«Ho odiato Hamas e continuo a odiarlo»
Nell'ospedale Sheba di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, in un reparto speciale vengono curati anche soldati gravemente feriti e traumatizzati durante le operazioni contro Hamas nella Striscia di Gaza. Incontro con una vittima di guerra.
di Carl Brunke
RAMAT GAN (Israele) - “Returning to Life” (Ritorno alla vita) è scritto sul cartello all'ingresso del reparto. Attualmente 50 soldati israeliani feriti nella guerra di Gaza sono qui in riabilitazione per poter tornare alla vita. Alcuni rimangono in clinica fino a un anno. Shahar è uno di loro. Il maggiore della riserva ha 38 anni e ne dimostra dieci di più. Non c'è da stupirsi. “Ero in pessime condizioni, sanguinavo dappertutto. È un miracolo che io sia qui”, dice.
Qui si trova il grande ospedale Sheba a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. L'area si estende su 80 ettari, sei ospedali con 120 reparti e 11.000 dipendenti, di cui 3.000 infermieri. Nella classifica della rivista statunitense “Newsweek”, Sheba si è classificato all'ottavo posto tra i migliori ospedali del mondo.
Sotto il comando di Shahar c'erano 100 soldati di un'unità di infiltrazione. Una volta all'anno i riservisti si riunivano per un'esercitazione. Fino al 7 ottobre 2023. Il giorno del massacro di Hamas che ha cambiato tutto. “Non siamo stati sorpresi che ci provassero. Siamo stati sorpresi che sia successo”, dice.
Da allora è stato in missione a Gaza per un totale di 230 giorni. Fino al 10 ottobre 2024. “Nel nord di Gaza stavamo viaggiando su un veicolo militare quando siamo stati colpiti da un razzo dei terroristi di Hamas. Il mio compagno Daniel è morto sul colpo”, racconta Shahar. Quando il veicolo ha colpito una mina ed è esploso, il mitragliere è rimasto ucciso e Shahar è rimasto ferito in modo grave.
“Ero in pessime condizioni. Sanguinavo dappertutto. Ero solo e indifeso”. Shahar è stato fortunato. Nelle vicinanze si trovava un'unità israeliana che lo ha portato fuori dalla zona di pericolo. È stato trasportato in elicottero in un ospedale di Gerusalemme, dove è stato operato immediatamente.
Da oltre sei mesi, il corridoio dei soldati dell'ospedale Sheba è diventato una sorta di casa per lui. Nelle zone relax ci sono divani e poltrone che hanno visto giorni migliori. Come i soldati che vi riposano. Chi conosce Israele non si stupisce dei mobili segnati dall'uso. In molti luoghi il Paese ha conservato il carattere provvisorio e lo spirito del kibbutz.
Ma naturalmente questa superficiale impressione è ingannevole. Sheba dispone di un ospedale sotterraneo di cinque piani per i casi di guerra e con “Sheba Beyond” sta promuovendo la digitalizzazione in campo medico. “Nel Negev stiamo progettando una clinica basata esclusivamente sull'intelligenza artificiale”, afferma Steve Walz, portavoce di Sheba, sottolineando la coesione tra il personale ebraico e quello arabo (25%): ‘La guerra resta fuori, a Sheba tutti lavorano fianco a fianco e mano nella mano’.
• Anche i pazienti palestinesi sono benvenuti
Il professionista delle pubbliche relazioni di New York conosce bene il suo mestiere. Anche i pazienti della Cisgiordania vengono curati a Ramat Gan, pagati dall'Autorità Palestinese (AP) o da organizzazioni non governative (ONG). Al contrario, i pazienti delle famiglie reali degli Stati arabi che non intrattengono relazioni diplomatiche con Israele pagano direttamente a Sheba le loro fatture.
In una grande sala comune, le terapiste lavorano con gli uomini feriti. Un ragazzo di massimo 25 anni è seduto a un piccolo tavolo da cucina e sta imparando a mangiare di nuovo con coltello e forchetta. Ai primi tentativi non riesce ancora a infilzare un pezzo di pollo. Qui nessuno prova vergogna o timidezza. Il destino comune unisce.
Shahar si è in parte ripreso. La gamba destra gli dà ancora problemi. ‘Andrà meglio. Quando sarò completamente guarito, voglio tornare nell'esercito’. E tornare al suo lavoro in una start-up a Tel Aviv. “Come riservista non devo tornare nell'esercito. Ma ho una missione e la porterò a termine”, afferma con convinzione. Shahar vuole difendere il suo Paese, lo Stato ebraico di Israele. Anche per i suoi amici della compagnia che ha perso a Gaza. “Penso che un giorno tornerò a Gaza”.
Molti dei soldati feriti ricoverati nelle cliniche di Sheba condividono questo atteggiamento, conferma Steve Walz. La moglie di Shahar non ha nulla da obiettare: «Anche lei è nell'esercito e sa con chi è sposata. Inoltre, ora ho ancora più esperienza. Odiavo Hamas e continuo a odiarlo». Quando Shahar parla in questo modo, emerge con particolare chiarezza una differenza tra tedeschi e israeliani: gli uni non vogliono mai più essere carnefici, gli altri non vogliono mai più essere vittime.
Nota: per proteggere la sua identità, pubblichiamo solo il nome di battesimo del soldato israeliano e non mostriamo alcuna sua foto.
(Israelnetz, 19 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Usa: per la maggioranza degli elettori ebrei Trump sta sbagliando in politica estera
Il sondaggio tra gli elettori ebrei registrati ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti, e quasi il 70% ha detto lo stesso per le parole “fascista” e “razzista”. Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, e il 49% afferma che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo.
di Nina Prenda
Circa la metà degli ebrei americani descrive il presidente Donald Trump come antisemita, mentre solo una minoranza pensa che le sue misure nei campus stiano riducendo l’antisemitismo, secondo un nuovo sondaggio condotto dalla società di sondaggi GBAO Strategies.
Gli ebrei americani sono anche ampiamente critici nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu, e alcuni di loro dicono di sentire un attaccamento minore a Israele rispetto a prima dell’attuale guerra Israele-Hamas, iniziata con le atrocità guidate da Hamas del 7 ottobre 2023, secondo il sondaggio.
Il sondaggio tra gli elettori ebrei ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti.
Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, mentre il 26% approva. Quasi il 70% ha detto che le parole “fascista” e “razzista” lo descrivono molto o un po’ bene.
Sondaggi precedenti hanno costantemente riportato bassi indici di approvazione per Trump da parte degli elettori ebrei, che si sono appoggiati fortemente ai democratici per decenni. Il sondaggio ha rilevato che una grande maggioranza degli intervistati prevede di sostenere i democratici nelle elezioni di medio termine del prossimo anno.
Ma la descrizione “antisemita” è notevole proprio perché Trump ha fatto una grande campagna per combattere l’antisemitismo. Da quando è tornato in carica, la sua amministrazione ha intrapreso una serie di azioni di alto profilo con l’obiettivo dichiarato di combattere l’antisemitismo, tra cui ottenere miliardi di dollari di finanziamenti dalle università e cercare di limitare la capacità d’azione degli attivisti studenteschi stranieri.
Il sondaggio ha rilevato che solo una frazione degli intervistati pensa che tali azioni riducano l’antisemitismo, mentre una quota molto più grande ha affermato che le azioni aumentano l’antisemitismo.
Il 49% degli intervistati ha affermato che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo, mentre il 25% ha affermato che i tagli riducono l’antisemitismo e il 26% che non hanno alcun impatto.
Il 61% degli intervistati crede che l’arresto dei manifestanti filo-palestinesi voluto dall’amministrazione Trump aumenti l’antisemitismo, mentre il 20% sostiene che riduca l’antisemitismo e un altro 20% che non ha alcun impatto.
Nel complesso, il 77% degli elettori ebrei è preoccupato per l’antisemitismo nei campus universitari, mentre ancora di più sono preoccupati per l’antisemitismo negli Stati Uniti più in generale. Ma il 64% disapprova il lavoro che Trump sta facendo per combattere l’antisemitismo, mentre il 36% approva.
Il sondaggio è stato condotto da un nuovo gruppo apartitico chiamato Jewish Voters Resource Center, che mira a raccogliere e diffondere dati sugli elettori e sulle questioni ebraiche. GBAO, che in passato ha condotto sondaggi per gruppi ebrei liberali, ha condotto il sondaggio su 800 elettori ebrei dal 22 aprile al 1° maggio. Ha un margine di errore del 3,5%.
Il sondaggio ha anche rilevato che il 74% degli elettori ebrei disapprova il lavoro che Donald Trump sta facendo in politica estera, mentre il 26% approva. Il sondaggio ha rilevato che solo il 34% degli intervistati ha opinioni favorevoli su Netanyahu, mentre il 61% ha opinioni sfavorevoli su di lui.
Infine, il 72% degli intervistati ritiene anche che la ripresa dell’azione militare a Gaza renda più probabile che gli ostaggi vengano uccisi e il 28% afferma che li rende più propensi a essere rilasciati.
(Bet Magazine Mosaico, 19 maggio 2025)
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Operazione del Mossad: recuperati oltre 2.500 documenti su Eli Cohen
di Luca Spizzichino
Con un’operazione segreta all’interno della Siria, il Mossad ha recuperato oltre 2.500 documenti classificati riguardanti la figura di Eli Cohen, la spia israeliana giustiziata pubblicamente a Damasco nel 1965. La scoperta arriva in concomitanza con il 60° anniversario della sua morte ed è destinata a riscrivere parti importanti della sua storia.
Secondo quanto annunciato domenica dallo stesso Mossad, i materiali erano custoditi in un luogo estremamente protetto, sotto la supervisione dei servizi segreti siriani. Nonostante il deterioramento dell’autorità del regime di Bashar al-Assad, l’operazione ha richiesto una pianificazione meticolosa ed è stata portata a termine solo di recente. Tra i documenti recuperati figurano i passaporti falsi utilizzati da Cohen, le chiavi originali del suo appartamento a Damasco, comunicazioni ricevute dai vertici del Mossad, relazioni di sorveglianza siriane e, tra i ritrovamenti più toccanti, una copia originale del testamento scritto di suo pugno prima dell’esecuzione e una serie di registrazioni audio su cassette.
Grande rilievo assumono anche i documenti che testimoniano la campagna diplomatica condotta dalla moglie di Cohen, Nadia, per salvargli la vita: lettere, appelli e tentativi rivolti sia ai leader siriani che alla comunità internazionale. In segno di rispetto e riconoscimento, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il direttore del Mossad, David Barnea, hanno recentemente incontrato Nadia Cohen, ribadendo l’impegno dello Stato di Israele a riportare finalmente in patria i resti dell’agente. Resta però il mistero: perché, nonostante il ritrovamento dell’intero dossier siriano, il corpo di Eli Cohen non sia stato ancora localizzato.
Già nel dicembre 2022 il Mossad aveva declassificato nuovi dettagli sul suo arresto, rivelando l’intercettazione dell’ultimo cablogramma inviato da Cohen il 19 gennaio 1965, in cui riferiva di un incontro segreto tra il presidente siriano Amin al-Hafez e i vertici militari del Paese. Per decenni ci si è interrogati se Cohen sia stato tradito dall’eccesso di zelo dei suoi superiori o da imprudenze personali. Ma il direttore del Mossad Barnea ha messo a tacere queste ipotesi: “Eli Cohen non fu catturato perché trasmise troppo, né perché disobbedì ai protocolli. Fu un esempio di coraggio e dedizione assoluti. A volte, anche i migliori possono cadere vittime della determinazione del controspionaggio nemico”. Addestrato intensamente, Cohen fu inviato in Argentina per costruire una solida identità di copertura come uomo d’affari con legami con la Siria. A Damasco riuscì a penetrare nei più alti circoli del potere grazie al suo carisma e alle sontuose feste che organizzava, guadagnandosi la fiducia di ufficiali e ministri.
Il suo contributo all’intelligence israeliana fu fondamentale: molti storici gli attribuiscono un ruolo cruciale nella vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Tuttavia, l’intensificarsi delle lotte interne al regime siriano e l’introduzione di tecnologie sovietiche anti-spionaggio nel 1963 segnarono l’inizio della fine per l’agente. “Eli Cohen resta una fonte di ispirazione per generazioni di agenti del Mossad. La sua eredità vive nel nostro impegno quotidiano”, ha concluso Barnea.
(Shalom, 19 maggio 2025)
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Yuval Raphael conquista il secondo posto all’Eurovision 2025
Il televoto premia Israele con 297 punti
di Luca Spizzichino
Yuval Raphael ha ottenuto il secondo posto assoluto all’Eurovision Song Contest 2025, trionfando nel televoto con ben 297 punti. A vincere il prestigioso microfono di cristallo è stato l’austriaco JJ con la ballata “Wasted Love”. Per Israele si tratta della settima volta tra i primi cinque posti nella storia della competizione.
Nonostante le polemiche e i numerosi appelli per escludere Israele dalla gara, il pubblico europeo ha scelto di premiare la performance di Raphael. I fischi di protesta sono stati sovrastati da applausi e standing ovation. Chiudendo la sua esibizione con: “Am Yisrael Chai!”
Le giurie nazionali si sono mostrate più caute: Israele ha ricevuto il massimo punteggio, i celebri “douze points”, solo dall’Azerbaigian, ma ha raccolto consensi significativi anche da paesi insospettabili come l’Irlanda, che ha assegnato 7 punti allo Stato ebraico, nonostante il forte clima anti-israeliano presente nel Paese. L’Italia ha assegnato 0 punti a Israele tramite la giuria, ma 8 punti dal televoto, a conferma di un ampio sostegno da parte del pubblico.
Poco dopo l’annuncio dei risultati finali, in un commento rilasciato a caldo, Raphael ha ribadito il suo affetto per il pubblico israeliano: “Amo il popolo d’Israele più di ogni altra cosa al mondo”.
Durante la sua esibizione, la sicurezza ha sventato due tentativi di protesta sul palco. Una coppia olandese ha cercato di interrompere la performance: la donna ha spruzzato vernice rossa su un agente, e entrambi sono stati arrestati. Per motivi di sicurezza, l’intera delegazione israeliana ha lasciato temporaneamente la Green Room.
Sui social, Raphael ha pubblicamente ringraziato la sua scorta personale. Le minacce, del resto, non erano nuove né infondate: lo scorso anno, la cantante Eden Golan aveva ricevuto così tante intimidazioni che il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, si era recato personalmente a Malmö per supervisionarne la protezione. Anche alcuni canali pubblici europei, come RTVE (Spagna) e VRT (Belgio), hanno trasmesso messaggi a favore della causa palestinese durante la diretta. Il messaggio spagnolo recitava: “Quando i diritti umani sono in pericolo, il silenzio non è un’opzione.”
(Shalom, 18 maggio 2025)
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Il coro della sconfitta – così i media israeliani giocano a favore di Hamas
La menzogna secondo cui agli americani importa degli ostaggi più che al governo israeliano, l’aiuto al nemico nella pubblicazione dei suoi video di terrore psicologico, il modo in cui Hamas manipola i nostri media, e al contrario di tutto questo: le vedove piene di spirito del battaglione 8207
di Kalman Liebskind
Questa è la narrazione che è passata come un filo conduttore questa settimana nei giornali, nei programmi radiofonici e nelle trasmissioni televisive: Donald Trump si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi Eidan Alexander, che ha un passaporto americano, è stato liberato dalla prigionia. Il governo israeliano non si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi gli altri 58 ostaggi, che non hanno un passaporto americano, sono rimasti a Gaza. Su Kan 11 hanno fatto di più, quando all’inizio del notiziario hanno mostrato sullo schermo le foto dei 23 ostaggi tenuti in vita, con sopra un grande titolo rosso “Loro non hanno un passaporto americano“.
E questa squallida campagna politica, che cerca di raccontarci che agli americani importa dei nostri ostaggi più di quanto importi al governo israeliano, deve essere smantellata. Prima di tutto, forse qualcuno ha dimenticato – Eidan Alexander non è il primo ostaggio ad essere liberato. Finora il governo israeliano ha portato alla liberazione di quasi 200 ostaggi.
La grande maggioranza di questi ostaggi liberati non sono cittadini americani. Sono cittadini israeliani. E a differenza di Donald Trump – che ha ricevuto Eidan Alexander gratuitamente, e dubito fortemente che avrebbe pagato qualcosa all’organizzazione terroristica di Hamas se fosse stato necessario – per gli altri ostaggi il governo israeliano ha dovuto pagare prezzi molto alti, e ha scelto di pagarli. Era giusto pagare tali prezzi? Questa è un’altra discussione, con opinioni in entrambe le direzioni, ma ora non stiamo trattando opinioni ma fatti.
Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha rilasciato molti terroristi che hanno ucciso circa 650 israeliani, uomini e donne, neonati e anziani. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha mandato molti soldati a rischiare le loro vite, alcuni dei quali sono caduti in battaglia per raggiungere questo obiettivo sacrosanto. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano era pronto a fermare la guerra, a ritirarsi da luoghi che avevamo conquistato con molto sangue, e a permettere ai terroristi di tornarvi per prepararsi al prossimo round.
Quindi chi ha pagato di più per gli ostaggi, gli americani o noi? Vi immaginate Trump che rilascia centinaia di terroristi, le cui mani sono macchiate del sangue di molti americani, come abbiamo fatto noi? Quante altre menzogne possono ancora iniettarci, solo per adempiere al sacro compito politico di combattere questo governo?
E se parliamo degli americani, bisogna dire un’altra cosa al riguardo. Gli americani sono una delle ragioni principali per cui l’organizzazione terroristica che tiene i nostri ostaggi è ancora in piedi. Gli americani, quegli stessi americani che ora tutti dobbiamo ringraziare e ammirare per le loro azioni, sono quelli che hanno esercitato una forte pressione su di noi e ci hanno ordinato di rifornire Hamas, di permettere loro di sopravvivere, e di far capire loro che nulla è urgente.
Gli americani sono quelli che hanno imposto un embargo sulle armi che ci ha reso difficile colpire i terroristi con più forza e più presto. E in generale, se l’intera storia inizia e finisce con il fatto che gli americani si preoccupano degli ostaggi che sono loro cittadini più di quanto noi ci preoccupiamo degli ostaggi che sono nostri cittadini, e con un piccolo hocus-pocus sono riusciti a fare ciò che noi non abbiamo fatto, come mai Eidan Alexander è rimasto nei tunnel per 584 giorni? Perché gli americani non hanno fatto questa magia prima?
Quindi dopo aver presentato i fatti, possiamo anche aggiungere una valutazione ragionata: dopo che il nostro livello politico ha preso la decisione di rientrare nella Striscia in forze, e dopo che l’IDF ha reclutato così tanti soldati per questa operazione, Hamas ha deciso che valeva la pena gettare un osso agli americani, anche se significava rilasciare senza compenso un soldato dell’IDF, anche solo per fare uno sforzo per fermare la disgrazia che stava per abbattersi. In altre parole, non sono stati gli americani, che come detto non hanno pagato nulla, a portare a questa liberazione, ma è stata ancora una volta la pressione delle Forze di Difesa Israeliane.
E in generale, questo sforzo di trasformare ogni evento, persino la felice liberazione di un soldato di Golani, in qualcosa di acido e deprimente, diventa insopportabile. Che m’importa se questa liberazione è avvenuta a seguito di un dialogo tra americani e Hamas? Che m’importa se questa liberazione è avvenuta “sopra la testa del governo israeliano”? Abbiamo decine di persone in prigionia, e dato le richieste di Hamas – gli sforzi per liberarli affrontano sfide non semplici. E data questa situazione complessa, chiunque porti un’idea su come liberare anche un solo ostaggio, senza compenso, non importa chi sia o quale cittadinanza abbia – sia benedetto.
Se la Repubblica Dominicana riuscisse a portare alla liberazione di un soldato dell’IDF dalla prigionia gratuitamente, sopra la testa del governo israeliano, e lo facesse solo perché questo soldato ha commosso i dominicani quando ha visitato il loro paese una volta, e tutto questo accadesse sfruttando il fatto che il portavoce di Hamas è un secondo cugino del ministro del turismo dominicano, dovrei essere sconvolto da questo? Ma dico, siete impazziti?
• Cosa pensavate che sarebbe successo?
Questa storia non è saltata fuori dal niente. Dagli studi televisivi si sente da molto tempo il canto della sconfitta, mentre si cerca incessantemente di abbassare il morale e seminare tra noi un senso di depressione. Inizia con spiegazioni che la guerra è un fallimento, che nulla sta avendo successo, che avremmo potuto fare le cose molto più velocemente. Continua con sforzi supremi per convincere che solo pochi si presenteranno alle armi, che la motivazione sta diminuendo, che stiamo annaspando, che stiamo affondando nel fango di Gaza, che non si possono inviare ordini di richiamo ai riservisti quando gli ultraortodossi non si presentano, che non c’è senso in questa guerra, che è tutto politico, che metteremo in pericolo gli ostaggi, e che non c’è motivo di combattere ora se possiamo farlo tra un anno o due.
Su Kan 11 ho visto un calcolo economico che spiega che la guerra ci costa molti soldi, e che se solo avessimo risparmiato questi soldi, avremmo potuto creare qui un paese meraviglioso, con classi meno affollate, con più macchinari per la risonanza magnetica e con un budget più alto per strade e ferrovie.
Ho visto questi calcoli e mi sono ricordato dei loro fratelli maggiori, che in passato hanno controllato quanto ci costano gli insediamenti, ma non si sono mai seriamente chiesti se valesse la pena realizzare il costoso piano di disimpegno, e non si sono mai seriamente chiesti quanto ci sono costati gli accordi di Oslo, e quanto ci è costato dover inseguire per anni i terroristi che abbiamo portato in patria dalla Tunisia, e quanto ci sono costate le guerre che ci hanno portato il ritiro dal Libano, e cosa più importante – non si sono seriamente chiesti se, alla luce di questi costi, tutto ciò valesse la pena.
Ma sapete cosa mi ha fatto più ridere quando ho visto sullo schermo di Kan 11 questi calcoli di “cosa avremmo potuto fare con questi soldi se non avessimo combattuto”? Che gli stessi identici testi sono pronunciati da coloro che vogliono chiudere l’ente radiotelevisivo pubblico. Anche loro spiegano, con le stesse identiche parole, che con 800 milioni in più ogni anno avremmo potuto investire di più nelle aule scolastiche, nelle macchine per la risonanza magnetica, nelle strade e nelle ferrovie. E come sostenitore della televisione pubblica, posso dire che non ho idea di come sia un paese che non investe in tale televisione, ma ho un’idea di come sia un paese che non investe nella guerra contro Hamas.
E conosco bene il prezzo di questa guerra, i cicli interminabili di richiami in servizio, la moglie che rimane a casa alla fine della gravidanza mentre il marito è chiamato in servizio, i bambini piccoli che di tanto in tanto si trasferiscono a casa del nonno e della nonna, perché il loro padre è a Khan Younis, e gli ordini di richiamo che piovono come un diluvio una volta dopo l’altra. Ma che scelta abbiamo? Abbiamo già visto cosa succede quando si vive accanto a un’organizzazione terroristica con motivazioni omicide, senza la volontà e la disponibilità a fare ciò che serve per distruggerla.
Alla fine, tutta questa campagna per abbattere lo spirito ha lo scopo di convincerci tutti a fermarci, ad arrenderci e a soccombere. Cosa potrebbe mai succedere se ci fosse Hamas a tre minuti di corsa dal kibbutz Nir Oz? L’importante è che non ci costi denaro, l’importante è che non facciamo il servizio di riserva, l’importante è che ci sia finalmente la pace qui.
C’è qui un coro di un gruppo che si è stancato della strada da percorrere, e i media israeliani dirigono questo coro. Basta, trasmettono, siamo stanchi. Non abbiamo più la forza di combattere per ciò che è nostro. Vogliamo la pace e ci raccontiamo che se solo dessimo al nemico ciò che chiede, ci darebbe questa pace. E questo è esattamente ciò che ci siamo raccontati alla vigilia del 7 ottobre, quando pensavamo che se solo avessimo fornito a Yahya Sinwar una buona economia e posti di lavoro, i suoi uomini avrebbero dimenticato che siamo condannati a morte.
E cosa pensate che succederà se ci ritiriamo adesso? Hamas capirà di aver sbagliato? Che questa non è la strada? I suoi uomini andranno a crescere i nipoti all’ombra del tramonto sulla spiaggia di Dir al-Balah? Abbandoneranno il loro desiderio di distruggere lo stato ebraico? C’è più 6 ottobre di questo?
Non meritiamo una discussione più seria, dal modo in cui i nostri media stanno conducendo la discussione sulla questione di quanto sia necessario e importante sconfiggere definitivamente chi è responsabile del più grande massacro della nostra storia? E in generale, come si può da un lato opporsi alla continuazione della guerra e sostenere che non ha legittimità, e dall’altro gridare perché non abbiamo intrapreso una tale guerra prima del 7 ottobre, e come abbiamo permesso a questo mostro del terrore di esistere senza combatterlo, in giorni in cui è del tutto chiaro che non c’era alcuna legittimità per intraprendere una tale guerra?
E quando e come, diavolo, la necessità di sconfiggere Hamas è diventata un argomento controverso? Non sto parlando di Gideon Levy, che ha spiegato questa settimana su “Haaretz” che “la distruzione di Hamas è un obiettivo criminale”. Sto parlando del mainstream israeliano sionista. Quello che vuole sconfiggere il nemico. Quello che vuole inviare al mondo arabo il messaggio che chi ci fa ciò che Hamas ha fatto, non la farà franca. Quello che vuole permettere ai kibbutzim e ai moshavim di confine di tornare a una vita serena, di coltivare grano, di crescere bambini, e non di occuparsi del conto alla rovescia verso il prossimo round.
• Questa non è una richiesta di pace
Il video pubblicato da Hamas lo scorso sabato, in cui si vedono gli ostaggi Yosef Haim Ohana ed Elkana Bohbot, era straziante. Da un lato – ogni video del genere è un altro segno di vita incoraggiante. Dall’altro – le dure condizioni, il terribile stato mentale e il grande dolore dei filmati colpiscono profondamente l’anima. Ho espresso in passato la mia opinione contro la pubblicazione di questi video.
Anche perché si tratta di una manipolazione maligna con cui non ho alcun desiderio di collaborare. Anche perché i testi pronunciati dagli ostaggi sono formulati meticolosamente dall’organizzazione terroristica crudele che ha invaso i nostri insediamenti, ci ha massacrato, ci ha stuprato, ci ha ucciso e ha rapito la nostra gente. Hamas non pubblica questi video per rallegrarci e trasmetterci i saluti dai nostri ostaggi. Li pubblica per esercitare su di noi il terrore psicologico. E cosa facciamo in risposta? Collaboriamo con questo terrore.
Nell’ultimo video, pubblicato sabato scorso, si sente Yosef Haim Ohana mentre parla ai “nostri fratelli piloti”. “Sono molto orgoglioso di quelli di voi che hanno deciso di smettere di salire e di mettere a rischio le nostre vite, e hanno firmato ciò che hanno firmato. Ma quelli che sono ancora in grado di salire e bombardare qui noi, i prigionieri civili, cosa raccontate alle vostre famiglie? Cosa raccontate alle nostre famiglie? Cosa?“
Non bisogna essere un grande genio per capire che il nostro nemico è molto preoccupato dalla possibilità che i piloti dell’aeronautica militare continuino a bombardarlo. Non si preoccupa del benessere di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot. Si preoccupa della sicurezza dei suoi assassini. E visto questo, un media israeliano che pubblica queste cose collabora con il nemico. Non c’è altro modo di presentare le cose.
Volete mostrare qualche secondo in modo che possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo perché il nostro uomo è vivo? Va bene. Ma vedere come quasi tutti i media – Canale 12 e Canale 13, Walla, Mako e Ynet, “Maariv” e i24 – presentano la propaganda del nemico al completo, e trasmettono tre minuti e 19 secondi distillati di messaggi di Hamas, è un evento inconcepibile.
Una nota positiva di responsabilità va, in questo contesto, all’ente radiotelevisivo pubblico (disclosure completa, ecc.), che dopo un breve periodo in cui il video completo era in onda, ha deciso di editarlo e di lasciarne solo 26 secondi. Il messaggio è chiaro: un segno di vita importante – vale la pena pubblicarlo. Un appello emotivo di un’organizzazione terroristica, che cerca, con mezzi manipolativi, di convincere i piloti dell’aeronautica militare a non combatterla – no.
Ho menzionato questo argomento qui più di una volta, ma per qualche motivo non riceve abbastanza spazio nel discorso pubblico. Hamas, senza nemmeno cercare di nasconderlo, ci manipola come burattini. Prendete solo il semplice fatto che quasi tutti i loro video di ostaggi vengono pubblicati da questi assassini nei fine settimana, di solito il sabato pomeriggio. Perché succede questo? Non perché queste sono le ore in cui il loro reparto digitale è libero, ma perché queste sono le ore prima delle proteste regolari del sabato sera, e Hamas ha interesse ad alimentarle con energie.
Non ho alcuna pretesa di pensare, Dio mi guardi, che i manifestanti siano interessati a promuovere gli interessi di Hamas, ma è del tutto chiaro che Hamas è convinto che sia questo che stanno facendo. E quindi, il video di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot è stato pubblicato sabato scorso, e anche il video precedente di Elkana Bohbot è stato pubblicato di sabato, e così anche il video di Maxim Harkin, e il video precedente di Harkin e di Bar Kuperstein, e il video di Eidan Alexander, e il video di Matan Tsengauker, e nel passato più lontano il video di Liri Albag, e tra questi, venerdì pomeriggio, è stato pubblicato il video di Matan Angerst.
E poiché, come abbiamo imparato, questa organizzazione terroristica non è stupida, è chiaro che è convinta che le proteste contro il governo sulla questione degli ostaggi la aiutino, e che la pressione sul governo affinché si arrenda e le dia ciò che vuole, la trasmetta. Dovrebbe questo far sì che qualcuno che vuole protestare non lo faccia? Non entro in questo. Viviamo in un paese libero, e che ognuno faccia ciò che ritiene giusto fare. Penso solo che sia giusto parlare di questa questione.
Hamas, con le sue azioni e i suoi video, grida ad alta voce: “Voglio che continuiate a fare pressione sul vostro governo, perché questo è buono per me. Voglio che continuiate a pubblicare i video di propaganda che diffondo, perché questo mi aiuta”, e questa realtà non dovrebbe essere ignorata.
Perché in pratica, qual è la differenza – nell’azione, non nelle intenzioni – tra la campagna che Hamas ci chiede di condurre, e la campagna che noi nei media stiamo conducendo? Ci chiede di trasmettere i video? Noi li trasmettiamo. Ci chiede di incoraggiare le proteste attraverso i video? Noi le incoraggiamo. Ci chiede di convincerci a rinunciare all’espansione della campagna contro di esso? Anche noi cerchiamo di convincere in questo. Ci chiede di spiegare che dobbiamo pagargli qualsiasi prezzo chieda? Questo è esattamente ciò che chiedono i nostri media.
Di nuovo, sottolineiamo l’ovvio, Hamas è un nemico e i nostri media non lo sono, ma il fatto che la sua campagna e la nostra campagna si sovrappongano non dovrebbe causare almeno un po’ di disagio?
• Su numeri e storie
Innumerevoli affermazioni si sentono sul fatto che la guerra non è stata gestita bene, e forse ancora non è gestita bene, e che se fosse stata gestita diversamente – forse saremmo già oltre. È vero? Non lo so. È del tutto chiaro che l’estrema cautela con cui abbiamo operato in vaste aree della Striscia per non danneggiare la vita degli ostaggi, ha danneggiato la nostra capacità di usare lì il fuoco con l’intensità che avremmo voluto usare, ma nella complessa realtà con cui ci confrontiamo questa è stata probabilmente la decisione giusta.
E su questo concetto di fondo, è chiaro che non si può avvertire continuamente che gli ostaggi potrebbero rimanere feriti, e poi chiedere perché la guerra dura così tanto tempo. È anche chiaro che non si può attaccare Netanyahu con l’affermazione che non ha fatto nulla per sconfiggere l’organizzazione terroristica prima del 7 ottobre, e contemporaneamente chiedergli di fermare la guerra e ritirarsi, ora, quando Hamas è in piedi. Decidete, o questa organizzazione terroristica deve essere distrutta o no. Non si può avere entrambe le cose.
Torno all’affermazione secondo cui la guerra non è stata gestita bene finora. Supponiamo, solo per il dibattito, che sia un’affermazione corretta. Ignoriamo i ritardi causati dalle pressioni americane e il modo in cui Joe Biden ci ha costretti a fornire aiuti alimentari a Hamas parallelamente alla sua guerra contro di noi, e per il dibattito partiamo dal presupposto che il governo ha gestito la guerra fino ad oggi in modo catastrofico. Come questa ipotesi ci porta alla conclusione che bisogna fermarsi? Come convince qualcuno che il giuramento che abbiamo fatto di cancellare Hamas, dopo aver visto le orribili immagini dagli insediamenti di confine, non è più rilevante?
Immaginate un inseguimento della polizia dopo un’unità di assassini di una grande organizzazione criminale, che ha appena commesso un triplice omicidio, e questo inseguimento procede zoppicando. Una pattuglia entra nella strada sbagliata, una seconda pattuglia si ribalta durante la guida, una terza pattuglia si confonde e i suoi poliziotti sparano per errore nella direzione opposta.
Qualcuno consiglierebbe alla polizia, in tali circostanze, di interrompere l’inseguimento, solo perché tutto è iniziato storto, e di lasciare che gli assassini fuggano dove vogliono fuggire? Abbiamo un’entità armata che si aggira liberamente. Un’entità pericolosa. Un’entità che potrebbe uccidere innocenti. Quindi lasciarla libera perché l’inseguimento nella sua prima fase non è stato gestito bene?
Scrivete articoli contro chi ha gestito la guerra finora, chiedete di sostituirlo alle prossime elezioni, rilasciate interviste contro di lui alla radio. Ma come può la conclusione di qualcuno da una guerra, che secondo lui non è ben gestita, essere che è meglio lasciare questa organizzazione terroristica in pace?
E questo va ricordato: dall’altra parte di questa campagna mediatica ci sono soldati che sono stati chiamati alla bandiera e si sono presentati. E non li invidio e ciò che stanno passando, quando da un lato ricevono l’ordine di attaccare il nemico, e sanno bene perché devono farlo, e cosa ci ha fatto questo nemico, e cosa bisogna fare per sventare le sue intenzioni, e dall’altro lato si avvicinano al loro orecchio i media israeliani, che deprimono il loro morale, che cercano di convincerli che ciò che stanno facendo è politico, costoso e senza speranza, e che se cadranno in battaglia sarà una morte inutile.
Ho visto che attacco c’è stato la settimana scorsa contro Amit Segal, quando ha riferito del 102% di presenze per la riserva. Una serie di giornalisti ci ha dato una lezione in 5 unità di matematica (punteggi per l’esame di maturità NdT) per spiegare che il conteggio non è corretto, che il calcolo è errato, e che la metodologia è confusa. E io, che non so cosa sia giusto e cosa no, e so solo che i miei amici mi raccontano di buone percentuali di presenze nella loro unità, cerco di capire da dove viene la motivazione per questa discussione. A quale bisogno risponde?
Perché quando vedo dei bravi israeliani presentarsi in massa per la riserva, e tra loro un gruppo della mia stretta famiglia, mi riempio di orgoglio. E mi chiedo qual è la storia di quelli che questo disturba tanto che il loro primo istinto li manda a trovare centinaia di motivi che mostrino che il numero non è corretto, che la motivazione non è così alta, che i riservisti non vengono davvero più. Qual è la vostra storia? Cosa state cercando di promuovere quando siamo in guerra contro questo nemico assetato di sangue?
• Donne forti che infondono coraggio
Ma c’è anche un’altra realtà. Una realtà al di là delle onde radio e degli studi televisivi. Questa settimana sei vedove dell’IDF, che hanno perso i loro mariti in questa guerra, hanno inviato una lettera di incoraggiamento commovente ai combattenti del battaglione dei loro coniugi, che sono stati nuovamente richiamati per la riserva negli ultimi giorni.
“Cari soldati e famiglie del battaglione 8207“, hanno scritto loro, “in questi giorni, in cui siete tornati di nuovo a combattere, i nostri cuori sono con voi, vi accompagniamo con orgoglio ed emozione. Voi, coraggiosi combattenti che avete perso sette dei vostri migliori amici, che nonostante il dolore e la mancanza continuate a stare in piedi e non vi scoraggiate dal combattere per la nostra cara terra, non lasciate che le emozioni confondano la strada, e continuate nella missione e nella fede“.
Hanno continuato: “Vogliamo incoraggiarvi e dire: siamo orgogliose di voi, crediamo in voi e confidiamo in voi. Siamo sicure che i nostri mariti, caduti in battaglia, vi guardano dall’alto, e vedono la strada che avete fatto da allora, vi proteggono e sono felici di voi, dello spirito, del cameratismo della perseveranza e dell’unità. Firmato: Tal Avitbul – moglie di Eliav z”l, Reut Shabtai – moglie di Guy z”l, Shir Almaliach – moglie di Gilad z”l, Rachel Goldberg – moglie del rabbino Avi z”l, Smadi Moyal – moglie di Shaul z”l, Shiri Tal – compagna di Amit Hayot z”l”.
(Maariv – 16 maggio 2025)
(Kolòt - Morashà, 18 maggio 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 2
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Il primo santuario
Dio aveva dato ad Adamo ed Eva l’ordine di crescere, moltiplicarsi e riempire la terra: gli uomini dunque avrebbero dovuto spargersi su tutta la terra. Ma prima ancora che fosse formata Eva, Dio aveva assegnato ad Adamo un “giardino”, cioè un particolare territorio che Adamo avrebbe dovuto lavorare e custodire: il giardino di Eden. Sarebbe stato questo il centro del mondo, il luogo a cui avrebbe dovuto riferirsi l’intera umanità che sarebbe discesa dalla prima coppia; lì Dio si sarebbe incontrato con gli uomini, riconoscendo ad Adamo, come primo uomo creato, la posizione di legittimo rappresentante di tutta la società umana da lui discesa.
Il giardino di Eden sarebbe stato dunque il luogo dell’incontro fisicamente avvertibile fra Dio, nella sua santità d'amore, e l’uomo, nella sua natura di creatura ubbidiente. Con un linguaggio usato in seguito nella Bibbia, si potrebbe dire che il giardino di Eden avrebbe dovuto essere il luogo in cui la creatura veniva ad adorare il suo Creatore. Cioè un santuario.
Sappiamo bene che cosa è successo poi in quel santuario su istigazione del serpente; ma non è su questo che ora vogliamo soffermarci, ma piuttosto su quello che accadde in seguito:
“E udirono la voce dell'Eterno Dio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Dio, fra gli alberi del giardino. E l'Eterno Iddio chiamò l'uomo e gli disse: 'Dove sei?” (Genesi 3:8-9).
La presentazione di un Dio che cammina nel giardino e chiede all’uomo di dirgli dov’è, come se non fosse capace di saperlo da solo, induce al sorriso: “ecco la presentazione in forma infantile di una profonda realtà spirituale che non si può esprimere in altro modo”, pensa l’uomo evoluto di oggi nella sua protervia intellettuale, questa sì davvero infantile agli occhi di Dio.
Le cose invece sono andate proprio così, come dice la Bibbia. E tutto fa pensare che non fosse la prima volta che Dio si presentava ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden in forma corporalmente riconoscibile da loro. L’amorevole incontro tra Dio e la sua creatura era concreto, corporale, e dunque non continuo. Continua sarebbe stata la comunione d’amore, che in certi momenti sarebbe stata vissuta in forma di una particolare vicinanza fisica, come avviene in un matrimonio ben riuscito.
• Ma le cose non sono andate così
Sta scritto che nel giardino affidato all’uomo “l’Eterno Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli alla vista e il cui frutto era buono da mangiare” (Genesi 2:9). Al centro di questo giardino, dunque proprio nel mezzo del primo santuario, Dio fece spuntare due piante speciali: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.
Il frutto del primo albero sarebbe stato per l’uomo il nutrimento che gli avrebbe permesso di proseguire in una vita senza limite, mantenendo così in eterno quel rapporto d’amore che Dio voleva instaurare con la sua creatura.
Quanto al secondo albero, è quasi sicuro che per Adamo rappresentò un enigma: “conoscenza del bene e del male”, che significa? Adamo era nato e cresciuto in un avvolgente bene totale: in lui e intorno a lui tutto era buono. Che cosa poteva significare per lui la parola “male”? Che cos’è il male? Ma se anche non poteva capire il significato di quella parola, poteva ben capire che cosa voleva Dio da lui con l’ordine che gli aveva dato riguardo al frutto di quell'albero: “Non ne mangiare”, aveva detto. E perché? mi chiedo subito io. Non è detto però che se lo sia chiesto anche Adamo, perché lui non era ancora immerso nel peccato, come invece sono io, insieme a tutti gli altri uomini mortali. Per Adamo tutto era buono: sia il permesso di mangiare, sia l’ordine di non mangiare. Se l’ha detto Dio, che c’è da discutere?
• Qualcosa è andato storto.
Conosciamo tutti la storia del “peccato originale”. Quello che di solito si sottolinea è la disubbidienza della creatura rispetto all’ordine del Creatore, e la parte che ha giocato il serpente nell’indurre l’uomo alla trasgressione.
Qui invece vogliamo riflettere sulla parte del Creatore, e chiederci come mai il progetto di Dio non ha funzionato. Eppure alla fine del suo lavoro Dio aveva detto che tutto era “molto buono”. Come mai allora da quella meravigliosa opera creativa sono scaturite conseguenze disastrose: guerre, morti, calamità, disgrazie? Non ci sarà stato qualche errore di progettazione? Perché Dio ha fatto spuntare nel giardino quel pericoloso albero della conoscenza del bene e del male? Perché, dopo averlo messo proprio al centro del giardino, bene in vista, ha imposto all’uomo di non mangiarne il frutto? Perché, pur conoscendo la pericolosità del serpente, ha permesso che entrasse liberamente nel giardino e prendesse la parola? Perché, dopo che con sua menzognera arte seduttiva aveva cominciato a parlare, non ha inviato qualche angelo a esporre l’interpretazione autentica delle parole di Dio?
Sono domande legittime, di cui si può cercare risposte nella Bibbia, tenendo presente però che vale il principio secondo cui “nella Bibbia o si capisce il tutto o non si capisce niente”. E’ uno slogan, ma può servire ad abbozzare quello che s’intende per “approccio olistico alla Bibbia”.
• Partiamo dunque dall’inizio
“Dio è amore”, sta scritto nella prima lettera dell’apostolo Giovanni (4:8,16), ed è un’affermazione che dev’essere vista al principio di tutta l’opera di creazione. Dio ha voluto formare un mondo abitato da una società di uomini in cui Egli potesse esprimere la sua natura d'amore. E l’amore, per essere pienamente compiuto, deve essere contraccambiato; e per essere contraccambiato, chi riceve l’offerta d’amore deve essere libero di rispondere sì o no. In altre parole, la libertà è il terreno basilare su cui può avvenire lo scambio d’amore.
Ma lo scambio d’amore fra Dio e l’uomo non può essere simmetrico. L’amore di Dio è attivo, e l’amore dell’uomo è reattivo. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Giovanni 4:19), dice la Bibbia. L’amore attivo di Dio ha un dono e una parola, perché l’amore è collegato alla verità e la verità è collegata alla parola. Dio aveva detto ad Adamo:
«Mangia pure (dono) da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai (parola di verità)» (Genesi 2:16-17).
In sostanza, all’uomo è stata offerta la possibilità di vivere una relazione d’amore in una posizione di libera e fiduciosa sottomissione a Dio; il serpente invece è riuscito a far credere all’uomo che la sua relazione d’amore con Dio sarebbe stata piena soltanto se vissuta in posizione di parità: “… sarete come Dio” (Genesi 3:5). Ma questo non è possibile: chi ci prova, muore.
Con la loro pretesa di autonomia, Adamo ed Eva hanno rotto il legame spirituale che li collegava al Datore della vita. Non sono morti sul colpo, subito dopo aver preso il frutto dell’albero, ma è come se avessero contratto immediatamente una malattia mortale. Dovevano fisicamente morire, era inevitabile, perché Dio l’aveva chiaramente detto, ma tra il compimento del “reato” e le sue annunciate conseguenze, il Creatore si è riservato uno spazio di tempo per prendere le sue decisioni.
Esamineremo più avanti la nuova formulazione che Dio volle dare al suo progetto dopo la fatale scelta di Adamo ed Eva, ma ora vogliamo provare ad immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se Adamo ed Eva non avessero dato ascolto alle parole del serpente e avessero deciso di attenersi strettamente all’ordine di Dio.
• L’ipotetica conseguenza di una “ubbidienza originale” a Dio
La presenza del serpente nel giardino di Eden fa capire che la creazione è avvenuta sotto gli sguardi di Satana, capo di una ribellione angelica che ha prodotto una caduta precedente a quella dell’uomo. Al ribelle Satana Dio ha concesso di entrare nel giardino e rivolgere all’uomo una parola che avrebbe costituito per lui il decisivo test d’esame: Sì o No alla parola d’amore di Dio. Una “prova d’amore” dunque, espressa in parole, come fece Gesù con Pietro presso il mar di Tiberiade: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21:1-9). Se Adamo, insieme a Eva, avesse risposto Sì a Dio, come poi fece Pietro con Gesù: la comunione d’amore che genera vita sarebbe fruttuosamente proseguita: la coppia avrebbe potuto accedere all’albero della vita, da cui avrebbero ricevuto entrambi vita eterna fisica, senza altri test aggiuntivi. E’ normale dire questo, perché come è bastato un unico No per provocare la caduta di tutto il programma di Dio, così sarebbe bastato un unico Sì per il mantenimento del programma originario nella forma prevista. Lo spirito che il Signore aveva soffiato nelle narici di Adamo per farlo vivere, sarebbe passato anche ai suoi discendenti di generazione in generazione. Come adesso diciamo che ogni bambino è malvagio fin dalla nascita, in quel caso si sarebbe detto che ogni uomo è buono fin dalla nascita, perché porta i segni della fedeltà a Dio dei suoi progenitori. E come oggi diciamo che anche se tutti nascono originariamente “cattivi”, non per questo tutti saranno dannati, così per il fatto che tutti sarebbero nati originariamente “buoni”, non per questo tutti sarebbero stati “salvati”, cioè mantenuti in eterna comunione con Dio.
Se Adamo avesse risposto Sì a Dio, Satana avrebbe indubbiamente perso una battaglia, ma questo non sarebbe stata la sua definitiva sconfitta nella guerra con Dio. Sarebbe avvenuto il contrario di ciò che avviene al presente dopo la caduta. Oggi ogni uomo nasce malvagio, ma Dio gli concede, rivolgendogli la parola adatta nel momento opportuno, la possibilità di dire Sì a Lui ed essere salvato. Nel mondo scaturito dall’ubbidienza di Adamo a Dio, ogni uomo sarebbe nato buono, ma Satana avrebbe avuto la possibilità di rivolgersi all’uomo divenuto adulto e mettere in dubbio la verità della Parola di Dio ricevuta attraverso i suoi genitori: sarebbe stato dunque sottoposto a un test simile a quello per cui era passato Adamo. Se l’avesse superato, sarebbe stato mantenuto nella “santa società” in cui Dio dimora; in caso contrario sarebbe stato gettato fuori e consegnato nella mani di Satana, di cui aveva seguito il consiglio.
La società voluta da Dio sarebbe stata dunque sempre costituita da tutti e soli santi; e quando fosse stato raggiunto il numero stabilito dal programma, Dio avrebbe condannato definitivamente Satana, in forme che non sappiamo e non dobbiamo immaginare.
Alla fine di tutto si sarebbe realizzato l'obiettivo contenuto nel progetto originario di Dio, come espresso nelle parole dell’Apocalisse:
«Ecco l’abitazione di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:3).
Quanto sopra immaginato, come puro esercizio letterario, può essere convincente o no, ma ha il solo scopo di far riflettere, per differenza, su ciò che poi si è effettivamente verificato nella storia biblica.
• Ma Adamo ha detto No
Adamo si è lasciato convincere dal serpente e ha detto No a Dio. In quel momento, avendo rotto la comunione vitale col suo Creatore, è spiritualmente morto. Avrebbe potuto continuare a vivere fisicamente, ma questo per lui avrebbe significato entrare definitivamente nella schiera di Satana, condividendone il destino eterno preparato da Dio. Per questo il Signore ha impedito ad Adamo di prendere del frutto dell’albero della vita: affinché non entrasse a far parte dell’esercito dei demoni, condividendone la sorte eterna.
La morte fisica di Adamo è stata dunque una condanna preannunciata, ma nella forma in cui Dio l’ha eseguita è stata una grazia, perché Dio non ha voluto che l’uomo entrasse a far parte dell'esercito di Satana e il progetto creazionale dovesse essere definitivamente abbandonato.
E’ da questo momento che si possono cominciare ad applicare le ben note parole del Vangelo di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo…”. Sì, perché Dio ha cominciato ad amare il mondo fin da quando l’ha pensato e progettato; e chi ama davvero, non si rassegna facilmente ad accettare che l’oggetto del suo amore si rovini con le sue mani, dicendo che “tanto è colpa sua, peggio per lui”; chi profondamente ama cerca in tutti i modi di salvare l’oggetto del suo amore, nel desiderio di poterlo riottenere, sia pure in condizioni diverse.
Così ha fatto il Signore: ha tanto amato il mondo (in senso pieno: habitat-società-santuario) che per riaverlo ha “faticato” molto più di quanto avesse fatto nella prima creazione. Ma invece di riaverlo in forma rattoppata, alla fine lo riotterrà in una forma molto più gloriosa di quella originaria.
Questo però a Dio è costato molto. Davvero molto:
‘Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).
Il chiunque di questo versetto sottolinea che ogni uomo può essere salvato, senza distinzione di qualsiasi tipo, ma non bisogna trascurare, tenendo presente l’intero messaggio biblico, che avere la vita eterna significa ottenere la grazia di entrare a far parte viva del glorioso progetto salvifico di Dio. Ed è appunto su questo che nel seguito vogliamo riflettere.
(2. continua)
(Notizie su Israele, 18 maggio 2025)
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Israele lancia l’operazione “Carri di Gedeone” su Gaza. Cosa sappiamo
di Anna Lombardi
TEL AVIV – Nuova notte di pesanti bombardamenti sulla striscia di Gaza, iniziati pochi minuti dopo il lancio di volantini con l’avvertimento alla popolazione: «Siete in zona pericolosa, evacuate immediatamente verso sud». Ad essere state colpite sono le aree di Jabalya e Beit Lahiya a nord e Deir al-Bala e Khan Younis al centro della Striscia. In mattinata, ulteriori attacchi in elicotteri sono stati segnalati sull’area meridionale di Rafah. Blindati delle Idf sono avanzando verso il sudest di Deir el-Balah, nel centro della Striscia, protetti da un pesante fuoco di copertura. Nelle ultime 24 ore ci sono stati almeno 115 morti, di questi 58 solo stanotte e almeno 10 stamattina. L’Idf annuncia: «È la prima fase dell’operazione Carri di Gedeone, abbiamo già preso il controllo di alcune aree».
• Il nome
Si tratta del piano approvato dall’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu a inizio maggio che prende il nome da un episodio biblico tratto dal Libro dei Giudici: quello dove il profeta (e leader militare) Gedeone riesce a terrorizzare e sbaragliare i nemici – i Medianiti - con uno sparuto gruppo di uomini armati di torce e vasi di coccio per farli sembrare di più. Simbolo della capacità di Dio di fare grandi cose anche con pochi mezzi. Un parallelo bizzarro visto che l’esercito israeliano di mezzi ne ha, eccome. L’escalation per ora consiste in massicci bombardamenti. Fino a poche settimane i ranghi militari si erano opposti: anche perché il piano richiede la mobilitazione di migliaia di riservisti. Ma in realtà gli ultimi dettagli operativi sono stati messi a punto già lo scorso 6 maggio da Eyal Zamir, capo di Stato maggiore dell'Idf e Ronan Bar, capo dello Shin Bet.Se proseguirà secondo i piani, è preliminare a una più vasta offensiva via terra mirata a distruggere definitivamente Hamas, prendere «il controllo operativo» della Striscia, concentrare la popolazione civile ulteriormente a sud. E, sia pur scivolata all’ultimo punto della lista d’intenti, liberare gli ostaggi.
• L’operazione
L’operazione ha preso il via, almeno nella sua fase preliminare appunto, subito dopo la partenza di Donald Trump dalla regione. E nonostante i negoziati di Doha siano ancora in corso, benché in evidente stallo. Continueranno fino a domani, ma la presenza israeliana, scrivono i giornali locali, è ormai «meramente formale». E una fonte interna ai negoziati ha detto ad Axios: «L'impressione è che gli israeliani siano venuti a Doha per ostacolare i colloqui e trovare una giustificazione per incrementare la guerra». Di sicuro, l’inviato americano Steve Witkoff ha lasciato il Qatar già ieri.
• Le tensioni con gli Usa
Cnn nota che la nuova offensiva israeliana si inserisce in un contesto di crescenti divergenze tra il governo americano e quello israeliano. Trump ha infatti dichiarato la settimana scorsa di voler porre fine alla «brutale guerra» di Gaza e non ha visitato Israele durante il tour in Medio Oriente di questa settimana: scelta che, come ha scritto Yedioth Ahronoth, ha sconcertato gli israeliani lasciandoli «confusi e offesi». Non solo. Il presidente americano ha anche ottenuto da Hamas il rilascio dell’ultimo ostaggio israeliano-americano la scorsa settimana. E gli Houthi hanno accettato di smettere di attaccare le navi americane nel Mar Rosso, continuando allo stesso tempo ad attaccare Israele con droni e razzi (finora sempre intercettati). Durante il tour Trump ha anche riconosciuto che la gente a Gaza sta morendo di fame e ha affermato che gli Stati Uniti si occuperanno della situazione nella Striscia, dove il nuovo blocco imposto da Israele lo scorso 4 marzo sta impedendo l’ingresso di aiuti da oltre un mese. In cosa consiste il piano americano, nessuno lo sa. Secondo una rivelazione di Nbc gli americani avrebbero un piano per spostare un milione di palestinesi in Libia e l’amministrazione ne avrebbe già discusso con le autorità libiche, offrendo in cambio lo sblocco di miliardi di dollari di fondi che gli Stati Uniti hanno congelato a Tripoli oltre un decennio fa. Nessun accordo formale è stato raggiunto e comunque un portavoce dell’amministrazione ha già smentito: «La situazione sul campo è insostenibile per un piano del genere».
Intanto, però, pure i media israeliani sottolineano da giorni quanto fra i due paesi si sia scavato un solco profondo. Tanto che Haaretz addirittura titola: «Il messaggio di Trump a Netanyahu: sei licenziato!». Notando che «ogni foto o dichiarazione del presidente Usa nei paesi arabi visitati, ha bruciato la carne di Netanyahu». Sempre secondo il quotidiano «Trump ha capito prima di essere rieletto che gli interessi dello Stato di Israele non coincidono necessariamente con quelli del suo premier». Per ora Netanyahu tace. E il Washington Post interpreta il suo silenzio come remota ultima possibilità di un accordo. Channel 12 in mattinata ha d’altronde pure affermato che “C'è un'apertura per le negoziazioni e la possibilità di interromperli in qualsiasi momento se ci fossero elementi che potrebbero far saltare l'accordo". La riunione di gabinetto di domani sarà il momento della decisione finale: affondo su Gaza o ulteriore attesa. Manco a dirlo, i familiari degli ostaggi ancora prigionieri nella Striscia si oppongono fermamente all’operazione: stasera torneranno a protestare a Tel Aviv.
(la Repubblica, 17 maggio 2025)
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Trump ha scaricato Israele?
Il corrispondente di Israel Heute parla della nuova politica mediorientale di Trump, degli accordi americani con Hamas, i ribelli Houthi e l'Iran, e dell'isolamento di Gerusalemme in politica estera.
di Itamar Eichner
L'isolamento della politica estera di Israele è particolarmente evidente in questo momento, con la visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo.<
Nelle ultime settimane sono saliti alla ribalta due attori centrali in Medio Oriente: il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Insieme al presidente degli Stati Uniti, stanno tracciando la nuova rotta nella regione, sia attraverso la normalizzazione della leadership siriana sotto Ahmad al-Sharaa, sia attraverso i negoziati sul programma nucleare iraniano. Israele, invece, rimane completamente escluso. Completamente isolato.
Da un lato, Gerusalemme è alle prese con una crisi interna e una coalizione di governo sempre più fragile. Dall'altro, la guerra a Gaza si protrae, mentre cresce il dibattito sulla sua utilità: una parte crescente dell'opinione pubblica israeliana chiede la fine dei combattimenti.
Questo articolo pone la domanda: il presidente Trump ha scaricato Israele? La risposta è complessa e ambigua.
• L’inizio sembrava promettente
All'inizio del suo mandato, Donald Trump sembrava un presidente di sogno per Israele: aveva promesso di aprire “le porte dell'inferno” su Hamas, ma si è trattato solo di parole, come si è poi scoperto. Tuttavia, poco dopo la sua vittoria elettorale, con il suo aiuto è stata attuata la prima fase dell'accordo sugli ostaggi, che ha portato alla liberazione di 38 ostaggi, tra cui 25 ostaggi israeliani vivi, come Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, che erano già stati catturati prima della guerra, cinque soldatesse, Arbel Yehud, cinque ostaggi thailandesi e otto salme, tra cui quelle dei membri della famiglia Bibas.
Dopo il suo insediamento, Trump ha revocato l'embargo sulle armi contro Israele, ha posto fine ai finanziamenti statunitensi all'UNRWA, ha revocato le sanzioni contro i coloni israeliani e ha imposto sanzioni contro la Corte penale internazionale e il procuratore capo Karim Khan. Benjamin Netanyahu è stato il primo capo di Stato straniero ad essere invitato a un incontro alla Casa Bianca. In quell'occasione Trump ha avanzato la proposta di trasferire all'estero gli abitanti di Gaza, un sogno della destra israeliana. Si è diffuso l'euforia. I commentatori di destra hanno letteralmente ballato negli studi televisivi.
• Le prime crepe
La rottura è iniziata con i colloqui diretti tra il responsabile degli ostaggi di Trump, Adam Boehler, e Hamas, uno shock per Israele. Ufficialmente è stato poi dichiarato che Boehler aveva agito di propria iniziativa, era stato licenziato e che gli americani avevano riconosciuto il loro errore. Tuttavia, l'accordo di successo che ha portato al rilascio di Edan Alexander ha dimostrato a posteriori che Boehler agiva con il pieno mandato di Trump.
Israele è rimasto nuovamente sconvolto: un soldato israeliano è stato rilasciato dopo 584 giorni solo grazie alla sua cittadinanza statunitense. Anche se Israele non ha dovuto dare nulla in cambio, il messaggio è stato doloroso: gli altri ostaggi senza passaporto americano hanno meno valore?
Israele ha reagito prontamente: ha accolto calorosamente Edan Alexander e subito dopo ha ucciso Mohammed Sinwar, apparentemente insieme ad altri leader di Hamas, probabilmente il colpo più efficace dall'inizio della guerra. Precedenti uccisioni mirate avevano gravemente compromesso i negoziati per il rilascio degli ostaggi.
• Cresce la confusione
Gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver liberato Edan Alexander perché era l'ultimo cittadino americano prigioniero a Gaza e che questo era l'inizio di un accordo più ampio. Ma in Israele crescono il nervosismo e lo scetticismo. Se nei prossimi giorni non verrà raggiunto un accordo sugli ostaggi basato sul piano Witkoff originale, Israele intende avviare l'offensiva terrestre “Gideon's Chariots” subito dopo la partenza di Trump.
Un altro segnale è stato il sorprendente invito di Netanyahu a un secondo incontro alla Casa Bianca. Ufficialmente si trattava dei dazi che Trump aveva imposto a Israele e che, nonostante tutte le contromisure, non sono stati ancora revocati. In realtà Trump ha approfittato dell'occasione per annunciare, al fianco di Netanyahu, l'avvio di negoziati diretti con l'Iran sul nucleare. Ancora una volta Israele è rimasto scioccato.
Inizialmente si diceva che gli Stati Uniti avrebbero consentito all'Iran un uso civile, tra cui l'arricchimento dell'uranio fino al 3,67%. Israele non si fidava delle promesse di Teheran. Poi è stato chiarito che si sarebbe insistito sullo smantellamento delle centrifughe. Ma le dichiarazioni sono rimaste contraddittorie. A volte Trump parlava di un possibile accordo, altre volte diceva che l'Iran doveva scegliere tra la diplomazia e le bombe.
• Accordo con gli Houthi e omissione di Israele
Reuters ha riferito che gli Stati Uniti sarebbero disposti a rinunciare alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita se quest'ultima ottenesse in cambio un programma nucleare civile. Sebbene durante la visita di Trump a Riad non sia stato firmato alcun accordo in tal senso, la notizia ha suscitato inquietudine. Forse si è trattato di una manovra mirata per sondare il terreno, forse di un tentativo di affossare i piani.
È seguito l'annuncio di Trump di aver concordato con i ribelli Houthi la fine degli attacchi alle navi statunitensi in cambio della sospensione dei raid aerei da parte degli USA. Israele era sbalordito: per i negoziati segreti, per l'accordo, per la mancata partecipazione. Il più stretto alleato dell'America non era stato informato. Ancora più scandaloso: l'accordo non prevedeva la fine degli attacchi contro Israele. Gli Houthi hanno quindi intensificato i loro attacchi, fino all'impatto vicino al Ben Gurion, che ha portato a massicce cancellazioni di voli. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno dichiarato chiusa la questione.
• Israele rimane fuori, visibilmente e simbolicamente
Il viaggio storico di Trump in Medio Oriente lo ha portato in tre Stati del Golfo, ma Israele è stato ostentatamente escluso. Anche alla firma degli accordi a Riad, Doha e Abu Dhabi Israele era assente. Trump sembra accecato dal denaro e ha ignorato completamente la posizione di Israele.
Il punto più basso: l'incontro con il presidente siriano Ahmad al-Sharaa, un uomo che Israele bolla in tutto il mondo come estremista islamico. Trump ha revocato le sanzioni contro di lui e lo ha accolto come parte della “famiglia delle nazioni”.
In Israele si è cercato di minimizzare l'umiliazione: meglio che al-Sharaa si avvicini all'Occidente piuttosto che a Teheran. Sebbene vi fosse un tacito riconoscimento del suo moderato cambiamento di posizione, il colpo di mano degli Stati Uniti è stato possibile grazie al sostegno di due attori: Mohammed bin Salman e Recep Tayyip Erdoğan, i nuovi amici di Trump.
• L’equilibrio militare in pericolo
A ciò si aggiunge la disponibilità degli Stati Uniti a fornire aerei da combattimento F-35 all'Arabia Saudita e alla Turchia, una minaccia diretta alla superiorità militare qualitativa di Israele, che costituisce il fondamento del partenariato strategico con gli Stati Uniti. Trump sembra accecato dal denaro saudita. Sui social media, i suoi collaboratori hanno pubblicato video di palazzi del Golfo, entusiasti del marmo e dei lampadari di cristallo: una testimonianza imbarazzante di ammirazione superficiale. Che ne è dei valori comuni?
• Trump: “Il mio viaggio rafforza Israele”
Durante il volo di ritorno, i giornalisti hanno chiesto a Trump se le sue mosse non avrebbero danneggiato Israele. La sua risposta: “Al contrario, il mio viaggio rafforza Israele”.
Forse non ha tutti i torti. Da un lato, Trump sta conducendo colloqui diplomatici con Teheran, ma allo stesso tempo sta inasprendo le sanzioni, il che è sicuramente nell'interesse di Israele. Dall'altro, però, non riesce a chiamare Erdoğan a rispondere delle sue provocazioni contro Israele. Anche nei confronti del Qatar, Trump rimane sorprendentemente silenzioso, nonostante l'emirato sostenga Hamas, dia rifugio ai suoi leader e permetta ad Al Jazeera di diffondere impunemente propaganda antisemita. Trump ha persino accettato un aereo da 400 milioni di dollari dai qatarioti, nonostante l'evidente conflitto di interessi. Molti dei suoi collaboratori lavorano o hanno lavorato con enti qatarioti.
• E che dire degli F-35?
La consegna alla Turchia non è imminente. Ankara vuole essere riammessa nel programma F-35, dal quale è stata esclusa sotto Biden, ma per farlo deve soddisfare numerose condizioni, il che rimane in discussione. Netanyahu ha dichiarato alla commissione per gli affari esteri e la sicurezza della Knesset che Israele sta lavorando attivamente per impedire questo passo.
• Trump è un amico o no?
Ufficialmente si dice che Trump è il miglior amico di Israele e che non abbandonerà Gerusalemme. Ma dal suo entourage si sentono voci diverse: delusione per Netanyahu, per la sua agenda personale e la sua mancanza di volontà di cogliere opportunità storiche come la normalizzazione con l'Arabia Saudita o un accordo sugli ostaggi. Si critica Israele per la sua lentezza nel reagire e per la sua incapacità di vedere il quadro generale. A Washington si dice che il treno di Trump è già partito. Chi vuole ancora salire, deve farlo adesso.
Nei prossimi giorni o settimane si vedrà se i colloqui con l'Iran porteranno a un accordo o finiranno con un fallimento. A quel punto potrebbe presentarsi per la prima volta una situazione di emergenza per Trump: agirà davvero e distruggerà militarmente il programma nucleare iraniano?
Se Trump scegliesse questa strada, Israele sarebbe di nuovo al suo fianco. Se si arrivasse a un accordo, Israele si troverebbe in una posizione difficile: se Netanyahu lo ritenesse pericoloso, difficilmente potrebbe opporsi pubblicamente, come ha fatto in passato con l'accordo di Obama. Trump lo sa e ignora le obiezioni di Israele.
Nell'entourage di Netanyahu, Trump viene trattato con estrema cautela. Nessuno osa criticarlo, perché Trump non è Biden. Ma la delusione è palpabile. Resta solo da sperare che sia Teheran stessa a far fallire i negoziati, in modo che Israele non si trovi di fronte a un nuovo accordo nucleare che rimanda la minaccia e trasforma l'Iran in una potenza emergente.
(Israel Heute, 16 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Qui gli ebrei non parlano
“A Torino si è superata una linea rossa. Contro di noi violenza fisica”
di Luca Roberto
“A Torino abbiamo vissuto il momento più basso nelle università italiane. In un anno e mezzo siamo passati dalle intimidazioni alla violenza fisica. Si è superata una linea rossa”. Il presidente dell’Unione dei giovani ebrei d’Italia (Ugei) Luca Spizzichino giovedì era al Campus Einaudi per partecipare a un evento sul Manifesto per il diritto allo studio. L’appuntamento però si è trasformato in un’aggressione a suon di “fuori i sionisti dall’università”. “Mi hanno strappato la spilletta per gli ostaggi, hanno cercato di farmi cadere. Io ho mantenuto la calma, ma è assurdo che non si riesca a porre argine a questa deriva aberrante”.
Nelle stesse ore in cui manifestanti pro Palestina cercavano di fare irruzione al Salone del libro, dall’altra parte di Torino a un gruppo di studenti apartitici veniva impedito di parlare di “diritto allo studio”. Pietro Balzano, studente della Statale di Milano e autore del Manifesto che quel diritto lo rivendica, al Foglio racconta l’aggressione subita. “Mi hanno strappato la camicia, mi hanno sputato addosso. Credo che quello che sia successo sia la conseguenza di quello cui abbiamo assistito nel giro dell’ultimo anno e mezzo. I violenti sanno di non essere puniti e alzano sempre di più la posta. Bastava davvero poco perché la situazione diventasse ancor più grave”. Già lo scorso marzo agli organizzatori dell’evento era stato impedito di tenerlo all’interno del Campus Einaudi dell’Università di Torino. “Siamo passati dalle intimidazioni alla cancellazione, fino al terzo step che è stata l’aggressione fisica. Mi chiedo: qual è la prossima tappa?”, dice ancora Balzano.
La premeditazione dell’attacco, raccontano i due testimoni, la si evince anche dal fatto che all’ora in cui avrebbe dovuto prendere il via l’evento, l’aula assegnata dall’Università era già stata occupata dai collettivi. Per di più i vertici universitari hanno negato alla Digos l’ingresso nelle aule, “anche se un intervento delle forze dell’ordine per cercare di calmare le acque c’è stato ed è stato tempestivo”, spiega ancora Spizzichino. Da presidente dell’Ugei in questo anno e mezzo ha osservato l’evolversi della situazione negli atenei, “ma mai mi sarei immaginato di vedere le immagini che ho visto a Torino”, confessa con un certo sconforto. “Sono scene che per lo più abbiamo visto nei campus americani, in Francia, in Germania, nel Regno Unito. Eppure oramai pure da noi, anche perché queste derive non vengono affrontate come si deve, è stata completamente sdoganata la violenza fisica. Ora però chiediamo una reazione forte da parte delle università contro queste derive estremiste e antisemite. A partire dall’adozione della definizione di antisemitismo stabilita dall’Ihra. Ogni silenzio di troppo è una forma di complicità”. Non risulta che il rettore dell’Università di Torino Stefano Geuna abbia condannato quanto accaduto al Campus Einaudi. Eppure, come spiega ancora al Foglio il presidente dell’Ugei, “non abbiamo alcuna intenzione di indietreggiare. Alla violenza, agli schiaffi, rispondiamo con la calma della parola. Perché per noi è troppo importante contrastare queste derive fasciste con la compostezza e il rispetto dei valori democratici. Gli studenti ebrei continueranno a rivendicare il diritto di poter parlare, contro chi vorrebbe imporre metodi antidemocratici”. Anche Balzano, dal canto suo, nonostante lo choc per l’aggressione subita sta già stilando la lista delle prossime presentazioni del Manifesto. “I nostri eventi sono una specie di crash test sullo stato della democrazia italiana. A ora questi test li abbiamo falliti, visto che quanto successo a Torino non è degno di un paese civile come l’Italia. Ma non ci faremo spaventare e non ci fermeremo”. Anche la camicia strappata dai pro Pal lo studente della Statale se la terrà a mo’ di monito. “Spesso mi chiedono che c’entra il diritto allo studio con l’antisemitismo. Ma quello che abbiamo vissuto dimostra proprio che quando prevale l’odio, il diritto allo studio scompare”.
Il Foglio, 17 maggio 2025)
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Perché il Qatar non supera il “test di Tito”
di Seth Mandel
Durante i primi anni della Guerra Fredda, il maresciallo Josip Broz Tito fu un improbabile alleato per Harry Truman e l’Occidente anticomunista guidato dagli Stati Uniti. Tito salì al potere in Jugoslavia da comunista, ovviamente, e si comportò come tale: fattorie collettive, processi farsa paranoici e altri tratti tipici delle dittature comuniste arrivarono in Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Ma Tito voleva essere più di una semplice marionetta di Mosca, e Truman sfruttò la crepa nella sfera sovietica. Gli Stati Uniti fornirono a Tito armi e aiuti nonostante la sua leadership non democratica e il suo desiderio di essere corteggiato sia dall’Est che dall’Ovest perché, geograficamente, così facendo estendevano la sfera d’influenza della NATO e limitavano la prossimità sovietica. Considerando il ruolo che la NATO avrebbe svolto nel corso del successivo mezzo secolo, il compromesso di Truman era chiaramente difendibile, anche se costoso.
Gran parte del dibattito sull’attuale rapporto tra Stati Uniti e Qatar, un nemico-amico strategicamente posizionato ma in ultima analisi inaffidabile, riecheggia il discorso su Truman e Tito. Ma al Qatar manca l’ingrediente principale che rende un simile Stato degno di rischio: non offre alcun vantaggio evidente.
Ciò non significa che non ci siano vantaggi nei nostri rapporti con il Qatar. Ma la natura sproporzionata degli scambi commerciali implica che l’alleanza richiederà sempre una giustificazione. Non c’è bisogno di chiedersi perché abbiamo voluto porre la Jugoslavia sotto l’egida della sicurezza occidentale nel 1951. Bastava guardare una mappa.
Il Qatar, d’altro canto, cerca di rientrare in una categoria di alleati completamente diversa, composta da paesi che occasionalmente minano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma non abbastanza da annullare il vantaggio di averli dalla nostra parte.
Si potrebbe sostenere, ad esempio, che questa categoria includa l’Arabia Saudita, sede della visita del Presidente Trump tre giorni fa. Abbiamo relazioni strategiche con ogni tipo di Stato, e non tutti condividono i nostri valori o necessariamente i nostri obiettivi strategici.
Ma questi stati hanno una cosa che manca al Qatar: la capacità di tenere a freno i problemi che causano. Il Qatar può occasionalmente aiutarci strategicamente, ma non è quasi mai in grado di controllare il caos che scatena. Il meglio che il Qatar possa fare è fermare (o mettere in pausa) i problemi che è in grado di creare. Ed è lecito chiedersi se questo sia davvero sufficiente.
Ad esempio, considerate il sostegno del Qatar a Hamas. Il motivo per cui i leader israeliani credevano di potere convivere con una situazione in cui il Qatar garantiva che Gaza non rimanesse senza fondi era perché quei fondi avrebbero dovuto essere forniti con delle condizioni. Il Qatar avrebbe mantenuto a galla Hamas come costo per mantenere stabile il tenore di vita della popolazione di Gaza. (Se avete visto i post sui social media che dicevano “questo è ciò che Israele ha distrutto”, saprete che non solo Gaza non era una prigione a cielo aperto, ma aveva anche molto da perdere dall’invasione di Israele.)
In cambio, i qatarioti si sarebbero assicurati che il livello di terrorismo fosse mantenuto stabile a un livello gestibile. Sotto Hamas, Gaza non sarebbe mai diventata una colonia di pace, ma porre un limite alla minaccia di Hamas valeva il prezzo – almeno, questa era la scommessa.
Il 7 ottobre ha distrutto questa narrativa. A quanto pare, i qatarioti non stavano tenendo a freno l’estremismo di Gaza; stavano invece usando il denaro per tenere a galla Hamas mentre pianificava la massiccia violenza da pogrom di quel giorno.
Prima del 7 ottobre, si poteva dire: “Sì, i qatarioti finanziano Hamas, ma…”. Ormai non c’è più alcun “ma” nell’equazione.
Un altro esempio sarebbe l’inondazione di denaro da parte del Qatar nelle università d’élite americane. Queste donazioni a volte raggiungono cifre inimmaginabili e consolidano una certa tolleranza nei confronti dell’estremismo nei campus quando si tratta di Israele e degli ebrei. Ma si è scoperto – sebbene sicuramente molti in queste istituzioni si aspettassero gli eventi degli ultimi 18 mesi e molti di loro approvino le rivolte – che l’argomentazione accademica contro Israele era anche l’argomentazione accademica contro l’America. Anche gli studenti di Harvard vogliono che Harvard venga distrutta, e lo dicono apertamente. Lo stesso vale per la Columbia e le altre università.
Poi c’è la questione più ampia di cosa si possa controllare. Pianta una carota, dichiara Bellomy in The Fantasticks, e otterrai una carota. Ma il Qatar ha piantato tra le menti giovani e impressionabili i semi dell’odio per se stessi, dell’antisemitismo e del malcontento paranoico. Quel genio non tornerà nella bottiglia, nemmeno se il Qatar volesse ricacciarvelo.
I qatarioti non sanno come giocare al gioco della geopolitica. Hanno solo soldi e amano spenderli. Il caos che generano è molto più pericoloso per l’Occidente di qualsiasi risultato ottengano con i loro occasionali gesti di buona volontà.
(L'informale, 16 maggio 2025)
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La settimana in Israele: la visita di Trump in Medio Oriente
di Ugo Volli
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Gli incontri
L’evento più significativo per l’intero Medio Oriente negli ultimi giorni è stata la visita del presidente americano Trump che ha toccato l’Arabia Saudita (13-14 maggio), il Qatar (14 maggio) e gli Emirati Arabi Uniti (15 maggio), ma non Israele (né l’Egitto, la Giordania e altri alleati storici). Oltre che con i governanti dei paesi ospiti (il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani e il principe ereditario di Abu Dhabi Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan), Trump ha parlato il 14 maggio a Riad,con il leader siriano Ahmed al-Sharaa detto Joulani e in videoconferenza con Erdogan. Era previsto anche un incontro con il leader dell’Olp Mohammed Abbas, di cui però non si è avuta conferma.
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Gli accordi evitati e quelli conclusi
Questa assenza dell’Olp dal calendario degli incontri è particolarmente significativa, perché alla vigilia del viaggio presidenziale si era diffusa l’ipotesi che Trump intendesse riconoscere unilateralmente uno stato palestinese, contraddicendo tutta la politica sua e delle amministrazioni americane precedenti e suscitando forti timori in Israele. Ciò non è avvenuto. Altri due temi che preoccupavano Israele erano stati presentati come oggetto delle trattative con l’Arabia: innanzitutto l’assenso alla realizzazione del suo progetto nucleare (civile, ma come sempre in questi casi, potenzialmente trasformabile in militare), senza che fosse concessa in cambio la normalizzazione con Israele; e poi un piano condiviso per la pacificazione di Gaza che escludesse il controllo israeliano. Per quel che se ne sa essi non sono stati trattati o almeno non se ne è avuto notizia. Altri temi critici sono stati invece portati a termine: innanzitutto una vendita senza precedenti di armi all’Arabia (ma sembra senza gli F35, negati anche alla Turchia, cioè senza intaccare la superiorità strategica dell’aviazione israeliana) e la rimozione delle sanzioni alla Siria, che in cambio si sarebbe impegnata a non prestarsi ad attacchi a Israele, a rispettare le minoranze (alawiti e drusi che sono stati perseguitati duramente dal nuovo regime) e ad aderire agli accordi di Abramo, “appena consolidato il potere” (così ha dichiarato Trump).
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Le ragioni del viaggio
Il viaggio era dedicato soprattutto ai temi economici, che stanno molto a cuore a Trump. Molti ironizzano su questa concezione “affaristica” dei rapporti internazionali, e accusano spesso a torto o a ragione il presidente di interesse personale. Ma essi non si rendono conto che Trump è stato eletto presidente (degli Usa, non di Israele o dell’Europa) per rimettere a posto una situazione economica che preoccupa moltissimo i suoi elettori: la deindustrializzazione e la burocratizzazione degli States, il debito pubblico gonfiato a dismisura, il controllo cinese su risorse essenziali. Il piano di Trump è di raddrizzare questa deriva nel giro di alcuni anni, anche a costo di peggiorare il disequilibrio a breve, come sta accadendo. I dazi servono a questo, a riportare il lavoro in America e anche i contratti di molte centinaia di miliardi di euro che il presidente ha ottenuto in questo viaggio vanno nella stessa direzione. Il che non significa che la strategia politica non gli interessi, o che non intenda proteggere Israele; ma che la sua priorità sono i problemi economici americani. Inoltre Trump è sincero nella sua volontà di evitare le guerre o di concluderle, se sono in corso, è davvero un pacifista; ma in maniera estremamente realistica, non ignorando i rapporti di forza e gli obiettivi di potenza.
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I negoziati
Questo vale per le due trattative aperte che riguardano il Medio Oriente: quella con Hamas e quella con l’Iran. In entrambi i casi Trump non ha scrupoli a parlare con quelli che considera nemici e anche a fare scambi con loro. È così che ha ottenuto da Hamas la liberazione dell’ultimo rapito americano ancora in vita Edan Alexander (che è anche il primo soldato di Israele rapito il 7 ottobre e rilasciato da Hamas). Ma ora i terroristi si lamentano di non aver ricevuto in cambio né rifornimenti né concessioni sul futuro di Gaza (e infatti la trattativa è ferma a causa della loro pregiudiziale inaccettabile per Israele di una fine della guerra senza resa né consegna delle armi). E anche l’altra trattativa, quella sul nucleare iraniano, è ferma, perché tra molte voci contraddittorie, è chiaro che gli ayatollah non intendono disarmare, cedere il loro uranio e le loro centrifughe, impegnarsi a non aggredire gli altri paesi, il che naturalmente è assai lontano dalle loro intenzioni.
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La distruzione del vertice di Hamas a Gaza
Vedremo presto se alla conclusione del viaggio alcuni di questi risultati saranno cambiati o addirittura rovesciati: Trump è maestro nell’arte della comunicazione, almeno se la si intende come tener fissa su di sé l’attenzione dei media e del pubblico. Intanto bisogna dire che non ha avuto obiezioni di fronte al “tentativo” (probabilmente riuscito, ma finché non ci sono le prove materiali bisogna dire così) dell’aeronautica israeliana di eliminare l’attuale capo di Hamas a Gaza, Mohammed Sinwar, il fratello minore di Yahya Sinwar e degli altri comandanti terroristi che gli stavano vicino. Se è riuscito come sembra, questo è un colpo importante che decapita di nuovo l’organizzazione terroristica. Bisogna dire anche che Sinwar e gli altri si nascondevano, tanto per cambiare, in un tunnel scavato sotto un ospedale di Khan Yunis, cioè cercavano di usare pazienti e malati come scudi umani. Tutti coloro che continuano a parlare di crimini umanitari di Israele a Gaza non tengono minimamente conto che innanzitutto questo uso di ospedali, scuole, moschee ecc. è tecnicamente un crimine di guerra.
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La prossima operazione di terra
Per quel che ne sappiamo Trump non ha fatto neppure obiezioni all’operazione “Carri di Gedeone” che dovrebbe iniziare subito dopo la sua partenza dal Medio Oriente. Si tratta finalmente della presa di tutta di Gaza usando le forze di terra: un’operazione che coinvolge decine di migliaia di soldati ed è concepita per distruggere sistematicamente e definitivamente le infrastrutture e le truppe di Hamas, lasciando alla popolazione civile scampo in una zona di sicurezza al confine dell’Egitto, dove saranno anche forniti i rifornimenti alimentari in modo che i terroristi non possano impadronirsene. Se sarà possibile condurla fino in fondo, questa sarà davvero la liquidazione dei gruppi terroristici a Gaza. Per ora le cronache parlano di un’intensificazione delle operazione preliminari come i bombardamenti sulle fortificazioni sotterranee individuate.
(Shalom, 16 maggio 2025)
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Palestina? Gaza? Parliamone con il Diritto internazionale alla mano
Dopo gli ultimi assalti antisemiti dei pro-Hamas è bene fare un briciolo di chiarezza sui numeri e su quello che dice il Diritto Internazionale sull'esistenza della Palestina
di Maurizia De Groot Vos
A prescindere dal fatto che condivida o meno la linea attualmente tenuta dal Governo Netanyahu nella guerra contro Hamas, dopo gli ultimi assalti antisemiti al grido di “Palestina libera” o addirittura “Gaza libera” mi sento il dovere di evidenziare alcuni elementi fattuali e di Diritto internazionale. Sarò lunga.
Partiamo dagli elementi fattuali e numerici. Siccome si parla tanto spesso della “innocente popolazione di Gaza” cerchiamo di capire se è davvero così.
• L’innocente popolazione di Gaza
Il web del dopo massacro del 7 ottobre 2023 era pieno di video nei quali si vedeva con chiarezza le manifestazioni di giubilo della popolazione di Gaza per il pogrom e massacro appena compiuti. Oggi molti di quei video, dove addirittura si oltraggiavano cadaveri, sono spariti dalla circolazione ma sono tutti ben chiari nella mente di chi come me rimase basito da tanta collettiva crudeltà. Qualcosa sfuggita alla censura lo troviamo qui. Difficile affermare che la popolazione di Gaza fosse innocente.
Prima del 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza operavano circa mille ONG, un numero davvero incredibile di operatori umanitari. Oltre a questi, vi erano ben 36 ospedali (TRENTASEI). Ora, è possibile che tra queste mille ONG nessuno si sia accorto che Hamas stava costruendo centinaia di Km di tunnel sotto Gaza? È possibile che nessuno si sia accorto che sotto ognuno dei 36 ospedali Hamas stesse costruendo grandi centri operativi e di comando? Ma poi, possibile che su due milioni di persone nessuno abbia sentito i lavori della “metropolitana di Gaza”? E dopo il sequestro degli ostaggi, possibile che nessuno di queste due milioni di persone abbia visto dove li nascondevano e si sia fatto avanti? Nemmeno uno? Davvero?
Lasciamo stare il numero delle vittime di cui conosciamo solo quello proveniente da una fonte: Hamas. Ma possibile che siano solo donne e bambini? Gli uomini dov’erano? E i miliziani? L’IDF, ben più attendibile di Hamas, afferma di aver ucciso circa 30.000 terroristi ma di questi nei numeri di Hamas non vi è traccia. E tra i bambini che Hamas dice essere stati uccisi, ci sono anche i bambini soldato di Hamas? E a proposito di quelle mille ONG di cui sopra, nessuna di loro ha mai detto niente di questi bambini soldato. Come mai?
Hamas ha dichiarato guerra a Israele, nel modo più crudele e vigliacco possibile. La popolazione di Gaza non ha mai rinnegato la leadership di Hamas. MAI. Non è innocente.
Per questo sono d’accordo con l’attuale linea del Governo Netanyahu? NO, ma questo è un altro discorso.
• Il Diritto internazionale
I veri confini di Israele secondo il Diritto Internazionale
Chi oggi contesta Israele farneticando di Diritto internazionale violato, parlando di occupazione e di liberare la Palestina dovrebbe sapere che:
La Convenzione di Montevideo del 1933 delinea quattro criteri per la statualità:
- Popolazione permanente: Israele ha una popolazione definita e continua, con comunità ebraiche e arabe residenti nel suo territorio fin dalla sua fondazione.
- Territorio definito: i confini di Israele furono stabiliti dal Mandato britannico sulla Palestina del 1922, che includeva l’odierno Israele, la Cisgiordania e Gaza. Questi confini furono ereditati ai sensi dell’uti possidetis juris (discusso di seguito).
- Governo efficace: Israele ha mantenuto un governo stabile e democratico sin dal 1948, con il controllo del suo territorio e la capacità di stipulare trattati (ad esempio, accordi di pace con Egitto e Giordania).
- Capacità di relazioni estere: Israele intrattiene relazioni diplomatiche con 165 stati ed è membro dell’ONU, dell’OMC e dell’OCSE.
Israele soddisfa tutti i criteri per la sovranità ai sensi della Convenzione di Montevideo ed è stato riconosciuto da 165 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite a dicembre 2020. I suoi confini, fondati sul Mandato britannico del 1922 e confermati dalle Nazioni Unite nel 1949, sono giuridicamente incontestabili.
Al contrario, la Palestina non soddisfa i requisiti fondamentali per la sovranità, non gode di un ampio riconoscimento internazionale e non ha mai esercitato una sovranità effettiva su alcun territorio. Andando nel dettaglio:
- Mancato rispetto dei criteri di Montevideo
- Nessun territorio definito: i confini rivendicati dalla Palestina (Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est) non sono mai stati concordati a livello internazionale. Il Piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 (Risoluzione 181) non era vincolante e fu respinto dagli stati arabi.
- Nessun governo efficace: Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese sono entità reciprocamente ostili. Gaza è sotto il controllo di Hamas dal 2007, mentre l’autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania è subordinata alla cooperazione israeliana in materia di sicurezza.
- Mancanza di sovranità: la Palestina non ha mai controllato i propri confini, il proprio spazio aereo o la propria valuta. Rimane economicamente e militarmente dipendente da Israele e dagli aiuti esteri.
• Per farla breve, a livello di Diritto internazionale la Palestina non esiste
La Palestina è un’aspirazione politica, non una realtà giuridica. La recente revisione della Corte Penale Internazionale (aprile 2025) sulla posizione della Palestina sottolinea questa distinzione: la sovranità di Israele non può essere costruita con la retorica o le risoluzioni delle Nazioni Unite. La comunità internazionale deve riaffermare la sovranità di Israele e respingere i tentativi di delegittimarla attraverso false narrazioni sulla sovranità palestinese.
Concludendo, i cosiddetti pro-pal (o pro-Hamas) chiedono la libertà di uno stato che non esiste né sulla carta né a livello di Diritto internazionale. La Palestina è una aspirazione, non una realtà. Parlano di un genocidio che non c’è usando a sproposito la parola “genocidio”. Prendono per oro colato numeri non verificabili che hanno come unica fonte un gruppo terrorista islamico. Non condannano mai Hamas, nemmeno quando mette nero su bianco che usa vecchi, donne e bambini come scudi umani e che lo fa apposta per mettere in difficoltà Israele.
Come osservato da eminenti esperti di Diritto Internazionale, l’autodeterminazione non equivale automaticamente alla sovranità nazionale – una lezione che i palestinesi e i loro sostenitori devono ancora comprendere.
(Rights Reporter, 16 maggio 2025)
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I veri neofascisti all’assalto degli ebrei: torna l’odio razziale in Italia
di Stefano Piazza
Da quando Giorgia Meloni ha assunto l’incarico di Presidente del Consiglio, le opposizioni – in difficoltà e prive di una chiara direzione – non perdono occasione per agitare lo spettro «del ritorno del fascismo». Al loro fianco si schiera un eterogeneo insieme di sedicenti intellettuali, ex capi di governo, deputati, senatori, celebrità del mondo dello spettacolo, giornalisti e ampie porzioni dell’informazione mainstream, che offrono regolarmente spazio a figure come Alessandro Di Battista e Rula Jebreal, contribuendo alla diffusione di falsità su Israele e sul conflitto innescato da Hamas il 7 ottobre 2023. La parola d’ordine come da precise direttive di chi ha orchestrato e pagato questa gigantesca operazione di propaganda è: «Genocidio». Come osserva l’esperta di comunicazione Elisa Garfagna «L’accusa di genocidio da parte di Hamas è una mossa retorica che si ripete da 20 mesi e che è volta a delegittimare Israele e a suscitare la condanna internazionale. L’uso strumentale del termine “genocidio” inoltre rischia di sminuire la gravità di questo crimine contro l’umanità come ad esempio la Shoah. In maniera del tutto speculare, l’accusa di “politica della fame” serve a dipingere Israele come responsabile della crisi umanitaria, omettendo il ruolo fraudolento di Hamas nella gestione degli aiuti e nel conflitto. Ormai è chiaro che la guerra via terra è affiancata da una guerra di parole difficile da smontare, anche a causa della viralità che tale propaganda assume sui canali sociali». In questo clima di follia collettiva si è arrivati all’assurdo che, in alcuni Comuni – come nel caso di Lodi – venga richiesto, per accedere a spazi pubblici, di firmare una dichiarazione in cui si attesta «di non essere fascisti». Una contraddizione evidente, perché oggi in Italia esiste una forma aggressiva di neofascismo che si manifesta proprio attraverso l’intolleranza dell’estrema sinistra, dei centri sociali e dei movimenti pro-Hamas, che da oltre un anno agitano le piazze con cortei in cui si tollera ogni eccesso e dove le forze dell’ordine vengono sistematicamente aggredite nell’indifferenza generale. In molte università, attivisti filo-Hamas hanno conquistato spazi decisionali grazie alla passività – o alla complicità – di rettori e docenti, impedendo la libera espressione e minacciando chiunque esprima opinioni divergenti.
Per Celeste Vichi, avvocato e Presidente dell’Unione Associazioni Italia Israele: «È nella connivenza complice dei rettori e di tutta quell’accademia che boicotta il libero pensiero e censura persino la parola antisemitismo nei convegni, nei corsi, nei rapporti scientifici con Israele. È anche dover presentare un libro accompagnati dalle forze dell’ordine perché messo all’indice.Sono gli stessi che accusano gli ebrei nel mondo di fare abiura, chiedendo loro di rinnegare lo Stato ebraico. Israele e la sua esistenza rappresentano oggi la nuova colpa da espiare. È la summa divisio tra ebrei buoni ed ebrei cattivi: abiura e ti salverai, convertiti e vivrai. Non è cambiato niente nella storia: ideologie diverse, modalità di coercizione identiche. Il nazifascismo è qui, e se non ripariamo al più presto, ne pagheremo tutti le conseguenze».
• Un giorno nero per Torino
Ieri, al Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si è verificato un nuovo grave episodio di aggressione preordinata contro la libertà di parola e i principi fondanti dell’università e della democrazia. L’incontro dal titolo “Per le Università Come Luogo di Democrazia e di Contrasto all’Antisemitismo”, promosso da diverse sigle aderenti al Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio — tra cui l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, Studenti per le Libertà, Studenti Liberali e Studenti per Israele — è stato interrotto con violenza da un gruppo strutturato di sostenitori di Hamas. Gli aggressori hanno fatto irruzione nell’aula dove l’iniziativa era prevista, gridando slogan come “Intifada” e puntando a impedire agli studenti ebrei e a chi li sostiene di prendere la parola, attraverso insulti, minacce, sputi e persino aggressioni fisiche. Alcuni degli organizzatori dell’evento sono stati persino colpiti, intimiditi e pubblicamente offesi. È stato inoltre rubato un telefono cellulare, gesto che denota la volontà non solo di intimidire, ma anche di cancellare eventuali prove della violenza commessa. E’ normale tutto questo? No ed è ora di dire basta.
Ogni tentativo di confronto civile è stato annientato fin da subito da atti di prepotenza, trasformando un luogo di apprendimento e confronto in uno scenario di coercizione, dove la violenza ha messo a rischio la sicurezza fisica di studenti, relatori, organizzatori e partecipanti che desideravano semplicemente assistere in modo pacifico alla conferenza. Il volto del nuovo totalitarismo si manifesta oggi nelle fila dei militanti pro-Hamas, che rimuovono le spille in favore degli ostaggi e che da mesi strappano gli striscioni che ne chiedono il rilascio. Un gesto che non è solo simbolico: è l’espressione di un clima di odio che si nutre della retorica antisionista, spesso presentata come distinta dall’antisemitismo, ma che nei fatti ne riproduce le stesse dinamiche e gli stessi obiettivi.
Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) ha così commentato l’accaduto: «Ai nostri ragazzi abbiamo trasmesso entusiasmo per lo studio e fiducia nel sistema universitario, nel quale coltivare amicizie e alimentare dialogo rispetto ai temi che ogni generazione si trova ad affrontare. Con questo spirito, i rappresentanti dei giovani ebrei italiani si sono recati oggi all’Università di Torino, con la kippà in testa e con l’intento di svolgere un sereno incontro e dibattito sui temi del diritto allo studio, della democrazia all’interno delle università e dell’antisemitismo. Sono stati invece aggrediti e cacciati, con violenza e veemenza. A loro va il nostro abbraccio e incoraggiamento a riprendere fiato dopo l’aggressione subita e a continuare ad avere fiducia nel dialogo.Un Paese democratico, una sede universitaria, un salone del libro – luoghi preposti allo studio e al confronto delle idee – non possono ospitare e legittimare persone che, con violenza e soprusi, negano ad altri di manifestare il proprio pensiero in nome della difesa di diritti e della pretesa di democrazia.Ribadiamo ancora una volta che la sicurezza non potrà mai essere sufficientemente garantita, pur con tutto il supporto delle forze dell’ordine, se ogni generazione non farà propria la cultura della convivenza, eliminando qualsiasi forma di prevaricazione e indifferenza». Sempre ieri, altri simpatizzanti di Hamas si sono ritrovati davanti all’ingresso del Lingotto per contestare la presentazione del libro di Nathan Greppi, ma sono stati allontanati. Ma il fatto stesso che il giornalista abbia dovuto presentare il suo libro «La cultura dell’odio» addirittura sotto scorta e con la presenza delle forze dell’ordine in assetto antisommossa rappresenta la conferma più eloquente delle tesi illustrate nel suo volume.
(Panorama, 16 maggio 2025)
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Israele si qualifica per la finale dell’Eurovision
Tra contestazioni e discriminazione dei conduttori
di Ludovica Iacovacci
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Yuval Raphael durante l’esibizione alla seconda semifinale dell’Eurvision 2025
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Israele si classifica per la finale dell’Eurovision Song Contest 2025. Yuval Raphael, la rappresentante di Israele sopravvissuta alla strage del 7 ottobre, accederà alla finale dell’Eurovision in onda il 17 Maggio alle ore 21 in diretta da Basilea, Svizzera. In Italia, la trasmissione potrà essere seguita su Rai 1.
La presenza di Yuval Raphael alla competizione canora aveva suscitato polemiche fin dalla vigilia: al suo arrivo a Basilea era stata contestata e aggredita tra la folla, dove sventolavano una dozzina di bandiere palestinesi ed è stato anche mimato un gesto di sgozzamento nei suoi confronti. Critico anche Nemo, vincitore dell’Eurovision 2024, che ha sostenuto la richiesta di escludere dalla gara Israele: “Le sue azioni contraddicono profondamente i valori che l’Eurovision dovrebbe difendere, di pace, unità e diritti umani”, aveva affermato il cantante.
Durante la seconda semifinale svoltasi la sera di giovedì 15 maggio, l’esibizione della cantante israeliana, la quattordicesima in gara, è stata caratterizzata da diverse contestazioni rivolte contro l’artista. Urla, schiamazzi, fischi contro la rappresentante dello Stato ebraico, e una persona si è elevata rispetto alla folla alzando verso di lei la bandiera della Palestina. La stessa bandiera da cui Yuval sfuggì, quando il 7 ottobre 2023 riuscì a salvarsi dai terroristi palestinesi fingendosi morta sotto altri cadaveri durante il massacro del Nova Musica Festival.
La pagina Wikipedia di Yuval Raphael – adesso corretta – sembrava un fake: c’era scritto che lei “essendo un’ottima terrorista israeliana, il suo hobby preferito è andare a rave organizzati fuori dai campi di concentramento, in cui vengono uccise ogni giorno centinaia di persone dallo Stato ebraico”, un riferimento capovolto della strage perpetrata da Hamas ai danni del sud di Israele.
Già l’anno scorso la rappresentante israeliana Eden Golan aveva subito insulti, fischi e attacchi prima e durante l’esibizione, in un clima di odio mai visto alla kermesse canora.
• La parzialità dei conduttori italiani
L’esibizione di Yuval è stata diversa rispetto alle altre non solo per gli insulti ricevuti prima e durante la performance, ma anche per il comportamento dei conduttori italiani. A commentare l’edizione italiana dell’Eurovision Song Contest 2025 ci sono Gabriele Corsi e Big Mama. Quest’ultima è rimasta silente, dall’inizio alla fine, durante la presentazione e la partecipazione di Yuval alla competizione. Big Mama si è astenuta non solo dal fare commenti ma anche dal ruolo per cui era stata chiamata: presentare. Gabriele Corsi, pertanto, ha fatto il minimo indispensabile da solo. I conduttori italiani hanno riempito tutti gli altri artisti di complimenti. Hanno rivelato curiosità, commentato gli outfit, hanno sempre espresso gradimento e parole gentili per tutti. Per tutti, tranne che per Yuval. Con lei si sono limitati ad una presentazione essenziale, la stretta necessaria.
