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Il segno del profeta Giona

di Marcello Cicchese
    "E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo: "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita fino a me" (Giona, 1:1-2).
Con queste parole ha inizio un problematico libro della Bibbia che pone subito al lettore una domanda: come deve essere considerato? Che rapporto ha con la realtà? In molti casi la risposta probabilmente sarebbe: è una favola. Proprio come nel racconto della Genesi. Un serpente che parla, un pesce che inghiotte un uomo e lo risputa fuori vivo, che ci vuole di più per convincere il lettore a pensare che i racconti biblici sono in massima parte invenzioni della fantasia umana? Non per questo però devono essere disprezzati e rigettati - pensano i più aperti - perché il tramandarsi di certe narrazioni contribuisce al mantenimento di unità sociali bisognose di superiori riferimenti culturali condivisi.
  Ma che c'entra Dio in tutto questo? Alcuni, i più ben disposti verso il divino, concedono che sia Dio colui che suggerisce ad alcuni uomini da Lui scelti di creare favole istruttive per il buon andamento della società; altri invece sostengono che il personaggio stesso di Dio fa parte delle favole. In tutti i casi, come risultato si ottiene che non è proprio il caso di chiedersi qual è la realtà fattuale che sta dietro a quelle favole, perché quello che si deve fare è concentrarsi sul benefico effetto che possono avere su chi le racconta e chi le ascolta.
  Conclusione: la realtà siamo noi. Gli uomini. E non ce n'è un'altra. Il valore di una favola sta nell'effetto che il suo racconto può produrre sul nostro vivere sociale: se ci spinge ad essere più buoni va bene, altrimenti no.
  Un esempio di questo modo di usare la Bibbia come antologia di favole istruttive si può vedere nelle seguenti parole, trovate su internet, di un intellettuale ebreo :
    «La storia di Giona è speciale perché parla di un profeta che per primo ha cercato di "schivare" la sua missione, ma poi si pentì. Un altro punto speciale di Giona è che la sua missione non era quella di indirizzare il popolo d'Israele direttamente, o avvertire di ciò che sarebbe accaduto se non avessero riparato i loro modi. Il suo compito era quello di salvare la grande città di Ninive, i cui residenti non erano ebrei. Oggi, alla luce del crescente anti-semitismo, è più pertinente che mai riflettere sulla storia di Giona e il messaggio dietro di lui.
    Dio ordina al profeta Giona di avvertire gli abitanti della grande città di Ninive che avevano corrotto i loro modi di vivere. In altre parole, Giona deve avvertire loro che sono diventati così alienati ed egoisti che la loro società è insostenibile. Il compito del profeta è quello di condurre gli abitanti di Ninive lontano dal loro odio, in unità e amore per gli altri, altrimenti sarebbero stati tutti distrutti.
    Tuttavia, Giona decide di eludere il suo compito e parte per mare nel tentativo di fuggire.
    Proprio come Giona, noi ebrei, stiamo eludendo la nostra missione negli ultimi duemila anni. E tuttavia, non possiamo permetterci di continuare a eluderla. Abbiamo un compito. E' stato dato a noi quando Abramo ci ha unito in una nazione sulla base dell'amore per gli altri e della garanzia reciproca. Questo è quando abbiamo appreso che la nostra esistenza dipende dalla nostra unione e dall'essere un modello di unità per il mondo intero.»
L'autore dunque invita "noi ebrei" ad essere più buoni, a stare uniti, a volersi bene, in modo che anche gli altri possano imparare e fare altrettanto. Starebbe qui il valore della favola. Ma se fosse proprio vero che è dalla fratellanza fra gli ebrei che dipende la salvezza del mondo, la situazione sarebbe davvero disperata. Ma per fortuna quella dell'autore è soltanto una favola. Non quella biblica.
  L'invito generale ad essere più buoni sembra però che sia stato accolto dal mondo, con papa Bergoglio in testa, seguito da commissioni istituzionali che hanno ricevuto il compito di combattere l'odio in qualsiasi forma esso si presenti. Sta diffondendosi così nel mondo un asfissiante gas moralistico che dilaga e penetra in tutte le strutture della società. Ed è più minaccioso e dannoso del covid, perché se tutto dipende dagli uomini, se la salvezza di un mondo che oggi come mai prima si sente minacciato, dipende totalmente da noi, allora bisogna che tutti, assolutamente tutti, si comportino bene. E guai a chi non lo fa. E già si stanno mettendo a punto gli strumenti per distinguere i buoni dai cattivi. Con le dovute conseguenze.
