rispondere delle loro opere, la loro fedeltà è un fatto che riguarda Dio e non la chiesa.

• TRA SPIRITUALISMO E CLERICALISMO
  Tra i diversi errori in cui è caduta la chiesa nei suoi rapporti con lo stato, se ne possono schematizzare due, di tipo contrapposto, che per semplicità denoteremo con i termini “spiritualismo" e "clericalismo".
  Per spiritualismo si intende il modo di pensare di coloro che, volendo dare molta importanza alla nuova nascita, tendono a trascurare e svalutare tutto ciò che fa ancora parte della vecchia creazione. Quello che non può essere esplicitamente ricondotto all'opera rinnovatrice dello Spirito Santo nel cuore degli uomini, rischia di essere inglobato complessivamente nel concetto biblico di "carne", e quindi considerato come espressione di peccato.
  Poiché è indubitabile che le autorità fanno parte della vecchia creazione, il primo impulso degli spiritualisti è quello di rifiutarle, anche perché non è certo difficile riconoscere in esse delle effettive manifestazioni di peccato.
  E' chiaro però che, sia per motivi biblici sia per motivi pratici, le autorità non possono essere tanto facilmente ignorate. Si arriva così ad un atteggiamento di generica riluttanza: i rapporti con le autorità civili sono tendenzialmente pochi e quasi tutti strumentali; dei personaggi pubblici si parla poco, e quando se ne parla, se ne parla male.
  L'atteggiamento spiritualistico è molto diffuso tra gli evangelici risvegliati, e bisogna dire chiaramente che esso è peccato. Con un atteggiamento di questo genere  non si dà alle autorità quell'onore che la parola di Dio richiede, e che è loro dovuto per la funzione e il rango di "superiori" che hanno ricevuto da Dio nell'ambito della sua opera di conservazione del mondo, fino al compimento dell'opera di salvezza in Gesù Cristo.
  Per clericalismo si intende invece l'errore opposto. Il ragionamento dei clericali è più o meno questo: le autorità sono da Dio, e poiché la maggiore esperta in fatto di cose di Dio è la chiesa, le autorità devono stare a sentire quello che dice la chiesa.
  Anche questo è un atteggiamento di peccato: perché quando i cristiani ragionano in questo modo rifiutano di dare alle autorità quella sottomissione che la parola di Dio esplicitamente ordina.
  Questo peccato assume la sua forma più evidente nella chiesa cattolica romana, che nei secoli passati ha realizzato concretamente il suo clericalismo riuscendo a conquistare, in una società cristianizzata, una superiorità giuridicamente riconosciuta nei confronti dello stato.
  Oggi la chiesa cattolica, pur avendo rinunciato per motivi di forza maggiore ad esercitare un potere giuridico sulle nazioni, non ha tuttavia rinunciato a pretendere per sé un'autorità morale. L'attuale papa illustra in modo efficacissimo questa pretesa ecclesiastica, andando in giro per il mondo a dire a ciascuno il suo, come uno che avendo ricevuto da Dio una particolare sapienza e autorità, può legittimamente pretendere che re, presidenti e governanti di tutte le nazioni della terra stiano ad ascoltare con deferente rispetto le esortazioni, gli ammonimenti e i rimbrotti che lui, suprema autorità spirituale del mondo, si sente in dovere di fare.
  Se questo tipo di clericalismo è intimamente connaturato con l'ecclesiologia cattolica, esso è presente anche nella tradizione riformata, sia pure in forme diverse. Anche per i riformati la chiesa può parlare ai re e trattare con i potenti della terra, in forza della sua autorità spirituale. Limitarsi a pretendere per la chiesa un'autorità soltanto morale sullo stato, era un fatto che una volta distingueva nettamente le chiese riformate dalla chiesa cattolica, che invece continuava a restare teologicamente attaccata ai suoi eserciti e ai suoi sbirri. Oggi invece questa differenza si è molto attenuata, perché anche la chiesa cattolica si limita a chiedere per sé il riconoscimento di un'autorità soltanto morale sulla società civile. Il clericalismo protestante trova quindi espressione in quel desiderio intenso di entrare in concorrenza con la chiesa cattolica in fatto di autorità morale sul mondo. Se la chiesa cattolica proclama al mondo certe cose, le chiese protestanti ne proclamano altre; se la chiesa cattolica fa parlare il papa dalla finestra di San Pietro, i protestanti fanno parlare qualche loro personaggio rappresentativo da uno dei loro convegni; se la chiesa cattolica chiede allo stato di riconoscere giuridicamente la sua alta funzione spirituale attraverso le clausole di un concordato, le chiese protestanti fanno vedere al mondo come una chiesa cristiana può accordarsi con le autorità civili per mezzo di intese, senza pretendere per sé privilegi e senza costituire un onere per lo stato; e così via.
  E' un tipo di clericalismo che non fa parte della tradizione risvegliata, ma per il suo sapore di novità e per la sua veste dignitosa oggi potrebbe destare un certo interesse anche in questo ambiente.
  Ma la pretesa della chiesa di avere autorità morale sullo stato non ha basi bibliche. Da nessuna parte nel Nuovo Testamento sta scritto che la chiesa ha un compito pedagogico nei confronti dello stato. Se la chiesa, in quanto tale, potesse legittimamente insegnare allo stato l'arte del governo, essa gli sarebbe "superiore", perché chi insegna è in una posizione di superiorità rispetto a chi viene istruito. La Scrittura afferma invece che nell'amministrazione delle cose pubbliche i superiori sono le autorità civili, non le autorità ecclesiastiche.
  Si può essere certi allora che tutti i fervorini moralistico-paterni che il papa rivolge quasi ogni giorno ai popoli della terra, e tutti i documenti moralistico-politici che certi cristiani si ostinano a indirizzare ai responsabili della politica, non spostano il male che è nel mondo neppure di un millimetro.
  Dio non è distratto, e non perde di vista il male che imperversa sulla terra. Ma Dio ha per il mondo il suo piano di salvezza e di giudizio, e in questo piano ognuno è chiamato ad occupare il suo posto. Nessuno può illudersi di contribuire alla causa della giustizia da una posizione che non è la sua, perché se uno dice una cosa vera da una posizione falsa, è la falsità che si diffonde, non la verità.
  Nel programma di Dio per la sua chiesa è anche prevista, in casi estremi, la disubbidienza alle autorità civili; ma non è previsto l'atteggiamento di tutela e di giudizio nei loro confronti. Nel capitolo 13 della lettera ai Romani, Paolo presenta i magistrati come "ministri di Dio", adoperando i termini "diaconos" e "leiturgos", usati di solito per indicare coloro che servono il Signore nella chiesa. Se dunque anche i magistrati sono, volenti o nolenti, servitori di Dio, con quale diritto i credenti si azzardano a "giudicare i domestici altrui?" (Romani 14:4)?

• LA FUNZIONE DELLE AUTORITÀ
  Lo stato, con le sue leggi, i suoi tribunali e le sue carceri, è chiaramente un ordinamento provvisorio. Non era necessario prima della caduta e non sarà più necessario dopo la discesa della nuova Gerusalemme, quando Dio stesso porrà "il suo tabernacolo tra gli uomini" ed "Egli abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli, e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio" (Apocalisse 21:3). Ma oggi, nel tempo della sua pazienza, fino a che Egli è disposto ad esercitare il suo potere in forma nascosta e indiretta, Egli vuole che su questa terra abitata da giusti e ingiusti ci sia un'istituzione, formata da giusti e ingiusti, che abbia la necessaria autorità per mantenere in una certa misura l'ordine e la giustizia.
  Le funzioni assegnate da Dio allo stato sembrano essere essenzialmente tre:

  1. Ordinare la convivenza umana per mezzo di apposite leggi;
  2. Porre un argine al male attraverso il meccanismo dello spavento preventivo e della punizione;
  3. Tenere desto il ricordo del giudizio di Dio su tutti gli uomini.

Queste funzioni sono state delegate da Dio alle autorità civili; esse quindi ci rimandano a Lui, e la loro presenza serve a mantenere desto negli uomini il ricordo di Dio nella sua funzione di legislatore e giudice. I parlamenti sono lì a ricordarci che gli uomini non possono vivere senza leggi; i tribunali sono lì a ricordarci che esiste una giustizia e che sul suo metro saranno misurate tutte le azioni degli uomini; le carceri sono lì a ricordarci che il male non resterà impunito, ma ricadrà sulla testa di colui che lo compie.
  Queste funzioni non possono e non devono essere svolte dalla chiesa: essa non ha autorità su queste cose. Non ha neppure ricevuto la promessa di una particolare sapienza in merito. Quindi c'è da insospettirsi quando si vedono dei cristiani che, senza ricoprire nessuna carica pubblica, parlano e agiscono come se avessero ricevuto doni di particolare acutezza in fatto di amministrazione della società civile. I cristiani devono sottomettersi alle autorità come tutti gli altri; anzi, devono essere molto più scrupolosi degli altri, perché sanno a Chi realmente essi si sottomettono, e quindi devono farlo "non soltanto a motivo della punizione, ma anche per motivo di coscienza" (Romani 13:5).
  L'incarico che lo stato ha ricevuto da Dio serve dunque a conservare questo mondo e a ricordare agli uomini l'autorità di Dio. Nello svolgimento di questo compito, lo stato non può essere né sostituito né istruito dalla chiesa, perché l'opera dello stato riguarda tutti gli uomini, e la responsabilità che ne porta riguarda Dio. Per la chiesa non c'è nessun posto speciale. Lo stato anzi non ha neppure ricevuto da Dio la capacità di riconoscere la vera chiesa, semplicemente perché non era necessario.

• I LIMITI DELLE AUTORITÀ
  Ma oltre alla possibilità di un'indebita invasione della chiesa nel territorio dello stato, c'è anche la possibilità opposta: cioè che lo stato si assuma compiti che sono di specifica competenza della chiesa.
  Il limite fondamentale dello stato è che a lui non è stato affidato alcun compito di salvezza, cioè non ha nessun vangelo da annunciare, nessuna speranza universale da proporre. Quando uno stato, un partito, un movimento politico si presentano come portatori di un nuovo messaggio di salvezza per l'umanità; quando additano agli uomini alti ideali e nobili mete; quando si propongono di curare alla radice i mali della società, e in vista di tali fini chiamano a raccolta tutti gli uomini di buona volontà, ivi compresi i cristiani, si può ragionevolmente pensare che dietro a tutto questo nobile fervore si nasconda lo spirito dell'anticristo, che prima o poi viene fuori nei lutti, nelle stragi e nelle barbarie che inevitabilmente accompagnano questi umani progetti di rinnovamento universale.
  La nuova creazione, in cui trova posto la nuova società, ha avuto inizio con Gesù Cristo; e il corpo di Gesù Cristo su questa terra è la chiesa. Alla chiesa quindi, e non allo stato o a qualsiasi altra istituzione pubblica, compete l'incarico di annunciare e di vivere in prima persona l'unica, vera salvezza che Gesù ha portato nel mondo.
  Ma la chiesa, che è il germe della nuova società, oggi deve esprimere la signorìa di Gesù partecipando al suo abbassamento e alla sua umiliazione. Quindi deve guardarsi bene dalla tentazione di parlare tanto di "gloria di Dio", solo per innalzare sé stessa. Il suo posto, oggi, è in basso.

• SIATE SOTTOMESSI
  L'ordine biblico della sottomissione alle autorità deve essere ristabilito in tutta la sua forza. Ben lungi dal favorire il disinteresse egoistico, questo insegnamento della Scrittura è un'esortazione alla partecipazione impegnata, serena e leale alla vita della società. Per esempio, non si può essere sottomessi senza conoscere quello che le leggi richiedono. Quindi, come prima cosa bisogna essere informati.
  Essere sottomessi significa poi prendere in seria considerazione gli appelli diretti o indiretti che le istituzioni pubbliche rivolgono ai cittadini affinché collaborino al buon andamento delle attività di interesse sociale.
  Essere sottomessi significa anche adoperarsi, con correttezza e lealtà, affinché nel proprio paese vengano abolite leggi inique e introdotte leggi eque, in modo che venga migliorata la qualità morale della convivenza umana.
  Infine, essere sottomessi non significa essere servili, perché in qualche caso il buon cittadino è tenuto a denunciare alle autorità competenti le violazioni della legge di cui è testimone e che causano disordini e ingiustizie. Se necessario, il cristiano può e deve fare questo senza timori di svantaggi personali, perché lo fa "per motivi di coscienza", servendo il Signore da uomo libero.
  Ma tutto questo i cristiani devono farlo come coscienziosi cittadini, insieme a tutti gli altri cittadini. La conoscenza delle Scritture e la guida dello Spirito Santo saranno per loro un aiuto fondamentale nelle scelte che dovranno fare; ma dovranno guardarsi bene dal pretendere che sia loro riconosciuto uno "status" particolare a causa della loro identità di cristiani.

• IN MANO DEI TRIBUNALI
  Le autorità sono da Dio, nel senso che è volontà di Dio che in ogni comunità sociale ci siano delle autorità pubbliche. Questo però non significa che l'operato delle autorità rifletta le intenzioni e la natura di Dio. I potenti della terra non portano l'aureola del divino; anzi, tutte le loro opere saranno un giorno giudicate dal Signore, ivi compresi gli abusi e le ingiustizie che avranno commesso nell'esercizio delle loro funzioni.
  Tuttavia, anche dietro alle autorità particolarmente ingiuste (perché nei confronti di Dio sono sempre ingiuste) bisogna scorgere la volontà di Dio che permette che ciò accada. Paolo dice: "Le autorità che esistono sono stabilite da Dio": dunque non quelle ideali, ma proprio quelle con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni.
  Non occorre certo una grande acutezza per accorgersi che le autorità, che pure hanno il compito di mantenere l'ordine ed esercitare la giustizia, spesso sono le prime a non osservare le leggi della società. Ma questo, Dio lo sapeva fin dall'inizio. Non è quindi il caso di indignarsi troppo e di compiacersi intimamente del proprio elevato senso di giustizia. Tanto meno è il caso di muovere velati rimproveri a Dio perché non fulmina subito il tiranno. Molto meglio è cercare di capire le vie del Signore, chiedendo a Lui la sapienza e la forza per camminare in esse.
  Senza pretendere di sondare i misteri della volontà divina, che spesso restano chiusi alla nostra comprensione, si possono indicare almeno due motivi per cui Dio sopporta le autorità particolarmente ingiuste.

  1. Per punire l'iniquità degli uomini e risvegliare la coscienza di alcuni di loro.
    Dio permette talvolta che la malvagità esercitata nel privato, diffusa nella popolazione e tollerata da tutti, trovi un'espressione pubblica nella violenza oppressiva dei governanti. In casi come questi la chiesa non è chiamata a scindere frettolosamente le sue responsabilità e ad ergersi a maestra, rivolgendo solenni rimproveri a destra e a sinistra o, addirittura, caldeggiando "la morte del tiranno". Poiché conosce la santità di Dio e la malvagità degli uomini, la chiesa deve essere la prima a ravvedersi, a fare cordoglio, a chiedere perdono a Dio per i suoi peccati e per quelli degli altri. La chiesa è chiamata a santificarsi, a cambiare stile di vita e a cercare la fedeltà al Signore nelle difficili condizioni che Egli permette.
  2. Per mettere alla prova la sua chiesa e darle la possibilità di testimoniare pubblicamente del Signore Gesù Cristo.
La chiesa deve aspettarsi la persecuzione proprio da quegli stati che si sentono chiamati a grandi compiti di salvezza universale. Gli stati che si fondano su ideologie totalizzanti prima o poi s'accorgono che molti cristiani non collaborano, o collaborano con scarso entusiasmo. Essendo dominati da uno spirito di anticristo, le autorità di queste nazioni vedono nella chiesa fedele un'antagonista, e non appena la situazione si fa critica comincia la persecuzione.
  Naturalmente la persecuzione arriva perché i cristiani cominciano a disubbidire, a rifiutarsi di sottostare a certe disposizioni delle autorità. I cristiani arrivano quindi al punto in cui la loro coscienza è tesa tra l'ubbidienza a Dio e la sottomissione alle autorità, che pure sono volute da Dio.
  Abituati come siamo a parlare con disinvoltura di disubbidienza civile, soprattutto oggi che non costa molto, forse non ci rendiamo conto di quanto sia tragico il momento in cui la chiesa deve opporsi, in nome di Dio, alle autorità che pure sono ordinate da Dio. La società umana vive il suo dramma più intenso quando le due autorità che Dio ha stabilito sulla terra, con compiti e funzioni diverse, arrivano a scontrarsi, o meglio, quando una delle due usa il potere conferitole da Dio per colpire l'altra, opponendosi così, con la violenza e l'ingiustizia, all'azione salvifica di Dio.
  E' il momento in cui le autorità, da malvagie diventano demoniache, perché la caratteristica di ciò che è demoniaco sta proprio nell'opporsi a Dio con la forza che viene da Dio. E' il momento in cui si ripete il dramma di Gesù davanti a Pilato.
  Pilato dice a Gesù: "Non sai che ho potestà di liberarti e di crocifiggerti?" (Giovanni 19:10). Gesù non nega questa autorità, ma si limita a ricordare al governatore romano da Chi egli l'ha ricevuta. Gesù non si ribella a Pilato e lascia che eserciti la potestà di crocifiggerlo. Ma riserva a sé stesso l'autorità della parola e del silenzio.
  Gesù ha l'autorità della parola. Davanti alle massime autorità di quel tempo, il sinedrio ebraico e il governatore romano, nella posizione di imputato, Gesù dà di sé stesso la testimonianza pubblica più chiara e inequivocabile: Egli proclama di essere il Figlio di Dio e il Re dei giudei. E proprio in questo momento, nella posizione di massima debolezza umana, Gesù esprime la sua vera autorità su Pilato. Gesù ha l'autorità di far giungere al governatore romano la parola di Dio, Egli è la parola di Dio per lui. Gesù è l'unico che comunica la verità a un potente della terra che non sa di essere irretito nella menzogna.
  Gesù ha l'autorità del silenzio. Quando Pilato ordina a Gesù di dirgli da dove viene, Gesù tace. Pilato può pretendere l'ubbidienza dai suoi sudditi per tutto ciò che riguarda la convivenza umana, ma non ha l'autorità di pretendere da Gesù informazioni sul Padre celeste. Pilato non ha autorità in questo campo. E Gesù gli disubbidisce, tacendo.
  In questo modo Gesù stabilisce il limite che le autorità terrene non possono valicare: la parola di Dio. I potenti della terra possono arrestare, imprigionare, uccidere, ma quando si tratta della parola di Dio essi non possono costringere i testimoni di Gesù Cristo né a parlare né a tacere. I re e i governatori, come tutti gli altri uomini peccatori, sono chiamati a sottomettersi alla parola di Dio, a riconoscerne l'autorità nel momento in cui arriva a loro e li chiama a ravvedimento e a salvezza, perché da quella parola saranno salvati o giudicati.
  Se è vero che "il servitore non è da più del suo signore" (Giovanni 15:20), dall'esempio di Gesù davanti a Pilato bisogna dedurre che l'unico momento in cui la chiesa esercita un'autentica autorità sullo stato è quando i cristiani si trovano davanti ai tribunali, accusati per il nome di Gesù Cristo. Gesù l'aveva detto:

    "... vi metteranno in mano dei tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete menati davanti a governatori e re per cagion mia, per servir di testimonianza dinanzi a loro e ai Gentili" (Matteo 10:1718).

In tempi normali il compito della chiesa è di ubbidire alle autorità, e non di parlare con loro. Ma in tempi di persecuzione i cristiani sono chiamati a dare la loro testimonianza ai governanti. E sarà una testimonianza autorevole, perché in quei momenti Gesù concede ai suoi discepoli l'autorità che Egli aveva davanti a Pilato. Essi dunque non hanno bisogno di preparare lunghi ed elaborati discorsi in difesa della fede, perché hanno la promessa di Gesù di una particolare assistenza da parte dello Spirito Santo (Matteo 10:19-20).

• DUE LINGUAGGI DIVERSI
  Un'ultima cosa emerge chiara dal colloquio di Gesù con Pilato: i loro linguaggi sono completamente diversi. Ma non perché le forme espressive e i significati usati dall'uno siano inusuali e oscuri per l'altro: non si tratta di modi diversi di esprimere le stesse cose, di problemi di traduzione che possano essere superati con un po' di buona volontà. Le realtà di cui parlano Gesù e Pilato sono del tutto diverse: quindi è inevitabile che non riescano a trovare un linguaggio comune in cui possano comunicare, per così dire, da pari a pari. Quello di cui parla Gesù è radicalmente nuovo e interamente sconosciuto a Pilato. Egli tenta di costringere Gesù a parlare il suo linguaggio, e non ci riesce; ascolta Gesù che parla nel suo linguaggio, e non lo capisce. Per capirlo, avrebbe dovuto ravvedersi.
  Gesù capisce il linguaggio di Pilato e ubbidisce ai suoi ordini, fino a che è giusto farlo, fino a che nell'ubbidienza a Pilato riconosce la volontà di Dio. Al di là di questo, tace. Non tenta nemmeno di spiegare a Pilato le sue buone ragioni: semplicemente, lascia cadere la comunicazione e sceglie la via del silenzio. Dopo aver detto tutto quello che il Padre gli aveva ordinato di dire, Gesù tace e si lascia crocifiggere.
  In realtà, non c'è stato nessun colloquio: Dio ha parlato, e l'uomo ha rifiutato di ascoltare.
  Di conseguenza non esiste nemmeno un linguaggio comune alla chiesa e allo stato. Ciascuno dei due ha il suo proprio linguaggio, e i due linguaggi sono necessariamente diversi perché si riferiscono a realtà diverse, anche se collegate tra loro nel piano complessivo di Dio.
  Dire che chiesa e stato hanno linguaggi diversi non significa che le due parti non possano comunicare fra loro: significa soltanto che per comunicare devono usare o l'uno o l'altro dei due linguaggi, e che non esiste un terzo linguaggio, ottenuto per miscela, che le due parti possano usare per trattare da pari a pari, come due stati sovrani. O si parla il linguaggio dello stato, o si parla il linguaggio della chiesa. Nel primo caso i cristiani, come tutti gli altri cittadini, devono sottomettersi alle autorità, sempre nei limiti dell'ubbidienza a Dio; nel secondo caso le autorità terrene, come tutti gli altri uomini peccatori, devono ravvedersi e credere all'evangelo. In tutti i casi c'è sempre una delle due parti che deve sottomettersi all'altra. Soltanto Dio resta sempre e in ogni caso l'unico sovrano a cui tutti gli uomini devono sottomettersi.
  Chiesa e stato possono dunque comunicare fra loro, ma quello che non è legittimo è proprio l'accordo paritetico tra le due parti. Quando chiesa e stato s'incontrano a mezza strada, riconoscendosi a vicenda "pari dignità nella diversità delle funzioni", c'è da temere fortemente che l'unico a cui non sia riconosciuta la dovuta dignità sia proprio Dio. Le due parti s'accordano fra di loro per non doversi sottomettere l'una all'altra nella giusta sottomissione a Dio. E prendono gloria l'una dall'altra per non dover dare gloria soltanto a Dio. E' il caso in cui la parola "intesa" sostituisce la parola "sottomissione" e, qualche volta, la parola "persecuzione". E tutto fa credere che quando chiesa e stato arrivano ad intendersi, la loro intesa non possa che essere come quella di Abramo con il Faraone d'Egitto (Genesi 12:10-20), cioè un accordo fra uomini alle spalle di Dio.

• LA POSIZIONE PARTICOLARE DELL'ITALIA
  E' chiaro  che in questa comprensione dei testi biblici gli accordi paritetici tra stato e chiesa, si chiamino essi "concordati" o "intese", non trovano posto. Nel caso particolare del nostro paese la situazione è poi aggravata dalla presenza di un'istituzione ecclesiastica che svolge un ruolo unico nella cristianità mondiale: la chiesa cattolica romana, con il suo papa che pretende di essere il vicario di Cristo e il suo stato del vaticano che pretende di essere il simbolo e l'anticipazione del governo di Dio sulla terra. La vicinanza di questa istituzione religiosa, dalle sembianze sempre più simili a quelli della donna vestita di porpora e di scarlatto dell'Apocalisse (cap.17), dovrebbe rendere i cristiani che vivono in Italia particolarmente attenti e vigili. E' proprio con questa organizzazione religiosa di peso mondiale che il nostro stato ha dovuto stringere un patto. Un patto che esprime la volontà dell'organizzazione cattolica di mantenere, nel nome di Gesù Cristo, un posto di dominio sulla società civile. Al di là di tutte le valutazioni etiche e politiche che si possono fare, per noi cristiani c'è soltanto una parola che esprime adeguatamente questa situazione: "peccato". Il concordato è peccato, ribellione contro Dio fatta in nome di Dio, presunzione di uomini che si richiamano al nome di Gesù Cristo per non sottomettersi alle autorità civili volute da Dio ed esercitare subdolamente il dominio su altri uomini, inducendoli così a bestemmiare il nome di Gesù Cristo.
  Le intese sono una conseguenza di questo peccato. Sono un tentativo umano di porre rimedio a ciò che molti, anche tra gli uomini politici, hanno fin dall'inizio avvertito come un'ingiustizia. Ma una volta che il concordato si è rivelato inevitabile, le autorità politiche non hanno saputo andare al di là di un maldestro tentativo di giustizia perequativa concedendo anche ad altri enti religiosi la possibilità di stipulare accordi con il governo, sia pure in forme e a condizioni ben diverse.
  All'origine di tutta la questione delle intese c'è quindi un peccato: il concordato. E adesso, dopo che il peccato è stato commesso e rinnovato, e dopo che i suoi deleteri influssi continuano a farsi sentire su tutta la popolazione, ci sono ancora dei cristiani evangelici che si chiedono se sia lecito o no trarre qualche vantaggio dalle conseguenze di questo peccato.
  Pur con errori ed esagerazioni, le chiese dei Fratelli hanno sempre mantenuto vivo il sentimento dell'imminente venuta del Signore. Non è questo il momento di dimenticarsene e di abbassare la guardia. Consapevoli di essere negli ultimi tempi, è nostro dovere rimanere vigili e attenti anche quando, come in questo caso, la tentazione non ci arriva in forma di persecuzione da parte del mondo religioso, ma in forma di seduzione da parte del mondo laico. Una seduzione che potrebbe essere una trappola dell'Avversario per allentare le difese del popolo di Dio e renderlo più vulnerabile per altre tentazioni ben più gravi e rovinose.
  Gesù però l'aveva detto: "Guardate che nessuno vi seduca" (Matteo 24:4).

(Notizie su Israele, 21 luglio 2024)



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Un drone a Tel Aviv

di Micol Flammini

I danni e le vittime del drone che ha colpito al cuore Tel Aviv. Come è riuscito ad arrivare sin lì? Ed è solo uno degli attacchi di prova, condotti dai nemici di Israele, satelliti dell'Iran.
  Alle tre di notte di venerdì, un drone è riuscito ad attraversare il cielo di Tel Aviv, sorvolare il mare, entrare in città dalla costa e colpire un edificio che si trova in una zona con alberghi, bar, ristoranti, a pochi passi dalla sede locale dell’ambasciata americana, e uccidere un civile. Poche ore dopo l’attacco gli houthi, il gruppo yemenita armato e pagato dall’Iran, ha dichiarato di aver eseguito l’attacco con una nuova arma, un drone Yaffa, concepito appositamente per colpire Tel Aviv per superare le difese israeliane e non essere intercettato dai radar: Yaffa è il nome della città in arabo.
  Il drone è entrato indisturbato e due persone che si trovavano sulla spiaggia di Tel Aviv hanno avuto il tempo di accorgersene, filmarlo, seguirlo fino allo schianto. L’esercito israeliano ha parlato di un errore umano: la sirena che avvisa i cittadini di mettersi nei rifugi non è partita perché i sistemi di difesa sono rimasti immobili di fronte al passaggio del drone che proveniva dallo Yemen. Gli houthi hanno fatto un annuncio trionfante, hanno detto che il loro Yaffa è stato pensato per volare a lungo e a bassa quota.
  In questi mesi i nemici di Israele stanno portando avanti attacchi di prova per testare le difese dello stato ebraico con nuove armi. Non fa eccezione il drone che ha ucciso un uomo a Tel Aviv, un Samad di fabbricazione iraniana modificato per l’attacco. La guerra dei droni dell’Iran e delle sue milizie contro Israele è metodica, da quando Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, il gruppo libanese Hezbollah ha attaccato Israele con circa mille droni. Anche le milizie irachene, sempre sostenute dall’Iran, hanno rivendicato diversi attacchi con droni contro Israele. Gli houthi conducono una guerra contro l’occidente nel Mar Rosso, colpendo le navi che passano per il trasporto commerciale, e finora hanno lanciato tredici droni contro Israele. Tutte queste armi usate per colpire lo stato ebraico sono finanziate da Teheran, che il 14 aprile per il suo attacco combinato contro il territorio israeliano ha usato anche duecento droni oltre a missili balistici e da crociera.
  La minaccia di Hamas si è affievolita, il gruppo della Striscia è quasi disarmato e sempre più sotto pressione, tanto che i negoziati per la liberazione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e il cessate il fuoco stanno motivando una speranza mai sentita prima, ma tutti gli altri fronti che circondano Israele stanno facendo prove per una guerra con armi migliorate, che prima o poi potrebbero essere utilizzate per un attacco coordinato, più grande e da vari lati.

Il Foglio, 20 luglio 2024)

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Il mondo ebraico prima dell’Olocausto, mostra a Trani

Opere di tre artisti sopravvissuti ai campi di sterminio

di Fabrizio Ricciardi

Il mondo degli ebrei dell’Europa dell’Est prima dell’Olocausto: i villaggi, le cerimonie, le feste e lo stile di vita di una cultura che stava per conoscere uno degli orrori più grandi della storia dell’umanità. È questo il filo conduttore della mostra dal titolo “La notte dipingevo quadri rossi”, ospitata a partire dallo scorso 18 luglio nell’ex Sinagoga Scola Grande di Trani.
In esposizione 23 tele di tre artisti yiddish provenienti dalla collezione del poeta e scrittore Roberto Malini, che comprende oltre 200 opere di ebrei vittime della Shoah o sopravvissuti ai campi di sterminio.
Un’iniziativa promossa da Fondazione S.E.C.A. e Polo Museale di Trani.
Le opere sono state donate alla Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria che, grazie al grande lavoro compiuto negli ultimi 35 anni da Francesco Lotoro nella salvaguardia della musica scritta nei campi di prigionia, ha dato vita ad un archivio e ad una biblioteca che saranno ospitati, come la stessa collezione, presso la Cittadella di Barletta, negli spazi della ex distilleria.

(Trani news24city, 20 luglio 2024)

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L’incessante offensiva giuridica contro Israele

di Niram Ferretti

La sentenza con la quale venerdì, la Corte Internazionale dell’Aja, ha deliberato che Israele occupa abusivamente i territori della Cisgiordania, violando di fatto il diritto internazionale, non rappresenta altro che un ulteriore capitolo della lawfare, l’offensiva giuridica contro lo Stato ebraico, che iniziò a prendere corpo a partire dal 1967, ovvero subito dopo l’esito della Guerra dei sei giorni, quando, contrariamente alle previsioni, Israele vinse la guerra scatenata dagli eserciti arabi guidati da Nasser, che avevano come obiettivo dichiarato la sua distruzione.
  A guerra terminata, Israele aveva conquistato Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est, e parte della penisola del Sinai. Sia Gaza che la Cisgiordania erano state destinate alla abitabilità ebraica dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922. Questi territori, a seguito della guerra araba di aggressione del 1948, furono rispettivamente occupati da Egitto e Giordania che li detennero illegalmente fino al 1967, anno, appunto, della seconda guerra di aggressione araba ai danni di Israele.
  Nel 1951, la Giordania fece un passo ulteriore, annettendosi la Cisgiordania, avendo provveduto nel frattempo a cacciare da essa tutta la popolazione ebraica.
  Successivamente, l’ONU produsse la Risoluzione 242, con la quale si stabiliva che Israele doveva ritirarsi da una parte dei territori conquistati, contestualmente al suo riconoscimento da parte degli Stati aggressori, Egitto, Giordania e Siria e degli specifici accordi di pace che avrebbero sancito i confini.
  La Risoluzione 242 venne riconfermata in toto dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 338 del 1973. Non veniva fatto alcun utilizzo della designazione “territori palestinesi occupati”. Solo dal 1995 con gli Accordi di Oslo, le rivendicazioni palestinesi iniziarono ad avere una loro legittimità come conseguenza dell’accettazione da parte di Israele dell’OLP nella veste di interlocutore. Con il venire in essere degli Accordi di Oslo i territori vennero disciplinati amministrativamente e suddivisi in tre aree distinte, l’Area A, l’Area B e l’Area C.
  Alla luce del diritto internazionale e successivamente alla stipula dei trattati di pace tra Israele, Egitto e Giordania e con quella degli Accordi di Oslo, la definizione “territori occupati” o “territori palestinesi occupati”, perde completamente di legittimità. I territori, infatti, non possono dirsi “palestinesi” in quanto manca ad essi qualsivoglia base giuridica per rivendicarne la detenzione sovrana, così come, con la ripartizione del territorio stabilita dagli Accordi di Oslo, la presenza militare e civile israeliana è strutturalmente concentrata nell’Area C, dove, sempre nel rispetto del dispositivo degli accordi, Israele ha diritto a permanervi e a consentirne lo sviluppo abitativo senza che esso violi alcuna norma contenuta nei medesimi.
  La sentenza della Corte Internazionale, ha una valenza squisitamente politica, e va inquadrata nell’ambito dell’incessante operazione di delegittimazione dello Stato ebraico che prosegue senza sosta da quasi sessanta anni.

(L'informale, 20 luglio 2024)

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Due chiacchiere con Israel Katz, Ministro degli esteri di Israele

di Elliot Kaufman 

Qualcosa è cambiato a Gaza. Dopo aver rifiutato per mesi le proposte israeliane di cessate il fuoco e aver chiesto ulteriori concessioni, Hamas ha iniziato a offrire le proprie concessioni. Israele è più vicino che mai alla liberazione di molti degli ostaggi rimasti e ha acquisito la capacità di chiedere condizioni che proteggano i vantaggi strategici della guerra.
Se si crede al ritmo dei media – che lo sforzo bellico di Israele è inutile, la sua strategia assente e il suo isolamento politico crescente – è impossibile spiegare questa svolta. Perché, dopo mesi di sprezzante temporeggiamento, Hamas ha iniziato a piegarsi?
“Per due motivi”, dice Israel Katz, ministro degli Esteri israeliano. “Uno: ora capiscono che non ci sarà un cessate il fuoco senza un accordo sugli ostaggi. Secondo, l’IDF sta agendo in modo aggressivo contro i terroristi di Gaza. Particolarmente importante è stato l’ingresso a Rafah”, la roccaforte di Hamas all’estremità meridionale della Striscia.
Israele ha tagliato le vie di rifornimento di Hamas e ora tiene Hamas “per la gola”, come ha detto recentemente il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. I terroristi di alto livello cadono a un ritmo più rapido, mentre l’intelligence israeliana ottiene successi a ripetizione; metà della leadership militare di Hamas è stata eliminata. Anche dopo un grande bombardamento israeliano per uccidere il capo militare di Hamas, Mohammed Deif, che è considerato improbabile che sia sopravvissuto, Hamas ha a malapena attaccato in risposta e si è affrettato a chiarire che non sta abbandonando i negoziati. “Hamas è ora molto più sotto pressione”, afferma Katz. “È questo che ha fatto la differenza”.
L’intelligence israeliana lo conferma. “Vediamo ora i segni di una forte pressione da parte del braccio militare di Hamas. Spingono i leader negli hotel all’esterno – i politici di Hamas, che vivono nel lusso in Qatar – a raggiungere un accordo. Prima non era così”, dice Katz. Il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, “non voleva un accordo prima. Nemmeno quando gli abbiamo offerto tutto”.
Non dovrebbe essere una sorpresa che la pressione su Hamas possa portare a dei vantaggi nei negoziati. Eppure, per mesi le potenze occidentali hanno adottato l’approccio opposto, facendo pressione su Israele affinché ponesse fine alla guerra e lasciasse Hamas vittorioso. Hanno chiesto un “cessate il fuoco immediato”, sempre più slegato da un accordo sugli ostaggi. I gruppi umanitari hanno denunciato Israele e taciuto su Hamas. La Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale hanno minacciato Israele con procedimenti e tribunali fasulli.
“Il motivo principale per cui questo assassino, Sinwar, non ha fatto l’accordo sugli ostaggi è che si aspettava che il mondo fermasse Israele”, dice Katz. “Si aspettava che la Corte internazionale di giustizia, la Corte penale internazionale, il Consiglio di sicurezza, forse un conflitto tra le Nazioni Unite, Israele e l’Unione europea, sicuramente uno di questi avrebbe costretto Israele a capitolare”. Il tempo era dalla parte di Hamas, indipendentemente dal numero di ostaggi trattenuti o uccisi.
Katz ha ricevuto molte lezioni dai funzionari occidentali. “Mi sono seduto con i ministri degli Esteri e mi hanno detto: Non andare a Rafah, non andare a Rafah. Sarà un casino. E io ho detto loro: Cosa state dicendo? Credete che possiamo lasciare Hamas a Rafah e che cinque minuti dopo il nostro ritiro, prenderanno tutta Gaza?”.
L’operazione di Rafah è stata ritardata di mesi, durante i quali Hamas sembrava essere meno sotto pressione che mai. La Casa Bianca ha trattenuto le armi da Israele. Gli avvertimenti di un disastro umanitario si sono riversati da tutte le parti. Il 6 maggio, Israele invase comunque Rafah.
“E avevamo ragione”, dice Katz. “Ora lo sanno tutti, anche gli Stati Uniti, perché tutti avevano avvertito che sarebbe stata una catastrofe. È una guerra, sì. Non è una passeggiata. Ma avevano detto che ci sarebbero voluti quattro mesi per evacuare la popolazione. Ci sono voluti solo giorni”. Più di un milione di gazesi ha rapidamente evacuato Rafah verso le zone sicure designate.
Nessun critico ha ritrattato, ma la pressione su Israele è diminuita silenziosamente. Come se fosse imbarazzato, il mondo ha improvvisamente preso atto che Hamas è l’ostacolo a un accordo sugli ostaggi. La Casa Bianca ha sottolineato il punto, soprattutto dopo aver diffuso il 31 maggio un’offerta israeliana che Hamas ha poi rifiutato. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ratificato quell’offerta. Persino l’Autorità Palestinese, che ha esaltato il massacro del 7 ottobre, ora incolpa Hamas per la continuazione dei combattimenti. Hamas, l’escluso, ha dovuto ammettere che non c’è alcun cessate il fuoco all’orizzonte a meno che non rilasci gli ostaggi.
Katz sa che un accordo non è ancora garantito. “Si tratta di Hamas, dopo tutto”, dice. “Ci sarà un accordo solo se Sinwar capirà che non ha altra scelta”. Questo significa che non c’è pace per i malvagi. “Le persone che si occupano dei negoziati ci stanno dicendo ora: ‘Non fermatevi, continuate’” – spingono Hamas ancora di più.
Il confronto con la realtà del nazionalismo palestinese ha cambiato Israele. “La gente dei kibbutzim del sud – molti erano socialisti e credevano in tutte le idee”, dice Katz. Ora ci dicono: “Siamo contro uno Stato palestinese”. Il 7 ottobre hanno visto a quali scopi sarebbe stato destinato uno Stato del genere”.
I ministri degli Esteri occidentali dovrebbero saperlo bene. “Vi sedete lì, tra i fiordi della Norvegia, e decidete che ci sarà uno Stato palestinese?”. dice il signor Katz. “Non succederà. Noi vogliamo la pace più di voi”. Gli israeliani si oppongono al suicidio. “Nessuno può costringere Israele a farlo, nemmeno il saggio vice primo ministro spagnolo”, dice, riferendosi a Yolanda Diaz, che usa lo slogan di protesta per la distruzione di Israele: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Katz afferma: “Ho detto loro che i giorni dell’Inquisizione sono passati”.
Il 7 ottobre ha cambiato il modo in cui il mondo vede il conflitto? “Non abbastanza”, risponde Katz. “Dimenticano. Ma una cosa che non possono dimenticare sono gli ostaggi”, dice. “Non permettiamo loro di dimenticare”. Spesso porta le famiglie degli ostaggi nei viaggi all’estero e negli incontri con le sue controparti.
Gli statisti occidentali devono affrontare pressioni interne se appoggiano Israele contro i macellai. Alcuni europei temono le loro grandi popolazioni musulmane, dice Katz. Altri si preoccupano dei social media. “Quindi, sarà difficile”, dice loro, ‘ma voi siete dei leader’.
Katz è grato per il sostegno americano e non ha interesse a criticare l’amministrazione Biden. Sull’Iran, pensa che gli Stati Uniti si stiano muovendo nella giusta direzione. Riguardo alle armi ritardate, dice: “Penso che ora sia tutto a posto, ed è molto positivo che i nostri nemici sappiano che è tutto a posto”.
Per quanto riguarda la CPI, [Corte Penale Internazionale] punta il dito contro il procuratore. Karim Ahmad Khan aveva assicurato al Segretario di Stato Antony Blinken e all’allora Ministro degli Esteri britannico David Cameron che prima di prendere una decisione avrebbe dato a Israele la possibilità di fornire prove. “Perché molti Paesi sono arrabbiati con lui? Perché ha mentito loro”, dice Katz. Khan ha cancellato gli incontri con Israele con poco preavviso e si è presentato alla CNN per annunciare che avrebbe chiesto un mandato di arresto per i leader israeliani.
Katz è reduce dai colloqui con gli statisti occidentali alla conferenza dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico a Washington. “Sono andato a dire loro tre parole”, dice: ‘Iran, Iran, Iran’.
Se volete un’anteprima del discorso che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu terrà mercoledì al Congresso, iniziate da qui.
Il mondo può considerare Hamas come un problema degli ebrei, ma gli uomini che comandano a Teheran non sono così facilmente liquidabili. “L’Iran vende l’80% del suo petrolio alla Cina”, dice Katz. “Ora vendono ogni giorno circa 2 milioni di barili. Prima erano solo 300.000”, quando gli Stati Uniti hanno imposto le loro sanzioni petrolifere. La Cina ottiene il petrolio con uno sconto sostanziale.
“Capite bene qual è la competizione nel mondo tra Stati Uniti e Cina”, dice Katz. Ha esposto questo caso al Segretario del Tesoro Janet Yellen, che si è dimostrata ricettiva. “Anche questa amministrazione ha interesse, a causa del conflitto globale, ad essere aggressiva contro l’Iran”, afferma Katz. Ma ha anche un’opportunità. “Ora, poiché l’Iran sostiene la Russia e gli europei hanno paura della Russia – non solo contro, ma anche per paura – gli europei sono disposti a partecipare”.
In questi giorni, l’Europa a volte porta con sé l’America. A maggio, all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, gli Stati Uniti non volevano fare scalpore censurando il programma nucleare di Teheran. Alla fine, però, l’hanno fatto perché Francia, Germania e Regno Unito, con l’aiuto di Israele, hanno spinto comunque per la censura.
Katz vede la Repubblica islamica vulnerabile. “L’Iran è come un uovo: duro all’esterno ma morbido all’interno. Dall’interno, la maggior parte della popolazione iraniana è contraria al regime”, afferma. “L’economia è debole, ancora debole. E dopo l’incidente dell’elicottero, in cui sono morti il presidente e il ministro degli Esteri dell’Iran, forse l’esercito iraniano non è così moderno. Quindi, imporre sanzioni efficaci contro l’Iran può cambiare le carte in tavola. Perché non ci sono organizzazioni terroristiche per procura senza l’Iran”.
Vale la pena ricordarlo mentre Israele affronta Hezbollah, l’esercito di Teheran in Libano. Ha iniziato a sparare su Israele l’8 ottobre e da allora ha avuto una lenta escalation, trasformando il nord di Israele in una no-go zone per nove mesi.
Katz avverte che la “guerra totale” è molto vicina. “Noi non la vogliamo e forse loro non la vogliono. Ma non può rimanere così”, dice. “Vi dico: fate pressione sull’Iran. Se volete evitare la guerra, il modo per evitarla è fare pressione sull’Iran e spiegare all’Iran quale sarà il costo”.
Contrariamente a quanto si pensa in Occidente, “un cessate il fuoco a Gaza e un accordo sugli ostaggi non impediranno una guerra con Hezbollah sul fronte settentrionale”, afferma. “Israele non accetterà più il silenzio per il silenzio”. La tranquillità non basterà a 70.000 israeliani evacuati per tornare alle loro case nel nord di Israele. Hanno bisogno di una vera sicurezza, che richiede che Hezbollah lasci il suo arroccamento nel sud del Libano, smilitarizzando la zona cuscinetto come richiesto dalle Nazioni Unite nel 2006.
Si può convincere Hezbollah a ritirare le sue forze? “Ne dubito”, dice Katz. “La mia opinione personale è che ciò avverrà o attraverso una risposta militare israeliana o se l’Iran ordinerà a Hezbollah di ritirarsi”.
Alla fine, dice Katz, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah “non capisce Israele. Ha un’immagine di debolezza”, ma si sbaglia. “Non vogliamo la guerra, perché non vogliamo nulla in Libano. Ma se ci sarà una guerra, non sarà come a Gaza”, dove la presenza di ostaggi limita l’uso della forza da parte di Israele. “Circa l’80% della nostra forza aerea non viene utilizzata in questo momento”, afferma. Se l’Iran non tira fuori Hezbollah dall’orlo del baratro, lo farà.
Il signor Katz parla a nome di molti israeliani quando dice: “Non chiediamo a nessuno di combattere al posto dei nostri soldati. Per noi è un principio”. Ma Israele non può stare da solo: “Abbiamo bisogno del sostegno americano e di far sapere ai nostri nemici che l’America ci sostiene”.
“Questa non è una guerra normale. L’Iran e Hezbollah, Hamas, gli Houthi e le milizie sciite vogliono eliminare Israele. Distruggere Israele. Non è un gioco. Non abbiamo un’altra patria, ok?”. Al termine del nostro incontro, sospira e affronta la questione da un altro punto di vista: “Non è come l’Olocausto. Sono figlio di sopravvissuti all’Olocausto, che riposino in pace. Ho sentito le storie da mia madre e so tutto. Non è l’Olocausto, ma l’intento è lo stesso. Se avessero il potere di fare la stessa cosa, la farebbero”.

(Rights Reporter, 20 luglio 2024)

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Biden sanziona gli israeliani e consegna miliardi all’Iran

La politica di Biden ha dell'incredibile. Emette sanzioni contro Elor Azaria, un ex soldato che nel 2016 ha sparato e ucciso un terrorista quando era a terra, fatto per cui è stato condannato in Israele e ha scontato la pena, mentre nel contempo consente all'Iran di accedere ad altri miliardi di dollari.

di Gabor H. Friedman 

La politica estera degli Stati Uniti ha il pilota automatico? Mercoledì abbiamo appreso che l’Amministrazione Biden sta imponendo sanzioni a un altro israeliano, mentre riemette una deroga alle sanzioni che consente all’Iran di accedere a più di 10 miliardi di dollari di fondi congelati. Le sue priorità riflettono una politica che da tempo è stata superata dagli eventi.
Ci ricordiamo dei 10 miliardi di dollari in pagamenti energetici iracheni quando il Presidente Biden li ha sbloccati per l’uso da parte dell’Iran nel luglio 2023, e di nuovo quando ha esteso la deroga alle sanzioni lo scorso novembre e marzo. Come di consueto, l’Amministrazione ha affermato in modo fuorviante che l’Iran può utilizzare il denaro solo per beni “umanitari”, come se i miliardi qui non liberassero miliardi altrove per il principale sponsor del terrorismo al mondo.
A cosa porta gli Stati Uniti questo appeasement? Una volta i funzionari di Biden hanno sussurrato che stavano ottenendo una pausa nell’attività nucleare dell’Iran. Abbiamo ottenuto il contrario. L’Iran ha aumentato le sue scorte di uranio altamente arricchito e ha messo alle strette gli ispettori. Mercoledì Axios ha riferito che l’amministrazione Biden ha inviato una lettera in cui “esprime serie preoccupazioni” sul fatto che l’Iran stia iniziando a lavorare alla costruzione di armi. Davvero? Serie preoccupazioni?
Questa è l’idea della squadra di Biden di essere dura: Inviare una lettera con parole forti, ma non tagliare i miliardi di dollari.
Un’altra speranza era che il denaro avrebbe comprato la calma regionale. Abbiamo ottenuto il contrario. Hamas – finanziato, armato, addestrato e comandato dall’Iran – ha iniziato una guerra uccidendo 1.200 israeliani. Altri proxy dell’Iran hanno attaccato le forze statunitensi. Il 13 aprile l’Iran ha sparato circa 120 missili balistici contro Israele. Biden ha detto a Israele di non rispondere.
Il fuoco continuo di Hezbollah su Israele rischia ora di scatenare una guerra più grande. L’Iran deve sentire la pressione di ritirare il suo proxy, ma perché preoccuparsi quando Biden continua a far divertire Teheran e rimprovera Israele?
L’ultimo israeliano ad essere sanzionato dagli Stati Uniti è Elor Azaria, un ex soldato che nel 2016 ha sparato e ucciso un terrorista che era già stato neutralizzato dopo aver accoltellato un altro soldato. Azaria è stato processato e condannato in Israele e ha scontato la sua pena. Questo accadeva sei anni fa. Gli Stati Uniti ora ripropongono la questione del divieto di visto per Azaria e la sua famiglia.
La mossa è stata fortemente criticata in Israele, anche dal leader dell’opposizione Benny Gantz. Perché Biden sta creando un regime di sanzioni contro gli israeliani, come se non fossero cittadini di un alleato e di una democrazia la cui sovranità e il cui sistema giudiziario esigono rispetto?
La politica mediorientale di Biden sembra paralizzata, anche se il massacro del 7 ottobre e le sue conseguenze hanno cambiato tutto. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, ha scritto un articolo su una rivista che è andato in stampa poco prima del 7 ottobre. “La regione è più tranquilla di quanto lo sia stata per decenni”, ha scritto. Sull’Iran, si vantava: “Abbiamo rafforzato la deterrenza, combinata con la diplomazia, per scoraggiare ulteriori aggressioni”.
Invece abbiamo avuto una guerra sostenuta dall’Iran e assalti alle forze americane e alle navi commerciali. Cosa ci vorrà perché Biden e i suoi consiglieri riconoscano il loro fallimento e cambino rotta?

(Rights Reporter, 19 luglio 2024)

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Ben-Gvir visita il Monte del Tempio e prega per la restituzione degli ostaggi

Il ministro della Sicurezza nazionale ha ribadito il suo rifiuto di un accordo che escluda la distruzione di Hamas a Gaza.

    Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir
sul Monte del Tempio a Gerusalemme il 18 luglio 2024         

Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha visitato giovedì il Monte del Tempio di Gerusalemme per pregare per la restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza.
"Sono andato sul Monte del Tempio questa mattina per pregare per il ritorno dei rapiti - ma senza un accordo qualsiasi, bensì aumentando la pressione militare su Hamas e schiacciandolo ulteriormente", ha dichiarato il leader del partito Otzma Yehudit in una dichiarazione video rilasciata su X dopo la visita.
Secondo un rapporto di Channel 13 di mercoledì, Ben-Gvir ha suggerito ai ministri del gabinetto di sicurezza di ritardare un accordo di cessate il fuoco che includa il rilascio dei prigionieri fino a dopo le elezioni presidenziali statunitensi di novembre, per non dare al presidente Joe Biden un vantaggio politico sullo sfidante repubblicano Donald Trump.
Ben-Gvir avrebbe dichiarato che un accordo in questa fase "sarebbe una sconfitta per Trump e una vittoria per Biden".
Molti ministri hanno attaccato Ben-Gvir per le sue affermazioni, tra cui alcuni del partito di governo Likud del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
"Dobbiamo fare una campagna per il loro rilascio immediato. I rapiti sono lì da nove mesi. Durante questo periodo, le donne possono partorire", ha dichiarato il ministro della Scienza Gila Gamliel.
Ben-Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno minacciato di far cadere il governo se verrà firmato un accordo per porre fine ai combattimenti nella Striscia di Gaza senza prima distruggere Hamas.
Ben-Gvir è un assiduo visitatore del luogo più sacro dell'ebraismo e l'ultima volta ha visitato il Monte del Tempio a maggio.
Dal luogo più sacro del popolo di Israele, che appartiene solo allo Stato di Israele, dico: questa sera riceveremo un'ulteriore testimonianza del perché Hamas deve essere completamente distrutto". I Paesi che hanno riconosciuto uno Stato palestinese oggi stanno premiando i terroristi", ha dichiarato in un video dalla cima del monte.
"E io dico che non permetteremo nemmeno la proclamazione di uno Stato palestinese. E dico un'altra cosa: per distruggere Hamas, dobbiamo andare a Rafah fino in fondo e fare un accordo radicale. Per riportare indietro i nostri ostaggi, dobbiamo fermare [le forniture di carburante a Gaza] e renderci conto che l'umanità vale solo per l'umanità. E controllare questo luogo, il più importante".
Il Monte del Tempio è il sito del Primo e del Secondo Tempio, distrutti rispettivamente dall'impero neobabilonese e da quello romano.
Israele ha liberato il Monte durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, dopo di che ha ceduto l'amministrazione alla Fondazione islamica Waqf sotto la tutela giordana hashemita, mantenendo però il controllo di sicurezza israeliano. (JNS)

(Israel Heute, 19 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Attacco Houthi con drone al centro di Tel Aviv

Un morto e alcuni feriti

Nelle prime ore del mattino una persona è morta e altre sono rimaste ferite in seguito a un’esplosione di un drone su Tel Aviv. L’attacco è stato rivendicato ufficialmente dagli Houthi dello Yemen. Il portavoce militare dei ribelli yemeniti, scrive il Times of Israel, ha affermato che il gruppo ha attaccato Tel Aviv con un drone e continuerà a colpire Israele in segno di solidarietà con i palestinesi nella guerra di Gaza. Il forte boato, che è stato sentito in tutto il centro di Tel Aviv, è avvenuto non distante dall’Ambasciata americana, che non ha subito danni.
  “L’IAF ha aumentato le sue pattuglie aeree per proteggere lo spazio aereo israeliano. Non ci sono cambiamenti nelle linee guida difensive dell’Home Front Command”
  La polizia sta indagando sulla morte di un uomo di cinquant’anni, il cui corpo è stato trovato con ferite da schegge in un edificio vicino. Le squadre di emergenza hanno segnalato almeno quattro persone con ferite lievi da schegge e diverse altre in stato di shock. Sette persone sono state trasportate negli ospedali vicini per le cure.
  “Quando i nostri team sono arrivati, hanno visto un uomo di 37 anni e una donna di 25 anni con ferite da schegge alle estremità e alle spalle. Stiamo anche curando persone sotto shock”, ha affermato Magen David Adom. I residenti hanno inoltre riferito che l’esplosione ha causato danni significativi alle loro case.

(Shalom, 19 luglio 2024)

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Parashà di Balàk: La Torà vale più della ricchezza

di Donato Grosser

Balàk, re di Moàv, vedendo la moltitudine di israeliti ai confine del suo regno e sapendo che con la forza delle armi non avrebbe potuto combattere contro di loro, mandò un’ambasciata a Bil’am affinché venisse a maledire il popolo d’Israele. In questo modo egli sperava di eliminare la minaccia. Balàk mandò a dire a Bil’am che se fosse venuto a maledire il popolo d’Israele egli l’avrebbe onorato in maniera smisurata.
I maestri nel Midràsh Rabbà (Bemidbàr, 20:10) spiegano che Balàk intendeva dire che avrebbe pagato Bil’am molto di più di quello che era abituato a ricevere in passato. Bil’am rispose agli ambasciatori di Balàk:”Anche se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro, non potrei violare la direttiva del Signore mio Dio, per compiere una cosa piccola o grande” (Bemidbàr, 22:18). Nel midràsh i maestri commentano:”Da qui apprendi che c’erano tre caratteristiche in lui: un occhio malvagio, uno spirito altezzoso e un’anima avida. Un’anima avida, come è detto: “Se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro…”.
R. Yosef Slalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 302) fa notare che nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 6:9) viene usato un linguaggio simile: “Disse rabbi Yosè figlio di Kisma (un maestro della Mishnà contemporaneo di r. Akivà): Una volta stavo camminando in viaggio e mi venne incontro un uomo; mi salutò e io risposi al suo saluto; poi mi disse: Maestro, di dove sei? Gli risposi: sono di una grande città di maestri e di scrittori. Mi disse allora: Saresti disposto, o Maestro, a venire a stare con noi nei nostri luoghi? Ti darei migliaia di monete d’oro e d’argento. Gli risposi: Se anche tu mi dessi tutto l’argento e l’oro che c’è nel mondo, io non accetterei di risiedere altro che in un luogo ove sia studio della Torà …” (Trad. Joseph Colombo, R. Carabba, Lanciano, 1931).
R. Elyashiv fa notare che i Maestri affermarono che Bil’am aveva un’anima avida perché disse:”Se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro…”.
In cosa era differente r. Yosè figlio di Kisma che non venne criticato nello stesso modo? R. Elyashiv risponde: Bil’am disse che non poteva violare la direttiva del Signore anche se avesse voluto. Sarebbe stato più logico che Bil’am avesse parlato di una cosa più vitale e dicesse: “Anche se Balàk mi uccidesse non potrei violare la direttiva del Signore”. Il fatto che avesse parlato di argento e di oro dimostra che la ricchezza era per lui la cosa più importante. Quanto a r. Yosè figlio di Kisma, egli non era soggetto ad alcun impedimento. Semplicemente non aveva alcun desiderio di ricchezze e non vi era alcuna trasgressione per la quale avrebbe dovuto sacrificare la vita. Pertanto poteva dire di rinunciare alle ricchezze pur di poter abitare in una posto dove vi era lo studio della Torà.
Lo stesso quesito di rav Elyashiv venne posto trecento anni da r. Binyamin Hakohen Vitale (Reggio Emilia, 1651-1730). Nel suo commento Avòt ‘Olàm (pp. 107-108) ai Pirkè Avòt (6:9) egli risponde che r. Yosè disse che non avrebbe accettato di abitare in un posto dove non vi era lo studio della Torà per tutto l’argento e l’oro del mondo, per mostrare il valore della Torà che è superiore alle ricchezze. Egli fa notare che nella mishnà precedente dei Pirkè Avòt (6:8) viene citato rav Shimo’n figlio di Yochai che afferma: “La bellezza, la forza, la ricchezza, l’onore, la sapienza, la vecchiezza, la canizie, e i figli, convengono ai giusti e convengono al mondo”. Dopo l’affermazione di r. Shim’on, r. Yosè, dicendo che non avrebbe accettato di abitare in un posto dove non c’era lo studio della Torà per tutto l’argento e oro del mondo, voleva sottolineare che anche se la ricchezza si addice ai giusti, essi non la devono considerare superiore alla Torà. L’affermazione di r. Yosè ha come fonte i Tehillìm (Salmi, 119:72) nei quali Davide, che era re d’Israele e che pur godeva di grandi ricchezze, scrisse: “Più mi giova la legge della Tua bocca che migliaia d’oro e argento” (Trad. Lelio Della Torre, Nobile de Schmid e J.J. Busch, Vienna, 1845).
R. Yosè disse che preferiva la Tora all’oro e all’argento perché “Nel momento della morte non già l’argento nè l’oro accompagnano l’uomo, né le pietre preziose né le gemme, ma la Torà che ha studiato e le opere buone che avrà compiuto” (Avòt, 6:9, continuazione). E così, aggiunse r. Binyamin Hakohen, quando r. Yose morì, gli fecero una grande orazione funebre, come è raccontato nel primo capitolo del trattato ‘Avodà Zarà (18a), e al suo funerale parlarono della sua Torà e delle sue buone azioni, cosa che non sarebbe successa se avesse abitato in un luogo senza studio di Torà.

(Shalom, 19 luglio 2024)
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Parashà della settimana: Balak

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«Camminando per strada, ho toccato con mano l’odio per l’ebreo»

di Ludovica Iacovacci

«Voi israeliani siete degli as­sassini di m**, ammaz­zate i bambini, ammazza­te le donne, ammazzate i vecchi. Andate via, vattene da qua». È con queste parole, miste a spu­ti e spinte, che al centro islamico in viale Jenner a Milano a fine giugno è stato aggredito Klaus Davi, al se­colo Sergio Klaus Mariotti, giorna­lista, opinionista e saggista che sta indagando gli effetti della narrazio­ne mediatica della guerra in Medio Oriente, nei quartieri di Milano, le “zone franche”, dove la presenza di arabi è cospicua. Per iniziare, l’au­tore si è recato in viale Jenner con l’intenzione di fare domande, su quanto successo dal 7 ottobre in poi, all’imam e ai fedeli del centro islami­co che passeggiavano per la strada pubblica. Il giornalista si è trovato oggetto di aggressioni, insulti e sputi da parte di arabi che lo accusavano di essere “israeliano” (Davi non è né ebreo né tantomeno israeliano, ndr). Il video che testimonia il suo spiace­vole incontro costituisce una prima parte di un progetto più grande. Bet Magazine lo ha intervistato per sa­perne di più.

- Sono passate settimane dalla pubbli­cazione del suo lavoro. A mente fred­da, quali conclusioni ne ha tratto?
  L’inchiesta continua. Sono previste venti puntate. Questo lavoro nasce da un senso di ribellione su un tema riguardo al quale c’è una coltre di silenzio. Ho voluto dare un segnale: nella città più celebrata e mitizzata d’Italia ci sono le stesse dinamiche che vediamo nelle banlieue delle grandi città francesi. Non mi interes­sa affrontare il tema dell’Islam in ge­nerale, ma quanto la narrazione e il dibattito sulla strage del 7 ottobre sta incidendo sulle comunità qui da noi. È un settore delicato dove ci sono grosse lacune narrative e di presa di coscienza. Vado sempre con un in­tento dialogante e voglia di imparare; e sto imparando. Preciso che voglio che questo lavoro sia mio e del mio team, e tale rimarrà. E nel momento in cui vado da solo e rischiando au­tonomamente, cosa mi si può dire?