Il silenzio è stato notato e apprezzato dagli utenti propal sui social. Una pioggia di commenti ne è scaturita, come “Big Mama in lutto durante la presentazione di Israele, we feel you”, “Big Mama non ha detto più nulla per tutto il tempo in cui c’era Isram***a” oppure “Brava Big Mama che non si è proprio filata la sionista di me****”. Ancora: “Il fantastico silenzio di Big Mama prima e dopo l’esibizione di Israele”. Infine: “Bellissimi i mancati commenti di Gabriele e Big Mama sull’esibizione di Israele. Siamo con voi ragazzi!”.
Un clima d’odio, discriminazione e razzismo caratterizza anche quest’anno la partecipazione di Israele all’Eurovision Song Contest. Ma Yuval ha una risposta per tutti: “I love you! Thank you, merçi, todà”, come ha detto alla fine della sua esibizione. E manda una marea di cuoricini anche per chi le augura la morte, da cui è riuscita brillantemente a sfuggire durante la strage del 7 ottobre 2023 proprio ad un festival musicale celebrando la più grande passione della sua vita, quella con cui oggi rappresenta Israele
(Bet Magazine Mosaico, 16 maggio 2025)
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I viaggiatori israeliani devono prestare attenzione
L'aereo è il mezzo di trasporto più sicuro. Tuttavia, per i passeggeri con passaporto israeliano o destinazione Israele, valgono particolari considerazioni di sicurezza per i viaggi aerei internazionali. In particolare, le rotte aeree che attraversano paesi che non riconoscono Israele o che sono in tensione politica con il paese possono diventare problematiche per i viaggiatori. In caso di condizioni meteorologiche estreme, un problema tecnico o un'emergenza medica, l'aereo potrebbe essere costretto ad atterrare in uno Stato ostile.
In tali situazioni, gli esperti, come il responsabile della sicurezza aerea della compagnia aerea Arkia, Gadi Amal, raccomandano cautela. I passeggeri con passaporto israeliano o identità ebraica dovrebbero comportarsi con discrezione, non mostrare documenti in ebraico e, se possibile, contattare direttamente l'ambasciata israeliana o il ministero degli Esteri. In caso di emergenza, è possibile anche un intervento diplomatico tramite paesi terzi, come la Svizzera o la Germania.
• Le compagnie aeree israeliane evitano gli “Stati nemici”
Il punto di partenza di un recente dibattito su questo tema in Israele è, tra l'altro, una scena della serie televisiva israeliana “Teheran”. In essa, una coppia israeliana viene prelevata con la forza dalle forze di sicurezza dopo un atterraggio di emergenza in Iran. Anche se si tratta di finzione, il problema di fondo rappresentato è estremamente reale.
Infatti, le compagnie aeree israeliane evitano di sorvolare paesi che non riconoscono lo Stato di Israele e sono ufficialmente considerati “Stati nemici”. Tra questi figurano l'Iran, la Siria, l'Iraq, lo Yemen e il Libano. Le rotte delle compagnie aeree israeliane sono pianificate con un software speciale che tiene conto fin dall'inizio delle zone politiche soggette a restrizioni.
• Cautela con le compagnie aeree straniere
La situazione è diversa per molte compagnie aeree straniere, in particolare quelle asiatiche, arabe o africane. Le loro rotte attraversano regolarmente spazi aerei critici.
Per i passeggeri israeliani che viaggiano con un secondo passaporto, ad esempio europeo, questo non è sempre immediatamente evidente. In passato si sono verificati casi isolati in cui i passeggeri si sono resi conto solo durante il volo o durante uno scalo non previsto di trovarsi nel territorio di uno Stato ostile a Israele.
L'esperto di sicurezza aerea Amal raccomanda in linea di principio di viaggiare con compagnie aeree israeliane. Per i viaggiatori che decidono comunque di volare con una compagnia aerea straniera, è consigliabile verificare in anticipo la rotta prevista. Applicazioni come Flightradar24 o FlightAware consentono di tracciare le rotte storiche di voli simili per evitare spiacevoli incidenti.
(Israelnetz, 16 maggio 2025)
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Perché Hamas vuole controllare gli aiuti umanitari a Gaza
di Khaled Abu Toameh
Il gruppo terroristico palestinese Hamas, sostenuto dall'Iran, ha ricostituito la sua "Forza Esecutiva" nell'ambito del tentativo di controllare gli aiuti umanitari e "imporre la legge e l'ordine" nella Striscia di Gaza.
La Forza, composta da 5 mila uomini e creata originariamente nel 2006, è stata incaricata di prevenire il "furto" di forniture di cibo e di "scoraggiare ladri e delinquenti responsabili di anarchia e illegalità".
Secondo fonti palestinesi, membri della "Forza Esecutiva" sono stati dispiegati in tutta la Striscia e hanno ricevuto l'ordine di "adottare tutte le misure necessarie, compreso l'uso eccessivo della forza" per ripristinare la sicurezza e la stabilità nella fascia costiera.
Nel 2007, la "Forza Esecutiva" ebbe un ruolo chiave nel golpe di Hamas contro l'Autorità Palestinese (AP), uccidendo centinaia di palestinesi e ferendone migliaia. Dopo il colpo di Stato, il presidente dell'AP Mahmoud Abbas dichiarò che tale milizia era criminale e illegale.
I palestinesi, tuttavia, affermano che se c'è qualcuno che sta saccheggiando aiuti umanitari e forniture di cibo a Gaza, quello è Hamas. E rilevano altresì che le bande di Hamas sono responsabili dell'anarchia, della sregolatezza e dell'intimidazione della popolazione locale.
Di recente, terroristi di Hamas hanno assaltato magazzini e rubato cibo in diverse zone di Gaza. La mossa arriva sulla scia delle notizie secondo cui Israele starebbe cercando di convincere le organizzazioni internazionali ad assumersi la responsabilità della distribuzione di aiuti umanitari ai palestinesi nella Striscia di Gaza, un'azione fortemente osteggiata da Hamas. Il gruppo terroristico afferma che il tentativo israeliano di distribuire aiuti umanitari attraverso le organizzazioni internazionali è un "ricatto politico" e una "violazione del diritto internazionale".
Video pubblicati sui social media mostrano teppisti di Hamas che picchiano brutalmente palestinesi sospettati di aver rubato cibo per le loro famiglie. Secondo altre fonti, Hamas ha da poco giustiziato numerosi palestinesi per aver rubato derrate alimentari dai magazzini. Hamas sostiene che i presunti ladri erano "collaboratori" di Israele.
Il 5 maggio, i terroristi di Hamas hanno assassinato Ziad Abu Shalouf, leader del clan Abu Shalouf, nell'area di Al Mawasi, a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza. Il suo "crimine"? essersi espresso pubblicamente contro Hamas.
Il giorno prima, Hamas aveva annunciato che tre gazawi sarebbero stati presto massacrati a coltellate per presunta "collaborazione" con Israele. Ad altri sarebbero stati amputati gli arti per aver presumibilmente rubato del "cibo".
"Questa non è giustizia, è barbarie: il dominio dei coltelli e della paura", " ha commentato Hamza Howidy, un gazawi, sostenitore della pace e dei diritti umani.
"Dal 7 ottobre l'ho detto senza esitazione: Hamas è l'ISIS, solo con una migliore propaganda. E quella macchina delle pubbliche relazioni funziona con i soldi del Qatar, attraverso organi di stampa che trasformano il terrorismo in eroismo e insanguinano con la propaganda".
In un altro post su X, Howidy ha scritto:
"Ciò che sta accadendo a Gaza non è solo distruzione, è il completo collasso della società. Bande armate e milizie di Hamas stanno assaltando case, negozi e magazzini, rubando tutto ciò che vedono. Sparano alla gente per una pagnotta di pane. Li picchiano perché cercano di proteggere le proprie famiglie. Non c'è governo, né legge, né ordine: solo paura. E quando i palestinesi osano parlare, Hamas li bracca, li rapisce, minaccia le loro famiglie e li riduce al silenzio con la forza. Questa non è guerra. È un regime terroristico che trascina una società distrutta al suicidio. Non offrono protezione, né aiuti, né leadership: solo armi, terrore e slogan".
L'ultima repressione di Hamas dimostra che il gruppo terroristico è determinato a mantenere gli aiuti umanitari nelle proprie mani per mantenere il controllo sugli abitanti della Striscia di Gaza e impedirgli di ribellarsi.
All'inizio di questo mese, i terroristi di Hamas sono stati visti per le strade della Striscia di Gaza con i megafoni in mano, urlando: "Chiunque dica che Hamas è finito, il suo sangue è nostro e andrà sprecato".
Hamas è consapevole che gli aiuti umanitari sono cruciali per mantenere potere sui palestinesi, che affrontano morte e distruzione dal 7 ottobre 2023, quando il gruppo terroristico e migliaia di palestinesi "comuni" invasero il sud di Israele, uccidendo più di 1.200 israeliani e ferendone migliaia. Altri 251 israeliani, tra cui donne, bambini e anziani, furono rapiti e condotti nella Striscia di Gaza, dove 59 di loro, deceduti e ancora in vita, sono tenuti prigionieri da Hamas e da altri gruppi terroristici palestinesi.
Hamas sta facendo tutto il possibile per preservare il suo regime nella Striscia di Gaza, anche se ciò significa privare i palestinesi del cibo.
Ahmed Fouad Alkhatib, originario di Gaza e ricercatore senior presso l'Atlantic Council, ha scritto il 2 maggio:
"Il saccheggio coordinato e organizzato di depositi alimentari nel nord di Gaza, appartenenti alle Nazioni Unite e ad altre ONG, può significare solo una cosa: un atto compiuto da un'entità coesa che ha potuto mobilitare gli elementi dell'attacco, sapendo esattamente quali aree colpire. Questo non può che essere Hamas, che si dice stia affrontando enormi difficoltà logistiche e finanziarie a causa del blocco totale imposto dall'esercito israeliano contro la Striscia di Gaza. Inoltre, Hamas si è affidato a elementi criminali per creare il caos, il che ha portato a saccheggi di massa, fornendo una copertura al gruppo terroristico per commettere il furto organizzato di ciò che resta delle scorte alimentari a Gaza".
Questa condotta criminale è esattamente la ragione per cui la comunità internazionale deve sostenere gli sforzi di Israele per impedire ad Hamas di monopolizzare e appropriarsi indebitamente dei rifornimenti umanitari inviati nella Striscia di Gaza.
La comunità internazionale dovrebbe sostenere qualsiasi iniziativa volta a porre fine al dominio di Hamas sulla Striscia di Gaza e a distruggerne le capacità militari. Sia Israele che il popolo palestinese, che stanno pagando un prezzo altissimo a causa della decisione di Hamas di commettere il più grande massacro contro gli ebrei dai tempi della Shoah, ne trarranno solo beneficio.
- Khaled Abu Toameh è un pluripremiato giornalista che vive a Gerusalemme.
(Gatestone Institute, 13 maggio 2025 - trad. di Angelita La Spada)
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Se non è pregiudizio cos’è?
di David Sorani
Come notava con grande precisione Elena Loewenthal su La Stampa del 7 maggio scorso, è molto difficile oggi essere ebrei della Diaspora: in un mondo che non analizza situazioni e problemi ma tende a liquidarli in modo manicheo assegnando ruoli definitivi di “perseguitati” o di “persecutori”, dall’opinione pubblica siamo ormai tutti inquadrati – in quanto inscindibilmente vincolati a Israele – nella schiera degli oppressori. A meno che non ci dissociamo nettamente dalle politiche del governo israeliano scagliandoci a nostra volta contro quel “demonio” di Netanyahu e le sue “scelleratezze”; cosa che purtroppo, come abbiamo visto di recente, alcuni di noi fanno anche pubblicamente per distinguersi da chi non vuole prendere le distanze rispetto a un pezzo importante di sé o semplicemente non può superare l’inquietudine del presente lanciando dall’esterno facili accuse. Di fatto, nell’opinione pubblica oggi prevalente, nessuno o quasi riesce ad andare al di là di giudizi pietistici nei confronti delle cosiddette “vittime”, a spingersi oltre la visione superficiale e mitizzata che dipinge una potenza regionale aggressiva in cerca di dominio territoriale (Israele) e un popolo oppresso e schiacciato che vuole ottenere uno Stato a cui ha diritto (i palestinesi). Nessuno o quasi pare capace di fare una analisi storica degli eventi e delle situazioni che hanno condotto alla realtà di oggi, né di leggere in profondità le motivazioni della guerra di Israele a Gaza e lo stato di cose effettivo nella Striscia.
Mai si ricorda che dal 1947 a oggi i palestinesi hanno perso tutte le occasioni possibili (alcune anche molto concrete, dopo gli accordi di Oslo del ’93 e dopo gli incontri di Camp David del 2008) di prendere in mano il proprio destino accettando compromessi per avere finalmente uno Stato. Mai si ricorda che il terrorismo è stata l’unica strada perseguita con costanza dalla dirigenza palestinese di qualsiasi colore, l’arma a cui ogni volta essa è tornata. Solo partendo da queste premesse e dalla loro esasperazione nei programmi distruttivi messi a punto da Hamas è possibile comprendere come il jihadismo palestinese sia arrivato a concepire e realizzare un massacro come quello del 7 ottobre, e come sia pronto a ripeterlo qualora se ne presentasse l’occasione. Replicando anche i rapimenti e le detenzioni di massa che tanto fruttuose sono state per la causa palestinese.
Tenere a mente tutto ciò è indispensabile per comprendere la situazione di oggi. E invece la visione collettiva ha dimenticato tutto, soffermandosi solo sui bollettini di guerra quotidiani, incapace di inquadrarli nella situazione storico-sociale complessiva e di collegarli alla cinica strategia della strumentalizzazione delle vittime (soprattutto dei bambini) messa in atto da Hamas; sempre pronta invece ad affidarsi alle sue statistiche e a moltiplicare il numero dei morti sotto le bombe israeliane.
È questa visione ossessiva e quotidianamente ripetuta a creare e incrementare il mito falsificante del genocidio a Gaza. Il guaio è che ormai lo strale è partito e non si può più trattenere.
L’immagine terrificante del genocidio in atto di fronte al silenzio del mondo (ma quale silenzio se tutti strepitano ovunque?) è lanciata e si riproduce perversamente su sé stessa. Ed ecco che il legittimo governo israeliano (miope e oltranzista finché si vuole, ma democraticamente eletto) si trasforma in potere autoritario; ecco che lo stesso Stato di Israele diviene in quanto tale uno Stato colonialista e nazista; ecco che gli ebrei e il mondo ebraico diventano i nuovi persecutori e aguzzini solo perché non si dissociano. L’accusa infamante si amplia e si diffonde, nel mondo, in Europa, in Italia. E cresce la nostra inquietudine, la nostra angoscia, la nostra umiliazione perché non riusciamo ad arrestare questa marea montante.
È la forma del nuovo antisemitismo, tanto più velenoso perché non viene accettato come tale. Anzi, chi ne viene accusato rifiuta sdegnato e offeso questa classificazione, irridendo all’ipersensibilità di chi si è permesso di adombrare un’accusa così dissacrante. Eppure, tutti noi ebrei lo avvertiamo; eppure, colpisce in modo più o meno diretto solo noi, così legati alla realtà israeliana. Cos’è se non antisemitismo?
La forma di questo nuovo rifiuto antiebraico ne è anche la sostanza, perché non qualifica negativamente l’ebreo in quanto tale, ma lo colpisce ed esclude a priori insieme a tutto ciò che “sa di Israele”.
Solo un recupero della ragione e un abbandono dell’appiattimento puramente emotivo potrebbero portare i mass media a una analisi più oggettiva e approfondita della situazione mediorientale. E solo questo processo virtuoso potrebbe farci uscire dalla folle spirale che si è innescata (quasi un’ansia patologica da “nuovo sterminio”). Dubito che ci siano la capacità e la volontà di invertire la rotta.
(moked, 15 maggio 2025)
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«È la forma del nuovo antisemitismo, tanto più velenoso perché non viene accettato come tale…. Eppure, tutti noi ebrei lo avvertiamo; eppure, colpisce in modo più o meno diretto solo noi, così legati alla realtà israeliana. Cos’è se non antisemitismo?» E’ antisemitismo, non c’è dubbio, puro odio antiebraico. Anche alcuni non ebrei lo avvertono. Sono pochi, è vero, ma ci sono. E ne soffrono, non come gli ebrei, certo, ma basta dire una parola in loro difesa per avvertire quasi immediatamente quello sgradevole alito. L’alito di un odio che sembra non avere alcun bisogno di spiegazione. E’ un odio che c’è. Proprio come Dio c’è. M.C.
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Trump tra promesse divine e politica di potere
Israele all'ombra degli interessi geopolitici. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025 è seguito con grande attenzione in Medio Oriente, in particolare in Israele.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Ciò che dal punto di vista politico appare come pragmatismo diplomatico, dal punto di vista teologico rivela una dinamica più profonda. Negli interessi geopolitici Israele gioca sempre un ruolo centrale, a volte più, a volte meno, ma è sempre stato così nella storia biblica di questo Paese.
• Tensione tra politica e promessa
La Bibbia descrive Israele come «la pupilla degli occhi di Dio» (Zaccaria 2,12), come il centro della sua «azione salvifica», così come molti ambienti cristiani nel mondo occidentale amano immaginarlo. Ma proprio in questo momento Israele sembra essere politicamente emarginato. L'attenzione della politica estera di Trump è rivolta a nuove alleanze con l'Arabia Saudita, il Qatar e persino la Siria.
• Un patto con l'Arabia Saudita: una nuova alleanza a spese di Israele?
Un evento centrale della visita di Trump è stata la conclusione di un accordo di sicurezza senza precedenti con l'Arabia Saudita. Esso comprende un accordo per la fornitura di armi del valore di 142 miliardi di dollari, il più grande nella storia dei due paesi, e fa parte di un pacchetto complessivo di oltre 600 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti si impegnano a difendere l'Arabia Saudita in caso di attacco, a intensificare lo scambio di informazioni dei servizi segreti e a fornire armi sofisticate.
Sono inoltre in corso colloqui su un programma nucleare civile saudita. Da notare che l'accordo non contiene alcun impegno pubblico da parte dell'Arabia Saudita a normalizzare le relazioni con Israele, un obiettivo che Trump aveva fortemente perseguito durante il suo primo mandato, ma che ora sembra aver abbandonato. Per Israele si tratta di un patto regionale che potrebbe modificare gli equilibri di potere in Medio Oriente e di un segnale che gli Stati Uniti stanno costruendo nuove alleanze strategiche. In poco più di un giorno, Trump ha firmato accordi economici per un valore di circa 1,8 trilioni di dollari con il Qatar e l'Arabia Saudita, di cui 1,2 trilioni solo con il Qatar. Proprio il Qatar che ha sostenuto finanziariamente il terrorismo palestinese contro Israele e altre organizzazioni terroristiche sunnite come Al-Qaeda. “Ci amiamo semplicemente”, hanno riportato i giornali israeliani citando la dichiarazione di Trump dopo il suo incontro con l'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad bin Khalifa Al Thani.
Trump ha sottolineato che “ristabilirà la deterrenza e porterà la pace attraverso la forza”. In Arabia Saudita, Trump ha ricevuto un'accoglienza regale e ha incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman. Nel palazzo reale saudita ha incontrato a sorpresa il nuovo presidente siriano Mohammed al-Joulani, un incontro che ha suscitato scalpore in tutto il mondo. “È davvero meraviglioso ed energico. Un ragazzo giovane e attraente, un vero leader con il potenziale per fare cose meravigliose”, ha detto Trump dopo l'incontro con il leader ribelle sunnita al-Joulani. Inoltre, Trump gli ha proposto di aderire agli accordi di Abraham e di fare pace con Israele. È stato il primo incontro tra un presidente degli Stati Uniti e un capo di Stato siriano in 25 anni e ha fatto seguito all'annuncio di Trump di revocare le sanzioni contro la Siria, nonostante la richiesta del primo ministro Netanyahu di non farlo. Al-Joulani è stato una figura chiave in organizzazioni islamiche radicali come Al-Qaeda e l'ISIS.
La Bibbia parla in Isaia 5,20 di un tempo in cui «il male sarà chiamato bene e il bene sarà chiamato male». La disponibilità di Trump a cooperare con forze islamiche radicali per raggiungere obiettivi strategici a breve termine mostra un ordine mondiale in decadenza morale. In questi giorni Israele è stato messo in secondo piano e ora osserva come finirà il suo viaggio in Medio Oriente. Infine, Israele vuole lanciare la sua offensiva terrestre nella Striscia di Gaza dopo la visita di Trump nella regione. Ma diciamoci la verità: ciò che oggi sembra politicamente emarginato, domani potrebbe diventare il centro della “storia della salvezza”.
Trump vuole trasformare la Striscia di Gaza da regione in crisi a zona economica con potenziale turistico. Dietro a questo c'è un pensiero classico: risolvere i problemi attraverso i mercati, creare sicurezza attraverso accordi. Ma ciò che manca è una bussola morale. I piani di reinsediamento, le fantasie economiche e gli scambi politici ignorano il dramma umano e la dimensione spirituale del conflitto. In precedenza aveva annunciato di voler aprire “le porte dell'inferno”, ma poi è passato improvvisamente alla diplomazia. Ha quindi proposto di “ripulire” Gaza e di reinsediare 1,5 milioni di palestinesi in Giordania e in Egitto. Già nel novembre 2024 Trump aveva dichiarato che la guerra sarebbe finita entro il suo insediamento e che gli ostaggi sarebbero stati restituiti. In caso contrario, aveva minacciato di aprire “le porte dell'inferno” su Hamas. In realtà, ciò non è accaduto. Sebbene alcuni ostaggi siano stati liberati grazie a un accordo, 58 rimangono ancora prigionieri, vivi o morti.
Trump ha promesso che “l'Iran non avrà mai armi nucleari”, ma ora sta negoziando un nuovo accordo nucleare che lascia spazio all'arricchimento dell'uranio per scopi civili. Allo stesso tempo, ha annunciato un cessate il fuoco con gli Houthi nello Yemen, senza previa consultazione con Israele, mentre gli Houthi continuano a lanciare missili contro Israele. In Israele ci si è nuovamente mostrati sorpresi dall'azione degli Stati Uniti, che vengono sempre più percepiti non come un partner, ma come un osservatore esterno. Le promesse di Trump hanno suscitato grandi speranze in molti israeliani, ma la realtà è ben diversa. La sua attuale visita in Medio Oriente sembra un grande successo diplomatico per i vicini di Israele, ma Israele stesso rimane escluso.
Nei media religiosi del Paese, alcuni hanno ricordato le parole del profeta Zaccaria (capitolo 2), che disse:
«Io stesso, dice il Signore, sarò per essa (Israele) una muraglia di fuoco e gloria in mezzo a lei».
Con ciò hanno lanciato un segnale chiaro: la sicurezza di Israele non è garantita da Washington, ma da Dio stesso. È sempre interessante leggere come i media israeliani riprendono queste idee e promesse bibliche nella realtà.
Le forze politiche di questo mondo si comportano spesso, in termini biblici, come Babilonia: grandi, influenti, ma alla fine effimere. Sion, invece, rappresenta l'eterno, l'immutabile nel piano di Dio. Anche se nella logica geopolitica delle nazioni Israele sembra una pedina, nella prospettiva divina rimane il luogo centrale della sua opera. La lealtà di Dio verso Israele non dipende da alleanze diplomatiche.
L'attuale visita di Donald Trump in Medio Oriente può sembrare agli occhi del mondo un successo strategico, ma per Israele è piuttosto una lezione di vigilanza spirituale.
(Israel Heute, 15 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I discendenti degli ebrei bussano alle porte di Israele
Il 7 ottobre: una svolta per il futuro ebraico?
di Rav Scialom Bahbout
Il Calendario ebraico è caratterizzato dal fatto che ogni giorno e ogni festa fanno parte di un insieme in cui specialmente le feste sono tutte in relazione tra loro. Inoltre ogni festa va vissuta anno per anno con il tempo in cui cade, attualizzandone così il significato. Passate un paio di generazioni dall’evento che intendono ricordare, le feste di natura nazionale finiscono per perdere il loro significato: questo varrebbe anche per le feste cosiddette “religiose”, se non le festeggiassimo come se parlassero a noi stessi in ogni momento. Vediamo che influenza ha questo discorso sulla festa di Yom Atzmaut.
Innanzi tutto quest’anno il periodo in cui cade la festa è nel mezzo di un’aggressione che si propone letteralmente di voler cancellare Israele e il Popolo ebraico, contestando il diritto di Israele ad avere una patria come tutti i popoli: questo progetto è stato enunciato altre volte nella storia, ma in virtù del patto stabilito tra Israele e il Signore, non ha mai sortito l’effetto voluto dai nemici di Israele.Alcune date rappresentano momenti in cui la storia ebraica cambia passo: il 9 di Av del 70 EV e il 9 di Av del 1492, con la deportazione degli imperatori romani prima e poi con la cacciata degli ebrei dalla Spagna e dai territori sotto il dominio spagnolo, hanno costretto il popolo ebraico a prendere decisioni che ne hanno rilanciato il ruolo nella storia dell’umanità. Penso che qualcosa del genere dovrebbe accadere per quanto accaduto il 7 ottobre 2023, giorno in cui gli ebrei festeggiavano la Torà.
La distruzione del Tempio di Gerusalemme ha costretto il popolo ebraico non solo all’esilio, ma a una rivoluzione di tutta la liturgia: la mancanza dei sacrifici al Tempio ha costretto i rabbini del tempo ad escogitare altri modi per riempire il vuoto creato dal Tempio distrutto: anche se le preghiere esistevano già da tempo, il loro ruolo e il modo di porsi di fronte all’osservanza della Torà doveva cambiare profondamente.
L’esilio cui fu costretto il popolo ebraico in tutto il bacino mediterraneo poneva gli ebrei a contatto diretto con popoli che avevano religioni e usanze diverse con cui confrontarsi: il rapporto con il Divino diveniva più problematico (qual è il messaggio che D. vuole inviarci?): l’ebraismo nel mondo romano si era sviluppato tra i pagani che si avvicinarono alle idee ebraiche, tanto che non mancarono casi di conversione volontaria. Tuttavia, a parte le idee sul Monoteismo espresse in quella che è conosciuta come La religione dei discendenti di Noè, il mancato uso di immagini e la circoncisione erano un ostacolo non indifferente che il Cristianesimo risolse eliminandoli. Il Cristianesimo, proclamato religione di Stato da Costantino, fu certamente agevolato dal “lavoro” fatto dagli ebrei e dall’ebraismo, che aveva degli standard di adesione più impegnativi.
La distruzione del Tempio fu un momento di grande cambiamento, così come fu la Cacciata da Spagna nel 1492 che portò allo sviluppo della Halakhà (Rabbi Yosef Caro) e della Kabbalà, entrambe sviluppatesi a Safed nella terra da cui gli ebrei erano stati deportati.
Il dilemma di fronte al quale si trovarono quella generazione e quelle immediatamente successive, era quale potesse essere il senso di un avvenimento così drammatico, quando il popolo ebraico aveva dimostrato per tanti secoli la sua fedeltà al Patto, superando massacri e persecuzioni, da parte sia dei Cristiani che dei musulmani, cosa significa tutto ciò per l’osservanza dei precetti: è il momento in cui si sviluppa la Kabbalà a Safed in Israele, dove una parte degli ebrei cercò immediatamente rifugio. Le risposte non potevano venire dal mondo visibile, ma da un mondo che era al di là della realtà quotidiana. E’ il momento dello sviluppo della Kabbalà di Rabbi Itzchak Luria, che influenzò anche il Chassidismo: Ghershom Scholem sostiene che anche il Sionismo può essere visto come una delle conseguenze più tarde della Cacciata.
Gli ebrei di Spagna si mossero per tornare alla Terra d’Israele, anche se molti si fermarono per strada. Ma le persecuzioni raggiunsero ancora una volta gli ebrei, nei paesi in cui avevano trovato temporaneamente rifugio, per lo più i paesi conquistati dall’Islam. Un’accoglienza particolare trovarono da parte di Solimano il Magnifico in Turchia, in particolare per la loro capacità di attirare nuovi commerci. La grande commerciante Dona Gracia Mendez – stufa di essere costretta a continue migrazioni – chiese e ottenne a pagamento un territorio vicino a Tiberiade, dove creare una Comunità ebraica indipendente.
I secoli dal 16° al 19° furono secoli di persecuzioni ovunque gli ebrei cercarono di rifarsi una vita. L’evento che cambiò le cose fu questa volta il Processo Dreyfus, accaduto proprio nella società che predicava Libertè egalitè fraternitè: era il momento di cambiare strategia e continuare il viaggio verso la Terra promessa che era rimasta nei loro cuori e dalla quale erano stati deportati secoli prima.
La partecipazione degli ebrei ai movimenti di liberazione non aveva avuto alcun effetto: gli ebrei rimanevano comunque diversi e non aventi diritto a esprimere la propria diversità. La storia degli ultimi 150 anni è nota e troppo recente per essere raccontata. Il mondo dei Gentili aveva negato agli ebrei il diritto alla diversità.
Cosa avverrà oggi dopo il 7 Ottobre?
Proprio quando gli ebrei si erano illusi di avere superato l’antisemitismo, l’odio antiebraico che si esprime contro gli ebrei e Israele ha nuovamente rimesso in moto la storia ebraica. Paradossalmente molti tra i discendenti che erano stati indotti ad abbandonare l’Ebraismo, stanno cercando oggi di ritrovare la strada per tornare alle proprie radici. Da tempo era stata attivata la creazione di una Commissione che studiasse il fenomeno in vari paesi del Mondo (Europa, Asia, America, Africa ed Australia) ed è arrivata a delle conclusioni molto interessanti.
Esiste una popolazione di circa 12 -15 milioni di persone che hanno origini ebraiche e, fra esse, molte desiderano tornare all’ Ebraismo e addirittura alla Terra Promessa: almeno un milione e mezzo ha origini ebraiche molto chiare e desidera fare un percorso per tornare alle proprie radici, osservando le tradizioni ebraiche e tornare in ultima analisi al luogo dal quale i propri avi erano stati deportati.
Tra i gruppi che hanno intrapreso e portato almeno in parte a termine questo processo ci sono i Benè Menashè (dall’India orientale) e i Falashmura (dall’Etiopia), convertiti al cristianesimo e ora tornati all’ebraismo. Accanto al desiderio di recuperare le passate radici, non c’è dubbio che gioca un ruolo importante l’immagine di Israele, un paese in grande sviluppo, fondato anche con lo scopo di recuperare quelle parti del popolo ebraico che si erano disperse. Monitorare questo fenomeno è molto importante: non si tratta di creare un “secondo popolo ebraico”, ma di permettere a chi è veramente interessato ad affermare la propria identità, a tornare a riunirsi a quella parte del popolo ebraico che ha resistito a tutte le deportazioni, le cacciate e le persecuzioni.
Lo Stato d’Israele, assieme a una diaspora forte culturalmente e con una identità chiara, fondata sul passato e proiettata verso il futuro, può dare delle garanzie che il fenomeno venga in qualche modo guidato e condotto verso approdi sicuri.
Non è un caso che il brano profetico scelto per la lettura del giorno di Yom Azmaut comprende la profezia di Isaia che proclama che in quel giorno il Signore di nuovo alzerà la sua mano per riscattare il residuo del suo popolo… innalzerà il vessillo ai popoli e radunerà gli esuli di Israele e raccoglierà i dispersi di Giuda (Isaia 11.11 e seguenti).
(Kolòt - Morashà, 14 maggio 2025)
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L’Europa “snobba” l’emergenza antisemitismo? Non la ritiene una priorità
L’Europa “snobba” l’emergenza antisemitismo. Secondo una ricerca, l’82 percento degli intervistati non la ritiene una priorità. Fra questi, il 20 percento critica il mondo ebraico nella guerra fra Israele e Hamas
di Roberto Zadik
Cresce l’antisemitismo ma, in un recente sondaggio, per la maggioranza degli europei interpellati questo non sarebbe un problema rilevante. Martedì 13 maggio il Times of Israel ha pubblicato gli sconvolgenti risultati di una indagine condotta dall’Associazione Ebraica Europea (EJA), in ben sei Paesi, Regno Unito, Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Spagna.
Lo studio rivela che, su 4.400 interpellati, l’82 percento non consideri prioritaria la lotta all’antisemitismo ed il 20 percento addirittura accusi gli ebrei locali di eccesso di vicinanza allo Stato ebraico, riguardo al confitto fra Israele e Hamas, “nonostante”, come evidenzia l’articolo, “lo Stato ebraico disti migliaia di chilometri” dalle nazioni interpellate.
Autore della ricerca è Juan Soto, importante esperto dell’IPSOS e delle migrazioni, che a Madrid ha presentato l’indagine alla conferenza annuale dell’Associazione Ebraica Europea. Commentando i dati riscontrati, il presidente dell’EJA, il Rabbino
Menachem Margolin, ha equiparato l’antisemitismo e l’antisionismo che, come ha evidenziato, “appartengono alla stessa moneta” aggiungendo che “l’Europa ha importato l’odio da fuori aggiungendolo a quello già preesistente e la maggioranza dei politici, dei rettori universitari e dei media europei evitano di affrontare questo argomento”.
La ricerca ha sottolineato la
preoccupante “normalizzazione” dell’antisemitismo fra gli appartenenti alle nuove generazioni e che oltre il 28 percento dei giovani europei interpellati, di età fra i diciotto e i ventiquattro anni, è stato coinvolto in commenti antisemiti “camuffati” da critiche ad Israele. Come ha affermato il 65 percento degli europei,
il conflitto in Medio Oriente ha influito grandemente riguardo alla percezione degli ebrei, da parte del mondo non ebraico, addirittura peggiorandone di molto l’immagine secondo il 55 percento degli interpellati.
In conclusione
l’EJA ha invitato i governi, le università e le istituzioni a prendere provvedimenti decisivi, inserendo, fra i reati punibili penalmente, i crimini di odio e l’incitamento via web dell’antisemitismo e a rafforzare maggiormente la protezione delle comunità ebraiche europee. Come ha ricordato il Rabbino Margolin “L’avanzare dell’antisemitismo sta lacerando l’Europa e anche se noi ebrei, nell’Unione europea, siamo i primi a soffrirne non saremo gli unici nel mondo.
L’Europa deve agire ora per tutelare i suoi valori proteggendo i suoi ebrei”.
(Bet Magazine Mosaico, 15 maggio 2025)
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Andava in ospedale per partorire, i terroristi la uccidono
di Michelle Zarfati
Una donna israeliana incinta, Tzeela Gez, è stata uccisa mercoledì sera in un attacco terroristico a colpi d’arma da fuoco mentre andava in ospedale per partorire. Madre di tre figli e consulente in ambito psichiatrico, stava viaggiando con il marito lungo la Strada 466, tra le comunità di Bruchin e Peduel, nel nord della Cisgiordania, quando un terrorista ha aperto il fuoco contro la loro auto.
Gravemente ferita, Gez è stata trasportata d’urgenza al Rabin Medical Center di Petah Tikva, dove i medici hanno eseguito un cesareo d’emergenza per salvare il bambino. Nonostante gli sforzi, la donna è deceduta a causa delle ferite riportate. Il neonato, in condizioni critiche ma stabili, è stato trasferito all’ospedale pediatrico Schneider, dove è sottoposto a cure intensive. Il marito di Gez ha riportato ferite lievi nell’attacco. Le forze di sicurezza israeliane hanno avviato una vasta operazione di ricerca per individuare l’attentatore, impiegando truppe e posti di blocco nella zona.
Yossi Dagan, capo del Consiglio Regionale della Samaria, ha descritto Gez come “una donna devota e sorridente che desiderava solo una vita tranquilla ed è stata assassinata mentre portava una nuova vita nel mondo”. Ha inoltre sollecitato una risposta più decisa da parte delle autorità per prevenire ulteriori attacchi nella regione. Questo tragico evento evidenzia la vulnerabilità dei civili in aree soggette a tensioni e conflitti, sottolineando l’urgenza di misure efficaci per garantire la sicurezza e la protezione della popolazione locale.
(Shalom, 15 maggio 2025)
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Israele compie 77 anni. Mazal tov!
di Ugo Volli
• La cerimonia
Erano le quattro di pomeriggio del 14 maggio 1948, in data ebraica il 5 del mese di Iyar 5708. La sala al piano terra del vecchio museo d’arte contemporanea di Tel Aviv in Boulevard Rotschild 16, che era stata la villa del mitico sindaco Meir Dizengoff, era strapiena: duecentocinquanta persone, quasi tutte vestite di scuro, in giacca camicia bianca e cravatta, contro tutte le abitudini dell’Yishuv, l’insediamento ebraico in Terra di Israele. Sul palco in fondo alla sala c’erano 25 membri del comitato esecutivo dell’Agenzia Ebraica (Moetz HaAm, il governo de facto dell’Yishuv), mentre gli altri 12 erano bloccati all’estero o assediati a Gerusalemme. Sulla parete sopra a loro, una grande fotografia di Herzl e due bandiere del nuovo Stato. Ben Gurion aprì la riunione battendo il martelletto sul tavolo, ed i presenti intonarono l’ Hatiqvah. La lettura di Ben Gurion della dichiarazione durò 16 minuti, e si concluse con la clausola: “Chi accetta la dichiarazione della fondazione dello Stato ebraico ora si alzi”. L’accettazione fu unanime. Contro le abitudini delle riunioni dall’Agenzia era presente anche un rabbino, rav Fishman, che pronunciò la benedizione “Sheheheyanu”, quella che si usa per le novità positive. La cerimonia continuò con l’inno eseguito dall’Orchestra filarmonica di Israele e Ben Gurion la concluse annunciando: «Lo Stato d’Israele è istituito! Questo incontro è aggiornato!». Non c’era tempo da perdere in festeggiamenti, la guerra civile con gli arabi era in corso da sei mesi e già si sapeva che il giorno dopo gli eserciti dei sei stati arabi avrebbero invaso il piccolo territorio tenuto dall’Yishuv.
• Il compleanno
Oggi è la giornata che segna il settantasettesimo compleanno di Israele: è un’età ormai ragguardevole anche per uno Stato (ce n’è di molto più vecchi come la Gran Bretagna e la Cina; ma tanti anche più giovani, almeno come istituzioni riconosciute). I festeggiamenti in Israele erano previsti per la data ebraica, quest’anno caduta il 1° maggio, con vigilia il 30 aprile, con le limitazioni imposte dalla guerra in corso e con l’annullamento imposto dagli incendi che hanno devastato ampi territori.
• Un gesto di straordinario coraggio
Quando Ben Gurion decise di forzare la mano ai dirigenti dell’Yishuv e di proclamare l’indipendenza, erano passati quasi 19 secoli dalla caduta di Gerusalemme e dell’ultima autonomia ebraica. C’era stata la profezia di Herzl e ottant’anni di immigrati che avevano provato a far fruttare la terra, la lingua era tornata viva, c’erano le scuole e le università, l’amministrazione e una inizio di esercito, insomma l’intelaiatura dello Stato; ma fu un gesto di straordinario coraggio. Erano contrari gli europei e in particolare la Gran Bretagna, ma anche il Dipartimento di Stato americano (non Truman per fortuna). E anche dentro il mondo ebraico molti consideravano avventata la proclamazione dello Stato: la maggioranza dei charedim, ma anche ebrei progressisti come Hannah Arendt e Leon Magnes (fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme) fecero campagna contro l’indipendenza; Martin Buber si era espresso contro e perfino Chaim Weizmann era perplesso. Gli eserciti arabi, almeno sulla carta, erano assai più forti e organizzati di quello del neonato Israele, cui mancava quasi tutto. L’appoggio dell’Urss era solo tattico, inteso a creare problemi all’Occidente, come si sarebbe visto presto. L’economia, retta dal volontaristico sistema dei kibbutz, zoppicava.
• Lo straordinario progresso e le speranze
Ma il miracolo avvenne, Israele superò la guerra, vinse, crebbe, resistette ad altre guerre e al terrorismo, riuscì a produrre un sistema politico, economico, scientifico e civile di straordinaria efficacia, anche grazie alla sua capacità di cambiare: di passare dalla camicia di forza di una specie di socialismo non politicamente oppressivo ma molto burocratico a un capitalismo tecnologico fra i più avanzati al mondo; di integrare un milione e passa di immigrati dall’Unione Sovietica e altri dall’Etiopia, dallo Yemen, da tutto il mondo; di liquidare il predominio politico della sinistra e di superare anche errori come la ricerca di compromessi con il terrorismo nel nome della “pace”. La scommessa di Ben Gurion è stato forse il maggior successo politico del XX secolo. Da alcuni anni il motore politico e istituzionale di questo progresso sembra però essersi inceppato. Le elezioni a ripetizione; l’incapacità di costruire maggioranze stabili; l’odio per Netanyahu che ha bloccato a lungo l’attuazione delle scelte chiaramente di centrodestra dell’elettorato; poi la lunga e astiosa guerriglia di piazza contro il progetto parlamentare legittimo della riforma giudiziaria, che ha proiettato un’immagine indebolita dello Stato e dell’esercito dando ai nemici di Israele, Iran in testa, l’illusione di poter prevalere; il conseguente barbaro pogrom del 7 ottobre; la difficoltà di condurre la guerra anche contro le resistenze degli alleati riluttanti a permettere a Israele di sconfiggere il terrorismo: tutti questi problemi hanno suscitato turbamento e pessimismo. Ma forse proprio la guerra sta obbligando gli israeliani a cementare una nuova unità e una nuova speranza. Oggi che è il compleanno di Israele tutti gli ebrei del mondo e i loro amici sentono nel cuore l’urgenza di augurare lunga vita allo Stato ebraico e, perché essa sia raggiunta in concordia, fratellanza… e pazienza. Come si dice in ebraico: mazal tov, buona stella
(Shalom, 14 maggio 2025)
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Rabbini e studiosi ricordano rav Laras
di Adam Smulevich
ROMA - A sette anni e mezzo dalla morte, l’eredità morale di Giuseppe Laras (1935-2017) vive nei suoi scritti, nelle sue riflessioni, nei suoi moniti. Tutti concordi su questo punto i relatori che hanno illuminato da diverse prospettive la vita di uno dei più importanti rabbini italiani, prendendo parte alla presentazione del numero speciale della Rassegna Mensile di Israel in suo onore nei locali della Biblioteca Nazionale dell’Ebraismo Italiano a Roma.
Il Maestro, lo studioso, l’uomo del Dialogo. La pubblicazione, curata dai rabbini Gianfranco Di Segni, Angelo M. Piattelli e Amedeo Spagnoletto, affronta varie sfaccettature del suo magistero e include il testamento spirituale redatto dallo stesso rav a malattia in grave fase di avanzamento.
«Mi sono riletta una sua riflessione del 2016 sul terrorismo islamico e la coscienza nazionale distratta. Sembra di leggere la cronaca di oggi», ha dichiarato la presidente Ucei Noemi Di Segni, segnalando l’attualità dei pensieri e dei suggerimenti del rav qualunque argomento trattasse. Dal modo in cui gestire i rapporti con la Chiesa e l’Islam «all’uso e abuso del tema della Shoah», passando per la proiezione futura delle Comunità «con una demografia molto ridotta». A ricordarne «la varietà degli interessi» era stato in precedenza Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, soffermatosi in particolare su alcuni nodi del Dialogo interreligioso e su un incontro nel quale nel 2009 fu a fianco di Laras, allora presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, per dirimere una controversia con la gerarchia ecclesiastica dopo il ripristino da parte di papa Benedetto XVI della preghiera del Venerdì Santo sulla “conversione” degli ebrei. Uno spunto per riflettere sullo stato dell’arte del Dialogo allora e al tempo presente, soprattutto dopo «il peggioramento» delle relazioni post 7 ottobre. «Oggi», ha dichiarato Di Segni, che domenica sarà all’insediamento di Leone XIV, «assistiamo a una interessante fase di transizione; davanti a noi c’è una incognita, con molta attenzione e cautela vedremo quel che succede».
• La “sua” Milano del dialogo
Per quanto riguarda il dialogo, non soltanto interreligioso, Gavriel Levi (Università La Sapienza di Roma) ha spiegato che per Laras «la cosa più importante era “l’amore per Israele”, che includeva l’amore per l’essere umano». Da Laras, ha poi aggiunto Levi, «credo di aver imparato che è ebreo chi non respinge un altro ebreo». Come ha poi testimoniato Massimo Giuliani (Università di Trento), «soprattutto negli ultimi decenni Laras è stato molto generoso con le collaborazioni con riviste cattoliche e ha tenuto anche una rubrica settimanale su Avvenire: quello era il clima di Milano negli anni Novanta». Ha tra gli altri tessuto le lodi del numero speciale della Rassegna, l’ultimo sotto la direzione di Gianfranco Di Segni, di cui si è da poco concluso il mandato, l’attuale co-direttrice Myriam Silvera. «È un numero molto bello», ha affermato, «perché risponde a due criteri: è animato da sinceri sentimenti di affetto e parla linguaggi diversi, seguendo i diversi interessi di Laras». Tanti gli stimoli dai quali prendere spunto anche per Giorgio Segré, consigliere della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia, che ha ricordato la preoccupazione del rav «per il ritualismo del Giorno della Memoria, tema di cui tratta nel volume la figlia Yardena» e il suo pensiero sulla pace «come concetto concreto, pratico e dinamico».
(moked, 14 maggio 2025)
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Un riscattatore per Rut
È dal modo in cui Dio agisce con il suo popolo che possiamo riconoscerlo. È questa l'esperienza che ha fatto Rut, una straniera, ai tempi della Bibbia.
di Samuel Hänsch *
Nella vita quotidiana ci sono molte cose da sbrigare. Ci sono compiti da portare a termine. Le pillole vanno sciolte nell'acqua. La sentinella viene sostituita. Nei giochi di avventura bisogna decifrare il codice o trovare la soluzione giusta. Per curare una malattia occorre trovare il principio attivo giusto.
Il personaggio biblico Rut riconobbe in Boaz il riscattatore. È interessante notare che Boaz non fu il primo riscattatore. Lui arrivò solo come secondo (Rut 3,12). Nel secondo capitolo del libro di Rut, che racconta gli eventi di una giornata, leggiamo per la prima volta di un incontro tra i due.
Boaz, della tribù di Giuda, amministra i campi e discute con i suoi dipendenti, tra cui il responsabile del lavoro nei campi. Rut sta raccogliendo spighe nel campo, e nel corso dell'incontro e della conversazione le vengono garantite diverse “agevolazioni lavorative”. Così può fare una pausa, mangiare e bere, e raccogliere dove è più facile per lei.
Rut è moabita ed è tornata a Betlemme, in Giudea, Israele, come vedova, con Naomi sua suocera. Sebbene Naomi le chieda ripetutamente di rimanere in Moab, Rut decide di andare con lei. Rut dice alla suocera : “Dove andrai tu, andrò anch'io; dove starai, starò anch'io; il tuo popolo è il mio popolo, il tuo Dio è il mio Dio!” (Rut 1,16).
Allora Boaz le chiede: «Chi sei tu?». «Sono Rut, tua serva. Spiega le tue ali sulla tua serva, perché tu sei il mio riscattatore», risponde lei.
Questa è la professione di fede di Rut. Lei professa la sua fede nel popolo d'Israele e nel Dio d'Israele. L'ordine è interessante. Prima viene il popolo d'Israele. Lei aveva conosciuto una famiglia ebrea: Naomi con suo marito Elimelech e i figli della tribù di Giuda. Attraverso di loro Rut aveva acquisito familiarità con aspetti quali la lingua, la cultura, la fede e la vita. Adesso, in un secondo momento, professa la sua fede nel Dio d'Israele.
Nella Torà è previsto il caso in cui un uomo muore e la moglie rimane vedova senza figli. In tal caso, il fratello del defunto deve sposarla e generare figli con lei. I figli sarebbero stati considerati legalmente discendenti del marito defunto, anche se biologicamente sarebbero rimasti figli del secondo marito. Nel libro di Rut l'attenzione è focalizzata altrove. Si tratta della questione: chi ottiene l'eredità (la terra) e quale ordine di acquisto deve essere rispettato?
Rut è attiva, agisce. Esorta Boaz a prendere l'iniziativa. Boaz era molto più anziano di lei, poiché la chiama “figlia mia” (Rut 2,8; 3,10). Fino a quel momento Boaz si era tenuto in disparte. Ora è il suo turno. Lei trasferisce la responsabilità a Boaz. «È il tuo turno». Quando si gioca si dice: «Tocca a te». Ci possono essere azioni molto diverse: tirare i dadi, pescare una carta o compiere un'azione. Una cosa è chiara: adesso Boaz deve agire. Il «cosa» e il «come» spettano a lui.
• Cosa possiamo imparare da questo?
Rut riconosce il Dio d'Israele attraverso la conoscenza del popolo d'Israele. E’ dal modo in cui Dio agisce con il suo popolo che possiamo riconoscere Dio.
Rut è menzionata insieme ad altre donne non ebree nell'albero genealogico del Messia Gesù nel Nuovo Testamento (Matteo 1). Dio include i popoli non ebrei nella salvezza attraverso il suo Messia. La madre di Boaz era Rahab, una prostituta. Gli antenati di Rut discendono da una relazione incestuosa tra Lot e sua figlia. Nonostante questo background immorale, l'eterno Dio include tutti loro nell'albero genealogico del Messia Yeshua/Gesù. Quanto è grande Dio, che può usare tali “cose” per inviarci il Salvatore e redimerci, noi esseri umani, con tutti i nostri peccati!
- * Samuel Hänsch è laureato in chimica (FH). Lavora a tempo pieno come assistente di direzione e relatore presso l'associazione Sächsische Israelfreunde e.V. (Amici sassoni di Israele).
(Israelnetz, 14 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele dovrà rinunciare a parti di Giudea e Samaria per i rapporti con l’Arabia Saudita?
di Maayan Hoffman
La visita del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Arabia Saudita ha scatenato speculazioni sul fatto che potrebbe fare un cenno in direzione della statualità palestinese in Giudea e Samaria, proprio mentre il Primo Ministro Benjamin Netanyahu sembra rilanciare la possibilità di sovranità israeliana su porzioni di quel territorio.
Parlando domenica davanti a un comitato a porte chiuse della Knesset, fonti interne hanno riferito che Netanyahu ha detto che Israele potrebbe annettere il 30% della Giudea e della Samaria nel prossimo futuro, mentre concederebbe l’autonomia all’Autorità Palestinese in altre parti della regione, note come Aree A e B.
“Ma deve esserci un pieno controllo di sicurezza israeliano su tutto il territorio”, ha detto Netanyahu, sottolineando che non ci sarà uno Stato palestinese.
Le Aree A e B sono già parzialmente amministrate dall’Autorità Palestinese (AP). Esse comprendono anche diversi siti biblici chiave venerati da ebrei e cristiani, come la Grotta dei Patriarchi, la Tomba di Rachele e la Tomba di Giuseppe.
Nadia Matar, co-presidente del Movimento per la sovranità, ha dichiarato che le tensioni segnalate tra Netanyahu e Trump derivano da disaccordi sulla normalizzazione con l’Arabia Saudita. Secondo Matar, Trump ha detto a Netanyahu che se Israele vuole la pace, deve almeno “in teoria” accettare uno Stato palestinese, e ha chiesto a Netanyahu di farlo.
“Ma Netanyahu capisce il Medio Oriente più di Trump, e capisce che se un politico della sua levatura è d’accordo – anche in teoria, sulla carta – potrebbe diventare realtà in qualsiasi momento”, ha detto Matar.
Durante il suo primo mandato, Trump stesso ha proposto un piano di pace noto come “Deal of the Century”, che avrebbe permesso a Israele di applicare la sovranità al 30% della Giudea e della Samaria. Quel piano fu accantonato a favore degli Accordi di Abraham, una serie storica di accordi di normalizzazione con le nazioni arabe, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco.
Ora, con Trump di nuovo alla Casa Bianca e i sostenitori cristiani sionisti/evangelici di lunga data – tra cui il neo-ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee – che appoggiano pubblicamente la sovranità ebraica sul cuore biblico, i coloni israeliani sperano che il loro momento sia tornato.
Ma una domanda centrale incombe: se Trump farà di un accordo con l’Arabia Saudita la sua massima priorità, la sovranità sarà nuovamente accantonata?
Trump si è mostrato ottimista riguardo all’adesione dell’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo.
“Succederà”, ha dichiarato il mese scorso alla rivista Time.
Sebbene abbia previsto che la normalizzazione avverrà “molto rapidamente”, alcuni rapporti suggeriscono che Trump abbia abbandonato la pace con Israele come requisito per il sostegno degli Stati Uniti alle ambizioni nucleari civili dell’Arabia Saudita e ad altri accordi economici, suggerendo che la normalizzazione con Israele potrebbe non essere imminente.
Durante il fine settimana, le voci secondo cui, mentre si trovava in Arabia Saudita, Trump avrebbe pianificato di riconoscere uno Stato palestinese che non includa Hamas sono state liquidate da Huckabee come “sciocchezze”.
“Il presidente non vede l’ora di intraprendere il suo storico ritorno in Medio Oriente” per promuovere una regione in cui “l’estremismo viene sconfitto [attraverso] il commercio e gli scambi culturali”, ha dichiarato venerdì la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt.
In effetti, Trump sembra essere in vantaggio con l’economia.
A marzo ha dichiarato che avrebbe visitato l’Arabia Saudita se questa si fosse impegnata a investire 1.000 miliardi di dollari negli Stati Uniti.
“Hanno accettato di farlo, quindi ci andrò”, ha detto.
Sebbene l’Arabia Saudita non abbia confermato tale cifra, a gennaio ha annunciato l’intenzione di incrementare il commercio e gli investimenti con gli Stati Uniti di 600 miliardi di dollari in quattro anni, e potenzialmente di più.
Tuttavia, si prevede che anche la sicurezza e la diplomazia avranno un ruolo di primo piano.
Secondo i media arabi, Trump dovrebbe incontrare il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman insieme al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, al presidente libanese Joseph Aoun e al leader de facto della Siria, Ahmed al-Sharaa.
Il quotidiano palestinese Al-Quds ha citato una fonte anonima secondo cui il principe ereditario saudita “attende con ansia che Trump accetti la condizione saudita di creare uno Stato palestinese”.
In precedenza Trump aveva affermato che l’Arabia Saudita non chiedeva più la statualità palestinese in cambio della normalizzazione con Israele, ma Riyadh ha smentito.
Poco prima del massacro di Hamas del 7 ottobre, che ha scatenato la guerra in corso in Israele e un’ondata di sentimenti anti-israeliani in tutto il mondo musulmano, l’amministrazione Biden sembrava vicina a finalizzare un accordo saudita che avrebbe incluso la normalizzazione tra Riyadh e Gerusalemme e un percorso verso la sovranità palestinese.
Secondo gli accordi di Abramo, Israele aveva accettato di congelare i piani di sovranità per quattro anni – una moratoria scaduta. Se tale clausola venisse inserita ora, significherebbe che la sovranità non potrebbe essere realizzata sotto Trump e Huckabee e potrebbe, quindi, essere ritardata indefinitamente.
I leader dei coloni stanno esortando Netanyahu a rifiutare qualsiasi accordo diplomatico che possa scaturire dalla visita di Trump, a meno che non includa la sovranità israeliana su almeno parti chiave della Giudea e della Samaria ed escluda qualsiasi promessa, anche solo teorica, di un futuro Stato palestinese.
Ma per molti esponenti della destra israeliana e dei leader dei coloni, anche il piano di sovranità di Trump del suo primo mandato non era abbastanza ambizioso. Lo hanno respinto allora e lo respingono oggi, così come l’Autorità Palestinese.
Questa settimana, il Movimento per la sovranità ha rilasciato una dichiarazione in cui invita il primo ministro a rimanere fermo, nonostante le crescenti pressioni politiche per accettare uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione con l’Arabia Saudita, anche se solo simbolica o dichiarativa.
“Uno Stato del genere non solo minerebbe l’esistenza di Israele, ma destabilizzerebbe anche la regione e servirebbe a dimostrare ad altre organizzazioni terroristiche in tutto il mondo che il terrorismo paga”, ha scritto il movimento. Hanno aggiunto che questa posizione riflette “la stragrande maggioranza del popolo di Israele”.
Il rappresentante del movimento, Matar, ha sostenuto che Israele dovrebbe applicare immediatamente la piena sovranità su tutta la Giudea e la Samaria, così come sulla Valle del Giordano.
“Ora è il momento, mentre alcune persone stanno ancora promuovendo uno Stato palestinese, di fermarlo una volta per tutte”, ha detto. “Questa terra è nostra. Non c’è vittoria migliore in questa guerra che applicare la sovranità”.
Matar ha aggiunto che se l’Arabia Saudita vuole davvero la normalizzazione, “la nostra condizione è solo dopo aver applicato la sovranità”.
Alcuni leader dei coloni sostengono che applicare la sovranità solo al 30% del territorio sarebbe un errore. Essi avvertono che così facendo potrebbe essere molto più difficile estendere la sovranità alle aree rimanenti in futuro.
Il movimento dei coloni conta su Huckabee e sulla comunità cristiana evangelica per sostenere la sua spinta alla sovranità. Diversi leader e organizzazioni cristiane di spicco hanno già esortato i funzionari statunitensi e i media cristiani a smettere di usare il termine “Cisgiordania” e a riferirsi invece all’area con i suoi nomi biblici – Giudea e Samaria – per rafforzare il profondo legame storico e religioso tra il popolo ebraico e la terra.
Inoltre, gli American Christian Leaders for Israel (ACLI), in occasione della convention dei National Religious Broadcasters (NRB) all’inizio di quest’anno, hanno firmato una risoluzione che riafferma il diritto del popolo ebraico alla Giudea e alla Samaria e l’importanza della sovranità ebraica sulla regione.
Tuttavia, come si è visto durante la firma degli Accordi di Abramo nel 2020, il sostegno dei sionisti cristiani all’“Israele biblico” si è talvolta spostato verso il pragmatismo, favorendo la pace rispetto alle rivendicazioni territoriali. L’Ambasciata cristiana internazionale di Gerusalemme, ad esempio, sostiene da tempo che Israele detiene un diritto storico e legale alla Giudea e alla Samaria. Tuttavia, sottolinea che la decisione di estendere la legge israeliana in quel territorio è in ultima analisi una scelta che spetta a Israele.
I sostenitori cristiani ed ebrei fanno spesso riferimento a testi biblici, come quelli di Geremia, per giustificare le rivendicazioni ebraiche sulla terra.
Ma per la maggior parte dei cristiani, questi versetti sono profezie sulla fine dei giorni – l’era messianica – piuttosto che una direttiva politica per oggi. I leader evangelici hanno sottolineato che, sebbene la Bibbia prometta la piena eredità della terra, la priorità attuale dovrebbe essere un Israele sicuro, stabile e pacifico.
Ogni giorno, i cristiani evangelici di tutto il mondo pregano per la pace di Gerusalemme. Sono stati infatti i leader sionisti cristiani a contribuire all’avvio dei colloqui con gli Emirati Arabi Uniti nel 2018 che hanno gettato le basi per gli Accordi di Abramo.
Allo stesso tempo, non tutti gli israeliani sono allineati con il movimento per la sovranità. Questa settimana, la Coalition for Regional Security (Coalizione per la sicurezza regionale) – una rete di personalità pubbliche dei settori della sicurezza, della diplomazia, dell’economia e della ricerca formatasi dopo il 7 ottobre – ha lanciato un avvertimento: Israele deve muoversi rapidamente sulla normalizzazione o rischia di essere escluso da uno storico cambiamento regionale.
“Le notizie giunte dalla Casa Bianca nel fine settimana sono un campanello d’allarme per il governo israeliano, che deve intraprendere un’azione diplomatica urgente”, ha dichiarato la coalizione in un comunicato. Se continuiamo a esitare, saremo lasciati indietro”.
“Governo di Israele”, ha proseguito la dichiarazione, “questo è il momento di cogliere l’opportunità storica presentata dal Presidente Trump per cambiare il volto della regione – inizia con la restituzione di tutti gli ostaggi, la fine della guerra a Gaza, e include la sostituzione del dominio di Hamas nella Striscia, la firma di un accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita, e un percorso di separazione dai palestinesi come parte di un accordo regionale globale”.
“Salite subito sul treno regionale”, conclude la dichiarazione. “La storia non aspetterà”.
E non lo farà. La storia sta già bussando. La questione è se Israele dovrà scegliere tra la sovranità e la normalizzazione saudita o se potrà manovrare la situazione e raggiungere entrambi gli obiettivi.
Se sceglierà la normalizzazione, la sovranità potrebbe dover aspettare un futuro lontano, forse addirittura l’era messianica.
(Rights Reporter, 13 maggio 2025)
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Come in realtà è l’opposizione in Israele a mantenere al potere Netanyahu
Gli oppositori della coalizione chiedono continuamente: “Cosa trovate di buono in questo governo” e soprattutto: “Perché lo sostenete dopo il 7 ottobre?”. E io rispondo, in una parola: per colpa vostra.
di Kalman Liebskind
Molti dei miei amici, persone di sinistra/sostenitori dell’opposizione, mi chiedono con grande stupore, quasi quotidianamente: “Perché persone come te si stringono così attorno al Primo Ministro? Cosa trovate di buono in lui? E come potete sostenere un governo del genere? Non vi sembra, dopo quello che abbiamo passato il 7 ottobre, che sia giusto che concluda il suo mandato?“. Ebbene, fratelli miei di sinistra e chiunque si consideri avversario politico di questo governo, ciò che scriverò qui è dedicato a voi. Voi siete il pubblico al quale è diretto questo editoriale, e per cercare di aiutarvi a capire noi, persone di destra che nelle circostanze attuali non si affrettano a chiedere a Netanyahu di dimettersi e al governo israeliano di dimettersi anche dopo il grande disastro che abbiamo vissuto, cercherò di farvi fare una breve visita guidata nella nostra testa.
Prima di tutto, una breve premessa: non sono mai stato tra i sostenitori devoti di Benjamin Netanyahu. Riconosco i suoi vantaggi, riconosco i suoi difetti, in passato ho espresso molte critiche nei suoi confronti, e già circa cinque anni fa ho condiviso qui la mia sensazione di allora, cioè che fosse giunto il momento per lui di concludere il suo mandato.
Mi oppongo a molte decisioni del governo, ho mal di stomaco per molte delle dichiarazioni dei membri della coalizione di governo, sono disgustato dalla gioia per la zizzania e per le liti di troppe persone in esso, non mi piace il bisogno del Primo Ministro di scontrarsi con i suoi oppositori politici nei giorni in cui un grande pubblico del quale è responsabile è preoccupato per i figli mandati in battaglia. E se avesse chiesto a me, gli avrei consigliato da tempo di non aver paura di dire “mi ritengo responsabile”, e anche di andare ogni tanto negli insediamenti attorno a Gaza e parlare faccia a faccia con coloro che hanno vissuto l’incubo. Tutto questo, immagino, dovrebbe amplificare ancora di più la domanda “allora, perché non dire basta a tutto ciò?”.
Ebbene, inizierò la risposta a tutte queste domande con una citazione da quell’editoriale del 2020 in cui raccomandavo a Benjamin Netanyahu di dimettersi, un brano in cui presentavo il mio impegno personale sull’argomento. “Suppongo che alcuni lettori, specialmente nel campo dei sostenitori del Primo Ministro“, scrivevo allora, “vedranno nella richiesta a fatta a Netanyahu di lasciare il suo incarico una sorta di resa. Resa a una stampa che parla altezzosamente contro la provocazione, ma non esita a paragonarlo ad Adolf Hitler. Resa a giornalisti scioccati dai suoi attacchi alla procura e alla polizia loro che erano essi stessi i grandi critici della procura e della polizia, quando queste agivano contro Ehud Olmert. Resa allo stile di linguaggio aggressivo di persone come Bogi Ya’alon e Yair Golan, che una volta educavano soldati e oggi – in nome del senso dello stato – non smettono di sporcarsi la bocca. Resa a una condotta distorta della polizia e della procura“.
“E sì”, aggiunsi, “sento anche voci come quella di mio fratello e amico, Arel Segal, che mi spiega che se questa guerra diffamatoria e sleale contro Netanyahu dovesse vincere – cioè, con Netanyahu che torna a casa – questo sarebbe il destino di ogni primo ministro di destra, da oggi fino alla fine dei tempi. ‘Netanyahu è un simbolo’, mi spiega ripetutamente. Per i suoi oppositori, lui è ‘la destra‘”. “Dico onestamente”, ammettevo in quell’editoriale, “non sono sicuro di poter dire a Segal che si sbaglia”.
E inizio la risposta alle molte domande su Netanyahu e sul suo governo di proposito con questo scambio che ho avuto con Arel Segal, perché anche se si può continuare a discutere su sì o no a Netanyahu, è più difficile discutere della crescente rilevanza di quella sua affermazione di allora, che nella lotta contro Netanyahu e contro la sua coalizione c’è molto poco di oggettivo. Netanyahu è stato presentato come il cattivo quando è stato eletto nel 1996, ed è stato presentato come il cattivo in ogni campagna elettorale da allora. È stato presentato così prima della riforma giudiziaria, ed è stato presentato così dopo che questa è stata bloccata. È stato presentato così prima del 7 ottobre, ed è stato presentato così dopo il 7 ottobre. Benjamin Netanyahu non ha mai goduto di un solo momento di giudizio oggettivo delle sue azioni. I suoi oppositori, nella stampa e nella sinistra, lo hanno dipinto fin dal giorno in cui è entrato in politica come un nemico amaro e pericoloso, e da allora, ogni mattina, cambiano le affermazioni e le prove di questa idea.
E poiché parallelamente a Netanyahu, vengono presentati così anche gli altri rappresentanti dello schieramento nazionale, è chiaro che lui non è la problema. È semplicemente l’uomo a capo di tutto ciò che loro detestano. Se riassumiamo le cose in poche parole, prima di approfondire, il richiamo allo scioglimento del governo nelle circostanze attuali – di fronte a incitamento incessante, violenza per le strade, media ostili e unilaterali, leader dell’opposizione che con una mano propongono di arrendersi ad Hamas, e con l’altra minacciano di vendicarsi delle persone dello schieramento nazionale se torneranno al potere – è una questione che nessuna persona di destra ragionevole e logica pronuncerebbe.
Perché se riusciste a discuterne oggettivamente, e cercaste di convincere perché i difetti di Netanyahu superano i suoi meriti, e perché dopo così tanti anni è giunto il momento di provare qualcos’altro, potremmo avere una discussione e qua e là, per alcuni argomenti, anche essere d’accordo. Ma è proprio questo il punto. Voi non volete convincere che Netanyahu non dovrebbe continuare nel suo ruolo. Volete cacciarlo dal suo ruolo. Lui e i suoi partner. E lo fate in ogni modo possibile, senza linee rosse, quando persino lo smantellamento dell’esercito e l'invito ai soldati a non presentarsi alla riserva vi è sembrato legittimo per raggiungere questo obiettivo. E se c’è qualcosa che persone come me capiscono che non si deve permettere di vincere, è il modo in cui avete scelto di cercare di sostituire il governo eletto, e non meno importante – gli elettori di questo governo, moltissimi bravi cittadini israeliani la cui unica colpa è che pensano diversamente da voi.
• I negatori della legittimità
A tutti coloro che puntano il dito contro Netanyahu, dicendo “tu sei il capo, tu sei il colpevole“, e chiedono alla luce di ciò che abbiamo passato di andare alle elezioni, ho una sola domanda: supponiamo che Netanyahu esca da queste elezioni come il prossimo Primo Ministro, sarà un Primo Ministro legittimo, o continuerete a trattarlo come lo trattate oggi? Dopo le prossime elezioni, se le vincerà, smetterete di chiamarlo “traditore”?
Perché ammettiamolo: non avevate bisogno del 7 ottobre per negare la sua legittimità come Primo Ministro. E perché faccio questa domanda? Perché se per voi non può essere Primo Ministro, indipendentemente da ciò che pensano gli elettori – come ha onestamente dichiarato l’ex capo dello Shin Bet Nadav Argaman – allora cosa significa per voi l’idea delle elezioni democratiche? E qual è la differenza tra voi e quel bambino che continua a lanciare i dadi del gioco e non si ferma finché non cadono sul lato che gli conviene?
Sapete cosa? Supponiamo che Netanyahu se ne vada, e qualcun altro venga eletto al suo posto. Diciamo Yariv Levin. Con lui andate d’accordo? No, vero? Ha guidato la riforma, cioè il “colpo di stato”. Ok, lo togliamo. E Dudi Amsalem? E Yoav Kisch? E Miri Regev? E Shlomo Karhi? E Tally Gotliv? E Nissim Vaturi? E Nir Barkat? E Galit Distel Atbaryan? E Boaz Bismuth? Perché praticamente inseguite quasi tutti i membri di questa coalizione, che attualmente conta 68 membri della Knesset, per le strade e nei raduni e nei caffè, e li trattate come se non avessero legittimità. Quindi, potrebbe essere che non sia Netanyahu il problema ma chiunque il Likud scelga? In altre parole, potrebbe essere che il vostro problema non sia con il leader del Likud, ma con i suoi elettori e le loro preferenze?
• Le esclusioni di Gantz e Eisenkot
Chiedere a questo governo di andarsene, sullo sfondo del discorso attuale che si sta svolgendo qui nell’ultimo anno e mezzo, è una resa alla falsa narrativa che le persone dell’opposizione nei media, nelle strade e nella Knesset stanno cercando di instillare in tutto ciò che riguarda gli eventi del 7 ottobre. C’è una regola in Israele che esiste da anni e ruota attorno all’atteggiamento verso Benjamin Netanyahu. Se sei con lui – sei un cattivo, se sei contro di lui – sei un eroe. E così, Herzi Halevi, che era responsabile della protezione del confine in quel terribile mattino, si è congedato dall’IDF con un grande abbraccio. Ronen Bar, che non ha fornito l’allarme che avrebbe impedito il più grande massacro nella storia dello stato, è portato in trionfo dai sostenitori dei media ed è presentato come un combattente per la corretta amministrazione mentre si “aggrappa alle corna dell’altare“.
E Netanyahu? Lui è il capo, lui è il colpevole. Solo lui. È vero, non c’è dubbio che il Primo Ministro abbia responsabilità per tutto ciò che accade durante il suo mandato, ma Benjamin Netanyahu non doveva sorvegliare Yahya Sinwar di notte per sapere cosa stava pianificando, e nessuno si aspettava che arrivasse al kibbutz Be’eri la mattina di Simchat Torah per salvare le persone dal rifugio. Ma Herzi Halevi e Ronen Bar sì. E se dopo un terribile evento in cui lo Shin Bet non ha funzionato e l’IDF è scomparso come se non ci fosse stato, Benjamin Netanyahu è presentato nei media – che erano essi stessi i più grandi sostenitori dell’idea fissa errata – come l’unico cattivo del 7 ottobre, è chiaro che nulla in questa discussione è legato a equità e onestà.
E non è solo la storia di Netanyahu e del Likud. Guardate che mostri avete fatto diventare Bezalel Smotrich e Orit Strock. Questi due erano (quasi) gli unici nel sistema politico che hanno avvertito per anni del disastro imminente. Hanno avvertito quando Yitzhak Rabin ha portato un’organizzazione terroristica da Tunisi, l’ha armata, le ha dato un territorio, e ha sperato che finisse bene. Hanno avvertito quando Ariel Sharon ha deciso di fuggire dal terrore di Gaza, e con le sue stesse mani ha stabilito lì lo stato di Hamas. E hanno avvertito ripetutamente che l’unico modo per affrontare ciò che si stava sviluppando nella Striscia era con l’ingresso fisico delle forze dell’IDF e con le azioni aggressive del tipo che ora siamo costretti a fare, dopo aver vissuto ciò che abbiamo vissuto.
In una realtà sana, avremmo dovuto far considerare questi due un modello da seguire. Trattarli come profeti. Dichiarare che non c’è gabinetto al quale non partecipino. Perché mentre l’esercito, lo Shin Bet e i media sognavano ad occhi aperti e deridevano le loro concezioni, sono stati loro a identificare il pericolo. E cosa è successo in pratica? Invece di portarli in palmo di mano, Benny Gantz e Gadi Eisenkot, che erano immersi fino al collo nelle stesse idee fisse disastrose nelle quali era immerso anche Netanyahu, hanno dichiarato che si sarebbero uniti al governo a condizione che Smotrich (e Ben Gvir) non sedesse nel gabinetto di guerra; Yair Lapid ha annunciato che sarebbe stato disposto a unirsi solo se Smotrich avesse rinunciato al suo ministero; i media li presentano, lui e Strock, come due messianisti pericolosi – e a tutti questo sembra ragionevole.
E quando si vede tutto questo si capisce che il 7 ottobre non è la storia. Noi siamo la storia. Noi, cioè tutti quelli che hanno votato per tutte le persone che voi non amate. Voi non ci volete. Gli elettori di Smotrich e Strock e Ben Gvir possono riempire le file nei cimiteri militari, possono arruolarsi nella riserva in percentuali molto più alte rispetto alla loro proporzione nella popolazione, possono mandare alla Knesset le uniche persone che sapevano indicare il pericolo, e chiedere di fare l’azione giusta contro di esso, ma alla fine della storia non sono legittimi perché la sinistra e i media hanno deciso che loro e i loro elettori sono ripugnanti. Quindi devo essere d’accordo con questa campagna e sostenere le loro dimissioni?
Ho elencato i difetti di Benjamin Netanyahu in questo editoriale, come detto, ripetutamente. Una parte significativa di essi riguardava il suo comportamento verso i palestinesi in generale e verso Hamas in particolare, il denaro del Qatar, l’eccessiva dipendenza da Iron Dome e così via. E dopo aver detto questo, c’è un fatto che è importante interiorizzare: l’idea fissa che ha portato Netanyahu e voi a pensare che si potesse permettere al nemico di vivere a un metro dai nostri insediamenti senza sraducarlo, purtroppo non può essere corretta retoattivamente, ma può essere corretta in avanti, per il futuro. E qui, Netanyahu sembra al momento uno dei pochi che si sono ripresi dopo il 7 ottobre.
Se ci basiamo sulle dichiarazioni pubbliche di tutti i membri di spicco della politica israeliana, possiamo stabilire che se non Netanyahu e Smotrich avessero guidato la linea nell’ultimo anno e mezzo, ma Yair Golan o Yair Lapid o Benny Gantz o Gadi Eisenkot – lo Stato di Israele avrebbe già da tempo alzato bandiera bianca, fermato la guerra e permesso ad Hamas di dichiarare la vittoria totale. Se l’IDF avesse smesso di combattere, quando tutti questi lo chiedevano, Sinwar e Nasrallah sarebbero ancora vivi con noi oggi, Hezbollah sarebbe ancora seduto sulle recinzioni degli insediamenti del nord, e anche con un telescopio sofisticato non saremmo riusciti a vedere il giorno in cui gli insediamenti attorno a Gaza sarebbero potuti tornare alle loro case.
• L’accusa di incapacità è un colpo di stato
Vi sento, miei amici della sinistra, scioccati dal linguaggio, dalla volgarità e dal discorso di molti membri della coalizione, e molte volte mi unisco a voi in questo shock. Sono disgustato da questo discorso. Ma di che stiamo parlando? A causa degli sforzi della stampa israeliana di nascondere ciò che non le conviene pubblicare, la maggior parte del pubblico non ha idea che nelle vostre manifestazioni paragonate il Primo Ministro eletto ad Adolf Hitler, che nelle vostre proteste lo chiamate regolarmente “traditore” e “aggressore”, e che gli appelli ad assassinarlo non si possono più contare.
Solo questa settimana ho visto un video in cui si vedeva una dottoressa, che “il giornale nazionale” (Yedioth Aharonot NdT) ha trasformato in un’eroina e le ha dedicato un lussuoso articolo di copertina, mentre stava su un palco e di fronte alla folla che applaudiva chiamava Netanyahu e il suo governo “il traditore e i suoi maledetti collaboratori“, e prometteva “con tutti faremo i conti, uno per uno, fino all’ultimo, pagheranno per i crimini che hanno commesso contro la società israeliana e contro l’umanità“, e proponeva di “schiacciare la testa del serpente, e abbattere il dittatore“, e spiegava che “questo non accadrà attraverso proteste educate, perché stiamo combattendo un’organizzazione criminale“.
Se non fosse per il Canale 14 e le iniziative di attivisti che caricano tali video sui social media, nel 99% dei casi non sapremmo che parole terribili del genere vengono pronunciate. Proprio come quell’appello, da un altro palco di protesta, a preparare una corda per impiccare Netanyahu e sua moglie. Quasi nulla di questo viene pubblicato su canali diversi dal 14, perché tutti gli altri canali non sono interessati a nulla che non promuova la caduta del governo. E se la strada per arrivarci passa attraverso il nascondere la realtà, la maggior parte dei canali di comunicazione non ha alcun problema con questo.
E quando vedo queste terribili immagini e video, e questi terribili discorsi di follia e incitazione dai palchi, settimana dopo settimana, capisco che lo scioglimento del governo in queste circostanze è una resa a questa pazzia. Questo è vero per le proteste di strada, ed è vero per gli studi dove Benjamin Netanyahu è presentato come un mostro, e i suoi amici nel governo – come persone a cui lo stato non interessa, a cui la vita degli ostaggi non importa, e che non hanno problemi a mandare soldati alla morte in battaglia solo per promuovere i loro interessi politici.
E dato questo contesto, sappia chiunque chieda ora le dimissioni del Primo Ministro, che sta rafforzando con le proprie mani questi standard come una norma legittima che accompagnerà lo Stato di Israele d’ora in poi. Perché dichiarare che questo governo deve andarsene, sotto un tale attacco sfrenato contro di esso, significa normalizzare tutta la follia in cui ci avete trascinato negli ultimi anni. Gli attacchi violenti contro membri della Knesset e ministri, le persecuzioni e le molestie a ciascuno di loro in ogni parte del mondo, e il tentativo di far saltare ogni piccolo evento a cui partecipano.
Se avete argomenti contro il governo sono disposto ad ascoltare, a volte anche a essere convinto. Se questo è il vostro modo di combatterlo, persone come me non hanno interesse a stare con voi. E quando si minaccia di morte membri della Knesset che ho votato, e la notizia non supera nemmeno i selettori dei notiziari, capisco che viviamo in un mondo dove i fatti non hanno importanza e la realtà non ha valore, un mondo dove gli eletti della destra e i loro elettori non vi sembrano importanti, un mondo dove si può sostituire il governo con la forza della violenza, un mondo dove non ci sono linee rosse, e tutto ciò che vi aiuta a promuovere i vostri obiettivi politici – è permesso.
Questa settimana ho visto una lettera in cui il membro della Knesset Merav Cohen di Yesh Atid chiedeva alla Knesset di dichiarare il suo impegno per lo svolgimento di libere elezioni. Capite cosa la preoccupa? Lei e il presidente del suo partito trattano Benjamin Netanyahu e il governo eletto come illegittimi, lei e il presidente del suo partito rifiutano di accettare la volontà degli elettori già da alcuni anni, ma ciò che li preoccupa è che la destra non permetterà lo svolgimento delle prossime elezioni.
• Perché Bibi?
Prendete la storia dell’ “incapacità”, che circola sulle labbra di troppe persone da troppo tempo. L’incapacità non è altro che un sinonimo di colpo di stato. Non c’è altro modo per definire una realtà in cui il pubblico israeliano ha scelto questo governo e questo Primo Ministro, e qualcuno pensa che ci sia la possibilità di gettare nel cestino della spazzatura la scheda elettorale che una massa di persone ha messo nell’urna solo perché non si connette alla loro scelta, e per di più farlo mentre si lamenta della condizione della democrazia. Quindi sì, chi collabora anche solo a pensare in questa direzione, collabora con una prepotenza antidemocratica e ci aiuta tutti a capire che non ha un problema con la politica, e nemmeno con il Primo Ministro, ma con una parte significativa del pubblico che vuole questa politica e vuole questo Primo Ministro.
• Il popolo dirà la sua
E c’è un’altra cosa che fa sì che persone come me vogliano allontanare le prossime elezioni il più possibile. I vostri eletti. Sì, ammetto che temo cosa faranno costoro dopo le elezioni se saliranno al potere e otterranno la forza. Ho visto questa settimana un annuncio diffuso dall’organizzazione dei giornalisti, a seguito della pubblicazione dell'”Indice mondiale della libertà di stampa”, con preoccupazione per la condizione peggiorate della stampa libera in Israele sotto l’attuale governo. Non conosco i responsabili di questo indice, che non vivono qui con noi, ma ci sono alcune cose che so.
So che la petizione per chiudere il Canale 7 è stata presentata da membri della Knesset della sinistra. So che le petizioni contro Radio Galei Israel, alla sua fondazione, sono state presentate da organizzazioni di sinistra. So che la “Legge Israel Hayom”, che cercava di danneggiare l’unico quotidiano “diverso” in Israele, non è stata presentata dai bibiisti. So che coloro che oggi minacciano il Canale 14 e lo trattano come un canale che non ha diritto di esistere sono Yair Lapid e Yair Golan. Quindi potete confonderci la mente sulla democrazia da qui all’America, ma alla fine del giorno ho paura che se questi amici arriveranno a una posizione di leadership tapperanno la bocca a un pubblico enorme che non ha voce.
E se mi chiedete perché mi va bene questo governo, con tutti i suoi difetti, è anche perché Yair Golan e Yair Lapid mi spaventano. Non voglio aiutarli a danneggiare i media di destra. Non voglio aiutarli a chiudere le accademie pre-militari che non sono adatte a loro, come ha promesso di fare la grande speranza della sinistra nei sondaggi, quello che una volta “identificava processi” (“come nella Germania degli anni 30” NdT) e oggi si impegna a “correggere” l’educazione del sionismo religioso (Yair Golan NdT)
Se il popolo dirà la sua nelle elezioni che si terranno quando si terranno, questa sarà la via della democrazia per decidere. Fino ad allora, la decisione di sciogliere il governo oggi – sotto la follia nelle strade, sotto l’incitamento dilagante contro il Primo Ministro, sotto la campagna mediatica senza limiti che si sforza di presentare i membri della coalizione eletta come persone non legittime – sarà un annuncio ufficiale della liquidazione della democrazia israeliana, e una dichiarazione che metà dei cittadini dello stato sono persone di serie B.
(Maariv – 9 maggio 2025)
(Kolòt - Morashà, 9 maggio 2025)
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Anche l’opposizione israeliana è stata colta da quel contagioso morbo ideologico che chiamerei genericamente “sinistrismo”. Il sinistrismo ha un carattere universale, e si presenta dunque in modo simile in varie nazioni, tra cui per esempio Italia, Stati Uniti e ora anche Israele. I sinistristi sono ontologicamente nel giusto, per cui è semplicemente immorale che gli avversari possano governare: non è ammissibile, per motivi di coscienza. Devono essere colpiti, abbattuti, resi in condizioni di non nuocere. Le elezioni democratiche, il consenso popolare, non contano, e chi non lo capisce, per loro è un sottosviluppato “populista”. Netanyahu dunque deve essere abbattuto. A tutti i costi. E’ questo l'imperativo primario. Tutto il resto, fosse anche la sconfitta di Israele, è secondario. M.C.
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Eliminato il freelance che collaborava con Hamas
di Michelle Zarfati
Hassan Eslaiah, freelance e membro di Hamas che ha ripreso omicidi e saccheggi durante l’attacco del 7 ottobre, è stato ucciso in un raid aereo israeliano sull’ospedale Nasser a Khan Younis. L’esercito israeliano (IDF) ha dichiarato che l’ospedale era usato come centro di comando e controllo di Hamas per pianificare e condurre operazioni terroristiche. Secondo l’agenzia di stampa palestinese Shehab, Eslayeh è stato ucciso nel raid. Il 7 ottobre aveva trasmesso in diretta immagini di un carro armato israeliano in fiamme. Era sopravvissuto a un precedente tentativo di eliminazione il mese scorso.
Il ministero della Sanità di Gaza (controllato da Hamas) ha riferito che due persone sono morte nell’attacco, inclusi Eslaiah e Ahmad al-Qudra. L’IDF ha affermato di aver usato munizioni guidate di precisione, sorveglianza aerea e intelligence per ridurre al minimo i rischi per i civili. Ha anche sottolineato che alti funzionari di Hamas continuano a usare l’ospedale per attività terroristiche, mettendo a rischio la popolazione civile. Anche Ismail Barhoum, alto esponente di Hamas, era stato ucciso a marzo in un raid mirato nello stesso complesso ospedaliero.
Eslaiah aveva collaborato con CNN dopo il 7 ottobre, ma era stato poi licenziato a causa dei suoi legami con Hamas. Secondo l’IDF e lo Shin Bet, era un membro attivo della Brigata di Khan Younis e aveva partecipato direttamente al massacro del 7 ottobre, filmando e diffondendo contenuti di uccisioni, incendi e saccheggi. In passato, aveva pubblicato anche una foto in cui l’ex leader di Hamas Yahya Sinwar lo baciava sulla testa.
(Shalom, 13 maggio 2025)
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Eurovision in Svizzera: sputi e insulti agli ebrei
di David Zebuloni
La Svizzera come la Svezia: sputi e insulti alla cantante israeliana Yuval Raphael, concorrente dell'Eurovision 2025
Quando l'anno scorso Eden Golan, la rappresentante israeliana all’Eurovision Song Contest, dovette indossare una parrucca e degli occhiali da sole per uscire dalla sua camera d’hotel senza correre pericoli mortali, molti israeliani si consolarono dicendo che questa è la realtà triste in Svezia: prendere o lasciare. Il Paese scandinavo, infatti, uno dei più islamizzati d'Europa, è noto per il suo elevato alto tasso di antisemitismo e antisionismo. Di fatto, antisemitismo anche quello. Quest’anno, in Svizzera, a Basilea, una delle capitali della cultura europea e che fra l’altro ospita una delle maggiori comunità ebraiche della Confederazione, le cose dovevano andare diversamente. Dovevano, eppure nulla sembra essere cambiato. La nuova rappresentante di Israele Yuval Raphael, sopravvissuta alla strage del Nova Festival il 7 ottobre, è vittima di continue minacce di morte. E domenica, durante la sfilata dei 37 concorrenti nella Marketplatz, prima sono apparse bandiere palestinesi e si sono uditi i soliti slogan contro Israele. Poi, da un gruppetto con il cartello “Welcome to genocide song contest”, si è staccato un uomo che si è avvicinato alla cantante ebrea, insultandola, sputando e mimando il gesto del taglio della gola.
• PREOCCUPAZIONE
Ma anche i turisti israeliani venuti dalla Terra Santa per tifare risultano essere in pericolo. Il Consiglio per la Sicurezza Nazionale d'Israele ha pubblicato questa settimana un allarmante avviso per i partecipanti all’Eurovision, insieme a istruzioni su come comportarsi durante il soggiorno a Basilea, poiché ritenuti potenziali bersagli di attacchi terroristici. Secondo il Consiglio, in Svizzera si sono svolte 360 manifestazioni anti-israeliane nell’ultimo anno, e manifestazioni simili, se non più violente, sono attese anche durante l’Eurovision, con una possibile concentrazione sulla delegazione israeliana o sugli israeliani presenti tra il pubblico e in città. Come si è visto negli ultimi anni, e soprattutto dall'inizio del conflitto ad oggi, tali “innocue” proteste possono presto trasformarsi in scontri violenti o veri atti di terrorismo contro i turisti israeliani. Non possiamo per esempio dimenticare il linciaggio avvenuto ad Amsterdam nel mese di novembre, in seguito alla partita di calcio del Maccabi Tel Aviv. Un evento inaudito e privo di precedenti nell’Europa del dopo guerra, una caccia all’ebreo dalle sembianza tragicamente simili ai vecchi pogrom. Ad ogni modo, per gli israeliani interessati comunque a partecipare alla competizione canora, il Consiglio perla Sicurezza Nazionale d’Israele consiglia ovviamente di evitare assembramenti e partecipazione a eventi non protetti.
• VIGILANZA
E ancora, di stare lontano da proteste e manifestazioni, di mantenere un alto livello di vigilanza, di nascondere simboli israeliani o ebraici negli spazi pubblici e di evitare discussioni pubbliche circa il conflitto in Medio Oriente. Un’ulteriore, ultima raccomandazione per i visitatori blu e bianchi è quella di scaricare l’applicazione del Comando del Fronte Interno israeliano, che fornisce aggiornamenti in tempo reale in caso di emergenza, a cura del Consiglio per la Sicurezza Nazionale In parallelo, con un tempismo particolarmente incoraggiante, il 15 maggio (ovvero in pieno Eurovision) entra in vigore in Svizzera la legge federale elvetica che vieta Hamas e le organizzazioni associate. Già nell’ottobre 2023, le Commissioni della politica di sicurezza delle due Camere hanno presentato una mozione che chiedeva di vietare l’organizzazione terroristica da molti sdoganata e gravemente rinominata “Resistenza”. L’Esecutivo ha quindi incaricato il Dipartimento federale di giustizia e polizia (DFGP) di elaborare un progetto in tal senso. Nel settembre 2024, il Governo ha adottato il messaggio concernente la legge federale che vieta l'organizzazione e gli associati. Questa è stata approvata il 20 dicembre 2024 da una netta maggioranza dei membri del Legislativo ed entrerà per l’appunto in vigore a metà maggio. Meglio tardi che mai.
Libero, 13 maggio 2025)
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Ben-Gvir: scatenate l'inferno sopra Hamas
«Dobbiamo mettere davvero in pratica quello che Trump ha detto», ha dichiarato il ministro israeliano per la Sicurezza nazionale.
Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, ha esortato lunedì il governo ad “aprire le porte dell'inferno” nella guerra in corso contro i terroristi di Hamas nella Striscia di Gaza.
“Dobbiamo davvero mettere in pratica ciò che Trump ci ha detto”, ha dichiarato Ben-Gvir a JNS durante la riunione del suo partito Otzma Yehudit, in risposta alle notizie secondo cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe in programma un incontro con il leader dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas durante il suo attuale viaggio in Medio Oriente.
“Ci ha detto di aprire le porte dell'inferno. Quindi lasciamo che le porte dell'inferno si abbattano su di loro. Questa è la nostra missione”, ha affermato il ministro.
Trump sostiene pienamente la decisione di Israele di riprendere l'offensiva contro Hamas nella Striscia di Gaza per liberare gli ostaggi rimasti, ha affermato la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, il 20 marzo.
“Il presidente ha detto molto chiaramente a Hamas che se non rilascerà tutti gli ostaggi dovrà prepararsi all'inferno“, ha affermato la portavoce. ‘Purtroppo Hamas ha deciso di giocare con la vita delle persone sui media’.
“Non dobbiamo dimenticare che la responsabilità di questa situazione è chiaramente di Hamas, che il 7 ottobre ha lanciato questo brutale attacco contro Israele”, ha aggiunto Leavitt. L'amministrazione Trump “è pienamente solidale con Israele, l'IDF e le misure adottate negli ultimi giorni”.
Il 10 febbraio Trump aveva dichiarato che “si scatenerà l'inferno” se Hamas non rilascerà gli ostaggi rimasti entro cinque giorni.
“Se dipende da me, e se entro sabato alle 12 tutti gli ostaggi non saranno stati restituiti - penso che sia un termine ragionevole - allora direi: cancellate tutto, tutti gli accordi sono nulli e che si scateni l'inferno”, ha detto il presidente ai giornalisti alla Casa Bianca mentre firmava una serie di decreti.
“Direi che devono essere riportati entro sabato alle 12”, ha continuato Trump. ‘E se non saranno riportati entro quell'ora, tutti, non a gocce, non due e uno e tre e quattro e due, allora si scatenerà l'inferno’.
Nelle ultime settimane, la Casa Bianca ha cercato di rilanciare i colloqui con Hamas per raggiungere un accordo che ponga fine alla guerra e garantisca il rilascio dei 59 ostaggi rimasti, detenuti dai terroristi nella Striscia di Gaza da quasi 600 giorni.
(Israel Heute, 13 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L'ex ostaggio Alexander s’intrattiene con Netanyahu e Trump dopo il suo rilascio
Liberato ieri dopo mesi di prigionia nelle mani di Hamas, Edan Alexander ha ricevuto martedì mattina la visita di Steve Witkoff e Adam Boehler, emissari americani in Medio Oriente, all'ospedale Ichilov di Tel Aviv. Durante l'incontro, l'ex ostaggio americano-israeliano ha potuto parlare direttamente al telefono con il presidente Donald Trump. “Dopo mesi di prigionia, il mondo intero è ispirato dal suo coraggio e dalla sua resilienza. Il suo ritorno porta speranza a tante persone”, ha dichiarato Witkoff sui social media, ribadendo che gli Stati Uniti ‘rimangono determinati a riportare a casa ogni ostaggio’.
All'inizio della giornata, Alexander aveva parlato con il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Edan, è così bello sentirti. Siamo felici”, gli ha detto il capo del governo israeliano. L'ex ostaggio ha condiviso il suo stato d'animo: “È pazzesco, è incredibile. Sto bene. Sono debilitato, ma poco a poco torneremo ad essere quelli di prima. È solo questione di tempo”.
Durante la conversazione, alla quale ha partecipato anche l'inviato americano, Netanyahu ha sottolineato: ‘Avete qui un soldato israeliano particolarmente coraggioso. Siamo molto felici e grati per l'aiuto che voi e il presidente Trump ci avete fornito’.
La famiglia di Alexander ha annunciato che non si recherà in Qatar per incontrare il presidente Trump, nonostante il ruolo cruciale che quest'ultimo ha svolto nella sua liberazione. “Le sue condizioni di salute richiedono riposo. Edan incontrerà Trump in un secondo momento negli Stati Uniti”, precisa il comunicato della famiglia.
(i24, 13 maggio 2025)
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Liberato ieri dopo mesi di prigionia nelle mani di Hamas, Edan Alexander ha ricevuto martedì mattina la visita di Steve Witkoff e Adam Boehler, emissari americani in Medio Oriente, all'ospedale Ichilov di Tel Aviv. Durante l'incontro, l'ex ostaggio americano-israeliano ha potuto parlare direttamente al telefono con il presidente Donald Trump. “Dopo mesi di prigionia, il mondo intero è ispirato dal suo coraggio e dalla sua resilienza. Il suo ritorno porta speranza a tante persone”, ha dichiarato Witkoff sui social media, ribadendo che gli Stati Uniti ‘rimangono determinati a riportare a casa ogni ostaggio’.
All'inizio della giornata, Alexander aveva parlato con il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Edan, è così bello sentirti. Siamo felici”, gli ha detto il capo del governo israeliano. L'ex ostaggio ha condiviso il suo stato d'animo: “È pazzesco, è incredibile. Sto bene. Sono debilitato, ma poco a poco torneremo ad essere quelli di prima. È solo questione di tempo”.
Durante la conversazione, alla quale ha partecipato anche l'inviato americano, Netanyahu ha sottolineato: ‘Avete qui un soldato israeliano particolarmente coraggioso. Siamo molto felici e grati per l'aiuto che voi e il presidente Trump ci avete fornito’.
La famiglia di Alexander ha annunciato che non si recherà in Qatar per incontrare il presidente Trump, nonostante il ruolo cruciale che quest'ultimo ha svolto nella sua liberazione. “Le sue condizioni di salute richiedono riposo. Edan incontrerà Trump in un secondo momento negli Stati Uniti”, precisa il comunicato della famiglia.
(i24, 13 maggio 2025)
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Israele: critiche per la liberazione dell'ostaggio "in base al passaporto"
di Sarah G. Frankl
La famiglia dell’ostaggio Alon Ohel critica le mosse degli Stati Uniti che assicurano il previsto rilascio di Edan Alexander lasciando indietro il resto degli ostaggi, notando che il figlio continua a soffrire in prigionia.
“L’accordo lascia Alon indietro mentre è ferito e soffre”, afferma la famiglia in una dichiarazione riportata dal sito di notizie Ynet. “Siamo in un incubo e spaventati”.
I commenti riflettono un senso di disagio tra alcune famiglie di ostaggi per il fatto che l’accordo che assicura il rilascio di Alexander, che gli Stati Uniti dicono essere parte di uno sforzo per porre fine alla guerra e liberare tutti gli ostaggi, differenzia tra coloro che si trovano a Gaza in base ai passaporti che possiedono. Idit, la madre di Ohel, si è espressa in modo particolare contro quella che definisce una selezione tra gli ostaggi durante i precedenti rilasci.
Secondo la famiglia, che si basa sulle informazioni fornite dagli ostaggi liberati, Ohel è stato tenuto legato con catene e non ha ricevuto cure mediche per le schegge nell’occhio e nella spalla causate dalle ferite riportate il 7 ottobre 2023.
La dichiarazione fa gli auguri alla famiglia di Alexander per l’imminente liberazione del figlio ed esorta il governo israeliano a raggiungere un accordo che garantisca il rilascio del resto degli ostaggi.
“Alon e gli altri ostaggi feriti vengono lasciati nei tunnel senza assistenza medica o aiuto”, afferma la famiglia. “Non c’è una data per la fine del nostro incubo”.
(Rights Reporter, 12 maggio 2025)
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Hamas si prepara a rilasciare l’ostaggio israelo-americano Edan Alexander come gesto di buona volontà verso Trump
Secondo fonti ufficiali, Israele non è stato informato preventivamente del rilascio di Alexander. Il gruppo terroristico palestinese avrebbe preso questa decisione confidando nell’intervento di Trump per convincere Gerusalemme a porre fine alla guerra. Mentre cresce la rabbia delle famiglie dei prigionieri ancora a Gaza.
di Anna Balestrieri
Hamas ha annunciato il rilascio dell’ostaggio americano-israeliano Edan Alexander, prigioniero da oltre 580 giorni. Questa decisione è stata presa come gesto di buona volontà verso il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in vista della sua visita nella regione. Hamas spera che Trump possa persuadere Israele a concludere un accordo per liberare gli altri ostaggi in cambio della fine del conflitto.