  C'è però un altro modo di leggere la Bibbia, non come antologia di racconti istruttivi che inducano gli uomini a virtuosi comportamenti, ma in primo luogo come resoconto di fatti compiuti da Dio. In tutta la Scrittura sono sempre gli atti di Dio ad essere presentati per primi, e solo in un secondo momento si prendono in esame le reazioni degli uomini, discutendone il valore, l'importanza e le conseguenze. La lettura della Bibbia raccomandata è dunque fondata sulla fede in Dio, non sulle opere dell'uomo; è teocentrica, non antropocentrica.
  "Nel principio Dio creò il cielo e la terra". Punto. E' questo il solenne incipit biblico, e fino a qui esiste un solo personaggio: Dio. Tutto il resto è conseguenza di quello che ha voluto dire e fare quest'unico Personaggio.
  Andiamo allora all'inizio del libro di Giona. La traduzione della Nuova Riveduta suona così:
    "La parola del SIGNORE fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, in questi termini..."
La traduzione più letterale qui scelta è:
    "E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo..."
Il termine ebraico tradotto con "parola" è davar, che come si sa indica anche "cosa" o "fatto", e qui si dice che la parola dell'Eterno fu su Giona, usando lo stesso verbo essere di dove si dice: "Dio disse: sia la luce, e la luce fu". Si potrebbe anche tradurre: "La parola dell'Eterno cadde su Giona...", per sottolineare il fatto che il messaggio è un oggetto inviato a Dio che è in cielo ed arriva ad un uomo che si trova sulla terra.
  Si può fare un esempio. Trovo nella mia cassetta delle lettere una busta su cui si vedono diversi timbri. Mi impressiono, leggo il mittente: Ministro dell'Interno. Qual è il primo fatto che attira la mia attenzione? Il mittente, ovviamente. Non avrei mai immaginato di poter essere oggetto di una così personale attenzione da parte del Ministro. I miei sentimenti si agitano confusamente, forse avrei preferito non averla tra le mani, una simile busta. La rimetto nella cassetta, ma mi accorgo subito che non serve: il messaggio del Ministro è lì (corrisponde al fu del racconto biblico), non c'è niente da fare: è un fatto immodificabile. Allora mi decido ad aprire la busta e leggo quello che dice (corrisponde al dicendo biblico) il messaggio. Contiene un'ingiunzione, un ordine perentorio a svolgere un certo servizio per la comunità che secondo la costituzione mi compete. Che fare? Il servizio non mi piace, ma l'ordine viene dall'alto. Devo decidere. Ho deciso. Mi imbosco e tento di evitare di essere preso dall'autorità cercando un luogo in cui non potrebbe raggiungermi. Potrei continuare così il racconto parlando di tutti gli espedienti che mi sono inventato e di tutte le peripezie che ho dovuto attraversare per non farmi prendere, ma alla fine chi mi ascolta vorrebbe sapere che cosa stava scritto in quella lettera, e perché il Ministro mi ha dato quell'ordine, e che cosa aveva intenzione di ottenere.
  Uscendo dall'analogia metaforica, si può davvero immaginare la parola rivolta dall'Eterno a Giona come un oggetto che cade dal Cielo sulla terra. Dio ha deciso: ha inviato un ordine a Giona; e adesso Lui sa che deve, come ha sempre dovuto fare con Israele, sobbarcarsi il compito di gestire la reazione, raramente docile e pronta, di chi ha ricevuto l'ordine.
  L'ordine che arriva a Giona è semplice e chiaro:
    "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei", perché la loro malvagità è salita fino a me".
La discesa del plico dal Cielo sulla terra è stata provocata da qualcosa che è salito dalla terra al Cielo: la malvagità di Ninive. Ma può la malvagità salire dalla terra e arrivare fino al Cielo? Abituati come siamo alla concettualizzazione di termini morali, facciamo fatica a comprendere la concretezza dei termini biblici. Nella Bibbia si parla spesso di sacrifici di soave odore che salgono dalla terra al Cielo, conseguenza di atti di culto eseguiti in fiduciosa ubbidienza a Dio da parte del popolo. Potremmo allora pensare, estendendo l'immagine della salita, che l'odore delle infami perversità degli uomini salga dalla terra al Cielo e giunga alle narici di Dio non come un soave odore ma come uno stomachevole fetore.
  Qualcosa del genere deve essere accaduto con Ninive al tempo di Giona. Ed è proprio a Giona che Dio ordina di andare a Ninive per informarli che Lui conosce molto bene la loro malvagità. Tutto qui. Nient'altro, fino a questo punto. Nessuna minaccia, tanto meno inviti al pentimento o promesse di perdono. Devono sapere che il Dio degli ebrei è arrabbiato con loro. Si regolino.
