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Miriam, un personaggio profetico

di Gabriele Monacis
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Miriam è un personaggio biblico che solitamente non è annoverato tra quelli che hanno fatto la storia del popolo di Israele, forse perché sorella del ben più noto fratello Mosè, che guidò il popolo fuori dall’Egitto, colui al quale Dio parlò faccia a faccia e che molte volte fece da mediatore tra il Signore e il suo popolo in momenti di grande tensione.
  Ma tornando a Miriam, è vero che la troviamo nella Bibbia come un personaggio che compare e scompare nella narrativa più ampia della storia di Israele, senza sapere molto su di lei, se non che era la sorella di Mosè e Aaronne. Ma è questo sufficiente per immaginarsi una Miriam dal carattere sommesso e sempre all’ombra dei fratelli più famosi? In che modo la Bibbia parla di questa donna e in quali contesti la inserisce? Proviamo ad abbozzare una risposta sulla base di ciò che dice la Bibbia nei confronti di Miriam, senza entrare nel dettaglio dei brani che parlano di lei, cosa che faremo in occasioni future.
  Prendiamo ad esempio il libro del profeta Michea, dove Miriam è menzionata solo una volta. Attraverso il suo profeta, il Signore ricorda il tempo in cui il popolo di Israele fu liberato dalla schiavitù in Egitto e fu guidato nel deserto. Verrebbe da pensare che questa guida fu affidata dal Signore al solo Mosè. E invece no. Ecco il versetto di Michea 6:4 in cui il Signore parla a Israele:

    Io ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, ti ho redento dalla casa di schiavitù e ho mandato davanti a te Mosè, Aaronne e Miriam”.
Nonosante in molti casi il Pentateuco descriva Mosè e Aaronne come le guide effettive del popolo di Israele, in questo versetto Michea gli affianca Miriam e fa capire che lei, in termini di leadership, non era meno dei suoi fratelli.
  Sembrerebbe proprio che questo personaggio femminile non fosse affatto un personaggio secondario, sempre all’ombra degli uomini di famiglia. Anzi, anche nel periodo del profeta Michea, cioè secoli dopo l’esodo di Israele nel deserto, Miriam aveva conservato una certa autorità agli occhi del popolo, tanto che Michea ne parla come un punto di riferimento per la propria generazione, al pari dei suoi fratelli Mosè e Aaronne.
  Prendiamo in esame ancora il brano che parla dell’uscita di Israele dal Mar Rosso, nel capitolo 15 di Esodo. La gran parte di questo capitolo è dedicata al canto di Mosè, anche noto come canto del Mare, dal suo nome in ebraico. Alla fine di questo canto, nei versetti 20 e 21, Miriam compare improvvisamente, come una figura molto carismatica, in un momento unico della storia di Israele, quando questo uscì miracolosamente dal mare camminando sull’asciutto. La profetessa Miriam, così la chiama la Scrittura, prende in mano il timpano, uno strumento simile al tamburo, si mette a capo di tutte le donne di Israele, anche loro con timpani e danze, e le guida a cantare al Signore, perché si è grandemente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. (Esodo 15:21).
  Questo evento può essere considerato il primo esempio di adorazione del Signore a livello collettivo nella storia di Israele: il popolo, o parte di esso, si mette a cantare, suonare e danzare al suo Dio dopo che Egli gli ha mostrato la Sua potenza aprendo il mare in due e facendoglielo attraversare incolume. Prima di questo giorno, erano sempre state persone singole ad adorare il Signore in un determinato momento e luogo del loro cammino con Dio, come fecero Abramo, Giacobbe e molti altri. All’uscita dal mar Rosso, invece,  si registra il primo caso in cui un gruppo di persone all’interno del popolo si riunisce insieme per adorare Dio, che ha liberato Israele dalla spada dei suoi nemici e lo ha fatto uscire per intero dal mare aperto in due, senza che nessuno perisse.
  Ed è molto significativo che a persuadere il popolo ad adorare il Signore in forma collettiva, con timpani danze e canti, non fu Mosè, guida del popolo e autore del canto, ma proprio sua sorella Miriam, che con il suo carisma fu capace di trascinarsi dietro un numero considerevole di donne danzanti e cantanti al Signore.
  Purtroppo questo suo talento di trascinatrice non fu sempre usato da lei in modo positivo. Nel capitolo 12 di Numeri, leggiamo che Miriam mormorò contro suo fratello Mosè perché si era preso una moglie cusita; e in questa ribellione nei confronti di Mosè, colui che il Signore si era scelto, si portò dietro anche suo fratello Aaronne. Il popolo, questa volta, sembra osservare in silenzio questo scontro all’interno della famiglia che prende le decisioni, temendo forse che, una volta scoppiato il bubbone tra capi, ci si trovasse tutti in una empasse in cui nessuno sapeva cosa fare. “E se già loro non sono uniti, come farà ad esserlo il popolo? Come faremo a muoverci tutti insieme senza il loro aiuto?” avranno pensato in silenzio i figli di Israele, in cuor loro. Colui che non rimane in silenzio in questa circostanza è il Signore, che non lascia affatto correre questo mormorio partito da Miriam. Così scende in una nuvola, chiama tutti e tre i fratelli all’appello e redarguisce Miriam e Aaronne. Come conseguenza di questa ribellione, Miriam finisce per diventare lebbrosa e viene relegata fuori dall’accampamento di Israele per sette giorni.
  Questo evento tragico nella vita di Miriam fu ricordato da suo fratello Mosè qualche tempo dopo, quando di fronte alla nuova generazione di Israele che si apprestava ad entrare nella terra promessa, Mosè li esortò a stare in guardia contro il flagello della lebbra, ad aver cura di fare come il Signore aveva ordinato ai sacerdoti e a ricordare quello che Dio fece a Miriam durante il viaggio, all’uscita dall’Egitto, riferendosi appunto al giorno in cui venne colpita dalla lebbra. (Deuteronomio 24:8,9)
  Dunque, anche quando si ribellò al Signore e diventò lebbrosa, Miriam costituisce un esempio, anche se in negativo, da tener presente per coloro che vennero dopo di lei. Parlando alla nuova generazione di Israele che sarebbe entrata nella terra promessa da lì a poco, Mosè sottolinea l’importanza per il popolo d’Israele di conservare la memoria di Miriam. Il popolo avrebbe dovuto impegnarsi a tramandare alle generazioni future l’insegnamento che si poteva trarre dalla vita di questa donna, nel bene e nel male, per non fare il suo stesso errore, in attesa che un giorno il Signore avrebbe rivelato il perché di tale memoria tramandata.
  Anche il profeta Geremia, all’inizio del capitolo 31, ribadisce quanto sia importante ricordare Miriam, in attesa del giorno in cui il Signore sarà Dio di tutte le famiglie di Israele.
    Così dice l'Eterno: «Il popolo scampato dalla spada ha trovato grazia nel deserto; io darò riposo a Israele». (Geremia 31:2).
Con queste parole, Geremia ricorda la storia dell’esodo, in cui Israele è scampato dalla spada degli egiziani e ha trovato riparo nel deserto, dopo l’uscita dal mar Rosso. Dio richiama alla mente di Israele questo evento storico per promettergli che nella sua storia ci sarà un nuovo esodo, in cui Israele scamperà dalla mano dei suoi nemici, troverà riparo e il Signore gli darà riposo. Due versetti dopo questo, il Signore fa ancora delle promesse a Israele:
    Io ti riedificherò e tu sarai riedificata, o vergine d'Israele. Sarai di nuovo adorna dei tuoi tamburelli e uscirai in mezzo alle danze di quelli che fanno festa”.
Il Signore promette che Israele prenderà ancora in mano i tamburelli e danzerà ancora tra quelli che saranno nella gioia. Questa promessa è rivolta alla “vergine d’Israele”, un’espressione di genere femminile che ricorda il gruppo di donne guidate da Miriam.
  Non solo, dunque, Geremia ritorna sulla storia dell’esodo, ma usa anche due parole particolari che si trovano nel brano in esodo considerato in precedenza. In ebraico, le parole tradotte qui con “tamburelli” e “danze” sono le stesse che troviamo quando Miriam fu alla testa delle donne di Israele che adorarono il Signore con “timpani” e “danze”. Ecco che di nuovo, dopo le parole di Mosè in Deuteronomio, Geremia riporta alla mente del popolo il ricordo di Miriam e di ciò che ha fatto per Israele. Questo ricordo riemerge come qualcosa che ha segnato profondamente la storia di Israele, e la promessa è che lo farà di nuovo in futuro.
  Il Signore chiede quindi ad Israele di non dimenticare il personaggio di Miriam per due motivi: il primo è per non seguire il suo esempio negativo di ribellione verso uno come Mosè, colui che il Signore si è scelto. Il secondo è per aspettare il giorno in cui Israele si troverà in un contesto simile a quello dell’esodo, quando scamperà alla spada, troverà riparo nel deserto e il Signore gli darà riposo. Allora, come già successo al popolo quando era con Miriam all’uscita dal mar Rosso, Israele prenderà in mano nuovamente i tamburelli, danzerà e farà festa, per adorare il Signore che lo ha liberato dai suoi nemici, proprio come aveva fatto con gli egiziani.
  Ma se allora la memoria di Miriam è così importante, Israele si è forse già trovato nella situazione in cui avrebbe dovuto trarre insegnamento dalla memoria di questa donna? E se sì, quando? A questa domanda proveremo a rispondere nelle prossime occasioni.


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Sono quattro i brani della Torah - il nome in ebraico dei primi cinque libri della Bibbia - che parlano della vita di Miriam, dalla sua giovinezza fino alla sua morte. Il primo brano è in Esodo 2. La sorella di Mosè, appostata in un canneto del fiume Nilo, segue con lo sguardo il canestro fatto di giunchi che sua madre aveva costruito e cosparso di bitume e pece e in cui aveva posto Mosè, a pochi mesi dalla sua nascita, per evitare che morisse annegato nel fiume, come aveva ordinato di fare il faraone a tutti i maschi dei figli di Israele. Il canestro, galleggiando sulle acque del Nilo, raggiunge piano piano nientedimeno che la figlia del faraone, che era scesa al fiume con le sue ancelle per fare il bagno. La principessa d’Egitto, forse attirata dal pianto del bambino, vede il canestro nel canneto e lo manda a prendere. Lo apre, vede il bambino in lacrime e ne ha compassione. Capisce subito che doveva essere un figlio degli ebrei. E qui entra in gioco Miriam, che aspettava proprio questo momento per mettere al sicuro la vita del suo fratellino. Con il coraggio e la determinazione di una madre che vuole proteggere il proprio figlio con ogni mezzo, Miriam si fa avanti e propone alla figlia del faraone di cercare una balia tra le donne ebree affinché venga allattato. La figlia del faraone le rispose: «Va'». E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino (Esodo 2:8).
  Miriam aveva saputo cogliere il momento giusto per farsi avanti, facendo leva sulla compassione che la figlia del faraone provava per quel bimbo solo e disperato. Con quest’atto di sensibilità, intelligenza e grande tempismo, Miriam aveva contribuito a cambiare il destino del suo fratellino di pochi mesi: non più un destino di morte, come voleva il faraone per tutti i maschi ebrei, ma un futuro di vita, voluta, ironia della sorte, proprio dalla figlia del faraone. Sì, è vero che il futuro di Mosè sarebbe stato alla corte egiziana e non in una famiglia ebrea, ma il Signore aveva scelto proprio quel bambino, quell’intruso di corte nato ebreo ma cresciuto nella casa del faraone, per attuare il suo piano di liberazione per l’intero popolo di Israele dopo quattrocento anni di schiavitù. Dopo essere stato svezzato da sua madre, questo bambino crebbe e diventò come un figlio per la figlia del faraone, che gli diede il nome Mosè. L’entrata di Mosè nella casa del faraone, cioè nel cuore dell’Egitto, sancirà l’inizio del percorso di uscita dall’Egitto di Israele, il popolo che secondo la Parola di Dio, è Suo figlio. Al faraone, infatti, Dio dirà:

    Israele è il mio figlio, il mio primogenito". Perciò io ti dico: Lascia andare il mio figlio, affinché mi serva” (Esodo 4:22,23).