• Israele non informato
Secondo fonti ufficiali, Israele non è stato informato preventivamente del rilascio di Alexander. Il gruppo terroristico palestinese avrebbe preso questa decisione confidando nell’intervento di Trump per convincere Gerusalemme a porre fine alla guerra. Steve Witkoff, inviato speciale degli Stati Uniti per il Medio Oriente, ha informato i genitori di Alexander, Yael e Adi, del suo imminente rilascio. La famiglia è già in viaggio verso Israele insieme a Adam Boehler, inviato americano per gli ostaggi. Il presidente americano Trump ha accolto con favore la notizia, definendola un passo positivo verso la fine del conflitto. Ha anche chiesto il rilascio dei corpi di quattro americani uccisi e ancora trattenuti da Hamas.
• Prospettive e negoziati futuri
Hamas ha espresso la volontà di rilasciare tutti gli ostaggi in cambio della fine della guerra, ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto questa proposta, temendo che possa rafforzare il gruppo terroristico.
• Contesto del rapimento di Edan Alexander
Edan Alexander, cittadino americano-israeliano, è stato rapito durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 mentre prestava servizio volontario nell’esercito israeliano (IDF). Sarà il primo soldato maschio ad essere liberato.
• Tensioni e reazioni delle famiglie
Le famiglie degli altri ostaggi hanno espresso sentimenti contrastanti, alternando gioia per il rilascio imminente di Alexander e frustrazione per la mancanza di informazioni riguardo ai propri cari ancora prigionieri. Il governo israeliano è stato criticato per non essere stato coinvolto direttamente nei negoziati per il rilascio e per non aver garantito un accordo globale per la liberazione di tutti gli ostaggi. Hamas ha dichiarato di essere pronto a intensificare i negoziati per un accordo finale che preveda il rilascio di tutti gli ostaggi e la fine del conflitto, pur ribadendo che non vi sono stati colloqui diretti con gli Stati Uniti. Il mondo guarda con estrema preoccupazione alla situazione umanitaria a Gaza, inginocchiata dalla guerra con Israele a causa del regime di Hamas. Mentre la famiglia di Alexander si prepara a riabbracciarlo, altre famiglie continuano a vivere nell’angoscia, sperando in un accordo che restituisca i loro cari.
(Bet Magazine Mosaico, 12 maggio 2025)
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Trump sta scaricando Israele. Netanyahu lo permetterà?
di Giovanni Giacalone
La negoziazione diretta tra l’Amministrazione Trump e Hamas è una delle mosse più basse, sleali e immorali che un cosiddetto “alleato” possa mai condurre. Secondo le ultime notizie, l’ostaggio americano-israeliano Edan Alexander potrebbe essere rilasciato nelle prossime 24-48 ore e l’inviato speciale statunitense, Steven Witkoff, dovrebbe arrivare in Israele oggi per facilitarne il rilascio. È inoltre emerso che gli Stati Uniti non hanno informato Israele degli sforzi per il rilascio di Alexander prima di avere raggiunto l’accordo, conducendo di fatto la trattativa a insaputa di Israele.
Domenica, durante una riunione della Commissione Affari Esteri e Difesa, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha escluso la possibilità che Hamas rilasciasse Alexander “come gesto verso gli americani”. Il governo israeliano era a conoscenza dei negoziati? Anche se non lo era, lo scenario era quantomeno prevedibile, dato che Trump aveva già voltato le spalle a Israele qualche giorno prima, stringendo improvvisamente un accordo con gli Houthi, a condizione che le navi statunitensi non venissero prese di mira. La strada intrapresa con Hamas sembra essere molto simile. È questo il significato di “America first”?
In effetti, Hamas sta abilmente sfruttando la situazione per raggiungere quattro obiettivi principali: ampliare la frattura tra l’Amministrazione Trump e Israele, impedire a Israele di lanciare la presunta operazione su larga scala annunciata da Netanyahu, consentire l’ingresso degli aiuti a Gaza e, possibilmente, porre fine alla guerra con la rassicurazione che all’organizzazione terroristica sarà consentito di svolgere un ruolo nella Gaza del dopoguerra.
Trump, d’altro canto, ha bisogno di presentarsi come un grande amico del mondo arabo nella sua prossima visita in Medio Oriente, perché ha un disperato bisogno di concludere accordi commerciali con le tre principali nazioni arabe ricche di risorse energetiche della zona: Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
Come riportato dalla CNN, questi tre paesi “stanno procedendo veloci per trasformare la loro influenza su Donald Trump in guadagni tangibili. Hanno costruito legami personali con il presidente e collettivamente promesso miliardi di dollari in investimenti statunitensi, presentandosi al contempo come intermediari chiave nei conflitti che Trump vuole risolvere, da Gaza all’Ucraina e all’Iran”. Non dimentichiamo le recenti voci secondo cui Trump potrebbe rinominare il Golfo Persico “Golfo d’Arabia” e persino riconoscere potenzialmente uno Stato palestinese. Nel complesso, è una situazione vantaggiosa per tutti, tranne che per Israele, che viene sacrificato dal suo più stretto alleato, perché Trump ha bisogno di concludere accordi.
Domenica sera, il Times of Israel ha rivelato che una fonte coinvolta nella mediazione ha dichiarato che Hamas ha ricevuto rassicurazioni dagli Stati Uniti tramite mediatori sul fatto che il rilascio di Alexander “guadagnerebbe molti punti” con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che vuole vedere rilasciati gli ostaggi rimasti e porre fine alla guerra a Gaza.
La situazione è davvero brutta; l’Amministrazione Trump si è impegnata direttamente con un’organizzazione terroristica palestinese inserita nella lista nera degli Stati Uniti stessi; un’organizzazione che ha perpetrato il peggior pogrom contro gli ebrei dai tempi dell’Olocausto. Gli uomini di Trump hanno negoziato il rilascio di un solo ostaggio, l’unico cittadino statunitense, operando quindi una discriminazione tra ebrei americani e non americani. È questo il tipo di sostegno che ci si aspetta da un cosiddetto “alleato”? Come potranno sentirsi i parenti degli altri ostaggi ancora detenuti da Hamas?
Inoltre, interagendo direttamente con Hamas e raggiungendo un accordo, Trump sta legittimando e rafforzando l’organizzazione terroristica palestinese, incoraggiando indirettamente altre nazioni a riconoscere Hamas come un’entità politica legittima piuttosto che per quello che è realmente: un’organizzazione terroristica spietata. Hamas sarà ora incoraggiata a perpetrare ulteriori attacchi terroristici perché si sente rassicurata dalla politica sconsiderata di Trump.
Trump sembra incapace o non disposto a distinguere tra accordi e affari con partner legittimi e trattative con un’entità terroristica, e questo rappresenta un problema molto serio per la guerra internazionale al terrorismo e anche per la credibilità internazionale degli Stati Uniti.
Trump riuscirà a fare pressione su Israele affinché cessi l’offensiva militare contro ciò che resta di Hamas o addirittura ponga fine alla guerra? Ora tocca al Primo Ministro Benjamin Netanyahu. La cosa giusta da fare sarebbe lanciare rapidamente l’operazione militare su vasta scala a Gaza annunciata e concludere l’opera con Hamas; qualcosa che avrebbe dovuto essere già fatto mesi fa.
Quanto più a lungo si protrarrà la situazione a Gaza, tanto peggiore sarà per Israele, sia a livello nazionale che internazionale, sia dal punto di vista economico che diplomatico. Hamas deve essere rapidamente rimosso e si deve raggiungere una nuova fase per non permettere più ai nemici di Israele di sfruttare la crisi a Gaza per accusare Israele di “genocidio”, “pulizia etnica” e così via.
Purtroppo, l’impressione è che non ci sia mai stata una reale volontà, da parte di Netanyahu, di sradicare Hamas da Gaza. La guerra è stata condotta a singhiozzo, il che ha danneggiato il morale delle truppe e l’immagine delle IDF. I numerosi annunci di un’imminente operazione militare terrestre che avrebbe soffocato Hamas non hanno trovato seguito sul piano pratico. In breve, qualcosa non funziona da entrambe le parti, sia da parte americana che da parte israeliana.
(L'informale, 12 maggio 2025)
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«Il denaro compra il Messia»
Politica, corruzione e linguaggio biblico in Medio Oriente.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - In quasi nessun altro paese democratico la linea di demarcazione tra religione e politica è così fluida come in Israele. Qui la politica non solo viene fatta, ma anche interpretata. Il titolo del quotidiano israeliano Jediot Achronot è provocatorio e sconvolgente: “Il denaro compra il Messia” si riferisce alla visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Medio Oriente, in particolare in Arabia Saudita e Qatar, che dovrebbe essere accompagnata da mega accordi economici per un valore fino a due trilioni di dollari. Il sottinteso è chiaro: si tratta di influenza, espansione del potere e forse anche di una forma di corruzione politica che coinvolge non solo la Casa Bianca, ma anche l'ufficio del primo ministro israeliano.
Ma cosa rende questo titolo così speciale? Non è solo l'accusa di corruzione. È la semantica religiosa con cui viene spesso descritta la politica israeliana, soprattutto quando si tratta di personaggi come Donald Trump o Benjamin Netanyahu. Per molti israeliani di destra, essi sono considerati dei messia in senso quasi teologico. Non in senso letterale, ma simbolico: vengono descritti come salvatori, redentori, personaggi storici giunti “per un momento come questo”.
In effetti, grazie alla sua politica filoisraeliana – il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, il trasferimento dell'ambasciata statunitense, gli accordi di Abramo – Trump è stato celebrato da molti in Israele come una sorta di messia pagano. I manifesti lo raffiguravano accanto al terzo tempio, i rabbini lo lodavano pubblicamente come strumento di Dio, alcuni lo paragonavano addirittura al re persiano Ciro, che permise agli ebrei di tornare a Sion.
Anche Benjamin Netanyahu sa come inserirsi magistralmente in questa narrativa messianica. Per i suoi sostenitori non è semplicemente un politico, è una figura del destino, l'unico che può salvare Israele dal declino morale, dall'élite di sinistra e dal nemico iraniano. I suoi oppositori, invece, lo accusano di identificarsi con lo Stato. “Io sono Israele” è il sottinteso inespresso.
Quando in Israele si parla di Benjamin Netanyahu, spesso sembra di leggere un capitolo della Bibbia. “L'unto”, “l'unico che può salvarci”: questi termini non provengono da una sinagoga, ma dal quartier generale elettorale del Likud. Netanyahu non è più semplicemente eletto: è venerato. E questo rende così difficile criticarlo.
Non pochi dei suoi sostenitori vedono in lui un leader mandato da Dio. Solo lui, secondo la narrativa, può salvare Israele dalla rovina. Queste idee non sono nuove, ma stanno diventando più acute, soprattutto da quando Netanyahu si è opposto alla giustizia, ai media e ai movimenti di protesta. Chi è contro di lui è considerato un traditore del popolo. Chi è con lui segue il piano di salvezza.
Ironia della sorte, anche i suoi oppositori ricorrono al linguaggio religioso, come Nahum Barnea nell'editoriale “Il denaro compra il Messia”, ma con un pizzico di ironia. Sui media di sinistra si leggono frasi come: “Il Messia sul banco degli imputati” o “Bibi, il falso profeta o Messia”. Ciò che rimane è un Paese diviso tra realpolitik e profezia.
Il fatto che Jediot Achronot, uno dei più grandi quotidiani, ma politicamente piuttosto centrista o di sinistra, definisca ora il viaggio di Trump un “tour di corruzione” è più che retorica polemica. È un attacco all'interazione tra denaro, potere e mito – e a una cultura politica in cui le narrazioni bibliche vengono utilizzate per interpretare gli eventi attuali.
Secondo quanto riferito, il messia americano riceverà un lussuoso Boeing 747-8 dalla famiglia regnante del Qatar. L'aereo, precedentemente utilizzato dalla famiglia reale del Qatar, dovrebbe servire temporaneamente come Air Force One, poiché i nuovi aerei presidenziali della Boeing non saranno probabilmente pronti prima del 2029 a causa di ritardi. Un palazzo volante del valore di 400 milioni di dollari. Gli avvocati di Trump sostengono che l'accordo sia legale, poiché l'aereo non sarà consegnato direttamente a lui personalmente, ma al governo degli Stati Uniti e successivamente alla sua biblioteca presidenziale. Tuttavia, la valutazione giuridica ed etica del progetto rimane controversa. Se il cosiddetto Messia di Israele, Benjamin Netanyahu, avesse ricevuto un simile regalo, il Messia sarebbe stato “ricrocifisso” in Israele.
In Israele non è una rarità. L'intera storia politica del Paese è profondamente intrecciata con il linguaggio della Bibbia. I ministri sono paragonati a re, le coalizioni ad alleanze bibliche, gli avversari ad Amalek o ai Filistei. Anche le moderne questioni di sicurezza, come l'Iran o la questione palestinese, sono spesso viste attraverso una lente teologico-storica. Ma proprio in Israele, dove la Bibbia e la fondazione dello Stato sono così strettamente legate, la retorica religiosa ha un peso particolare. La lingua ebraica permette di commentare le decisioni politiche con lo stesso vocabolario delle visioni profetiche.
Ma cosa succede quando il Messia è in vendita? Quando la salvezza si traduce in dollari e contratti? Quando l'integrità morale viene sacrificata al calcolo politico? Il titolo solleva domande scomode, non solo per Israele, ma anche per gli Stati Uniti e per tutte le democrazie che fanno politica con pathos religioso. Mostra quanto possa diventare pericoloso quando il simbolismo religioso diventa un'arma nel gioco del potere politico. E ci ricorda che spesso c'è solo una linea sottile tra la vera redenzione e la messa in scena politica.
“Il denaro compra il Messia”: questo titolo è uno specchio dei nostri tempi. Mostra quanto siamo coinvolti in una teologia politica in cui le promesse di salvezza sono diventate una moneta di scambio. È ora di tracciare di nuovo una linea chiara tra mito e potere, tra fede e affari.
(Israel Heute, 12 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ostaggi – L’85enne Amiram Cooper, fra i fondatori di Nir Oz
Amiram Cooper era un poeta, un compositore, un economista. Ma prima di tutto era un membro di Nir Oz, il kibbutz che aveva contribuito a fondare nel 1957 e che per oltre sessant’anni ha chiamato casa. Aveva 85 anni, una vita attraversata dalla cultura agricola, dalla poesia e dalla dedizione alla comunità. Scriveva versi fin da giovane: tre raccolte poetiche e un libro per bambini sono il segno lasciato “da una voce che amava parlare dell’amore, della terra, della pace”, ricorda il suo kibbutz. Le sue canzoni, composte spesso fischiettando le melodie, erano interpretate dai cori locali. Il suo brano più noto, Shibulei Paz, scritto per una celebrazione del kibbutz, è diventato un simbolo della festività di Shavuot in Israele.
Amiram era anche un economista di lungo corso: aveva diretto la fabbrica Nirlat, specializzata in vernici e rivestimenti per l’edilizia, ed era stato per 24 anni il responsabile finanziario del consorzio agricolo Hebel Ma’on. Nel kibbutz era apprezzato per il suo carattere mite e riflessivo, lo sguardo aperto e curioso, e la capacità di coniugare la concretezza a una visione umanistica della vita.
Il 7 ottobre 2023, Amiram e sua moglie Nurit, 79 anni, sono stati rapiti da Hamas durante l’attacco a Nir Oz. Mentre Nurit è stata liberata dopo 17 giorni, Amiram è rimasto prigioniero nei tunnel di Gaza. In un video diffuso successivamente, appariva fragile, affaticato. Soffriva di ipertensione e problemi gastrici. La figlia Ravit ha raccontato di come la madre, al ritorno, parlasse di un buio assoluto nei sotterranei, della rottura degli occhiali, delle condizioni disumane. E di un’anima, quella del marito, che «sanguinava nel silenzio».
Per mesi la famiglia ha lottato per riportarlo a casa. Un frammento della sua voce è riemerso in una registrazione di Hamas: «Sembrava solo l’ombra di sé stesso», ha commentato il figlio Rotem. Il 3 giugno 2024, l’esercito israeliano ha annunciato che Amiram era stato ucciso in prigionia. Da 584 giorni, la sua salma è in mano ai terroristi palestinesi.
Nonostante il dolore, la famiglia ha deciso di non lasciarne spegnere la voce. I suoi archivi, salvati dalla devastazione del kibbutz, sono stati affidati al Ganzim Institute, centro documentale dell’Associazione degli Scrittori Israeliani che conserva il patrimonio letterario degli autori del Paese. Letture pubbliche delle sue poesie si sono tenute a Tel Aviv con la partecipazione di artisti come Ehud Banai e Micha Shitrit.
In una delle ultime poesie ritrovate, Cooper scriveva: «Piccoli movimenti nel buio / e nessuna luce alla fine del tunnel… / tutto ciò che desideravo / era solo un piccolo appezzamento, una vite, un fico».
Nei giorni in cui la famiglia ancora sperava di poterlo riabbracciare vivo, la figlia Ravit aveva inviato al padre una commossa lettera aperta:
«Torna, calmami e dimmi che ce la faremo. Analizza questa frattura, scrivine, componi un canto funebre su queste atrocità e fischietta, come sai fare tu. E che il grano torni a crescere a Nir Oz».
La piccola comunità sta cercando da mesi di rialzarsi, orfana di molti membri come Amiram. «Mio padre era Nir Oz», ha commentato il figlio Rotem. Anche nel suo nome, ha promesso, il kibbutz verrà ricostruito. d.r.
(moked, 12 maggio 2025)
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“E’ una di noi”: i tifosi del Tottenham danno il benvenuto all’ex ostaggio Emily Damari
di Jacqueline Sermoneta
“E’ una di noi! Emily Damari è finalmente a casa”. Così oltre 200 tifosi degli Spurs, fuori al Tottenham Hotspur Stadium, hanno accolto e festeggiato l’ex ostaggio Emily Damari, arrivata per assistere al derby londinese Tottenham-Crystal Palace, disputato ieri. “Sono molto felice di essere qui”, ha detto la 28enne anglo-israeliana nella sua prima apparizione pubblica nel Regno Unito dopo il suo rilascio, lo scorso 19 gennaio.
Sulle note travolgenti di “I’m Still Standing” e “She’s One of Our Own” di Elton John, la folla ha salutato Damari, accompagnata dalla madre Mandy: “Grazie a tutti per aver pregato per me e per aver gridato il mio nome senza conoscermi, non ho davvero le parole per esprimere quanto ne sia grata – ha detto Damari ai presenti – Voglio ringraziare in modo speciale tutti gli ebrei della diaspora, ma soprattutto la comunità ebraica del Regno Unito, che è scesa in campo per sostenere mia madre e la mia famiglia, impegnandosi instancabilmente per ottenere la mia liberazione”.
Damari ha ricordato specificamente i fratelli Gali e Ziv Berman ‘suoi intimi amici’, i cui nomi erano stampati sulla sua maglia gialla con il numero 583, come i giorni di prigionia, e ha lanciato in cielo 59 palloncini gialli (il numero degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas), fra l’incitamento dei tifosi che sventolavano bandiere israeliane.
All’ interno dello stadio, Damari è stata accolta da numerosi ex e attuali giocatori di punta degli Spurs e della nazionale inglese. La cerimonia di benvenuto è stata organizzata dal gruppo ‘Stop the Hate’. “Per troppo tempo abbiamo aspettato, sognando che venisse rilasciata. – ha affermato il fondatore del gruppo Itai Galmudy al Daily Mail – Abbiamo fatto una campagna per lei, sotto la pioggia, sotto il sole, nei momenti belli e in quelli brutti”, ha detto. “E averla qui allo stadio degli Spurs oggi è il culmine di tutto”.
(Shalom, 12 maggio 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo?
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
La terra, secondo una diffusa e popolare religiosità, è un luogo che si trova tra il paradiso e l’inferno. Il paradiso si trova in cielo, dove c’è Dio, l’inferno si trova in un profondo abisso, dove c’è il Diavolo. Gli uomini vivono sulla terra sotto lo sguardo indagatore di Dio; se si comportano bene, ricevono aiuto e sostegno durante la vita terrena, e alla fine, se superano l'esame, sono accolti in cielo dove c'è Dio. Se invece si comportano male, ricevono castighi e correzioni durante la vita terrena e alla fine, se non superano l'esame, sono gettati nell’inferno dove si trova il Diavolo.
Le religioni si differenziano sulla descrizione dei luoghi di arrivo, paradiso e inferno, e sulle regole da osservare per salire in cielo e non essere gettati nell’abisso, ma lo schema essenziale rimane questo.
In questa visione, la terra è vista come luogo temporaneo di transito e smistamento: la fine della storia è il giudizio universale, in cui si deciderà in modo irrevocabile la destinazione conclusiva di ogni uomo: o in paradiso o all’inferno. E la terra? Forse rimarrà vuota, o sarà distrutta, o sarà messa da qualche altra parte, ma in ogni caso non sarà più oggetto di attenzione.
In questa visione popolare della religione, così come schematicamente presentata, si pone allora una domanda: ma è per questo che Dio ha creato il mondo? Come una enorme aula in cui svolgere un onnicomprensivo esame che stabilisca in modo definitivo chi saranno i promossi e chi i bocciati?
Se le cose stanno così, se davvero si tratta di un esame, è chiaro che l’interesse di ogni esaminando sarà tutto rivolto a se stesso, a come dovrà osservare le norme richieste per poter alla fine superare l’esame.
Anche la religione cristiana, almeno nel modo in cui è stata popolarmente vissuta, e in parte anche insegnata, ha assunto nella storia una forma simile a questa, I preti, in fondo, sono stati intesi come quella particolare classe di specialisti che devono insegnare alle persone normali come si fa ad andare in paradiso. Anzi, col passar del tempo e l’evolversi della dottrina, i preti sono diventati coloro a cui ci si deve rivolgere se si vuole ottenere il lasciapassare per entrare in cielo.
La predicazione evangelica si presenta in modo indubbiamente diverso: le norme per ottenere l’ingresso in cielo sottolineano la gratuità della salvezza che viene offerta da Dio sulla base della semplice fede nell’opera di Cristo; ma per molti aspetti, almeno in certe presentazioni, non ha modificato il comune schema religioso: la cosa fondamentale per l’uomo che vive sulla terra è che riesca a evitare le fiamme dell’inferno e possa un giorno raggiungere Dio nel cielo. Per il singolo, per la sua sorte eterna, questo naturalmente è importantissimo, anzi è addirittura essenziale; ma sta proprio qui il centro del messaggio biblico? Dio ha creato il mondo al solo scopo di far sì che il massimo numero di persone lascino un giorno questa terra per raggiungerlo eternamente nella sua dimora in cielo?
• Dove sta il paradiso?
Nell’immaginazione popolare il paradiso è un luogo che sta in cielo e in cui si entra dopo morti se ci si è comportati bene sulla terra.
Nell’immaginazione cristiana il paradiso originario sarebbe il biblico giardino di Eden preparato da Dio per l’uomo. In effetti è così, solo che questo biblico paradiso non si trova in cielo, ma sulla terra. Per questo viene anche chiamato “Paradiso terrestre”.
L’Eden di cui parla la Bibbia si trovava dunque sulla terra, anzi, per quello che diremo in seguito si può addirittura dire che era il centro della terra. Gli intellettuali, che considerano il racconto della creazione come un'istruttiva favola, o un “mito” se si vuole usare un linguaggio più ricercato, possono essere a disagio quando trovano nella Bibbia una precisa individuazione geografica del luogo dove si trovava l’Eden, con l’indicazione dei fiumi che la circondavano (Genesi 2:10-14).
• Se Adamo non avesse peccato
Dunque Adamo, con la donna Eva tratta dalla sua costola, in origine viveva beato sulla terra. Dio lo mise alla prova con la tentazione del serpente e Adamo cadde nel peccato, trascinando con sé nel degrado l’intera creazione. Come conseguenza, ebbe inizio la storia della salvezza, che come sappiamo ha il suo punto culminante nella persona e nell’opera di Gesù. Alla fine di tutto, in questa schematica presentazione, chi avrà creduto in Gesù andrà in cielo e tutti gli altri andranno all’inferno.
Si pone allora una domanda, ipotetica ma non inutile: che cosa sarebbe successo se Adamo non avesse peccato? Il peccato non sarebbe entrato nel mondo, dunque non ci sarebbe stato bisogno di una storia della salvezza, e Adamo sarebbe rimasto dov’era, cioè sulla terra. Il premio della sua ubbidienza non sarebbe stato dunque l’andare in cielo, ma il rimanere sulla terra. Ed era effettivamente un premio perché, come sta scritto, al termine della creazione “Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono” (Genesi 1:31). Adamo Dunque avrebbe potuto godere pienamente della bontà della creazione.
In un approccio olistico alla Bibbia, cioè attento al senso totale della rivelazione di Dio, s’impone allora una domanda: perché Dio ha creato il mondo? Qual è il suo obiettivo? E’ una domanda che in un certo senso si deve fare, non per mettere Dio sotto processo sottoponendolo al nostro interrogatorio, ma per il desiderio di conoscerlo, verificando nella sua Parola se Dio stesso vuole darci una risposta. E si potrebbe anche dire: per il desiderio di amarlo. Perché si può amare veramente solo chi si conosce.
L’obiettivo di Dio, che è sotteso nella Bibbia fin dall’inizio, è espresso in modo chiaro nei suoi due ultimi capitoli.
«Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più» (Apocalisse 21:1).
Il fatto di accostare la nuova creazione cielo-terra alla prima creazione cielo-terra fa capire che non si tratta di una contrapposizione tra il cielo dove c’è Dio, e la terra dove ci sono gli uomini. Il cielo di cui si parla nella prima e nella seconda creazione è una realtà creata, da non confondere con il cielo che in altri passi della Scrittura indica Dio stesso nella sua inaccessibilità. Volendo usare un linguaggio colorito ma efficace, si potrebbe dire che se nella prima creazione c'era il paradiso terrestre iniziale, nella nuova creazione ci sarà il paradiso terrestre finale, ottenuto attraverso l’intera, faticosissima storia della salvezza che ha in Gesù il suo punto centrale. Ciò che Dio farà alla fine è anche ciò che Egli si proponeva di fare fin dall’inizio, sia pure in altra forma se non ci fosse stata la caduta iniziale dell’uomo.
«E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:2-3).
La radice del termine greco tradotto con “tabernacolo” (skene) è la stessa del verbo “abitare" (skenao). Una traduzione più efficace potrebbe dunque essere: «Ecco l'abitazione di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro». Con ciò si mette in evidenza che anche nell’Antico Testamento il senso profondo del tabernacolo era quello di esprimere il desiderio di Dio di abitare in mezzo agli uomini, nella forma allora indicata e tra gli uomini che rientravano in quel momento nel piano di salvezza di Dio.
• Elementi fondamentali del processo creativo
Nel progetto che il Creatore ha fatto per venire ad abitare fra le sue creatore in un rapporto d’amore compatibile con la sua giustizia sono presenti tre elementi: un habitat, una società e un santuario. Chiameremo mondo questo complesso di elementi, il che corrisponde anche al senso in cui viene usato nella Bibbia nella maggior parte dei casi, anche se non in tutti.
Come habitat s’intende il contesto creativo della natura, che la Bibbia chiama i cieli e la terra. Qui viene indicato in questo modo per sottolineare che è stato formato con il preciso scopo di essere abitato dagli uomini.
Come società s’intende l’insieme strutturato e armonico degli uomini che Dio vuole far abitare sulla terra.
Come santuario s’intende il luogo concreto in cui il Creatore vuole vivere l’incontro con la società delle sue creature, in un rapporto d’amore che mantenga le giuste differenze tra Chi crea e coloro che sono creati.
• L’habitat
Sull’habitat naturale si può soltanto sottolineare che è l’espressione di una precisa volontà di Dio; per questo in origine era totalmente “buono”, senza nessuna ombra. Inoltre, essendo stato creato per primo, non è mai soltanto un palcoscenico per attori che potrebbero andare a recitare da qualche altra parte, ma entra a far parte integrante di tutto ciò che verrà dopo.
• La società
Per quanto riguarda la formazione della società che avrebbe dovuto popolare l’habitat, è fondamentale capire qual è il posto che Dio assegna al singolo uomo. Contro la tesi evoluzionistica, secondo cui la terra si sarebbe popolata di uomini e donne attraverso un graduale processo di trasformazione di sassi, radici e vermi (linguaggio volutamente approssimativo e poco scientifico), la Bibbia fa iniziare tutto da un preciso individuo: Adamo.
A questo punto si pone la domanda: perché Dio si è arrestato ad Adamo? Perché, dopo essersi accorto che Adamo era solo, non ha impiantato un processo di produzione industriale di Adami con lo stesso metodo di insufflazione, chiamandoli magari Adamo 1, Adamo 2, Adamo 3, e così via, fino a raggiungere il numero necessario per popolare adeguatamente la terra? Avrebbe potuto dare a tutti le stesse istruzioni date al primo Adamo; chi le avesse trasgredite sarebbe morto sul colpo, di modo che in vita sarebbero rimasti soltanto gli ubbidienti. Ecco un sistema che a noi, cresciuti in una individualistica società liberal-democratica, sarebbe parso più ragionevole e giusto. Di fatto, le cose non sono andate così, ma immaginare come avrebbero potuto svolgersi può far riflettere sulle ragioni profonde dell’agire del nostro Creatore.
Cominciamo allora col ricordare come si sono svolte le cose secondo la Bibbia.
Quando Dio creò l’uomo, all’inizio formò un individuo maschio: Adamo. Mentre era ancora solo, Adamo ricevette da Dio l’ordine di non mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male (Genesi 2:17). Poi Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo”, e formò il nucleo della prima società costituita dalla coppia uomo-donna, da cui decise di partire per formare l’intera società che avrebbe riempito l’habitat prima creato:
“Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. Dio li benedisse; e Dio disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra, rendetevela soggetta»” (Genesi 1:27-28).
Si può notare di passaggio che l’immagine di Dio presente nell’uomo non è né il maschio né la femmina, ma la coppia maschio-femmina. Da questa coppia sarebbe discesa l’intera società che avrebbe “riempito” la terra. La produzione di esseri umani nel modo in cui è avvenuto per Adamo ed Eva non sarebbe stata ripetuta.
Di nuovo una domanda: perché? Perché non ripetere la formazione di altre coppie, come avvenuto nel caso di Adamo ed Eva? In alternativa, i due avrebbero potuto restare l’unica coppia generatrice di altri esseri umani, che avrebbero popolato la terra e formato un'unica grande famiglia con due soli genitori. Ma più avanti il Signore precisa:
“Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne” (Genesi 2:24).
Dio dunque voleva che la formazione dell'intera società umana avvenisse attraverso la costituzione di sottosocietà familiari composte da padre, madre e figli, ben distinte fra loro. Si può dire dunque che in origine, prima della caduta, la sola forma di sottosocietà prevista all’interno della società universale era la famiglia mononucleare composta da padre, madre e figli. Le famiglie patriarcali, come pure i single e le coppie senza figli, non erano previste. E neppure erano previste città e nazioni, entrambe da considerare come conseguenze del primo peccato, anche se, come vedremo, il Signore le userà poi per portare a compimento il suo piano di salvezza.
Nei due tipi di società previsti da Dio, l’universale e la familiare, l’individuo non si annienta, ma non esiste al di fuori della società. In entrambi i casi la società non si sbriciola in una miriade di singole particelle “aventi pari diritti e pari doveri”, ma in ogni forma di società esiste sempre un individuo che la rappresenta e ne risponde. Per l’intera società umana il rappresentante è Adamo, per la società familiare il rappresentante è l’uomo, come marito e padre.
• Il santuario
Nella Bibbia il termine santuario è usato soprattutto nella storica opera di salvezza compiuta da Dio attraverso Israele, ma se come santuario s’intende il luogo fisico e concreto dove il Creatore incontra la società delle sue creature in un rapporto d’amore e giustizia, allora possiamo dire che il primo santuario è stato il giardino di Eden e l’ultimo santuario sarà la nuova Gerusalemme, secondo la citazione già fatta dell’Apocalisse:
«E io, Giovanni, vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, che scendeva dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E udii una gran voce dal cielo, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Ed egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:2-3).
Se il santuario è il luogo in cui Dio vuole incontrare la società delle sue creature, sarà interessante riflettere sul modo in cui è stato vissuto il primo incontro, secondo quanto riportato nella Bibbia.
(1. continua)
(Notizie su Israele, 11 maggio 2025)
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Il negazionismo vince il Premio Pulitzer?
l poeta palestinese Mosab Abu Toha vince il premio per i suoi articoli pubblicati dal New Yorker in cui racconta la tragedia dell’ultimo anno e mezzo di guerra in Medio Oriente. Il problema? Nei pezzi non cita quasi mai Hamas (che ha fatto partire la guerra e ha il potere di fatto su ogni aspetto della vita palestinese, dalle scuole alla libertà di espressione) e sui social negava le torture agli ostaggi israeliani: al Pulitzer non se ne sono accorti?
di Riccardo Canaletti
Quanto è vero quel che diceva Carlo Maria Cipolla nel suo trattatello del 1988, Le leggi fondamentali della stupidità umana: esistono più stupidi di quel che crediamo e possiamo trovarli ovunque, anche tra i Pulitzer. Tuttavia, il poeta palestinese Mosab Abu Toha, premiato quest’anno per il miglior commento grazie a quattro saggi, non è tra loro. Legge aurea della stupidità (la terza) è infatti questa: “Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita”. Allora forse si potrebbe dire che è tra gli organizzatori e tra coloro che assegnano il Pulitzer che si annidano i veri stupidi, che nulla hanno da guadagnare da un “commentatore” e giornalista negazionista. È anche partita una petizione contro la premiazione: Mosab Abu Toha, infatti, non è solo un poeta che ha raccontato per il New Yorker la tragedia palestinese, ma anche uno scrittore molto attivo sui social, solo che quelli del Pulitzer non se ne sono accorti. Non hanno visto, per esempio, che Abu Toha ha negato o minimizzato la presenza di ostaggi nelle prigioni di Hamas dopo il 7 ottobre, sostenendo che le persone poi rilasciate fossero o soldati, o amici di soldati (e quindi complici) o semplici civili, vero, ma trattati bene.
L’accusa arriva proprio da un ex ostaggio, Emily Damari, per 15 mesi in mano a Hamas:
“Cari membri del consiglio direttivo dei Pulitzer Prizes, mi chiamo Emily Damari. Sono stata tenuta in ostaggio a Gaza per oltre 500 giorni. La mattina del 7 ottobre, ero a casa nel mio monolocale nel kibbutz Kfar Aza quando i terroristi di Hamas hanno fatto irruzione, mi hanno sparato e mi hanno trascinata oltre il confine, a Gaza. Ero una dei 251 uomini, donne, bambini e anziani rapiti quel giorno dai loro letti, dalle loro case e da un festival musicale. Per quasi 500 giorni sono stata affamata, maltrattata e trattata come se fossi meno che umana. Ho visto amici soffrire. Ho visto la speranza affievolirsi. Quindi immaginate il mio shock e il mio dolore quando ho visto che avete assegnato il Premio Pulitzer a Mosab Abu Toha. Quest’uomo, a gennaio, ha messo in dubbio il fatto stesso della mia prigionia. Ha pubblicato un post su di me su Facebook e ha chiesto: ‘Come diavolo si fa a chiamare questa ragazza ostaggio?’”
• Il post su Emily Damari
Per un commentatore la logica dovrebbe essere importante (la differenza tra la cronaca e l’opinione non è forse dare importanza alle notizie nel primo caso e dare importanza al modo di ragionare sopra le notizie nel secondo?). La domanda da porre a Abu Toha, e che il Pulitzer avrebbe potuto farsi prima di scegliere chi premiare, è questa: davvero Emily Damari è stata catturata come prigioniera militare e non come ostaggio civile? Se sì, allora Hamas aveva i dettagli e le informazioni per poter catturare solamente soldati dell’Idf che dormivano nelle loro case, come Damari; perché prendere come ostaggi anche civili, tra cui donne e bambini?Abu Toha non di rado, comunque, si è concesso licenze poetiche nel modo di gestire le notizie. Lo ha fatto una seconda volta con un altro ostaggio, Agam Berger, 19 anni, militare dell’Idf.
• Il post su Agam Berger
“L’ostaggio israeliano Agam Berger, rilasciata giorni fa, partecipa alla cerimonia di diploma della sorella in un corso per ufficiali dell’Aeronautica militare israeliana. Questi sono coloro per cui il mondo vuole esprimere solidarietà, assassini che si arruolano nell’esercito e hanno parenti nell’esercito!”.
Vale quanto detto per Damari.
Non basta. A febbraio del 2024, quando vennero rilasciati i corpi della famiglia Bibas, Abu Toha mise in dubbio la causa della morte. I corpi dei due bambini, Kfir e Ariel (9 mesi e 4 anni) uccisi insieme alla madre, Shiri Bibas erano stati riconsegnati da Hamas (il corpo della madre venne riconsegnato a giorni di distanza; prima Hamas aveva dato all’Idf il cadavere di un’altra donna, che però non era Shiri). Mentre Israele sosteneva, dopo averli identificati e dopo un’analisi forense, che fossero stati uccisi “a mani nude” dai rapitori, Hamas sosteneva invece che a ucciderli fosse stato uno dei vari bombardamenti israeliani su Gaza. Indovinate a quale delle due versioni Abu Toha non credeva? Quella di Israele ovviamente.
• Il post sui due fratelli Bibas
Abu Toha ha anche messo in dubbio ripetutamente le testimonianze di chi ha raccontato le torture durante la prigionia a Gaza. Per Abu Toha non ci sarebbero prove evidenti (come dei segni sul corpo) di torture. Peccato che uno dei testimoni, Eli Sharabi, liberato dopo 471 giorni, pesasse solo 44 chili, la metà del suo peso corporeo e meno della sua figlia più piccola. Forse Abu Toha la considera una dieta drastica e non una tortura? Sharabi ha anche raccontato la sua esperienza al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: “Per 491 giorni sono stato tenuto sottoterra nei tunnel del terrore di Hamas, incatenato, affamato, picchiato e umiliato. Sono sopravvissuto con avanzi di cibo, senza cure mediche e senza pietà”.
• Il post sulle torture agli ostaggi di Hamas
Minimizzare la violenza di Hamas non è, in ogni caso, solamente il suo lavoro sui social (il 7 ottobre Abu Toha raccontava dei primi bombardamenti israeliani, ma non una parola sull’attacco di Hamas in nessuno dei suoi canali). Anche negli articoli premiati il nome del gruppo terroristico che il 7 ottobre diede inizio all’’Operazione “Alluvione Al-Aqsa” che portò alla morte di 1.200 ebrei tra soldati, civili e forze dell’ordine (oltre ai 250 rapimenti di cui si è parlato), compare solo due volte in quattro lunghi pezzi che avrebbero dovuto raccontare la tragedia di quei giorni. Due volte, in riferimento all’attacco del 7 ottobre, e in entrambi i casi in contrapposizione alla malvagità di Israele.
“Quando Hamas attaccò Israele il 7 ottobre 2023, tre generazioni della mia famiglia vivevano insieme sotto lo stesso tetto. Cinque giorni dopo, le forze israeliane lanciarono volantini che ci intimavano di evacuare la zona”.
E poi: “Anche quando le forze israeliane iniziarono l'offensiva del 2023, in seguito all'attacco di Hamas del 7 ottobre , potevo comprare un chilo di pane per circa un dollaro. L'UNRWA contribuì a mantenere basso il prezzo prelevando sacchi di farina dai depositi e distribuendoli ai panifici. Dopo l'invasione israeliana, tuttavia, le file per il cibo iniziarono ad allungarsi; nulla poteva passare attraverso i confini settentrionali di Gaza. Spesso aspettavo ore per comprare qualche pagnotta, e quando i panifici erano a corto di carburante a volte tornavo a mani vuote. E quando lessi dei raid aerei che avevano distrutto i panifici a Gaza City e nella zona centrale di Gaza, iniziai ad avere paura di mettermi in coda”.
Le cose brutte accadono sempre dopo la risposta di Israele, mai dopo l’attacco di Hamas. Sono le forze israeliane che lanciarono i volantini, l’invasione da parte di Israele… non il pogrom ebraico di Hamas. Ma anche questo deve essere sfuggito al Comitato del Pulitzer.
(MOW, 10 maggio 2025)
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Papa Leone XIV: tra speranza e incognite nel dialogo
di Luca Spizzichino
Con l’elezione di Papa Leone XIV, nato Robert Francis Prevost a Chicago nel 1955, la Chiesa cattolica apre un nuovo capitolo nel cammino del dialogo interreligioso, in particolare con il popolo ebraico, e con lo Stato di Israele. Se il suo passato offre segnali di speranza, il futuro resta per ora una pagina ancora tutta da scrivere.
Leone XIV non è estraneo ai temi del confronto tra religioni. Durante gli anni di formazione al Catholic Theological Union di Chicago, studiò sotto la guida del reverendo John T. Pawlikowski, figura di riferimento nel dialogo ebraico-cristiano nel secondo dopoguerra. Intervistato dalla Jewish Telegraphic Agency, Pawlikowski – co-fondatore del Programma di Studi Cattolico-Ebraici della scuola e per anni membro del consiglio del Museo dell’Olocausto di Washington – ha ricordato il nuovo pontefice come uno “studente brillante” e “aperto”, profondamente immerso nello spirito del Concilio Vaticano II e della Nostra Aetate: il documento che nel 1965 rigettò l’antisemitismo e scagionò collettivamente il popolo ebraico dall’accusa di deicidio. Tuttavia, Leone XIV non ha finora mostrato un interesse diretto per il dialogo ebraico-cristiano. Dopo decenni trascorsi in missione in Perù e in America Latina, non ha mai operato in contesti con significative presenze ebraiche. Il suo primo discorso da pontefice, incentrato su pace e dialogo, è stato letto come una dichiarazione di principio.
Un pensiero condiviso nei messaggi di augurio giunti dai vertici dell’ebraismo italiano e mondiale. “Formulo al nuovo Papa Leone XIV appena eletto i migliori auguri di successo nell’impegnativa missione che gli è stata affidata per il bene dell’umanità. Confido nel suo impegno a mantenere e promuovere i rapporti di collaborazione, rispetto e amicizia tra le nostre comunità”, ha dichiarato il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni. Le Comunità ebraiche italiane hanno espresso in una nota “le congratulazioni per la nomina al soglio pontificio: un augurio sincero per questo giorno di letizia che nutre le speranze e apre i cuori di tutti i fedeli delle Chiese cristiane”. Ma il messaggio si estende alle grandi questioni globali: “Le sfide storiche, le dure prove esistenziali e morali che ci troviamo a vivere in Europa e in Medio Oriente, dinanzi alle laceranti guerre e minacce, richiamano tutti, e in particolare i leader religiosi, ad altissime responsabilità verso ogni essere vivente, consapevoli dell’imperativo di agire con ogni sforzo di convivenza e ricerca della pace”. L’Ambasciatore Ronald S. Lauder, presidente del World Jewish Congress, si è congratulato con Papa Leone XIV, dicendosi “impaziente di continuare e approfondire questo dialogo essenziale in un momento di crisi globale. L’importanza di questa relazione è ancora più accentuata”.
Israele osserva con attenzione l’inizio di questo nuovo pontificato, viste anche le posizioni espresse da Papa Francesco in materia del conflitto in Medio Oriente. Le relazioni tra Gerusalemme e il Vaticano si erano raffreddate negli ultimi mesi del pontificato di Papa Francesco, in particolare a seguito delle sue dichiarazioni critiche sull’operazione militare israeliana a Gaza. Il governo israeliano ha già espresso l’auspicio che con Leone XIV si possa “rafforzare la relazione tra Israele e la Santa Sede e l’amicizia tra ebrei e cristiani nella Terra Santa e nel mondo”, come ha scritto il Presidente Isaac Herzog, e “promuovere speranza e riconciliazione tra tutte le fedi”, come ha affermato il premier Benjamin Netanyahu.
Cosa aspettarsi, dunque? Papa Leone XIV si presenta come un pontefice sobrio, pragmatico, con una sensibilità maturata durante gli anni in missione. Ha sostenuto riforme importanti, ma mantiene una postura conservatrice su temi centrali della dottrina cattolica. Il rabbino Noam Marans dell’American Jewish Committee ha sottolineato che “un papa americano fa ben sperare per il futuro delle relazioni ebraico-cattoliche”, ma resta aperta la questione centrale: il nuovo papa darà continuità alla linea di Papa Francesco? O imboccherà una via più prudente, lasciando che siano le circostanze a dettare tempi e modi?
Il 60º anniversario della Nostra Aetate, che ricorre proprio quest’anno, potrebbe rappresentare un’occasione cruciale: un momento per riaffermare pubblicamente la volontà della Chiesa di camminare accanto al popolo ebraico. Se, come ha osservato il rabbino Marans, “tutti i papi vogliono la pace”, il mondo — e la comunità ebraica in particolare — si chiede ora se Papa Leone XIV saprà anche volerla con gesti chiari, dialoghi sinceri e un rinnovato impegno verso Israele e il popolo ebraico.
(Shalom, 9 maggio 2025)
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Gerusalemme – Ong israeliane e palestinesi chiedono insieme la pace
Nei massacri del 7 ottobre Maoz Inon ha perso entrambi i genitori, assassinati da Hamas nel kibbutz Nir Am. Entrambi erano attivisti per la pace, impegnati nel garantire ai bambini gazawi le migliori cure negli ospedali israeliani. Anche Inon è un attivista. È stata la telefonata di un collega palestinese che aveva conosciuto di sfuggita a un convegno, Aziz Abu Sarah, a portarlo su quella strada alcune settimane dopo la strage, nel pieno di giornate di smarrimento e rabbia. «Capisco il tuo dolore», gli ha detto Abu Sarah, raccontandogli di aver perso un fratello nella seconda Intifada e di come la sua vita è cambiata dal momento in cui ha messo da parte il risentimento e iniziato a impegnarsi nel dialogo tra i due popoli. Venerdì mattina sono saliti insieme sul palco del People’s Peace summit, evento pacifista organizzato da una sessantina di ong israelo-palestinesi in un centro congressi nel cuore di Gerusalemme, davanti a migliaia di persone. Scopo della coalizione “It’s time” è «lavorare insieme con determinazione e coraggio per porre fine al conflitto attraverso un accordo politico che garantisca il diritto di entrambi i popoli all’autodeterminazione e alla sicurezza». Sul palco sono saliti anche familiari di ostaggi, riservisti dell’esercito, ex diplomatici, medici e attivisti. Voci ebraiche e voci arabe. Come Somala Bashir, che guida la divisione araba del movimento femminista Women Wage Peace: «Sono un’orgogliosa cittadina, donna e madre. Le donne lo sanno: questo è il momento di agire». Era parte della stessa “famiglia” Vivian Silver, la celebre attivista israelo-canadese uccisa nel kibbutz Be’eri, alla cui memoria è stato dedicato un lungo applauso. Più volte gli intervenuti hanno puntato il dito contro il governo israeliano, accusandolo di portare il paese nel baratro per la sua gestione della guerra a Gaza. Ha tra gli altri inviato un messaggio da Ramallah il leader dell’Anp Abu Mazen, secondo il quale «la pace può essere raggiunta garantendo dignità, libertà e indipendenza; e con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese». Mentre da Parigi, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato: «La vostra mobilitazione è un segnale di speranza in un tempo segnato dal dolore, dalla paura e dall’incomprensione». Hanno poi preso il via alcune sessioni. Una delle quali ha tra i suoi relatori l’ex premier israeliano Ehud Olmert e l’ex ministro degli Esteri dell’Anp Nasser al-Qudwa, che da mesi girano il mondo con il progetto di un piano di pace che riprende a grandi linee quello presentato nel 2008 dallo stesso Olmert ad Abu Mazen. «Nei prossimi cinquant’anni non troverete un solo leader israeliano che vi proporrà quanto vi sto proponendo io», gli disse Olmert. Ma, come noto, Abu Mazen fece orecchie da mercante. a.s.
(moked, 9 maggio 2025)
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“People’s Peace”, “Women Wage Peace”, Abu Mazen: “la pace può essere raggiunta garantendo dignità, libertà e indipendenza; e con Gerusalemme Est capitale dello Stato palestinese”. E ci sono quelli che girano il mondo con un “progetto di un piano di pace". E c’è Macron che da Parigi benedice gli attivisti della pace con nobili parole: “La vostra mobilitazione è un segnale di speranza”. La Bibbia dice altro: “Essi curano alla leggera la piaga del mio popolo; dicono: 'Pace, pace', mentre pace non c’è” (Geremia 6:14, 8:11). Gli attivisti della pace però la cercano, e qualcuno tra loro certamente pensa di aver capito quello che anzitutto si deve fare: distruggere Israele. Sinewar l’aveva capito. E ci ha provato. E molti si dispiacciono che non ci sia riuscito. M.C.
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Giudea e Samaria: importanti dal punto di vista spirituale e strategico
I politici israeliani stanno prendendo coscienza della saggezza di Dio, che a loro ha sempre detto: non dividete la mia terra.
di Ryan Jones
Il cuore biblico della Giudea e della Samaria, che il mondo ama chiamare “Cisgiordania”, è il luogo in cui si svolgono la maggior parte degli eventi delle Sacre Scritture. L'area è di fondamentale importanza per la storia e per l'adempimento delle profezie. È anche di fondamentale importanza per la sicurezza di Israele.
L'ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Mike Huckabee, ha recentemente visitato la Samaria, dove il capo del consiglio regionale, Yossi Dagan, gli ha consegnato una mezuzah realizzata con le pietre dell'altare di Giosuè sul monte Ebal.
Profondamente commosso da questo gesto, Huckabee ha promesso di appendere la mezuzah alla porta del suo ufficio, «come promemoria che ci sono persone che pregano per la pace di Gerusalemme... e della Giudea e della Samaria». Huckabee, ex predicatore battista, è un forte sostenitore della sovranità ebraica in Giudea e Samaria, innanzitutto come parte importante della profetizzata restaurazione di Israele.
Dio non è uno sciocco, e la sua Parola sottolinea l'importanza di queste terre per il futuro di Israele per una buona ragione. Israele, invece, negli ultimi decenni si è comportato in modo stolto, giocando con l'idea di poter rinunciare a questi territori in cambio di un pessimo accordo di pace.
Il comandante in pensione della Delta Force statunitense, il tenente generale William Boykin, un rispettato esperto militare, era di parere diverso quando ha visitato la Samaria all'inizio di questo mese. “Se non creiamo una situazione in cui qui abbiamo la sovranità, vivremo un altro 7 ottobre”, ha dichiarato, sottolineando il ruolo delle comunità ebraiche come ‘cintura di sicurezza’ che protegge milioni di persone nei centri urbani di Israele.
La sinistra israeliana si sta svegliando tardi e sta riconoscendo che l'abbandono degli ‘insediamenti’ ebraici è una ricetta per il disastro. Nel 2005, i politici di sinistra hanno deriso le voci di destra che si opponevano al ritiro dalla Striscia di Gaza e insistevano a chiedere che Israele mantenesse a tutti i costi una presenza ebraica nella striscia costiera. Le garanzie americane avrebbero assicurato che la Striscia di Gaza non diventasse un rifugio per i terroristi, sostenevano.
Oggi cantano una melodia diversa, che riflette la valutazione di Boykin sull'importanza cruciale degli insediamenti ebraici.
“Ora mi rendo conto che il ritiro è stato un errore. Non il desiderio di separarsi da due milioni di palestinesi – quello era logico – ma l'atto stesso, che a causa della debolezza dell'Autorità Palestinese ha portato alla presa di potere di Hamas nella Striscia di Gaza”, ha dichiarato il presidente Isaac Herzog alla fine del mese scorso in un'intervista alla vigilia della Giornata dell'Indipendenza.
Nel 2005 Herzog era deputato del Partito Laburista e ministro dell'edilizia abitativa nel governo di Ariel Sharon. All'epoca scrisse un articolo sui media stranieri in cui definiva il ritiro delle comunità ebraiche dalla Striscia di Gaza “la migliore speranza per una pace duratura”.
All'inizio di questa settimana, Herzog ha dichiarato alla Makor Rishon Settlement Conference che le comunità israeliane in Giudea e Samaria fungono da “muro difensivo dello Stato ebraico in tutti i sensi”.
“Durante le mie numerose visite in tutto il Paese – e naturalmente in Giudea e Samaria – e soprattutto quando sorvolo il Paese in elicottero, mi convinco sempre più di quanto sia vitale, impressionante e fiorente l'attività di insediamento”, ha affermato Herzog in una dichiarazione preregistrata.
Anche il leader dell'opposizione Benny Gantz è intervenuto alla conferenza, concordando con Herzog sul fatto che il ritiro dalla Striscia di Gaza nel 2005 è stato un “errore strategico”.
Gantz ha affermato che Israele non deve accettare ulteriori cessioni di territori e ha definito “irrealistiche” le attuali discussioni su uno Stato palestinese indipendente.
(Israel Heute, 9 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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India-Pakistan: eliminato uno degli assassini di Daniel Pearl
di Nathan Greppi
Nel corso dell’Operazione Sindhoor, avviata dall’India nell’ambito degli scontri degli ultimi giorni con il Pakistan, il governo di Nuova Delhi ha recentemente annunciato di aver eliminato Abdul Rauf Azhar, terrorista pakistano che nel 2002 partecipò all’omicidio del giornalista ebreo americano Daniel Pearl .
Secondo il Jerusalem Post, l’annuncio è stato fatto giovedì 8 maggio dal BJP, principale partito nell’attuale governo indiano. Azhar era affiliato ad Al-Qaeda e a Jaish-e-Mohammed, un gruppo jihadista avente come obiettivo la separazione della regione del Kashmir dal resto dell’India per accorparla al Pakistan.
• Chi era Daniel Pearl
All’inizio degli anni 2000, Pearl era a capo dell’ufficio per l’Asia Meridionale del Wall Street Journal. Inizialmente di stanza a Nuova Delhi, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 si trasferì a Karachi, in Pakistan. Proprio a Karachi, il 23 gennaio 2002 venne rapito in un albergo da un gruppo di terroristi islamisti, che lo accusarono di essere una spia sul libro paga d’Israele e posero agli Stati Uniti diverse condizioni per la sua liberazione.
Il governo americano non riuscì a farlo liberare. In un video apparso poco prima del suo omicidio, Pearl rivendicò il suo essere ebreo e l’avere un legame con Israele: “Mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo. La mia famiglia osserva l’ebraismo. Nella città di Bnei Brak (in Israele, ndr), c’è una via intitolata al mio bisnonno, Chaim Pearl, che è stato uno dei fondatori della città”, disse nel video.
• Gli ultimi eventi
L’India ha lanciato l’Operazione Sindhoor, a detta loro per colpire delle infrastrutture terroristiche, in risposta ad un attentato compiuto nel Kashmir da parte di terroristi pakistani, che ha provocato la morte di 26 persone di fede induista.
Il BJP ha affermato che Azhar era coinvolto in una serie di attentati terroristici, tra cui il dirottamento di un volo della Indian Airlines nel 1999, l’attacco alla base dell’aeronautica militare di Pathankot del 2016 e l’attacco terroristico del 2001 al parlamento indiano.
L’escalation tra i due paesi negli ultimi giorni è stata una considerevole fonte di preoccupazione per gli osservatori internazionali, anche perché l’India e il Pakistan sono entrambi dotati di armi nucleari.
(Bet Magazine Mosaico, 9 maggio 2025)
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Trump abbandonerà Israele a favore dell'Arabia Saudita?
Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner parla del controverso programma nucleare per l'Arabia Saudita e della rottura delle relazioni tra Israele e Stati Uniti.
di Itamar Eichner
Se la notizia di Reuters è vera, cioè che Donald Trump non chiede più a Ryad di normalizzare i rapporti con Israele come condizione per progredire nei colloqui sul programma nucleare civile in Arabia Saudita, questa sarebbe la prova che Trump ha gettato Israele sotto l'autobus.
Questa notizia però non arriva dal nulla. Si inserisce in una serie di mosse americane che hanno scosso Israele negli ultimi mesi: il dialogo segreto con l'Iran, la dichiarazione degli Stati Uniti su un accordo con gli Houthi, di cui Israele ha appreso solo dai media, l'omissione di una visita in Israele durante un viaggio in Medio Oriente, le relazioni cordiali con Erdoğan a scapito di Israele, il previsto ritiro dalla Siria e molto altro ancora.
Trump ne ha semplicemente abbastanza di Benjamin Netanyahu. Il governo statunitense è frustrato dall'atteggiamento di rifiuto di Israele e dagli ostacoli che Gerusalemme sta ponendo alla visione di Washington per il Medio Oriente, una visione che dovrebbe valere a Trump il Premio Nobel per la Pace.
Fonti vicine alla vicenda affermano che la normalizzazione con l'Arabia Saudita è in fase di stallo da tempo. Ci sono state fasi in cui Netanyahu ha dato al suo consigliere Ron Dermer il via libera per formulare proposte e opzioni di progresso, ma ora non è più possibile perché la guerra continua. Gli americani vedono Israele come un ostacolo e il messaggio è chiaro: gli Stati Uniti portano avanti i colloqui con l'Arabia Saudita indipendentemente dalla posizione di Israele. Israele non può più imporre nulla. Il messaggio è chiaro: nessuno aspetta più Israele.
La questione di un programma nucleare civile per l'Arabia Saudita è complessa e gli ambienti informati non sono convinti che ci siano già accordi, né tantomeno su un'alleanza difensiva. La questione non può essere considerata separatamente dal dialogo tra Stati Uniti e Iran. Se gli Stati Uniti adottano una linea dura nei confronti dell'Iran e chiedono lo smantellamento delle centrifughe, non possono allo stesso tempo consentire ai sauditi di arricchire l'uranio sul proprio territorio, e viceversa.
D'altra parte, i colloqui tra gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita su giganteschi accordi di armamenti stanno facendo progressi significativi. Anche in questo caso, Israele non gioca più un ruolo significativo.
Si pone un'altra domanda: se gli americani concedono ai sauditi ciò che hanno già concesso agli Emirati Arabi Uniti, non vi è alcuna violazione degli accordi precedenti. Tuttavia, se l'Arabia Saudita ottenesse il controllo completo del ciclo del combustibile nucleare, ciò sarebbe soggetto all'approvazione del Congresso.
All'interno degli Stati Uniti ci sono lotte di potere su questa questione. È del tutto possibile che il rapporto di Reuters sia solo un altro pallone sondato da Trump per valutare le reazioni.
La reazione del senatore Lindsey Graham suggerisce che un programma nucleare civile per l'Arabia Saudita senza la normalizzazione con Israele non è ancora cosa fatta. Graham considera la normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele parte del suo patrimonio politico. Ha chiarito: “Non sosterrò mai un accordo di difesa con l'Arabia Saudita o altri elementi di un accordo proposto se la normalizzazione delle relazioni con Israele non fa parte del pacchetto. La normalizzazione è una componente fondamentale”.
Finora Israele non ha formulato una posizione ufficiale sulla questione nucleare dell'Arabia Saudita. Prima del 7 ottobre c'erano state delle discussioni, ma i negoziati non erano molto avanzati e si erano svolti sotto l'amministrazione Biden.
Israele è preoccupato dal fatto che si stia cercando una svolta non solo con l'Iran, ma ora anche con l'Arabia Saudita e che si parli di arricchimento dell'uranio. Per Israele, l'arricchimento sul suolo saudita è un problema serio. Israele non può accettare l'arricchimento dell'uranio in Medio Oriente. È pericoloso dare agli Stati la capacità di produrre autonomamente materiale fissile. Ciò non significa però che non esistano alternative, come l'arricchimento in un Paese terzo sotto il controllo degli Stati Uniti.
Ufficialmente Israele tace. Anche dopo l'annuncio di Trump sull'accordo con gli Houthi non c'è stata alcuna reazione da Gerusalemme. Sembra che le relazioni con gli Stati Uniti stiano diventando sempre più incontrollabili. Gli errori di Dermer si accumulano e nessuno lo chiama a rispondere delle sue azioni.
Il leader dell'opposizione Yair Lapid ha commentato: “Da anni metto in guardia da un accordo saudita che prevede l'arricchimento dell'uranio. È incomprensibile che Netanyahu rimanga in silenzio mentre prende forma un accordo che potrebbe scatenare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente e portare le capacità nucleari nelle mani sbagliate”.
Un insider ben informato sulle relazioni israelo-americane ha affermato che l'affermazione di Netanyahu secondo cui non vi è alcuna rottura tra Israele e gli Stati Uniti non è più sostenibile da tempo.
(Israel Heute, 9 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il piano di Hamas per trasformare Gaza in un altro Libano
di Yakoov Lappin
L’obiettivo principale di Hamas in questo momento è garantirsi un cessate il fuoco per riuscire a sopravvivere alla guerra, ricostruire il suo esercito terroristico e consolidare il proprio controllo politico sulla Striscia di Gaza.
Per raggiungere questo obiettivo, ha mostrato la sua volontà di creare un modello di governance a Gaza simile al controllo del Libano da parte di Hezbollah prima della guerra: un governo riconosciuto a livello internazionale che fornisca una facciata di autorità, mentre Hamas mantiene il pieno controllo militare-terroristico sul campo e di fatto il potere politico.
Ciò consentirebbe all’organizzazione jihadista di riorganizzarsi, riarmarsi e infine riprendere la sua guerra contro Israele nel momento più propizio, con l’ulteriore possibilità di vantarsi presso i palestinesi di essere stata in grado di lanciare il peggiore omicidio di massa di ebrei dai tempi dell’Olocausto e di essere sopravvissuta in misura tale da uscirne vincitrice.
Tutte le proposte avanzate nella regione – quella dell’Egitto, che suggerisce che l’Autorità Nazionale Palestinese assuma il controllo politico attraverso un governo di tecnocrati; così come le idee avanzate, anche in Israele, di una Gaza governata da una coalizione regionale – porterebbero a questa pericolosa situazione, simile a quella del Libano. Ciò avverrebbe perché Israele non ha ancora completato la sua campagna militare contro Hamas.
Il 4 marzo, durante un vertice al Cairo tenutosi per presentare un’alternativa araba al piano del presidente Trump per Gaza, il presidente egiziano Fateh El-Sisi ha dichiarato: “L’Egitto si oppone allo sfratto dei palestinesi e sostiene il loro diritto a rimanere nella loro terra. Non prenderemo parte a questi piani. L’Egitto sostiene la continuazione del cessate il fuoco e la creazione di uno Stato palestinese indipendente. L’Egitto sostiene l’istituzione di un comitato amministrativo basato su tecnocrati indipendenti che gestirà temporaneamente la Striscia e supervisionerà gli aiuti, fino al ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese”.
Secondo un articolo della Reuters del 3 marzo, l’Egitto ha elaborato una roadmap per Gaza che propone “un governo provvisorio da parte di una coalizione di stati arabi, musulmani e occidentali”. Il piano non fornisce dettagli su come Hamas verrebbe emarginata, chi pagherebbe la ricostruzione di Gaza o come verrebbe strutturata la governance.
In particolare, Hamas, secondo diverse fonti, ha già dichiarato di accettare tali accordi. Questa è una chiara indicazione che il gruppo terroristico li considera un mezzo per mantenere la propria presa sul potere.
Il 17 febbraio, i media arabi riportavano che Hamas avrebbe accettato di trasferire il controllo di Gaza all’Autorità Nazionale Palestinese. Sky News Arabia ha riferito che Hamas ha preso questa decisione sotto la pressione egiziana, nel contesto dei negoziati per un cessate il fuoco e un accordo sul rilascio degli ostaggi con Israele. Il portavoce del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Omer Dostri, ha respinto categoricamente l’idea, scrivendo su X: “Non accadrà”.
Analogamente, l’agenzia Anadolu ha riferito il 5 dicembre 2024 che Hamas aveva “accettato la proposta egiziana di formare un comitato palestinese congiunto per gestire la Striscia di Gaza dopo la guerra israeliana in corso”. Hamas ha dichiarato di aver tenuto colloqui con Fatah, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e altre fazioni terroristiche palestinesi per discutere “l’attuazione di quadri precedentemente concordati per raggiungere l’unità palestinese”.
Nonostante queste vaghe formulazioni, la realtà di fondo è che Hamas non ha alcuna intenzione di rinunciare al controllo su Gaza e, ovviamente, non perderebbe tempo a sfruttare le amministrazioni fittizie a Gaza per riaffermare il controllo e consolidarsi militarmente ancora una volta.
• Il modello Hezbollah: una trappola che Israele non può permettersi
Il modello per Gaza che Hamas sembra intenzionato ad adottare è direttamente ispirato al precedente status di Hezbollah in Libano, dove il gruppo terroristico manteneva il controllo militare assoluto nonostante l’esistenza di un governo libanese nominalmente sovrano.
Prima dell’attuale guerra, Hezbollah dettava la politica di sicurezza del Libano, godeva di fatto di un potere di veto sulle decisioni del governo libanese, gestiva uno stato ombra per la sua base sciita libanese ed era la forza militare più forte del Paese con un ampio margine, surclassando le Forze armate libanesi, nelle quali si infiltrava tramite i suoi ufficiali e soldati sciiti.
Nonostante l’esistenza di un governo libanese, Hezbollah gestiva una propria struttura di comando militare e accumulava mostruose quantità di armi con il sostegno dell’Iran, mentre il governo libanese fungeva da fronte impotente per la legittimità internazionale.
Questo accordo è infine crollato quando la presenza di Hezbollah in Libano è stata disarticolata da Israele in una guerra che ne ha paralizzato le infrastrutture e il controllo territoriale. Oggi, il governo libanese sta mostrando i primi segni di vera sovranità, confiscando il denaro che finanzia il terrorismo in transito attraverso l’aeroporto di Beirut e vietando i voli iraniani sospetti. C’è ancora molta strada da fare.
Hamas cercherebbe probabilmente di replicare la precedente configurazione di Hezbollah a Gaza. In caso di successo, ciò gli permetterebbe di ricostruire le proprie capacità militari, impedendo a Israele di intraprendere azioni decisive a livello diplomatico.
Qualsiasi tentativo da parte di Israele di neutralizzare Hamas in uno scenario del genere incontrerebbe l’indignazione internazionale per la violazione della sovranità dell'”autorità di governo riconosciuta” di Gaza, anche se tale autorità non avesse alcun potere effettivo. Qualsiasi forza di peacekeeping internazionale subirebbe la stessa sorte dell’UNIFIL in Libano, e verrebbe ridotta a un osservatore inefficace, usato dai terroristi come scudi umani negli scontri a fuoco con Israele.
Le conseguenze di un simile esito sarebbero disastrose. Hamas sfrutterebbe il tempo guadagnato grazie a un cessate il fuoco per riarmarsi con armi provenienti dall’Iran, contrabbandare tecnologia militare e probabilmente iniziare a ricostruire il suo sistema di tunnel e missili. Sotto la copertura di un organo di governo approvato a livello internazionale, Hamas potrebbe potenziare le sue capacità militari impunemente. Questo è esattamente ciò che Hezbollah ha fatto in Libano, accumulando un vasto arsenale e usando il governo libanese come scudo contro l’azione israeliana.
Di conseguenza, l’unica via percorribile è che Israele, prima o poi, torni a combattere a Gaza, mantenga il controllo del territorio questa volta e ottenga il pieno controllo militare e politico della Striscia per almeno diversi mesi. Ciò è necessario per garantire:
- La distruzione totale del regime militare e politico di Hamas
Senza smantellare completamente la struttura di comando, la leadership e le forze armate di Hamas, qualsiasi accordo di governo sarà privo di significato. Finché Hamas manterrà le sue armi e la sua capacità operativa, sarà il governatore de facto di Gaza e i gazawi non coopereranno mai con alcuna visione post-Hamas.
 - Una presenza di sicurezza israeliana a lungo termine con piena libertà operativa
Qualsiasi futuro accordo di governance deve consentire a Israele di condurre ovunque operazioni antiterrorismo all’interno di Gaza, in qualsiasi momento, senza alcuna restrizione. Ciò significa una supervisione completa della sicurezza, con l’IDF che mantiene la capacità sia di colpire i resti di Hamas da terra, aria e mare, sia di impedirne il riarmo. Gaza deve diventare una versione dell’Area A in Giudea e Samaria, dove l’IDF opera di notte per impedire all’Iran e a Hamas di costruire un esercito terroristico che minaccerebbe il centro di Israele.
Solo dopo che queste condizioni saranno soddisfatte, un’autonomia moderata – sostenuta dagli Stati del Golfo e dagli Stati Uniti – potrà essere considerata una possibile struttura di governance per Gaza. Anche in quel caso, Israele dovrà mantenere la piena libertà operativa in materia di sicurezza per prevenire qualsiasi recrudescenza del terrorismo.
(L'informale, 9 maggio 2025 - trad. Niram Ferretti)
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Eurovision. Eden Golan: “Avevo paura che mi sparassero sul palco. L’odio? L’ho trasformato in forza”
di Luca Spizzichino
A un anno dalla sua partecipazione all’Eurovision Song Contest 2024, la cantante israeliana Eden Golan ha rilasciato un’intervista toccante a Walla! in cui ha raccontato le sue paure, i momenti più duri e la forza con cui ha affrontato l’odio ricevuto sul palco europeo.
“Dopo il 7 ottobre non dormivo la notte” ha rivelato Golan, riferendosi agli attacchi terroristici che hanno colpito Israele. La giovane cantante, allora appena ventenne, ha rappresentato Israele in un clima teso, segnato da minacce di morte, ostilità e proteste. “Mi sono trovata in mezzo a fischi e insulti, ma ho deciso che non avrei lasciato che quelle voci entrassero nella mia testa. È stato durissimo. Ma sono orgogliosa di me. Poteva diventare un trauma, e invece l’ho trasformato in forza”, ha proseguito. Nonostante gli auricolari con cancellazione del rumore, Golan ha raccontato che durante le prove e la performance finale i fischi erano chiaramente udibili. “Pensavo di non sentire nulla. Ma appena sono salita sul palco, ho capito che la realtà era diversa. Tutto il team piangeva. Mia madre mi ha detto: ‘Non riuscivo a respirare vedendoti così, sei venuta solo per cantare’. Eppure, mi sono fatta forza. Ho parlato con me stessa, mi sono concentrata e ho trasformato l’odio in energia”. Golan ha anche raccontato di aver avuto pensieri cupi, specie dopo aver ricevuto minacce gravi. “Ho pensato: e se non torno? Avevo paura che mi sparassero sul palco. Ma a Malmö ho deciso di lasciare andare la paura. Avevo otto guardie del corpo e perfino elicotteri, ma ho scelto di non pensarci”.
A colpire particolarmente è stato il clima di isolamento. “Su 37 delegazioni, solo quattro sono state calorose. Tali del Lussemburgo è fantastica. Anche i rappresentanti di Francia e Germania sono stati gentili. Ma molti altri – irlandesi, greci, olandesi – sono stati ostili. Karma is a bitch, posso dirlo? L’energia che si mette nel mondo torna indietro”, ha sottolineato la cantante israeliana. Ha poi ricordato un episodio emblematico: “Avevo fatto un TikTok con il cantante finlandese. In pochi minuti, il suo manager è entrato nella mia stanza – senza bussare – e ha chiesto di rimuoverlo. Nessuno voleva essere visto con me, temevano ripercussioni”. Anche dietro le quinte, Golan e la delegazione israeliana hanno subito discriminazioni. “Il giorno della finale ci hanno cacciati dall’area artisti. Ma alla fine ci hanno dato una stanza enorme e tranquilla. È stato quasi un regalo”.
Ora, Eden tornerà all’Eurovision 2025 come portavoce dei voti israeliani e spera che le restrizioni dello scorso anno – come il divieto di indossare la spilla gialla per gli ostaggi – vengano revocate. “Se sono state permesse bandiere e simboli palestinesi, non c’è motivo di vietare un segno che chiede la liberazione di ostaggi civili”. Sul futuro non si sbilancia: “Tornare in gara? Mai dire mai. Ma se lo faccio, sarà solo per vincere. Il quinto posto dell’anno scorso, raggiunto esclusivamente grazie al televoto del pubblico, è stato un risultato storico”.
Infine, un pensiero per Yuval Raphael, rappresentante di Israele per l’edizione 2025: “Le ho dato tanti consigli. È pronta. Il pubblico sarà più piccolo quest’anno, forse ci saranno meno fischi. Ma la cosa più importante è una sola: godersi ogni istante”.
(Shalom, 9 maggio 2025)
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Il Giubileo e l’equità sociale
di Roberto Jona
In questi giorni si sente parlare del Giubileo proclamato da Papa Francesco: l’istituzione dello yovel è antica e ha preceduto l’Era Volgare. Per comprenderne il significato occorre andare alle origini: l’insediamento degli Ebrei nella Terra di Israele. Arrivati nella Terra Promessa, dopo la schiavitù in Egitto, il popolo ebraico si divise la terra a seconda della consistenza numerica delle tribù e le famiglie. Il sistema era “liberale”, il commercio cioè era libero e le compravendite permesse, anche quelle dei terreni. È ovvio che dopo mezzo secolo le proprietà terriere si “spostino”. Bisogna sottolineare che il possesso della terra aveva un valore diverso e maggiore, di quello odierno.
Nel mondo di oggi la sussistenza è data dal lavoro. Che sia dipendente o autonomo non importa, ma il lavoro non concerne necessariamente la lavorazione della terra. Tutti, anche oggi, dipendiamo dalle produzioni della terra, cioè dall’agricoltura, ma molti possono accedere ai prodotti dell’agricoltura per sostentarsi senza però lavorare la terra: rendono con il loro lavoro un servizio a qualcuno che lavora la terra, ne trae i frutti e cede i frutti della terra in cambio del servizio ricevuto. Nell’antichità, ma anche pochi decenni fa, il contatto individuo-produzione della terra era molto più diretto.
Oggi un bambino non si rende conto che la frutta non la “fa” il fruttivendolo, la farina con cui si “fa” il pane non l’ha “creata” il fornaio e così via. Con l’estensione della vita in città, la natura tende a sparire dalla vista e soprattutto dal sentimento dei consumatori.
Ma il commercio, cioè la compravendita, dei terreni poteva avere ed aveva un effetto gravemente negativo: qualcuno più abile o fortunato poteva accumulare la proprietà di molti terreni, a scapito di altri. E, come è stato appena detto, la proprietà del terreno significava la sussistenza, cioè la vita, la sopravvivenza.
Un istituto strano, direi sorprendente e senz’altro originale, stabilito nella Torah, invece, evitava grossi squilibri di ricchezze e benessere tra le varie persone. Ogni 50 anni la proprietà dei terreni ritornava (gratuitamente) al proprietario originale. Era il giubileo, lo jovel. Questo evitava grandi accumuli di beni ed evitava grandi squilibri di ricchezza. È chiaro che se il terreno veniva venduto l’anno successivo allo jovel aveva un valore piuttosto elevato perché c’era una prospettiva di possesso per 49 anni, ma se si vendeva l’anno precedente al giubileo il valore scendeva perché l’acquirente avrebbe potuto godere dei frutti di quella terra solo per un anno: l’anno successivo, con l’arrivo dello jovel, avrebbe dovuto restituire gratuitamente il terreno al proprietario originario.
Lo jovel era quindi uno strumento di equità sociale grazie al livellamento delle ricchezze e sorprende che non sia mai stato preso in considerazione dai vari movimenti politici socialisti che concentravano l’azione politica sull’eguaglianza delle ricchezze nella popolazione.
Un altro aspetto, che oggi non è più attuale, ma che in passato aveva un peso rilevante era l’affrancamento degli schiavi. Certe persone, in conseguenza di vicende varie, divenivano schiave ed erano tenute a lavorare (senza compenso) per un “padrone”. Oggi è una situazione addirittura impensabile, ma nei secoli del passato la schiavitù era una colonna portante della società.
E nel mondo questa situazione era vita, senza dimenticare che nelle campagne degli Stati Uniti l’istituto della schiavitù si è protratto fino al XIX° secolo. Lo yovel però prevedeva che una volta ogni mezzo secolo gli schiavi divenissero persone libere: un concetto rivoluzionario! Un concetto che nemmeno i più famosi teorici del socialismo (Karl Marx, Friedrich Engels ecc.) hanno saputo immaginare.
In conclusione, il Giubileo, di cui oggi si sente parlare, ha assunto un significato molto diverso da quello che era in origine, ed è stato un importante strumento di equità sociale.
(moked, 9 maggio 2025)
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La confusione della “Sinistra per Israele”: finire la guerra è la pace di Hamas, la reazione proporzionata era replicare il 7 ottobre?
di Iuri Maria Prado
Manifestare in Israele per “la fine della guerra” è già un mezzo controsenso se si considera che Israele non combatte una guerra che ha cominciato, ma una guerra che ha subìto. E, da mezzo, il controsenso diventa pieno considerando che l’istanza di pace dovrebbe essere rivolta a chi quella cosa, cioè la pace, non vuole: e non è davvero Israele a non volerla. Ecco perché lascia perplessi l’iniziativa che un nugolo di sigle – con l’adesione di “Sinistra per Israele” – annunciava per ieri e per oggi a Gerusalemme sotto l’insegna “Per fare la pace”. Si tratta, infatti, di intendersi: “finire la guerra” può significare tante cose. Finirla smettendo di farla a quello che, quando pure tu la finisci, te la fa ancora, non è la fine di un bel nulla: è la rinuncia al tuo diritto di difenderti, che è un’altra cosa. Non è la pace: è la pace del tuo nemico, e solo sua.
Quelli che pure, legittimamente, rimproverano a Israele di aver fatto troppo danno nella reazione ai massacri del 7 ottobre, sono stati a dir poco vaghi quando si è trattato di chiarire che tuttavia Israele ha ben diritto di fare la guerra a chi vuole distruggerlo. E sono stati anche peggio che vaghi quando si è trattato di chiarire che non solo ha diritto di fargli la guerra, ma ha diritto di vincerla. Indugiano, quei contestatori, sul “come” Israele ha esercitato quel diritto di difesa, ma in realtà è sul “se” di quel diritto, cioè sul fatto che Israele davvero ce l’abbia, che i portatori di quell’istanza di pace coltivano i propri dubbi. La verità è che, per loro, Israele non ha diritto di vincere la guerra contro quelli che vogliono distruggerlo perché a ben guardare non ha nemmeno il diritto di fargliela.
I numeri impressionanti dei morti nella guerra di Gaza – che quei manifestanti nemmeno per sogno mettono sul conto delle responsabilità di chi l’ha cominciata – solo formalmente sono adoperati per denunciare la presunta “sproporzione” della reazione israeliana. Quale doveva essere, per mantenersi “proporzionata”, la reazione? Israele doveva prendere casa per casa e giustiziare 1200 uomini, donne e bambini palestinesi e rapirne altri 250? Doveva prendere un po’ di ragazze palestinesi e finirle a coltellate dopo (o durante) lo stupro? Doveva deportare un lattante palestinese, strangolarlo e restituirlo in una bara, cantando vittoria, dopo un anno e mezzo?
La “sproporzione” che denunciano è un’altra. Per loro, in realtà, è “sproporzionato” che gli ebrei abbiano uno Stato, con un esercito a difenderlo. C’erano parecchi pacifisti tra gli ebrei trucidati il 7 ottobre. Non hanno avuto modo di reagire sproporzionatamente, grazie al cielo.
(Il Riformista, 9 maggio 2025)
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Il Parlamento Europeo congela i finanziamenti all’AP per i contenuti antisemiti del suo sistema didattico
di Pietro Baragiola
Mercoledì 7 maggio il Parlamento europeo ha votato il congelamento dei finanziamenti rivolti all’Autorità Palestinese a causa del continuo incitamento all’antisemitismo presente nei suoi libri di testo, oltre che al dichiarato coinvolgimento dei dipendenti dell’UNWRA nell’attacco del 7 ottobre.
Nel corso della loro indagine i parlamentari europei hanno rinvenuto numerosi testi didattici palestinesi che glorificano il terrorismo, prove sufficienti ad accusare il governo del Paese di violare i principi fondamentali di coesistenza ed educazione alla pace.
“I finanziamenti saranno congelati finché il contenuto dei libri di testo non soddisferà gli standard dell’UNESCO e i riferimenti antisemiti non verranno rimossi” ha dichiarato la nuova risoluzione, approvata durante la revisione annuale del bilancio del Parlamento Europeo.
Niclas Herbst, presidente della Commissione per il controllo dei bilanci del centro-destra del PPE, il gruppo più grande e influente del Parlamento, si è dichiarato orgoglioso del risultato della votazione nel corso della sua intervista con Ynet News: “l’Europa ha ufficialmente chiarito che i libri di testo palestinesi non devono promuovere la violenza, incitare all’odio o diffondere l’antisemitismo. È nostra responsabilità garantire che il denaro dei contribuenti europei sostenga la coesistenza, il rispetto dei diritti umani e la comprensione reciproca”.
La decisione di mercoledì è stata approvata con un ampio sostegno anche da parte dei partiti di centro-sinistra con un risultato di 443 voti a favore, 202 contrari e 21 astensioni.
“L’istruzione è il fondamento di ogni nuova generazione: deve essere basata sulla pace, sul rispetto e sulla dignità umana” ha affermato a Ynet News Sabrina Pignedoli, membro del gruppo Socialisti e Democratici (S&D) che fa parte della commissione per l’istruzione. “Il messaggio del Parlamento è stato chiaro: non chiuderemo gli occhi quando i bambini sono esposti all’odio e alla divisione.”
Per la prima volta il Parlamento ha anche incluso la richiesta di riforme immediate del sistema educativo invitando a rimuovere i contenuti antisemiti entro l’inizio del prossimo anno accademico, e respingendo i ripetuti tentativi dei partiti alleati all’Autorità Palestinese di ammorbidire o cancellare tali risoluzioni.
• Le promesse disattese
Già a luglio 2024 la Commissione europea aveva annunciato che i prossimi aiuti all’Autorità Palestinese sarebbero stati ufficialmente condizionati alla riforma dei contenuti educativi.
Nonostante le promesse fatte dall’Autorità palestinese, un’indagine completata nel marzo 2025 dall’istituto di ricerca e politica IMPACT-se non ha trovato alcuna prova di una riforma significativa. Al contrario, il rapporto ha rivelato che l’AP aveva introdotto un nuovo programma di studi a Gaza pieno di incitamenti violenti, promozione della jihad e antisemitismo esplicito.
I risultati di questo rapporto sono stati prima presentati ad alti funzionari dell’UE e ai membri della commissione bilancio del Parlamento europeo e poi trattati dai media che hanno gettato le basi per la decisione presa mercoledì.
“È molto incoraggiante vedere il Parlamento europeo assumere la leadership e chiedere responsabilità sia all’Autorità Palestinese che alla Commissione europea, chiarendo che le promesse a vuoto non saranno più tollerate” ha affermato Marcus Sheff, CEO di IMPACT-se, durante l’intervista rilasciata a Jewish News. “Per sei anni consecutivi, il Parlamento non ha riscontrato alcun miglioramento significativo nei contenuti educativi palestinesi e le promesse di riforma si sono rivelate vuote. Oggi, senza prove verificabili di cambiamento, sarebbe irresponsabile continuare a erogare fondi come in passato.”
Durante l’incontro di mercoledì, il Parlamento ha inoltre sottolineato l’esistenza di alternative all’UNRWA e ha esortato la Commissione Europea a lavorare con ‘partner affidabili come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il Programma Alimentare Mondiale (PAM) e l’UNICEF’.
“È inaccettabile che il denaro dei contribuenti europei venga utilizzato impropriamente per finanziare un sistema educativo che alimenta il tipo di odio estremo e di violenza che abbiamo visto il 7 ottobre” ha concluso Sheff. “Continueremo a monitorare il sistema educativo palestinese e a fare pressione affinché le riforme promesse vengano attuate.”
(Bet Magazine Mosaico, 8 maggio 2025)
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L’inevitabile corruzione del cristianesimo accentrato
L’istituzione religiosa “chiesa cattolica”, con al suo centro la figura del monarca papale, è, nella sua stessa struttura, espressione di peccato. Gesù l’ha detto chiaramente: “Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli” (Matteo 23:9). L’umano “Santo Padre” che oggi si espone al tripudio popolare, si contrappone dunque, nel suo stesso titolo, a Dio stesso, come il Signore Gesù l’ha fatto conoscere. Ancora una volta questa figura ha voluto occupare il centro del mondo, in opposizione a Dio. E’ bene che gli ebrei ne tengano conto, perché questa pretesa di centralità sacra è il chiaro segnale di un antisemitismo incorreggibile, quali che siano le parole con cui si cerchi di nasconderlo. Ripresentiamo, in forma leggermente adattata, un articolo già presente nel nostro sito.
di Marcello Cicchese
L'ebraismo ruota intorno a un centro territoriale: Gerusalemme (Salmo 137:5). Al centro di questo centro si trova il Tempio, la casa dell'Eterno (Salmo 122:1).
Il Messia Gesù "è venuto in casa sua e i suoi non l'hanno ricevuto" (Giovanni 1:11), ma prima di lasciare questa terra ha detto:
"Ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta. Io vi dico che non mi vedrete più, fino al giorno in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!" (Luca 13:35).
Dopo la sua risurrezione Gesù fu assunto in cielo, e subito dopo la sua ascesa si presentarono alla folla radunata due uomini in vesti bianche che rivolsero loro queste parole: "Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che vi è stato tolto, ed è stato elevato in cielo, ritornerà nella medesima maniera in cui lo avete visto andare in cielo" (Atti 1:11).
Quaranta giorni dopo scese sui discepoli lo Spirito Santo promesso da Gesù, e al popolo radunato l'apostolo Pietro rivolse queste parole:
«Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà» (Atti 1:38-39).
Tremila persone scesero nelle acque del battesimo in quell'occasione e altre se ne aggiunsero in seguito fino ad arrivare a cinquemila. Nacque a questo punto il primo nucleo di ciò che poi si chiamerà "chiesa", ma che allora poteva considerarsi soltanto come un movimento interno al popolo ebraico che annunciava di credere in Gesù come il Messia promesso a Israele. Chiameremo "gruppo messianico" questa particolare sottosocietà della nazione israelitica di quel tempo.
Le autorità ebraiche si opposero a questo movimento, e dopo aver respinto Gesù come Messia respinsero anche, con fatale coerenza, i discepoli che proclamavano la risurrezione del Messia Gesù.
Dopo qualche tempo, con sorpresa, i messianici s'accorsero che lo Spirito Santo promesso da Gesù cadeva anche all'esterno di Israele, perché molti gentili manifestarono di credere in Gesù come loro Signore e Salvatore e vollero essere battezzati. Il gruppo messianico dunque si allargò ai gentili, ma non per questo intendeva uscire dall'ambito del popolo ebraico. La conversione dei gentili non era intesa come un movimento di Israele verso l'esterno, ma, al contrario, come un'attrazione che l'esterno gentile provava verso Israele. I gentili che arrivavano a credere in Gesù manifestavano, con il loro stesso atto di fede, la volontà di porsi in relazione con Israele; ed era una relazione che in un primo tempo non poteva che essere di subordine, perché i credenti nel Messia d'Israele che provenivano dal paganesimo avevano bisogno di essere istruiti su tutto ciò che riguardava le Scritture e le tradizioni ebraiche. E gli istruttori non potevano che essere i messianici ebrei. Dunque "prima il giudeo e poi il greco", come dirà in seguito l'apostolo Paolo (Romani 1:17).
• Israele perde il centro
La presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio furono un trauma tremendo per la nazione israelitica, e quindi anche per il gruppo messianico. I messianici però erano stati avvertiti da Gesù:
"Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua devastazione è vicina" (Luca 21:20). Credettero a quella parola, e quando videro che cominciava a formarsi l'assedio, prima che fosse troppo tardi lasciarono la città e si rifugiarono a Pella.
Con la caduta di Gerusalemme, la distruzione del Tempio e la successiva repressione della rivolta di Bar Kokhba nel 135 d.C., il popolo ebraico perse il suo centro, cioè la casa dell'Eterno in mezzo a Gerusalemme.
Di conseguenza, anche il gruppo messianico perse il suo centro territoriale, perché credere in Gesù come Messia d'Israele e ottenere il beneficio del perdono dei peccati e la promessa di vita eterna non li esimeva dal considerare Gerusalemme il centro del mondo, il luogo in cui Gesù era vissuto, morto, risuscitato e in cui avrebbe posato i suoi piedi al suo ritorno.
Ma quello che l'imperatore Adriano voleva, era proprio far perdere a Gerusalemme il posto di centro del popolo ebraico; quindi ne cambiò il nome in Aelia Capitolina e proibì agli ebrei di abitarvi.
Da quel momento la diaspora ebraica, cominciata con la caduta del primo Tempio ma mitigata fino ad allora dalla presenza di Gerusalemme come centro di riferimento storico-politico dell'ebraismo, diventò spazialmente di dimensioni mondiali e temporalmente di dimensioni che finirono per essere considerate eterne: Gerusalemme ebraica non esiste più, né mai più ci sarà. Resta solo come aspirazione ideale, come rimpianto eterno che favorisce il raccogliersi del popolo ebraico intorno al nuovo centro: la Torà. Non più storia, ma istruzione; non più politica, ma devozione. L'ebraismo perde il centro politico territoriale e va in diaspora a tempo indeterminato.
Il gruppo messianico, nato originariamente come sottosocietà di Israele apertasi in seguito all'ingresso dei gentili, entrò anche lui in diaspora, nel senso che perse il naturale collegamento che aveva avuto con Gerusalemme, centro originario della diffusione del Vangelo. Il suo distacco però fu meno traumatico, perché il suo centro adesso era in cielo, nel Messia Gesù che siede alla destra di Dio (Matteo 22:44). Lo Spirito Santo diffuso tra i discepoli e presente individualmente in tutti coloro che di vero cuore si erano ravveduti e avevano creduto in Gesù Messia, sosteneva questa fede.
• La corruzione del cristianesimo era stata prevista
Com'è potuto accadere allora che quel piccolo gruppo messianico uscito dal costato del popolo ebraico abbia potuto trasformarsi nei secoli in un impero religioso-politico mondiale con centro in Roma? Alcuni spiegano la cosa parlando di corruzione del cristianesimo storico, aspirando romanticamente ad un "ritorno alle origini". Chi parla così però non tiene conto che nel Nuovo Testamento è già predetta la corruzione del cristianesimo storico, perché in esso sono presenti fin dall'inizio i semi del falso vangelo seminati dall'Avversario. Gesù l'aveva detto:
"Egli propose loro un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi; ma, quand'è cresciuto, è maggiore dei legumi e diventa un albero; tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami»" (Matteo 13:31-32).
Questa parabola fa parte delle sette cosiddette "parabole del regno", che da molti sono interpretate in senso positivo, come preannuncio di un cristianesimo vincente che si espande e trionfa. E' vero il contrario: sono parabole che preannunciano uno sviluppo abnorme e corrotto prodotto dal seme della Parola di Dio in un terreno che l'ha ricevuto ma ne ha usato la potenza a fini di dominio. E' vero che il cristianesimo, come fenomeno storico-politico, col passare del tempo si estenderà nel mondo, perché la potenza redentrice del Vangelo non può essere arrestata, ma il suo successo politico spingerà gli uccelli del cielo della parabola (simboli demoniaci che nella parabola delle zizzanie portano via subito il seme del Vangelo dal cuore di chi lo riceve) ad annidarsi tra i rami dell'albero e a trarne sordidi vantaggi. Ed è quello che è successo.
• Il cristianesimo corrotto si accentra
Dopo la distruzione del Tempio e la sparizione di Gerusalemme come centro della nazione ebraica, il gruppo che adesso possiamo chiamare "messianico-cristiano" per la sua costituzione etnicamente mista, avrebbe dovuto rimanere sempre in diaspora, come Israele e, nei limiti del possibile, insieme a Israele. La diaspora, che per gli ebrei è un giudizio, per i discepoli di Gesù è una vocazione: "E disse loro: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura" (Marco 16:15).
Ma questo non è avvenuto, e l'ex gruppo messianico trasformatosi in quell'istituzione politica chiamata "Chiesa", dopo aver raggiunto una sufficiente distanza non solo da Israele ma anche dall'originario messaggio di Gesù, sentì il bisogno di avere un centro politico territoriale che ne esprimesse il carattere imperiale, consono alla sua pretesa missione. Questo centro naturalmente non poteva essere Gerusalemme, troppo vicina alla storia degli ebrei e, soprattutto, troppo vicina al Gesù del Vangelo da cui aveva preso le distanze. Al momento opportuno si presentò l'occasione adatta: l'impero romano in dissoluzione. Così la Chiesa istituzionale, invece di disperdersi tra le genti assegnò a Roma il posto di centro della cristianità e di tutto il mondo.
La predicazione del Vangelo, che avrebbe dovuto continuare ad avvenire in diaspora, si alterò al punto da far pensare che il compito dei discepoli di Gesù fosse quello di lavorare alla costruzione e allo sviluppo del "centro", da cui avrebbe dovuto irradiarsi in tutto il mondo la civiltà cristiana ben organizzata in tutte le sue stratificazioni. E naturalmente al centro di questo centro avrebbe dovuto esserci "Uno" che rappresentasse nella sua persona il Sovrano temporaneamente assente. Lo chiameranno "Papa", e ce n'è ancora uno in circolazione.
• Le parole del Vangelo portano frutto in diaspora
Tuttavia, nonostante le zizzanie seminate dall'Avversario nel campo del mondo affinché le piante cattive si mescolassero con quelle buone, il seme della parola del Vangelo ha continuato ad essere accolto dagli uomini, e dove ciò è davvero avvenuto non sono sorte imponenti basiliche, e duomi, e cattedrali, e monasteri, ma sono spuntati gruppi più o meno grandi di persone che si sono ritrovate insieme "nel nome di Gesù". In certi tempi e in certi luoghi questo potrebbe essere avvenuto anche all'ombra di qualche duomo, ma in ogni caso non era il duomo ad essere importante, ma le persone che si radunavano nel nome di Gesù. Perché Gesù l'aveva detto: "Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro" (Matteo 18:20). Come si vede, le cattedrali a questo scopo non servono.
Abbiamo cominciato col dire che l'ebraismo ha un centro territoriale: Gerusalemme. Adesso aggiungiamo che il cristianesimo autentico non ne ha. Non avrebbe mai dovuto esistere un centro cristiano territoriale, ad imitazione e in sostituzione del centro ebraico. I discepoli di Gesù sono chiamati a vivere in diaspora, come sono stati gli ebrei per tanti secoli, anche se in forma e posizione diverse. Storicamente è avvenuto che l'ebraismo ha perso il centro e il cristianesimo se ne è costruito uno. Il "cristianesimo accentrato" è espresso in forma esemplare dalla CCR (Chiesa Cattolica Romana), che ben rappresenta l'albero della parabola in cui si vengono a rifugiare farabutti di ogni tipo, come agevolmente si può vedere anche in questi giorni.
Quanto agli evangelici, certamente anche tra di loro si trova di tutto, nel bene e nel male, ma la loro posizione nel mondo è fondamentalmente diversa da quella cattolica. Le dottrine e i comportamenti possono essere diversi, ma non esiste né si ricerca un centro territoriale. E' un "cristianesimo diasporico" che ha un solo Centro: Gesù, che ora siede in cielo alla destra di Dio, è presente in mezzo ai suoi nella persona dello Spirito Santo, e un giorno tornerà sulla terra per completare la sua missione. E quando ciò avverrà, al centro del mondo ci sarà Israele, con capitale Gerusalemme, non lo Stato del Vaticano, con al centro la Basilica di San Pietro.
(Notizie su Israele, 8 maggio 2025)
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«Una crudele montagna russa che non si ferma mai»
Le famiglie degli ostaggi non cercano solidarietà e sostegno solo in Israele. In Franconia, il padre di Nimrod Cohen partecipa a una tavola rotonda.
di Lena Prytula
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Inna Volovik, Jehuda Golan e Yonatan Amrani alla serata di discussione della DIG a Fürth
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FÜRTH (Germania) – Nimrod Cohen è ostaggio del gruppo terroristico Hamas dal 7 ottobre 2023. Martedì suo padre Jehuda Cohn ha parlato a Fürth, nella Franconia centrale, del destino di suo figlio. L'incontro, dal titolo “Una crudele montagna russa che non si ferma mai”, è stato organizzato dalla Società Tedesco-Israelita di Norimberga-Franconia Centrale nei locali della Comunità Ebraica.
Jehuda Cohen, che sedeva sul podio insieme a Jonatan Amrani e Inna Volovik, ha offerto ai presenti una visione intensa e profondamente personale della vita della sua famiglia da quel giorno nero. La serata non è stata espressamente un forum politico, ma piuttosto uno spazio di ascolto e di empatia. La conversazione si è svolta in inglese e tradotta in tedesco per consentire a tutti gli ospiti di partecipare.
Nimrod Cohen era nell'esercito israeliano da dieci mesi e aveva appena finito la scuola. La mattina del 7 ottobre 2023, la sua famiglia è stata svegliata alle 6:30 dalle sirene. Nimrod era di stanza al confine con Gaza. Jehuda Cohen ha raccontato di aver cercato disperatamente di contattare suo figlio, ma invano. Ore dopo, ha trovato dei video di Hamas su YouTube e ha riconosciuto suo figlio: Nimrod giaceva a terra e veniva trascinato via da un terrorista, unico sopravvissuto dell'equipaggio del suo carro armato.
Solo un giorno e mezzo dopo, l'esercito ha informato ufficialmente la famiglia del rapimento. Da allora, i Cohen lottano instancabilmente per il suo rilascio. Jehuda Cohen si è già recato cinque volte negli Stati Uniti per attirare l'attenzione internazionale sugli ostaggi. Da allora, la famiglia vive in uno stato di emergenza. La madre Vicky è attualmente inabile al lavoro, Jehuda lavora da casa come ingegnere algoritmico. Anche i fratelli di Nimrod stanno soffrendo molto per la situazione: sua sorella gemella Romy è ora lei stessa nell'esercito, mentre il fratello maggiore era in missione di guerra.
• Momento commovente per i familiari
Particolarmente commovente per il pubblico è stato il momento in cui Jehuda Cohen ha raccontato che la sua famiglia aveva sentito Nimrod per l'ultima volta durante Simchat Torah. Per due mesi non hanno avuto alcuna notizia. Ma grazie alle testimonianze di ostaggi liberati di recente, sanno che Nimrod è vivo. Questi sopravvissuti avevano vissuto con lui nello stesso tunnel. Anche in un video pubblicato a gennaio, i suoi genitori sono riusciti a riconoscerlo nonostante il pixelato grazie al suo tatuaggio. Il cubo di Rubik che portava sempre con sé è diventato per la famiglia il simbolo della sua volontà di sopravvivere.