  E qui l'immagine della malvagità che sale dalla terra e giunge come disgustoso fetore alle narici di Dio e lo fa arrabbiare si applica molto bene, perché la Bibbia per dire indicare l'ira usa un termine che significa "naso" o "narici", quindi l'espressione "l'ira di Dio si accese" può essere resa letteralmente con "il naso di Dio si infiammò". Far sapere ai Niniviti che questa alterazione divina era provocata dal puzzo della loro malvagità non poteva lasciarli tranquilli.
  Resta aperta una domanda fondamentale: perché Dio ha agito così? Gli Assiri erano cattivi, certamente, una nazione canaglia si direbbe oggi. Ma da un Dio che vorrebbe vedere tutti gli uomini affratellati, come desidera tanto papa Bergoglio, ci aspetteremmo che si comporti così? Che senso ha scegliere per un incarico così importante uno qualsiasi, un perfetto sconosciuto privo di curriculum? Non aveva titoli, Giona, ma al capitano della nave su cui poi si imbarcò, che gli chiedeva informazioni sul suo conto, disse con chiarezza: "Io sono ebreo". Ma che c'entra tutto questo con la cattiveria degli Assiri? Se il problema del mondo è la mancanza di fratellanza fra gli uomini, a che serve un ebreo che va a sbandierare il suo Dio davanti a un altro popolo, minacciandolo di punizioni? Se ne dovrà parlare.

- 2 -

    Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno (Giona, 1:3).
"La loro malvagità è salita alla mia faccia", dice il Signore all'inizio del libro, riferendosi agli abitanti di Ninive. Allora invia un ordine a Giona in cui gli dice: "alzati e va a Ninive" e avvertili. Giona si alza, sì, ma per andarsene dalla parte opposta, "lontano dalla faccia dell'Eterno".
  Va notato anzitutto che Giona, la faccia dell'Eterno, la conosceva. I Niniviti invece no. Qui sta la differenza. Nel passato Dio si era già servito di Giona per annunciare che i confini di Israele sarebbero stati ristabiliti, "secondo la parola che l'Eterno, l'Iddio d'Israele, aveva pronunziata per mezzo del suo servitore il profeta Giona, figlio di Amittai" (2 Re 14:25). Dunque l'Eterno e Giona avevano già avuto rapporti diretti, cosa che certamente non è da tutti. Bisogna allora essere cauti nel sottolineare la disubbidienza di Giona giudicandola secondo canoni di morale universale, che non sono meccanicamente estendibili agli avvenimenti biblici. Si pensi per esempio ad Abramo, che per la seconda volta si comporta da bugiardo quando dice al re Abimelec che Sara è sua sorella. Dio non gli rivolge alcun rimprovero, mentre minaccia di morte il re pagano che voleva prendersi Sara credendo che fosse libera. E non solo questo, ma tenendolo sotto minaccia di morte ordina ad Abimelec: "restituisci la moglie a quest'uomo, perché è profeta; ed egli pregherà per te, e tu vivrai" (Genesi 20:7). La differenza dunque sta in questo: che Abramo è profeta, come anche Giona. Il che significa che da loro Dio si è fatto conoscere e li ha inseriti nel suo piano d'azione. E in entrambi i casi è proprio attraverso la loro umana debolezza che Dio riesce a far arrivare la sua conoscenza anche ai pagani.
  Come sempre nella Bibbia, anche nella storia di Giona le parti in gioco sono tre: Dio, Israele e le nazioni. Ogni tanto sale dalla terra al Cielo il segnale di qualcosa che non va nelle nazioni. E Dio, invece di affrontare direttamente il problema, si rivolge a un membro del suo popolo Israele. La cosa cominciò molto presto con Sodoma e Gomorra. Che gli uomini siano peccatori, tutti lo sanno, ma quando la cattiveria umana arriva a certi punti la cosa comincia a diventare insopportabile anche per Dio. Così, proprio all'inizio del suo soggiorno in Canaan, Dio confida ad Abramo che è arrivato in cielo un segnale che qualcosa di molto grave sta avvenendo sulla terra:
    "E l'Eterno disse [ad Abramo]: il grido che sale da Sodoma e Gomorra è grande e il loro peccato è molto grave" (Genesi 18:20).
Che fare? Dio comunica ad Abramo le sue intenzioni:
    "Ora io scenderò e vedrò se hanno davvero agito secondo il grido che è pervenuto a me; e, se così non è, lo saprò" (Genesi 18:21).
Ma se così è - si potrebbe aggiungere -, è chiaro che le cose non potranno rimanere come prima. Ma perché Dio fa questa confidenza ad Abramo? La Bibbia lo spiega riportandoci un singolare colloquio di Dio con stesso avente come oggetto Abramo:
    "E l'Eterno disse: Celerò io ad Abramo quello che sto per fare, giacché Abramo deve diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra?" (Genesi 18:17-18).