A dire il vero, nel brano di Esodo 2 non viene mai usato il nome proprio Miriam per indicare la sorella di Mosè. Tradizionalmente, la ragazza di cui parla il secondo capitolo dell’Esodo è associata a Miriam, e non c’è motivo di dubitare che ciò non sia corretto. Oltre all’espressione “sorella di Mosè”, c’è un’altra parola nel versetto 8 che viene riferita a Miriam. In italiano, la traduzione è semplicemente “fanciulla”. Nell’originale ebraico la parola è עלמה (almà) che nella Bibbia ebraica ha un valore più specifico rispetto a quello della parola fanciulla, un termine generico che significa semplicemente “giovane donna”.
  Il sostantivo עלמה (almà) compare meno di dieci volte in tutto l’Antico Testamento. In italiano viene tradotto con “fanciulla” o “vergine”. Sono tre le donne associate a questa parola nella Bibbia. La prima è Rebecca in Genesi 24:43. La storia di Genesi 24 racconta di come il servo di Abramo, incaricato dal suo padrone di trovare una moglie per il figlio Isacco, incontra Rebecca presso un pozzo, mentre lei è con una brocca in spalla per attingere dell’acqua alla sorgente. Dopo qualche domanda alla diretta interessata, il servo di Abraamo scopre che questa fanciulla è della famiglia del suo padrone. Così, tutto contento e pieno di riconoscenza al Dio d’Abraamo, il servo va a casa di Betuel, padre di Rebecca, e chiede di poterla portare al suo padrone, affinché diventi la moglie di Isacco. Proprio questo racconto è il contesto in cui è inserita la parola almà: Rebecca prima che diventasse la moglie di Isacco. Dalla sua storia emerge il significato del termine almà, cioè giovane donna vergine prossima al matrimonio. Perché questo era lo stato civile di Rebecca dopo che incontrò il servo di Abraamo e prima che lasciasse la casa paterna per sposare Isacco.
  La seconda almà della Bibbia ebraica è Miriam, nel già citato brano di Esodo 2:8. La terza almà la troviamo in Isaia 7:14, che qui riportiamo:

    Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Emmanuele”.

Secondo le parole del profeta Isaia, questa almà, in italiano tradotto “vergine”, sarebbe stata oggetto di un segno che Dio avrebbe dato alla casa di Davide: l’almà avrebbe concepito un figlio. Un segno miracoloso, quindi, in quanto un’almà, non essendo moglie di alcuno, non è in grado di concepire e partorire un figlio da sola.
  In Isaia, questa almà non ha un nome, ma il Vangelo di Matteo afferma che l’adempimento di questa profezia è avvenuto in una donna di nome Maria, nome che nell’originale ebraico è, guarda caso, proprio Miriam. Ella concepì e partorì Gesù, il Messia, prima di diventare la moglie di un uomo di nome Giuseppe. Ecco le parole del Vangelo:

    Or tutto ciò avvenne affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore, per mezzo del profeta che dice: «Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, il quale sarà chiamato Emmanuele che, interpretato, vuol dire: "Dio con noi"»” (Matteo 1:22,23).

Al di là della traduzione italiana della parola almà, che sia essa “vergine” o più generalmente “fanciulla”, il fatto che Miriam, sorella di Mosè, venga indicata con questo termine in Esodo 2:8 ha in sé una certa rilevanza. La Scrittura non ci dà informazioni sulla vita personale di Miriam. Non sappiamo né se fosse sposata, né se avesse o meno dei figli. Quindi è difficile spiegare perché la Scrittura le attribuisce questa parola. Possiamo solo constatare che l’autore di questo brano ha scelto deliberatamente di attribuire il termine almà a Miriam, e ciò dovrebbe essere un motivo di riflessione per noi lettori. Qual era, infatti, l’intenzione dell’autore quando decise di dire che Miriam era un’almà? È una semplice casualità o c’è di più?
  Quando ci si interroga sulla Parola di Dio, bisogna sempre tenere in considerazione una certa intenzionalità nelle cose che sono scritte. Specialmente se consideriamo che la mente, la volontà ultima che sta dietro a ciò che è scritto, è quella di Dio stesso. Partendo dunque dal fatto che nella Parola di Dio la casualità non esiste, e che anche un singolo termine è lì dove si trova per un motivo preciso, ci si chiede allora quale sia il messaggio che la Parola di Dio intende recapitarci nel caso che stiamo esaminando. Per capire, dunque, il messaggio legato al termine almà attribuito a Miriam, dobbiamo considerare le storie delle altre donne a cui questo termine è riferito.
  Non potendo confrontare Miriam con Rebecca, in quanto la Scrittura non fornisce nessuna informazione sulla vita personale di Miriam, prendiamo in esame l’almà di cui si parla nella profezia di Isaia 7:14 e l’adempimento di tale profezia in Matteo 1:22,23, secondo cui l’almà di cui parla Isaia è Maria, la madre di Gesù. Confrontando queste due almà – Miriam, sorella di Mosè, e Maria, madre di Gesù – troviamo delle somiglianze piuttosto interessanti. Innanzitutto hanno lo stesso nome. Maria infatti non è il nome originale ebraico, bensì Miriam. E poi c’è una somiglianza anche nel ruolo che hanno avuto queste due donne nei confronti del bambino di cui si sono prese cura. Miriam, sorella di Mosè, ha fatto in modo che il suo fratellino non perisse nelle acque del Nilo, come voleva il faraone d’Egitto. Anche l’altra Miriam, madre di Gesù, dopo averlo partorito, l’ha protetto dall’ordinanza di Erode, il quale, sentendosi beffato dai magi che non erano tornati da lui per dirgli dove era nato Gesù, decise di far uccidere tutti i maschi dai due anni in giù che erano nati a Betlemme e in tutto il suo territorio. Così non fu per Gesù, portato in salvo in Egitto dai suoi genitori.
  Agendo così, le due Miriam non hanno solo impedito che morisse un bimbo nato nella propria famiglia e a cui volevano molto bene; ma hanno contribuito alla realizzazione del piano di salvezza di Dio per un gruppo molto più ampio di persone. Mosè non era solo il fratellino di Miriam, ma era colui che Dio aveva scelto per guidare l’intero popolo di Israele fuori dalla schiavitù d’Egitto, colui con cui Dio avrebbe parlato faccia a faccia, una relazione speciale tra Dio e uomo che nessun altro della sua epoca aveva. Gesù non era solo figlio di Maria, ma secondo le parole dell’angelo che annunciò che ella avrebbe partorito un figlio, egli si sarebbe dovuto chiamare Gesù perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati (Matteo 1:21).
  Grazie al termine almà che troviamo nella storia di Esodo 2, la figura di Miriam, sorella di Mosè, acquista una prospettiva profetica e diventa rappresentante di una realtà che va oltre l’epoca in cui è vissuta. La storia di Miriam non è solo quella di una sorella che si è adoperata per salvare la vita di suo fratello, bensì quella di una donna che accetta il ruolo di madre nei confronti di un bambino minacciato di morte dall’autorità in carica nella sua epoca, ma che Dio aveva scelto affinché diventasse il mediatore tra Lui e il popolo, colui tramite il quale Dio avrebbe salvato il suo popolo da un futuro di morte, voluta anch’essa dalla malvagità del re che governava in terra a suo tempo. Questa immagine non descrive solo la realtà di Miriam, sorella di Mosè, ma anche quella di Miriam, madre di Gesù, il quale è stato mandato da Dio durante il regno dello spietato Erode, per salvare il suo popolo dai peccati e per essere il mediatore tra Dio e l’uomo.
  Miriam è un nome in cui il concetto di madre è intrinseco anche dal punto di vista delle lettere che compongono questo nome. In ebraico infatti Miriam si scrive מרים, con la lettera mem in apertura e in chiusura del nome: la prima mem è la forma che si usa quando la lettera mem è all’inizio o in corpo di parola. La seconda mem è in forma finale, cioè quando questa lettera è l’ultima della parola. La lettera mem è la lettera che caratterizza la parola ebraica אם (em), che significa appunto madre. La lettera alef non è caratterizzante della parola madre, in quanto presente anche nella parola ebraica אב (av), che significa padre.
  Ecco il primo tratto distintivo della figura di Miriam che la Scrittura le attribuisce attraverso la parola almà: il suo essere madre, colei che dà la vita e la protegge con tutta sé stessa, proprio come colei che mise al mondo Gesù il Messia: assunse il ruolo di madre quando era almà.
  Ma se dal brano di Esodo 2 è chiaro che fu Mosè l’oggetto della protezione materna di Miriam, meno immediato è capire come l’idea di madre, vista anche come colei che dà alla luce un individuo, sia legata alla figura di Miriam, sorella di Mosè. In che senso questa figura rappresenta, in una prospettiva profetica, colei che mette al mondo qualcuno, proprio come fa una madre? Ci occuperemo di questo aspetto della figura di Miriam nelle prossime occasioni.


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Il secondo brano della Torah che parla di Miriam si trova al capitolo 15 dell’Esodo. Nel capitolo precedente, la Scrittura racconta il passaggio del mar Rosso da parte del popolo d’Israele. Il mar Rosso non lo avevano attraversato a nuoto, ma all’asciutto, con le acque che formavano un muro alla loro destra e alla loro sinistra. Il passaggio del mare non costituì solo il superamento di un ostacolo insormontabile, se Dio non avesse aperto le acque davanti a loro. Quel giorno Israele, davanti alla morte dei loro nemici annegati nel mare mentre era in salvo sulla riva del mare, assistette con i propri occhi alla fine di un’epoca, quella della schiavitù sotto la mano degli egiziani, coloro che lo avevano tenuto schiavo per centinaia di anni e che ora non accettavano di vederlo libero. Nel tentativo di riacciuffare quel popolo in fuga, gli egiziani si erano spinti ad attraversare anche loro il mare spaccato in due. Aiutati dalla velocità dei loro cavalli, non sarebbe stato difficile raggiungerli e dargli una bella lezione, pensavano. Ma ad un certo punto devono aver realizzato che non era affatto come pensavano, tanto che arrivarono a dire: “Fuggiamo davanti a Israele, perché l'Eterno combatte per loro contro gli Egiziani”. (Esodo 14:25). Gli inseguitori erano diventati i fuggitivi. Israele stava per vincere la guerra senza aver nemmeno iniziato a combatterla, perché il Signore degli eserciti combatteva per loro.
  Infatti, una volta che l’ultimo membro del popolo di Israele raggiunse la riva del mare e fu in salvo, il Signore fece sì che le acque del mare si richiudessero su se stesse, ingoiando carro, cavallo e cavaliere egiziani. La disfatta fu tremenda, non ne scampò neppure uno. Le acque del Nilo, per ordine del faraone, dovevano essere la tomba dei maschi del popolo d’Israele. Le acque del mar Rosso divennero la tomba dell’esercito egiziano. 