Jehuda ha sottolineato più volte che la sopravvivenza degli ostaggi dipende in gran parte da chi li tiene prigionieri, ma che c'è speranza perché Nimrod è giovane e in buona salute. Allo stesso tempo, ha chiarito che solo un accordo globale può salvare gli ostaggi rimasti: le tregue temporanee non sono una soluzione. Il governo israeliano, ha affermato Cohen, ha la responsabilità della vita degli ostaggi ancora in vita, tra cui suo figlio. “Durante la Shoah non c'era uno Stato che potesse proteggerci. Oggi c'è, quindi deve agire”, ha esortato.
Al termine dell'evento è stata recitata una preghiera comune per i soldati, un'espressione silenziosa ma potente di solidarietà e speranza.
La serata ha lasciato un segno indelebile nel pubblico. Le parole di Jehuda Cohen, improntate a profondo dolore, speranza incrollabile e determinazione combattiva, hanno chiarito che dietro ogni ostaggio c'è una famiglia, e ogni famiglia merita certezza, giustizia e il ritorno dei propri cari.
(Israelnetz, 8 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Cinque anni dopo la Conferenza di San Remo che riconobbe il diritto del popolo ebraico a ricostituire il proprio Stato nazionale in Eretz Israel
Dal 19 al 26 aprile 1920, una conferenza internazionale si riunì a San Remo, sulla Riviera italiana, per decidere il futuro dei territori dell'ex Impero ottomano. Vi parteciparono i primi ministri di Gran Bretagna, Francia e Italia e i rappresentanti di Giappone, Grecia e Belgio.
di Yossi Lempkowicz
A 105 anni dalla conferenza, il direttore fondatore della European Coalition for Israel (ECI) Tomas Sandell ha definito la storia moderna di Sanremo (ortografia odierna) “un dramma in quattro atti” durante un evento organizzato la scorsa settimana al Grand Hotel des Anglais di Sanremo. L'evento è stato co-ospitato dall'Associazione Italia-Israele Savona e dall'Associazione Italia-Israele Ventimiglia Sanremo International.
“Esattamente 105 anni fa, proprio qui è stata firmata la Risoluzione di San Remo che prometteva una patria nazionale per il popolo ebraico in Palestina, aprendo così la strada alla rinascita dello Stato ebraico nel 1948”, ha ricordato.
“Ma ogni storia ha un capitolo oscuro e Sanremo non fa eccezione”, ha aggiunto.
Durante la seconda guerra mondiale, mentre milioni di ebrei venivano sterminati nei campi di concentramento nazisti, il quartier generale regionale delle SS era situato a Villa Devachan, lo stesso edificio dove meno di venticinque anni prima si era tenuta la Conferenza di Pace. Oggi la villa è più nota per la tortura e l'esecuzione di 14 partigiani italiani da parte dei nazisti che per il suo ruolo nella Conferenza di Pace.
Dopo la guerra, molti degli ebrei sopravvissuti alla Shoah cercarono disperatamente un rifugio sicuro in Palestina. Le prime navi che trasportarono i sopravvissuti ebrei dall'Europa alla Palestina salparono dai porti della Liguria, da La Spezia e Savona, non lontano da Sanremo, e migliaia di sopravvissuti trovarono rifugio in quello che nel 1948 sarebbe diventato il moderno Stato di Israele.
“Il quarto atto di questa storia di redenzione inizia ora, mentre stiamo cercando di creare un sito storico permanente e un centro educativo qui a Sanremo”, ha spiegato Tomas Sandell.
Mentre l'Israele moderno è oggi accusato di appropriazione di terre e colonialismo, ciò che accadde qui a Sanremo nel 1920 fu esattamente l'opposto, poiché il riconoscimento dei diritti del popolo ebraico a ricostituire la propria patria nazionale in Eretz Israel dopo oltre 1800 anni di esilio fu sancito dal diritto internazionale.
Questo fu di fatto l'inizio del processo di decolonizzazione, poiché illustrava il nuovo principio dell'autodeterminazione nazionale invocato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson alla Conferenza di pace di Parigi del 1919.
Mentre la maggior parte delle altre aree di mandato istituite nel 1920, che in seguito hanno dato vita a Stati sovrani come la Siria, il Libano e l'Iraq, hanno attraversato gravi crisi e oggi possono essere considerate Stati falliti, il moderno Stato di Israele è una democrazia vivace con un'economia dinamica, nonostante debba affrontare sette fronti di gruppi terroristici e vicini ostili.
La Conferenza di pace di San Remo è stata unica nel suo genere in quanto ha riunito delegazioni ebraiche e arabe per discutere di un futuro comune in Medio Oriente. “In questo momento cruciale della storia mondiale, sono necessari altri incontri di questo tipo per creare un futuro di pace in Medio Oriente”, ha affermato Sandell.
(European Jewish Press, 4 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Che dire? Per anni “Notizie su Israele” ha fatto riferimento in diverse occasioni e sotto diversi aspetti a questa storica conferenza. Indichiamo soltanto una pagina di quindici anni fa, in cui un articolo dal titolo La risoluzione di San Remo dell'aprile 1920 viene presentato come “Il giorno in cui nacque lo Stato d’Israele”. Buona lettura.
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Antisemitismo a livelli record nei sette paesi con le comunità ebraiche più grandi fuori da Israele
di Maia Principe
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Manifestanti norvegesi a Varsavia il 21 ottobre 2023 in una manifestazione pro-Hamas.
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Il primo Rapporto annuale J7 sull’antisemitismo descrive come dal 2021 al 2023 gli episodi di antisemitismo siano aumentati dell’11% in Australia, del 23% in Argentina, del 75% in Germania, dell’82% nel Regno Unito, dell’83% in Canada, del 185% in Francia e del 227% negli Stati Uniti. Le sette più grandi comunità ebraiche al di fuori di Israele hanno registrato picchi record di attività antisemite negli ultimi anni, in gran parte guidati da un’ondata di odio antiebraico all’indomani del lancio della guerra contro Israele da parte di Hamas il 7 ottobre 2023, secondo un nuovo rapporto pubblicato in coincidenza con l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto. Mercoledì scorso, la Task Force delle grandi comunità J7 contro l’antisemitismo – una coalizione di organizzazioni ebraiche in Argentina, Australia, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti nata in risposta ai crescenti tassi di antisemitismo nel mondo – ha pubblicato il suo primo Rapporto annuale J7 sull’antisemitismo alla vigilia della Giornata della Vittoria in Europa (V-E), quando la Germania nazista si arrese formalmente alle forze alleate l’8 maggio. Confermando i risultati di altre ricerche recenti, il rapporto descrive come dal 2021 al 2023 gli episodi di antisemitismo siano aumentati dell’11% in Australia, del 23% in Argentina, del 75% in Germania, dell’82% nel Regno Unito, dell‘83% in Canada, del 185% in Francia e del 227% negli Stati Uniti. I dati hanno mostrato anche un aumento su base pro-capite, notando che la Germania ha registrato più di 38 incidenti ogni 1.000 ebrei, mentre il Regno Unito ne ha registrati 13 ogni 1.000. Tra le tendenze comuni individuate dalle sette comunità vi sono gli aumenti degli episodi di violenza, i ripetuti attacchi alle istituzioni ebraiche, l’aumento dei discorsi d’odio online e la crescente paura degli ebrei, che spesso li spinge a nascondere la propria identità ebraica.
• Il picco dopo il 7 ottobre 2023
Il numero di episodi di antisemitismo in tutti e sette i Paesi è salito a livelli record dopo l’invasione e il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas nel sud di Israele e la conseguente guerra a Gaza. Diverse organizzazioni di ciascuno dei sette Paesi hanno redatto le varie sezioni del rapporto che evidenziano l’aumento dell’astio antiebraico. Il Board of Deputies of British Jews ha scritto la sezione dedicata al Regno Unito, illustrando i risultati del Community Security Trust (CST), un ente di beneficenza senza scopo di lucro che fornisce consulenza alla comunità ebraica britannica in materia di sicurezza. Il CST ha registrato 3.528 episodi di antisemitismo nel 2024, il secondo anno peggiore per l’antisemitismo nel Paese, con un calo del 18% rispetto ai 4.296 del 2023. Questi incidenti includevano 201 aggressioni fisiche, 157 casi di danni a proprietà ebraiche e 250 minacce dirette. Il rapporto ha anche rilevato che i sondaggi suggeriscono che “circa 6,7 milioni di persone nel Regno Unito ‘nutrono elevati livelli di atteggiamenti antisemiti’, all’incirca la popolazione di Londra, la capitale e la città più popolata del Regno Unito”. Il gruppo ha inoltre espresso preoccupazione per “l’aumento di deepfakes generati dall’IA che ritraggono individui ebrei utilizzando stereotipi dannosi e inserendo simboli di odio in immagini altrimenti innocue”. “Dobbiamo insistere sulla tolleranza zero nei confronti dell’antisemitismo e fare in modo che questo messaggio arrivi ai legislatori, ovunque viviamo“, ha dichiarato Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies”.
• Canada
Per la sezione canadese, il Center for Israel and Jewish Affairs (CIJA) ha fornito le informazioni e l’analisi. Il gruppo ha riferito che la comunità ebraica “è stata facilmente la minoranza religiosa più bersagliata, rappresentando circa il 70% dei crimini d’odio a sfondo religioso (con 900 crimini d’odio totali contro gli ebrei registrati). I crimini d’odio contro gli ebrei sono aumentati del 71% dal 2022 al 2023 e del 172% in totale dal 2020”. Anche la polizia di Toronto ha contato 164 crimini d’odio contro gli ebrei nell’ottobre 2024, con un aumento del 74,5% rispetto alle statistiche del 2023. La CIJA ha anche sottolineato l’aumento degli atteggiamenti antisemiti tra alcuni gruppi, in particolare tra gli studenti universitari (con il 26% che ha opinioni antisemite) e i musulmani (52%). Un ulteriore sondaggio ha mostrato che questi numeri si riflettono nei sentimenti degli ebrei canadesi, il 98% dei quali afferma che l’antisemitismo è un problema grave o quasi grave e l’82% che afferma che il Paese è diventato meno sicuro per gli ebrei dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre contro Israele guidati da Hamas. “Dal 7 ottobre, il Canada ha subito un‘ondata di attacchi antisemiti: scuole ebraiche colpite, sinagoghe incendiate, attività commerciali di proprietà ebraica vandalizzate e quartieri presi di mira”, ha dichiarato il presidente ad interim della CIJA Noah Shack. Sulla scia delle elezioni federali della scorsa settimana, ci aspettiamo chiaramente che il prossimo Parlamento si muova con urgenza per proporre soluzioni serie e d’impatto per combattere l’odio e proteggere i canadesi ebrei”. La posta in gioco non è solo la sicurezza e il benessere della nostra comunità, ma il futuro di un Canada in cui tutti possano vivere liberi dalla paura e dalla discriminazione”.
• Francia
La sezione del rapporto dedicata alla Francia, a cui ha contribuito il Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia (CRIF), afferma che la “Palestina” è comparsa nel 30% degli atti antisemiti dello scorso anno nel Paese. Anche nelle scuole si è registrata un’impennata di incidenti, con un balzo a 1.670 nell’anno scolastico 2023-2024, rispetto ai 400 dell’anno precedente. Tra i crimini d’odio specifici evidenziati nel rapporto vi sono l’aggressione e lo stupro di una ragazzina ebrea di 12 anni, i cui aggressori hanno citato le sue “parole cattive sulla Palestina” per giustificare la loro crudeltà. Uno studio del CRIF del novembre 2024 che esaminava gli atteggiamenti antisemiti del pubblico ha rilevato che il 46% dei francesi credeva ad almeno sei stereotipi antisemiti. Il CRIF ha dichiarato nel rapporto che “in Francia, l’estrema sinistra strumentalizza l’antisemitismo come strumento politico, mentre l’estrema destra strumentalizza la lotta all’antisemitismo come strumento politico”. “Quello a cui stiamo assistendo non è solo un aumento statistico, ma un segnale d’allarme per la società”, ha dichiarato il presidente del CRIF Yonathan Arfi. “Questa non è una crisi per la comunità ebraica, è un test per le nostre democrazie. L’escalation di discorsi di odio, minacce e aggressioni fisiche contro gli ebrei in tutto il mondo ci ricorda perché la cooperazione internazionale, come quella del J7, è più vitale che mai”.
• Germania
Il Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania ha fornito i fatti e le analisi per la propria nazione. Sebbene il governo non abbia ancora pubblicato le statistiche sui crimini d’odio del 2024, il gruppo ha affermato che “ci sono stati anche più di 5.000 crimini denunciati dalla polizia tedesca in relazione alla guerra tra Israele e Hamas che non sono stati etichettati come motivati dall’antisemitismo”. Il gruppo ha citato uno studio del gennaio 2025 che ha mostrato che circa il 40% dei tedeschi tra i 18 e i 29 anni non sapeva che i nazisti avevano sterminato 6 milioni di ebrei. “Il 7 ottobre 2023 ha accelerato in modo massiccio uno sviluppo che era già incombente. Gli ebrei in Germania sono minacciati. Si è formato un fronte che attraversa la sinistra e la destra, dagli islamisti al centro della società”, ha dichiarato in un comunicato il dottor Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania. “Questa coalizione mette in discussione l’autoevidenza della vita ebraica di oggi e la cultura della memoria della Germania. Questi sviluppi si sovrappongono e si influenzano reciprocamente online e offline. Stiamo assistendo a sviluppi simili in tutti i Paesi del J7 e sono lieto che esista questa forte task force”.
• Argentina
La Delegazione delle Associazioni Israelite Argentine (DAIA) ha spiegato la situazione degli ebrei in Argentina, dove non sono ancora stati pubblicati i dati sui crimini d’odio del 2024. Il gruppo ha fatto riferimento al Global 100: Index of Antisemitism 2024 della Anti-Defamation League, che ha mostrato che il 39% degli argentini (12,8 milioni) ha abbracciato sei o più stereotipi sugli ebrei e che il 60% crede che un piccolo gruppo controlli il mondo. Il DAIA ha anche descritto come “il panorama politico argentino si è modificato in modo significativo con l’elezione del Presidente Javier Milei alla fine del 2023. L’allineamento della sua amministrazione con gli Stati Uniti e il sostegno a Israele hanno portato a un aumento della retorica antisemita e cospiratoria, che si è intrecciata con narrazioni geopolitiche più ampie”. Il presidente del DAIA, Mauro Berenstein, ha dichiarato che “in Argentina vediamo con preoccupazione l’aumento esponenziale dell’antisemitismo, in ambienti educativi, accademici e professionali, dove molte persone, con la scusa del pensiero critico o di una giusta causa, riproducono pregiudizi secolari. I social media hanno amplificato queste narrazioni. Ciò che una volta veniva sussurrato ora diventa virale in pochi secondi. Pertanto, più che mai, la memoria e l’educazione non sono solo strumenti del passato: sono un dovere del presente e una speranza per il futuro”.
• Australia
In Australia, il 64% degli ebrei ha definito l’antisemitismo un grosso problema nel Paese, con un aumento di dieci volte rispetto al 2017. “Questo rapporto presenta l’analisi più completa del fenomeno dell’antisemitismo nel mondo occidentale dopo il 7 ottobre”, ha dichiarato Alex Ryvchin, co-CEO dell’Executive Council of Australian Jewry. “Tutte le nostre comunità sono state colpite da questo fenomeno, ma la situazione in Australia presenta una rappresentazione particolarmente sconcertante di come società multiculturali sane possano essere catturate da reti di estremisti che riescono ad alterare radicalmente le relazioni tra ebrei e non ebrei e a far sì che la comunità ebraica si interroghi sul proprio futuro in un Paese in cui le sue radici sono profonde e il suo contributo è stato profondo”. Ryvchin ha affermato che la recente esperienza del suo Paese ha dimostrato che “quando l’antisemitismo non viene affrontato con sufficiente forza dalle forze dell’ordine, dalla legge e dalla leadership politica, può degenerare in una violenza devastante e può attirare gli elementi più feroci della società, dai fanatici religiosi e ideologici alla criminalità organizzata”. L’importanza e il valore di questo rapporto testimoniano il lavoro dell’ADL [Anti-Defamation League] nel convocare il J7 e la straordinaria cooperazione tra le comunità che ne fanno parte”.
(Bet Magazine Mosaico, 8 maggio 2025)
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Gaza. L’ONU rifiuta il piano di aiuti umanitari Israele-USA perché non coinvolge Hamas
di Luca Spizzichino
Israele e Stati Uniti stanno cercando di convincere le Nazioni Unite ad aderire a un nuovo meccanismo per la distribuzione degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Secondo quanto riferito da fonti diplomatiche israeliane e occidentali al Jerusalem Post, il piano – già approvato dal gabinetto di sicurezza israeliano – prevede l’istituzione di centri di distribuzione sotto il controllo diretto dell’IDF, in cui gli aiuti saranno consegnati direttamente alla popolazione civile, aggirando il sistema attuale dei convogli umanitari. Un sistema che si è rivelato estremamente vulnerabile, poiché frequentemente intercettato, saccheggiato e manipolato da Hamas.
I convogli umanitari gestiti dalle ONG internazionali infatti, se non adeguatamente scortati, diventano bottino facile per i terroristi: vengono fermati, svuotati e il loro contenuto redistribuito ai membri di Hamas o rivenduto, rafforzando un’economia criminale parallela, mentre i civili continuano a soffrire la fame.
Per questo motivo, la proposta israelo-americana di centri sicuri gestiti direttamente dall’IDF non solo è pragmatica, ma è l’unica opzione realistica per garantire che gli aiuti arrivino davvero a chi ne ha bisogno. Il nuovo piano è stato illustrato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dall’inviato speciale americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff. Secondo il sito Axios, l’amministrazione Trump sta esercitando forti pressioni diplomatiche affinché il meccanismo venga non solo approvato, ma anche finanziato e legittimato attraverso il coinvolgimento diretto delle Nazioni Unite. Alcuni funzionari statunitensi hanno addirittura ipotizzato la creazione di un’amministrazione transitoria di Gaza sotto guida americana, simile all’Autorità Provvisoria della Coalizione istituita in Iraq nel 2003.
Nonostante ciò, l’ONU e alcune ONG internazionali hanno respinto la proposta, sostenendo che questa comprometterebbe i principi di neutralità e indipendenza dell’aiuto umanitario, come se, secondo le Nazioni Unite, Hamas debba avere un ruolo nel piano, per renderlo legittimo. Il portavoce dell’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), Jens Laerke, ha accusato Washington e Gerusalemme di voler “strumentalizzare gli aiuti”, affermando che “devono essere forniti in base al bisogno, non utilizzati come leva politica”. Una posizione che molti analisti definiscono ideologica e scollegata dalla realtà sul campo. La cosiddetta neutralità delle agenzie ONU, infatti, ha spesso prodotto una gestione inefficace degli aiuti – e in alcuni casi apertamente collusa con Hamas. Le accuse non sono infondate, ma supportate da numerose inchieste giornalistiche, testimonianze di civili e rapporti dei servizi di sicurezza israeliani. Decine di dipendenti dell’UNRWA sono risultati essere membri attivi di Hamas, alcuni dei quali coinvolti direttamente nel massacro del 7 ottobre. Di fronte a queste evidenze, continuare a parlare di “neutralità” delle Nazioni Unite appare non solo fuori luogo, ma quasi offensivo per le vittime e per chi opera davvero nell’assistenza umanitaria.
Il Presidente Donald Trump, intervenendo sul tema, ha dichiarato che “aiuterà i civili di Gaza a ricevere cibo” e ha annunciato che, durante il suo prossimo viaggio in Medio Oriente, potrebbe rendere nota una “decisione molto importante” sul futuro politico e umanitario della Striscia.
(Shalom, 8 maggio 2025)
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Israele – Dialogo nell’ombra con Damasco, ma preoccupano le mosse dell’alleato Trump
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Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz in visita, nel dicembre 2024, sulle alture del Golan
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Non ci sarà un riconoscimento reciproco né un trattato di pace in tempi brevi, ma Gerusalemme e Damasco, nonostante gli scontri, si parlano. Secondo Reuters, i due paesi hanno aperto un canale riservato di comunicazione mediato dagli Emirati Arabi Uniti. I colloqui – confermati a Reuters da fonti della sicurezza siriana, dell’intelligence regionale e da un funzionario coinvolto direttamente – si svolgono da aprile lontano dai riflettori, lontano anche dalla diplomazia ufficiale.
Il contesto non potrebbe essere più teso. Proprio mentre si apriva il canale attraverso Abu Dhabi, l’aeronautica israeliana colpiva obiettivi militari a Damasco. Uno degli attacchi ha sfiorato di recente il palazzo presidenziale: 500 metri appena dalla residenza del presidente Ahmed al-Sharaa, già noto come Abu Mohammad al Jolani. Non ci sono state vittime, ma il messaggio era chiaro. Come chiaro è il segnale lanciato da Israele alla nuova dirigenza siriana: la protezione della minoranza drusa, in Siria come sul Golan, resta una linea non negoziabile.
Il legame tra la comunità drusa e lo stato ebraico è profondo. Dopo i massacri dei giorni scorsi in Siria– scoppiati in seguito a scontri settari nella regione di Suweida – centinaia di drusi israeliani hanno bloccato strade nel nord del paese, chiedendo un intervento immediato a sostegno dei fratelli oltre confine.
In questo clima, sorprende la disponibilità di Damasco al dialogo. Ma il nuovo presidente, un ex jihadista che oggi si propone come leader pragmatico, ha più volte dichiarato che la Siria non sarà mai una minaccia per Israele, sottolinea ynet. Lo ha messo nero su bianco in una lettera al Dipartimento di Stato americano, in cui si impegna a «non permettere che la Siria diventi fonte di pericolo per nessuno, incluso Israele». Una presa di posizione a cui è seguito l’arresto di due membri della Jihad Islamica legati agli attacchi del 7 ottobre 2023.
Il canale attivato dagli Emirati, spiega Reuters, si concentra per ora su temi di sicurezza e terrorismo, lasciando fuori le operazioni dell’esercito sul territorio siriano. Non è escluso, però, che si allarghi ad altri dossier. «Non ci sono limiti agli argomenti che potranno essere discussi», ha spiegato una fonte a conoscenza diretta delle conversazioni.
Se con Damasco si lavora nell’ombra, l’annuncio sotto i riflettori del presidente Usa Donald Trump sugli Huthi ha colto di sorpresa Gerusalemme, scrivono i media israeliani. Nessun preavviso, nessun coordinamento: Trump ha dichiarato la fine immediata dei bombardamenti americani contro le postazioni dei ribelli yemeniti. «Hanno detto che non vogliono combattere, e noi ci fidiamo», ha affermato il presidente Usa. Dichiarazioni accolte con freddezza a Gerusalemme. Fonti della sicurezza, riporta il quotidiano Israel Hayom, temono che il passo Usa venga interpretato come un segnale di debolezza. Gli Huthi, armati da Teheran, mantengono intatta la loro capacità offensiva e promettono di colpire ancora lo stato ebraico.
A preoccupare Israele, rileva il sito ynet, è però il quadro più ampio. La politica estera americana, scrive l’analista Itamar Eichner, sembra sempre più plasmata dall’ala isolazionista dell’amministrazione incarnata da J.D. Vance, vicepresidente, e da Donald Trump Jr., entrambi sostenitori di una linea “America First” per ridurre l’impegno militare all’estero. Un approccio che ridimensiona le alleanze tradizionali e guarda con distacco alla minaccia iraniana.
L’allontanamento di figure come Mike Waltz, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, considerato vicino al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e favorevole a un’azione congiunta contro Teheran, ha rafforzato questa tendenza. Per Israele, avverte Eichner, il rischio è duplice: perdere influenza a Washington e trovarsi esposto alla minaccia dell’Iran e dei suoi alleati regionali. D’altra parte, l’asse sciita guidato da Teheran si trova oggi in difficoltà: l’economia iraniana è stremata dalle sanzioni, il malcontento interno cresce e la sua rete di alleati regionali è sotto pressione.
(moked, 7 maggio 2025)
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La popolazione supera i dieci milioni
Per la prima volta Israele supera i dieci milioni di abitanti. Il giovane Stato gode di una popolazione giovane.
GERUSALEMME – In Israele vivono 10,1 milioni di abitanti. Ciò corrisponde a una crescita di 12 volte rispetto alla fondazione dello Stato nel 1948, quando la popolazione era di 800.000 persone, come ha reso noto l'Ufficio centrale di statistica in occasione della Festa dell'Indipendenza israeliana. I dati attuali si riferiscono quindi al periodo compreso tra aprile 2024 e aprile 2025. Il traguardo dei 10 milioni è stato superato già alla fine del 2024.
L'aumento dall'aprile 2024 è pari a 135.000 cittadini, ovvero l'1,4%. Nel periodo di riferimento dall'aprile 2023 all'aprile 2024, l'aumento è stato leggermente superiore, pari all'1,9%. In entrambi i periodi, tuttavia, la popolazione israeliana è cresciuta in modo relativamente rapido: secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2023 la popolazione mondiale è cresciuta solo dello 0,9%, raggiungendo gli otto miliardi.
Ad aprile 2025, la maggioranza della popolazione era costituita da ebrei e “altri” con 7,7 milioni di persone. Questa nuova categoria comprende anche i cristiani non arabi che vivono nel Paese e le persone senza appartenenza etnica o religiosa. Si tratta per lo più di persone che hanno lo status di residenti perché hanno un nonno ebreo o un coniuge israeliano. Questo gruppo costituisce il 77,6% della popolazione.
La seconda categoria più numerosa era costituita da 2,1 milioni di musulmani, cristiani arabi e drusi. Ciò corrisponde al 20,9% della popolazione, ovvero un buon quinto. Nessuna delle due categorie comprende 250.000 persone, pari al 2,5% della popolazione. Tra queste figurano studenti stranieri e lavoratori stranieri, nonché rifugiati senza permesso di soggiorno.
La maggior parte degli israeliani è soddisfatta della propria situazione sociale ed economica. Il 67% è soddisfatto o molto soddisfatto della propria situazione economica, l'83% ritiene che la propria salute sia buona o molto buona, il 96% è soddisfatto o molto soddisfatto dei propri rapporti familiari e il 91% lo è della propria vita in generale.
Popolazione giovane e calo dell'aliyah
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Illustrazione dell'andamento demografico in Israele |
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Nel periodo di riferimento sono nati 174.000 bambini, sono immigrate 28.000 persone e sono morti 50.000 israeliani. Anche nella primavera del 2025 Israele continua a godere di una popolazione relativamente giovane: il 27% ha meno di 18 anni e solo il 13% ha almeno 65 anni. Ciò è dovuto principalmente all'alto tasso di natalità tra i religiosi e i beduini. Sebbene Israele abbia una delle popolazioni più giovani rispetto ad altri paesi ricchi, il numero assoluto di anziani è in aumento a causa dell'aumento dell'aspettativa di vita.
Dal 1948, un totale di 3,5 milioni di persone sono immigrate in Israele. Il 47,6% di loro è arrivato dopo il 1990, nell'ambito dell'ondata di emigrazione ebraica seguita al crollo dell'Unione Sovietica. L'80% degli ebrei che vivono in Israele sono nati nel Paese.
L'immigrazione ebraica in Israele è diminuita del 24% tra aprile 2024 e aprile 2025, secondo quanto dichiarato dal Ministero dell'Aliyah e dell'Integrazione. Mentre nel periodo di riferimento 2023-2024 sono immigrati 34.610 ebrei, nel periodo 2024-2025 sono stati solo 26.211. Con un numero di 14.398, la maggior parte di loro proveniva dalla Russia. I paesi di provenienza più importanti dopo la Russia sono stati gli Stati Uniti con 3.185 immigrati e la Francia con 2.253. 56.000 israeliani vivono all'estero, con una tendenza in calo.
Confrontando gli anni solari 2023 e 2024, si registra un calo dell'aliyah dal 7 ottobre 2023 del 30%, da 46.590 a 32.161 olim, nonostante l'aumento dell'antisemitismo in tutto il mondo.
Il ministro israeliano per l'Aliyah e l'integrazione, Ofir Sofer (sionismo religioso), è comunque fiducioso che la storia di successo dell'Aliyah continuerà: “Anche oggi, 77 anni dopo la fondazione dello Stato e in un momento difficile per la nostra sicurezza, continuiamo a vedere il desiderio di molti ebrei di immigrare, anche durante la guerra, per essere parte della storia sionista. L'immigrazione in questo periodo rafforza la solidarietà di Israele e lo spirito della gente”. (ndr)
(Israelnetz, 7 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Quasi la metà dei gazawi è pronta a chiedere aiuto a Israele per emigrare: lo rivela un sondaggio palestinese
Il sondaggio del Centro palestinese per la ricerca politica ha anche rivelato che il 48% dei gazawi sostiene le manifestazioni anti-Hamas che sono scoppiate in varie parti della Striscia di Gaza, un livello molto più alto rispetto ai palestinesi della Giudea-Samaria, dove solo il 14% è a favore. Si tratta di una rara dimostrazione pubblica di opposizione al gruppo terroristico che regna incontrastato dal 2006.
di Maia Principe
Quasi la metà dei gazawi sarebbe disposta a chiedere a Israele di aiutarli a lasciare la Striscia di Gaza per stabilirsi all’estero, ha rivelato un sondaggio del Centro palestinese per la ricerca politica pubblicato martedì e riportato dall’agenzia di stampa Reuters. Il sondaggio riporta anche un forte sostegno alle manifestazioni anti-Hamas. Lo riporta i24news.
Secondo il sondaggio, condotto tra i palestinesi della Striscia di Gaza e della Giudea-Samaria tra il 1° e il 4 maggio, il 49% degli intervistati si è detto disposto a chiedere aiuto a Israele per emigrare attraverso i porti e gli aeroporti israeliani, rispetto al 50% che ha dichiarato di non essere disposto a farlo.
Sebbene la campagna israeliana, durata 19 mesi, abbia ridotto la maggior parte di Gaza in macerie, molti palestinesi ritengono che andarsene equivarrebbe ad abbandonare la propria casa a Israele. Israele ha promesso di aiutare gli abitanti che desiderano lasciare Gaza, ma ha fatto pochi progressi nel convincere altri Paesi ad accettarli.
Il sondaggio ha anche rivelato che il 48% dei gazawi sostiene le manifestazioni anti-Hamas che sono scoppiate in varie parti della Striscia di Gaza, un livello molto più alto rispetto ai palestinesi della Giudea-Samaria, dove solo il 14% è a favore. Si tratta di una rara dimostrazione pubblica di opposizione al gruppo terroristico che regna incontrastato dal 2006. Tuttavia, il 54% ritiene che le manifestazioni, che Hamas sostiene siano state organizzate dai servizi segreti israeliani, siano state orchestrate da forze esterne e solo il 20% ritiene che riflettano la reale opinione della popolazione.
(Bet Magazine Mosaico, 7 maggio 2025)
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Israele si prepara alle Maccabiadi nonostante il conflitto
di Michelle Zarfati

Nonostante il clima di tensione e insicurezza, Israele si appresta a ospitare, a partire dall’ 8 luglio, la 22ª edizione delle Maccabiadi, uno degli eventi sportivi più grandi al mondo. Sebbene le ferite ancora aperte del devastante attacco del 7 ottobre e una guerra ancora in corso, il Paese si prepara ad accogliere circa 10.000 atleti da oltre 60 nazioni. “Certo che abbiamo pensato di cancellare l’evento – ha ammesso Amir Gissin, CEO della Maccabi World Union, in un’intervista a The Media Line – ma poi abbiamo capito che le Maccabiadi rappresentano molto di più di un semplice evento sportivo. È un simbolo di speranza, coesione e resilienza”.
Le Maccabiadi, che si tengono ogni quattro anni, sono definite “le Olimpiadi ebraiche”. Gli atleti ebrei provenienti da ogni parte del mondo – così come israeliani di ogni fede – competono in decine di discipline, dall’atletica al nuoto, dalla ginnastica al calcio. Quest’anno, l’apertura avverrà allo stadio Teddy di Gerusalemme, e sarà seguita da competizioni in tutto il Paese, inclusi Netanya, Haifa e Tel Aviv. “Sappiamo che ci saranno delle difficoltà, ma la sicurezza degli atleti e dei visitatori è la nostra priorità assoluta”, ha assicurato Roy Hessing, CEO dell’evento. “Abbiamo lavorato a stretto contatto con le autorità di sicurezza per predisporre ogni misura necessaria”.
Gissin ha sottolineato come i Giochi abbiano un impatto ben oltre lo sport. “Per molti giovani ebrei della diaspora, è la prima volta in Israele. Le Maccabiadi sono dunque un ponte tra culture e generazioni, un’esperienza identitaria unica”. Un aspetto particolarmente emozionante quest’anno sarà la partecipazione degli atleti provenienti dalle comunità ebraiche colpite direttamente dall’attacco del 7 ottobre. Tra gli eventi commemorativi previsti, uno sarà dedicato proprio alle vittime del massacro e ai soldati caduti in servizio. Gli organizzatori hanno chiarito che l’edizione 2025 non ignorerà il dolore collettivo, ma lo onorerà. “Ci saranno momenti di silenzio, tributi, e l’accensione di una fiaccola commemorativa. Questo è anche un modo per ricordare chi non è più con noi” ha detto Hessing. Nonostante il clima di incertezza, le registrazioni hanno superato le aspettative. Alcune delegazioni, come quelle da Stati Uniti, Australia e Argentina, porteranno numeri simili – se non superiori – a quelli delle scorse edizioni.
Anche il presidente americano Donald Trump potrebbe essere tra gli ospiti d’onore delle gare di quest’anno, anche se per ora nulla è confermato. “È ancora presto per annunciare i nomi delle personalità internazionali che parteciperanno – ha spiegato Amir Gissin – ma posso dire che il profilo globale delle Maccabiadi non è mai stato così alto. Riceviamo manifestazioni d’interesse da ogni parte del mondo, quindi posso assicurare che non sarà un evento noioso. La cerimonia d’apertura sarà davvero qualcosa di speciale” . Per gli organizzatori, le Maccabiadi 2025 rappresentano una sfida logistica e simbolica. “Non vogliamo che il messaggio sia ‘nonostante la guerra, stiamo andando avanti’, ma piuttosto proprio a causa della guerra, dobbiamo andare avanti”, ha detto Gissin.
(Shalom, 6 maggio 2025)
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La Convenzione di Ginevra e le mistificazioni in atto
di David Elber
Nello specifico degli aiuti umanitari per la popolazione civile, le norme di diritto internazionale sono incardinate nella IV Convenzione di Ginevra del 1949. Per prima cosa bisogna, però, capire il quadro bellico di riferimento per potere applicare le relative norme legali corrette. L’attuale guerra di Gaza si configura come un assedio. È legale operare un assedio? Si, l’assedio è una legittima forma di guerra disciplinata nella IV Convenzione dell’Aia del 1907 (nella fattispecie nella Sezione II: Delle ostilità; Capitolo I: Dei mezzi di nuocere al nemico, degli assedi e dei bombardamenti). Accertata la piena legittimità dell’assedio, vediamo ora come l’esercito assediante si deve comportare con la popolazione civile assediata relativamente agli aiuti umanitari essenziali che devono essere forniti. La prima considerazione da fare in merito all’assedio è la possibilità di far defluire la popolazione civile dalla zona degli scontri armati. Questo non è avvenuto a Gaza, unicamente, per colpa dell’Egitto che non permette il transito dei civili, per scopi umanitari, dal teatro di guerra. Quindi, chi viola il diritto internazionale è l’Egitto e non Israele che ha chiesto, ripetutamente, l’allontanamento dei civili per evitare loro inutili sofferenze e morti. Oltre all’Egitto chi viola il diritto internazionale è la comunità internazionale, a cominciare dall’ONU, che non obbliga l’Egitto a fare transitare i profughi dalle aree degli scontri militari come succede in tutti i conflitti del mondo.
Il piano annunciato da parte di Israele di una larga offensiva di terra coadiuvata da cielo e mare per conquistare e occupare Gaza, se effettivamente avrà luogo, è l’unica opzione realistica per porre fine al governo del terrore di Hamas che domina la Striscia dal 2007 ad oggi.
Infaticabilmente, qui su L’Informale non ci siamo mai stancati di ripeterlo. Nessuna guerra è mai stata vinta senza la sconfitta del nemico, la sua resa, e la conquista del suo territorio.
Il problema è che questa opzione, fin dall’inizio della guerra, è stata scartata dai comandi militari e da Netanyahu a causa principalmente degli ostaggi, i 254 che erano detenuti nella Striscia. Un attacco massiccio di terra, esteso su tutto il perimetro territoriale ne avrebbe inevitabilmente messo a repentaglio la sopravvivenza. Questo è stato il primo freno. Si è dunque optato per operazioni settoriali, per la segmentazione territoriale con interventi circoscritti zona per zona, atti a bonificarle dalle presenze jihadiste, creando corridoi e zone presiediate in modo da disarticolare l’omogeneità di Hamas, da inficiarne l’operatività. Il secondo freno è stato il commissariamento americano della guerra, attuato immediatamente dall’Amministrazione Biden, esplicitamente ostile a una conquista israeliana del territorio e orientata prioritariamente al negoziato con Hamas per la liberazione degli ostaggi. A tutto ciò si è aggiunta la richiesta pressante da parte di Washington di fornire costantemente aiuti umanitari alla popolazione di Gaza che ha solo permesso a Hamas di restare in sella arricchendosi con il depredamento regolare delle scorte inviate da Israele.
Tutto questo ha comportato il trascinamento della guerra e la situazione attuale che, l’Amministrazione Trump
, insediatosi il 20 gennaio scorso, non ha certo migliorato. Trump, infatti, ha continuato a privilegiare la via negoziale con Hamas mediata dal suo principale sponsor regionale, il Qatar, a discapito del raggiungimento della vittoria sul gruppo jihadista. Ancora adesso, mentre si scrivono queste righe, questa è la linea dell’Amministrazione Trump, molto bellicosa a parole, ma poco nei fatti concreti.
Si tratta della linea spinta dal consigliere principale di Trump in merito alla politica estera, il faccendiere Steve Witkoff, per il quale Hamas è un attore come tutti gli altri, ci si può sedere a un tavolo, negoziare, e trovare una intesa ragionevole. Così si crede di potere fare con l’Iran, che mentre arma gli Houti per colpire Israele, sta solo guadagnando tempo come la Russia, senza avere alcuna intenzione di porre fine al suo programma nucleare, e dunque al suo obiettivo di distruggere Israele.
Netanyahu ha capito che su Trump può contare a corrente alterna, e si muove come può, mentre l’annuncio della più larga offensiva a Gaza ha provocato il solito coro di sdegn e disapprovazione internazionale, ma la partita a Gaza va chiusa, mancano solo cinque mesi al secondo anniversario dell’eccidio del 7 ottobre per una guerra che si è protratta troppo a lungo.
(L'informale, 6 maggio 2025)
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Hamas perde pezzi a Rafah: arrestati due leader coinvolti nel massacro del 7 ottobre
Due importanti membri di Hamas sono stati catturati dall’IDF a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza. Si tratta di Yousef Qadi, comandante di plotone direttamente coinvolto nell’attacco del 7 ottobre e nella gestione di diversi ostaggi israeliani, e Mohammad Zaarab, figura di spicco dell’unità cecchini dell’organizzazione terroristica. I due si sono arresi alle truppe della Brigata 188, operante sotto il comando della 36ª Divisione. Al momento della cattura, ha riferito l’esercito israeliano, erano armati di coltelli.
L’arresto rappresenta un duro colpo alla leadership militare di Hamas e, secondo lo Shin Bet, ha già prodotto “intelligence di grande valore”. Tra le informazioni ottenute figura la posizione di un’importante infrastruttura terroristica nella zona di Rafah, attualmente sotto intensa pressione militare israeliana.
L’operazione si inserisce nel quadro dell’Operazione “Gideon’s Chariots”, approvata di recente all’unanimità dal Gabinetto di Sicurezza. L’obiettivo è lo smantellamento completo di Hamas e il ritorno a casa degli ostaggi ancora prigionieri nella Striscia di Gaza. Il piano prevede la creazione di una “zona sterile” nella parte meridionale dell’enclave, dove i civili palestinesi saranno sottoposti a controlli da parte delle forze israeliane e riceveranno aiuti umanitari tramite canali monitorati, per evitare che le forniture finiscano sotto il controllo di Hamas.
“Nel momento in cui ripuliamo un’area da ogni minaccia, rimaniamo lì per assicurarci che il terrorismo non possa ritornare. Questo è il modello Rafah,” ha dichiarato un funzionario israeliano, spiegando che il controllo militare continuerà nei territori liberati.
L’IDF non ha ancora fornito dettagli sulla tempistica delle prossime fasi dell’operazione, ma fonti vicine alla leadership militare lasciano intendere che incursioni più ampie potrebbero essere imminenti.
(Shalom, 6 maggio 2025)
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Una nuova strategia di Israele contro Hamas
di Ugo Volli
• La violenta campagna contro Israele
Come quando Israele entrò a Rafah, l’anno scorso, la nuova strategia delle forze armate israeliane per Gaza ha suscitato commenti violentissimi dei media italiani. C’è chi ha parlato di “ferocia di Israele” che “nega ai palestinesi il sogno del ritorno” (Malcangi sulla “Stampa”), chi parla di “invasione massiccia” e “occupazione” (Frattini sul “Corriere”). In rete si ripropongono le solite accuse di “genocidio” e volontà di “eliminare i palestinesi”. Naturalmente l’Onu esprime “allarme” e l’Unione Europea si dice “preoccupata”. La realtà è molto diversa e merita di essere spiegata con chiarezza.
• La guerra finora
Il 7 ottobre non è stata un’avventura sanguinosa, un pogrom (un cruento tumulto popolare antisemita) e neppure una semplice anche se ampia e sanguinosissima operazione terroristica. E’ stato l’inizio di una guerra, esplicitamente finalizzata alla distruzione di Israele. Ai terroristi di Gaza si sono uniti poi Hezbollah, gli Houthi, forze in Siria e in Iraq, tutti controllati dall’Iran. Lo Stato ebraico ha risposto con la logica della guerra, ha cioè cercato di scardinare il più possibile l’organizzazione militare dei nemici, badando a salvaguardare la popolazione civile. Ha colpito cioè le concentrazioni dei combattenti terroristi (quando si sono fatti trovare), i depositi d’armi, i centri di comando e controllo (spesso nascosti sotto ospedali, moschee e scuole), i comandanti, i mezzi di collegamento e di rifornimento, i lanciamissili. Ha deciso di farlo soprattutto dall’aria o con mezzi non convenzionali (come i cercapersone minati contro Hezbollah), per evitare di coinvolgere troppo i civili e anche di esporre i propri militari. Bisogna ricordare che Israele è un piccolo paese, che fa fatica a tenere sotto le armi centinaia di migliaia di soldati. E’ necessario anche sapere che in un attacco di terra a una difesa fortificata (com’è il caso di Gaza) il rapporto necessario agli assalitori per prevalere è di almeno cinque o sette a uno. Per questo Israele ha limitato il più possibile le operazioni di terra: sono stati occupati stabilmente solo i bordi di Gaza, per mettere in sicurezza le comunità della “cintura” intorno alla Striscia e impedire il contrabbando d’armi con l’Egitto; e poi uno o due corridoi trasversali a Gaza, in modo da impedire la concentrazione dei nemici e infine fasce poco profonde del territorio di confine di Libano e Siria. Il resto della Striscia è stato investito da veloci operazioni di penetrazione, distruzione dell’infrastruttura nemica e ritiro.
• Perché Hamas non si arrende
Ormai l’esercito israeliano ha distrutto la maggior parte dei comandanti (inclusi i capi supremi), delle armi e delle forze terroriste organizzate, anche se Hamas continua a reclutare fra la popolazione di Gaza che le è complessivamente favorevole. In una guerra normale una condizione del genere porta alla resa e alla pace, perché le forze armate si sentono parte del Paese e vogliono impedire che esso subisca danni ulteriori e inutili. Non è così a Gaza. Le ragioni sono tre. La prima è che ancora i terroristi dispongono di un’arma terribile, i rapiti israeliani. La seconda è che hanno molti appoggi internazionali, quelli militari dell’Iran e degli Houthi e quelli politici di una improbabile ma potentissima coalizione che comprende Russia, Cina, Unione Europea, Onu, sinistre di tutto il mondo. E poi c’è il fatto che i terroristi, anche se hanno organizzato forti formazioni militari, non combattono una guerra tradizionale ma una guerriglia, la cui strategia rifiuta sempre di accettare la sconfitta, perché si sente legata alla propria missione e non al benessere del proprio popolo, e dunque se sopraffatta fugge, si nasconde, colpisce a tradimento, attende di ricostruire le sue forze per riprendere il combattimento frontale.
• La fragilità degli Stati democratici
Oggi la facilità di costruire, nascondere. trasportare missili capaci di colpire la popolazione civile dello stato nemico favorisce questa strategia. Quando poi lo stato nemico è civile, democratico e avanzato come Israele, esso è strutturalmente molto più vulnerabile e il suo dibattito interno può essere sfruttato dai terroristi per paralizzare le forze preponderanti del suo esercito. Un missile vicino all’aeroporto, la minaccia di morte dei rapiti, il lutto per i caduti rischiano di logorare assai di più Israele di quel che costi ai terroristi l’eliminazione dei loro battaglioni. Essi lo sanno benissimo e infatti sono disposti a promettere di riconsegnare i rapiti e a cessare le ostilità solo in cambio dell’abbandono di Gaza da parte dell’esercito israeliano, della loro permanenza nella Striscia con le armi, di un impegno internazionale che garantisca la loro sopravvivenza e la “ricostruzione” (che ovviamente includerebbe quella delle loro fortificazioni sotterranee). Cioè niente meno della loro vittoria: una sconfitta decisiva per Israele, preludio, nella loro strategia, alla sua prossima distruzione.
• Gli stivali sul terreno
Di fronte a questa situazione Israele è costretto a perseguire non la normale sconfitta, ma la distruzione completa di Hamas e degli altri movimenti terroristici di Gaza e deve inoltre trovare il modo di eliminare l’influenza che essi hanno sulla popolazione. Il solo modo di farlo è la presa completa del controllo dell’intera Striscia, non per l’ambizione di impadronirsene (si tratta di una trentina di chilometri di costa, senza risorse particolari o importanza strategica se non perché vi si annidano i terroristi), ma per imporre quella pace che altrimenti non sarebbe possibile. Per farlo colpendo il meno possibile i civili israeliani intende utilizzare la sezione più meridionale di Gaza dove vuole sistemare la popolazione e distribuire i soccorsi necessari in maniera che essi non finiscano in mano ai terroristi, com’è accaduto finora. La maggior parte della Striscia sarà occupata dalla forze armate, stabilmente e non solo con spedizioni occasionali, per tutto il tempo necessario a stanare e distruggere i gruppi terroristi, eliminare del tutto armi, fortificazioni, catene di comando e possibilmente anche riuscendo così a liberare i rapiti che ancora sono in loro possesso. Non è una strategia “crudele”, è la stessa che ha portato gli Alleati a risalire faticosamente l’Italia e a occupare con durissime battaglie tutto il territorio tedesco prima di concludere la Seconda Guerra Mondiale. E’ un modo di combattere che costa molte vite anche all’esercito liberatore, che richiede tempo e sforzi, che certamente metterà in tensione l’economia e anche la politica israeliana. Ma è necessario. Anche se l’aviazione può stabilire un dominio essenziale, solo “gli stivali sul terreno” sono in grado di imporre la pace a un nemico che non si arrende.
(Shalom, 6 maggio 2025)
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L'autore presenta in modo chiaro e convincente la situazione in cui si trova Israele nella sua guerra difensiva contro chi l'ha attaccato con l'intenzione di distruggerlo definitivamente come nazione. I commenti malevoli dei media non fanno che confermare la malafede di chi non vuole rinunciare al gusto morboso di parlar male degli ebrei in veste moralistica. M.C.
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Hamas ha saccheggiato gli aiuti che Israele aveva autorizzato a entrare in Gaza
Abbas conferma che “bande” di Hamas rubano gli aiuti a Gaza.
“Bande” affiliate al gruppo terroristico Hamas hanno saccheggiato gli aiuti umanitari destinati ai civili nella Striscia di Gaza, ha dichiarato questo fine settimana il leader dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas.
Abbas ha condannato i “saccheggi e i furti perpetrati da bande criminali che prendono di mira i magazzini e le strutture di stoccaggio degli aiuti umanitari” in un comunicato ufficiale pubblicato venerdì dal sito di informazione Wafa dell'Autorità palestinese.
Secondo l'Autorità palestinese, che controlla la maggior parte dei palestinesi in Giudea e Samaria, ma è stata violentemente cacciata da Gaza da Hamas durante un colpo di Stato nel giugno 2007, le “bande affiliate a Hamas” sono le “principali responsabili” del furto.
I palestinesi «non perdoneranno questi atti vergognosi commessi in un momento così critico», ha dichiara Abbas riferendosi alla guerra in corso condotta dalle Forze di Difesa Israeliane contro i terroristi di Hamas nell'enclave costiera.
Ha avvertito che le bande sono “ben note al pubblico palestinese” e sarebbero “in cima alla lista nera per essere ritenute responsabili e tradotte davanti alla giustizia secondo la legge, al momento opportuno”.
Hamas ha saccheggiato almeno il 60% degli aiuti che Israele ha autorizzato ad entrare a Gaza, ha rivelato lo scorso anno l'Agenzia di sicurezza israeliana (Shin Bet). Il 2 marzo, Gerusalemme ha sospeso la consegna degli aiuti a seguito del rifiuto da parte di Hamas di un'altra proposta di tregua per gli ostaggi sostenuta dagli Stati Uniti.
I negoziati di riconciliazione condotti dall'Egitto e dalla Cina tra Fatah, la fazione al potere di Abbas, e Hamas sembrano essere falliti da quando quest'ultima organizzazione terroristica ha annunciato la firma di un accordo a luglio.
Fonti dell'AP avevano precedentemente dichiarato a Sky News Arabia che Hamas aveva approvato un piano in tre fasi che avrebbe portato a una “riconciliazione completa” e all'adesione del gruppo terroristico con base a Gaza all'organizzazione terroristica dell'OLP, che controlla l'AP, nell'ambito di una “visione palestinese-araba unificata”.
Hamas avrebbe dato il via libera alla proposta di Abbas di istituire un governo con l'obiettivo di ricostruire la Striscia di Gaza dopo la guerra scatenata dal massacro terroristico del 7 ottobre 2023.
Tuttavia, il 23 aprile, Abbas ha invitato Hamas a «porre fine al suo controllo su Gaza, a restituire tutti i suoi affari all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e alla legittima Autorità Nazionale Palestinese, ad astenersi dal portare armi, a trasformarsi in un partito politico che opera secondo le leggi dello Stato palestinese e aderisce alla legittimità internazionale».
«La priorità assoluta è porre fine alla guerra di sterminio nella Striscia di Gaza», ha dichiarato l'ottantenne presidente dell'Autorità Palestinese. Abbas ha aggiunto: «Bisogna porvi fine; ogni giorno vengono uccise centinaia di persone. Perché non consegnate gli ostaggi americani? Figli di cani, liberate quelli che tenete prigionieri e mettete fine a questa storia. Basta con le scuse [di Israele]. Smettetela!».
Non è ancora chiaro se Abbas, che non ha ancora condannato pubblicamente gli attentati del 7 ottobre, abbia chiesto la liberazione dei 59 prigionieri rimasti o solo degli americani.
I membri delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, un braccio «militare» del movimento Fatah di Abbas, hanno partecipato agli attentati del 7 ottobre, e l'Autorità palestinese ha ricompensato finanziariamente i terroristi del 7 ottobre attraverso il suo fondo «pagare per uccidere».
(JForum.fr, 6 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Chiudere la partita
di Niram Ferretti
Il piano annunciato da parte di Israele di una larga offensiva di terra coadiuvata da cielo e mare per conquistare e occupare Gaza, se effettivamente avrà luogo, è l’unica opzione realistica per porre fine al governo del terrore di Hamas che domina la Striscia dal 2007 ad oggi.
Infaticabilmente, qui su L’Informale non ci siamo mai stancati di ripeterlo. Nessuna guerra è mai stata vinta senza la sconfitta del nemico, la sua resa, e la conquista del suo territorio.
Il problema è che questa opzione, fin dall’inizio della guerra, è stata scartata dai comandi militari e da Netanyahu a causa principalmente degli ostaggi, i 254 che erano detenuti nella Striscia. Un attacco massiccio di terra, esteso su tutto il perimetro territoriale ne avrebbe inevitabilmente messo a repentaglio la sopravvivenza. Questo è stato il primo freno. Si è dunque optato per operazioni settoriali, per la segmentazione territoriale con interventi circoscritti zona per zona, atti a bonificarle dalle presenze jihadiste, creando corridoi e zone presiediate in modo da disarticolare l’omogeneità di Hamas, da inficiarne l’operatività. Il secondo freno è stato il commissariamento americano della guerra, attuato immediatamente dall’Amministrazione Biden, esplicitamente ostile a una conquista israeliana del territorio e orientata prioritariamente al negoziato con Hamas per la liberazione degli ostaggi. A tutto ciò si è aggiunta la richiesta pressante da parte di Washington di fornire costantemente aiuti umanitari alla popolazione di Gaza che ha solo permesso a Hamas di restare in sella arricchendosi con il depredamento regolare delle scorte inviate da Israele.
Tutto questo ha comportato il trascinamento della guerra e la situazione attuale che, l’Amministrazione Trump, insediatosi il 20 gennaio scorso, non ha certo migliorato. Trump, infatti, ha continuato a privilegiare la via negoziale con Hamas mediata dal suo principale sponsor regionale, il Qatar, a discapito del raggiungimento della vittoria sul gruppo jihadista. Ancora adesso, mentre si scrivono queste righe, questa è la linea dell’Amministrazione Trump, molto bellicosa a parole, ma poco nei fatti concreti.
Si tratta della linea spinta dal consigliere principale di Trump in merito alla politica estera, il faccendiere Steve Witkoff, per il quale Hamas è un attore come tutti gli altri, ci si può sedere a un tavolo, negoziare, e trovare una intesa ragionevole. Così si crede di potere fare con l’Iran, che mentre arma gli Houti per colpire Israele, sta solo guadagnando tempo come la Russia, senza avere alcuna intenzione di porre fine al suo programma nucleare, e dunque al suo obiettivo di distruggere Israele.
Netanyahu ha capito che su Trump può contare a corrente alterna, e si muove come può, mentre l’annuncio della più larga offensiva a Gaza ha provocato il solito coro di sdegno e disapprovazione internazionale, ma la partita a Gaza va chiusa, mancano solo cinque mesi al secondo anniversario dell’eccidio del 7 ottobre per una guerra che si è protratta troppo a lungo.
Di Lorenzo Cremonesi, corrispondente di guerra de Il Corriere della Sera, e indefesso propugnatore del romanzo nero dei “coloni” e delle loro nefandezze ai danni dell’inerme popolazione araba palestinese abbiamo dato conto in tutti questi mesi.
In un articolo pubblicato ieri sul quotidiano di via Solferino, Cremonesi allunga il passo e si accoda a coloro i quali affermano che a Gaza sarebbe in corso un genocidio. “Basta ambiguità, basta sensi di colpa rispetto all’ombra nera dell’Olocausto, basta accettare passivi la minaccia del ricatto onnipresente dell’accusa di antisemitismo”. Cremonesi dice basta, e poi prosegue accusando Netanyahu di volere “espellere-eliminare” la popolazione palestinese dalla Cisgiordania e in seguito tutti gli arabi da Israele. Cremonesi ha letto le carte segrete di questa soluzione finale che appunto prevede l’espulsione di ogni arabo, dunque anche il milione e ottocentomila con regolare passaporto israeliano.
Fare ironia sulle farneticazioni di un reporter forse anche mentalmente provato dalla fatica di scrivere sempre e solo di guerre (Cremonesi, da tre anni racconta anche la guerra in Ucraina), è fin troppo facile. Il problema è un altro, ed è, dall’inizio della guerra voluta da Hamas il 7 ottobre del 2023 dopo lo sterminio, questo sì intenzionale, programmatico, sadico, di 1200 cittadini israeliani, la narrazione della propaganda contro Israele, una macchina mastodontica che si tiene in piedi da sessanta anni, oliata magnificamente, vastissima, radicata.
Questa macchina, come tutte quelle della propaganda, usa per il suo funzionamento solerte e ossessivo una serie di parole privandole del loro senso originario per impiegarle come corpi contundenti. L’accusa di genocidio rivolta a Israele è di vecchio conio. Già nel 1982, quando ci fu la prima guerra del Libano, in una dichiarazione contro Israele, ad usarla fu Enrico Berlinguer. La nazificazione degli israeliani, creata ad hoc a Mosca, è in auge da almeno tre decenni, poi è venuto il turno dello stigma di apartheid, risalente al 1975, dopo che l’ONU passò la Risoluzione 3379 che accusava Israele di razzismo.
I cantori o megafoni del genocidio a Gaza, con in testa la corifea Francesca Albanese, sono in molti, e non importa che i numeri dei morti a Gaza siano forniti da Hamas e inverificabili, non importa che se anche fosse vero che sono state uccise cinquantamila persone (che Cremonesi attingendo a proprie fonti, incrementa a settantamila), bisognerebbe sottrarre il numero dei jihadisti morti che l’IDF stima intorno ai 23 mila, portando quindi il rapporto tra terroristi e civili morti a un livello di equivalenza, il più basso mai registrato in tutte le guerre urbane combattute nell’ultimo ventennio, non importa che Hamas non ha mai consentito a nessun civile di potersi rifugiare all’interno del reticolo di 800 km di tunnel costruito sotto case, moschee, ospedali, non importa che se la popolazione di Gaza consta di circa due milioni di persone e se anche ne fossero morte cinquantamila non ci si può nemmeno lontanamente avvicinare alla distruzione sistematica di una popolazione, non importa che in una delle zone più densamente popolate del pianeta, i terroristi si nascondano tra la popolazione, tutto questo non importa.
La razionalità scompare quando trionfa la propaganda, il cui scopo è quello, come ben sapeva Goebbels di reiterare all’infinito le menzogne, di martellare con parole feticcio, di distruggere sistematicamente la realtà per sostituirla con un mondo parallelo.
Alla fine però i Cremonesi, le Albanese, gli Ovadia, vanno ringraziati. Nella furia parossistica del loro odio per la verità, dei loro accecanti pregiudizi, ci consentono di poterci aggrappare con sempre maggiore sicurezza ai fatti, alla loro effettiva consistenza, e a continuare, ogni giorno, a ribadirli.
(L'informale, 6 maggio 2025)
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Hezbollah al capolinea?
L’organizzazione terroristica sta vivendo un momento di crisi senza precedenti
di David Zebuloni
“Il mio obiettivo è che nel 2025 tutte le armi del paese siano esclusivamente nelle mani dello Stato”, ha dichiarato il presidente del Libano, Joseph Aoun, annunciando di aver raggiunto un’intesa con il capo del parlamento libanese sul disarmo di Hezbollah. “Ora resta solo da definire il meccanismo per attuare questa misura – qualcosa che avverrà attraverso un dialogo diretto con i leader di Hezbollah”, ha aggiunto, precisando: “Non integreremo Hezbollah come unità indipendente all’interno dell’esercito libanese. I suoi miliziani potranno essere assorbiti solo dopo corsi di formazione e addestramento specifici”.
Il canale di notizie saudita Al-Hadath ha riportato che, secondo una fonte diplomatica dell’America Latina, recentemente Hezbollah avrebbe trasferito circa 400 comandanti, assieme alle loro famiglie, in vari Paesi del Sud America, tra cui Brasile, Colombia, Venezuela ed Ecuador. Secondo la fonte, questa decisione deriverebbe dalla consapevolezza che la struttura militare dell’organizzazione terroristica sta per essere smantellata, e i dirigenti temono di essere colpiti da Israele o arrestati da servizi segreti locali o internazionali.
La domanda sorge dunque spontanea: si può davvero affermare che l’era di Hezbollah in Libano sia finita? Il gruppo terroristico realmente rinuncerà al suo potere e si ritirerà in modo definitivo? Secondo gli esperti, risulta ancora troppo presto per dirlo con certezza. “Sta succedendo qualcosa di grande, l’organizzazione è in grave difficoltà, ma Hezbollah possiede ancora moltissime armi, e anche se in Parlamento si parla di disarmo, non è affatto un compito semplice da realizzare”, ha spiegato in un’intervista a Makor Rishon il generale Gershon HaCohen, ex comandante del corpo d’armata dell’esercito israeliano.
“Il possesso delle armi da parte di Hezbollah è legato prima di tutto a una concezione religiosa e ideologica: il credente islamico deve ogni giorno trovare una nuova via per combattere”, prosegue HaCohen. “È chiaro che l’organizzazione riconosce di attraversare un momento di debolezza, ma anche se sembra disposta a discutere del proprio disarmo, non è una vera apertura sostanziale. In questo momento, Hezbollah ha più bisogno di denaro che di armi. Deve ancora saldare i pagamenti promessi alla sua rete di combattenti, sia durante che prima della guerra”.
Anche Noam Bennett, ricercatore esperto di comunicazione visiva nel mondo arabo, non crede che Hezbollah sia pronto a rinunciare ai suoi asset strategici. “La vera domanda è se il governo e l’esercito libanese abbiano la forza per imporre il disarmo all’organizzazione”, ha sottolineato, sempre in un’intervista a Makor Rishon. “Hezbollah ha subito colpi durissimi nell’ultimo anno, è vero, ma è ancora lì. Esiste. È al punto più basso degli ultimi decenni, non c’è dubbio, ma non lo vedo rinunciare facilmente al suo arsenale”.
Bennett cita poi alcuni segnali del profondo malessere interno a Hezbollah. “Negli ultimi due giorni, in diversi villaggi del Libano, i residenti hanno rimosso le immagini di figure sciite prominenti come l’ex segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, e Moussa al-Sadr, fondatore del movimento Amal”, racconta. “Questi sono a mio parere dei segnali non meno significativi delle ultime esternazioni del presidente Aoun”. Tuttavia, lo stesso Bennett mette in guardia da aspettative troppo ottimiste. “Non credo che il presidente Aoun, che fino a poco tempo fa era il comandante dell’esercito e sa bene cosa sia la guerra, voglia realmente dare inizio a un conflitto interno. I libanesi hanno il terrore di una nuova guerra civile come quella avvenuta negli anni 1975-1990. E con la situazione economica odierna, nessuno sembra avere né il desiderio né le risorse per un altro scontro fratricida”.
La guerra civile libanese, in tutte le sue fasi, causò infatti circa 150.000 morti, 200.000 feriti e oltre 17.500 dispersi, poi dichiarati deceduti. “Non credo che ci siano forze interne al Libano pronte a combattere”, conferma l’ex generale HaCohen. “Non vedo l’esercito libanese o le comunità cristiane dichiarare una guerra aperta a Hezbollah. Ci potranno essere forse degli sporadici scontri localizzati, ma non una vera guerra. Credo ci siano abbastanza persone in Libano che ricordano bene perché una nuova guerra civile sarebbe un disastro da evitare per il bene della nazione”.
Nonostante le difficoltà, Hezbollah è tutt’altro che estinto. “All’organizzazione terroristica manca oggi il sostegno popolare, ma la sua leadership non si è completamente sgretolata”, conclude HaCohen. “Una delle caratteristiche del mondo credente musulmano è la capacità di affrontare i momenti di crisi militare attraverso la fede. Hezbollah vede nella sua sconfitta una fase temporanea da superare. I terroristi credono davvero che si riapriranno per loro le porte del paradiso, e che l’organizzazione tornerà presto ai giorni di gloria”.
(Bet Magazine Mosaico, 6 maggio 2025)
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Ostaggi – Aviv Atzili, il meccanico artista
Aviv Atzili aggiustava i trattori del kibbutz Nir Oz. 49 anni, una vita passata a fare il meccanico e tra i campi, maneggiando tutti gli strumenti agricoli. Alcuni, quelli messi male, usurati dal tempo e arrugginiti Aviv li usava per esprimere la sua vena artistica. Li incorporava in quadri o sculture, che realizzava per sé, senza prendersi troppo sul serio. «Non c’era ego nelle sue creazioni. Aviv era un artista, ma senza definirsi tale», ha ricordato la sua ex insegnante, Galia Heller. «Guardava le cose in modo diverso, aveva un buon occhio e un eccellente senso estetico». Amava in particolare dipingere miniature di vita quotidiana del kibbutz su attrezzi in disuso. «Sono fortunato», aveva detto poco prima della guerra, «per anni ho lavorato con le mani nell’agricoltura, ora, con l’arte, posso lavorare con le mani stando seduto».
Il 7 ottobre 2023, Aviv, 49 anni, era in servizio nella squadra di sicurezza di Nir Oz. Alle 8:27 ha lasciato un messaggio vocale alla moglie Liat e ai tre figli: «Ci sono diversi uomini dentro il kibbutz. Ne abbiamo eliminati alcuni. Rimanete chiusi dentro. Bevete acqua. Andrà tutto bene». Poco dopo è stato ucciso in uno scontro con i terroristi di Hamas e il suo corpo è stato portato a Gaza. I risultati di un’indagine hanno indicato che potrebbe aver strappato un’arma a uno degli assalitori. «È così che me lo immagino», ha raccontato la moglie Liat, mentre difende il kibbutz e la famiglia.
Rapita il 7 ottobre, Liat è rimasta per 54 giorni nelle mani dei terroristi per poi essere liberata nel primo accordo tra Israele e Hamas. Ritornata a casa, ha scoperto il destino di suo marito. Nonostante rivoglia la salma di Aviv per poterlo seppellire, ad Haaretz ha spiegato che la priorità è portare in salvo i 24 ostaggi ritenuti in vita. «Non voglio che qualcuno rischi la vita per riportare il corpo di Aviv. È molto più importante salvare chi è ancora vivo». Da 578 giorni, ci sono ostaggi ancora imprigionati a Gaza. «Quello che ho vissuto io non è niente in confronto a ciò che stanno vivendo oggi», ha sottolineato Liat. «La situazione umanitaria è crollata. Sono molto preoccupata per le condizioni fisiche e mentali dei rapiti».
Liat non ha fiducia nel governo né nel primo ministro Benjamin Netanyahu. «Quando un disastro del genere accade sotto i tuoi occhi e la tua guida, la cosa più dignitosa da fare è dimettersi». Oltre a lottare al fianco delle famiglie degli ostaggi, Liat lavora alla ricostruzione del kibbutz Nir Oz. «Non sono d’accordo con chi dice che dobbiamo aspettare. Dobbiamo ricostruire le nostre case».
Intanto, a tenere vivo il ricordo di Aviv è la sua arte. A marzo 2025, alcune delle sue opere sono state esposte nella galleria di Givat Haviva, parte della mostra “Un kibbutz è a volte un indirizzo, a volte una casa”. I quadri di Atzili sono arrivati in questa piccola esibizione nel nord d’Israele grazie al lavoro di restauro del fratello Ronen. Sono opere, ha osservato il quotidiano Israel Hayom, che rappresentano la capacità di trasformare gli scarti in bellezza. All’inaugurazione della mostra era presente anche un amico di famiglia: Gadi Mozes, 80 anni, sequestrato il 7 ottobre da Nir Oz e sopravvissuto a 482 giorni di prigionia a Gaza. «Amavo Aviv con tutto il cuore, l’ho visto crescere. L’ho sempre conosciuto come un meccanico e un fabbro e poi mi ha rivelato la sua passione artistica. Le sue opere mi hanno sempre sorpreso. Mi ha commosso vedere come ha saputo unire il lavoro manuale, il talento e lo spirito».
(moked, 6 maggio 2025)
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Dire la verità su Gaza è diventato pericoloso
Sui social è sommerso dall'odio chi contesta l'accusa di «genocidio», mossa a Israele addirittura prima che iniziasse a rispondere alle stragi del 7 ottobre 2023. Ma sono i numeri a smentire politici, cantanti, università e enti internazionali amici degli islamici.
di Silvana De Mari
È Hamas che
nel suo statuto scrive a chiare lettere
che il suo obiettivo
è distruggere
lo Stato ebraico. Nessuno sembra prenderne atto.
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Va ribadito: i dati
forniti dal ministero della Salute controllato
dai terroristi
sono gonfiati.
Le vittime sono soprattutto miliziani.
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«Basta la parola». Vecchio slogan pubblicitario che racchiude una verità neurobiologica, la potenza evocativa delle parole. Genocidio non è una parola con cui scherzare. E l'accusa massima, totale, che permette un odio massimo, totale, che permette anche di dimenticare i veri genocidi, di banalizzarli, di considerarli dimenticati. Non esiste alcun genocidio a Gaza.
Analizziamo la demografia.
Ci dicono che Gaza, che ha una frontiera in comune con l'Egitto, prima del 7 ottobre era una prigione a cielo aperto, anzi un lager. Nei lager la popolazione diminuiva. Nel 1967, quando Israele conquista Sinai e Gaza con la Guerra dei sei giorni, a Gaza vivono circa 500.000 persone, nel 2000 la popolazione era più che raddoppiata. Gli israeliani hanno portato fogne, acqua potabile, scolarità e ospedali abbattendo la mortalità infantile. Nel 2005 gli israeliani lasciano Gaza, strappando i propri coloni da terre che avevano reso fertilissime. La speranza di pace di Israele naufraga immediatamente. Comincia una guerriglia continua con Israele, sempre accusato di genocidio e pulizia etnica. Nel 2010 la popolazione di Gaza era di 1.600.000 abitanti, nel 2020 ha raggiunto i 2.300.000. Come si può facilmente verificare su Google, a Gaza prima del 7 ottobre, c'erano hotel, di cui due a 5 stelle, ville con piscina, un campo da golf, turismo, motivo per cui Israele ha pensato di essere riuscito a comprarsi la pace. Ritenendo a torto che la pace sia conclusa, Israele cessa di controllare il confine, e addirittura permette l'ingresso di migliaia di frontalieri, migliaia di lavoratori che da Gaza vanno nei kibbutz dei massacri a lavorare. I massacri sono stati possibili perché gli uomini di Hamas conoscevano già i posti, sapevano chi aveva il cane, chi aveva un fucile. Se Israele, durante questo anno di guerra, avesse voluto sterminare la popolazione di Gaza avrebbe potuto farlo: sarebbe stato sufficiente bombardare a tappeto, come è stata bombardata Dresda, o come stata bombardata Berlino, oppure la Cecenia o l'Iraq, per arrivare a esempi più recente, sorvolando sul mezzo milione di morti che ha fatto la guerra in Siria, o su come è stata bombardata Belgrado, per ricordare una situazione dove l'Italia ha entusiasticamente collaborato, senza che nessuno parlasse di genocidio.
È interessante l'analisi dei tempi con cui viene tirata fuori l'accusa di genocidio. Il 7 ottobre 2023 è il giorno dell'attacco di Hamas ai civili israeliani, uccisi con un sadismo sconosciuto addirittura alle Ss. Ci sono stati più di 1.000 assassinati, tra cui moltissimi bambini, e 6.000 feriti. Ci sono stati stupri di gruppo su centinaia di donne ebree poi mutilate o sventrate. Ci sono stati 200 ostaggi catturati, inclusi i due bimbi con i capelli rossi di 4 e 1 anno. Hamas entra in Israele, uccide e massacra, e già il 7 ottobre compaiono nei campus, sui social, nelle università, nelle sedi di molti movimenti e in rete incredibili paro1e che accusano Israele, che non ha ancora fatto nulla, non sta neanche riuscendo a contare i morti, di genocidio contro Gaza. Il 9 ottobre, due giorni dopo che i miliziani di Hamas hanno sterminato più di 1.000 ebrei, a Londra c'è la prima manifestazione davanti all'ambasciata israeliana, con cartelli, bandiere, latrati di odio. Immediatamente dopo arriva a Chicago. Se analizziamo i tempi ci rendiamo conto che gli israeliani sono stati accusati di genocidio prima di aver cominciato qualsiasi azione militare, con una azione mediatica geniale, capillare, internazionale, che è in realtà cominciata dopo la guerra del Kippur (1973), terza guerra di sterminio scatenata dai Paesi arabi confinanti e terza vittoria di Israele. Si è cambiata strategia, non più vere guerre con veri eserciti, ma la creazione del terrorismo palestinese e la sua beatificazione. Fiumi di denaro sono arrivati ai campus statunitensi ufficialmente, e non ufficialmente anche a personaggi politici e giornali, alle cancellerie europee, al punto che nei palazzi di Bruxelles si firmano trattati ufficiali dove si dichiara che tra gli scopi dell'Ue c'è l'islamizzazione dell'Europa, mediante modificazioni culturali e immigrazione massiva. Il vittimismo palestinese e la beatificazione del terrorismo palestinese sono elementi essenziali. Nasce e viene coltivata negli atenei, nello spettacolo, sui giornali l'idea che il terrorismo è una reazione a un torto subito. Maggiore è la ferocia del terrorismo, maggiore deve essere il torto subito. Quindi tanto più Hamas massacra, tanto più questa è la prova che Israele è un mostro genocida. Israele non avrebbe potuto evitare l'accusa di genocidio, nata il 7 ottobre, il giorno stesso del massacro subìto, nemmeno se si fosse limitato ad accendere candeline e scrivere sull'asfalto con gessetti colorati a tinte pastello. È completamente mancata qualsiasi forma di simpatia per gli assassinati e i rapiti.
Non sono state fatte condoglianze, perché tutti i sionisti sono colpevoli e meritano la morte. Il solo fatto che siano stati uccisi dimostra che hanno scatenato un odio mortale nel cuore dei palestinesi, quindi sono colpevoli. Il 14 ottobre a Ginevra arrivano le parole di una delle più disastrose persone che prendono uno stipendio dall'Onu per aumentare il disastro del mondo. Francesca Albanese, relatrice speciale dell'Onu, parla di «mass ethnic cleansing», Nemmeno una parola sui rapiti, sugli stuprati sia femmine che maschi, sui bambini massacrati. Grazie alla Albanese la parola genocidio si leva dalle piazze per arrivare ai piani alti. Lo stesso giorno a Londra una marcia di 150.000 persone urla la sua opposizione al genocidio. Qualcuno finalmente protesta per il 7 ottobre, qualcuno protesta per il genocidio che Hamas dichiara di voler commettere addirittura nel suo statuto? Certamente no: il genocidio per cui si protesta è quello di Israele contro Gaza. L'esercito israeliano non è ancora entrato a Gaza. I vertici di Hamas ripetono a chiunque voglia ascoltarli la loro volontà di sterminio. Non si fermeranno fino a quando non avranno distrutto Israele, come prescritto dall'articolo uno del loro Statuto. Grazie a loro, e grazie all'odio che ovunque si sta scatenando contro gli ebrei, sarà possibile lo sterminio di ogni ebreo nel mondo, come prescritto dal loro articolo sette.
È evidente che c'è una strategia. È fondamentale, per poter distruggere Israele, delegittimarla con l'accusa di genocidio. Ho scritto sulla mia pagina Facebook che non c'è nessun genocidio di Israele. È come mettere le mani in un vespaio. L'odio si è scatenato a fiumi, l'odio più violento e incredibile. Moltissime persone hanno la bandiera di Hamas al posto della propria faccia sulla loro pagina Facebook. Quindi un mucchio di persone vuole come prima cosa al mondo lo sterminio dello Stato di Israele dal fiume al mare, e come settima cosa l'assassinio di ogni ebreo nel mondo. I dati sui morti di Gaza sono forniti dal ministero della Salute controllato da Hamas, e sono ovviamente falsi. Stanno faticosamente emergendo i numeri veri, che sono fortunatamente molto più bassi e, come riconosce lo stesso Hamas, al 70% costituiti da maschi in età militare, cioè da unità combattenti. Ma l'accusa di genocidio scatta in tutti i casi, rilanciata dal Vaticano, da Amnesty International, da qualche miserabile cantautore mai sentito nominare da nessuno, da qualche miserabile aspirante uomo politico, e sempre ottiene standing ovation, intere piazze che latrano la loro gioia all'idea che Israele sia distrutto, così la giustizia sarà ristabilita e il mondo vivrà in pace. L'accusa di genocidio è scattata prima di qualsiasi azione militare perché è preparata dal 1973. Si tratta dell'invenzione di un genocidio, necessaria per rendere tollerabile un genocidio vero, quello che, come posso vedere sulla mia pagina Facebook, è il sogno di molti. «Combatti fino alla morte per la verità e Dio combatterà per te» (Siracide). Non c'è nessun genocidio a Gaza.
(La Verità, 5 maggio 2025)
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Ostaggi – Mohammed Alatrash e la passione per i cavalli
Padre di 13 figli, Mohammed Alatrash, 39 anni, viveva nel villaggio beduino di Sawa, nel Negev settentrionale. Era il maggiore di 22 fratelli e la sua passione, raccontano i parenti, erano i cavalli. «Il suo sogno era aprire una riserva per cavalli. Ne aveva diversi e li faceva cavalcare ai bambini ogni volta che poteva», ha ricordato a ynet Yusuf, uno dei fratelli. «Mohammed era il maggiore», ha raccontato il padre Ibrahim. «Tutta la responsabilità era su di lui e si impegnava a tenerci uniti. Si prendeva sempre cura di tutti».
La mattina del 7 ottobre 2023 Alatrash era in servizio come tracciatore nella Brigata Nord della Divisione Gaza dell’esercito israeliano. Alle 6:16 risultava ancora attivo su WhatsApp. Era riuscito a parlare brevemente con un familiare, promettendo che avrebbe richiamato. Non lo ha più fatto. Secondo quanto ricostruito dai parenti, quando è avvenuto l’attacco di Hamas, Mohammed stava rientrando verso l’avamposto di Nahal Oz. Lungo la strada ha incrociato i terroristi palestinesi e il suo veicolo è stato trovato abbandonato.
Nei mesi successivi, la famiglia ha appreso del suo sequestro, senza sapere nulla sulle sue condizioni. «I suoi figli chiedevano ogni giorno quando sarebbe tornato e noi speravamo fosse vivo», ha raccontato al Jerusalem Post lo zio Salem. Solo a giugno 2024, le Idf hanno chiarito il suo destino: Mohammed Alatrash è stato ucciso il 7 ottobre e il suo corpo portato a Gaza. Ai parenti è stato mostrato un video in cui si vede il suo ultimo scontro con i terroristi.
Ricevuta la conferma della morte, la famiglia Alatrash si è riunita a Sawa. Ma in assenza del corpo, non è stato possibile celebrare il funerale. «Nella nostra tradizione», ha spiegato il cugino Nimer, «la tenda funebre si erige solo quando si può seppellire il defunto». L’attesa per dare una degna sepoltura a Mohammed, la cui salma è in mano a Hamas, dura da 577 giorni.
Il dolore della famiglia, ha aggiunto Nimer, è aggravato dalla sensazione di abbandono. «Noi serviamo lo stato di Israele, e lo stato demolisce le nostre case, anche quelle dei nostri soldati», ha denunciato, riferendosi alle demolizioni decise dalle autorità di abitazioni considerate abusive e parte degli insediamenti beduini. «Questo sta danneggiando il reclutamento nella nostra comunità. I beduini vogliono integrarsi, ma sono stanchi di promesse non mantenute». d.r.
(moked, 5 maggio 2025)
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Missile Houthi colpisce l’aeroporto Ben-Gurion: sei feriti, sistemi di difesa falliscono l’intercettazione
L’intercettazione è fallita e il missile è caduto direttamente nella zona aeroportuale. L’attacco è il quarto di una serie di colpi sferrati dai ribelli yemeniti contro Israele nelle ultime ore. Morti due soldati a Gaza, mentre tre persone sono state arrestate per aver pianificato attentati terroristici, tra cui l’assassinio del ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir.
di Anna Balestrieri
Un missile balistico lanciato dallo Yemen ha colpito l’area dell’
aeroporto Ben-Gurion nella mattinata di domenica 4 maggio, dopo che i sistemi di difesa israeliani Arrow e americani THAAD non sono riusciti ad intercettarlo. Secondo una valutazione preliminare dell’IDF,
l’intercettazione è fallita e il missile è caduto direttamente nella zona aeroportuale. L’attacco è il quarto di una serie di colpi sferrati dai ribelli yemeniti contro Israele nelle ultime ore.
• Feriti e danni
Secondo i dati forniti da Magen David Adom,
sei persone sono rimaste ferite a seguito dell’attacco. Un uomo di circa 50 anni ha riportato traumi agli arti ed è stato classificato in condizioni da buone a moderate. Due donne, di 54 e 38 anni, sono state ferite lievemente dall’onda d’urto. Un uomo di 64 anni è stato colpito da un oggetto volante ed è rimasto leggermente ferito. Altre due donne, di 22 e 34 anni, si sono ferite lievemente mentre correvano verso i rifugi. Due persone sono state trattate per attacchi d’ansia. Tutti i feriti sono stati trasportati in ospedali del centro di Israele.
• Rivendicazione degli Houthi e reazioni
Un alto esponente del movimento Houthi, Muhammad al-Bahithi, ha dichiarato all’emittente qatariota Al Araby che il bombardamento dell’aeroporto Ben-Gurion dimostra “la capacità di colpire siti fortificati in Israele”.
Il ministro della Difesa israeliano
, Israel Katz, ha rilasciato una dichiarazione in seguito all’attacco affermando: “Chi ci fa del male, lo colpiremo sette volte tanto”. Finora Israele aveva evitato di rispondere militarmente in Yemen, mentre gli Stati Uniti conducevano una campagna contro i ribelli filo-iraniani.
Fonti statunitensi e britanniche hanno riferito che nella notte tra sabato e domenica sono stati effettuati attacchi aerei contro obiettivi Houthi in Yemen.
• Situazione all’aeroporto Ben-Gurion
L’attacco ha comportato l’interruzione temporanea dei voli in partenza e in arrivo. L’aeroporto ha sospeso le operazioni per circa un’ora, ma successivamente l’Autorità aeroportuale israeliana ha annunciato la ripresa regolare del traffico aereo. Anche il servizio ferroviario presso la stazione aeroportuale è tornato alla normalità dopo un breve blocco.
Un volo Air India proveniente da Nuova Delhi e diretto a Tel Aviv è stato deviato mentre sorvolava l’area a sud di Amman, in Giordania, a seguito dell’attivazione delle sirene antimissile. Il velivolo ha invertito la rotta in direzione dell’Arabia Saudita.
• Altri eventi della giornata
In parallelo all’attacco missilistico,
due soldati israeliani sono rimasti uccisi a Rafah a causa dell’esplosione di un tunnel trappola nel 576esimo giorno di guerra.
Nel frattempo, il tribunale di Beersheba ha
condannato tre uomini a tre anni e mezzo di carcere per aver pianificato attentati terroristici, tra cui un tentativo di assassinare il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, con un lanciarazzi. I tre, due cittadini della città beduina di Rahat e un palestinese della Cisgiordania, hanno ottenuto pene ridotte in seguito a un patteggiamento. Ben Gvir ha criticato duramente l’accordo, definendolo “una vergogna” e “un incoraggiamento al terrorismo”.
(Bet Magazine Mosaico, 4 maggio 2025)
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La settimana di Israele – Tra Gaza e la Siria
di Ugo Volli
• Ecocidio
La guerra sta entrando nel ventesimo mese e non accenna a cessare. C’è stato un nuovo tentativo di usare gli incendi dei boschi come arma terrorista, secondo uno schema distruttivo usato molte volte da Hamas, senza che i verdi europei protestassero mai per questo ecocidio: i danni sono stati gravi, ma per il momento sembra che il pericolo del fuoco sia passato, anche grazie alla solidarietà internazionale: molti paesi fra cui l’Italia hanno spedito in Israele i propri aerei anti-incendio.
• Strategie al confronto a Gaza
Quel che succede a Gaza è determinato dalla strategia di Hamas che punta a “logorare” l’esercito israeliano in una guerra d’attrito e bloccare la sua reazione con la pressione internazionale. Il movimento terrorista ha approfittato della tregua per cercare di rifornirsi di armi, soprattutto con l’uso di droni; per riposizionare le sue forze e reclutare nuovi combattenti. Israele è deciso a schiacciare il gruppo terrorista bloccando i suoi rifornimenti, isolandolo fisicamente dalla popolazione, smantellando le sue installazioni e i suoi depositi, eliminando i suoi quadri e infine stabilendo un controllo effettivo su tutto il territorio della Striscia, invece della vecchia logica delle incursioni. Per questo ha mobilitato di nuovo molte migliaia di riservisti, ha stabilito dei corridoi traversali presidiati per impedire la mobilità dei terroristi e mantiene delle zone cuscinetto al confine fra Gaza e Israele. Inoltre ha bloccato da qualche tempo i rifornimenti “umanitari” che servivano soprattutto a Hamas, in modo da obbligare i terroristi a utilizzare le loro abbondanti riserve. Quando la popolazione civile avrà davvero bisogno di aiuti Israele farà in modo di distribuirli in modo che non siano depredati da Hamas. È una strategia che funziona e può portare alla vittoria se si riuscirà a continuarla per qualche tempo. Per questa ragione Hamas spinge sulla propaganda internazionale cercando di fermare a tutti i costi l’offensiva di Israele e dunque la sua sconfitta e conta sull’aiuto ormai chiarissimo delle organizzazioni di sinistra che sotto il sempre più esile velo umanitario si battono ormai esplicitamente in favore dell’azione dei terroristi. Ne abbiamo avuto la prova anche in Italia con trasmissioni televisive, appelli a manifestazioni sindacali, prese di posizioni dei leader della sinistra.
• Libano e Yemen
La guerra però ha altri fronti. In Libano sembrano ormai molto deboli i resti di Hezbollah, ormai diffidati anche della autorità locali a cessare ogni tentativo di offensiva contro Israele. In Yemen gli Houthi provano ancora a lanciare missili balistici su Israele, che sono regolarmente abbattuti dalle armi difensive; ma soprattutto sono essi stessi soggetti ai bombardamenti americani, che li colpiscono molto pesantemente. Bisogna tener conto però che lo Yemen è un paese molto grande, dall’orografia difficile ed è perciò lungo e complicato eliminare i missili degli Houthi. Anche in questo caso si tratta di una guerra di logoramento, che se portata avanti abbastanza a lungo porterà alla sconfitta e al rovesciamento degli Houthi, che non sono il governo legittimo dello Yemen, ma solo un gruppo ribelle mantenuto dall’Iran.
• Siria
Ha preso molta importanza il fronte siriano. Qui è Israele ad attaccare ora il regime sunnita di Al Jolani, che ha preso il posto di quello alawita di Assad. Il nuovo leader si è molto impegnato nei mesi scorsi a dichiarare la volontà di convivere pacificamente con le diverse anime del suo paese e i vicini, incluso Israele. Ma si trattava di semplice propaganda per dissipare la diffidenza generale. Un’operazione di relazioni pubbliche che ha avuto molto successo soprattutto in Europa, così desiderosa di amare i propri nemici. Le truppe di Jolani e lui stesso sono però state formate nell’estremismo integralista dell’Isis e hanno una vocazione totalitaria che impedisce loro di sopportare davvero la presenza di realtà differenti dove comandano. Poco dopo aver preso il potere hanno incominciato a invadere le zone alawite sulla costa, non certo solo per impedire l’organizzazione di una resistenza del vecchio regime, ma con chiare intenzioni terroristiche di massa, per sterminare quelli che considerano nemici religiosi: esse si sono realizzate con spaventosi eccidi. Da un paio di settimane queste forze terroriste sunnite si sono volte verso la zona drusa, al confine con Libano, Israele e Giordania. I drusi sono un piccolo popolo fiero e combattivo con una religione iniziatica derivante dall’Islam sciita, che pratica la politica di essere fedele a ogni stato in cui abita, purché ne rispetti identità e tradizioni. In Israele sono leali cittadini e combattenti spesso eroici delle forze armate; in Siria avevano sempre mantenuto fedeltà ai vari regimi. Non aveva senso dunque per le milizie di Jolani attaccarli, ma così è successo, per intolleranza e fanatismo. I drusi hanno chiesto aiuto a Israele che, dopo qualche comprensibile riflessione, l’ha concesso per allontanare i terroristi sunniti dal proprio confine e anche per sincera amicizia coi drusi israeliani. Vi sono stati dunque numerosi bombardamenti israeliani su concentramenti di truppe siriane ed è probabile che Israele sostenga la costituzione di uno stato druso, anche con le armi.
• Iran e di nuovo Hamas
La testa del mostro anti-israeliano è sempre l’Iran. Qui le trattativa fra Usa e ayatollah per un blocco consensuale dell’armamento nucleare del regime sono andate avanti per un po’, poi si sono fermate per le solite tattiche dilatorie degli ayatollah. Ma sta per venire a scadenza un ultimatum di Trump, che a metà febbraio aveva dato due mesi all’Iran per trovare un accordo. Più il tempo passa, più potrebbe essere probabile un’azione militare congiunta di Usa e Israele per distruggere l’arsenale atomico e missilistico del regime e magari per abbatterlo. Sarebbe la mossa decisiva di questa guerra. Oltre al negoziato fra Iran e Usa sul nucleare si è bloccato anche quello sempre promosso dagli americani ma gestito dagli egiziani sul rilascio dei rapiti. Questa trattativa si incrocia con la guerra sul campo di Gaza. Hamas non mollerà la propria assicurazione sulla vita senza ottenere quello che Israele non può concedere: una fine della guerra (loro dicono una tregua di cinque anni) che lasciasse ai terroristi le loro armi e dunque il potere su Gaza e la possibilità di ritentare altri 7 ottobre quando ne avessero l’occasione, come loro stessi proclamano spesso. Per la prima volta Netanyahu ha dichiarato che la vittoria, cioè la distruzione o la resa di Hamas, è un obiettivo che ha la precedenza sulla liberazione dei rapiti (sulla cui sopravvivenza peraltro si infittiscono i dubbi). È un discorso molto difficile da fare, che può apparire insensibile e però tiene conto del futuro e della necessità di assicurare la sicurezza di tutti gli israeliani, che sarebbe certamente a rischio se Hamas sopravvivesse alla guerra.
• Finisce la saga dello Shin Bet?
Un ultimo tema importante emerso in questa settimana è la possibile soluzione di compromesso alla difficile vicenda della ribellione di Ronen Bar, il capo dello Shin Bet (il servizio segreto interno di Israele), che aveva rifiutato di accettare il suo licenziamento approvato dal gabinetto, anche se la legge concede esplicitamente questo potere al governo e le responsabilità di Bar sul 7 ottobre e sulla gestione successiva dello Shin Bet sono chiarissime e molto gravi. In appoggio a Bar era intervenuta la Procuratrice Generale e consigliera giuridica del governo Gali Baharav-Miara, nonostante l’evidente conflitto di interessi dovuto al fatto che Bar fosse un suo amico di famiglia. Poi si era messa di mezzo la Corte Suprema, che, implicitamente ritenendosi superiore alla lettera della legge, aveva stabilito per due volte una sospensiva del licenziamento, senza motivarla. Ora Bar ha finalmente dato le dimissioni (con scadenza 15 giugno) e il governo ha rinunciato al licenziamento per eliminare il contenzioso giudiziario. Se non sarà sollevato qualche nuovo inghippo di qui al 15 giugno, almeno questa ragione di divisione nella politica israeliana è superato.
(Shalom, 4 maggio 2025)
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Il mare su cui naviga la menzogna
Sono più di vent’anni che questo sito s'interessa di Israele, rivolgendosi in primo luogo ai gentili, e tra questi ai cristiani, e tra questi ai cristiani evangelici. A questi ultimi è rivolto soprattutto il seguente articolo, inteso come riepilogo, aggiornamento e avvertimento.
di Marcello Cicchese
«L’ignoranza è il mare su cui naviga la menzogna».
La guerra di Gaza è forse l’ultima forma in cui si presenta oggi al mondo la “questione ebraica”. Se per secoli sono stati gli ebrei come gruppo sociale a costituire un problema all’interno delle singole nazioni in cui vivevano, da circa un secolo è l’esistenza di una nazione che vuol dirsi “ebraica” a costituire un problema. Ha diritto di esistere una “nazione ebraica?” è questa la forma in cui il problema oggi si pone. E inoltre, ha diritto di vivere ed esercitare la sovranità sulla terra che ora occupa? Israele dice “sì”, Hamas dice “no”.
Immaginiamo allora che in un paese ci sia la famiglia A in lotta da generazioni con la famiglia B sulla rivendicazione di proprietà di un certo possedimento. Col tempo avvengono fatti di violenza tra le due parti e i paesani finiscono per parteggiare per una o per l’altra parte. Quasi sempre lo fanno per simpatia, o per interessi, oppure, nel migliore dei casi, per valutazioni di ordine morale. “Quelli sono altezzosi e offendono”, dicono gli uni; “e loro sono violenti e rubano”, dicono gli altri; e cose simili. Quale sarà il modo giusto per porre fine alla contesa? Risposta: accertare presso il Demanio a chi appartiene per diritto la proprietà del possedimento. Tutto il resto viene di conseguenza.
La contesa sulla terra "dal Giordano al mare" proviene allora da una questione giuridica tuttora in corso e non ancora risolta. Trattandosi di diritto, la contesa non può che svolgersi all'interno di una struttura giurisdizionale entro cui sono stabilite le norme e si può verificare se sono rispettate o no. In questo caso, in cui sono presenti concetti come “ebrei” e “nazione”, la questione richiede per sua natura una giurisdizione che si colloca su un piano superiore al solito: si deve decidere qual è il sistema ideologico entro cui si vogliono collocare le nozioni di bene e male, di giusto e ingiusto, di vero e falso.
Trascurando visioni ideologiche come quella islamica o cattolica tradizionale, per i cristiani evangelici entrano in gioco, e in tensione fra loro, due visioni del problema: quella biblica e quella secolare. Più precisamente: la tensione tra diritto biblico e diritto internazionale. E’ lo stesso tipo di tensione che il singolo credente sperimenta quando deve scegliere tra sottomissione a Dio e sottomissione alle autorità.
Essendo una questione di diritto, occorre avere conoscenza del sistema di norme giuridiche entro cui ci si colloca. Per muoversi nella visione biblica, ovviamente è indispensabile conoscere la Bibbia; e per quella secolare è indispensabile conoscere la storia. Essere privi di adeguata conoscenza nei due ambiti non è una colpa, ma è comunque un pericolo, perché ci si ritrova a galleggiare in un mare di ignoranza su cui naviga la menzogna.
Sono molti i battelli della menzogna che percorrono il mare dell’ignoranza con la scritta “Palestina-Israele”. I nuotatori in difficoltà li incontrano in quei video in rete che si propongono di spiegare, una volta per tutte, le radici “storiche” del contrasto tra israeliani e palestinesi. Il naufrago viene issato a bordo e gli viene proposto di vedere un film che è un assemblaggio di spezzoni di video accuratamente scelti, con una voce suadente che racconta come sono andate le cose e spiega tutto. Dopo una mezz’ora il nuotatore issato a bordo è convinto di sapere ormai abbastanza sull’argomento e di non avere bisogno di altro. La conseguenza è che il naufrago non soltanto è stato imbarcato su un battello della menzogna, ma gli è stato infilato addosso anche un mantello impermeabile che lo proteggerà in futuro da ogni successivo accostamento della verità.
Fuor di metafora, quando vent’anni fa un oratore andava a spiegare a un pubblico evangelico la questione di Israele con dati ricavati da studio della Bibbia ed esame di documenti storici, poteva trovare un pubblico poco addentro nell’argomento ma anche attento e desideroso di apprendere. Oggi invece sarebbe molto diverso, perché oggi tutti sanno tutto. Qualunque cosa si dicesse in merito, potrebbe sempre alzarsi qualcuno a dire che non è vero. Perché lui l’ha visto coi suoi occhi. In un video. E c’erano pure scene di fatti avvenuti cento anni fa… Vuoi mettere?
• Le nazioni nella Bibbia
Per uscire dal mare dell'ignoranza, e se del caso scendere dal battello della menzogna, bisogna anzitutto prendere atto che il problema ruota intorno al concetto di nazione, presente sia nella Bibbia, sia nel diritto secolare.
Nella Bibbia le nazioni non fanno parte del progetto originario di Dio: esse sono conseguenza di peccato; sono frutto della superbia dell’uomo, che nel suo desiderio di diventare come Dio si impegnò nella costruzione della torre di Babele. Fu un peccato “globalista”, frutto del desiderio di unire tutti gli uomini in un'armonica rivendicazione di universale autonomia rispetto a Dio.
In risposta a questo “nobile” progetto, Dio agì signorilmente: non fulminò i ribelli, ma senza farsi accorgere ne vanificò il progetto obbligandoli a dividersi in nazioni.
Ma a questo punto sorge un problema: il piano salvifico di Dio prevede la Sua personale discesa sulla terra nella persona del Messia; in quale nazione allora sarebbe dovuto scendere il Signore? Forse noi avremmo stabilito una graduatoria a punti e scelto la nazione col maggior punteggio; Dio invece ha agito diversamente: ha deciso di formarsi la sua propria nazione.
Quando Dio dice ad Abramo: “… farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione” (Genesi 12:2), questo è un impegno solenne che Dio prende con Se stesso. Quando il popolo di questa nazione, a cui nella storia di Giacobbe Dio ha dato il nome di “Israele”, arrivò a formarsi nel seno dell’Egitto, Dio diede a Mosè l’incarico di comunicare al faraone una notizia importante:
"Tu dirai al faraone: Così dice l’Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito” (Esodo 4:23).
A questa notizia seguì l’ordine perentorio di far uscire suo figlio da quella terra, cosa che come sappiamo il monarca egiziano fece molta fatica ad accettare.
Questo dovrebbe essere sufficiente a far capire che qualunque cosa avvenga nel mondo, il popolo di Israele, in quanto figlio primogenito di Dio, non è, e non sarà mai, una nazione come tutte le altre. Secondo la Scrittura, anzi, essa costituisce fin dall’origine il metro di confronto usato da Dio per la costituzione delle altre nazioni:
“Quando l'Altissimo diede alle nazioni la loro eredità, quando separò i figli degli uomini, egli fissò i confini dei popoli, tenendo conto del numero dei figli d'Israele” (Deuteronomio 32:8).