La nazione che nascerà da Abramo sarà dunque lo strumento di cui Dio si servirà per benedire tutte le nazioni della terra, cioè portare tra i popoli la benedizione della sua presenza attiva, che potrà esprimersi in forma sia costruttiva sia distruttiva a seconda delle risposte degli uomini. Ma in tutti i casi l'azione di Dio nella storia passerà sempre attraverso il punto di riferimento stabile che Egli si è costituito sulla terra: Israele. E' un impegno che Dio si è preso con Sé stesso, e pertanto è immodificabile: fa parte integrante della rivelazione di Dio, e nessuno può correggerla secondo i suoi gusti. Prendere o lasciare.
  Ci fu un altro momento, prima dei fatti di Ninive, in cui Dio fu colpito da qualcosa di sgradevole che gli arrivava dalla terra. Fu quando udì il grido di dolore che proveniva dal suo popolo in Egitto:
    "I figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù e alzavano delle grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti. Dio si ricordò del suo patto con Abramo, con Isacco e con Giacobbe" (Esodo 2:23-24).
E che fa Dio in questo caso? Non interviene direttamente con tutta la sua autorità, ma attiva un membro del suo popolo: Mosè. Perché Dio agisce così? Era questo l'unico modo di affrontare il problema della sofferenza degli ebrei? Sono queste le domande che si pone anzitutto una lettura teocentrica della Bibbia. Altre letture si concentrano invece sulla tirannia dei potenti, le sofferenze degli oppressi, i loro aneliti alla libertà e altri aspetti di nobilissima aspirazione alla giustizia sociale che però non rendono ragione di quello che sta effettivamente scritto. E quando sono spinte abbastanza avanti, queste letture arrivano perfino a mettere sotto accusa proprio il Dio della Bibbia.
  Il Creatore che ha lavorato sei giorni per creare i cieli e la terra e tutto ciò che in essi è contenuto, il settimo giorno si riposò. Ma dopo la caduta dei nostri progenitori fu costretto a riprendere il lavoro. Un lavoro diverso dal precedente, che deve mettere riparo a un disastro e ha come oggetto un'umanità decaduta che vive su una terra maledetta. Ma è aperto al futuro, mira al raggiungimento di un nuovo riposo in cui Dio potrà un giorno dire, come nella prima creazione, "Ecco, è molto buono".
  La vera storia del mondo è costituita dunque dal susseguirsi di interventi di Dio che è in cielo in mezzo al muoversi di uomini e nazioni che sono sulla terra.
  Anche al tempo di Giona il primo problema di Dio era il suo popolo. Ma in che senso Israele è un problema per Dio? Perché gli ebrei non si vogliono bene fra di loro? Perché amano troppo i soldi e praticano la corruzione negli affari? Perché i sacerdoti vanno a letto con le mogli altrui? Perché non si attengono rigorosamente alle norme della legge mosaica? E si potrebbe continuare facendo altre domande di questo tipo. Ma individuare il problema di Israele nelle risposte a queste domande significherebbe dire che il peccato fondamentale di Israele consiste nel non attenersi strettamente al modello di moralità indicatogli da Dio. E' questa la benedizione che Dio vuol far scendere su Israele affinché la trasmetta al mondo? L'esempio di un popolo che si comporta in modo moralmente perfetto? No. Il male del mondo non consiste nella mancanza di amore fra gli uomini, ma nella colpevole rottura del giusto rapporto degli uomini con Dio. Il vero rimedio al male del mondo dunque non può che consistere nella riconciliazione degli uomini con Dio. Ma poiché è Dio la parte offesa, l'offensore non può pensare di poter decidere da solo quali sono le condizioni per ristabilire i rapporti rotti. Questo può farlo soltanto la parte offesa, che in questo caso è Dio. La benedizione che Dio vuole far scendere sugli uomini attraverso Israele è appunto, in primo luogo, la possibilità di essere perdonati da Dio, riconciliati con Lui.
  Torniamo allora a Giona. Due nazioni sono in gioco: l'Assiria e Israele. Entrambe sono in posizione di rottura con Dio, ma in modo diverso. L'Assiria è una nazione pagana, feroce, serva efficace di una quantità di demoni operanti sotto la maschera di vari idoli; Israele è la nazione che si comporta come serva infedele dell'unico vero Dio che ha creato i cieli e la terra. Giona, come profeta, lo sa, e probabilmente ne soffre, perché ama la sua nazione e ne va fiero. Vede avvicinarsi il pericolo assiro e teme che possa essere usato da Dio come "verga della sua ira" (Isaia 10:5). Per Giona forse il favore di Dio verso il suo popolo potrebbe esprimersi nel perdonare Israele e confondere la superbia della nazione pagana facendogli subire una esemplare batosta da parte dei suoi nemici, tra cui potrebbe esserci l'Egitto.