- Come crede che sia stato percepito il suo lavoro dai media italiani?
  Intanto, rilevo che il mio lavoro non è stato criticato. Quando sono anda­to in viale Jenner, non ho avvisato le forze dell’ordine perché altrimenti non crei dialogo con le persone. Mi è dispiaciuto che sia uscito un co­municato attribuito alla Questura di Milano nel quale è stato detto che io abbia fatto una sorta di sondaggio: io non faccio sondaggi, sono andato lì a fare domande a frequentatori di una moschea. Ed è stato utile perché è venuto fuori quello che c’è in alme­no parte di questa comunità. Su due aspetti bisogna riflettere: il primo è l’immagine dell’ebreo, non dell’i­sraeliano. Chiunque parli bene di Israele diventa un ebreo. In secondo luogo: l’irrazionalità, a cui si aggiun­ge il controllo del territorio. Queste dinamiche si riscontrano allo Zen a Palermo, a Platì, comune di Reggio Calabria. E avvengono a Milano. Il filmato è molto eloquente, mancava poco perché succedesse qualcosa. Per fortuna non è successo, ma do­vremmo porci qualche interrogativo su queste realtà.

- Crede che ci sia abbastanza coscien­za generale riguardo a questa situa­zione?
  Io ho la netta sensazione che ci sia un deficit di coscienza generale. Milano è divisa in aree, in zone molto nette: la zona ZTL, la zona centro, semi­centro, e le periferie. Quest’ultime sono realtà abbandonate, dove lo Stato non mette il naso più di tanto e quindi non c’è presa di coscienza nei termini giusti. Io sono favorevole all’immigrazione, ho vissuto sempre in questi contesti e quindi sostengo i quartieri etnici. Il mio obiettivo è andare a capire che impatto potrebbe avere una narrazione pregiudiziale verso lo Stato di Israele, e quindi ver­so gli ebrei, in casa nostra. Nessuno su questo si è posto il problema. Per me il punto è che, conoscendo le di­namiche dei territori della crimina­lità organizzata, vedo che Milano ha intere zone franche dove, secondo le mie stime, il 95% di questi con­cittadini sono persone per bene ma esiste un 5% – e non è poco – che risponde a strutture che fanno capo a organizzazioni. Nel primo video tutto fila liscio all’inizio: quando i fedeli arrivano, alcuni rilasciano in­terviste. Dopo mezz’ora giungono altri due soggetti (quelli che hanno lo hanno aggredito, ndr). Qualcuno li ha mandati, escludo l’imam per­ché non è suo interesse creare il caso, dev’essere stato qualcun altro. I due signori sopraggiunti sono i classici scagnozzi mandati per allontanare, indice di qualcosa all’interno di que­sti meccanismi di tipo organizzativo.

- Quali sono gli aspetti più allar­manti che il suo lavoro sta facendo emergere?
  Ho avuto due sensazioni: impunità e sdoganamento. Impunità perché comportarsi così per strada vuol dire sentirsi impunito, controlli il territorio. Sdoganamento perché un comportamento del genere, così virulento, dieci anni fa non sarebbe stato pensabile. Le autorità rassicu­rano, fanno il loro mestiere, ma noi facciamo i giornalisti, e vediamo che le zone franche ci sono e non sono controllate, non adeguatamente.

- Klaus, lei ha detto: “Dieci anni fa questo non sarebbe successo”. Il con­flitto in Medio Oriente sta eviden­temente indirizzando masse di per­sone verso una determinata lettura degli eventi, al punto che gli ebrei (e i non-ebrei che li sostengono) subisco­no le ripercussioni di ciò che accade in quella parte di mondo.
  Loro non hanno detto “ebreo”, hanno detto “israeliano” quando mi hanno insultato. Le parole esatte sono sta­te: “Sporco israeliano, ammazzate i bambini”. Poi diventa un tutt’uno.

- Crede però che da parte loro ci sia differenza a livello di accuse mosse?
  No. All’inizio loro distinguono per­ché è stato detto loro di non dire  che gli israeliani sono ebrei. Poi, presi dalla foga – e questo uscirà nel corso della seconda parte del lavoro – dicono che gli ebrei controllano l’informazione, la politica, la Meloni. Non c’è distinzione, tutti vengono as­similati. La paura che ho toccato con mano è l’odio per la figura dell’ebreo. Mi sembra di vedere una vignetta de­gli anni ’30.

- Quali conclusioni ne trae?
  Sono molto preoccupato. Vedo quest’odio montare, vedo sottovalu­tazione. Ciò che mi fa specie è che la narrazione pubblica in Italia parla di questo tema come se l’Italia non avesse avuto un ruolo negli anni ’30 e ’40, come se non fossimo stati gli incubatori culturali del nazifascismo. La collettività e lo Stato hanno più doveri verso la Comunità ebraica. Non si può chiedere alle manifesta­zioni di togliere la kippah, la bandie­ra LGBT o quella di Israele. Lo Stato italiano è in debito con la Comunità e non può pretendere che gli ebrei tornino invisibili. Deve tutelarla nella sua unicità e peculiarità, anche nella libertà di utilizzare i simboli esterio­ri della propria identità. Nascondersi non è la soluzione, non si può preten­derlo da coloro che si è discriminato storicamente e che si è contribuito ad annientare. Mi appello alle istituzio­ni: non date più queste indicazioni agli ebrei, pensate alla loro sicurezza. Non hanno bisogno di parole o di solidarietà, hanno bisogno di fatti. Questo è un momento molto perico­loso per la Comunità. Dove ci porterà lo sdoganamento dell’antisemitismo, che non essendo osteggiato è di fatto consentito? A Worms, Meinz, cuore askenazita nel Medioevo, dicevano: “Qui non sarebbe mai accaduto”. Poi abbiamo visto cosa è successo. Idem a Berlino: “Qui non accadrà mai”, “Non vado via perché qui non succederà” si diceva e poi è accaduta la catastrofe. Colonia era il paradiso dell’ebraismo, si è trasformata in qualcosa di atro­ce. Mai fidarsi troppo. La differenza è che adesso c’è lo Stato di Israele, e non è da poco. Lo Stato di Israele è una garanzia ed è la differenza rispetto al passato.

(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2024)


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“Gli israeliani non sono civili, sono tutti militari. E ai bambini insegnano a sparare contro di noi”

Il secondo video di Klaus Davi nei quartieri arabi a Milano

di Ludovica Iacovacci

“I media in Italia sono manipolati dalla comunità ebraica. Questa è la verità. La Meloni è governata da Israele. Come lei, tedeschi, olandesi, tutto l’Occidente. In primis, gli Stati Uniti d’America sono governati da Israele” dicono con sicumera giovani palestinesi intervistati dal giornalista Klaus Davi in via Padova, a Milano.
Dopo l’episodio alla moschea di viale Jenner, il massmediologo ha pubblicato il 16 luglio la seconda puntata dell’inchiesta sulle conseguenze della narrazione mediatica riguardo alla guerra in Medio Oriente nei quartieri delle comunità arabe milanesi. Il giornalista si è recato presso la moschea di via Padova, il cui imam è stato premiato con l’Ambrogino d’Oro nel 2009, e ha percorso la via di Milano realizzando varie interviste ai fedeli del centro islamico.
Il sentimento comune che unisce tutte le voci arabe – per lo più palestinesi ed egiziane – è il profondo odio per lo Stato di Israele. Sul riconoscimento del diritto del Paese ad esistere non c’è neanche una voce che risponda affermativamente. “Stato di Palestina”, “Israele non esiste, non è uno Stato legale” dicono gli intervistati. “Noi abbiamo problemi con gli israeliani dal 1897”, sentenzia un palestinese di Nablus risalendo all’origine temporale del sionismo e facendo attenzione ad usare il termine “israeliani” e non “ebrei”, seppur nel 1897 lo Stato di Israele ancora non fosse stato fondato dato che in quell’anno Theodor Herzl istituì il primo Congresso sionista mondiale che si tenne a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897.
“Non è antiebraismo, è antisionismo. Questi sono sionisti, usiamo i termini giusti. Non hanno diritto alla patria nel nostro Paese. Vadano in Germania, in America. Perché non vanno a vivere lì?” argomenta un giovane palestinese rispondendo al perché l’antisemitismo sia in crescita: “Noi siamo semiti”, precisa.
Secondo gli arabi non è vero che l’odio contro gli ebrei è in aumento ed il problema non è di carattere religioso: “Israele è il sionismo, la religione non c’entra”, afferma un palestinese ponendo la questione solo sul piano politico. “Come ebrei li accettiamo; li abbiamo sempre protetti in quanto musulmani, sia gli Stati sia il mondo arabo. Dove ci sono arabi, ci sono ebrei” sostiene il palestinese di Nablus, collocando l’origine dei problemi a “fino a quando non hanno messo piede in Palestina” e – questa volta – e non parla di “israeliani” bensì di “ebrei”.
Se la teoria appena enunciata dai musulmani (secondo la quale l’aspetto politico andrebbe distinto da quello religioso) fosse vera, allora sarebbe inspiegabile perché i palestinesi sostengono Hamas e il massacro del 7 ottobre, pogrom che prima di avere carattere politico ha natura religiosa e antisemita. Per i terroristi e i loro seguaci, la strage è una medaglia da appendere sul petto: “Il comportamento di Hamas è stato giustissimo, più che giusto”, afferma il palestinese di Nablus. Un altro dice di aver festeggiato quel giorno.
Quando Klaus Davi domanda cosa ne pensano dei civili rapiti, donne e bambini, il palestinese di Nablus risponde: “Gli israeliani non sono civili, sono tutti militari. Ai bambini insegnano a sparare contro di noi”. Quando il giornalista sottolinea che Hamas ha ucciso dei bambini israeliani, c’è un coro unanime da parte dei tre palestinesi presenti: “Non è vero. È morto solo un bambino, per sbaglio”.
Gli arabi vantano paragoni inesistenti tra i rapiti israeliani e i prigionieri palestinesi: “Gli ostaggi israeliani rilasciati da Hamas erano felici, sorridenti, tranquilli, dicevano che Gaza li ha trattati bene. I nostri ostaggi palestinesi tornano da Israele traumatizzati”. Del resto, per loro questa narrazione terroristica del 7 ottobre è un’invenzione della stampa “manipolata dalla comunità ebraica” e della politica occidentale “governata da Israele”. Inutile domandare se considerino i componenti di Hamas dei terroristi: “Ma stai scherzando? E i partigiani dell’Italia? Sono dei liberatori. Hamas ha vinto le elezioni nel 2006”.

(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2024)

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Israele seppellisce definitivamente la soluzione a due stati

La risoluzione - approvata per 68-9 - respinge in toto la creazione di uno Stato palestinese, anche come parte di un accordo negoziato con Israele

di Sarah G. Frankl

Giovedì mattina la Knesset, il parlamento israeliano, ha votato a larga maggioranza una risoluzione che respinge la creazione di uno Stato palestinese.
La risoluzione è stata co-sponsorizzata dai partiti della coalizione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu insieme ai partiti di destra dell’opposizione e ha ricevuto persino il sostegno del partito centrista di Unità Nazionale di Benny Gantz.
I legislatori del partito di centro-sinistra Yesh Atid del leader dell’opposizione Yair Lapid hanno abbandonato il plenum per evitare di sostenere la misura, nonostante lui si sia espresso a favore di una soluzione a due stati.
L’iniziativa è stata approvata pochi giorni prima della visita di Netanyahu negli Stati Uniti per parlare a una sessione congiunta del Congresso e incontrare il Presidente Joe Biden alla Casa Bianca.
Già a febbraio, la Knesset aveva approvato una risoluzione sponsorizzata da Netanyahu che rifiutava l’istituzione di uno Stato palestinese, ma la mozione riguardava specificamente l’istituzione unilaterale di tale Stato, in seguito alle notizie secondo cui i Paesi esteri stavano valutando la possibilità di riconoscere uno Stato palestinese in assenza di un accordo di pace con Israele.
La risoluzione – approvata per 68-9 – respinge in toto la creazione di uno Stato palestinese, anche come parte di un accordo negoziato con Israele.
“La Knesset di Israele si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest del Giordano. L’istituzione di uno Stato palestinese nel cuore della Terra d’Israele rappresenterà un pericolo esistenziale per lo Stato d’Israele e i suoi cittadini, perpetuerà il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerà la regione”, si legge nella risoluzione.
“Sarà solo questione di poco tempo prima che Hamas prenda il controllo dello Stato palestinese e lo trasformi in una base del terrore islamico radicale, lavorando in coordinamento con l’asse guidato dall’Iran per eliminare lo Stato di Israele”, ha continuato. “Promuovere l’idea di uno Stato palestinese in questo momento sarà una ricompensa per il terrorismo e incoraggerà solo Hamas e i suoi sostenitori a vedere questa come una vittoria, grazie al massacro del 7 ottobre 2023, e un preludio alla presa di potere dell’Islam jihadista in Medio Oriente”.
Il voto è arrivato mentre il discorso di Netanyahu del 24 luglio stava già causando costernazione tra molti Democratici, molti dei quali sono divisi tra il loro sostegno di lunga data a Israele e la disapprovazione per il modo in cui Israele ha condotto le operazioni militari a Gaza durante la guerra con Hamas.
Mentre alcuni Democratici hanno dichiarato che parteciperanno per rispetto a Israele, una fazione più ampia e crescente non vuole partecipare, creando un’atmosfera straordinariamente carica in un incontro che normalmente equivale a una dimostrazione cerimoniale e bipartisan di sostegno a un alleato americano.
A complicare ulteriormente le cose per Biden e i Democratici c’è la situazione politica sempre più in bilico del Presidente, al quale sempre più spesso viene chiesto di ritirarsi dalla corsa, dato che nei sondaggi è in forte svantaggio rispetto allo sfidante Donald Trump.
Con un ulteriore colpo di scena, la Casa Bianca ha annunciato mercoledì che Biden si sarebbe recato nel Delaware per autoisolarsi dopo essere risultato positivo al COVID. Non è chiaro come questo sviluppo possa influire sul previsto incontro di lunedì con Netanyahu a Washington. Il medico di Biden ha detto che stava prendendo il Paxlovid, che di solito ha un regime di cinque giorni, ma non ha specificato un calendario per il suo previsto recupero.

(Rights Reporter, 18 luglio 2024)


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La risposta della Knesset a Joe Biden

Alla vigilia della sua partenza per Washington, dove parlerà al Congresso il 24 luglio, Benjamin Netanyahu incassa il voto pieno della Knesset alla risoluzione che rigetta il venire in essere di uno Stato palestinese.
La risoluzione, appoggiata dai partiti facenti parte della maggioranza di governo insieme ai partiti di destra all’opposizione, ha ricevuto l’appoggio anche del partito centrista guidato da Benny Gantz. La risoluzione è passata con l’astensione di Yesh Atid, il partito guidato da Yair Lapid e con la prevedibile e marginale opposizione della sinistra.
Il messaggio che arriva a Joe Biden e alla sua amministrazione non può essere più chiaro ed è esplicitato dal testo stesso della risoluzione:
    “La Knesset di Israele si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest della Giordania. La creazione di uno Stato palestinese nel cuore della Terra d’Israele rappresenterebbe un pericolo esistenziale per lo Stato di Israele e i suoi cittadini, perpetuerebbe il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerebbe la regione. Sarebbe solo questione di breve tempo prima che Hamas prenda il controllo dello Stato palestinese e lo trasformi in una base terroristica islamica radicalizzata, lavorando in coordinamento con l’asse guidato dall’Iran per eliminare lo Stato di Israele…Promuovere l’idea di uno Stato palestinese in questo momento sarebbe una ricompensa per il terrorismo e non farebbe altro che incoraggiare Hamas e i suoi sostenitori a vederlo come una vittoria, grazie all’eccidio del 7 ottobre 2023, e un preludio alla presa del potere dell’Islam jihadista in Medio Oriente”.
Il testo della risoluzione è finora, a nove mesi dalla guerra a Gaza, la più palese contestazione dell’intento programmatico dell’Amministrazione Biden, nonché una risposta inequivocabile al riconoscimento politico, di fatto senza alcun effetto pratico, di uno Stato palestinese da parte di paesi ostili a Israele come Spagna, Norvegia e Irlanda.
Si tratta anche di una presa di posizione che evidenzia un fatto che dovrebbe essere ovvio ma non sembra esserlo; l’unico paese in grado di decidere se e quando sussistano le condizioni per la nascita di uno Stato palestinese all’interno dei propri confini è Israele stesso. È Israele che detiene la propria sovranità, non gli Stati Uniti, né nessun altro Stato.
L’approvazione della risoluzione rispecchia il sentire della maggioranza degli israeliani, soprattutto dopo il 7 ottobre e mostra come l’opposizione alla nascita di uno Stato palestinese non sia solo una posizione di Netanyahu ma sia ampiamente condivisa.
A quattro mesi dalle elezioni, fortemente indebolito, Biden incassa questo risultato che sconfessa completamente l’impianto ideologico di una amministrazione americana che come poche altre ha lavorato fino ad oggi contro gli interessi dello Stato ebraico.

(L'informale, 18 luglio 2024)

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“Il 7 ottobre ha cambiato tutto anche per l’IDF”

di Luca Spizzichino 

Il massacro del 7 ottobre ha stravolto ogni paradigma all’interno dell’IDF. Lo ripete più volte l’Addetto per la Difesa presso l’Ambasciata d’Israele in Italia, il Colonnello Liad Zak, riferendosi a diversi aspetti: dalle regole di ingaggio all’uso della tecnologia. Il massacro perpetrato da Hamas e la costante minaccia di Hezbollah al nord hanno stravolto ogni cosa. Per capire cosa sia cambiato in questi mesi all’interno dell’esercito israeliano, Shalom lo ha intervistato.

- Il massacro del 7 ottobre ha traumatizzato tutta la società israeliana: come ha reagito l’esercito?
  Stiamo combattendo per lasciare ai nostri bambini un futuro migliore. Tuttavia non possiamo ignorare ciò che ha fatto Hamas. È importante ricordare però che noi non siamo animali come i nostri nemici, a cui non importa della propria gente, ama vederla soffrire. Al contrario di quanto lascia intendere certa propaganda, in particolare sui social media, Israele si sta prendendo cura degli aiuti umanitari. Nessuno stato in guerra aiuta il proprio nemico. Noi sì, fornendo acqua, elettricità e cibo.

- La guerra a Gaza è stata, sin dal principio, oggetto di numerose discussioni all’interno dell’opinione pubblica occidentale, che considera la risposta dell’esercito sproporzionata. In che condizioni combattono i soldati nella Striscia?
  L’IDF sta combattendo contro un nemico che non si fa problemi a nascondersi in mezzo ai civili. Nonostante ciò, il rapporto tra le vittime civili e i terroristi è di 1:1, di gran lunga inferiore alla media di 4:1 che abbiamo visto in altri conflitti. Stiamo rispettando le leggi internazionali di guerra. Siamo un esercito professionale, educhiamo sin dal primo momento i soldati a rispettare determinati comportamenti. Ribadisco, non siamo dei mostri e non vogliamo diventarlo.

- Come mai l’IDF è considerato “l’esercito più morale al mondo”?
  Nel nostro esercito ci sono delle regole di ingaggio molto rigide, che vengono insegnate, ripetute e migliorate attraverso i debriefing. Ad ogni soldato inoltre viene consegnato un libricino nel quale viene descritto lo “Spirito dell’IDF”, che delinea i nostri valori e, insieme alle regole pratiche che ne derivano, costituisce il nostro codice etico, che guida i nostri soldati e comandanti nelle loro attività quotidiane e operative. Bisogna sottolineare comunque che a seconda dello scenario e del periodo, le regole di ingaggio cambiano, sempre nel rispetto dell’etica.

- Tsahal è riconosciuto e temuto per essere un esercito tecnologico, con armamenti e strumenti all’avanguardia. è sufficiente per vincere una guerra?
  La tecnologia non è tutto e il massacro del 7 ottobre lo ha dimostrato. Anche i nostri nemici sono migliorati strategicamente, per questo la tecnologia è importante, ma è fondamentale che questa lavori in simbiosi con il fattore umano.

- In questo momento Israele è divisa principalmente su due fronti: Gaza e il confine con il Libano. A che punto sono le operazioni nella Striscia? E al nord, cosa sta succedendo?
  Con il controllo del Corridoio Netzarim e del Corridoio Filadelfia, a Gaza stiamo per completare la Fase 2. La terza sarà incentrata su missioni mirate supportate dall’intelligence, volte soprattutto al salvataggio degli ostaggi e all’eliminazione dei terroristi di Hamas.
  Nel mentre ci stiamo preparando per lo scenario a nord. Stiamo organizzando diverse esercitazioni per i riservisti, così da essere pronti in caso di un’eventuale guerra con Hezbollah, che ricordiamo che è finanziata direttamente dall’Iran. Dobbiamo essere pronti ad ogni minaccia.

(Shalom, 18 luglio 2024)

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“Incendiare le scuole”

di Giulio Meotti

Incendi di sinagoghe, scuole ebraiche e altri luoghi della comunità ebraica, a Berlino. Il numero delle violenze antisemite è raddoppiato dal 7 Ottobre. Prima è stata bruciata la sinagoga Kahal Adass Jisroel di Berlino, colpita con le molotov. Ieri gli studenti del ginnasio Tiergarten della capitale tedesca hanno appiccato un incendio al proprio istituto dopo la cancellazione della cerimonia di diploma decisa per paura delle proteste. Poi hanno deturpato i muri esterni del ginnasio con la scritta “Bruciate Gaza? Bruceremo Berlino”.
  La direzione del Tiergarten Gymnasium era preoccupata che metà dei diplomandi intendesse utilizzare la cerimonia per manifestazioni filo palestinesi, anti israeliane e antisemite. Felix Klein, commissario federale per la lotta all’antisemitismo, questa settimana ha tenuto una conferenza in cui ha raccontato: “Oggi in pubblico molti ebrei cercano di essere quanto più invisibili possibile. Vanno in sinagoga senza dare nell’occhio, utilizzando altri ingressi per non essere riconosciuti. Gli uomini non indossano più la kippah. Le donne non mostrano più apertamente le loro collane con la Stella di David”.
  Secondo un nuovo rapporto che monitora l’antisemitismo in Germania, il numero di incidenti antisemiti è raddoppiato in un anno. 4.782 episodi di antisemitismo, più 80 per cento rispetto all’anno precedente, di cui due terzi dopo il 7 ottobre. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, sullo Spiegel denuncia “zone interdette agli ebrei” nel paese. Se ne va la scrittrice Mirna Funk. Uno studente ebreo di Francoforte si arrende: “Voglio lasciare la Germania”. Hendrik Edelmann non si sente più sicuro e volta le spalle al suo paese. “Vogliono distruggere la vita di persone come me”. “Non voglio vivere in un paese il cui cancelliere porta milioni di musulmani antisemiti che attaccano gli ebrei e le istituzioni ebraiche in Germania”, ha scritto il presidente della comunità ebraica del Brandeburgo, Semen Gorelick. “Non si può vivere in un paese dove non puoi indossare una kippah per strada”.
  Jüdische Allgemeine è il giornale degli ebrei tedeschi. Il caporedattore Philipp Peyman Engel in un’intervista alla Welt dice che “l’ebraismo in Germania sta diventando invisibile”. Quasi nessuno osa più uscire per strada con i simboli perché la probabilità di essere aggrediti verbalmente o fisicamente è troppo alta. Berlino si è già “ribaltata”, secondo le sue scioccanti scoperte, le cose non sono diverse in molte città della Ruhr. Ci sono “islamici ed estremisti di sinistra che ci minacciano massicciamente rendendo le nostre vite un inferno”.
  Gruppi filo palestinesi e anti israeliani terrorizzano anche il campus dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, fondata nel 1477 e una delle più antiche d’Europa, distribuendo volantini che inneggiano alla distruzione dello stato ebraico. Gli ebrei si erano stabiliti nella città renana durante l’epoca romana. La maggior parte della popolazione ebraica della città fu deportata e completamente liquidata dai nazisti nel 1943. Oggi a Magonza, su 232 mila abitanti, vivono appena un migliaio di ebrei. Ancora troppi, per i filo Hamas.

Il Foglio, 18 luglio 2024)

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L’ultimo veterano: incontro con Piero Cividalli della Brigata Ebraica

“Anche la sinistra italiana oggi è diventata fascista, violenta”

di Nathan Greppi

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Negli ultimi anni, nonostante il loro contributo alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo, i vessilli della Brigata Ebraica sono sempre stati contestati dalle frange più estremiste al corteo del 25 aprile. “E quest’anno, nel contesto della guerra, si è arrivati ad un punto addirittura peggiore, associando due cose che effettivamente non c’entrano nulla l’una con l’altra, paragonando la resistenza dei partigiani a quello che è stato fatto da Hamas”. Così Luca Spizzichino, presidente dell’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia), ha introdotto l’incontro organizzato il 17 luglio dall’associazione dei giovani ebrei su Zoom con Piero Cividalli, ultimo veterano italiano ancora in vita tra coloro che durante la Seconda Guerra Mondiale si unirono alla Brigata Ebraica. Non a caso, la segretaria UGEI Ariela Di Gioacchino ha spiegato che l’incontro è stato reso aperto a tutti, proprio per fare in modo che il maggior numero di persone possibile potesse ascoltare la sua testimonianza.

• L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA
  Nel raccontare la sua infanzia in Italia, Cividalli, che oggi ha 98 anni, ha raccontato che “io ero un bambino italiano come tutti gli altri negli anni ‘30”, e in un primo momento non si rendeva conto di quello che succedeva sotto il regime, anche perché i genitori lo tenevano all’oscuro. “Tutto è andato più o meno liscio fino al ’38, quando ho compiuto 12 anni. E in quel momento sono state promulgate le Leggi Razziali; nel settembre del ’38, mio padre ha riunito me e le mie sorelle, e ci ha raccontato che non potevamo più andare a scuola. La vita cominciò a cambiare; lui perse il lavoro, e siccome era già da tempo un antifascista, decise che dovevamo lasciare l’Italia”.
  Ha spiegato che all’epoca erano pochi i paesi che accoglievano gli esuli ebrei; dapprima si stabilirono a Losanna, in Svizzera, e poi nel ‘39 il padre riuscì a portarli a Tel Aviv. Ha raccontato che la sua famiglia “non soltanto era antifascista, ma erano anche molto legati ai Fratelli Rosselli. Anch’io ero molto legato a loro, e quando nel ’37 ho saputo che erano stati assassinati, che il padre delle bambine con cui giocavo era stato assassinato, ho giurato che li avrei vendicati”.
  Nel ’39 tornarono in Italia per passare le vacanze dai nonni, e in quel momento “è scoppiata la guerra. Ero malato di scarlattina, e quindi non potevo uscire dalla mia stanza. Siccome per fortuna l’Italia non è entrata in guerra subito, nel settembre del ’39 siamo rientrati a Tel Aviv. È stata una situazione molto traumatica: a 13 anni dovevo imparare una nuova lingua, in un paese nuovo, con usanze diverse”.

• LA BRIGATA EBRAICA
  Cividalli ha raccontato che nel 1944, quando la guerra era ormai prossima alla fine, “mia sorella si è arruolata nell’esercito britannico. Io non potevo fare da meno: appena compiuti 18 anni, nel dicembre del ’44, mi sono arruolato per combattere il nazifascismo e salvare il salvabile dell’ebraismo europeo”. Dapprima lo mandarono in Egitto per l’addestramento, e poi arrivò in Italia con la Brigata Ebraica, quando ormai il conflitto era già finito. “Quando sono arrivato in Italia, l’ho trovata distrutta non soltanto dalla guerra, ma anche dal fascismo stesso”. Per questo, vorrebbe che gli italiani “sapessero a che cosa li ha portati il fascismo”.
  Per dare un’idea della condizione in cui versava l’Italia subito dopo la guerra, ha spiegato che dopo un primo periodo in cui era a Taranto, giunse l’ordine di trasferirsi al nord, a Padova e a Udine: durante il viaggio, durato tre giorni su un treno merci, “ogni due passi ci si doveva fermare a causa delle distruzioni. E poi, c’era tutta questa gente povera che chiedeva l’elemosina, i bambini che venivano a cercare del cibo tra i rifiuti lasciati dai soldati”. Dopo l’Italia, prima di tornare nella Palestina Mandataria venne spedito anche in Austria e in Belgio.

• LA GUERRA D’INDIPENDENZA D’ISRAELE
  Dopo il ritorno in quello che nel ’48 divenne lo Stato d’Israele, ha spiegato Cividalli, “ho dovuto combattere per davvero, durante la guerra d’indipendenza d’Israele. Sono stato in un kibbutz chiamato Negba, dove eravamo assediati dalle forze egiziane. Ma intorno a noi c’erano truppe di tutti i tipi: iracheni, siriani, arabi locali, tutti combattevano per distruggere questo Stato”.
  Tra i ricordi della guerra, ce n’è uno in particolare che si porta dietro con dolore: “Quando sono stato ferito, in una postazione molto avanzata, c’era una ragazza con me che mi ha fasciato e curato. Il comandante mi ordinò di andare in infermeria e poi in una postazione meno pericolosa, mentre la ragazza che mi aveva curato prese il mio posto in prima linea. E la sera stessa, durante quello che avrebbe dovuto essere il mio turno di guardia, è rimasta uccisa. E questo è un dolore che mi porto dietro per tutta la vita, poiché questa ragazza che mi aveva curato è morta al posto mio”.
  In seguito, Cividalli ha combattuto anche in altre guerre d’Israele, nel Sinai nel ’56 e in quella dei Sei Giorni nel ’67, fino a quando “ormai ero troppo vecchio per combattere”.

• L’ATTUALITÀ
  Guardando alla situazione attuale in Italia, Cividalli ha l’impressione che “questo antisemitismo che avevo sofferto nel 1938 non è scomparso, anche se non vivendo in Italia non posso esserne sicuro”. Una delle ultime volte che è venuto in Italia, ha detto di essersi sentito male quando è passato da Predappio, vedendo i negozi con i cimeli fascisti.
  Ha inoltre aggiunto che “anche la sinistra italiana è diventata una sinistra fascista, violenta”. In particolare, lo ha inorridito vedere la Scuola Normale Superiore di Pisa rifiutare gli accordi con Israele, soprattutto perché “il mio bisnonno, Alessandro D’Ancona, è stato direttore della Normale, senatore del Regno e sindaco di Pisa. Io e la mia famiglia abbiamo donato alla Scuola Normale tutti i ricordi che avevamo del mio bisnonno. Sono cose così umilianti e così tristi che mi fanno pensare che gli italiani non hanno ancora preso coscienza di tutto il male che sono riusciti a fare. E che ancora stanno facendo”.

(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2024)

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Capire gli ebrei per capire sé stessi

di Francesco Lucrezi

Nel 1994, il Rabbino capo di Roma, il grande e indimenticabile Elio Toaff, pubblicava un libro-intervista, Essere ebrei, edito da Bompiani, nel quale rispondeva alle domande di Alain Elkann sul significato dell’identità ebraica. Un libro di grande importanza, che aiutava non solo gli ebrei a capire cosa fossero, o potessero o dovessero essere, ma anche tutti gli uomini a capire quale sia o possa essere la loro identità, e come essa si possa forgiare, trasmettere, trasformare, attraverso un continuo confronto con se stessi e col mondo esterno. Perché ogni identità non è mai qualcosa di statico e immobile: credo che nessuno, alla fine della propria giornata, possa dirsi sicuro di essere la stessa persona che era all’inizio della stessa. E, se ciò è vero per una singola persona, ancor più lo è per un popolo, una religione e una tradizione che coinvolgono milioni di persone diverse.
Come insegnano i saggi, la parola Adam è scomponibile in due sillabe, l’alef iniziale e il successivo dam, che vuol dire sangue. Gli uomini sono tutti uguali, perché hanno tutti lo stesso sangue rosso, ma sono anche tutti diversi, perché ognuno di loro è segnato da un unico e irripetibile alef. E ciò, ovviamente, vale anche per gli ebrei, quantunque inesorabilmente condannati, da una millenaria distorsione, a essere monoliticamente raggruppati nella immaginaria prigione di un’identità fissa, piatta e unica, che, tutti insieme, li accomuna e (spesso) li condanna: sono, dicono, pensano, fanno…
Esattamente trent’anni dopo, viene oggi pubblicato un libro – frutto di un lungo percorso di investigazione e riflessione – di altrettanto interesse, molto diverso dal primo come impostazione, oggetto della ricerca, formazione culturale e impostazione ideologica dell’autore, il famoso demografo Sergio Della Pergola (che al Rabbino, com’è noto, è stato legato per lunghi decenni da uno stretto dialogo intellettuale e sodalizio familiare, essendone il genero).
Il titolo è uguale a quello del 1994, con l’aggiunta di una parola che aggancia l’indagine al momento attuale (forse il più difficile, com’è noto, per l’ebraismo mondiale, dopo la Seconda Guerra Mondiale) e che dà il segno del tempo trascorso: Essere ebrei, oggi. Continuità e trasformazioni di un’identità, Il Mulino, pp. 224.
L’autore inizia la sua investigazione con una serie di domande: «La popolazione ebraica nel mondo e nei maggiori paesi è in aumento o in diminuzione? Nel corso del tempo gli ebrei diventano più religiosi o meno religiosi? Sono più uniti fra di loro o più divisi secondo linee ideologiche, politiche e religiose? Sono sempre più integrati e assimilati nel contesto della società in cui vivono oppure sono sempre più isolati fra loro stessi? Sono maggiormente accettati dall’ambiente circostante o più contestati e discriminati?».
Fornire risposte certe a tali domande (tranne, forse, la prima, che presenta un livello di oggettività: ma forse neanche questo è vero, dal momento che la stessa concezione di chi possa dirsi o essere riconosciuto come “ebreo” è controversa) è, ovviamente, alquanto arduo, ed è difficile trovare solo due persone che la pensino allo stesso modo. Ma Della Pergola, forte del rigore scientifico della sua lunga e prestigiosa carriera accademica, basa la sua indagine su una serie di sondaggi condotti su larga scala, che hanno visto coinvolte decine di migliaia di persone, in molti Paesi, e ai quali egli stesso ha collaborato. Segnatamente: il sondaggio del 2013 sugli ebrei degli Stati Uniti realizzato dal Pew Research Center di Washington, specializzato negli studi sulla religione; quello del 2015, ancora del Pew Research Center, riguardanti le identità, gli atteggiamenti e le percezioni politiche nella popolazione d’Israele; quello del 2018 dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea sulla percezione dell’antisemitismo e della discriminazione nella popolazione ebraica in 12 Paesi dell’Unione Europea, fra cui l’Italia. Sono anche stati utilizzati i materiali raccolti da altre importanti ricerche sugli ebrei italiani, a diversi delle quali ha collaborato lo stesso autore, fin dal lontano 1965. Nel libro, quindi, confluiscono elementi raccolti in un’intera vita di studio, e le varie elaborazioni dei dati vengono riformulate in una nuova versione, offerta ai lettori con grande chiarezza e capacità comunicativa.
«Prima di tutto», avverte l’autore, «occorre comprendere che l’ebraismo è un complesso di elementi cognitivi, esperienziali ed affettivi. Può essere, quindi, osservato e classificato, ma anche percepito e vissuto, sia come un insieme di individui separati sia come un collettivo consolidato e più o meno coerente». È lo stesso oggetto dell’indagine, quindi, a essere, per sua stessa natura, prismatico e sfuggente a un preciso e definito inquadramento categoriale.
L’identità, ricorda l’autore, determina generalmente dei comportamenti, delle azioni: «Se una persona crede in un atto o in un oggetto simbolico o reale, è probabile, anche se non certo, che questa credenza si manifesti in modo concreto e quindi misurabile». Ma può anche accadere il contrario: può infatti «verificarsi anche un’influenza simmetrica, se e quando le convinzioni, le emozioni o i sentimenti interiori (identità) diventano la conseguenza piuttosto che la causa delle opinioni espresse o delle azioni manifestate (identificazione)». Ossia, «in seguito alla ripetizione magari formale e meccanica di atti o di opinioni, una persona può finire per immedesimarvisi”.
La ricerca di Della Pergola, perciò, va necessariamente al di là dell’ambito meramente sociologico e demoscopico, investendo anche i molteplici aspetti intellettuali ed emotivi scaturenti dalla “diade contenuti-identificazione”, e collegandosi a domande di tipo interiore e psicologico: che cosa gli ebrei pensano sia l’ebraismo? perché sono legati all’ebraismo? come esprimono la loro identificazione con esso?
Attraverso pagine di rara lucidità analitica, basate un una rigorosa documentazione e corredate da immagini e grafici di grande utilità didattica, l’autore fa emergere un quadro denso di aporie e contraddizioni, che spesso sorprenderà anche chi pretenda di avere un po’ di esperienza in materia di ebraismo.
Impossibile, ovviamente, sintetizzare in poche righe i risultati della ricerca, anche perché essi appaiono costellati di punti interrogativi. «Come già più volte in passato», conclude l’autore, «i drammi e i dilemmi che coinvolgono la compagine ebraica, e i modi con cui questi sono affrontati nel dominio pubblico, finiscono per costituire una cartina di tornasole della coscienza e della civiltà del presente, e allo stesso tempo interrogano la storia mettendo in discussione alcune delle categorie con le quali l’abbiamo fin qui letta. Da qui dovrà partire domani una nuova pagina sull’essere ebrei oggi».
Diciamo solo che il volume fa capire tantissimo non solo sull’ebraismo, ma anche su quel “resto del mondo” che ad esso si mostra, da sempre, tanto interessato, spesso in modo malato, torbido e morboso. E che dovrebbe essere letto da chiunque voglia capire qualcosa di più di quella “coscienza e civiltà del presente” di cui la percezione dell’ebraismo rappresenta la “cartina di tornasole”.

(moked, 18 luglio 2024)

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Italia-Israele, il Comune di Udine nega il patrocinio: "E’ uno stato in guerra". Monfalcone: “Li ospitiamo noi”

L'amministrazione comunale di Udine non ha concesso il patrocinio per la partita di calcio tra Italia e Israele, match valido per la Nations League e in programma nella città friulana il prossimo 14 ottobre. La richiesta, arrivata dalla Federcalcio, è stata negata in quanto non rientra fra le modalità prevista dal regolamento per la concessione del patrocinio da parte dell'ente, che può essere concesso solo per iniziative che non hanno scopo di lucro.

• Il sindaco di Udine: "Israele è in guerra, il patrocinio potrebbe creare divisioni"
La giunta comunale non ha concesso una deroga prevista in caso di evento benefico e per la rilevanza di prestigio di immagine per la città non ritenuta tale in relazione al conflitto israelo-palestinese. "Una deroga al regolamento, concedendo il patrocinio, sarebbe stata una scelta troppo divisiva, essendo Israele uno Stato in guerra. La nostra scelta poteva essere diversa solo se a oggi fosse stato annunciato un cessate il fuoco. Purtroppo così non è", ha spiegato il sindaco di Udine, Alberto Felice De Toni. "La concessione del patrocinio, più che fornire prestigio alla città, potrebbe creare divisioni e quindi problemi sociali", ha aggiunto.

• La risposta di Monfalcone: "Pronti a ospitare la nazionale di Israele"
A fare da contraltare al diniego di Udine è arrivata la proposta della ex sindaca di Monfalcone, oggi parlamentare europea, Anna Maria Cisint, che ha offerto la disponibilità della città a ospitare l’evento o, quantomeno, la nazionale di Israele: "La città di Monfalcone sarebbe sommamente onorata ad ospitare l'incontro Italia-Israele e si rende disponibile a offrire patrocinio e strutture per celebrare questo importante appuntamento sportivo. Il Comune di Udine non perde occasione per distinguersi in termini di faziosità e nella capacità di alimentare divisioni a senso unico, sempre dalla parte delle posizioni più estreme della sinistra. Non accorgersi che lo sport è un elemento di unione e dimenticare che Israele è la vittima del terrorismo di Hamas con 1500 innocenti uccisi è un segno grottesco di una caduta di civiltà che una città come Udine non merita di dover sopportare", ha scritto polemicamente in una nota.

(la Repubblica, 18 luglio 2024)

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I parenti degli ostaggi diffondono nuove foto: “Ecco la loro prigionia”

Le immagini trovate dall’Idf a Gaza sono state usate dalle famiglie per chiedere a Netanyahu di concludere i negoziati. Intanto crescono le proteste contro il richiamo alla leva per i giovani ortodossi

di Rossella Tercatin

GERUSALEMME — Ferite, bende e sguardi spaventati. Le immagini della prigionia delle cinque soldatesse israeliane rapite il 7 ottobre fotografano l’angoscia di Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger, Daniela Gilboa e Naama Levy nelle mani di Hamas. Le ragazze, tra i 19 e i 20 anni, stavano svolgendo il servizio di leva. Le prime quattro appaiono in una stanza sedute su materassini per terra. Di Naama è stata pubblicata un’immagine separata. Le foto risalgono a diversi mesi fa e sono state ritrovate dall’esercito israeliano nella Striscia. A sceglierle di diffonderle oggi sono state le famiglie nella speranza di mantenere viva l’attenzione sul dramma degli ostaggi che ad oggi sono ancora 120.
  «Potete vedere Karina e le sue amiche nei loro primi giorni di reclusione», ha detto con voce rotta il padre, Albert Ariev. «Karina con uno sguardo esausto e disperato, ha una fasciatura sulla testa. Sulla gamba si possono vedere macchie di sangue fresco. Ci sono i segni delle manette e il gonfiore sui polsi indica che è stata legata per molto tempo». Già a maggio le famiglie avevano reso pubblico il video del rapimento del 7 ottobre. Dopo 284 giorni trascorsi nei tunnel di Gaza, i genitori sono tornati ad appellarsi al primo ministro Benjamin Netanyahu — che si prepara a volare negli Usa la settimana prossima per tenere un discorso al Congresso — per chiedere un accordo che riporti a casa le figlie. «Il premier mi ha chiesto di unirmi a lui», ha dichiarato Ayelet Levy Shachar, madre di Naama. «Gli ho spiegato che non mi è possibile e che non mi sentirò a mio agio con lui finché non avrò visto che i negoziati saranno completati». Nella stessa giornata Netanyahu è stato contestato con fischi e urla alla commemorazione per i soldati caduti nell’operazione Margine Protettivo contro Gaza nel 2014.
  Intanto, secondo la Cnn, la Cia ritiene che il leader di Hamas Yahya Sinwar stia sperimentando una pressione crescente da parte dei suoi per accettare l’accordo per il cessate il fuoco. Il direttore William Burns avrebbe dichiarato che sebbene Sinwar non tema di essere ucciso, la frustrazione dei palestinesi nei suoi confronti per la morte e distruzione subiti da Gaza stia aumentando a dismisura. Secondo fonti della Striscia ieri i bombardamenti israeliani hanno provocato la morte di 57 persone. Burns avrebbe detto che la chance di un accordo è la più alta da mesi a questa parte. Un discorso che fa eco al messaggio rivolto alle famiglie degli ostaggi dal ministro della Difesa Yoav Gallant, secondo cui il risultato è più vicino che mai. «È fondamentale fare ogni sforzo prima del viaggio del premier a Washington. Dopo, sarà molto più difficile».
  Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, l’Idf sarebbe sempre più convinta che il capo dell’ala militare di Hamas Muhammad Deif sia rimasto effettivamente ucciso nel raid israeliano dello scorso sabato. Uno sviluppo che potrebbe favorire il raggiungimento del cessate il fuoco in virtù dell’indebolimento del gruppo terrorista. In Israele nel frattempo alcuni manifestanti ultraortodossi hanno bloccato l’autostrada 4 vicino alla città di Bnei Brak, per protestare contro il tentativo di arruolare gli studenti delle yeshivot (scuole rabbiniche) finora esenti dalla leva, per alleviare la carenza di soldati durante la guerra.

(la Repubblica, 17 luglio 2024)

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La struttura soggiacente: intervista a Bat Ye’or

di Davide Cavaliere

Bat Ye’or, ovvero «Figlia del Nilo», è autrice di studi pionieristici sulla condizione sociale delle minoranze religiose nel mondo islamico. È lei ad aver introdotto i termini «dhimmitudine» ed «Eurabia». Col primo si indica lo stato di sottomissione al dominio islamico di territori e popolazioni; col secondo la teoria geopolitica che mira alla fusione delle due sponde del Mediterraneo. I lavori di Bat Ye’or sono pubblicati in Italia dall’editore Lindau di Torino.

- Nel suo lavoro, specialmente nel celebre “Eurabia”, lei ha messo in evidenza la natura antisionista e filo-araba dell’Unione Europea. Puoi spiegarci, in generale, quali sono gli interessi che legano l’Europa al mondo arabo?
  Gli interessi sono variati dagli anni ’60, quando la strategia di Eurabia fu elaborata. Tuttavia, non è nata dal nulla. Già dalla Prima Guerra Mondiale, in termini energetici, il petrolio era un elemento essenziale dello sviluppo industriale ed economico per l’Europa e motivava una politica di avvicinamento euro-arabo. D’altra parte, la Francia e la Gran Bretagna erano imperi musulmani già nel XIX secolo, abitati da numerose popolazioni musulmane, le cui metropoli temevano l’ostilità religiosa. Dopo la decolonizzazione, i paesi europei vollero creare con i paesi musulmani una politica mediterranea privilegiata, che escludesse gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Questa strategia fu rivendicata dai circoli gollisti negli anni ’60 ed era accompagnata da una vasta gamma di relazioni commerciali, politiche, strategiche e culturali privilegiate.
  Sul piano religioso, l’intero mondo cristiano, in particolare  il Vaticano, e il mondo musulmano si sono opposti al sionismo sin dalle sue prime manifestazioni. Solo pochi movimenti di minoranze cristiane erano a favore. Dopo la Dichiarazione di Balfour e la Dichiarazione di Sanremo (1920), che ratificarono la creazione di un futuro Stato Ebraico, si stabilì una collaborazione antisemita internazionale islamo-cristiana. Collaborazione che si manifestò alla Conferenza di Evian (1938) con il rifiuto dei paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti, di accogliere gli ebrei tedeschi e austriaci perseguitati dal regime nazista. Nei paesi arabi, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, le masse arabe e musulmane si entusiasmavano del nazismo e del fascismo; i leader politici e militari arabi suggellarono alleanze con i nazisti, i fascisti e i collaborazionisti. Nel 1947, due anni dopo la pace, la giudeofobia era ancora diffusa in Europa, mantenuta dagli stessi funzionari collaborazionisti rimasti al loro posto dopo la guerra e legati ai popoli arabi dalla stessa ideologia di sterminio del popolo ebraico. La sopravvivenza di Israele dopo l’aggressione di cinque eserciti arabi ben equipaggiati militarmente e sostenuti in Palestina dalle milizie arabo-naziste di Amin al-Husseini (1947-1948), avvenne nonostante l’Europa. Tutti i documenti di quel periodo lo confermano. Da qui la creazione di un organo del tutto speciale, l’UNRWA, per accogliere gli arabi della Palestina che fuggivano dai combattimenti nei paesi arabi fratelli di cui avevano preteso l’intervento militare per sterminare gli ebrei.
  Dal 1967-1969 vediamo la rinascita, nella Francia gollista, di queste reti di collaborazione euro-arabe forgiate dall’alleanza dei nazisti con i popoli arabi nella comune volontà politica genocidaria del popolo ebraico. Questa situazione è stata denunciata e combattuta da intellettuali e politici. Il 15 dicembre 1973, a Copenhagen, i nove paesi della Comunità Europea presero ufficialmente le parti dell’OLP e nel settembre del 1977 una dichiarazione in tal senso venne fatta all’ONU. Oramai, gli arabi di Palestina, Arafat e l’OLP incarnano l’arma di distruzione dello Stato d’Israele in favore del movimento antisemita europeo che, sotto la copertura di antisionismo, può esprimersi apertamente nel contesto di una politica convergente dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Questa tendenza diventa molto popolare in Europa ed è una mappa essenziale della sua politica.

- L’Unione Europea si è dimostrata ostile alle sovranità nazionali, considerate eredità di un passato da abbandonare a favore di istituzioni sovranazionali. Israele, al contrario, è uno stato nazionale geloso della sua indipendenza e dotato di una forte identità. In che misura ritiene che i pregiudizi antinazionali dell’Unione Europea abbiano pesato sulla sue relazione con lo Stato Ebraico?
  Non credo che questi pregiudizi antinazionali abbiano avuto molta influenza sull’antisionismo europeo. L’Europa stessa promuove un nazionalismo inesistente, lo pseudo-palestinismo, che ha creato e sostiene a suon di miliardi. D’altra parte, tutti i paesi arabi sono ultra-nazionalisti, così come la Turchia, la Cina, il Giappone e molti altri paesi. L’Unione Europea vuole sopprimere le frontiere del suo continente, riprendendo un progetto creato nel 1938 da Walter Hallstein che promuoveva un’Europa senza frontiere guidata dal 3 ° Reich e Judenrein. Hallstein, che fu un eminente nazista, fu eletto dai leader europei primo presidente della Commissione europea (1956-67).
  Nonostante il fallimento del comunismo, l’internazionalismo fu promosso dai partiti di sinistra. Bruno Kreisky, presidente dell’Internazionale socialista E diventato cancelliere austriaco (1970-83), rafforzò i legami della sinistra occidentale con il mondo islamico. Egli fu il primo statista a invitare Arafat alle Nazioni Unite e a dare una legittimità all’OLP, il cui progetto di sradicamento dello Stato Ebraico fu incarnato dal suo leader, Yasser Arafat, sostenuto dall’Unione Sovietica. Io credo che sia stato il progetto di Hallstein insieme alla politica di fusione e di collaborazione con il mondo arabo a determinare la retorica di un’Europa senza frontiere dall’insieme dei movimenti politici europei. I documenti dell’epoca menzionano la volontà di creare un potente blocco europeo in grado di competere con l’America che sarebbe collegato con gli Stati produttori di petrolio.

- Quale futuro geopolitico e demografico prospetta per il Vecchio Continente?
  Se le decisioni politiche prese dal 1973 che posero in essere la guerra nascosta dell’UE contro Israele – svelata pubblicamente dalla  politica di Donald Trump nel corso della sua presidenza – e che sono state la base dei meccanismi dell’immigrazione musulmana di massa in Europa, con le trasformazioni sociali, religiose, legali e culturali conseguenti, saranno mantenute dalla élite al potere, il futuro è chiaro. Sarà quello del Libano, del declino dell’Europa nella dhimmitudine. Già da molto tempo il terrore jihadista ha soppiantato l’inviolabilità dei diritti umani in Europa, incluso il diritto elementare di ciascuno alla sicurezza.

- Può approfondire questo parallelo col Libano?
  Le nostre società sono fratturate dall’adesione di milioni di immigrati alla Sharia e dai loro legami con i loro paesi di origine ostili all’Occidente e alla sua civiltà giudeo-cristiana. La partecipazione europea allo jihad contro Israele ha pervertito i valori occidentali a tutti i livelli e diffuso i concetti islamici della cultura e della storia, che oggi impregnano l’Europa. Questa politica fu scientemente concepita, studiata e applicata in tutti i campi, dai comitati congiunti euro-arabi del Dialogo Euro-Arabo creati nel 1974 a Parigi sotto l’egida della Commissione europea, ed è il motivo per cui i capi di stato hanno piena responsabilità per le sue conseguenze. Dal 1973 l’Unione Europea ha instaurato un rapporto di vassallaggio con l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, da cui derivano alcuni vantaggi economici nel breve termine a scapito dei suoi interessi nel lungo termine.

- In tutta Europa, compresa l’Italia, gli intellettuali che criticano l’Islam e il multiculturalismo sono censurati, denunciati e messi a tacere. Basti pensare a Robert Redeker, Eric Zemmour, Georges Bensoussan, Magdi Allam e molti altri. Quale sarà il ruolo del dissenso intellettuale nell’emergente Europa post-identitaria?
  Io stessa sono stata criminalizzata senza prove, vittima di incitamenti all’odio e di ingerenze illegali ed erronee nella mia vita privata. Queste sono accuse, che non subiscono nemmeno i criminali protetti dalla presunzione di innocenza, hanno reso necessarie misure di protezione. Tale azione piena di odio mirava a screditare tutte le mie ricerche sulla dhimmitudine e la sua espansione in Europa tramite le reti del dialogo euro-mediterraneo guidate dalla Commissione europea e dalla Lega araba. Il totalitarismo intellettuale imposto dal pensiero unico e refrattario a tutte le riflessioni che lo contraddicono mi ha messa al bando dalla società. Essendo ebrea sono stata accusata di complottismo, un’accusa razzista contro gli ebrei proveniente dagli antisemitismi cristiani, ma ancora più virulenta nell’Islam. Pertanto mi considero vittima di un razzismo giudeofobico che ha sporcato il mio onore e la mia reputazione professionale.
  Il ruolo della dissidenza intellettuale dovrà seguire criteri specifici in un’Europa che ha già adottato e integrato a livello sociale, giuridico, culturale e politico, alcuni vincoli della Sharia, dei concetti e comportamenti musulmani tradizionali nei confronti dei dhimmi, dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani accusati di apostasia, nei confronti delle donne e del Dar al-Harb, il territorio della miscredenza. A ciò si aggiunge una visione della storia e dei diritti dell’uomo secondo i principi della Sharia, vale a dire della fede e quindi, fondamentalmente, opposti ai criteri occidentali. Inoltre, sarà necessario conoscere l’ideologia jihadista che introduce l’inversione delle nozioni di aggressore e di aggredito, d’innocenza e di colpa, di giustizia e di crimine.

- Cosa dovranno fare gli intellettuali?
  La dissidenza intellettuale dovrà definire i suoi obiettivi: difendere i suoi diritti democratici e i valori etici della civiltà giudaico-cristiana occidentale. Dovrà conoscere il suo campo di battaglia, che è quello di una dhimmitudine che lei rifiuta per rimanere libera e sfuggire al destino degli ebrei e dei cristiani ridotti allo stato di fossili dalle leggi del jihad e del dhimmitudine. Dovrà integrare e comprendere queste nozioni nella loro storicità e nella loro nocività politica attuale e individuare i loro canali di trasmissione, generalmente legati alla corruzione e all’antisemitismo. Dovrà accogliere i musulmani che prendono parte a questa guerra, perché non è una guerra contro l’islam, è una guerra per mantenere le nostre libertà e le nostre identità. I popoli d’Europa hanno il diritto di rifiutare la dhimmitudine. Tuttavia, tutto ciò di cui vi sto parlando è completamente ignorato dal grande pubblico e dagli intellettuali. E non ci si può opporre a qualcosa che non si vede, che non si capisce e per la quale non esiste una definizione. Ecco perché temo che quella che dovrebbe essere una battaglia di idee si trasformi in una confusione violenta che farà molte vittime innocenti senza portare progressi.

- Nel suo libro più famoso, “Eurabia”, ha anche toccato il tema dell’islamizzazione dei patriarchi biblici e di Gesù. Un movimento che ha espresso posizioni anti-israeliane e antisemite, Black Lives Matter, denuncia le rappresentazioni “bianche” di Gesù. Vede, in questo atteggiamento, un nuovo tentativo di espropriare gli occidentali dalla loro cultura?
  Il movimento Black Lives Matter è un movimento violento infiltrato dall’islamismo e dal palestinismo, che sfruttano uno storico conflitto americano per incitare all’odio contro i cristiani, gli ebrei e in generale contro i bianchi americani, al fine di seminare il caos attraverso conflitti razziali e etnici per distruggere l’America. La denuncia di Gesù “bianco” aggiunge un elemento razziale alla giudeofobia e alla cristianofobia islamica che islamizza la Bibbia, cioè le basi dell’ebraismo e del cristianesimo, per impiantarci l’Islam. Molti afroamericani si oppongono a questo movimento che ha incendiato anche le capitali europee. Personalmente, non avrei alcuna obiezione alla rappresentazione umana di Gesù sotto una forma africana se ciò può servire ad avvicinarlo ai cristiani africani. Per i credenti cristiani Gesù è Dio incarnato e il suo messaggio come ebreo è universale.
  Mi permetta un’osservazione sul mio libro Eurabia. È forse il più famoso, ma non è il più importante per me. Attribuisco questo ruolo a Il Declino della Cristianità sotto l’Islam, dal jihad alla dhimmitudine , perché è lì che definisco il concetto cruciale di dhimmitudine come caratteristica storica delle popolazioni sconfitte dal jihad in tre continenti, L’Africa, L’Asia e L’Europa. Lì sviluppo gli argomenti e fornisco I criteri. Per me Eurabia è stato uno studio delle manifestazioni della dhimmitudine nel ventesimo secolo in alcuni paesi europei che non furono conquistati dal jihad e i cui governi l’hanno accolta con entusiasmo. Eurabia esamina principalmente la Francia, ma un’analisi degli altri paesi della comunità, l’Italia ai tempi di Aldo Moro  (Lodo Moro) e di Giulio Andreotti, della Gran Bretagna, dei paesi scandinavi, in particolare della Norvegia (non membro della UE), darebbe un’immagine molto più cupa.

- Lei ha conosciuto Oriana Fallaci? Puoi dirci qual è il suo ricordo della grande giornalista italiana?
  Non ho mai incontrato Oriana. Si è messa in contatto con me qualche tempo prima di morire attraverso un amico comune che conosceva il mio lavoro e le ha dato il mio indirizzo. Oriana mi scriveva spesso per informazioni. Soffriva enormemente per non poter tornare in Italia e soprattutto per l’odio che il mondo politico aveva per lei in quel momento, lei capiva molto bene cosa sarebbe successo in futuro. L’incubo che aveva di vedere distruggere la magnifica Italia con i suoi monumenti, le sue opere d’arte, la ricchezza senza pari del suo patrimonio storico, la tormentava incessantemente. Ho provato a consolarla, ma non sono sofferenze che le parole possano lenire.

(L'informale, 17 luglio 2024)

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La Francia ebraica allo specchio del voto: davvero il suo futuro è sempre più fosco?

di Ilaria Myr

«Marine Le Pen sconfitta». «Francia: la destra non sfonda». «La destra si può battere» (Elly Schlein, PD).
«La verità è che nessuno può cantare vittoria» (Giorgia Meloni, FdI).
Sono solo alcuni dei titoli e delle dichiarazioni uscite subito dopo l’annuncio dei risultati ufficiali delle elezioni legislative in Francia, che si sono svolte su due turni, e che hanno visto il Nuovo Fronte Popolare, costituito dalle forze di sinistra, guadagnare più seggi e il Rassemblement National di Marine Le Pen, uscito vincitore al primo turno, arrivare terzo, addirittura dietro al partito del presidente Emmanuel Macron. Un risultato, però, che non vede un vincitore con la maggioranza assoluta e che sta dividendo l’opinione pubblica francese. A questo si aggiungano le frizioni interne al Nuovo Fronte Popolare, con le diverse componenti  in disaccordo su premier e programmi, e l’ingovernabilità è servita. Perché quello che unisce il blocco di sinistra – di cui è capofila La France Insoumise del discusso Jean-Luc Mélenchon - è un’idea sola: fare sbarramento all’estrema destra del RN.

• IL VOTO EBRAICO
  Al secondo turno, dunque, i francesi si sono trovati a dover scegliere fra un blocco di destra e uno di sinistra, con i partiti più estremisti in testa. Ma come hanno reagito le diverse anime della comunità ebraica francese (ed europea)? Il dibattito è stato molto acceso e di fatto la comunità ebraica francese si sente minacciata dai fondamentalisti islamici, ma è anche scettica nei confronti della nuova narrazione filo-israeliana dell’estrema destra del Rassemblement National.
  Non a caso il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF), aveva esortato la comunità a respingere entrambi gli schieramenti. Jean-Luc Mélenchon, nel suo discorso di vittoria, ha promesso di riconoscere uno Stato palestinese, aumentando ulteriormente le preoccupazioni del 92% degli ebrei francesi, convinti che la retorica dell’estrema sinistra abbia contribuito all’aumento dell’antisemitismo.
  Dal canto suo, Marine Le Pen ha cercato di migliorare l’immagine del suo partito, rinunciando all’antisemitismo, denunciando l’attacco di Hamas e adottando una posizione pro-Israele. Tanto che di fronte all’ascesa di La France Insoumise, alcune importanti voci ebraiche hanno invitato a votare per il partito di Le Pen. Una è quella di  Serge Klarsfeld, noto cacciatore di nazisti in Francia, che ha motivato la sua decisione con la difesa della memoria ebraica e di Israele, ritenendo che l’estrema sinistra sia accusata di antisemitismo e violento antisionismo per attirare i voti degli elettori di origine maghrebina e islamica.
  Ma ha fatto lo stesso anche il controverso intellettuale Alain Finkielkraut, che ha dichiarato di esservi costretto non essendoci alternative, descrivendo questa decisione come un «incubo». «Preferirei la destra all’antisemitismo del Fronte Popolare – ha dichiarato in un’intervista sul Corriere della Sera  –. Povera Francia, lacerata dagli estremi. Io sono un conservatore, vedo la lingua, la cultura, la nazione disfarsi».

• INTERVISTA A GEORGES BENSOUSSAN
  Come dunque hanno votato gli ebrei francesi?
Lo abbiamo chiesto a Georges Bensoussan, storico francese di origine marocchina e da anni attento osservatore delle tendenze sociali in Francia, legate in particolare alla componente musulmana.