Dunque Israele ha da sempre e per sempre una posizione di primato rispetto alle altre nazioni, le quali sono addirittura invitate dal Signore a gioire e a pregare per lui:
“Così parla l’Eterno: Innalzate canti di gioia per Giacobbe, prorompete in grida, per il capo delle nazioni; fate udire le vostre lodi, e dite: o Eterno, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele!" (Geremia 31:7).
• Il posto di Israele
Se Israele è il capo delle nazioni, resta da decidere quale posto si deve riconoscere nel piano biblico alla nazione che oggi porta il nome Israele; e quale valutazione si vuole dare di ciò che sta accadendo intorno alla terra su cui esercita la sovranità.
Come persona che su questo tema riflette ormai da decenni, ritengo sia utile riportare qualcosa che nel passato è stato pubblicato sul mensile evangelico “Il Cristiano”, dove nel 2002 è comparsa una serie di miei cinque articoli, raccolti in seguito in un inserto dal titolo “Dio ha scelto Israele - Il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa”, trasformato poi in un libro di cui è uscita l'anno scorso la quarta edizione.
Il primo articolo, dal titolo “La nascita del sionismo politico”, si apre con questa introduzione:
"Il ristabilimento della nazione di Israele e il miracoloso ritorno dei suoi cittadini sparsi in tutto il mondo fa capire che Dio non ha cambiato opinione riguardo al "Suo popolo, che ha preconosciuto". L'interesse per Israele non può limitarsi al passato prima di Cristo e al futuro dopo il rapimento della Chiesa, perché quello che sta avvenendo oggi nella terra promessa ad Abramo non merita soltanto riflessione, ma richiede anche decisione."
Nell’ultima pagina di copertina dell’inserto sta scritto:
"L’autore ripercorre le tappe che nella Storia dimostrano in modo inequivocabile l'unicità di Israele fra tutti i popoli della terra.
Da dove viene questa unicità? Israele è l'anomalia che sconvolge le "leggi" della politica, della religione, dell'antropologia ... della storia.
Da dove viene questa anomalia? La Rivelazione biblica, che legge ed interpreta la Storia, ci dà una risposta precisa: l'unicità e l'anomalia provengono da Dio che ha scelto Israele per testimoniare il suo Nome fra le nazioni e, soprattutto, per realizzare il suo progetto universale di salvezza. Il fatto che Israele non abbia spesso assecondato i piani di Dio, non svilisce il valore e gli obiettivi della scelta."
• Israele oggi
Ribadendo allora la validità di queste valutazioni, resta da stabilire se lo Stato che oggi porta il nome “Israele” ha qualche collegamento con l’Israele biblico o è soltanto un incidente della storia profana.
Una risposta adeguata richiede un esame in parallelo di quello che dice la Bibbia sul futuro di Israele dopo Gesù e di quello che dicono i documenti storici sui fatti che hanno portato alla formazione dell'attuale Stato di Israele. Tutto questo non si può fare certamente nei limiti di un singolo articolo, ma è bene prendere atto che si può arrivare ad averne conoscenza, se davvero lo si desidera.
Per quanto riguarda l’aspetto biblico della questione, si può indicare un saggio di Arnold Fruchtenbaum: Il moderno Stato di Israele, in cui si dimostra, con abbondanza di citazioni bibliche, che l’attuale Stato di Israele corrisponde a quello che le profezie bibliche prevedono, cioè il ritorno degli ebrei nella loro terra in una posizione di incredulità rispetto al Messia. Questo significa che Dio stesso ha voluto la fondazione dell’attuale Stato di Israele, ed esso rimane dunque sotto la sua personale amministrazione. Si può non essere d’accordo, ma allora si deve mostrarne le ragioni con la Bibbia alla mano.
Per quanto riguarda l’aspetto storico, la questione è ancora più impegnativa, perché si tratta di smontare la convinzione più diffusa, cioè che gli ebrei avrebbero invaso una terra che non appartiene a loro e avrebbero soggiogato i suoi abitanti. Secondo questa tesi, ad avere il diritto di proprietà sulla terra d’Israele non sarebbero dunque gli ebrei, ma i cosiddetti “palestinesi”. E questo è falso.
E' vero il contrario: secondo il diritto internazionale, Israele è l'unica nazione ad avere pieno diritto di sovranità sulla terra che ora occupa.
Un’affermazione così categorica può lasciare perplessi, ma proprio per questo deve essere ripetuta con forza, insieme alla disponibilità a dare risposte a chi sinceramente le chiede, se davvero desidera uscire dal "mare dell'ignoranza".
Per essere concreti, si può indicare un recente libro di David Elber, Il diritto di sovranità in terra d’Israele, Salomone Belforte, 2024. E’ un libro chiaro, conciso, che contiene in modo documentato tutto ciò che è necessario per arrivare alla conclusione più ovvia, cioè che secondo il diritto internazionale, basato su fatti storici e formulazioni giuridiche di patti fra nazioni, il diritto di proprietà della terra che va “dal Giordano al mare”, appartiene al popolo ebraico, dunque a Israele.
Certo, un libro simile richiede una lettura attenta, essendo frutto di una ricerca analitica fatta su documenti storici, come si farebbe con documenti dell'archivio del Demanio per appurare a chi appartiene la proprietà di un immobile conteso.
Altri studi e indicazioni sull'argomento si possono trovare naturalmente su questo sito, e precisamente alla rubrica "Approfondimenti", dove ci sono saggi di tutte le misure e di tutti i tagli (ma non di tutti i gusti).
• Israele in rapporto alle nazioni
Per arrivare all’attualità, chi ha ragione oggi nella contesa tra Israele e Hamas? Se proprio si richiede una posizione netta, per chi scrive la risposta è una sola: ha ragione Israele, senza se e senza ma.
Se è vero che in questo momento Israele occupa la terra che Dio gli ha assegnata, e contemporaneamente è vero che Hamas dichiara di volerlo distruggere come nazione e cacciare gli ebrei da quella terra, la conseguenza biblica è che Hamas si è costituito apertamente come nemico di Dio e servo di Satana. Hamas si agita fra quei nemici di Dio di cui si parla nel Salmo 83:
"Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!" (Salmo 83:2-4).
La distruzione di Israele come nazione è uno dei principali obiettivi di Satana, perché questo significherebbe la vanificazione del progetto universale di salvezza di Dio. Il Signore avverte minacciosamente chi ha queste intenzioni distruttive:
"...così parla l'Eterno degli eserciti: ... chi tocca voi tocca la pupilla dell'occhio suo" (Zaccaria 2:8).
Davanti al tentativo di Hamas di distruggere lo Stato d'Israele (sprezzantemente denominato "entità sionista"), e soprattutto davanti alla dichiarata, reiterata volontà di ripetere indefinitamente questo tentativo fino a ottenimento del risultato, Israele ha reagito: ha espresso a sua volta la volontà di distruggere Hamas. E ora sta provando concretamente a farlo. Nel piano di Dio, questo è conforme a giustizia. Dio disciplina il suo popolo, anche duramente, ma guai a quella nazione che si propone di distruggerlo. E' stato sempre così nel passato e sempre così sarà. E' un'espressione della volontà ultima di Dio: i nemici dichiarati del suo popolo saranno distrutti, prima o poi, perché sono nemici di Dio.
La discussione sui modi in cui la contesa si svolge, la previsione di come andrà a finire, il conteggio dei morti, la commozione per le sofferenze di donne e bambini palestinesi, il palleggiamento delle responsabilità morali da una parte all'altra, sono cose del tutto fuori luogo in questa ottica. E' possibile che Israele non riesca in tempi politici a distruggere Hamas; è possibile anche che i suoi modi di agire avrebbero potuto essere diversi; ma questo non altera la valutazione secondo giustizia del fatto in sé. Con l'assalto del 7 ottobre Hamas ha manifestato, in parole e opere, il suo odio contro il popolo che Dio si è scelto, la volontà di cacciarlo fuori dalla terra che gli appartiene e distruggerlo come nazione. Si è messo contro Dio e ne subirà le conseguenze. Come già è accaduto più volte nel passato.
Quanto alle sofferenze che ne subisce ora la popolazione di Gaza, da un punto di vista biblico e non genericamente umanitario, esse possono essere considerate come un avvertimento e un'anticipazione di ciò che capiterà un giorno alle nazioni che si muoveranno in guerra contro Gerusalemme:
"In quel giorno, io renderò i capi di Giuda come un braciere ardente in mezzo alla legna, come una torcia accesa in mezzo ai covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli circostanti" (Zaccaria 12:6).
"In quel giorno, io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme" (Zaccaria 12:9).
E inoltre:
"Questo sarà il flagello con cui l’Eterno colpirà tutti i popoli che avranno mosso guerra a Gerusalemme: la loro carne si consumerà mentre stanno in piedi, i loro occhi si scioglieranno nelle orbite, la loro lingua si consumerà nella loro bocca" (Zaccaria 14:12).
Nel libro del profeta Isaia si parla del “giorno della vendetta del Signore, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). Sarà un giorno di vendetta “poiché il Signore è indignato contro tutte le nazioni, è adirato contro tutti i loro eserciti; egli le vota allo sterminio, le dà in balia alla strage” (Isaia 34:2). E va sottolineato che l’indignazione di Dio è causata proprio dal vedere come le nazioni trattano il Suo popolo: con odio e violenza, con ingiustizia e menzogna.
• Israele in rapporto a Dio
Come abbiamo già detto, non è per quello che Israele ha fatto e sta facendo ai palestinesi che Dio lo rimprovera; ma pur dicendo che Israele ha pienamente ragione rispetto ad Hamas, non è detto che Israele abbia ragione anche nei suoi rapporti con Dio. Ci si può chiedere infatti se oggi Israele stia vivendo in modo degno della sua particolare elezione. A nessun altro popolo Dio ha rivolto parole così tenere, come quelle di un innamorato:
"... tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te" (Isaia 43:4-5).
Ma il Signore è un Dio geloso, e non sopporta che Israele lo abbandoni per onorare e servire altri dei. L'idolatria del suo popolo è un tradimento che lo provoca ad ira:
"I figli d'Israele continuarono a fare ciò che è male agli occhi dell'Eterno e servirono gli idoli di Baal e di Astarte, gli dèi della Siria, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi dei figli di Ammon e gli dèi dei Filistei; abbandonarono l'Eterno e non lo servirono più. L'ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei e nelle mani dei figli di Ammon" (Giudici 10:6-7).
La gravità della situazione in cui si trova oggi Israele dovrebbe indurre i suoi cittadini a porsi serie domande: stiamo forse servendo dei stranieri, come popolo e nazione? stiamo coltivando forme di idolatria pagana?
La riflessione potrebbe cominciare proprio dall'esame di ciò che è avvenuto quel 7 ottobre.
Quella mattina i terroristi di Hamas che fecero irruzione in Israele piombarono nel mezzo di un rave, che non è un gioioso radunamento giovanile, ma la provocazione organizzata di una collettiva eccitazione di massa ottenuta con stimoli musicali e allucinogeni di vario genere.
Quel giorno era in corso il 'Supernova Festival', festa religiosa di una comunità intercontinentale dal nome “Universo Paralello” [sic, in portoghese] che si celebra nel mondo ogni due anni e per la prima volta avveniva in Israele.
Nell'area del festival era stata gonfiata ed eretta un'enorme statua di Budda, intorno alla quale festeggiava il "Tribe of Nova Presents", la Tribù del Nuovo Presente. Nell’invito diffuso in precedenza dagli organizzatori si diceva: «Insieme a questa enorme comunità, costruita in 23 anni, che ha ispirato persone a livello globale in tutti i continenti, la forza trainante centrale è un insieme di fondamentali e importanti valori umani: libero amore e spirito, conservazione dell'ambiente, apprezzamento dei rari valori naturali che il festival incarna».
E si annunciava che «il più potente e significativo festival di musica psy trance di una delle nazioni psy trance più riconosciute e attive, sta facendo il suo ingresso qui», sottolineando con fierezza che «uno dei più grandi, influenti e venerati festival del mondo arriverà in Israele» e proprio «durante l'imminente festività di Sukkot».
Si spiegava poi che «la parola 'Supernova' si riferisce all’esplosione di una gigantesca stella che provoca un immenso scoppio di luce in termini galattici». E accostando questi effetti galattici con la festività ebraica in corso, nell'invito si poneva una domanda retorica: "Che cosa si può immaginare che accada quando questi concetti si combinano con la festa di Sukkot?" E se ne dava anche la risposta: "Crediamo che possiate già immaginare il risultato...". No, il risultato che poi si è ottenuto proprio non se lo potevano immaginare.
Secondo uno studio condotto in seguito su 650 sopravvissuti alla strage, due terzi erano sotto l'effetto di droghe tra cui MDMA, LSD, marijuana o psilocibina. «L’ira dell'Eterno si accese contro Israele, ed egli li diede nelle mani dei Filistei» (Giudici 10:7).
• L'odio antiebraico cresce e si diffonde
Quale che sia la valutazione che il Signore vorrà dare della condotta odierna di Israele, gli uomini dovranno un giorno rispondere a Dio dell'atteggiamento che avranno assunto nel confronti del suo popolo.
Colpisce allora la rapidità, l'intensità e l'estensione con cui pochi giorni dopo la mattanza del 7 ottobre è cresciuto nel mondo l'odio contro gli ebrei. "Genocidio" è la sintetica parola che si è ben presto diffusa; e naturalmente chi commette genocidio è Israele. Il semplice fatto di usare questo termine in questo contesto fa emergere in chi lo usa la sua antipatia, per non dire l’odio, verso gli ebrei. Naturalmente chi ne fa uso lo negherà, ma non sarà convincente. Genocidio? Quale sarebbe il genere umano ucciso? Quello dei palestinesi? perché, i palestinesi di Gaza costituiscono un genere? come gli ebrei? come i curdi? qual è il gruppo etnico caratteristico dei palestinesi? Ma è inutile porre queste domande, perché chi nomina disinvoltamente il genocidio in questo contesto non è interessato alle risposte: l’importante è che il termine sia entrato nell’uso e sia riferito ripetutamente a Israele. Il bollo infamante gli è stato appiccicato addosso, e bravo chi riuscirà a staccarlo. Forse ci vorranno secoli, come nel caso del deicidio.
Come cristiani evangelici, dobbiamo renderci conto che anche noi corriamo il rischio di essere contagiati dall'atmosfera antiebraica che si respira oggi nella nostra società. Per avvertirne il rischio possiamo riportarci indietro, al tempo della Germania hitleriana. E' in un clima per certi aspetti simile al nostro che si arrivò fino all'invio degli ebrei nelle camere a gas. Possiamo chiederci allora quale fu il comportamento dei credenti in Cristo di quella nazione davanti ai fatti che li coinvolgevano. Ma ancora prima di questo, c'è da chiedersi se riuscirono a capire quello che stava accadendo.
Nella sopra citata serie di cinque articoli del 2002 pubblicati su "Il Cristiano", l'ultimo articolo ha come titolo: "Il tentativo sempre rinnovato di distruggere Israele". Nella parte finale si dice:
"Oggi è chiaro a tutti che attraverso la Germania di Hitler l’Avversario ha operato un tentativo storico di opporsi al piano di Dio, e lo ha fatto spingendo le autorità di un popolo a tentare di sterminare gli ebrei. Ma i credenti di quel periodo e di quella nazione hanno saputo riconoscere per tempo la diabolicità di quello che stava avvenendo? Con umiliazione bisogna rispondere: “No”. La maggior parte dei cristiani evangelici, anche quelli più rigorosamente attaccati alla Bibbia, anche quelli che conoscevano e insegnavano le profezie bibliche, si sono lasciati sedurre e fuorviare."
Poco più avanti si fa un avvertimento che se valeva allora vale tanto più ancora oggi, dopo oltre vent'anni:
"I tempi politici si stanno affrettando e non si può escludere che fatti inaspettati pongano ciascuno di noi davanti a difficili scelte di ubbidienza a Dio. E’ preoccupante vedere come si stanno ricreando, in una cornice “globalizzata”, le condizioni spirituali per una giustificazione, o quanto meno una “umana comprensione”, dell’odio contro gli ebrei. Le coscienze si stanno ottundendo, i pensieri si stanno contorcendo intorno alla questione di Israele."
Quello che sta avvenendo oggi, 2025, nella terra promessa ad Abramo richiede dunque riflessione, affinché si sappia capire di che natura sono i fatti che avvengono; e decisione, affinché si sappia prendere posizione, o quanto meno si decida di non mettersi a "ululare coi lupi", cioè di non associarsi a quella viscida forma di astio antiebraico che si sta diffondendo oggi, forse purtroppo anche tra evangelici.
A questo punto non posso che rinnovare l'avvertimento personale che diedi vent'anni fa, sempre sul mensile evangelico "Il Cristiano", dove nei numeri di gennaio e febbraio del 2005 comparve un mio lungo articolo in due puntate dal titolo: "Antisemitismo 'evangelico', moderato ed equilibrato".
L'articolo è introdotto da queste parole:
«Esaminare i fatti accaduti nella Germania del periodo nazista e considerare l’atteggiamento tenuto dai credenti evangelici tedeschi nei confronti degli ebrei può aiutare a riflettere su quello che oggi si pensa e si dice sugli ebrei di oggi, e ad assumersene la dovuta responsabilità.»
E si conclude poi con queste parole, che mi sento di ripetere oggi nella stessa identica formulazione:
«E’ di fondamentale importanza verificare quello che pensiamo, biblicamente, storicamente, politicamente e psicologicamente, degli ebrei di oggi. Pensieri anche biblicamente corretti sugli ebrei di ieri (prima di Gesù) e di domani (dopo il rapimento della chiesa) non sono sufficienti a garantire la fedeltà alla Parola di Dio. Dovrebbe essere chiaro che il tema “ebrei”, inevitabilmente collegato oggi allo “Stato d’Israele”, è non solo di scottante attualità politica, ma è anche e soprattutto di cruciale importanza spirituale. Quello che si pensa, quello che si dice (spesso con preoccupante leggerezza) sul popolo ebraico e sullo Stato d’Israele può avere conseguenze gravi sulla vita della persona, della chiesa e della società. Il campanello d’allarme dell’antisemitismo ha ripreso a suonare. Sapremo riconoscere e tacitare quelli che con le loro politiche e teologiche chiacchiere stanno cercando di coprirne il suono? Mai forse come in questo caso sono appropriate le parole del Signore Gesù:
"Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato" (Matteo 12:36).»
(Notizie su Israle, 4 maggio 2025)
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L'IDF colpisce in Siria mentre infuriano le violenze contro la comunità drusa
L'attacco è seguito a un'operazione israeliana avvenuta giovedì notte che ha preso di mira un'area vicino al palazzo presidenziale a Damasco.
di Charles Bybelezer
L'esercito israeliano ha colpito diversi obiettivi in Siria nella notte di venerdì, tra cui un'installazione militare, cannoni antiaerei e infrastrutture missilistiche terra-aria, secondo quanto riferito dalle forze armate.
“L'IDF continuerà ad operare come necessario per difendere i civili israeliani”, si legge nella dichiarazione.
L'agenzia di stampa statale siriana SANA ha riferito che gli attacchi aerei israeliani hanno preso di mira siti vicino a Damasco, nella provincia occidentale di Hama e nella regione meridionale di Daraa.
L'Osservatorio siriano per i diritti umani, con sede nel Regno Unito e affiliato a fonti dell'opposizione, ha affermato che l'IDF ha condotto oltre 20 attacchi in quella che ha definito la più “pesante” offensiva israeliana nel Paese nel 2025.
Lo sviluppo ha fatto seguito a un'operazione israeliana nella notte di giovedì che ha preso di mira un'area vicino al palazzo presidenziale di Damasco. Il primo ministro Benjamin Netanyahu l'ha definita “un chiaro messaggio al regime siriano”.
“Non permetteremo alle forze del regime di spostarsi a sud di Damasco o di rappresentare un pericolo per la comunità drusa”, ha affermato Netanyahu in una dichiarazione congiunta con il ministro della Difesa Israel Katz.
L'operazione è stata condotta dopo che Gerusalemme aveva avvertito Damasco di impedire attacchi settari contro la popolazione drusa siriana. Giovedì, l'IDF ha dichiarato di essere “pronta a impedire l'infiltrazione di elementi ostili nella zona e nei villaggi drusi vicini”, aggiungendo che “continua a monitorare da vicino gli sviluppi e mantiene un alto livello di allerta per potenziali scenari di difesa”.
Il giorno prima, le forze israeliane hanno compiuto un attacco mirato contro un gruppo islamista sunnita siriano che, secondo quanto riferito, stava pianificando attacchi contro le comunità druse nella provincia di Rif Dimashq (sobborgo di Damasco).
L'intervento di Israele arriva tra le crescenti richieste della popolazione drusa, circa 150.000 persone, tra cui il leader spirituale della comunità, lo sceicco Muwaffaq Tarif.
“In questo momento, gli occhi e i cuori della comunità drusa sono rivolti verso il male che viene fatto ai villaggi drusi intorno a Damasco”, ha scritto Tarif, esortando “lo Stato di Israele, la comunità internazionale e il popolo ebraico ad agire immediatamente per impedire un massacro di massa”.
Questa settimana sono scoppiate proteste in Israele, con manifestanti drusi che hanno bloccato le strade e si sono radunati davanti alla residenza privata di Netanyahu a Cesarea. Le manifestazioni sono state sospese nella notte di giovedì dopo che Tarif ha lanciato un appello alla calma mentre proseguivano i colloqui con i funzionari israeliani.
Le ultime violenze in Siria sarebbero state scatenate dalla diffusione di una registrazione audio attribuita a un uomo druso che avrebbe insultato il profeta Maometto.
L'Osservatorio siriano per i diritti umani ha riferito che negli scontri che ne sono seguiti sono state uccise oltre 100 persone, tra cui nove giustiziate.
Giovedì, il Dipartimento di Stato americano ha condannato la violenza e la “retorica incendiaria” diretta contro i drusi come “riprovevole e inaccettabile”.
“Le autorità provvisorie devono fermare i combattimenti, assicurare alla giustizia i responsabili delle violenze e dei danni ai civili e garantire la sicurezza di tutti i siriani”, ha affermato la portavoce del Dipartimento Tammy Bruce.
(JNS, 3 maggio 2025)
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Vite, alberi e canti ebraici: se l’odio è tollerato
di Fiamma Nirenstein
C’è qualcosa di patetico nell’antisemitismo contemporaneo, quello che porta folle in piazza per la festa dei lavoratori a travestire Hava Nagila da inno pro palestinese; quello che i militanti della sacrosanta guerra per salvare dallo scempio la natura, a ignorare la devastazione doppia, fisica e morale, che porta su questa terra la distruzione delle foreste di Gerusalemme. E anche in quello che indica come libertà di opinione, di stampa, di ricerca, un programma come quello di Rai3 “Presa diretta”, la cui star è stata, senza contradditorio, un personaggio come Francesca Albanese. Il suo odio per Israele è un’etichetta del fallimento dell’ONU nella sua missione di pace.
Il rapimento della canzone “Hava Nagila” è un paradigma del senso di inferiorità dello schieramento proPal. Violenta una canzone che è storicamente l’inno sionista al ritorno in Israele, il cui testo invita gli ebrei alla gioia dopo tanto soffrire, che è stata usata milioni di volte per festeggiare la vittoria del ritorno a casa nella guerra, nella fame, nell’eroismo, e la fa diventare palestinese: “Free Palestine”, fa urlare su quelle note a una folla che così arruola nelle file dell’ignoranza, delle cifre inventate da Hamas, nel messaggio di odio contro Israele: i palestinesi diventano così gli ebrei, gli oppressi, mentre gli ebrei sono gli oppressori. Il rovesciamento arriva fino alla più paradossale fra le accuse, quella a Israele di essere nazista, ovvero genocida, e fa dei palestinesi, che dal 1948 perseguitano Israele col terrorismo, i perseguitati. La musica va, la folla si eccita, odia Israele e gli ebrei, e l’antisemitismo viene distribuito a pioggia sulle piazze che furono dominate dalle leggi razziali al tempo del fascismo.
E’ diverso da allora, per fortuna, l’esistenza dello Stato del popolo ebraico, lo Stato d’Israele, che insieme alla democrazia e all’esercito ha cresciuto anche le più belle foreste che mai il Medio Oriente abbia visto, le più folte e verdeggianti, un regalo al clima mondiale cui oggi le masse si appassionano, per cui protestano e esclamano: sempre, fuorché quando gli alberi sono quelli dello Stato Ebraico. Sorpresa: potremmo dire che gli “alberi ebrei” non contano per gli ecologisti, proprio come gli ebrei quando subiscono attacchi terroristi e missili sulle loro città ogni giorno. Israele ha cresciuto sul suo suolo dal 1900 250 milioni di alberi: è l’unico Paese al mondo ad aver concluso il ventesimo secolo con più alberi rispetto all’inizio del secolo. Nel 1948 circa il due per cento del territorio era coperto di alberi, oggi questa percentuale è giunta all’8,5. Nelle case di tutti gli ebrei del mondo si vedono le scatole di ferro che raccolgono fondi da consegnare al Fondo Nazionale Ebraico, al Kerem Kaiemet. Piantare un albero è una buona azione che anche le Scritture insegnano. Adesso, in due giorni di fiamme sulla cui origine si affollano sospetti, sono stati spazzati via quasi 2000 ettari di terreno, carbonizzati con i suoi ulivi centenari, i pini, le vigne. Zone storiche come Latrun, lungo la strada fra Tel Aviv e Gerusalemme, in cui gli ulivi hanno visto battaglie decisive quando gli ebrei appena scampati dalla Shoah hanno dovuto difendersi degli eserciti arabi che assaltarono lo Stato Ebraico appena nato, hanno subito il rogo devastante degli alberi. Erano stati curati proprio per battere i rischi della siccità e della desertificazione sempre dietro l’angolo. Nel 2000 uno spaventoso rogo ridusse il Carmelo in cenere e uccise 44 persone, durante la seconda guerra del Libano i missili degli Hezbollah hanno bruciato circa quattromila ettari nella disperazione dei coltivatori diretti. La tradizione di amore per la terra nasce col sionismo stesso. Ma che ne sanno le folle cui si insegna a odiare Israele. Il programma TV cui accennavo, oblitera che Israele combatta una guerra di difesa contro un nemico di crudeltà mai vista, la sua determinazione a fare a pezzi gli ebrei uno a uno, compreso i neonati, ignora i 58 rapiti di cui forse 24 sono ancora vivi in chissà in quali condizioni. Questo si diffonde alla tv: dati sui morti distribuiti dal “ministero della Sanità” di Hamas, ormai confutati da varie ricerche; si affonda nel tempo inventando un avvento colonialista di un popolo tornato senza armi, solo per lavorare e convivere, e che ha trovato sin dal 1948, solo rifiuti che ci si ostina a non vedere.
I palestinesi, non solo Hamas, vogliono distruggere Israele, non è diritto all’informazione quello che ignora la verità, è un gorgoglio antisemita che cancella l’ambizione ad essere parte della storia dei diritti umani: per questa storia, Hava Nagila non dovrebbe essere violentata, l’amore per la natura dovrebbe ricordare l’amore di Israele per gli alberi e correre in aiuto, il diritto alla verità dovrebbe bandire la menzogna senza contraddittorio… siamo lontano da tutto ciò, vicino invece all’odio più antico, quello per gli ebrei.
(il Giornale, 3 maggio 2025)
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Eliminazionismo liberatore
di Niram Ferretti
Il gruppo musicale i Patagarri, che ieri, sul palco del Concerto del primo maggio ha invitato il pubblico a ripetere il grido “Palestina Libera”, con l’aggravante di suonare prima la Hava Nagila, celebre e festosa canzone ebraica, sono l’ultimo ma certo non definitivo esempio della forza dirompente della propaganda.
Ormai incitare alla scomparsa di Israele, alla sua distruzione, è diventato un luogo comune, il fiore all’occhiello della propria autocertificata nobiltà d’animo.
Come si fa, infatti, a non soffrire per il “popolo palestinese”, realtà creata ad hoc nei laboratori di Mosca a metà anni Sessanta per fornire ad Arafat la patente di “resistente” contro l’oppressione “colonialista” e “imperialista”?
La Palestina, come toponimo, ha cessato di esistere dal 1948, dopo essere tornata in essere brevemente a seguito della fine della Prima guerra mondiale in virtù degli inglesi, dopo cinquecento anni di oblio, quando la regione era sussunta all’interno dell’impero ottomano.
Chi oggi pronuncia questo slogan intende una cosa sola, la scomparsa di Israele, e infatti, in genere, viene declinato in modo più completo, “Dal fiume al mare, Palestina libera”. Significa, se non altro, essere più onesti. Ma la propaganda è per sua natura nemica di ogni onestà. D’altronde, una volta che si è cominciato a fare uso del termine “genocidio” privandolo della sua specificità e attribuendolo solo alla guerra a Gaza (nessuno lo ha mai adoperato con pari disinvolta e persistente insensatezza, per il Darfur, per lo Yemen, per la Siria, per l’Iraq), si è ormai entrati in un territorio in cui la realtà è scomparsa. È il territorio appunto della propaganda, che alla verità sostituisce la menzogna, dove il bianco è nero e il nero è bianco.
Questa guerra in corso, più di ogni altra combattuta da Israele, è quella che ha affossato ogni criterio di razionalità e senso in merito alla comprensione di un conflitto.
Molti pensano che “Palestina” sia il nome di una regione a cui appartiene un popolo autoctono e sulla quale si è impiantata una realtà aliena (Israele) che con essa non ha alcun rapporto, dunque deve essere “liberata”.
Sono gli stessi che ottanta anni fa ritenevano che per liberare la Germania dal “virus” ebraico, fosse necessario eliminarne i portatori.
(L'informale, 2 maggio 2025)
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L'esercito si prepara a sferrare un «colpo decisivo» contro Hamas
In occasione della cerimonia annuale in onore dei soldati d'élite dell'esercito israeliano, il capo di Stato Maggiore israeliano, il tenente generale Eyal Zamir, ha pronunciato un discorso forte, che ha messo insieme omaggio, determinazione e messaggio strategico. Nei giardini della residenza presidenziale a Gerusalemme, ha ribadito la volontà di Israele di colpire più duramente Hamas e di intensificare le azioni militari nella Striscia di Gaza, se le circostanze lo richiedono.
L'evento, tradizionalmente dedicato all'eccellenza militare, ha assunto quest'anno una dimensione particolare, in un momento in cui lo Stato ebraico attraversa un conflitto lungo e complesso. Per Zamir, questa guerra, che definisce «lunga e multiforme», richiede sia impegno militare che solidarietà nazionale.
«Hamas detiene ancora cinquantanove nostri cittadini, ma anche loro sanno che il loro senso di sicurezza è solo illusorio», ha dichiarato davanti alle famiglie, ai soldati e ai responsabili politici presenti. Un avvertimento chiaro, accompagnato da una promessa: Tsahal si prepara a colpire duro.
Il generale ha sottolineato che l'indipendenza di Israele, lungi dall'essere un dato acquisito, è stata ottenuta con sacrifici e deve essere difesa con costanza. È proprio questo legame tra sovranità nazionale e impegno individuale che ha messo in luce rendendo omaggio ai soldati premiati.
Ha anche dato la sua definizione di eccellenza militare, sottolineando che non risiede né nel talento grezzo né nei risultati eclatanti, ma nella perseveranza quotidiana e silenziosa. «Essere eccezionali significa scegliere ogni giorno di agire con integrità, anche quando nessuno guarda», ha dichiarato.
Tra i soldati premiati, diversi percorsi incarnano questa filosofia. Zamir ha citato in particolare Avigdor, un ufficiale proveniente da un ambiente haredi, che ha superato gli ostacoli sociali per entrare nell'esercito. Ha anche menzionato Dorian, un immigrato recente che ha superato la barriera linguistica per eccellere nell'intelligence militare.
Il discorso del capo di Stato Maggiore ha anche messo in evidenza il coraggio di fronte alla tragedia. Ha parlato di Oria, un'osservatrice militare sopravvissuta all'attacco del 7 ottobre, e di Lea, il cui nonno è stato rapito e poi ucciso a Gaza. Nonostante il dolore, entrambe hanno continuato il loro servizio con forza e abnegazione.
Zamir ha concluso con l'esempio di Daria, sorella di un ostaggio civile. Nel pieno della lotta per la liberazione della sorella, si è arruolata nell'esercito israeliano, distinguendosi e diventando un simbolo di determinazione.
Il generale ha voluto così trasmettere un messaggio di coesione nazionale. Ha insistito sul fatto che tutti i cittadini di Israele, indipendentemente dalla loro origine o appartenenza, hanno un ruolo da svolgere nella difesa dello Stato. «Nessuno è esente: né gli individui, né i gruppi, né le tribù», ha ricordato.
Infine, in un messaggio di speranza pronunciato dal «cuore di Gerusalemme, nostra capitale eterna», ha affermato che il popolo di Israele continua a scrivere la sua storia con coraggio. «La speranza israeliana è viva», ha concluso, augurando a tutti una festa dell'indipendenza «gioiosa e sicura».
(JForum.fr, 2 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele, cresce l’arruolamento tra gli haredim: circa 400 ultraortodossi entrano nell’IDF
L’esercito israeliano ha annunciato questa settimana l’arruolamento di circa 400 uomini ultraortodossi, segnando un passo significativo nel lento ma costante processo di integrazione della comunità haredi all’interno dell’IDF. Un numero rilevante, se si considera che l’arruolamento dei giovani haredim è da anni al centro di un acceso dibattito politico e sociale.
Tra i nuovi reclutati, 196 sono stati destinati a ruoli da combattimento, mentre altri 167 sono stati assegnati a posizioni di supporto operativo. Per 23 reclute, invece, è ancora in corso la definizione dell’incarico. Oltre cento soldati sono entrati a far parte del battaglione Netzah Yehuda — storicamente dedicato ai militari osservanti — mentre altri sono stati assegnati alla Brigata Hashmonaim, alla Brigata Givati, ai Paracadutisti e persino a un’unità di difesa della base aerea di Nevatim.
Parallelamente, 26 uomini ultraortodossi si sono uniti come riservisti dopo aver completato un breve corso di base pensato per chi, pur essendo fuori dall’età dell’arruolamento obbligatorio, desidera contribuire in ruoli non combattenti. Questi, insieme ad altri cento riservisti, intraprenderanno a breve un percorso di sei mesi per acquisire competenze da combattimento, con l’obiettivo di servire nella riserva della Brigata Hashmonaim.
Il portavoce dell’IDF ha sottolineato come l’esercito stia lavorando per rendere il servizio accessibile anche agli haredim, adattando le condizioni operative alle loro esigenze religiose: dalla dieta kasher particolarmente rigorosa, agli orari di preghiera, fino alla separazione dai soldati laici nelle caserme.
Questo reclutamento rientra in un programma avviato lo scorso anno, che prevede l’invio di circa 24.000 convocazioni alla leva. Una cifra ambiziosa, soprattutto se si considera che oggi si stima siano circa 70.000 i giovani haredi tecnicamente idonei al servizio militare ma esentati grazie allo studio religioso a tempo pieno. Un cambiamento importante riguarda anche le procedure: per la prima volta, gli adolescenti ultraortodossi riceveranno la convocazione iniziale al compimento dei 16 anni e mezzo, come già avviene per tutti gli altri giovani israeliani. L’arruolamento effettivo, tuttavia, resta previsto a partire dai 18 anni, come da prassi.
Nonostante l’esigenza urgente di circa 10.000 nuove reclute — di cui il 70% per ruoli da combattimento — l’IDF ha ammesso di poter assorbire solo circa 3.000 haredim in più entro la fine dell’anno, a causa delle complesse necessità logistiche legate alla loro integrazione. Attualmente, il numero di ultraortodossi che si arruolano ogni anno si aggira intorno ai 1.800.
(Shalom, 2 maggio 2025)
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Incendio vicino a Gerusalemme sotto controllo
I vigili del fuoco stanno combattendo con successo il grande incendio nella parte occidentale di Gerusalemme. Una vasta area boschiva è andata distrutta.
GERUSALEMME – Dopo quasi 30 ore, giovedì pomeriggio i vigili del fuoco hanno domato il grande incendio divampato sulle montagne a ovest di Gerusalemme. Le strade e le linee ferroviarie chiuse sono state riaperte. Circa 10.000 persone sono state temporaneamente evacuate da dieci località. 21 vigili del fuoco sono rimasti leggermente feriti.
Si tratta di uno dei più grandi incendi nella storia di Israele. Secondo il Fondo Nazionale Ebraico, circa 2.000 ettari sono stati distrutti dalle fiamme, tra cui 1.300 ettari di bosco.
• Prime indagini: incendio doloso e escursionisti negligenti
Le cause del grande incendio non sono ancora chiare. Sono stati arrestati tre sospetti, due dei quali provengono da Gerusalemme Est. Un arabo di 19 anni aveva chiesto sui social media che Dio alimentasse le fiamme come vendetta per la “distruzione della terra musulmana”. Un cinquantenne ha appiccato un incendio in un campo aperto a sud di Gerusalemme. Non si sa nulla del terzo sospettato, scrive il quotidiano online “Times of Israel”.
Tuttavia, gli investigatori non ritengono che si tratti solo di incendio doloso. Anche escursionisti negligenti potrebbero essere corresponsabili dell'incendio. L'incendio è divampato nella regione di Mesilat Zion, dove mercoledì era presente un numero insolitamente elevato di escursionisti.
Il grande incendio e i forti venti hanno portato alla cancellazione di molti eventi ufficiali per l'inizio del 77° Giorno dell'Indipendenza, iniziato mercoledì sera. Al posto della cerimonia di apertura centrale sul Monte Herzl a Gerusalemme, la televisione israeliana ha trasmesso una registrazione delle prove generali.
(Israelnetz, 2 maggio 2025)
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Messaggio di Israele alla Siria: «non toccate i drusi»
L’esercito israeliano ha condotto un attacco aereo a Damasco adiacente all’area del Palazzo di Ahmed Hussein al-Sharaa”, senza specificare l’obiettivo. Lo ha confermato l’IDF venerdì mattina presto.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Israel Katz hanno dichiarato che Israele non permetterà che venga arrecato alcun danno alla comunità drusa, hanno reso noto i loro uffici in una dichiarazione congiunta.
“Questo è un chiaro messaggio al regime siriano. Non permetteremo l’invio di forze a sud di Damasco né alcuna minaccia alla comunità drusa”, hanno dichiarato.
È la seconda volta che Israele colpisce la Siria in altrettanti giorni, mantenendo la promessa di difendere il gruppo minoritario.
Secondo la Reuters, gli attacchi riflettono la profonda sfiducia di Israele nei confronti degli islamisti sunniti che hanno rovesciato l’ex presidente Bashar al-Assad a dicembre, ponendo un’ulteriore sfida agli sforzi del presidente ad interim Ahmed al-Sharaa di stabilire il controllo sulla nazione fratturata.
Giovedì scorso, la comunità drusa di Israele ha protestato contro le violenze anti-druze in Siria.
I drusi aderiscono a una fede che è un’emanazione dell’Islam e hanno seguaci in Siria, Libano e Israele.
Da quando Assad è stato spodestato a dicembre, Israele ha fatto saltare in aria gran parte delle armi pesanti dell’esercito siriano. Da allora ha anche conquistato terreno nel sud-ovest del Paese, ha giurato di proteggere i drusi e ha fatto pressioni su Washington per mantenere debole lo Stato confinante.
Sharaa, che è stato un comandante di al-Qaeda prima di rinunciare ai legami con il gruppo nel 2016, ha ripetutamente giurato di governare la Siria in modo inclusivo. Ma gli episodi di violenza settaria, tra cui l’uccisione di centinaia di alawiti a marzo, hanno indurito i timori delle minoranze nei confronti degli islamisti ora dominanti.
Le violenze settarie di questa settimana sono iniziate martedì con scontri tra drusi e sunniti nella zona di Jaramana, a maggioranza drusa, scatenati da una registrazione di una voce che imprecava contro il profeta Maometto e che i militanti sunniti sospettavano fosse stata fatta da un druso.
Più di una dozzina di persone sono state uccise martedì, prima che la violenza si estendesse alla città di Sahnaya, principalmente drusa, alla periferia di Damasco, mercoledì.
(Rights Reporter, 2 maggio 2025)
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L'esercito israeliano prevede di demolire 100 edifici nei campi profughi a nord della Samaria
L'esercito israeliano ha informato gli abitanti dei campi profughi di Tulkarem e Nur al-Shams della sua intenzione di demolire circa 100 edifici in queste zone, secondo informazioni ottenute da Ynet. A seguito di tale annuncio, molti residenti che avevano lasciato i luoghi sono tornati precipitosamente per recuperare i propri effetti personali. Secondo tali fonti, circa 60 edifici a Tulkarem e altri 40 a Nur al-Shams sarebbero interessati da tali demolizioni. Le autorità di difesa israeliane hanno precisato che questa misura risponde a una necessità operativa, volta a creare vie di accesso sicure per le forze dispiegate nella regione. L'operazione implicherebbe il coordinamento di diversi organismi e servizi di sicurezza israeliani. Questa decisione si inserisce nel quadro delle operazioni militari in corso nel nord della Cisgiordania, zona che ha visto un'intensificazione delle attività dell'esercito israeliano negli ultimi mesi.
(i24, 2 maggio 2025)
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Concerto primo maggio, i Patagarri sul palco: "Palestina libera". Insorge la comunità ebraica
Proteste per l'esibizione della band. Fadlun: "Ignobile". Di Segni: "Siamo attoniti"
Una esibizione sul palco del Concerto del primo maggio che ha scatenato immediatamente le polemiche da parte della comunità ebraica. "I Patagarri", band milanese, ha cantato "Palestina libera" sulle note di "Haga Nagila", un brano della tradizione ebraica peraltro ispirato a una melodia popolare ucraina.
• Ignobile"
“Appropriarsi della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione, è ignobile. C’è qualcosa di davvero sinistro, macabro, nell’esibizione dei Patagarri. I nostri più grandi odiatori nella storia sono quelli che hanno strumentalizzato la nostra cultura e mentalità". Così ha tuonato Victor Fadlun, presidente della comunità ebraica. E ha aggiunto: "Mai ce lo saremmo aspettati in un concerto che celebra il lavoro. Soprattutto in un concerto! Come quello del Nova Music Festival, trasformato dai terroristi palestinesi in un massacro che non è finito, con 59 rapiti da Hamas ancora a Gaza. Noi ebrei, di fronte a queste provocatorie manifestazioni di intolleranza sentiamo lo spazio delle nostre libertà restringersi inesorabilmente. Ma a perdere in libertà non siamo solo noi, è l’intera società civile".
• “Siamo attoniti"
Noemi Di Segni, presidente dell'Ucei, Unione delle comunità ebraiche italiane, ha proseguito: "Siamo attoniti per quanto avvenuto dal palco istituzionale del primo maggio organizzato dalle sigle sindacali in una ricorrenza ufficiale dell'Italia e senza vigilanza da parte della Rai che ha poi trasmesso il programma. Ancora una volta – ha evidenziato – per acclamare la liberazione della Palestina (non dei palestinesi) si elude ogni riferimento al reale contesto mediorientale e alla presenza soffocante di Hamas".
Di Segni, inoltre, ha notato: "Con rinnovato dolore assistiamo a slogan unilaterali lanciati da coloro che dimenticano volutamente gli ostaggi israeliani mentre acclamano l'applicazione del diritto internazionale e il diritto umanitario. Una canzone ebraica, che ha come significato la gioia di stare insieme, è stata appositamente stravolta – ha terminato – con l'effetto di creare divisioni e generare odio antisemita anziche' mettere in campo ogni sforzo per la convivenza tra i popoli, come le Comunita' ebraiche in Italia cercano di fare in ogni ricorrenza".
(RomaToday, 2 maggio 2025)
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Odio diabolico a suon di musica
Dal giornale “La Stampa” online abbiamo tratto qualche informazione che qui riportiamo.
«Chi sono i Patagarri
Quando abbiamo scoperto la storia di Hava Nagila, che risale al 1917 e che è legata alla legittimazione delle prime comunità ebraiche in Palestina, abbiamo capito che l'unico modo per suonarlo oggi era accompagnarlo con un messaggio chiaro: Palestina libera», hanno raccontato i Patagarri subito dopo la performance, il quintetto jazz-swing formato da Francesco Parazzoli (tromba e voce), Jacopo Protti (chitarra), Daniele Corradi (chitarra), Giovanni Monaco (clarinetto e sassofono) e Arturo Monico (trombone e percussioni), tutti ragazzi milanesi tra i 20 e i 31 anni lanciati a X Factor dove erano nella squadra di Achille Lauro. Il loro nome è un omaggio ad Aldo, Giovanni e Giacomo e si ispirano ai grandi della musica italiana. Il loro intervento è stato l'unico momento dichiaratamente politico del concerto. «In un momento come questo, in cui la situazione umanitaria è gravissima e molte voci vengono silenziate, pensiamo che la musica debba tornare a fare ciò per cui è nata: lanciare messaggi forti, prendere posizione, anche a costo di dividere», hanno affermato.»
Tra le parti del concerto, ne è stata sottolineata una importante:
«Non è mancato un omaggio a Papa Francesco, con le sue stesse parole: 'La musica è bellezza e strumento di pace, una lingua che tutti i popoli in diversi modi parlano, e raggiunge tutti i cuori'».
Dopo tante dichiarazioni e manifestazioni di vario genere contro Israele e contro gli ebrei, la conclusione da trarre è una sola: è odio di natura diabolica. Non è un insulto, è una presa di posizione teologica. E’ in gioco il rapporto che contrappone Dio e Satana. M.C.
(Notizie su Israele, 2 maggio 2025)
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Incendi in Israele, si indaga sulla pista dolosa: Hamas incita alla violenza online
di Luca Spizzichino
Nonostante la riapertura delle principali arterie stradali e la ripresa del traffico ferroviario verso Gerusalemme, l’emergenza incendi che da giorni devasta le colline circostanti la capitale israeliana è tutt’altro che conclusa. Giovedì mattina, ben 119 squadre dei vigili del fuoco sono ancora operative sul campo, supportate da 11 aerei, 3 elicotteri antincendio e un ulteriore elicottero per operazioni speciali. Altre 22 squadre sono attese in arrivo nelle prossime ore.
I residenti delle aree evacuate – tra cui Neveh Ilan, Yad Hashmona, Shoresh, Neveh Shalom e Mevo Horon – sono stati autorizzati a rientrare nelle proprie abitazioni. Anche il servizio ferroviario verso Gerusalemme è stato ripristinato, dopo accurate verifiche di sicurezza.
Secondo quanto riferito dalla polizia israeliana, rimangono attivi sei focolai principali: tra questi, Sha’ar Hagai, Mesilat Zion, Yad Hashmona e Beit Meir. Le autorità temono che il rafforzamento dei venti previsto nelle ore centrali della giornata possa favorire una nuova propagazione delle fiamme. “Temiamo una ripresa dei roghi. Continueremo a lavorare almeno fino a sabato”, ha dichiarato Shmuelik Friedman, comandante dei vigili del fuoco di Gerusalemme.
Nel frattempo, un uomo di 50 anni, residente nel quartiere arabo di Umm Tuba, è stato arrestato nella zona sud di Gerusalemme con l’accusa di aver appiccato volontariamente uno degli incendi. Era in possesso di materiali infiammabili. La polizia, insieme allo Shin Bet e ai vigili del fuoco, ha avviato un’indagine per accertare la matrice dolosa dei roghi. In parallelo, crescono le preoccupazioni per una campagna di incitamento attiva su Telegram e altri canali social palestinesi. Mercoledì, Hamas ha pubblicato un messaggio invitando apertamente i palestinesi a “bruciare ciò che potete: boschi, foreste e case dei coloni”. Nella giornata di giovedì, il canale israeliano Channel 2 ha riportato diversi tentativi di incendio doloso nell’area delle colline di Gerusalemme.
In risposta all’appello lanciato da Israele per ricevere aiuti internazionali, diversi Paesi europei hanno offerto supporto immediato. Otto velivoli antincendio provenienti da Cipro e Italia sono attesi in giornata, mentre Romania, Spagna e Francia hanno confermato l’invio di ulteriori mezzi specializzati. Anche Ucraina ed Ecuador hanno manifestato la loro disponibilità a collaborare Nel frattempo l’esercito israeliano ha mobilitato oltre 50 camion antincendio, unità della Brigata di Ricerca e Salvataggio e squadre di ingegneri militari impegnate nella creazione di linee tagliafuoco. Durante la notte, la piattaforma aerea “Shimshonim” ha effettuato 95 lanci di materiale ritardante.
Il ministro della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, chiedendo il massimo impegno da parte delle forze armate: “Ogni sforzo è volto a salvare vite e contenere i danni”.
L’ambasciatore israeliano in Italia, Jonathan Peled, ha voluto ringraziare pubblicamente il governo italiano per l’assistenza tempestiva: “A nome dello Stato d’Israele, desidero ringraziare il Governo italiano e la Protezione Civile per il supporto immediato e provvidenziale. Un aiuto prezioso, che assume un significato ancora più speciale nel giorno della nostra Indipendenza”.
Nonostante la gravità della situazione, le autorità israeliane hanno confermato che i festeggiamenti per la Giornata dell’Indipendenza si svolgeranno regolarmente. Tuttavia, è stato raccomandato alla popolazione il massimo rispetto delle norme di sicurezza, in particolare durante i tradizionali barbecue.
(Shalom, 1 maggio 2025)
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La strada per Gerusalemme è in fiamme: segno o coincidenza?
Nel giorno della commemorazione, la strada per Gerusalemme è in fiamme: forse non è una coincidenza, ma un campanello d'allarme per un Israele diviso.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Nel giorno della commemorazione, in cui Israele si ferma per onorare i suoi caduti, improvvisamente una delle strade più simboliche del Paese va in fiamme. L'autostrada n. 1, l'arteria vitale che collega Gerusalemme e Tel Aviv, viene chiusa. Fumo, fuoco, panico. È solo un evento naturale? O forse è un segno? Tra il monastero di Latrun e la rampa di accesso in direzione est, le persone sono rimaste bloccate e sono fuggite a piedi verso ovest per sfuggire alle fiamme. Questa scena mi ha restituito un'immagine sconvolgente della nostra società lacerata. L'incendio esterno come specchio di un fuoco interiore. L'odio che oggi divampa tra gli schieramenti, tra Gerusalemme e Tel Aviv, tra destra e sinistra, tra religiosi e laici, accende sempre nuovi fronti. Si potrebbe dire che il fuoco che infuria all'esterno riflette un fuoco interiore. Questa esperienza mi ha profondamente commosso, perché anche noi viviamo in un moshav sulle montagne boscose di Gerusalemme. Ieri, dopo il lavoro, abbiamo dovuto fare una deviazione per tornare a casa, accompagnati dalla vista inquietante del fumo che si alzava all'orizzonte.
Nella Bibbia il fuoco non è mai solo una forza della natura. È linguaggio. Quando Dio parla a Mosè, lo fa dal roveto ardente (Esodo 3). Il profeta Elia vede fuoco, tempesta e terremoti, ma la voce di Dio si rivela nel «sussurro di una brezza leggera» che segue (1 Re 19). Il fuoco è un segno. Può significare giudizio, ma anche purificazione, conversione. La domanda è: chi vede? Chi ascolta?
Già nella storia ebraica leggiamo che quarant'anni prima della distruzione del Secondo Tempio, le porte del santuario si aprirono da sole, come se l'edificio volesse annunciare la propria fine. Ma il popolo continuò a litigare, fino alla rovina. Anche oggi non bruciano solo le foreste. La nostra società è in fiamme. Tra il dovere militare e il dovere religioso, tra schieramenti politici, tra due visioni del mondo per lo Stato di Israele.
Come allora con il profeta Geremia, la cui brocca rotta era una parabola della catastrofe imminente e nessuno voleva ascoltarla (Geremia 19). Come allora con Gesù di Nazareth, che pianse su Gerusalemme e disse: «Se tu avessi riconosciuto ciò che serve alla tua pace...» (Luca 19). Forse era «solo» un incendio boschivo. Ma forse era anche un richiamo dall'alto. Un appello: smettete di bruciarvi a vicenda! Spegnete i fuochi interiori prima che sia troppo tardi.
La strada n. 1 non è solo una via di comunicazione. È il simbolo del compito centrale della nostra generazione. 1.500 persone morirono nella guerra d'indipendenza del 1948 mentre si recavano a Gerusalemme. Oggi non bruciano convogli, ma le tensioni tra visioni del mondo, gruppi, ideologie continuano ad alimentare nuovi focolai. Per questo motivo è diventata un monumento commemorativo e un simbolo del legame tra i due poli di Israele, la Gerusalemme montuosa, spirituale e nazionale, e la Tel Aviv pianeggiante, pragmatica e universale. Questo legame non è solo geografico, ma esistenziale.
Da sempre, sulle alture di Gerusalemme vivevano ebrei religiosi, perché lì sorgeva il Tempio. La pianura costiera, invece, è sempre stata il centro della popolazione ebraica laica ed economicamente forte. E sono proprio questi contrasti a rendere fertile la nostra società, a patto che li uniamo invece di metterli l'uno contro l'altro.
Naturalmente ci sono nemici esterni e sì, questa è la grande sfida per la sopravvivenza di Israele. Ma finché siamo impegnati a combatterci tra noi, è difficile sconfiggere coloro che vogliono davvero distruggerci. Abbiamo imparato questa dolorosa lezione negli ultimi due anni. Quando la divisione diventa troppo profonda, il nemico fiuta la debolezza e colpisce.
Il 7 ottobre Hamas ha visto la nostra divisione interna e ha attaccato. Ma nei giorni successivi ci siamo svegliati, abbiamo messo da parte molte controversie, abbiamo riconosciuto la loro relativa insignificanza e siamo diventati una nazione unita e forte. Ma ora? Ora ci sono voci che vogliono tornare indietro. Che vogliono riaccendere il fuoco.
Mentre Israele onora i suoi morti e lotta per l'unità, i canali palestinesi sui social media diffondono appelli mirati all'incendio doloso. Non si tratta di una provocazione simbolica, ma di terrorismo sotto forma di fiamme. Almeno tre sospetti sono già stati arrestati. Gli incendi che stanno devastando la strada per Gerusalemme non sono solo disastri naturali. Molti sono considerati dolosi e colpiscono il Paese in un momento di grande tensione interna. I venti orientali estremamente forti offrono ai responsabili condizioni ideali. Sanno esattamente cosa stanno facendo: il fuoco diventa un'arma mirata contro Israele.
Troppo spesso mi capita, anche nelle discussioni con gli amici, che uno demonizza il governo e l'altro odia l'élite di sinistra. Entrambe le parti amano il Paese, ma ne hanno visioni diverse. Recentemente, durante una riunione su Zoom, ho persino dovuto richiamare all'ordine una partecipante che era infastidita dal capo dei servizi segreti interni israeliani, Ronen Bar. È questo reciproco scontro che ci paralizza, proprio come l'incendio sull'autostrada n. 1 ha interrotto il collegamento tra le città e le visioni del mondo del popolo israeliano.
In occasione della Festa dell'Indipendenza avrei voluto scrivere parole più speranzose. Ma non voglio essere cieco di fronte al simbolismo di questo giorno. Il fatto che proprio nel giorno in cui si commemorano i caduti (25.420 dal fondamento dello Stato di Israele) sia in fiamme proprio quella strada che rappresenta l'unità del Paese, è più che una coincidenza. I segnali devono essere ancora più forti? Il segnale di allarme deve essere ancora più chiaro? Dobbiamo tornare alla ragione e spegnere gli incendi che divampano tra di noi. A causa dei forti venti orientali e dei vasti incendi boschivi, ieri sera sono state annullate le celebrazioni ufficiali per l'indipendenza sul Monte Herzl a Gerusalemme. Al loro posto, la televisione israeliana ha trasmesso una prova generale registrata in precedenza.
Non è questo il momento di cercare di capire chi è “colpevole”. È il momento di vedere i segni, di capire e di agire. Gli incendi potrebbero essere un monito: se non proteggiamo il percorso tra Gerusalemme e Tel Aviv, tra visione e realtà, tra sacralità e quotidianità, tra destra e sinistra, perderemo come popolo.
La domanda non è se l'incendio sia stato “mandato da Dio”. Piuttosto: cosa facciamo di questo momento? Lo reprimiamo o lo interpretiamo? La Bibbia conosce il “momento della consapevolezza”. Quando Davide si trova di fronte al suo abuso di potere, esclama: “Ho peccato”. Quando Ninive viene avvertita, si pente e viene risparmiata. Questi segni non sono minacce, ma inviti a convertirsi. Alla riconciliazione. In questo senso, la strada in fiamme che porta alla capitale è uno specchio. Se non manteniamo aperta la strada verso la convivenza nella società israeliana, se permettiamo che il fanatismo, la paura e l'odio dicano l'ultima parola, finiremo per bruciare noi stessi.
(Israel Heute, 1 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele – e non Hamas – sul banco degli imputati? Ma perché l’Occidente non riesce a capire il Medio Oriente?
Che tempi stiamo vivendo. Come se non bastassero le guerre, ora anche il commercio internazionale è diventato un terreno di scontro.
di Paolo Salom
[Voci dal lontano Occidente] - E il piccolo Stato degli ebrei intanto continua a difendersi in una regione sempre più nel caos. Appare ogni giorno di più sorprendente che il lontano Occidente non riesca a percepire la realtà mediorientale: un’unica isola di diritti e libertà circondata da Paesi (Paesi?) straziati da conflitti settari e tribali, dominati da élite sanguinarie, uniti soltanto dall’intento di distruggere Israele. Sarebbe logico attendersi solidarietà da chi condivide cultura e obiettivi sociali. Invece accade il contrario, ancora e ancora: Israele è tornato a combattere per liberare gli ostaggi rimasti nelle mani dei terroristi di Hamas, a Gaza – 59 esseri umani soltanto la metà dei quali ancora in vita – e di nuovo si levano le voci contro le “azioni crudeli” di Tsahal.
Viene naturale chiedersi che cosa avrebbero fatto nazioni come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, la stessa Italia in una situazione simile. Si biasima Gerusalemme per una guerra che non ha voluto invece di condannare senza ambiguità chi quella tragedia l’ha cercata fino in fondo. Perché questo scollamento dalla realtà? Nel secondo conflitto mondiale gli Alleati hanno combattuto, senza tentennamenti, fino alla resa totale dei loro nemici: in Europa i nazifascisti, in Asia, i giapponesi. Cosa c’è di diverso nella guerra contro Hamas (e i suoi alleati iraniani e yemeniti)? Nulla se non le proporzioni: gli israeliani stanno combattendo per liberare i loro (i nostri) fratelli strappati alle loro case. Per sconfiggere un male sconfinato che mira, per sua stessa ammissione, al genocidio degli ebrei. Eppure i combattimenti finirebbero comunque all’istante se tutti gli ostaggi venissero liberati: ma in quale contesto (altro che per Israele) è accettabile che un branco di terroristi sanguinari vengano considerati interlocutori con i quali trattare uno “scambio”? Io capisco le famiglie dei disgraziati tenuti prigionieri da un anno e mezzo in condizioni abiette e crudeli. Il loro dolore è il nostro. Ma chi critica Israele perché cerca di riportare a casa queste anime e vuole distruggere i nemici perché non ripetano (come promettono) un altro 7 ottobre, si rende conto dell’inversione morale di cui si fa responsabile? A nessuno piace la guerra, ma quale altro strumento ha a disposizione una nazione attaccata e minacciata con tale violenza?
Oggi si parla, ogni giorno, di “vittime palestinesi”, si danno numeri che nessuno può (o vuole) verificare. Si mette Israele – e non gli sgherri di Hamas – sul banco degli accusati, si intima agli ebrei della diaspora (è successo in Italia) di prendere le distanze, anzi, di “condannare” Israele per non essere considerati “complici”. E, ahimè, qualcuno di noi è effettivamente caduto in questa trappola retorica. Bene, io insisto: questo è un momento decisivo nella Storia di Israele e degli ebrei della diaspora. Per quanto dolorosi gli eventi di cui siamo testimoni, dobbiamo continuare ad avere fiducia nel nostro essere nazione, dobbiamo sostenere Israele e sostenerci l’un l’altro perché quello che accade nel lontano Occidente, non facciamoci illusioni, ha radici antiche e un solo scopo: cancellare tutto quanto abbiamo ricostruito. Non facciamoci sovrastare: siamo un piccolo popolo ma abbiamo dentro di noi tutte le risorse per superare anche questo ostacolo.
(Bet Magazine Mosaico, 1 maggio 2025)
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Papa Francesco – Rav Alberto Somekh: Guardiamo al futuro
di Rav Alberto Somekh
Anno Domini 1997, dicembre. Venne in visita a Torino S.E. Aharon Lopez, ambasciatore israeliano presso il Vaticano a quattro anni di distanza dall’apertura delle relazioni diplomatiche fra Israele e la Santa Sede. Per assolvere al delicato incarico, il governo di Gerusalemme aveva scelto un ebreo osservante, adatto a dialogare con le autorità di un’altra religione. Trascorremmo serenamente il pranzo di Shabbat durante il quale, da giovane ingenuo qual ero, non mancai di far presenti all’ambasciatore tutte le critiche possibili sull’atteggiamento del Papa nei confronti di Israele. Mentre parlavo notai sul volto del diplomatico un sorriso ironico e avvertii che la sua mano mi batteva delicatamente la spalla. Parlavamo in ebraico. «Tir’eh – mi disse, con la tipica movenza di un israeliano –, vedi: il Papa non è il presidente dell’Organizzazione Sionistica Mondiale. Porta avanti una sua agenda che non necessariamente coincide con la nostra».
A tanti anni di distanza ricordo queste sagge parole. Occorre tener presenti due cose. Punto primo. La guerra in corso oggi in Medio Oriente non è un conflitto territoriale, altrimenti un accomodamento sarebbe già stato trovato da tempo. È una guerra di religione. Punto secondo. Questo scontro non vede coinvolte solo due religioni, bensì tre. Scriveva il Profeta Yesha’yahu (54, 17): «Qualsiasi arma sia forgiata contro di te non avrà successo. Qualsiasi lingua si levi contro di te condannerai in giudizio. Questa è l’eredità dei servi di H. e la loro assoluzione da parte Mia. Dice H.». Commenta Don Itzchaq Abrabanel, il grande statista iberico dell’età dell’espulsione, che l’arma della prima parte del versetto allude alla guerra militare indotta dall’Islam, mentre la lingua della seconda parte allude agli strumenti diplomatici dell’occidente, che tenta di persuaderci mediante il dibattito politico e il dialogo teologico: oggi preferiamo parlare di «confronto» mediatico.
Alla luce di tutto ciò mi siano consentite tre semplici osservazioni: 1) Non è forse quantomeno intempestivo polemizzare sul pontificato di Francesco a feretro ancora aperto, sfidando il cordoglio e la costernazione generali per la sua scomparsa e suscitando solo reazioni negative? Sarebbe stato prudente dare più tempo al tempo e attendere che gli storici, a “bocce ferme”, avviassero l’analisi dei fatti. 2) Non è forse semplicemente goffo porgere le condoglianze per poi ritirarle? A questo punto è stato assai più coerente l’atteggiamento di chi fin dall’inizio aveva scelto il silenzio. Infine, 3) il pontificato di Bergoglio, al netto dell’influenza che certamente si porterà dietro nel tempo, è comunque un’esperienza conclusa. Occorre piuttosto pensare al domani. A breve ci troveremo davanti la figura del suo successore. Ringraziamo del fatto che non saremo più tenuti a recargli in omaggio un Sefer Torah, come per secoli hanno fatto gli ebrei romani, con il rischio che l’illustre destinatario lo gettasse a terra o lo lacerasse. Ciò accadde peraltro una sola volta con Innocenzo II nel 1130. Alla comunità ebraica non restò allora, presumibilmente, che indire un giorno di digiuno per l’oltraggio!
Come andò a finire la visita dell’ambasciatore Lopez a Torino nel dicembre 1997? Il lunedì mattina successivo lo accompagnai all’arcivescovado. Quando l’ora defunto Cardinal Saldarini, un brianzolo di grande bonomia, ci venne incontro il diplomatico gli disse in perfetto italiano: «Eminenza, Le porto i saluti della mia città, Gerusalemme». Prontamente il porporato allargò le braccia e rispose: «È anche la mia città!» Al che l’ambasciatore, di rimando: «Sì, ma io ci sono nato!». Il volto dell’arcivescovo rimase attonito, senza parole. Non potei fare a meno di pensare per pura assonanza, sia chiaro, a un altro versetto di Yesha’yahu (1, 18): «Se anche i vostri trascorsi fossero rossi come la porpora, diventeranno bianchi come la neve!».
(moked, 29 aprile 2025)
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La cultura della memoria nell'ebraismo e nel cristianesimo
La mano invisibile della storia – Lo Yom HaZikaron può anche stimolare una riflessione sul modo in cui la memoria viene celebrata nelle Sacre Scritture.
di David Lazarus
Al di là delle alleanze politiche o delle simpatie culturali, gli studiosi ebrei guardano alla storia attraverso la lente del disegno divino. Che si tratti della commemorazione dei caduti di Israele o del ricordo dell'Esodo, la cultura della memoria ebraica non si limita a guardare al passato, ma cerca di comprendere come il passato plasmi il presente e prefiguri persino il futuro.
Cosa vogliamo ricordare e perché? I nostri luoghi della memoria glorificano il potere o rendono omaggio alle vittime che ci chiamano a una maggiore responsabilità morale e spirituale? Sono domande che la memoria ebraica – e il battito invisibile della storia – ci pongono continuamente.
• LA MANO INVISIBILE DELLA STORIA
Quando le armate assire invasero l'antico Israele, ciò non fu percepito solo come la forza militare della Mesopotamia, ma come una punizione divina. Quando Gerusalemme cadde nelle mani di Nabucodonosor, ciò non fu dovuto alla superiorità militare babilonese, ma fu il risultato delle trasgressioni di Gerusalemme, del castigo divino e del suo piano più ampio di redenzione.
Questa interazione tra la volontà divina e l'agitazione umana è il motivo centrale dei racconti biblici, che si svolgono nella precaria vita della grande famiglia di Abramo. L'esilio, la guerra e la distruzione non sono solo conseguenze della debolezza politica o nazionale di Israele, ma sempre anche espressione del giudizio divino e della disciplina dell'alleanza. Questa intuizione, che riconosce uno scopo divino dietro le quinte delle attività quotidiane reali del popolo d'Israele, è così profonda da essere canonizzata.
Questa percezione ispirata è in netto contrasto con i racconti storici trionfalistici di altre nazioni. Laddove i governanti terreni considerano il potere come un fine in sé, la visione ebraica lo considera effimero e subordinato a un ordine divino. Questa idea trova la sua espressione più profonda nella figura del servo sofferente di Isaia 53, il culmine della rivelazione biblica che esiste uno scopo redentore superiore per il quale serve la sofferenza.
• RICORDARE AL DI LÀ DELLA SUPERFICIE
Le moderne commemorazioni israeliane, come lo Yom HaZikaron, il “Giorno della Memoria”, riflettono questa antica concezione ebraica che trova senso, rivelazione e speranza nella storia.
I soldati caduti e le vittime del terrorismo non sono solo pianti come individui le cui vite sono finite tragicamente contro la loro volontà, ma sono ricordati e onorati come partecipanti integranti della storia in continua evoluzione del disegno divino. Le vittime del passato non sono tragedie arbitrarie, ma momenti intrecciati in un più ampio disegno storico che, nonostante il dolore, procede inesorabilmente verso la redenzione.
Lo Yom HaZikaron israeliano, che quest'anno inizia la sera del 29 aprile, non è solo un giorno in cui si onorano i caduti, ma anche un riconoscimento del fatto che queste sono le vittime che la famiglia di Abramo deve sacrificare per il compimento del continuo viaggio dell'alleanza della nazione. Le sirene commemorative che fermano il Paese sono un suono di shofar della nostra unità collettiva, quando un intero popolo si ferma per ascoltare gli echi della storia al di là del rumore del presente.
A differenza delle commemorazioni secolari, lo Yom HaZikaron non riguarda semplicemente l'eroismo in battaglia o la forza nazionale. È un giorno solenne che unisce il dolore personale a una narrazione nazionale e biblica più ampia. Il peso della memoria non grava solo sui superstiti, ma sull'intera nazione, che si sente in dovere di onorare il sacrificio di coloro che l'hanno preceduta.
• IL CRISTIANESIMO E LA MEMORIA DELLA CROCE
Questo concetto di storia guidata da Dio si ritrova anche nella Nuova Alleanza. Da un punto di vista storico, la crocifissione di Gesù fu un'esecuzione romana, una comune dimostrazione dell'autorità imperiale sui dissidenti. Dal punto di vista biblico, tuttavia, è il sacrificio della sofferenza che costituisce il fondamento di ogni redenzione. Questa visione biblica della Passione va oltre la realtà evidente del potere e della sconfitta. In essa riconosce una mano invisibile all'opera nella storia, una storia in cui la sofferenza e l'oppressione non sono vane, ma sono accettate come la verga e il bastone di un pastore che spinge, spinge e guida l'umanità verso i pascoli verdi della salvezza.
Nel contesto ebraico, il comandamento dell'Ultima Cena (“Fate questo in memoria di me”) trasforma il ricordo di un'azione divina compiuta nel passato in una tradizione di dovere sacro perpetuo. Nel giudaismo, tali tradizioni sono indispensabili per garantire che la prospettiva della mano divina che guida la storia non venga mai dimenticata e sia efficacemente trasmessa alla generazione successiva. Come la Pasqua ebraica, la Cena del Signore è una rievocazione dell'evento in cui ogni membro della famiglia «è invitato a considerarsi povero e oppresso durante il Seder». E «in ogni generazione si è tenuti a considerarsi come se si fosse usciti dall'Egitto».
Ricordare significa confrontarsi regolarmente con la rivelazione divina e riviverla, come nel “Ricordati del sabato”. Ciò sottolinea la profonda affinità tra le tradizioni commemorative ebraiche e cristiane.
• LA MEMORIA NAZIONALE NEL MONDO MODERNO
In un'epoca dominata dalla storiografia secolare e dal pragmatismo politico, le prospettive ebraica e cristiana sulla storia offrono un'alternativa radicale. Le moderne commemorazioni nazionali si concentrano solitamente sulle vittorie militari, sulle tappe politiche o sulle conquiste culturali. La memoria ebraica richiama l'attenzione sulle forze invisibili che plasmano la storia nel mondo moderno.
Nel silenzio che segue il suono delle sirene dello Yom HaZikaron e nella quiete delle preghiere contemplative, l'appello alla memoria risuona attraverso il tempo. Esorta intere nazioni, ma anche ogni singolo individuo, a testimoniare i movimenti più profondi della storia, che il potere e la politica non sono in grado di percepire. Esorta a riflettere sul prezzo del sacrificio dell'esistenza e sulla necessità di una perseveranza costante. Questo risveglia e rafforza la fede, la speranza e (la più grande di tutte) l'amore.
(Israel Heute, 30 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Giorno del ricordo o giorno dell'indipendenza?
Per me sono due facce della stessa medaglia: una storia di dolore e speranza. Mi chiamo Moran Schneider (29), sono il direttore di JLMBox, ma prima di tutto sono israeliano.
di Moran Schneider
La mattina presto del 7 ottobre 2023, durante la Simchat Torah, hanno cominciato a suonare le sirene in tutto il Paese. Io cercavo di convincermi che era solo un sogno, ma mia moglie mi ha trascinato subito nel rifugio. Quando ho capito che la realtà si era fusa con l'incubo, ho acceso la TV, il computer, ogni schermo disponibile. Le notizie si susseguivano: attacchi missilistici, infiltrazioni, nuovi fronti, un evento più grave di ogni altra cosa mai vissuta prima.
Alle 8:45 ero già in viaggio verso la mia base. I combattenti della mia squadra, dalla Galilea a nord fino a Eilat a sud, sono arrivati nel giro di un'ora. Sono un ufficiale e nessuno mi ha chiesto: “Devo venire?”. Tutti aspettavano il mio via libera. Abbiamo firmato la consegna delle armi, ci siamo equipaggiati, ci siamo messi in allerta e poi siamo partiti a tutta velocità verso sud. Lungo la strada ho distribuito i compiti, abbiamo discusso ad alta voce i possibili scenari per essere preparati nel miglior modo all'ignoto.
Già durante l'addestramento nell'unità speciale in cui prestavamo tutti servizio, ci era stato insegnato a “capovolgere il piatto”, ovvero a passare da zero a cento in un attimo. E così, alla fine della biblica festa delle capanne e all'inizio della Simchat Torah, ci siamo ritrovati da un momento all'altro a combattere contro un nemico che aveva invaso la nostra casa. Correvamo da un posto all'altro, da un fronte all'altro, da una famiglia all'altra. In un attimo avevamo lasciato i nostri studi, il nostro lavoro, le vacanze o l'abbraccio dei nostri figli ed eravamo diventati il muro di protezione a sud della Striscia di Gaza. Il nostro obiettivo era chiaro: salvare vite umane.
Per tre giorni abbiamo combattuto senza dormire, senza preparazione, sul nostro territorio. Tre giorni completamente tagliati fuori dalla nostra vita normale. Solo dopo che è stato ristabilito il controllo nei villaggi intorno alla Striscia di Gaza abbiamo potuto tirare un sospiro di sollievo. E prepararci a una lunga guerra, una guerra che continua ancora oggi.
In quel momento mi sono guardato intorno e ho visto la bellezza del nostro Paese: il cameratismo, la responsabilità reciproca, un cuore unico. Ognuno di noi aveva perso qualcuno, un familiare o un amico. Io stesso ho perso molti amici in guerra.
Vorrei raccontarvi di uno di loro, il tenente colonnello Assaf Hamami. Assaf prestava servizio nella brigata Givati ed era stato il mio comandante durante il servizio militare obbligatorio. Assaf mi ha plasmato come giovane ufficiale nella mia unità. Durante l'incursione, Assaf era comandante nel distretto meridionale intorno alla Striscia di Gaza. È caduto mentre difendeva Nir Oz. Assaf (41 anni) ha lasciato una moglie e tre figli. Per me Assaf era il comandante perfetto! Sapeva bilanciare perfettamente professionalità e umanità, trasmettendo così il 100% di ispirazione.
Nel giorno del ricordo, quando la sirena rompe il silenzio e noi tratteniamo il respiro, riportiamo i caduti nei nostri cuori e promettiamo che non scompariranno nelle pagine della storia. Ed è proprio in questo silenzio carico di significato che comincia a suonare, piano, la campana della speranza: il giorno dell'indipendenza di Israele.
I fuochi d'artificio che illuminano la notte non cancellano le lacrime, ma le illuminano. Ci ricordano che la libertà che abbiamo ricevuto non è un dono, ma un'eredità; che il sangue versato è diventato una bandiera sventolante; che i caduti sono diventati le radici su cui costruiamo ulteriori livelli di vita, sogni e fede.
Così, tra un minuto di silenzio e il canto del nostro inno HaTikva, diciamo al mondo e a noi stessi: “Noi ricordiamo, affinché possiamo vivere. Noi festeggiamo, affinché il loro ricordo non vada mai perduto”. Questa è la nostra forza, questa è la loro eredità, questo è il segreto del dolore e dell'orgoglio che ci spingono avanti.
Am Israel Chai! – Il popolo di Israele vive!
(Israel Heute, 30 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Essere prigionieri a Gaza a Yom haZikaron: i ricordi degli ex ostaggi
di Jacqueline Sermoneta
“Siamo rimaste in silenzio mentre le nostre lacrime cadevano sulle candele”. Così l’ex ostaggio Liri Albag ricorda come, lo scorso anno, ancora nelle mani di Hamas, ha osservato insieme ad Agam Berger il momento del silenzio nazionale per Yom haZikaron, la giornata del ricordo dei caduti delle forze armate di Israele e delle vittime del terrorismo. Lo riporta Ynet.
Altri ex ostaggi hanno condiviso sui social i ricordi su come hanno vissuto Yom haZikaron, quando erano prigionieri a Gaza.
Emily Damari, che ieri ha celebrato i cento giorni dal suo rilascio, ha scritto su Instagram che, insieme a Romi Gonen, era rimasta in silenzio alle 11 del mattino dello scorso anno, quando Al-Jazeera ha annunciato la sirena dei due minuti di Israele. “Abbiamo deciso di fermarci per un minuto per ricordare tutti e condividere il dolore. – ha detto Damari – È stato uno dei momenti più intensi per noi lì, quando senti davvero toccare il fondo”.
Damari, liberata insieme a Gonen e Doron Steinbrecher, dopo 471 giorni di prigionia, accenderà una torcia durante la cerimonia di Yom HaAtzmaut, il Giorno dell’Indipendenza dello Stato d’Israele. La ragazza è stata rapita dalla sua casa a Kfar Aza il 7 ottobre, colpita da colpi di arma da fuoco a distanza ravvicinata, ha perso due dita e ha riportato gravi ferite alle gambe. Dal suo ritorno, si è battuta per il rilascio di tutti gli ostaggi rimasti, in particolare dei suoi amici Gali e Ziv Berman, fratelli gemelli, anch’essi rapiti da Kfar Aza.
L’ex ostaggio Liri Albag ha raccontato come lei e Agam Berger abbiano acceso tre candele commemorative lo scorso anno: una per Noam Avramovich, una per Shirat Yam Omer e una per gli altri soldati del posto di vedetta che erano stati uccisi. “Abbiamo pregato per la sicurezza dei soldati e del personale di sicurezza israeliano, e per la sicurezza del Paese”.
Un altro ex prigioniero, Eliya Cohen, ha pubblicato le foto di 30 amici e familiari che ha perso, definendo “una realtà surreale” partecipare a tutti i loro funerali in un solo giorno. “Ognuno di voi è inciso nel mio cuore e nella mia anima. – ha scritto – Mi mancate tutti e non vi dimenticherò mai”.
(Shalom, 30 aprile 2025)
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In ricordo delle eroine di Israele. Il tributo del sito “Women Worriors”
di Claudia De Benedetti
“In onore delle eroine di Israele, per ricordare le donne soldato cadute nelle guerre di Israele, in segno di stima e riconoscenza per le donne che hanno servito e combattuto per Israele”: questa è la dedica con cui si apre il sito web Women Worriors creato dal Forum Dvorah, un tributo straziante alle 55 giovani donne israeliane, soldatesse, agenti di polizia, agenti dello Shin Bet, paramedici dell’IDF, uccise mentre servivano il loro paese dal 7 ottobre 2023 a oggi.
Il colonnello Maya Heller, presidente del Forum Dvorah, l’organizzazione no profit israeliana che promuove la rappresentanza delle donne in posizioni apicali nei settori della politica estera e della sicurezza nazionale israeliana, ha così spiegato il significato del sito: “Il nostro obiettivo è fornire tutte le informazioni sulle donne che sono cadute al servizio del paese. Ci sono alcune storie molto eroiche del 7 ottobre e abbiamo il solenne impegno di raccontarle. Ma non tutte le soldatesse uccise il 7 ottobre ricoprivano ruoli di combattimento, vi sono donne che hanno combattuto senza armi e senza alcun tipo di addestramento, hanno semplicemente capito la necessità di difendere il nostro paese e hanno pagato il prezzo più alto”.
Le donne, illustra il sito nella sezione storica, hanno prestato servizio nell’IDF fin dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 come parte del Corpo femminile che aveva prestato servizio nell’esercito britannico. Nel 1949 il servizio fu formalizzato. La legge stabilisce che ogni persona, uomo o donna, cittadino israeliano o residente permanente, che raggiunge l’età di 18 anni e non ha un’esenzione deve essere reclutata nell’esercito. La legge stabilisce anche che le donne possono richiedere un’esenzione dal servizio per motivi legati alla religione e alla coscienza e per tre motivi aggiuntivi: genitorialità, matrimonio e gravidanza. Le donne rappresentano oggi circa il 40% delle forze regolari e circa il 25% degli ufficiali. La percentuale di arruolamento femminile è pari al 55% del totale, il 36,6% sono esentate per motivi religiosi e un ulteriore 8,4% non si arruola per altre ragioni; il dato può essere paragonato al 68,8% degli uomini tenuti i al servizio obbligatorio.
“La nostra speranza – chiosa il colonnello Heller – è che questo sito serva come fonte di informazione, educazione e ispirazione, principalmente per le giovani generazioni ma anche per il pubblico locale e internazionale in generale”.
- il Caporale Noa Marciano aveva 19 anni quando è stata uccisa
- il Sergente OsherSimcha Barzilai aveva 19 anni e mezzo quando è caduta in battaglia
- il Sergente Yael Leibushur aveva 20 anni quando è stata uccisa
- il Luogotenente Adar Ben Simon aveva 20 anni quando è stata uccisa
Di ogni vita spezzata il sito propone una istantanea, il profilo biografico, le circostanze in cui è caduta e il luogo della sepoltura. In questa tristissima giornata il ricordo di tutti soldati e di tutte le vittime del terrore che hanno perso la vita per l’esistenza dello Stato di Israele sia di benedizione.
(Shalom, 30 aprile 2025)
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Gal Gadot: stella d'Israele
Gal Gadot è una delle attrici più amate al mondo. Alla luce dei recenti attentati terroristici, l'israeliana assume un nuovo ruolo. Un ritratto in occasione del suo quarantesimo compleanno.
di Daniel Frick
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Momento di felicità: Gal Gadot festeggia con il marito Jaron e le quattro figlie la sua stella sulla “Walk of Fame”.
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In un momento in cui un Paese così tormentato come Israele deve lottare per conquistarsi la simpatia di un mondo pieno di odio, Gal Gadot è una vera manna dal cielo per lo Stato ebraico. L'attrice, che compirà 40 anni il 30 aprile, è attualmente una delle figure più ambite di Hollywood. Questo permette all'israeliana di battersi sul grande palcoscenico per il suo Paese, per gli ostaggi e contro l'antisemitismo.
Nonostante tutta la fama, ha mantenuto le distanze dal mondo dello spettacolo e una sana dose di modestia. Quando a marzo è stata la prima attrice israeliana ad essere insignita di una stella sulla Walk of Fame, ha dichiarato di essere “solo una ragazza di una città di Israele”. Prima di lei, solo un altro israeliano aveva ricevuto la stella: nel 2017, la Camera di Commercio di Hollywood ha insignito il produttore televisivo Chaim Saban.
• Dall'esercito al cinema
Con “città” Gadot intendeva Rosh HaAyin, nel centro di Israele, dove è cresciuta; è nata nel 1985 nella vicina Petach Tikva. Nel 2004 ha vinto il concorso di Miss Israele e, dopo il servizio militare, è stata notata da un agente che le ha procurato un ruolo secondario nella serie di film “Fast & Furious”, con cui è apparsa cinque volte al cinema tra il 2009 e il 2023.
Dal 2016 ha interpretato tre volte il suo ruolo più famoso, quello di “Wonder Woman”; nella rappresentazione della supereroina le è tornata utile anche la sua formazione militare nell'esercito israeliano. Un altro successo è stata la commedia d'azione “Red Notice” del 2021, il film più visto su Netflix fino ad oggi.
• Una svolta come campanello d'allarme
Con questa vita tra Hollywood e Israele, tutto avrebbe potuto continuare bene per la donna sposata e madre di quattro figlie. Ma il massacro terroristico del 7 ottobre 2023 ha segnato una svolta anche per lei. Questo vale per il suo ambiente in Israele, ma anche nel mondo del cinema, dove numerosi attori si sono schierati come attivisti anti-israeliani e sono stati lanciati appelli al boicottaggio del nuovo film “Biancaneve”, in cui lei interpreta la “regina cattiva”.
In risposta, ha accettato un ruolo che lei stessa considera critico: quello di attrice che parla di politica. Ciò le è riuscito in modo particolarmente efficace all'inizio di marzo alla conferenza della Anti-Defamation League, che si batte contro la diffamazione degli ebrei. In qualità di relatrice principale, ha esortato gli ebrei di tutto il mondo a considerare il massacro terroristico e l'odio antisemita che ne è seguito come un campanello d'allarme: è necessario opporsi con forza all'antisemitismo, riflettere sulle proprie radici e assumersi la responsabilità gli uni per gli altri. “Non possiamo trattenere il respiro, pregare e implorare sostegno da gruppi o comunità che non vogliono stare dalla nostra parte”.
• Israele come patria e rifugio
Ciò significa anche essere orgogliosi di ciò che ci rende ciò che siamo: da parte di madre, proviene da una famiglia di sopravvissuti e vittime dell'Olocausto, mentre da parte di padre appartiene all'ottava generazione nata in Israele. È orgogliosa di entrambe le parti che Israele rappresenta: un Paese che è stato la salvezza per i rifugiati dell'Olocausto e uno in cui gli ebrei vivono come popolo autoctono.
Vuole insegnare alle sue figlie ad amare questa eredità: “Noi, il popolo ebraico, siamo un popolo antico, con una storia antica e una patria antica. Siamo un popolo che celebra la vita. Lavoriamo per un futuro migliore e più pacifico”. Questo mix di forza e dedizione incarna in modo unico ‘la ragazza di una città in Israele’ e risplende oltre i confini del mondo ebraico.
(Israelnetz, 30 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La nuova Siria apre a Israele: opportunità o illusione?
Dopo la caduta di Assad, Damasco valuta la normalizzazione con Israele tra conferme e smentite. E Tel Aviv chiede garanzie concrete.
di Nina Deutsch
Sono davvero imminenti nuovi accordi con la Siria? La risposta, al momento, non può essere netta. Gli sviluppi recenti delineano un quadro complesso, fatto di segnali contrastanti, dichiarazioni interlocutorie e manovre diplomatiche ancora in fase di assestamento.
Recentemente, si è parlato della possibilità che la Siria possa unirsi agli Accordi di Abramo, una serie di trattati di normalizzazione tra Israele e diversi Paesi arabi. Secondo alcune fonti, Damasco starebbe esplorando questa possibilità, che sembrava impensabile fino a poco tempo fa. In un contesto regionale delicato, è fondamentale ricostruire gli eventi recenti e degli ultimi giorni per comprendere direzione e portata dei possibili scenari futuri.
Dopo la caduta del regime di Bashar al-Assad nel dicembre 2024, la Siria ha visto l’ascesa di Ahmed al-Sharaa, noto anche come Abu Mohammed al-Jolani, ex leader del gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS). Nonostante il suo passato controverso, al-Sharaa ha cercato di presentarsi come un leader moderato, impegnato nella ricostruzione del Paese e nell’inclusione di tutte le componenti etniche e religiose della Siria. Ha avviato colloqui con diverse potenze regionali e internazionali, cercando di ottenere il riconoscimento del suo governo e la rimozione delle sanzioni internazionali.
Come riporta il Times of Israel in questi giorni, al-Sharaa avrebbe manifestato l’intenzione di normalizzare i rapporti con Israele e di valutare un’adesione della Siria agli Accordi di Abramo, a condizione che vi siano “le giuste condizioni”. La dichiarazione è emersa durante un incontro a Damasco la scorsa settimana con il deputato statunitense Cory Mills, primo esponente del Congresso a visitare la Siria dopo la caduta del regime di Assad. Al centro del colloquio, oltre alla pace con Israele, anche la possibilità di revocare le sanzioni americane. Sharaa avrebbe garantito disponibilità a espellere i combattenti stranieri e ad affrontare le richieste israeliane di sicurezza.
La domanda resta aperta: mentre l’esercito israeliano avanza sempre più nel sud della Siria, è realistico ipotizzare un accordo di pace tra i due Paesi? E, soprattutto, il nuovo governo siriano sarà in grado di soddisfare le rigorose richieste di sicurezza imposte dalla comunità internazionale, pur faticando ad affermare il proprio controllo sul territorio nazionale?
La situazione è incerta. Gli annunci di tregua si susseguono a smentite e prese di posizione contrastanti. Come riportato da i24NEWS, dopo aver manifestato la scorsa settimana un’apertura verso gli Accordi di Abramo, la Siria ha fatto marcia indietro inviando una lettera ufficiale agli Stati Uniti. Il motivo principale del rifiuto? L’“occupazione” dei propri territori da parte di Israele.
Secondo fonti citate da Syria TV, Damasco ritiene infatti che tali accordi siano riservati a Paesi i cui territori non sono soggetti all’occupazione israeliana. Tuttavia, nella stessa comunicazione, il governo siriano ha ribadito il proprio impegno a ricostruire uno Stato stabile, che non costituisca una minaccia per i vicini.
Intanto Israele, che mantiene una presenza militare nel sud della Siria, continua a esprimere profonda sfiducia nei confronti del nuovo governo, nato da una coalizione islamista. Secondo l’analista Carmit Valensi – ricercatrice presso l’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv – Sharaa adotta un approccio “cauto e pragmatico”, ma resta da chiarire quali siano esattamente le condizioni poste da Damasco per una reale normalizzazione.
• Diplomazia regionale: tra aperture e diffidenze
Al-Sharaa ha intrapreso sempre nelle scorse settimane una serie di visite diplomatiche per rafforzare i legami della Siria con i Paesi della regione. Ha visitato l’Arabia Saudita, segnando un possibile allontanamento dall’Iran, e gli Emirati Arabi Uniti, dove ha incontrato il presidente Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan.
Tuttavia, queste visite non sono state accolte con entusiasmo da tutti. In Iraq, l’invito a al-Sharaa per partecipare al prossimo vertice della Lega Araba ha suscitato polemiche, soprattutto tra le fazioni sciite legate all’Iran, che lo accusano di avere un passato legato al terrorismo.
• Segnali da Damasco: una nuova apertura verso la normalizzazione?
In un’analisi del corrispondente del Jerusalem Post, Ohad Merlin, emerge la domanda se davvero gli Accordi di Abramo con la Siria siano davvero imminenti e se l’implicita apertura di Al-Sharaa a tali accordi debba essere accolta con una chiara richiesta di riforma del sistema educativo e di un esplicito ripudio del jihadismo.
Il recente gesto distensivo del presidente siriano, che ha parlato di un possibile avvicinamento a Israele senza pretendere la restituzione delle alture del Golan, ha acceso i riflettori su un possibile cambio di paradigma nelle relazioni israelo-siriane. Una mossa che, secondo quanto riportato dal Jerusalem Post, non dovrebbe essere accolta con leggerezza.
Durante colloqui con membri del Congresso americano vicini al presidente Trump, Sharaa avrebbe espresso la volontà di aderire al quadro degli Accordi di Abramo. Ma una pace duratura, avvertono da Gerusalemme, non può prescindere da garanzie fondamentali, che vadano oltre le mere dichiarazioni di buona volontà.
• Cinque pilastri per un’intesa vera
Israele, secondo l’analisi, dovrebbe rispondere con prudenza strategica a questa apertura, mantenendo una postura propositiva, ma ponendo condizioni imprescindibili:
- Il Golan non si tocca. Le alture, riconosciute dagli Stati Uniti come parte integrante di Israele, restano una linea rossa. Ogni intesa dovrà partire dal principio della sovranità israeliana su questo territorio.
- Protezione ai drusi Le comunità druse del sud della Siria, culturalmente e storicamente legate a quelle presenti in Israele, devono continuare a ricevere tutela. È un impegno morale verso un popolo che ha pagato il prezzo dell’isolamento per decenni.
- Rottura netta con il jihadismo. Qualsiasi dialogo richiede che la Siria condanni apertamente l’estremismo islamico, incluso l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Solo così si potrà costruire un ponte credibile tra i due Stati.
- Sicurezza lungo i confini. Un accordo deve prevedere garanzie concrete per la sicurezza di Israele, a partire dal disimpegno delle milizie filo-iraniane, dal contenimento dell’influenza turca e dalla fine del traffico d’armi verso Hezbollah.
- Riforma educativa e mediatica Serve un cambiamento radicale nella narrazione ufficiale siriana: Israele e il popolo ebraico devono essere riconosciuti come parte legittima del tessuto mediorientale. Frasi come “entità sionista” o “occupazione” devono sparire dai libri e dai notiziari.
• Una pace che sia anche culturale
L’esperienza con Egitto e Giordania insegna che senza un cambiamento nei cuori e nelle menti, la pace resta un’intesa fredda. Israele deve evitare che si ripetano gli errori del passato, dove accordi firmati sulla carta non hanno impedito la diffusione dell’odio a livello sociale ed educativo.
In questo senso, i modelli da seguire non sono quelli del Cairo o di Amman, bensì gli esempi virtuosi degli Emirati Arabi Uniti e del Marocco, dove la cooperazione si estende anche alla cultura e alla formazione delle nuove generazioni.
• Un’occasione da cogliere, ma con cautela
Che Sharaa non abbia menzionato il Golan è un segnale importante. Ma il suo passato e le sue connessioni con movimenti estremisti impongono una valutazione lucida, senza eccessi di entusiasmo. Il rischio di un ritorno a vecchie retoriche è concreto, specialmente se l’opinione pubblica siriana non sarà preparata al cambiamento.
Israele deve mostrare al mondo che è pronta alla pace, ma non a qualsiasi costo. Se la Siria accetterà le condizioni poste – riforme interne, sicurezza regionale e riconoscimento reciproco autentico – si potrà parlare di un nuovo passo storico nel solco degli Accordi di Abramo. Se invece l’apertura si rivelerà solo tattica, sarà chiaro che il vero ostacolo alla pace non è Gerusalemme, ma una Damasco ancora ostaggio del proprio passato.
• Conclusioni: un futuro incerto ma con segnali di speranza
La Siria si trova dunque in una fase cruciale della sua storia. La caduta di Assad ha aperto nuove possibilità, ma anche nuove sfide. Il governo di al-Sharaa ha mostrato segnali di apertura e volontà di inclusione, ma dovrà dimostrare con i fatti la sua capacità di guidare il paese verso la stabilità e la riconciliazione. Anche la comunità internazionale ha un ruolo fondamentale nel sostenere il processo di transizione e nel garantire che la Siria non torni a essere un terreno di conflitto e divisione.
(Bet Magazine Mosaico, 30 aprile 2025)
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Yom HaZikaron – Il ricordo dei caduti per la libertà di Israele
di Ugo Volli
• Una sequenza di senso
Nel calendario civile israeliano la giornata che si apre questa sera, Yom haZicharon, la giornata del ricordo dei caduti delle forze armate di Israele e delle vittime del terrorismo, è la più triste, insieme a Yom haShoah vehaGevurah, il giorno in cui si ricordano le vittime del genocidio nazista e l’eroismo di chi riuscì a combatterlo e a resistervi. Le due date sono strettamente legate, poste a una settimana di distanza nella successione voluta da David Ben Gurion: nel calendario ebraico il 27 del mese ebraico di Nissan è caduta Yom HaShoah, quest’anno corrispondente al 23 aprile; il 4 del mese di Yiar si celebra Yom HaZikaron, che quest’anno cade il 30 aprile (a partire dalla sera del 29). Vi è intorno a queste due date un intero periodo di memoriale, che inizia con la settimana pasquale in cui si ricorda, secondo l’insegnamento della tradizione, il primo tentativo di genocidio subìto dal popolo ebraico ad opera degli egizi e la salvezza miracolosa che li redense con un percorso verso la Terra di Israele; poi viene il giorno della commemorazione della Shoah e quello del ricordo dei caduti. Infine, il 5 di Yiar, quest’anno il 1 maggio (a partire dalla sera del 30 aprile), immediatamente dopo Yom haZikaron vi è Yom haAtzmaut, il giorno dell’Indipendenza che coincide con la data ebraica della Dichiarazione di indipendenza, letta da Ben Gurion proprio il 5 di Yiar del 1948 (la data gregoriana era il 14 aprile). Nonostante le complicazioni introdotte dal doppio calendario, il senso della sequenza è chiaro: si va dal lutto per lo sterminio antico alla gioia per il compleanno dello Stato di Israele e dunque della libertà ebraica, passando per la memoria della sofferenza inaudita della Shoah e per il lutto e la gratitudine per coloro che hanno sacrificato la loro vita per difendere questa libertà. Si segnala così il fondamento antico e il costo recente di una realizzazione straordinaria, si potrebbe dire anch’essa miracolosa, che è la ricostruzione di uno Stato ebraico dopo millenovecento anni di esilio.
• Le cifre
Yom HaZikaron è il momento più toccante. Perché il dolore della Shoah non si è certo affievolito ma è entrato nella dimensione solenne della storia: in occasione dell’ultima ricorrenza si è calcolato che i sopravvissuti della Shoah ancora in vita in tutto il mondo siano circa 220mila, di cui la metà in Israele. Molti di più, quasi tutti gli ebrei di origini occidentali, piangono parenti trucidati; è un ricordo ormai entrato nella carne e nel cuore del popolo, una cicatrice incancellabile. Il ricordo dei caduti in guerra e del terrorismo è invece una ferita aperta, una lista che continua a crescere. I soldati di Israele caduti in servizio a partire dal 7 ottobre del 2023 sono più di ottocento, le vittime civili del terrorismo quasi duemila. Di questi, 319 militari sono stati aggiunti alla lista dall’ultimo Yom HaZikaron (2024), insieme a 61 veterani disabili deceduti per complicazioni legate alle ferite. I civili aggiunti quest’anno sono 79. Il totale dei caduti che saranno ricordati è di circa 30.700, di cui 25.400 militari e 5.200 civili uccisi dai terroristi. Bisogna pensare che la popolazione di Israele è di circa 10 milioni di persone, un sesto dell’Italia. È come se alla vigilia del 2 giugno i cittadini italiano dovessero ricordare 180mila caduti. Al 3 per mille dei caduti si aggiungono almeno il doppio dei feriti. Ogni famiglia in Israele ha una vittima da ricordare, un suo parente o conoscente.
• La giornata
La celebrazione di Yom haZikaron è molto toccante. Alle 20 della sera della vigilia e alle 11 di mattina del giorno stesso suonano dappertutto le sirene, come per Yom HaShoah; tutto il Paese si ferma, le automobili accostano al bordo della strada, le persone stanno ferme in silenzio per qualche minuto. I cimiteri militari di tutto il paese sono visitati; ogni tomba di un caduto è decorata dalla bandiera nazionale e riceve onori militari. Vi sono discorsi, sfilate di reparti, ma soprattutto c’è la solidarietà, l’amore di un paese che crede nella vita per i propri figli più preziosi, caduti per difendere tutti. Per un giorno anche la litigiosa società politica israeliana si raccoglie in preghiera e in meditazione.