  Ma questo non avviene. Quello che avviene è che a Giona cade addosso, come un macigno, l'ordine di andare a Ninive, capitale dell'Assiria, a consegnare un messaggio particolare da parte di Dio. Il messaggio era minaccioso, parlava di malvagità dei niniviti che a Dio non era ignota, avrebbe potuto quindi essere interpretato come un primo passo a cui sarebbe seguita una punizione esemplare dell'altera nazione pagana. Ma Giona "non ci casca". Lui lo conosce, Dio, e ha capito che il sasso piovuto dal Cielo serve più a colpire lui che gli assiri. E non ci sta. Ma non è una disubbidienza, la sua! E' una lite. Tra due che si amano. Giona "mette il muso" con Dio, come può accadere fra due coniugi che pure si vogliono bene. Certo, dalla parte Giona la lite è seria. Lui vorrebbe farla finita. E' deluso, irritato. Non vuole più vedere Dio, e va a cercarsi un posto "lontano dalla faccia dell'Eterno". Anche tra due coniugi che sinceramente si amano può accadere qualcosa del genere in un momento di forte contrasto: può accadere che uno dei due veda la cosa così nera da arrivare al punto di dire "basta, è finita, non ne voglio più sapere". In quel caso è compito dell'altro che non solo ama ma sa anche vedere le cose con maggiore chiarezza, liberare il coniuge dal laccio di amarezza in cui è caduto, non tanto con dolci parole ma piuttosto con atti di indiretto e intelligente soccorso. Ed è quello che tenta di fare Dio con Giona. Perché il campo d'azione di Dio non è il cortile di una caserma; non è che se uno sbaglia, tentando per esempio di imboscarsi come sembrerebbe aver fatto Giona, quando è scoperto si sente arrivare addosso la sentenza: "Stai punito!" E infatti un ordine simile a Giona non arriva, né prima né dopo. Come mai? Ancora una volta si pone la domanda: perché Dio agisce così?

- 3 -

  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo:
  2. "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia".
  3. Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie che erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Alzati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
"Alzati, va' a Ninive", ha detto Dio a Giona. E' un invito alla decisione: "Muoviti - sembra dire il Signore - c'è un compito per te". E Giona si muove, con decisione, ma per andare... da un'altra parte. Dio gli aveva indicato una città precisa: Ninive, e Giona individua per il suo viaggio una città altrettanto precisa: Tarsis, che si presume si trovi nella lontana Spagna, quindi situata in direzione esattamente opposta a quella indicatagli da Dio. A Ninive ci si va via terra, a Tarsis invece via mare. Il mare nella Bibbia è accostato al mondo dei gentili, e non è quindi molto familiare agli ebrei. Giona però è deciso: si alza e va. "Scende", più precisamente, a Giaffa, perché è da lì che partono le navi.
  All'inizio sembra andargli tutto bene: trova subito una nave che va proprio a Tarsis. Ma chissà se sono disposti a dargli un passaggio. Sì, sono disposti, ma chiedono soldi. E già, perché senza soldi a questo mondo non si fa niente. Giona lo sa, e poiché si era preparato anche finanziariamente, paga il prezzo richiestogli e s'imbarca per andare a Tarsis "con loro", i marinai pagani della nave.
  Per ben tre volte nel versetto 3 è ripetuto il nome della città scelta da Giona: Tarsis; e per due volte è ripetuto il motivo del viaggio: fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno. In questo versetto sono citati i tre protagonisti fondamentali del racconto: Dio, Israele (nella persona di Giona) e le nazioni (nei marinai pagani). L'origine di tutto il fatto sta in un disaccordo fra Israele e Dio. Ma perché Israele? qui si parla di Giona. Dio però ha deciso di operare storicamente nel mondo attraverso lo strumento che si è personalmente formato e ha costituito come suo servitore: Israele. Nei rapporti con il suo servitore Dio sceglie di volta in volta chi sarà il membro del popolo con cui decide di interloquire. Dopo Mosè gli interlocutori di Dio sono stati in maggior parte profeti da Lui autonomamente scelti, perché le autorità politiche, a parte Davide e pochi altri, sono stati quasi sempre parte del problema, non della soluzione.