    “Così, in quel giorno, l'Eterno salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide sul lido del mare gli Egiziani morti. Israele vide la grande potenza che l'Eterno aveva mostrato contro gli Egiziani, e il popolo temette l'Eterno e credette nell'Eterno e in Mosè suo servo” (Esodo 14:30,31).

Una volta salvi dai propri nemici, Mosè e i figli d’Israele cantarono un canto al Signore, noto in ebraico come il canto del Mare. Egli aveva appena combattuto per Israele. I nemici di Israele erano diventati i nemici del Signore. In questa guerra, fu ovviamente il Signore a trionfare e la vittoria del Signore diventò anche la vittoria di Israele. Dio aveva gettato nel mare cavallo e cavaliere egiziani, sprofondati nelle acque più profonde. Israele invece era passato sull’asciutto, il mare si era aperto davanti a loro, senza sopraffarli. 
  Questa narrazione ricorda molto quella del diluvio, che coprì la terra intera. In quella circostanza, Dio mandò il suo giudizio sugli uomini, a motivo della loro grande malvagità. Noè, che trovo grazia agli occhi di Dio, non perì. Insieme con la sua famiglia, Noè rimase nell’arca durante il diluvio, cioè sopra le acque e non sotto. Il resto dell’umanità invece perì sotto le acque del diluvio. Allo stesso modo, gli egiziani affondarono nel mare, sotto il giudizio di Dio, per essersi ostinatamente opposti, nella persona del faraone, alla richiesta di Dio di lasciare andare il suo popolo. Il destino di Israele, invece, sarebbe stato completamente diverso da lì in avanti. Non solo non erano morti sotto l’acqua, ma Dio li avrebbe condotti ad un monte, un luogo elevato, il luogo che Egli aveva preparato per loro, la Sua dimora, il santuario che le Sue mani avevano stabilito, lì dove Egli avrebbe regnato per sempre, in perpetuo (ved. Esodo 15:17,18). 
  Il destino di Israele, dunque, non sarebbe dovuto essere un destino di giudizio, di morte e di oblìo, come per i nemici di Dio. Anzi, il Signore aveva in mente per loro un futuro di benedizione e di vita, nel luogo della Sua dimora, per l’eternità.
  E qui entra in gioco Miriam, sorella di Mosè. Al termine del canto che Mosè e i figli di Israele cantarono al Signore, al culmine della lode al Dio d’Israele, eterno e glorioso, nella narrazione biblica compare improvvisamente Miriam, impegnata ad organizzare una cerimonia di lode al Signore. 

    Miriam, la profetessa, sorella di Aaronne, prese in mano il tamburello, e tutte le donne uscirono dietro a lei coi tamburelli e con danze. E Miriam cantava loro: «Cantate all'Eterno, perché si è grandemente esaltato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere»” (Esodo 15:20,21). 

Nella sua iniziativa, Miriam riesce a trascinare un gruppo numericamente considerevole di persone – tutte le donne – dimostrando una spiccata dote da condottiera. Come già detto in precedenza, questa organizzata da Miriam rappresenta la prima forma di adorazione collettiva di Israele al Signore, con tanto di strumenti musicali e danze.
  Dopo Miriam almà in Esodo 2, in questo brano di Esodo 15 troviamo Miriam la profetessa, un altro appellativo importante che la Scrittura attribuisce a questa donna. E anche quello di profetessa, come quello di madre che le viene dalla parola almà, costituisce un ruolo determinante. All’uscita del mar Rosso, con ancora i resti inermi dell’esercito egiziano sotto gli occhi, finito il canto con cui Mosè espresse tutta la grandezza del Signore e del suo piano per Israele, Miriam capisce che quel momento è storicamente unico, il popolo va spinto a realizzare pienamente ciò che il Signore ha appena fatto per loro e che non ha fatto per nessun altro popolo, e questa è una cosa da imprimere nelle memorie di tutti per sempre. Proprio per questo Miriam è una profetessa. I profeti erano persone che Dio chiamava in circostanze storiche e sociali particolari e avevano l’incarico di scuotere i loro ascoltatori affinché si risvegliassero: per pentirsi dei propri peccati e abbandonarli, e per offrire al Signore, e a nessun altro, la lode e l’adorazione che spettano soltanto a Lui, come fece Israele all’uscita del mar Rosso sotto la guida di Miriam.
  Si è già notato in precedenza che la figura di Miriam non ha solo una dimensione storica, cioè riferita al tempo e al luogo in cui è vissuta, ma ha anche un valore profetico, cioè rappresenta una realtà che va oltre il tempo e lo spazio in cui è vissuto questo personaggio. Ciò non è soltanto vero per quanto riguarda l’essere almà, termine che collega Miriam, sorella di Mosè, all’altra Miriam, la madre di Gesù, vissuta diversi secoli dopo la prima. Il valore profetico del personaggio di Miriam lo troviamo anche nel suo ruolo di profetessa, che la Parola di Dio le attribuisce. In quanto tale, Miriam anticipa il ruolo che avrebbe avuto il popolo di Israele nella sua storia nei confronti delle altre nazioni: Israele profeta di Dio, colui al quale Dio rivela la sua Parola, cioè il suo essere e la sua volontà, e attraverso il quale la Sua Parola raggiunge le altre nazioni. 
  Dio, nel corso della storia, si è sempre servito di Israele per parlare agli uomini, che fossero essi membri del popolo di Israele o del resto delle nazioni. Il libro noto con il nome di Bibbia è giunto fino a noi grazie a scrittori che facevano parte del popolo di Israele. La diffusione del Vangelo stesso è frutto del lavoro di annunciazione svolto in primis dagli apostoli, che erano tutti membri del popolo di Israele.
  Miriam profetessa sta ad Israele popolo, come Israele profeta di Dio sta al resto delle nazioni. Miriam, in quanto profetessa, ha svolto un ruolo all’interno del suo popolo simile a quello che Israele ha svolto all’interno delle nazioni: cioè esortare gli esseri umani ad abbandonare le divinità pagane e cominciare ad adorare il Signore, l’unico vero Dio che è degno di ricevere la lode e la riconoscenza delle sue creature.
  E se Miriam rappresenta bene il popolo di Israele nel ruolo di profeta, può rappresentare Israele anche nel ruolo di almà? La risposta è affermativa ed è legata a Gesù il Messia. Come visto in precedenza, l’almà Miriam, sorella di Mosè, è una figura in parallelo con l’altra Miriam, la madre di Gesù, che lo mise al mondo e lo protesse dalle minacce di morte di re Erode. Anche Miriam protesse il suo fratellino Mosè dalla minaccia di morte del faraone quando lo accompagnò nella cesta sulle acque del Nilo. Ma non possiamo certo dire che Miriam mise al mondo Mosè, essendo sua sorella e non sua madre. Allora in che modo quella Miriam svolse pienamente la funzione di madre che mette al mondo qualcuno? Lo ha fatto nel momento in cui la figura di Miriam è anche un personaggio non solo storico, ma anche profetico, che rappresenta bene il popolo di Israele, il quale ha dato i natali a Gesù il Messia.
  Il fatto che la Scrittura non dia alcuna informazione sulla famiglia di Miriam è molto interessante: non sappiamo se fosse sposata e se abbia avuto dei figli o meno. Queste domande apparentemente senza una risposta, dovrebbero indurre il lettore a ricercare questa risposta non nel personaggio storico di Miriam, ma in ciò che questo personaggio rappresenta, cioè il popolo di Israele. Il quale non solo è profeta a cui Dio ha parlato nel corso della storia, ma è anche il popolo nel quale il Messia è nato, è cresciuto, è diventato uomo, il popolo dal quale il Messia ha assorbito la lingua, la cultura, la storia, il modo di pensare. Proprio come fa ogni essere umano che nasce all’interno di un gruppo di persone accomunate dalla stessa etnia.
  Questa è senza dubbio una posizione di enorme privilegio che ha Israele rispetto a tutte le altre nazioni. Nessun altro popolo può dire di essere l’interlocutore dell’unico vero Dio, a cui Egli ha affidato la Sua Parola eterna. E nessun altro popolo sulla faccia della terra, se non Israele, può dire di essere stato la famiglia del Messia in senso lato, coloro in mezzo ai quali Gesù ha fatto ciò che ogni essere umano fa, da quando nasce a quando muore.
  In base al racconto dell’Esodo fino al capitolo 15, sembra proprio che anche Miriam fosse in una posizione privilegiata, unica nel suo genere. Poteva vantare non soltanto di essere parte della famiglia leader all’interno del popolo, essendo la sorella maggiore di Mosè, la guida spirituale di Israele, e di Aaronne. Ma era lei stessa una profetessa, a cui Dio aveva affidato un ruolo di grande rilievo in un momento chiave della storia di Israele. Un curriculum vitae di tutto rispetto quello di Miriam, non c’è dubbio.
  Ma la sua storia continua e non finisce con i suoi privilegi di almà e profetessa. Così come la posizione di Israele non consiste solo nei privilegi che Dio gli ha dato. C’era un passo che Miriam doveva ancora fare nella sua vita di personaggio di spicco, un passo interiore e spirituale, per il Signore, affinché capisse che non erano i privilegi che Dio le aveva dato quelli che la tenevano in vita. Ma questo lo vedremo nella prossima occasione.


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Il terzo racconto che parla di Miriam, sorella di Mosè, lo troviamo nel capitolo 12 del libro dei Numeri. Questo episodio è in controtendenza rispetto ai primi due visti nel libro dell’Esodo, in cui si vede una Miriam che riesce molto bene nelle sue imprese. Il terzo brano, invece, racconta di un affronto di Miriam all’autorità di Dio e le conseguenze che ne ebbe. Nel capitolo 10 del libro dei Numeri, quindi prima che il triste evento di Miriam accadesse, il popolo parte dal deserto del Sinai, dopo esserci rimasto per poco meno di un anno, per dirigersi verso il deserto di Paran, perché lì si era fermata la nuvola che si era sollevata dal tabernacolo (Numeri 10:11-13). Tramite il movimento di questa nuvola, infatti, il Signore indicava ai figli d’Israele quando partire dal proprio accampamento e quando invece rimanere fermi in un posto. 

    All'ordine dell'Eterno si accampavano e all'ordine dell'Eterno si mettevano in cammino; osservavano il comando dell'Eterno, secondo ciò che l'Eterno aveva ordinato per mezzo di Mosè (Numeri 9:23).