• Yom HaAtzmaut
Passano le ore di questa lunga giornata di ricordo e di meditazione, arriva il tramonto e il clima si rovescia. Siamo ormai al 5 di Yiar, alla giornata dell’indipendenza. Ora è il momento di festeggiare il settantasettesimo compleanno di Israele, di guardare non alle sofferenze, ma alle realizzazioni, ai risultati. Nonostante l’attacco su sette fronti, Israele sta vincendo, ha messo fuori gioco nemici pericolosi e armatissimi come Hezbollah, sta combattendo a Gaza per liberare gli ostaggi ed eliminare Hamas, ha voce sulla sorte dell’Iran ed è ben decisa a impedire che diventi una potenza nucleare. L’economia ha resistito allo shock della guerra; le statistiche dicono che gli israeliani sono fra i popoli più contenti del mondo e il loro ottimismo si vede dall’indice più sicuro, quello della disponibilità a far nascere ed educare i figli: la società politica è profondamente divisa, ma si può sperare che la dialettica politica non degeneri ancora. Israele ancora una volta si è mostrata più capace di resistenza di quel che pensino i suoi nemici. Insomma bisogna festeggiare non solo perché ‘Am Yisrael chai, il popolo di Israele vive, come dice lo slogan più condiviso della giornata; ma prospera e guarda al futuro nonostante le minacce dei nemici.
(Shalom, 29 aprile 2025)
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Mia amata terra – Una canzone di speranza per il giorno della commemorazione
Una nuova canzone del progetto “Hineni” esprime l'amore per Israele e la fede incrollabile nel suo futuro in occasione del giorno della commemorazione.
In occasione della Giornata della Memoria per i soldati israeliani caduti e le vittime degli attentati terroristici (Yom HaZikaron), un nuovo progetto musicale ricorda ciò per cui hanno dato la vita: la vita, la patria, il futuro. Il progetto “Hineni” (“Eccomi”) è nato nel pieno della guerra ed è una raccolta di brani originali che esprimono forza, speranza e amore per Israele. La prima canzone della raccolta si intitola “La mia amata terra”. Il testo è stato scritto da Michal Pinhasi, una soldatessa del Comando Nord cresciuta al confine con il Libano. “Ho vissuto nel kibbutz Yiron e oggi vivo a Yesod HaMa'ala”, racconta Pinhasi. “Ora presto servizio nel Comando Nord e difendo i luoghi che sono la mia patria, difendo la mia casa”. Ha scritto la canzone per il suo profondo amore per Israele: ‘Un paese che lotta per la sua sopravvivenza sin dalla sua fondazione e che, nonostante tutte le avversità, continua a vincere’. La musica è stata composta da Rotem Shafran e Ilay Salomon, due soldati della banda dell'esercito.
Qui il testo completo della canzone in italiano, un messaggio commovente al proprio amato Paese:
Mia amata terra, alza il capo e non temere tutti coloro che gridano e vogliono solo pretendere.
Vestiti con i colori dell'estate, asciugati le lacrime, tutto ciò che hanno distrutto in te ora puoi ricostruire.
Mia forte terra, fa così male come ogni lacrima di un bambino che spezza il cuore e una silenziosa preghiera di una madre ancora un momento e sarà finita. Fuori il fuoco divampa, ma noi siamo più forti di tutto.
Mia verde terra, tra tutte le grida non credere loro nemmeno per un istante, a coloro che seminano dubbi in te. Grida a tutti i tuoi nemici: Che vadano all'inferno! Rimani salda di fronte al fuoco, con una cupola di ferro sopra la tua testa.
Mia forte terra, fa così male, come ogni lacrima di un bambino spezza il cuore, e una silenziosa preghiera di una madre ancora un momento e sarà finita. Fuori il fuoco divampa, ma noi siamo più forti di tutto.
Mia piccola terra, di cosa ti preoccupi? Non permetteremo a nessuno di ferire i miracoli che custodisci.
Alza la testa, guarda: siamo al tuo fianco, mia amata terra, di fronte a tutti i pericoli ti ho giurato eterna fedeltà.
(Israel Heute, 29 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il padre di un ostaggio israeliano chiede di sconfiggere Hamas
“Sappiamo che Eitan è vivo e ci aspettiamo di rivederlo presto. Ma siamo ancora in guerra con un nemico che vuole distruggerci”, ha detto Tzvika Mor, il cui figlio Eitan è stato rapito il 7 ottobre 2023 ed è ancora tenuto prigioniero a Gaza.
di Amelie Botbol
Israele non può accettare il rilascio degli ostaggi se questo comporta il mantenimento del controllo di Hamas sulla Striscia di Gaza, ha dichiarato lunedì Tzvika Mor, padre dell'ostaggio di Hamas Eitan Mor, al JNS International Policy Summita Gerusalemme.
“Noi del Tikvah Forum non chiederemo mai di porre fine a questa guerra e di capitolare davanti a Hamas”, ha detto Mor alla folla.
Suo figlio Eitan, il maggiore di otto figli, lavorava come guardia di sicurezza al festival musicale Supernova vicino al kibbutz Re'im il 7 ottobre 2023. Secondo Mor, Eitan ha salvato decine di persone prima di essere rapito da Hamas intorno alle 12:30.
“Sappiamo che l'ultima cosa che Eitan ha cercato di fare è stata salvare il corpo di una ragazza violentata e uccisa. Questo è il carattere di Eitan: coraggio, determinazione e preoccupazione per gli altri”, ha detto Mor.
Ha sottolineato che la sua famiglia rimane speranzosa. ”Sappiamo che Eitan è vivo e ci aspettiamo di vederlo presto. Ma siamo ancora in guerra con un nemico che vuole distruggerci. Eitan è il pronipote di sopravvissuti all'Olocausto, i miei nonni, la maggior parte dei quali sono stati imprigionati nei campi di concentramento”, ha spiegato.
La sua apparizione al vertice non è stata una richiesta di clemenza, ma un ricordo dello spirito costante di Israele, ha continuato Mor.
“Come la famiglia Bibas, anche i nazisti hanno ucciso la moglie e i due figli di mio nonno”, ha detto Mor, riferendosi a Shiri Bibas e ai suoi due figli Ariel e Kfir, rapiti il 7 ottobre e uccisi mentre erano prigionieri di Hamas.
“Dopo l'Olocausto, ha sposato mia nonna. I miei nonni erano originari dell'Ungheria e della Romania, i nonni di mia moglie provenivano dalla Germania e dalla Romania“, ha continuato.
”Milioni di noi sono stati uccisi e bruciati, ma il popolo ebraico continuerà a esistere per sempre. Non siamo un popolo che esiste solo per se stesso. Il primo giorno del calendario ebraico preghiamo per il bene dell'umanità intera. Anche oggi, di fronte ai nuovi nazisti di Gaza, siamo i messaggeri dell'umanità per distruggerli“, ha detto.
”Questa guerra deve finire con la distruzione di Hamas, la resa di Hamas e la restituzione di tutti gli ostaggi”, ha concluso.
• Crimine senza precedenti contro l'umanità
Mor è intervenuto durante la tavola rotonda “Ostaggi, vittime e politica pubblica”, alla quale ha partecipato anche Cochav Elkayam-Levy, presidente della commissione civile israeliana che il 7 ottobre ha indagato sui crimini commessi da Hamas contro donne e bambini.
“Sono qui davanti a voi dopo aver trascorso mesi a raccogliere testimonianze dolorose e ad ascoltare le voci di centinaia di vittime, voci che ora più che mai chiedono che si agisca”, ha affermato.
Ha descritto in dettaglio le torture sistematiche inflitte alle famiglie da Hamas, definendole un crimine contro l'umanità finora non definito.
“Sono emersi modelli terrificanti: le stesse atrocità si sono ripetute in luoghi diversi, in famiglie diverse e in momenti diversi. Genitori uccisi davanti agli occhi dei propri figli, bambini giustiziati tra le braccia dei genitori, famiglie bruciate vive insieme, intere famiglie prese in ostaggio”, ha raccontato.
“Le famiglie non erano vittime casuali, erano l'obiettivo. Hamas ha capito che torturare le famiglie provoca un dolore così profondo che il lutto è infinito. Insieme al professor Irwin Cotler, abbiamo dato un nome a questo male: 'cinocidio'” [da cinema, ndt], ha continuato.
Elkayam-Levy ha avvertito che il terrore continuerà.
“Le organizzazioni terroristiche di tutto il mondo stanno osservando. L'assenza di conseguenze normalizza la distruzione delle famiglie come arma di guerra”, ha affermato.
• Negoziati fuorvianti
Al vertice è intervenuto anche il deputato della Knesset del partito “Sionismo religioso”, Simcha Rothman, durante il panel intitolato “Stabilire un nuovo concetto”, dove ha criticato i negoziati con Hamas.
"Sono ottimista sul fatto che riusciremo a liberare gli ostaggi. Ogni volta che sento parlare di negoziati, sono pessimista”, ha detto Rothman a JNS. ‘Il modo per liberare gli ostaggi non è negoziare, né con il Qatar, né con l'Egitto, né con nessuno. Non si negozia con i terroristi’.
Rothman ha chiesto un approccio più duro e ha paragonato la linea necessaria a quella del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
“Dobbiamo dire a Hamas, alla Striscia di Gaza e al mondo: rivogliamo tutti i nostri ostaggi immediatamente, vivi o morti, o apriremo le porte dell'inferno su di voi“, ha detto.
”I costi devono essere pagati al 100% da Hamas e dai terroristi, non dalle vittime”, ha aggiunto.
• Inevitabile vicolo cieco
Nel frattempo, le speranze di un accordo di cessate il fuoco rimangono scarse.
“Non c'è un obiettivo comune tra le due parti e, a mio parere, le possibilità sono scarse”, ha dichiarato domenica il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani durante una conferenza stampa congiunta con il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan a Doha davanti ai giornalisti.
Ha riconosciuto “alcuni progressi” dopo che i rappresentanti di Hamas hanno incontrato i mediatori al Cairo, ma ha affermato che gli sforzi per un nuovo cessate il fuoco continueranno.
Allo stesso tempo, il direttore del Mossad David Barnea si è recato giovedì in Qatar per tentare nuovamente di ottenere il rilascio dei restanti 59 prigionieri israeliani detenuti nella Striscia di Gaza da quasi 570 giorni.
Secondo Israel Hayom, fonti vicine ai colloqui hanno affermato che Doha sostiene il rifiuto da parte di Hamas dell'ultima proposta statunitense.
Secondo quanto riferito, le forze armate israeliane avrebbero in programma di aumentare la pressione militare a Gaza nel caso in cui i negoziati dovessero arenarsi. Tuttavia, i rappresentanti israeliani stanno mantenendo un atteggiamento prudente per dare una possibilità ai colloqui.
Si dice che il Qatar stia facendo pressione su Hamas affinché rifiuti l'ultimo accordo, poiché il gruppo terroristico potrebbe ottenere un accordo più favorevole grazie alla sua resistenza, che potrebbe includere un cessate il fuoco pluriennale con garanzie internazionali, la riabilitazione della Striscia di Gaza e il mantenimento del dominio di Hamas. Tra gli obiettivi dichiarati di Israele c'è la completa distruzione delle infrastrutture militari e statali di Hamas.
(Israel Heute, 29 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele supera i 10 milioni di abitanti all'alba del suo 77° anniversario
Lo Stato ebraico registra uno dei tassi di crescita demografica più elevati del mondo occidentale
All'approssimarsi del 77° giorno dell'indipendenza di Israele, che sarà celebrato domani, l'Ufficio centrale di statistica (CBS) pubblica il suo tradizionale ritratto demografico annuale, segnato quest'anno da una pietra miliare storica: la popolazione israeliana ha superato per la prima volta la soglia dei 10 milioni di abitanti, raggiungendo precisamente 10,1 milioni. Dalla fondazione dello Stato nel 1948, quando contava circa 800.000 residenti, la popolazione è aumentata di oltre 12 volte, con una crescita in continuo aumento. Nell'ultimo decennio, Israele ha registrato un tasso di crescita demografica medio annuo dell'1,5%, tra i più alti del mondo occidentale, rispetto allo 0,9% a livello mondiale, allo 0,5% nei paesi dell'OCSE e allo 0,2% nell'Unione Europea.
Secondo le proiezioni del CBS, la popolazione israeliana dovrebbe raggiungere i 15,2 milioni nel centenario dello Stato e i 20 milioni entro il 2065. Dall'ultimo giorno dell'Indipendenza, la popolazione è aumentata di 135.000 persone (+1,4%). Durante questo periodo sono state registrate circa 174.000 nascite, sono arrivati 28.000 immigrati e sono decedute 50.000 persone. Un dato preoccupante è il saldo migratorio negativo di 56.000 persone nell'ultimo anno.
La composizione demografica di Israele rimane dominata dalla popolazione ebraica, che rappresenta il 77% degli abitanti (7,7 milioni), seguita dagli arabi israeliani (21%, pari a 2,1 milioni) e dai residenti stranieri (250.000 persone).
All'interno della popolazione ebraica, i laici costituiscono il gruppo più numeroso, mentre gli ultraortodossi registrano il tasso di crescita più rapido. Le statistiche rivelano che il 43% degli israeliani è laico, il 33,5% tradizionalista, il 12% religioso e l'11,5% ultraortodosso. Nonostante le difficoltà, il 91% degli israeliani si dichiara soddisfatto o molto soddisfatto della propria vita e il 57% prevede un miglioramento della propria situazione nei prossimi anni.
(i24, 29 aprile 2025)
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Operazione ‘Hug’: un abbraccio speciale tra i soldati dell’IDF e i genitori
di Michelle Zarfati
Nel cuore della guerra, è nata un’iniziativa carica di amore familiare. Si tratta di “Operation Hug”, un progetto che ha reso possibile oltre 1.200 incontri tra ‘soldati solitari’ dell’esercito israeliano e i loro genitori, provenienti da 64 paesi diversi. Lanciata nel 2023 da Nefesh B’Nefesh insieme a FIDF e JNF-USA, l’operazione finanzia viaggi per permettere ai genitori di raggiungere i figli in servizio attivo. L’obiettivo è offrire un conforto umano e rafforzare i legami familiari, anche in tempi di grande tensione.
L’iniziativa è stata pensata per sostenere i cosiddetti “alone soldiers”, ovvero quei militari che prestano servizio in Israele senza avere la famiglia nel Paese. Attraverso “Operation Hug”, i genitori dei soldati possono volare in Israele per abbracciare i loro figli. L’incontro avviene in un momento delicato, in cui molti di questi giovani combattono nel contesto della guerra tra Israele e Hamas, iniziata il 7 ottobre 2023.
I genitori coprono solo una piccola parte del costo del biglietto, mentre il resto è totalmente finanziato dalle organizzazioni coinvolte. Il programma è stato recentemente ampliato per includere anche quei genitori che non avevano mai potuto beneficiare dell’iniziativa e che non vedevano i loro figli da oltre un anno.
Steve Weil, amministratore delegato di FIDF, ha condiviso che il programma riflette l’impegno dell’organizzazione nell’offrire sostegno continuo e concreto ai soldati solitari. Deborah Riegel, presidente della Task Force Nefesh B’Nefesh presso JNF-USA, ha sottolineato l’impatto emotivo dell’iniziativa: “Non c’è nulla che possa sostituire l’abbraccio di un genitore”. Anche il rabbino Yehoshua Fass, cofondatore di Nefesh B’Nefesh, ha descritto questi momenti di ricongiungimento come “profondamente commoventi”. “Operation Hug” è più di un semplice viaggio: è un ponte tra chi serve il Paese con coraggio e chi, da lontano, non ha mai smesso di amare e sostenere lo Stato d’Israele.
(Shalom, 29 aprile 2025)
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Libano: Hezbollah deve disarmare, ma ancora non si sa come
di Sarah G. Frankl
L'ultimo attacco aereo di Israele contro quello che è stato definito un deposito di missili di Hezbollah nella periferia meridionale di Beirut è avvenuto durante le crescenti pressioni affinché il gruppo militante libanese si disarmi.
Il disarmo di quello che è stato il più potente gruppo armato non statale della regione è diventato sempre più inevitabile. Hezbollah è gravemente indebolito dopo una guerra con Israele in cui gran parte della sua leadership è stata uccisa e dopo aver perso un alleato chiave con la caduta dell’ex presidente siriano Bashar Assad, un canale per l’invio di armi da parte dell’Iran.
Israele e gli Stati Uniti stanno spingendo per un rapido disarmo, ma i tempi e i modi in cui avverrà – se avverrà – sono contestati.
Il Presidente libanese Joseph Aoun ha dichiarato di essere impegnato a mettere sotto controllo statale tutte le armi presenti nel Paese, ma che ciò avverrà attraverso discussioni su un piano di sicurezza nazionale e non con la forza.
Molti temono che un tentativo di forzare la questione porterebbe a un conflitto civile, che Aoun ha definito una “linea rossa”.
I funzionari di Hezbollah hanno dichiarato in linea di principio di essere disposti a discutere dell’arsenale del gruppo, ma il leader Naim Qassem ha affermato in un discorso tenuto all’inizio del mese che qualsiasi discussione seria è subordinata al ritiro delle forze israeliane dal territorio che occupano nel sud del Libano e alla cessazione degli attacchi aerei quasi quotidiani.
“I libanesi devono trovare un delicato equilibrio” sul disarmo, ha affermato Aram Nerguizian, senior associate del Center for Strategic and International Studies.
“Se si va troppo piano… si perde slancio interno e legittimità internazionale. Se si va troppo in fretta, si viene accusati da una comunità sciita ancora ferita e malconcia” – che costituisce la maggior parte del gruppo di elettori di Hezbollah – ‘di agire per conto di Israele, rischiando al contempo che i resti di Hezbollah… scatenino un’insurrezione contro il governo libanese’.
Dopo la fine della guerra civile in Libano, durata 15 anni, nel 1990, il Paese ha avviato un processo di disarmo della maggior parte delle milizie che vi avevano preso parte. Hezbollah ha fatto eccezione, ottenendo uno status speciale come “forza di resistenza” che combatteva contro l’occupazione israeliana del Libano meridionale.
Aoun ha delineato la sua visione di un processo di disarmo simile. Gli ex combattenti di Hezbollah potrebbero chiedere di unirsi all’esercito libanese come individui, ha detto il presidente. Le armi ritenute “utilizzabili” dall’esercito entrerebbero a far parte del suo arsenale, mentre quelle ritenute “inutilizzabili” verrebbero distrutte.
Nerguizian ha affermato che si ritiene che oltre il 90% delle “armi sofisticate e pesanti” di Hezbollah – che un tempo comprendevano decine di migliaia di missili e droni – siano già state distrutte, la maggior parte da Israele.
Ciò che rimane, ha detto, non sarebbe compatibile con l’arsenale dell’esercito libanese, che è in gran parte fornito dall’Occidente, mentre Hezbollah utilizza armi di fabbricazione iraniana, russa e cinese.
Nerguizian ha affermato che è improbabile che un gran numero delle decine di migliaia di combattenti di Hezbollah venga incorporato nell’esercito perché la loro ideologia non è compatibile con una forza paramilitare che è stata in gran parte “legata alle preferenze dell’Iran”.
Il generale dell’esercito libanese in pensione Hassan Jouni ha concordato sul fatto che gran parte dell’arsenale di Hezbollah non sarebbe facilmente integrabile, ma ha detto che il periodo successivo alla guerra civile fornisce un precedente per l’integrazione dei combattenti.
Dopo l’addestramento, “diventano come qualsiasi altro soldato”, ha detto. Sebbene ci possa essere un “ostacolo religioso e ideologico” per alcuni combattenti di Hezbollah, “non credo che questo sia il caso per tutti”.
Ibrahim Mousawi, membro del blocco parlamentare di Hezbollah, ha dichiarato che “tutto è aperto alla discussione”.
“Non vogliamo entrare nel merito dei dettagli”, ha detto. “Questo è qualcosa che viene lasciato nelle mani del presidente e della leadership di Hezbollah”.
Mousawi ha detto che la distruzione dell’arsenale di Hezbollah “non dovrebbe essere accettabile per il Libano”.
L’esercito libanese, che ha problemi di liquidità, ha faticato a mantenere il suo arsenale che sta invecchiando. Negli ultimi anni, si è rivolto agli Stati Uniti e al Qatar per contribuire al pagamento degli stipendi dei soldati.
“Siamo parte della forza libanese”, ha detto Mousawi. “Se gli americani vogliono davvero dimostrarci che rispettano il Libano e si preoccupano per i libanesi, perché non equipaggiano l’esercito libanese con armi difensive?”.
L’inviato statunitense Morgan Ortagus ha detto all’inizio del mese, in un’intervista trasmessa dal canale libanese LBCI, che Hezbollah dovrebbe essere disarmato “il prima possibile”.
Un diplomatico libanese ha detto che c’è una continua pressione da parte degli americani su questo fronte. Ha parlato a condizione di anonimato perché non autorizzato a parlare pubblicamente.
La posizione di Hezbollah, che non intende discutere la rinuncia al suo braccio armato prima che Israele si ritiri da cinque punti chiave di confine nel sud del Libano, sembra destinata a trascinare il processo. I funzionari israeliani hanno dichiarato che intendono rimanere sul posto a tempo indeterminato per proteggere il confine e vigilare su eventuali violazioni del cessate il fuoco da parte di Hezbollah.
I funzionari libanesi affermano che la presenza israeliana viola l’accordo di cessate il fuoco di novembre, in base al quale Israele ed Hezbollah avrebbero dovuto ritirare le loro forze dal Libano meridionale, con l’esercito libanese che avrebbe assunto il controllo insieme alle forze di pace delle Nazioni Unite.
Il diplomatico libanese ha affermato che i funzionari statunitensi hanno riconosciuto che le forze israeliane rimaste nei cinque punti di confine costituiscono una “occupazione”, ma non hanno esercitato forti pressioni su Israele affinché si ritirasse rapidamente.
Secondo Bilal Saab, ex funzionario del Pentagono e direttore generale della società di consulenza TRENDS US con sede a Washington, un modo intelligente per sbloccare la situazione ed evitare un’ulteriore escalation è aumentare il sostegno all’esercito libanese e spingere Israele a ritirarsi.
Il generale dell’esercito libanese in pensione Elias Hanna ha dichiarato di ritenere che Hezbollah sia “ancora nella fase di negazione” della diminuzione del suo potere militare e politico.
Ha detto che il disarmo deve avvenire nell’ambito di discussioni più ampie sulla dottrina e sulla strategia militare del Libano. L’esercito libanese potrebbe trarre vantaggio dall’esperienza di Hezbollah, che per molti anni ha mantenuto la deterrenza nei confronti di Israele prima dell’ultima guerra.
Saab ha detto di ritenere che il risultato non sia in dubbio.
“Hezbollah ha una scelta”, ha detto. “O depone le armi o le fa rimuovere con la forza da Israele”.
(Rights Reporter, 29 aprile 2025)
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La Giordania mette al bando i Fratelli Musulmani
Proibita ogni attività sul territorio nazionale giordano. Inoltre sono state arrestate 16 persone legate all’organizzazione e accusate di star organizzando attacchi terroristici. Confiscati anche i beni e vietata qualsiasi forma di adesione, condivisione o promozione dell’ideologia dell’organizzazione.
di Nina Prenda
Il governo giordano dichiara illegale la Fratellanza Musulmana, sequestra i beni in suo possesso e arresta 16 membri accusati di voler condurre attacchi terroristici nel Paese.
Nata nel 1928 in Egitto, la Fratellanza Musulmana è una delle più grandi, importanti ed influenti organizzazioni islamiste radicali a livello internazionale. L’obiettivo di Hassan al-Banna, il suo fondatore, era quello di riportare l’Islam alla sua purezza originaria e creare un mondo la cui società fosse basata sul Corano e sulla sharia, la legge islamica, attraverso una letterale e rigorosa interpretazione del testo. È per questo che nel simbolo del gruppo terroristico c’è un Corano collocato sopra a delle scimitarre, e il motto della Fratellanza è: “Dio è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro capo. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è la nostra via. Morire nella via di Dio è la nostra suprema speranza”. L’ideologia su cui si basa l’organizzazione è il fondamentalismo islamico. I Fratelli Musulmani sono un fedele alleato di Hamas, il gruppo terroristico responsabile della strage del 7 ottobre 2023 ai danni di Israele, e il più grande gruppo di opposizione della Giordania.
Il 24 aprile 2025, Mazen al-Faraya, il ministro dell’Interno del Regno di Giordania, ha messo al bando i Fratelli Musulmani, gruppo terroristico già ufficialmente sciolto seppur non si sia mai disciolto completamente, che ha subito diverse restrizioni e scioglimenti parziali in alcuni Paesi, come l’Egitto. Il ministro giordano ha definito l’organizzazione “illegale” e ne ha proibito ogni attività sul territorio nazionale giordano. “Qualsiasi azione svolta sotto il nome della Fratellanza rappresenta una violazione della legge e sarà perseguita legalmente”, ha detto il ministro al-Faraya durante una conferenza stampa. Ha inoltre dichiarato di aver messo sotto sequestro tutti i beni mobili e immobili riconducibili al gruppo, in linea con le decisioni dei tribunali.
Inoltre, sono state arrestate 16 persone che erano legate all’organizzazione e che erano accusate di star organizzando attacchi terroristici con razzi e droni sul territorio giordano. Secondo le fonti ufficiali, almeno un razzo era già pronto per l’impiego in un’operazione che l’intelligence seguiva dal 2021 e dietro all’attacco ci sarebbe stata una cellula che dirigeva le operazioni sulla sua base in Libano.
Infine, è vietata qualsiasi forma di adesione, condivisione o promozione dell’ideologia del gruppo terroristico, che nel caso di sua realizzazione sarà punita dalla legge con ripercussioni penali. È stata disposta anche la chiusura di tutte le sedi della Fratellanza musulmana. È stato lanciato un avviso per giornalisti, media, social network e per qualsiasi forma di mezzo di diffusione e comunicazione di massa di divieto nel diffondere, condividere o sostenere messaggi di solidarietà o sostegno legati all’organizzazione, avvertendo che simili azioni sarebbero state punite dalla legge.
(Bet Magazine Mosaico, 29 aprile 2025)
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Corte internazionale di giustizia, il J’accuse di Gerusalemme
Al via lunedì mattina alla Corte Internazionale di Giustizia una settimana di udienze sugli «obblighi umanitari» di Israele verso i palestinesi. L’ennesimo tentativo di delegittimare lo Stato ebraico, ha accusato il governo di Gerusalemme. Israele ha scelto deliberatamente di “boicottare” l’iniziativa, definita «un circo» dal ministro degli Esteri Gideon Sa’ar. Nella circostanza il ministro ha anche pronunciato una serie di J’accuse nei confronti delle organizzazioni coinvolte: «Accuso l’Unrwa. Accuso l’Onu. Accuso il suo segretario generale, accuso tutti coloro che strumentalizzano il diritto internazionale e le sue istituzioni per privare il paese più attaccato al mondo, Israele, del suo diritto fondamentale a difendersi».
Quaranta in tutto i paesi e le organizzazioni chiamate a testimoniare da oggi a venerdì prossimo. Durante la prima udienza, un funzionario palestinese ha sostenuto che Israele sta usando il blocco agli aiuti umanitari come «un’arma di guerra». L’Aja non è l’unica sede in cui si discute degli aiuti in queste ore. Sempre stamane, da Berlino, il portavoce del ministero degli esteri tedesco Sebastian Fischer ha chiesto al governo israeliano di consentire «l’ingresso di beni umanitari nella Striscia di Gaza», perché a suo dire «l’urgenza aumenta ogni giorno che passa». È notizia di oggi anche la prossima visita a Londra del primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese Mohammad Mustafa, la prima di un esponente dell’Anp dal 2021. Il rappresentante di Ramallah incontrerà tra gli altri il premier britannico Keir Starmer e il ministro degli Esteri David Lammy.
(moked, 28 aprile 2025)
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Netanyahu si toglie i guanti nella lotta con il capo dello Shin Bet
Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner commenta il botta e risposta tra il capo del governo Netanyahu e il capo dei servizi segreti Ronen Bar.
di Itamar Eichner
Il raro e violento scontro pubblico tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il capo dei servizi segreti interni Shin Bet, Ronen Bar, ha raggiunto un nuovo apice negli ultimi giorni. La Corte Suprema funge da campo di battaglia dove si deciderà se il governo potrà licenziare Bar.
Netanyahu accusa Bar di aver avviato il cosiddetto “Qatar-Gate” solo per impedire la sua destituzione. Bar, invece, sottolinea che le indagini erano iniziate prima che si sapesse che il capo del governo intendeva licenziarlo. Bar vede nella destituzione un tentativo di sabotare le indagini che potrebbero anche incriminare lo stesso Netanyahu.
In una dura dichiarazione giurata alla Corte Suprema, Netanyahu ha rincarato la dose: ha citato consultazioni segrete sulla sicurezza, comprese le riunioni del gabinetto di sicurezza, e ha presentato una versione intransigente che non solo rafforza la sua posizione, ma mira anche a minare in modo mirato la credibilità di Bar.
• Divulgazione dei verbali: una crisi di fiducia senza precedenti
Mai prima d'ora la disputa tra due degli uomini più potenti di Israele – il capo del governo e il massimo responsabile dei servizi segreti interni, del controspionaggio e della lotta al terrorismo – era degenerata in questo modo. Quella che era una divergenza di opinioni professionale si è trasformata da tempo in un'aspra lotta di potere, in cui si tratta di verità o menzogna, di responsabilità o distrazione. Netanyahu accusa Bar nella sua dichiarazione di essere un “bugiardo seriale” che avrebbe gravemente trascurato i suoi doveri prima del massacro del 7 ottobre. Mentre Bar afferma di aver avvertito per tempo dei piani di Hamas e di aver allertato le autorità di sicurezza, Netanyahu ribatte che Bar avrebbe parlato di “prontezza operativa media e nascosta”, volendo così evitare consapevolmente un'escalation – un grave errore, come dimostrato il giorno dell'attacco.
Netanyahu accusa inoltre Bar di non aver avvertito né i responsabili della sicurezza locale né gli organizzatori del festival Nova, per non parlare del ministro della Difesa o del capo del governo stesso. Bar non avrebbe semplicemente riconosciuto la portata della minaccia.
• Lotta tra versioni: “Menzognero, irrealistico”
Con la sua dichiarazione, Netanyahu persegue un obiettivo chiaro: convincere i giudici che si tratta di una questione di versioni contrastanti, senza una base solida per la versione di Bar. Ciò potrebbe non solo relativizzare la sua responsabilità, ma anche creare una base giuridica per la destituzione di Bar, finora bloccata dalla Corte Suprema.
Secondo i media, Bar starebbe comunque valutando di dimettersi a metà maggio. La durezza dell'attacco di Netanyahu potrebbe accelerare questo passo.
Allo stesso tempo, Netanyahu dipinge Bar come un capo della sicurezza che agisce politicamente e che, contrariamente alle sue stesse dichiarazioni, si è impegnato a mantenere la tregua con Hamas. Secondo Netanyahu, Bar si sarebbe espresso contro l'uccisione mirata di leader di alto rango di Hamas come Salah al-Aruri e avrebbe persino definito il leader di Hamas Yahya Sinwar un “leader sobrio”.
• Il tentativo di respingere le accuse personali
Bar accusa inoltre Netanyahu di avergli chiesto di adottare misure di sorveglianza illegali contro i leader del movimento di protesta. Il primo ministro lo nega con veemenza e sottolinea di aver sempre agito nel rispetto della legge. Sarebbe stato piuttosto Bar a non aver impedito la violenza e l'incitamento all'odio nell'ambito delle proteste e a non aver garantito la protezione dei funzionari pubblici.
Rimane tuttavia indiscusso un punto delle accuse di Bar: Netanyahu avrebbe chiesto al capo dello Shin Bet di seguire le istruzioni del primo ministro e non le direttive della Corte Suprema in caso di crisi costituzionale.
• Sull'incitamento all'odio, la sorveglianza e le violazioni della legge
Ronen Bar ha reagito in serata con una dichiarazione ufficiale: tutte le informazioni contenute nella sua dichiarazione giurata sono corrette e documentate da numerosi documenti. Egli accusa Netanyahu di stravolgere i fatti e di distorcerli in modo mirato. Particolarmente grave è l'affermazione di Bar secondo cui Netanyahu avrebbe omesso nella sua versione dei fatti alcune istruzioni operative fondamentali del 7 ottobre, tra cui la chiara direttiva di trasmettere le valutazioni dello Shin Bet al capo di Stato maggiore e al consigliere militare del primo ministro.
Bar ha ribadito che la responsabilità dell'errore strategico nei confronti di Hamas ricade principalmente sulla leadership politica, ovvero sullo stesso Netanyahu, che ha a lungo sostenuto la politica della “tregua in cambio di agevolazioni”. Ha rinnovato la sua richiesta di istituire una commissione d'inchiesta indipendente per fare piena luce sulle cause del fallimento, lontano da qualsiasi influenza politica.
• Il rompicapo della Corte Suprema: la dichiarazione giurata come ultima carta?
La questione centrale rimane come la Corte Suprema valuterà le accuse e le controaccuse e se la divulgazione di protocolli segreti da parte di Netanyahu sarà considerata legalmente ammissibile e politicamente appropriata o come un superamento dei limiti.
Il conflitto rivela una profonda crisi di fiducia tra la leadership politica e le autorità di sicurezza. Quando il capo dello Shin Bet viene pubblicamente diffamato come “bugiardo”, mentre il capo del governo viene accusato di manipolazione, la posta in gioco è molto più alta della semplice vanità personale: sono in gioco le fondamenta dell'apparato di sicurezza israeliano e la fiducia della popolazione.
La lotta di potere potrebbe non solo segnare il destino di Ronen Bar, ma anche influenzare in modo determinante il futuro politico di Benjamin Netanyahu. Una cosa è chiara: un'azione comune in una delle crisi più drammatiche della storia israeliana sembra ormai impossibile tra questi due attori chiave.
• Verso una decisione
Se non ci sarà alcuna via di riconciliazione, è difficile immaginare che la frattura tra Netanyahu e Bar possa essere ricomposta. Resta da vedere se il licenziamento legale di Bar avrà successo o se sarà lui stesso a gettare la spugna prima del tempo. Una cosa è certa: le conseguenze di questa aspra disputa andranno ben oltre il destino personale dei due avversari, influenzando il rapporto tra la leadership politica e l'apparato di sicurezza, la fiducia dell'opinione pubblica e, forse, anche l'esito del processo a Netanyahu.
Allo stesso tempo, ci si chiede se i verbali pubblicati da Netanyahu non siano solo una selezione parziale e se Bar, da parte sua, presenterà documenti che potrebbero dimostrare che era lui a consigliare di combattere la leadership di Hamas, mentre era il primo ministro stesso a frenare.
Una cosa però è innegabile: in uno dei momenti più drammatici della storia israeliana, due dei protagonisti più importanti si sono trovati su fronti opposti. Alla fine resta la domanda: a chi crederanno i giudici e l'opinione pubblica?
E la perdita di fiducia tra Netanyahu e il capo dello Shin Bet sottolinea ancora una volta l'urgente necessità di una commissione d'inchiesta statale indipendente per chiarire le vere cause del fallimento, al di là degli interessi politici. Finora Netanyahu ha impedito con tutte le sue forze la costituzione di una tale commissione e non sembra che la situazione cambierà.
Ma proprio questa escalation del conflitto personale e la diffusione mediatica di protocolli segreti potrebbero alla fine compromettere in modo permanente l'elaborazione del 7 ottobre e il percorso verso la verità. Eppure, all'opinione pubblica israeliana sarebbe stato dovuto soprattutto questo: che tutti i fatti fossero prima sottoposti a una commissione indipendente e imparziale, libera da influenze politiche.
(Israel Heute, 28 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il boicottaggio delle università israeliane dopo il 7 ottobre
Il boicottaggio si manifesta in diversi modi: annullamento di inviti a conferenze, congelamento di nomine, cessazione di collaborazioni accademiche, rifiuto di articoli scientifici per motivi politici, interruzione delle lezioni, rifiuto di partecipare ai processi di promozione dei membri delle facoltà israeliane e boicottaggio radicale di intere istituzioni accademiche.
di Nathan Greppi
Prima del 7 ottobre Ravit Alfandari, ricercatrice presso la Scuola di Lavori Sociali dell’Università di Haifa, ha lavorato con un accademico nord-irlandese per oltre un anno su uno studio riguardante la violenza domestica. Dopo lo scoppio della guerra a Gaza, in un primo momento il collega le ha scritto: “Ti capisco… Anch’io so cosa vuol dire vivere sotto una minaccia”. Ma in seguito l’ha informata di aver firmato una petizione che chiedeva il boicottaggio accademico di Israele.
“Ha detto: ‘Ti stimo molto, ma non ho intenzione di lavorare mai più con te. Non è una cosa temporanea. State commettendo un genocidio a Gaza’”, ha raccontato la Alfandari. La sua testimonianza è apparsa in un lungo articolo pubblicato su Haaretz nell’aprile 2024, assieme a quelle di altri accademici israeliani che dopo il 7 ottobre hanno visto crescere esponenzialmente gli episodi di boicottaggio nei loro confronti. E se per anni i sostenitori del BDS hanno detto di voler prendere di mira solo le istituzioni israeliane e non i singoli individui, dopo il 7 ottobre hanno gettato la maschera, discriminando ed emarginando diversi accademici solo perché israeliani.
• Prima del 7 ottobre
“Prima degli attacchi del 7 ottobre, le università israeliane vantavano ampie e fiorenti partnership accademiche internazionali”, spiega a Mosaico Efrat Aviv, docente associata del Dipartimento di Storia Generale dell’Università Bar-Ilan. “Queste includevano la partecipazione attiva a consorzi di ricerca internazionali, ad esempio nell’ambito del programma Horizon Europe dell’Unione Europea, nonché accordi bilaterali con diverse istituzioni in Europa, Nord America e Asia. In discipline quali le scienze della vita, l’ingegneria e la medicina, le collaborazioni erano in gran parte basate sul merito scientifico, e rimanevano relativamente separate dalle tensioni politiche”.
Dello stesso avviso anche Gerald M. Steinberg, docente emerito di Studi Politici alla Bar-Ilan e presidente del think tank NGO Monitor, il quale ci racconta: “Nelle cosiddette materie STEM, riguardanti la scienza e la tecnologia, vi erano numerosi progetti congiunti con l’estero, anche perché Israele era visto come un paese leader in quest’area. Vi era un forte interesse da parte di ricercatori stranieri nel collaborare con gli israeliani in certi settori”.
• Dopo il 7 ottobre
Secondo Steinberg, dopo il 7 ottobre “l’intensità del boicottaggio accademico contro Israele è cresciuta, colpendo anche le materie scientifiche, tanto che la cooperazione con le università in Europa e in Nord America è crollata, anche solo rispetto a due anni fa. Al punto che anche molti accademici che in precedenza non prendevano sul serio il problema, perché non li colpiva personalmente, oggi stanno cominciando a giudicarlo molto più seriamente”.
Come spiega invece Aviv, “il boicottaggio si manifesta in diversi modi: annullamento di inviti a conferenze, congelamento di nomine, cessazione di collaborazioni accademiche, rifiuto di articoli scientifici per motivi politici, interruzione delle lezioni, rifiuto di partecipare ai processi di promozione dei membri delle facoltà israeliane e persino il boicottaggio radicale di intere istituzioni accademiche. Gli istituti di istruzione superiore in Israele riscontrano anche una crescente difficoltà nell’attrarre studenti internazionali, così come criticità per ricercatori e studenti nel partecipare a conferenze e programmi di formazione all’estero”.
Aggiunge che oltre a coloro che dichiarano apertamente di voler boicottare Israele, “dopo gli attacchi di Hamas e lo scoppio della guerra a Gaza, il mondo accademico israeliano deve affrontare un ‘boicottaggio segreto’. Secondo un rapporto pubblicato dal Samuel Neaman Institute nel dicembre 2024, circa il 50% dei casi di boicottaggio accademico contro Israele vengono condotti di nascosto, senza alcuna dichiarazione esplicita delle loro motivazioni”.
• Testimonianze in prima persona
Occupandosi di Turchia, Efrat Aviv ha toccato con mano l’odio verso Israele: “Alcuni colleghi turchi, naturalmente non tutti, che avrebbero dovuto partecipare a una conferenza internazionale che stavamo pianificando sui 100 anni degli ebrei nella Repubblica turca, sono semplicemente scomparsi dopo il 7 ottobre. Alcuni hanno smesso di rispondere. Altri hanno apertamente elogiato Hamas. Si tratta di accademici che, in modo scioccante, sono diventati veri e propri sostenitori del terrorismo. Coloro che hanno risposto, invece, hanno spesso iniziato i loro messaggi con la richiesta che il cosiddetto genocidio a Gaza finisse, e solo dopo hanno menzionato la possibilità di perseguire la pace anche per gli israeliani. L’ho trovato profondamente inquietante”.
Ai problemi con la Turchia, secondo lei, “si aggiunge l’attività dell’Iran: ci sono stati ripetuti attacchi da parte di hacker e tentativi di compromettere i sistemi informatici accademici. Anche il mio account di posta elettronica universitario è stato preso di mira più volte”.
Anche se dopo il 7 ottobre questi fenomeni sono esplosi, in realtà essi non rappresentano una novità: Gerald Steinberg racconta che “molti di noi hanno subito boicottaggi, in alcuni casi già 10-20 anni fa. Nel mio caso, a volte mi capita che quando propongo degli articoli a delle riviste accademiche, ricevo delle risposte ridicole, del tipo ‘non pubblicheremo questo articolo perché non tieni conto della sofferenza dei palestinesi o dei crimini di guerra israeliani’. Rifiutano di pubblicare gli articoli per ragioni politiche, non accademiche. Alcune volte sono stato invitato a delle conferenze, salvo poi essere informato dagli organizzatori che avevano deciso di annullare il mio invito per un cambio di programma”.
Secondo lui, a risentire di questa deriva sono soprattutto gli accademici israeliani più giovani: “C’è da dire che io sono un membro anziano del corpo docenti, ho lavorato in ambito accademico per quarant’anni, e quindi la mia carriera non risente particolarmente di tutto questo. Ma per i giovani accademici che conosco è molto più dura, perché a causa del boicottaggio gli è più difficile pubblicare i loro articoli e ottenere delle lettere di raccomandazione”.
• Boicottaggio interno
Nell’ultimo ventennio, talvolta sono capitati episodi di accademici israeliani che hanno appoggiato il boicottaggio contro il loro stesso paese. Tuttavia, come spiega Aviv, “questi episodi sono rari all’interno del mondo accademico israeliano. Dal 7 ottobre, gli appelli interni al boicottaggio sono in gran parte scomparsi, sostituiti da un senso generale di solidarietà istituzionale di fronte alla crescente ostilità internazionale. Piuttosto che frammentarsi, la comunità accademica israeliana si è in gran parte unita per resistere ai tentativi di esclusione dal dibattito accademico globale. In altre parole, il boicottaggio interno non è scomparso del tutto, ma ora tiene un profilo più basso”.
• Passare al contrattacco
Avendo il mondo accademico israeliano preso coscienza della minaccia che grava su di esso, non mancano i tentativi di contrastarla: “Oggi ci sono sforzi molto maggiori in Israele e da parte dei nostri alleati all’estero per contrastare i boicottaggi”, spiega Steinberg. “Per farlo, si sta provando ad esempio a fondare nuove riviste, gestite da docenti e ricercatori che non sono antisraeliani, cercando anche finanziamenti da parte di donatori non prevenuti. Ci vorrà un po’ di tempo, ma se queste misure verranno implementate, potremmo ribaltare la situazione”.
Anche Aviv può testimoniare che si stanno adottando delle contromisure: “Al fine di affrontare efficacemente questa pericolosa tendenza, è stata istituita una task force dal Comitato dei Direttori delle Università (VERA in ebraico), che opera utilizzando strumenti legali, sforzi diplomatici e altri mezzi per ridurre il più possibile la portata dei boicottaggi accademici contro le istituzioni e gli studiosi israeliani. E l’Università Bar-Ilan ha un comitato apposito per affrontare la questione dei boicottaggi accademici, elaborando delle strategie per combatterli. Inoltre, c’è una task force di docenti volontari, del quale faccio parte, che lavora per fornire supporto e indicazioni. Si tengono numerosi workshop e seminari sull’argomento, concentrandosi sulle strategie per contrastare il boicottaggio. È diventato, per molti versi, un argomento accademico a sé stante”.
• Effetti a lungo termine
Sul lungo termine, Steinberg è ottimista sul fatto che i boicottaggi avranno la peggio, anche perché chi li mette in atto danneggia i suoi stessi interessi: “Israele è ancora all’avanguardia nell’innovazione, e credo che alcuni ricercatori, ad esempio nel campo delle scienze biologiche, si stanno rendendo conto che boicottando la cooperazione con gli atenei israeliani come l’Istituto Weizmann e il Technion, danneggiano le loro stesse ricerche”.
Più pessimista il punto di vista di Aviv: “La ricerca scientifica in Israele dipende dalle sue connessioni globali; è l’ancora di salvezza senza la quale la scienza israeliana non ha futuro. La ricerca fa parte di una catena di valori che include istituzioni accademiche e fondazioni di ricerca, e la nostra inclusione in questo sistema si basa sulla nostra capacità di impegnarci nell’arena globale. Se le attuali tendenze al boicottaggio persistono, le conseguenze a lungo termine per il mondo accademico israeliano potrebbero essere gravi. L’indebolimento dei legami globali con la ricerca minaccia non solo il nostro prestigio accademico, ma anche l’economia israeliana basata sull’innovazione. Senza un impegno costante nei consorzi internazionali, nella mobilità post-dottorato e nelle infrastrutture di ricerca congiunte, le università israeliane rischiano di diventare sempre più isolate”.
(Bet Magazine Mosaico, 28 aprile 2025)
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La narrazione dell’inganno sulla “violenza dei coloni”. È ora che parlino i fatti
Una ricerca di “Regavim” smonta completamente i dati presentati dall’ONU e dalle organizzazioni di sinistra, e il dramma presentato dallo Shin Bet. I dati della polizia dell’ultimo decennio fanno esplodere anche il pallone gonfiato attorno all’affermazione della “scarsa applicazione della legge” contro la criminalità nazionalista ebraica.
di Kalman Liebskind
Dopo anni di campagna organizzata e finanziata per creare il fenomeno della “violenza dei coloni”; dopo grandi investimenti di paesi stranieri in organizzazioni locali di sinistra per alimentare questa campagna; dopo rapporti del monitoraggio dell’ONU che hanno diffuso leggende su ciò che accade qui in tutto il mondo; dopo che l’amministrazione americana è stata trascinata e ha imposto sanzioni draconiane a sfortunati israeliani, come se fossero capi di un sindacato criminale sudamericano.
Dopo che i capi dello Shin Bet hanno contribuito a gonfiare gli eventi presentandoli come un pericolo terribile e spaventoso per tutti noi; dopo che il capo della Divisione ebraica del Mossàd ha fatto ulteriori cinquanta passi avanti – come si è sentito questa settimana nelle registrazioni portate da Ayala Hasson su Kan 11 – quando giustifica l’arresto di coloni anche se non ci sono prove di violenza contro di loro; dopo che abbiamo aiutato vari elementi nel mondo a dimenticare che il sangue ebraico viene versato come acqua, e nella guerra che ci è stata imposta, gli arabi non sono necessariamente le vittime; dopo tutto questo, è giunto il momento di far parlare i fatti.
Uno studio completo del movimento Regavim ha esaminato i dati, i rapporti e le affermazioni, e in un rapporto lungo e dettagliato fa a pezzi questa falsa accusa. Il personale di Regavim ha analizzato, riga dopo riga, il database dell’ONU, i falsi rapporti dell’Autorità Palestinese e le pubblicazioni delle organizzazioni israeliane di sinistra, li ha confrontati con gli eventi sul campo e con i dati della polizia israeliana dell’ultimo decennio, e ha presentato un documento sconvolgente.
Sì, ci sono ebrei violenti in Giudea e Samaria, come ci sono ladri a Nes Ziona e falsificatori di assegni a Nahariya. Ma troppi soggetti con interessi in Israele e nel mondo hanno cercato di raccogliere questi pochi eventi e di convincere che si tratta di un fenomeno che richiede decisioni politiche. In passato ho fatto qui un piccolo esercizio. Ho controllato quanti episodi di violenza si verificano all’anno tra i coloni e quanti reati sessuali si verificano all’anno tra i cittadini di Tel Aviv. Ho dimostrato che in proporzione alla popolazione, il problema dei crimini a sfondo sessuale a Tel Aviv è più grande del problema dei crimini nazionalisti commessi dagli ebrei in Giudea e Samaria, eppure nessuno si occupa dei crimini a sfondo sessuale di Tel Aviv come fenomeno preoccupante.
Due anni e mezzo fa ho anche rivelato qui l’elenco degli episodi violenti commessi dai coloni, così come raccolto dal Servizio di sicurezza generale. In alcuni casi, si è scoperto, non si trattava affatto di episodi violenti. In altri, non era necessariamente la parte ebraica ad essere violenta. Eppure, in qualche modo, gli eventi sono stati tutti confezionati insieme in un pacchetto che ha segnato i coloni come un gruppo con un potenziale di violenza molto pericoloso.
Per esempio, in quell’elenco figurava una “manifestazione di attivisti di estrema destra sabato sera, fuori dalla casa del ministro della Giustizia a Tel Aviv”. C’era anche un rapporto su un “colono arrestato per aver insultato un poliziotto”. C’erano “eventi di attrito” che dimostravano che ogni volta che ebrei e arabi litigavano tra loro, a volte anche senza alzare le mani, la cosa veniva registrata dallo Shin Bet come un atto di violenza da parte ebraica. Un esempio? Un rapporto su “attrito fisico tra 100 palestinesi e 100 coloni”, che si è concluso con un colono ebreo ferito, è stato conteggiato come un attacco nazionalista ebraico. Perché? Perché è così.
Come ho detto, l’ho pubblicato in passato. I dati raccolti da Regavim, che verranno esposti qui di seguito dimostreranno ancora di più quanto sia pericolosa e falsa la campagna mondiale che si sta conducendo su questa questione.
Cominciamo con l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che compila rapporti periodici di monitoraggio sulla “violenza dei coloni”. Inoltre, sotto il titolo “violenza dei coloni”, il sito web dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) presenta un database aggiornato di presunti eventi violenti compiuti da ebrei e palestinesi, che si sono conclusi con lesioni fisiche.
Alla base di questo database, l’ONU mantiene e aggiorna regolarmente una tabella Excel che elenca “incidenti che coinvolgono coloni israeliani e altri cittadini israeliani” verificatisi “in Cisgiordania” o in Israele (non a Gaza) dal gennaio 2016 all’aprile 2023. Regavim ha analizzato la tabella, che descrive 8.332 presunti incidenti violenti verificatisi in questo periodo, e ha scoperto che si tratta di una raccolta di dati falsi, gonfiati e con una piccola connessione con la realtà. L’elenco dell’ONU distingue tra 2.047 incidenti violenti contro israeliani e 6.285 incidenti violenti contro palestinesi. Un numero elevato, vero? Ma la lettura dell’elenco rivela che la maggior parte assoluta non descrive alcuna violenza legata ai coloni, certamente non violenza iniziata dai coloni contro i palestinesi.
Così, dei circa 6.285 incidenti di violenza contro i palestinesi che si sarebbero verificati in questo periodo, 1.704 non si sono verificati negli insediamenti ma a Gerusalemme. Altri 1.361 incidenti sono visite di ebrei al Monte del Tempio o scontri sul Monte del Tempio tra forze di sicurezza e musulmani che si sono ribellati sul posto. Nessun colono è collegato a questa storia, eppure l’ONU conta ogni visita di un ebreo al Monte del Tempio nella categoria “violenza dei coloni”.
Continuiamo. Dietro 1.613 rapporti di presunti incidenti violenti in Giudea e Samaria, c’è una denuncia generale come “ingresso abusivo nei terreni” nell’ambito di escursioni e gite, denunce che non contengono attacchi o danni a proprietà o persone. Altri 96 casi riguardano azioni sul terreno effettuate dallo Stato di Israele – pavimentazione di strade, posa di infrastrutture e simili – in cui non c’è violenza e non ci sono coloni. Altri 2.039 reclami riflettono affermazioni di attacchi o danni a proprietà senza lesioni fisiche.
Se questi sono davvero eventi reali, e vale la pena verificarlo, sono eventi spiacevoli che non dovrebbero accadere, ma non avrebbero dovuto essere inclusi in questo database dell’ONU che pretende di raccontare le lesioni fisiche. Dopo aver sottratto tutti i rapporti che non hanno a che fare con la violenza dei coloni, ci restano 833 incidenti, solo circa il 10% dell’elenco dell’ONU. Ma qui non abbiamo ancora finito.
Quei 833 incidenti si sono verificati, presumibilmente, in sette anni e mezzo. 404 di essi raccontano di “coinvolgimento in uno scontro”, cioè di un evento che coinvolge due parti, e non c’è determinazione su chi l’ha iniziato. Inoltre, sebbene l’elenco degli eventi pretenda di presentare incidenti avvenuti tra gli arabi della Giudea e Samaria e i cittadini israeliani, in circa 117 dei 833 incidenti in questione gli editori dell’elenco notano che la parte offensiva sono “forze di sicurezza”, non cittadini israeliani.
Volete sentire qual è l’assurdità più grande? Bene, l’esame dei casi rivela che in decine di essi non si tratta affatto di violenza dei coloni, ma al contrario, di attacchi terroristici di arabi contro coloni, attacchi che si sono conclusi con il ferimento o l’eliminazione del terrorista. Volete un esempio? I terroristi hanno lanciato rocce contro veicoli israeliani sulla Strada 60. Dal fuoco difensivo di uno dei passeggeri è rimasto ferito uno dei terroristi. Nel rapporto dell’ONU, questo evento è stato contato come violenza dei coloni.
Un altro esempio? I rivoltosi arabi hanno bloccato il veicolo di un israeliano che viaggiava sulla strada principale della Samaria, hanno attaccato il veicolo e hanno rotto il finestrino. Quell’israeliano, il cui veicolo è stato bloccato anche da un’ambulanza palestinese, ha sparato per difendere la sua vita e ha ucciso uno dei rivoltosi. All’ONU hanno contato questo evento come “violenza dei coloni”. Ed ecco un altro esempio. Un terrorista palestinese è arrivato all’ingresso dell’insediamento di Carmei Tzur e ha accoltellato una guardia di sicurezza alla mano. Un’altra guardia che era con lui ha sparato al terrorista e lo ha ucciso. Il rapporto riassume anche questo incidente come violenza dei coloni.
Questi sono solo esempi. Ce ne sono altri. Altri incidenti classificati come violenza dei coloni, sebbene chiaramente non lo siano, sono per esempio incidenti stradali in cui sono rimasti feriti residenti arabi della Giudea e Samaria, e persino un incidente in cui un lavoratore arabo è stato morso da un cane nell’insediamento in cui lavorava.
Un altro database aggiornato dell’ONU presenta il numero di palestinesi e israeliani uccisi o feriti in episodi di violenza in Giudea e Samaria, Gerusalemme Est e Gaza che hanno richiesto cure mediche. Secondo le note esplicative allegate, il conteggio include anche morti e feriti in incidenti legati al conflitto israelo-palestinese, avvenuti in quello che chiamiamo “piccola Israele” e che hanno coinvolto arabi della Giudea e Samaria. Il monitoraggio è iniziato nel 2017 e nel corso degli anni ha incluso incidenti degli anni passati, a partire dal 2006.
Il database dell’ONU fa una presunta distinzione tra violenza contro coloni e cittadini israeliani e violenza contro palestinesi. Ma cosa? I risultati dell’indagine di Regavim hanno rivelato che più del 98% dei casi collegati alla pagina intitolata “violenza legata ai coloni” non sono collegati ai coloni e nemmeno ai cittadini che non sono coloni, ma a scontri dei palestinesi con le forze di sicurezza. Questo vale per 6.802 dei 6.868 casi di morte di palestinesi, e per 155.795 dei 158.608 casi di feriti palestinesi. Solo 57 casi di morte di palestinesi (come detto, su 6.868) sono attribuiti ai “coloni”.
E non solo, anche qui il database conta come vittime della “violenza dei coloni” palestinesi che sono stati feriti o uccisi in reazione e durante attacchi e attentati che loro stessi hanno iniziato e compiuto contro israeliani. È incredibile quanto facilmente queste bugie possano essere vendute al mondo, senza pagarne il prezzo.
Dopo aver esaminato gli elenchi assurdi dell’ONU, che sembrano responsabili dell’alimentazione di un’alta percentuale del discorso sulla “violenza dei coloni” nel mondo, Regavim si è rivolta allo Shin Bet e alla polizia israeliana, chiedendo l’elenco di tutti gli atti di criminalità nazionalista avvenuti nello Stato di Israele nel decennio tra il 2014 e il 2024. E qui va sottolineato che in modo incomprensibile, non c’è alcun organismo ufficiale in Israele che pubblichi apertamente e in modo trasparente l’elenco di questi eventi. I politici si esprimono su di essi, i capi dello Shin Bet ne mettono in guardia, gli investigatori della polizia li esaminano, ma nessuno è disposto a presentare l’elenco al pubblico, in modo che possiamo giudicare da soli di cosa si tratta e non dobbiamo vivere di campagne finanziate da stati con interessi.
In ogni caso, lo Shin Bet ha risposto a Regavim che la legge sulla libertà di informazione non si applica a loro, quindi non intendono fornire dati. La polizia israeliana, invece, ha fornito una grande raccolta di dati, secondo varie classificazioni, e questi raccontano una storia completamente diversa da quella che abbiamo sentito finora. Tra il 2014 e il 2024, sono stati aperti in totale 537 fascicoli di indagine contro sospetti per crimini nazionalisti ebraici in Giudea e Samaria. E poiché in ogni fascicolo possono essere registrati più reati attribuiti allo stesso sospetto per lo stesso caso che ha portato all’apertura del fascicolo, dietro questi 537 casi ci sono 1443 reati. 335 di questi reati riguardano il sospetto di atti di violenza su base nazionalista – in tutta la gamma di gravità, sia lievi che gravi – e altri 885 riguardano il sospetto di commissione di reati che non comportano violenza. I casi rimanenti riguardano reati accessori che non sono affatto rilevanti per il settore.
Per dare un’idea della differenza tra ciò che accade tra gli ebrei e ciò che accade tra gli arabi, diciamo che secondo i dati dell’IDF, solo negli anni 2019-2022, cioè in meno della metà del periodo misurato per gli ebrei, sono stati registrati 24.808 casi di lancio di pietre e bottiglie incendiarie da parte degli arabi, e questo numero non include gravi attentati, sparatorie, collocazione di ordigni e simili.
Ora veniamo al cuore della questione. Conoscete l’affermazione secondo cui lo Stato di Israele non fa rispettare la legge contro i cittadini israeliani in Giudea e Samaria? Bene, guardate i numeri dell’ultimo decennio. Il 9% dei casi di criminalità nazionalista ebraica in Giudea e Samaria in cui è stata aperta un’indagine è sfociato in un atto d’accusa. Vi sembra troppo poco?
Prestate attenzione ai seguenti dati: per quanto riguarda la criminalità nazionalista ebraica in tutto il paese, cioè non in Giudea e Samaria, il 10% dei casi è sfociato in un atto d’accusa. Un dato simile.
Al contrario, per quanto riguarda la criminalità nazionalista araba in tutto il paese, solo il 3% dei casi è sfociato in un atto d’accusa. In altre parole, la percentuale di casi di criminalità nazionalista ebraica in Giudea e Samaria che sfocia in un atto d’accusa è tre volte superiore alla percentuale di casi di criminalità nazionalista araba nello Stato di Israele. Cioè, non solo non c’è una scarsa applicazione della legge verso gli ebrei in Giudea e Samaria, ma è vero il contrario.
Ora parliamo di condanne: Anche se contro gli ebrei in Giudea e Samaria sono stati presentati, come detto, in percentuale, tre volte più atti d’accusa per crimini nazionalisti rispetto agli arabi che hanno presumibilmente commesso reati simili in tutto il paese, i dati sulle condanne mostrano che la procura si è affrettata troppo ad accusare gli ebrei.
E in numeri, il 56% degli arabi accusati in tutto Israele di reati di criminalità nazionalista è stato condannato, rispetto al 36% degli ebrei accusati in tutto Israele di reati di criminalità nazionalista e condannati. E per quanto riguarda i reati di criminalità nazionalista degli ebrei in Giudea e Samaria, la percentuale di condanne è ancora più bassa ed è solo del 31%.
Cosa significa? Che non solo vengono presentati molti più atti d’accusa contro gli ebrei, ma questi vengono condannati in percentuali molto più basse. Cioè, la procura non li tratta con i guanti di velluto come spesso si sostiene, ma al contrario, presenta atti d’accusa contro di loro anche quando probabilmente non avrebbe dovuto farlo, cosa che è consuetudine definire nei nostri luoghi come “applicazione eccessiva della legge”.
È questa una resa della procura alla campagna scatenata contro i coloni? Sono le descrizioni dello Shin Bet sul potenziale disastro dei coloni violenti che portano la procura a presentare molti atti d’accusa anche in casi limite? Non si può dire. Ma i dati parlano da soli.
E forse, qualcuno potrebbe sostenere, c’è molta più violenza dei coloni ma gli arabi in Giudea e Samaria non si preoccupano di presentare denunce su ciò che gli ebrei fanno loro? Ebbene, secondo l’organizzazione di sinistra Yesh Din, nel 2024 il 66% delle vittime palestinesi ha rinunciato al diritto di presentare una denuncia contro gli israeliani che li hanno danneggiati.
Vi sembra molto? Bene, un rapporto dell’Istituto di ricerca e informazione della Knesset ha stabilito che nel 2023, il tasso di segnalazione alla polizia è di circa il 26% del totale dei reati. Cioè, il 74% delle vittime di reati in tutto Israele non presenta alcuna denuncia alla polizia. Pertanto, il tasso di presentazione delle denunce da parte degli arabi in Giudea e Samaria non è inferiore a quello del resto del paese, forse è persino un po’ più alto.
E forse, le cose dette dal sovrintendente capo Avishay Moalem, comandante dell’IMR di Shai, nel marzo 2024 nella sottocommissione della Knesset per la Giudea e Samaria danno una risposta a molte domande che sorgono. “Dall’inizio della guerra c’è stato un aumento del numero di casi e denunce da parte di palestinesi e anarchici, con 191 casi aperti, di cui 90 si sono rivelati false denunce nel settore meridionale di Hebron. La maggior parte delle denunce sono denunce mirate di organizzazioni di estrema sinistra che si trovano a Tel Aviv e riferiscono di violenze da parte di attivisti di destra. Nel settore della Valle del Giordano stiamo parlando di 70 eventi, di cui anche il 50% si è rivelato essere false denunce“.
Bisogna capire che l’enorme divario tra la realtà e ciò che racconta la campagna mondiale di calunnie non si è creato dal nulla. In Israele operano organizzazioni di sinistra, come Yesh Din e B’Tselem – finanziate con ingenti somme dall’Unione Europea, da paesi europei e da fondazioni internazionali – che alimentano il fuoco mondiale e investono molto per costruire la narrativa della “violenza dei coloni”.
Alcuni di loro raccolgono fondi in nome di quella storia inventata che hanno costruito e che hanno anche un interesse commerciale ad alimentare. Loro da una parte, e l’ONU dall’altra, sono in gran parte responsabili delle leggende popolari che escono da qui. Loro e i palestinesi, naturalmente.
Quindi, come abbiamo iniziato, per il bene di chi è interessato ai fatti, è importante metterli sul tavolo. Quindi sì, ci sono alcune decine di casi significativi all’anno di reati di criminalità nazionalista commessi da ebrei, la maggior parte dei quali sono reati contro la proprietà, una minoranza sono lesioni fisiche, tutto questo mentre il terrorismo arabo, il vero terrorismo, colpisce gli israeliani – soldati e civili, uomini, donne e bambini – in proporzioni inconcepibili.
Bisogna guardare alle proporzioni, alle differenze nei numeri e al numero di vittime ebree rispetto a quelle arabe, per chiedersi chi ha interesse a farci occupare di alcune decine di criminali ebrei invece della gigantesca fabbrica di omicidi araba che opera parallelamente a loro.
Le forze dell’ordine devono occuparsi di ogni criminale, ma quando il capo dello Shin Bet Ronen Bar e il capo di stato maggiore Hertzi Halevi arrivano alla riunione del gabinetto ristretto nell’ottobre 2023, un attimo dopo lo scoppio della dura guerra, e trovano opportuno avvertire il gabinetto ristretto proprio della violenza dei coloni, capite da soli a chi servono queste dichiarazioni.
(Kolòt - Morashà, 28 aprile 2025)
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Contesa sulla sepoltura dei resti del 7 ottobre
di Michelle Zarfati
A un anno e mezzo dal massacro del 7 ottobre 2023, centinaia di resti umani non sono ancora stati identificati. Presso il Centro Nazionale per le Vittime delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) a Camp Shura, numerosi sacchi contenenti parti del corpo e altri resti, attendono ancora una degna sepoltura. Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi mesi, molti di questi resti rimangono, ancora oggi, senza identificazione.
Un rabbino interno all’ala militare ha richiesto ulteriori test del DNA, ma il Ministero dei Servizi Religiosi ha rifiutato, sostenendo che ciò rappresenterebbe uno spreco di risorse e potrebbe essere considerato una “profanazione dei morti”, basandosi sull’opinione del dottor Chen Kugel, capo dell’Istituto di Medicina Legale. Il Rabbino Capo David Yosef ha, invece, autorizzato ulteriori test per confermare le identità e consentire una sepoltura appropriata. L’IDF ha stanziato un budget specifico per questa operazione di identificazione e ha ricevuto il supporto della polizia israeliana.
Il Ministero dei Servizi Religiosi, guidato dal direttore Yehuda Avidan, si è tuttavia opposto alla ripetizione dei test. Il Ministero sta considerando la possibilità di seppellire i resti in una fossa comune senza singola identificazione, decisione che ha suscitato una forte opposizione all’interno dell’IDF e del rabbinato. La decisione finale è attesa dalle discussioni di un comitato congiunto, composto dal Ministero dei Servizi Religiosi, dal Ministero della Salute, dall’Istituto di Medicina Legale e dalla polizia, attualmente in corso.
(Shalom, 28 aprile 2025)
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Rav Di Segni: “Noi presenti ai funerali del Papa per rispetto. Da parte sua, c’è stato un vuoto di empatia: nessune condoglianze dopo il 7/10”
di Nina Prenda
Rav Riccardo Di Segni, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, è stato ospitato nella trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa. In studio, a Rav Riccardo Di Segni è stato chiesto come abbia vissuto l’altalenante dinamica che ha caratterizzato le inizialmente mancate condoglianze per la morte del Papa da parte del Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. Rav Di Segni ha detto: “Non bisogna fare confusione tra due ruoli incomparabili. Lui è il Primo Ministro dello Stato di Israele mentre noi siamo la comunità ebraica, quella di Roma, presente in questa città da prima che venissero i cristiani. Non è un rapporto molto semplice quello con la Chiesa cattolica, è una storia di contrasti ed amicizia. Noi dal nostro punto di vista locale vediamo le cose vivendo in mezzo ai cristiani”.
Bruno Vespa fa notare che quando il Papa parlò di genocidio, questo suscitò il disappunto di Netanyahu e Noemi Disegni, la Presidente dell’UCEI – ricorda Vespa – disse che lei avrebbe avuto qualche difficoltà ad invitare il Papa al Tempio. “Lì c’è stato un momento di frattura con la Chiesa?” chiede Vespa a Rav Di Segni.
“Il rapporto che ha avuto questo Papa con la comunità ebraica è un rapporto molto complesso, perché all’inizio ha creato una grande amicizia e poi è stato capace di smontare questo rapporto con una serie di interventi – non soltanto con quell’espressione impropria usata – che ci hanno lasciato molto perplessi. Però un conto è il rapporto con un Papa per alcune sue posizioni in un momento della sua vita, un altro è il rapporto della comunità ebraica di Roma con la cristianità e con i cristiani in mezzo ai quali noi ebrei viviamo, conviviamo, discutiamo. C’è il momento della vita che è il momento della discussione, del dialogo, che non può essere qualcosa di finto, nel dialogo ci si scambiano opinioni, anche quelle molto differenti; e poi c’è il momento della morte nella quale si rispetta il dolore. Questo è quello che abbiamo voluto fare.
Parlando del diffondersi dell’antisemitismo, Rav Di Segni ha detto: “C’è stata una commistione, anche nei massimi vertici, del punto di vista religioso con il punto di vista politico. Poco prima dell’ultimo Natale il Papa si è recato in aula Nervi a pregare dinnanzi a un presepe. Un presepe palestinese nel quale c’era l’immagine di un bambinello, messa anche molto precocemente perché erano gli inizi di dicembre, avvolto in una kefiah. Questo è stato un chiaro segno di una scelta di parte. Da un punto di vista religioso e teologico, dire che Gesù fosse un arabo-palestinese è tremendo. Gesù era un bambino ebreo della Terra di Israele. Questa commistione di politica e religione con segnali equivoci è qualcosa di pericoloso”, ha detto.
Infine, Bruno Vespa chiede a Rav Di Segni se secondo lui a Gaza non si sia andati oltre il necessario. “Il problema da parte nostra è stato che c’è stata una mancanza di empatia” dice il rabbino capo. “Noi abbiamo apprezzato il fatto che il Papa chiamasse ogni giorno i parrocchiani della piccolissima comunità cristiana di Gaza, ma non ci risulta che abbia mai fatto una telefonata a un rabbino di Israele per esprimere condoglianze riguardo a quello che era successo”.
Cioè sul 7 ottobre lui è stato sempre silenzioso?
“Non c’è stata alcuna espressione diretta, alcuna comunicazione. In un rapporto di bella amicizia come quello che si era creata, si è sentito un vuoto”.
(Bet Magazine Mosaico, 28 aprile 2025)
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La Pasqua e il sangue dell’agnello
di Wim Malgo (1922-1992)
«Il Signore disse ad Abramo: “Sappi che i tuoi discendenti saranno stranieri in una terra che non è loro, dove saranno schiavi e maltrattati per quattrocent'anni. Ma io punirò la nazione che li schiavizzerà, e dopo essi usciranno con grandi ricchezze”» (Genesi 15,13-14).
Uno degli eventi più importanti nella storia di Israele fu l'adempimento della promessa fatta da Dio ad Abramo riguardo alla redenzione dei suoi discendenti. Proprio come nel Paradiso, si trattò di una profezia diretta dalla bocca di Dio, senza l'intervento di un profeta. Sono convinto che sia stato Dio stesso a dirlo, sia ad Adamo nel paradiso che ad Abramo, perché, senza menzionarlo espressamente, profetizzò il sangue della riconciliazione e della redenzione, sì, il suo stesso sangue santo, che avrebbe versato per noi attraverso Gesù Cristo nella pienezza dei tempi. Questo perché nel Nuovo Testamento si dice chiaramente:
«Dio era in Cristo e ha riconciliato il mondo con sé stesso, non imputando agli uomini i loro peccati e ponendo in mezzo a noi la parola della riconciliazione. Noi siamo dunque ambasciatori di Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro; vi supplichiamo nel nome di Cristo: siate riconciliati con Dio! Egli ha fatto cadere su di sé la nostra colpa, per fare di noi un corpo senza peccato, affinché noi potessimo diventare i giustizia di Dio in lui» (2 Corinzi 5,19-21).
In primo luogo, il Signore parlò ad Abramo della redenzione della sua progenie dall'Egitto, dalla terra della schiavitù. Il fatto che in Genesi 15,14 egli parli solo dell'esodo del futuro Israele, senza menzionare il mezzo di questa redenzione - il sangue - deriva probabilmente dal fatto che il Dio santo e giusto soffriva già da tempo per il peccato degli uomini. Dobbiamo infatti considerare che Noè visse ancora 58 anni con Abramo, e questo avvenne nel periodo di cui è scritto:
«Quando il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno e pensiero del loro cuore era sempre e solo malvagio, si pentì di aver creato gli uomini sulla terra e si rattristò profondamente nel suo cuore» (Genesi 6,5-6).
E poi Dio iniziò una nuova umanità con Noè e i suoi discendenti, eliminando la vecchia umanità con il diluvio universale. È significativo ciò che Noè fece per primo quando, dopo che la terra si fu asciugata, uscì dall'arca con i suoi cari: versò sangue offrendo un olocausto su un altare: «Noè uscì con i suoi figli, con sua moglie e con le mogli dei suoi figli, con tutti gli animali selvatici, con tutto il bestiame, con tutti gli uccelli e con tutti i rettili che strisciano sulla terra; tutti uscirono dall'arca, ciascuno secondo la sua specie.
Noè costruì un altare al Signore e prese tutti gli animali puri e tutti gli uccelli puri e offrì olocausti sull'altare (Genesi 8,18-20).
Anche qui il Signore non menziona l'essenziale, il sangue dell'espiazione, perché voleva versare il proprio sangue attraverso suo Figlio Gesù Cristo nell'adempimento di questi eventi profetici.
Ma anche la nuova umanità, il cui capostipite era Noè, fallì ben presto, e così Dio confuse le loro lingue e disperse gli uomini in tutti i paesi. Conosciamo la storia della torre di Babele (Genesi 11). In seguito Dio scelse Abramo (Genesi 12), che, come già detto, visse ancora 58 anni con Noè. Noè visse molto a lungo: 950 anni (Genesi 9,29).
In Abramo Dio scelse nuovamente una nuova umanità:
«Il Signore disse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti mostrerò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, e renderò grande il tuo nome; e tu sarai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno; e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,1-3).
Quando Abramo offrì un sacrificio al Signore in Genesi 15, senza che fosse menzionato lo spargimento di sangue, nello stesso capitolo si legge: «Tu andrai in pace dai tuoi padri e sarai sepolto in buona età. Ma essi non torneranno qui prima che siano passate quattro generazioni, perché la malvagità degli Amorei non è ancora giunta al culmine. Quando il sole fu tramontato e fu buio, ecco un forno fumante e una fiamma di fuoco che si levava tra gli animali divisi» (vv. 15-17).
Molti secoli dopo, la redenzione di Israele, che il Signore stesso aveva profetizzato ad Abramo quella notte, si compì in modo meraviglioso. Tutto Israele, attraverso l'evento pasquale descritto in Esodo 12, divenne una potente forza profetica elementare del sangue, quando il Signore comandò: «Ma il sangue sarà per voi un segno...» (v. 13).
In quel momento, Dio Signore manifestò per la prima volta a Israele il sangue della riconciliazione e della redenzione, indicando profeticamente l'unico e eterno spargimento di sangue di Gesù sulla croce. Non dobbiamo perdere di vista un fatto importante per l'adempimento odierno della profezia biblica: con Abramo, infatti, Dio iniziò qualcosa di completamente nuovo: iniziò la storia di Israele e con essa la storia del popolo dal quale sarebbe venuto Gesù, l'Agnello!
«La salvezza viene dai Giudei», dice il Signore in Giovanni 4:22.
Abramo visse nel 1948 dopo il primo Adamo. I discendenti di Abramo, il neonato Israele, ricominciarono ad apparire nel 1948, 1948 anni dopo l'ultimo Adamo, Gesù Cristo. Era il 14 maggio 1948. Questa è una delle meravigliose sfumature della simmetria delle profezie bibliche nei grandi periodi di tempo.
Circa 700 anni dopo l'alleanza divina e la promessa ad Abramo, questa si adempì con la miracolosa fuga di Israele dalla schiavitù in Egitto. Dio rese possibile l'impossibile attraverso il sangue di un agnello, o meglio di molti agnelli, che con il loro sacrificio e il loro spargimento di sangue prefiguravano profeticamente l'Agnello di cui Giovanni Battista avrebbe poi gridato:
«Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo!» (Giovanni 1,29).
Conosciamo la storia di Israele prima della sua partenza: schiavo del faraone d'Egitto, aveva gridato a Dio, ed Egli lo ascoltò e disse a Mosè e ad Aronne:
«Dite a tutta la comunità d'Israele: Il decimo giorno di questo mese, ogni capofamiglia prenda un agnello, un agnello per ogni casa. [Qui viene spiegato il significato profetico di Gesù, che era anche l'adempimento della profezia di Dio ad Abramo nei tempi antichi]. Se in una casa non sono sufficienti per un agnello, si unisca al suo vicino più vicino, secondo quanto possiede, in modo che possano mangiare un agnello. Prendete un agnello senza difetti, maschio, di un anno. Lo prenderete dalle pecore o dalle capre e lo custodirete fino al quattordicesimo giorno di questo mese. Allora tutta la comunità di Israele lo immolerà verso sera. Prenderanno del suo sangue (qui Dio rivela il sangue!) e lo spargeranno sui due stipiti e sull'architrave delle case dove lo mangeranno, e quella notte ne mangeranno la carne, arrostita al fuoco, con pane azzimo e con erbe amare. Non lo mangerete crudo né bollito, ma arrostito al fuoco, con la testa, le cosce e le interiora. Non ne lascerete nulla fino al mattino; se qualcosa ne resterà fino al mattino, lo brucerete nel fuoco. Lo mangerete così: sarete con la cintura ai fianchi, con le sandali ai piedi e il bastone in mano; lo mangerete in fretta; è la Pasqua del Signore. In quella notte io passerò attraverso il paese d'Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d'Egitto, sia uomo che animale, e farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto. Io sono il Signore. Ma il sangue sarà per voi un segno sulle case dove vi trovate: quando vedrò il sangue, passerò oltre e non vi colpirà il flagello che distrugge quando colpirò l'Egitto» (Esodo 12,3-13).
Era giunta la notte della liberazione per Israele! Un nuovo giorno stava sorgendo:
Israele, in quanto popolo profetico, è chiamato a rappresentare profeticamente tutta la potente forza del sangue e allo stesso tempo ad adempiere la promessa fatta da Dio ad Abramo. Tutto l'Egitto, che fino ad allora aveva schiavizzato Israele, è ora sotto il giudizio divino. Nessuno può sfuggire a questo giudizio. Solo questa decima piaga, in cui ogni primogenito fu colpito, riportò gli egiziani alla ragione con orrore:
«Poiché in quella notte io passerò per il paese d'Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d'Egitto, sia uomo che animale, e farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto, io, il Signore» (Esodo 12,12).
Al popolo d'Israele in Egitto, invece, fu offerta la riconciliazione e la redenzione, se fossero stati disposti a: sacrificare l'agnello al loro posto prendere il sangue dell'agnello e spargerlo mangiare l'agnello sacrificato non lasciare nulla dell'agnello sacrificato.
Tutto questo è una rappresentazione profetica della situazione in cui ci troviamo, vivendo tutti in «Egitto», in un mondo perduto, sottoposto al giudizio divino. Non illuderti, perché il mondo intero è davvero in grave pericolo. Gli egiziani di allora adoravano gli idoli e li servivano. Lo stesso vale oggi. L'uomo «illuminato» del XXI secolo ha i suoi idoli moderni.
Ma il vero motivo per cui l'Egitto di allora andò in rovina fu Israele, proprio come ai nostri giorni:
il Terzo Reich è caduto a causa dei suoi crimini contro Israele. L'Israele di oggi è per tutte le nazioni il segno sul muro, come allora in Egitto. Il profeta Gioele dice:
«Il Signore ruggirà da Sion e farà udire la sua voce da Gerusalemme, e il cielo e la terra saranno scossi» (Gioele 4, 16).
Il mondo intero sarà giudicato in base a Israele. Allora, in mezzo a quel terribile caos giudiziario, fu annunciata la redenzione, la salvezza, attraverso l'Agnello e il suo sangue versato, proprio come oggi. «Ecco l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo» (Giovanni 1,29). Questo risplendé profeticamente in quella notte egiziana.
Gesù Cristo è chiamato Agnello di Dio per tre ragioni fondamentali:
È chiamato Agnello per rivelarci la sua natura. Sappiamo bene che l'agnello è immagine di innocenza e purezza. Così Gesù è vero uomo in tutte le cose: tentato come noi, ma senza peccato. Che egli sia diventato veramente uomo di carne e sangue come tutti gli altri, lo riconosciamo dalla rivelazione della sua profonda umanità: Ha versato lacrime (Ebrei 5,7); ha avuto fame (Matteo 4,2); ha avuto sete (Giovanni 19,28); si è rallegrato (Luca 10,21); era stanco (Giovanni 4,6); è stato tentato da Satana (Matteo 4,3) – ma non ha peccato! Per questo è chiamato Agnello di Dio. Pietro lo esprime così in 1 Pietro 1,19: «... con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello innocente e immacolato». Per questo il sangue di Gesù, e solo il sangue di Gesù, ci purifica da ogni peccato, perché egli è puro!
È chiamato Agnello di Dio per mostrarci la sua via. È venuto su questa terra con il chiaro obiettivo di Dio, cioè quello di essere immolato per i nostri peccati. «Degno è l'Agnello che è stato immolato...» (Apocalisse 5,12). Non è stato colto di sorpresa dalla sua esecuzione, perché ha detto con santa determinazione: «Per questo sono venuto nell'ora che mi è stata data» (Giovanni 12,27). Ha dato la sua vita volontariamente (cfr. Giovanni 10,18), rivelando così la sua natura di agnello che sa quando viene immolato. I capri, i vitelli o i maiali non sanno quando vengono condotti al macello, ma stranamente si è scoperto che le pecore sanno cosa sta per accadere loro. Un agnello può persino piangere visibilmente perché sa cosa sta per succedergli. In Giovanni 18,4 si legge: «Gesù, sapendo tutto ciò che gli stava per accadere...».
Il Signore rimase cosciente fino all'ultimo respiro, perché rifiutò qualsiasi anestesia. All'epoca era consuetudine che chi veniva crocifisso ricevesse prima un anestetico. In Matteo 27, 33-34 si legge: «Giunti al luogo detto Golgota, che significa luogo del cranio, gli diedero da bere del vino mescolato con fiele; ma egli, dopo averlo assaggiato, non volle berlo».
Un'altra caratteristica dell'agnello è che non si difende quando viene macellato. Gesù, l'Agnello, non si difese nella sofferenza. Non gridò. Leggiamo invece di lui:
«Come una pecora condotta al macello, come un agnello che non apre la bocca davanti al suo tosatore, così egli non aprì la bocca» (Atti 8,32).
Gesù è chiamato Agnello di Dio per rivelare la natura della sua vittoria. La vittoria di Gesù è proprio una vittoria dell'Agnello. Egli l'ha ottenuta completamente al di fuori di ogni sforzo umano. Infatti, cosa c'è di più indifeso e dipendente di un agnello? Egli è stato «crocifisso nella debolezza» (cfr. 2 Corinzi 13,4), ma è risorto nella potenza.
Ecco perché la parola nella sua contraddizione divina è così potente: «Ecco l'Agnello di Dio, che porta il peccato del mondo!» Il più debole compie la più grande delle opere! L'agnello nella sua fragilità porta il peso più pesante. Guarda il miracolo: il più indifeso offre il più grande aiuto!
Quanto fosse debole Gesù quando andò al Golgota lo vediamo dal suo crollo sotto il peso della croce, tanto che i suoi carnefici ordinarono in fretta al primo contadino che tornava a casa di portargli la croce (cfr. Matteo 27,32; Marco 15,21; Luca 23,26). Ma quando fu lì, su quella croce, davanti al mondo invisibile, stupito e tremante, ebbe inizio la più grande manifestazione di potere. L'Agnello di Dio porta via il peccato del mondo: «Ecco l'Agnello di Dio, che porta il peccato del mondo!».
A questo punto sorge la domanda: quale forza primordiale ha reso capace il debole agnello di togliere i peccati del mondo? La risposta è: dietro di lui c'era l'amore forte e universale di Dio. L'amore è più forte della morte. Non si dice: «Ecco l'agnello», ma «Ecco l'agnello di Dio!». L'agnello è reso capace, grazie alla forza dell'amore di Dio, di compiere ciò che è eternamente valido: togliere la colpa e il peccato di tutti gli uomini. Chi segue l'agnello sperimenterà esattamente la stessa cosa: nella più grande debolezza compirà la cosa più difficile. In questa luce acquista il suo significato più profondo la parola della Bibbia: «La mia forza è nella debolezza» (2 Corinzi 12,9).
Guardando dal Golgota alla Pasqua in Egitto, comprendiamo molto meglio perché il Signore comandò, ad esempio: «Prendete un agnello senza difetti, maschio, di un anno» (Esodo 12,5). Gesù è l'Agnello perfetto e innocente! Ora comprendiamo anche con riverenza perché il sangue dell'agnello era il cuore di quella notte pasquale, poiché il Signore aveva detto: «Prendete del suo sangue e lo spargete sulle due porte e sugli stipiti delle case dove lo mangerete» (Esodo 12,7).
Questo ci mostra l'applicazione vitale del sangue. L'hai già applicato nella tua vita? Guarda come l'angelo sterminatore va di casa in casa in Egitto con la spada sguainata e uccide tutti i primogeniti:
«Poiché in quella notte io passerò per il paese d'Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d'Egitto, sia dell'uomo che dell'animale, e farò giustizia di tutti gli dèi dell'Egitto. Ma il sangue sarà per voi un segno sulle case dove vi trovate: quando vedrò il sangue, passerò oltre e non vi colpirò con la piaga che distrugge, quando colpirò il paese d'Egitto» (Esodo 12,12-13).
Il sangue spruzzato non solo era in un punto ben visibile, ma era anche estremamente prezioso per il popolo stesso, poiché ognuno poteva riporre in esso la propria fiducia incondizionata. Lo facevano con fede. Dopo aver cosparso gli stipiti delle porte, la gente entrò nelle proprie case e chiuse le porte per non riaprirle prima del mattino seguente. Avevano da fare nelle loro case: dovevano arrostire l'agnello, preparare le erbe amare, cingersi i fianchi, prepararsi per la marcia e così via; ma tutto questo avveniva senza timore del pericolo, anche se sapevano che il distruttore era in giro. Il comando del Signore era: «Nessuno esca dalla porta della sua casa fino al mattino» (Esodo 12:22).
«Cosa sta succedendo per strada?», si saranno chiesti, ma non potevano uscire per vedere. Era mezzanotte. «Hai sentito quel grido terribile? E ora, quel suono stridente e penetrante?». Così potrebbe aver chiesto la madre preoccupata, perché nel versetto 30 dello stesso capitolo si legge: «... e ci fu un grande clamore in Egitto». Alcune menti dubbiosi potrebbero aver detto durante quella terribile notte: «Sta succedendo qualcosa di terribile. Sentite il frastuono nelle strade, come corrono avanti e indietro! Alla fine c'è una cospirazione in atto che ci prende di mira». Ma non potevano uscire per vedere cosa stesse succedendo, perché il Signore lo aveva proibito. Questo era sufficiente per tutti coloro che credevano veramente. Sapevano di essere al sicuro; erano al riparo come pulcini sotto le ali della chioccia.
Onoriamo il prezioso sangue di Cristo! Non solo parlando con coraggio agli altri, ma anche confidando in esso con calma e fermezza ! Credi che Gesù sia morto per te? Allora sii fiducioso!
Ora l'angelo sterminatore, il Signore stesso, va di casa in casa in Egitto. Il pianto si fa sempre più forte. Ma ora arriva alla prima casa israelita. Vuole entrare, ma vede il sangue sugli stipiti e sulla traversa della porta. Il «segno del sangue» gli dice: Qui il giudizio è già stato eseguito! E così passa oltre. Il Signore aveva detto: «Quando vedrò il sangue, passerò oltre e non vi colpirà il flagello che porta la rovina quando colpirò il paese d'Egitto». Questo è il Vangelo! Anche qui viene detto in modo molto chiaro che senza spargimento di sangue non c'è perdono dei peccati. Nessun sentimento religioso, nemmeno il pentimento per i tuoi peccati, indurrà Dio a perdonarti i tuoi peccati. Solo una cosa conta, perché così dice il Signore: «Dove vedrò il sangue... » Egli non dice «quando vedrò sangue», mai, ma: «Dove vedrò il sangue» - il sangue dell'agnello, il sangue di mio Figlio, il sangue prezioso e santo di Gesù Cristo, che ha versato sulla croce per te.
Se pensiamo che saremo perdonati perché ci pentiamo dei nostri peccati, calpestiamo il sangue del Figlio di Dio. L'unica spiegazione per il perdono di Dio e l'insondabile profondità del suo oblio è la morte di Gesù Cristo. Il nostro pentimento è solo la conseguenza del fatto che la riconciliazione che egli ha ottenuto per noi è diventata realtà anche nella nostra vita: «Cristo Gesù, che ci ha resi da Dio saggezza, giustizia e santificazione e redenzione» (1Corinzi 1,30b).
Quando riconosciamo che Gesù Cristo è stato fatto per noi in questo modo, la gioia infinita di Dio entra in noi. Non solo perché ha versato il suo sangue per noi. In quella notte non sarebbe servito a nulla a un padre di famiglia israelita se avesse ucciso l'agnello secondo le parole di Dio e ne avesse raccolto il sangue in un piatto, ma non lo avesse usato, cioè non lo avesse spalmato sull'architrave e sugli stipiti della sua porta!
La tradizione racconta di un primogenito che stava mangiando l'agnello insieme alla sua famiglia e improvvisamente chiese: «Padre, c'è il sangue sulla porta?». Controllando, il padre scoprì con orrore che aveva fatto con l'agnello ciò che Dio aveva ordinato, ma aveva trascurato di fare la cosa essenziale: spalmare il sangue sugli stipiti e sull'architrave! Applicazione: non serve a nulla pregare e dire che credi, che vivi rettamente, che non fai del male a nessuno e che vai in chiesa, se non hai accettato personalmente Gesù e la sua opera per te . Perché nella tua vita manca il sangue di Gesù. Solo il sangue è il segno salvifico.
Quella notte l'angelo della morte spiegò le sue ali e, volando sulle strade d'Egitto, colpì grandi e piccoli, i primogeniti dei principi e i primogeniti del bestiame, così che in ogni casa e in ogni stalla c'era un morto. Solo dove vide il segno del sangue non entrò per uccidere. Ma la vendetta del Signore colpì la casa dei ribelli. Le parole sono degne di nota:
«Il Signore passerà e colpirà gli Egiziani. Ma quando vedrà il sangue sull'architrave e sui due stipiti, passerà oltre la porta e non permetterà al distruttore di entrare nelle vostre case per colpirvi» (Esodo 12,23).
Cosa trattiene quindi la spada?
Nient'altro che la macchia di sangue sulla porta! L'agnello è stato immolato e loro hanno cosparso le loro case con il sangue. Per questo sono al sicuro. I figli di Giacobbe non erano né più ricchi, né più saggi, né più forti, né più abili dei figli d'Egitto, ma erano stati redenti dal sangue. Per questo rimasero in vita, mentre gli altri morirono perché non conoscevano il segno della redenzione.
Rivolgiamo ora la nostra attenzione alle parole del versetto 23:
«Perché il Signore passerà e colpirà gli Egiziani. Ma quando vedrà il sangue sull'architrave e sui due stipiti, passerà oltre la porta e non permetterà al distruttore di entrare nelle vostre case per colpirvi».
Che espressione significativa: «Ma quando vedrà il sangue...». Non possiamo rifletterci abbastanza! È così confortante per te e per me vedere il sacrificio espiatorio, perché così otteniamo la pace. Ma dopo tutto, la grande ragione della nostra beatitudine è che il Signore guarda al sacrificio espiatorio e, per amore della sua giustizia, lo trova gradito. L'occhio santo di Dio è rivolto a colui che porta i peccati del mondo, in modo tale che egli ci passa accanto. Egli ci accetta con il nostro sacrificio, e il nostro sacrificio è Gesù Cristo.
Non è il fatto che vediamo il sangue versato ad essere il fondamento della beatitudine, ma il fatto che Dio lo vede. Il fatto che Dio accetta Cristo è la garanzia sicura della beatitudine di coloro che accettano il suo sacrificio. Questo significa per te, caro lettore: se il tuo occhio della fede è offuscato e i tuoi occhi sono pieni di lacrime, se l'oscurità del dolore e della malinconia nasconde gran parte del tuo volto, allora il Signore vede il sangue di suo Figlio e ti risparmia. Egli non permetterà che il corruttore ti si avvicini e ti faccia del male, perché in Cristo vede ciò che giustifica la sua giustizia. Il sangue è il segno salvifico. In questo momento, la domanda urgente che rivolgo a ciascuno di voi è: credete nella riconciliazione divina o no? Portatemi tutto ciò che volete per dimostrare la vostra eccellenza personale. Non credo in nessuna virtù che disprezzi il sangue del Salvatore, che solo rende puri da ogni peccato. Anzi, so che se continui a vivere incurante del sangue di Gesù, anzi della sua persona, se continui a preferire appartenere agli «egiziani» e a vivere nel peccato, allora, sì, allora arriverà la grande separazione.
Se tu avessi potuto camminare per le strade di Menfi o di Rams nella notte della Pasqua ebraica, avresti potuto distinguere, grazie al segno visibile, in quale casa c'erano gli Israeliti e in quale gli Egiziani. Non era quindi necessario ascoltare sotto la finestra di una casa la lingua di coloro che vi abitavano. C'era un segno chiarissimo: l'israelita aveva il segno del sangue sulla porta, l'egiziano no. Notate che questo è ancora oggi il grande segno distintivo tra i figli di Dio e i figli del maligno. In realtà, qui sulla terra esistono solo due comunità: la comunità di Gesù e il mondo destinato al giudizio; coloro che sono giustificati in Cristo Gesù e coloro che sono condannati nei loro peccati. Chi crede nel Figlio di Dio come sacrificio pienamente valido per il peccato ha la salvezza, e chi non crede in lui morirà nei suoi peccati.
Il vero Israele spirituale, per così dire, confida nel sacrificio che è stato offerto una volta per il peccato. Questa è la sua pace, la sua consolazione, la sua speranza. «L'anima mia riposa sull'Agnello...» Coloro che non ripongono la loro fiducia nel sacrificio espiatorio respingono il consiglio di Dio e dichiarano il loro vero carattere e la loro vera condizione. Chi non accetta la riconciliazione offerta da Dio deve portare il peso delle proprie colpe. Non importa quale sia la giustizia che hai accettato e come intendi renderti gradito a Dio, ma se rifiuti suo Figlio, egli rifiuterà te. Se ti presenti davanti a Dio senza il sangue espiatorio, non avrai parte all'eredità dell'alleanza né alla vita eterna. Allora non sarai annoverato tra il popolo di Dio, perché Ebrei 2,3 dice: «Come potremo sfuggire, se non teniamo conto di una salvezza così grande?».
Applica oggi il sangue, cioè accogli Gesù Cristo con tutta la tua determinazione nel tuo cuore! Allora la tua vita sarà sotto il sangue e l'angelo del giudizio ti passerà accanto. Non sarai giudicato, ma avrai la vita eterna!
(Nachrichten aus Israel, aprile 2025/5785 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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25 aprile, dall'uso del Papa ai nazi ProPal
Insulti a Segre e a Israele, sventola la bandiera di Hamas
di Giulia Sorrentino
Doveva essere un giorno di pace quello del 25 aprile, un giorno in cui venisse onorato il concetto della resistenza. Eppure, purtroppo abbiamo imparato che ci sono diversi modi per riportare alla memoria i fatti. Anche se l’unico modo che ultimamente ci viene mostrato nelle piazze è quello della violenza, dell’esclusione. Prima gli scontri in Piazza Castello a Torino il 24 sera, al termine della fiaccolata organizzata dalla città. A cerimonia ultimata i componenti dello spezzone “antagonista” del corteo, composto da autonomi, attivisti dei centri sociali e di movimenti filopalestinesi, sono saliti sul palco dopo avere rimosso le transenne.
Il tutto è culminato nell’ennesimo tentativo da parte delle forze dell’ordine di sedare manifestanti che durante il corteo hanno contestato il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, esponendo un fantoccio con le sue sembianze in mimetica da militare. Fantoccio bersagliato con della frutta marcia.
Poi a Parma ieri mattina, poco dopo le 11:30, un gruppo di manifestanti pro Palestina ha accerchiato la Brigata ebraica durante il corteo organizzato dall’Anpi, quando i rappresentanti della comunità ebraica locale hanno esposto uno striscione con il simbolo dello Stato di Israele. I manifestanti Pro Pal hanno iniziato ad inveire contro gli ebrei con insulti e minacce, fino ad arrivare ad accerchiare i componenti della Brigata ebraica.
Contestazione contro la Brigata ebraica anche in piazza San Babila a Milano, a Porta San Paolo e in zona Ostiense, a Roma, dove centinaia di manifestanti ProPal hanno protestato contro Israele, intonando slogan come “Israele assassino” e “Palestina libera”. A Roma erano presenti anche le autorità della Comunità ebraica, con Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, il rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni, il presidente della Cer Victor Fadlun. Dall’altro lato della piazza, blindata dalle forze dell'ordine, il presidio di oltre 300 persone di ProPal, che urlavano loro “assassini”.
(Il Tempo, 26 aprile 2025)
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Hamas disposto al cessate il fuoco
Il movimento palestinese intende liberare gli ostaggi israeliani in cambio di una tregua di 5 anni
Hamas è pronto a concludere un accordo che prevede il rilascio in un’unica soluzione di tutti gli ostaggi ancora detenuti a Gaza e una tregua di cinque anni con Israele, per porre fine alla guerra in corso, ha dichiarato oggi, sabato, un responsabile del movimento.
“Hamas è pronto per uno scambio di prigionieri (ostaggi israeliani contro prigionieri palestinesi) in un’unica operazione e per una tregua di cinque anni”, ha dichiarato all’AFP il funzionario di Hamas che ha mantenuto l’anonimato. Queste dichiarazioni arrivano mentre una delegazione del movimento islamista palestinese deve incontrare i mediatori al Cairo. Non è chiaro, a questo punto, se l’idea di una tregua di lunga durata sia stata proposta dallo stesso Hamas o dai mediatori egiziani e qatarioti.
Il 17 aprile Hamas, che si dichiara contrario a un accordo “parziale”, aveva respinto una proposta israeliana che prevedeva, tra l’altro, una tregua di 45 giorni in cambio del ritorno di dieci ostaggi vivi.
• Richieste agli antipodi
Nella sua visione dell’accordo “globale” che sta cercando, il movimento chiede la cessazione delle ostilità, il ritiro completo delle truppe israeliane, lo scambio di ostaggi israeliani con prigionieri palestinesi e l’ingresso di aiuti umanitari a Gaza. Israele, dal canto suo, chiede il ritorno di tutti gli ostaggi e il disarmo di Hamas e degli altri gruppi armati a Gaza. Quest’ultimo punto costituisce una “linea rossa” per il movimento.