  Nel periodo che precede le grandi invasioni in Israele dei popoli pagani ci sono due profeti che occupano un posto di rilievo: Elia e Giona. Due profeti molto diversi fra loro, ma con due cose in comune: ad entrambi Dio dà l'ordine di andare verso qualcuno a svolgere un compito, ed entrambi dopo aver eseguito l'ordine manifestano il desiderio di morire. Anzi, chiedono direttamente a Dio di farli morire.
  Ordine di Dio a Elia:
    La parola dell'Eterno fu su Elia dicendo:: "Va', presèntati ad Acab, e io manderò la pioggia sul paese» (1Re, 18:1)
  Replica di Elia a Dio dopo aver eseguito l'ordine:
    "Egli s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino, andò a sedersi sotto una ginestra, ed espresse il desiderio di morire, dicendo: 'Basta! Prendi ora, o Eterno, l'anima mia, poiché io non valgo più dei miei padri!' (1Re 19:4)
  Ordine di Dio a Giona;
    La parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo: "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia" (Giona 1:1-2).
  Replica di Giona a Dio dopo aver eseguito l'ordine:
    "Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me è meglio morire che vivere" (Giona 4:3).
  Un altro elemento comune alla storia dei due profeti è che entrambi, su precisa indicazione del Signore, sono portatori di benedizione in terra pagana. Elia porta la salvezza dalla morte per fame alla libanese vedova di Sarepta e inoltre le risuscita il figlio (1Re 17); Giona porta agli assiri di Ninive la salvezza dal giudizio di Dio per la loro malvagità e la possibilità di convertirsi ed essere perdonati. Entrambi dunque hanno eseguito un incarico che rientra nel ruolo assegnato alla nazione promessa da Dio in Abramo: essere in benedizione a tutte le genti.
  Perché allora i due profeti finiscono il loro servizio scoraggiati? Il Signore poteva soltanto essere contento, dal momento che i suoi ordini erano stati eseguiti; come mai invece i due profeti sono scontenti? Una lettura antropocentrica del testo si dilungherebbe in considerazioni psicologistiche o moralistiche sulle debolezze dell'animo umano o la tendenza alla ribellione di chi è sottoposto ad ordini, ma ogni spiegazione di fatti narrati nella Scrittura che aspiri ad avere legittimità biblica non può che essere teologica, cioè deve mettere in primo piano la parte svolta dal personaggio principale, che è Dio.
  Nel caso di Elia, nella terna Dio-Israele-nazioni la parte delle nazioni è svolta dalla moglie libanese di Acab, Iezebel, che uccideva i profeti di Dio e alla cui mensa mangiavano i profeti di Baal e Astarte. Dopo il grandioso spettacolo del fuoco che cade sull'olocausto e lo consuma, dopo che gli ottocentocinquanta profeti di Baal e Astarte erano stati scannati dalla folla, dopo la pioggia assente da mesi si era riversata torrenziale sulla terra, Elia forse si aspettava che su Acab e Iezebel si sarebbe abbattuta con violenza la giusta ira di Dio, e con questo sarebbe stato chiuso il capitolo del loro regno.
  Ma questo non accade, e Iezebel è ancora lì, più decisa che mai, e promette vendetta. Elia è frastornato, deluso da Dio più che spaventato da Iezebel, di cui conosceva bene la ferocia. Dopo che tutto il popolo aveva gridato "l'Eterno è Dio", rifiutando gli idoli portati nella nazione dalla pagana Iezebel, perché Dio le concede ancora spazio? Perché le concede di minacciare di morte un profeta che ha manifestato tutta la potenza autorevole di Dio? Non capisce il comportamento di Dio e non capisce più che cosa ci sta a fare ancora lui. Forse è stata qualche sua mossa sbagliata a non permettere la piena riuscita del piano di Dio, si chiede. E allora, per usare un linguaggio moderno, presenta a Dio le sue dimissioni da profeta. E poiché sa che il posto di profeta è un vitalizio, sa anche che rimettere la sua qualifica nelle mani di Dio non può che significare chiedergli di morire. E così fa.
  Ma Dio non accetta le sue dimissioni. E l'azione di recupero con cui provvede a liberare il suo avvilito servitore in preda a lugubri pensieri è di una delicatezza davvero sublime, letteralmente divina (1Re 19). Nessuno psicoterapeuta potrebbe imitarla, perché è una rivelazione di Dio su come Egli vuole trattare gli uomini, non un'istruzione agli uomini su come devono trattarsi fra di loro.
  Nel primo capitolo del libro che stiamo esaminando la parte di Israele è svolta da Giona e quella delle nazioni dai marinai. L'ebreo Giona è in collera con Dio, e "non lo vuole più vedere", quindi se ne va lontano dalla faccia dell'Eterno. Ma è possibile fare questo fisicamente? Risponde il re Davide:
    "Dove me ne andrò lontano dal tuo spirito? dove fuggirò dalla tua faccia? Se salgo in cielo tu vi sei; se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti lì. Se prendo le ali dell'alba e vado ad abitare all'estremità del mare, anche qui mi condurrà la tua mano, e la tua destra mi afferrerà" (Salmo 139:7-10).