- Si aspettava un risultato come quello uscito dal secondo turno?
  No. Solo negli ultimi giorni ho capito che il Rassemblement National avrebbe potuto non vincere, visto il battage mediatico martellante che ha avuto contro, tutto giocato sulla paura degli elettori nei confronti di un partito definito fascista. Ma non pensavo che il Nuovo Fronte Popolare sarebbe arrivato in testa. Detto questo, si deve precisare che l’avanzata di questa coalizione non è considerevole come si crede, perché i risultati ci dicono che il primo partito in Francia è il RN, mentre i gruppi che compongono il blocco di sinistra hanno tutti ottenuto meno deputati del partito della Le Pen. La maggior parte delle persone, poi, non considera che nel primo turno del 30 giugno il Rassemblement National ha avuto più voti del blocco di sinistra (33,14% contro 27,99%, ndr). Quello che è sorprendente, e che viene annunciato a gran voce sui giornali, è che ha vinto la coalizione di sinistra, quando in realtà il paese è molto a destra, fronte rappresentato dal RN, dalla destra repubblicana e da una grande parte del partito del presidente Macron. Quindi il paradosso a cui assistiamo è che la sinistra grida alla vittoria quando in realtà sociologicamente ha perso le elezioni. Basta vedere come quest’anno abbia preso meno voti di 20 anni fa, quando gli elettori erano meno, 38 milioni contro i 49 milioni di oggi. Ciò è dovuto sicuramente al sistema elettorale francese, ma anche al fatto che fra i due turni il ritornello dominante sui media è stato di fare sbarramento all’estrema destra e perché il Fronte Popolare è una coalizione basata sul rifiuto del RN, e non su un progetto politico condiviso. Il RN non solo è il primo partito in Francia, ma è quello in maggiore espansione: ha avuto 55 deputati in più della precedente assemblea, e in tre anni è passato dai sette deputati nel 2021 ai 142 di oggi. Una crescita enorme…

- Come spiegare una crescita tale del RN?
  La politica borghese francese delle grandi metropoli, che sia di destra o sinistra, non sa più parlare alle classi popolari e a buona parte della classe media, che si sentono abbandonate e non rappresentate dalle classi borghesi delle grandi città, sempre di più ripiegate su sé stesse e sul proprio modo di vivere. Attenzione, però: non è l’immigrazione che spiega il voto al RN, quanto l’abbandono dei servizi pubblici – posta, mezzi di trasporto, polizia – nelle zone più periferiche, tanto che è emerso che più ci si allontana da una stazione ferroviaria più è forte il voto al RN. Basta guardare i risultati per capire che i voti di Parigi sono esattamente il contrario di quelli del resto della Francia: nella capitale il RN è al 7% mentre nelle altre zone del Paese è fra il 35 e il 38%. Di fatto è la classe borghese che è stata rifiutata dal voto al RN, ma questo voto popolare non è andato ai partiti della sinistra, sentita come non più rappresentante delle classi popolari: una sinistra “bobo” (da ‘bourgeois’ e ‘bohemian’, ndr), che vota per i matrimoni gay, per l’accoglienza degli immigrati (che vanno però a insediarsi nei quartieri più poveri) e che non si occupa assolutamente delle questioni che interessano le realtà più svantaggiate. Quindi la scelta di votare RN è popolare e antiborghese, e non, come si è voluto fare credere, un voto fascista. Il risultato è che le classi popolari hanno l’impressione che il loro voto sia stato scippato.

- Cosa ha pesato di più per gli ebrei: la minaccia dell’estrema destra o quella dell’estrema sinistra?
  In realtà il RN di Marine le Pen non è più percepito da molti ebrei come una minaccia, come un partito di estrema destra né tantomeno fascista: lo considerano piuttosto populista-autoritario. Inoltre, se è vero che nelle file del RN ci sono degli antisemiti (ad aprile, pochi giorni dopo lo stupro di una dodicenne ebrea con movente antisemita, ha dovuto ritirare il sostegno a uno dei suoi candidati, Joseph Martin, che aveva pubblicato un messaggio antisemita sui social network nel 2018. ndr), è anche vero che la sua dirigenza ha rotto con l’antisemitismo e dal 7 ottobre ha avuto delle posizioni impeccabili nei confronti di Israele.
  Quello che è lampante è che il voto ebraico rispecchia esattamente quello dei francesi: l’establishment borghese rappresentato dalle istituzioni ha fatto appello a fare sbarramento, non votando né per l’una né per l’altra parte (vedi l’appello del Crif, ndr), ma le comunità “di base” hanno votato RN o Reconquete di Éric Zemmour. Quindi le comunità ebraiche popolari non ascoltano più le indicazioni delle istituzioni ebraiche, così come le classi popolari non seguono più le direttive della classe borghese veicolate dai media benpensanti. La discriminante è l’antisemitismo: ma mentre RN ha fatto – sinceramente o meno non ci è dato sapere – una pulizia degli elementi antisemiti, non si può dire lo stesso della France Insoumise. E poi ci sono gli interessi di classe, e come gli altri francesi molti ebrei non vedono i propri interessi rappresentati e non vogliono una Francia invasa dagli immigrati e islamizzata.

- Secondo lei l’antisemitismo, molto spesso camuffato da antisionismo, nella sinistra e in LFI, rappresenta una minaccia per le comunità ebraiche?
  Assolutamente sì, una minaccia evidente e forte. Non sarebbe però giusto dire che tutto il blocco di sinistra è antisemita e neanche che lo è LFI. Quel che è certo è che soprattutto il partito di Mélenchon sfrutta il fatto che la popolazione francese è sempre più musulmana: gli ultimi dati del Ministero degli interni stimano che un francese su 5 sia musulmano. Mélenchon ha fatto il calcolo che alle presidenziali del 2022 gli mancavano 300.000 voti per arrivare al secondo turno, e gli strateghi del partito hanno capito perfettamente che li avrebbero trovati nelle banlieue musulmane. Da qui l’ossessione per Gaza, il promesso riconoscimento della Palestina, la presenza di Rima Hassan (l’avvocatessa franco-palestinese e attivista antisraeliana, diventata eurodeputata con LFI alle ultime europee e fotografata con la kefiah al collo vicino a Mélenchon, ndr). Non penso neanche che lui sia antisemita, ma sicuramente gioca sull’antisemitismo, sulla Palestina e su Gaza per portare i voti al suo partito, ben sapendo che i pregiudizi antisemiti sono molto forti nelle famiglie musulmane in Francia. Di fatto si serve dell’antisemitismo come di un trampolino elettorale.
  Per gli ebrei francesi è dunque molto pericoloso perché demograficamente non pesano più nulla: si pensa siano circa 400.000 (ma le statistiche etniche sono vietate in Francia), mentre circa 70.000 hanno lasciato il Paese fra il 2020 e il 2023 per Israele, e molti altri per gli Stati Uniti o l’Australia, e si sa che ci sono oggi più di 15.000 richieste di aliyà per Israele in attesa. Quindi si stima che in 25 anni un quinto degli ebrei se ne sarà andato altrove.
  Dal canto suo, l’elettorato non musulmano di LFI ha una grande simpatia per la causa palestinese, e quando ci sono dichiarazioni antisemite del partito non vuole vederle, preferendo parlare di antisionismo. Molto forte è il nocciolo profondamente antiisraeliano, che vede in Israele il seguito della colonizzazione francese in Algeria, il colonizzatore bianco, razzista. Cosa che – e in pochi lo dicono -, permette di sbarazzarsi del senso di colpa per la Shoah: “voi ebrei, vittime di ieri, siete i carnefici di oggi, quindi lasciateci stare con la Shoah, non vi state comportando meglio dei nazisti”.

- Cosa  augura all’ebraismo francese? Pensa che gli ebrei debbano andare in Israele, come hanno invitato a fare alcuni personaggi pubblici francesi e israeliani, oppure che possano continuare a vivere in Francia?
  La soluzione non è quella di partire: si deve rimanere, difendendo la vita ebraica e prendendo le misure necessarie per contrastare le manifestazioni di antisemitismo. Ma certo non è facile, vista anche la crescita della popolazione arabo-musulmana. Allo stesso tempo, Israele non è una soluzione per tutti: il costo della vita è altissimo e sia le persone meno abbienti  che la classe media non possono permettersi molte cose, come acquistare un appartamento, andare a mangiare fuori, ecc… Quindi gli ebrei francesi sono condannati alla doppia pena: o restano in Francia e subiscono l’antisemitismo, oppure vanno in Israele ma, se non hanno abbastanza mezzi economici, vivono una vita povera. Per questo molti scelgono altre mete.
  Per chi rimarrà in Francia, l’unica possibilità sarà diventare invisibile, vivere raggruppati e nel modo più discreto possibile: si toglierà la mezuzà dalle porte, non si metterà il ciondolo con il Magen David o la kippà, e quando si ordinerà un Uber si darà un nome francese. Già ora è una comunità che si sta abituando a vivere all’ombra. E lo sarà sempre di più.
  Anche la piazza e la partecipazione alle manifestazioni contro l’antisemitismo ci dimostrano che il clima sta cambiando in peggio. Quello che è sorprendente è che dopo lo stupro della ragazzina ebrea di 12 anni, l’80% dei partecipanti scesi in piazza era costituito da ebrei; soltanto 30 anni fa, nel 1990, per la violazione del cimitero di Carpentras (era stato profanato un cadavere) c’era un milione di persone nelle strade, tra cui moltissimi non ebrei… Persino il Presidente della Repubblica François Mitterrand era sceso in piazza. Invece, alla manifestazione del novembre scorso contro l’antisemitismo Emmanuel Macron ha rifiutato di partecipare.
  Gli ebrei a mano a mano stanno capendo che dietro alle belle parole, l’apparato statale li sta abbandonando: non per antisemitismo, ma a causa del rapporto di forza con il mondo musulmano. In questo contesto gli ebrei non contano più niente.

(Bet Magazine Mosaico, 16 luglio 2024)

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La sorte di Mohammed Deif: ucciso secondo fonti israeliane, si attendono conferme

di Luca Spizzichino

Secondo l’intelligence israeliana, Mohammed Deif, capo militare di Hamas a Gaza, è rimasto ucciso nel raid di sabato scorso di Mawasi nel sud della Striscia. È quanto ha riferito Channel 12. Una fonte autorevole ha sottolineato che è molto probabile che Deif sia stato ucciso nell’attacco, ma che la conferma non è ancora arrivata, ha riferito l’emittente statale israeliana KAN.
  Secondo l’Idf infatti, “è certo” che Deif e il comandante del Battaglione Khan Yunis di Hamas Rafa Salameh fossero nello stesso edificio colpito. Ieri l’esercito ha confermato l’uccisione di Salameh. Al contrario per il terrorista soprannominato “Il fantasma”, manca ancora un annuncio ufficiale.
  Nelle scorse ore anche dall’intelligence americana sono arrivate “indicazioni” che Israele abbia eliminato il capo militare di Hamas. “Ci sono ancora molte domande sui risultati degli attacchi contro Mohammed Deif”, ha detto l’ambasciatore statunitense in Israele Jack Lew in un briefing per la comunità ebraica americana ospitato dalla Casa Bianca. “Non posso confermare se hanno avuto successo o meno, ma ci sono indicazioni che ci siano riusciti”.
  Ieri sera, il Capo di Stato Maggiore dell’IDF Herzi Halevi ha detto che Hamas stava “cercando di nascondere i risultati” dell’attacco. I media israeliani affermano che Hamas sta facendo di tutto per nascondere la sorte di Deif, anche sorvegliando gli ingressi e le uscite dell’ospedale dove vengono curati i feriti nell’attacco.

(Shalom, 16 luglio 2024)

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USA – Vance, il candidato vicepresidente: «Libertà a Israele nella guerra a Hamas»

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Isolazionista, contrario all’invio di armi all’Ucraina, ma favorevole al sostegno a Israele, il mondo comincia a scoprire J.D. Vance, il senatore trentanovenne scelto da Donald Trump come candidato vicepresidente per la corsa alla Casa Bianca.
  Nella prima intervista dopo la nomina, Fox News ha chiesto a Vance cosa pensa del conflitto a Gaza. «Joe Biden ha reso la vittoria d’Israele sempre più difficile», ha commentato il candidato vicepresidente. «Vogliamo che Israele concluda questa guerra il più rapidamente possibile, perché più si protrae, più la loro situazione diventa difficile. Ma in secondo luogo, dopo la guerra, vogliamo rinvigorire il processo di pace tra Israele, Arabia Saudita, Giordania e così via».
  Nei mesi scorsi Vance ha contestato la gestione dell’amministrazione Biden del conflitto, criticando le pressioni esercitate dalla Casa Bianca su Gerusalemme per un uso più limitato della forza a Gaza. «Penso che il nostro atteggiamento dovrebbe essere: «Non siamo bravi a gestire le guerre in Medio Oriente, gli israeliani sono nostri alleati, lasciamo che portino avanti questa guerra nel modo che ritengono più opportuno», ha dichiarato in un’intervista alla Cnn. Per il numero due del ticket repubblicano «se vogliamo imparare la lezione degli ultimi 40 anni, la cosa più importante è sconfiggere Hamas come organizzazione militare». Tenendo presente «l’impossibilità di sconfiggere l’ideologia» dei terroristi palestinesi, bisogna concentrarsi sull’eliminazione «dei comandanti e dei battaglioni addestrati». «Penso dovremmo dare agli israeliani il potere di fare tutto questo».
  Ultraconservatore cattolico, in un intervento al Quincy Institute di Washington ha delineato la sua visione del legame con Israele. «Il motivo principale per cui gli americani si preoccupano di Israele è che siamo ancora il paese a maggioranza cristiana più grande del mondo. Questo significa che la maggioranza dei cittadini americani pensa che il loro salvatore – e io mi considero un cristiano – sia nato, morto e risorto in quella piccola striscia di territorio sul Mediterraneo. L’idea che ci sarà mai una politica estera americana che non si preoccupi di quella fetta di mondo è assurda», ha dichiarato Vance. Nello stesso discorso al Quincy Institute, il senatore dell’Ohio è tornato sulla sua decisione di bloccare per settimane un pacchetto sicurezza a favore d’Israele e Ucraina. «È strano che Washington dia per scontato che Israele e Ucraina siano esattamente la stessa cosa. Non lo sono, ovviamente, e credo che sia importante analizzarli separatamente». Dopo aver ribadito il sostegno alla guerra a Hamas, il candidato vicepresidente ha detto di «ammirare gli ucraini che stanno combattendo contro la Russia. Non credo però che sia interesse dell’America continuare a finanziare una guerra di fatto infinita in Ucraina».
  A maggio la Cnn ha chiesto a Vance di commentare un’incendiaria dichiarazione di qualche settimana prima di Trump sul voto ebraico negli Usa. Secondo il candidato repubblicano «i democratici odiano Israele» e quindi «ogni ebreo che vota per i democratici odia la propria religione. Odiano tutto ciò che riguarda Israele e dovrebbero vergognarsi perché Israele sarà distrutto». Per il senatore dell’Ohio le dichiarazioni di Trump sono comprensibili. «Penso sia ragionevole guardare a questa situazione e dire che se sei un americano ebreo che si preoccupa dello stato di Israele, che si preoccupa di queste rivolte antisemite (le manifestazioni propalestinesi nei campus universitari), dovresti stare dalla parte dei repubblicani nel 2024».

(moked, 16 luglio 2024)

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Sinwar "sotto pressione" e Deif disperso: il crollo della leadership di Hamas

Secondo la Cia, i comandanti di Hamas starebbero cercando di convincere il loro capo ad accettare un accordo di tregua. Ancora incertezza sulla sorte di Mohammed Deif, bersaglio del raid israeliano del 13 luglio.

di Filippo Jacopo Carpani

Sono due le persone in cima alla lista dei bersagli di Israele: il capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar e il leader delle brigate al-Qassam Mohammed Deif. Sono ritenuti i responsabili principali dei massacri del 7 ottobre e sin dall’inizio della guerra il governo ebraico ha indicato la loro eliminazione come uno degli obiettivi principali dello sforzo bellico.

• Yahya Sinwar: il capo di Hamas nascosto e sotto pressione
  Secondo l’intelligence americana, Yahya Sinwar si nasconderebbe nella rete di tunnel sotto Khan Younis, la sua città natale, e sarebbe l’elemento chiave per la buona riuscita dei negoziati per un cessate il fuoco. Stando a quanto affermato dal direttore della Cia Bill Burns, il capo di Hamas starebbe anche subendo pressioni interne dai suoi stessi comandanti, stanchi di combattere, affinché accetti un accordo per porre fine al conflitto.
  Secondo il capo dei servizi segreti statunitensi, che ha parlato al ritiro estivo annuale della Allen & Company a Sun Valley, questa è una situazione completamente inedita di cui entrambe le parti in guerra dovrebbero approfittare per trovare un’intesa.
  Nel corso dei mesi, gli 007 israeliani hanno provato più volte a catturare il leader dell’organizzazione terroristica. Nel febbraio scorso, le Idf sono riuscite a penetrare in uno dei suoi covi, dove si era nascosto facendosi scudo con 12 ostaggi. È stato ipotizzato che si fosse spostato a Rafah o che fosse riuscito a lasciare la Striscia e a rifugiarsi in Egitto. Dall’inizio della guerra, Sinwar ha anche inviato numerosi messaggi ai mediatori palestinesi e agli alti ufficiali di Hamas in esilio, nei quali ha sottolineato che l’alto numero di vittime civili a Gaza, definite come “sacrifici necessari”, hanno fatto il gioco del movimento islamista perché hanno aumentato la pressione internazionale sullo Stato ebraico.

• Mohammed Deif: il "fantasma" potrebbe essere morto
  Mohammed Deif è considerato la mente dietro gli attacchi del 7 ottobre. Sabato 13 luglio, le forze israeliane hanno effettuato un raid aereo nella zona di al-Mawasi, colpendo un edificio in cui si era nascosto assieme al capo della brigata Khan Younis di Hamas Rafa’a Salameh. La morte di quest’ultimo è stata confermata, mentre la sorte del “fantasma di Gaza” è ancora avvolta da un velo di incertezza.
  Stando a quanto riportato da Channel 12, la valutazione unanime degli organi di sicurezza israeliani è che Deif sia stato ucciso. Le Idf, inoltre, sarebbero “certe” della presenza di entrambi gli alti ufficiali di Hamas nella struttura colpita al momento dell’attacco. In una conferenza stampa tenutasi alcune ore dopo il bombardamento, il premier Benjamin Netanyahu aveva dichiarato che “non era ancora del tutto certo” che il comandante delle brigate al-Qassam fosse stato eliminato. Secondo il capo di Stato maggiore ebraico Herzi Halevi, inoltre, l’organizzazione terroristica “ha cercato di nascondere” i risultati dell’attacco.
  Se la morte di Deif dovesse essere confermata, sarebbe un colpo molto duro per la catena di comando del gruppo islamista, già decimata da una serie di raid mirati delle forze di Tel Aviv sia a Gaza, sia in Cisgiordania, come parte della "strategia della decapitazione".

(il Giornale, 16 luglio 2024)

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Trasformare rifiuti in oro

Una start-up israeliana chiamata "Day 8" trasforma i rifiuti agricoli in proteine. Il mercato per questo prodotto potrebbe essere enorme - l'industria alimentare è già interessata. «Di rifiuti facciamo oro», dicono i fondatori, il cui nome dell'azienda si riferisce al racconto biblico della creazione.

di Jörn Schumacher

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Dana Marom

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Daniel Rejzner

"Day 8" è il nome della start-up israeliana che produce ricercate proteine dai rifiuti agricoli. Gli israeliani Dana Marom e Daniel Rejzner hanno sviluppato un processo industriale per estrarre la proteina RuBisCO dalle foglie verdi di vari frutti e ortaggi come spinaci, banane, pomodori e mais.
  La RuBisCO è una delle proteine più abbondanti sulla terra. Le sue proprietà di digeribilità, emulsionabilità e schiumosità sono simili a quelle delle proteine animali come l'albume d'uovo e la caseina. Tuttavia, nonostante la sua diffusione, non è la proteina vegetale preferita dall'industria alimentare.
  Uno dei motivi è che si trova solo in piccole quantità (dall'1 al 5%) nelle foglie. Le cellule delle foglie devono essere aperte per l'estrazione, al fine di rimuovere la cellulosa, la clorofilla, i polifenoli e altri componenti senza denaturare la proteina. L'estrazione è quindi molto costosa. È qui che entra in gioco la start-up israeliana "Day 8", fondata nell'estate del 2023.

• “I profitti sono incredibilmente alti"
  Da un lato, i fondatori utilizzano i rifiuti agricoli, che sono disponibili a un prezzo inferiore. Dall'altro, hanno sviluppato un processo di estrazione più efficiente. Tuttavia, non vogliono rivelare alcun dettaglio.
  Il cofondatore Rejzner ha dichiarato al quotidiano economico israeliano "Globes": "Secondo i nostri calcoli, ogni anno possono essere utilizzati 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti agricoli. Crediamo che su larga scala potremo raggiungere prezzi paragonabili a quelli delle proteine di soia sfuse, che costano tra i 3 e i 5 dollari al chilo". Rejzner ha fondato "Day 8" insieme alla collega Dana Marom, che ha già una vasta esperienza internazionale nel campo della produzione di proteine di soia.
  Per ogni chilogrammo di banane, c'è mezzo chilogrammo di foglie, che gli agricoltori devono costantemente tagliare, spiega Rejzner. "Si tratta di rifiuti organici che non nutrono il suolo e non portano alcun beneficio all'agricoltore. Per noi invece  è un tesoro. I profitti che se ne possono ricavare sono altissimi. Stimiamo che il potenziale di produzione di proteine dalle sole banane valga circa 7 miliardi di dollari". "Trasformare i rifiuti in oro" è lo slogan sicuro di sé sul sito web dell'azienda.
  "Day 8" sembra adattarsi perfettamente a un momento in cui le persone sono alla ricerca di nuovi "superalimenti" ricchi di proteine, ecologici e privi di allergeni. La proteina ottenuta è una polvere incolore, non ha sapore ed è priva di allergeni. Il mercato delle cosiddette "proteine alternative" ha un valore stimato di 18 miliardi di dollari all'anno; la domanda globale di queste proteine è aumentata enormemente negli ultimi anni.
  La start-up "Day 8" ha sede nel centro tecnologico "The Kitchen Food Tech Hub" di Rechovot, nel centro di Israele. Il centro di start-up è stato fondato nel 2015 per riunire le aziende del settore food tech. Ha fornito a "Day 8" l'equivalente di circa 600.000 euro di finanziamenti anticipati.
  Attualmente Day 8 sta cercando di portare la nuova tecnologia su scala industriale e di richiedere i brevetti per avviare la produzione industriale. Finora sono stati individuati più di 20 potenziali clienti dell'industria alimentare che potrebbero voler integrare la proteina nei loro alimenti.

• Sostituire i sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia
  I prodotti alimentari ad alto contenuto proteico sono già molto popolari, come yogurt e frullati, polveri proteiche e barrette. Le proteine utilizzate oggi sono per lo più sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia. "Possiamo sostituirle con quelle che estraiamo dalle foglie", dice Rejzner.
  Un altro vantaggio della produzione di "proteine alternative" è la riduzione del consumo di uova. "Le uova sono un problema per le fabbriche alimentari", spiega Rejzner. "Si teme la salmonella, devono essere refrigerate e ci sono problemi di sicurezza alimentare". Una polvere proteica che sostituisca le uova sarebbe quindi molto gradita all'industria alimentare.
  Il prodotto della start-up israeliana potrebbe anche servire come alternativa alla carne e al latte. "Le bevande di maggior successo su questo mercato sono il latte di soia, il latte di mandorla, il latte di avena e così via. Ma hanno uno svantaggio: non si possono montare. La nostra proteina fa una buona schiuma e non ha un sapore proprio", spiega il 47enne.
  Il nome "Day 8" si riferisce alla settimana di sette giorni della storia biblica della creazione, spiega Rejzner. "Il mondo fu creato perfettamente in sette giorni. L'ottavo giorno il testimone è stato passato a noi e ora dobbiamo prendercene cura".

(Israelnetz, 16 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Incontro di alto livello USA-Israele su contrasto all’Iran

L'importante incontro del Gruppo consultivo strategico USA-Israele era stato rinviato dopo le critiche di Netanyahu alla Amministrazione Biden

di Gabor H. Friedman

Washington, Rights Reporter – Secondo una nota dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nella serata di lunedì, i massimi funzionari statunitensi e israeliani hanno tenuto un incontro alla Casa Bianca incentrato sulla lotta contro le minacce poste dall’Iran.
Si è trattato dell’ultima riunione del Gruppo consultivo strategico USA-Israele. Avrebbe dovuto riunirsi il mese scorso, ma gli Stati Uniti hanno rimandato la riunione dopo che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha accusato pubblicamente l’amministrazione Biden di non fornire armi a Israele.
Il team statunitense era guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e dal segretario di Stato americano Antony Blinken, mentre il team israeliano era guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi e dal ministro per gli Affari strategici Ron Dermer. A loro si sono aggiunti alti rappresentanti delle rispettive agenzie di politica estera, difesa e intelligence.
Hanegbi e Dermer hanno tenuto un incontro più ristretto proprio con Blinken.
Durante il Gruppo Consultivo Strategico, Sullivan ha riaffermato il ferreo impegno del Presidente [Joe] Biden per la sicurezza di Israele, anche di fronte ai continui e sconsiderati attacchi contro Israele da parte degli Hezbollah libanesi. Ha sottolineato che Israele ha tutto il diritto di difendersi da questi attacchi e ha affermato il sostegno degli Stati Uniti a una risoluzione diplomatica che permetta alle famiglie israeliane e libanesi di tornare in sicurezza alle loro case, si legge nel comunicato della Casa Bianca.
I due hanno anche discusso degli sviluppi relativi al programma nucleare iraniano e hanno discusso del coordinamento reciproco su una serie di misure volte a garantire che l’Iran non possa mai acquisire un’arma nucleare, si legge ancora nel comunicato.
Le parti hanno discusso degli sforzi in corso per garantire un accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, con la parte israeliana che ha ribadito il suo sostegno alla proposta presentata da Biden a maggio.
Netanyahu ha dichiarato sabato di non essersi allontanato di un “millimetro” dalla proposta israeliana sostenuta da Biden.
Tuttavia, ha elencato una serie di nuove richieste che sembrano andare oltre quanto scritto nel testo della proposta ottenuto dal Times of Israel.

(Rights Reporter, 16 luglio 2024)

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Israele trova Hamas tra i dipendenti ONU a Gaza

Prima di Hamas, nessun’altra organizzazione militare aveva costruito una guerra sul “sacrificio necessario” del proprio popolo.

di Giulio Meotti

Altri cento terroristi di Hamas figurano fra i dipendenti dell'ONU a Gaza. Sono stati trovati i loro documenti che ne confermano l'identità. E' la prova ulteriore che le agenzie ONU, soprattutto UNRWA (che l'Italia continua a finanziare), a Gaza sono colluse con il terrorismo di Hamas. Israele ha indicato altri cento dipendenti dell’agenzia delle Nazioni Unite a Gaza come membri di Hamas e ha chiesto che fossero licenziati. Si tratta solo di “una frazione” del numero reale di membri dell’organizzazione terroristica, si legge in una lettera al capo dell’agenzia Unrwa, Philippe Lazzarini. Israele ha inviato l’elenco anche ai paesi che aderiscono all’agenzia dell’Onu come donatori, molti dei quali – tra cui Stati Uniti e Regno Unito – hanno congelato i propri finanziamenti dopo gli attacchi di Hamas. Dopo il 7 ottobre era emerso infatti che dodici dipendenti delle Nazioni Unite avevano legami con Hamas.
  Il recente elenco inviato a Lazzarini fa nomi, passaporti e numeri di carta d’identità militare di cento terroristi di Hamas a libro paga dell’Onu. Non sembra un caso che il corpo dell’ostaggio tedescoisraeliano Shani Louk sia stato trovato in un edificio dell’Unrwa finanziato con i soldi dei contribuenti tedeschi.
  Intanto Mohammad Deif, il comandante supremo delle Brigate Izzadin al Qassam, ala militare di Hamas, è stato preso di mira in un attacco aereo israeliano, sabato mattina, nella zona di Khan Yunis, nel sud della striscia di Gaza, in cui sono morti numerosi civili palestinesi. Insieme a Deif (ricercato da trent’anni come uno dei maggiori responsabili del terrorismo di Hamas), era nel mirino anche Rafa’a Salameh, suo braccio destro e comandante della Brigata Khan Yunis di Hamas. I due si nascondevano in zona civile, le aree di al Mawasi e Khan Younis occidentale, che fanno parte della zona umanitaria designata da Israele. Deif è sulla lista dei massimi ricercati da Israele sin dal 1995 per il suo coinvolgimento nella pianificazione ed esecuzione di un grande numero di attacchi terroristici, compresi molti attentati sugli autobus negli anni 90 e all’inizio degli anni 2000. Deif ha svolto un ruolo di primissimo piano nell’organizzare la carneficina perpetrata da Hamas il 7 ottobre. “Hamas non deve nascondersi tra i civili – ha affermato persino un portavoce di Fatah, citato da Maariv – Perché Deif era nel campo di Al-Mawasi?”.
  Un’indagine approfondita del New York Times rivela le tattiche di combattimento di Hamas nella Striscia di Gaza che si basano sul massiccio uso della popolazione civile come scudi umani. Il reportage, basato sull’analisi di video di Hamas e interviste a combattenti di Hamas e a soldati israeliani, descrive uno sfruttamento sistematico per scopi militari dei civili e delle loro infrastrutture, incolpando di fatto Hamas per la guerra in corso, le distruzioni, le morti e gli sfollamenti di popolazione. Il New York Times conferma che Hamas nasconde terroristi, pozzi d’ingresso ai tunnel e depositi di munizioni dentro edifici residenziali, strutture mediche, uffici delle Nazioni Unite e moschee, abolendo intenzionalmente il confine tra combattenti e non combattenti. Il reportage rivela che i terroristi di Hamas indossano spesso abiti civili, a volte anche sandali e tute da ginnastica, prima di sparare contro i soldati israeliani o lanciare razzi da aree civili. Hamas usa anche i civili, compresi bambini, come “vedette” e “informatori”. Prima di Hamas, nessun’altra organizzazione militare aveva costruito una guerra sul “sacrificio necessario” del proprio popolo.

Il Foglio, 16 luglio 2024)

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Eurovision, Golan rivela: “Ho dovuto travestirmi per uscire liberamente per la città”

di Michelle Zarfati

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Eden Golan ha rivelato che durante il suo soggiorno a Malmö, per gareggiare all’Eurovision Song Contest, doveva spesso indossare un travestimento per girare per la città. In un post sulla sua pagina Instagram giovedì, Golan ha raccontato di aver indossato una parrucca e un paio di occhiali per alterare il suo aspetto per motivi di sicurezza mentre le proteste anti-israeliane infuriavano nella città svedese.
  “Sono passati due mesi dalla finale dell’Eurovision. Due mesi dal folle viaggio che è diventato la mia missione nazionale e personale. Un viaggio emotivo, potente, complesso e impegnativo in un anno che sapevo sarebbe stato diverso da qualsiasi altro – ha scritto Golan – Ho pensato a lungo a quale immagine condividere qui e ho scelto un momento che inizialmente mi sembrava assurdo e divertente, ma non meno spaventoso e pericoloso. Molti sanno che eravamo circondati dalle migliori guardie di sicurezza sempre presenti per proteggere la nostra delegazione, ma non sanno di alcuni momenti in cui ho dovuto travestirmi per uscire liberamente per la città”.
  La cantante israeliana ha aggiunto: “La paura che mi riconoscessero a causa del paese da cui provengo, che fa parte di me e mi rende orgogliosa, è incomprensibile per me. Purtroppo, siamo tornati ai momenti in cui una donna ebrea e israeliana deve nascondersi per non essere ferita. Per me, questo è stato un momento che ricorderò per tutta la vita. So che verranno giorni migliori. Prego ogni giorno che arrivino presto. Non dimenticheremo mai quello che abbiamo passato, ma troveremo la forza di andare avanti”.
  La cantante ha deciso di sfogarsi sui social a ormai due mesi dalla fine dell’Eurovision, che l’ha vista tra i maggiori protagonisti della gara canora. Una responsabilità importante quella di rappresentare Israele all’Eurovision, in un momento di forte crescita di antisemitismo e antisionismo.

(Shalom, 16 luglio 2024)

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Israele: liberazione ostaggi e fronte nord. IDF pronto a qualsiasi scenario

Il capo dell'IDF spazia a tutto campo e risponde alle accuse lanciate sabato sera da Netanyahu. Parla anche del fronte nord

di Sarah G. Frankl

Sulla possibilità di un accordo con Hamas che porti alla liberazione degli ostaggi, l’IDF è pronto a qualsiasi scenario.
Lo ha affermato domenica il capo dell’IDF, il Generale Herzi Halevi, in una conferenza stampa tenutasi presso la base aerea di Palmachim, nel centro di Israele.
“Un accordo per la restituzione degli ostaggi è un imperativo morale urgente per salvare vite umane” ha detto Halevi.
“L’IDF sta attuando tutte le pressioni necessarie per creare le migliori condizioni per un accordo di questo tipo, e questo è il modo in cui abbiamo agito dalla fine dell’accordo precedente”, ha sottolineato, in risposta al Primo Ministro Benjamin Netanyahu che sabato sera aveva scaricato sull’IDF la responsabilità del mancato accordo per la liberazione degli ostaggi a causa della “poca pressione militare su Hamas”.  
“Per mesi non c’è stato alcun progresso [verso un accordo sugli ostaggi] perché la pressione militare non era abbastanza forte”, aveva detto sabato sera Netanyahu aggiungendo che la situazione è cambiata solo quando ha insistito affinché le IDF entrassero a Rafah. Il Premier israeliano è accusato da più parti di sabotare gli accordi.

• IDF PRONTO A QUALSIASI SCENARIO
  “L’IDF saprà rispettare qualsiasi accordo approvato dai vertici politici e, anche dopo un cessate il fuoco, tornerà a combattere con grande intensità”, ha detto Halevi, che ha aggiunto: “L’IDF non smetterà di lavorare per liberare gli ostaggi, quelli per i quali il tempo passa con grande difficoltà, e non rinunceremo a continuare ad attaccare Hamas fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto e, naturalmente, non rinunceremo a raggiungere la sicurezza per i cittadini dello Stato di Israele”.
Per quanto riguarda l’attacco aereo di sabato nel sud della Striscia di Gaza, che aveva come obiettivo Muhammed Deif, il leader dell’ala militare di Hamas e una delle menti dietro il 7 ottobre, Halevi ha detto che è ancora troppo presto per determinare se Deif, che ha eluso numerosi tentativi di assassinio israeliani negli ultimi 30 anni, sia stato eliminato con successo.
“Muhammed aveva paura di morire, così si è nascosto in un modo che ha persino danneggiato la sua capacità di comando”. Si è nascosto e ha sacrificato con lui la sua gente e i civili che si trovavano nell’area, che erano in pericolo, pochi dei quali sono stati feriti”, ha detto Halevi. “Abbiamo trovato lui e troveremo anche i prossimi”. Secondo fonti accreditate dell’intelligence israeliana, Deif è morto nell’attacco anche se Hamas continua a negare.
“Questi omicidi mirati fanno parte della continua e mutevole pressione militare che l’IDF esercita in tutte le zone della Striscia di Gaza. Ogni giorno ci sono molti morti di Hamas… Questo è importante per lo smantellamento sistematico dell’organizzazione terroristica di Hamas. È anche molto importante per creare le condizioni per un accordo per la restituzione degli ostaggi”, ha aggiunto Halevi.

• I PREPARATIVI PER «LA PROSSIMA FASE» IN LIBANO
  Tra le tante cose Halevi ha parlato anche della situazione sul fronte nord dove gli scontri con Hezbollah si sono intensificati.
Il capo dell’esercito ha detto che l’IDF è pronta per “la prossima fase” in Libano.  “Siamo in combattimento ad alta intensità nel nord. Oltre ai crescenti risultati ottenuti nel degradare Hezbollah, non dimentichiamo nemmeno per un momento la situazione dei residenti del nord fuori casa da nove mesi e siamo sempre in lutto per i morti e i feriti degli attacchi di Hezbollah”, ha dichiarato.
“Negli ultimi giorni sono stato in una delle comunità vicine al confine, naturalmente non per la prima volta. Ho visto i danni, ho incontrato la leadership del luogo, ho sentito cose difficili da loro – traduciamo questa difficoltà in determinazione in combattimento, e poi in soluzioni reali e nel ritorno dei residenti in sicurezza alle loro case”, ha detto Halevi.

(Rights Reporter, 15 luglio 2024)

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Scoperto sotto il Corridoio Filadelfia il numero più alto di tunnel dall’inizio della guerra

di Luca Spizzichino

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Il corridoio Filadelfia

“Hamas ha trasformato l’intera città di Rafah in un gigantesco campo di battaglia, pieno di trappole esplosive e di tunnel da cui opera” ha affermato il comandante della brigata Nahal, il colonnello Yair Zuckerman, a Israel Hayom, sottolineando come sotto il Corridoio Filadelfia l’IDF sia stato trovato “il numero più alto di cunicoli” dall’inizio della guerra.
  L’ufficiale dell’IDF ha parlato con il quotidiano israeliano delle operazioni in corso nella città al sud della Striscia di Gaza e lungo il Corridoio Filadelfia. “Le case sono piene di trappole esplosive e contengono piccole telecamere, tramite le quali seguono le nostre forze e cercano di danneggiarle” ha aggiunto, spiegando di averle trovate sugli stipiti delle porte, nelle moschee, nelle cliniche e nelle scuole.
  “C’è una vera città sotterranea qui. Rafah è il primo posto in cui hanno fatto uso di tunnel”, ha rivelato Zuckerman. “Non ci sono molti nemici in superficie, sono per lo più sotterranei. Oltre il 50% di Rafah è nelle nostre mani, ma questo non significa che abbiamo ucciso tutti i terroristi e distrutto tutte le infrastrutture”.
  Dei quattro battaglioni di Hamas a Rafah, almeno uno è stato completamente smantellato, mentre un secondo è solo parzialmente funzionante e gli ultimi due sono ancora operativi. Ma il vero obiettivo delle operazioni è la distruzione dei tunnel. “Ci vorranno dai due ai quattro mesi per trovare tutti i tunnel lungo il Corridoio ed esaminarli”.

(Shalom, 15 luglio 2024)

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Il Ministero della Salute premia l’impegno dei volontari

Il Ministero della Salute ha premiato l'organizzazione ZAKA, che ha contribuito all'identificazione dei corpi dopo il 7 ottobre. La decisione era stata presa ancora prima.

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Il ministro della Sanità Busso ha onorato l'impegno dei volontari di ZAKA

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GERUSALEMME - Il Ministero della Salute israeliano ha premiato l'organizzazione di volontariato ZAKA con il "Premio Scudo 2023". Il riconoscimento premia il lavoro dei volontari nel settore sanitario.

ZAKA ha ricevuto uno dei cinque premi nella categoria "Organizzazioni". I dipendenti si adoperano affinché le vittime di un attacco terroristico, di un incidente o di un disastro naturale ricevano una sepoltura dignitosa.

I premi sono stati consegnati dal Ministro della Salute Rabbi Uriel Busso (Shass) e dal Direttore del Ministero Moshe Bar Siman Tov mercoledì all'ospedale Hadassah nel quartiere Ein Kerem di Gerusalemme. Busso ha detto ai premiati: "Siete mossi dalla compassione e da una missione. La presenza dei volontari garantisce il corretto ed efficiente funzionamento del sistema".

,• DOPPIAMENTE MERITATO DOPO IL 7 OTTOBRE"

A nome dei numerosi volontari, il direttore generale Rabbi Zvi Hesed ha accettato il premio a nome dello ZAKA, scrive il Jerusalem Post. Bar Siman Tov ha detto che i dipendenti lavorano 24 ore su 24 e tutti i giorni. "La decisione di assegnarvi il premio è stata presa prima del 7 ottobre. Ma ora i volontari lo meritano doppiamente". Dopo il massacro di Hamas, i dipendenti dello ZAKA hanno aiutato a identificare numerosi corpi di vittime sulle scene del crimine.

Al termine della cerimonia, il rabbino di Ramat Gan, Schneur Gol, ha recitato una preghiera. Ha chiesto a Dio di proteggere i soldati israeliani e di riportare gli ostaggi.

• DOTTORATO ONORARIO PER ZAKA

L'Università di Ariel, in Samaria, aveva già onorato lo ZAKA alla fine di giugno: aveva conferito una laurea ad honorem al rabbino Ejal Meschiach, che l'aveva accettata a nome dei numerosi aiutanti. L'università ha onorato gli sforzi di migliaia di volontari dopo il massacro di Hamas.

(Israelnetz, 15 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Andrey Kozlov: “Per i primi due mesi sono stato sempre legato”

A più di un mese dal suo salvataggio dalla prigionia di Gaza, Andrey Kozlov racconta il suo viaggio di otto mesi dalla disperazione alla speranza, passando per lo studio del Corano, l’essere stato incatenato per settimane e mesi e il luogo peggiore in cui è stato detenuto.

Andrey Kozlov non aveva idea di essere portato a Gaza. “Mi ci sono voluti circa sette minuti di guida per capire che non venivo salvato ma rapito”, racconta.
“Abbiamo guidato per sette minuti interi prima che mi rendessi conto che l’auto non era diretta verso Tel Aviv ma nella direzione opposta, verso Gaza. Prima di capire che l’uomo barbuto seduto dietro di noi con una pistola non era un uomo delle forze speciali israeliane venuto a salvarci, ma un terrorista”.
Mentre racconta questo, fa un piccolo sorriso. È il sorriso di un ventisettenne che si prende gioco della propria ingenuità. Era abbastanza ottimista e innocente da credere che qualcuno sarebbe venuto a salvarlo dal massacro. Dopo otto mesi di prigionia, Kozlov non è più la stessa persona che era il 7 ottobre, quella che credeva che tutto sarebbe andato bene. Ha sopportato troppe cose in prigionia – percosse, umiliazioni, abusi fisici e psicologici – e ora è in guardia.
Ma il 7 ottobre Kozlov era un giovane bello e affascinante, immigrato da San Pietroburgo da solo. I genitori e il fratello, a cui è molto legato, sono rimasti in Russia. Poiché aveva bisogno di mantenersi nell’appartamento che aveva affittato a Rishon LeZion, aveva accettato diversi lavori veloci che non richiedevano la conoscenza dell’ebraico. Per esempio, lavori di sicurezza, come al festival musicale Nova.
Dopo il suo rapimento, descrive ciò che ha visto oltre il confine. “Quando abbiamo attraversato il muro, abbiamo visto campi pieni zeppi di gazani, alcuni in bicicletta, altri su asini, altri a piedi, e stavano festeggiando”, racconta. “Era la festa della loro vita. La loro gioia era così selvaggia e barbara. Ricordo un volto in particolare. Sembrava un predatore. Aveva gli occhi spalancati. Cercavano di entrare nella nostra macchina, sbattendo con forza sui finestrini. Abbiamo cercato di coprirci il volto con le mani.
Il “cattivo” con noi dietro – a questo punto ho capito che era lui il “cattivo” – ha cambiato posto con Shlomi e ha iniziato a guidare. Non so, forse i gazani di solito non prendono la patente, perché lui guidava come un pazzo. Sbandava a destra e a sinistra. Sono convinto di averlo visto investire un bambino in una delle curve, ma il terrorista non si è fermato”.
Alla fine l’auto si è fermata da qualche parte alla periferia di Gaza. Il terrorista alla guida ci ha consegnati a diversi altri uomini armati ed è scomparso; non l’hanno più visto. “Ci hanno portato al secondo piano di un edificio, ci hanno legato le mani dietro la schiena con delle corde e ci hanno messo a terra. Hanno iniziato a parlare tra di loro, e tutto quello che riuscivo a pensare era dimostrare loro che ero un cittadino russo, che avevano preso l’uomo sbagliato. La mia mente era concentrata su una sola cosa: dovevo sopravvivere a tutto questo”.
La maggior parte dei maltrattamenti è stata inflitta loro all’inizio, ma anche più tardi, durante la prigionia, ci sono stati molti delinquenti che non hanno resistito a dimostrare quanto fossero più duri di loro. “I primi giorni sono stati davvero orribili. Ci sono voluti due giorni per portarmi in bagno. Prima mi davano solo una bottiglia d’acqua vuota e mi dicevano di usarla con le mani legate. Poi mi hanno portato a urinare come se fossi un cane, con una corda come guinzaglio, gridando “go-go-go”. Ho detto loro: “Devo abbassarmi i pantaloni per andare in bagno e ho le mani legate”, e loro hanno risposto: “Non ci interessa”. Era così terribile. Non potevo fare nulla. Mi picchiavano, mi davano ginocchiate nello stomaco. Per tutto il tempo ho continuato a pensare: “Fate di me quello che volete, ma per favore non toccate le mie parti intime””.
Kozlov ha trascorso otto mesi a Gaza, cambiando nascondiglio non meno di sette volte. In alcuni luoghi si sono fermati per un solo giorno, mentre in altri sono rimasti per una o tre settimane. A dicembre, sono stati trasferiti nella loro posizione finale, nel campo profughi di Nuseirat, nel centro di Gaza, dove hanno vissuto per sei mesi fino al loro salvataggio.
“In ogni luogo, le condizioni e le persone erano diverse”, racconta. “C’era il nostro primo appartamento, con un ragazzo che giocava a carte con noi e ci mostrava le notizie da Israele. Così abbiamo saputo che la situazione in Israele era molto grave e che c’erano molti ostaggi. Alcuni fornivano cibo a sufficienza, ma c’erano posti in cui avevamo solo un pasto al giorno. Ho perso quasi 10 chili”.
Qual è stato il posto peggiore?
“Un cantiere che non era ancora stato completato, una sorta di rudere abbandonato. Hanno rotto la maniglia della porta dall’interno, hanno spento le luci e ci hanno lasciato lì con le mani legate dietro la schiena per tutta la notte. C’eravamo solo noi e i rumori della gente che parlava nel quartiere sottostante. Non c’erano coperte, né cuscini, solo un pavimento coperto di polvere e noi dovevamo dormire. Io sono allergico alla polvere e riuscivo a malapena a dormire. Dopo due settimane ci hanno spostato al primo piano della casa. Eravamo nella cucina di un panificio, circondati da congelatori e da alcune macchine impastatrici. Ho preso un materasso e ho dormito sul pavimento, vicino alle macchine”.
Avevi sempre le mani legate?
“Sì. Per i primi due mesi sono stato sempre legato, con corde o catene di ferro con lucchetti. Sia le mani che i piedi”.
Sembra un film dell’orrore.
“Era un film davvero brutto, del tipo peggiore. C’è stato solo un giorno in cui è stato un bel film: il giorno del salvataggio”.
Questo ci porta all’ultimo appartamento in cui Almog Meir Jan, Shlomi Ziv e Kozlov hanno soggiornato, il famoso appartamento da cui sono stati salvati in un’eroica operazione in cui anche Noa Argamani è stata liberata da un appartamento vicino.
Durante l’operazione, l’ufficiale delle forze speciali della polizia Arnon Zamora é stato ucciso e l’operazione ha preso il suo nome. Solo dopo la liberazione abbiamo appreso che la persona che teneva in ostaggio i nostri ostaggi in quell’appartamento era Abdallah Aljamal, un giornalista palestinese che collaborava, tra gli altri, con Al Jazeera. Anche suo padre, uno stimato medico di famiglia, ha partecipato al rapimento.
Kozlov dice di non sapere che il suo sequestratore fosse un giornalista palestinese. “Non sapevo nemmeno che si chiamasse Abdallah. L’ho sentito solo da dietro le coperte, mentre di tanto in tanto scriveva al computer”. Gli ostaggi erano tenuti in una casa famiglia, dove vivevano anche i figli piccoli della famiglia Aljamal.
All’inizio, Kozlov e gli altri ostaggi sentivano solo i bambini. L’appartamento è stato diviso in due parti con coperte e pezzi di stoffa. Una sezione apparteneva alla famiglia, che non interagiva con gli ostaggi, e l’altra era per gli ostaggi. C’erano due stanze: una per gli ostaggi e una per le guardie armate.
“Verso febbraio o marzo, i bambini hanno iniziato a visitare la nostra area”, racconta. “Si spostavano dalla loro parte per andare a trovare i loro padri – le nostre guardie – e giocavano con loro. Era surreale: da un lato c’erano AK-47, dall’altro RPG, e nel mezzo i bambini giocavano”.
Kozlov dice che questo appartamento apparentemente aveva condizioni migliori, ma non ci sono buone condizioni quando non ci si sente al sicuro nemmeno per un attimo. “Prima di tutto, non ci hanno più legato”, dice.
“Ci hanno tolto le catene e ci hanno detto: “Se fate qualcosa di sbagliato, vi puniremo o vi spareremo”. Questo è stato un avvertimento sufficiente per loro. Così eravamo relativamente liberi. Anche se non vedevamo la luce del sole perché le finestre erano coperte di cartone, non dovevamo chiedere il permesso per andare in bagno. Il messaggio era: “Finché vi comportate bene, saremo buoni con voi”. Ci davano del cibo, ma era sempre freddo perché a Gaza non c’è elettricità di notte, quindi non poteva essere riscaldato. Tuttavia, parlavamo sempre di cibo. Fantasticavo costantemente sulla cucina di mia madre, sulle sue polpette e sulla sua zuppa di pollo”.
Sua madre Evgeniia, seduta accanto a lui nell’hotel in cui alloggia nel centro di Israele, gli sorride di nuovo. “È buffo”, spiega, “perché mio figlio ha sempre odiato la mia zuppa di pollo e la mia cucina”.
“Ma a Gaza ci ho fantasticato sopra”, sorride Andrey.
Cosa facevate tutto il giorno?
“Stai in questo piccolo spazio e cerchi di tenerti occupato. Avevo alcuni mantra che ripetevo a me stesso. Il primo: “Sei ancora vivo”, il secondo: “Ogni giorno è un dono” e il terzo: “La mia famiglia aspetta che io ritorni vivo, integro e in salute”. L’ultima parte di questo mantra, “vivo, integro e in salute”, continuavo a ripetermi in russo. Per ricordarmi che dovevo tornare dai miei genitori e dalla mia famiglia viva. Integro. E in salute”.
Ha pensato alla sua fidanzata Jennifer?
“Certo. È stato strano perché stavamo insieme solo da un mese e mezzo prima del rapimento, quindi per lei è stato come dire: “Wow, ho appena conosciuto questo ragazzo ed è scomparso come se la terra lo avesse inghiottito”. Tuttavia, ho pensato a lei. Ma per la maggior parte del tempo ho pensato a mia madre, a mio padre e a mio fratello. E per il resto del tempo disegnavo molto. Ho fatto parecchi disegni lì; purtroppo non ho potuto portarli con me durante l’operazione di salvataggio”.
Abdallah Aljamal non era così cattivo? Alcuni sostengono di sì.
“Era una delle nostre guardie, armata di pistola, con cui parlavo e che vedevo ogni giorno”, racconta Kozlov. Ma non lo chiamavamo “Abdallah”. A differenza dei luoghi precedenti, dove le nostre guardie indossavano maschere per impedirci di identificarle, qui giravano liberamente senza maschere, ma si rifiutavano di dirci i loro veri nomi. Si sono presentati tutti come “Mohammed”. Per distinguerli, abbiamo iniziato a dare a ogni Mohammed un soprannome appropriato. C’era Mohammed alto, Mohammed grande, Mohammed dagli occhi grandi e Mohammed dalle guance paffute”.
Con le guance paffute, come se volessi dargli un pizzicotto sulle guance?
“Sì. E Mohammed dalle guance paffute era Abdallah, il giornalista. A volte andava bene, a volte no. Per esempio, una notte ho osato spegnere la radio da solo. Le guardie dormivano nella stanza accanto e la radio era costantemente accesa, trasmettendo versetti coranici. Non riuscivo a dormire con il rumore delle preghiere, ma le guardie dormivano e non volevo svegliarle. Mohammed dalle guance paffute si è svegliato e ha iniziato a urlarmi: “Che cosa stai facendo? Torna subito a dormire”.
“La mattina dopo è venuto e ha iniziato a picchiarmi. Ho cercato di spiegargli che non volevo svegliarlo e che per questo avevo toccato la radio, ma lui mi ha detto: “Abbiamo una bomba molto grande qui, possiamo distruggere metà dell’edificio con essa, quindi non osare toccare le mie cose”. Era molto arrabbiato. In generale, aveva un notevole problema di rabbia. Un’altra volta, Abdallah mi promise che mi avrebbe messo in una tomba. Non gli piacevo e non mi rispettava perché sono un immigrato. Sono venuto in Israele per scelta, a differenza di Shlomi e Almog che sono nati qui”.

(Israele 360, 14 luglio 2024)

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Francia – «Tutti parlano degli ebrei ignorando gli ebrei»

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Blog di Sender Vizel, militante ebreo di sinistra

Autore di un fumetto dedicato a come sono percepiti gli ebrei in Francia, al loro rapporto con Israele e all’antisemitismo, Volia Vizeltzer «sta facendo un lavoro straordinario in un mondo in cui la parola “ebreo” è usata come un insulto». Sono parole di Joann Sfar, altro fumettista e autore francese, molto più noto, che ha rilanciato in questi giorni un testo del collega intitolato “Lettre d’un français juif épuisé, à son pays et à la gauche” (ossia Lettera di un ebreo francese esausto al suo Paese e alla sinistra), aggiungendo che Sender Vizel –  o sender vizel, il nome che compare sulla sua biografia, dove si definisce “militante ebreo di sinistra” – diversamente da lui riesce a mantenere un senso di speranza. Ma aggiungendo: «Il nostro Paese merita di meglio che un voto fascista. Merita di meglio dell’odio diffuso contro i musulmani da una parte lato e contro gli ebrei dall’altra».
La lettera rilanciata da Sfar si apre così:
    «Alla fine di questa campagna, vorrei condividere alcune cose. Come ebreo socialista democratico francese e come attivista contro l’antisemitismo. Vorrei che le persone si rendessero conto dell’incredibile violenza contro il popolo ebraico di questa campagna. Siamo stati messi al centro di tutto, abbiamo visto ovunque ipocriti vantarsi di essere dei campioni della lotta contro l’antisemitismo. Li abbiamo visti uno dopo l’altro, dai centristi alla sinistra (per non parlare dell’estrema destra, chiaramente antisemita) fare gran dichiarazioni contro l’antisemitismo, proclamando la propria purezza, rifacendosi l’immagine».
 Continua poi spiegando che come parte di quei pochi che militano attivamente contro l’antisemitismo non li ha mai visti lottare al suo fianco, non li ha mai sentiti dire nulla contro l’esplosione di antisemitismo di sinistra dell’ultimo anno. E ora non solo bisogna sopportare tale malafede, ma pare sia necessario difenderli, «come se dovessimo loro qualcosa».
Gli ebrei costituiscono circa lo 0,6% della popolazione francese e circa lo 0,1% dell’elettorato. In termini di voti è un numero insignificante, e lo è anche demograficamente, nonostante la percezione comune. Eppure agli ebrei francesi è stato detto che avrebbero pesato sul risultato delle elezioni, che «sarebbero state le parole di un rabbino o la critica degli ebrei di sinistra a far vincere l’estrema destra». Un peso irreale, un potere immenso che non esiste nella realtà. Sender Vizel continua con un appello accorato:
    «Mi sento schiacciato da un Paese intero, che si è permesso di sfruttare tutte le nostre forze, le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre paure a proprio vantaggio. Ma da quello che vedo a nessuno, davvero a nessuno, importa niente di noi ebrei. Vorrei sbagliarmi, vorrei che il movimento sociale, la sinistra, mi dimostrasse che ho torto. Ma ne siamo lontani. È anche peggio di prima».
Sono tanti quelli che dichiarano che l’accusa di antisemitismo con loro non può funzionare, e sempre più persone si sentono giustificate non solo nel negare l’antisemitismo, ma soprattutto nel negare il diritto degli ebrei a testimoniare l’antisemitismo che sperimentano. Gli ebrei sono visti ancora una volta come uno strumento di potere, come il potere stesso. È esplicito, Sender Vizel:
    «Continuo a credere che questa lotta contro l’antisemitismo debba assolutamente avere un posto reale a sinistra. Non accetterò mai ‘regali avvelenati’ dalla destra, e ancor meno da fascisti e neonazisti… Ma questo è il problema. Di fronte agli antisemiti siamo chiamati a chiudere un occhio sugli altri antisemiti».
Col risultato che tutti parlano tutto il giorno di strumentalizzazione, e intanto gli ebrei l’antisemitismo lo vivono nel quotidiano. L’atmosfera in Francia è irrespirabile per gli ebrei, che sono delle persone reali, con vite vere, reali, e problemi reali. Non è possibile fare una classifica degli antisemitismi. L’antisemitismo è uno solo, non ne esistono versioni diverse o peggiori. 
    «Veniamo usati e poi gettati via, trasformati in un’arma politica e, alla fine dei conti, disumanizzati. Era da tempo che in Francia non si parlava così tanto di antisemitismo, eppure gli ebrei non si sono mai sentiti così soli. (…) La cosa peggiore è che da qualche parte ci siamo abituati. Ci abituiamo alla solitudine, ci abituiamo alla violenza, ci abituiamo alla disperazione. Appena apriamo la bocca ci viene ordinato di chiuderla, immediatamente. Quindi abbiamo finito per accettare l’idea che questa sia ormai la politica, in Francia. Non solo la sinistra o la destra o non so cosa. Se la politica francese e la società civile nel suo insieme si fossero preoccupate sinceramente di noi, penso che ce ne saremmo accorti. Ne abbiamo così bisogno che la cosa non sarebbe passata inosservata, credetemi».
Nel chiudere il suo accorato appello sender vizel scrive di non poter più utilizzare eufemismi, e che gli ebrei sono costretti ad osservare da bordo campo una partita di ping-pong mediatico tra un partito antisemita pieno di nazisti, e un partito che certamente non ha un programma politico/legislativo antisemita, ma che è pieno di idee antisemite. Non ci sono stati segni di rispetto né di empatia, e ora che la campagna elettorale è terminata non c’è da stare tranquilli, il dolore e la rabbia non spariscono così facilmente. La storia ebraica esiste, è esistita, ed è ora necessario che gli ebrei francesi vengano riconosciuti, anche nel loro diritto di non sentirsi ignorati, e abbandonati. Chiude così: «Siamo qui, vi vediamo, vediamo tutto quello che sta succedendo. Sarebbe ora che anche voi ci vedeste».

(moked, 14 luglio 2024)

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Deif: chi è il numero due di Hamas e cosa potrebbe significare la sua eliminazione per Israele

di Ugo Volli

L’eliminazione del capo terrorista
  Con quattro bombe di grande potenza, lanciate con straordinaria precisione da un aereo su una costruzione in una zona boscosa della città di Khan Yunis, nella striscia di Gaza meridionale, Israele ha inferto ieri mattina un colpo molto importante a Hamas. Anche se “non ve n’è ancora la certezza assoluta”, come ha ammonito il primo ministro Netanyahu in una conferenza stampa tenuta subito dopo la fine del sabato, le forze armate israeliane ritengono di aver eliminato il numero due di Hamas a Gaza Mohammed Deif e il suo vice, oltre che comandante delle truppe terroriste di Khan Younis, Rafa Salama, con la loro scorta di parecchie decine di terroristi.

Chi è Deif
  Nato a Khan Yunis una sessantina d’anni fa, Mohammad Deif per l’anagrafe si chiamava Mohammed Al Mizri, cioè “l’egiziano”: un nome non raro, che la dice lunga sulla provenienza dei “palestinesi”; bisogna ricordare che anche Arafat era in realtà nato in Egitto e non a Gerusalemme come pretendeva. Membro del gruppo dagli anni Novanta del secolo scorso, Deif fu fra i promotori del terrorismo suicida della cosiddetta seconda intifada; dal 2002 divenne il capo assoluto dell’apparato militare di Hamas, le “Brigate Ezzedin al-Qassam”. In questo ruolo aveva organizzato e diretto l’armamento del gruppo, la costruzione dei tunnel e dei missili, il contrabbando dei materiali, gli assalti continuamente portati contro i civili israeliani. In particolare è stato il primo responsabile della strage del 7 ottobre. Dal 2015 fa parte della lista dei più pericolosi terroristi compilata dal Dipartimento di Stato americano. Spesso se ne parla come di un imprendibile, perché è sfuggito, pare a sette tentativi di eliminazione da parte israeliana. In un’azione del 2014 oltre che un occhio e forse una gamba, perse tutta la famiglia, mentre il più recente tentativo conosciuto di eliminarlo risale alla penultima operazione a Gaza nel 2021. Nonostante questi colpi, Deif ha continuato a comandare da solo le truppe di Hamas e le ha portate al livello di pericolosità che si è visto il 7 ottobre e nella guerra successiva.

Le conseguenze
  Tutto ciò ne ha fatto una potenza dentro a Hamas e un mito per i suoi sostenitori, ancor più di colui che teoricamente è il suo capo, cioè Yahya Sinwar, che pure viene da Khan Yunis ed è più o meno suo coetaneo. Se davvero è stato eliminato, questo è un colpo durissimo per l’organizzazione e per il morale di Hamas. Non solo per la perdita di un capo dotato di grande autorità, che grazie al suo prestigio e all’esperienza accumulata poteva organizzare la tattica di guerriglia dei terroristi, reclutarne di nuovi ed eventualmente riorganizzare le bande di Hamas dopo il cessate il fuoco di cui tutti parlano. Ma anche perché evidentemente la sua esecuzione è frutto di una soffiata di alto livello, che mostra come nell’organizzazione terrorista si inizino a vedere crepe importanti anche sul piano della sicurezza. E poi perché evidentemente i dirigenti del terrorismo non possono più starsene nascosti nelle fortificazioni sotterranee, per sviluppare la battaglia devono esporsi, diventando vulnerabili agli attacchi israeliani. Sembra proprio che il lungo lavoro di questi mesi possa portare al collasso dell’organizzazione terrorista a Gaza e aprire una nuova pagina nella guerra di difesa (che, ricordiamolo, non si svolge solo a Gaza ma anche al Nord e sugli altri fronti aperti per decisione dell’Iran).