(ANSA, 26 aprile 2025)
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La vera storia di Marcel Marceau il grande mimo francese che salvò i bambini orfani ebrei
di Nicola Morisco
“Resistance - La voce del silenzio” è un film del 2020 diretto da Jonathan Jakubowicz, con protagonisti Jesse Eisenberg, Ed Harris, Clémence Poésy, Matthias Schweighöfer, Bella Ramsey e Géza Röhrig. Il film andrà in onda questa sera alle 21 su Sky Cinema Drama HD.
Il film racconta la vera storia di Marcel Marceau, il famoso mimo francese che durante la seconda guerra mondiale collaborò con la Resistenza francese per salvare la vita a più di 100 orfani ebrei perseguitati dai nazisti. Marcel Marceau (Jesse Eisenberg), è un giovane aspirante artista di origini ebraiche, con una grande passione per la recitazione. Marcel cresce in un’Europa per gran parte occupata dai tedeschi del terzo Reich ma non intende finire al fronte. Di giorno lavora insieme al padre nella macelleria di famiglia, mentre la sera si esibisce in piccoli locali di burlesque in città, sfidando la volontà del genitore. Il giovane mimo un giorno conosce e s’innamora di Emma (Clémence Poésy), affascinante e coraggiosa ragazza, politicamente molto attiva. Per guadagnarsi l’amore di Emma, Marcel accetta di partecipare a una missione impossibile contro i nazisti, che segnerà per sempre la sua vita. Il suo rischioso compito sarà infatti quello di portare oltre il confine in Svizzera, 123 bambini resi orfani dal regime nazista e in particolar modo dal crudele Obersturmführer delle SS Klaus Barbie (Matthias Schweighöfer). Marcel insieme al suo gruppo riuscirà a salvare la vita dei giovani orfani e grazie alla sua grande passione e al potere dell’arte, sarà in grado di portare un po’ di leggerezza e una ventata di speranza in una situazione così drammatica.
(La Gazzetta del Mezzogiorno, 26 aprile 2025)
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I sostenitori nostrani di Hamas
di Giovanni Giacalone
Il direttore editoriale del sito islamico La Luce News, Davide Piccardo, ne spara un’altra, stavolta molto grossa. Sul proprio account di Facebook ha infatti attaccato il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, con un post dai toni più che eloquenti:
“Questo traditore infame ha osato insultare gli uomini e le donne delle resistenza che hanno sacrificato la propria vita per la libertà del popolo palestinese. La sua fine è vicina e dovrà renderne conto”.
Abu Mazen ha recentemente dichiarato che Hamas deve cessare il proprio controllo su Gaza, consegnare le armi all’ANP e rilasciare gli ostaggi, rivolgendosi tra l’altro nei confronti dell’organizzazione terrorista palestinese come “figli di cani”.
Piccardo, ex coordinatore del CAIM-Coordinamento Associazioni Islamiche a Milano, è già noto da anni per le sue posizioni filo-Fratelli Musulmani e anti-Israele; immortalato più volte microfono alla mano a manifestazioni a favore dell’ex presidente islamista egiziano Mohammad Morsi e in sostegno a Erdogan, nell’estate del 2014 finì al centro di una polemica per un suo post su episodi di violenza avvenuti fuori di una sinagoga parigina con il commento “E’ finita la pacchia”.
In seguito il soggetto in questione, in replica alle polemiche, aggiunse: “Sono finiti finalmente i tempi dell’indifferenza, la sensibilità e la solidarietà verso la Palestina stanno crescendo e chi sostiene le guerre di Israele dovrà farci i conti”, come riportato a suo tempo da MilanoToday.
E’ utile rammentare che gli editori della Luce hanno recentemente pubblicato la versione italiana di “Le Spine e il Garofano”, autobiografia dell’ex leader di Hamas, Yahya Sinwar, mente dell’eccidio del 7 ottobre 2023 ed eliminato dall’esercito israeliano lo scorso ottobre.
Il sito gestito da Piccardo e colleghi ha tra l’altro lamentato ciò che, a loro dire, sarebbe “censura” nei confronti del libro da parte di Amazon e in relazione alla presentazione che doveva avvenire a La Sapienza lo scorso marzo in presenza proprio di Piccardo e dell’attivista palestinese Maya Issa. Evento poi cancellato.
Certo, non c’è molto da stupirsi se vengano riscontrati problemi nel diffondere contenuti propagandistici filo-Hamas, organizzazione terrorista responsabile del più grande pogrom di ebrei dai tempi della Shoah e da tempo nella blacklist di Unione Europea, Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada.
Tornando all’iniziale esternazione di Piccardo, ma con uno sguardo più ampio, al di là degli oramai tratti retorici tipici di tutta quell’area ideologica che definisce il terrorismo di Hamas come “resistenza”, è interessante notare un crescente nervosismo generale da parte della galassia islamista e pro-Pal nelle ultime settimane. Un nervosismo e una frustrazione che vanno di pari passo con una situazione sempre più drammatica per i terroristi palestinesi a Gaza, con Hamas accerchiata e agonizzante ma anche maggiormente isolata a livello internazionale. E’ proprio di due giorni fa, infatti, la notizia che la Giordania ha messo al bando la Fratellanza Musulmana e ha dato il via al sequestro dei beni; una misura subito condannata da Hamas e non a caso, visto il sostegno che riceveva dai Fratelli giordani.
Come se non bastasse, la nuova Amministrazione Trump non sembra particolarmente preoccupata dei cosiddetti “aiuti umanitari a favore di Gaza”, imposti dalla precedente Amministrazione Biden, che andavano a rifocillare Hamas ai danni della popolazione di Gaza. Ora è il turno Abu Mazen con il suo attacco a Hamas. Per Hamas e la Fratellanza al momento tira un’aria poco favorevole.
Abu Mazen ha recentemente dichiarato che Hamas deve cessare il proprio controllo su Gaza, consegnare le armi all’ANP e rilasciare gli ostaggi, rivolgendosi tra l’altro nei confronti dell’organizzazione terrorista palestinese come “figli di cani”.
(L'informale, 25 aprile 2025)
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Mandati d’arresto per Netanyahu e Gallant. I giudici d’appello della Corte Penale Internazionale ingiungono alla Camera di primo grado di fare ciò che Israele chiedeva sin dall’inizio: considerare sul serio la competenza giurisdizionale
La Camera d’Appello della Corte Penale Internazionale ha annullato una sentenza dello scorso novembre che respingeva le obiezioni giurisdizionali sollevate da Israele all’emissione di mandati d’arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della difesa, Yoav Gallant.
“La Camera d’Appello – si legge nella sentenza emessa all’Aja giovedì – ritiene che, considerata nel suo complesso, la decisione impugnata non ha esaminato a sufficienza la tesi centrale di Israele secondo cui aveva il diritto di sollevare un’eccezione di incompetenza ai sensi dell’articolo 19, paragrafo 2, lettera c) dello Statuto [di Roma]”.
“Pertanto – proseguono tutti e cinque i giudici d’appello – la Camera Preliminare ha commesso un errore di diritto non avendo esaminato in modo sufficiente le pertinenti argomentazioni ad essa sottoposte in merito alla specifica base giuridica su cui si fonda la contestazione della giurisdizione della Corte”.
A novembre la Prima Camera Preliminare si era pronunciata contro la contestazione di Israele sulla competenza giurisdizionale definendola prematura. Ora invece, la Camera d’Appello ha rinviato il caso alla Camera Preliminare per una “nuova decisione nel merito” sulle eccezioni di giurisdizione avanzate da Israele.
In pratica, Israele afferma che la Corte Penale Internazionale non ha giurisdizione per emettere quei mandati, la Camera Preliminare non ha preso in seria considerazione gli argomenti di Israele ed ora la Corte d’Appello afferma che invece deve farlo.
La Camera d’Appello non si è pronunciata sulla richiesta di Gerusalemme di sospendere i mandati di cattura fintantoché la questione della giurisdizione è ancora in discussione, affermando che tale questione spetta alla Camera Preliminare.
Tuttavia, finché la Camera di grado inferiore della Corte Penale Internazionale non terrà ulteriori udienze sulla questione, che potrebbero richiedere diversi mesi o più, i procedimenti legali a carico di Netanyahu e Gallant saranno di fatto congelati, giacché è arduo sostenere che abbiano validità dei mandati emessi da una Corte che potrebbe non avere effettiva competenza in materia.
“La Corte d’Appello – ha twittato il ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar – ha incaricato oggi la Corte Penale Internazionale di fare ciò che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio: prendere una decisione in merito alla giurisdizione. E c’è una sola risposta corretta: la Corte non ha giurisdizione su Israele. Lo abbiamo detto fin dall’inizio: la Corte Penale Internazionale dell’Aja non ha, e non ha mai avuto, giurisdizione per emettere mandati d’arresto contro il primo ministro israeliano e il suo ex ministro della difesa. I mandati sono stati emessi illegalmente e devono essere annullati”.
I mandati, che Israele e Stati Uniti, insieme ad altri paesi, hanno rifiutato e respinto, accusano i leader israeliani d’aver commesso “crimini contro l’umanità” e “crimini di guerra” nella striscia di Gaza tra l’8 ottobre 2023 e il 20 maggio 2024.
Il ricorso di Israele si è concentrato innanzitutto sulla competenza giurisdizionale della Corte Penale Internazionale, che opera in base allo Statuto di Roma. Israele non è parte dello Statuto né membro della Corte Penale Internazionale, e pertanto non può essere processato da quest’ultima.
La Corte ha basato la propria giurisdizione sul fatto che vi ha aderito nel 2015 l’Autorità Palestinese, registrata non come tale bensì come “Stato di Palestina”.
Israele ribatte che, poiché i termini degli Accordi di Oslo, sottoscritti da Israele e dai palestinesi, negano esplicitamente all’entità palestinese la giurisdizione legale sui cittadini israeliani, l’Autorità Palestinese non ha mai avuto il diritto di delegare alla Corte Penale Internazionale una giurisdizione che non ha.
D’altronde i giudici d’appello sottolineano che sin dal 2021, annunciando le prime indagini su Israele, la Corte stessa aveva esplicitamente affermato che “le questioni relative all’impatto degli accordi di Oslo sulla giurisdizione della Corte possono essere sollevate dagli Stati interessati in una fase successiva”.
Secondo il professor Yuval Shany della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Gerusalemme, che nel luglio dello scorso anno ha presentato una memoria contestando la giurisdizione della Corte, la sentenza della Camera d’appello “non si riflette in modo molto positivo sull’operato della Camera Preliminare”.
“La decisione di riesaminare la questione della giurisdizione – ha dichiarato l’ambasciatore d’Israele alle Nazioni Unite, Danny Danon – mette in luce la mancanza di legittimità dietro a mandati d’arresto chiaramente politici”.
(da jns.org, Times of Israel, 24-25. 4.25)
(israelnet.it, 25 aprile 2025)
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Un anno e mezzo di guerra: cresce l’apprensione per gli ostaggi
E Abu Mazen dà ai membri di Hamas dei “figli di cane”
di Anna Balestrieri
A oltre un anno e mezzo dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, la situazione umanitaria e politica resta drammatica. Secondo le autorità israeliane, dei circa 250 ostaggi rapiti da Hamas durante l’attacco del 7 ottobre 2023, 59 risultano ancora nelle mani dell’organizzazione. Secondo le autorità israeliane, dei 59 ostaggi ancora detenuti da Hamas, 24 si presume siano vivi, anche se alcuni potrebbero essere deceduti di recente o essere stati uccisi. Le trattative per la loro liberazione sono in stallo, con Hamas che rifiuta offerte di cessate il fuoco parziali, insistendo su un accordo globale che includa la fine della guerra e il rilascio di prigionieri palestinesi.
• L’ostracismo di Hamas e le dichiarazioni di Abbas
Hamas continua a opporsi a ogni proposta che non preveda un cessate il fuoco permanente, rifiutando ogni accordo temporaneo che non includa una conclusione definitiva della guerra. Dall’inizio del conflitto, Israele ha proseguito con operazioni militari su vasta scala nella Striscia di Gaza, avendo come obiettivo l’eliminazione della struttura militare di Hamas.
In questo contesto già teso, le dichiarazioni del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mahmoud Abbas, hanno fatto scalpore. In un discorso pronunciato il 23 aprile davanti al Consiglio centrale dell’OLP a Ramallah, Abbas ha definito i combattenti di Hamas «figli di cani» e ha affermato che il gruppo ha dato a Israele «tutti i pretesti» per condurre la guerra a Gaza. Abbas ha chiesto la restituzione degli ostaggi e il disarmo delle milizie, aggiungendo che «l’unico esercito legittimo» è quello della leadership riconosciuta dell’ANP. Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha rincarato la dose sostenendo che Hamas abbia dato ad Israele “pretesti” per “distruggere Gaza”.
Queste parole hanno suscitato indignazione tra i sostenitori di Hamas e anche tra parte dell’opinione pubblica palestinese, alimentando ulteriormente la frattura interna tra le diverse anime del movimento nazionale palestinese. I commenti di Abbas giungono in un momento in cui l’Autorità Palestinese è sotto pressione per riformarsi e designare una nuova leadership. Il presidente ottantasettenne, al potere dal 2005, ha recentemente promesso un governo tecnico «in grado di unificare le istituzioni dell’ANP in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est».
• I conflitti interni in Israele
Secondo il forum che rappresenta le famiglie degli ostaggi, almeno 24 persone tra i sequestrati sono ancora vive, informazione basata su video, registrazioni e testimonianze degli ostaggi liberati. Molti tra loro necessitano urgentemente di cure mediche e sono in gravi condizioni di salute, stando a quanto riportato dai familiari e dai medici coinvolti nel monitoraggio del caso.
Le trattative per una nuova tregua, che potrebbero includere uno scambio di prigionieri e la liberazione di alcuni ostaggi, proseguono senza risultati concreti. Hamas ha respinto più volte le proposte israeliane, insistendo su condizioni che includano un cessate il fuoco totale. Israele, dal canto suo, appare diviso tra la volontà dell’esecutivo di continuare l’offensiva militare e le pressioni interne crescenti per riportare a casa gli ostaggi.
Nel paese, infatti, le proteste si moltiplicano. I familiari degli ostaggi chiedono con forza al governo Netanyahu di dare priorità assoluta al ritorno dei loro cari. Accusano l’esecutivo di anteporre considerazioni strategiche e politiche alla vita umana.
Il destino degli ostaggi continua così a rappresentare un nodo centrale e irrisolto nel conflitto.
• La crisi umanitaria a Gaza
Nel frattempo, il bilancio umano della guerra continua ad aggravarsi. La crisi umanitaria nella Striscia di Gaza è aggravata dall’assenza di una tregua, mentre gli aiuti internazionali non riescono a raggiungere in modo costante la popolazione civile. Nonostante la pressione crescente di Stati Uniti, Egitto e Qatar, le trattative per un accordo sembrano bloccate. Hamas insiste per una fine totale delle ostilità e il ritiro delle truppe israeliane, mentre Israele continua a porre come condizione imprescindibile il rilascio di tutti gli ostaggi e la distruzione delle capacità operative dell’organizzazione. In un contesto segnato dalla sofferenza civile e dal crollo della fiducia tra le parti, il futuro di Gaza e dell’intera regione appare sempre più incerto.
(Bet Magazine Mosaico, 25 aprile 2025)
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A porta san paolo il ricordo della brigata ebraica e dei partigiani ebrei caduti per la Liberazione
di Daniele Toscano
Le bandiere italiane, gli stendardi con i volti dei partigiani ebrei, i vessilli e lo striscione della brigata ebraica hanno costituito lo scenario che ha accompagnato la cerimonia dell’ebraismo romano per le celebrazioni del 25 aprile, 80° anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo.
Il corteo è partito dal cimitero di guerra del Commonwealth di via Zabaglia ed è giunto a Porta San Paolo, luogo emblematico della lotta partigiana a Roma, dove come consuetudine è stata deposta una corona di fiori a nome della comunità ebraica di Roma e dell’unione delle comunità ebraiche italiane in ricordo della Brigata Ebraica e dei partigiani ebrei che caddero per combattere gli occupanti. Momenti di silenzio come richiesto dalla solennità dell’iniziativa, concluso con l’intonazione dell’inno d’Italia da parte dei presenti.
Dall’altra parte della piazza, distanziati da un solido cordone delle forze dell’ordine, alcuni gruppi filopalestinesi, i cui cori di contestazione sono rimasti solo sullo sfondo senza condizionare l’andamento della solenne cerimonia. Una sorta di contromanifestazione che nulla ha a che fare con la liberazione dell’Italia, tanto più che il Gran Muftì di Gerusalemme era alleato della Germania nazista.
Le celebrazioni del mondo ebraico hanno visto in prima linea il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, il Presidente della Comunità di Roma Victor Fadlun e la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni.
Per le istituzioni presenti i senatori Lucio Malan ed Ester Mieli.
“Siamo orgogliosi, oggi è un giorno di festa per l’Italia, festeggiamo la liberazione del nostro paese – ha sottolineato Fadlun nelle sue dichiarazioni – A quella liberazione hanno partecipato i partigiani che hanno favorito gli alleati nel loro intento. Tra questi partigiani oltre 800 erano ebrei. È una proporzione davvero abnorme. Gli ebrei hanno dato un grande contributo alla liberazione del nostro paese. Di questo noi siamo fieri e siamo qui per ricordarlo felici e gioiosi”.
In merito alla divisione della piazza ha poi aggiunto: “Questo è davvero fuori dalla storia. Le bandiere palestinesi sono le bandiere di chi era alleato dei nazisti. A Gerusalemme il Gran Muftì prendeva il caffè con Hitler, ragionando sullo sterminio della popolazione ebraica e sulla creazione di un governo tirannico che avrebbe dovuto governare l’Europa. Queste bandiere sono frutto di mancanza di educazione” ha concluso Fadlun.
(Shalom, 25 aprile 2025)
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25 aprile
Sebbene l'antisemitismo possa apparire più eclatante altrove, l'Italia non è immune da questa piaga. Anzi, la sua storia millenaria è intrisa di pregiudizi e persecuzioni verso la comunità ebraica, dalla segregazione nel 1516 nel Ghetto di Venezia alle infami leggi razziali del 1938 e persino al bombardamento di Tel Aviv. Questo ci impone una vigilanza costante!
Il verso dantesco "Ahi serva Italia, di dolore ostello" risuona ancora oggi come un' amara verità. Proprio in questa terra, dove la più antica comunità ebraica del Mediterraneo ha prosperato per 22 secoli, e dove la Chiesa ha alimentato per due millenni l'ostilità, l'antisemitismo serpeggia, spesso in forme meno visibili, ma non per questo meno pericolose.
L'eco degli attacchi nazi-terroristi l’8 ottobre 2023 ha riacceso focolai di odio anche in Italia, come dimostra la persistente parzialità di certa informazione pubblica. È inaccettabile che la RAI, servizio pubblico, conceda spazio a narrazioni ostili a Israele, disinformando l'opinione pubblica e alimentando un clima di pregiudizio.
Il 25 aprile, data simbolo della Liberazione dal nazifascismo, è paradossalmente divenuta per alcuni un'occasione per attaccare la memoria e il valore della Brigata Ebraica, quegli stessi combattenti che, al fianco degli Alleati, si sacrificarono per la libertà di questo Paese.
Herut Italia non può e non vuole rimanere inerte di fronte a questa realtà. Proprio nel giorno della Liberazione, lanciamo una decisa offensiva politica e culturale contro ogni forma di antisemitismo. La nostra storia parla chiaro: non tollereremo più silenzi complici o distorsioni della verità. La lotta contro l'antisemitismo è una battaglia per la dignità e per il futuro dell'Italia stessa.
25 aprile Giornata Internazionale per la lotta contro l'antisemitismo.
Emanuel Segre Amar
Vicepresidente vicario di Herut Italia
(Herut Italia, 25 aprile 2025)
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“La Comunità ebraica unita al corteo del 25 aprile in onore della Brigata Ebraica”
di Ilaria Myr
Così Davide Romano, presidente del Museo della Brigata Ebraica, ribadisce la presenza della Comunità ebraica al corteo del 25 aprile a Milano. “Non siamo soli, ma c’è tutto un mondo di persone che ancora ragionano, nonostante l’incessante propaganda di Hamas che passa sui media”.
“Quest’anno ci saremo, e insieme a noi ci sarà anche una folta e motivata rappresentanza ebraica, grazie a un commovente moto spontaneo nato all’interno della Comunità: tutti uniti nel volere ricordare e onorare l’opera militare e civile della Brigata ebraica e supportarci il 25 aprile”. Così Davide Romano, presidente del Museo della Brigata Ebraica, ribadisce la presenza della Comunità ebraica al corteo del 25 aprile a Milano.
L’anno scorso la Comunità non aveva sfilato con il proprio gonfalone alla sfilata dopo le tensioni nate con la guerra a Gaza, che avevano portato alle dimissioni dell’allora presidente ANPI Roberto Cenati. Gli ebrei milanesi, appartenenti alle diverse organizzazioni, avevano quindi sfilato uniti sotto le insegne della Brigata Ebraica, venendo però attaccati dai numerosi manifestanti propalestinesi.
“Senza dimenticare il grande aiuto e la protezione che riceviamo ogni anno dai City Angels di Mario Furlan, sempre grande amico della nostra Comunità – continua Romano -. Non manca anche il sostegno di politici di destra, sinistra e centro, a conferma che la pagina di storia scritta dalla Brigata ebraica ha lasciato il segno. Ringrazio in particolare Francesco Ascioti e Daniele Nahum (Azione), Lia Quartapelle e Pietro Bussolati (PD), Benedetto Della Vedova e Paolo Costanzo (Più Europa), Mariastella Gelmini e Manfredi Palmeri (Noi Moderati), Alessandro De Chirico e Gianpaolo Berni Ferretti (Forza Italia) e tanti altri che saranno con noi. A conferma che non siamo soli, ma c’è tutto un mondo di persone che ancora ragionano, nonostante l’incessante propaganda di Hamas che passa sui media.
“A questo proposito, giova ricordare come non solo la Brigata ebraica viene contestata…purtroppo anche gli amici ucraini che vengono con noi sono sempre più attaccati da slogan dei propal e dai tanti simpatizzanti dell’URSS e di Putin che ormai fanno fronte comune contro le democrazie. Anche per questo è importante esserci, il 25 aprile. Per non lasciare loro egemonizzare il giorno della Liberazione, e ricordare che la Brigata ebraica combatteva non solo contro il nazi-fascismo, ma anche contro ogni forma di totalitarismo. Non a caso tanti sionisti si reclutarono nell’esercito britannico già nel 1939, mentre nazisti e sovietici avevano stipulato un Patto (Molotov – Ribbentrop) di collaborazione. Non dimentichiamolo, la nostra storia è sempre stata testimonianza di libertà e democrazia. Ieri in Europa come oggi in Israele, siamo sempre stati dalla parte delle democrazie e contro le dittature: siano esse fasciste, comuniste e o islamiste. Per questa nostra coerenza siamo diventati nel tempo un punto di riferimento per tutte quelle persone e partiti che amano la libertà e che vengono sotto le nostre bandiere ogni 25 aprile”.
(Bet Magazine Mosaico, 24 aprile 2025)
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«La verità grida vendetta al cielo»
Un sopravvissuto all'Olocausto racconta la sua vita. Per lui è importante che le persone ascoltino la sua storia. Ma ritiene ancora più importanti gli insegnamenti che si possono trarre dal periodo della Shoah.
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Con grande interesse gli israeliani ascoltano la storia della vita di Zvi Ejal a Gerusalemme.
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A Gerusalemme c'è un odore pungente di bruciato nell'aria. Il vento secco del deserto, lo Sharaw, porta temperature insolitamente alte in tutto il Paese, causando forti incendi nella zona circostante Gerusalemme. Ciononostante, mercoledì sera a Gerusalemme quasi 200 israeliani sono seduti su sedie e per terra all'aperto in un giardino. L'Autorità israeliana per la protezione della natura ha invitato tutti nel suo giardino. Ha sede nel quartiere storico di Rechavia, residenza del primo primo ministro di Israele. Davanti agli israeliani siede Zvi Ejal, un tavolo. In qualità di professore, ha diretto per molti anni il reparto di chirurgia dell'ospedale Hadassa nel quartiere Ein Kerem di Gerusalemme. Ma oggi il professore non parla di medicina. Inizia il suo discorso con queste parole: “C'è un problema: ho quasi 100 anni”. I presenti ridono. Ejal continua: “Ma c'è un problema ancora più grande. Devo descrivere a parole ciò che non può essere descritto”. Il pubblico diventa serio. Il contesto della relazione di Ejal è il progetto “Sikaron beSalon, Ricordi in salotto”. Il progetto ha ormai conquistato un posto speciale nel cuore degli israeliani. Solo durante lo Yom HaShoah, il giorno della commemorazione dell'Olocausto in Israele, ci sono centinaia di luoghi a Gerusalemme dove gli israeliani aprono le loro case e le istituzioni aprono le loro sale. Tutti hanno in comune il ricordo dell'Olocausto. Nei giorni precedenti e successivi si aggiungono altre centinaia di eventi.
• Un grido che continua ancora oggi
Ejal mostra un'immagine: raffigura “L'urlo” del pittore norvegese Edvard Munch. “Questo sono io”, spiega. “È il mio urlo. E continuo a urlare ancora oggi”. L'urlo è rivolto all'incomprensione del mondo nei confronti della Shoah da parte di coloro che non l'hanno vissuta. Persino il famoso memoriale dell'Olocausto Yad Vashem non comprende la Shoah. “È importante chiedersi come siano stati possibili tali orrori e cosa sia andato storto nella cultura occidentale per generare tali atti”. Ejal nasce nel 1925 come Harry Klafter a Utrecht, nei Paesi Bassi, in una famiglia ebrea. “Mio padre era originario della Galizia ed era un fervente sionista. Anche mio fratello, di sette anni più grande di me, era sionista, quindi già da bambino avevo familiarità con l'idea sionista”. Il suo grande modello era Chaim Weizmann, che sarebbe poi diventato il primo presidente dello Stato di Israele. “Era un chimico e un sionista. Volevo diventare come lui”. La storia della vita di Ejal è raccontata nel libro ‘Offene Türen’ (Porte aperte). Pubblicato inizialmente in olandese, è stato tradotto anche in ebraico. Dopo la pubblicazione del libro, Ejal ha raccontato la sua storia in più di 30 località dei Paesi Bassi, soprattutto a cristiani amici di Israele.
• Maturità in un campo di lavoro
All'età di 16 anni fu mandato in un campo di lavoro in Olanda. In quel periodo, grazie alla sua ferrea volontà e alle sue conoscenze, riuscì a conseguire la maturità. “Quando i tedeschi invasero l'Olanda, sapevamo cosa ci aspettava. Volevamo fuggire fin dal primo giorno. Ci provammo su una barca, ma la Gestapo olandese ci catturò immediatamente. Mio padre finì in prigione, mia madre nel campo di Westerbork. Anche io fui portato lì nel gennaio 1942, ma non ci mandarono ancora in Germania”. Nel mese di giugno iniziò lo sterminio dei tedeschi. ”Procedevano molto lentamente e dicevano al comandante del campo che avevano bisogno soprattutto di persone forti. Mia madre si oppose con forza alla separazione e disse: 'Finché mio marito non uscirà di prigione, mio figlio resterà con me'. In effetti mi permisero di restare e rimanemmo insieme ancora per qualche tempo”. Ejal ricorda: ”In una grande sala a Westerbork si tenevano musical e grandi eventi culturali, ai quali partecipavano anche soldati delle SS. Il giorno dopo, da lì venivano deportati ad Auschwitz gli ebrei che non sarebbero mai tornati. Mio fratello fu scoperto con documenti falsi, ma io riuscii ad aiutarlo a fuggire: conoscevo un medico che gli fece un'iniezione che gli fece venire 40 di febbre. Sapevamo che i malati non venivano deportati ad Auschwitz”. Il sopravvissuto racconta dell'ernia inguinale di sua nonna. La polizia l'aveva portata in un ospedale fuori dal campo e l'aveva operata. In seguito era stata mandata ad Auschwitz e immediatamente uccisa. “Mio fratello ed io sapevamo che era proprio questo il trucco: pensi di trovarti in un sistema razionale, ti adatti alla nuova realtà, ma è una condanna a morte”. Quando arrivò la notizia che anche Ejal e suo fratello sarebbero stati deportati ad Auschwitz, tagliò con delle forbici il filo spinato del campo. “Era il 3 settembre”, ricorda Ejal. “Da lì siamo fuggiti.” Tre persone hanno rischiato la vita per salvarlo. Lui e suo fratello sono sopravvissuti, ma non ha mai più rivisto suo padre.
• «Il mondo occidentale non affronta la realtà»
Nel 1947 emigrò nel territorio britannico della Palestina, ma ancora oggi è tormentato da una domanda: «Come è possibile che l'umanità non abbia imparato nulla dagli orrori di quel periodo?». Se lo spiega con il fatto che la cultura occidentale continua ancora oggi a negare la realtà. Poiché la democrazia si basa sui compromessi, il mondo occidentale non ha mai affrontato gli orrori della Shoah e quindi non è mai arrivato al cuore del problema. “Per capire la Shoah, bisogna capire cosa è successo prima e che le persone erano cieche”. Già negli anni '30, lo scrittore ebreo-russo Vladimir Zeev Jabotinsky implorava le persone di lasciare l'Europa, ma la leadership ebraica non sapeva cosa fare. “Il mondo si mette un filtro sugli occhi, sulle orecchie e sulla bocca per non vedere la verità. Ma questa grida al cielo”. Per illustrare il concetto, Ejal mostra un'immagine dei tre scimmie: una non vede, una non sente, una non parla. «Fino ad oggi non è cambiato nulla. Il mondo è cieco, sordo e muto e ignora completamente i 59 ostaggi detenuti nella Striscia di Gaza». Invece, gli studenti delle università americane e il Papa recentemente scomparso parlano di genocidio a Gaza. Le democrazie non riescono a stare al passo con la realtà perché scendono a compromessi con persone con cui non si può scendere a compromessi. Cosa vorrebbe trasmettere agli studenti presenti? Il professore riflette brevemente e poi dice con enfasi rivolgendosi ai giovani: “Non c'è niente di più difficile che affrontare la realtà. Per questo affrontatela e assumetevi le vostre responsabilità”.
(Israelnetz, 25 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Parashà della settimana: Sheminì (Ottavo)
Levitico 9.1-11.47
- "Nell'ottavo (sheminì) giorno Moshè convocò Aronne e i suoi figli e gli anziani d'Israele" (Lev. 9.1).
La nostra parashà si apre con la convocazione di Moshè della Comunità d'Israele per l'inaugurazione del Tabernacolo, che ha luogo il primo del mese di Nissan (Aprile) nel deserto del Sinài. "Sette giorni" sono stati necessari per preparare Aronne e i suoi figli al sacerdozio e all'ottavo giorno ebbe inizio l'inaugurazione del Tempio.
Il Maharal di Praga fa notare che il numero sette sta a simbolizzare il mondo della natura, essendo sette i giorni della creazione, sette lo spettro dei colori della luce ecc. mentre la dimensione "ottava" corrisponde a quella del soprannaturale (Presenza divina). Il mondo dunque non è governato solo dal determinismo della materia ma soprattutto dal potere della Parola di D-o che orienta la Storia dell'uomo. Il Tabernacolo è pertanto il luogo d'incontro tra il mondo materiale con quello spirituale, dove la gloria di D-o si manifesta agli uomini in tutto il suo splendore.
Morte di Nadav e Avihù
I figli di Aronne Nadav e Avihù, offrirono, durante l'inaugurazione del Tabernacolo, dell'incenso non richiesto dal Signore. "Nadav e Avihù presero ognuno il proprio incensiere, vi misero sopra del fuoco, posero su di esso dell'incenso e presentarono al Signore un fuoco estraneo che non avevano avuto ordine di presentare. Uscì allora un fuoco dal Signore, li divorò ed essi morirono" (Lev. 10.1).
L'incenso (ketoreth) è una parola aramaica che significa "legame" da cui si evince che l'intenzione dei figli di Aronne era santa, nell'unire l'alto con il basso. Difatti il Signore dopo la loro morte ha detto: "Per mezzo di coloro che Mi sono vicini, mostro la mia santità" (Lev.10.3). Quale significato ha allora la loro morte? I nostri Maestri hanno dato alcune spiegazioni. Una prima interpretazione è l'entrata nel Tempio di costoro in stato di ebrezza cioè della rottura della loro identità. Una seconda è che Nadav e Avihù hanno agito di loro iniziativa senza consultare Moshè ed Aronne, provocando una rottura nella Saggezza divina. Infine una terza spiegazione in quanto ambedue i fratelli erano "celibi" simbolo questo della rottura delle relazioni umane.
L'incenso secondo la Tradizione ebraica, è il mezzo che unisce la dimensione materiale con quella spirituale. Pertanto l'offerta dell'incenso, durante l'inaugurazione del Tabernacolo, era il momento in cui questa unione sarebbe dovuta avvenire con la presenza della Gloria di D-o che si manifesta sul popolo intero" (Lev. 9.23). Nadav e Avihù hanno creduto in questa circostanza straordinaria, che era giunto il tempo della Redenzione e il male era stato sconfitto. Ma la realtà era molto diversa, considerato che il grado di spiritualità sia del popolo ebraico che dell'Umanità era ancora troppo basso per operare un tikkun olam (riparazione) del peccato di Adamo e del vitello d'oro.
Animali permessi e animali proibiti
Il nutrimento non ha solo uno scopo apportando energie alla vita dell'uomo, ma anche sostegno spirituale mediante la benedizione del pasto con cui si ringrazia D-o per quanto donato. Nel descrivere gli animali permessi o proibiti la Torah ne fa una classificazione generale, come oggi accade nelle discipline scientifiche, di quelli che vivono sulla terra, quelli nell'acqua e quelli volatili. "Questi sono gli animali che potrete mangiare" (Lev. 11.2) devono avere uno "zoccolo che abbia una fessura" ed essere ruminanti. Per gli animali acquatici devono essere provvisti di "squame e pinne" ed infine per i volatili sono proibiti quelli forniti di "artigli e becco ricurvo" perché rapaci. F.C.
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- L'espressione "dono della legge" non è adatta ad indicare l'originario patto mosaico. L'unicità del popolo eletto non può consistere nel privilegio di aver ricevuto in dono un preziosissimo manuale di istruzioni. Come un uomo quando chiede a una donna di sposarlo, il Signore si è presentato al popolo portandogli in dono l'amore che aveva manifestato per lui liberandolo dalla schiavitù d'Egitto e offrendogli di entrare in una privilegiata relazione di comunione tra Creatore e creatura che richiedeva, per la sua stessa natura, che accettasse liberamente e di buon grado le sue particolari disposizioni.
Questa esclusività d'amore, che separa Israele dagli altri popoli in un collegamento intimo con Dio, doveva costituire la santità di Israele, il suo essere messo a parte per un servizio esclusivo nel piano di redenzione di Dio. Dunque non il dono di una legge, ma una proposta di santità.
Dio mantiene al popolo vita e santità
La violazione di questo primo patto mosaico, che possiamo chiamare "patto di redenzione", non avvenne quando il numero delle trasgressioni diventò talmente alto da risultare insopportabile, ma quando il popolo compì un atto che costituiva l'esatto contrario di ciò che stava alla base del patto stipulato col Signore: si prostrò in adorazione davanti a un falso dio creato con le proprie mani. Un atto solo, ma decisivo, come fu quello di Adamo ed Eva. E come in quel caso, il Signore non tornò indietro, ma andò avanti.
Avendo rinunciato a "togliere la vita" al popolo per l'intercessione di Mosè, Dio aveva pensato di togliergli almeno la "santità", cioè "ridurlo allo stato laicale", rinunciando a fare di lui un regno di sacerdoti. Aveva espresso questo proposito dicendo a Mosè che avrebbe lasciato andare il popolo nella Terra Promessa, ma gli avrebbe tolto quello che è la vera caratteristica esclusiva di Israele rispetto agli altri popoli: si sarebbe rifiutato di andare ad abitare in mezzo a lui. Mosè aveva capito bene l'antifona, per questo si oppose con tutte le sue forze: "Mosè gli disse: «Se la tua presenza non viene, non ci far partire di qui. Perché come si farà a conoscere che ho trovato grazia agli occhi tuoi, io e il tuo popolo, se tu non vieni con noi? Questo distinguerà me e il tuo popolo da tutti i popoli che sono sulla faccia della terra» (Es. 33:15-16).
L'intercessione di Mosè ebbe successo e in questi capitoli si vede Dio che manifesta il primo segno di voler continuare ad abitare in mezzo al popolo. Mosè fa un annuncio solenne: "... oggi l'Eterno vi apparirà ... la gloria dell'Eterno vi apparirà" (Lev. 9:4,6).
Stranamente, Dio fa la sua solenne apparizione senza chiedere prima niente al popolo: non pretende che dia segni concreti di ravvedimento, non impone esercizi o promesse di ubbidienza; chiede soltanto che i sacerdoti si purifichino e si consacrino compiendo i sacrifici richiesti per l'espiazione del peccato loro e di quello del popolo (Lev. 9:7).
Dio si avvicina al popolo
L'avvicinamento di Dio al popolo può essere misurato da quello che avviene nella tenda di convegno. Si ricorderà che dopo il fattaccio del vitello d'oro, Mosè parlava da dentro la tenda e il Signore rispondeva da fuori. Dopo la stipulazione del secondo patto, che possiamo chiamare "patto di conservazione", il Signore era disceso nella tenda, ma Mosè era dovuto rimanerne fuori. Adesso, dopo i riti di espiazione fatti dai sacerdoti, Mosè ed Aaronne entrano entrambi nella tenda e ne escono fuori portando al popolo la benedizione, confermati da un'azione visibile del Signore: "... e la gloria dell'Eterno apparve a tutto il popolo" (Lev. 9:23).
Ma il Signore dà un segno ancora più vistoso per confermare il suo atteggiamento di rinnovata benevolenza verso il popolo: mostra di gradire il sacrifico che gli hanno fatto inviando un fuoco che brucia l'olocausto: "E un fuoco uscì dalla presenza dell'Eterno e consumò sull'altare l'olocausto e il grasso; tutto il popolo lo vide, proruppe in grida di gioia e si prostrò con la faccia a terra" (Lev. 9:24).
Pace fatta? Sì, in un certo senso, ma non perché sia tornato tutto come prima. Adesso si andrà avanti, con le norme che Dio indicherà sulla base di quello che sarà il comportamento del popolo.
La gioia del popolo alla vista della gloria dell'Eterno e del fuoco consumante conferma che l'elemento caratteristico del popolo eletto è la presenza del Signore in mezzo a lui, non il privilegio di possedere una nobilissima legislazione con cui consolarsi per la sua prolungata assenza.
La vicinanza di Dio è pericolosa
La pericolosità della nuova presenza di Dio in mezzo al popolo si vede da quanto accade subito dopo ai figli di Aaronne. Molto probabilmente Nadab e Abihu volevano soltanto dare espressione alla gioia del popolo per la riconciliazione avvenuta manifestando la loro gratitudine a Dio con un gesto umano di risposta al fuoco divino che aveva consumato l'olocausto. Ma avviene una cosa tremenda: "un fuoco uscì dalla presenza dell'Eterno e li consumò..." (Lev. 10:2) ; ed è la stessa espressione usata per il sacrificio sull'altare: "un fuoco uscì dalla presenza dell'Eterno e consumò l'olocausto" (Lev. 9:24). E nessuno intorno deve piangere o disperarsi, perché i due "morirono davanti all'Eterno" (Lev. 10:2), e tutto questo avvenne a maggior gloria del Signore: "Allora Mosè disse ad Aaronne: «Questo è ciò di cui l'Eterno ha parlato, dicendo: "Io sarò santificato da coloro che si avvicinano a me, e sarò glorificato davanti a tutto il popolo"». E Aaronne tacque" (Lev. 10:3).
Dopo l'idolatria del vitello d'oro, il Signore si era impegnato, con il patto di conservazione, a mantenere non soltanto l'esistenza del popolo, ma anche la sua santità, cioè il suo carattere distintivo rispetto a tutti gli altri popoli. L'elezione divina dunque non sarà più tolta al popolo, ma già da questo primo fatto si comincia a vedere che la santità gli produrrà "spine e triboli", come ha fatto la terra con Adamo dopo il suo peccato.
Il paragone con il peccato originale di Adamo ed Eva continua ad essere efficace e rivela un carattere unitario del modo di agire di Dio. Il perdono annunciato dal Signore contiene in entrambi i casi una promessa che Egli farà continuare la storia in vista di un suo futuro intervento, ma resta il fatto che nel frattempo il peccato compiuto determina una rottura che non lascia le cose come prima. Dopo la caduta dei nostri progenitori, l'immagine di Dio presente nella coppia è rimasta, ma indubbiamente deformata; la donna ha continuato a partorire, ma con un dolore moltiplicato; l'uomo ha continuato a lavorare, ma con il "sudore della fronte"; la terra ha prodotto all'uomo non solo olio e frumento, ma anche "spine e triboli"; gli animali hanno avuto paura di lui e qualche volta l'hanno attaccato.
Animali puri e animali impuri
Ci si può chiedere allora se la severa distinzione tra animali puri e animali impuri sia davvero una superiore forma di saggezza donata da Dio al popolo eletto o una forma di disciplina all'interno del patto di conservazione dopo la caduta del popolo nell'idolatria. Di animali puri e impuri non si parla nel testo che Mosè lesse al popolo prima della ratifica del patto (Es. 24:7-8); non ne ha parlato neppure il Signore a Mosè nei quaranta giorni e quaranta notti trascorsi sul monte Sinai. Il popolo riceve per la prima volta queste disposizioni dalla bocca di Mosè ed Aaronne, su preciso ordine del Signore (Lev. 11:2).
Per quale scopo? Si sono ricercate ragioni igieniche di vario tipo, ma non sono affatto convincenti. Noi pensiamo soprattutto alla salute ("quando c'è la salute c'è tutto"), la Bibbia pensa invece soprattutto alla santità. E non è forse la santità che il Signore aveva deciso di mantenere per il suo popolo, e avrebbe voluto che il popolo mantenesse nei rapporti con Lui? La spiegazione migliore dunque la dà Dio stesso:
"Io sono l'Eterno, il vostro Dio; santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; non contaminatevi con alcuno di questi animali che strisciano sulla terra. Poiché io sono l'Eterno che vi ho fatto salire dal paese d'Egitto, per essere il vostro Dio; siate dunque santi, perché io sono santo" (Lev. 11:44-45).
Doveva dunque essere un segno, e nei rapporti giuridici i segni sono importanti. Non in se stessi, ma per la realtà che significano. Questo vuol dire che se la realtà significata contraddice il segno che la esprime, sono guai. Questo indubbiamente è avvenuto nella storia del popolo d'Israele, ma l'avvertimento vale anche per altri.
La cosiddetta "kasherut", l'insieme delle norme che regolano ciò che è lecito mangiare per un ebreo osservante, è rimasto indubbiamente un segno di distinzione di Israele rispetto agli altri popoli. Se il Signore considererà valida questa forma di "santità" rispetto agli altri popoli come una forma di santità anche rispetto a Lui, non sta a noi giudicare. M.C.
(Notizie su Israele, 20 aprile 2017)
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Yom HaShoah, Arie Reiter accende una delle fiaccole della memoria: “Israele è un miracolo da proteggere”
di Luca Spizzichino
Nella serata di mercoledì, in occasione della cerimonia di Stato per Yom HaShoah presso lo Yad Vashem, il sopravvissuto Arie Reite ha acceso una delle tradizionali fiaccole commemorative. Nato nel 1929 a Vaslui, in Romania, Arie è il primogenito di una famiglia religiosa chassidica. La sua infanzia è stata segnata dalla crescente ondata di antisemitismo che si abbatté sulla Romania, sulla scia delle leggi razziali hitleriane promulgate in Germania nel 1935.
“Le leggi contro gli ebrei iniziarono già nel 1936”, racconta. “Chiudevano le scuole agli ebrei, i legali ebrei non potevano più difendere in tribunale, non potevamo viaggiare in treno né fare acquisti in certi orari. Arrivavano una dopo l’altra”. Anche la sua famiglia fu colpita duramente. “Avevamo un ristorante, e una legge ci vietava di vendere vino. Senza quello, saremmo stati costretti a chiudere – ricorda Reiter – Così mio padre chiese a un vicino rumeno di prendere la licenza a suo nome. Lui accettò. Ma anni dopo, quello stesso vicino si presentò dicendo che il ristorante era suo. Mise un lucchetto e ci impedì di uscire dall’ingresso principale, costringendoci a entrare e uscire dalla finestra. Alla fine, ci trasferimmo in una baracca di legno”.
Durante gli anni Quaranta, la Romania fascista intensificò la persecuzione contro gli ebrei, con pogrom brutali, come quelli di Bucarest. “Venivano presi dalla polizia e fucilati. Scrivevano ‘carne kasher’ sui cadaveri”, prosegue Arie. Suo padre fu deportato in un campo di lavoro, dove morì. Nel gennaio del 1944, anche Arie fu arrestato e inviato in un campo. Aveva solo 14 anni. “C’erano decine di bambini. La fame era continua, il lavoro durissimo”, ricorda. La sua liberazione avvenne il 20 agosto 1944, con l’arrivo dell’Armata Rossa. Scalzo e denutrito, Arie percorse quasi 100 chilometri a piedi per tornare a casa. “Camminavamo nei campi, mangiavamo frutta trovata per strada e bevevamo dai pozzi. Quando arrivai, pesavo 30 chili”.
Dopo la guerra, si unì al movimento giovanile Bnei Akiva e partecipò attivamente all’organizzazione dell’emigrazione verso la Terra d’Israele. I suoi due fratelli emigrarono nel 1947: uno costruì il primo cannone israeliano, l’altro divenne uno dei primi paracadutisti. Arie arrivò nel 1951 e si stabilì a Be’er Sheva, dove si riunì con la sua famiglia. In Israele, Reiter ha avuto una carriera esemplare: ha lavorato nel Ministero delle Finanze e nella Banca Mizrahi, dove è diventato vicedirettore. Ha anche conseguito due lauree in storia del popolo ebraico e ha ricoperto numerosi incarichi pubblici. È stato il fondatore del Museo della Struma e fiduciario della Grande Sinagoga di Be’er Sheva per oltre sessant’anni. Nel 2002, la città lo ha insignito del titolo di Cittadino Onorario.
Nel corso della cerimonia, Arie ha rivolto un pensiero al presente. “Ho un nipote ufficiale dei carri armati, una nipote tenente colonnello nell’Aeronautica, e un’altra nella Marina. Se l’avessi detto ai tempi della Shoah, mi avrebbero preso per pazzo”, ha detto. “I miei nipoti servono in cielo, in terra e in mare. Come potremmo non sconfiggere questi criminali? Abbiamo l’esercito migliore, i soldati migliori.” E infine, il suo monito: “Non comprendiamo il miracolo che è lo Stato di Israele. Dobbiamo proteggerlo”.
(Shalom, 24 aprile 2025)
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Il realismo di Smotrich
Quando Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, afferma che Gaza deve essere occupata militarmente da Israele, che questo è l’unico modo di sconfiggere Hamas, che continuare a fornire aiuti umanitari significa solo consentire a Hamas di mantenere il suo potere saccheggiando viveri e medicinali lucrando sulla loro vendita, e che il blocco degli aiuti deve continuare, non esprime una posizione oltranzista ma l’unica improntata al buonsenso più assoluto.
Dopo un anno e mezzo di guerra, Israele controlla solo il 40% della Striscia, ovvero appena 365 km di territorio e Hamas, per quanto fortemente lesionato nella sua operatività, è ancora attivo.
Tutto questo è dovuto principalmente a due fattori.
Fin dall’inizio della guerra, Israele non ha optato per una invasione della Striscia finalizzata alla sua conquista preferendo operazioni settoriali di bonifica, e questo perché ha ritenuto che così facendo venisse salvaguardata la vita degli ostaggi. Su questo impianto strategico che finora ha precluso la vittoria e che, se mantenuto, continuerà a precluderla, si è innestata la costante interferenza gestionale dell’Amministrazione Biden, la quale ha cercato ripetutamente di coartare le operazioni militari israeliane, e ha imposto di fare entrare nella Striscia i rifornimenti per la popolazione, di fatto contribuendo sostanzialmente al mantenimento di Hamas. Il diffuso mantra del disastro umanitario, di cui l’ONU è il principale portavoce, è servito e serve all’organizzazione jihadista solo come copertura per restare in sella.
L’Amministrazione Trump, sugli aiuti umanitari a Gaza non sta esercitando particolari pressioni, ma resta il fatto che siamo ancora lontani dalla capitolazione di Hamas e solo la linea intransigente indicata da Smotrich può condurre a una vittoria vera.
Smotrich ha anche dichiarato, creando sdegno, che rispetto alla vittoria su Hamas, la liberazione degli ostaggi è secondaria. Non si può che dargli ragione un’altra volta.
Riportare a casa i rapiti è un dovere morale a cui certamente Israele non può abdicare, ma la sicurezza dello Stato viene prima, soprattutto dopo il 7 ottobre. Fino a quando Hamas permarrà all’interno della Striscia la sicurezza non potrà essere garantita, per cui sì, è necessario che Israele occupi il territorio per la sua intera estensione instaurando un governo militare che ne garantisca il controllo fino a quando, dopo averlo bonificato completamente dalla presenza di Hamas, potrà, con l’appoggio americano, passarne la consegna a una gestione araba che non sia quella della cleptocrazia filoterrorista dell’Autorità Palestinese.
(L'informale, 23 aprile 2025)
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Un vero leader morale?
Un fratello in fede che ci segue da molto tempo, e condivide il nostro amore per Israele, ci ha segnalato con desolazione un articolo dell’Osservatore Romano (22 aprile) dal titolo “Non disperdere la sua eredità”, in cui si riportano manifestazioni di elogio dello scomparso pontefice cattolico da parte di vari gruppi religiosi. La desolazione del nostro lettore è provocata dalla reazione della parte ebraica, così come riportata dal giornale vaticano:
"Il Congresso ebraico mondiale rende omaggio al Papa con il presidente Ronald Lauder che lo definisce «un vero leader morale, un uomo di profonda fede e umanità e un amico fedele del popolo ebraico. Dai suoi primi anni in Argentina fino al suo pontificato, Francesco si è impegnato profondamente nel promuovere il dialogo interreligioso e nel garantire che la memoria della Shoah rimanesse una lezione guida per le generazioni future». Lauder evidenzia fra l’altro l’apertura di un ufficio del Congresso ebraico mondiale in via della Conciliazione nell’ottobre 2023 per promuovere le relazioni con i cattolici. In Italia l’Unione delle comunità ebraiche, esprimendo «alle sorelle e ai fratelli cristiani il cordoglio per l’improvvisa perdita di Papa Francesco», osserva che «il suo lungo pontificato, segnato dall’anno giubilare in corso, attraversa diversi cambiamenti epocali e crisi mondiali che generano importanti riflessioni, per l’oggi e il domani, nel solco dell’imprescindibile dialogo tra le fedi», oltre all’«importante attenzione all’antisemitismo crescente». Si unisce al cordoglio il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, per il quale «il suo pontificato è stato un importante nuovo capitolo nella storia dei rapporti tra ebraismo e cattolicesimo, con aperture a un dialogo talvolta difficile ma sempre rispettoso. Ricordo le numerose occasioni in cui l’ho incontrato, segnate sempre da simpatia, attenzione e confidenza». L’Assemblea dei rabbini d’Italia evidenzia «le doti di grande umanità con cui ha saputo parlare al mondo in tempi estremamente difficili» e rievoca la visita alla Sinagoga di Roma il 17 gennaio 2016 «come momento particolarmente significativo di un sincero dialogo con il mondo ebraico e di sensibile preoccupazione per il riemergere dell’antisemitismo».”
Che dire davanti a un simile spettacolo? Più che la desolazione, davanti a una tale mole di mistificazioni prevale il disgusto. Non tanto per le solite strumentalizzazioni del potere vaticano, ma piuttosto per le avvilenti posizioni dei rappresentanti ebrei. Non aggiungiamo altro, perché ci sarebbe troppo da dire e troppa attenzione da mettere per non colpire inavvertitamente anche persone sincere tra ebrei e cattolici. M.C.
(Notizie su Israele, 24 aprile 2025)
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Ancora oggi i bambini ebrei sono bersagli
L'antisemitismo si adatta al contesto, cambia linguaggio e si trasforma da teologia a ideologia.
di
Yael Eckstein
Yael Eckstein
“Mai più”: è quello che ho sentito dire per tutta la vita. Non solo una volta, ma continuamente, come se il semplice ripeterlo potesse renderlo vero. Il messaggio era chiaro: il mondo aveva imparato la lezione. L'umanità aveva capito dove porta l'odio. Gli orrori dell'Olocausto non si sarebbero mai ripetuti.
Ci credevo perché ero convinta che le lezioni della storia fossero state interiorizzate, che l'antisemitismo, smascherato nella sua forma più abominevole, fosse stato condannato dalla comunità internazionale. Credevo che quell'odio appartenesse al passato.
Credevo che il mondo fosse cambiato, che dopo l'Olocausto l'antisemitismo fosse diventato moralmente inaccettabile. Credevo che le istituzioni, i governi e la società civile avessero fatto tesoro delle lezioni della storia e che il successo e l'integrazione degli ebrei nelle società democratiche, insieme a decenni di dialogo interreligioso e di educazione sull'Olocausto, avessero portato a un vero cambiamento. Lo Stato di Israele – forte, sovrano, aperto al mondo – sembrava la prova che eravamo entrati in un nuovo capitolo.
Ma poi è arrivato il 7 ottobre e ho dovuto riconoscere quanto mi fossi sbagliata.
L'antisemitismo non è un relitto del passato. Non è morto con la liberazione dei campi o la fondazione di Israele. Ha semplicemente imparato a sopravvivere. Si adatta all'ambiente circostante, cambia linguaggio, si trasforma da teologia a ideologia, da teoria razziale ad agenda politica. Non scompare. Si trasforma. E nel profondo rimane sempre lo stesso impulso: presentare gli ebrei come il problema.
Israele è stato attaccato. Famiglie sono state massacrate nelle loro case. Bambini sono stati rapiti e presi in ostaggio. È stato il giorno più sanguinoso per gli ebrei dall'Olocausto. Eppure, in molti luoghi la reazione prevalente non è stata il dolore, lo shock o l'indignazione morale.
Invece, in città dopo città, i manifestanti hanno marciato per le strade invocando apertamente la distruzione dello Stato ebraico. Slogan come “Dal fiume al mare”, “Intifada mondiale” e “La resistenza è giustificata” non erano un fenomeno marginale: sono stati scanditi da decine di migliaia di persone nelle capitali di tutto il mondo. Sono state sventolate bandiere di organizzazioni terroristiche. Nei campus universitari, gli studenti ebrei sono stati molestati, emarginati e intimiditi. In molti dibattiti pubblici, l'indignazione non era diretta contro i terroristi, ma contro Israele stesso.
Forse la cosa più dolorosa è che molte voci con cui un tempo eravamo schierati fianco a fianco – organizzazioni per i diritti civili, leader progressisti, gruppi minoritari che avevamo sostenuto e difeso – sono improvvisamente taciute. O, peggio ancora, si sono uniti alle critiche.
Ma non tutti hanno voltato le spalle. Per la prima volta nella storia, gli ebrei non sono stati lasciati completamente soli. Il 7 ottobre, mentre il mondo ricadeva nel vecchio odio, la comunità cristiana si è fatta avanti: un movimento mondiale di oltre 700 milioni di cristiani evangelici, molti dei quali hanno alzato la voce in modo chiaro e deciso.
Il loro sostegno non è rimasto teorico. È stato forte, chiaro, personale. Si è manifestato nelle preghiere, nelle donazioni, nelle dichiarazioni pubbliche, nei messaggi d'amore. Nelle chiese di tutto il mondo, i cristiani hanno pregato per gli ostaggi, nominandoli uno per uno. Hanno donato generosamente per sostenere le famiglie colpite. Hanno sventolato bandiere israeliane quando molti ebrei erano troppo spaventati per farlo.
Questo ha fatto la differenza.
Quando tanti hanno taciuto, loro hanno parlato. Quando altri si sono voltati, loro sono rimasti al nostro fianco. Ci hanno ricordato che “Mai più” non è un fardello che gli ebrei devono portare da soli, e non è qualcosa a cui si può rinunciare quando diventa scomodo mantenerlo.
Stasera celebriamo lo Yom HaShoah, il Giorno della Memoria dell'Olocausto, che in Israele inizia la sera del 23 aprile. Ricordiamo i sei milioni di ebrei assassinati, non solo quelli uccisi dalla macchina dell'orrore, ma anche quelli che sono morti perché il mondo ha distolto lo sguardo. Ricordiamo le famiglie distrutte, le comunità annientate e il silenzio che ha reso possibile tutto questo.
Ma ricordare non basta. Non quest'anno. Perché il male che ha portato ad Auschwitz è tornato, questa volta sotto forma di un linguaggio che si maschera da giustizia, di un odio che si spaccia per uguaglianza. Quest'anno la Giornata della Memoria non è solo un giorno per ricordare ciò che ci è stato fatto, ma anche ciò che ci viene fatto oggi. Qui in Israele l'allarme non potrebbe essere più urgente.
Una settimana prima di Pesach ero a Gerusalemme per una riunione quando improvvisamente sono suonate le sirene. Siamo corsi al rifugio. Neanche un minuto dopo ho ricevuto un messaggio da mia figlia. Era in Polonia. “Stai bene?”, mi ha chiesto, inviandomi una foto di sé avvolta in una bandiera israeliana mentre attraversava Auschwitz. “Anche con le sirene”, ha scritto, ‘siete fortunati ad essere a casa’.
Quel giorno non ha sentito sirene. Ma non era comunque al sicuro. Il suo gruppo viaggiava con guardie armate. Era loro vietato pubblicare la loro posizione. Perché anche ad Auschwitz, anche oggi, i bambini ebrei continuano ad essere bersagli.
In questo giorno dedicato alla memoria dell'Olocausto, piango il crollo di un giuramento. Il 7 ottobre, “mai più” è stato pronunciato con la stessa rapidità con cui era stato pronunciato nel 1945. Eppure continuo ad avere speranza. E sono grato. Perché la storia non si ripete completamente.
Il popolo ebraico ha un proprio Stato. E noi abbiamo degli amici.
Anche se molti si sono allontanati, milioni di cristiani non l'hanno fatto. Silenziosamente, con affidabilità, senza che nessuno glielo chiedesse, senza doverlo imparare prima: vedono ciò che sta accadendo e stanno al nostro fianco.
Forse è questo che dà una possibilità al “mai più” di rimanere vero. Non perché il pericolo sia scomparso, perché non è così. Non perché l'odio sia finito, perché non è così. Ma perché questa volta, quando le parole avrebbero potuto svuotarsi, qualcuno è intervenuto e le ha mantenute vive.
E forse è proprio questo ciò che serve: persone disposte a entrare in queste parole, non solo per ripeterle, ma per sostenerne il peso.
Forse questo è sempre stato il vero significato di “Mai più”: non una promessa, ma una responsabilità condivisa.
Ed è proprio questo ciò di cui abbiamo più bisogno ora.
(Israel Heute, 23 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Hamas non è più in grado di pagare i combattenti. Cosa vuol dire?
La campagna israeliana mirata a tagliare le fonti di finanziamento di Hamas comincia a dare i suoi frutti e potrebbe far più male delle bombe
di Paola P. Goldberger
Dopo oltre diciotto mesi di guerra, Hamas mostra segnali di difficoltà finanziarie che potrebbero aggravarsi e potenzialmente destabilizzare l’organizzazione. Secondo un articolo del 16 aprile pubblicato dal Wall Street Journal, Hamas non è stata in grado di pagare i suoi combattenti a causa delle operazioni israeliane contro l’infrastruttura finanziaria del gruppo.
Il rapporto è significativo perché risorse finanziarie adeguate sono essenziali per la capacità di Hamas di mantenere la propria capacità operativa. In questo contesto, gli sforzi mirati di Israele per paralizzare l’infrastruttura finanziaria di Hamas potrebbero rivelarsi più dannosi per la sostenibilità a lungo termine del gruppo rispetto all’eliminazione dei suoi comandanti, dei suoi uomini o delle sue risorse militari.
Diversi episodi accaduti durante la guerra illustrano gli sforzi di Israele per minare l’infrastruttura finanziaria di Hamas. Il 19 dicembre 2023, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e l’agenzia di intelligence Shin Bet hanno annunciato di aver eliminato Subhi Ferwana, un importante finanziatore di Hamas, responsabile del trasferimento di decine di milioni di dollari al gruppo.
Le IDF hanno affermato che Ferwana e suo fratello gestivano la società di cambio valuta Hamsat, che negli ultimi anni ha svolto il ruolo di canale finanziario per Hamas. Nei primi mesi del conflitto, Ferwana ha facilitato ingenti trasferimenti di fondi a sostegno delle capacità militari del gruppo, tra cui il pagamento degli stipendi dei combattenti e il finanziamento di attività legate alla guerra.
Hamas fa affidamento su questi finanziatori per canalizzare fondi dall’Iran e da altre fonti internazionali, utilizzando metodi di riciclaggio di denaro e di compensazione per eludere i sistemi di monitoraggio finanziario globali. L’eliminazione di Ferwana ha rappresentato un duro colpo per l’infrastruttura finanziaria di Hamas e la sua capacità di sostenere le operazioni militari.
Un altro esempio che illustra il ruolo cruciale dei cambiavalute di Gaza nel finanziamento di Hamas si è verificato il 4 aprile, quando l’IDF e lo Shin Bet hanno annunciato che un attacco aereo mirato nell’area di Gaza City aveva eliminato Saeed Ahmad Abed Khudari, figura centrale nella rete finanziaria di Hamas. Khudari operava come cambiavalute e guidava la Al Wefaq Company, che Israele aveva designato come organizzazione terroristica a causa del suo ruolo nel convogliare fondi verso gruppi terroristici.
Secondo l’IDF Khudari ha svolto un ruolo centrale nel facilitare i trasferimenti finanziari alla cosiddetta ala militare di Hamas, in particolare dopo il massacro del 7 ottobre. Le sue attività si sono intensificate in seguito all’eliminazione da parte di Israele di suo fratello, Hamed Khudari, che in precedenza fungeva da canale finanziario per le operazioni militari di Hamas.
Oltre alla morte del fratello, c’erano segnali d’allarme che indicavano che Israele avesse identificato Saeed come un potenziale bersaglio prima della sua eliminazione. Il 29 settembre 2023, il sito di notizie israeliano Walla ha implicato Saeed e altri palestinesi in uno schema finanziario che prevedeva il trasferimento di fondi iraniani a gruppi armati in Cisgiordania. L’articolo ha indicato la Al Wefaq Company, presso cui Saeed lavorava, come un’entità utilizzata da Hamas per trasferire fondi destinati al terrorismo in Cisgiordania.
Separatamente, Hamas ha rapinato banche per assicurarsi i fondi necessari alle sue operazioni. Secondo le accuse mosse dalle IDF, Hamas ha orchestrato il furto di centinaia di milioni di shekel dalle banche di Gaza City nel febbraio 2024. Il gruppo ha riconosciuto l’imminente prospettarsi di una guerra prolungata con Israele, nonché la necessità di assicurarsi risorse finanziarie per sostenere le proprie operazioni durante il conflitto più intenso della sua storia. L’onere economico di Hamas è significativo, con migliaia di combattenti che ricevono stipendi mensili medi tra i 200 e i 300 dollari.
Inoltre, il flusso di entrate di Hamas derivante dallo smistamento degli aiuti umanitari è diminuito considerevolmente in seguito alla decisione di Israele di interrompere l’assistenza umanitaria a Gaza, una misura adottata in risposta al rifiuto di Hamas di accettare un cessate il fuoco proposto dall’inviato speciale degli Stati Uniti in Medio Oriente Steve Witkoff.
I funzionari di Hamas non hanno pubblicamente riconosciuto alcun segno di difficoltà finanziarie. Ciononostante, il gruppo pubblica regolarmente messaggi sui social media per sollecitare donazioni a sostegno delle sue attività.
Il deterioramento della situazione finanziaria di Hamas rappresenta un vantaggio strategico per Israele, in quanto intensifica la pressione militare sul gruppo. Se a ciò si aggiunge il crescente dissenso pubblico e le proteste contro Hamas da parte di alcuni palestinesi nella Striscia di Gaza, Israele potrebbe essere in grado di sfruttare le vulnerabilità emergenti del gruppo.
(Rights Reporter, 23 aprile 2025)
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Negli USA livello di antisemitismo senza precedenti: l’allarme dell’ADL
di Jacqueline Sermoneta
Nuovo picco di antisemitismo negli Stati Uniti. A renderlo noto l’annuale rapporto dell’Anti-Defamation League (ADL), la maggiore organizzazione internazionale per l’antidiffamazione ebraica. Secondo lo studio, nel 2024, sono stati registrati 9.354 episodi antisemiti, dato che rappresenta un incremento del 5% rispetto al 2023, un aumento del 344% negli ultimi cinque anni e dell’893% negli ultimi 10 anni. Un record, da quando l’organizzazione ha iniziato a monitorare 46 anni fa. Nel 2024, dunque, si sono verificati più di 25 “incidenti antisemiti mirati” al giorno, più di uno ogni ora. Nel dettaglio, 196 aggressioni (in aumento del 21% dal 2023), 2.606 episodi di vandalismo (in aumento del 20% dal 2023) e 6.552 episodi di molestie (in aumento dello 0,26% rispetto al 2023).”Questo terribile livello di antisemitismo non dovrebbe mai essere accettato, tuttavia, come dimostrano i nostri dati, è diventato una realtà persistente e preoccupante per le comunità ebraiche americane. – ha affermato Jonathan Greenblatt, CEO e direttore nazionale dell’ADL – Gli ebrei americani continuano a essere molestati, aggrediti e presi di mira per quello che sono quotidianamente e ovunque vadano”.
Il numero più elevato di episodi antisemiti si è verificato nello Stato di New York, con 1.437 incidenti (più della metà, 976, a New York City) e in California, con 1.344 casi (297 a Los Angeles).
Il 2024 ha segnato anche il primo anno in cui la maggior parte degli episodi è legata a Israele o al sionismo (con 5.452 casi segnalati ovvero il 58% del totale). Di questi, quasi la metà si è verificata durante raduni antisraeliani sotto forma di discorsi, cori, cartelli e slogan antisemiti.
“Nel 2024, l’odio verso Israele è stato la forza trainante dell’antisemitismo negli Stati Uniti, con più della metà di tutti gli episodi antisemiti che facevano riferimento a Israele o al sionismo”, ha affermato Oren Segal, vicepresidente senior per la lotta all’estremismo presso l’ADL.
Nei campus universitari, il numero di incidenti è aumentato dell’84% rispetto all’anno precedente, raggiungendo il record di 1.694 casi. L’ADL ha attribuito gran parte dell’aumento alle manifestazioni antisraeliane che hanno sconfinato nell’incitamento all’odio o nel simbolismo antisemita.
(Shalom, 23 aprile 2025)
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Messe abolite e caccia al no vax. Con lui la Chiesa si prostrò allo Stato
Durante il Covid il pontefice seguì i diktat di politici come Draghi e rilanciò le false narrazioni sui vaccini.
di Francesco Borgonovo
Le descrivono come «le immagini passate alla Storia». Non c'è televisione o quotidiano online che non rilanci le foto e le riprese del 27 marzo 2020, il giorno in cui papa Francesco «commosse il mondo» (così ripetono i più) andando a pregare in piazza San Pietro. Attorno a lui, a Pasqua, soltanto la pioggia e il silenzio. Anche Sergio Mattarella, nel messaggio di cordoglio, ha voluto ricordare «la preghiera da solo in piazza San Pietro nei giorni del Covìd», presentandola come gesto altamente simbolico di un «uomo di speranza convinta contro ogni difficoltà». Erano appunto i giorni della pandemia, dei divieti e dei distanziamenti, delle reclusioni forzate e della paura sparsa a piene mani. E probabilmente sì, quelle immagini sono in effetti storiche, ma non per il motivo che i media amano evocare.
Le foto di Francesco da solo nel cuore della cristianità sono il perfetto emblema dell'atteggiamento tenuto in quel periodo dalla Chiesa, e in qualche modo anche della sua debolezza di fronte alle pressioni del mondo. Negli anni della pandemia, forse ben più che in altre epoche, ci sarebbe stato bisogno di una guida forte e autorevole, capace di agire come corpo intermedio fra lo Stato e la popolazione. Una Chiesa che mettesse concretamente in pratica le lezioni di Joseph Ratzinger e di altri autorevoli pensatori sul rapporto con la scienza, sulla libertà vera dell'uomo e sul modo in cui condurre una vita piena anche in una fase drammatica. E invece abbiamo avuto una istituzione completamente allineata alle posizioni dei principali leader politici, quasi del tutto indistinguibile dallo Stato persino quando quest'ultimo si rivelava oppressivo.
Passeranno alla Storia le immagini di piazza San Pietro, certo, ma anche la decisione di chiudere le chiese e cancellare le messe. Di distanziare i fedeli e di obbligarli all'utilizzo della mascherina. Passeranno alla storia i flaconi di disinfettante a sostituzione delle acquasantiere, e il silenzio terrificante di fronte alle irruzioni delle forze dell'ordine per bloccare i celebranti durante i riti.
Passerà alla Storia pure il discorso di Bergoglio in un videomessaggio alle popolazioni dell'America Latina nell'agosto del 2021. «Con spirito fraterno, mi unisco a questo messaggio di speranza in un futuro più luminoso. Grazie a Dio e al lavoro di molti, oggi abbiamo vaccini per proteggerci dal Covìd-19, Questi danno la speranza di porre fine alla pandemia, ma solo se sono disponibili per tutti e se collaboriamo gli uni con gli altri», disse il Pontefice. «Vaccinarsi, con vaccini autorizzati dalle autorità competenti, è un atto di amore. E contribuire a far sì che la maggior parte della gente si vaccini è un atto di amore.
Amore per sé stessi, amore per familiari e amici, amore per tutti i popoli. L'amore è anche sociale e politico, c'è amore sociale e amore politico, è universale, sempre traboccante di piccoli gesti di carità personale capaci di trasformare e migliorare le società. Vaccinarci è un modo semplice ma profondo di promuovere il bene comune e di prenderci cura gli uni degli altri, specialmente dei più vulnerabili. Chiedo a Dio che ognuno possa contribuire con il suo piccolo granello di sabbia, il suo piccolo gesto di amore. Per quanto piccolo sia, l'amore è sempre grande. Contribuire con questi piccoli gesti per un futuro migliore».
Presentare il vaccino come un atto di amore verso il prossimo era, a tutti gli effetti, una mistificazione, dato che le iniezioni potevano al massimo proteggere i singoli, e si è pure scoperto che non era nemmeno esattamente così. Di fatto, Francesco espose un ragionamento equivalente a quello di Mario Draghi, il tristemente celebre «non ti vaccini, ti ammali, muori». Una falsità patente servita da un lato per indurre i renitenti a sottoporsi al trattamento, dall'altro utile a giustificare la repressione e l'oppressione. La Chiesa ha taciuto davanti alla discriminazione più feroce di bambini e adulti, ha emarginato i sacerdoti che si opponevano alla tirannia e ha supportato la narrazione ufficiale di fatto abdicando a parte della sua funzione pastorale.
Questo è stato fatto, pur in contraddizione con quanto aveva scritto la Congregazione della dottrina della fede - massima autorità sulle questioni teologiche - riguardo alla modalità dei vaccini Covid. Ne autorizzava l'uso, certo ma precisava: «Nello stesso tempo, appare evidente alla ragione pratica che la vaccinazione non è, di norma, un obbligo morale e che, perciò, deve essere volontaria. In ogni caso, dal punto di vista etico, la moralità della vaccinazione dipende non soltanto dal dovere di tutela della propria salute, ma anche da quello del perseguimento del bene comune. Bene che, in assenza di altri mezzi per arrestare o anche solo per prevenire l'epidemia, può raccomandare la vaccinazione, specialmente a tutela dei più deboli ed esposti. Coloro che, comunque, per motivi di coscienza, rifiutano i vaccini prodotti con linee cellulari procedenti da feti abortiti, devono adoperarsi per evitare, con altri mezzi profilattici e comportamenti idonei, di divenire veicoli di trasmissione dell'agente infettivo. In modo particolare, essi devono evitare ogni rischio per la salute di coloro che non possono essere vaccinati per motivi clinici, o di altra natura, e che sono le persone più vulnerabili». Massima precauzione e cautela, linguaggio felpato, ma un messaggio chiaro: la vaccinazione deve essere volontaria, non estorta o obbligatoria. Parole, con tutta evidenza, cadute nel vuoto.
Non solo le istituzioni ecclesiastiche non si prodigarono per impedire le vessazioni sui non vaccinati, ma Francesco in persona alimentò l'astio verso i non vaccinati. Nel 2021 dichiarò: «Anche nel collegio cardinalizio ci sono negazionistì e uno di questi, poveretto, è ricoverato con il virus ... ironia della vita». Una splendida ironia, come no, fatta a spese del cardinale Raymond Burke, che in quel momento era ricoverato in terapia intensiva.
Può anche darsi, allora, che Bergoglio sia stato il Papa degli ultimi. Ma a quanto pare anche fra gli ultimi e i discriminati si possono fare differenze senza sentirsi troppo in colpa.
(La Verità, 23 aprile 2025)
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L'istituzione religiosa di nome Chiesa Cattolica (detta sbrigativamente Chiesa), avente centro in Roma, che si pretende essere di fondazione voluta da Dio, e di conseguenza si autoidentifica come superiore autorità morale dell'intero mondo, è sempre vissuta in simbiosi armonica o concorrenziale con il mondo gestito dal biblico "principe di questo mondo" che "quando dice il falso, parla del suo, perché è bugiardo e padre della menzogna" (Romani 8:44). Non sorprende dunque che Draghi (Mondo) e Bergoglio (Chiesa) abbiano parlato e agito in piena sintonia. Non è un fatto nuovo: è soltanto più evidente. M.C.
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Israele si rimangia il messaggio di cordoglio
Gerusalemme pubblica un post su X, poi lo rimuove. Ira degli ambasciatori ebraici.
di Sarina Biraghi
«Riposa in pace, papa Francesco. Che la sua memoria sia una benedizione». È il post di condoglianze ufficiale su X da parte delle ambasciate israeliane in tutto il mondo, che il ministero degli Esteri israeliano ha fatto cancellare poche ore dopo la pubblicazione. Secondo i media ebraici, la decisione ministeriale ha provocato l'indignazione degli ambasciatori israeliani nel mondo, specie quelli nei Paesi cattolici, e le critiche interne alla dirigenza del ministero a Gerusalemme.
«Abbiamo reagito alle parole del Papa contro Israele durante la sua vita, non parleremo dopo la morte», ha sottolineato un funzionario degli Esteri in linea con il silenzio del premier Benjamin Netanyahu e del ministro degli Esteri Gideon Sa'ar sulla morte di Bergoglio. Soltanto il presidente Isaac Herzog aveva espresso le sue condoglianze al mondo cattolico.
Oltre alla rimozione del post, agli ambasciatori è stato anche intimato di non firmare libri di condoglianze presso le ambasciate vaticane in tutto il mondo. Secondo indiscrezioni, in una chat Whatsapp i diplomatici si sarebbero lamentati sottolineando il possibile danno d'immagine per Israele, in particolare tra le centinaia di milioni di fedeli cattolici in tutto il mondo: «Stiamo cancellando un tweet semplice e innocente che esprimeva condoglianze basiche ed è chiaro a tutti che ciò è dovuto solo alle critiche del Papa a Israele per i combattimenti a Gaza».
Lo scorso novembre, infatti, il Papa aveva chiesto pubblicamente di indagare sull'ipotesi che a Gaza fosse in corso un genocidio da parte dell'esercito di Tel Aviv: una presa di posizione criticatissima dalle gerarchie dello Stato ebraico. Parlando delle azioni di Israele in Libano, poi, il Pontefice aveva sottolineato che «la difesa deve essere sempre proporzionata all'attacco: quando c'è qualcosa di sproporzionato si fa vedere una tendenza dominatrice che va oltre la moralità». Un diplomatico, nella chat riportata da Ynet, ha ribadito: «Abbiamo ricevuto l'ordine di cancellare i tweet senza alcuna spiegazione. Quando abbiamo chiesto chiarimenti, ci è stato detto che la questione era in fase di revisione. Non è abbastanza, non per noi e per il pubblico che rappresentiamo». Un alto funzionario del ministero ha risposto alla testata israeliana che «il tweet è stato pubblicato per errore». Inoltre, sempre secondo il quotidiano online, l'ex ambasciatore in Italia, Dror Idar, ha dichiarato ieri che Israele non dovrebbe inviare un rappresentante al funerale del Pontefice perché «ha incitato all'antisemitismo», durante l'operazione Spade di Ferro.
(La Verità, 23 aprile 2025)
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Netanyahu ha fatto bene. Dror Idar ancora meglio. M.C.
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Gaza: proposta tregua di anni. Smotrich minaccia di far cadere il governo
L’Egitto e il Qatar, i mediatori nei negoziati tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco e un accordo sugli ostaggi, hanno fatto una nuova proposta per una tregua di un anno e per il ritiro completo di Israele da Gaza, insieme a uno scambio di ostaggi per prigionieri, secondo quanto riferito dalla BBC a un alto funzionario palestinese che ha familiarità con i colloqui.
L’offerta riportata include un cessate il fuoco di anni, la fine formale della guerra, il ritiro completo dell’IDF da Gaza e il rilascio di “tutti gli ostaggi israeliani in cambio di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane”.
Il rapporto non dice se anche i restanti ostaggi non israeliani – due ritenuti vivi, un thailandese e un nepalese, e i corpi di due thailandesi e un tanzaniano – saranno liberati.
La fonte palestinese afferma che Hamas ha espresso la volontà di cedere il controllo della Striscia a qualsiasi entità palestinese concordata, sia essa l’Autorità Palestinese o un organismo amministrativo di nuova formazione. Il funzionario afferma che lo sforzo di mediazione è serio e che il gruppo terroristico ha mostrato “una flessibilità senza precedenti”.
L’emittente britannica afferma che Israele non ha commentato il piano e che un’alta delegazione di Hamas si recherà al Cairo per le consultazioni.
• Intanto Smotrich minaccia una crisi di governo
Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich critica l’attuale prosecuzione della guerra a Gaza, affermando che se i combattimenti non si intensificano, l’attuale governo “non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza”.
Parlando al canale di destra Channel 14, Smotrich afferma che quando il cessate il fuoco è stato firmato a gennaio, “ho detto inequivocabilmente che saremmo tornati a combattere in un modo completamente diverso: puntando a sottomettere, a sconfiggere, a distruggere Hamas, a conquistare la Striscia di Gaza e a imporvi il dominio militare, a prendere il territorio e a segnalare internamente ed esternamente che chiunque si metta contro di noi verrà demolito”.
“Ma purtroppo non è quello che sta accadendo”, aggiunge. “Penso che sia giunto il momento di attaccare Gaza. Se ciò non accade, questo governo non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza”.
Commentando l’indignazione che ha suscitato in precedenza affermando che, pur essendo importante, la restituzione degli ostaggi “non è la cosa più importante”, Smotrich accusa i suoi critici di cercare di “mettere a tacere e zittire un’opinione che è la più giustificata e corretta”.
(Rights Reporter, 22 aprile 2025)
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Trump sta facendo il gioco dell'Iran?
A Gerusalemme cresce la preoccupazione che gli Stati Uniti e l'Iran stiano andando verso un nuovo accordo sul nucleare che ignora gli interessi di sicurezza di Israele e non impedisce a Teheran di dotarsi della bomba atomica, ma solo ne ritarda la realizzazione.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Come riporta l'emittente araba Al-Arabiya, Mohammad Mahdi Shahriari, membro del Comitato di sicurezza nazionale del Parlamento iraniano, ha rivelato che già da due anni esistono contatti diretti tra il regime iraniano e l'entourage di Trump, con la conoscenza e l'approvazione della massima autorità spirituale Ayatollah Ali Khamenei. Ancora più esplosivo: secondo Shahriari, il negoziatore americano avrebbe accettato tutte le richieste iraniane. Majid Takht-Ravanchi, diplomatico di alto rango e membro dell'attuale squadra negoziale, avrebbe già confermato, secondo Shahriari, che un ritorno di Trump all'accordo nucleare del 2015 sarebbe stata solo una questione di scena pubblica. Se Trump si fosse presentato davanti alle telecamere e avesse annunciato un ritorno, Teheran sarebbe stata pronta a seguirlo.
Ricordiamo che nel 2018 Trump aveva annunciato il recesso unilaterale degli Stati Uniti dall'accordo nucleare, dando così inizio a una fase di forti tensioni. L'Iran ha reagito con una graduale escalation dell'arricchimento dell'uranio, che ha raggiunto recentemente il 65%, pericolosamente vicino alla soglia della bomba atomica.
Si negozia a porte chiuse e Israele guarda con crescente preoccupazione. Il primo round di colloqui tra i rappresentanti dell'amministrazione Trump e il regime iraniano si è già tenuto in Oman. Il secondo round si è svolto l'altro ieri in modo discreto nell'ambasciata dell'Oman a Roma ed è stato valutato in modo sorprendentemente positivo da entrambe le parti. A Gerusalemme, invece, suonano i campanelli d'allarme. Il ministro Ron Dermer è stato informato dallo speciale inviato statunitense Steve Witkoff sullo stato dei colloqui. Tuttavia, nell'apparato di sicurezza israeliano regna il malessere: nessuno è attualmente in grado di valutare quale linea il presidente Trump intende seguire nei confronti di Teheran e con quali stratagemmi diplomatici cercherà di frenare le ambizioni nucleari iraniane.
Secondo fonti del governo israeliano, nella prima tornata di negoziati con l'Iran, l'amministrazione Trump non ha nemmeno chiesto lo smantellamento completo degli impianti nucleari iraniani, una misura che nel precedente caso libico del 2003 era considerata lo standard minimo. Cresce lo scetticismo nel ministero degli Esteri israeliano: Steve Witkoff, inviato degli Stati Uniti e capo negoziatore, sembra non essere all'altezza del gioco diplomatico degli iraniani. A Gerusalemme lo considerano inesperto nel trattare con un regime che da decenni è considerato maestro nell'arte dell'inganno e dei ritardi tattici. Gli iraniani, si dice dietro le quinte, non stanno solo prendendo tempo, ma stanno già dettando il ritmo.
In un'intervista alla rete televisiva statunitense Fox News, Witkoff ha affermato che l'Iran non ha bisogno di arricchire l'uranio oltre il 3,67%. “In alcuni casi lo arricchiscono al 60%, in altri al 20%. Non può continuare così. Per un programma nucleare civile non c'è motivo di superare il 3,67%”. La posizione israeliana è chiara. L'arricchimento dell'uranio sul suolo iraniano è categoricamente rifiutato.
Il giorno prima Trump aveva minacciato l'Iran di attacchi contro i suoi impianti nucleari e si era detto irritato per i possibili tentativi di inganno da parte di Teheran alla vigilia del prossimo round di colloqui. “Devono risolvere questo problema molto rapidamente”, ha avvertito Trump più volte davanti alle telecamere. “È semplice: non possono ottenere armi nucleari. Ci sono molto vicini, ma non le avranno. E se dovremo fare qualcosa di molto duro, lo faremo. Non lo faccio per noi, ma per il mondo. Queste persone sono estremisti, non possono avere armi nucleari”. Trump ha anche esortato l'Iran ad ‘abbandonare completamente il concetto di armi nucleari’ e ha affermato che se il Paese compisse questo passo, potrebbe diventare ‘una grande nazione’.
Le rivelazioni di Al-Arabiya e i recenti colloqui diretti tra Washington e Teheran sollevano questioni scomode, soprattutto per Israele. Se le dichiarazioni fossero vere, infatti, il governo Netanyahu avrebbe operato fino al 2020 sulla base di presupposti completamente errati. La durezza pubblica di Trump nei confronti del regime dei mullah potrebbe rivelarsi, a posteriori, una messinscena politica, mentre dietro le quinte si negoziava già da tempo un ritorno all'accordo. La fiducia di Israele in Trump è stata quindi un errore? E quali garanzie offre una diplomazia di questo tipo per il futuro? Questo potrebbe anche spiegare perché, secondo il New York Times, il presidente americano Trump abbia negato a Israele il sostegno per un attacco agli impianti nucleari iraniani previsto per il prossimo maggio.
Alti funzionari della sicurezza a Gerusalemme lanciano l'allarme. Un nuovo accordo nucleare tra gli Stati Uniti e l'Iran potrebbe essere un disastro per la sicurezza di Israele. Se venisse concluso, consentirebbe a Teheran, con la benedizione americana, di entrare in una fase di stallo che durerebbe anni, per poi riprendere la costruzione della bomba atomica una volta terminato il mandato di Trump. Ancora più grave, dal punto di vista israeliano, è il fatto che finché Trump sarà in carica, un attacco preventivo israeliano contro gli impianti nucleari iraniani sarebbe di fatto bloccato. Senza il via libera di Trump, è politicamente impensabile. Ciò equivarrebbe di fatto a una vittoria strategica dell'Iran. Trump è da un lato un vantaggio per Israele, ma dall'altro anche uno svantaggio, come in questo caso. Un amico come Trump non si può irritare.
(Israel Heute, 21 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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«Un amico come Trump non si può irritare». E già, gli amici ...
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Sì, adesso è il momento della “Cantica”
I propagandisti della resa che agiscono tra noi chiedono di fermare la guerra e firmare un accordo. Come servizio pubblico, riportiamo le richieste di Hamas nell’ultimo negoziato. Impariamo invece dal settimo giorno di Pesach che segna l’apertura del Mar Rosso e la sconfitta definitiva del nemico.
di Dror Eydar
Ambasciatore d’Israele in Italia 2019-2022
-1. “Tempo di guerra, anche l’immagine di queste cose era la sua immagine” (N. Alterman). Stiamo combattendo per la nostra esistenza. Non dobbiamo dimenticarlo, anche se ci sono tra noi quelli che cercano di danneggiare il nostro senso di giustizia. “Offuscherò la sua mente, e dimenticherà che la giustizia è con lui“, così Alterman descrisse l’azione di Satana di fronte al suo fallimento nello sconfiggere lo Stato d’Israele assediato. La demolizione del senso di giustizia è destinata a danneggiare la volontà di combattere. Perciò, non dobbiamo dimenticare.
Il settimo giorno di Pesach è dedicato alla divisione del Mar Rosso e al miracolo della salvezza del nostro popolo, una settimana dopo la sua uscita dalla casa della schiavitù. Vedendo i soldati dell’impero egiziano morti sulla riva del mare, i figli d’Israele intonarono in un cantica potente. Questo non accadde durante la piaga dei primogeniti, né durante l’uscita dall’Egitto, ma proprio lì, quando videro la sconfitta della forza militare dell’Egitto, cioè la sconfitta del regno oppressore, allora le masse di schiavi fecero veramente loro la libertà.
- 2. Loro sono morti, e noi cantiamo? Sì. Loro sono i malvagi. “Le opere delle mie mani affogano nel mare, e voi cantate?” fu detto agli angeli e non alle vittime designate che cantavano per il miracolo della loro salvezza. Nelle ultime generazioni è stato ulteriormente dimostrato che l’espressione “le opere delle mie mani affogano nel mare” si riferisce ai figli d’Israele che erano in grande difficoltà, e non ai malvagi che cercavano di sterminarli.
Il 7 ottobre, i nuovi nazisti hanno cercato di commettere un genocidio contro di noi. Avevano pianificato di farlo in tre fasi, ma sono riusciti a completare il loro piano solo nella prima fase. Inizialmente avevano pianificato di invadere gli insediamenti intorno a Gaza e le città vicine, poi di raggiungere città come Beer Sheva e Ashdod e persino Rehovot e Nes Ziona, e infine Tel Aviv.
Hanno decapitato i nostri figli, hanno violentato le nostre figlie fino a quando il loro bacino si è spezzato e poi hanno sparato alle loro teste, hanno legato genitori e figli e li hanno bruciati vivi, hanno distrutto comunità pacifiche, bruciato e saccheggiato tutto ciò che potevano, e poi hanno rapito centinaia di vivi e morti nelle gallerie preparate in anticipo. Si sono vantati di questo, hanno filmato e pubblicato sui social media. Terra, non coprire il loro sangue.
- 3. Un piccolo gruppo tra noi, che ha perso la bussola morale, tenta di convincerci che la guerra è ora senza scopo, e che stiamo colpendo inutilmente i gazawi. Anche altri cento anni non basterebbero per ripagare questi malvagi dei loro crimini. Tengono ancora 59 dei nostri fratelli e sorelle, vivi e morti. Dobbiamo combattere per il loro salvataggio e liberazione. Questo gruppo confuso racconta che gli ostaggi possono essere salvati con un accordo. In questo modo, gettano sabbia nei nostri occhi e prolungano la permanenza degli ostaggi in prigionia di Hamas, e naturalmente ne aumentano il prezzo. Ancora più grave, la propaganda per porre fine alla guerra da parte del nostro popolo mette in pericolo il nostro futuro e le nostre vite qui nella terra desiderata dai nostri padri.
I leader di Hamas osservano l’abbandono nelle nostre strade e nei media, e capiscono che possono insistere. Ecco una notizia di questa settimana: “Hamas ha informato l’Egitto che l’apertura per qualsiasi accordo è un cessate il fuoco e un ritiro (da tutta la Striscia), non il disarmo della resistenza (cioè l’organizzazione Hamas), e che respingono categoricamente qualsiasi discussione sulla questione delle armi; è completamente inaccettabile“. Non solo secondo questi nazisti è inaccettabile, ma anche secondo i propagandisti della resa tra noi.
Ci occuperemo di Hamas dopo, dicono. Ovvio, come non ci hanno pensato? Dopo Oslo, il ritiro dal Libano, il disimpegno dalla Striscia di Gaza, la liberazione di Gilad Shalit e altro – abbiamo promesso che l’avremmo fatto. Ma non l’abbiamo fatto, piuttosto abbiamo permesso la creazione di un’enorme entità terroristica, la cui ragion d’essere – dall’ultimo dei suoi bambini al più pericoloso dei suoi terroristi – è la distruzione di Israele e l’uccisione degli ebrei. Non l’abbiamo fermata in tempo, e abbiamo ricevuto il 7 ottobre. È pericoloso ascoltare coloro la cui mente è offuscata e che hanno perso il minimo senso della giustizia.
- 4. Per comprendere la portata della perdizione morale, militare e politica dei propagandisti della resa, ecco le richieste di Hamas nell’ultimo negoziato per il ritorno di dieci o undici ostaggi. Gli altri rimarranno nelle mani di Hamas, un promemoria del diavolo per assicurarsi che Israele non attacchi e mantenga poi l’impegno. Da Gilad Shalit hanno imparato che basta un ostaggio per disgregare la società israeliana.
Ebbene, secondo le pubblicazioni di questa settimana, tra cui l’eccellente canale Telegram di Guy Bechor (consigliato!), queste sono le richieste di Hamas che, nonostante la sua situazione, confida ancora nella sua capacità di sconfiggerci. Come abbiamo visto, Hamas rifiuta persino di discutere del suo disarmo e del suo esilio dalla Striscia di Gaza. Chiede di rimanere come organizzazione militare nella Striscia, parte del governo e della politica a Gaza dopo la guerra, e respinge qualsiasi tentativo di emarginazione. Chiede un completo ritiro di Israele fino ai confini del 6 ottobre, compresa la zona di sicurezza (“il perimetro”), e si oppone all’intervento straniero, anche di paesi arabi, e certamente dell’Autorità palestinese di Ramallah.
Sullo sfondo delle dichiarazioni pubbliche senza alcun copertura logica tra noi, cioè fare un accordo e violarlo subito dopo aver ricevuto i nostri ostaggi (geniale, no?), Hamas chiede “forti” garanzie internazionali che Israele non tornerà ad attaccare. In breve, chiede l’immunità per i terroristi che si riposizioneranno di fronte agli insediamenti di confine e pianificheranno il prossimo massacro. I miliardi per la ricostruzione della Striscia che doneranno gli sciocchi e gli ingenui del mondo, Hamas chiede di riceverli direttamente o in collaborazione con organizzazioni sotto il suo controllo come l’UNRWA, e assolutamente non all’Autorità Palestinese.
Tutto questo in cambio del rilascio di circa dieci ostaggi. Gli altri rimarranno in ostaggio fino alla completa riabilitazione dell’entità nazista e alla sua preparazione per la prossima invasione, dopo aver convinto il capo dello Shin Bet in carica che si tratta di un’entità parastatale ragionevole che preferisce gli affari e la gestione dell’economia alla propria distruzione, e naturalmente con il favorevole giudizio dei media. A ciò aggiungeremo il costante ombrello protettivo del sistema giudiziario, che continua a legarci le mani per non colpire preventivamente quelli che cercano di ucciderci, e che ci costringe a fornire loro aiuti “umanitari”.
Le conseguenze di un tale accordo significherebbero rendere ogni ebreo nel mondo un obiettivo legittimo per il rapimento. Questo diventerebbe d’ora in poi il certificato di assicurazione di ogni assassino di ebrei ovunque si trovi.
-5. Non abbiamo ancora visto l’attuale Capo di Stato Maggiore condurre una guerra, poiché da quando è stato nominato stiamo combattendo a bassa intensità e le “porte dell’inferno” non sono ancora state aperte su Gaza. Il precedente Capo di Stato Maggiore era molto impegnato nella conquista della Striscia, e quindi ha operato con il metodo delle incursioni: l’IDF ha combattuto ed è uscito più volte nello stesso posto. Dopo le incursioni ci siamo ritirati dal territorio, permettendo al nemico di riorganizzarsi e soprattutto di prendere nuove energie e fiducia.
Le dieci piaghe sono simili al metodo delle incursioni. Dopo ogni piaga c’era una tregua e gli egiziani potevano riprendersi. Ciò ha portato il faraone a pensare che avrebbe superato il periodo difficile e sarebbe sopravvissuto. A differenza delle dieci piaghe, la divisione del Mar Rosso è stata il colpo finale. Perciò i nostri saggi nell’Haggadà esaltano anche le piaghe subite dagli egiziani sul mare e la grandezza della sconfitta egiziana lì.
E in effetti, solo dopo la divisione del Mar Rosso e l’annegamento dell’esercito egiziano con i suoi carri temibili – quando le masse di schiavi videro i loro precedenti padroni trascinati dalle onde del mare e gettati morti sulla riva – è scritto: “E credettero nel Signore e in Mosè suo servo“. Il termine “credere” nella Bibbia non si riferisce alla fede religiosa (questo è un significato più tardo, probabilmente dal periodo dei Geonim) ma alla fiducia. Solo allora il popolo giunse alla conclusione che si poteva contare sul Signore e su Mosè. E quando lo comprendono, dalle loro bocche erompe un potente canto di uomini liberi che si sono appena salvati dalla morte, al culmine di una lunga lotta per la loro liberazione dalla casa della schiavitù verso la loro patria storica. Non è stato un evento isolato. Vedremo ancora i giorni che ci illumineranno con luce preziosa. “Come nei giorni della tua uscita dall’Egitto, mostrerò meraviglie” (Michea 7,15).
(da Israel Hayom, 16 aprile 2025)
(Kolòt - Morashà, 21 aprile 2025)
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Dall’Iran al Venezuela: Hezbollah sotto accusa in un nuovo disegno di legge americano
Il testo del ddl bipartisan prevede che il Segretario di Stato possa designare come “santuari terroristici” i numerosi Paesi o le aree che offrono protezione o sostegno alle attività di Hezbollah e che il governo Usa potrà imporre sanzioni individuali a funzionari o attori economici che collaborino con l’organizzazione.
di Davide Cucciati
Hezbollah opera ormai su scala globale, intrecciando alleanze politiche, traffici illeciti e strategie militari. Il suo radicamento in America Latina non è un fenomeno recente né marginale: da anni l’organizzazione sciita consolida reti logistiche, finanziarie e operative in vari Paesi dell’area. Alla luce di questi legami sempre più consolidati, il 4 marzo 2025 è stato presentato negli Stati Uniti un disegno di legge bipartisan, il No Hezbollah in Our Hemisphere Act, promosso dai senatori Jacky Rosen (Democratica) e John Curtis (Repubblicano), volto a contrastare l’influenza del gruppo nel continente.
Secondo Rosen e Curtis, solo Argentina, Colombia, Guatemala, Honduras e Paraguay hanno finora designato Hezbollah come organizzazione terroristica; la sua presenza risulta documentata in Perù, Cile, Colombia e nell’area dei tre confini tra Argentina, Brasile e Paraguay. Tra i Paesi latinoamericani coinvolti in queste dinamiche, il Venezuela occupa una posizione centrale. Nella proposta di legge americana, il regime di Maduro viene definito “la base operativa avanzata dell’Iran in America Latina”.
Il testo prevede che il Segretario di Stato, in coordinamento con le agenzie di intelligence statunitensi, possa designare come “santuari terroristici” i Paesi o le aree che offrono protezione o sostegno alle attività di Hezbollah. Il governo statunitense potrà imporre sanzioni individuali, inclusa la revoca dei visti e delle autorizzazioni di viaggio, a funzionari o attori economici che collaborino con l’organizzazione. Il presidente potrà concedere deroghe solo per motivi di sicurezza nazionale o obblighi internazionali, ma dovrà notificarle al Congresso entro 30 giorni e avranno validità limitata. A livello diplomatico, ai governi latinoamericani sarà richiesto di designare Hezbollah come gruppo terroristico. Il disegno di legge è stato elogiato dall’American Jewish Committee che ha definito la presenza di Hezbollah nella regione una minaccia concreta per le comunità ebraiche e per la stabilità dell’emisfero occidentale.
In questo contesto si inserisce la notizia, riportata il 16 aprile 2025 dal Times of Israel, secondo cui circa 400 comandanti operativi di Hezbollah e le loro famiglie avrebbero recentemente lasciato il Libano per stabilirsi in Venezuela, Ecuador, Colombia e Brasile. La notizia, attribuita a una fonte dell’ambasciata argentina in Libano, conferma e aggrava le preoccupazioni già espresse nella proposta legislativa americana, rafforzando l’ipotesi di un’espansione operativa pianificata nel continente.