Chi vive sulla terra non può certo sperare di fuggire fisicamente da un Dio che ha formato i cieli e la terra. Ma quello che Giona vuol fare nella realtà storica in cui si muove è allontanarsi corporalmente da ciò che ricorda la presenza di Dio in mezzo al suo popolo: il Tempio di Gerusalemme. Questo lo può fare, e lo fa. Giona vuole ricominciare da capo, vuole rifarsi una vita, lontano da tutto ciò che gli ricorda la presenza di un Dio che l'ha deluso. Tarsis per lui è un programma di vita, una nuova vita normale, in mezzo ad uomini comuni che hanno i comuni problemi di tutti. Si è imbarcato non solo per andare a Tarsis, ma per andare con loro a Tarsis. Sulla nave, e forse anche dopo, avrebbe fatto vita con loro, che certamente non mangiavano kosher. Ma che importa! Giona aveva nascosto la sua origine, non aveva detto di essere ebreo e certamente avrebbe voluto continuare così, perché su quella nave non dovevano esserci differenze: siamo tutti uomini, con gli stessi bisogni e gli stessi problemi. Bisogna reciprocamente aiutarsi, non dividersi per questioni religiose.
  Sulla nave certamente ciascuno aveva qualche divinità a cui rivolgere invocazioni e preghiere, e se questo serviva a vivere meglio la vita di tutti i giorni, perché mettersi a discutere su chi fosse il dio migliore? A Giona questo andava bene: viaggiare insieme agli altri, parlare di cose pratiche e lasciare che ognuno si tenesse stretto il suo dio in quel momento per lui era la cosa migliore. In discussioni religiose comunque non sarebbe entrato, ma avrebbe mantenuto un rispettoso silenzio. Altrimenti avrebbe dovuto contrastare l'idolatria dei religiosi pagani, ma nello stesso tempo avrebbe dovuto rivelare la situazione di rottura che in quel momento esisteva fra lui e Dio.
  In questo modo Giona pensava di aver arrangiato al meglio la sua convivenza sulla nave con i marinai pagani.
  E' a questo punto che interviene Dio. Come con l'avvilito servitore Elia, anche col corrucciato servitore Giona Dio non si presenta direttamente e con parole, ma indirettamente e con azioni. Al profeta depresso che nel deserto aveva chiesto di morire, Dio aveva mandato un angelo, che senza sbrodolarsi in dolci parole d'amore e comprensione, gli aveva dato un ordine secco: "Alzati, e mangia". Con Giona invece l'azione di Dio è ancora più decisa:
    "L'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi".
Nelle traduzioni di solito si trova scritto che Dio scatenò un grande vento (tranne la vecchia Diodati che traduce lanciò) ma qui abbiamo scelto una traduzione più letterale perché il verbo serve meglio ad esprimere un movimento dall'alto verso il basso; inoltre è lo stesso verbo che viene usato per dire che i marinai gettarono a mare le mercanzie.
  Sulla nave non si fanno dispute religiose, ma l'incursione dall'Alto li obbliga a porsi il problema di Dio da un'angolatura non teorica, ma pratica. I marinai a bordo sono professionalmente preparati, ma la tempesta è talmente forte che non riescono a padroneggiarla, e questo per loro poteva voler dire che da qualche parte c'era un dio adirato con qualcuno presente a bordo. Non si sa qual è il dio arrabbiato e non si sa con chi ce l'ha, ma proprio questo obbliga tutti a invocare il proprio dio affinché plachi la sua ira e venga in soccorso della nave che sta per affondare. E così fanno tutti. Tranne Giona. Ed è qui che viene fuori la differenza fra Israele e le nazioni. Giona sa chi è il vero Dio e sa anche che sulla nave l'elemento di disturbo è lui. Si capisce allora perché non ha voglia di andare pregare insieme agli altri. Per prima cosa, non può accettare che il Dio d'Israele sia mescolato ai tanti dei a cui si rivolgono gli idolatri marinai; seconda cosa, non può chiedere aiuto a un Dio con cui è in palese disaccordo e da cui si sta volontariamente allontanando. Era riuscito fino a quel momento ad evitare i discorsi religiosi, ma adesso che tutti si sono messi a invocare i loro dei, è difficile per lui giustificare ancora la sua reticenza. E allora "svicola": s'imbosca nella stiva della nave e lì, inspiegabilmente, s'addormenta.