Le trattative
  Anche se l’Egitto si è affrettato ad ammonire Israele a non compiere azioni che possano danneggiare le trattative in corso per uno scambio fra gli ostaggi e i terroristi condannati e imprigionati in Israele, è chiaro che ha ragione Netanyahu a spiegare, come ha fatto nella conferenza stampa, che la sola speranza di vincere la resistenza di Hamas e di arrivare a un accordo sostenibile, è la pressione militare che renda urgente per i terroristi trovare una via di fuga. Da questo punto di vista l’azione di oggi è importantissima, perché toglie ai capi terroristi l’illusione dell’impunità, mostra loro che il tempo lavora contro di loro e insomma rende urgente un possibile compromesso. Nella conferenza stampa Netanyahu ha anche accennato al contenuto delle trattative, assicurando tutti che la liberazione dei rapiti è il suo primo pensiero e il compito prioritario delle forze armate. Ma ha anche spiegato che rispetto allo schema concordato con gli americani, che comunque contiene molte concessioni, i negoziatori di Hamas avevano chiesto 28 ulteriori modifiche e che la sicurezza di Israele richiede di non andare oltre al testo concordato.

(Shalom, 14 luglio 2024)


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Netanyahu: la morte di Deif nell'attacco a Gaza non è ancora confermata

"Voglio assicurarvi che in un modo o nell'altro raggiungeremo l'intera leadership di Hamas", dice il primo ministro israeliano.

di Joshua Marks

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato sabato sera che non è confermato che il terrorista di Hamas Mohammed Deif e il suo vice Rafa'a Salameh siano stati uccisi in un attacco a Gaza.
In una conferenza stampa presso il quartier generale militare di Kirya a Tel Aviv, il primo ministro ha dichiarato: "Non c'è ancora la certezza assoluta che siano stati uccisi, ma voglio assicurarvi che in un modo o nell'altro raggiungeremo l'intera leadership di Hamas".
Deif è il secondo comandante a Gaza dopo Yahya Sinwar, il principale obiettivo dell'IDF dopo che i due uomini hanno guidato la pianificazione e l'esecuzione del massacro di oltre mille persone nel sud di Israele il 7 ottobre. Il 58enne Deif, leader del braccio armato di Hamas, le Brigate Qassam, è anche responsabile della pianificazione di diversi attentati agli autobus negli anni '90 e 2000.
Netanyahu ha detto che le "mani di Deif sono intrise del sangue di molti israeliani" e ha descritto la sua approvazione dell'operazione, che gli è stata presentata dal capo dei servizi di sicurezza israeliani, Ronen Bar.
"Volevo sapere tre cose: Primo, volevo sapere che secondo l'intelligence non c'erano ostaggi nelle vicinanze. In secondo luogo, volevo sapere quanto sarebbe stato alto il danno collaterale. In terzo luogo, ho chiesto il tipo di munizioni che sarebbero state utilizzate", ha dichiarato il Primo Ministro.
Quando ho ricevuto risposte soddisfacenti, ho autorizzato l'operazione e ho detto: "Che sia un grande successo. Questo successo libererà il Medio Oriente e il mondo intero da questi arci assassini", ha aggiunto.
Deif e Salameh, il comandante della Brigata Khan Younis del gruppo terroristico, si trovavano in un edificio fuori terra vicino alla zona umanitaria di Al-Mawasi e alla città di Khan Younis.
Fonti di Hamas hanno confermato che Salameh è stato ucciso nell'attacco israeliano, mentre si sono rifiutate di confermare o smentire la morte di Deif, ha riferito domenica mattina il quotidiano panarabo Asharq Al-Awsat.
L'emittente televisiva israeliana KAN 11 ha riferito sabato sera che alti funzionari della sicurezza hanno riferito in un briefing a livello politico che Deif era stato ferito nell'attacco e che erano in attesa della conferma finale, che potrebbe richiedere del tempo. I funzionari della sicurezza hanno anche confermato che Salameh è stato ucciso.
Se Deif fosse stato ucciso nell'attacco, Muhammad Sinwar, comandante delle brigate meridionali di Hamas e fratello di Yahya Sinwar, lo avrebbe sostituito alla guida delle Brigate Qassam, hanno dichiarato sabato fonti di Hamas ad Asharq Al-Awsat.
Oltre all'"eccellente lavoro di intelligence e operativo", Netanyahu ha anche lodato il fatto che sia stata scongiurata la "grande pressione interna ed esterna per porre fine alla guerra prima che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti".
"All'inizio della guerra ho stabilito una regola: Gli assassini di Hamas sono condannati dal primo all'ultimo. Regoleremo i conti con loro. L'eliminazione dei leader di Hamas ci avvicina al raggiungimento di tutti i nostri obiettivi: l'eliminazione di Hamas, il rilascio di tutti i nostri ostaggi e la rimozione di future minacce a Israele da Gaza. Ci fa avanzare anche in altre aree, perché invia un messaggio di deterrenza a tutti i proxy iraniani - e all'Iran stesso", ha detto Netanyahu.

(Israel Heute, 14 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israelofobia, la parola che non c'è

Riceviamo direttamente da un ex magistrato la segnalazione di un suo interessante articolo che molto volentieri riportiamo, ringraziando per la preziosa collaborazione. NsI

di Guido Salvini

Dopo il 7 ottobre, una violenza sconvolgente in cui i civili non sono stati vittime collaterali ma volute e dirette, una violenza che sembra essere stata presto rimossa dalle coscienze, una ondata di antisemitismo ha investito buona parte del mondo occidentale. Non solo una critica politica ma una avversione combattiva e rabbiosa che sembra spinta da un odio indicibile.
  Poche e semplici considerazioni che guardano al passato e a quello che sta accadendo oggi, consentirebbero di dare un giudizio razionale e non ossessivo su quello che stiamo attraversando.
  Eccone solo qualcuna.
  Dal 1949, dopo la fine della prima guerra con la quale i Paesi arabi cercarono di cancellare il neonato Stato di Israele, sino al 1967, la guerra dei 6 giorni, Giordania ed Egitto ebbero la piena sovranità su Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza cioè il cuore dello Stato palestinese. La usarono in quei 18 anni di pace per creare uno Stato palestinese? Niente affatto. Continuarono a mantenere la loro sovranità su quei territori, abitati da palestinesi con i quali rapporti furono sempre conflittuali, fino a sfociare in Giordania nel 1970 nel Settembre nero, un massacro di palestinesi che però non fa testo perché non ne furono responsabili gli israeliani 
  E’ quindi di Israele interamente la colpa del fatto che non esista Stato palestinese ? No, senza dimenticare che fu il leader dell’OLP Arafat e non il governo israeliano a rifiutare l’intesa che era stata quasi raggiunta nel 1995 con gli accordi di Oslo che profilavano nella sostanza due stati.
  Nel sud del Libano si è installato Hezbollah, non solo un gruppo terroristico ma un esercito potente armato dall’Iran che si muove in modo del tutto indipendente in uno Stato sovrano senza subire dal governo di questi alcuna conseguenza per il fatto di bombardare il paese confinante e cioè Israele. E’ come se vi fosse un esercito di un partito estremista schierato entro i confini del nostro paese e impegnato quotidianamente a lanciare razzi e a attaccare in vario modo i vicini, la Svizzera o l’Austria, ad esempio. Una situazione impensabile salvo in Medioriente e che nessuno ha il buon gusto di rilevare. Una polveriera che può causare l’allargamento incontrollabile del conflitto con la diretta discesa in campo dell’Iran.
  Nel Sud Sudan, a poca distanza dal teatro di guerra di Gaza, infuria da più di un anno una feroce guerra civile tra due fazioni militari, una delle quali d’ispirazione radicale islamica. Questo conflitto ha già provocato centinaia di migliaia di vittime, ben più che a Gaza, carestie, malattie e l’evacuazione di milioni di persone dalle loro abitazioni. Ma non se ne parla, salvo qualche organizzazione umanitaria, o quasi. Quanto sta avvenendo in quel paese non è spendibile politicamente e quindi non interessa a nessuno. Non ci sono né cortei né mobilitazioni di studenti né appelli contro il genocidio. Questo silenzio dimostra l’ipocrisia della campagna contro Israele che si gonfia ogni giorno. 
  Nelle università Usa sono ormai banditi i professori e i corsi di studio in materie storiche in cui non si parli di una Palestina “dal fiume al mare” cioè con la cancellazione completa dello Stato ebraico. Una censura che non è altro che un’espressione del credo woke. Anche in alcune nostre Università si è giunti perfino a chiedere l’annullamento degli accordi scientifici con le università israeliane, il primo passo verso una vera e propria discriminazione razziale che ricorda le leggi degli anni ‘30. 
  E’ questo quello che resta della libertà di pensiero che è uno dei pilastri fondamentali del nostro mondo ?
  Certamente in alcuni casi durante la guerra di Gaza vi sono state da parte dell’esercito israeliano eccessi di ritorsione. Ma non dimentichiamo che in tali situazioni i militari responsabili possono essere sanzionati, conseguenza questa impensabile nel campo opposto, quello di Hamas. Così come in Israele si può liberamente manifestare contro la politica del governo, comportamento anche questo impossibile ad esempio per i civili di Gaza i quali vivono sotto il tallone di quella organizzazione criminale. È questa la differenza radicale, insormontabile tra i due mondi, una democrazia per quanto imperfetta come molte democrazie e una teocrazia terroristica
  Tutto ciò anche senza indulgere nei confronti dell’attuale primo ministro Netanyahu che si appoggia agli ebrei ultraortodossi la cui mentalità non è molto differente da quella dei radicali islamici anche se, a differenza questi ultimi, per fortuna non intendono conquistare e soggiogare il mondo intero.
  Nel linguaggio politico e nei mass media è di casa il termine islamofobia, usato quasi sempre a sproposito. È indubbio che gli attentati di Al Qaeda dalle Torri gemelle in poi, in seguito gli eccidi compiuti anche in Europa dall’Isis, i talebani afghani e la politica dittatoriale all’interno e aggressiva all’esterno dell’Iran abbiano provocato una diffusa paura nei confronti del mondo islamico. Ma certo non un razzismo generalizzato o una volontà di distruggerlo. E’ un’espressione quindi inventata, una violenza linguistica, e la violenza peggiore, come insegnava Ludwig Wittgenstein, è il cattivo uso delle parole.  Islamofobia è un gioco di parole che fa solo il gioco appunto delle componenti più radicali di quel mondo e consente loro di passare da vittime e di soffiare sul fuoco anche quando decine di milioni di musulmani sono cittadini, regolarmente residenti o ospitati nei paesi europei.
  Piuttosto quello che sta succedendo e che potrebbe anche di più grave accadere dovrebbe legittimare l’uso di una espressione ben diversa che però è tenuta fuori dal linguaggio comune : israelofobia, che non coincide con l’antisemitismo perché riguarda oggi proprio lo Stato di Israele.
  L’idea in sostanza che Israele non abbia diritto di esistere, purtroppo molto diffusa anche tra un buon numero di occidentali esaltati, nel peggiore dei casi, o sprovveduti, nel migliore dei casi che non si accorgono così di odiare anche sé stessi.
  Perché non cominciare a riconoscerla e a usarla?  In fondo il linguaggio è uno strumento di educazione civica e imparare ad usarlo aiuta a modificare in meglio il mondo in cui dobbiamo vivere e se possibile convivere.

(Cremona Sera, 13 luglio 2024)

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Il regno di Satana

LUCA, cap. 8
  1. E navigarono verso il paese dei Geraseni che è dirimpetto alla Galilea.
  2. E quando egli fu smontato a terra, gli si fece incontro un uomo della città, il quale era posseduto da demonî, e da lungo tempo non indossava vestito, e non abitava a casa ma stava nei sepolcri.
  3. Or quando ebbe veduto Gesù, dato un gran grido, gli si prostrò dinanzi, e disse con gran voce: Che v'è fra me e te, o Gesù, Figlio dell'Iddio altissimo? Ti prego, non mi tormentare.
  4. Poiché Gesù comandava allo spirito immondo di uscire da quell'uomo; molte volte infatti esso se n'era impadronito; e benché lo si fosse legato con catene e custodito in ceppi, avea spezzato i legami, ed era portato via dal demonio ne' deserti.
  5. E Gesù gli domandò: Qual è il tuo nome? Ed egli rispose: Legione; perché molti demonî erano entrati in lui.
  6. Ed essi lo pregavano che non comandasse loro di andare nell'abisso.
  7. Or c'era quivi un branco numeroso di porci che pascolava pel monte; e quei demonî lo pregarono di permettere loro d'entrare in quelli. Ed egli lo permise loro.
  8. E i demonî, usciti da quell'uomo, entrarono nei porci; e quel branco si avventò a precipizio giù nel lago ed affogò.
LUCA, cap. 13
  1. Or egli stava insegnando in una delle sinagoghe in giorno di sabato.
  2. Ed ecco una donna, che da diciotto anni aveva uno spirito d'infermità, ed era tutta curvata e incapace di raddrizzarsi in alcun modo.
  3. E Gesù, vedutala, la chiamò a sé e le disse: Donna, tu sei liberata dalla tua infermità.
  4. E pose le mani su lei, ed ella in quell'istante fu raddrizzata e glorificava Iddio.
  5. Or il capo della sinagoga, sdegnato che Gesù avesse fatta una guarigione in giorno di sabato, prese a dire alla moltitudine: Ci son sei giorni nei quali s'ha da lavorare; venite dunque in quelli a farvi guarire, e non in giorno di sabato.
  6. Ma il Signore gli rispose e disse: Ipocriti, non scioglie ciascun di voi, di sabato, il suo bue o il suo asino dalla mangiatoia per portarlo a bere?
  7. E costei, che è figlia di Abramo, e che Satana avea tenuta legata per ben diciott'anni, non doveva esser sciolta da questo legame in giorno di sabato?
2 CORINZI, cap. 9
  1. E perché io non avessi ad insuperbire a motivo della eccellenza delle rivelazioni, m'è stata messa una scheggia nella carne, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi ond'io non insuperbisca.
  2. Tre volte ho pregato il Signore perché l'allontanasse da me;
  3. ed egli mi ha detto: La mia grazia ti basta, perché la mia potenza si dimostra perfetta nella debolezza. Perciò molto volentieri mi glorierò piuttosto delle mie debolezze, onde la potenza di Cristo riposi su me.
2 CRONACHE, cap. 18
  1. E Micaiah replicò: 'Perciò ascoltate la parola dell'Eterno. Io ho veduto l'Eterno che sedeva sul suo trono, e tutto l'esercito celeste che gli stava a destra e a sinistra.
  2. E l'Eterno disse: - Chi sedurrà Achab, re d'Israele, affinché salga a Ramoth di Galaad e vi perisca? - E uno rispose in un modo e l'altro in un altro.
  3. Allora si fece avanti uno spirito, il quale si presentò dinanzi all'Eterno, e disse: - Lo sedurrò io. - L'Eterno gli disse: - E come? -
  4. Quegli rispose: - Io uscirò, e sarò spirito di menzogna in bocca a tutti i suoi profeti. - L'Eterno gli disse: - Sì, riuscirai a sedurlo; esci, e fa' così. -
Appunti
    PREDICAZIONE

Marcello Cicchese
luglio 2015


(Notizie su Israele, 14 luglio 2024)


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La sala di comando di Hamas era nella sede ONU a Gaza

di Sarah G. Frankl

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Sede dell'UNRWA a Gaza

La sala di comando di Hamas si trovava nella sede della UNRWA di Gaza. Lo ha scoperto l’esercito israeliano quando ha fatto irruzione nel complesso all’inizio di questa settimana nell’ambito di una nuova operazione condotta dalla 99a Divisione nei quartieri occidentali e meridionali di Gaza City.
Il quartier generale dell’UNRWA non era stato utilizzato negli ultimi mesi. L’IDF aveva già fatto irruzione nel complesso all’inizio di quest’anno, scoprendo una grande rete di tunnel di Hamas che passava sotto di esso.
I commando hanno dovuto combattere contro cellule di uomini armati che si erano asserragliati all’interno della struttura.
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Un drone di Hamas trovato dalle truppe dell’IDF presso il quartier generale dell’UNRWA a Gaza City, in una foto pubblicata il 12 luglio 2024. (IDF)

Una volta eliminate le cellule di Hamas i commandos israeliani hanno potuto verificare che all’interno della struttura dell’ONU c’erano armi di ogni tipo comprese parti di un drone.
La sala di comando di Hamas serviva per controllare i movimenti delle truppe israeliane per poi riferirle a chi doveva compiere agguati o ai leader di Hamas per continuare a sfuggire alla cattura.
Mentre i commandos israeliani facevano irruzione nella struttura dell’ONU a Gaza, il vice comandante del battaglione Shejaiya di Hamas, Ayman Shweidah, è stato ucciso da un attacco aereo mirato.
Secondo l’IDF, Shweidah aveva condotto numerosi attacchi contro le truppe israeliane a Gaza ed era coinvolto nella pianificazione e nell’esecuzione del massacro del 7 ottobre.
Quanto avvenuto è una ulteriore conferma dei legami tra Hamas e la UNRWA oltre ad essere l’ennesima conferma dell’uso spregiudicato che fa Hamas dei luoghi considerati “intoccabili” come appunto le sedi dell’ONU, le scuole e gli ospedali.
E a proposito di UNRWA, è di poche ore fa l’appello del suo direttore, Philippe Lazzarini, ai donatori affinché provvedano a rimpinguare i conti dell’organizzazione che si spaccia per ONU. Secondo Lazzarini la UNRWA non potrà proteggere Hamas oltre la fine di settembre. Secondo Israele molti dipendenti della UNRWA hanno partecipato al massacro del 7 ottobre e almeno 13.000 di loro, tra Gaza e Cisgiordania, hanno vincoli stretti con Hamas.

(Rights Reporter, 13 luglio 2024)

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Nelle case e scuole di Gaza si nascondono i mandanti del 7 ottobre: quello che non vedono le agenzia umanitarie

di Iuri Maria Prado

Non è un’ipotesi, ma un fatto, che gli autori e i mandanti dei massacri del 7 ottobre si rifugino nelle strutture civili di Gaza, vale a dire nelle case, nelle scuole, nelle moschee, negli ospedali. Neppure è un’ipotesi, ma ancora un fatto, che quei macellai li usino come bunker non per la “libertà della Palestina”, bensì in attuazione del diverso programma liberatorio rivendicato dai loro capi: “Distruggere Israele e uccidere tutti gli ebrei, senza lasciarne vivo nemmeno uno”. Chi volesse trovare una denuncia di questa pratica, tuttavia, invano la cercherebbe nella corposa e inesausta produzione comunicazionale di “ Medici Senza Frontiere”, l’organizzazione umanitaria che il mese scorso deplorava l’uccisione del “collega” Fadi Al-Wadiya, part time medico e per il resto terrorista, e che l’altro giorno annunciava di dover chiudere una propria clinica a causa dell’ordine di evacuazione diffuso dall’esercito israeliano.

• L’ordine di evacuazione
  Naturalmente è ben possibile, diremmo anzi probabilissimo, che l’ordine di evacuazione sia stato impartito per completare l’azione di sterminio dei civili privandoli dell’assistenza sanitaria: una misura di irriducibile necessità per il caso, fastidiosamente imponderabile, che le bombe e la carestia possano risultare insufficienti al compimento del genocidio. Ma almeno per ipotesi di scuola potrebbe anche darsi che l’esercito israeliano abbia chiesto l’evacuazione perché deve dare la caccia ai terroristi, i quali non per ipotesi ma di fatto stanno tra quei civili – che usano come sacchi di sabbia – razzolando tra i banchi di scuola e, appunto, le corsie degli ospedali.

• Il limite delle agenzia umanitarie
  Costretti a dover operare in una situazione tanto drammatica, i signori di “ Medici Senza Frontiere” potrebbero – non si dice ogni volta, ma anche una volta sola in nove mesi – sfogare la propria indignazione nei confronti dei tagliagole embedded, assai felici di proclamare che un ulteriore mucchio di carne palestinese (preferibilmente infantile) è stata utilmente offerta in sacrificio. Invece, macché. E macché pure l’Unrwa, l’agenzia Onu inconsapevolmente locatrice di spazi sicuri per i server di Hamas che – ancora l’altro giorno – lamentava l’assenza a Gaza di zone sicure. Cosa probabilmente e drammaticamente vera, salvo che a rendere insicure quelle che potrebbero essere tali c’è – immeritevole di qualsiasi denuncia dell’Unrwa – l’abitudine dell’esercito degli sgozzatori di fare capolino dai tunnel che sbucano a trentacinque metri dall’entrata dell’ospedale o a dodici dalla cattedra dell’insegnante, stipendiato dalla cooperazione internazionale, che illustra agli alunni il loro futuro da martiri. Ma per occuparsi di simili dettagli queste agenzie umanitarie hanno prospettive troppo ampie: dal fiume al mare, diciamo.

(Il Riformista, 12 luglio 2024)

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Cecilia dal cuore sanguinante e i suoi supporter

di Davide Cavaliere

Ha un «cuore per essere vicino agli ultimi» e delle «emozioni forti», prosegue Ovadia nella sua arringa per Cecilia, proprio come lo avevano i nazisti, anche loro stavano dalla parte degli «ultimi», dei poveri tedeschi ridotti in miseria dalla «cospirazione giudaica». Dobbiamo dare retta al naso di Moni, la Parodi non è antisemita, no, lei ama gli ebrei, li vorrebbe abbracciare, stringere a sé, saldamente. Come un nodo scorsoio. Non vorremmo occuparci di Moni Ovadia, anche se occasionalmente ci è capitato di farlo. Si tratta di un vecchio arnese della propaganda propalestinese, uno che considera l’ideologo Ilan Pappé di cui anni fa un vero storico come Benny Morris, fece polpette, “un grande storico”, e per il quale l’esercito israeliano a Gaza ha commesso le maggiori efferatezze dal “secondo dopoguerra”, e ancora, per il quale Benjamin Netanyahu sta attuando “un progetto genocidiario”, e via di questo passo.
  Sono cose che ha già detto e che ha ripetuto nel corso di un breve video in difesa dell’attivista filopalestinese Cecilia Parodi, recentemente assurta alle cronache perché in un video ha affermato il suo odio per tutti gli ebrei e tutti gli israeliani e il desiderio di vederli impiccati, nessuno escluso.
  Con personaggi come Ovadia il confronto non è mai possibile, perché esso presuppone che tra due interlocutori che la pensano diversamente ci sia tuttavia una condivisione tacita, ovvero che essi abitino la stessa realtà. Se manca questo presupposto, il confronto non può nemmeno cominciare. La realtà in cui dimorano gli Ovadia e i Pappé nulla ha a che vedere con quella in cui dimorano i fatti, dove, tra parola e oggetto sussiste un rapporto di corrispondenza, ma è quella in cui questi rapporti vengono annientati e sostituiti con uno schema ideologico, in questo caso quello per cui i palestinesi sono sempre vittime e gli israeliani sempre dei carnefici, tertium non datur.
  E dunque perché occuparci di nuovo di Ovadia?, semplice, perché da Chomsky de noantri quale egli è, è corso in soccorso di Cecilia Parodi, esattamente come il linguista e guru dell’estrema sinistra, anni fa corse in soccorso del negazionista Robert Faurisson nel nome della libertà di espressione. Chomsky, tuttavia, non si spinse così avanti da dichiarare che Faurisson non era antisemita, mentre a Ovadia è toccato dire che la Parodi, donna dal cuore sanguinante a causa delle spaventose sofferenze del “popolo gazawi”, sì, il popolo gazawi, ovvero una sotto-etnia del “popolo palestinese”, scoperta da lui stesso, non è antisemita, e lui che è ebreo e gli antisemiti li nasa a vista, lo può garantire.
  Cecilia Parodi è una vittima degli odiatori, lei è solo una donna sensibile a cui hanno ceduto un po’ i nervi, capita, soprattutto quando si assiste a quello che di mostruoso [secondo gli odiatori,NsI]hanno fatto i soldati israeliani a Gaza, altro che Srebrenica, altro che Anfal, altro che Ruanda. Cecilia Parodi per la quale gli ebrei “hanno rovinato il mondo”, e per i quali ci vorrebbe, per impiccarli tutti, Piazza Tiananmen, va capita, il problema vero è Netanyahu, è il suo progetto genocida.

(L'informale, 13 luglio 2024)

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Allarme negli atenei italiani per atteggiamenti antisemiti: molti lasciano gli studi e vanno in Israele

Secondo l’Ugei due giovani su tre hanno assistito o sono stati vittime di antisemitismo

di Flavia Amabile

ROMA. L’antisemitismo è in crescita. Soprattutto nelle università. Lo certificano i dati dell’Ugei, l’Unione giovani ebrei italiani e le voci di studentesse e studenti. Ad affermarlo sono più di otto giovani ebrei su dieci, di età compresa fra i 18 e i 35 anni, residenti in Italia. Accade oggi come sei mesi fa, subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando un primo sondaggio aveva già reso evidente la profonda preoccupazione presente tra i giovani ebrei italiani. Gli atenei italiani sono diventati l'epicentro di un crescente clima di odio e intolleranza, con il 71% degli studenti ebrei che non si sente sicuro nell'esprimere la propria identità ebraica, e un 86% riferisce timore nell'esprimere opinioni relative a Israele. Inoltre, più di due terzi dei partecipanti alla ricerca ha assistito o è stato vittima di atteggiamenti antisemiti da parte dei compagni di corso, mentre il 35% ha osservato tali comportamenti persino da parte dei docenti. Il sondaggio registra poi una forte insoddisfazione verso la risposta delle istituzioni italiane agli episodi di antisemitismo, con il 39% del campione che la ritiene insufficiente e il 33% scarsa.
  Anna Agnotti frequenta il primo anno di magistrale al Politecnico di Milano ed è consigliera dell’Ugei. «Sono ebrea e italiana   al cento per cento: voglio sentirmi libera di avere un legame forte con Israele e di dire che l’Italia è il mio Paese. In questi mesi ho conosciuto tantissimi studenti israeliani che non sono andati più a lezione, alcuni hanno deciso di smettere di studiare, altri sono tornati in Israele a causa del pesante clima che si respira nelle università italiane per chi è ebreo.

• Meloni: "Blocco collaborazioni con Israele, scelta preoccupante dal Senato accademico UniTo"
   Tutti gli studenti ebrei italiani con cui ho parlato mi hanno raccontato di aver evitato di indossare segni di identità come la kippah e di essere molto a disagio quando durante gli esami vengono chiamati davanti a tutti se hanno nomi e cognomi che possono rendere evidente la loro origine. È la conseguenza di questo clima difficile: prima del 7 ottobre i casi di antisemitismo esistevano ma erano isolati, ora sono ripetuti».
  Ioel Roccas ha 24 anni, studia Discipline Etnoantropologiche alla Sapienza di Roma ed è vicepresidente dell’Ugei. «Sono stati mesi complicati, soprattutto gli ultimi. Bisogna abbandonare l'idea che l’antisemitismo sia solo una questione razziale, in realtà è una questione ormai culturale, un fiume carsico che scorre senza quasi che ce ne rendiamo conto e la sua contaminazione è trasversale, va da destra a sinistra. È antisemitismo citare come avviene in molte manifestazioni la frase “from the river to the sea” perché è una frase che nega l’autodeterminazione del popolo ebraico ma non tutti lo sanno. Spesso si parla sulla base di pregiudizi che pensavamo che fossero sconfitti e che invece sono ancora dominanti. Prima identifichiamo le diverse forme di antisemitismo prima saremo in grado di trovare una soluzione a una piaga che la società ha difficoltà ad estirpare».

• L’Ugei ha messo a disposizione di studentesse e studenti una linea dedicata
  Hanno raccolto 60 casi di antisemitismo. Si va dalla bacheca dell’Università Roma Tre dove a gennaio è apparso un cartello in cui si definiva Israele «uno stato occupante, discriminatorio, violento che porta l’apartheid in Palestina e porta avanti una terribile pulizia etnica», racconta Roccas. Oppure - continua Roccas - « le storie pubblicate sui social da una studentessa dell’università Unicamillus che inneggiavano a Hitler e al genocidio oppure altre, sempre sui social, in cui uno studente scriveva “sporca la tua razza ebreo”. E poi a dicembre fuori dall’università di Firenze è apparsa una stella di David equiparata a una svastica».
  «Il quadro che emerge è di una crescente preoccupazione tra i giovani ebrei italiani, che si sentono giudicati e discriminati a causa della loro identità. Chiediamo un impegno concreto e immediato da parte di tutte le componenti della società per combattere l'antisemitismo in ogni sua forma», commenta Luca Spizzichino, presidente dell’Ugei. «Non possiamo permettere che l'odio e la discriminazione diventino la norma, è fondamentale infatti garantire la sicurezza e la libertà di espressione di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro fede», aggiunge, sottolineando come l'Ugei «continuerà a lottare per i giovani ebrei affinché possano esprimere liberamente la propria identità».

(La Stampa, 13 luglio 2024)

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La sinistra israeliana e il suo declino

di Davide Cavaliere

La sinistra israeliana è in declino da lungo tempo. Il Partito Laburista, erede del Mapai di Ben-Gurion e Levi Eshkol, può vantare solo quattro membri alla Knesset su un totale di centoventi eletti. Potrebbero stare, letteralmente, dentro un taxi o una cabina telefonica. 
  Il crollo della sinistra israeliana è attribuibile, essenzialmente, a tre fattori: in primo luogo, al disastroso e suicida «processo di pace» di Oslo, che ha rafforzato il terrorismo e minato la sicurezza dello Stato ebraico; in secondo luogo, ai successi economici ottenuti dalla destra con le riforme liberali, che hanno marginalizzato l’istituzione collettivista del kibbutz; infine, alla crescita dell’immigrazione ebraica proveniente dai Paesi dell’ex URSS, elettoralmente orientata in senso conservatore.
  Dal 7 ottobre, la sinistra ha avuto un ulteriore tracollo. Secondo Nimrod Nir, psicologo politico dell’Università Ebraica di Gerusalemme, la strage di nove mesi fa «ha causato un crollo completo della vecchia sinistra israeliana». I cittadini d’Israele, stanchi di subire passivamente il terrorismo arabo-musulmano, si sono spostati sempre più a destra, consapevoli dell’impossibilità di una convivenza pacifica col vicino arabo-musulmano. Il Washington Free Beacon ha riportato un’interessante confessione post-7 ottobre di Debbie Sharon, avvocato penalista di Yated ed ex uomo di sinistra: 

    «La gente di destra ci aveva avvertito che i palestinesi non la pensano come noi: non gli importa della pace per i loro figli. Gli importa solo di eliminarci. Ma non ci abbiamo creduto. Abbiamo detto: “Sono tutti pazzi. Sono tutti estremisti di destra”». 

Potrebbe sembrare una buona notizia, peccato però che il sistema elettorale israeliano favorisca la proliferazione dei partiti politici, che frammentano l’elettorato di «centrodestra» disperdendolo in una pluralità di gruppi «moderati» come Yesh Atid di Lapid o Tikvah Hadasha di Gideon Sa’ar.  
  Inoltre, il complesso mediatico-accademico e soprattutto il sistema giudiziario rimangono, saldamente, in mano alla sinistra. La Corte Suprema, saltata a causa della guerra la riforma proposta da Netanyahu, ha mantenuto il suo potere ipertrofico. La recente decisione degli alti giudici di arruolare forzosamente gli studenti ortodossi delle yeshivot è orientata a mettere in crisi la coalizione presieduta da Netanyahu, generando una tensione tra il Likud e i partiti religiosi al governo. 
  In Israele, come capita sempre più spesso nelle moderne democrazie, esiste uno scollamento tra il paese «reale», generalmente conservatore, e quello «legale», presidiato dalle forze progressiste; così come tra i ceti popolari e le élite intellettuali e politiche. Una frattura rivelatasi per la prima volta nel 1981, quando, durante un comizio elettorale del Partito Laburista a Tel Aviv, che sperava di sconfiggere il premier uscente Menachem Begin, la star televisiva Dudu Topaz disse: «È un piacere vedere la folla qui, è un piacere vedere che non ci sono chahchahim (termine dispregiativo che allude agli ebrei israeliani di origine mediorientale ) che rovinano le riunioni elettorali. I chahchahim sono a Metzudat Ze’ev (edificio dove ha sede il Likud)».
  Oggi, proprio come ieri, i membri progressisti della società si lamentano della «plebe», degli ebrei mediorientali «Mizrahi», dei «coloni» e degli ebrei ortodossi «Haredi», che rifiutano di diventare la merce di scambio del loro demenziale «processo di pace». Ogniqualvolta la «plebe» elegge un governo conservatore, la litania benpensante si fa più intensa: Israele, insistono, si troverebbe allora sull’orlo del fascismo e della teocrazia. Alla destra israeliana non si perdona neanche un decimo di quello che si accetta dalla parte araba, da sempre dedita alla distruzione dello Stato ebraico. 
  Da un lato vi sono gli «ebrei di sinistra» della Diaspora e i ricchi progressisti israeliani, attentissimi agli umori del Partito Democratico statunitense; dall’altro gli israeliani «comuni» che ogni giorno rischiano di saltare in aria con l’autobus che li porta a lavoro. 
  Mentre i primi, per l’Italia si segnalano, Piero Fassino, Gad Lerner o Emanuele Fiano, scrivono i loro sentiti articoli su come facciano fatica a convivere con un governo che annovera Smotrich e Ben-Gvir tra i suoi ministri, gli israeliani cercano di non farsi sparare lungo la strada che li riporta a casa o di evitare che le loro auto di seconda mano vengano rubate e portate nel territorio controllato dalla «Autorità Palestinese».  
  Questo Israele popolare e patriottico, pio e lavoratore, è stanco di sentirsi dire di rimanere in silenzio quando i suoi bambini vengono uccisi, quando il suo bestiame viene rubato, quando i suoi campi e i suoi frutteti, coltivati con fatica, sono ridotti a un oceano di cenere dai palloncini incendiari palestinesi. Questo Israele non sa cosa farsene di un «processo di pace» che gli ha sottratto terra e sicurezza; le sue «relazioni socio-culturali» con gli arabi non assomigliano a quelle auspicate da Lerner o da Ovadia, ma riguardano la crescente violenza di strada arabo-musulmana all’interno della «linea verde». La sua preoccupazione circa i rapporti con l’Amministrazione Biden ruota attorno alla carenza di alloggi a Gerusalemme o in Giudea e Samaria causata dalla pressione diplomatica della Casa Bianca a non ampliare gli «insediamenti».  
  Se gli ebrei e gli israeliani progressisti, laici, pacifisti, socialisti, che trascorrono le loro giornate rannicchiati a leggere David Grossman, fossero stati più attenti alle esigenze degli israeliani «normali» e meno intossicati dalla loro ideologia internazionalista, oggi, con tutta probabilità, non avrebbero un Itamar Ben-Gvir al governo. 
  I progressisti hanno perso la loro battaglia. Ecco perché così tanti «ebrei di sinistra» sono arrabbiati e indispettiti. A essere minacciata non è la democrazia israeliana, solida come non mai, ma un potere oligarchico consolidato che si vede, per la prima volta, seriamente intaccato. 

(L'informale, 12 luglio 2024)

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Hamas minaccia di aprire un nuovo fronte

L’organizzazione terroristica palestinese, all’angolo nella Striscia di Gaza, potrebbe attaccare dalla Cisgiordania,

di Tommaso Alessandro De Filippo

La prospettiva di un cessate il fuoco temporaneo tra Israele ed Hamas nella striscia di Gaza, volto a favorire il rilascio degli ostaggi, potrebbe essere stravolta da una nuova escalation del conflitto. L’organizzazione terroristica palestinese non ha alcuna convenienza strategica a fermare le ostilità: la prosecuzione dei combattimenti, infatti, le consente di utilizzare l’arma della guerra psicologica contro l’avversario, sfruttando le vittime civili.
  Accusando Israele di commettere un genocidio ed impedendo l’evacuazione degli abitanti dal territorio, Hamas si assicura la possibilità di utilizzarne la morte come carta mediaticamente utile a manipolare l’opinione pubblica internazionale in proprio favore. Se Hamas decidesse di accettare una soluzione negoziale, che arresti il conflitto e le imponga di liberare i rapiti ancora in vita, rischierebbe di compromettere la sua strategia.
  Inoltre, complicherebbe il piano dell’Iran che è volto a creare caos nella regione. L’Iran manovra Hamas e la usa da sempre per indebolire Israele. La mediazione di Stati Uniti ed alcuni paesi arabi ha rilanciato le trattative sul cessate il fuoco temporaneo a cui Hamas finge di essere interessata, incolpando Gerusalemme per ogni mancato raggiungimento degli accordi. Tuttavia, nelle scorse settimane da Washington sono stati intensificati gli sforzi per chiudere in fretta un accordo, rendendo più complesso per Hamas abbandonare le trattative nascondendo le proprie responsabilità.

• Hamas punta al fallimento dei negoziati
  Da quì la probabilità che i suoi leader scelgano di utilizzare la forza per provocare il fallimento delle negoziazioni: la probabilità di un nuovo attacco contro strutture sensibili o civili israeliani è infatti in costante aumento, denunciata dai servizi segreti di Gerusalemme. Potrebbe avvenire proprio dalla Striscia di Gaza o dalla Cisgiordania. Nel primo caso, l’eventualità appare più complessa perché la quasi totalità del teatro geografico è ormai sotto il controllo dell’esercito israeliano (IDF). Per i miliziani di Hamas ancora attivi agire con precisione al punto da infiltrarsi in territorio israeliano e compiere un attentato di grosse proporzioni appare complesso.
  È più probabile invece che si limitino a compiere nuovamente piccole imboscate ai danni di soldati e proseguire nel lancio di attacchi con razzi contro lo stato ebraico. Uno scenario che intensificherebbe la violenza dell’IDF ma non stravolgerebbe il volto del conflitto.

• Hamas vuole il fronte Cisgiordania
  Diverso è il discorso relativo alla Cisgiordania: lì Hamas è efficacemente infiltrata nei campi profughi (in particolare quello della zona di Jenin), in sintonia con la Jihad Islamica Palestinese (PIJ). In loco non soffre di una pressione militare quotidiana esercitata da Israele nei suoi confronti. Inoltre, si giova dell’incapacità della corrotta Autorità Nazionale Palestinese (ANP), secondo report dell’intelligence occidentale destinata ad implodere entro fine estate, di contrastarla. Il territorio della Cisgiordania potrebbe rivelarsi utile all’espansione ulteriore del conflitto per i miliziani palestinesi. Da lì potrebbero colpire Israele con maggiore efficacia o infiltrarsi in discreto quantitativo al di là dei suoi confini, al fine di compiere un attentato terroristico di eclatanti proporzioni.
  Questo scenario comporterebbe l’immediato stop delle trattative diplomatiche e l’apertura di un nuovo fronte di guerra ad alta intensità. Israele dovrebbe necessariamente reagire con l’inizio di un’operazione su larga scala nel territorio, volta ad estirpare la minaccia. Dal canto suo, Hamas otterrebbe benzina mediatica condurre la sua guerra psicologica. In più, favorirebbe l’incremento di tensioni e caos in Medio Oriente, in linea con gli interessi del suo burattinaio, il regime degli ayatollah iraniani.

(ItaliaOggi, 12 luglio 2024)

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La grande paura degli ebrei: “In Europa attacchi antisemiti sono aumentati del 400%”

La denuncia di 12 organizzazioni: dopo il 7 ottobre violenze e molestie online e offline sono esplose.

di  Paolo Brera

PARIGI — Dopo il 7 ottobre la percezione dell’antisemitismo è esplosa: 12 organizzazioni ebraiche hanno segnalato un aumento del 400% degli attacchi in Europa. «Metà della popolazione ebraica è preoccupata per la sicurezza sua e della famiglia, e oltre il 70% nasconde occasionalmente la propria identità ebraica», afferma Sirpa Rautio, direttrice dell’Agenzia Ue per i Diritti fondamentali (Fra) che monitora il fenomeno e segnala «piccoli progressi», ma in un quadro preoccupante: «I conflitti in Medio Oriente possono portare a picchi di incidenti. Gli ebrei sono più spaventati che mai»
  L’80% dei 7.992 ebrei europei ascoltati dal sondaggio della Fra ritiene che l’antisemitismo in Europa sia ulteriormente aumentato. La buona notizia è che il dato è in calo, rispetto all’88% del 2018: l’antisemitismo è sempre un’emergenza, ma sì è raffreddato. La cattiva è che il sondaggio è stato realizzato prima del 7 ottobre, tastando la febbre antisemita percepita negli ultimi 5 anni: dopo il 7 ottobre il termometro è schizzato verso l’alto, mostrano le appendici.
  La cronaca conferma: la statua di Anna Frank nel parco di Merwedeplein — nel Rivierenbuurt di Amsterdam, in cui la ragazzina martirizzata dall’odio e dalla follia nazista visse due anni con la famiglia prima di trasferirsi a Prinsengracht, nell’abitazione condivisa con i Van Pels durante l’occupazione — è stata vandalizzata con la scritta “Gaza”. Come se il dramma di una bambina potesse pareggiare quello di altri bambini, invece di sommarsi.
  La premessa indispensabile, in tempi inquieti di opinioni polarizzate, è che l’Agenzia (Fra) è organo ufficiale Ue, nato nel 2007 e costituito da ricercatori; ma i suoi lavori sull’antisemitismo sono stati contestati con l’accusa di non fare differenza tra «antisemitismo nei confronti degli ebrei o di Israele».
  È un fatto che 1,3 milioni di ebrei residenti nella Ue percepiscano ostilità: 8 su 10 ritengono sia aumentata nei 5 anni prima del 7 ottobre e della reazione israeliana. Il sondaggio è stato effettuato tra adulti (oltre 16 anni) che si definiscono “ebrei” nei 13 Paesi Ue in cui vive il 96% della popolazione ebraica europea: considerano l’antisemitismo un problema da affrontare tutti i giorni. I sondaggisti chiedevano esperienze vissute, «incidenti antisemiti, violenze e molestie online e offline», e le «preoccupazioni di diventare vittima».
  Il 96% dice di avere subito antisemitismo nell’ultimo anno: «Stereotipi che accusano gli ebrei di detenere il potere e controllare finanza, media, politica o economia» (85%); «negando a Israele il diritto di esistere come Stato» (79%); «ritenendo gli ebrei collettivamente responsabili delle azioni di Israele», «negando o banalizzando l’Olocausto» e «confrontando la politica di Israele con quella nazista» (78%). Alcuni di questi punti restano controversi. Ma il 90% dice di avere incontrato personalmente il mostro: online (90%) più che nella vita in carne e ossa (77%). Più di metà lo ha visto però in colleghi e conoscenti (56%).

(la Repubblica, 12 luglio 2024)

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I jihadisti brutalizzano le donne non musulmane e le femministe rimangono in silenzio

La violenza sessuale come strategia militare è stata comunemente utilizzata in tutto il mondo dai terroristi islamici sin dal VII secolo. Per quanto riguarda il gran numero di donne israeliane che sono state brutalmente stuprate il 7 ottobre dai terroristi di Hamas e dai loro sostenitori, molte organizzazioni per i diritti delle donne hanno totalmente ignorato l'atrocità di tali abusi. Nella foto: Naama Levy, una 19enne israeliana rapita e portata a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023. È ancora tenuta in ostaggio da Hamas.

di Uzay Bulut*

FOTO
Naama Levy, una 19enne israeliana rapita e portata a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023. È ancora tenuta in ostaggio da Hamas

I terroristi di Hamas, sostenuti dall'Iran, hanno invaso Israele il 7 ottobre 2023. Hanno massacrato più di 1200 persone; hanno bruciato vive intere famiglie, torturato e violentato donne, bambini e uomini, e hanno preso in ostaggio circa 250 persone, tra cui bambini e neonati.
Dall'attacco di ottobre, tuttavia, le donne israeliane hanno dovuto affrontare interrogativi e dubbi espressi dalle opinioni pubbliche sulle brutalità e sulle violenze sessuali subite per mano di uomini musulmani di Gaza.
Nonostante il silenzio, e talvolta anche la totale negazione, da parte di molte organizzazioni femministe in tutto il mondo, i crimini sessuali di Hamas sono ben documentati. L'Associazione dei centri di crisi sullo stupro in Israele ha pubblicato a febbraio il report "Grido silenzioso – Crimini sessuali nella guerra del 7 ottobre".
Centinaia di donne israeliane e non solo, ha riportato l'associazione, hanno subito le aggressioni sessuali più raccapriccianti, tra cui stupri, anche di gruppo, mutilazioni e smembramenti, spesso seguiti da uccisioni per mano dei miliziani di Hamas. Molte di queste aggressioni sono avvenute in presenza di amici, partner o familiari delle vittime e numerosi cadaveri sono stati trovati decapitati. Anche la mutilazione degli organi sessuali sia degli uomini che delle donne è stata una pratica comune.
Il rapporto non solo fornisce testimonianze sugli abusi sessuali, le torture e gli omicidi inflitti a uomini, donne e bambini israeliani da Hamas durante l'invasione del 7 ottobre, ma precisa altresì che crimini simili continuano ad essere commessi contro gli ostaggi ancora detenuti a Gaza.
Anche il New York Times ha pubblicato il 28 dicembre scorso un rapporto, basato su 150 interviste a testimoni e primi soccorritori, riprese video e prove fotografiche.
Il 19 giugno, le Nazioni Unite celebrano l'annuale Giornata internazionale contro la violenza sessuale nei conflitti armati. Eppure, le Nazioni Unite hanno impiegato cinque mesi per documentare e condannare i crimini sessuali perpetrati da Hamas il 7 ottobre.
Il 4 marzo, l'ONU ha finalmente pubblicato un report di 23 pagine contenenti le prove del fatto che Hamas ha di fatto commesso diffusi crimini sessuali. Pramila Patten, rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la violenza sessuale nei conflitti armati (e sottosegretario generale delle Nazioni Unite), ha condotto un'indagine di due settimane in Israele dal 29 gennaio al 14 febbraio. Durante questa visita, il suo team ha esaminato più di 5 mila foto e ha passato in rassegna 50 ore di riprese audio e video. Il team ha inoltre intervistato più di 30 sopravvissuti e testimoni oculari.
Secondo il report delle Nazioni Unite:

    "Le interviste alle parti interessate e il materiale esaminato dal team della missione delineano una campagna indiscriminata finalizzata a uccidere, infliggere sofferenze e rapire il massimo numero possibile di uomini, donne e bambini – soldati e civili – nel minor tempo possibile. Le persone venivano freddate, spesso a distanza ravvicinata; bruciate vive nelle loro case mentre cercavano di nascondersi nelle loro safe room; uccise a colpi di arma da fuoco o dalle granate lanciate nei rifugi contro le bombe dove cercavano riparo; e braccate nell'area in cui si stava svolgendo il Nova Music Festival così come nei campi e nelle strade adiacenti al sito del festival. Altre violazioni includevano la violenza sessuale, il rapimento di ostaggi e cadaveri, l'esposizione pubblica di prigionieri, sia morti che vivi, la mutilazione di cadaveri, compresa la decapitazione, e il saccheggio e la distruzione di proprietà civili...
    "Il team della missione ha riscontrato informazioni chiare e convincenti sul fatto che sono state commesse violenze sessuali, tra cui stupri, torture sessualizzate, trattamenti crudeli, inumani e degradanti nei confronti di alcune donne e bambini durante il loro periodo in prigionia e ha ragionevoli motivi per ritenere che queste violenze possano essere ancora in corso....
    "Sulla base della totalità delle informazioni raccolte, ci sono ragionevoli motivi per ritenere che le violenze sessuali legate al conflitto siano avvenute in diverse località".

Tali crimini riportano alla mente quelli commessi dall'ISIS (Stato Islamico) contro cristiani e yazidi durante e dopo la conquista violenta di gran parte dell'Iraq e della Siria nel 2014.
La violenza sessuale come strategia militare è stata comunemente utilizzata in tutto il mondo dai terroristi islamici sin dal VII secolo.
Dieci anni fa, l'ISIS attaccò yazidi e cristiani in Iraq e Siria, perpetrando massacri e costringendo con la forza a fuggire centinaia di migliaia di non musulmani. Nel giugno 2014, lo Stato Islamico prese il controllo della città irachena di Mosul, per poi proclamare, il 29 giugno di quello stesso anno, un califfato islamico nelle aree controllate dall'organizzazione in Iraq e Siria.
La brutale occupazione dell'ISIS a Mosul e nel territorio più ampio fu accompagnata da uccisioni di massa, esecuzioni sommarie, sparizioni, rapimenti, torture e diffuse demolizioni di case di migliaia di residenti, mentre veniva applicata la rigida legge della sharia. I terroristi dello Stato Islamico hanno ucciso, rapito e minacciato un gran numero di persone appartenenti a minoranze etniche e religiose, tra cui cristiani, turkmeni, shabak e yazidi.
Nel 2021, il Center for Holocaust and Genocide Studies of the University of Minnesota ha pubblicato un report intitolato "Violenza di massa e genocidio per mano dello Stato Islamico/DAESH in Iraq e Siria". Secondo il documento:

    "Dopo la conquista di Mosul da parte dell'ISIS, nel giugno del 2014, ai cristiani venne data la possibilità di convertirsi, pagare le tasse (jizya), andarsene o essere uccisi. Lo Stato Islamico contrassegnò le case cristiane con la lettera araba 'N' che sta per Nasrani, ossia cristiano, che divenne rapidamente un simbolo globale di solidarietà con i cristiani perseguitati. Pochi mesi dopo, nell'agosto del 2014, l'ISIS prese il controllo di tutte le città assire nella Piana di Ninive, provocando una seconda ondata di sfollamenti di massa.
    "Oggi, una delle maggiori sfide che i cristiani in Iraq devono affrontare è la questione del ritorno. Anche se la Piana di Ninive è stata liberata dall'ISIS, molti cristiani esitano a ritornarvi e temono di farlo, menzionando le rinnovate tensioni tra le varie comunità etnico-religiose".

Proprio come Hamas ha rapito israeliani e non, lo Stato Islamico ha altresì rapito cristiani e yazidi in Iraq e Siria.
Nel febbraio 2015, i miliziani dell'ISIS attaccarono circa 35 villaggi di cristiani assiri che vivevano in una serie di comunità agricole sulle rive del fiume Khabur in Siria. L'ex diplomatico statunitense Alberto M. Fernandez osservava nel 2016:

    "... 232 di questi assiri, 51 dei quali bambini e 84 donne, sono stati rapiti. La maggior parte di loro rimane prigioniera e pare che l'ISIS abbia chiesto 22 milioni di dollari (circa 100 mila dollari a persona) per il loro rilascio. Chi non è stato rapito è terrorizzato ed è stato espropriato delle proprie case".

Un rapporto dell'UNICEF e dell'UNAMI (Missione delle Nazioni Unite di assistenza in Iraq), intitolato "Bambini nati da stupro e bambini nati da padri dell'ISIS", documenta gli stupri e la schiavitù sessuale delle donne appartenenti a minoranze religiose da parte dello Stato Islamico:

    "Le donne appartenenti a minoranze religiose hanno subito gravi violazioni, tra cui rapimenti, privazione della libertà, trattamenti crudeli e conversioni forzate a un'altra religione, ma la più pericolosa di tali violazioni è stata la schiavitù sessuale, che ha preso di mira in particolare le donne di religione yazida.
    "Nel luglio 2014, l'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) ha segnalato 11 casi di stupro contro donne cristiane commessi dall'ISIS. Altri rapporti hanno indicato che quasi 300 donne cristiane e musulmane sciite (per lo più turkmene) sono state trattenute dai miliziani dello Stato Islamico. Uno studio accademico condotto presso l'Università di Baghdad, riguardante un campione di 200 donne sopravvissute al sequestro da parte dell'ISIS, ha mostrato che 169 donne del campione sono state violentate, comprese 39 donne cristiane e 39 donne musulmane (turkmene sciite)."

Una delle donne cristiane rapite dallo Stato Islamico è Carolyn, di etnia assira e residente nel villaggio di Tel Jazera, nella Siria orientale. Nel 2022, Knox Thames, già inviato speciale per le minoranze religiose presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti durante le amministrazioni Obama e Trump, raccontò il calvario di Carolyn:

    "Ha sofferto orrori inimmaginabili come 'moglie' dell'ISIS da quando è stata rapita all'età di 15 anni. (...) I genitori di Carolyn hanno detto che la figlia gridava di terrore mentre veniva trascinata fuori di casa nell'aprile 2015. Pur sapendo il luogo dove è stata portata, al momento non è possibile salvarla.
    "Alla richiesta della sua famiglia e di altri di sensibilizzare l'opinione pubblica sul suo caso, i genitori della ragazza mi hanno detto tramite un interprete: 'Abbiamo saputo da molte fonti che si trova nel campo di Al-Hol dal 2017'. Al-Hol è un campo per sfollati ubicato in un'area desertica, nella parte orientale della Siria. Si tratta di un campo di prigionia per oltre 60 mila persone, molte delle quali sono famiglie sospettate di avere legami con l'ISIS o altri simpatizzanti.

"Secondo quanto riferito, le condizioni del campo sono dure e la criminalità è dilagante.

    "Le maggiori potenze internazionali hanno preferito ignorare questo problema. (...) La famiglia sa che Carolyn è stata comprata e venduta almeno quattro volte. Informazioni indicano che è arrivata ad Al-Hol nell'aprile 2019. Ora ha due figli da questi uomini, un maschio e una femmina. Chi è riuscito a fuggire da Al-Hol ha detto che Carolyn è molto legata ai suoi figli e non se ne andrà senza di loro...
    "'Lei è la nostra amata figlia, e sappiamo che è una ragazza innocente perché è stata costretta ad andarsene', mi hanno detto. 'La riaccoglieremo a casa in qualsiasi momento con i suoi figli. Viviamo per quel giorno, per abbracciare lei e i suoi figli'".

Circa due mesi dopo la presa di Mosul, l'ISIS invase Sinjar, la patria degli yazidi in Iraq. Come gli assiri, gli yazidi sono una minoranza non musulmana autoctona e perseguitata in Medio Oriente. Gli yazidi affermano di essere stati esposti a un'ondata di 74 attacchi genocidi per mano dei musulmani. L'ultimo, iniziato nel 2014, ha avuto conseguenze devastanti che le vittime continuano ancora oggi a vivere sulla propria pelle.
Durante l'occupazione di Sinjar, i terroristi dello Stato Islamico hanno ucciso migliaia di yazidi perpetrando vere e proprie esecuzioni capitali o lasciandoli deliberatamente morire di fame e di sete.
Altre migliaia di donne e bambini yazidi sono stati rapiti, violentati e trasformati in schiavi del sesso. A Sinjar, ci sono ancora più di 80 fosse comuni contenenti corpi di yazidi in attesa di essere portate alla luce. E più di 2.600 donne e minori yazidi rapiti aspettano ancora oggi di essere salvati dalle mani dei terroristi dell'ISIS. Più di 180 mila yazidi sono senza casa e cercano di sopravvivere nei campi profughi nel Kurdistan iracheno.
Ragazze e donne yazide sono state brutalizzate dai terroristi dell'ISIS. Le adolescenti rapite dai terroristi dello Stato islamico in Iraq e in Siria sono state vendute nei mercati degli schiavi "per meno di un pacchetto di sigarette", ha affermato l'inviata delle Nazioni Unite per i crimini sessuali nella zone di conflitto, Zainab Bangura.
Nel 2015, Radio Free Europe/Radio Liberty riportava quanto segue:

    "'Quando conquistano le aree territoriali rapiscono le donne, pertanto, hanno... no, non voglio definirle una nuova fornitura, hanno nuove ragazze', ha dichiarato la Bangura. Le ragazze vengono vendute 'per meno di un pacchetto di sigarette' o per diverse centinaia di dollari, fino ad arrivare a un migliaio di dollari.
    "Dopo aver attaccato un villaggio, l'ISIS separa le donne dagli uomini, giustiziando questi ultimi e tutti i ragazzi di età superiore ai 14 anni. Ragazze e madri vengono divise, le ragazze denudate, testate per la verginità, esaminate per le dimensioni del seno e classificate per la bellezza. Le vergini più giovani, e quelle considerate più belle, ottengono prezzi più alti e inviate a Raqqa, roccaforte dell'ISIS.
    "In base alla gerarchia dello Stato Islamico, gli sceicchi hanno la prima scelta, seguiti dagli emiri e poi dai miliziani. Spesso se ne prendono tre o quattro ciascuno e le tengono un mese o giù di lì, fino a quando non si stufano e le rispediscono al mercato. Le schiave vengono vendute all'asta, gli acquirenti mercanteggiano sul prezzo, deprezzando il prezzo se le ragazze sono piatte o poco attraenti.
    "'Abbiamo saputo di una ragazza che è stata venduta 22 volte e di un'altra, fuggita una prima volta, che ci ha raccontato che uno sceicco dopo averla riacciuffata le ha scritto il suo nome sul dorso della mano per mostrare che lei era di sua proprietà', ha detto Bangura".

Il trattamento delle donne yazide, in particolare, è stato caratterizzato da disprezzo e ferocia, ha affermato l'inviata dell'ONU.

    "Vengono commessi stupri, schiavitù sessuale, prostituzione forzata e altri atti di estrema brutalità", ha raccontato Bangura. "Siamo venuti a conoscenza del caso di una ragazza di 20 anni che è stata bruciata viva perché si era rifiutata di compiere un atto sessuale estremo".

In un'intervista al Gatestone Institute, Pari Ibrahim, direttore esecutivo della Free Yezidi Foundation, ha dichiarato:

    "Non è stato compiuto alcuno sforzo a livello mondiale per aiutarci a identificare e riportare a casa gli oltre 2600 yazidi rimasti dispersi per dieci anni dopo l'inizio del genocidio yazida da parte dell'ISIS. Sappiamo che molti dei dispersi potrebbero essere già morti, ma alcuni sono ancora in vita. Si trovano nel campo di Al Hol, in altre parti della Siria e in alcune zone della Turchia. La comunità internazionale si è però arresa, ma noi della comunità yazida non possiamo arrenderci.
    "Sappiamo che molti si trovano in alcune parti della Turchia. Questo perché, purtroppo, la Turchia si è trasformata in un rifugio sicuro per i membri dello Stato Islamico. Probabilmente è l'unico posto, al di fuori di alcune aree della Siria e dell'Iraq, dove si possono trovare miliziani dell'ISIS. Sappiamo anche che alcuni sopravvissuti si trovano in varie località della Siria e nel campo di Al Hol, ma attualmente non disponiamo di informazioni su quanti siano vivi e quanti altri siano stati già uccisi, e informazioni del genere richiedono molto impegno e duro lavoro. Purtroppo, il resto del mondo ha fatto poco per aiutare. Credo che la società civile yazida, inclusa la mia organizzazione e altre, potrebbero fare dei progressi su questo argomento se gli interlocutori di tutto il mondo potessero darci una mano. Credo che qualcuno si preoccupi di questo e ci sono alcuni individui che danno il loro contributo, tra cui qualcuno in Iraq e in Siria, ma il più delle volte la comunità internazionale ha pressoché ignorato gli yazidi scomparsi".

Mentre gran parte del mondo ha abbandonato le vittime yazide e cristiane dell'ISIS, alcune organizzazioni e individui sono rimasti al loro fianco. Uno di questi è l'imprenditore canadese Steve Maman, un ebreo di origine marocchina e fondatore della The Liberation of Christian and Yazidi Children of Iraq (CYCI Foundation).
Grazie ai suoi sforzi per aiutare a salvare gli yazidi e i cristiani dalla prigionia dell'ISIS, Maman è diventato noto come "lo Schindler ebreo". L'imprenditore ha documentato le storie di 25 mila vittime yazide e cristiane dello Stato Islamico, prestando loro aiuto e contribuendo alla liberazione di 140 prigionieri yazidi in Iraq nonostante le enormi sfide e i grandi ostacoli affrontati.
Steve Maman, partecipando a un panel di relatori ed esperti internazionali nell'ambito della conferenza "The Global Women's Coalition Against Gender-Based Violence as a Weapon of War", tenutasi il 20 maggio alla Knesset, il Parlamento israeliano, ha detto nel suo discorso:

    "Dopo il 7 ottobre, i media hanno soppresso la vostra storia [di israeliani], arrivando addirittura a sostenere che i [raccapriccianti] fatti non sono mai accaduti, mentre altri li hanno giustificati come necessaria resistenza all'oppressione israeliana. Qualcuno per favore mi dica dove i bambini che sono stati legati e sgozzati costituiscono una resistenza necessaria. L'integrità dei fatti e della verità è stata compromessa, mentre la bussola morale ha puntato in un'altra direzione. Viviamo in un'epoca in cui le persone intelligenti vengono messe a tacere in modo che quelle stupide non vengano offese. C'è un modello deliberato e riconoscibile in gioco qui.
    "I media stanno attivamente sopprimendo i fatti del 7 ottobre per riscrivere la storia secondo la narrazione da loro scelta. Il problema sta nel fatto che la difficile situazione di un ebreo deceduto non cattura l'attenzione delle masse come fanno le storie sensazionalistiche. Per loro, tutto si riduce a likes, visualizzazioni ed introiti.
    "[Il 7 ottobre], durante quegli stupri hanno avuto luogo umiliazioni, mutilazioni e omicidi. Donne stuprate davanti ai loro cari e poi uccise. Coltelli conficcati nelle loro parti intime. Teste scalpate. Chiodi inseriti nelle vagine delle donne. Un dolore indescrivibile deve aver avuto luogo prima della morte. E altro ancora. Ho visto le foto e i video reali. Attaccare persone innocenti e sottoporre ostaggi alla tortura non è un atto di lotta per la libertà né costituisce una guerra degna della collaborazione da parte di coloro che sopprimono la verità in merito a tale violenza disumana.
    "L'obiettivo di Hamas era quello di causare immenso dolore e sofferenza nel perseguimento del suo jihad, consentendo agli orrori di rimanere impressi nella nostra memoria collettiva e nella nostra storia. Il loro successo garantisce che quanto accaduto sarà raccontato per le generazioni a venire. La risposta globale alle vittime dell'Islam radicale è stata costantemente caratterizzata dal silenzio, consentendo che tali atrocità continuassero impunite, perpetuando un ciclo di violenza".