L’accordo tra il Signore e Israele era chiaro. Il popolo avrebbe dovuto seguire le istruzioni che il Signore gli avrebbe impartito tramite Mosè e avrebbe dovuto dirigersi dove il segno visibile della nuvola gli indicava. Durante questo viaggio, il Signore avrebbe condotto il popolo passo passo nel deserto, senza fargli mancare nulla. Avrebbe provveduto ai suoi bisogni di nutrimento, mandando la manna dal cielo ogni mattina per tutto il tempo che Israele avrebbe passato nel deserto. Avrebbe provveduto all’approvvigionamento di acqua lì dove non ce n’era. Avrebbe combattuto contro i nemici di Israele, come fece contro gli egiziani che annegarono nel mar Rosso. Israele, da parte sua, si sarebbe solo dovuto fidare del Signore, ubbidendogli.I patti erano chiari e l’amicizia tra Dio e Israele sarebbe dovuta perdurare a lungo. Senonché,

    il popolo si lamentò e questo dispiacque agli orecchi dell'Eterno; come l'Eterno li udì, la sua ira si accese, e il fuoco dell'Eterno divampò fra di loro, e divorò l'estremità dell'accampamento. Allora il popolo gridò a Mosè; Mosè pregò l'Eterno e il fuoco si spense (Numeri 11:1,2).
Da questi versetti non è chiaro il motivo per cui il popolo si lamentò. Non è neanche molto chiaro che cosa disse il popolo o fece per lamentarsi. Il testo originale di Numeri 11:1 non ci aiuta molto a dare una risposta a queste domande, visto che il verbo ebraico התאונן (hitonen) usato qui e tradotto in italiano con “lamentarsi”, si trova soltanto due volte in tutto l’Antico Testamento: in questo brano e in Lamentazioni 3:39, di cui riportiamo una possibile traduzione: “Perché si lamenta l’uomo vivente? Si lamenti l’uomo dei propri peccati.” Seguendo il principio secondo cui lo strumento migliore per interpretare la Bibbia è la Bibbia stessa, questo versetto di Lamentazioni ci potrebbe aiutare a capire meglio cosa successe quel giorno, quando il popolo si lamentò e l’ira del Signore si accese contro di loro.
  Con la domanda retorica “Perché si lamenta l’uomo vivente?”, la Scrittura in Lamentazioni 3:39 sembra voler dire che, invece di lamentarsi, l’uomo dovrebbe piuttosto chiedersi il perché del suo essere vivo e da qui riconoscere che la vita e la morte di ogni individuo dipendono esclusivamente dal Signore: è Lui che dà la vita all’uomo vivente e lo mantiene in vita. Riconoscere questa verità è una prerogativa di chi vive, visto che i morti non possono più farlo. Quando l’uomo vivente si lamenta, non solo mostra di non riconoscere questa verità, ma contesta anche il modo in cui il Signore svolge il suo operato, cioè di come mantiene in vita l’uomo vivente. Il versetto di Lamentazioni continua. L’uomo, anziché lamentarsi del modo in cui Dio lo mantiene in vita, dovrebbe piuttosto lamentarsi dei propri peccati, cioè di come lui, e non il Signore, conduce la propria vita malvagiamente.
  È possibile che questo sia stato ciò che fece Israele nella circostanza raccontata all’inizio del capitolo 11 dei Numeri: si lamentò del male che aveva, di ciò che non andava. Da notare è che il popolo non si rivolge al Signore per lamentarsi. Si lamenta e basta, senza meglio precisare chi è il destinatario della sua contestazione. E chi dovrebbe essere questo destinatario, se non il Signore che condusse il popolo fin lì? Infatti la Sua ira si accende. Essendosi Egli impegnato con Israele a prendersene cura sotto ogni aspetto, come un padre premuroso fa con i propri figli, la lamentela del popolo fu un attacco bello e buono alla Persona di Dio stesso e al Suo essere Padre. Questa lamentela fu così tracotante che giunse fino al cielo, alle orecchie di Dio: Egli la udì e non ci passò sopra. La Sua ira si accese. Il fuoco dell’Eterno divampò fra il popolo e divorò l’estremità dell’accampamento. 
  Al lettore moderno, questa del Signore potrebbe sembrare una reazione esagerata, visto che quella di Israele potrebbe sembrare un’innocua lamentela. I fatti dimostrano che la reazione di Dio non fu affatto fuori luogo, visto che il Signore raggiunse il suo scopo, cioè mettere fine alla lamentela fine a se stessa. Israele, scosso da quell’ira che lo toccò da vicino, gridò a Mosè. L’ebraico qui usa il verbo צעק (tzaaq). Quello di Israele non fu un grido di paura, come di uno che si spaventa davanti ad un incendio improvviso e grida. Fu bensì il grido di uno che è nel bisogno, immerso dai guai, e chiede aiuto con tutta la voce che ha in corpo. Così Mosè pregò al Signore e il fuoco si spense. La voce di Mosè in preghiera giunse anch’essa alle orecchie del Signore, come la voce del popolo che si era lamentato. Ma la voce di Mosè ebbe l’effetto opposto: attenuò il fuoco del Signore anziché alimentarlo. La voce di Mosè in preghiera placò l’ira del Signore.
  La frase “l’ira del Signore si accese” ricorre per ben tre volte in tutto il capitolo 11 di Numeri: la prima volta è, come appena visto, all’inizio del capitolo; la seconda è nel versetto 10, quando il popolo si lamentò nuovamente, questa volta perché non poteva mangiare manna ogni santo giorno, ma avrebbe voluto anche carne; la terza volta in cui l’ira del Signore si accese è nel versetto 33, quando Egli fa arrivare una montagna di quaglie e le fa cadere in prossimità dell’accampamento, tanto che il popolo raccoglie quaglie per due giorni. Mentre il popolo era tutto preso a raccoglier quaglie e aveva ancora la carne fra i denti senza averla neppure masticata, l’ira del Signore si accende contro Israele e lo colpisce con un gravissimo flagello. Il penultimo versetto del capitolo 11 spiega cosa spinse il popolo a ingozzarsi di carne. Quel luogo fu chiamato Kibroth-Hattaavah perché là seppellirono la gente che si era lasciata prendere dalla concupiscenza (Numeri 11:34).
  Il capitolo 11 dei Numeri si apre e si chiude con l’ira del Signore che si accende. All’inizio il popolo si lamenta e il fuoco del Signore divampa e divora una parte dell’accampamento. Alla fine, il popolo si ingozza di carne e la loro concupiscenza miete vittime, poi sepolte. La lamentela e la concupiscenza sono simili: sono entrambe un difetto di vista. La prima fa vedere tutto nero, tutto che non va; la seconda non fa vedere altro che l’oggetto che viene concupito, il resto è come se non esistesse. La lamentela all’inizio e la concupiscenza alla fine, furono per il popolo una forma di cecità spirituale che gli impedì di vedere Dio all’opera e quindi di fidarsi di Lui.
  In questo contesto, di sfiducia nei confronti di Dio da parte del popolo e di ira, da parte di Dio, nei confronti del popolo, si inserisce un nuovo racconto che la Scrittura dedica a Miriam. Riportiamo qui i primi due versetti del capitolo 12 dei Numeri.
    Miriam e Aaronne parlarono contro Mosè a causa della moglie Cusita che aveva preso; poiché aveva sposato una Cusita. E dissero: “L'Eterno ha parlato soltanto per mezzo di Mosè? non ha parlato anche per mezzo nostro?”. E l'Eterno l'udì.
In questo capitolo c’è una pausa narrativa. Il racconto del viaggio di Israele verso la terra promessa si interrompe per lasciare spazio ad un fatto che riguarda i tre fratelli alla guida del popolo. Miriam, Aaronne e Mosè sono in conflitto. Solo in apparenza questo è un dissenso circoscritto a questa famiglia, come ce ne sono tanti. In realtà, Dio in persona è coinvolto in questa brutta faccenda. 
  Non è chiaro chi fosse la moglie di Mosè di cui si parla in questi versetti: probabilmente Zippora, che Mosè aveva sposato quando era in terra di Madian dopo essere scappato dall’Egitto; o forse un’altra moglie avuta successivamente. Il termine “cusita” attribuito a questa donna viene dal nome Cush, il primo dei figli di Cam, secondogenito di Noè. È comunemente accettato che il paese di Cush sia da identificare con il territorio a sud dell’Egitto che comprendeva anche l’odierna Arabia. Un versetto del profeta Geremia fa intendere che il colore della pelle delle popolazioni che vivevano nella zona di Cush era diverso da quello dei figli d’Israele, verosimilmente più scuro. “Può un Cusita cambiare la sua pelle o un leopardo le sue macchie?” (Geremia 13:23a).
  Mosè, dunque, si era preso una moglie cusita, ma Miriam non era contenta di questa scelta, tanto che parlò contro di lui, e si portò dietro anche suo fratello Aaronne, da brava capofila qual era. Secondo la traduzione italiana della prima frase del versetto, sia Miriam che Aaronne parlarono contro Mosè. Ciò non corrisponde esattamente all’ebraico, in cui il soggetto del verbo “parlare” è solo Miriam. È comunque chiaro che Aaronne fosse dalla parte di sua sorella. Due fratelli contro uno, insomma, con Mosè lasciato solo. Almeno così pare all’inizio. 
  Il testo non chiarisce del tutto quale fosse il problema che Miriam trovava nella moglie di Mosè. Ma il testo fa capire che l’origine cusita di lei non le andava a genio. Forse era proprio il colore della pelle scura che non piaceva a Miriam. Ciò che sorprende maggiormente, però, è lo scarto che emerge tra l’oggetto della disputa nel primo versetto, cioè la moglie cusita di Mosè, e nel secondo il senso delle parole di Miriam e Aaronne, che mettono in dubbio l’autorità del loro fratello. Il loro dire si potrebbe riformulare così: “Chi sarà mai questo Mosè, che l’Eterno ha scelto per parlare al popolo? Non ha Egli parlato anche per mezzo nostro?”.
  Le parole dette rivelano molto di ciò che una persona ha in cuore, molto più di quanto facciano i pensieri inespressi. La moglie di Mosè e la sua origine cusita sembrano piuttosto un pretesto che Miriam e Aaronne usano per mettere in discussione l’autorità di Mosè. E siccome Mosè è colui che Dio ha scelto per guidare il popolo, in realtà l’autorità messa in discussione non è quella di Mosè, bensì quella di Dio. A detta loro, Mosè non sembra meritare la posizione che ha agli occhi dell’Eterno, visto che si è preso una moglie straniera. “Noi che certe cose non le facciamo – sembrano dire – non saremmo più meritevoli di lui di ricevere l’autorità che il Signore gli dà? Anche noi, come lui, siamo Suoi profeti!”.
  In realtà, Mosè è una scelta di Dio. Il merito non c’entra niente. È Dio che si è scelto Mosè per parlare al popolo. È Dio che decide di placarsi quando è Mosè, e nessun altro, a supplicarlo. Mosè va ascoltato e seguito non perché dimostra di essere più capace degli altri, ma semplicemente perché dietro quest’uomo c’è Dio stesso e le parole di Mosè hanno la più alta autorità perché sono Parola di Dio, e non di uomo. La vera natura della posizione di Miriam contro Mosè, dunque, è ribellione contro Dio, contro ciò che Egli fa e il modo in cui lo fa. Un po’ come il popolo di Israele quando, partito dal Sinai, si lamentò che le cose andavano male: quella lamentela era un affronto a Dio e al suo modo di essere. Sia nel caso di Miriam che in quello di Israele, la Scrittura rivela che il Signore udì quelle parole, tanto arroganti da arrivare fino alle Sue orecchie. Anche con Miriam, come con Israele, il Signore non ci passa sopra: decide così di scendere e parlare con i diretti interessati. Le premesse non promettono nulla di buono.


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    L'Eterno disse subito a Mosè, ad Aaronne e a Miriam: «Voi tre uscite e andate alla tenda di convegno». Così loro tre uscirono. Allora l'Eterno scese in una colonna di nuvola, si fermò all'ingresso della tenda e chiamò Aaronne e Miriam; ambedue si fecero avanti. L'Eterno quindi disse: «Ascoltate ora le mie parole! Se vi è tra di voi un profeta, io, l'Eterno, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sogno. Ma non così con il mio servo Mosè, che è fedele in tutta la mia casa. Con lui io parlo faccia a faccia, facendomi vedere, e non con detti oscuri; ed egli contempla la sembianza dell'Eterno. Perché dunque non avete temuto di parlare contro il mio servo, contro Mosè?».