• Ostacolata sotto Obama l’indagine per smantellare i traffici di Hezbollah
Il legame tra Hezbollah e l’America Latina non è nuovo. Già nel 2017, un’inchiesta di Politico Magazine firmata da Josh Meyer, intitolata “The secret backstory of how Obama let Hezbollah off the hook”, ha sostenuto che l’amministrazione Obama avrebbe rallentato o ostacolato l’operazione “Project Cassandra”, una vasta indagine condotta dalla DEA per smantellare le attività di traffico di droga e riciclaggio di denaro attribuite a Hezbollah. Politico riporta che questi rallentamenti sarebbero stati motivati dalla volontà di non compromettere l’accordo sul nucleare con l’Iran, principale sponsor del gruppo sciita. L’ipotesi che il negoziato con Teheran potesse aver avuto un’influenza diretta sulla gestione delle inchieste è rimasta al centro di numerosi dibattiti, ma non ha trovato un riconoscimento unanime da parte della comunità politica o giornalistica statunitense.
Sempre secondo l’inchiesta di Politico, l’operazione Project Cassandra avrebbe individuato una rete internazionale che generava enormi profitti attraverso traffico di cocaina, riciclaggio di denaro e altre attività criminali. Hezbollah avrebbe raccolto, così, fino a un miliardo di dollari. Una delle componenti più redditizie di questa rete sarebbe stata quella guidata da Ayman Saied Joumaa, cittadino colombiano-libanese ritenuto vicino sia a Hezbollah sia al cartello dei Los Zetas. La sola rete di Joumaa avrebbe riciclato fino a 200 milioni di dollari al mese, movimentando i fondi attraverso circa 300 concessionarie di auto usate: le auto venivano acquistate negli Stati Uniti con denaro del narcotraffico, spedite in Benin, sulla costa occidentale dell’Africa, e i proventi tornavano in Libano tramite circuiti finanziari non tracciabili. Tra le figure centrali identificate dall’indagine compariva anche Chekri Mahmoud Harb, soprannominato “Taliban”, coordinatore di spedizioni di cocaina dal Sud America verso Europa e Medio Oriente. In base alle ricostruzioni della DEA, Harb avrebbe versato una quota dei profitti direttamente a Hezbollah. Era la combinazione di questi flussi, su scala intercontinentale, a sostenere finanziariamente le attività militari e logistiche dell’organizzazione sciita.
L’inchiesta di Politico su “Project Cassandra” ha suscitato reazioni contrastanti. Secondo quanto riportato da Business Insider, alcuni ex funzionari dell’amministrazione Obama hanno negato che ci siano state interferenze politiche deliberate volte a proteggere Hezbollah, sostenendo che le indagini siano proseguite normalmente e che eventuali rallentamenti fossero dovuti a motivi operativi, come la mancanza di prove univoche o le difficoltà di coordinamento tra le agenzie federali.
• I traffici di droga di Hezbollah anche in Europa
Al di là delle polemiche politiche e giornalistiche sorte intorno al Project Cassandra, l’associazione tra Hezbollah e i traffici internazionali di droga ha trovato riscontro anche in episodi documentati su suolo europeo. Un caso particolarmente rilevante risale al 1º luglio 2020, quando le autorità italiane annunciarono il sequestro di oltre 84 milioni di pasticche di Captagon nel porto di Salerno, per un peso complessivo di circa 14 tonnellate e un valore stimato superiore a 1 miliardo di euro. Inizialmente, il carico fu attribuito all’ISIS, ma secondo Foreign Policy, è più probabile che la produzione e il traffico fossero orchestrati dal regime siriano di Bashar al-Assad con il supporto tecnico di Hezbollah.
Anche secondo un’inchiesta di Le Monde, Hezbollah avrebbe costruito un sistema finanziario parallelo che collega il traffico di droga in America Latina con il finanziamento delle sue operazioni in Medio Oriente. La cocaina prodotta in Sud America verrebbe trasportata attraverso l’Africa occidentale, dove viene venduta, e i proventi in contanti trasferiti a Beirut tramite uffici di cambio e banche locali. Tali fondi servirebbero a finanziare l’acquisto di armi e le attività militari del gruppo sciita in Siria e Libano. Anche in quest’inchiesta si cita la regione della triplice frontiera, tra Paraguay, Argentina e Brasile, che rappresenterebbe un nodo centrale di queste attività, grazie alla presenza di comunità libanesi ben radicate e alla collaborazione con reti criminali locali. Le Monde riferisce inoltre che, in quartieri a forte presenza sciita come Marcory ad Abidjan in Costa d’Avorio, parte della diaspora libanese contribuirebbe all’impegno bellico di Hezbollah tramite una “zakat” definita come “tassa informale”, distinta dalla tradizionale elemosina religiosa islamica e che si affiancherebbe a pratiche consolidate come il traffico di droga, diamanti e armi.
L’economia parallela costruita da Hezbollah non si limita però a quanto descritto. Anche sul territorio libanese, in particolare nella Valle della Beqa, l’organizzazione avrebbe sviluppato forme di finanziamento attraverso il commercio di hashish, secondo quanto riportato da Foreign Policy e Arab News. Tali attività, sebbene locali, seguono logiche simili a quelle adottate nei traffici latinoamericani: tassazione informale delle coltivazioni, controllo del territorio e reinvestimento dei proventi. Non esistono prove dirette di un coinvolgimento nella distribuzione internazionale di marijuana, ma l’approccio replicato su scala globale evidenzia la capacità di Hezbollah di monetizzare ogni risorsa disponibile.
Hezbollah opera senza confini e la risposta statunitense si sta organizzando. Resta da vedere se sarà tempestiva, efficace e, soprattutto, condivisa anche dai governi dell’America centrale e meridionale.
(Bet Magazine Mosaico, 21 aprile 2025)
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Perché la guerra di Israele contro Hamas è necessaria
Una guerra può essere moralmente giustificata e giuridicamente limitata. È proprio questo il caso della campagna di Israele contro Hamas. Non è stata intrapresa con leggerezza o sconsideratezza, ma è condotta in nome della vita, della sovranità e dello Stato di diritto.
di John Spencer e Arsen Ostrovsky
Dopo il barbaro massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023, in cui sono state uccise oltre 1.200 persone in Israele, per lo più civili, tra cui donne, bambini e anziani, e sono stati presi oltre 250 ostaggi, Israele ha avviato una vasta operazione militare nella Striscia di Gaza. La portata e l'intensità della risposta sono state senza precedenti, così come l'attacco che l'ha scatenata. Da allora non sono mancate voci male informate, come quella del comico Dave Smith, o attori malintenzionati che strumentalizzano il diritto internazionale per mettere in discussione le azioni militari di Israele a Gaza, chiedendosi se siano proporzionate, legali e addirittura necessarie. Al centro di questo dibattito c'è un malinteso fondamentale: la “necessità” in guerra ha due significati diversi. Chi li confonde – moralmente e giuridicamente – giunge a valutazioni errate e a narrazioni fuorvianti.
DUE TIPI DI NECESSITÀ: UNA MORALE E UNA GIURIDICA
• 1. Necessità morale – La dottrina della guerra giusta
Il primo concetto di necessità deriva dalla teoria della guerra giusta, un quadro etico sviluppato nel corso dei secoli per valutare se l'uso della forza sia moralmente giustificato (jus ad bellum). Uno dei suoi principi fondamentali è la necessità: una guerra deve essere l'ultima risorsa, solo quando tutte le alternative non violente come la diplomazia, la deterrenza, le sanzioni o la mediazione internazionale sono state esaurite. Nel caso di Israele, i fatti parlano da soli: nel 2005 Israele si è ritirato completamente dalla Striscia di Gaza e ha smantellato tutte le strutture civili e militari. Negli anni successivi, Hamas ha preso il potere con un violento colpo di Stato, ha lanciato decine di migliaia di razzi e ha respinto ogni seria iniziativa per una convivenza pacifica. Nonostante ripetute tregue e mediazioni internazionali, Hamas è rimasta determinata non a creare uno Stato palestinese accanto a Israele, ma a distruggere Israele. Il 7 ottobre Hamas ha mostrato chiaramente le sue intenzioni. Ha attraversato il confine non per affrontare i soldati israeliani, ma per massacrare civili. Ha filmato le atrocità e ha annunciato che le avrebbe ripetute. Affermare in questo contesto che la reazione militare di Israele non sia moralmente necessaria significa ignorare i fatti e contraddire il buon senso.
• 2. Necessità giuridica – Il diritto internazionale umanitario
La seconda forma di necessità non è filosofica, ma giuridica. Rientra nell'ambito del diritto internazionale umanitario (International Humanitarian Law, IHL), ovvero delle norme che regolano la condotta in guerra (jus in bello). La necessità militare consente solo quelle misure che sono necessarie per il raggiungimento di un obiettivo militare legittimo. Questo principio, sancito dalle Convenzioni di Ginevra, dagli Accordi dell'Aia e dal diritto internazionale consuetudinario, non consente la distruzione fine a se stessa. Non giustifica danni ai civili, a meno che questi non siano una conseguenza involontaria di un attacco legittimo. E presuppone l'obbligo di distinguere tra obiettivi militari e civili e di evitare attacchi sproporzionati. Ogni operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza è vincolata a questo criterio. Non è sufficiente constatare la presenza di Hamas in un edificio o in un quartiere. Un attacco è legittimo solo se l'obiettivo offre un vantaggio militare concreto e immediato e se vengono prese tutte le precauzioni possibili per ridurre al minimo i danni ai civili. I giuristi militari e i comandanti israeliani operano nel rispetto di questo quadro. La selezione degli obiettivi, la scelta delle armi, il momento dell'attacco e i meccanismi di allerta vengono valutati in tempo reale. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) non solo rispettano i requisiti legali, ma documentano e verificano le loro azioni in misura pari a pochi altri eserciti moderni, soprattutto nella lotta contro un'organizzazione terroristica che si mescola deliberatamente alla popolazione civile.
• Il ponte contro il panificio
Un esempio calzante tratto dal diritto bellico chiarisce questa differenza: La distruzione di un ponte utilizzato dal nemico per trasportare armi è un atto legittimo di necessità militare. Porta un chiaro vantaggio operativo e indebolisce le capacità dell'avversario. Al contrario, la distruzione di un panificio in una zona residenziale solo perché i combattenti nemici vi mangiano occasionalmente non sarebbe legittima. Il panificio non è un obiettivo militare e la sua distruzione non avrebbe uno scopo militare legittimo. Questa distinzione è fondamentale nella guerra urbana. A Gaza, dove Hamas nasconde sistematicamente i propri mezzi militari in strutture civili – come scuole, abitazioni e moschee – Israele si trova ad affrontare sfide straordinarie. Ma gli standard giuridici rimangono invariati. Ogni azione deve superare il test della necessità militare. Ogni attacco deve servire a uno scopo legittimo. La presenza di civili richiede moderazione, anche nei confronti di un nemico che li usa deliberatamente come scudi umani.
• Guerra necessaria, condotta nel rispetto delle regole
La guerra di Israele contro Hamas era necessaria? Dipende dal tipo di necessità a cui ci si riferisce. In realtà, soddisfa entrambe: La guerra era moralmente necessaria? Dopo il 7 ottobre, dopo il massacro premeditato di civili, la presa di ostaggi e la dichiarata intenzione di Hamas di ripetere questi crimini, la risposta è chiaramente sì. Le operazioni militari di Israele sono legalmente necessarie? Ogni singolo attacco deve soddisfare determinati requisiti legali. Tuttavia, l'IDF agisce nel rispetto di uno dei quadri giuridici ed etici più rigorosi della guerra moderna. È vincolata dal diritto internazionale umanitario e dimostra un impegno senza precedenti nel ridurre al minimo i danni, anche quando combatte un nemico che si nasconde dietro i civili e viola tutte le regole della guerra. Una guerra può essere moralmente giustificata e giuridicamente limitata. La campagna di Israele contro Hamas è proprio questo. Non è stata intrapresa con leggerezza, ma è stata condotta in nome della vita, della sovranità e dello Stato di diritto. Chi si chiede se questa guerra fosse necessaria dovrebbe prima capire esattamente cosa sta chiedendo e poi rendersi conto che, secondo tutti i criteri pertinenti, la risposta è chiaramente sì.
(Israel Heute, 20 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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E’ morto il papa. E allora?
Forse per reagire all’insopportabile valanga di articoli, commenti, considerazioni, polemiche che hanno cominciato fin da oggi a invadere i media online, e continueranno sicuramente anche domani in tante altre forme; o forse perché, come romano di nascita e non cattolico di professione ricordo il motto squisitamente e letteralmente cattolico-romano secondo cui “a Roma si fa la fede e altrove ci si crede”, proprio oggi, XXI aprile Natale di Roma, mi è venuta in mente una coppia di sonetti dissacratori di Giuseppe Gioachino Belli, l’indimenticabile cantore della plebe romana ottocentesca, scritti in occasione di un funerale di duecento anni fa: quello di papa Leone XII.
• Er mortorio de Leone duodescimosiconno
Vienivano le tromme cor zordino,
poi li tammurri a tammurro scordato:
poi le mule cor letto a bbardacchino
e le chiave e ’r trerregno der papato.
Preti, frati, cannoni de strapazzo,
palafreggneri co le torce accese,
eppoi ste guardie nobbile der c.
Cominciorno a intoccà tutte le cchiese
appena uscito er Morto da palazzo.
Che gran belle funzione a sto paese!
• Le ssequie de Leone duodescimosiconno a S. Pietro
Prima, a palazzo, tanti frati neri
la notte e ’r giorno a bbarbottà orazzione!
Pe Rroma, quer mortorio bbuggiarone!
qua, tante torce e tanti cannejjeri!
Messe sú, mmesse ggiú,
bbenedizzione, bôtti, diasille, prediche, incenzieri,
sonetti ar catafarco, arme, bbraghieri,
e sempre Cardinali in priscissione!
Come si er Papa, che cquaggiú è Vvicario
de Crist’in terra, possi fà ppeccati, e annà a l’inferno lui quant’un zicario!
Li Papi sò ttre vvorte acconzagrati:
e ssi Ccristo ciannò, ciannò ppe svario
a ffà addannà li poveri dannati.
Tutto ciò non ha niente a che vedere né con Israele né col Vangelo.
Appunto, e forse proprio per questo vale la pena di sottolinearlo. M.C.
(Notizie su Israele, 21 aprile 2025)
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La priorità del cristiano
Come può preservarsi la Chiesa del Dio vivente dalle cattive vie e rimanere spiritualmente viva? Il Nuovo Testamento mostra come una chiesa nella sua globalità ed il cristiano, in quanto individuo, possano restare vicini al Signore ed essere una testimonianza vivente. Tutto questo è legato alle priorità che ci fissiamo. Si tratta in realtà di santificazione, della volontà incondizionata di santificare il nome di Dio e di renderGli onore. Si tratta di voler rimanere a ogni costo uno con il Signore Gesù Cristo, praticamente e quotidianamente.
di Peter Blaser
«Santo, santo, santo è il Signore, il Dio, onnipotente, che era, che è, e che viene» (Apocalisse 4:8).
Alla domanda su quale deve essere la priorità nella Chiesa del Signore, vi sarebbero molte risposte: l'evangelizzazione, la crescita spirituale, la preghiera, il lavoro sociale, il lavoro tra i bambini, tra i giovani eccetera. Ma qual è la priorità che lo stesso Signore Gesù ha stabilito? La prima richiesta nella preghiera che Egli insegnò ai Suoi discepoli è: « ... sia santificato il tuo nome» (Matteo 6:9).
Ed è ben questo di cui si tratta. Poiché noi abbiamo qui la condizione per la realizzazione della richiesta: «venga il tuo regno». Il regno di Dio avviene là dove il Suo nome è santificato. Noi possiamo evangelizzare, fondare delle chiese, istruire, senza tuttavia santificare il nome di Dio. La chiesa di Laodicea ne è un valido esempio (Apocalisse 3:14-22). Ma noi non possiamo santificare il nome di Dio senza evangelizzare, senza crescere spiritualmente, senza fondare delle chiese. Questo è perché non abbiamo altro scopo per la nostra vita se non quello di santificare per mezzo della nostra vita il nome di Dio, di onorarLo e di glorificarLo.
La santità è uno dei principali temi della Bibbia, e tuttavia essa rimane insondabile. In Apocalisse 4:2-3, Dio è descritto nella Sua maestosa santità. Egli è simile ad una pietra di diaspro e di sardonico, circondato da un arcobaleno simile ad uno smeraldo. La pietra di diaspro è secondo Apocalisse 21:11 trasparente come il cristallo. La pietra di sardonico è un rubino di colore rosso fuoco. Lo smeraldo ha un colore verde freddo. Non essendo in grado di descrivere la santità di Dio con delle parole umane, Giovanni nell'Apocalisse ricorre a dei paragoni.
Ventiquattro anziani vestiti di vesti bianche si prostrano davanti a Dio, e gettano le loro corone davanti al trono e adorano Colui che vive nei secoli dei secoli. Essi dicono: «Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l'onore e la potenza: perché tu hai creato tutte le cose, e per tua volontà furono create ed esistono». Inoltre, quattro creature viventi, probabilmente dei cherubini, stanno intorno al trono. Nell'Antico Testamento sono gli angeli chiamati in relazione alla presenza, la potenza e la santità di Dio. Queste quattro creature esprimono la gloria e la santità di Dio. Esse dicono giorno e notte: «Santo, santo, santo è il Signore, il Dio onnipotente, che era, che è, e che viene» (Apocalisse 4:4.9-11).
Qualche cosa di molto importante, come lo sono le parole di Gesù Cristo: «In verità, in verità vi dico ... ! »
La santità di Dio annienta la nostra capacità di pensare, di immaginare.
All'origine, «santo» significava tagliare o mettere da parte qualche cosa per uno scopo particolare. Ciò che è separato o tagliato emerge da tutto il resto. Quando parliamo della santità di Dio, questo significa che Egli è separato, tagliato da ... Egli non è né creatura, né facente parte della creazione. Essendo il Creatore Santo, è al di sopra di tutta la creazione Egli è senza inizio né fine. Egli supera l'immaginazione e l'intelligenza di tutta l'umanità. Dio è oltre i nostri limiti. Egli è oltre la nostra sfera di sperimentazione.
Nella Bibbia, la santità è sempre legata a Dio. All'infuori di Dio, non vi è santità, poiché solo Lui è santo, sì, tre volte santo, perfettamente santo. Nella Sua santità, Dio è perfettamente puro. Egli è esente da ogni bruttura. In Lui non vi è né peccato, né male, né cattiva motivazione, né pensiero impuro. Egli è interamente perfetto e senza macchia sotto ogni aspetto. Lo stesso Suo nome è santo, perché Egli è santo (Luca 1:49). Questo perché alla croce, quando il Signore Gesù portava su di Se i peccati del mondo, Dio non poteva avere comunione con Suo Figlio. Dio era là, Egli è ovunque, ma non aveva più comunione con Suo Figlio, poiché il peccato provoca una totale separazione.
Quando degli uomini incontrano Dio nella Sua santità, cadono sulla loro faccia o si nascondono il volto, essi hanno paura: quando Dio concluse il patto con Abraamo e gli promise Isacco, «Abramo si prostrò con la faccia a terra» (Genesi 17:3). Quando Mosè incontrò Dio nel pruno ardente, «Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio» (Esodo 3:6). E Daniele, all'approssimarsi dell'angelo, disse: «alla sua venuta io fui spaventato e mi prostrai con la faccia a terra» (Daniele 8:17). Giovanni cadde sul suo viso quando ebbe la rivelazione di Gesù Cristo: «Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto» (Apocalisse 1:17).
Quando Mosè salì al monte Sinai per ricevere da Dio la legge, Dio disse a Mosè: «Tu fisserai tutto intorno dei limiti al popolo, e dirai: Guardatevi dal salire sul monte o dal toccarne i fianchi. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte» (Esodo 19:12). E' questa la santità di Dio! Mosè, una volta trovatosi sulla montagna, non aveva il diritto di vedere il volto di Dio (Esodo 33:19-23). E benché Mosè vedesse soltanto da dietro la gloria di Dio, al suo ritorno, il suo viso era talmente raggiante, che gli israeliti avevano paura di avvicinarsi a lui (Esodo 34:30).
Il tabernacolo è l'espressione della santità di Dio. Soltanto i migliori materiali erano valutati sufficientemente adatti per essere utilizzati nella sua costruzione. Dio diede delle direttive assai dettagliate circa il modo di fabbricare i diversi elementi. L'uomo non poteva confezionare la casa di Dio secondo i propri pensieri e le proprie idee. Dio non tollerava la minima variazione alle sue direttive. La santità di Dio non ammette alcuna tolleranza. Essa non permette alcun compromesso ! In vista del servizio al tabernacolo, i sacerdoti dovevano essere sottoposti a tutta una serie di trattamenti di purificazione. Gli animali del sacrificio dovevano essere senza alcun difetto. Soltanto il migliore è appena buono per Dio. E' questa la santità di Dio!
Quando Davide fece ricondurre l'arca di Dio da Chiriat-Iearim, i buoi scivolarono e l'arca rischiò di cadere dal carro. Uzza volle evitare questo ed afferrò l'arca con la mano. Subito, Dio fece morire Uzza (1Cronache 13:3-11). - «Ma questo è ingiusto, Uzza pensava di fare bene», diremmo noi. Ma Uzza era un Cheatita. I Cheatiti dovevano portare delle parti del tabernacolo ed essi sapevano esattamente che non avevano diritto di toccare l'arca. Questa doveva essere portata per mezzo di sbarre. Uzza infranse quest'ordine molto chiaro dato da Dio (Numeri 4:17-20). L'immediata punizione mostra la santità di Dio.
Ci sono delle persone che dicono che Il Dio dell'Antico testamento è spietato, senza amore e che è diverso dal Dio del Nuovo Testamento che dice di essere un Dio di amore. Tuttavia, il Nuovo Testamento afferma: «perché il salario del peccato è la morte» (Romani 6 :23). Se Dio punisce qualcuno di morte, costui riceve la giusta punizione a causa della sua disubbidienza. Che Dio non faccia morire tutti gli uomini, quando l'avrebbero meritata secondo giustizia, è unicamente per la Sua misericordia. Il Dio dell'Antico Testamento è un Dio misericordioso. Egli non reagisce sempre immediatamente grazie alla Sua grande misericordia, alla Sua bontà, al Suo amore e alla Sua pazienza. Non siamo noi ad aver diritto di accusarlo, ma Lui ha il diritto di accusarci. Noi siamo stati disubbidienti, non Lui. Talvolta succede che Dio ci mostri in modo molto duro chi è ai comandi e chi deve rendere conto al Dio tre volte santo. Ancora oggi, Egli è il Dio santo, che a volte interviene in modo spaventoso avvertendoci. Ecco un esempio, alcuni anni fa un anziano di chiesa, sposato, si innamorò di una responsabile del gruppo giovani. Abbandonò sua moglie ed i suoi quattro bambini ed andò a vivere con questa ragazza. Non accettò né un colloquio né l'avvertimento da parte degli altri responsabili di chiesa. Lui non era disposto a tornare indietro. La chiesa pregò per il suo pentimento, ma l'uomo persisteva nel suo rifiuto; allora arrivò l'inconcepibile, il Dio santo intervenne: nello spazio di qualche giorno, quest'uomo morì, sebbene in buona salute.
Ma da nessuna parte la santità di Dio è così manifesta come in Gesù Cristo e nella Sua morte espiatoria alla croce! La santa giustizia di Dio esige la morte del peccatore. Nessun uomo può compiere questa espiazione, poiché, essendo peccatore, è lui stesso sotto la sentenza di morte e riceve la giusta punizione. Era necessario qualcuno che fosse senza peccato per soddisfare le esigenze di un Dio santo. E questo sacrificio, l'offrì Lui stesso.
Soltanto il Dio santo può soddisfare la propria giustizia e santità. Nella Sua santità, Dio non aveva altra soluzione per il perdono dei nostri debiti che quella della morte per mezzo della sostituzione con il suo diletto Figlio Gesù Cristo e questo per tutti gli uomini.
L'uomo naturale non può sussistere davanti al Dio santo. Così, nella I Corinzi 2:14 è detto: «Ma l'uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio». Perché questo? Perché l'uomo naturale nel suo peccato è totalmente separato dal Dio santo. La relazione è interrotta. E' come se noi mettessimo l'uno a fianco dell'altro nero e bianco, o luce e tenebre. Vi è una linea di separazione molto precisa. La santità di Dio esclude ogni comunione con le tenebre. In ragione della Sua santità, egli odia il peccato ed è irritato a causa del peccato. E' la santa collera di Dio che immediatamente distruggerebbe ogni cosa se Dio non fosse misericordioso, paziente e di grande bontà (Salmo 103:8).
Per la sua natura, l'uomo non ha nulla che possa presentare a Dio per essere trovato giusto davanti a Lui. Egli è totalmente pervertito, roso dal peccato. Noi non siamo in grado di compiere una sola buona azione, che risulterebbe interamente motivata da sentimenti puri, disinteressati. E' con le mani vuote che l'uomo si trova davanti a Dio, interamente nudo e sprovvisto di tutto. Egli non può nascondere nulla. Nulla può giustificarlo davanti a Dio, nulla può metterlo al riparo della collera di Dio. Il profeta Naum lo esprime in questi termini: «II SIGNORE è un Dio geloso e vendicatore; il SIGNORE è vendicatore e pieno di furore; il SIGNORE si vendica dei suoi avversari e serba rancore verso i suoi nemici» (Nahum 1:2).
Ogni essere umano sin dalla sua nascita è un avversario di Dio. Ad ogni istante, noi manifestiamo la ribellione, la rivolta contro Dio. E' questa la natura del peccato. Le leggi di Dio, buone e protettrici, noi non le rispettiamo. Ci si burla di Lui, Lo si schernisce, Lo si offende, Lo si fa bugiardo. Si maledice Dio e si approfitta di Lui per un nostro tornaconto. Il Suo immenso atto d'amore, il Suo sacrificio in Gesù Cristo, lo si presenta come una pericolosa favola, come un racconto da intendersi in modo simbolico.
Paolo lo esprime con competenza in Romani 3:12: «Tutti si sono sviati, tutti quanti si sono corrotti. Non c'è nessuno che pratichi la bontà, no, neppure uno».
Chi vuole ascoltare tali cose? Questo non è né lusinghiero né rinfrescante. Ciò non aiuta la persona, non è bene per il suo io e soprattutto per il suo orgoglio. Ma questo è il messaggio che ci indirizza il Dio santo, che ha in orrore il peccato e che ha già giudicato e pronunciato la sentenza di morte su tutto quello che è peccato. L'esecuzione della sentenza non è che questione di tempo, ma essa è inevitabile, perché Dio è santo ed Egli non può mentire.
Ora, un essere umano che incontra Dio nella Sua santità e nella Sua giustizia, che lo riconosce in verità, costui dirà con Isaia: «Guai a me, sono perduto! Perché io sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure; e i miei occhi hanno visto il Re, il SIGNORE degli eserciti!» (Isaia 6:5). Ovvero reagirà come Pietro, dopo aver riportato sull'ordine di Gesù la rete della pesca miracolosa: «Simon Pietro, veduto ciò, si gettò ai piedi di Gesù, dicendo: "Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore"» (Luca 5:8).
Più conosceremo Dio nella Sua santità, più noi conosceremo la nostra cattiveria, la nostra perdizione. Per questo è assolutamente importante predicare il Dio tre volte santo, affinché l'uomo possa riconoscere la situazione di morte nella quale si trova. Comprendendo che era perduto, il carceriere di Filippi domandò a Paolo: « ... che debbo fare per essere salvato?» (Atti 16:30). Ecco il grido dell'uomo che ha incontrato il Dio santo. E Dio, il Santo, è misericordioso ed Egli è amore! Dio non è amore chiudendo gli occhi, banalizzando il peccato, essendo semplicemente tollerante. Dio è amore in quanto che ha espiato Lui stesso sulla croce nel Suo Figlio Gesù Cristo il debito dell'uomo che risponde alla sua chiamata.
Questo è l'amore che ha riversato su Gesù Cristo la collera di Dio. Questo è l'amore che pronuncia il perdono. Questo è l'amore che ci giustifica, che ci rende giusti davanti a Dio. Questo è l'amore che ci scarica del fardello del peccato. Questo è l'amore che è destinato a tutti coloro che nella miseria del loro peccato si volgono verso Gesù, pronti a riconoscerlo come il Salvatore e Maestro della loro vita. Un tale uomo può affermare ciò che Paolo scrive nella lettera ai Colossesi 2:13-15 «Voi, che eravate morti nei peccati e nella incirconcisione della vostra carne, voi, dico, Dio ha vivificati con lui, perdonandoci tutti i nostri peccati; avendo cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l'ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce; ha spogliato i principati e le potestà, ne ha fatto un pubblico spettacolo, trionfando su di loro per mezzo della croce.»
Più comprendiamo il nostro stato di perdizione, maggiormente Dio ci amerà in Gesù e per la Sua misericordia. Più riconosciamo quanto la nostra natura è pervertita, maggiormente saranno grandi la grazia ed il perdono in Gesù. Più riconosciamo la collera di Dio nei confronti della nostra vita, maggiormente saremo riconoscenti a Gesù. Più riconosciamo profondamente il nostro peccato, maggiormente sarà profondo il nostro amore per Gesù, come è detto in Romani 5:20: « ... ma dove il peccato è abbondato, la grazia è sovrabbondata.» Siete consapevoli per il fatto che Dio può eseguire in ogni momento il Suo giusto giudizio, senza alcun altro avvertimento? La Parola di Dio dice: «Oggi, se udite la sua voce» - e voi l'avete udita -, «non indurite il vostro cuore» (Salmo 95:8). Se volete affidarvi a Gesù, voi potete farlo; non ha importanza dove e non ha importanza quando. Se vi volgete verso Gesù Cristo e se l'accettate come vostro personale Salvatore, sperimenterete un cambiamento del Maestro. In 2 Corinzi 5:17 è detto: «Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura» (o una nuova creazione): egli non è più lo stesso, poiché la sua vecchia vita è scomparsa. Una nuova vita è iniziata! E' una vita sotto il regno di Dio. Questo è perché Dio dice: «Siate santi, perché io sono santo» (1Pietro 1:16).
Rimettendo la nostra vita nelle mani di Gesù e ricevendo lo Spirito Santo siamo posti nella posizione di santi. Paolo, nelle sue lettere che scrive a coloro che credono in Gesù, dice di indirizzarsi a dei santi (1Co 1:2).
Dio ci vede attraverso Gesù Cristo santi e giusti. Nella nostra qualità di riscattati in Cristo siamo giuridicamente davanti a Dio nella posizione di santi. Esiste tuttavia un problema. Giuridicamente parlando, noi siamo santi, ma la nostra condotta non è ancora santa. Eppure questa è la volontà di Dio, che non sia più io a dirigere la mia vita, ma Gesù Cristo.
Il credente ha ricevuto un nuovo spirito che cerca di piacere a Dio, di onorarLo, perché Lui è santo. Questo non vuole dire che siamo senza colpa. Più intensa è la nostra vita con Gesù, maggiormente riconosceremo le nostre debolezze. Ma si tratta per noi di tendere ad eseguire la volontà di Dio, di concentrarci sulle direttive che ci dà nella Sua Parola. Noi siamo santificati dalla verità della Parola di Dio: «Santificali nella verità: la tua parola è verità». (Giovanni 17:17). Più la Parola di Dio vive in noi - attraverso la lettura, lo studio, l'ascolto e l'applicazione, maggiormente lo Spirito Santo ci cambia in persone che Dio gradisce. Questo processo di trasformazione ha il suo fondamento nella santità di Dio.
«Siate santi, perché io sono santo.»
Più noi conosciamo, come credenti, la santità di Dio, maggiormente avremo il timore di Dio. E' in questo timore, integrato all'amore, che nasce il nostro desiderio di condurre una vita che onori Dio, una vita santificata. E' detto in Galati 5:22: «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo.»
Questo frutto, risultato del processo di trasformazione, deve essere visibile nella vostra vita come nella mia - nella vita quotidiana, nella nostra famiglia, nella nostra relazione col nostro coniuge, i nostri bambini, i nostri fratelli e sorelle, i nostri superiori, i nostri colleghi, quando viaggiate in macchina ed anche nei luoghi dove nessuno ci vede.
La santità, questa è la natura di Dio e questo è un tema centrale della Bibbia.
«Siate santi, perché io sono santo.» Questo ordine è indirizzato a chiunque è figlio di Dio. Questa nuova condotta deve manifestarsi ogni giorno, praticamente. Questo è ciò che deve essere la priorità nella Chiesa del Dio vivente: «sia santificato il tuo nome» (Matteo 6:9).
(Chiamata di Mezzanotte, Nr. 3/4 2016)
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Israele valuta un attacco all'Iran anche senza l'OK di Trump<
Trump non ha capito che per Israele la questione è esistenziale e che non si può perdere altro tempo
di Paola P. Goldberger
Israele non ha escluso un attacco alle strutture nucleari iraniane nei prossimi mesi, nonostante il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump abbia detto al Primo Ministro Benjamin Netanyahu che gli Stati Uniti per ora non sono disposti a sostenere una tale mossa.
Gli israeliani hanno giurato di impedire a Teheran di dotarsi di un’arma nucleare e Netanyahu ha insistito sul fatto che qualsiasi negoziato con l’Iran deve portare al completo smantellamento del suo programma nucleare.
I negoziatori statunitensi e iraniani hanno tenuto sabato a Roma un secondo round di colloqui preliminari sul nucleare.
Negli ultimi mesi, Israele ha proposto all’amministrazione Trump una serie di opzioni per attaccare le strutture iraniane, tra cui alcune con tempistiche di fine primavera ed estate.
Secondo fonti qualificate i piani includono un mix di attacchi aerei e operazioni di commando che variano in termini di gravità e potrebbero ritardare la capacità di Teheran di armare il suo programma nucleare di pochi mesi o di un anno o più.
Il New York Times ha riportato mercoledì che Trump ha detto a Netanyahu in un incontro alla Casa Bianca all’inizio del mese che Washington vuole dare priorità ai colloqui diplomatici con Teheran e che non è disposto a sostenere un attacco alle strutture nucleari del Paese nel breve termine.
Ma i funzionari israeliani ritengono che le loro forze armate potrebbero invece lanciare un attacco limitato all’Iran che richiederebbe un minore sostegno da parte degli Stati Uniti. Tale attacco sarebbe significativamente più piccolo di quelli inizialmente proposti da Israele.
Non è chiaro se o quando Israele potrebbe procedere con un attacco di questo tipo, soprattutto con l’avvio dei colloqui per un accordo nucleare. Una simile mossa potrebbe alienare Trump e mettere a rischio un più ampio sostegno degli Stati Uniti a Israele.
Due ex alti funzionari dell’amministrazione Biden hanno riferito che parti dei piani sono stati presentati l’anno scorso anche all’amministrazione Biden.
Quasi tutti richiedevano un sostegno significativo da parte degli Stati Uniti attraverso un intervento militare diretto o la condivisione di informazioni. Israele ha anche chiesto che Washington lo aiuti a difendersi in caso di ritorsione da parte dell’Iran.
In risposta a una richiesta di commento, il Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha rimandato ai commenti fatti da Trump giovedì, quando ha detto ai giornalisti di non aver escluso un attacco da parte di Israele ma di non avere “fretta” di sostenere un’azione militare contro Teheran.
“Penso che l’Iran abbia la possibilità di avere un grande Paese e di vivere felicemente senza morte”, ha detto Trump. “Questa è la mia prima opzione. Se c’è una seconda opzione, penso che sarebbe molto negativa per l’Iran, e penso che l’Iran voglia parlare”.
L’ufficio di Netanyahu non ha risposto immediatamente a una richiesta di commento. Un alto funzionario israeliano ha dichiarato che non è stata ancora presa alcuna decisione su un attacco iraniano.
Un alto funzionario della sicurezza iraniana ha detto che Teheran era a conoscenza dei piani israeliani e che un attacco avrebbe provocato “una risposta dura e ferma da parte dell’Iran”.
“Abbiamo informazioni da fonti affidabili che Israele sta pianificando un grande attacco ai siti nucleari iraniani. Ciò deriva dall’insoddisfazione per gli sforzi diplomatici in corso riguardo al programma nucleare iraniano, e anche dal bisogno di Netanyahu di un conflitto come mezzo di sopravvivenza politica”, ha detto il funzionario alla Reuters.
• Il NO dell’amministrazione Biden
Netanyahu ha ricevuto una reazione da parte dell’amministrazione Biden quando ha presentato una versione precedente del piano. Gli ex alti funzionari di Biden hanno detto che Netanyahu voleva che gli Stati Uniti prendessero la guida degli attacchi aerei, ma l’amministrazione Biden ha detto a Israele che non riteneva prudente un attacco a meno che Teheran non accelerasse l’arricchimento del materiale nucleare o espellesse gli ispettori dal Paese.
I funzionari di Biden hanno anche messo in dubbio la misura in cui l’esercito israeliano potrebbe portare a termine efficacemente un attacco del genere.
Ex funzionari ed esperti hanno da tempo affermato che Israele avrebbe bisogno di un significativo supporto militare statunitense – e di armi – per distruggere le strutture e le scorte nucleari iraniane, alcune delle quali si trovano in strutture sotterranee.
Mentre l’attacco militare più limitato che Israele sta prendendo in considerazione richiederebbe meno assistenza diretta – in particolare sotto forma di bombardieri statunitensi che sgancino munizioni in grado di raggiungere strutture profondamente sepolte – Israele avrebbe comunque bisogno di una promessa da parte di Washington di aiutarlo a difendersi se attaccato da Teheran come ritorsione.
Qualsiasi attacco comporterebbe dei rischi. Gli esperti militari e nucleari sostengono che, anche con una massiccia potenza di fuoco, un attacco probabilmente frenerebbe solo temporaneamente un programma che, secondo l’Occidente, mira a produrre una bomba nucleare, sebbene l’Iran lo neghi.
Nelle ultime settimane i funzionari israeliani hanno detto a Washington che non credono che i colloqui degli Stati Uniti con l’Iran debbano passare alla fase di definizione dell’accordo senza una garanzia che Teheran non avrà la capacità di creare un’arma nucleare.
“Questo può essere fatto con un accordo, ma solo se questo accordo è in stile libico: Si entra, si fanno saltare le installazioni, si smantellano tutte le attrezzature, sotto la supervisione americana”, ha detto Netanyahu dopo i colloqui con Trump. “La seconda possibilità è… che [l’Iran] trascini i colloqui e poi ci sia l’opzione militare”.
Dal punto di vista di Israele, questo potrebbe essere un buon momento per un attacco contro le strutture nucleari iraniane.
Gli alleati dell’Iran, Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano, sono stati martellati da Israele dall’inizio della guerra di Gaza, scatenata dall’assalto del gruppo terroristico palestinese del 7 ottobre, mentre il movimento Houthi in Yemen è stato preso di mira dagli attacchi aerei statunitensi. Israele ha anche danneggiato gravemente i sistemi di difesa aerea iraniani in attacchi di rappresaglia dopo che Teheran ha lanciato un attacco con missili balistici nell’ottobre 2024.
Un alto funzionario israeliano, parlando con i giornalisti all’inizio del mese, ha riconosciuto che c’è una certa urgenza se l’obiettivo è quello di lanciare un attacco prima che l’Iran ricostruisca le sue difese aeree. Ma l’alto funzionario si è rifiutato di indicare una tempistica per un’eventuale azione israeliana e ha detto che discuterne sarebbe “inutile”.
(Rights Reporter, 19 aprile 2025)
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La settimana di Israele – Perché continua la guerra
di Ugo Volli
• Il quadro strategico
È passato ormai più di un anno e mezzo, esattamente 80 settimane dal 7 ottobre – e la guerra prosegue, con tutto il suo carico di morti, di dolori, di preoccupazioni. Bisogna essere chiari su questa prosecuzione. Esattamente come Israele non ha voluto la guerra, così non vuole la sua prosecuzione. Non desidera che i suoi figli siano uccisi e neppure che debbano combattere per uccidere. La guerra prosegue perché Hamas, Hezbollah, gli Houti, soprattutto l’Iran non vogliono riconoscere la loro sconfitta e pensano ancora di poter ottenere il loro obiettivo, che è dichiaratamente la distruzione di Israele e la strage degli ebrei, continuando a mettere alla prova la resistenza morale e politica dello Stato ebraico e sfruttando la radicalità dell’opposizione interna. Per farlo usano innanzitutto il loro potere di vita e di morte sugli israeliani che hanno rapito il 7 ottobre per ricattare l’opinione pubblica di Israele. Si avvalgono poi dell’appoggio irresponsabile delle forze politiche e dei media che in tutto il mondo hanno capito che Israele è l’avamposto delle libertà occidentali e purtroppo proprio per questa ragione stanno dalla parte di chi lo assale: non solo la Cina, la Russia, gli estremisti islamici, ma anche le sinistre del mondo occidentale, disposte non da oggi a fare patti col diavolo in odio allo “stato borghese” e al “capitalismo”. Questo è il quadro strategico da tener presente. A chi chiede la pace bisogna rispondere che essa è possibile anche domani a patto che i terroristi di Hamas si arrendano, consegnino le armi, liberino i rapiti e abbandonino Gaza; e quelli iraniani che abbandonino il programma di armamento nucleare e smettano di fare la guerra a Israele. Ma per Hamas le armi e il potere a Gaza sono la “linea rossa” oltre cui non sono disposti a cedere, come per l’Iran è il programma atomico.
• Gaza
Le operazioni militari a Gaza sono riprese da un mese con intensità crescente. Con il nuovo capo di stato maggiore l’esercito israeliano ha abbandonato la tattica “mordi e fuggi” e tiene ormai il 40% del territorio distruggendo armi e eliminando terroristi e bloccando i loro rifornimenti ufficiali (impropriamente chiamati “aiuti alla popolazione”). Un rapporto del “Wall Street Journal” dice che Hamas sia in difficoltà economica, qua e là sono scoppiate delle piccole manifestazioni di protesta, sono stati uccisi numerosi dirigenti terroristi. Ma le armi a Hamas sembrano non mancare, nessuno a Gaza ha il coraggio di rivelare dove sono tenuti i rapiti. E peggio: fonti militari parlano ora di 40.000 persone inquadrate nelle formazioni di Hamas. Erano altrettanti o anche meno il 7 ottobre, nel frattempo ne sono stati eliminati 20.000 e molti altri feriti. Ma le forze sono ancora quelle. Ciò significa che c’è ancora disponibilità di reclutamento, cioè che gli abitanti di Gaza sono favorevoli ad Hamas e disposti a morire per la sua causa. È un sintomo molto grave: sembra che Hamas non sia affatto finito, che possa riprendere il terrorismo come minaccia spesso, appena cessasse le pressione militare israeliana. Nel frattempo è uscita oggi la cifra di 50.000 emigrati dalla Striscia in questi mesi. È un numero consistente, ma certamente non abbastanza per svuotare la vasca della popolazione in cui i terroristi si muovono “come pesci nell’acqua”, secondo quel che diceva Mao. La strada per domare Gaza è ancora lunga.
• Iran
Se Hezbollah è più o meno in condizioni di impotenza, la Siria è ormai fuori dal gioco (e si è fatto sapere che c’è stato un incontro negli Emirati fra delegati del regime siriano e di Israele “per risolvere le controversie”), e se gli Houti sono sotto tiro degli americani, la testa della piovra è sempre l’Iran, che continua a spedire soldi e armi come gli riesce a tutti i nemici di Israele, ma soprattutto lavora alacremente al programma di armamento atomico che lo renderebbe, secondo il calcolo degli ayatollah, immune alle reazioni difensive dei nemici che attacca. Qualche giorno fa è uscita la notizia di un piccolo sisma anomalo con epicentro nel sud dell’Iran, che potrebbe essere in realtà un esperimento di esplosione atomica. Nel frattempo sono iniziate sabato scorso le trattative in Oman fra diplomatici americani e iraniani, che purtroppo hanno partorito solo un rinvio a sabato prossimo, secondo la solita tattica iraniana per comprare tempo. E ci sono state dichiarazioni piuttosto inquietanti dell’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, sulla possibilità di stabilire limiti invece che distruggere il sistema di produzione nucleare di Teheran, che sembravano tratte dalla retorica di Obama. Una “rivelazione” del New York Times uscita ieri afferma che Netanyahu è andato la settimana scorsa a Washington per ottenere l’assenso di Trump a una azione militare a maggio per distruggere il potenziale atomico dell’Iran: o un bombardamento seguito dall’azione a terra di gruppi speciali, o un bombardamento prolungato per almeno una settimana. Trump avrebbe detto di no, per permettere le trattative e rimandato la decisione. In una dichiarazione Netanyahu non ha preso posizione sull’indiscrezione, ribadendo solo il suo impegno a impedire all’Iran l’armamento nucleare. Ma molti commentatori pensano che questo confronto non sia avvenuto come racconta il NYT e che queste “rivelazioni” siano un gioco per squalificare Trump o Netanyahu o entrambi.
• Il problema dello Shin Bet
Questa ambiguità nell’uso dei mezzi giornalistici ci rimanda a una catena di scandali che sono esplosi nelle ultime settimane in Israele e che hanno molto occupato le pagine dei giornali. Il contesto è la decisione che ha preso all’unanimità il governo israeliano di licenziare Ronen Bar, il capo dei servizi di sicurezza interni (Shin Bet) e il solo dei grandi responsabili tecnici del fallimento del 7 ottobre (probabilmente il più colpevole fra loro) a non essersi dimesso. Gli americani hanno dichiarato di non voler collaborare con un servizio in cui il governo israeliano non aveva fiducia. Bar ha rifiutato di andarsene, spalleggiato dal procuratore generale Gali Baharav-Miara, che peraltro è sua carissima amica di famiglia. Il pretesto è che sta indagando su fughe di notizie e azioni in favore del Qatar nell’ufficio di Netanyahu. Su questa storia ci sono stati degli arresti voluti dallo Shin Bet, ma alla fine gli interessati sono stati messi agli arresti domiciliari ed è probabile che non ne esca niente. Le opposizioni hanno presentato ricorsi alla Corte Suprema contro il licenziamento, e la Corte ha bloccato la decisione del governo, sebbene il possibile licenziamento governativo del capo dello Shin Bet sia esplicitamente previsto nella legge istitutiva dell’agenzia, ma non ha neanche deciso di proibirlo: il tema è sospeso, nonostante l’evidente urgenza. Nel frattempo è uscito sulla stampa che Bar aveva ordinato un’inchiesta su pretese infiltrazioni di estrema destra nella polizia e che questa inchiesta era stata ritenuta infondata. Ma allora è partita una seconda inchiesta sul funzionario dello Shin Bet che aveva rivelato alla stampa il fallimento della prima inchiesta: arrestato e tenuto in condizioni molto dure è stato rilasciato anche lui da un giudice agli arresti domiciliari. Vi sono stati poi altri episodi di rivelazione di segreti interni allo Shin Bet. Insomma si tratta di un’agenzia indispensabile nel controllo del terrorismo, che però ormai sembra fortemente impegnata nella politica interna israeliana e divorata da faide interne incontrollabili. Da riformare subito, per il bene del Paese.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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Ostaggi – Omri Miran e la corsa della figlia Roni
Il 25 aprile 2023, alla vigilia del Giorno dell’Indipendenza d’Israele, Omri Miran si era preparato come sempre per vedere la partita della sua squadra del cuore, il Maccabi Tel Aviv. «Era il suo rito settimanale, non se ne perdeva una», ha ricordato la moglie Lishay. Quel giorno di aprile di due anni fa Omri aveva fatto un’eccezione: prima della partita, aveva portato in giro per il kibbutz la figlia Roni. Si era divertito così tanto con lei da perdere l’inizio del match. «È tornato a casa con un sorriso enorme. Questo è il tipo di padre che è».
Fino al 7 ottobre 2023, la casa di Omri e Lishay nel kibbutz Nahal Oz era un rifugio tranquillo a pochi metri dal confine con Gaza. Omri, 47 anni, era giardiniere del kibbutz e terapista shiatsu. Nella vita delle figlie Roni, due anni, e Alma, sette mesi, era presente, partecipe, attento. «Ogni sera rientrava per metterle a letto. È un partner straordinario, amorevole, un uomo che tende una mano a tutti», hanno spiegato gli amici del kibbutz. «Pensa prima agli altri, poi a se stesso». È accaduto anche il 7 ottobre quando i terroristi palestinesi hanno invaso Nir Oz. Omri ha portato la moglie e le figlie nel rifugio, ha preso un coltello per difendere la famiglia e si è posizionato accanto alla porta. I terroristi di Hamas sono però entrati dalla finestra del bagno e hanno circondato Omri. «Gli hanno ordinato di seguirlo. Quello è stato l’unico momento in cui Roni è crollata, quando ha visto il padre andare via ha urlato: ”Il mio papà, il mio papà, voglio il mio papà”. L’ho trattenuta, perché cercava di scappare e seguirlo. Poi si è addormentata tra le mie braccia… e quando si è svegliata non era più una bimba di due anni».
Omri è stato caricato sulla sua auto e portato a Gaza. Da allora è ostaggio. Per mesi la famiglia non ha avuto alcuna notizia, poi, alla fine di novembre, è arrivata la prima conferma che fosse vivo. Un ex ostaggio ha riferito di averlo visto in prigionia fino a luglio 2024. Qualche mese prima, nell’aprile 2024, Hamas ha diffuso un video di propaganda dove Omri appare con il volto coperto da una folta barba, accanto ad altri prigionieri. «Dopo mesi in cui non lo vedevo, sembra ancora forte e in buona salute», ha commentato il padre Dani, che dal giorno del sequestro ha smesso di radersi. Ora sono passati 560 giorni e la sua barba continua a crescere, mentre di Omri non ci sono notizie. Israele ritiene sia tra i 24 ostaggi ancora vivi. Il padre viaggia ovunque per fare pressione e ottenere solidarietà per il figlio e per gli altri rapiti. È stato anche in Italia, ospite dell’ambasciata d’Israele a Roma.
La moglie di Omri, dal giorno del rapimento, ha iniziato un suo rito: scrive ogni giorno su WhatsApp in una chat intitolata “Note per Omri”. Condivide pensieri, foto delle bambine, attimi di quotidianità. «So che un giorno quei messaggi passeranno da grigio a blu», ha affermato in un’intervista a Israel Hayom. «Li leggerà».
Ogni sera Roni, che ora ha quasi quattro anni, si affaccia alla finestra per dare la buona notte al padre. Alma, due anni, ha iniziato a gattonare e poi a camminare senza il padre. «Quando lo vede nelle fotografie, dice ‘papà’», ha raccontato la madre.
Nella famiglia Miran nessuno ha smesso di lottare. Dani, 80 anni, ha lasciato la sua casa nel nord del paese e si è trasferito a Tel Aviv per essere vicino alla Piazza degli ostaggi e manifestare per la liberazione di tutti i rapiti. Una volta a settimana cucina per gli altri parenti che con lui fanno parte del Forum delle famiglie degli ostaggi. «Cucinare è il mio modo di dare amore, di sopportare il nero che mi circonda».
Nel giorno del secondo compleanno passato in prigionia da Omri – ora 48enne – , Roni e Alma hanno inviato un videomessaggio al presidente americano: «Trump, riportaci il nostro papà». La paura dei Miran è di essere abbandonati dal loro governo. «Purtroppo, la sensazione è che la questione sia stata accantonata dall’agenda politica dell’esecutivo», ha commentato Dani in un’intervista al Times of Israel. «Il governo continua a dire che fa la volontà del popolo, ma io rispondo: la volontà del popolo è il ritorno immediato di tutti i rapiti».
In una lettera aperta pubblicata dai media israeliani nel gennaio 2024, Lishay si rivolgeva al marito e agli altri ostaggi: «Sappiate che mentre alcuni tacciono e altri odiano, molti altri gridano forte e sono pieni d’amore. Non siete soli, non siamo soli». Poi immaginando di parlare a Omri: «Ci sono momenti in cui immagino di attraversare Gaza, stringendo Roni e Alma, marciando e guardando negli occhi i tuoi rapitori come abbiamo fatto a Nahal Oz. In quel sogno ad occhi aperti, ti riporto a casa con noi. Ma la realtà è più cupa, più complessa. L’amore e l’umanità, per quanto ci definiscano, non sempre trionfano. Continuo a sperare che potremo abbracciarti di nuovo, che Roni correrà da te proprio come ha cercato di fare quel 7 ottobre, e questa volta non la tratterrò. E Alma la seguirà». d.r.
(moked, 18 aprile 2025)
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Israele, riapre il percorso fluviale con il carro armato della Guerra dei Sei Giorni
di Jacqueline Sermoneta
Dopo oltre un anno e mezzo, riapre al pubblico il percorso naturalistico lungo il fiume Banias, nel quale, ancora oggi, si trova un carro armato siriano T-34 capovolto, risalente alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.
Questo sentiero, considerato uno dei luoghi più spettacolari del nord d’Israele, costeggia il fiume Banias (noto anche come fiume Hermon) in mezzo a una fitta e ombreggiata foresta, che lo rende adatto alle escursioni in gran parte dell’anno. Le acque cristalline del fiume scorrono attraverso una rigogliosa vegetazione ripariale e si raccolgono in piccoli laghetti turchesi. Il sentiero inizia nella parte più selvaggia del Banias, dove il torrente procede impetuoso tra imponenti platani orientali, per poi diventare più calmo e ampio man mano che prosegue. Il percorso è lungo circa 4 chilometri, inizia dal Kibbutz Snir e termina a Sha’ar Yashuv.
“Negli ultimi mesi, dalla riapertura della riserva, abbiamo lavorato duramente per riqualificare il percorso, che era rimasto chiuso durante l’ultimo anno e mezzo a causa della guerra. – ha detto Ofer Shenhar, direttore della Riserva naturale di Banias – Oggi è di nuovo aperto agli escursionisti. Il sentiero è stato ripulito, gli alberi caduti sono stati rimossi, i gradini sono stati ricostruiti e sono state implementate ulteriori misure di sicurezza”.
Il carro armato T-34 partecipò all’invasione di un battaglione siriano, accompagnato da truppe corazzate, il secondo giorno della Guerra dei Sei Giorni del 1967. A causa di un errore dell’intelligence israeliana, il kibbutz Dan era rimasto senza protezione militare. Tuttavia, la squadra di pronto intervento del kibbutz, insieme ad altri membri, riuscì a respingere l’attacco siriano. Durante la ritirata, uno dei carri armati cadde nel fiume e si rovesciò. Ed oggi è ancora lì, silenzioso testimone della storia.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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L’ambasciatore USA Huckabee depone al Kotel un messaggio di Trump per la pace
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Mike Huckabee, ambasciatore degli Stati Uniti in Israele
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“Per la pace in Israele – Donald Trump”. È questo il messaggio che l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Mike Huckabee, ha deposto questa mattina al Muro Occidentale, consegnando personalmente una nota scritta a mano dal presidente Donald Trump.
Huckabee, ex governatore dell’Arkansas e figura storicamente vicina a Trump, si è raccolto in preghiera di fronte al Kotel, inserendo tra le antiche pietre diversi biglietti. Parlando ai giornalisti subito dopo, ha raccontato: “Il presidente Trump mi ha consegnato questo messaggio giovedì scorso, scritto di suo pugno. Mi ha chiesto di venire qui a pregare e di deporlo nel Muro a suo nome e a nome del popolo americano. È per me un grande onore”.
Secondo quanto riferito da Huckabee, Trump gli avrebbe chiesto anche di pregare per la liberazione degli ostaggi ancora detenuti dai gruppi terroristici palestinesi. “Mi ha detto: ‘Prega affinché tutti gli ostaggi possano tornare presto a casa’. Non riesco a immaginare un momento più significativo per portare un messaggio di speranza e di pace,” ha aggiunto.
“È stato il primo presidente americano a visitare il Muro Occidentale, ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, ha riconosciuto la sovranità israeliana sulle Alture del Golan e ha trasferito l’ambasciata americana a Gerusalemme. Ha sempre mostrato un amore sincero per il popolo ebraico e per lo Stato di Israele”, ha proseguito Huckabee ricordando l’impegno dimostrato da Trump nei confronti dello Stato ebraico durante il suo primo mandato.
Ad accoglierlo al Muro c’era il rabbino del Kotel, Rav Shmuel Rabinowitz, che ha espresso profonda gratitudine per il gesto. Le parole non bastano per descrivere l’emozione provata dai cittadini israeliani e da tutto il mondo ebraico sapendo che, appena atterrato, lei è venuto qui per pregare e deporre una nota a nome del presidente degli Stati Uniti – uno dei più grandi amici di Israele. In questi giorni di guerra, dolore e incertezza, i vostri gesti di amicizia, fede e sostegno infondono forza e speranza al nostro popolo”, ha dichiarato alla stampa.
“Sono qui anche per unirmi al presidente nella preghiera per la pace di Yerushalayim. Non solo per questa festività di Pesach, ma per l’eternità” ha concluso l’ambasciatore Huckabee.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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Taboonia: il ristorante kosher a New York che trasforma il lutto in speranza
di Marina Gersony
Il 7 ottobre 2023, il giorno dell’orrore. Un giorno iniziato con la musica e il sole del deserto e poi finito nel sangue e nel silenzio. Doveva essere una celebrazione della vita il Nova Festival, una danza sotto le stelle del Negev. Ma per centinaia di giovani, è diventato un massacro. Le immagini di quel giorno hanno fatto il giro del mondo, ma dietro ai numeri e alle notizie, ci sono vite spezzate. E alcune, miracolosamente, sopravvissute.
Tra quelle vite c’è quella di Raif Rashed, ingegnere druso di 40 anni, con il cuore diviso tra il suo villaggio natale di Isfiya, sul Monte Carmelo, nel nord di Israele, e la sua nuova vita negli Stati Uniti. Raif quel giorno maledetto non era lì per ballare, ma per aiutare il fratello, Radda, che gestiva uno stand gastronomico: “Taboonia”, un omaggio al forno di pietra (taboon) usato dalle madri druse per cuocere la tradizionale pita. Era una festa. Fino a che non è arrivato l’inferno.
Sul sito Jewish News viene raccontata la storia di questo sopravvissuto che ha assistito alla tragedia con i propri occhi. Raif ha visto morire Erick Peretz, suo amico, mentre tentava disperatamente di proteggere la figlia Ruth, sedici anni, affetta da paralisi cerebrale. Hanno cercato riparo dietro un’ambulanza, che è stata poi data alle fiamme. I loro corpi sono stati trovati giorni dopo. «L’ho visto morire davanti ai miei occhi. Non ho potuto fare nulla», dirà poi Raif. Il senso di colpa non lo ha più abbandonato, ma nemmeno la determinazione a fare in modo che la sua vita avesse un nuovo senso, un obiettivo, un motivo per andare avanti.
Dopo l’attacco, il suo passaporto fu rubato. Bloccato in Israele per mesi, Raif vagava tra i ricordi e il dolore. Ma c’era una cosa che lo calmava, che lo aiutava a placare l’ansia: cucinare. Riprendere in mano le ricette della madre, i profumi dell’infanzia, le mani nella farina. Pane, za’atar, olio d’oliva. In un mondo che sembrava in frantumi, il cibo diventava memoria, rifugio, ricostruzione.
Tornato negli Stati Uniti, Raif abbandonò l’ingegneria. Scelse di dare voce a qualcosa di più profondo. Ricominciò da un piccolo banchetto in un mercato del New Jersey. Poi nell’Upper West Side, a Manhattan. Il nome? Sempre lo stesso: Taboonia. Ma ora aveva un nuovo significato. Non era più solo uno stand gastronomico: era un monumento vivente a chi non c’era più, un luogo dove il dolore si trasformava in comunità, e il lutto in sapore.
La comunità rispose. Gente da ogni parte della città si fermava non solo per il manakish croccante, pizzette diffuse nella cucina mediorientale, o il labneh speziato, ma per ascoltare. Perché Raif non serviva solo cibo: raccontava. Di sua madre che impastava all’alba. Di Ruth, la ragazza dai grandi occhi, che amava la musica anche se non poteva danzare. Di Erick, che le teneva la mano. Raccontava del 7 ottobre. Ma parlava anche dei giorni a venire. I giorni in cui si decideva di vivere ancora.
Lì, in mezzo ai tavoli di legno e ai profumi del Levante, è nato un sogno più grande. Raif ha incontrato Ray Radwan, anche lui druso, cresciuto nel New Jersey ma con le stesse radici di pietra e vento. Insieme, hanno deciso di aprire un vero ristorante, nel cuore di New York. «Non sarà solo cibo. Sarà un ponte», dice Raif. Un ponte tra culture, tra dolore e rinascita, tra Israele e America, tra le generazioni.
Taboonia è oggi il primo ristorante druso di New York con la certificazione kosher. Una scelta coraggiosa e significativa. Raif lo spiega con semplicità disarmante: «È un modo per rispettare. Per accogliere. Per dire che qui c’è posto per tutti»
Chi entra nel suo ristorante, spesso si ferma a leggere le piccole dediche scritte sui tovaglioli appesi alle pareti: «Per Ruth, che amava le stelle»; «Per Erick, che non ha mai lasciato la mano di sua figlia»; «Per la musica che un giorno tornerà a suonare». C’è anche una frase, scritta da una giovane sopravvissuta che ha visitato il locale: «Il dolore ci ha legati, ma è l’amore che ci tiene vivi».
Taboonia è diventato un simbolo. Della forza che nasce dalla fragilità. Dell’identità che si rinnova. Della memoria che, invece di chiudere, apre. È il racconto di un uomo che ha scelto di rispondere alla morte con il pane. Alla violenza, con l’olio e il za’atar. Alla perdita, con una tavola imbandita.
E in un mondo dove le notizie appaiono e scompaiono come lampi che anticipano i temporali, dove le tragedie si accavallano una sull’altra, Taboonia ci ricorda che ogni piatto può essere una preghiera. Ogni morso, un ricordo. Ogni tavola, un altare della vita. Raif non è un eroe. Ma ha compiuto un miracolo: ha trasformato il lutto in sapore, e il sapore in speranza. Perché la speranza, nell’ebraismo, non è un semplice concetto, ma un respiro vitale che attraversa ogni fibra dell’anima. È la Tikvà, che racchiude il significato di “attesa fiduciosa” o “speranza”. Non un ottimismo effimero, superficiale, fine a se stesso. Ma un atto profondo di fede. Una fede incrollabile in un futuro migliore, in un mondo che, nonostante le sue ferite, un giorno si risolleverà, ritrovando la sua pienezza e bellezza.
(Bet Magazine Mosaico, 18 aprile 2025)
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Centinaia di comandanti di Hezbollah invitati a fuggire dal Libano<
Notizie provenienti dall'Arabia Saudita indicano che il gruppo terroristico ha ordinato ai propri comandanti di trasferirsi in Sud America.
Secondo un rapporto pubblicato mercoledì, circa 400 comandanti di Hezbollah hanno ricevuto l'ordine di lasciare il Libano per diversi paesi sudamericani, tra cui Brasile, Colombia, Venezuela ed Ecuador.
Una fonte diplomatica latinoamericana ha riferito al quotidiano saudita Al Hadath che 200 comandanti sono già arrivati in Sud America e che gli altri lasceranno il Libano a tempo debito.
Hezbollah avrebbe dato l'ordine perché teme che i comandanti possano diventare bersagli se l'infrastruttura militare dell'organizzazione venisse smantellata dal governo libanese e dall'esercito, secondo la fonte.
Vale la pena notare che Hezbollah dispone già di una rete terroristica consolidata in Sud America e mantiene un contingente di decine di migliaia di terroristi in Libano.
Martedì, il presidente libanese Joseph Aoun ha dichiarato che il 2025 segnerà il passaggio al monopolio statale delle armi. Ha assicurato che il disarmo di Hezbollah sarà ottenuto “attraverso il dialogo” e ha sottolineato i suoi sforzi per evitare una guerra civile. Secondo Aoun, la comunicazione con l'organizzazione è “buona e diretta” e “i risultati sono visibili sul campo”.
Ha anche sottolineato che l'esercito libanese sta chiudendo i tunnel e sequestrando e distruggendo i depositi di armi di Hezbollah. Aoun ha inoltre affermato che, a suo avviso, l'integrazione di Hezbollah nell'esercito libanese dovrebbe seguire il modello delle milizie degli anni '90, in cui i singoli membri sono stati integrati separatamente.
Mahmoud Qamati, un alto rappresentante di Hezbollah, ha risposto in un discorso alla richiesta del governo di disarmare l'organizzazione terroristica.
“Noi restiamo fedeli alle nostre armi, restiamo fedeli alla nostra resistenza”, ha affermato Qamati, riferendosi a una dichiarazione del segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah, ucciso: ‘Chiunque alzi la mano sulle nostre armi, la sua mano sarà tagliata’.
(da Israel Hayom)
(Israel Heute, 18 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Germania – Condannato giovane palestinese per aggressione a studente israeliano
Uno studente palestinese identificato come Mustafa A. è stato condannato a tre anni di carcere in Germania per un pestaggio motivato da antisemitismo nei confronti di un altro studente, il 30enne Lahav Shapira, israeliano, aggredito nel febbraio del 2024 all’esterno di un caffè di Berlino. Da settimane stava ricevendo minacce in rete per via del suo attivismo pro-Israele e per le sue campagne per gli ostaggi, ha raccontato in tribunale.
«Secondo l’atto d’accusa, A. avrebbe improvvisamente colpito con un pugno in faccia il suo compagno di studi e in seguito gli avrebbe dato un calcio», riferisce tra gli altri il quotidiano Der Spiegel. «Shapira ha riportato una frattura complessa del medio-viso e un’emorragia cerebrale e ha dovuto essere ricoverato in ospedale». L’imputato ha ammesso la violenza, smentendo però che fosse dettata da antisemitismo. Ricostruzione non ritenuta veritiera in sede di giudizio, un giudizio che sta avendo risonanza mediatica non solo in Germania, anche per la storia familiare di Shapira. Il giovane aggredito a Berlino è nipote di Amitzur Shapira, il capo allenatore della squadra israeliana di atletica alle Olimpiadi di Monaco del 1972. Come altri dieci connazionali, suo nonno fu trucidato dai terroristi palestinesi entrati nel villaggio olimpico per bagnare di sangue quei Giochi.
(moked, 18 aprile 2025)
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L’ultima sinagoga della Georgia sopravvive grazie a un ragazzo di 23 anni
di Luca Spizzichino
Nel sud-ovest della Georgia, a pochi chilometri dal confine con la Turchia, si trova una delle sinagoghe più antiche d’Europa. È l’ultima testimonianza tangibile di una comunità ebraica un tempo vivace e numerosa, oggi ridotta a un solo custode: Beniamin Levishvili, 23 anni, gabbai della sinagoga di Akhaltsikhe.
“Resto perché, se non lo faccio io, chi lo farà?” racconta Beniamin al Times of Israel. Divide il suo tempo tra Israele e la Georgia, ma durante la stagione turistica torna sempre ad Akhaltsikhe, dove guida gruppi di visitatori israeliani e si occupa della sinagoga. La sua dedizione nasce da una lunga tradizione familiare: suo nonno Ioseb fu una figura chiave nella difesa del patrimonio culturale e religioso ebraico durante l’epoca stalinista, quando le sinagoghe venivano confiscate e riconvertite. Negli anni d’oro, la comunità ebraica locale contava quasi tremila membri e due sinagoghe. Ma con le ondate migratorie verso Israele negli anni Settanta e Novanta, alimentate dal desiderio di sfuggire alla repressione sovietica, la comunità si è progressivamente svuotata. Una delle due sinagoghe è oggi in rovina. L’altra, quella custodita da Beniamin, è ancora attiva.
La data di costruzione della sinagoga è ancora dibattuta. Un’incisione sulla facciata riporta l’anno 1863, ma secondo la storica locale Tsira Meskhishvili potrebbe essere stata eretta già nel XVIII secolo, forse intorno al 1740. Le sue ricerche, basate su diari di viaggio e sull’analisi dello sviluppo economico della comunità ebraica sotto l’Impero Ottomano, suggeriscono che gli ebrei locali non pregassero in rifugi di fortuna, bensì in strutture stabili e ben progettate. Una tesi opposta è sostenuta dall’architetto israeliano Daniel Moshe, che visitò la sinagoga nel 1995 e attribuisce la sua costruzione alla seconda metà dell’Ottocento, dopo l’annessione russa della Georgia, forse su iniziativa di ebrei ashkenaziti. A rafforzare questa ipotesi sono le caratteristiche architettoniche dell’edificio.
Nonostante le incertezze cronologiche, l’edificio è diventato meta di pellegrinaggio per molti visitatori. All’interno si trovano rotoli della Torah provenienti dall’Unione Sovietica e persino una, del XVI secolo, proveniente dall’Iraq, custodita dietro l’Aron HaKodesh, l’Arca Santa. “Quando la mostro ai visitatori, spesso si commuovono fino alle lacrime” confida Levishvili.
Fino agli anni ’70, la Georgia ospitava una delle comunità ebraiche più antiche del mondo, con circa 60.000 membri. Oggi ne restano meno di 1.500. La loro storia è unica: molti provenivano da Turchia, Iran e Marocco, seguendo tradizioni sefardite e sviluppando una lingua propria, il giudeo-georgiano, un dialetto aramaico ormai in via d’estinzione.
David Boterashvili, 64 anni, cresciuto a Rabati, dove si trova la sinagoga, ricorda: “Non ci consideravamo solo ebrei georgiani, ma ebrei di Rabati. C’era una differenza, interna ed esterna”. La rivoluzione bolscevica portò deportazioni e un’economia collettivizzata. Un documento del 1931 conservato alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme celebra il successo delle fattorie collettive ebraiche ad Akhaltsikhe, testimoniando un passato di resilienza e ingegno. La georgianizzazione degli ebrei — riflessa nei cognomi, nella lingua e nella partecipazione alla vita nazionale — ha rafforzato il legame con il paese. Eppure, oggi, la diaspora ha lasciato un vuoto profondo. In Israele, piccoli gruppi mantengono viva la tradizione giudeo-georgiana ad Ashdod e Haifa, ma le nuove generazioni hanno ormai perso quasi ogni legame con le radici georgiane. “Perdita. Esiste una sola parola per descrivere tutto questo” afferma la storica Thea Gomelauri.
(Shalom, 18 aprile 2025)
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Wsj: Hamas a corto di denaro non riesce a pagare combattenti
Uno dei fattori chiave delle difficoltà economiche è la riduzione degli aiuti umanitari, una parte dei quali – sottratta da Hamas – veniva rivenduta per finanziare l’organizzazione
Secondo un’inchiesta del Wall Street Journal, rilanciata anche da media israeliani, Hamas sta affrontando gravi difficoltà finanziarie nella Striscia di Gaza, al punto da non riuscire più a pagare regolarmente i propri combattenti. Fonti arabe, israeliane e occidentali citate dal quotidiano spiegano che uno dei fattori chiave è la riduzione degli aiuti umanitari, una parte dei quali – sottratta dall’organizzazione – veniva rivenduta per finanziare l’organizzazione.
Israele avrebbe inoltre colpito figure cruciali nella distribuzione del denaro, mentre altri quadri sono stati costretti alla clandestinità. I dipendenti dell’amministrazione a Gaza non riceverebbero più lo stipendio, mentre i leader e gli agenti di grado superiore avrebbero incassato solo la metà durante il Ramadan. Ai combattenti semplici andrebbero tra i 200 e i 300 dollari al mese. Secondo fonti israeliane e occidentali, questa crisi di liquidità era in corso già prima del cessate il fuoco e dell’accordo sugli ostaggi entrato in vigore a gennaio.
Intanto, la sera del 16 aprile sono scoppiate proteste nella Striscia di Gaza, con centinaia di residenti di Beit Lahia che chiedevano la fine del governo di Hamas e della guerra in corso, scandendo slogan come “sì all’unità, no al terrore” e “vogliamo vivere in pace”.
Hamas ha accusato Israele, che dal 2 marzo blocca l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, di usare “la carestia come arma”. Le dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Israel Katz, che ieri ha escluso la possibilità di consentire nuovamente l’ingresso degli aiuti a Gaza, sono “una nuova ammissione pubblica di un crimine di guerra”, ha affermato Hamas in una nota.
(Il Sole 24 Ore, 17 aprile 2025)
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La perdita di territorio fa più male a Hamas che le vite umane
Hamas può glorificare i morti, ma la perdita di territorio è considerata un segno visibile di debolezza e sconfitta.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Nonostante mesi di combattimenti e massicci attacchi aerei, il bilancio terroristico di Hamas rimane contrastante. Solo circa un quarto del vasto sistema di tunnel è stato finora distrutto; si stima che sotto la Striscia di Gaza ci siano ancora circa 500 chilometri di tunnel intatti. Queste strutture sotterranee fungono da rifugi, depositi di armi e centri operativi per Hamas, rappresentando così un problema strategico fondamentale per l'esercito israeliano.
Anche nei negoziati per il rilascio degli ostaggi, trattenuti nella Striscia di Gaza dall'attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele è in una fase di stallo. Secondo alti ufficiali ed esperti di sicurezza, la ragione principale è la disunione politica all'interno del gabinetto di sicurezza israeliano. Sebbene l'esercito controlli ormai circa il 40% della Striscia di Gaza, si tratta per lo più di terreno vuoto, senza scontri significativi con i circa 20.000 terroristi di Hamas che si sono trincerati nei tunnel.
Hamas non solo ha resistito ai massicci bombardamenti, ma durante le pause dei combattimenti ha persino ricostruito parti del sistema di tunnel distrutto. Alti ufficiali israeliani hanno dichiarato ai media che i danni sono stati “rapidamente riparati”. La vera sfida, a quanto pare, inizia solo ora.
L'offensiva terrestre israeliana è ora entrata in una nuova fase, passando da operazioni temporanee al controllo a lungo termine del territorio. L'obiettivo è quello di esercitare la massima pressione militare e psicologica su Hamas attraverso l'accerchiamento, il blocco degli aiuti umanitari e la speranza di costringere così l'organizzazione al tavolo dei negoziati.
Un passo importante è stato compiuto nel sud. Le forze armate israeliane hanno preso il controllo del cosiddetto corridoio di Morag, un corridoio strategico tra Khan Yunis e Rafah, la cui conquista dovrebbe chiudere l'accerchiamento di Rafah. Anche nel nord l'offensiva avanza: le truppe israeliane sono avanzate nel quartiere di Daraj Tuffah, che fa parte della cintura esterna della città di Gaza. Questo nuovo status territoriale dovrebbe garantire a Israele una posizione di forza nei futuri negoziati.
Il controllo territoriale colpisce Hamas più delle perdite umane. Ciò che fa particolarmente male ai movimenti islamisti come Hamas, più delle perdite elevate tra le proprie fila, è la perdita di territorio. Nella visione ideologica di tali organizzazioni, la terra non è solo uno spazio geografico, ma un bene sacro che non può mai essere ceduto. Il termine “waqf”, una fondazione islamica che deve rimanere musulmana per sempre, è centrale nella loro identità. Pertanto, ogni appropriazione di terra da parte di Israele, sia essa militare o politica, è percepita come un colpo particolarmente duro.
Mentre anche migliaia di morti possono spesso essere glorificati come martiri e utilizzati a fini propagandistici agli occhi di Hamas, l'espropriazione della terra – in particolare attraverso una presenza militare permanente e il controllo amministrativo – è un tabù ideologico. A Hamas non importa se nella Striscia di Gaza si contano decine o centinaia di migliaia di palestinesi morti: ciò che davvero la infastidisce è la perdita di terra. È proprio qui che entra in gioco la nuova strategia israeliana.
L'esercito israeliano sta spostando la sua attenzione dalle operazioni puntuali, che non portano a cambiamenti duraturi, all'occupazione permanente di corridoi strategici e quartieri cittadini. Non si tratta più solo di distruggere le infrastrutture del terrorismo o di eliminare i combattenti. Si tratta di creare realtà territoriali, zone controllate che non sono più a disposizione di Hamas.
Questo approccio colpisce duramente Hamas, non solo perché limita la sua libertà di movimento militare, ma anche perché mina le sue fondamenta ideologiche: la visione di una “lotta di liberazione palestinese” totale su ogni centimetro di terra tra il Mediterraneo e il Giordano.
Per quanto riguarda gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, la pressione politica interna e internazionale sul governo israeliano cresce. Alla vigilia della festa di Pesach, il capo di Stato maggiore Eyal Zamir ha sottolineato davanti ai soldati dell'unità d'élite Nahal: “Il ritorno degli ostaggi è la nostra missione principale: tutto ciò che facciamo nella Striscia di Gaza è finalizzato a questo obiettivo e allo smantellamento di Hamas. Il nostro compito è liberare gli ostaggi”. Queste parole non erano rivolte solo alle truppe, ma anche alla leadership politica di Gerusalemme: un messaggio inequivocabile in un contesto di crescente impazienza dell'opinione pubblica.
La nuova linea di Israele: restiamo e controlliamo ciò che abbiamo conquistato. Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato nei giorni scorsi che “centinaia di migliaia di abitanti sono già stati evacuati e ampie zone della Striscia di Gaza sono state dichiarate zona di sicurezza israeliana. L'obiettivo è costringere Hamas a concessioni massime nell'ambito di un accordo sugli ostaggi. Più Hamas blocca qualsiasi negoziazione, più saremo determinati ad agire contro Hamas”, ha affermato Katz. Ma spesso queste rimangono parole vuote.
La nuova dottrina militare prevede che ogni avanzata terrestre sia preparata da massicci attacchi aerei, terrestri e marittimi, supportati da unità di genieri e armi di precisione per disinnescare ordigni esplosivi, distruggere le infrastrutture nemiche e ridurre al minimo i rischi per le truppe israeliane. La differenza fondamentale è che questa volta non si tratta solo di entrare, ma di restare.
L'esercito israeliano ha capito che se le perdite militari non sono sufficienti a far cedere Hamas, la pressione territoriale costante, unita a una presenza duratura, potrebbe essere la chiave per costringere l'organizzazione alla resa o almeno a negoziati seri. La strategia di Israele non mira solo a distruggere Hamas come potenza militare, ma anche a erodere la sua legittimità ideologica. In un Medio Oriente in cui la narrativa è efficace quanto i missili, la perdita di territorio è un trauma che non può essere facilmente trasformato in propaganda.
(Israel Heute, 17 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L'opposizione israeliana critica Netanyahu per il suo presunto rifiuto di attaccare l'Iran
I leader dell'opposizione criticano aspramente il primo ministro dopo le rivelazioni sul blocco di un'operazione contro Teheran da parte di Trump
I leader dell'opposizione israeliana hanno reagito con veemenza alle notizie del New York Times secondo cui il presidente americano Donald Trump avrebbe bloccato un'operazione israeliana contro gli impianti nucleari iraniani. Yair Lapid, leader dell'opposizione, ha affermato su Twitter di aver proposto già lo scorso ottobre di colpire i giacimenti petroliferi iraniani. “Distruggere l'industria petrolifera iraniana farebbe crollare la sua economia e provocherebbe alla fine la caduta del regime. Netanyahu ha avuto paura e ha fermato questa iniziativa”, ha dichiarato.
Da parte sua, Benny Gantz, leader del partito Unione Nazionale, ha insistito sulla necessità di agire contro la minaccia nucleare iraniana. “Israele deve e può eliminare la prospettiva di capacità nucleari iraniane”, ha scritto, aggiungendo che ‘il regime iraniano è esperto in manovre dilatorie. In stretta collaborazione con il nostro grande alleato, gli Stati Uniti, è tempo di cambiare il Medio Oriente’.
Anche l'ex primo ministro Naftali Bennett ha commentato queste rivelazioni, precisando la sua visione di un accordo accettabile con l'Iran. Secondo lui, un accordo di questo tipo dovrebbe includere “lo smantellamento completo e permanente del programma nucleare iraniano”, “la fine di ogni esportazione di terrorismo iraniano” e “il totale arresto dello sviluppo di missili balistici”.
Bennett ha sottolineato che la posizione americana è attualmente favorevole: “Sotto la guida del presidente Trump, gli Stati Uniti hanno acquisito un potere senza precedenti. In questo momento, l'America è forte, mentre il regime e i suoi rappresentanti sono temporaneamente più deboli che mai, quasi indifesi”. ‘Sarebbe un errore storico permettere all'Iran di riorganizzarsi e minacciare nuovamente noi - gli Stati Uniti, Israele e il resto del mondo’, ha concluso.
(i24, 17 aprile 2025)
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Idf: La pressione avvicina Hamas ai negoziati
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Il capo delle forze armate, Eyal Zamir, con alcuni parenti degli ostaggi
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Mentre i combattimenti proseguono nella Striscia di Gaza, l’esercito israeliano mantiene una linea operativa definita: «Avanzare in modo controllato, limitando i rischi per gli ostaggi e creando pressione crescente su Hamas». Secondo fonti militari, citate da Kan e ynet, le Idf hanno colpito oltre 1.200 obiettivi dall’interruzione della tregua a metà marzo, eliminando 350 terroristi palestinesi, tra cui 40 comandanti e dirigenti operativi di Hamas e Jihad islamica.
L’operazione sul terreno si concentra nel sud della Striscia, in particolare lungo il corridoio Morag, tra Rafah e Khan Yunis, e nelle aree strategiche a nord come Shejaiya, Daraj e Tufah. I soldati di Tsahal hanno rafforzato la fascia di sicurezza lungo il confine, che ora si estende su circa il 30% del territorio di Gaza, con l’intento dichiarato di impedire il ritorno operativo di Hamas nelle aree liberate. «Stiamo avanzando con cautela per evitare imboscate e ridurre il rischio per i nostri soldati», ha spiegato una fonte militare a Kan. «Questa pressione costante sta portando Hamas più vicino a un accordo».
L’esercito sottolinea che, senza il vincolo degli ostaggi, una grande offensiva sarebbe già stata lanciata. L’obiettivo attuale è invece danneggiare le capacità operative dei terroristi, indebolirne il controllo sulla popolazione e favorire un ritorno al negoziato, possibilmente nel quadro delineato dal mediatore Usa Steve Witkoff.
Sul piano politico, il ministro della Difesa, Israel Katz, ha ribadito che Israele non consentirà l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia finché non verrà istituito un meccanismo civile indipendente dalla gestione di Hamas. In precedenza Katz aveva ipotizzato l’uso di aziende private per distribuire gli aiuti, una eventualità criticata dai colleghi di coalizione dell’estrema destra. In una nota successiva, Katz ha corretto il tiro: «Nella realtà attuale, nessuno sta per introdurre aiuti umanitari a Gaza, e nessuno li sta preparando. La nostra linea è chiara: stop agli aiuti finché Hamas ne trarrà beneficio».
Le parole di Katz non sono bastate a placare le polemiche. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir ha definito «un errore storico» la sola ipotesi di ripresa degli aiuti. «Finché i nostri ostaggi muoiono nei tunnel, nessun grammo di cibo deve entrare a Gaza», ha scritto su X. Sulla stessa linea il ministro della Cultura Miki Zohar, che ha definito Hamas «assassini spregevoli» e ha invocato «solo fuoco infernale fino al ritorno dell’ultimo ostaggio». Il Forum delle Famiglie degli Ostaggi ha invece criticato l’approccio del governo, accusandolo di preferire la conquista di territorio al ritorno dei prigionieri: «È ora di smettere con promesse vuote. Non si possono liberare tutti gli ostaggi continuando la guerra: serve un accordo vero, subito», l’appello del Forum.
(moked, 16 aprile 2025)
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Il “campo largo” si unisce solo contro Israele
Un comunicato della CEM
Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano sulla mozione presentata da Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni, ha dichiarato: «Un festival dell’ipocrisia e dell’odio. Leggo con stupore la mozione di quattro importanti leader politici italiani e mi domando: ma dove vivono? Sono mai stati in Israele? Hanno mai parlato con i loro colleghi della sinistra israeliana? Le loro proposte sono lunari, non hanno alcuna attinenza con la realtà sul campo.
Già dire di volere “riconoscere la Palestina quale Stato democratico” dimostra cecità e spietatezza verso i palestinesi dissidenti uccisi o incarcerati da Hamas. Dimenticano le milizie jihadiste armate che continuano a fare attentati contro i civili israeliani. Dimenticano l’incitamento all’odio antiebraico dalle tv e dalle moschee palestinesi. Per loro solo Israele (fino a prova contraria, vittima della jihad islamista) è da condannare. Quella mozione antiebraica rappresenta un vero e proprio festival dell’ipocrisia e dell’odio jihadista contro Israele e gli ebrei».
Anche Daniele Nahum, consigliere comunale di Milano, uscito lo scorso anno dal PD per le posizioni ambigue sul sostegno alle campagne propal, ha scritto sul suo profilo FB: “La mozione sulla Palestina presentata da PD, AVS e M5S non menziona neanche per sbaglio la smilitarizzazione di Hamas e il fatto che l’organizzazione terroristica debba essere espulsa e non debba fare parte del governo di quel territorio. Oltre al passaggio obbligato sugli ostaggi, si sono ‘dimenticati’ quel piccolo problema che l’obiettivo di Hamas è cancellare Israele. Detto questo, si deve arrivare a una soluzione negoziale e il punto della ricostruzione di Gaza con un impegno dei paesi arabi e della comunità internazionale è necessario. Il rilancio di tutto questo, però, avverrà solo ed esclusivamente con l’esclusione di Hamas. Farlo capire al campo largo è un’impresa difficile”.
Ma cosa è scritto nella Mozione? Qui il testo integrale
Si parla di riconoscere “la Palestina come stato democratico”: ma è noto a tutti che non si tengono elezioni né in Cisgiordania né a Gaza dal 2006. E questo perché a Gaza, dopo la vittoria di Hamas, la minoranza di Fatah è stata letteralmente defenestrata dai terroristi islamisti, con oltre 300 morti, e ogni dissidenza è stata soffocata nel sangue. Mentre in Cisgiordania Abu Mazen mantiene il potere senza elezioni perché sa benissimo che le vincerebbe Hamas, con le stesse conseguenze che si sono verificate a Gaza. Quale “Stato democratico di Palestina” vuole quindi riconoscere la Mozione?
Tra le altre cose, si chiede la sospensione della vendita di armi a Israele (cosa peraltro già in atto). Non si chiede all’Iran di smettere di armare Hamas, Hetzbollah o gli Houti. Un Israele disarmato sarebbe cancellato in un secondo dai suoi nemici (che dovrebbero essere anche i nemici dell’Occidente); ma questo non sembra preoccupare affatto Schlein e soci.
Si chiede anche la cessazione degli accordi UE – Israele, di fatto un isolamento politico che non si capisce come possa contribuire alla “pace”, mentre nulla di concreto viene chiesto ai palestinesi.
Insomma, una mozione che dimostra una totale inconsapevolezza della realtà fattuale del Medio Oriente e del conflitto decennale, che ha visto Israele sempre attaccato dai suoi nemici, dal 1948 al 2023. Una dichiarazione ipocrita di “buoni propositi” che lascerà il tempo che trova, ma dimostra purtroppo il livello politico davvero sconsolante di quella che dovrebbe essere “la sinistra italiana”. R.I.
(Bet Magazine Mosaico, 16 aprile 2025)
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Ucciso un terrorista di Hamas coinvolto nel massacro del 7 ottobre
Hamza Asafah, coinvolto nel massacro e nelle cerimonie di liberazione, è stato ucciso due settimane fa in un attacco aereo mirato nel centro della Striscia di Gaza.
di Joshua Marks
Le forze di difesa israeliane e il servizio di sicurezza israeliano (Shin Bet) hanno ucciso il terrorista di Hamas Hamza Wael Muhammad Asafah in un attacco aereo di precisione nel centro della Striscia di Gaza due settimane fa, hanno annunciato le autorità martedì.
Asafah, un membro di alto rango della forza Nukhba nel battaglione Deir al-Balah di Hamas, era entrato in territorio israeliano durante il massacro del 7 ottobre 2023 e aveva poi partecipato a cerimonie di liberazione degli ostaggi, utilizzate da Hamas a fini di propaganda. Secondo le forze armate israeliane, ha partecipato alla “cerimonia di liberazione” degli ostaggi Eli Sharabi, Ohad Ben-Ami e Or Levy.
L'operazione congiunta dell'esercito e dello Shin Bet è stata condotta dopo un'ampia indagine di intelligence e sorveglianza aerea per evitare danni alla popolazione civile.
Come hanno comunicato le forze armate israeliane e lo Shin Bet in un comunicato separato, nella notte di domenica Muhammad al-Ajlah, il comandante del battaglione Shejaiya di Hamas, è stato ucciso in un attacco nel quartiere Shejaiya di Gaza City. Al-Ajlah era succeduto a Haitham Rizq Abd al-Karim Sheikh Khalil, ucciso la scorsa settimana.
Al-Ajlah era stato in precedenza comandante di una compagnia di supporto al combattimento del battaglione Sheichaia e responsabile dell'armamento dei terroristi utilizzati negli attacchi contro civili e soldati israeliani.
È il quinto comandante del battaglione Shejaiya di Hamas ucciso dall'inizio della guerra il 7 ottobre 2023, e il terzo dalla ripresa delle operazioni su più ampia scala nella Striscia di Gaza il 18 marzo 2025.
Le forze armate israeliane hanno dichiarato di aver adottato numerose misure prima dell'attacco per limitare i danni alla popolazione civile, tra cui avvertimenti, uso di munizioni di precisione e sorveglianza aerea.
“L'organizzazione terroristica Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale utilizzando le infrastrutture civili e la popolazione come scudi umani”, si legge nella dichiarazione. ‘Le forze armate israeliane e lo Shin Bet continueranno a operare per proteggere lo Stato di Israele’.
(Israel Heute, 16 aprile 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Le Maldive vietano l’ingresso ai cittadini israeliani
di Michelle Zarfati
Il governo delle Maldive, la piccola nazione insulare nell’Oceano Indiano, ha vietato ufficialmente ai cittadini israeliani di entrare nel suo territorio. Il presidente delle Maldive Mohamed Muizzu ha firmato una misura che vieta agli israeliani di entrare nel paese come gesto di “ferma solidarietà con il popolo palestinese”, secondo una dichiarazione ufficiale rilasciata dal suo ufficio stampa.
La decisione è arrivata poco dopo che il parlamento del paese ha approvato la legislazione tra i combattimenti in corso a Gaza e le crescenti critiche alle azioni di Israele. La dichiarazione del presidente ha osservato che: “L’approvazione riflette la ferma posizione del governo in risposta alle atrocità e agli atti di genocidio in corso commessi da Israele contro il popolo palestinese”. Il divieto di ingresso avrà effetto immediato.
Le Maldive sono una nazione insulare musulmana sunnita situata nel Mar Arabico, parte dell’Oceano Indiano, nota per il suo scenario idilliaco di spiagge bianche e acque turchesi limpide. Israele e le Maldive mantennero piene relazioni diplomatiche tra il 1965 e il 1974, quando i legami furono sospesi. Nel 2006, il presidente delle Maldive Mohamed Nasheed ha annunciato piani per rinnovare le relazioni diplomatiche con Israele, ma la forte opposizione da parte dei gruppi politici ha portato alla cancellazione di tale iniziativa.
La mossa del presidente delle Maldive non è una sorpresa, poiché già nell’ottobre 2024 Muizzu aveva già scritto su X un commento fortemente critico nei confronti dello Stato ebraico: “Israele deve essere ritenuto responsabile dei suoi atti illegali a Gaza. Lo stato di diritto deve essere sostenuto e Israele deve cessare i suoi atti genocidi contro il popolo palestinese” scriveva Muizzu.
A giugno, il governo delle Maldive aveva infatti annunciato un piano per vietare agli israeliani di entrare nel paese, ma la legge è entrata in vigore solo martedì. Fino all’inizio del recente conflitto, le Maldive erano una destinazione turistica popolare per gli israeliani, con quasi 11.000 visitatori solo nel 2023. Anche dopo l’annuncio del governo a giugno, gli israeliani hanno continuato a viaggiare nell’isola nonostante gli avvertimenti del Ministero degli Esteri israeliano che, nel corso della giornata di martedì, ha sconsigliato ai propri cittadini di visitare l’arcipelago d’ora in poi.
(Shalom, 16 aprile 2025)
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Un jet dell'IDF sgancia accidentalmente una bomba vicino a un kibbutz
Un caccia israeliano diretto verso la Striscia di Gaza ha inavvertitamente sganciato una delle sue bombe su un campo aperto vicino al kibbutz Nir Yitzhak, nel Negev nordoccidentale, martedì sera.
La bomba è esplosa, ma non ci sono state vittime né danni, poiché è caduta in una zona agricola disabitata.
“Poco tempo fa, le munizioni sganciate da un caccia durante un attacco nella Striscia di Gaza sono cadute in un'area aperta nella zona di Nir Yitzhak a causa di un malfunzionamento tecnico”, secondo il portavoce dell'IDF.
I membri del kibbutz hanno sentito l'esplosione, ma inizialmente hanno pensato che fosse il lancio di un intercettore Iron Dome.
“Il kibbutz è in costante contatto con i funzionari militari e si aspetta un'indagine approfondita sulle circostanze dell'incidente”, secondo una dichiarazione rilasciata dalla comunità.
Martedì, Nir Yitzhak ha organizzato una giornata aperta alle famiglie interessate a vivere lì. I terroristi hanno attaccato direttamente il kibbutz il 7 ottobre 2023, uccidendo otto persone e prendendone sei in ostaggio, oltre a due corpi.
Il kibbutz, che è stato gravemente danneggiato durante l'attacco, da allora si sta impegnando per riprendersi sia fisicamente che in termini di comunità, e sta aprendo le porte a nuove famiglie.
Il Consiglio regionale di Eshkol, che copre un'area tra Ashkelon e Beersheva, ha definito l'attentato “un incidente molto insolito” e ha osservato che è sotto inchiesta da parte dell'aeronautica israeliana. “Siamo in contatto diretto con i funzionari militari e ci aspettiamo un'indagine approfondita sul caso e l'attuazione delle conclusioni al riguardo, al fine di garantire che tali incidenti non si ripetano in futuro”, ha detto.
L'incidente non è stato il primo del suo genere durante l'attuale guerra, secondo Ynet.
Nel giugno 2024, un proiettile di carro armato ha deviato la rotta ed è atterrato vicino alla recinzione di confine, secondo l'agenzia.
Nel maggio 2024, una bomba da 500 kg caduta da un F-15 dell'IAF è stata trovata tra le case di Moshav Yated, sempre nella regione di Eshkol. L'IDF ha definito il malfunzionamento “insolito, raro, grave e pericoloso”.
Tuttavia, tali incidenti sono ancora estremamente rari.
(JNS, 16 aprile 2025)
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Roma – Il dissidente gazawi alla Sapienza: Ascoltate la mia storia
Hamza Howidy è un dissidente palestinese nato e cresciuto a Gaza, che ha lasciato nell’estate del 2023 dopo aver conosciuto sulla propria pelle la violenza di Hamas. Due volte incarcerato per via della sua militanza nel movimento Bidna N’eesh (“Vogliamo vivere”), di cui è uno dei leader, dal 7 ottobre porta la propria testimonianza dove c’è disponibilità all’ascolto. Ieri l’ha fatto all’Università La Sapienza di Roma, mentre nel pomeriggio sarà al Senato della Repubblica.
L’evento ruotava attorno all’interrogativo “Quale futuro per Gaza?”: accanto al dissidente, al tavolo dei relatori sedevano la direttrice di Radio Radicale Giovanna Reanda, il direttore dell’Europeista Piercamillo Falasca, la docente di Storia contemporanea dell’ateneo Alessandra Tarquini, l’autrice di 7 Ottobre 2023 Israele, il giorno più lungo Sharon Nizza e lo studente Filippo Rigonat, che ha aperto l’incontro. Secondo Rigonat, c’è necessità di parlare del conflitto a Gaza lontano dalle «troppe sovrastrutture, ideologicizzate e lontane dalla realtà» di una certa propaganda oggi prevalente in ambito universitario.
Howidy, classe 1997, ha esposto la sua storia e risposto a molte domande. Iniziando dai fatti di cui fu testimone ragazzino con la guerra civile del 2007 per il controllo di Gaza tra Hamas e Fatah: «Sono successe cose orribili: persone gettate dai tetti, persone trascinate per le strade; una situazione che non capivo, abituato a pensare a un solo conflitto: quello tra israeliani e palestinesi». Da quando Hamas ha preso il potere nelle settimane successive, ha proseguito Howidy, «la società gazava è diventata sempre più autocratica ed estremista e io stesso ero incentivato ad andare in quella direzione; per fortuna la mia famiglia, di tendenze liberali, cercava di portarmi nell’altra». In ogni caso «ero un giovane che cercava di fare la propria vita, non ero coinvolto nel conflitto».
La svolta sarebbe arrivata negli anni universitari. «Ho frequentato l’università islamica, la stessa in cui hanno studiato i leader di Hamas, non c’era molta altra scelta», precisa l’attivista. Dopo la laurea, ottenuta nel 2019, «ho iniziato a capire che per avere certi lavori, specie nel settore pubblico, se non fai parte di Hamas non c’è possibilità». È stato allora che Howidy ha iniziato ad avvicinarsi a Bidna N’eesh, partecipando a una manifestazione interrotta dai miliziani di Hamas con spari e arresti. Lui stesso è finito in carcere, per la sola “colpa” di avere tra le mani un volantino con scritto “Vogliamo vivere”. In prigione ci è tornato nel giugno del 2023, quando del movimento era diventato uno dei promotori, «subendo un trattamento barbarico, anche perché recidivo». La famiglia ha corrotto dei membri di Hamas e anche questa volta ne è uscito. Rimanendo però sorpreso del fatto che la protesta e la sua repressione da parte del gruppo terroristico non avessero ottenuto di fatto alcuna copertura mediatica. «In quel momento ho deciso di lasciare Gaza, alla ricerca di un futuro diverso in Europa», ha raccontato.
Un mese dopo è arrivato il 7 ottobre, con i suoi orrori e le sue ferite aperte. Howidy ha lanciato un messaggio agli studenti dei cortei anti-israeliani: «Non bisogna guardare a questo conflitto in modo manicheo, la situazione è molto più complicata. È anche importante che la protesta non si allinei con Hamas e, sul fronte filo-israeliano, che non si identifichino tutti i palestinesi come terroristi. Le voci moderate devono avere la possibilità di esprimersi» a.s.
(moked, 16 aprile 2025)
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