I relatori della conferenza, organizzata dal membro della Knesset Shelly Tal Meron, hanno ascoltato le testimonianze dei familiari degli ostaggi che hanno condiviso storie di violenza sessuale. Il Jerusalem Post ha riportato:

    Sasha Ariev, la cui sorella minore Karina è tenuta in ostaggio a Gaza, ha parlato del terrore che prova nel disconoscere le condizioni della sorella e di essere a conoscenza delle violenze sessuali in corso nella prigionia di Hamas: "Non abbiamo informazioni sullo stato di salute attuale di Karina, ma siamo consapevoli che la violenza sessuale, compreso lo stupro, viene perpetrata sugli ostaggi. Chiedo a tutti voi, in ogni parte del mondo, di unirvi nel dichiarare che l'uso della violenza sessuale come arma di guerra è inaccettabile e che Hamas deve rilasciare immediatamente tutti gli ostaggi: donne, uomini e bambini.

Simona Steinbrecher, la madre di Doron, 30 anni, anche lei presente alla conferenza, ha detto al panel che sua figlia "ha bisogno di farmaci quotidiani, che probabilmente non riceve". Ha asserito che gli ostaggi liberati hanno parlato di mancanza di privacy, anche nell'utilizzo del bagno e nel fare la doccia, e di una stretta sorveglianza 24 ore su 24, sette giorni su sette.
Mandy Damari, la cui figlia Emily, 27 anni, è ancora prigioniera, ha espresso i suoi timori per lo stato psicologico di Emily:

    "Mi chiedo quali pensieri attraversino la mente di Emily sotto il totale controllo delle sue guardie terroristiche, sapendo che le potrebbe accadere da un momento all'altro qualcosa se loro volessero. Che tipo di minaccia psicologica o fisica di reale tortura sessuale e terrore sta subendo? Ne so abbastanza da rendermi conto che ciò che sta vivendo non sarà mai cancellato dalla sua memoria".

Shari Mendes, che faceva parte di una squadra forense che ha esaminato i corpi delle donne uccise il 7 ottobre ha dichiarato che è "chiaro che queste donne sono morte agonizzando".

    "A volte è stato loro sparato un colpo di arma da fuoco alla testa ma non c'era traccia di sangue, pertanto, probabilmente sono state colpite dopo la morte. Sembra che si sia voluto intenzionalmente distruggere i volti di queste donne, cancellarli, in modo che i loro genitori o i loro cari non potessero riconoscerle".

In un articolo apparso sul Jerusalem Post, Mendes ha parlato dello sdegno che ha provato a causa del fatto che nei confronti delle donne israeliane non è stata mostrata quella stessa empatia, rabbia e preoccupazione globale riservate alle altre donne, affermando che "l'indignazione [era evidente in] tutti i precedenti casi di violenza sessuale commessi nel mondo". La Mendes ha scritto:

    "Noi donne israeliane siamo rimaste stupite del silenzio della maggior parte delle nostre sorelle [in tutto il mondo]. La maggior parte dei gruppi che si battono per i diritti delle donne deve ancora condannare la violenza perpetrata lo scorso 7 ottobre contro le nostre madri, figlie, zie, cugine, nonne e vicine di casa. Solo in questo caso, nella recente storia della sorellanza moderna, noi donne israeliane siamo state abbandonate: siamo sole. Anche se ho marciato per sostenere i diritti delle donne, la maggior parte delle donne rimaste in silenzio in tutto il mondo ora non riesce né a vedere me né il nostro dolore. Alcune arrivano addirittura a negare che la violenza sessuale sia avvenuta anche qui. È difficile comprendere il livello di odio necessario per rinunciare alla sorellanza, soprattutto in un momento in cui noi donne israeliane (di tutte le religioni, tra l'altro) ne abbiamo più bisogno".

Nonostante gli orrori vissuti dalle donne ebree, cristiane e yazide per mano dei jihadisti dell'ISIS, di Hamas, della Jihad Islamica e di Fatah, la maggior parte delle organizzazioni per i diritti delle donne in Occidente è rimasta apatica e in silenzio. Purtroppo, nessuna attivista è scesa nelle strade per far sentire la propria voce e denunciare la condizione di quelle donne e quei minori non musulmani che sono stati e continuano ad essere violentati, straziati e tenuti in ostaggio da uomini musulmani. Per quanto riguarda il gran numero di donne israeliane che sono state brutalmente stuprate il 7 ottobre dai terroristi di Hamas e dai loro sostenitori, molte organizzazioni per i diritti delle donne hanno totalmente ignorato l'atrocità di tali abusi, rifiutandosi di credere alle donne israeliane e a tutte le prove davanti ai loro occhi. Nel caso di altre organizzazioni, ci sono voluti mesi per rilasciare una semplice dichiarazione che condannasse gli stupri e le aggressioni sessuali contro gli israeliani.
I veri difensori dei diritti delle donne non discriminerebbero le vittime in base alla loro religione o etnia e avrebbero documentato quei casi di stupro di massa e tortura sessuale. Purtroppo è avvenuto il contrario.
Grazie al silenzio totale o all'apatia di quelle organizzazioni nel condannare gli stupri, i propagandisti anti-israeliani hanno costruito una narrazione pro-Hamas e hanno facilmente indotto gran parte dell'opinione pubblica a ignorare o negare che la guerra di Israele contro gli stupratori e gli assassini di Hamas è necessaria per salvare più di 250 ostaggi.
L'odio verso Israele da parte di questi gruppi ha reso questi ultimi indifferenti alle sofferenze delle donne che sono ebree. Di fatto, il loro silenzio e la loro negazione non hanno fatto altro che nascondere e favorire i crimini di Hamas e di altri gruppi terroristici. Nell'aprile scorso, la ONG CyberWell ha pubblicato un report sulla diffusa negazione online della violenza sessuale perpetrata da Hamas il 7 ottobre. Man mano che la documentazione riguardante le aggressioni sessuali contro gli israeliani continuava ad affluire dopo il 7 ottobre, scrive la professoressa Stacy Keltner, le organizzazioni internazionali sono rimaste misteriosamente in silenzio. La Women's Alliance for Security Leadership, ad esempio, non ha ancora rilasciato alcuna dichiarazione.
Numerosi gruppi per i diritti umani e femministi, come Amnesty International e l'Organizzazione Nazionale per le Donne, hanno detto poco in merito ai crimini sessuali commessi dagli abitanti di Gaza contro gli israeliani. L'Entità delle Nazioni Unite per l'Uguaglianza di Genere e l'Empowerment femminile (nota anche come UN-Women) ha aspettato fino al 1° dicembre, quasi due mesi dopo il massacro del 7 ottobre, per rilasciare una superficiale dichiarazione di condanna.
Tra le altre cose, il 13 ottobre, UN-Women ha diffuso una dichiarazione in cui equipara le brutalità di Hamas all'autodifesa di Israele. Allo stesso modo, il Comitato delle Nazioni Unite per l'Eliminazione della Discriminazione contro le Donne (CEDAW) non ha esplicitamente condannato le atrocità di Hamas. E il movimento internazionale #MeToo non ha assolutamente menzionato Hamas né le vittime israeliane. Per le altre organizzazioni che sono rimaste in silenzio o hanno speso pochissime parole in merito agli stupri degli israeliani da parte dei terroristi palestinesi, si veda questo report.
Quando si tratta di donne israeliane vittime di abusi e stupri, le organizzazioni per i diritti delle donne e i diritti umani hanno scelto di stare dalla parte degli stupratori e degli assassini e di favorire il terrorismo jihadista.

*Uzay Bulut, una giornalista turca, è Distinguished Senior Fellow presso il Gatestone Institute.

(Gatestone Institute, 11 luglio 2024 - trad. di Angelita La Spada)

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Attacchi alla Shoah

di Giulio Meotti

Un sondaggio condotto su ottomila ebrei provenienti da tredici paesi europei ha rilevato che il 96 per cento degli intervistati dice di incontrare l’antisemitismo nella propria vita quotidiana, ha riferito l’Agenzia per i diritti fondamentali della Ue, che ha condotto il più approfondito sondaggio dopo il 7 ottobre. Il 76 per cento degli intervistati ha riferito di nascondere la propria identità ebraica “almeno occasionalmente” e il 34 per cento di evitare eventi o siti ebraici “perché non si sente sicuro”. Intanto ogni giorno si assalta un simbolo della Shoah.
  A maggio, il muro dei Giusti presso il Memoriale dell’Olocausto di Parigi è stato vandalizzato con le mani rosse, riferimento diretto al massacro da parte della folla palestinese di due riservisti israeliani a Ramallah il 12 ottobre 2000, all’inizio della Seconda intifada. Ieri, rettangoli gialli con scritto “Palestina libera” sono stati attaccati sulla targa che ricorda la deportazione di diciannove bambini ebrei da Saint-Denis ad Auschwitz-Birkenau. “La profanazione di un monumento commemorativo è di una gravità senza precedenti”, ha reagito il sindaco Mathieu Hanotin. “Saint-Denis è una città multiculturale”. Una scritta in vernice rossa, “Gaza”, è stata lasciata sul piedistallo in marmo della statua di Anne Frank nel parco del quartiere in cui viveva con la famiglia ad Amsterdam. “Davvero vergognoso che qualcuno pensi di attirare l’attenzione sulla causa palestinese imbrattando l’immagine di Anne Frank”, ha dichiarato Stijn Nijssen, consigliere della città olandese.
  Nelle scorse settimane, anche il memoriale della Shoah di Berlino veniva vandalizzato, mentre sempre ad Amsterdam migliaia di manifestanti in nome di Gaza e della “pace” assediavano con mezzi poco pacifici il nuovo museo della Shoah e fischiavano il re dei Paesi Bassi e il presidente israeliano Isaac Herzog. Una conferenza in Olanda nel campo di transito nazista di Westerbork è stata cancellata a causa delle minacce. A Londra, a Hyde Park, la polizia ha coperto con un grande telo blu la stele commemorativa della Shoah per timore di attacchi, come è successo alla statua di Winston Churchill davanti a Westminster. Sempre a Berlino, la cupola di al Aqsa di Gerusalemme è stata disegnata sul monumento al Kindertrasnport, che commemora il salvataggio di diecimila bambini ebrei dalla Germania nazista. A Fléron, in Belgio, ecco comparire la scritta “Gaza Free” sulla porta di casa di un sopravvissuto alla Shoah. Lo stesso avviene negli Stati Uniti, da Philadelphia a Seattle, dove il museo dell’Olocausto è stato vandalizzato con la scritta “genocidio a Gaza”.
  Non è occasionale vandalismo, è una strategia di brutalizzazione e appropriazione dello sterminio degli ebrei dopo il 7 ottobre. E’ come quando gli ayatollah iraniani negano la “menzogna” della Shoah per annunciare la distruzione del “tumore sionista”. Lo ha scritto sui social l’ex presidente della Malesia, Mahathir Mohamad: “Il potere degli israeliani sui palestinesi è lo stesso che avevano i nazisti sugli ebrei”.
  Chiunque sappia qualcosa di Shoah deve impegnarsi molto per trovare paralleli con Gaza. Ma il consigliere Nijssen si sbaglia: un’immagine di Anne Frank con la kefiah palestinese è molto popolare in Europa. E’ sufficiente scorrere quanto ha scritto la stampa dopo il 7 ottobre. “Ricordiamo la Shoah pensando a Gaza” (il Secolo XIX), “La Shoah dopo Gaza” (London Review of Books), fino ai vari circoli dell’Anpi che organizzano convegni su “Shoah e genocidio a Gaza”. Non offende il volto di Anne Frank negli account di X del Bds, il boicottaggio di Israele. O il film palestinese “Anne Frank: then and now”, proiettato durante la guerra a Gaza del 2014.
  Il fallimento dell’educazione sulla Shoah è stato osservato con maggiore acutezza da Dara Horn, in particolare in un saggio preveggente per l’Atlantic la scorsa primavera e prima ancora in un libro, People Love Dead Jewish, la gente ama gli ebrei morti (ora neanche quelli, a quanto pare). Dopo aver visitato numerosi musei e aver parlato con gli educatori che insegnano i programmi sulla Shoah, Horn concludeva: “Il presupposto fondamentale che dura da quasi mezzo secolo è che conoscere l’Olocausto vaccina le persone contro l’antisemitismo. Ma non è così”. Per questo attaccano i memoriali in Europa. Se Anne Frank fosse viva, non potrebbe oggi girare con una stella di David al collo per le vie di Amsterdam e di molte altre città europee.
  Fra le vignette premiate dal regime iraniano, una mostra Anne Frank a letto con Hitler, che le dice: “Scrivi questo nel tuo diario”.

Il Foglio, 12 luglio 2024)

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Chukkàt: Il momento storico fu sprecato

di Donato Grosser

Arrivati a Kadèsh, il popolo si lamentò con Moshè e Aharon per mancanza d’acqua dicendo: “Perché avete condotto il popolo dell’Eterno in questo deserto per fare morire noi e il nostro bestiame?” (Bemidbàr, 20:4). L’Eterno parlò con Moshè e gli disse di prendere il suo bastone e di andare con Aharon a parlare alla roccia e di farne uscire acqua alla presenza del popolo. Arrivati alla roccia Moshè disse al popolo: “Ora ascoltate, o ribelli; vi faremo uscire dell’acqua da questa roccia? E Moshè alzò la mano, percosse la roccia col suo bastone due volte, e ne uscì acqua in abbondanza; e la comunità e il suo bestiame bevvero. Poi l’Eterno disse a Moshè e ad Aharon: Siccome non avete avuto fiducia in me per dar gloria al Mio santo nome agli occhi dei figli d’Israele, voi non condurrete questa comunità nel paese che do a loro”(ibid., 10-12).
  Nella Torà non è specificato quale fu la mancanza di Moshè e di Aharon che fu causa della grave punizione di non entrare nella Terra Promessa. Così tutti i commentatori offrono diverse spiegazioni.
  Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che la mancanza di Moshe e di Aharon fu di colpire col bastone invece di parlare alla roccia. Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo), sostiene che la mancanza di Moshè fu di adirarsi con il popolo. R. Chananel (Tunisia, 990-1053) afferma che il peccato fu di dire “faremo” invece di dire “Il Signore farà uscire acqua da questa roccia”. R. Bachya ben Asher (Spagna, 1255–1340) sostiene che le spiegazioni fornite da questi commentatori non sono soddisfacenti. Ed egli trova modo di giustificare il comportamento di Moshè e di Aharon.
  R. Yechiel Ya’akov Weinberg (Polonia, 1884-1966, Montreux) in Lifrakìm (pp. 74-84) cita una lezione del suo maestro, r. Nathan Tzvi Finkel (Lituania, 1849-1927, Gerusalemme) fondatore della Yeshiva di Slobodka e influente insegnante di etica ebraica. Per gettare un po’ di luce sull’episodio egli cita i Maestri che nel trattato talmudico Yevamòt (121b) affermano che il Santo Benedetto è assai esigente con i giusti che gli sono vicini, così che anche lievi deviazioni possono suscitare una severa punizione. La punizione di Moshè e di Aharon non derivava da quello che avevano fatto, ma dall’aver perduto l’opportunità di far meglio e di avere un effetto sulla storia futura.
  Citando la lezione di r. Finkel, r. Weinberg scrive: Immaginiamo per un momento se Moshè, non appena il popolo avesse iniziato a lamentarsi, fosse uscito di fretta e avesse detto al popolo: ascoltatemi miei cari fratelli. Il Santo Benedetto ha visto la vostra sofferenza; mi ha rimproverato per il fatto che non sono uscito da voi prima per annunciare che la salvezza dell’Eterno arriva in un attimo. Presto avrete acqua in abbondanza per voi, per i vostri figli e per il vostro bestiame. Se Moshè avesse fatto così gli israeliti avrebbero iniziato a danzare di gioia e avrebbero circondato il loro fedele leader baciandogli le mani e gli angoli della sua tunica. Dopo avere bevuto e avere calmato la figliolanza, il leader fedele si sarebbe avvicinato a loro dicendo: cari fratelli, ora ringraziamo l’Eterno per la sua benevolenza. Hodu’ laShem ki tov ki le’olam chasdò (Lodate l’Eterno perché è buono, perché perenne è la Sua bontà). Gli anziani ed il popolo sentendo queste parole dalla bocca del grande profeta si sarebbero prostrati a terra dicendo: Benedetto il Nome del Suo glorioso regno in eterno. Queste voci sarebbero arrivate fino in cielo e avrebbero avuto un effetto su tutti gli abitanti della terra, se Moshè nostro maestro avesse fatto così…
  Ma Moshè non fece così e questo grande momento storico fu sprecato.

(Shalom, 12 luglio 2024)
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Parashà della settimana: Chukat (Decreto)

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Israele – Ancora missili ma si guarda al dopo-Hamas

A nord e al sud d’Israele sono tornati a suonare gli allarmi antimissile. Nel kibbutz Kabri, nella Galilea occidentale, un drone di Hezbollah è esploso ferendo gravemente una persona. Nel sud Hamas ha sparato da Rafah, uno dei luoghi al centro delle operazioni di Tsahal, sette razzi contro Israele. Sono stati tutti intercettati e la postazione di lancio è stata distrutta, ha reso noto l’esercito.
  In questo quadro di guerra – il 279esimo giorno –, qualche spiraglio per una tregua arriva dai negoziati indiretti tra Gerusalemme e Hamas. Le parti hanno trovato un’intesa su un punto centrale del piano in tre fasi per il cessate il fuoco: il controllo di Gaza. Secondo l’analista del Washington Post David Ignatius, nella seconda fase la gestione della sicurezza sarà affidata a una nuova forza palestinese, sostenuta da alcuni paesi arabi moderati, composta da 2500 uomini legati all’Anp e verificati da Israele. Sarebbe un cambiamento radicale per l’enclave, in mano a Hamas dal colpo di stato del 2007. L’intesa su questo punto, avverte Ignatius, è un passo avanti, ma ci sono ancora molti ostacoli per arrivare alla tregua in cambio del rilascio degli ostaggi.
  Una soluzione apertamente auspicata dal capo delle forze armate israeliane Herzi Halevi. Un accordo per riportare a casa i rapiti, ha affermato, «incarna i valori fondamentali di una società che dà valore alla vita». Intervenendo a una cerimonia presso l’accademia militare di Gerusalemme, Halevi si è soffermato sulla complessità del conflitto a Gaza. «È una guerra diversa dalle altre, contro un’idea estremista e distruttiva, che ha origine in Iran e nelle sue ambizioni di cancellare Israele, con i suoi alleati che si estendono intorno a noi». Per sconfiggere gruppi terroristici «che santificano la morte e si nascondono tra la popolazione» servono operazioni «prolungate, che devono essere gestite con determinazione, pazienza e una visione globale delle risorse militari e civili» in campo. Secondo Halevi sarà possibile sconfiggere «l’ideologia di Hamas smantellando i suoi meccanismi militari e governativi. La vittoria sarà ottenuta attraverso partenariati regionali e globali a lungo termine, con chi capisce che l’Iran» è una minaccia per tutti.
  In questo futuro, in particolare a Gaza, Israele vorrebbe vedere ridotta, se non smantellata la presenza dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i palestinesi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu lo ha auspicato a più riprese, in particolare dopo aver denunciato come diversi dipendenti dell’agenzia siano affiliati a organizzazioni terroristiche. Dall’Unrwa sono arrivate smentite, ma negli scorsi giorni il ministero degli Esteri israeliano ha inviato al capo dell’agenzia, Philippe Lazzarini, una documentazione con i nomi di 108 persone legate a Hamas e Jihad islamica. «Israele si aspetta da voi e dalla vostra organizzazione di porre immediatamente fine all’impiego di qualsiasi membro di Hamas o Jihad islamica, compresi gli individui specifici che appaiono nella lista allegata», si legge nella lettera diffusa in queste ore dai media israeliani.

(moked, 11 luglio 2024)

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«Con il Fronte popolare al governo gli ebrei rischiano persecuzioni»

La comunità romana in ansia per la Francia. Dati allarmanti anche nel nostro Paese

di Matteo Ghisalberti

I cittadini francesi di religione ebraica sono sempre più preoccupati per l'evoluzione della situazione politica d'Oltralpe dopo le elezioni legislative anticipate. Anche in Italia ci sono segni di inquietudine, in particolare nella comunità ebraica di Roma. Ieri su Radio Libertà, Johanna Arbib, assessore ai rapporti internazionali della comunità ebraica di Roma, ha evocato i rischi che corrono gli ebrei di Francia nell'eventualità che nasca un governo guidato o formato anche dall'estrema sinistra del Nuovo fronte popolare. «Dopo l'affermazione alle urne di Jean-Luc Mélenchon gli ebrei vivono con grande timore», ha dichiarato Arbib. «Mélenchon al potere oggi per un ebreo in Francia crea un grande problema. Domenica sera abbiamo visto in piazza più bandiere palestinesi che francesi e questo non va bene. Credo che dobbiamo prepararci, e anche Israele si deve preparare. Nei prossimi mesi ci sarà un'emigrazione in massa di ebrei dalla Francia verso Israele». Secondo l'esponente della comunità ebraica romana, ci sono dei precedenti che lasciano pensare che la partenza degli ebrei dalla Francia rappresenterebbe un terremoto per il Paese. «In Nord Africa», ha dichiarato ancora Arbib, «c'erano oltre un milione di ebrei. Oggi non ce ne sono più, e dopo la partenza delle comunità ebraiche questi Paesi sono caduti nell'abisso. E’ questo che si rischia: se parte la comunità ebraica francese, la Francia cade nell'abisso. E’ importante che la comunità ebraica sia salda, aiuta il Paese, fa da deterrente».
  I timori di Johanna Arbib sono stati confermati a La Verità da Arié Bensemhoun, ceo di Elnet France, un' organizzazione attiva nell'ambito della collaborazione tra vari Paesi europei e Israele. «Per gli ebrei francesi la situazione è peggiorata già dall'inizio degli anni 2000, con la seconda Intifada e il World Trade Center», spiega Bensemhoun, anche se «dopo i massacri del 7 ottobre 2023, il numero degli atti antisemiti o contro le comunità ebraiche è stato moltiplicato per 1000. Questi atti sono compiuti da persone di estrema sinistra». Secondo il ceo di Elnet France i cittadini francesi di religione ebraica «hanno l'impressione di rivivere ciò che abbiamo vissuto negli anni Venti e Trenta», e quindi decidono di lasciare il Paese. Ma Bensemhoun avverte: «Si dice che dopo il sabato c'è la domenica. Ciò significa che prima si attaccano gli ebrei e poi gli altri». Il responsabile di Elnet usa una metafora preoccupante. «Gli ebrei possono essere paragonati al canarino della miniera», spiega a La Verità, «i minatori tenevano questi uccellini in gabbia perché percepivano le emissioni di gas tossici prima dell'uomo. Quindi se il canarino moriva, i minatori capivano che dovevano andarsene in fretta. Gli ebrei hanno memoria e non possono più fidarsi delle autorità che non sono più in grado di garantire la pace sociale e la sicurezza delle persone. In ogni caso non sono solo gli ebrei a partire per Israele e a fare l'Alyah».
  Bensemhoun pensa che dopo che gli ebrei se ne saranno andati «assisteremo a una fuga delle élite. Anche loro lasciano la Francia perché si chiedono cosa si potrebbe fare con un governo composto da persone di estrema sinistra come queste». Il nostro interlocutore è convinto però anche di un'altra cosa: «Sono tanti gli ebrei in partenza per Israele o altrove, ma non intendiamo abbassare la testa».
  Tornando all'Italia, ieri a Roma sono stati presentati davanti alla Commissione Segre i dati che confermano un aumento impressionante di atti antisemiti nel nostro Paese dopo il 7 ottobre, che passano da 98 a 406. Sempre ieri la senatrice Liliana Segre ha rilasciato un'intervista al quotidiano Frankfurter Allgemeine dichiarando che il premier Giorgia Meloni «ha capito di aver sbagliato su Fanpaqe».

(La Verità, 11 luglio 2024)

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Servizio militare: il rabbino Dov Landau ordina agli ultraortodossi di "non recarsi agli uffici di reclutamento”

"I tribunali hanno dichiarato guerra al mondo della Torah, e sono loro che hanno aperto un fronte e sono venuti a cambiare un accordo che esiste da anni", scrive il rabbino

Il rabbino Dov Landau , uno dei principali leader degli ebrei ultraortodossi ashkenaziti in Israele, ha chiesto agli studenti delle yeshiva di non "presentarsi agli uffici di reclutamento dell'IDF".
  L'ordine di Landau appare sulla prima pagina dell'edizione odierna di Yated Ne'eman, un giornale affiliato alla fazione non hassidica Degel HaTorah del partito Unified Torah Judaism, un partner chiave della coalizione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.
  I tribunali hanno dichiarato guerra al mondo della Torah, e sono loro che hanno aperto un fronte e sono arrivati a cambiare un accordo che esisteva da anni, ordinando all'esercito di iniziare il processo di reclutamento effettivo dei membri delle yeshiva", scrive il rabbino, riferendosi alla recente sentenza della Corte Suprema.
  Aggiunge che "poiché le mani dell'esercito sono legate con catene di ferro dai giudici, e poiché qualsiasi adeguamento agli ordini del tribunale equivale a una capitolazione [dei giovani, ndt] nella guerra [dei giudici, ndt] contro Dio e la sua Torah, ai membri delle yeshiva è stato ordinato di non recarsi affatto agli uffici di reclutamento e di non rispondere a nessuna convocazione".

(i24, 11 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il generale Angelosanto alla Commissione Segre: “Casi di antisemitismo aumentati del 400%. Odio antiebraico minaccia alla sicurezza nazionale”

di Luca Spizzichino

“La minaccia antisemita mira a colpire una parte della popolazione, la minoranza ebraica, incidendo sulla coesione politico-sociale fino a mettere a rischio i principi fondamentali della Repubblica garantiti dalla costituzione, come l’esercizio dei diritti del cittadino”. Con queste parole il generale Pasquale Angelosanto, Coordinatore Nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, ha definito di fronte alla “Commissione Segre” la recente recrudescenza dell’odio antiebraico.
  Nel corso del suo intervento, l’ex comandante dei ROS dei Carabinieri, ha illustrato i vari dati in merito, citando in particolare i numeri dell’OSCAD, l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori del Viminale, e del CDEC, il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. “Dal 7 ottobre sono stati segnalati 406 casi di antisemitismo a fronte dei 98 del periodo precedente, i casi sono quadruplicati, aumentati del 400%” ha affermato il coordinatore, sottolineando che in media si stanno registrando circa 90 casi al mese, contro i 20 cristallizzati nel passato. E ancora, cita i dati sul sentimento antisemita nella nostra società. Secondo il CDEC, “un quinto della popolazione italiana è antisemita”. Mentre secondo la ricerca fatta da Eurispes: il 16% degli intervistati sminuisce la portata della Shoah, il 14% la nega. Di fatto, “Il 30% di italiani minimizza la Shoah”, ha aggiunto il generale.
  Il Coordinatore Angelosanto ha inoltre spiegato che “in tempi celeri” verrà presentato il suo piano per contrastare l’antisemitismo puntando in particolare su una migliore raccolta dei dati, concependo “un sistema analitico innovativo, un unico punto di raccolta delle informazioni per ricomporre un’analisi di scenario in grado di elaborare un quadro complessivo da sottoporre al decisore politico insieme a varie opzioni di intervento”.
  Per fronteggiare al meglio il crescente clima d’odio, ha sottolineato Angelosanto, è importante considerare l’antisemitismo come un attentato ai fondamenti della Repubblica. Questo, spiega, darebbe “una maggiore concretezza al contrasto dell’antisemitismo, perché dichiarare che è una questione di sicurezza nazionale significa attribuirle una importanza centrale per lo Stato, che quindi dovrebbe adottare provvedimenti adeguati e strumenti repressivi per combattere questa minaccia”.
  Al termine dell’audizione ha preso la parola anche la senatrice a vita Liliana Segre. “Quello che mi resta, nel più profondo di me stessa, è un’angoscia che non si ferma mai, uno scoramento profondo. – ha commentato la sopravvissuta alla Shoah – Dopo un secolo c’è un’ignoranza profonda della storia che non mi fa dormire”.

(Shalom, 11 luglio 2024)

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Dopo il 7 ottobre la maggioranza degli israeliani all'estero è affetta da sintomi di PTSD

Secondo uno studio dell'Università di Haifa, oltre il 66% degli israeliani che vivono all'estero soffre di disturbo post-traumatico da stress, con gli intervistati in Italia e nel Regno Unito che sono i più colpiti.

Due israeliani su tre che vivono all'estero hanno sofferto di sintomi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) nei due mesi successivi allo scoppio della guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza, secondo uno studio pubblicato martedì dall'Università di Haifa.
  Secondo lo studio, redatto dai dottori Yael Mayer e Yael Enav, più del 66% degli israeliani che vivono all'estero soffre di stress post-traumatico, con gli intervistati in Italia e nel Regno Unito che soffrono maggiormente di ansia.
  Alla domanda sulle ragioni della loro ansia, il 43% degli intervistati ha dichiarato di essere preoccupato per il benessere dei propri parenti in Israele che hanno prestato servizio nell'IDF, mentre il 33% si è detto preoccupato per la propria famiglia in generale.
  Altri studi citati dagli autori mostrano che le cifre sono molto più basse per gli israeliani che vivono nel Paese. Qui, rispettivamente, solo il 15% e il 35% ha dichiarato di aver accusato sintomi di disturbo da stress post-traumatico dopo il 7 ottobre.
  Lo studio ha anche rilevato che il 91% degli israeliani residenti all'estero si è trovato di fronte a dichiarazioni anti-israeliane e antisemite nei due mesi successivi al 7 ottobre. Il 66% ha dichiarato di aver avuto paura di recarsi in alcuni luoghi riconoscibili come ebraici o israeliani. Il 56% ha dichiarato di temere per la propria sicurezza e per quella dei propri figli e il 40% ha affermato di sentirsi insicuro a scuola o al lavoro a causa della propria identità israeliana.
  "Il nostro studio dimostra che molti israeliani che vivono all'estero provano una serie di sentimenti complessi legati agli eventi del 7 ottobre e alle loro conseguenze, e molti di loro riferiscono alti livelli di traumatizzazione che superano persino alcuni dati di studi condotti su israeliani nel Paese", hanno dichiarato gli autori dello studio.
  Lo studio, condotto due mesi dopo l'inizio della guerra e che ha coinvolto 506 persone, non ha riportato un margine di errore. (JNS)

(Israel Heute, 11 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il boicottaggio contro Israele si allarga e comincia a pesare

di Anat Peled 

Anni di campagne pro-palestinesi per un boicottaggio globale contro Israele hanno trovato un sostegno limitato. Ma nei mesi successivi all’inizio della guerra a Gaza, il sostegno all’isolamento di Israele è cresciuto e si è allargato ben oltre lo sforzo bellico di Israele.
Il cambiamento ha il potenziale di alterare lo sviluppo israeliano, danneggiare le imprese e pesare sull’economia di un Paese di nove milioni di persone che dipende dalla cooperazione internazionale e dal sostegno per la difesa, il commercio e la ricerca scientifica.
Quando a fine maggio un comitato etico dell’Università di Gand in Belgio ha raccomandato di interrompere tutte le collaborazioni di ricerca con le istituzioni israeliane, il biologo computazionale israeliano Eran Segal non se l’aspettava.
Le scienze avevano avuto un impatto limitato dai movimenti di boicottaggio globali, anche a mesi dall’inizio della guerra, e il lavoro di Segal non aveva nulla a che fare con lo sforzo militare israeliano. Le collaborazioni di ricerca dell’università, ha sottolineato il comitato di Gand, includono ricerche sull’autismo, sul morbo di Alzheimer, sulla purificazione dell’acqua e sull’agricoltura sostenibile.
“Le istituzioni accademiche sviluppano tecnologie per i servizi di sicurezza che vengono poi utilizzate in modo improprio per le violazioni dei diritti umani e forniscono formazione ai soldati e ai servizi di sicurezza, che poi utilizzano in modo improprio queste conoscenze per le violazioni dei diritti umani”, ha scritto il comitato.
La dichiarazione è “molto allarmante, molto inquietante”, ha detto Segal, il cui laboratorio presso il Weizmann Institute of Science, a sud di Tel Aviv, ha una partnership di ricerca con l’Università di Gand che si concentra sui fattori che guidano l’obesità. Ha detto di non sapere ancora se il progetto verrà interrotto.
Il comitato ha anche chiesto una sospensione a livello europeo della partecipazione di Israele ai programmi di ricerca e di istruzione, che spesso dipendono dai finanziamenti dell’Unione europea.
Se i partner europei aderissero all’appello, “sarebbe un colpo tremendo alla nostra capacità di fare ricerca scientifica accademica”, ha detto Segal.
L’ondata di nuove iniziative politiche e legali contro Israele è senza precedenti, ha dichiarato Eran Shamir-Borer, ex capo del dipartimento di diritto internazionale dell’esercito israeliano. Esse includono iniziative contro Israele e i suoi leader presso la massima corte delle Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.
“Penso che ci sia sicuramente motivo di preoccupazione per Israele”, ha detto Shamir-Borer, ora collaboratore dell’Israel Democracy Institute. “Diventare uno Stato paria significa che, anche se le cose non accadono formalmente, meno aziende sentono di voler investire in Israele, meno università vogliono collaborare con le istituzioni israeliane. Le cose accadono solo quando si ottiene questo status simbolico”.
Gli israeliani si accorgono di non essere più i benvenuti in molte università europee, anche per quanto riguarda la partecipazione a collaborazioni scientifiche. La loro partecipazione alle istituzioni culturali e alle fiere della difesa sta diventando sempre più un tabù.
Lidor Madmoni, amministratore delegato di una piccola startup israeliana del settore della difesa, si è preparato per mesi a una fiera internazionale di armi che si terrà a giugno a Parigi. La conferenza, Eurosatory, sarebbe stata una rara opportunità per il suo piccolo staff di espandere la propria attività, ha detto. Poi è arrivata un’e-mail che lo informava che, a causa di una decisione del tribunale francese, alla sua azienda era vietato partecipare.
“Abbiamo l’obbligo di bloccare il vostro accesso alla mostra a partire da domani”, hanno dichiarato gli organizzatori alla vigilia dell’evento, citando le ordinanze del tribunale che hanno fatto seguito al divieto del Ministero della Difesa francese emesso in risposta alle operazioni militari israeliane a Rafah, la città di Gaza dove più di un milione di persone ha cercato rifugio.
Le decisioni francesi hanno “scioccato l’intera comunità” delle aziende israeliane di tecnologia della difesa, ha dichiarato Noemie Alliel, amministratore delegato in Israele di Starburst Aerospace, una società di consulenza internazionale che sviluppa e investe in startup nel settore aerospaziale e della difesa. Gli organizzatori della conferenza hanno dichiarato di aver fatto appello per ribaltare la decisione del tribunale e hanno comunicato alle aziende israeliane in un’e-mail che stavano facendo tutto il possibile per consentire loro di partecipare.
Dopo l’apertura della conferenza, un tribunale francese ha annullato il divieto, ma per Madmoni era troppo tardi. Molte aziende israeliane si erano già ritirate.
Il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, formato nel 2005 da organizzazioni della società civile palestinese, ha chiesto per anni di usare la pressione internazionale su Israele per promuovere i suoi obiettivi, che includono la creazione di uno Stato palestinese indipendente e la conquista del diritto dei rifugiati palestinesi e dei loro discendenti a vivere in Israele. Ma il movimento ha trovato un sostegno limitato.
L’ambiente è cambiato dopo che Israele ha risposto all’attacco guidato da Hamas del 7 ottobre, che ha ucciso più di 1.200 persone, per lo più civili, con circa 250 ostaggi portati a Gaza.
Alcuni obiettivi di lunga data del BDS e di altre organizzazioni pro-palestinesi si stanno realizzando come risultato della guerra. Mesi di combattimenti, il tributo umano e le immagini di devastazione a Gaza hanno alimentato l’opposizione internazionale al modo in cui Israele ha condotto la guerra.
“Quando le aziende e le istituzioni israeliane saranno isolate, Israele troverà più difficile opprimere i palestinesi”, afferma il BDS sul suo sito web.
Quando è iniziata la guerra, sono iniziati nuovi boicottaggi, soprattutto da parte di dipartimenti di scienze umane e sociali, ha detto Netta Barak-Corren, una professoressa di legge che dirige una task force antiboicottaggio formata durante la guerra all’Università Ebraica di Gerusalemme.
I boicottaggi hanno iniziato ad allargarsi circa due mesi fa, estendendosi alle scienze dure e al livello universitario: “movimenti a livello universitario e soprattutto decisioni di tagliare tutti i legami con le università israeliane e gli accademici israeliani”, ha detto.
Più di 20 università in Europa e in Canada hanno adottato tali divieti.
Una studentessa israeliana che si stava preparando a studiare all’Università di Helsinki ha detto che stava già cercando un alloggio in Finlandia, quando a maggio la scuola non le ha comunicato di aver sospeso gli accordi di scambio con le università israeliane.
L’Università di Helsinki ha smesso di inviare studenti in Israele dopo il 7 ottobre e ha deciso di sospendere gli scambi a maggio per esprimere la sua preoccupazione per il conflitto, ha dichiarato Minna Koutaniemi, responsabile dei servizi di scambio internazionale della scuola. L’università non intende limitare la collaborazione dei suoi ricercatori con gli israeliani.
I boicottaggi stanno prendendo piede in tutto lo spettro accademico. A maggio, Cultural Critique, una rivista pubblicata dalla University of Minnesota Press, ha comunicato a un sociologo israeliano che il suo saggio non era stato preso in considerazione perché, a loro avviso, era affiliato a un’istituzione israeliana.
La rivista ha detto allo studioso che segue le linee guida del BDS, “che includono il ‘ritiro del sostegno dalle istituzioni culturali e accademiche di Israele'”.
Cultural Critique si è successivamente scusata per aver escluso l’articolo sulla base dell’affiliazione accademica dello studioso e ha modificato il suo sito web per dire che i contributi sarebbero stati valutati “senza considerare l’identità e l’affiliazione dell’autore”. Ha invitato lo studioso a ripresentarsi.
I leader israeliani hanno a lungo criticato le iniziative di boicottaggio. A maggio il presidente Isaac Herzog ha dichiarato a una conferenza economica che i nemici di Israele “stanno cercando di isolarci per danneggiarci”.
“Il nemico, l’impero del male dell’Iran e i suoi proxy, insieme a vari promotori di boicottaggi, stanno tentando in tutti i modi di danneggiare le connessioni [commerciali] attraverso una campagna internazionale aggressiva e cinica contro di noi”, ha detto.
Tra le crescenti pressioni su Israele, a maggio la Corte internazionale di giustizia dell’ONU ha ordinato a Israele di interrompere le operazioni militari a Rafah e il procuratore della Corte penale internazionale ha richiesto un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e i leader di Hamas, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. L’amministrazione Biden ha criticato la mossa del procuratore della CPI.
Gli Stati Uniti, alleati convinti di Israele, hanno imposto sanzioni non a Israele, ma ai gruppi israeliani che si ritiene agiscano illegalmente per danneggiare i palestinesi, tra cui i coloni coinvolti in attacchi violenti in Cisgiordania e i gruppi estremisti coinvolti nell’interruzione delle consegne di aiuti a Gaza.
Il settore delle esportazioni israeliane nel settore della difesa – fiorente prima della guerra, con un record di 13 miliardi di dollari di vendite nel 2023 – ha avuto il sentore a marzo di poter essere un bersaglio, quando il Cile ha impedito alle aziende israeliane di partecipare alla più grande fiera aerospaziale dell’America Latina. A giugno è seguito il divieto della Francia.
Gli Stati Uniti forniscono a Israele più di 3 miliardi di dollari in aiuti militari ogni anno e hanno fornito un’ondata di spedizioni di armi dopo il 7 ottobre. I funzionari statunitensi hanno dichiarato che da allora le spedizioni sono rallentate perché molte armi sono già state inviate e il governo israeliano ha presentato un numero inferiore di nuove richieste. Alcune organizzazioni non governative sono andate in tribunale per contestare la vendita di armi a Israele da parte dei governi, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Danimarca.
Alla luce della guerra a Gaza, il Canada ha dichiarato che non venderà armi a Israele.
In Europa, i gestori di fondi stanno rivedendo le loro posizioni alla luce della guerra, ha dichiarato Kiran Aziz, che controlla le partecipazioni del più grande fondo pensionistico privato norvegese, il KLP, alla ricerca di attività contrarie alle sue linee guida etiche.
“So che questo è un aspetto che tutti stanno esaminando”, ha detto.
Il KLP ha scaricato oltre 68 milioni di dollari in azioni della società statunitense Caterpillar alla fine di giugno, citando una dichiarazione della commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite che affermava che i trasferimenti di armi a Israele potevano violare i diritti umani e le leggi umanitarie internazionali e invitava 11 multinazionali – tra cui Caterpillar – a porre fine alle esportazioni verso Israele.
Le collaborazioni internazionali di Israele continuano comunque. Più di 1.000 artisti scandinavi hanno firmato una petizione, non andata a buon fine, per bandire Israele dall’Eurovision Song Contest. La cantante Eden Golan ha rappresentato Israele alla finale in Svezia a maggio, classificandosi quinta dopo aver eseguito una canzone che ha detto essere ispirata all’attacco del 7 ottobre a Israele. Un membro della giuria norvegese ha dichiarato di non aver assegnato alcun punto a Israele a causa delle sue azioni a Gaza, una violazione delle regole dell’Eurovision che vietano ai giudici di assegnare punti in base alla nazionalità di un artista.
Ma alcuni artisti creativi all’estero stanno tagliando i ponti con Israele. Dall’inizio della guerra, alcune decine di autori, la maggior parte dei quali americani, hanno rifiutato di far tradurre i loro libri in ebraico e di venderli in Israele, ha dichiarato Efrat Lev, direttore dei diritti esteri presso l’agenzia letteraria Deborah Harris Agency in Israele.
Un autore che aveva lavorato con l’agenzia e aveva scritto un libro per giovani adulti incentrato sull’accettazione dei queer ha rifiutato di pubblicare un secondo libro in Israele, sebbene fosse già stato firmato un contratto e fosse in corso una traduzione in ebraico, ha detto Lev.
“Sentivo che era un libro importante per i ragazzi israeliani che stanno vivendo esperienze simili”, ha detto Lev. “Questo mi ha spezzato il cuore”.

(Rights Reporter, 10 luglio 2024)

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Come rendere appetibile l’antisemitismo

di David Elber

Due fatti di cronaca recente confermano molto bene il corto circuito che ha colpito il mondo ebraico italiano da molto tempo a questa parte. Il primo è relativo ad un video diffuso da Fanpage, che ha documentato, il mai superato antisemitismo di una parte della destra rappresentata dal partito FdI. L’altro è un video di tale Cecilia Parodi che, al limite di un isterismo delirante, vomita auguri di morte per impiccagione a «tutti gli ebrei e ai loro amici». Questa “performer” si scopre poi essere una assidua frequentatrice di iniziative legate al PD. Mentre il primo video ha causato una levata di scudi generale con tanto di richiesta – legittima – di indagine da parte della Commissione Segre sull’antisemitismo, il secondo è passato in sordina senza che nessuno richiedesse l’intervento della Commissione, senza che se ne parlasse sui giornali (ad esclusione di Libero) o in TV. La stessa senatrice Segre, che dopo aver visto il video dei giovani neofascisti, ha dichiarato «dovrò essere cacciata nuovamente dal mio paese?» esprimendo così tutta la sua preoccupazione, non ha rilasciato nessuna dichiarazione in merito all’augurio di impiccagione di tutti gli ebrei rilasciata dalla “performer” in odore di PD. Perché questo doppio standard?
  Si ha la netta sensazione che la autoproclamata “società civile” e il mondo ebraico italiano, in maggioranza legato alla sinistra, siano vittime di una dissonanza cognitiva che non permetta loro di cogliere il pericolo rappresentato dall’antisemitismo assai diffuso a sinistra e sempre meno mascherato da antisionismo.
  L’attuale situazione ricorda molto da vicino la crisi del mondo ebraico del 1939, quando l’Unione Sovietica di Stalin si alleò con la Germania nazista di Hitler, o quella del 1967 quando sempre l’Unione Sovietica (e tutti i partiti comunisti europei) girò le spalle, definitivamente, a Israele e divenne il fulcro della propaganda antiebraica ammantata di antisionismo per renderla più credibile ai seguaci dei “diritti umani” à la carte. In tutti questi casi il mondo ebraico non reagì al pericolo rappresentato dall’antisemitismo di sinistra e gli effetti si vedono molto bene oggi.
  Oggi, il vero pericolo antisemita si è sedimentato soprattutto nella sinistra e non nella destra dello schieramento politico. È la sinistra oggi che detiene quella “supremazia culturale” che negli anni Trenta era esercitata dalla destra: si ha la convinzione che l’antisemitismo dei fascisti e dei nazisti venisse dal basso, fosse, cioè, una prerogativa della classe meno scolarizzata ma non era così; l’antisemitismo era propagandato nelle università, nei giornali, alla radio o al cinema. Fu l’influenza di numerosi cattivi maestri nelle università, nei salotti buoni che permise all’antisemitismo di avere la possibilità di diventare istituzionalizzato, di diventare legge di Stato e non perché circoli di fanatici analfabeti esprimessero il loro odio antiebraico. In Italia è grazie a persone come Agostino Gemelli, come Gaetano Azzariti, o professori universitari come Lidio Cipriani, Sabato Visco e moltissimi altri, che si è arrivati al “Manifesto della razza” o alle leggi razziali e non per la volontà di esponenti poco scolarizzati di qualche federazione giovanile. Allo stesso modo si possono ricordare Martin Heidegger in Germania e Louis-Ferdinand Céline in Francia per citare solo i casi più eclatanti.
  È la propaganda nelle università e nei mass media, ora come allora, il pericolo maggiore per la diffusione dell’odio antisemita. Perché è questo tipo di antisemitismo quello che penetra come il veleno nel corpo della società civile e lo altera e lo corrompe. I giovani universitari di oggi saranno le élite di domani: professori, avvocati, magistrati, insegnati, medici ecc. e il loro trascorso universitario li seguirà nelle mansioni future con il riverbero antisemita respirato negli atenei.
  Dalla reazione delle comunità ebraiche italiane a questa diffusione di odio, sembra che non ci sia consapevolezza di questo ma si stigmatizza unicamente l’odio della destra, che per quanto odioso e rozzo non è altrettanto pericoloso come quello di sinistra. Questo perché oggi l’antisemitismo di destra è “incapsulato” in sacche che non incidono nell’opinione pubblica, sono una minoranza residuale e fisiologica che va combattuta anche se non è contagiosa come quella di sinistra. Perché l’antisemitismo di sinistra è molto più pericoloso?
  Perché ha accesso alla televisione, ai giornali e soprattutto nelle università. Poi, nel corso degli anni si è diffuso nelle ONG, che sono diventate le indiscusse paladine dei diritti umani, e infine, nelle istituzioni internazionali come l’ONU, il Tribunale Penale Internazionale o la Corte di Giustizia Internazionale. Cioè è stato sdoganato a tutti i livelli fino a diventare istituzionalizzato. Come è potuto accadere?
  È potuto accadere con l’operazione semantica di sostituire termini come “popolo ebraico” con “Israele” e “antisemita” con “antisionista” per poi potere accusare gli ebrei di qualche malefatta e arrivare a “performer” come Cecilia Parodi che si augura di vedere tutti gli ebrei e loro amici impiccati. In questo modo l’antisemitismo di sinistra diventa “credibile” e perfino “rispettabile” perché utilizza termini sensibili come “diritti umani violati”, “genicidio”, “apartheid” ecc. Così antiche forme di antisemitismo vengono reintrodotte, modernizzate e legittimate nelle università, nei media e nelle manifestazioni.
  Purtroppo molti esponenti ebrei di sinistra, anziché, condannare questa deriva, negano la sua natura antisemita spostando soprattutto l’attenzione alla “legittima critica a Netanyahu” non capendo, o fingendo di non capire, che il vero obiettivo da delegittimare e in ultima analisi da eliminare è Israele o in altri termini il popolo ebraico.
  Quando non ci sarà più Netanyahu da colpevolizzare l’odio antisemita non cesserà affatto ma assumerà altre forme di “critica legittima” che molti ebrei giustificheranno in una sorta di eterna sindrome da ghetto.

(L'informale, 9 luglio 2024)
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Articolo ottimo. Interamente condivisibile. M.C.

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Autorità Palestinese terrorista come Hamas

di Maurizia De Groot Vos

La storia di come Abeed Shtayyeh, che ha ucciso due soldati israeliani, sia sfuggito alla giustizia è la storia dell’Autorità Palestinese (AP) in miniatura. Ha profonde implicazioni per il Medio Oriente.
  Il 29 maggio, Shtayyeh si è avvicinato al checkpoint israeliano fuori Nablus, ha investito due soldati ed è fuggito a Nablus. I soldati Eliya Hilel e Diego Shvisha Harsaj hanno riportato ferite critiche e sono stati dichiarati morti. Dopo che l’IDF ha lanciato una caccia all’uomo, Shtayyeh si è consegnato alla polizia palestinese.
  Gli accordi di Oslo stabiliscono cosa sarebbe dovuto accadere dopo: Le forze di sicurezza dell’Autorità palestinese, che ricevono addestramento e finanziamenti dagli Stati Uniti e da altri governi stranieri, avrebbero dovuto consegnare Shtayyeh a Israele per essere processato. Questo processo è stato creato per prevenire le incursioni israeliane nelle aree controllate dall’Autorità Palestinese e per smorzare le tensioni dopo gli atti di terrorismo, consentendo all’Autorità Palestinese di costruire una credibilità come partner per la pace.
  Se Shtayyeh avesse creduto che tutto questo sarebbe accaduto davvero, è improbabile che si sarebbe costituito. Ma aveva tutte le ragioni per credere che lui, come centinaia di terroristi prima di lui negli ultimi 30 anni, sarebbe stato protetto dall’AP. Nei primi anni del quadro di Oslo, l’Autorità palestinese ha compiuto gesti sommari, detenendo i terroristi per settimane o addirittura mesi prima di rilasciarli. Con il passare del tempo, anche questa farsa è stata abbandonata. Shtayyeh rimase sotto la custodia delle forze di sicurezza dell’AP solo per poche ore. Più di un mese dopo il duplice omicidio, è ancora in libertà.
  Il caso di Shtayyeh non è insolito. L’Autorità palestinese non si preoccupa più di spacciare il mito della partnership contro il terrorismo. A marzo il think tank israeliano Regavim ha identificato quasi 80 ufficiali delle forze di sicurezza dell’AP che sono stati uccisi o arrestati mentre compivano attacchi terroristici contro gli israeliani solo negli ultimi tre anni. La stessa AP si vanta di avere più di 2.000 “martiri”.
  Molti ufficiali delle Forze di Sicurezza dell’AP sono anche membri di organizzazioni terroristiche designate a livello internazionale e sono attivamente impegnati nel terrorismo. Se questo è sempre stato il caso, oggi l’Autorità Palestinese incoraggia, finanzia ed esalta con orgoglio questo terrorismo. Ciò include il suo famigerato programma “paga per uccidere” per i terroristi e le famiglie dei terroristi che attaccano gli israeliani – compresi gli autori di Hamas del massacro del 7 ottobre.
  È ora di smettere di nascondere la testa sotto la sabbia. L’Autorità palestinese e le sue forze di sicurezza non sono partner nella lotta contro il terrorismo, sono terroristi al pari di Hamas. L’AP non è mai stata una forza moderatrice. Nei decenni successivi a Oslo, ha affinato le sue abilità come forza omicida.
  Israele non può permettersi di stare al gioco e l’opinione pubblica israeliana non se la beve più. La nuova grande idea della sinistra per il futuro, dare potere all’Autorità palestinese e consegnarle uno Stato sovrano nel cuore di Israele e della Striscia di Gaza, è la stessa che ha ucciso israeliani per decenni. Se mi freghi una volta, vergognati; se mi freghi due volte, vergognati. Non ci faremo fregare di nuovo.

(Rights Reporter, 10 luglio 2024)

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Sondaggio: Netanyahu si indebolisce, ma la destra israeliana resta forte

L'opinione pubblica israeliana è favorevole a un governo conservatore di destra, ma non necessariamente guidato da Netanyahu.

di Ryan Jones

GERUSALEMME - Le manifestazioni settimanali antigovernative, per lo più di sinistra, in Israele sono ampiamente trattate dai media, dando l'impressione che l'umore politico nello Stato ebraico sia cambiato radicalmente a seguito della guerra.
Tuttavia, un nuovo sondaggio mostra ancora una volta che, sebbene l'opinione pubblica israeliana sia fortemente di destra, il mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro potrebbe essere giunto al termine.
In primo luogo, va sottolineato che se gli israeliani hanno perso fiducia in Netanyahu in generale, questo vale anche per tutti gli altri leader dei partiti presenti alla Knesset.
Nel sondaggio condotto da i24News, la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di non essere particolarmente entusiasta di nessuno degli attuali candidati a primo ministro.

- Tra Benjamin Netanyahu e il leader del Partito di Unità Nazionale Benny Gantz, il 31% sceglierebbe Gantz, il 27% Netanyahu e il 42% nessuno dei due.
- Tra Netanyahu e l'attuale leader dell'opposizione Yair Lapid: il 31% preferisce Netanyahu, il 29% Lapid e il 40% nessuno dei due.

L'unico candidato in netto vantaggio su Netanyahu è l'ex premier Naftali Bennett, che però si è ritirato dalla politica.

• LA COALIZIONE SI SGRETOLA, MA LA DESTRA RESTA FORTE
  Se le elezioni si tenessero oggi, la prossima Knesset avrebbe questo aspetto, secondo il sondaggio di i24News:

  • Unità Nazionale (Benny Gantz): 22 seggi
  • Likud (Netanyahu): 21 seggi
  • Yesh Atid (Yair Lapid): 15 seggi
  • Israel Beiteinu (Avigdor Liberman): 14 seggi
  • Shas (partito ultraortodosso): 11 seggi
  • Otzma Yehudit (Itamar Ben-Gvir): 10 seggi
  • United Torah Judaism (partito ultraortodosso): 8 seggi
  • I Democratici (Partito laburista-Alleanza di sinistra Meretz): 8 seggi
  • Ra'am (Mansour Abbas): 6 seggi
  • Lista Araba Unita: 5 seggi

Il Sionismo Religioso (Bezalel Smotrich) e Nuova Speranza (Gideon Sa'ar) non supererebbero la soglia percentuale.
Per quanto riguarda l'attuale coalizione, un'analisi superficiale di questi risultati (come offerti dai media mainstream) suggerisce cattive notizie per il governo Netanyahu, che viene dipinto come rappresentante della destra religiosa.

  • 50 seggi per gli attuali partiti della coalizione (Likud, Shas, Laburisti ebrei, UTJ, Sionismo religioso)
  • 65 seggi per l'attuale opposizione (Unità Nazionale, Yesh Atid, Israel Beiteinu, I Democratici, Ra'am)
  • 5 seggi per la Lista araba comune (che non parteciperà a nessun governo "sionista").

Ma c'è altro da considerare.
In primo luogo, nonostante tutte le diffamazioni contro Itamar Ben-Gvir, il suo partito ultranazionalista Otzma Yehudit (Forza Ebraica) si sta rafforzando e passerà dagli attuali 6 seggi a 10 seggi nella prossima Knesset.
E sebbene Otzma Yehudit sia considerato il più religioso dei partiti nazionalisti di destra, anche la sua controparte laica, Israel Beiteinu di Avigdor Lieberman, passerà dagli attuali 6 seggi a 14 seggi nella prossima Knesset.
Ma chi diventerà primo ministro?
Secondo questo sondaggio, i partiti attualmente disposti a sostenere Netanyahu come primo ministro otterrebbero solo 50 seggi. Gantz farebbe quindi quasi certamente il primo tentativo di formare il prossimo governo. Potrebbe anche riuscire a formare una coalizione di maggioranza. Ma quanto durerebbe?
In base ai risultati di cui sopra, la coalizione di Gantz sarebbe composta da partiti con opinioni molto opposte su questioni critiche, in particolare Israel Beiteinu da un lato e i Democratici e Ra'am dall'altro.
Il precedente governo di Lapid e Bennett era altrettanto frammentato e fallì dopo un solo anno.

• L’ALTRA OPZIONE DI DESTRA
  È chiaro che l'opinione pubblica israeliana vuole un governo di destra. Se si esclude Netanyahu e ci si limita a considerare i partiti, i risultati dei sondaggi di cui sopra assegnerebbero 64 seggi ai partiti apertamente di destra e/o religiosi (Likud, Israel Beiteinu, Otzma Yehudit, Shas, UTJ).
Considerando che l'Unità Nazionale di Gantz è un partito centrista con parecchi membri saldamente radicati nel campo della destra, la preferenza per una leadership conservatrice diventa ancora più chiara.
Ciò si riflette anche in un'ipotetica opzione presentata nel sondaggio di i24News: una nuova alleanza di destra tra Israel Beiteinu di Liberman, Nuova Speranza di Gideon Sa'ar, un nuovo partito guidato da Bennett e il popolare ex capo del Mossad Yossi Cohen.
In un'elezione che coinvolgesse questa ipotetica fazione, il risultato sarebbe il seguente:

  • Alleanza Liberman-Sa'ar-Bennett-Cohen : 33 seggi
  • Likud : 17 seggi
  • Campo Nazionale : 14 seggi
  • Yesh Atid : 11 seggi

La distribuzione dei seggi per gli altri partiti rimane sostanzialmente invariata.
Ciò lascia 76 seggi, più o meno, ai partiti apertamente di destra e/o religiosi e altri 14 seggi al centrista Campo Nazionale.
Gli israeliani sono favorevoli a un governo di destra o conservatore, ma non necessariamente con Netanyahu al timone.

• QUANDO SI TERRANNO LE PROSSIME ELEZIONI?
Solo il 42% degli intervistati è favorevole a elezioni anticipate, come richiesto dai manifestanti contro il governo.
Il 55% degli intervistati ritiene che le elezioni dovrebbero svolgersi solo dopo la guerra (33%) o nella data prevista dell'ottobre 2026 (25%).

(Israel Heute, 10 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Amsterdam: vandalizzata con la scritta “Gaza” la statua di Anna Frank

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E’ stata deturpata la statua di Anna Frank ad Amsterdam. Con la vernice rossa è stato scritto sul monumento della giovane vittima della Shoah “Gaza”. L’episodio è stato condannato dai politici olandesi che hanno chiesto agli eventuali testimoni di denunciare l’accaduto.
  “La statua di Anna Frank sulla Merwedeplein nel Rivierenbuurt è stata deturpata con la scritta ‘Gaza’ da un vandalo. È davvero vergognoso che qualcuno pensi di attirare l’attenzione sulla causa palestinese imbrattando l’immagine di Anna Frank, simbolo internazionale della Shoah” ha detto su X il Consigliere comunale Stijn Nijssen.
  “Questa giovane ragazza, brutalmente assassinata dai nazisti all’età di 15 anni, ricorda ogni giorno a noi e alla nostra città l’umanità e la gentilezza nelle circostanze più difficili”, ha scritto il sindaco della città Femke Halsema – Chiunque sia stato, si deve vergognare!”
  Il Centro per l’informazione e la documentazione israeliana CIDI ha sottolineato sui social media che il vandalismo della statua è un altro esempio di “antisionismo”.