Con queste parole continua la storia di Miriam in Numeri 12, fino al versetto 8. Dopo aver udito le parole di Miriam e Aaronne contro Mosè, l’Eterno interviene subito, come dice il testo. Non lascia passare del tempo inutilmente: il Signore convoca subito i tre fratelli e scende fisicamente in una colonna di nuvola per incontrarli all’ingresso della tenda di convegno. Questa tenda era il luogo dove Dio era solito incontrare Mosè per parlargli e dargli indicazioni da riportare al popolo. Questo era il luogo in cui la relazione personale tra Dio e Mosè, volta dopo volta, prendeva forma, acquistava profondità e ampiezza. Ed è proprio lì che Dio li convoca, perché quel luogo parla da sé, ribadisce che quella tra Dio e Mosè non è una relazione come le altre. Dio chiama Aaronne e Miriam a venire avanti e chiede loro di ascoltare le Sue parole, così come Egli aveva ascoltato il loro affronto poco prima, a sottolineare che il loro dire contro Mosè non era affatto solo una faccenda di famiglia.
  La difesa di Dio nei confronti di Mosè è basata fondamentalmente sulla relazione unica che sussisteva tra i due. Mosè non era come uno dei profeti, e tali evidentemente erano Miriam e Aaronne. Ai profeti Dio si rivelava in visioni o in sogni o tramite detti oscuri. A Mosè, invece, Dio parlava faccia a faccia, facendosi vedere. Mosè poteva contemplare la sembianza dell’Eterno. Questa intima relazione con Dio, e non i suoi meriti, rendeva stabile e durevole – “fedele” secondo la traduzione qui riportata – la posizione di Mosè in tutta la casa di Dio. “Come vi siete arrogati il diritto, dice il Signore ad Aaronne e Miriam, di parlare contro Mosè, il servo del Signore?”
  Mettiamoci un attimo nei panni di Miriam in questo preciso momento della sua vita: convocata dal Dio di Israele in persona per essersi espressa contro suo fratello; in piedi davanti a Lui, appena sceso in terra in forma di nuvola; chiamata ad ascoltare le Sue parole che la rimproveravano per essersi opposta all’eletto di Dio in Israele. Le sarà passata davanti la vita intera, come quando uno vede la morte con gli occhi. Avrà pensato a quando era stata lei a salvare dalle acque del Nilo quel fratellino inerme e condannato a morte dal faraone. Stavolta era invece lei sulla graticola. O a quando, preso in mano il suo tamburello, si era messa a danzare alla guida delle donne del popolo per esaltare il nome del Signore che aveva salvato Israele dai suoi nemici. Stavolta lei, invece di esaltare il nome del Signore, Gli si era rivoltata contro. Quei successi personali del passato, benché fossero passi importanti per la realizzazione del piano di Dio per Israele, si erano improvvisamente ridimensionati. Miriam si era appena ribellata non ad uno di famiglia, come forse intendeva fare lei, ma all’autorità suprema, a Dio stesso. E il destino per tali ribelli è uno solo: la condanna a morte.

    Così l'ira dell'Eterno si accese contro di loro, poi egli se ne andò. Quando la nuvola si fu ritirata di sopra alla tenda, ecco Miriam era lebbrosa, bianca come neve; Aaronne guardò Miriam, ed ecco era lebbrosa. Aaronne disse a Mosè: «Deh, signor mio, non addossare su di noi la colpa che abbiamo stoltamente commesso e il peccato che abbiamo fatto. Deh, non permettere che ella sia come uno morto, la cui carne è già mezza consumata quando esce dal grembo di sua madre!».

Nei versetti dal 9 al 12 del capitolo 12, l’ira dell’Eterno si accese contro di lei e contro Aaronne, proprio come successe a Israele per ben tre volte nel capitolo 11, quando si lamentò nel suo cammino nel deserto e quando, spinto dalla propria cupidigia, si avventò sulle quaglie per mangiarne la carne. In quei casi, parte del popolo morì, consumato dal fuoco del Signore o colpito da un gravissimo flagello. Qui Miriam diventa lebbrosa, bianca come la neve. La sentenza di morte era scattata, e questa volta non era stato il faraone ad emetterla, come nel caso dei maschi ebrei in Egitto, ma Dio stesso. Contrarre la lebbra significava morte certa. Ma non una morte istantanea, da rimanerci secchi. Era una morte lenta, che consumava la vita del lebbroso pian piano, giorno dopo giorno, finché non ne rimaneva più. Un po’ come quando Dio disse ad Adamo nel giardino di Eden che se avesse mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, sarebbe certamente morto. Quando Adamo ed Eva trasgredirono al comandamento di Dio, non morirono istantaneamente, ma gradatamente. Il peccato nella vita di un individuo assomiglia molto alla malattia della lebbra: il peccatore, come il lebbroso, è prima o poi destinato a morire. Come Adamo ed Eva, anche questa volta un uomo e una donna, Aaronne e Miriam, si sono opposti alla Parola di Dio e hanno peccato. La supplica di Aaronne a Mosè lo conferma:

    Deh, signor mio, non addossare su di noi la colpa che abbiamo stoltamente commesso e il peccato che abbiamo fatto”.
È interessante ciò che sottolinea la Scrittura in merito al colore della pelle di Miriam dopo essere diventata lebbrosa: era bianca come neve. Questo dettaglio cromatico ci riporta alla polemica iniziata da Miriam in merito alla moglie cusita che Mosè si era preso. È un po’ come se il Signore le stesse dicendo: “Miriam, davvero non ti piace il nero? Va bene, eccoti il bianco, bianco come la neve. Ma sappi una cosa, cara Miriam. Il tuo problema non sta sulla pelle, ma sotto la pelle, nel cuore. Il colore della pelle non ha nessuna importanza”. Da notare è che solo Miriam diventa lebbrosa, Aaronne no, sebbene l’ira del Signore si accese contro entrambi. Dio aveva visto qualcosa nel cuore di Miriam che evidentemente non c’era nel cuore di Aaronne, il quale prontamente cerca il perdono per il peccato da loro commesso. 
  Miriam invece rimane in silenzio, come pietrificata. C’era qualcosa nel cuore di Miriam che andava rimosso, prima che fosse troppo tardi. Forse un sentimento di rivalsa per non essere considerata al pari di suo fratello minore Mosè, pur avendo ricoperto ruoli di tutto rispetto. Come quando protesse Mosè e gli garantì di vivere e crescere alla corte del faraone; o come quando da profetessa guidò le donne del popolo nella prima forma di adorazione collettiva del Signore, in un momento chiave della storia di Israele. Ciononostante, Miriam vedeva sé stessa e Aaronne un gradino sotto Mosè nella gerarchia. Da qui l’affronto: “Ma chi sarà mai questo Mosè per meritare la posizione che ha?”. Ecco, appunto. Il merito. Era proprio questo atteggiamento di orgoglio che andava spezzato una volta per tutte. La vita non è concessa ad un individuo per i suoi meriti, ma è un dono del Signore, il quale pure gliela la conserva per tutto il tempo della sua esistenza.
  Per arrivare a capire questo, Miriam doveva sentire di avere una sentenza di morte sulla testa. Solo sapendo di dover morire, avrebbe potuto chiedere a Dio di vivificarla. Solo con quella sentenza di morte, Miriam sarebbe stata indotta a chiedere perdono a Dio per la sua ribellione, per il suo peccato, e Dio l’avrebbe perdonata, le avrebbe dato una seconda vita. Questa volta, però, senza una sentenza di morte. Questa volta, Miriam perdonata avrebbe ricevuto la vita come dono, senza credere di doversela meritare. L’orgoglio di Miriam, quello sì che doveva morire, quello sì che doveva finire in fondo al mare e seppellito, senza tornare su mai più. Quell’orgoglio non era altro che ribellione a Dio, contro le sue decisioni, contro il suo modo di fare.

    Così Mosè gridò all'Eterno, dicendo: «Guariscila, o Dio, te ne prego!». Allora l'Eterno rispose a Mosè: «Se suo padre le avesse sputato in viso, non sarebbe forse nella vergogna per sette giorni? Sia dunque isolata fuori dell'accampamento sette giorni; dopo ciò sarà di nuovo ammessa». Miriam dunque fu isolata fuori dell'accampamento sette giorni; e il popolo non si mise in cammino finché Miriam non fu riammessa nell'accampamento. Poi il popolo partì da Hatseroth e si accampò nel deserto di Paran.

Aaronne sapeva che l’ira di Dio si sarebbe placata soltanto alla voce di Mosè, come era successo in precedenza con i peccati di Israele. Si rivolge dunque a Mosè, il quale grida all’Eterno affinché guarisca sua sorella Miriam. Il grido di Mosè è come quello del popolo che gridò nel momento del bisogno, in ebraico צעק (tzaaq). Mosè dimostra qui tutta la sua umiltà. Infatti era un uomo molto umile, più di ogni altro uomo sulla faccia della terra (Numeri 12:3). Mosè non rimane indifferente alla sofferenza di sua sorella, colpita dalla lebbra. Non le rinfaccia la polemica nei confronti della propria moglie. Non se ne lava le mani dicendo “Problema suo. Se l’è cercata”. Anzi, grida al Signore immedesimandosi in sua sorella, come se il problema della lebbra fosse anche suo come lo era di Miriam. Il Signore ascolta la supplica di Mosè, ma la risposta che gli dà è un macigno.
  Nel versetto 14, rispondendo a Mosè, il Signore parla dello sputo di un padre verso la propria figlia. Lo sputo è l’immagine di un rigetto totale, di qualcosa che si ha dentro e di cui ci si vuole liberare con viaggio di sola andata. Ma Dio non parla di un generico sputo, piuttosto dello sputo di un padre verso la propria figlia: è lo sputo di Dio sul viso di Miriam, per il peccato di ribellione che lei ha appena commesso. Se un padre arriva a sputare in faccia alla propria figlia, significa che vuole dimostrarle tutta la sua ira, il suo rigetto completo, la vergogna enorme provata per qualcosa che la figlia ha fatto o detto. Significa non volerla più vedere. Ma lo sputo di Dio a una figlia non può essere per sempre, perché Dio non è solo giusto, è anche un padre misericordioso. Lo sputo di Dio è sì un rigetto, ma momentaneo, per un periodo determinato. Poi c’è la riconciliazione, il perdono, la riammissione nella famiglia. Miriam rimarrà isolata per sette giorni, fuori dall’accampamento e lontana dalla presenza di Dio, poi sarà riammessa.
  Come visto in precedenza, il personaggio di Miriam rappresenta bene il popolo di Israele, come almà nel ruolo di madre e come profetessa. In questo senso, Miriam non è solo un personaggio storico, ma anche profetico. Cioè gli avvenimenti della sua vita sono un preludio di ciò che sarebbe avvenuto nella storia del popolo di Israele. Volendo continuare a seguire questa chiave di lettura, può anche il racconto di Miriam lebbrosa rappresentare degli eventi che avrebbero caratterizzato il popolo di Israele in un determinato momento della sua storia? E se sì, come? Proveremo a rispondere a questa domanda nelle prossime occasioni.