(Shalom, 10 luglio 2024)

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A Bologna Zulfiqar Khan predica l’odio

di Giovanni Giacalone

Il Centro Islamico “Iqraa” di Bologna è diventato un trampolino di lancio per continui attacchi contro ebrei, Israele, Stati Uniti e per dichiarazioni a sostegno di Hamas, tutti perpetrati dal locale predicatore pakistano Zulfiqar Khan.
Il vicepremier Matteo Salvini ha suggerito la procedura di espulsione per Khan, mentre due deputati del partito di Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), Marco Lisei e Sara Kelany, hanno presentato un’inchiesta parlamentare al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.
Il Console Onorario di Israele per Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana, Marco Carrai, ha annunciato che intenterà una causa contro Khan per le sue dichiarazioni cariche di odio.
Contro ogni logica e buon senso da parte di chi è sotto l’attenzione dei media e delle autorità nazionali, Khan ha risposto in modo aggressivo attaccando pubblicamente, dal pulpito della sua moschea, il vicepremier Salvini, il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Alessandro Morelli, l’eurodeputata Isabella Tovaglieri e la giornalista Federica Orlandi del Resto del Carlino di Bologna.
Come se non bastasse, la pagina Facebook dell’Iqraa Islamic Center ha pubblicato due video di Khan che attacca il giornalista e scrittore italo-egiziano Magdi Cristiano Allam (ex caporedattore del Corriere della Sera), ex musulmano convertito al cristianesimo.
Magdi Allam vive da anni sotto la protezione della polizia, a causa delle numerose minacce di morte ricevute da estremisti islamici.
Negli ultimi due video postati sulla pagina Facebook di Iqraa, Khan ha accusato Allam di “vomitare tutto la sua cattiveria contro l’Islam e il Corano”.
Khan ha inoltre affermato: “Questo Magdi Cristiano Allam, egiziano, era musulmano. In che modo? Non ho bisogno di dire (per fare pubblicità) che tipo di musulmano fosse. Oggi lo conosciamo come Cristiano…”; accusandolo inoltre di essere “lontano dalla religione” e “lontano dalla verità”.
Vale la pena ricordare che Khan ha affermato in più occasioni che, poiché vive in Italia e non in Israele, ha il diritto di dire quello che vuole perché la Costituzione italiana glielo consente; continuerà quindi a “dire la verità”.
Nel novembre 2023, Khan ha dichiarato: “…In Italia, grazie ad Allah, siamo al sicuro e abbiamo il diritto di parola”.
Tuttavia, la “verità” di Khan è piuttosto inquietante, considerando le dichiarazioni che ha fatto, come quella del 26 maggio quando, durante un sermone, ha detto:
“Questi piccoli guerrieri, un gruppo di persone chiamato Hamas. Hanno reso chiaro al mondo che questi sono codardi (Israele, i sionisti), non possono fare nulla contro gli uomini, possono solo agire contro i bambini, contro le donne, contro i civili”. (12:58)
“Abbiamo visto che così tanti fratelli hanno paura di dire che Hamas è un gruppo sincero, mujaheddin, perché hanno bombardato tutti i musulmani in Europa, che devo necessariamente dire che Hamas è un’organizzazione terroristica. Ci hanno provato con me anche dal 7/10 in poi, abbiamo sempre avuto questa posizione secondo cui Hamas non è un’organizzazione terroristica. Stanno difendendo il loro territorio”. BR> “Ringraziamo Allah attraverso questi guerrieri mujaheddin di Hamas che hanno scoperto questa realtà, questa verità, che questi (israeliani, americani) sono terroristi, sono assassini…” (53:54)
Questa non è la prima volta che Khan esprime punti di vista simili; ad esempio, il 19 aprile, ha affermato che “Hamas, Hezbollah, Siria, Iran e Yemen non vogliono uccidere, non vogliono danneggiare i civili” e successivamente ha invocato: “Quella punizione che aspettiamo arrivi da Allah, con le mani di Hamas e Hezbollah…” (19:29).
Nel maggio 2021, durante un discorso di piazza nella piazza principale di Bologna, “Piazza Maggiore”, citando il Vangelo di Giovanni, Khan ha affermato che “…Gesù Cristo, invece di andare in Giudea, andò in Galilea, perché gli ebrei volevano ucciderlo. Questi ebrei, non dico tutti, ma parte degli ebrei, sono crudeli, sono crudeli, usano l’intelligenza per danneggiare gli altri”.
Durante un altro sermone tenuto il 24 maggio, Khan ha dichiarato:
“Hanno costruito una parola, Semitismo. Il semitismo non esiste. Nessun libro parla di semitismo, di antisemitismo. Questa parola si diffuse dopo il 1781…Poi dopo il 1870 costruirono la parola antisemitismo venuta dalla Germania…”.
E di seguito:
“Semitismo, anche se crediamo che il semitismo esista, questi sionisti non sono semiti…Per questo hanno cancellato [sic] che volevano portare una legge, un regolamento, che deve costituire il DNA di tutti coloro che vivono sulla terra di Israele. Quando si sono resi conto che il DNA non sarebbe andato come volevano”.
Nel novembre 2023, durante il programma televisivo mainstream italiano “Dritto e Rovescio”, Khan ha dichiarato: “Gli israeliti sono terroristi e ingannatori secondo la Bibbia”, aggiungendo che “l’inganno con l’obiettivo dell’interesse personale fa parte della fede ebraica”.
Khan ha anche ripubblicato diverse immagini di terroristi di Hamas con il volto coperto, fasce e armi.
Ieri, martedì 9 luglio 2024, il Ministro dell’Interno italiano ha finalmente risposto all’inchiesta della deputata Sara Kelany su Khan:
“Il suddetto (Khan) risulta essere presidente dell’associazione culturale islamica “IQRAA” con sede a Bologna e, nel ruolo di “esperto” dei precetti della religione islamica, partecipa a numerosi incontri (anche televisivi), dove ha spesso espresso posizioni intransigenti sulle questioni riguardanti l’Occidente, l’omosessualità, il ruolo delle donne e, dopo gli attentati del 7 ottobre, anche sul popolo palestinese e sul governo israeliano, manifestando apprezzamento per l’azione portata avanti da Hamas.
Tali dichiarazioni, riportate anche sui profili social e sul web, sono già state oggetto di informativa presso l’Autorità Giudiziaria, volta a consentire a quest’ultima di effettuare proprie valutazioni in merito all’eventuale rilevanza penale dei contenuti espressi”.
La dichiarazione del Ministro indica che le autorità italiane stanno monitorando e valutando la situazione di Khan.
Il Ministro deve però capire che le dichiarazioni di Khan (comprese quelle sopra menzionate) non sono “posizioni intransigenti”, ma attacchi alla religione ebraica e agli ebrei (non importa se “non tutti”, come spesso Khan sostiene). Sono dichiarazioni di sostegno a Hamas, un’organizzazione terroristica inserita nella lista nera dell’Unione Europea.
Vale anche la pena ricordare che lo scorso aprile un cittadino algerino di 58 anni residente nella città di Udine è stato espulso per aver postato sui social contenuti pro-Hamas e filo-jihadisti palestinesi.
Inoltre, è noto che un cospicuo numero di persone che pubblicavano contenuti pro-Isis sono stati espulsi. Hamas è diverso dall’Isis?
Nella replica di ieri Piantedosi precisa che “dal 1° gennaio 2023 al 5 luglio sono state arrestate 22 persone legate ad ambienti di terrorismo/estremismo religioso”. Non è chiaro cosa significhi il termine “religioso”… Erano tutti islamisti? Se sì, perché non dirlo chiaramente?
È difficile capire perché Khan abbia potuto finora utilizzare il pulpito del suo centro islamico come palcoscenico per una narrazione così pericolosa. Il fatto che Khan ricopra la carica di imam (in una grande città del nord Italia) non fa altro che rendere il suo caso ulteriormente problematico, perché la sua narrazione potrebbe influenzare qualcuno disposto ad agire.
Piantedosi ha citato la sorveglianza dei siti ebraici e israeliani di Bologna, ma ciò non basta. Se c’è un problema alla fonte, è lì che bisogna affrontarlo, e finora ciò non si è verificato, almeno in questo caso specifico. Perché gli ebrei di Bologna (e d’Italia in generale) devono vivere nella paura? Perché una moschea dovrebbe diventare un trampolino di lancio per la narrativa estremista?

(L'informale, 10 luglio 2024)

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Anche con un nuovo presidente, l’Iran resta ostile a Israele

di Francesco Paolo La Bionda

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Masoud Pezeshkian
Masoud Pezeshkian, il nuovo presidente eletto dell’Iran, è considerato una figura moderata, ma con la sua elezione non cambierà l’ostilità viscerale del regime verso Israele.
  Di etnia mista azera e curda, sessantanove anni, già cardiochirurgo, Pezeshkian è un politico di lungo corso, che ha ricoperto nel tempo diversi incarichi politici, compreso un periodo come Ministro della sanità. Eletto presidente il 5 luglio scorso, nelle elezioni seguite alla morte di Ebrahim Raisi in un incidente in elicottero, il presidente eletto ha vinto ai ballottaggi contro il favorito Saeed Jalili, considerato un esponente dell’ala dura, e assumerà ufficialmente l’incarico a inizio agosto.

• Un riformismo di facciata per allentare le sanzioni
  Pezeshkian è considerato un riformista, ma sempre nell’alveo del regime. Egli stesso si è definito come un “riformista principalista”, vale da dire che colloca la volontà di cambiamento nel quadro dei principi cardine della rivoluzione islamica che ha dato vita all’attuale assetto politico del paese. Così, ad esempio, se in campagna elettorale ha criticato i metodi brutali con cui la polizia religiosa applica le leggi sul vestiario, si è però ben guardato dal criticare l’obbligo stesso di indossare il velo per le donne.
  Inoltre, anche se il presidente eletto dovesse effettivamente promuovere alcuni dei cambiamenti promessi, come l’allentamento delle restrizioni sull’uso del web, dovrà scontrarsi con l’approvazione della Guida Suprema Ali Khamenei, che deve validare ogni decisione presa dal capo di stato.
  Il ruolo di Pezeshkian sarà invece soprattutto quello di ricucire i rapporti con l’Europa, per cercare di dividere lo schieramento occidentale, soprattutto nell’ipotesi di una rielezione di Trump alla presidenza statunitense il prossimo autunno. L’obiettivo è quello di ottenere un allentamento delle sanzioni, possibilmente nel quadro di un ritorno ai negoziati sul nucleare iraniano, dato che, come ha ammesso lo stesso presidente eletto, l’economia del paese non può funzionare finché restano in vigore.

• Israele resta il nemico giurato
  Per quanto riguarda invece i rapporti con lo Stato ebraico, l’elezione di Pezeshkian non sembra destinata ad alimentare alcuna distensione. Già in campagna elettorale, aveva promesso che se avesse vinto, avrebbe cercato “di avere relazioni amichevoli con tutti i paesi, tranne Israele”.
  E pochi giorni dopo il voto si è infatti affrettato a inviare un messaggio ad Hassan Nasrallah, leader degli Hezbollah libanesi, nel quale ha affermato che “la Repubblica islamica ha sempre sostenuto la resistenza dei popoli della regione contro l’illegittimo regime sionista” e che “sono certo che i movimenti di resistenza della regione non permetteranno a questo regime di continuare le sue politiche guerrafondaie e criminali contro il popolo oppresso della Palestina e di altre nazioni della regione”.
  Il regime iraniano è da sempre il principale sponsor della milizia libanese, a cui, secondo il Dipartimento di Stato americano, fornisce ogni anno armamenti, addestramento e liquidità per centinaia di migliaia di dollari. Un supporto che nel corso dell’ultimo decennio Teheran ha esteso anche ad Hamas, nonostante le differenze dottrinali, fornendogli almeno 222 milioni di dollari tra il 2014 e 2020, secondo documentazione recuperata dalle forze israeliane a Gaza.

(Bet Magazine Mosaico, 10 luglio 2024)

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L’anniversario – Trent’anni senza il Rebbe, ma la sua lezione è viva

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Settimo leader della dinastia Chabad Lubavitch, celebrato dai suoi discepoli come “il Rebbe” per lo slancio dato all’ebraismo post-Shoah, Menachem Mendel Schneerson è considerato uno dei rabbini e pensatori ebrei più influenti del Novecento. Nato nel 1902 a Nikolaev, nell’allora Russia zarista, il Rebbe è morto a New York nel 1994, nel giorno 3 del mese ebraico di Tammuz. Cioè oggi. Trent’anni dopo la sua eredità resta viva anche in Italia. Qui la rete di shlichim (“emissari”) del movimento chassidico opera ininterrottamente dal 1958, con sedi in varie città.
  Uno dei protagonisti di questo impegno a Roma è rav Menachem Lazar, figura di riferimento della sezione Chabad nell’area di Piazza Bologna. «Ho avuto la fortuna di incontrarlo più volte quando ero un bambino, tra gli 8 e i 12 anni. Alcuni sono ricordi più definiti, altri meno, ma sono tutti importanti nel mio bagaglio formativo. Come quando, nel giorno del mio compleanno, con una benedizione mi augurò di avere successo nella vita», spiega Lazar. «Per noi Chabad il Rebbe non è mai stato solo una persona fisica. Il suo lascito è un patrimonio spirituale immenso, il motore che ci dà la forza di andare avanti, di dare continuità a quello slancio. Il Rebbe ha creato una sorta di “esercito” nelle sue idee e nei suoi valori. È uno dei suoi grandi meriti. D’altronde gli uomini non li cambi affidandogli degli oggetti, ma degli insegnamenti, a partire dalla fedeltà ebraica allo studio della Torah». Per il Rebbe, racconta Lazar, «ogni azione, anche piccola, aveva valore; un’azione in sé è già lo scopo». Altro messaggio da custodire «è l’idea che non esistano differenze tra una persona e l’altra: di ognuno dobbiamo cogliere l’essenza, andare a fondo della sua anima senza fermarci alla superficie».
  «Il Rebbe ha sempre cercato di garantire che ogni singolo ebreo potesse avere un luogo in cui sentirsi come a casa, un luogo in cui prendere consapevolezza di ciò che è e in cui crescere nella sua identità e responsabilità. Non a caso i nostri centri si chiamano Beit Chabad, la Casa dei Chabad», sottolinea il responsabile della missione toscana Levi Wolvovsky. Nato a Brooklyn, a Firenze da 12 anni insieme alla moglie Sonia, anche lui ha avuto l’opportunità di incontrare il Rebbe in gioventù, nella casa newyorkese di Shneerson gremita di allievi. «Ricordo l’ambiente che lo circondava, l’intensità di quell’esperienza. Si toccava con mano l’importanza del suo compito», racconta Wolvovsky. «Noi allievi cerchiamo di continuare quell’opera, dando forza all’ebraismo in prima istanza e poi, in senso più universalistico, portando luce al mondo intero». In questo senso «Beit Chabad è un laboratorio non solo teorico ma di vita: tanta gente ci cerca, ha sete di ebraismo, vuole coltivarlo». In onore del Rebbe, a trent’anni dalla scomparsa, Wolvovksy ha organizzato a fine giugno un concerto per esplorarne il messaggio attraverso alcuni brani musicali. «Abbiamo imparato tanto», spiega l’emissario. «Ma il segno del Rebbe è ovunque: nei video, nei libri. Vive ancora con noi».
  Di recente la casa editrice Giuntina ha dato alle stampe Lezioni di Torà, un libro antologico con alcuni discorsi del Rebbe per lo Shabbat adattati dall’ex rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth Jonathan Sacks (1948-2020). Secondo Sacks, dalle riflessioni del Rebbe emergerebbe la convinzione «che ognuno di noi possa lasciarsi alle spalle la confusione attuale» per seguire «lo splendore senza tempo della Torah, la luce infinita». a.s.

(moked, 9 luglio 2024)

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Perché si ricomincia a parlare di trattative con Hamas

di Ugo Volli

• Israele vince sul campo ma non basta
  Dopo nove mesi di guerra, Israele ha ormai il controllo di tutta la Striscia di Gaza. Questo non vuol dire che occupi tutta Gaza continuamente: le truppe israeliane sono presenti sul 20% circa del territorio, ma sono in grado senza problemi di entrare dove si riscontra un’attività terroristica. In una guerra normale ciò avrebbe comportato da tempo la vittoria, ma in questo caso non è così. Hamas e gli altri gruppi terroristici hanno ancora risorse importanti dalla loro parte e le usano bene. Ecco le principali: 1. Controllano ancora tutte le fortificazioni sotterranee che non sono state scoperte e distrutte, con le armi e le truppe che vi hanno accumulato e la possibilità di usarle per agguati alle spalle degli israeliani. 2. Godono dell’appoggio di buona parte della popolazione di Gaza (e anche degli arabi di Giudea e Samaria) e sono in grado di reprimere violentemente le sporadiche manifestazioni di insofferenza che vi si manifestano (ma che non sono mai diventate opposizione politica vera e propria). 3. Sono appoggiati militarmente e logisticamente da uno schieramento vicino (Iran e i suoi satelliti Hezbollah, Houti, sciiti iracheni, Qatar) e lontano (Turchia, Russia, Cina – a questo proposito bisogna dire che non è mai stata smentita la notizia di cui pochi parlano che nei tunnel di Hamas Israele ha catturato e prontamente riconsegnato al loro stato due ingegneri militari cinesi). 4. Sono appoggiati dalla burocrazia internazionale delle corti di giustizia e delle commissioni dei diritti umani dell’Onu. 5. Hanno sponde politiche in buona parte dell’Occidente, in particolare fra i democratici americani, la sinistra europea inclusi i vincitori delle recenti elezioni in Francia e Gran Bretagna. 6. Detengono ancora molte decine di rapiti israeliani che i servizi di informazione non sono stati in grado di localizzare, come non hanno potuto individuare i capi più importanti di Hamas.

• Perché Israele accetta la trattativa
  Gli ultimi due punti sono decisivi per la strategia israeliana verso Gaza. Israele potrebbe in teoria continuare per tutto il tempo certamente lungo necessario a distruggere completamente l’apparato militare terrorista e per quello ancora maggiore per eliminare il controllo politico di Hamas sulla popolazione. Il fronte del nord resterebbe caldo, ma è chiaro che Iran e Hezbollah non hanno interesse per il momento a una guerra vera e propria. In Occidente però quasi tutti ormai vogliono un cessate il fuoco che chiuda (o piuttosto lasci in sospeso) in un modo o nell’altro la guerra fra Israele e Hamas: prima di tutti gli Stati Uniti, che hanno già mostrato di voler usare le potenti armi di pressione di cui dispongono, innanzitutto i rifornimenti militari necessari a Israele che da tempo rallentano pericolosamente e i voti al consiglio di sicurezza dell’Onu. Inoltre, il tentativo di ottenere la liberazione dei rapiti per via di scambio, dato che non si riesce a salvarli con le armi, è sia un imperativo morale da tutti sentito in Israele; sia una necessità per i rapporti internazionali di Israele; sia la posta in gioco di una pericolosa lotta politica interna per eliminare il governo Netanyahu che si sta ripresentando tanto in piazza che nelle burocrazie statali, inclusa la magistratura e lo stato maggiore.

• Un ammorbidimento di Hamas?
  Volente o nolente, il governo israeliano ha dunque da tempo dovuto accettare di trattare con Hamas per la liberazione degli ostaggi. Consapevoli della loro posizione di forza (politica, non militare) i terroristi hanno sempre chiesto, come precondizione per discutere di uno scambio fra i rapiti e i loro galeotti assassini detenuti nelle carceri israeliane, addirittura il ritiro preventivo delle truppe israeliane e l’impegno a cessare la guerra lasciandoli al potere a Gaza. Il fatto che Israele sia riuscito a occupare Rafah nonostante l’opposizione di Usa e della “comunità internazionale” e che abbia preso pure il “corridoio Filadelfia” che mette in contatto Gaza con l’Egitto bloccando buona parte del contrabbando di armi, sembra averli ammorbiditi. Dopo aver rifiutato per qualche settimana le trattative, ora annunciano di rinunciare alla precondizione della conclusione della guerra per aprire la trattativa sui rapiti, accontentandosi di una sospensione “per tutta la durata dei negoziati, per cui però non vogliono un limite temporale in modo da poterle trascinare all’infinito. Dunque questo annuncio non segna una grande differenza pratica, ma è bastato perché Netanyahu fosse obbligato a mandare una delegazione in Qatar per partecipare alle pre-trattative indirette non con Hamas ma con i mediatori.

• Le linee rosse di Israele
  Al tempo stesso Netanyahu ha chiarito quali sono le condizioni irrinunciabili per Israele. Questa è la dichiarazione: “La ferma posizione del Primo Ministro contro il tentativo di fermare l’operazione dell’IDF a Rafah è ciò che ha portato Hamas ad avviare i negoziati. Il Primo Ministro continua a sostenere fermamente i principi già messi nero su bianco da Israele: 1 – Qualsiasi accordo consentirà a Israele di tornare e combattere fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi della guerra. 2 – Non sarà possibile contrabbandare armi ad Hamas dal confine di Gaza verso l’Egitto. 3 – Il ritorno di migliaia di terroristi armati nel nord della Striscia di Gaza non sarà possibile. 4 – Israele massimizzerà il numero di ostaggi vivi che verranno restituiti dalla prigionia di Hamas”.

• Gli ostacoli
  Vi sarà dunque lo scambio e il cessate il fuoco? Non bisogna farsi troppe illusioni. Le esigenze fondamentali di Israele e di Hamas sono antagonistiche. L’Iran, ben deciso a combattere Israele col sangue dei suoi satelliti arabi, farà il possibile per impedire ogni accordo. Hamas considera i rapiti israeliani come il suo bene più prezioso e l’assicurazione sulla vita dei suoi capi: difficile che li lasci andare in cambio di una tregua che non sia in pratica una vittoria. Israele sa che se si ferma ora dovrà combattere di nuovo in poco tempo e riconquistare di nuovo Gaza; il 7 ottobre ha mostrato che la convivenza con Hamas e gli altri gruppi terroristici è impossibile. Anche se le trattative procedessero oltre la fase preliminare e indiretta in cui sono, è molto improbabile che si concludano con un accordo se non provvisorio e parziale. Tutto il resto, purtroppo, sono manovre propagandistiche.

(Shalom, 9 luglio 2024)

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Stavo a 700 metri di distanza da Gaza - e non ho provato niente

"Mi sono resa conto che quando guardavo la maledetta "altra parte", il pensiero degli ostaggi non mi è passato mai nemmeno per la testa. E questo mi ha “preoccupata”.

di Oriel Moran
Oriel Moran

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Vista di Gaza dal lato israeliano del confine dopo l'intervento delle truppe dell'IDF contro Hamas.

GERUSALEMME - Non sono mai stata vicino al confine con Gaza. Lo so, è strano, no? Anche se Gaza si trova a soli 100 chilometri a sud-ovest da me, mi è sempre sembrato un "Paese arabo", lontano da me, come una terra mitica in cui regna il terrore e i draghi sputano fuoco. Oppure, una descrizione più realistica: una città dove sembra non esserci ordine o struttura, una popolazione densa stipata in edifici di cemento, hooligan di Hamas e caos. Cosa la distinguerebbe dal Libano, dalla Siria o dalla Giordania? Un osservatore casuale come me non saprebbe dirlo. Ovunque sia, non è "abbastanza vicino per farmi del male", o così almeno pensavo.
Quello che mi ha portato più vicina a Gaza è stata mia sorella maggiore, che ha prestato servizio come Tatspitanit (osservatrice) e ha sofferto di ripetuti attacchi di tendinite controllando Gaza e il confine da Nachal Oz. Stando a quello che ha raccontato, le sue telecamere ad alta tecnologia potevano zoomare sui drammi familiari attraverso le finestre aperte, osservare i pastori sodomizzare nei campi e, naturalmente, catturare i terroristi che cercavano di infiltrarsi nel confine o di piazzare esplosivi. La sua base militare è stata attaccata da razzi, sirene d'allarme e colpi diretti, che hanno lasciato le ragazze con le orecchie che fischiano e un forte nervosismo ancora mesi dopo il loro congedo dall'esercito.

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Molte giovani soldatesse israeliane prestano servizio come guardie di frontiera

Non sono andata spesso nel sud di Israele, ma dopo il 7 ottobre ho voluto visitare la zona della Striscia di Gaza e soprattutto avvicinarmi il più possibile al confine con Gaza per guardare negli occhi il male e incontrarlo. Forse era il mio modo di elaborare il sangue delle vittime e di non lasciarlo asciugare (in senso figurato) prima di avere l'opportunità di bruciare i loro ultimi momenti nel mio essere: dovevo modificarmi.
Quando un amico si è offerto di portare me (e un piccolo gruppo) al sud per vedere le conseguenze del 7 ottobre, ho colto al volo l'occasione. Dopo una lunga giornata di visite ai vari monumenti commemorativi dove erano avvenuti i massacri, la nostra ultima tappa è stata il punto panoramico su Gaza da Sderot.

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Tramonto arancione a Gaza. Tramonto sulla terra desolata di Gaza il 4 giugno 2024

Siamo arrivati proprio quando il sole stava tramontando e il cielo si colorava di un ricco arancione e di un blu sbiadito, mentre il Mediterraneo scintillava in lontananza. Il punto panoramico è un memoriale dei quattro soldati che hanno combattuto i terroristi che sono usciti da un tunnel a 700 metri da lì per compiere un attacco di massa a Kibutz Nir-Am e Sderot nel 2014.
Socchiudendo gli occhi per vedere Gaza per la prima volta, tutto ciò che riuscivo a distinguere era una lunga fila di edifici, sagome sfocate, il profilo sbiadito di una recinzione e di un muro. "Tutto qui?", ho pensato. Che delusione!
Non avevo idea di cosa avrei provato, ma di certo non mi aspettavo di non provare niente. Forse "niente" non è la parola giusta; forse  "vuoto, cavo” sono parole più adatte. Era forse una sorta di reazione ritardata a un giorno intero di rimbalzi tra atrocità e sette mesi di guerra. Avrei voluto tornare a casa con qualche tipo di rivelazione profonda, o con un "mai più" di sfida, ma "niente". Faceva freddo, c’era troppo vento, c'era troppa gente e volevo soltanto rimanere sola, provare qualcosa, qualsiasi cosa.

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Fumo denso dopo un attacco aereo israeliano a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza

Ho speso cinque shekel per guardare attraverso il binocolo pubblico e avere così una visione più ravvicinata; la mia piccola esperienza di "Tatspitanit". A parte alcuni edifici all'estrema sinistra, l'intera prima fila era distrutta come se una bomba nucleare avesse colpito e lasciato un'apocalisse di strutture scheletriche, a riprova del fatto che Hamas era pronta ad andare in fiamme e a portare tutti con sé.
Solo l'eco dei "boom" e delle esplosioni ricordava inequivocabilmente che la guerra era ancora in corso, che l'IDF era appena entrato a Rafah.

• Dove sono gli ostaggi?
  Mentre il sole scompariva nel mare, ho intravisto un giovane e una ragazza seduti sul bordo del monumento commemorativo, che chiacchieravano con disinvoltura. Dopotutto, Sderot è la loro casa e questo è solo un ritrovo casuale con una buona vista, anche se si tratta di Gaza.
Lo paragono alla vista della terra di Giordania che posso avere da casa mia. Nelle giornate limpide si possono vedere le luci delle montagne che brillano come diamanti in un cielo notturno nero: un mondo misterioso a pochi chilometri di distanza. Potrei fissarlo per ore e chiedermi quanto sia diversa la loro vita  dalla mia. Dal loro punto di vista, però, la mia casa non suscita lo stesso timore reverenziale, perché a differenza della mia famiglia e della mia educazione culturale, loro hanno imparato a odiare.
Al di là di una recinzione, di un muro o di un confine invisibile sul Mar Morto, persone completamente diverse vivono sullo stesso suolo, con lo stesso clima, sotto la stessa costellazione e con ideologie completamente opposte. Come può il destino di una persona dipendere dal lato del confine in cui è nata?
Per le vittime del 7 ottobre che vivevano nei kibbutzim e nelle città della Striscia di Gaza, Gaza era la loro "Giordania". Un momento prima Gaza era la vista che avevano dalle loro tranquille case, e dopo pochi minuti sono stati fatti sfilare in pigiama come trofei in mezzo a una strada di Gaza e picchiati da barbari violenti e sanguinari. Alcuni degli ostaggi erano addirittura attivisti per la pace, che ironia.

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Le conseguenze dell'attacco di Hamas alla casa di una famiglia nel Kibbutz Beeri.
Quello che è successo alla famiglia che viveva all'interno è stato ancora peggio  

Sorprendentemente, solo quando sono tornata a casa a tarda sera mi sono resa conto che quando guardavo la maledetta "altra parte", il pensiero degli ostaggi non mi è mai passato per la testa, e questo mi ha preoccupata. Potevo immaginare città fantasma, campi profughi, scontri nella Striscia di Gaza, combattenti dell'IDF: tutto tranne gli ostaggi. Dopo tutto, chi può anche solo immaginare o elaborare 252 civili come ostaggi in tunnel sotterranei?
Ma questo è ciò che fa l'anima: ci protegge dalla dura realtà e dalle amare verità. "Niente" è solo il sintomo del cuore per dire "sento tutto insieme, e fa troppo male".
Fa troppo male la disperazione di Shiri Bibas che stringe i suoi due figli piccoli in mezzo agli assassini. Fa troppo male la violenza sessuale subita da Amit Soussana da parte del suo rapitore. Fa troppo male il video di propaganda di Hamas che ritrae Keith Siegel, 64 anni, sequestratore, un uomo distrutto che trattiene le lacrime.
Non mi lascio ingannare: ovunque il diavolo stabilisca il suo regno, la distruzione lo segue. Gaza passerà alla storia come un esempio di ciò che accade quando le ideologie di morte fanno il lavaggio del cervello alla società e di come ne provocano la fine. Più ancora della pietà, provo disgusto per il modo in cui sono riusciti a ingannare il mondo facendo credere che i loro aiuti e i loro soldi faranno la differenza,   o che "terra in cambio di pace”, o una soluzione a due Stati sia una strategia legittima per porre fine alle loro sofferenze.
Sono delusa dai cristiani internazionali che dimenticano l'ebraicità di Yeshua e la lotta spirituale per questa terra, e sono irritata dagli arabi cristiani in Israele che dimenticano che senza Israele il loro destino sarebbe la persecuzione e la morte per mano dell'Islam.
Mi rattrista il mio Paese, che ha dimenticato in un batter d'occhio come i conflitti interni lo indeboliscano e lo rendano vulnerabile di fronte ai suoi nemici. Sono anche triste per i politici che hanno dimenticato di servire il loro Paese e perseguono invece il loro orgoglio e i loro programmi.
Forse Gaza mi ha toccato più di quanto pensassi.

(Israel Heute, 9 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Francia – Il Gran Rabbino: Nuovi modi di lavorare insieme

Impossibile dirsi «sollevati» con il Rassemblement National alla conquista di spazi sempre più significativi nella scena pubblica nonostante la sconfitta e la France Insoumise «che grida vittoria, pur avendo ottenuto meno parlamentari della passata legislatura». Invita comunque alla speranza, una speranza incarnata nella difesa senza quartiere dei valori repubblicani, il Gran Rabbino di Francia Haim Korsia. Parlando ai microfoni dell’emittente ebraica Radio Shalom che l’ha interpellato per un commento sulle elezioni, la più importante autorità rabbinica del paese riconosce: «Ci attende un tempo di incertezza». Eppure, ciò premesso, «non c’è nessun motivo per lasciarsi prendere dal panico». Il cauto ottimismo del rav deriva soprattutto dalla convinzione che «nessuno si alleerà con la France Insoumise» del populista di sinistra Jean-Luc Mélenchon, figura invisa ai suoi stessi alleati.
  Korsia prevede che «il governo nascerà dall’accordo tra persone ragionevoli, con a cuore la Repubblica». Non menziona in modo esplicito l’assetto auspicato, ma rileva comunque la presenza nell’assemblea nazionale di «330-340 deputati» appartenenti a forze non estreme e sul quale il futuro esecutivo potrà contare. Considerazione dalla quale si deduce la speranza del rav di una larga intesa tra macroniani, sinistra non estrema, destra gollista. Fuori da questo perimetro un blocco populista in cui, denuncia Korsia, siederanno riconosciuti antisemiti e persone «che non sono state capaci di qualificare come atti terroristici gli attacchi del 7 ottobre».
  Il rischio di un governo a trazione Mélenchon non sembra concreto. Ma guai a sedersi sugli allori per lo scampato pericolo, fa capire il rav. Il tema della “ribellione” è d’altronde una costante della storia umana, non sempre alimentata a fini nobili come si evince dal riferimento fatto dal rav alla parashah di Korach letta nelle sinagoghe lo scorso Sabato. Fu la demagogia, altro tema senza tempo, a nutrire allora l’azione di Korach e altri notabili contro la leadership di Mosè e Aron. Tornando al presente, il rav osserva: «Bisogna rifondare un sistema, trovare nuovi modi di lavorare insieme. E quindi rafforzare la discussione, la mediazione, l’ascolto dell’altro. Questo migliorerà la vita dei francesi».

(moked, 9 luglio 2024)

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Firenze, UGEI lancia un flash mob per gli ostaggi israeliani ancora in mano a Hamas

di David Fiorentini

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Dopo Napoli, Roma e Milano, l’Unione Giovani Ebrei d’Italia in collaborazione con il Forum delle Famiglie degli Ostaggi lancia il suo flash mob anche a Firenze. Di fronte al Palazzo della Regione Toscana in Piazza Duomo, il 7 luglio una cinquantina di persone si sono riunite per mandare un forte segnale di solidarietà e vicinanza a tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle mani dei terroristi di Hamas dopo oltre 9 mesi.
   “Non possiamo permettere che cali il silenzio su questa tragedia. Andremo avanti con queste iniziative fino a quando tutti gli ostaggi saranno liberi”, afferma il presidente UGEI Luca Spizzichino. “È un dovere morale, in particolare delle nuove generazioni, mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sulla questione.”
  Un messaggio importante, che ha commosso molti dei partecipanti, giunti anche dagli Stati Uniti o Israele, alla luce delle numerose manifestazioni anti-israeliane che da mesi nascondono, banalizzano o giustificano le atrocità perpetrate il 7 ottobre.
  Per circa un quarto d’ora, tra le note delle canzoni israeliane dedicate al rilascio degli ostaggi, i partecipanti hanno esposto le foto dei rapiti e un grande striscione con il motto “Bring them home now”.
  Presenti anche il presidente della Comunità ebraica di Firenze, Enrico Fink, l’Associazione Fiorentina Amici di Israele, l’associazione Setteottobre e Sinistra per Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 9 luglio 2024)

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Missili di Hezbollah sullo stadio dell’Hapoel Ironi Kiryat Shmona

di Luca Spizzichino

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L’Hapoel Ironi Kiryat Shmona non potrà giocare nel proprio stadio per molto tempo. La struttura è stata colpita direttamente da un razzo lanciato dal Libano, rendendola inagibile.
Una doccia gelata per i tifosi, che speravano di tifare i propri beniamini in casa dopo diversi mesi di attesa. Infatti, dallo scoppio della guerra la squadra, ha dovuto giocare le partite casalinghe a Netanya.
“La situazione al nord peggiora ogni giorno”, ha detto il dirigente della squadra. “Purtroppo non vediamo il nostro ritorno al nord nel prossimo futuro. La città di Kiryat Shmona viene bersagliata ogni giorno”. Fino ad oggi ci sono stati anche cinque attacchi al complesso di allenamento della squadra, ha sottolineato l’Hapoel Ironi Kiryat Shmona.
Al momento dell’attacco non c’erano persone presenti nello stadio, lo riferisce Ynet sul proprio sito.

(Shalom, 8 luglio 2024)

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Quando viene meno la fiducia

Cosa succede quando il popolo perde la fiducia nei suoi leader? Come Core e il suo clan fecero con Mosè, e come fa oggi una parte del popolo con Bibi.

di Aviel Schneider

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Manifestanti protestano contro Benjamin Netanyahu e l'attuale governo israeliano davanti alla base di Hakirya a Tel Aviv, 22 giugno 2024

GERUSALEMME - Il post di un riservista israeliano, Bar Sadeh, che mia figlia mi ha inviato, mi ha toccato profondamente. È uno dei tanti post che sono diventati virali nelle reti e nei media israeliani nelle ultime settimane e mesi. I soldati parlano dal profondo dei loro cuori. Giovani che hanno combattuto a Gaza per mesi e che sono pronti a sacrificare la loro vita per il loro popolo. Giovani che hanno già perso molto, ma non vogliono arrendersi. Ma ciò che li ferisce di più è l'entroterra: il popolo e i suoi leader. Israele è in guerra e la gente, i media e i politici si azzuffano mentre i soldati difendono la biblica patria. A dire il vero, è semplicemente incredibile. Tra amici parliamo spesso di questa situazione e delle difficoltà in cui siamo caduti di nuovo tutti. Come è possibile che all'ombra della guerra non riusciamo ad unirci e a mettere da parte le nostre proteste e i nostri disaccordi? Forse perché, come nella storia di Core contro Mosè e Aaronne, tutto il popolo è santo. “Tutta la comunità è ovunque santa e il Signore è in mezzo a loro! Perché vi innalzate sulla comunità del Signore?"
  Come Mosè e Aaronne, anche Core apparteneva alla tribù di Levi e ha costituito, per così dire, la prima opposizione tra il popolo d'Israele. Core si disse: "Se Dio dichiara che tutto il popolo è una nazione santa, chi dà a Mosè il diritto democratico di guidare il popolo? Insieme a Datan e Abiram, guidò la prima rivolta politica contro Mosè e Aronne, e a questo scopo scelse 250 uomini tra il popolo, capi della comunità, leader dell'assemblea, uomini rispettati. Perché Datan e Abiram erano così importanti per Core nella sua coalizione contro il partito levita? Perché entrambi provenivano dalla tribù di Ruben, il primogenito di Giacobbe. I discendenti hanno sempre avuto un peso maggiore nella famiglia, nella tribù e nel popolo, e Core voleva sfruttarlo politicamente. Forse erano anche gelosi dell'influenza dei figli di Levi. Pensavano che Mosè fosse l'unico a voler governare su di loro. Questo è ingiusto. Dal loro punto di vista, Mosè è come un dittatore sacerdotale e politico. Esatto, un dittatore scelto da Dio.
  Anche l'attuale capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, è visto come un dittatore da molti cittadini. È stato eletto dagli israeliani con elezioni democratiche. E questo ad alcuni non piace, così come non piaceva ad alcuni abitanti del deserto il fatto che fosse sempre Mosè a decidere tutto. C'è sempre malcontento dove la gente vive, e questo si manifesta più del solito in particolari momenti. Anche se nel paese oggi non c'è il sacerdozio, la divisione politica tra il popolo è una conseguenza della visione spirituale del mondo. Una parte della popolazione oggi ha perso la fiducia in Bibi e non crede che egli voglia davvero solo il meglio per il suo popolo, che prima o poi porrà fine alla guerra e che accetterà un accordo con gli ostaggi. Dal loro punto di vista, Bibi sta governando solo per sopravvivere politicamente - fiducia zero. E questo porta a una profonda divisione tra la gente.
  Anche gli avversari di Mosè hanno perso la fiducia nel loro leader. E di cosa accusano Mosè? "Non stai facendo abbastanza per condurci nella terra in cui scorrono latte e miele. Tu ci vuoi far morire tutti nel deserto. Vuoi governare su di noi?". Poi continua cinicamente: “Ottimo, ci hai proprio condotto in una terra dove scorrono latte e miele! E ci hai dato campi e vigne in eredità! E adesso vuoi chiuderci gli occhi? Non arriveremo a destinazione!". Dal loro punto di vista, Mosè governa soltanto per sopravvivere politicamente: fiducia zero.
  Alla fine Core e il suo partito, la comunità, persero. "Allora la terra si squarciò sotto di loro. La terra aprì la sua bocca e li inghiottì, insieme alle loro case e a tutte le persone che erano con Core e a tutti i loro beni". Posso ben immaginare che il primo ministro israeliano avrebbe voluto una soluzione simile per sbarazzarsi dei suoi avversari politici tra il popolo.
  Non credo che si possa paragonare Mosè con Bibi, ma si può paragonare l'incidente biblico con quello politico, perché è un sintomo del popolo d'Israele che si ripete continuamente. Chi ne soffre è in ultima analisi il popolo, sia a quel tempo sulla via del deserto verso la Terra Promessa, sia oggi dentro la Terra Promessa. Nelle conversazioni con i miei figli, con amici e colleghi negli ultimi mesi continuo a ricordare che abbiamo il privilegio di vivere nella Terra Promessa. In tutta la storia del popolo d'Israele degli ultimi 3.500 anni, il popolo ebraico ha vissuto per oltre il 90% del tempo soltanto in diaspora, cioè per 3.200 anni il popolo d'Israele è stato disperso in esilio. Ora sono 76 anni che viviamo sotto il governo ebraico nella biblica patria. Questo è sempre stato qualcosa di raro nella storia biblica ed ebraica. E nonostante tutti i disaccordi politici, dobbiamo con fermezza tenerlo stretto per non perderlo di nuovo.
  È in questo contesto che ho deciso di tradurre la lettera di Bar Sadeh, che riassume la nostra situazione. Se non siamo uniti come popolo, forse la terra non si spaccherà di nuovo, ma ci sono abbastanza modi per punire il popolo.

Messaggio di Bar Sadeh:

    «Ho perso me stesso. Sono cambiato, spento, il dolore ha sopraffatto la mia voglia di vivere e mi sento a pezzi. Lo vedo nei miei occhi e mi fa male. Non ho scelto questa guerra, ma non me ne pento, sono grato.
    Quel giorno ero pronto a fare qualsiasi cosa per riportare a casa un altro bambino, una donna, un cittadino, anche se io stesso non sarei tornato.
    Non ero preparato ad accettare quello che i miei occhi hanno visto. Mi ha colpito e col tempo distrutto. Volevo solo vendicarmi e fare in modo che si pentissero - e così è stato.
    Ho perso molto in questa guerra. Amici, fidanzate, combattenti, un cugino, un comandante leggendario. È brutto, è difficile e fa male, ma lo supererò e ne uscirò più forte e migliore, per me stesso e per coloro che mi circondano, e il tempo farà la sua parte.
    Non cerco pietà, non sono nemmeno un eroe, continuiamo a combattere, non abbiamo pause, non abbiamo vacanze, anche se sono molto stanco e ferito.
    Quindi, a tutti i leader là fuori, indipendentemente dalla destra o dalla sinistra, riunitevi e ricordate i valori veri, onesti e buoni, parlate con pieno rispetto e con la massima attenzione. Fate tutto il possibile per riportare a casa i vostri cari, sia militarmente che diplomaticamente, ma parlate tra di voi, preoccupatevi e trovatevi l'un l'altro, e finché questo non accadrà, dimenticate le vostre vacanze (la pausa estiva della Knesset). Questo è prendersi cura, questo è ebraismo e questo è unità. Purtroppo, al momento non siete sulla strada giusta.»

(Israel Heute, 8 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Netanyahu accusato di boicottare i colloqui per gli ostaggi

Il comunicato con le condizioni di Netanyhu diffuso all'ultimo momento di domenica sera ha spiazzato e irritato i negoziatori e i famigliari degli ostaggi

di Sarah G. Frankl

Hanno scatenato la rabbia dei negoziatori israeliani e delle famiglie degli ostaggi in mano ad Hamas le quattro richieste aggiunte all’ultimissimo momento dal Premier israeliano, Benjamin Netanyahu.
Domenica sera, poco prima della partenza del team negoziale israeliano per ulteriori colloqui sugli ostaggi al Cairo e a Doha, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha presentato un elenco di quelle che ha definito richieste israeliane non negoziabili.
L’elenco si basa su quattro punti non negoziabili. L’accordo dovrà:

  1. consentire a Israele di tornare e combattere finché non saranno raggiunti tutti gli obiettivi della guerra
  2. garantire che l’accordo non consentirà il contrabbando di armi dall’Egitto a Gaza
  3. garantire che l’accordo non consentirà il ritorno di migliaia di terroristi di Hamas nel nord della Striscia di Gaza
  4. consentire a Israele di massimizzare il numero degli ostaggi vivi che verranno rilasciati da Hamas

“Il piano concordato da Israele e accolto con favore dal presidente Biden consentirà a Israele di liberare gli ostaggi senza violare gli altri obiettivi della guerra” si legge nel comunicato rilasciato ieri sera dall’ufficio del Primo Ministro.
La dichiarazione di Netanyahu, in una fase cruciale prima della ripresa dei colloqui, ha scatenato la rabbia sia in Israele che tra i mediatori, alcuni dei quali lo hanno accusato di tentare di sabotare i progressi ottenuti con tanta fatica.
La ripresa dei negoziati sia in Egitto che in Qatar è stata possibile dopo che sabato il gruppo terroristico Hamas ha dichiarato di essere pronto a discutere un accordo sugli ostaggi e la fine della guerra a Gaza senza un impegno anticipato da parte di Israele a un “cessate il fuoco completo e permanente”, rompendo con la posizione che ha mantenuto in tutti i precedenti negoziati da novembre.
La nuova posizione di Hamas in merito alla proposta sostenuta dagli Stati Uniti per una tregua graduale e uno scambio di ostaggi a Gaza potrebbe potenzialmente aprire la strada alla prima pausa nei combattimenti dallo scorso novembre, sebbene tutte le parti abbiano avvertito che un accordo non è ancora garantito.
Tuttavia parlando domenica con l’AFP, un alto funzionario di Hamas rimasto anonimo, ha confermato che il gruppo terroristico non stava più cercando un impegno immediato per un cessate il fuoco completo, in quanto ha spiegato che “questo passaggio è stato aggirato, poiché i mediatori hanno promesso che finché fossero continuate le negoziazioni [per gli ostaggi], sarebbe continuato anche il cessate il fuoco”.
Il capo del Mossad David Barnea, che porta avanti i negoziati, ha tuttavia smentito che nelle trattative ci fosse una “eventualità del genere” meno che meno un impegno scritto in tal senso.
La rabbia dei mediatori e delle famiglie degli ostaggi
La dichiarazione dell’ufficio di Netanyahu è stata accolta con rabbia dai famigliari degli ostaggi, dai funzionari della sicurezza e dai mediatori israeliani che, non per la prima volta, hanno accusato il primo ministro di aver tentato di sabotare l’accordo.
“Netanyahu finge di volere un accordo, ma sta lavorando per affossarlo”, ha detto un anonimo funzionario della sicurezza a Channel 12. “Sta trascinando il processo, cercando di allungare i tempi fino al suo discorso al Congresso [il 24 luglio] e poi alla pausa [della Knesset]”.
Secondo un funzionario arabo che segue le trattative, la richiesta non negoziabile di riprendere i combattimenti dopo la prima fase dell’accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi, pubblicizzata dall’ufficio di Netanyahu, tocca l’aspetto più delicato dei negoziati in corso, poiché Hamas sta cercando rassicurazioni dai mediatori sul fatto che Israele non riprenderà i combattimenti dopo la fase iniziale.
Il funzionario ha affermato che i mediatori sono riusciti a far sì che Hamas abbandonasse la precedente richiesta di un impegno anticipato da parte di Israele a porre fine alla guerra all’inizio della prima fase dell’accordo.
Hanno invece mantenuto un linguaggio relativamente aperto riguardo alla transizione dalla fase uno alla fase due, che consente sia a Israele di sentirsi sufficientemente tranquillo da avere la possibilità di riprendere a combattere se Hamas cessa di negoziare in buona fede, sia ad Hamas di sentirsi sufficientemente tranquillo dal fatto che i mediatori impediranno a Israele di riprendere la guerra invece di attuare il cessate il fuoco permanente che è la fase due dell’accordo.
“Dichiarazioni come quella fatta dal primo ministro danneggiano gravemente gli sforzi per mantenere questa ambiguità”, ha affermato il funzionario arabo.
“Non si può fare a meno di concludere che sono state fatte per scopi puramente politici”, ha aggiunto il funzionario, riferendosi al desiderio di Netanyahu di compiacere i partner della coalizione di estrema destra che si oppongono all’accordo sugli ostaggi.
Lo schema redatto da Israele per un accordo sugli ostaggi e una tregua a Gaza, presentato da Biden alla fine di maggio, proponeva un accordo graduale che avrebbe incluso un cessate il fuoco “totale e completo” di sei settimane che avrebbe visto il rilascio di numerosi ostaggi, tra cui donne, anziani e feriti, in cambio del rilascio di centinaia di prigionieri di sicurezza palestinesi.
Durante questi 42 giorni, le forze israeliane si ritireranno anche dalle aree densamente popolate di Gaza e consentiranno il ritorno degli sfollati alle loro case nel nord di Gaza.
In quel periodo, Hamas, Israele e i mediatori avrebbero negoziato anche i termini della seconda fase che avrebbe potuto vedere il rilascio degli ostaggi maschi rimasti, sia civili che soldati, in cambio, Israele avrebbe liberato altri prigionieri e detenuti palestinesi. La terza fase avrebbe visto il ritorno di tutti gli ostaggi rimasti, compresi i corpi dei prigionieri morti, e l’inizio di un progetto di ricostruzione per Gaza.

(Rights Reporter, 8 luglio 2024)

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Hamas dice sì ai negoziati

Mercoledì incontro a Doha fra Usa, Qatar, Egitto ed Israele

di Valentino Garavani

La guerra in Medio Oriente compie nove mesi. In questa ricorrenza, il Gruppo palestinese Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha fatto sapere che accetterà di negoziare con Israele il rilascio degli ostaggi, anche in assenza di un cessate il fuoco permanente da parte di Tel Aviv, che continua l'operazione militare in varie parti della Striscia, in particolare al sud, presso il valico di Rafah, al confine con l'Egitto. 
A tal riguardo, il capo della Central Intelligence Agency (Cia), lo statunitense William Burns, il suo omologo israeliano del Mossad David Barnea, il capo dell'intelligence egiziana Abbas Kamel, ed il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, dovrebbero incontrarsi a Doha (Qatar), nella giornata di mercoledì 10 luglio 2024, per negoziare un possibile accordo fra Hamas ed Israele per un cessate il fuoco a Gaza in cambio del rilascio degli ostaggi. 
Intanto, i mediatori hanno chiesto nuovamente al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di accettare la tregua o dimettersi. Accade a nove mesi dall'inizio della guerra: il 7 ottobre 2023 cominciò l'attacco di Hamas, il 7 ed 8 luglio 2024 nelle due principali città di Israele i manifestanti hanno bloccato le strade, con decine di migliaia di persone che chiedono di fermare le ostilità. 

(AVIONEWS, 8 luglio 2024)

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Negoziare con Hamas è sbagliato, negoziare con il terrorismo è sbagliato, punto.

di Giovanni Giacalone

Negoziare con i terroristi è sempre sbagliato, per diverse ragioni: perché le negoziazioni permettono all’organizzazione terroristica di acquisire legittimità politica, elevandola a interlocutore legittimo, sia a livello nazionale che internazionale. Una volta che ciò accade, diventa più difficile ridurlo a ciò che sono veramente, assassini che prendono deliberatamente di mira i civili per raggiungere i loro fini politici.
Hamas ne rappresenta un chiaro esempio. Nel 2006 l’organizzazione terroristica palestinese è stata sdoganata ed elevata a “legittima espressione politica del popolo palestinese” e quale è stato il risultato? Il genocidio del 7 ottobre 2023. L’impiego di milioni di dollari nella costruzione di tunnel e basi terroristiche sotterranee, nascoste sotto scuole, ospedali, moschee e centri umanitari (spesso collusi con Hamas), attacchi missilistici contro la popolazione israeliana.
Oggi, molti nella comunità internazionale vedono ancora Hamas come un attore politico legittimo, e i suoi leader, Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, sono ancora liberi e ai loro posti, mentre dovrebbero essere rinchiusi. L’ideologia di Hamas si è diffusa nei campus universitari degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Europa. Anche  questo è il risultato della legittimazione politica.
In secondo luogo, la negoziazione incentiva i terroristi a ripetere le atrocità commesse, magari alzando la posta, consapevoli del fatto che la strategia è funzionale ai loro obiettivi e alla loro causa.
In terzo luogo, i terroristi sono criminali, assassini per natura. Non esitano ad uccidere qualcuno se credono che possa servire alla loro causa. Nel caso di Hamas, si va ben oltre l’essere assassini in nome di una causa, perché l’odio cieco e il fanatismo prendono il sopravvento indipendentemente dalla causa. Lo si è visto il 7 ottobre con le atrocità commesse contro i civili israeliani indifesi: donne, bambini, anziani.
Soltanto l’idea di negoziare con loro è qualcosa di aberrante. Ma al di là di questo, è fondamentale tenere presente che Hamas, proprio per ciò che rappresenta e commette, è assolutamente inaffidabile. La parola di Hamas conta meno di zero.
Raggiungere un accordo con Hamas significherebbe consegnare la vittoria all’organizzazione terroristica, e questo è qualcosa che Israele non può permettersi di fare.
Inoltre, è ingenuo credere che Hamas libererà gli ostaggi, perché sono la sua unica garanzia di sopravvivenza.
Come ha affermato l’analista della sicurezza nazionale statunitense, Irina Tsukermann:
    “Sono particolarmente preoccupata perché gli ostaggi sono l’ultima leva rimasta a Hamas e non hanno alcun motivo reale per consegnarli, quindi questa proposta potrebbe essere una trappola. Hamas ha bisogno che Israele lasci Gaza, e soprattutto Rafah, per riottenere l’accesso ai tunnel, al contrabbando e al riarmo. Hamas continuerà il reclutamento e il raggruppamento nelle parti sgomberate di Gaza, ma con meno armi”.

E di nuovo:

    “È estremamente ingenuo fidarsi di Hamas su qualsiasi questione o pensare che una pausa per il rilascio degli ostaggi possa trasformarsi in un cessate il fuoco permanente, considerando quante volte Hamas ha violato i precedenti “cessate il fuoco permanenti”.

Hamas vuole essere sicuro di restare al potere a Gaza, che Israele lasci la Striscia e che i leader non vengano braccati. In effetti, Israele non può permettersi nessuna di queste opzioni, perché significherebbe cedere la vittoria a Hamas.
Esiste una cosa chiamata “ragione di Stato” e non può essere messa da parte per disaccordi politici interni né per altri motivi. L’ingenuità emotiva e le false speranze devono essere messe da parte. Vale la pena ricordare che Hamas, lo scorso 7 ottobre, ha perpetrato il peggior pogrom contro gli ebrei dai tempi della Shoah. Centinaia di soldati dell’IDF sono morti nelle operazioni per sradicare Hamas. Negoziare non ha senso e non porterà a nulla di buono, perché Hamas lo rifarà, e lo hanno dichiarato.
Israele deve fare ciò che è necessario per sradicare Hamas, soprattutto ora che l’IDF è pienamente a Rafah. Non importa se l’Amministrazione Biden vuole un accordo con Hamas. È la guerra di Israele e sì, Hamas può essere sconfitto, sia fisicamente che ideologicamente.
Questa non è solo una guerra tra Israele e Hamas; questa è una guerra contro l’antisemitismo, contro il fanatismo islamista e riguarda da vicino tutti, non solo Israele. Abbiamo tutti assistito all’ondata di estremismo che si è verificata in Europa, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Australia. Come possiamo invocare l’unità contro questi fanatici se Israele è il primo a negoziare con loro?

(L'informale, 8 luglio 2024)

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Verità e libertà

Ho ritrovato “tra le mie carte”(così si diceva una volta, oggi invece si dice “nel mio computer”) gli appunti di una mia conferenza tenuta nel marzo 1990, pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, che molti videro come la vittoria del mondo “libero” sull’opposto mondo di “oppressione”. Forse è in questo clima di euforica acclamazione della libertà che mi venne l’idea di affrontare questo tema in una conferenza. Dagli appunti ritrovati volevo in un primo momento trarre materiale per un nuovo articolo, ma poi ho pensato che potrebbe essere più utile (e anche meno faticoso) presentarli così come sono, nella loro forma concisa, necessariamente tronca, collegata a un tempo che non è più quello attuale. Al lettore non mancherà la possibilità di completare in mente sua le inevitabili lacune, migliorarne le espressioni, modificarne “liberamente” se crede le deduzioni. Buona lettura.

di Marcello Cicchese

    "Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi" (Giovanni 8.31-32).

- Verità e libertà: un legame non tanto chiaro. Siamo più abituati a coniugare "giustizia e libertà". Nella nostra società di oggi è preponderante il concetto di libertà: libertà di pensiero, libertà di coscienza, libertà di religione, libertà di cultura, libertà di stampa. Il crollo delle società comuniste è visto come un trionfo della libertà.
- In altri momenti e in altri luoghi il concetto dominante è stato quello di giustizia. Esempio: la "dittatura del proletariato”. Nel '68 i giovani contestatori irridevano un concetto di libertà che serviva a coprire l’ingiustizia.
- Anche il concetto di verità ha avuto importanza in certe società e in certi momenti della storia: nelle società comuniste (l'internamento in manicomi di chi dissentiva), nelle società musulmane, nelle società cristiane del passato (una volta i dissidenti religiosi erano perseguitati perché si opponevano alla verità).
- La società di oggi garantisce che ciascuno possa cercarsi o costruirsi la sua verità. Il mondo delle idee sembra meno pericoloso di quello dei fatti.
- Tutto sommato, sul piano politico non ho niente da obiettare: non ho nostalgia di stati teocratici che poi diventano clericali. Accetto questa libertà politica come un dono che Dio fa agli uomini e di cui dovranno rendere conto. Ma vorrei solo che si riflettesse sull'ideologia diffusa che la accompagna. La perdita di importanza del concetto di verità porta prima o poi a nuove forme di schiavitù.
- Abbiamo usato il termine "libertà" nel significato più usuale che è quello di libertà dall'uomo, cioè la possibilità di non essere limitato, costretto da altri uomini. Questo è il concetto politico di libertà.
- Nel Nuovo Testamento il termine greco per "libero" significa "appartenente al popolo", cioè avente i diritti civili. Il termine mantiene quindi il ricordo di questo significato politico, ma nel Nuovo Testamento quando si parla di libertà non si intende mai quella politica. Non troverete mai, per esempio, delle esortazioni a difendere la libertà, a combattere per la libertà.
- Gesù davanti a Pilato: "Il mio regno non è di questo mondo... altrimenti ... i miei servi avrebbero combattuto perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui". "Ma dunque sei re? Sì, lo sono, e sono venuto nel mondo per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce". "Che cos'è la verità?" (Giovanni 18).
- Si capisce allora perché oggi abbiamo tanta possibilità di parlare, ma pochi ci ascoltano: c'è libertà per tutti, ma a nessuno interessa la verità.
- Che cos'è la verità? Una vecchia domanda che ha un sapore intellettuale, aristocratico. Appartiene alla gnoseologia, all’epistemologia, alla teoria della conoscenza. Noi comuni mortali abbiamo altri problemi.
- Aristotele e Tommaso d’Aquino: "Veritas est adaequatio rei et intellectus". La cosa, l'intelletto. L'oggetto, il soggetto. La realtà, la razionalità.
- Nel pensiero moderno il soggetto ha preso il sopravvento. Nella ricerca scientifica l'oggetto è sempre più sfumato. Predomina il soggetto ordinatore. Nella scienza non si parla di verità, ma di correttezza, di adeguatezza di una teoria. 
- Anche quando dalle "cose" si passa all'uomo e a Dio, il soggetto che indaga resta al centro. Il parlare di Dio resta un'attività puramente umana, che viene protetta da una libertà garantita dagli uomini.
- Nessuno obietta se noi parliamo di Dio, ma sorgono grandi resistenze se diciamo che è Dio a voler parlare e dire qualcosa a noi.
- Diciamo quindi che il concetto di libertà oggi si è andato espandendo a scapito del concetto di verità. Mentre Gesù dice: "la verità vi farà liberi", l'uomo moderno dice: "nella libertà io costruirò la mia verità".
- Non voglio svalutare tutti i movimenti che hanno innalzato la bandiera della libertà, ma "quando una cosa giusta viene motivata con ragioni sbagliate, prima o poi alla cosa giusta segue una cosa sbagliata" (di nuovo: è una questione di verità).
- Nella Bibbia il contrario di verità è menzogna: ”hanno mutato la verità di Dio in menzogna" (Romani 1:25), e in qualche caso ingiustizia: ”hanno soffocato la verità nell'ingiustizia" (Romani 1:18). Quindi, la verità non è un fatto puramente speculativo, teoretico, ma fattuale, morale.
- La verità è anche autenticità, genuinità (domandi all'oste: questo vino è veramente vino? Risposta: che cos'è verità?)
- Chi non mi dice la verità, m'inganna. E questo fa capire che la verità in senso biblico è legata alla fiducia, cioè alla fede.
- Per far capire come la libertà è legata alla verità, e questa alla fiducia, farò un esempio quasi banale. Sto male e mi faccio ricoverare in ospedale; mi accolgono con grande democrazia e con grande rispetto della mia libertà: mi permettono di fare quello che voglio... Ma a me non interessa la libertà, io cerco la verità.
- Immaginiamo che all'ospedale si introduca il libero mercato della cura: tanti stand in cui vengono offerti, a pagamento, i rimedi adatti a ogni male. Sono libero di "cercare" quello che voglio, ma a me interessa "trovare" il rimedio vero: cerco la verità. E se chi mi dovrebbe curare mente, io divento schiavo della menzogna.
- Forse ora siamo convinti che il concetto di libertà come possibilità puramente formale di fare quello che si vuole, di non subire costrizione esterne, è un concetto molto debole, superficiale.
- E' libero colui che è nelle condizioni di ottenere l'obiettivo che si propone. Ma ciascuno di noi si propone la felicità, nel senso più ampio del termine. La domanda è: ci riusciamo? E se no, perché? che cos'è che ci impedisce di ottenere quello che vogliamo? Perché non siamo liberi?
- Cercare la felicità, in sé non è male: ci ricorda che l'uomo è stato creato per la gioia. La ricerca della felicità è quindi inconsapevole ricerca di Dio.
- E quando, pur volendola, non la troviamo, abbiamo un'inconsapevole intuizione del peccato. Infatti pensiamo: "io soffro, di chi è la colpa?" Qualcuno ha sbagliato, e deve pagare.
- Vogliamo essere liberi di cercare dove vogliamo la nostra felicità, ma poi ci accorgiamo che non siamo liberi di trovarla, perché non ne conosciamo la vera via.
- Dall'attaccamento alla propria personale libertà forse adesso siamo spinti a cercare la verità, cioè a cercare di capire come stanno veramente le cose.
- La libertà è un dono che Dio aveva fatto all'uomo alla creazione ("mangia pure liberamente…“), ma il Creatore aveva posto un limite alla libertà della creatura.
- Che cosa ci sarà oltre quel limite? Dio aveva detto: "Nel giorno che ne mangerai certamente morirai”. Ma sarà questa la verità? Oppure la verità è quella del serpente che dice: "Oltre quel limite avrete una libertà ancora maggiore". Torna in gioco la verità e la fede, a cui si oppongono la menzogna e la ribellione.
- Oltre il limite posto da Dio, gli uomini trovano sempre una restrizione della loro iniziale libertà. Usciranno da quel giardino di Eden dove potevano mangiare liberamente.
- L'uomo non è libero, perché muore. La morte è il fatto più evidente che l'uomo non è libero. Essa è una conseguenza del peccato, e anche di questo l'uomo è schiavo. L'uomo può decidere liberamente di cominciare a peccare, ma non può decidere liberamente di smettere: "chi commette peccato è schiavo del peccato” (Giovanni 8:34).
- Sono forse generiche affermazioni religiose, queste? O sono descrizione della realtà?
- Una legge generale: l'uso sbagliato della libertà porta alla diminuzione, fino alla perdita totale, della libertà (es. dei drogati, del capitale male usato, del figliuol prodigo).
- Abbiamo ancora molte libertà sul piano umano, ma tutte si perdono con la morte.
- Ce n'è una, una libertà fondamentale, che invece ci apre orizzonti sconfinati di libertà: la libertà di scegliere Gesù Cristo, di credere e perseverare nella Sua parola.
- Gesù fa con noi uomini peccatori l'esatto contrario di ciò che fece il serpente con gli uomini innocenti: il serpente sedusse gli uomini con la menzogna e li portò alla schiavitù e alla morte; Gesù vuole sedurci con la verità per portarci alla libertà e alla vita.
- Gesù dice il vero, Gesù non inganna. Gesù è la verità: "Io sono la via, la verità, la vita” (Giovanni 14:6).
- Se Gesù è la verità, perché non tutti vi credono? Perché esiste anche la menzogna passiva, l'atteggiamento menzognero in chi ascolta, la predisposizione ad essere ingannati: Giovanni 8:43-47.
- In questo mondo corriamo il rischio di essere imbrogliati, ma se ci imbattiamo in Colui che dice la verità e non gli crediamo, allora gli imbroglioni siamo noi. Perché non potete credere? chiede Gesù. Risposta: perché non volete credere (Giovanni 10:24-30).
- La parola della verità è quella che salva, ma per far questo deve essere accolta in un cuore "onesto e buono" (Luca 8:15), cioè sincero. Chi non è intimamente onesto, non può credere alle parole di Gesù.
- Finché viviamo, abbiamo in dono da Dio una certa porzione di libertà. L'invito è ad accrescere in misura infinita questa libertà accogliendo la verità della parola di salvezza di Gesù Cristo.
- Credere nella parola di Gesù come autentica verità significa rientrare in quella comunione con il Dio Creatore e Signore che rende la vita piena e vera.
- Non perdiamo questa possibilità: lasciamoci inserire nella dimensione eterna dalla parola di Cristo.