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Il genere letterario della poesia caratterizza il libro dei Salmi. Tuttavia, pur non essendoci in esso una vera e propria narrazione, di alcuni componimenti è possibile conoscere il contesto narrativo in cui sono stati scritti, grazie alla sovraiscrizione che si trova all’inizio del salmo; quella che in molte versioni della Bibbia in italiano è riportata in corsivo, per differenziarla da ciò che la segue. Tale sovraiscrizione viene comunemente ed erroneamente trattata come un’aggiunta e non come parte integrante del salmo. Tant’è che non è compresa nella ripartizione in versetti. Nell’originale ebraico però, va precisato, la sovraiscrizione, quando c’è, è il primo versetto del salmo, ed è da considerarsi Parola di Dio alla stessa stregua di ciò che segue.
  La sovraiscrizione del salmo 51, per esempio, chiarisce al lettore la circostanza in cui il suo autore lo scrisse: “Salmo di Davide, quando il profeta Natan venne da lui, dopo che Davide era stato da Bat-Sceba”. Se questa sovraiscrizione non ci fosse, lo slancio dell’intero salmo perderebbe molto del suo vigore. Il contesto narrativo contenuto nella sovraiscrizione garantisce un appoggio indispensabile alle parole che Davide rivolge al Signore nel resto del salmo, proprio come i blocchi di partenza per un centometrista quando scatta alla partenza.
  Il contesto narrativo del salmo 51 riporta il lettore alla storia narrata nei capitoli 11 e 12 di 2 Samuele. Attraverso le parole del profeta Natan, il re Davide viene a sapere che il Signore era profondamente contrariato per il peccato che egli aveva commesso unendosi a Bat Sceba, moglie di Uria; il quale, per giunta, fu messo in condizione di morire in battaglia per ordine del re. Dopo l’incontro con il profeta, Davide non ci mise molto a capire che gli effetti di quel peccato sarebbero stati devastanti, per se stesso e per tutti quelli che lo circondavano. Ma da questo salmo risulta una cosa: ciò che attanagliava maggiormente Davide, e che poi lo spinse a scrivere questo salmo, era sapere che la relazione che aveva con il Signore si era incrinata. Davide sapeva che, in quella condizione di peccato, l’accesso alla presenza del Signore gli era precluso, come un suddito ribelle non può essere benvenuto alla presenza del suo re. Nel versetto 11, infatti, Davide dice al Signore: “Non respingermi dalla tua presenza”. Aggravato dal proprio peccato, ma consapevole di rivolgersi a un Dio misericordioso che non respinge un cuore profondamente umiliato e afflitto, Davide chiede al Signore di purificarlo da ciò che ha commesso, di riammetterlo alla Sua presenza affinché possa goderne e gioire di nuovo. Nel versetto 8 Davide sembra esclamare: “Fammi udire gioia e allegrezza, e quelle ossa che hai spezzate esulteranno”. Attraverso quest’ultima immagine, che richiamano alla mente le percosse e il supplizio, Davide sta praticamente chiedendo al Signore di far rivivere un morto.
  Nel versetto 7, Davide allude alla malattia della lebbra: “Purificami con l'issopo, e sarò puro; lavami e sarò più bianco della neve”. Davide vede se stesso come un lebbroso che ha bisogno di essere purificato e proprio il racconto di Numeri 12, quello in cui Miriam diventò lebbrosa dopo aver parlato contro Mosè, potrebbe essere stato l’oggetto delle sue riflessioni. Rivedendosi in Miriam, allontanata dalla presenza di Dio a motivo della lebbra, Davide chiede al Signore di essere purificato con l’issopo, una pianta che veniva usata per purificare i lebbrosi, insieme con due uccelli vivi e puri, del legno di cedro e dello scarlatto (Levitico 14:4). Una volta purificato e bianco più della neve, Davide sa che sarebbe stato riammesso alla presenza del Signore. Il riferimento al bianco riporta la mente al colore della pelle di Miriam lebbrosa. In modo piuttosto lampante per i suoi contemporanei, che questi rudimenti della Torah li conoscevano bene, Davide mette il suo peccato al pari della lebbra, quella malattia mortale che uccide la gente poco alla volta. Chiedendo di essere purificato, Davide non fa altro che supplicare Dio di riportarlo in vita.
  Come già visto in precedenza, Miriam è stata, per molti versi, un esempio per il popolo di Israele, sia in positivo che in negativo. Non solo nell’epoca in cui visse, ma soprattutto nei secoli seguenti, Miriam fu per Israele un personaggio in cui rispecchiarsi e riconoscersi; riflettendo sugli avvenimenti della vita di questa donna, Israele è portato a riflettere su ciò che Dio lo chiama a fare, allora come oggi. Nel suo duplice ruolo di almà e di profetessa, cioè sia portatrice di vita in modo miracoloso, sia annunciatrice della Parola di Dio ad un popolo, Miriam offre una chiara immagine di quale sia il ruolo di Israele nella storia: essere il popolo del Messia, Colui che Dio ha scelto per salvare il popolo stesso in primis e poi il resto dell’umanità; ed essere il profeta di Dio, cioè il popolo che Dio si è scelto per proclamare la Sua Parola: ad Israele prima e poi anche al resto dell’umanità.
  Se le figure di almà e profetessa rappresentano piuttosto bene la posizione di Israele nel mondo e nella storia, quale contributo potrebbe dare la figura di Miriam lebbrosa e allontanata dalla presenza di Dio? E che cosa Israele farà una volta che si confronterà con questa immagine di Miriam tutt’altro che attraente? La risposta è da cercare in ciò che fece il re Davide quando riconobbe il suo peccato davanti a Dio e vedendosi come un lebbroso al pari di Miriam: non esitò a chiedere a Dio di essere purificato completamente, per essere riammesso alla Sua presenza, affinché potesse di nuovo gioire ed esultare davanti a Lui, come per un morto a cui la vita è riconcessa.
  Le parole di Miriam contro Mosè in Numeri 12:2 - L'Eterno ha forse parlato solo per mezzo di Mosè? Non ha egli parlato anche per mezzo nostro? - ricordano la posizione che ebbero molti in Israele quando Gesù si presentò a loro come il Messia: “Cos’ha questo Gesù di tanto speciale? Dio non ha forse parlato anche per mezzo di altri?”. E tutt’oggi questa posizione non è così distante da quella che molti ebrei mantengono ancora. Ma come Dio aveva scelto Mosè per parlare a Israele in quel determinato periodo storico, mantenendo con lui una relazione che non aveva con nessun altro nel resto del popolo, così Dio ha scelto Gesù per rivelarsi a Israele, allora come oggi, e attraverso Israele anche al resto del mondo. Egli ha con il Padre una relazione unica, essendone il Figlio. Rigettare Lui significa rigettare Dio in persona; così come per Miriam, aver parlato contro l’autorità di Mosè aveva significato andare contro l’autorità di Dio stesso.
  Anche l’apostolo Paolo, scrivendo la sua lettera ai Romani, nel capitolo 9 parla del popolo Israele in termini che ricordano la sua posizione di rilievo rispetto agli altri popoli, ma anche il suo indurimento nei confronti della rivelazione di Dio in Gesù il Messia. Dopo aver attestato di essere lui stesso un membro di questo popolo, Paolo elenca tutti i privilegi che nel corso della storia Dio ha concesso a Israele rispetto agli altri popoli: tra questi, annovera l’adozione di Israele come figlio, l’aver visto Dio nella Sua gloria e l’aver udito la Sua voce, l’aver ricevuto la legge scritta, le Sue promesse fedeli. E per ultimo in ordine cronologico ma non di importanza, l’aver dato i natali al Messia, ossia essere il suo popolo, la famiglia in cui è nato e cresciuto.
  Ma se da una parte riconosce tutto ciò che rende unico Israele, in quanto popolo eletto di Dio, Paolo dice anche di provare grande tristezza e continuo dolore nel cuore, pensando ai suoi fratelli secondo la carne, i quali hanno rigettato Gesù, il Messia. Addirittura, preferirebbe lui stesso essere separato da Cristo, pur di vedere i suoi uniti a Lui (Romani 9:2,3). È pur vero che, continua Paolo, non tutti in Israele hanno rifiutato Gesù il Messia. Alcuni, come lui, hanno creduto alla Sua Parola. Questo dimostra, dice Paolo, che Dio non ha allontanato tutto il popolo dalla Sua presenza. Non solo. Nel capitolo 11 della lettera ai Romani, Paolo afferma che non soltanto l’allontanamento non è totale, come mai lo è stato nel corso della storia fino ad oggi. Ma un giorno questo allontanamento di Israele da Dio avrà fine e tutto il popolo sarà riammesso alla Sua presenza. 

    Ad Israele è avvenuto un indurimento parziale finché sarà entrata la pienezza dei gentili, e così tutto Israele sarà salvato come sta scritto: «Il liberatore verrà da Sion, e rimuoverà l'empietà da Giacobbe. E questo sarà il mio patto con loro, quando io avrò tolto via i loro peccati»” (Romani 11:25-27).

Non è forse Miriam, ancora una volta, una figura di Israele quando sarà purificato, perdonato e riammesso alla presenza di Dio? Miriam fu sì rigettata da Dio, come un padre rigetterebbe la propria figlia. Ma Miriam fu allontanata dall’accampamento se non per un periodo di tempo limitato. Dopodiché rientrò, fu riammessa, così che il popolo poté continuare il suo cammino. Essi non si mossero dal luogo in cui si trovavano per tutto il tempo in cui Miriam rimase fuori dall’accampamento. Solo quando fu ristabilita, il popolo fu in grado di proseguire il cammino. Proprio in quel frangente così difficile della vita di Miriam, la simbiosi tra lei e il popolo era totale.
  Secondo il Nuovo Testamento, dunque, la partita tra Dio e Israele non è ancora chiusa. Anzi. Un giorno l’esempio di Miriam tornerà alla mente di Israele, proprio come Mosè chiese di fare al popolo mentre era ancora nel deserto: 

    Ricorda ciò che l'Eterno, il tuo DIO, fece a Miriam durante il viaggio” (Deuteronomio 24:9). 

Un giorno Israele, ritrovando se stesso e il proprio ruolo nella storia forse anche grazie all’esempio di Miriam, capirà di aver parlato per secoli non contro un individuo come un altro, uno del popolo, ma contro Dio stesso. 

    Essi guarderanno a me, a colui che hanno trafitto” (Zaccaria 12:10).

Allora quelle ossa spezzate esulteranno.


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Il quarto brano della Torah in cui compare Miriam si trova nel libro dei Numeri al capitolo 20. Ecco il primo versetto di questo capitolo. 

    Poi tutta l'assemblea dei figli d'Israele arrivò al deserto di Sin nel primo mese, e il popolo si fermò a Kadesh. Là morì Miriam e là fu sepolta”. 