(Notizie su Israele, 7 luglio 2024)



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Spotlight presenta: "Le valigette. I soldi di Hamas"

Un'inchiesta di Giulia Bosetti sulla rete di finanziamenti dei terroristi

La strage perpetrata in Israele il 7 ottobre 2023 – almeno 1.200 vittime e duecentocinquanta ostaggi – ha svelato un apparato militare e una capacità organizzativa di Hamas che ha superato ogni previsione e segnato il fallimento dei servizi di intelligence israeliani, tra i più potenti al mondo. Un massacro che ha cambiato per sempre la storia contemporanea e ha dato il via alla guerra a Gaza e alla strage di oltre 36mila civili palestinesi.
  Per capire che cosa ha portato al 7 ottobre e alle scelte strategiche di Hamas, Spotlight, il programma di inchiesta di Rainews24, ha deciso di seguire i soldi: investimenti internazionali e reti di finanziamento. Dal 2018, valigette piene di contanti hanno attraversato alcuni dei confini più controllati del mondo, dal Qatar a Israele, per arrivare a Gaza. Chi ha voluto quelle operazioni e quali servizi segreti hanno garantito il trasferimento di contanti? Perché chi aveva previsto il massacro del 7 ottobre non è stato ascoltato?
  “Le valigette”, in onda sabato 6 luglio alle 11.30 e alle 20.30, e domenica 7 luglio alle 13.30 e alle 20.30 su Rainews24, è un’inchiesta sulle relazioni di Hamas con il Qatar e l’Iran, ma anche su quelle con il governo Netanyahu. Spotlight ha intervistato alti funzionari dell’intelligence israeliana e americana, passando per i servizi segreti europei e le unità antiriciclaggio giordane. Un viaggio tra investimenti finanziari e oscuri interessi politici, una storia ripresa il 2 luglio 2024 dal Jerusalem Post, sulla quale Spotlight è ora in grado di mostrare nuovi documenti esclusivi e testimonianze inedite. 

(RaiNews24, 6 luglio 2024)

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Rispondere all'offensiva strategica di Hezbollah

Israele deve porre fine al regno del terrore di Hezbollah nel nord di Israele. Hezbollah sta bruciando le riserve naturali israeliane, i pascoli, i campi e i frutteti. Più di un migliaio di abitazioni sono state distrutte. Circa 80 mila israeliani sono stati sfollati dalle loro case. L'obiettivo finale del gruppo sciita libanese è lo stesso del suo padrone iraniano: l'annientamento di Israele.

di Caroline Glick

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Incendi provocati dai razzi di Hezbollah lanciati dal Libano bruciano la vegetazione vicino alla città di Tzfat, nel nord di Israele, il 12 giugno 2024

Hezbollah sta devastando il nord di Israele. Le riserve naturali, i pascoli, i campi e i frutteti stanno andando a fuoco. Le basi militari, tra cui diversi asset strategici, stanno subendo gravi danni. Più di un migliaio di abitazioni sono state distrutte. Le aziende e le imprese chiudono i battenti. E circa 80 mila sfollati israeliani vivono in alberghi senza sapere quando potranno tornare a casa.
  Nelle ultime settimane il gruppo paramilitare sciita ha intensificato notevolmente il ritmo e la letalità dei suoi attacchi lanciati contro l'Alta Galilea, la Galilea occidentale e le alture di Golan, oltre ad estendere i suoi attacchi all'area del Monte Carmelo e alla valle di Jezreel.
  Haifa, Acri e Tiberiade sono state tutte oggetto di attacchi missilistici, con droni e razzi. Mercoledì 12 giugno, durante la festività di Shavuot, Hezbollah ha lanciato più di 200 razzi verso Israele. Giovedì 13, ne sono stati lanciati più di un centinaio estendendo gli incendi, e intensificando caos e distruzione.
  Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sostengono che le azioni di Hezbollah non hanno rotto lo schema degli attacchi del tipo "tit-for-tat" ("occhio per occhio") che il gruppo libanese e Israele si sono sferrati a vicenda negli ultimi otto mesi. Martedì 11 giugno, l'Aeronautica israeliana ha condotto un attacco aereo contro l'unità Nasser del comando meridionale di Hezbollah. L'unità Nasser è una formazione delle dimensioni di una divisione ed è responsabile delle operazioni di Hezbollah lungo il confine con Israele.
  Il comandante dell'unità, Taleb Sami Abdullah, e altri tre suoi miliziani sono stati uccisi nel raid. L'affermazione dell'IDF, secondo cui le possenti raffiche di missili, droni e razzi lanciate da Hezbollah il 12 e il 13 giugno, e proseguite fino a venerdì 14, sono una tattica del "tit-for-tat", rafforza la linea di Hezbollah secondo cui la sua massiccia aggressione è una reazione legittima all'assassinio di Abdullah.
  Quanto affermato dall'IDF è certamente controproducente. Ma non è questo il problema principale.
  Il problema principale di quanto asserito dalle Forze di Difesa Israeliane è che viene ignorata la logica strategica delle operazioni di Hezbollah, che non lancia attacchi in risposta a nessuna specifica operazione israeliana, ma lo fa meramente per raggiungere i propri obiettivi strategici. Hezbollah non è solo offensivo: sta conducendo una guerra strategica con chiari obiettivi strategici a lungo e a medio termine.
  Il movimento sciita libanese ha iniziato a bombardare Israele con droni, razzi anticarro e missili l'8 ottobre 2023. Da allora ha continuato gli attacchi, intensificandoli lentamente. Lungi dall'essere effimere, le mosse di Hezbollah sono guidate da obiettivi finali. Da un assalto all'altro, il gruppo sciita impara di più su come penetrare le difese di Israele. L'escalation dei suoi attacchi è una funzione della sua curva di apprendimento.

• Consentire il controllo di Hezbollah sul Libano
  Quali sono gli obiettivi che Hezbollah intende conseguire con le sue raffiche di razzi? L'obiettivo finale del movimento sciita libanese è lo stesso del suo padrone iraniano: l'annientamento di Israele. Ma Hezbollah ha altresì degli obiettivi intermedi. Il primo è quello di ottenere il controllo operativo sul nord di Israele. Tale controllo, secondo Hezbollah e l'Iran, costringerà Israele a capitolare sul campo di battaglia strategico. Se i razzi anticarro, i droni e i missili lanciati dal gruppo libanese riusciranno a vanificare le capacità dello Stato ebraico di difendere il nord del Paese, allora Israele sarà costretto a capitolare sulla questione della sovranità formale al tavolo dei negoziati per ottenere la "tranquillità".
  Lo specifico "accordo" che Hezbollah intende raggiungere prevede la resa formale da parte di Israele della sua sovranità sul Monte Dov, una vasta area sulle alture del Golan che controlla tutto il nord di Israele, compresa la baia di Haifa.
  Hezbollah è in grado di portare avanti le proprie operazioni perché è protetto da una serie di attori sia in Libano che sulla scena internazionale. Come sostiene da anni in modo convincente l'esperto di affari libanesi Tony Badran, Hezbollah è la legione straniera libanese dell'Iran. È anche il Libano stesso.
  Il gruppo sciita controlla tutti gli aspetti della politica e degli affari di sicurezza nel Paese e gran parte dell'economia. Gli organi ufficiali del Libano, le sue istituzioni statali (comprese le Forze Armate libanesi), il Parlamento, la Banca Centrale e il governo sono tutte foglie di fico il cui scopo è nascondere questa verità fondamentale. L'UNIFIL, la forza militare delle Nazioni Unite incaricata di tenere Hezbollah lontano dal confine con Israele, agisce a piacimento del movimento sciita. Il suo personale vive (e muore) a compiacenza di Hezbollah. Di conseguenza, non solo l'agenzia è incapace di svolgere il proprio mandato, ma, come per le Forze Armate Libanesi, la continua presenza dell'UNIFIL lungo il confine protegge le forze e le risorse di Hezbollah dall'IDF.
  Sotto il controllo di Hezbollah, il Libano non è un vero e proprio Paese. È la base militare avanzata dell'Iran contro Israele che si dà il caso conti 5,5 milioni di residenti. Il compito dei residenti è quello di negare di vivere in una base missilistica iraniana.
  Le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e l'Unione Europea sono perfettamente in grado di riconoscere questa verità fondamentale. Ma si rifiutano ostinatamente di farlo. Piuttosto, essi consentono il controllo costante di Hezbollah unendosi ai libanesi nel continuare a far credere che il Libano è ancora un Paese con istituzioni statali che operano indipendentemente da Hezbollah, che sono in grado di opporsi alle azioni del movimento sciita e pertanto degne del sostegno finanziario e militare statunitense e di quello internazionale. Tale posizione consente loro di agire diplomaticamente e di mediare gli accordi di resa israeliani all'aggressione genocida di Hezbollah, evitando al tempo stesso scontri diretti con Hezbollah o con l'Iran stesso.
  Di fronte agli attacchi di Hezbollah e alla protezione di cui esso gode da parte dei suoi sostenitori sia in Libano che sulla scena mondiale, Israele si trova di fronte a un dilemma. Permettere a Hezbollah di raggiungere i suoi obiettivi sarebbe un suicidio nazionale. Ma per impedire al gruppo sciita di raggiungere tali obiettivi Israele dovrà ancora una volta combattere una grande guerra contro un altro nemico protetto dal sistema internazionale.
  C'è anche la sfida militare. Nella generazione passata, i Capi di Stato maggiore dell'IDF che si sono avvicendati hanno abbracciato l'idea che l'era delle grandi guerre convenzionali fosse finita. Sulla base di questa valutazione falsa, ma popolare, per 20 anni, lo Stato Maggiore ha ridotto drasticamente le forze di terra israeliane e ha concentrato la maggior parte delle risorse militari israeliane nell'Aeronautica e in altre unità ad alta tecnologia. Queste forze non erano finalizzate a sviluppare piani per sconfiggere Hamas e Hezbollah, ma ad attaccare gli impianti nucleari iraniani, preferibilmente come parte di una forza guidata dagli Stati Uniti. L'idea che Israele potesse indebolire la propria indipendenza strategica in cambio di garanzie strategiche da parte degli Stati Uniti ha dominato il discorso sulla sicurezza nazionale israeliana.
  Tuttavia, dal 7 ottobre, Israele si è trovato coinvolto in una grande guerra convenzionale su sette fronti: Gaza, Libano, Giudea e Samaria, Mar Rosso, Iran e Iraq/Siria.
  Mentre Israele si preparava per la guerra che voleva combattere – una guerra a basso costo e ad alta tecnologia combattuta principalmente da centri operativi climatizzati lontani dai campi di battaglia – i suoi nemici si preparavano per la guerra che volevano combattere. Vale a dire, questa è la loro guerra per eliminare Israele. Israele ha addestrato hacker, e Hamas e Hezbollah hanno addestrato eserciti di terroristi jihadisti costituiti da assassini e stupratori e hanno formato squadre per lanciare missili, droni e razzi.
  Combattere questi eserciti con le forze ad alta tecnologia israeliane si sta rivelando estremamente difficile. Anche la convinzione di Israele di contare sul sostegno statunitense ha subito un duro colpo. A dire il vero, Washington è disposta a sostenere gli sforzi di Israele per difendersi dall'aggressione lungo i sette fronti presidiati dall'Iran e dai suoi proxies. Si oppone però all'azione offensiva israeliana e ha lavorato attivamente per indebolire la capacità di Israele di condurre operazioni offensive prolungate. Tra le altre cose, gli Stati Uniti si rifiutano di condividere informazioni satellitari e di altro tipo relative a obiettivi offensivi, e stanno imponendo embarghi o rallentando il trasferimento di munizioni offensive alle forze terrestri e aeree israeliane.

• Porre fine al regno del terrore di Hezbollah
  Dato l'imperativo strategico di sconfiggere Hezbollah e impedirgli di raggiungere il controllo operativo o strategico sul nord di Israele, e alla luce della debolezza diplomatica di Israele rispetto a Hezbollah (e Hamas) e delle sue debolezze operative, la domanda è: come dovrebbe procedere Israele?
  La risposta inizia con l'imperativo strategico. Israele deve porre fine al regno del terrore di Hezbollah nel nord di Israele. Deve indebolire la capacità militare di Hezbollah al punto che quest'ultimo non sarà più in grado di colpire Israele a piacimento. Per raggiungere questo obiettivo, Israele deve prendere il controllo del lato libanese del confine, distruggere le forze di Hezbollah a sud del fiume Litani e poi restare nel Libano meridionale per il prossimo futuro.
  Un simile obiettivo è, ovviamente, facile da dichiarare. Ma è molto più difficile da conseguire. Realisticamente, per raggiungerlo, Israele ha bisogno di aumentare notevolmente le dimensioni delle sue forze permanenti e di riserva, e possedere la capacità militare-industriale per armare le sue forze in modo indipendente. Israele sta già lavorando per raggiungere entrambi questi obiettivi. Tuttavia, l'indipendenza industriale e l'ampliamento delle forze militari richiedono tempo. E il tempo è essenziale. Non si può pretendere che gli 80 mila sfollati residenti nel nord, ora sparsi negli hotel di tutto il Paese, aspettino anni per tornare nelle proprie case.
  La decisione presa nel maggio 2000 dall'allora primo ministro Ehud Barak di cedere a Hezbollah la zona di sicurezza nel sud del Libano è la ragione per cui l'organizzazione terroristica è stata in grado di costruire le sue forze al punto da rappresentare una minaccia esistenziale alla sopravvivenza di Israele. Impegnandosi a invertire la sua decisione, Gerusalemme imboccherà la strada della vittoria. Il governo israeliano preparerà psicologicamente l'opinione pubblica alla strada da percorrere e fornirà allo Stato Maggiore e ai gradi inferiori dell'IDF la guida necessaria per sviluppare e portare a termine missioni tattiche che promuoveranno l'obiettivo finale di Israele.
  Se Israele invadesse il Libano con una forza pari a un vero e proprio corpo militare indurrebbe la comunità internazionale guidata dagli Stati Uniti a mobilitarsi contro di esso. Ma se si muovesse lentamente, con battaglie discrete contro obiettivi specifici, Israele potrebbe rimanere al di sotto degli schermi radar delle capitali occidentali e delle istituzioni globali ostili. In apparenza, Israele può presentare le sue operazioni come semplici risposte agli attacchi di Hezbollah. Ma proprio come Hezbollah utilizza ogni attacco missilistico come mezzo per sondare e imparare come penetrare le difese di Israele per portare avanti il proprio obiettivo strategico, anche collegando ogni azione all'obiettivo strategico di ripristinare la zona di sicurezza nel Libano meridionale, le operazioni di Israele saranno pietre per pavimentare la strada che conduce alla vittoria strategica.
  Ogni mossa renderà il nord più sicuro. Ed ogni mossa minerà gli obiettivi di Hezbollah. Agendo lentamente e deliberatamente, Israele può imparare man mano che procede, adattando le sue operazioni alle condizioni che scopre sul terreno, espandendole quando le realtà politiche lo consentono e limitandole quando quelle realtà sono più scoraggianti.
  Ad oggi, la maggior parte delle azioni di Israele in Libano ha comportato l'uccisione di comandanti militari di Hezbollah come Abdullah. Tuttavia, come ha osservato l'Alma Research and Education Center, specializzato nell'osservazione delle operazioni e delle capacità di Hezbollah, in un'analisi dell'operazione in questione e di altre simili: "Ognuno ha un successore".
  "Un tentativo di rimuovere gli alti funzionari può essere solo uno sforzo coadiuvante. È vitale e giusto, ma in fin dei conti è uno sforzo tattico privo di significato strategico".
  Un'operazione in lenta escalation in Libano finalizzata all'obiettivo strategico di porre fine all'assalto di Hezbollah al nord di Israele e garantire la sovranità dello Stato ebraico consentirà a Israele di intensificare gradualmente le sue operazioni man mano che le sue forze saranno preparate e l'indipendenza militare-industriale sarà ampliata. Fornirà un mezzo per evitare una diffamazione internazionale più grave che Israele sicuramente subirebbe nel caso di un'invasione di massa, spingendo allo stesso tempo lo Stato ebraico verso un obiettivo strategico in grado di garantirgli gli interessi vitali, e la sopravvivenza.
  Caroline Glick è un'acclamata columnist e autrice di The Israeli Solution: A One-State Plan for Peace in the Middle East.

(Gatestone Institute, 5 luglio 2024 - trad. di Angelita La Spada)

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“Odio tutti gli ebrei”: il video shock che inchioda la giovane Dem

Sta facendo molto discutere un video pubblicato da una ragazza di fronte alle immagini della distruzione di Gaza. Le sue parole sono diventate virali in poco tempo.

di Francesco Spagnolo

A pochi giorni di distanza dal caso di Gioventù Nazionale, i giovani di Fratelli d’Italia, e dalle dimissioni di due militanti dopo l’inchiesta di Fanpage, c’è un nuovo video che sta facendo molto discutere sul web e questa volta non riguarda un esponente della maggioranza o del partito guidato dal premier Meloni.
  Al centro della bufera è finita Cecilia Parodi, una scrittrice invitata al convegno dei giovani dem. Le sue parole rilasciate in un video davanti alle distruzioni di Gaza da parte di Israele ha fatto il giro del web in davvero poco tempo. Anche in questo caso abbiamo insulti antisemiti nei confronti degli ebrei, ma non c’è stata nessuna reazione politica della sinistra. Una vicenda destinata a far discutere ancora per diverso tempo.

Il video incriminato
  Come detto in precedenza, a far discutere è un video pubblicato sui social dalla stessa scrittrice. Nel filmato, come riportato da Libero, si sente la Parodi reagire in modo molto duro davanti alle immagini che mostrano le distruzioni avvenute nella Striscia di Gaza proprio a causa di Israele.
  “Odio tutti gli ebrei, odio tutti gli israeliani, dal primo all’ultimo. Odio tutti quelli che li difendono. I giornalisti, tutti i politici, tutti i paraculi. Spero di vederli impiccati. Giuro che sarò la prima della fila a sputargli addosso“, le parole della scrittrice diventati virali nel web in davvero poco tempo. Naturalmente si tratta di dichiarazioni molto dure e che hanno dato vista ad una vera bufera sui social.

Il silenzio della sinistra
  Se sulla vicenda di Gioventù Nazionale la sinistra aveva immediatamente attaccato il governo chiedendo lo scioglimento dell’ala giovanile di FdI, in questo caso da parte del Partito Democratico c’è stato silenzio. Una scelta che sta provocando non poche polemiche se si pensa che la scrittrice è stata ospite delle iniziative dei giovani della forza politica guidata proprio da Elly Schlein.
  Vedremo se nelle prossime ore ci sarà una presa di posizione da parte della segretaria dem oppure si manterrà una linea del silenzio che, come già successo in passato, rischia ad essere un’arma a doppio taglio.

(Notizie.com, 6 luglio 2024)

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Venti di cambiamento nel Regno Unito. Trionfo dei laburisti: Starmer nuovo Primo Ministro

La Comunità ebraica tra speranze e attese

di Marina Gersony
 
Ieri, giovedì 4 luglio, le elezioni generali nel Regno Unito hanno rinnovato i 650 seggi della Camera dei Comuni, la camera bassa del Parlamento. I primi exit poll hanno rivelato una vittoria schiacciante del Partito Laburista, che ha ottenuto il 33,8% dei voti e 411 seggi, raggiungendo la maggioranza parlamentare. Questo risultato rappresenta la peggiore sconfitta nella storia per i conservatori, guidati da Rishi Sunak, che hanno ottenuto solo 119 seggi e il 23,7% dei voti. Seguono i centristi Lib-Dem e l’estrema destra entra in Parlamento con i sovranisti di Reform UK di Nigel Farage, eletto deputato dopo sette tentativi falliti.
  Keir Starmer, ex pubblico ministero che ha assunto la guida del Partito Laburista nel 2020 sostituendo Jeremy Corbyn, diventa così il nuovo Primo Ministro: «Ce l’abbiamo fatta! Il cambiamento inizia ora», ha dichiarato nel suo discorso di vittoria. Buckingham Palace ha confermato che re Carlo III ha ricevuto Starmer e gli ha chiesto di formare una nuova amministrazione.
  Il premier uscente, Rishi Sunak, ha ammesso la sconfitta e ha presentato le sue dimissioni a re Carlo III. «Il Partito Laburista ha vinto queste elezioni generali e ho chiamato Sir Keir Starmer per congratularmi con lui per la sua vittoria», ha detto Sunak nel suo ultimo discorso.

• IL RITORNO DEGLI EBREI AL LABOUR
  Questa tornata elettorale rappresenta una svolta cruciale per la comunità ebraica del Regno Unito, che negli ultimi anni ha vissuto un rapporto complesso con i principali partiti politici. L’agenda antisionista di Corbyn e lo scandalo antisemita associato avevano spinto quasi metà degli ebrei britannici a dichiarare l’intenzione di lasciare il Paese in caso di vittoria laburista, alienando anche un più ampio elettorato. Di conseguenza, la comunità ha accolto favorevolmente la vittoria del “nuovo” Partito Laburista di Sir Keir Starmer, seppure con qualche riserva, osservando attentamente gli sviluppi. I leader ebraici hanno elogiato Starmer per il suo successo e ringraziato il governo conservatore uscente per il sostegno fornito dopo l’attacco del 7 ottobre.
  Il rabbino capo Ephraim Mirvis, considerato la massima autorità spirituale e morale ebraica ortodossa in Gran Bretagna, ha sottolineato che Starmer diventa Primo Ministro in un periodo di «polarizzazione, estremismo e conflitto». Phil Rosenberg, presidente del Consiglio dei deputati degli ebrei britannici, ha dichiarato a sua volta che nessuno nella comunità ebraica dimenticherà lo stato in cui si trovava il Partito Laburista quando Starmer ne prese il controllo nel 2020, caratterizzato da antisemitismo e inadeguatezza a governare. Rosenberg ha anche ringraziato Rishi Sunak e il Partito Conservatore per il loro sostegno alla comunità ebraica negli ultimi 14 anni, tra cui l’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA e la proscrizione di Hamas e Hezbollah.
  Sotto la guida di Keir Starmer, il Partito Laburista ha fatto notevoli sforzi per affrontare l’antisemitismo, un problema che aveva causato profonde fratture durante la leadership di Jeremy Corbyn. Il Jewish Labour Movement (JLM) ha espresso rinnovata fiducia nel partito, affermando che i suoi membri sentono nuovamente il Labour come un luogo sicuro e accogliente per gli ebrei. Starmer ha assicurato alla comunità ebraica che i cambiamenti all’interno del partito sono permanenti e ha promesso di continuare a finanziare il Community Security Trust (CST).

• CHI È KEIR STARMER
  Nato nel 1962 a Southwark, un borough di Londra, figlio di una infermiera e un costruttore di utensili, Sir Keir Rodney Starmer è stato il primo della sua famiglia a frequentare l’università, studiando legge a Leeds e Oxford. Ex pubblico ministero, dopo la pesante sconfitta dei laburisti nelle elezioni generali del 2019 e le dimissioni di Corbyn, il 4 gennaio 2020 ha annunciato la sua candidatura alla leadership del Partito Laburista il 4 aprile 2020, battendo le rivali Rebecca Long-Bailey e Lisa Nandy. Eletto capo del partito con il 56,2% dei voti al primo turno, è stato lodato per la sua imparzialità e professionalità. Definito serio, moderato e centrista, ha ereditato un partito afflitto da lotte interne e accuse di antisemitismo, che ha affrontato con determinazione espellendo gli elementi antisemiti e presentando pubbliche scuse alla comunità ebraica. «Ho cambiato il partito laburista e, se avrò il privilegio di essere eletto, cambierò anche il Paese», aveva promesso.

• LADY VICTORIA: LA PRIMA FAMIGLIA EBRAICA A DOWNING STREET
  Dopo la vittoria elettorale, i media hanno subito acceso i riflettori su Lady Victoria, l’affascinante moglie di Keir Starmer chiamata affettuosamente anche Vic o Vicky. Nata a Londra nel settembre 1973 (ma chi dice nel 1974) con il nome di Victoria Jane Alexander, è cresciuta a Gospel Oak, nel nord-ovest della città. Suo padre Bernard, un docente di Economia, è un ebreo osservante nato da una famiglia ebreo-polacca emigrata nel Regno Unito prima della Seconda guerra mondiale. Sua madre, Barbara Moyes, convertitasi all’ebraismo e morta nel 2020, ha lavorato come medico della comunità e ha prestato servizio come Executive Coach presso la NHS Leadership Academy. Vic ha una sorella maggiore, Judith.
  Descritta dalle cronache come elegante, misteriosa e riservata, ammirata soprattutto per il low profile, Lady Victoria è un’ex avvocata, proprio come suo marito, e attualmente lavora come manager nella Sanità pubblica britannica. Di lei si dice anche che sia «simpatica, intelligente e straordinaria». La coppia vive con i loro due figli, Toby di 13 anni e Victoria di 11, in una casa da 1,75 milioni di sterline a Camden, nel nord di Londra. Si racconta che sia molto amica di Amal e George Clooney e che frequenta la sinagoga londinese liberale di St John’s Wood con i suoi cari. Per la prima volta, una famiglia ebraica si appresta dunque a risiedere al numero 10 di Downing Street. Anche se non è del tutto certo. Estremamente attenta alla privacy della sua famiglia, fonti interne al partito laburista la descrivono come la «First Lady riluttante», talmente riluttante che, si dice, potrebbe non essere affatto entusiasta di trasferirsi nella residenza ufficiale prevista, preferendo rimanere nell’attuale dimora nel Nord di Londra.

• IL SUPPORTO A ISRAELE E GLI ATTACCHI DEI PRO-PAL
  La fede di Lady Victoria è diventata più evidente a livello politico dopo gli attacchi del 7 ottobre. Starmer ha dichiarato che metà della famiglia di sua moglie è ebrea, sia nel Regno Unito che in Israele, e ha espresso sostegno alle comunità ebraiche e a Israele. Ha criticato la BBC per non aver etichettato Hamas come un’organizzazione terroristica e ha sottolineato l’importanza di combattere l’antisemitismo.
  Durante la campagna elettorale, la famiglia di Starmer è stata bersaglio di proteste pro-Palestina. Lady Victoria è stata costretta a lasciare la sua casa a causa delle proteste fuori dalla loro residenza a North London. Combattere l’antisemitismo e sostenere la comunità ebraica sono stati elementi chiave del “nuovo” Partito Laburista sotto la guida di Starmer, portando a un notevole aumento di consensi tra gli elettori ebrei.
  Starmer ha spesso evidenziato l’importanza dell’ebraismo nella sua vita familiare, definendo lo Shabbat un «punto di riferimento granitico nella settimana» e sottolineando come queste tradizioni siano fondamentali per mantenere vive le radici religiose della famiglia. Recentemente, Rishi Sunak lo ha criticato per aver dichiarato che, anche come Primo Ministro, avrebbe mantenuto libera la serata del venerdì per celebrare lo Shabbat. Starmer ha risposto definendo questa critica insensibile e con sfumature antisemite, sottolineando come il venerdì sera sia un momento significativo per molte religioni.

• RINNOVAMENTO E COOPERAZIONE
  Diversi osservatori ritengono che il nuovo governo non apporterà cambiamenti significativi alla linea seguita sulla Brexit, ma c’è speranza che possa portare maggiore stabilità e migliorare i rapporti con l’Unione Europea. La leadership di Starmer potrebbe segnare un’era di pragmatismo e moderazione. Il nuovo premier avrà presto l’opportunità di confrontarsi con le principali figure politiche europee al vertice NATO negli Stati Uniti dal 9 all’11 luglio.
  La schiacciante vittoria dei laburisti potrebbe segnare l’inizio di una fase di rinnovamento e consolidamento, sia sul fronte interno che nelle relazioni con gli alleati europei e transatlantici. Resta da vedere come Starmer e il suo governo affronteranno le sfide future, ma la speranza è che possano inaugurare un periodo di maggiore stabilità e cooperazione.

• RIFLESSIONI E CONSIDERAZIONI
  La vittoria del Partito Laburista rappresenta dunque non solo un cambiamento politico, ma anche un momento di riflessione per la società britannica. L’affermazione di una famiglia ebraica a Downing Street è un segnale di inclusività e progresso, dimostrando come la diversità possa arricchire il tessuto sociale e politico di una nazione. Tuttavia, questo cambiamento porta con sé anche delle sfide. La comunità ebraica, sebbene abbia accolto positivamente la vittoria di Starmer, mantiene una vigilanza costante contro l’antisemitismo, consapevole che le parole devono essere seguite da azioni concrete.
  Il ritorno della comunità ebraica al Partito Laburista non è solo simbolico, ma rappresenta un atto di fiducia verso un leader che ha dimostrato impegno e determinazione nel combattere l’odio e i pregiudizi. Questo riavvicinamento è una vittoria per la giustizia e l’uguaglianza, e un monito per tutti i partiti politici: il rispetto e la dignità umana non sono negoziabili.
  Starmer, con le sue radici nella classe operaia e la sua esperienza come pubblico ministero, porta una prospettiva unica al ruolo di Primo Ministro. La sua capacità di navigare tra le complessità del diritto e della politica, unita alla sua empatia personale per le tradizioni ebraiche, potrebbe rivelarsi una combinazione vincente per un governo che aspira a unire piuttosto che dividere.
  In questo contesto, la politica estera del Regno Unito potrebbe vedere un nuovo corso. La posizione ferma di Starmer a favore di Israele e contro il terrorismo è un indicatore di come il nuovo governo potrebbe affrontare le tensioni internazionali. Tuttavia, l’equilibrio tra supporto incondizionato e diplomazia cauta sarà cruciale per mantenere la stabilità in Medio Oriente e per la credibilità del Regno Unito sulla scena globale.
  La comunità ebraica, e più in generale tutti i cittadini del Regno Unito, guardano con attenzione e speranza a questa nuova fase della politica britannica, con l’auspicio che possa portare stabilità, progresso e giustizia per tutti.

(Bet Magazine Mosaico, 5 luglio 2024)

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Come mai media ed enti internazionali ignorano i crimini di Hamas contro i palestinesi?

"Tanti abitanti di Gaza hanno cercato di protestare e sono stati arrestati e torturati. Sono uno di loro e so cosa significa essere abbandonati da coloro a cui interessa solo dare addosso a Israele".

Dall’inizio della guerra in corso tra Israele e Hamas, Hamas ha commesso innumerevoli atrocità contro il suo stesso popolo a Gaza, cosa che accadeva anche prima della guerra. Eppure, per qualche motivo, nonostante Hamas abbia di fatto preso in ostaggio la striscia di Gaza e tutti i suoi abitanti e li terrorizzi regolarmente, questi crimini non vengono mai riportati dai media arabi e occidentali, né dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, tutti inclini a dipingere Hamas come un legittimo gruppo di resistenza che sta cercando di “liberare” i palestinesi....

(israele.net, 5 luglio 2024)

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Chi era il sergente Iakiminskyi, il soldato che ha salvato il suo collega nell’attentato a Karmiel nonostante le ferite

di Luca Spizzichino

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Il sergente Aleksandr Iakiminskyi, autista del 71° Battaglione della 188a Brigata, è rimasto ucciso a causa delle ferite riportate durante l’attacco terroristico di mercoledì nel centro commerciale di Karmiel. L’attentatore è stato neutralizzato dallo stesso Iakiminskyi, prima che perdesse i sensi.
  Le immagini delle telecamere di sorveglianza mostrano il terrorista prima pugnalare al collo il sergente, e successivamente aggredire il secondo. Nel giro di pochi secondi, Iakiminskyi cade a terra per le ferite da taglio, ma quando il terrorista si è voltato per pugnalare di nuovo il suo collega, il soldato è riuscito ad armare il fucile e a sparare, neutralizzandolo. Successivamente Iakiminskyi è stato portato d’urgenza al Galilee Medical Center di Nahariya, ma non ce l’ha fatta a causa delle ferite riportate.
  Successivamente le forze dell’ordine hanno identificato il terrorista con Jawwad Omar Rubia, un cittadino israeliano della vicina città araba di Nahf.
  Iakiminskyi lascia i genitori Olga e Nikolai e il fratello undicenne Ilya. “Sono molto orgogliosa di ciò che ha fatto” ha affermato la madre a Ynet. “All’inizio è stato duro per lui nell’esercito, ma di recente si era abituato alla struttura ed era felice di dare il suo contributo. Sarebbe dovuto tornare a casa domani” ha aggiunto. “Era sempre in giro, quindi ero sempre preoccupata. Ma ogni volta che gli mandavo un messaggio, lui rispondeva sempre che andava tutto bene”.
  “Per me è importante che le persone ricordino che era una persona meravigliosa e gentile, amata da molti”, ha detto.
  Il capo della polizia del distretto settentrionale, Shuki Tahauko, ha spiegato alla stampa che il terrorista era arrivato al centro commerciale a piedi. “Siamo a conoscenza di questo tipo di attacchi, ma escludiamo la possibilità che ci siano altri terroristi nelle vicinanze”, ha affermato.
  Il sindaco di Karmiel, Moshe Koninski, ha dichiarato all’emittente Kan: “È la prima volta che viviamo un evento del genere” sottolinea Moshe Koninski, sindaco di Karmiel, all’emittente televisiva Kan.

(Shalom, 4 luglio 2024)

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Israele e Hezbollah: sull'orlo dell'abisso

di Michele Magistretti

Non accenna a diminuire l’intensità del conflitto tra il gruppo terrorista sciita Hezbollah e l’esercito israeliano al confine tra lo stato ebraico e il Libano. Tra la dirigenza israeliana torna a venire ventilata l’ipotesi di invasione del limitrofo paese arabo. Una decisione di tale portata rischia però di far precipitare definitivamente la regione in una più ampia e devastante guerra regionale, mettendo così a rischio l’intero equilibrio geostrategico già in sofferenza dallo scoppio della guerra tra Hamas e Israele.
Vediamo quindi quali sono le opzioni e i possibili scenari di un eventuale conflitto.
Dallo scoppio del nuovo conflitto aperto tra il gruppo terrorista Hamas e lo stato ebraico, Hezbollah ha iniziato una campagna di bombardamenti ai confini settentrionali di Israele. Il gruppo sciita ha sentito il dovere di intervenire per mostrare solidarietà all’alleato palestinese, pur cercando sempre di non entrare direttamente in guerra con Israele, preferendo limitarsi ai bombardamenti tramite droni e missili.
Pur sfoggiando una retorica massimalista e bellicosa, anche dopo l’invasione di terra della Striscia di Gaza, il Partito di Dio non ha voluto impegnarsi in uno scontro aperto con l’esercito israeliano. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto, Hezbollah, a differenza di Hamas, è un proxy diretto di Teheran, che non vuole logorare un asset fondamentale del proprio Asse della Resistenza in un conflitto che non considera esistenziale e di primario interesse nazionale. Inoltre, la stessa dirigenza sciita deve mediare tra le proprie aspirazioni ideologiche e di potenza e le dinamiche interne del proprio paese. Un conflitto aperto contro Israele rischierebbe di far precipitare il Libano in uno scenario quasi apocalittico, considerando la già precaria situazione economica del paese. I leader di Hezbollah sanno anche che la propria posizione oltranzista contro Israele non è condivisa dalle comunità cristiane del paese e nemmeno completamente dalla fazione sunnita. Avendo acquisito maggiore rilevanza e peso politico negli ultimi anni, devono calcolare le proprie mosse attentamente per evitare di perdere influenza nello scenario politico interno libanese.
Con il prolungarsi del conflitto nella Striscia, la dirigenza israeliana ha iniziato a dividersi al suo interno. La componente centrista del gabinetto di guerra, rappresenta dal leader Benny Gantz, ha abbandonato l’esecutivo, essendo in disaccordo con le modalità con cui Benjamin Netanyahu sta conducendo l’offensiva nell’exclave palestinese. In questo modo, però, potrebbero aumentare le pressioni da parte degli alleati estremisti del Likud, i quali vogliono la completa rioccupazione della Striscia e spingono per un’invasione di terra del Libano meridionale. Nonostante alcune componenti dell’esercito non siano favorevoli all’apertura di un secondo fronte, lo stesso Bibi potrebbe valutare come utile per la propria sopravvivenza politica una campagna militare contro il nemico settentrionale.
Un conflitto contro Hezbollah avrebbe le caratteristiche di una guerra totale vera e propria con il rischio di intervento dell’Iran e delle milizie sciite del Siraq in soccorso al proprio alleato libanese. Inoltre, a differenza di Hamas, Hezbollah detiene un ingente arsenale e può contare su decine di migliaia di miliziani forgiati anche dalle esperienze belliche in Siria e del know-how militare iraniano e russo. La stessa configurazione del territorio del Libano meridionale facilita la guerriglia, essendo collinare e boschivo. Dopo la guerra del 2006, Hezbollah ha ampliato il proprio arsenale, che può contare decine di migliaia di razzi, diverse migliaia di missili a corto raggio e alcune centinaia a medio e lungo raggio. Qualora venisse dispiegata al suo massimo potenziale, la potenza di fuoco è in grado di disturbare l’aviazione israeliana e di creare difficoltà allo stesso sistema antimissilistico Iron Dome, aumentando quindi i danni alle infrastrutture e le vittime tra la popolazione civile. Alla luce di questi fattori di rischio, l’esercito israeliano farebbe largo uso dei bombardamenti aerei per fiaccare le capacità di fuoco dell’avversario, aumentando a dismisura il livello delle devastazioni. Israele avrebbe comunque ulteriori difficoltà nel confronto con Hezbollah. Il gruppo sciita ha costruito una rete di tunnel ancora più estesa di quella presente a Gaza e, a differenza di Hamas, può godere di una linea di rifornimenti diretta e continua dall’Iran attraverso la Siria e l’Iraq.
Dall’inizio della primavera l’intensità dello scontro tra i due attori è aumentata, da entrambi i lati della frontiera decine di migliaia di civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie dimore per essere sfollati verso le regioni interne dei rispettivi paesi. Le parti in conflitto devono quindi fare i conti con alcuni incentivi ad innalzare il livello dello scontro e i rischi di una devastante guerra regionale. 

(Mondo Internazionale, 5 luglio 2024)

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Amico di Israele e della comunità ebraica: ecco Keir Starmer, il prossimo premier britannico

di Luca Spizzichino

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Keir Starmer

A seguito della schiacciante vittoria dei laburisti nelle elezioni parlamentari nel Regno Unito, Keir Starmer, leader del partito dal 2020, si appresta a entrare a Downing Street come Primo Ministro. Fermo sostenitore del diritto di Israele a difendersi, appoggia la fine della guerra solo quando gli ostaggi saranno liberati.
  Gli analisti prevedono che Starmer possa diventare più critico nei confronti del governo di Netanyahu, rispetto al suo predecessore Rishi Sunak, ma, al contrario di quanto sta avvenendo in diversi governi sinistra in Occidente, il leader laburista ha affermato che il governo riconoscerebbe uno Stato palestinese solo come parte di un processo di pace globale e non ha stabilito un programma per tale mossa.
  Da ottobre 2023 Starmer ha più volte sottolineato la sua ferma convinzione nel diritto di Israele all’autodifesa e si è rifiutato per molto tempo di chiedere la fine dei combattimenti. Solo dopo pressioni interne ha accettato di sostenere tale richiesta, a condizione che vengano liberati tutti ostaggi ancora nelle mani di Hamas.
  Starmer, 61 anni e con una lunga carriera in legge, pur considerato un politico poco carismatico, ha permesso al suo partito di registrare una delle più grandi vittorie elettorali della storia e di tornare al potere dopo 14 anni di governi conservatori. Ha preso le redini del suo partito nel 2020 dopo che Jeremy Corbyn l’aveva praticamente distrutto, con un crescente antisemitismo che si respirava all’interno. Il processo di cambiamento dei Labour è partito proprio con l’estromissione di Corbyn e con le scuse pubbliche di Starmer per la deriva antisemita presa dal partito. Negli anni successivi inoltre ha allontanato dal partito circa 300 sostenitori del suo predecessore.
  Nel 2019, con Corbyn che si era dichiarato “amico” di Hamas e Hezbollah, solo l’11% degli ebrei britannici aveva votato Labour. I sondaggi questa volta hanno mostrato che tra il 30% e il 50% della comunità ebraica lo ha fatto.
  Il rapporto di Starmer con il mondo ebraico parte già dalla sua famiglia: la moglie Victoria, infatti, ha origini ebraiche ashkenazite e la coppia ha rivelato di recente di aver cresciuto i figli con un’enfasi sulla loro eredità ebraica. La famiglia, quasi ogni settimana, si riunisce per un pasto di Shabbat e spesso partecipa alle funzioni in sinagoga.
  Venerdì mattina, il presidente israeliano Isaac Herzog si è congratulato con Keir Starmer per la vittoria alle elezioni nel Regno Unito sul suo account ufficiale X. Nel post si legge che attende di lavorare con lui “per riportare a casa i nostri ostaggi, costruire un futuro migliore per la regione e approfondire la stretta amicizia tra Israele e il Regno Unito”. Ha inoltre espresso la sua gratitudine al primo ministro uscente del Regno Unito, Rishi Sunak.

(Shalom, 5 luglio 2024)

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Francia: 88enne aggredita e insultata. “Sporca ebrea, questo è ciò che meriti”

Una donna di 88 anni è stata aggredita fuori Parigi da due aggressori che l’hanno spinta a terra, presa a calci e chiamata “sporca ebrea”, mentre la tensione per il crescente antisemitismo continua a ribollire in Francia.
  L’aggressione è avvenuta la settimana scorsa e la donna ha sporto denuncia alla polizia locale lunedì, secondo quanto riportato dal quotidiano francese Le Figaro. Le forze dell’ordine stanno indagando sull’attacco, avvenuto nella Val-d’Oise, a nord di Parigi.
  L’anziana donna ha raccontato che si stava recando a una visita medica quando due aggressori l’hanno attaccata alle spalle. L’hanno colpita con un pugno in faccia, l’hanno spinta a terra e l’hanno presa a calci mentre le lanciavano insulti antisemiti, tra cui “sporca ebrea, questo è ciò che ti meriti”.
  Secondo la denuncia, l’anziana donna indossava una collana con la Stella di Davide, che ha permesso agli aggressori di identificarla come ebrea. “Credo che abbiano visto la mia collana, altrimenti non l’avrebbero capito”, ha detto la donna.
  La vittima, 88 anni, ha riportato la rottura di un dente, dolori alla schiena e al polso, oltre ad angoscia mentale e incubi.

• LA NIPOTE È UNA PARLAMENTARE ISRAELIANA

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Sharren Haskel, deputata per Mahane Mamlachti

La parlamentare israeliana Sharren Haskel ha riferito giovedì che la vittima era sua nonna e ha descritto gli aggressori come due “teppisti arabi”. “Ha cercato di nascondere l’accaduto alla mia famiglia perché era imbarazzata e si vergognava, ma non ci è riuscita”, ha detto Haskel a JNS. “Avrebbe potuto finire molto peggio. Oggi si è recata in ospedale per essere visitata nell’ambito della presentazione di una denuncia alla polizia”.
  In un post su X/Twitter, Haskel ha scritto di non avere “alcuna speranza nelle autorità francesi”, sostenendo che il governo “permette che vengano diffuse diffamazioni di sangue contro Israele, e di conseguenza la comunità ebraica subisce violenze, stupri e omicidi”.
  Haskel ha invitato il governo israeliano a “guidare la lotta contro l’esplosione dell’antisemitismo”, aggiungendo che le comunità ebraiche di tutto il mondo sono “inseparabili” da Israele.
  “Invito gli ebrei della diaspora, come mia nonna, a tornare nella loro casa nazionale, culturale e storica”, ha concluso.

• IMPENNATA DI ANTISEMITISMO DAL 7 OTTOBRE
  L’attacco in Val-d’Oise è avvenuto nel contesto di un’impennata dell’antisemitismo a livelli record in tutta la Francia.
  Secondo le autorità francesi, in un attacco particolarmente grave che ha attirato l’attenzione dei media internazionali, una ragazzina ebrea di 12 anni è stata violentata da tre ragazzi musulmani in un sobborgo di Parigi il 15 giugno. La bambina ha raccontato agli investigatori che gli aggressori l’hanno chiamata “sporca ebrea” e le hanno rivolto altri commenti antisemiti durante l’aggressione.
  I tre presunti aggressori sono stati arrestati dalla polizia francese due giorni dopo lo stupro. Due di loro sono stati incriminati per stupro di gruppo, minacce di morte, violenza antisemita, tentata estorsione e violazione della privacy. Il terzo ragazzo è stato accusato come testimone.
  Dopo l’attacco, il Presidente francese Emmanuel Macron ha “denunciato la piaga dell’antisemitismo” che sta invadendo la società francese e ha parlato della necessità di combattere l’odio verso gli ebrei nelle scuole.
  L’incidente ha scatenato l’indignazione nazionale e le massicce proteste contro l’antisemitismo sono scoppiate in Francia.
  L’organo di rappresentanza degli ebrei francesi, il Crif, ha condannato i due recenti attacchi, osservando che gli ebrei non sono stati risparmiati dalla violenza, anche se bambini o anziani.
  “Questo atto spregevole mette in evidenza la realtà dell’antisemitismo in Francia, dove le vittime di età compresa tra i 12 e gli 88 anni vengono attaccate quotidianamente a causa della loro identità ebraica”, ha twittato Crif.
  La Francia ha registrato un’impennata record di antisemitismo sulla scia del massacro del gruppo terroristico palestinese Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele. Gli episodi di antisemitismo sono aumentati di oltre il 1.000% negli ultimi tre mesi del 2023 rispetto all’anno precedente, con oltre 1.200 incidenti segnalati – più del numero totale di incidenti in Francia nei tre anni precedenti messi insieme.
  Il mese scorso, a una famiglia israeliana in visita a Parigi è stato negato il servizio in un hotel dopo che un addetto ha notato i loro passaporti israeliani. Mentre in aprile, una donna ebrea è stata picchiata e violentata in un sobborgo di Parigi come “vendetta per la Palestina”.

(Bet Magazine Mosaico, 5 luglio 2024)

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Parashat Korach. Un leader deve sapere distinguere le critiche al suo ruolo da quelle alla sua persona

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Quando leggiamo la storia di Korach, la nostra attenzione tende a concentrarsi sui ribelli. Non riflettiamo tanto sulla risposta di Mosè. Era giusta? Era sbagliata? È una storia complessa.
Come spiega il Ramban, non è un caso che la ribellione di Korach sia avvenuta all’indomani della storia delle spie. Finché il popolo si aspettava di entrare nella Terra Promessa, rischiava di perdere più di quanto potesse guadagnare sfidando la leadership di Mosè. Egli aveva superato con successo tutti gli ostacoli in passato. Era la loro migliore speranza. Ma ora un’intera generazione era condannata a morire nel deserto. Ora non avevano nulla da perdere. Quando le persone non hanno nulla da perdere, si ribellano.
Esaminiamo la tipologia dei ribelli stessi. Dalla narrazione emerge chiaramente che non si trattava di un gruppo uniforme o unificato. Il Malbim (rabbino ucraino 1809-1879) spiega che c’erano tre gruppi diversi, ognuno con le proprie rimostranze e il proprio programma.
Il primo era Korach stesso, un cugino di Mosè. Mosè era figlio del figlio maggiore di Kehat, Amram. In quanto figlio del secondogenito di Kehat, Yitzhar, Korach si sentiva in diritto di ricoprire il secondo ruolo di guida, quello di sommo sacerdote.
Il secondo gruppo era quello formato da Datan e Aviram, che sentivano di avere diritto a posizioni di comando in quanto discendenti di Ruben, il primogenito di Giacobbe.
Terzo gruppo erano le altre 250 persone, descritte dalla Torà come “principi dell’assemblea, famosi nella comunità, uomini di fama”. Sentivano di essersi guadagnati il diritto di essere leader per motivi meritocratici, oppure – come suggerisce il Ibn Ezra – erano primogeniti che si erano risentiti del fatto che il ruolo di ministri di Dio era stato tolto ai primogeniti e dato ai Leviti dopo il peccato del Vitello d’oro.
Abbiamo così coalizione di diversi scontenti e in genere è così che tendono a nascere le ribellioni.
Qual è stata la reazione di Mosè alla loro ribellione? La sua prima risposta fu quella di proporre una prova semplice e decisiva: “Che tutti portino un’offerta di incenso e che Dio decida chi accettare”. La risposta derisoria e insolente di Datan e Aviram sembrò innervosirlo. Così Mosè si rivolse a Dio e disse: “Non accettare la loro offerta. Non ho preso a nessuno di loro nemmeno un asino e non ho fatto torto a nessuno”. (Numeri 16:15)
Ma loro non avevano detto che l’aveva fatto. Questa è la prima nota stonata.
Dio minacciò allora di punire l’intera comunità. Mosè e Aronne intercedettero a loro favore. Dio disse a Mosè di separare la comunità dai ribelli, in modo che non fossero coinvolti nella punizione, cosa che Mosè fece. Ma poi annunciò una cosa senza precedenti. Dice: “Così saprete che il Signore mi ha mandato a fare tutte queste cose e che non è stata una mia idea: se questi uomini muoiono di morte naturale e subiscono la sorte di tutto il genere umano, allora il Signore non mi ha mandato. Ma se il Signore farà accadere qualcosa di totalmente nuovo, e la terra aprirà la sua bocca e li inghiottirà, con tutto ciò che appartiene loro, ed essi scenderanno vivi nel regno dei morti, allora saprete che questi uomini hanno trattato il Signore con disprezzo”. (Numeri 16:28-30)
Questa è stata l’unica volta in cui Mosè chiese a Dio di punire qualcuno e l’unica volta in cui lo sfidò a compiere un miracolo.
Dio fece quello che chiese Mosè. Naturalmente ci aspetteremo che questo ponesse fine alla ribellione: Dio inviò un segno inequivocabile che Mosè aveva ragione e i ribelli torto. Ma non fu così. Lungi dal porre fine alla ribellione, le cose si aggravarono: Il giorno dopo, l’intera comunità israelita brontolò contro Mosè e Aronne. “Avete ucciso il popolo del Signore”, dissero. (Numeri 17:6)
Il popolo si radunò intorno a Mosè e Aronne come se stessero per attaccarli. Dio inizia a colpire il popolo con una piaga. Mosè chiese ad Aronne di fare l’espiazione e alla fine la piaga cessò. Ma circa 14.700 persone morirono. Solo quando si verificò una dimostrazione del tutto diversa – quando Mosè prese dodici verghe che rappresentano le dodici tribù, e quella di Aronne germogliò, fiorì e portò il segno del frutto – la ribellione ebbe finalmente fine.
È difficile evitare la conclusione che l’intervento di Mosè, che sfidò Dio a far sì che la terra inghiottisse i suoi avversari, sia stato un tragico errore. Se così fosse, di che tipo di errore si trattò?
L’esperto di leadership di Harvard, Ronald Heifetz (1951-…) sottolinea che è essenziale per un leader distinguere tra ruolo e sé. Il ruolo è una posizione che ricopriamo. Il sé è ciò che siamo. La leadership è un ruolo. Non è un’identità. Non è ciò che siamo. Pertanto, un leader non dovrebbe mai prendere sul personale un attacco alla sua leadership: “È uno stratagemma comune quello di personalizzare il dibattito sui problemi come strategia per mettervi fuori gioco… Si vuole rispondere quando si è attaccati… Si vuole saltare nella mischia quando si è mal interpretati… Quando le persone vi attaccano personalmente, la reazione riflessa è quella di prenderla sul personale… Ma essere criticati dalle persone a cui si tiene è quasi sempre parte dell’esercizio della leadership… Quando si prendono sul personale gli attacchi, si cospira involontariamente in uno dei modi più comuni in cui si può essere messi fuori gioco: si diventa il problema”.
Mosè prese due volte sul personale la ribellione. In primo luogo, si difese da Dio dopo essere stato insultato da Datan e Aviram. In secondo luogo, chiese a Dio di dimostrare in modo miracoloso e decisivo che lui – Mosè – era il leader scelto da Dio. Ma non è Mosè il problema. Aveva già intrapreso la strada giusta proponendo la prova dell’offerta di incenso. Questo avrebbe risolto la questione.
Per quanto riguarda la ragione di fondo che ha reso possibile la ribellione, non c’era nulla che Mosè potesse fare per impedirla. Il popolo era devastato dalla consapevolezza che non sarebbe vissuto così a lungo per entrare nella Terra Promessa.
Mosè si lasciò provocare dall’affermazione di Korach: “Perché vi mettete al di sopra dell’assemblea del Signore” e dall’osservazione offensiva di Datan e Aviram: “E ora volete comandare su di noi!”. Si trattava di attacchi profondamente personali, ma prendendoli come tali, Mosè permise ai suoi avversari di definire i termini dell’ingaggio. Il risultato fu che il conflitto si intensificò invece di disinnescarsi.
È difficile non vedere in questo il primo segno del fallimento che alla fine sarebbe costato a Mosè la possibilità di guidare il popolo nella terra. Quando, quasi quarant’anni dopo, disse al popolo che si lamenta della mancanza di acqua: “Ascoltate, ribelli, dobbiamo forse farvi uscire l’acqua da questa roccia?”. (Numero 20:10), mostra la stessa tendenza a personalizzare la questione (“dobbiamo portarvi l’acqua?”) – ma non si trattava mai di “noi”, bensì di Dio.
La Torà è in modo devastante onesta su Mosè, come su tutti i suoi eroi. Gli esseri umani sono solo umani. Anche i più grandi commettono errori. Nel caso di Mosè, la sua più grande forza è stata anche la sua più grande debolezza. La sua rabbia per l’ingiustizia l’ha reso famoso come leader. Ma si lasciò provocare dalla rabbia del popolo che guidava e fu questo, secondo il Rambam (Otto capitoli, cap. 4), a fargli perdere la possibilità di entrare nella Terra d’Israele.
Heifetz scrive: “Ricevere la rabbia. … è un compito sacro… Prendere la rabbia con grazia comunica rispetto per i dolori del cambiamento”.
Dopo l’episodio delle spie, Mosè si trovò di fronte a un compito quasi impossibile. Come si fa a guidare un popolo quando sa che non raggiungerà la sua meta nel corso della sua vita? Alla fine, ciò che sedò la ribellione fu la vista della verga di Aronne, un pezzo di legno secco, che riprese vita, portando fiori e frutti. Forse non si trattava solo di Aronne, ma degli stessi israeliti. Dopo aver pensato a se stessi come condannati a morire nel deserto, probabilmente ora si rendevano conto che anche loro avevano portato frutti – i loro figli – e che sarebbero stati loro a completare il cammino iniziato dai loro genitori. Questa, alla fine, fu la loro consolazione.
Tra tutte le sfide della leadership, non prendere sul personale le critiche e mantieni la calma quando le persone che guidi sono arrabbiate con te, potrebbe essere la prova più difficile di tutte. Forse è per questo che la Torà vuole fermarci a riflettere su quello che disse di Mosè, il più grande leader mai vissuto. È un modo per avvertire le generazioni future: se a volte siete addolorati dalla rabbia della gente, consolatevi. Pensate a ciò che fece Mosè e ricordate il prezzo che ha pagato. Mantenete la calma.
Anche se può sembrare il contrario, la rabbia che dovete affrontare non ha nulla a che fare con voi come persona, tutto a che fare con ciò che rappresentate e rappresenta. Spersonalizzare gli attacchi è il modo migliore per affrontarli. Le persone si arrabbiano quando i leader non riescono a far scomparire magicamente la dura realtà. I leader in queste circostanze sono chiamati ad accettare la rabbia con grazia. Questo è davvero un compito sacro.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl

(Bet Magazine Mosaico, 5 luglio 2024)

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“L’antisemitismo è a destra e a sinistra”

L’intervista al rabbino capo Riccardo Di Segni su La Stampa

di Michelle Zarfati

“I nodi vengono sempre al pettine e alla fine, invariabilmente, il fascismo si dimostra antisemita. E come se rivelasse la sua vera natura, la maschera cade” queste parole del Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, durante un’intervista rilasciata in data odierna [4 luglio] a La Stampa, in cui il Rabbino ha commentato il preoccupante risveglio di un forte sentimento antiebraico. Un odio che sembra essersi destato a partire dal 7 ottobre e che ha radici profonde. “Doppio standard, amnesie, totale asimmetria di giudizio, propaganda. L’ondata di antisemitismo si allarga a tutti gli ebrei, a loro come persone e a loro come cultura. Un passante riconoscibile come ebreo che viene malmenato, una casa di ebrei che viene segnata, persino pietre di inciampo che vengono deturpate” racconta il Rav Di Segni durante l’intervista.
  Un antisemitismo che arriva da destra e da sinistra e che di nuovo rivede nell’ebreo il capro espiatorio di qualsiasi misfatto. “L’antisemitismo e l’ostilità contro gli ebrei assumono oggi, schematicamente, almeno tre forme differenti. Tre matrici emergono: quella dei nazisti e di chi li piange, quella veterocattolica e quella di sinistra, di cui si nega l’evidenza perché mescolata alla politica. Una sinistra neppure estrema che abbraccia acriticamente la causa palestinese negando più o meno apertamente il diritto all’esistenza di Israele” continua Di Segni nell’intervista.
  Una minaccia nera, che si cela dietro il conflitto israelo-palestinese aprendo agli ebrei italiani molte ferite mai rimarginate. “Determinati pregiudizi riaffiorano e si aggravano a seconda dei momenti, come le forme religiose veterocattoliche di antisemitismo. In questo periodo, per esempio, è riemersa l’idea antica dell’ebreo vendicativo, dell’ebreo che uccide i bambini. È il genere di fantasmi usciti fuori dopo il 7 ottobre” aggiunge il Rabbino Capo di Roma. Ma ciò che preoccupa maggiormente di questo antisemitismo multiforme è ciò a cui potrebbe portare: impossibile non ricordare l’analoga situazione che portò al terribile attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982. “Ricordo tutto, incluso l’attentato mortale alla sinagoga di Roma del 1982. Già alcune volte negli ultimi decenni periodiche recrudescenze del conflitto mediorientale che hanno coinvolto Israele hanno scatenato reazioni antiebraiche – spiega Di Segni nell’intervista – Un commando palestinese che spara contro una Sinagoga, come successe a Roma nel 1982, non fa distinzioni: il nemico è l’ebreo ovunque si trovi. Per alcuni aspetti sembra un dejà vu, ma molte cose sono cambiate. Il quadro storico è mutato e i confronti sono difficili ma la condizione attuale è preoccupante. Rispuntano le categorie teologiche dell’occhio per occhio. “Noi” siamo i buoni e gli amanti della pace, e “voi” siete i cattivi, i vendicativi”.

(Shalom, 4 luglio 2024)

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Israele-Hezbollah, omicidi mirati e pioggia di missili. Il fronte s'infiamma

Si infiamma il Fronte Nord. Hezbollah ha scagliato uno sciame di ordigni contro Israele con una potenza mai vista prima: almeno duecento razzi e venti droni sono stati lanciati in pochi minuti. Mentre lo scudo di Iron Dome fermava gran parte dei razzi, le Israeli Defence Forces sono intervenute in modo massiccio con l’aviazione. Gli intercettori hanno dato la caccia ai velivoli teleguidati; i bombardieri si sono accaniti contro le postazioni da cui è partito l’attacco, prendendo di mira altri obiettivi legati alla milizia sciita filoiraniana nelle località di Ramyeh and Houla.
  Il bilancio dei danni non è ancora chiaro. La bordata di Hezbollah si è concentrata su alcuni insediamenti del Golan e della Galilea: i resti di un ordigno sono caduti su un centro commerciale, provocando un piccolo incendio. Molti razzi sono finiti su una zona disabitata sulle sponde del lago di Tiberiade e altri roghi sono stati segnalati in Galilea. I jet israeliani hanno sorvolato la periferia di Beirut, superando il muro del suono con una serie di boati sinistri che hanno fatto ricordare la micidiale promessa pronunciata dal ministro della Difesa Yoav Gallant: “Se Hezbollah non interrompe le aggressioni, faremo in Libano il copia-incolla di Gaza”.
  Il movimento sciita ha scatenato l’offensiva di questa mattina 4 luglio come ritorsione per l’uccisione di Muhammad Naama Nasser, uno dei leader della sua organizzazione militare. Nasser era il comandante della divisione Aziz, uno dei tre raggruppamenti che presidiano il territorio sotto il loro controllo nel Libano meridionale. Lo scorso 11 giugno era stato ammazzato Sami Abdullah Taleb, numero uno di un’altra divisione, la Nasr. Dalla metà di ottobre Israele sta mettendo a segno una lunga serie di raid per decapitare le unità combattenti di Hezbollah e bloccare il flusso di armamenti sofisticati dall’Iran.

• Il fronte nascosto
  Ci sono state numerose incursioni contro figure influenti – per esperienza bellica, rango familiare o ruolo operativo – che ogni volta hanno causato reazioni crescenti da parte delle forze sciite libanesi. Forse la più importante il 9 gennaio ha ucciso Wissam Al Tawal, capo dei commandos del battaglione Radwan addestrati per colpire all’interno di Israele. Si tratta di azioni messe a segno da aerei, droni, missili e – almeno in un’occasione – da agenti segreti, che alla periferia della capitale hanno assassinato l’uomo d’affari che avrebbe distribuito fondi di Teheran ad Hamas.
  La parte meno visibile di questa campagna riguarda le fabbriche e i depositi di missili, il cuore dell’arsenale accumulato dal movimento sciita grazie al sostegno iraniano. Gli F35 israeliani li hanno bersagliati soprattutto nella valle della Bekaa, a ridosso del confine siriano: uno dei magazzini era a pochi chilometri dalle vestigia romane di Balbeek.