Il racconto comincia col popolo che si sposta nel deserto e si ferma a Kadesh, nel primo mese di un non meglio precisato anno. Lì muore Miriam e viene sepolta. Anche in questa occasione, il personaggio di Miriam compare improvvisamente nella narrazione del cammino di Israele nel deserto. La Scrittura le dedica un piccolo spazio, quasi fosse una nota a margine o un dovere di cronaca, per poi continuare con la narrazione. Non si hanno informazioni sulla sua morte, se non il luogo dove morì, a Kadesh, e il fatto che venne sepolta lì.
  Tuttavia, come negli altri casi, Miriam compare in momenti cruciali della storia del popolo: il salvataggio di Mosè dalle acque del Nilo, l’uscita dal Mar Rosso del popolo di Israele, la sua partenza dal monte Sinai. Pertanto è importante analizzare il contesto in cui viene inserito quest’ultimo evento: la morte di Miriam. Infatti, al fine di comprendere quale sia il valore profetico di questo personaggio, la domanda principale che qui ci si pone rimane la stessa: considerando il modo in cui la Scrittura presenta il personaggio di Miriam, è possibile individuare un legame tra lei e il popolo di Israele? E se sì, in cosa consiste questo legame? Per continuare a cercare una risposta a queste domande, è dunque fondamentale capire ciò che fa il popolo anche in questo brano, in cui compare il personaggio di Miriam.
  Il capitolo che parla della morte di Miriam racconta una contestazione di Israele per mancanza di acqua. Questa contestazione è solo in apparenza contro Mosè ed Aaronne. In realtà il destinatario ultimo delle parole del popolo è di nuovo Dio stesso. Riportata nei versetti 4 e 5 del capitolo 20, l’accusa rivolta contro i due fratelli è di aver preso decisioni sbagliate per il popolo, di avergli procurato del male piuttosto che del bene, di averlo fatto salire dall’Egitto per portarlo in un brutto luogo, in cui non c’è grano e non ci sono fichi, vigne, melograni, e non c’è acqua da bere. Anche questa volta, una contestazione contro Mosè e Aaronne si rivela essere una contestazione contro il modo in cui Dio sta guidando Israele nel suo viaggio, cioè contro il modo in cui Egli mostra di essere Padre nei confronti del popolo. La storia dell’Esodo dice che fu Dio a far uscire Israele dall’Egitto con mano potente; fu Lui a condurli passo passo nel deserto fino a quel posto chiamato Kadesh. Mosè ed Aaronne hanno semplicemente attuato le scelte di Dio. E anche qui Dio li avrebbe chiamati a fare lo stesso: applicare le Sue istruzioni.
  È interessante notare il modo in cui il popolo inizia la contestazione, nel versetto 3: “Fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti all'Eterno!”. L’allusione a coloro che morirono davanti all’Eterno sembra risalire all’evento raccontato poco prima nel capitolo 16 dei Numeri. Duecentocinquanta persone, tra cui Kore, uomini in vista e membri del consiglio, si levarono davanti a Mosè e misero in discussione la sua autorità sul popolo. Il modo in cui morirono, inghiottiti vivi dalla terra che si era aperta sotto i loro piedi, sembra voler mostrare al popolo la peculiarità della morte di coloro che si ribellano al Signore: interrati da vivi, non da morti. Le parole del popolo – fossimo morti quando morirono i nostri fratelli davanti all’Eterno – non sembrano essere di esaltazione per la ribellione di quelle persone, come se avessero fatto bene a ribellarsi . Piuttosto, sono parole dette in un momento di disperazione per la scarsità di beni di cui quel luogo disponeva. Quasi a chiedersi in cosa sia diversa, dopotutto, la sorte del ribelle da quella del non ribelle, se poi alla fine tocca ad entrambi morire nella disperazione.
  L’Eterno non sembra rispondere direttamente a questi dubbi di disperata incredulità. Si rivolge piuttosto a Mosè. Sarà lui, per ordine di Dio, a parlare affinché si apra una via nel deserto, per continuare a camminare e a vivere, invece di rimanere fermi e morire. A lui il Signore chiederà di mostrare piena ubbidienza alle Sue parole davanti al resto del popolo, in un momento di grande criticità. L’ubbidienza di Mosè alla Parola di Dio, che proviene dalla fede in Lui, sarebbe stata di esempio per tutti nel prosieguo del cammino. 

    Prendi il bastone; tu e tuo fratello Aaronne convocate l'assemblea e davanti ai loro occhi parlate alla roccia, ed essa darà la sua acqua; così farai sgorgare per loro acqua dalla roccia e darai da bere all'assemblea e al suo bestiame” (Numeri 20:8,9). 

Il Signore, dunque, chiede a Mosè e ad Aaronne di convocare l’assemblea e parlare alla roccia, in modo che essi vedano con i loro occhi che da essa uscirà acqua da bere per tutti, persone e animali. Dio non dà a Mosè e Aaronne nulla da dire al resto del popolo. L’acqua che esce dalla roccia davanti ai loro occhi avrebbe parlato da sé.
  Invece Mosè, dopo aver convocato l’assemblea del popolo davanti alla roccia, parla al popolo e rivolge loro le parole del versetto 10: “Ora ascoltate, o ribelli; dobbiamo far uscire acqua per voi da questa roccia?” Mosè sembra alquanto appesantito da tutta questa situazione. Ne ha abbastanza di quell’ostinata incredulità. Sarebbe il caso di dare una lezione una volta per tutte a questo popolo, invece di dargli quello che chiedono – acqua – senza rimproverargli nulla. Dicendo “dobbiamo”, Mosè mostra di sentire tutto il peso della faccenda sulle sue spalle e su quelle di suo fratello Aaronne; il peso, cioè, di far uscire acqua da una roccia. La disperazione del popolo sembra aver attecchito anche nel suo cuore. 
  Oltretutto Mosè, chiamando i suoi uditori ribelli, usa lo stesso termine che compare in Deuteronomio 21:18-21, brano che parla di un figlio ostinato e appunto ribelle, che non vuole ascoltare suo padre e sua madre, anche dopo essere già stato punito. 

    Se un uomo ha un figlio caparbio e ribelle che non ubbidisce né alla voce di suo padre né alla voce di sua madre e, benché l'abbiano castigato, non dà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo porteranno dagli anziani della sua città, alla porta del luogo dove abita, e diranno agli anziani della sua città: "Questo nostro figlio è caparbio e ribelle; non vuole ubbidire alla nostra voce; è un ghiottone e un ubriacone". Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno con pietre ed egli morirà; così sradicherai il male di mezzo a te, e tutto Israele verrà a saperlo e avrà timore”. 

Un tale figlio, una volta consegnato dai genitori nelle mani del popolo, merita di morire per mano degli uomini della sua città.
  Mosè vede dunque Israele come un figlio ribelle, che ostinatamente non ascolta la voce di Dio, suo Padre, anche dopo essere già stato castigato ripetutamente, come successo al popolo. Un figlio ribelle - avrà pensato Mosè - è destinato a morire prima o poi. Andrebbe punito come non mai, affinché smetta di essere ribelle e non muoia. Una cosa è certa - avrà concluso Mosè. Un figlio così non va accontentato senza alcun rimprovero come vuole fare Dio questa volta! 
  Avrà anche avuto le sue buone ragioni, Mosè, per aver dato del figlio ribelle al popolo. Il problema è che Dio, come Padre che ha la responsabilità sui propri figli, in questa specifica circostanza non li aveva giudicati. Mosè si stava arrogando il dovere di redarguire il popolo per la loro condotta, di cambiarli una buona volta, dovere che Dio non gli aveva dato e che non dà a nessuno, essendo Lui il Padre. L’azione di Mosè che segue sembra dimostrare ciò che aveva in cuore.

    Mosè alzò la mano, percosse la roccia col suo bastone due volte, e ne uscì acqua in abbondanza; e l'assemblea e il suo bestiame bevvero” (Numeri 20:11).

 Dio aveva chiesto a Mosè di parlare alla roccia e non gli aveva dato alcunché da dire al popolo, se non chiamarlo per vedere la roccia da cui sgorga acqua. Mosè invece che fa? Parla al popolo, gli dà del ribelle, e poi, senza parlare alla roccia come Dio gli aveva chiesto, la picchia con il suo bastone due volte, forse per sfogare su quella roccia il suo desiderio di dare una lezione al popolo una volta per tutte. Dalla roccia uscì acqua e tutti ne bevvero, persone e animali.
  Il miracolo è avvenuto: esce acqua in abbondanza da una roccia in pieno deserto. Il popolo, assetato com’era, avrà anche fatto una gran festa davanti a quello spettacolo così inatteso. Mosè, dal canto suo, si sarà sentito un po’ sollevato. Avrà pensato che, in fin dei conti, quello sfogo ci poteva anche stare, visto che l’acqua dalla roccia era uscita nonostante tutto. Se Dio ha permesso a Mosè di compiere un miracolo del genere, nonostante non avesse ubbidito in tutto e per tutto alle Sue parole, significa che in fin dei conti Dio gli aveva dato ragione. E invece no. Ecco le parole che l’Eterno ebbe per Mosè ed Aaronne: 

    «Poiché non avete creduto in me per dare gloria a me agli occhi dei figli d'Israele, voi non introdurrete questa assemblea nel paese che io ho dato loro». Queste sono le acque di Meriba dove i figli d'Israele contesero con l'Eterno, ed egli si mostrò Santo in mezzo a loro (Numeri 20:12,13).

La sentenza di Dio su Mosè ed Aaronne è tremenda: essi moriranno senza essere sepolti in terra promessa, come evidentemente speravano, perché lì non ci entreranno mai. Saranno sepolti nel deserto come tutta quella generazione ribelle all’Eterno. Il motivo? Non hanno creduto in Lui per dargli gloria agli occhi del popolo. Quelle parole al popolo e quelle percosse alla roccia erano costate care ai due fratelli. A prima vista, forse anche troppo care, dopo tutto quello che avevano fatto per il popolo fino a quel momento. Ma come sempre accade, il Signore guarda al cuore. E nel loro cuore c’era evidentemente del disappunto per come il Signore stava trattando i suoi figli. Al posto di accontentarli, Dio avrebbe dovuto punirli, percuoterli, come Mosè aveva percosso la roccia per ottenere ciò che voleva. Da questo punto di vista, anche Mosè ed Aaronne dubitarono di come Dio stava svolgendo il suo ruolo di Padre, troppo permissivo. In questo, dunque, essi non credettero in Lui: non si affidarono completamente al Suo modo di essere Padre.
  Con la sentenza su Mosè e Aaronne, Dio rinchiude l’intero popolo di Israele nell’incredulità. Nessuno escluso. Anche i due leader massimi rimasti in vita non sono esclusi dal non aver creduto in Dio Padre. La loro sorte, dunque, sarà come quella di Miriam e della generazione dei figli ribelli, morti e sepolti nel deserto e non in terra promessa, come invece fu per i padri Abramo, Isacco e Giacobbe, che furono sepolti nella grotta di Macpelà; e come fu anche per Giuseppe, le cui ossa, secondo Giosuè 24:32, furono portate dall’Egitto alla terra di Canaan.
  Il nome di quel luogo, Meriba, non ricorda tanto il miracolo dell’acqua, quanto la contestazione che Israele ebbe con il Signore, frutto dell’incredulità che, evidentemente, aveva contraddistinto ogni singolo membro del popolo. L’Eterno, infatti, si mostrò santo in mezzo a loro, cioè separato dal resto del popolo incredulo.
  È interessante notare che questo evento di palesata e collettiva incredulità avvenne dopo la scomparsa di Miriam, colei che insieme a Mosè ed Aaronne prendeva le decisioni più importanti. Era venuta a mancare colei che, senza dubbio, non era solo un punto di riferimento per il popolo, ma anche per i suoi due fratelli. Colei che, prima destinata a morire per la lebbra e poi vivificata, in questo frangente avrebbe certamente dato il suo contributo di fede, avendo ricevuto la vita in dono una seconda volta dopo aver visto la morte con gli occhi.
  In questo episodio, ciò che accomuna Miriam al resto del popolo è senz’altro la sua morte e la sua sepoltura. Come la generazione ribelle di Israele morì e fu sepolta nel deserto, inclusi Mosè e Aaronne, così anche Miriam morì e fu sepolta prima di poter entrare nella terra promessa. Ma come questa storia di incredulità, morte e sepoltura si collega agli altri avvenimenti della vita di Miriam, si vedrà nella prossima occasione, in cui proveremo a delineare un quadro unico in cui si inseriscono tutti gli eventi della storia di Miriam, per poter intravedere un possibile sviluppo successivo.    


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Morta e sepolta. Questa è dunque la fine della storia di Miriam nel Tanach, nome che si usa in ebraico per indicare l’Antico Testamento. Una fine non così diversa, del resto, da molti altri personaggi, anche illustri, di cui parlano le Sacre Scritture. A parte i rari casi di Enoc ed Elia, che furono rapiti in cielo mentre erano in vita e quindi non furono sepolti nella terra, la Bibbia non parla di persone che arrivarono alla fine dei loro giorni senza essere morti e sepolti. Anzi, la morte e la sepoltura sono spesso riportati nella Scrittura per enfatizzare che questa è la fine che toccò anche a persone che nella loro vita si distinsero dagli altri per ciò che fecero o dissero. 
  La storia di Israele come popolo, invece, continua ancora molti anni dopo la morte di Miriam, per secoli e millenni, come raccontano la Bibbia e i libri di storia, e come è sotto gli occhi di tutti ai giorni nostri. Di Israele non si può certo dire che è un popolo morto e sepolto, al contrario di altri popoli dell’antichità che ad un certo punto della storia hanno smesso di esistere. Se, come visto nelle occasioni precedenti, Miriam rappresentò bene il popolo di Israele per le cose che fece quando era in vita, non si può dire lo stesso per la fine che fece: morta e sepolta lei, vivo e vegeto Israele, fino ad oggi. 
  Il ricordo e l’esempio di questa donna, però, continuarono a riecheggiare profeticamente nella mente dei figli di Israele anche molti anni dopo la sua morte. Questo, infatti, chiese di fare Mosè a Israele: “Ricordati di quello che l’Eterno fece a Miriam”. L’ammonimento di Mosè ai figli di Israele prima di entrare nella terra promessa non era certo per metterli in guardia dalla malattia della lebbra, per quanto letale essa fosse, visto che Miriam ne fu colpita non per aver toccato un lebbroso, ma per aver parlato contro Mosè. Con queste parole Mosè intendeva avvertire i figli di Israele di non allontanarsi dalla Parola di Dio, come effettivamente fece Miriam prima di diventare lebbrosa, per non incorrere nelle conseguenze che lei subì: essere allontanata dalla presenza di Dio.
  L’evidente diversità tra la fine di Miriam, morta e sepolta, e la non-fine di Israele nella storia, esige una certa spiegazione. Per poter darne una, si tenterà di delineare un quadro generale che comprenda tutti gli eventi della vita di Miriam riportati nella Scrittura. Tracciando una linea che interpoli i punti lasciati dalle sue vicende, sarà infatti possibile individuare la direzione verso cui guardare per comprendere meglio il valore profetico che questo personaggio ha lasciato nella storia di Israele, e perché Miriam rimane un esempio per Israele anche nel suo essere morta e sepolta. Ecco le vicende di Miriam in sintesi.
  La Scrittura presenta il personaggio di Miriam in quattro contesti, ognuno dei quali tratteggia una peculiarità di questo personaggio. Il primo è la Miriam almà. Presumibilmente ancora giovane, Miriam non solo impedì che il suo fratellino Mosè morisse nelle acque del Nilo, ma fece in modo che il piccoletto finisse in buone mani, quelle della figlia del faraone. Il secondo è la Miriam profetessa. Dopo l’uscita incolume di Israele dal mar Rosso, con tamburelli e danze, Miriam guidò le donne del popolo ad adorare il Signore, il quale aveva appena salvato Israele dalle acque del mare. Il terzo episodio parla di quando Miriam diventò lebbrosa. Dopo essersi ribellata all’autorità di Dio, Miriam fu guarita dalla lebbra che l’aveva colpita, ma dovette rimanere fuori dall’accampamento per sette giorni. Dio la respinse per aver parlato contro Mosè, ma non per sempre. “Se suo padre le avesse sputato in viso, non sarebbe forse nella vergogna per sette giorni?” disse l’Eterno a Mosè quando questi Gli chiese di guarire sua sorella dalla lebbra. Nel quarto e ultimo episodio Miriam muore e viene sepolta. Nella narrazione biblica, subito dopo la sua morte, scoppia una contestazione del popolo per mancanza d’acqua. In quella circostanza, anche i due fratelli Mosè e Aaronne non mostrano di aver fede in Dio, il quale annuncia loro che non entreranno nella terra promessa. “Queste sono le acque di Meriba dove i figli d'Israele contesero con l'Eterno” dice la Scrittura.
  C’è un filo rosso che collega questi quattro episodi della vita di Miriam. L’elemento in comune è evidentemente l’acqua: il fiume Nilo nel primo episodio, il mar Rosso nel secondo, lo sputo del padre nel terzo, le acque di Meriba nel quarto. Ma, osservando bene questi quattro punti, si può notare che c’è un aspetto che va oltre l’elemento fisico dell’acqua: in ogni episodio viene emesso un giudizio, una condanna a morte. Chi è sotto il giudizio, muore; chi rimane sopra, vive. 
  Infatti, i maschi dei figli d’Israele che annegarono nelle acque del Nilo morirono sotto l’acqua, per effetto della condanna a morte del faraone imposta ai maschi degli ebrei. Mosè, invece, fu tratto dalle acque del Nilo e visse. 
  I cavalieri egiziani inseguirono il popolo di Israele tra due pareti d’acqua. Quando queste si chiusero, gli egiziani annegarono e morirono sotto il mare, per effetto del giudizio di Dio sull’Egitto. Tutto Israele, invece, attraversò il mare all’asciutto e non morì. 
  Nel terzo episodio, Miriam diventa lebbrosa e viene allontanata per un certo tempo dall’accampamento. La malattia della lebbra era, a tutti gli effetti, una condanna a morte inflittale da Dio per aver parlato contro Mosè, che Egli aveva scelto. L’immagine che Dio usa per descrivere il suo rigetto temporaneo nei confronti di Miriam è quello dello sputo di un padre sulla propria figlia. Il fatto che Miriam rientrò nell’accampamento dopo sette giorni significa che fu guarita dalla lebbra, cioè non rimase sotto il giudizio inflittole dal Signore, ma fu salvata dalla morte. 
  Nel quarto episodio, Miriam muore e viene sepolta a Kadesh, quindi durante il cammino nel deserto del popolo di Israele verso la terra promessa. Stessa cosa accadde anche a Mosè e Aaronne poco tempo dopo. I due fratelli, nella contesa delle acque di Meriba, non ebbero fede in Dio e morirono prima di entrare nella terra promessa. Morire ed essere sepolti nel deserto era anch’essa una forma di giudizio che Dio aveva stabilito per l’incredulità del popolo, che Dio giudicò così: 

    Certamente nessuno degli uomini, che sono saliti dall'Egitto dall'età di vent'anni in su, vedrà mai il paese che giurai di dare ad Abrahamo, Isacco e Giacobbe, perché essi non mi hanno seguito pienamente, ad eccezione di Caleb, figlio di Jefunneh, il Kenizeo, e di Giosuè, figlio di Nun, perché essi hanno seguito pienamente l'Eterno” (Numeri 32:11,12). 

Chi seguì pienamente l’Eterno, come Caleb e Giosuè, non finì sotto la terra del deserto, quindi sotto il giudizio di Dio, ma entrò nella terra promessa.
  Ciò che emerge da queste quattro vicende è dunque un quadro unico, che mostra una realtà che si sviluppa in due fasi. Nella prima fase c’è un giudizio inflitto a delle persone, che produce morte. È il caso dei maschi ebrei nel Nilo; degli egiziani nel mare; di Miriam lebbrosa; dei figli d’Israele morti nel deserto. Nella seconda fase, una o più persone che erano sotto il giudizio vengono salvate, e vivono. È il caso di Mosè salvato dal Nilo; dei figli di Israele che escono vivi dal mare; di Miriam che non muore di lebbra, ma rientra nell’accampamento; dei figli di Israele che non morirono nel deserto, ma entrarono nella terra promessa.
  Proprio questo aspetto duale risulta dal personaggio di Miriam in chiave profetica: giudizio e morte da una parte. Salvezza e vita dall’altra. Questo duplice aspetto, come le due facce di una stessa moneta, accomuna tutte le vicende della vita di Miriam prese nel loro contesto biblico, cioè nel modo in cui la Scrittura le presenta. Il tema biblico che affiora da questo personaggio – giudizio e salvezza – permea un po’ tutta la Scrittura, dall’inizio alla fine. Miriam, in vista profetica, diventa un personaggio che incarna in se stesso un concetto biblico essenziale: quello della salvezza ricevuta sotto condanna, di assoluto rilievo ancora oggi per chi dispone il proprio cuore alla riflessione.
  Come dunque questo tema di primaria importanza si collega alla storia di Israele? In che modo la Miriam morta e sepolta parla ad Israele ancora oggi? Dopo la morte di Miriam, si legge di come il popolo di Israele, anche una volta giunto nella terra promessa, ha continuato a contestare il Signore, a ribellarsi a Lui, come del resto aveva fatto dalla partenza dal Sinai fino alla morte di Miriam. Secondo le parole di Deuteronomio 21:18-21 già citate in precedenza, il destino di un figlio ribelle è la condanna a morte, la quale avviene nel momento in cui i suoi genitori lo consegnano agli anziani della loro città.
  Ma allora perché, se questo è il destino di un figlio ribelle, Israele è oggi un popolo vivo e non morto e sepolto da millenni? Evidentemente perché Dio, come Padre, non ha mai consegnato completamente il figlio ribelle Israele nelle mani di altri, perché questi applicassero su di lui la condanna a morte. E mai lo farà.
  Dal canto suo, il popolo di Israele, da quando Miriam morì fino al giorno d’oggi, non ha ancora adempiuto a tutti i compiti che Dio gli ha affidato nel corso della storia. Compiti che sono rintracciabili nella vita di Miriam: da una parte i privilegi di essere almà-madre e profetessa, dall’altra la condanna ad essere lebbrosa e quindi rigettata, ma successivamente guarita e riaccolta. Il primo compito, quello di almà-madre, Israele lo ha già adempiuto, in forma di privilegio rispetto agli altri popoli. Con la nascita di Gesù, Israele è diventato il popolo che ha messo al mondo il Messia ed è diventato la sua famiglia. Anche il secondo compito, quello di profeta di Dio, è riscontrabile nella storia di Israele: la Parola di Dio, includendo sia il Tanach sia il Nuovo Testamento, è un libro redatto da membri del popolo di Israele. Il terzo ruolo, invece, quello rappresentato da Miriam lebbrosa e rigettata, poi guarita e riammessa, non è ancora stato completato del tutto. In questa fase storica, Israele si trova ancora in una posizione lontana dalla presenza di Dio, avendo parlato contro Colui che Dio ha scelto per rivelare se stesso agli esseri umani: Gesù il Messia. Così come Miriam aveva parlato contro Mosè ed era stata allontanata dall’accampamento, dove il Signore dimorava.
  Fino a quando questo processo di guarigione e riammissione di Israele alla presenza di Dio non sarà completato, la storia di Israele rimarrà nella fase di giudizio che conduce alla morte, senza però poter morire mai, in quanto sempre sotto la custodia del Padre, il quale non accetterà mai che in Israele ci sia un indurimento totale e perenne. Il completamento di questa fase è evidentemente legata al modo in cui Israele si porrà nei confronti di Gesù il Messia.
  L’eredità di Miriam e il suo stretto legame con il popolo di Israele non sono andati persi nel corso della storia milleniale di questo popolo. Anzi, si sono riaffermati in momenti storici precisi, quando i tempi stabiliti da Dio erano compiuti. Israele non ha smesso di ricordare Miriam e il suo esempio, più o meno consapevolmente. In un futuro forse non così lontano, Israele porterà a compimento il suo ruolo nella storia dell’umanità, come profeticamente annunciato dal personaggio di Miriam. Quando ciò avverrà, nei tempi preordinati dal Signore, la riconciliazione tra il Padre e il figlio ribelle sarà completa e la gioia sarà pari a quella di uno che era morto ed è tornato in vita.

(Notizie su Israele, ott-dic 2022)

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