• La risposta di Hezbollah
  A ognuna di queste azioni, Hezbollah ha risposto con attacchi di vario tipo. Dall’8 ottobre al primo luglio il think tank Alma ha contato il lancio di 2.295 ordigni contro Israele, in massima parte per opera del movimento sciita. Ci sono state rappresaglie simboliche, con raffiche di razzi che sono state facilmente bloccate da Iron Dome, e altre ritorsioni molto più incisive, riuscendo a penetrare le difese con l’utilizzo di missili controcarro e droni molto evoluti. Grande attenzione è stata dedicata al Monte Dov, l’altura che ospita radar e sensori di sorveglianza, e contro le installazioni del sistema di protezione Sky Dew nella zona di Tiberias: in pratica, c’è un tentativo di chiudere gli occhi elettronici di Israele che spiano il Libano.
  Al Jazeera ha diffuso una statistica diversa: parla di 6.142 attacchi israeliani in Libano, che hanno causato 543 morti mentre Hezbollah e le formazioni jihadiste avrebbero colpito 1258 volte, provocando 21 vittime nello Stato ebraico. Come accade sempre nelle guerre, è difficile ricostruire la verità. L’analisi di Alma sostiene in particolare che il 94 per cento degli attacchi sono partiti da una fascia che si trova entro cinque chilometri dalla frontiera. Non a caso, ieri il ministro Gallant ha detto che i tank impegnati a Gaza “possono arrivare fino al Litani”: il fiume che si trova circa quindici chilometri a nord del confine. Israele ha chiesto che Hezbollah si ritiri da questa fascia, la stessa dove dal 2006 operano i caschi blu della missione Unifil, tra cui mille italiani. “Noi preferiamo un accordo – ha sottolineato Gallant – ma se la situazione ci obbligherà ad agire, sapremo come combattere”.

• I tavoli di negoziato
  Ci sono diversi tavoli di negoziato aperti. La Casa Bianca ha incaricato Amos Hochstein di lavorare per fermare le armi e impedire una nuova guerra in Libano. Altri colloqui sono condotti dall’intelligence tedesca e dalla diplomazia francese. Ieri Naim Kassem, il numero due del movimento sciita, ha dichiarato in un’intervista all’Ap che se ci sarà un cessate il fuoco a Gaza anche Hezbollah interromperà le ostilità. Sembra però difficile convincere i miliziani a rinunciare alle posizioni a sud del fiume Litani, dove hanno allestito tunnel e fortificazioni preparandosi a un nuovo conflitto.
  Il leader Hassan Nasrallah finora ha cercato di evitare iniziative clamorose perché teme di trascinare l’intero Libano in una guerra disastrosa, che potrebbe aprire uno scontro interno con la comunità sunnita e con parte di quella cristiana: il Paese è in una profonda crisi economica, che diventerebbe inarrestabile. L’ala dura però spinge per prendere l’iniziativa prima che le IDF diminuiscano l’attività all’interno della Striscia di Gaza, in modo da obbligarle a combattere su due fronti. Anche il governo Netanyahu pare diviso: dopo i massacri del 7 ottobre, tutti condividono l’esigenza di creare una fascia di sicurezza sulla frontiera settentrionale, ma molti temono che un’offensiva in territorio libanese possa avere un costo umano altissimo.

(la Repubblica, 4 luglio 2024)

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Nord d’Israele: morto un giovane soldato in un attentato in un centro commerciale

 di Anna Balestrieri

Mercoledì 3 luglio un attacco terroristico in un centro commerciale a Karmiel, nel nord di Israele, ha provocato la morte di una persona e il ferimento di un’altra, secondo quanto riportato dai media ebraici. L’incidente è stato segnalato dal servizio di risposta medica d’emergenza israeliano, Magen David Adom (MDA), che ha inizialmente comunicato che due persone erano rimaste ferite nell’attacco.

• LA VITTIMA
  Il sergente Aleksandr Iakiminskyi, un autista di 19 anni del 71° battaglione, 188a brigata, è stato identificato dall’IDF come l’individuo ucciso nell’attacco a coltellate. Un suo compagno, anch’egli soldato dello stesso battaglione, ha riportato gravi ferite. Una volta arrivato sul posto, il paramedico dell’MDA Ran Moskowitz ha osservato due uomini sui vent’anni con ferite penetranti che giacevano vicino alle bancarelle al secondo piano del centro commerciale. Uno era privo di sensi ed in condizioni critiche, mentre l’altro era cosciente ma gravemente ferito. Il paramedico di United Hatzalah Arik Barel ha raccontato di aver eseguito la RCP su una delle vittime e di aver fornito assistenza medica all’altra, che aveva ferite da moderate a gravi. Entrambi sono stati successivamente trasportati al Galilee Medical Center.
  Testimoni oculari hanno raccontato che l’aggressore ha prima pugnalato uno dei giovani, provocandogli ferite gravi. Il sergente Iakiminskyi, che era armato, è riuscito a disarmare e sparare all’aggressore, ma è rimasto ferito a morte.
  Il vicedirettore del dipartimento di sicurezza del comune di Karmiel ha descritto la scena come molto angosciante, sottolineando che l’area era stata messa in sicurezza per facilitare il trattamento dei feriti e per calmare la popolazione. La squadra di sicurezza è rimasta sul posto per assistere le forze di sicurezza secondo necessità.

• L’ATTENTATORE
  L’aggressore, identificato come Javad Rabia, 21 anni, di Kfar Nahaf vicino a Karmiel, è stato ucciso nello scontro.La polizia ha arrestato i familiari di Rabia, compresa la sorella, che era presente nell’edificio e sospettata di aver comunicato con lui prima dell’aggressione. Le forze dello Shin Bet stanno valutando la possibilità di demolire la loro casa come parte della reazione. La sicurezza nel nord d’Israele è tuttora in uno stato di massima allerta.

(Bet Magazine Mosaico, 4 luglio 2024)

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Operazione Entebbe: l’eroismo dell’IDF il 4 luglio del 1976

di Daniele Toscano

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4 luglio 1976: in questo giorno l’IDF si cimentò in una delle operazioni più eroiche della sua storia contro il terrorismo internazionale. Protagonista un volo Air France decollato il 27 giugno da Tel Aviv e diretto a Parigi. Dopo lo scalo ad Atene, fu dirottato da un gruppo terroristico del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (coadiuvato da alcuni terroristi tedeschi): una sosta in Libia, poi l’atterraggio nell’aeroporto internazionale di Entebbe, in Uganda, nell’Africa centro-orientale. Il Paese africano era sotto la presidenza di Idi Amin Dada, uno dei dittatori più sanguinari della storia del continente. Inizialmente, questi aveva avuto un buon rapporto con Israele: vi si era recato per i suoi studi negli anni ’60, quando i due Paesi avevano stretti legami economici. Nel 1971 andò al potere con un colpo di stato, quasi senza spargimento di sangue. Il contesto però mutò rapidamente: quando il governo di Amin Dada assunse toni sempre più autoritari e decise di dichiarare guerra alla Tanzania, Israele negò gli aerei da combattimento e gli altri aiuti richiesti per l’invasione. I rapporti mutarono radicalmente e la posizione anti-israeliana del dittatore africano emerse anche nella storia del dirottamento. Amin, infatti, supportava i terroristi: l’aereo e gli ostaggi erano sorvegliati, oltre che dai dirottatori, anche dall’esercito ugandese.
  I passeggeri vennero sbarcati nel terminal e, sotto il vigile controllo dei terroristi, furono divisi tra ebrei e non ebrei. Fu in questo tragico contesto che Israele, dopo alcuni giorni di negoziati, mise in piedi una delle operazioni antiterrorismo più complesse e delicate della storia. Il governo israeliano inviò un commando: in poche ore il piano fu attuato e i paracadutisti israeliani liberarono gli ostaggi, neutralizzarono i terroristi e riportarono in Israele quasi tutti. I terroristi e i 45 soldati ugandesi vennero uccisi in pochissimo tempo; persero la vita anche tre ostaggi e un militare israeliano, Jonathan Netanyahu, fratello dell’attuale premier, comandante dell’operazione.
  Questa vicenda ha costituito anche un modello di studio per il diritto internazionale, che si è interrogato sulla liceità dell’intervento israeliano in uno stato straniero. Atti coercitivi, come la cattura di un criminale, la liberazione di ostaggi, l’invio di truppe nel territorio di uno Stato, infatti, sono ammessi, ma solo su richiesta dello Stato territoriale. Non fu questo il caso di Entebbe, visto che l’Uganda non solo non diede alcun consenso, ma supportò i terroristi. Tuttavia, l’episodio non è comunque considerato una violazione del diritto internazionale, in quanto può rientrare nella prassi valida per la Legittima Difesa, prevista dall’articolo 51 della Carta ONU e dall’articolo 21 del Progetto della Commissione di Diritto Internazionale del 2001, oltreché dal diritto internazionale consuetudinario. In quell’occasione, il Consiglio di Sicurezza, benché investito da due progetti di risoluzione – uno avanzato da Tanzania, Libia e Benin prevedeva la condanna di Israele per violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Uganda, l’altro, avanzato da Gran Bretagna e Stati Uniti, conteneva una chiara condanna dei dirottamenti aerei e degli atti che minacciano la sicurezza dell’aviazione civile internazionale – non adottò alcuna decisione. La prassi tende inoltre a considerare casi come questo consentiti dal diritto consuetudinario anche in virtù della norma sulla protezione dei cittadini all’estero.

(Shalom, 4 luglio 2024)

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Turisti ebrei e Davos, un decalogo contro i “malintesi”

Una task force ha elaborato dieci misure per garantire il rispetto reciproco dopo la “crisi” innescata a febbraio da un ristoratore che aveva negato il noleggio di materiale alpino agli ospiti.

COIRA - Un'unità operativa appositamente convocata a Davos ha elaborato un catalogo di misure per accogliere al meglio gli ospiti ebrei. Si mira alla comprensione reciproca tra la popolazione di Davos e i visitatori internazionali, allo scopo di prevenire eventuali malintesi.
Le misure sono una reazione alle "incomprensioni" tra i gruppi di popolazione, secondo quanto si legge nel comunicato odierno dell'unità operativa denominata "Processo di comunicazione a Davos".
L'ultimo scandalo si è verificato lo scorso inverno, quando un ristorante di montagna a Davos ha deciso di non più noleggiare attrezzature per sport sulla neve agli ospiti ebrei, citando «incidenti fastidiosi» come motivazione, stando a un cartello in ebraico affisso nei pressi del ristorante.
La reazione della Federazione svizzera delle comunità ebraiche (FSCI) era stata molto dura. Il segretario generale Jonathan Kreutner aveva parlato di un nuovo «livello di sfacciataggine» e aveva annunciato azioni legali. La FSCI aveva criticato anche altre strutture turistiche di Davos, alberghi, ristoranti e negozi, che non avevano accolto gli ospiti ebrei. L'organizzazione turistica aveva persino messo in pausa un progetto di dialogo congiunto.
Un nuovo tentativo - Ora la FSCI e i rappresentanti locali si sono incontrati di nuovo. L'unità operativa, guidata da un consulente esterno per i negoziati, ha concordato dieci punti che dovrebbero garantire nuovamente l'accoglienza e l'integrazione degli ospiti ebrei a Davos:

  • Durante l'estate verrà creato un punto di consulenza per loro, dove saranno disponibili informazioni e altri servizi. Il centro svolgerà anche un ruolo di mediatore in caso di conflitti
  • Dietro le quinte i rabbini garantiranno una consulenza.
  • A Davos si sta ampliando un progetto di prevenzione della FSCI denominato "Likrat Public". I mediatori si rivolgeranno attivamente agli ospiti e agli abitanti del luogo.
  • Il materiale informativo sulle regole di comportamento è in fase di revisione.
  • Gli ospiti stranieri devono essere informati sulle regole vigenti in Svizzera già prima del loro arrivo.
  • Ricerche storiche serviranno per approfondire il dialogo con la storia ebraica a livello locale.
  • Saranno organizzati eventi per spiegare alla popolazione locale i limiti dell'antisemitismo.
  • Per evitare il sovraccarico di visitatori, nei prossimi anni verrà sviluppato e implementato un sistema di controllo.
  • Le strutture turistiche saranno sensibilizzate a trattare tutti gli ospiti in modo equo attraverso nuove linee guida.
  • L'organizzazione turistica Davos Klosters assumerà il ruolo di mediatore (ombudsman).

• IL DIALOGO CONTA
  «In futuro, i potenziali conflitti dovrebbero essere risolti immediatamente attraverso il dialogo prima che sfuggano di mano», ha dichiarato a Keystone-ATS Reto Branschi, ex direttore dell'organizzazione turistica Davos Klosters.
Ha citato, quale esempio, i codici di abbigliamento per le varie attività. Invece di un divieto di noleggio agli ebrei degli equipaggiamenti sportivi, si potrebbero imporre delle condizioni di utilizzo che non abbiano un effetto discriminatorio.
Durante la stesura delle misure ci sono state «discussioni dure ma anche costruttive». Ora è molto fiducioso che le linee guida possano prevenire problemi futuri. Anche la FSCI è ottimista sull'impatto delle misure decise, ha dichiarato il Segretario generale Jonathan Kreutner interpellato da Keystone-ATS.
Le misure sono ora implementate come progetto pilota per l'attuale stagione estiva, periodo in cui, basandosi sull'esperienza, si è constatato un maggiore bisogno di intervento. «Le esperienze raccolte durante l'estate potrebbero essere utili anche per le altre stagioni», ha dichiarato il sindaco di Davos, Philipp Wilhelm, a Keystone-ATS.

(RSI, 4 luglio 2024)

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Francesca Albanese: l’ONU indaga

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Francesca Albanese
L’ONG ginevrina UN Watch sostiene che Francesca Albanese, relatrice speciale per i Territori palestinesi, abbia ricevuto donazioni per viaggi all’estero da parte di gruppi pro-Hamas che hanno influenzato i suoi rapporti sui diritti umani e le sue posizioni anti-israeliane.
  L’ONU ha avviato un’indagine nei confronti di Francesca Albanese, relatrice speciale dell’organizzazione per i Territori palestinesi, responsabile di redigere rapporti sulla situazione dei diritti umani nell’area.
  L’indagine mira a determinare se Francesca Albanese, che accusa costantemente Israele di violazioni dei diritti umani, abbia ricevuto illegalmente 20.000 dollari di finanziamenti da organizzazioni sostenitrici di Hamas per pagare il suo viaggio in Australia e Nuova Zelanda, durante il quale ha fatto pressioni su un fondo pensionistico locale per disinvestire da Israele.
  Albanese ha affermato che le Nazioni Unite hanno pagato il suo viaggio in Australia, ma un portavoce delle Nazioni Unite ha rifiutato di confermare la sua affermazione. Un’organizzazione australiana pro-Hamas si è inizialmente vantata di aver “finanziato” il viaggio della rappresentante ONU.
  Albanese è stata in precedenza consulente legale dell’UNRWA ed è stata la prima ad essere condannata per antisemitismo da Francia e Germania come rappresentante ONU incaricata di redigere e archiviare rapporti sui diritti umani.
  Nel 2022, Albanese è stata condannata anche dall’Inviato speciale degli Stati Uniti per il monitoraggio e la lotta all’antisemitismo dopo che è stato rivelato che aveva lanciato un appello per la raccolta di fondi per l’UNRWA, sostenendo che “l’America è soggiogata dalla lobby ebraica”. L’anno scorso, un gruppo di 18 legislatori di entrambi i principali partiti statunitensi ha condannato il rifiuto di Albanese di denunciare il terrorismo contro gli israeliani.
  L’indagine, che sarà condotta dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Volker Turk, è stata avviata a seguito di una denuncia presentata a giugno da United Nations Watch, una ONG indipendente con sede a Ginevra. L’organizzazione ha chiesto la rimozione di Albanese dalle Nazioni Unite.
  Il direttore esecutivo di UN Watch, Hillel Neuer, ha chiesto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite di rimuovere Albanese dalla sua posizione a causa della sua cattiva condotta finanziaria e delle sue ripetute dichiarazioni che incitano all’antisemitismo e giustificano il terrorismo di Hamas.

(Israele 360, 3 luglio 2024)

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Mistero Sinwar: chi sa dove si nasconde?

di Luca Spizzichino

Solamente due o tre persone conoscono il luogo esatto in cui si trova il leader di Hamas Yahya Sinwar. È quanto rivela il quotidiano londinese di proprietà saudita Asharq Al-Awsat, che ha parlato con alcuni funzionari del gruppo terroristico palestinese.
  “Una cerchia molto ristretta di non più di due o tre persone al massimo conosce i suoi spostamenti e si occupa delle sue varie necessità, oltre ad assicurare la sua comunicazione con i leader del movimento all’interno e all’esterno”, ha detto una fonte al giornale.
  I funzionari di Hamas hanno affermato inoltre che Sinwar è aggiornato su tutte le questioni discusse nei negoziati per un cessate il fuoco a Gaza. “Si consulta persino con i leader di Hamas all’estero in vari modi e dopo l’uccisione dei figli di Ismail Haniyeh in un attacco dell’IDF il mese scorso, Sinwar ha chiesto di sostenerlo”.
  Il quotidiano non ha specificato se Sinwar si nasconda in superficie oppure nei tunnel. Le ultime immagini del capo di Hamas risalgono al 10 ottobre, in cui si vede una figura, che l’esercito israeliano sostiene essere Sinwar, che camminava in un tunnel di Gaza con diversi membri della sua famiglia.
  Le fonti hanno affermato inoltre che Sinwar non stia prendendo in considerazione l’esilio. Il leader di Hamas, riporta il giornale, sta pensando a due opzioni: trovare un accordo che soddisfi le sue condizioni oppure la morte.
  Non è il primo rapporto che afferma che Sinwar è in comunicazione con il resto della leadership di Hamas. Il mese scorso il Wall Street Journal ha pubblicato alcune delle sue comunicazioni, compresi messaggi che rivelavano che era sorpreso dai risultati del massacro del 7 ottobre, in particolare la crudeltà della sua forza terroristica e dalle atrocità e dai saccheggi compiuti dai cittadini di Gaza che avevano seguito i terroristi in Israele.

(Shalom, 3 luglio 2024)

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Il brutale sillogismo di questa guerra è una trappola mortale per Israele

di Michael Oren

La base della logica aristotelica, e probabilmente di tutto il pensiero filosofico occidentale, è il sillogismo. Afferma, semplicemente, che se A è uguale a B e B è uguale a C, allora A è uguale a C. E ciò che era fondamentale per Aristotele nell’antichità è a dir poco un incubo per gli israeliani di oggi.
  Siamo intrappolati in un sillogismo mortale in cui il rifiuto di un’organizzazione terroristica di porre fine alla guerra con Israele significa che anche un’altra organizzazione terroristica rifiuterà, pungolando Israele in un conflitto regionale potenzialmente di portata esistenziale.
  Come è avvenuto che ci siamo trovati in una trappola così letale? Quali fattori hanno contribuito al nostro intrappolamento sillogistico? E come può, se può, Israele venirne fuori?
  Le origini di questo sillogismo risiedono nella convinzione del leader di Hamas Yahya Sinwar che, nonostante la devastazione di Gaza e la morte di molte migliaia di cittadini, il tempo lavora a suo vantaggio. La conclusione è tutt’altro che irrazionale.
  Nonostante la sua prestazione storica in condizioni mai affrontate prima da un esercito moderno, l’IDF deve ancora raggiungere il suo obiettivo primario di distruggere Hamas. Abbandonando gli attacchi frontali per tattiche di guerriglia di retroguardia, i terroristi si stanno radicando sempre più nella popolazione civile, esigendo un tributo quasi quotidiano da parte dell’IDF. Gran parte del mondo continua a raccogliersi attorno alla causa palestinese e a isolare e criminalizzare Israele. In molti dei campus più importanti d’America, Hamas è acclamato come eroico. La cosa più incoraggiante per Hamas, tuttavia, è il costante logoramento dell’iniziale unità interna di Israele mentre i manifestanti antigovernativi scendono ancora una volta in strada e bloccano le autostrade. I nostri soldati sono a corto di morale e di munizioni.
  Ancora più incoraggianti per Hamas sono state le politiche assunte degli Stati Uniti. Da una posizione iniziale di schieramento al fianco di Israele nel tentativo di sradicare Hamas, i responsabili delle decisioni americane hanno successivamente stabilito che gli obiettivi di Israele erano irrealistici e che, nel perseguirli, l’IDF stava uccidendo arbitrariamente i palestinesi. La Casa Bianca è arrivata al punto di ritardare la fornitura di munizioni vitali per la difesa di Israele. Queste misure hanno alimentato le richieste globali di un cessate il fuoco permanente e di un ritiro totale di Israele da Gaza, proprio ciò che Sinwar perseguiva.
  Anche Israele ha contribuito ad alimentare fiducia in se stesso di Sinwar. Oltre a cedere alle pressioni americane affinché si astenessero dal lanciare una incursione massiccia nell’ultima grande ridotta di Hamas a Rafah, il governo Netanyahu ha accettato il piano dell’amministrazione statunitense per una graduale fine della guerra a Gaza. La prima fase prevede un cessate il fuoco di sei settimane e un ritiro parziale dell’IDF in cambio del rilascio delle donne, degli anziani e degli infermi tenuti come ostaggi, ma la seconda fase prevede il rimpatrio di tutti gli ostaggi, vivi e morti, in cambio del completo ritiro israeliano e di un cessate il fuoco illimitato. Sebbene fortemente depotenziato, Hamas sopravvivrebbe. Sinwar emergerebbe sicuramente dal suo tunnel facendo il segno della vittoria, dichiarando una vittoria jihadista e quindi inizierebbe a prepararsi per il prossimo 7 ottobre.
  L’accordo non avrebbe potuto essere più favorevole per Sinwar, ma ancora una volta lo  ha rifiutato. È convinto che la fase due del piano, ritiro totale dell’IDF e cessate il fuoco permanente, possa diventare la fase uno. Perché  no? L’Amministrazione Biden sta già modificando la formulazione e i termini del piano per andare incontro a Hamas. Tenete duro, conclude ragionevolmente Sinwar, impedite che gli aiuti umanitari raggiungano la popolazione di Gaza, continuate a usarli come scudi umani, e le condizioni diventeranno ancora più favorevoli.
  Le critiche americane e la pressione internazionale su Israele, il peggioramento della situazione dei civili palestinesi, l’approfondimento delle divisioni all’interno dello Stato ebraico, tutto contribuisce all’ottimismo di Sinwar. Il sillogismo che intrappola fatalmente Israele è quasi completo. Manca solo la chiave del trionfo finale di Hamas: la guerra tra Israele e Hezbollah.
  Poco dopo il 7 ottobre, in segno di solidarietà con Hamas, Hezbollah ha iniziato a bombardare il nord di Israele. Da allora, i terroristi sostenuti dall’Iran hanno lanciato migliaia di razzi e innumerevoli droni contro soldati e civili israeliani. Decine di persone sono state uccise e ferite, circa 10.000 campi da calcio e frutteti sono stati ridotti in cenere, e quasi 100.000 israeliani sono rimasti senza casa. In tal modo, Hezbollah ha realizzato lo scenario peggiore per Israele, una guerra di logoramento che ogni giorno si sposta verso sud, con razzi che cadono sulla Galilea meridionale e sulle città israeliane di Safad, Tiberiade e persino Nazareth. Se uno di questi proiettili dovesse colpire una base militare o una scuola, il governo israeliano, già sotto crescente pressione per agire, ordinerebbe un massiccio contrattacco. Israele, Libano, Iran e i suoi rappresentanti iracheni e Houthi, e potenzialmente anche gli Stati Uniti, si troverebbero tutti in guerra e Sinwar non potrebbe essere più felice.
  Il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha affermato che le sue forze non accetteranno un cessate il fuoco a meno che non lo faccia Hamas. Ma Sinwar, ovviamente, non lo farà. Sa che anche se dovesse prevalere in uno scontro con Hezbollah, Israele sarebbe devastato da decine di migliaia di missili, il suo esercito logorato e logisticamente impoverito, e sarebbe ulteriormente isolato a livello mondiale. Gli Stati Uniti farebbero concessioni di più ampia portata a Hamas, forse anche includendolo nel governo postbellico di Gaza, qualsiasi cosa pur di raggiungere il cessate il fuoco essenziale per evitare l’Armageddon.
  Ecco quindi il sillogismo: Nasrallah dice no al cessate il fuoco senza Sinwar, Sinwar dice no al cessate il fuoco, punto, e Israele entra in guerra con Hezbollah. Quindi quello che per Aristotele era un esercizio di logica per Israele diventerebbe una trappola mortale.
  Come possiamo uscirne? La diplomazia, certamente, sarebbe la soluzione preferibile. Sfortunatamente, è difficile immaginare quale leva gli Stati Uniti potrebbero esercitare su Hezbollah per costringerlo a ritirarsi dal confine israeliano in conformità con la risoluzione ONU del 2006 che Nasrallah violò il giorno stesso in cui fu emanata. Nessuna strada alternativa sembra praticabile se non quella militare.
  Pertanto, l’Amministrazione Biden deve smettere di impedire a Israele, e il governo israeliano deve smettere di lasciarsi frenare, di distruggere ciò che resta delle capacità militari di Hamas a Gaza e di salvare gli ostaggi. Nel peggiore dei casi, ciò aumenterà la pressione su Sinwar. Nella migliore delle ipotesi, lo ucciderà. Un Hamas ampiamente depotenziato e senza leader sarà molto più disposto ad accettare un cessate il fuoco.
  Allo stesso tempo, gli Stati Uniti devono impegnarsi nel dichiarare “Non fatelo”. Queste sono state le uniche parole che il presidente Biden e il segretario di Stato Blinken hanno rivolto a Hezbollah e all’Iran lo scorso ottobre. Allora il significato era chiaro: nessuno di voi due osi approfittare dei combattimenti a Gaza per aprire un secondo fronte nel nord. L’avvertimento venne rafforzato dall’invio di due gruppi di portaerei, ciascuno in grado di infliggere ingenti danni ai nemici di Israele.
  Da allora, però, il “Non fatelo” appare meno rivolto all’Iran e a Hezbollah e sempre più rivolto nei confronti di Israele. “Anche se vieni preso a pugni ogni giorno”, sembra dire la Casa Bianca, “non pensare a lanciare un contrattacco. Stai comodo, piuttosto, e incassalo finché gli intercettori dell’Iron Dome si esauriranno”. Presumibilmente i ritardi nelle spedizioni di munizioni all’IDF non solo riflettono l’opposizione degli Stati Uniti alle attuali tattiche di Israele a Gaza, ma anche alle sue future operazioni in Libano.
  La Marina americana potrebbe tuttavia assistere passivamente Israele, abbattendo i razzi di Hezbollah proprio come ha fatto con quelli lanciati dall’Iran contro Israele lo scorso aprile. Tuttavia, nessuna squadra ha mai vinto una partita esclusivamente giocando in difesa. L’Iran e Hezbollah non si lasceranno scoraggiare a meno che “Non fatelo” significhi che entrambi pagherebbero un prezzo proibitivo, richiesto dagli Stati Uniti, per avere attaccato Israele.
  Senza concludere la battaglia principale contro Hamas, senza garantire un cessate il fuoco a Gaza esercitando pressioni su Sinwar o eliminandolo, e senza scoraggiare efficacemente l’Iran e Hezbollah, Israele rimarrà intrappolato nel brutale sillogismo. Sarà necessaria un’azione coraggiosa e concertata per rompere questa equazione e sostituirla con una radicalmente diversa: il cessate il fuoco a Gaza equivale al cessate il fuoco in Libano, equivale alla fine dei combattimenti sia sul fronte settentrionale che su quello meridionale. Israele, gli Stati Uniti e il mondo avranno evitato una guerra incalcolabilmente devastante.

(L'informale, 3 luglio 2024)

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Ecco il nuovo piano pandemico. Basta con lockdown e obblighi

Seppellita l’era dei diritti asfaltati con la scusa dell’emergenza sanitaria. Messo nero su bianco che ogni intervento deve essere proporzionato e rispettoso di libertà e dignità individuali. L'informazione dovrà essere trasparente e non avere toni disperati atti a generare discriminazioni e stigma sociale. Sì alle cure, no ai dpcm.

di Maurizio Belpietro

La sintesi delle 213 pagine del nuovo piano pandemico, che il governo si appresta a varare e che La Verità è in grado oggi di anticipare in esclusiva, si riassume in due parole: mai più. Anche se l'Italia dovesse essere colpita da una nuova epidemia (facciamo gli scongiuri) non ci saranno altri lockdown o decisioni prese aggirando il Parlamento, ma non saranno neppure varati altri green pass o emanate circolari che prevedano «vigile attesa» senza alcuna cura. In altre parole, non rivedremo i grossolani errori compiuti da Roberto Speranza e dai cosiddetti tecnici nel periodo compreso tra il 2020 e il 2022.
  Da tempo in redazione ci chiedevamo quando il ministero della Salute avrebbe messo a punto le misure di prevenzione nel caso in cui un virus si diffondesse nel Paese, come è accaduto quattro anni fa. Il piano per fronteggiare le emergenze è una delle raccomandazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità e, come molti lettori ricorderanno, nel 2020 scoprimmo all'improvviso e con sgomento che il governo Conte (ma anche quello precedente) si era dimenticato di aggiornarlo. Dunque, ci trovammo in piena pandemia senza che i vertici sanitari italiani sapessero che cosa fare e soprattutto senza che tecnici e politici sapessero che cosa consigliare. Ciò che seguì, credo che lo ricordino tutti. Dopo una serie di banali frasi tranquillizzanti ( «Il coronavirus non arriverà mai qui perché abbiamo vietato l'atterraggio degli aerei dalla Cina», «siamo preparati, non c'è nulla di cui preoccuparsi», eccetera), scattò il panico e con esso una serie di provvedimenti spacciati per dogmi scientifici, a cominciare dal divieto di uscire di casa e alla proibizione di comprare al supermercato qualche cosa di diverso dal cibo. Stop alle passeggiate all'aperto (il noto comico Vincenzo De Luca minacciò di inseguire con i droni chiunque si fosse avventurato sulla spiaggia), alt all'acquisto di bicchieri o qualsiasi altro strumento da usare in cucina, anche se ai fornelli erano stati relegati 60 milioni di italiani. Che tutela della salute offrissero queste misure lo abbiamo scoperto poi, quando abbiamo capito che nessuno dei diktat imposti aveva basi mediche, ma erano frutto di improvvisazione e di incapacità di una banda di burocrati e politici senza nessuna competenza.
  Eppure in quelle settimane i dpcm, ovvero i decreti del presidente del Consiglio dei ministri, adottati senza passare dal Consiglio dei ministri, ma senza neppure essere soggetti all'approvazione del Parlamento come i normali decreti, erano il verbo. Ve lo ricordate Giuseppe Conte, che sul calar della sera, quando gli italiani erano riuniti davanti al focolare e al televisore, annunciava che ci avrebbe rinchiuso ancora un po' dopo aver detto che tutto era passato? E vi ricordate quando Mario Draghi diceva che vaccinarsi era garanzia di non contagiare e non essere contagiati, dando dunque dell'untore a tutti quelli che non avevano offerto il braccio alla patria? E la decisione di impedire a quanti non si erano punturati di salire sui mezzi pubblici, ma anche di bere un caffè al tavolo di un bar all'aperto? Beh, mai più.
  In nome dell'emergenza e della tutela della Salute pubblica si sono violati, con buona pace del presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, un certo numero di diritti, a cominciare dalla libertà di circolare a quella di lavorare o di scegliere come essere curati. In nome dell'urgenza sono stati asfaltati i diritti individuali e oltre al coprifuoco si è imposto l'obbligo di cura, con il ricatto di perdere lo stipendio. Un piano che dunque metta da parte le follie di Conte e Draghi, per tornare a provvedimenti razionali e scientifici, è dunque un passo avanti, in quanto si eliminano le coercizioni della libertà personale e la compressione dei diritti. Non ci saranno provvedimenti amministrativi decisi all'imbrunire. Ma se misure d'emergenza dovessero rendersi necessarie, sarà il Parlamento, con un regolare dibattito, a decidere e non quattro esperti pressati dalla politica. La lettura dei verbali del Cts è stata agghiacciante, per la leggerezza con cui sono state prese alcune decisioni. Beh, il piano pandemico dovrebbe scongiurare che tutto ciò si ripeta.

(La Verità, 3 luglio 2024)


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Il nuovo piano pandemico spazza via dpcm, lockdown e terrorismo mediatico

Ogni misura, vagliata dal Parlamento, sarà proporzionata e rispettosa della dignità personale. Stop al dogma dei vaccini e a toni utili a generare discriminazioni e stigma.

di Francesco Borgonovo

Mai più «cieca disperazione». Mai più pensiero magico e ideologia spacciati per scienza. Mai più guru in camice bianco. Mai più obblighi inutili e discriminazioni. Sono obiettivi più che ambiziosi, come no, e sono anche piuttosto complicati da raggiungere. Ma già il fatto che vengano posti rende il nuovo piano pandemico più utile e rilevante di quasi tutti gli interventi di sanità pubblica messi in atto fin qui. Già: habemus piano. Per la precisione il documento che il governo si prepara a licenziare si intitola «Piano strategico operativo di preparazione e risposta ad una pandemia da patogeni a trasmissione respiratoria a maggiore potenziale pandemico 2024-2028», si articola per oltre 200 pagine e contiene alcune sostanziali (e positive) novità che La Verità è in grado di anticipare in esclusiva.
  Tanto per cominciare, questo piano arriva a colmare un clamoroso vuoto e a sanare almeno in parte la prima, brutale ferita da cui poi è derivato il massacro pandemico degli anni passati. Come noto, quando il Covid si è presentato eravamo privi di un piano di preparazione e risposta. O, meglio, ne avevamo uno vecchio e non abbiamo applicato nemmeno quello. Per mesi e mesi i vertici della sanità italiana, a partire dall'ex ministro Roberto Speranza, hanno mentito sull'argomento, tentando di nascondere l'evidenza. Poi la verità - anche grazie al lavoro matto e disperatissimo di questo giornale e di parlamentari come Galeazzo Bignami e altri - è venuta a galla. I danni, però, erano ormai fatti. Un piano pandemico, infatti, serve proprio a evitare le azioni disperate e folli che i nostri presunti esperti hanno compiuto a partire dal 2020. Un piano ben fatto non serve a ordinare le chiusure: serve a evitarle. Prevede che le risorse siano inventariare e rese disponibili per tempo, stabilisce che si debbano curare i pazienti nel più breve tempo possibile invece di rinchiuderli e lasciarli in vigile attesa. Prevede che ogni decisione emergenziale venga poi vagliata e riesaminata, così da capirne l'effettiva utilità. Prevede, insomma, tutto quello che le nostre autorità non hanno fatto.
  Ora però un nuovo piano c'è, dopo le vergognose lungaggini dei precedenti governi e dopo un brutto passo falso compiuto mesi fa dall'attuale gestione. E che questo documento sia diverso si comprende fin dalle premesse, che sono parecchio dettagliate e fissano alcuni principi fondamentali di cui in futuro si dovrà tenere conto (anche perché i piani vanno applicati più o meno come se fossero leggi). Prendiamo ad esempio uno dei primi paragrafi. Vi si legge che «tra i principi fondamentali del Piano vi è l'efficacia. Gli interventi sono fondati su un solido razionale scientifico e metodologico supportato da dati rappresentativi della popolazione alla quale verranno applicati, in modo da rispettare anche il principio di giustizia e di equità nell'accesso alle risorse. Gli interventi sono, inoltre, motivati da una condizione di necessità. Per tale motivo, ogni intervento è guidato anche dal principio di responsabilità». Non sono frasi di circostanza: l'efficacia dei provvedimenti è esattamente ciò di cui non si è tenuto conto negli anni passati.
  Leggiamo ancora. «Il conflitto che potrebbe eventualmente insorgere tra la sfera privata e quella collettiva rende necessario operare in ottemperanza al principio di trasparenza. Le informazioni saranno divulgate dalle istituzioni preposte, tanto al personale medico-sanitario quanto ai non addetti ai lavori, in maniera tempestiva e puntuale, attraverso piani comunicativi pubblici e redatti in un linguaggio semplice e chiaro. Ogni persona deve essere informata sulla base di evidenze scientifiche in merito alle misure adottate, in modo da poter comprendere il significato e il valore delle azioni che ciascuno può compiere per la promozione della propria salute e di quella collettiva. Dopo aver debitamente informato la popolazione, si procede alla raccolta del consenso delle persone, in modo che queste possano compiere una scelta autonoma e consapevole». Informazione, trasparenza, consenso: antidoti alla tirannia sanitaria. Poi la chiosa decisiva: «E’ inoltre opportuno aggiornare o modificare le decisioni o le procedure qualora emergano nuove informazioni rilevanti e fondate su evidenze scientifiche». Tradotto: se si scopre che le mascherine non servono, che i lockdown sono inutili o che un farmaco causa problemi, si cambia rotta. Perché errare è umano, perseverare è totalitario.
  Il nuovo piano spiega poi che «ogni intervento deve essere proporzionato alle condizioni cliniche del paziente, del quale è riconosciuta l'autonomia decisionale e tutelata la dignità». E qui si pone una pietra angolare: la dignità dei pazienti, i loro diritti, devono restare al centro dell'azione sanitaria che è anche politica. Ecco perché, qualche pagina dopo, troviamo la prima fra le novità più rilevanti.
  «Di fronte ad una pandemia di carattere eccezionale», dice il piano, «si può presentare la necessità e l'urgenza di adottare misure relative ad ogni settore e un necessario coordinamento centrale, valutando lo strumento normativo migliore e dando priorità ai provvedimenti parlamentari. È escluso l'utilizzo di atti amministrativi per l'adozione di ogni misura che possa essere coercitiva della libertà personale o compressiva dei diritti civili e sociali. Solo con legge o atti aventi forza di legge e nel rispetto dei principi costituzionali possono essere previste misure temporanee, straordinarie ed eccezionali in tal senso». Queste righe stabiliscono che non si possano ordinare lockdown e restrizioni a piacere: bisogna passare dal Parlamento e agire nel rispetto della Costituzione. Sono limiti nuovi, e decisivi, volti a impedire gli abusi che tutti abbiamo purtroppo conosciuto.
  Già questo basterebbe a rendere obiettivamente buono il nuovo piano pandemico, al netto delle criticità che si potranno eventualmente individuare nel tempo e che per precauzione non escludiamo. Ma c'è un ulteriore passaggio che merita di essere illuminato, e che a nostro giudizio è ancora più confortante.
  Inizia così: «Nel contrasto ad un evento pandemico vanno individuati protocolli di cura efficaci». Ed ecco come prosegue: «I vaccini approvati e sperimentati risultano misure preventive efficaci, contraddistinte da un rapporto rischio-beneficio significativamente favorevole, ma non possono essere considerati gli unici strumenti per il contrasto ai patogeni infettivi. Risulta assolutamente centrale la sensibilizzazione delle persone attraverso una comunicazione semplice ed efficace dei benefici e dei rischi correlati a tale atto, contrastando la disinformazione e fornendo risposte adeguate alle preoccupazioni e alle incertezze».
  Ora, sul fatto che il rapporto rischio-beneficio sia significativamente favorevole, soprattutto in alcune fasce di età, potremmo obiettare. E non ci sfugge la concessione al «sanitariamente corretto». Tuttavia la tolleriamo in virtù delle frasi che compaiono appena dopo e che suonano balsamiche: «Nella comunicazione di una eventuale campagna vaccinale pandemica, devono altresì essere opportunamente chiariti i limiti della vaccinazione, che deve essere comunque affiancata dall'adozione di buone norme di prevenzione volte al contenimento del contagio. In nessun modo la campagna di informazione dovrà utilizzare toni disperati, generare discriminazioni e stigma sociale».
  Basta terrorismo, basta discriminazioni, basta razzismo, basta insulti. Finalmente e scritto nero su bianco, in un documento ufficiale. Per qualcuno non sarà abbastanza, e di sicuro molto, molto di più si potrebbe e dovrebbe ancora fare. Ma se si considera la base di partenza, e se si ripensa al passato, tutto questo appare quasi incredibile. E ci restituisce una evidenza: la dittatura sanitaria non è un destino, non è inevitabile. Si può provare a combatterla, arginarla, prevenirla. Basta volerlo.

(La Verità, 3 luglio 2024)
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Come “no vax” della prima ora, l’unico sentimento di “persecuzione” che ho provato durante il periodo pandemico è stato quando davanti a un bar ho letto sul cartello che nella mia posizione mi era preclusa la possibilità di entrare. Verboten. Escluso. Gli altri dentro, io fuori. Poca cosa, certo, soprattutto se paragonato a quello che hanno dovuto soffrire tanti altri in questo dannato periodo (ved. Gli invisibili).
Il giro di pensieri generali che però ha provocato in me quella piccola esperienza, continua ancora oggi a destare in me due sentimenti: sdegno e delusione.
SDEGNO, per l’arroganza con cui le autorità italiane hanno prevaricato sui cittadini facendo un uso sfacciato della menzogna, dell’intimidazione e del ricatto per costringere i cittadini alla sottomissione diffondendo paura, facendo minacce, ordinando punizioni.
DELUSIONE davanti al comportamento collettivo di due mondi a me cari: il mondo evangelico e il mondo ebraico. Nessuno prenda queste considerazioni come rivolte a sé personalmente, perché i motivi individuali possono variare enormemente da caso a caso, ma qualunque sia la posizione personale assunta, ritengo sia lecito,  anzi doveroso, esprimere valutazioni collettive di quanto è accaduto.
Gli evangelici si sono in gran parte adeguati alle norme prescritte con la sbrigativa motivazione della “sottomissione alle autorità”.  Un conformismo così rapido e tranquillo di fronte a menzogne di così enorme gravità, nella prospettiva di un futuro di rischi sempre maggiori per la testimonianza evangelica in un mondo che si sta sempre più diabolizzando, è spiritualmente preoccupante. 
Gli ebrei sono rimasti silenziosi osservatori della discriminazione operata su una categoria di cittadini, senza avvertire in questo un timido ma chiaro accenno a esperienze di quel tipo subite in altri tempi e in altre occasioni dalla “categoria” degli ebrei. Al contrario, è emerso il rifiuto netto di qualsiasi forma di paragone: guai a fare qualche accenno agli ebrei, senza riflettere che quando si considera normale la discriminazione tra cittadini, prima o poi si arriva a discriminare gli ebrei. M.C.

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Non c’è futuro per gli ebrei in Francia

Il rabbino capo di Parigi: "Ai giovani dico di andarsene. Non sappiamo chi ci odia di più".

di Giulio Meotti

Il rabbino Moshe Sebbag consiglia ai giovani francesi di andarsene. Non sa più chi sia il pericolo peggiore, mentre gli attacchi e le profanazioni si moltiplicano. Non c'è un futuro per gli ebrei francesi. Solo in una settimana, arresti per un complotto terroristico contro gli ebrei, uno stupro di gruppo antisemita e una aggressione ad adolescenti ebrei fuori da un cinema di Parigi. “Oggi è chiaro che non c’è futuro per gli ebrei in Francia”, ha detto il rabbino Moshe Sebbag al Jerusalem Post. “Dico a tutti i giovani di andare in Israele o in un paese più sicuro”. Sebbag, rabbino capo della Grande sinagoga di Parigi, continua: “Molte famiglie ebree ashkenazite qui da prima della Seconda guerra mondiale non potevano pensare di votare per il Rassemblement, eppure la sinistra è stata antisemita negli ultimi tempi. Gli ebrei sono nel mezzo perché non sanno chi li odia di più”.
  Il presidente del concistoro ebraico delle Alpi-Provenza, Zvi Ammar, confessa a CNews che “per non vivere più nascosti e insicuri”, sempre più ebrei sono pronti all’aliyah, a trasferirsi in Israele. “Nella bocca delle persone di ogni casa ebraica arriva la domanda: ‘Noi abbiamo ancora un futuro in Francia?’. Fa molto male. Quando una persona si sente minacciata e in pericolo, pensa di andare altrove. Oggi le persone si sentono più sicure in Israele, nonostante sia un paese in stato di guerra”.
  L’anno scorso, 1.100 ebrei francesi sono partiti per Israele. Quest’anno saranno 4.500, secondo le stime. Dal 1972, oltre centomila ebrei francesi sono partiti per Israele (su mezzo milione). Prima del 2012, cinquecento ebrei lasciavano la Francia ogni anno. Numeri decuplicati.
  I leader delle comunità ebraiche hanno sostenuto Emmanuel Macron al primo turno, ma al secondo sono nell’angoscia di una scelta tra la sinistra antisemita di Jean-Luc Mélenchon e la destra lepenista che cerca di darsi una ripulita. Serge Klarsfeld, una vita nel fronte antifascista e democratico, cacciatore di nazisti, che i neonazisti provarono a uccidere con una bomba, con la moglie Beate ha denunciato il passato nazista dell’allora cancelliere tedesco Kurt Georg Kiesinger, ha fatto catturare l’ufficiale delle SS responsabile dello sterminio di tremila ebrei polacchi Joseph Schwammberger e processare Maurice Papon, il prefetto che fu funzionario di Vichy, ha fatto scalpore per aver detto di votare la destra lepenista. Come lui, il filosofo Alain Finkielkraut.
  Una settimana fa, una ragazzina di dodici anni ha subìto uno stupro di gruppo a Courbevoie, un quartiere vicino alla Defense. E’ stata trascinata in un capannone da una banda che, secondo la polizia, “l’ha costretta a penetrazioni anali e vaginali, fellatio, mentre pronunciavano minacce di morte e commenti antisemiti”. C’era anche il fidanzato.
  Non solo, rivela la madre della vittima: dopo averla violentata l’hanno costretta a convertirsi all’islam e a “giurare su Allah” che non lo avrebbe detto a nessuno. La “logica” del 7 ottobre è uscita dai confini di Israele per entrare nei “territori perduti” della République.

Il Foglio, 3 luglio 2024)

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L‘Idf ha colpito siti di lancio razzi a Khan Yunis

Da dove ieri ne erano stati tirati circa 20

TEL AVIV – L’esercito israeliano ha confermato di aver colpito durante la notte a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, i siti da cui ieri sono stati lanciati circa 20 razzi dalla Jihad islamica verso le comunità israeliane a ridosso della Striscia. Lo ha fatto sapere il portavoce militare secondo cui tra i siti c’erano anche "depositi di armi e infrastrutture del terrore". Prima del raid l’Idf ha chiesto ai residenti dei quartieri orientali di Khan Yunis di spostarsi nelle zone umanitarie sulla costa.

(ANSA, 2 luglio 2024)

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Netanyahu: l'IDF si avvicina alla "fase finale" contro l'esercito di Hamas

"Continueremo ad attaccare le loro formazioni", ha detto il primo ministro israeliano ai cadetti dell'Israel National Defence College.

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Benjamin Netanyahu informa i cadetti dell'Israel National Defense College sulla guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza, 1 luglio 2024

GERUSALEMME - Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato lunedì che le Forze di Difesa Israeliane sono sul punto di distruggere l'esercito terroristico di Hamas, un obiettivo chiave della guerra durata quasi nove mesi.
  "Sono tornato ieri da una visita alla divisione di Gaza. Ho visto successi molto significativi nei combattimenti a Rafah. Ci stiamo avvicinando alla fine della fase di eliminazione dell'esercito terroristico di Hamas; continueremo ad attaccare i suoi resti", ha detto Netanyahu durante un incontro con i cadetti dell'Israel National Defence College.
  "Sono rimasto molto colpito dai successi ottenuti in superficie e sotto terra e dallo spirito combattivo dei comandanti. Con questo spirito raggiungeremo i nostri obiettivi: Il ritorno dei nostri ostaggi, l'eliminazione delle capacità militari e governative di Hamas, la garanzia che la Striscia di Gaza non sia più una minaccia e il ritorno sicuro dei nostri residenti alle loro case nel sud e nel nord", ha aggiunto il Primo Ministro.
  Erano presenti anche cadetti delle forze armate di Germania, Singapore, Giappone, Italia, Repubblica Ceca e Corea del Sud.
  Domenica Netanyahu ha espresso le sue condoglianze alle famiglie dei soldati uccisi nella Striscia di Gaza e in Giudea e Samaria e ha sottolineato che Israele raggiungerà i suoi obiettivi di guerra.
  "Chiunque sia chi dubita della realizzazione di questi obiettivi, ripeto: non c'è alternativa alla vittoria", ha dichiarato.
  Facendo riferimento alla porzione settimanale della Torah "Shlah Lecha", che afferma che Israele è un "Paese straordinariamente buono", Netanyahu ha aggiunto: "Il nostro Paese è straordinariamente buono. I nostri cittadini sono eccezionalmente buoni. I nostri combattenti sono eccezionalmente bravi. Con la loro forza e il loro valore, sconfiggeremo i nostri nemici. Con l'aiuto di Dio, combatteremo insieme e insieme vinceremo".

(Israel Heute, 2 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Idf, 'determinati a continuare battaglia contro Hamas'

Portavoce commenta un articolo New York Times su esercito 'pronto a una tregua'

TEL AVIV - Il portavoce militare israeliano ha detto che l'esercito è determinato a continuare la sua battaglia contro Hamas a Gaza.
Il portavoce si è riferito a un articolo del 'New York Times' - citato da Ynet -, secondo cui gli alti comandanti dell'Idf sarebbero interessati a un cessate il fuoco a causa della mancanza di armamenti.
"Finora - ha spiegato - sono stati raggiunti risultati significativi nella lotta a Gaza, l'Idf continuerà a combattere Hamas ovunque nella Striscia di Gaza, oltre a continuare a promuovere la preparazione alla guerra nel nord e la difesa a tutti i confini".
Le forze armate israeliane - ha continuato il portavoce - sono determinate a continuare "a combattere per raggiungere gli obiettivi della guerra, per distruggere le capacità militari e governative di Hamas, per riportare a casa gli ostaggi e condurre di nuovo sani e salvi i residenti del nord e del sud alle loro case".

(ANSAmed, 2 luglio 2024)

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“Hebrew Book Week”: in Israele la guerra non ferma la celebrazione della cultura e della lettura

di Nicole Nahum

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La Hebrew Book Week in Israele è un evento molto atteso e popolare che celebra la cultura della lettura e l’amore per i libri nel Paese. Anche quest’anno, nonostante il conflitto in corso, le continue tensioni e la situazione politica complessa, nei giorni centrali di giugno, gli israeliani si sono nuovamente riuniti per partecipare a una serie di eventi letterari, fiere del libro e attività legate alla letteratura e alla creatività ebraica.
  La tradizione della “Settimana del Libro Ebraico” risale agli anni ’20, quando a Tel Aviv la pionieristica editrice Bracha Peli, insieme alla sua Masada Press, organizzò una fiera di strada per vendere libri. Da allora, l’evento è cresciuto e si è trasformato in una grande fiera del libro che attira migliaia di visitatori ogni anno. In Israele vengono acquistati annualmente circa 34 milioni di libri da una popolazione composta da 9,9 milioni di persone. 
  Durante questa settimana, i visitatori possono partecipare a eventi letterari, incontri con autori, spettacoli musicali, laboratori di scrittura creativa e molto altro. Le fiere del libro si svolgono in diverse città, tra cui Gerusalemme e Tel Aviv, e offrono ai partecipanti l’opportunità di acquistare libri a prezzi scontati e di scoprire nuovi titoli e autori. 
  Per molte persone, come ad esempio gli Haredim, questa settimana rappresenta un’opportunità per rifornire la loro libreria, mentre per autori come Gil Troy e Natan Sharansky è un’occasione per promuovere i loro nuovi libri. Inoltre, l’Hebrew Book Week è stata caratterizzata da alcuni dibattiti tra quattro importanti autori israeliani, tra cui Haim Be’er e Yaniv Itzikowitz.
  Anche in luoghi come la Biblioteca Nazionale d’Israele (NLI)  e Yad Vashem sono stati organizzati eventi speciali in onore della “Settimana del Libro Ebraico”. Nella prima sono state celebrate alcune figure della letteratura israeliana come Naomi Shemer e Yehuda Amichai, con concerti commemorativi per il 20° anniversario della morte di Shemer e il centenario della nascita di Amichai, mentre Yad Vashem ha invece offerto sconti del 40% per tutto il mese su molti dei titoli nella sua libreria online.
  L’Hebrew Book Week coincide con il Mese della Lettura, durante il quale il Ministero della Cultura israeliano ha inviato numerosi scrittori nei centri comunitari delle zone periferiche come KiryatGat, Yeruham, Netivot e Ariel per condurre workshop di scrittura creativa per bambini e adulti. Anche a Sderot questa settimana ha rappresentato una sorta di “fuga momentanea dalla realtà” per le famiglie che sono tornate nelle loro case di fronte a Gaza pochi mesi fa.
  Eventi musicali e presentazioni di libri sono dunque solo alcune delle attività che hanno coinvolto il pubblico e celebrato la cultura della lettura e della letteratura.
  Nonostante le difficoltà e le tensioni che caratterizzano la vita in Israele nell’ultimo periodo, la “Settimana del Libro Ebraico” continua a essere un momento di gioia, celebrazione e scoperta per gli amanti dei libri e della cultura. Attraverso eventi come questi, la comunità israeliana dimostra il suo impegno per la conoscenza, la creatività e la condivisione delle storie che definiscono la propria identità e il proprio patrimonio culturale.

(Shalom, 2 luglio 2024)

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Turchia: negato rifornimento a un volo El-Al atterrato in emergenza

Un volo El Al proveniente da Varsavia e diretto a Tel Aviv non ha potuto fare rifornimento dopo aver effettuato un atterraggio di emergenza ad Antalya, in Turchia, domenica 30 giugno per evacuare un passeggero che necessitava di cure mediche. Lo riporta il Times of Israel.
  I lavoratori turchi dell’aeroporto di Antalya si sono rifiutati di rifornire il volo LY5102 prima che potesse decollare per Israele, ha dichiarato El Al in un comunicato.
  “I lavoratori locali si sono rifiutati di rifornire l’aereo della compagnia, anche se si trattava di un caso medico”, ha dichiarato, aggiungendo che il passeggero è stato evacuato. L’aereo è poi decollato verso Rodi, in Grecia, dove “farà rifornimento prima di decollare verso Israele”, ha dichiarato la compagnia aerea.
  Fonti diplomatiche turche hanno confermato che l’aereo ha potuto effettuare un atterraggio di emergenza per evacuare un passeggero malato. “Il carburante doveva essere fornito all’aereo a causa di considerazioni umanitarie, ma mentre la relativa procedura stava per essere completata, il capitano ha deciso di partire di sua iniziativa”, ha dichiarato una fonte diplomatica turca.
  Secondo i media ebraici, il Ministero degli Esteri aveva ricevuto dalle autorità turche l’assicurazione che l’aereo sarebbe stato autorizzato a fare rifornimento, ma in pratica ciò non è avvenuto. Poiché l’aereo stava bruciando carburante sulla pista per mantenere in funzione l’aria condizionata e altri sistemi, si è deciso di decollare per Rodi, a 40 minuti di volo, e di rifornirsi lì, prima che anche questo breve volo diventasse impossibile.
  L’aereo sarebbe dovuto atterrare all’aeroporto Ben-Gurion più tardi, domenica.

(Bet Magazine Mosaico, 1 luglio 2024)

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Tensione al confine con il Libano con Hezbollah: i movimenti negli ospedali del Nord

di Luca Clementi

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A seguito delle crescenti tensioni al confine settentrionale, provocate dai continui lanci di missili da parte dei terroristi di Hezbollah armati dall’Iran, gli ospedali nel Nord di Israele si stanno preparando per una possibile guerra con il Libano.
I piani varanti sinora, come illustra un articolo di YNet News, sono per due scenari: interruzione di corrente e limitazione agli accessi a strade e aree sicure. Al momento non ci sono istruzioni, ma il Ministero della Salute israeliano ha parlato con le amministrazioni ospedaliere per verificare che sia tutto pronto, chiedendo di accumulare scorte di sangue per sei giorni anziché quattro. È inoltre possibile che medici e altri operatori sanitari vengano chiamati in prima linea.

(Shalom, 1 luglio 2024)

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L'Occidente è in preda all'isteria

Ma la guerra a Gaza non è stata voluta da Israele, che la combatte a pieno diritto

di Paolo Salom

[Voci da lontano occidente] La guerra andrà avanti, dice il governo di Israele, almeno fino alla fine dell’anno. Comprensibile, per quanto terribile: quello che è accaduto il 7 ottobre, nonostante la lunga serie di atti di terrorismo da parte degli arabi-palestinesi nell’ultimo secolo, è senza precedenti per atrocità e scopo. Di conseguenza non ci stupiamo che lo Stato ebraico abbia intenzione di chiudere la partita senza ambiguità o mezze misure. Quello che invece ci sorprende, ancora, è lo stato di isteria in cui si trova il lontano Occidente. Passi per le società arabe, dove l’odio per gli ebrei è nella “tradizione” e antico come l’Islam. Ma le democrazie passate attraverso l’esperienza della Seconda guerra mondiale, del nazifascismo, della persecuzione degli ebrei, della Shoah? Come è possibile che l’antisemitismo, giustificato naturalmente con le “atrocità” commesse (a loro dire) da Tsahal contro gli “innocenti” abitanti di Gaza, sia tornato a mettere in pericolo la permanenza sul suolo europeo (e anche degli Stati Uniti) delle comunità ebraiche, dopo due millenni di antisemitismo religioso e nazionale che doveva essere scomparso?
  Come è possibile che università, centri di ricerca, Ong, chiedano di boicottare le istituzioni scientifiche israeliane allo stesso modo dei nazisti negli anni Trenta del secolo scorso? Come è possibile che all’Eurofestival, una manifestazione canora – il Sanremo d’Europa – la concorrente israeliana e il suo entourage siano stati costretti a restare chiusi nell’albergo assediato da facinorosi, per evitare attacchi e violenze? Per non parlare del momento dell’esibizione della bravissima Eden Golan, fischiata e sommersa di “booo” dal pubblico presente a Malmö, Svezia, dall’inizio al termine della sua commovente canzone?
  E come è possibile, ditemi, che Spagna, Irlanda e Norvegia riconoscano lo “Stato di Palestina”, uno Stato inesistente (e non per causa di Israele ma solo e soltanto per la scelleratezza dei suoi leader), di fatto premiando la violenza terrorista del 7 ottobre e, infatti, guadagnandosi il plauso e la riconoscenza di Hamas? La Spagna che nel 1492 cacciò mezzo milione di sudditi ebrei? L’Irlanda che inviò le condoglianze alla Germania per la morte di Hitler? La Norvegia che non perde occasione per ergersi a paladina degli oppressi e fa finta di non vedere che gli oppressori sono gli sgherri islamisti?
  Il mondo all’incontrario. Questo è il lontano Occidente oggi. Dove si spargono lacrime per il “massacro di innocenti palestinesi” – per lo più inventato dalla propaganda di Hamas. E si aggrediscono gli israeliani (e gli ebrei ovunque si trovino) perché hanno osato reagire al massacro – questo vero e documentato – del 7 ottobre 2023. Intendiamoci, è chiaro a tutti che molti civili, a Gaza, siano finiti vittime delle operazioni di guerra, è certo che molti bambini (anche uno è troppo) siano stati colpiti da proiettili israeliani, ed è terribile.
  Ma in una situazione come quella nata dall’attacco di Hamas contro le comunità del Sud di Israele, con 1.200 civili inermi uccisi barbaramente e, soprattutto, volendolo fare, migliaia di missili lanciati sulle città e villaggi israeliani, che cosa si aspettava il mondo? Che altro avrebbe potuto fare lo Stato di Israele per difendere i propri cittadini? Nulla di diverso da quello che è stato deciso.
  Tutto è criticabile, tutto si può fare meglio. Ma è ipocrita accusare lo Stato ebraico, come ha fatto ripetutamente il Tribunale penale internazionale – sobillato dai soliti Paesi-complici di Hamas – di “genocidio” e “crimini di guerra”. Nulla di tanto efferato si può imputare a Tsahal, un esercito i cui principi e regole di ingaggio sono improntate a una eticità assoluta e insindacabile. Chi lo fa è spinto da una cosa sola: l’odio verso gli ebrei.
  Perché sappiamo bene che la guerra, qualsiasi guerra, è un atto terribile, un aspetto estremo della cultura umana che trasforma chi la subisce (e anche chi la conduce) in un recipiente (o strumento) di morte e dolore. Ma è anche una costante nella Storia di tutte le civiltà, dall’alba dei tempi. Dopo la Seconda guerra mondiale in tanti hanno detto: “Mai più”. E forse anche per questo ora criticano Israele, e noi vogliamo concedere che qualcuno lo faccia in buona fede. Ma “mai più” era stato detto anche agli ebrei, inseguiti e uccisi dalla furia nazifascista. Ed è proprio in virtù di quel “mai più” che gli ebrei – e per primi i nostri fratelli israeliani – hanno deciso di difendersi da soli senza contare che sul nostro diritto a farlo. La guerra a Gaza non è stata voluta da Israele. Ma la combatte con pieno diritto, dalla parte del giusto e di una moralità perseguita malgrado incidenti ed errori. Ora, per chiuderla, basterebbe che i nemici di Hamas ne accettino l’unico risultato possibile: liberino gli ostaggi nelle loro mani e si arrendano. Perché noi non rinunceremo mai all’indipendenza, alla dignità, alla libertà.

(Bet Magazine Mosaico, 1 luglio 2024)
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Ottimo! Articolo chiaro, sintetico, completo. Quello che sorprende, dice l'autore "è lo stato di isteria in cui si trova il lontano Occidente". Ma non doveva essere proprio Israele il baluardo dell'Occidente contro l'invasione dei barbari antioccidentali? Sorpresi dal fuoco amico. Come mai? Forse tra i redattori di pensosi giornali superoccidentali come "Il Foglio" si troverà la risposta. Aspettiamo di conoscerla. M.C.

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