  E' difficile capire perché Giona è preso dal sono in una circostanza così drammatica, ma se non sempre si riesce a dare precise spiegazioni, si possono almeno cercare. Nella Bibbia, naturalmente. Fa riflettere ancora una volta l'analogia tra i due profeti in fuga da Dio. Elia, dopo essersi inoltrato da solo nel deserto una giornata di cammino, si mise a sedere ed espresse a Dio il desiderio di morire, "poi si coricò e si addormentò" (1Re 19:5). Giona, dopo essere sceso da solo nel fondo della nave "si era coricato e dormiva profondamente". Che significa questo sonno in circostanze così prossime alla morte? Nei Vangeli si trova un fatto dello stesso tipo, sempre in prossimità della morte. Gesù prega nel Getsemani prima di essere arrestato; la sua anima "è oppressa da tristezza mortale" (Matteo 26:38); chiede a tre dei suoi discepoli di pregare e poi si allontana per pregare da solo; torna dai discepoli e "li trovò che dormivano perché gli occhi loro erano aggravati" (Matteo 26:43).
  Guardiamo come vengono interrotti questi sonni.
  Elia viene svegliato da un angelo che gli dice: "Alzati e mangia".
  Giona viene svegliato dal capitano della nave che gli dice: "Alzati e invoca il tuo Dio".
  I discepoli nel Getsemani vengono svegliati da Gesù che dice loro: "Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione" (Matteo 26:41).
  In tutti e tre i casi il fatto di addormentarsi è conseguenza passiva di un atteggiamento sbagliato dell'uomo e l'azione di risvegliare è espressione attiva di una volontà salvifica di Dio. Anche nel caso di Giona, il capitano che lo scuote è come un angelo che Dio usa per risvegliare il suo servo dal torpore in cui si era lasciato andare. Un morboso desiderio di morire simile a quello di Elia si era impadronito di Giona dopo lo scatenarsi del temporale e l'imminente affondamento della nave. Falliva il suo proposito di ricostruirsi una nuova vita a Tarsis e nello stesso vedeva abbattersi su di lui la giusta punizione del Dio d'Israele da cui aveva tentato di allontanarsi. Lo risvegliano le parole brusche del capitano: "Che fai tu qui a dormire?" Già, ci sono anche i marinai, si ricorda Giona. Questo complica il suo rapporto con Dio. Loro sono pagani, idolatri, ma in questa faccenda non c'entrano: sono innocenti, questa tempesta non arriva per colpa loro. E sente il capitano che gli dice: "Alzati", proprio come gli aveva detto Dio in Israele, e lo supplica di invocare il suo Dio, dunque il Dio d'Israele, perché - dice il capitano - "Forse Dio si ricorderà di noi, e noi non periremo".
  Adesso Giona è messo alle strette. Aveva voluto fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno che gli aveva detto: alzati, e va' dai pagani; e si ritrova davanti la faccia del pagano che gli dice: alzati, e prega il tuo Dio. L'Eterno ha ritrovato il fuggiasco Giona.
  Ci sa fare, il Dio d'Israele, creatore dei cieli e della terra. Ha senso cercare di nascondersi davanti a Lui, come ha fatto Adamo? o tentare di fuggire lontano da Lui, come ha fatto Giona?

- 4 -

  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo:
  2. "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia".
  3. Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie che erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Alzati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi si dissero l'un l'altro: "Venite, tiriamo a sorte, per sapere a causa di chi ci capita questa disgrazia". Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora gli dissero: "Dicci dunque a causa di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? da dove vieni? qual è il tuo paese? e a quale popolo appartieni?"
  9. Egli rispose loro: "Sono ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra".
  10. Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: "Perché hai fatto questo?" Poiché quegli uomini sapevano che egli fuggiva lontano dalla faccia dell'Eterno, perché lo aveva detto a loro.
  11. E allora gli dissero: "Che ti dobbiam fare affinché il mare per noi si calmi?" Il mare si faceva infatti sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: "Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare per voi si calmerà; perché io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia".
C'era anche Giona sulla nave che veleggiava da Giaffa verso Tarsis. La terra d'Israele si allontanava sempre più, ed era proprio quello che Giona voleva: fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno. Lontano da tutto quello che in qualche modo glielo ricordava: Gerusalemme, il Tempio, la Torà, i sacrifici. Era diventato ateo? aveva smesso di credere in Dio? o se pure un Dio doveva esserci, pensava forse di doverlo cercare tra quelli adorati dai pagani? No. Giona era stato vicino alla faccia dell'Eterno e proprio per questo adesso se ne allontanava: perché non lo capiva più. O se lo capiva, non gli riusciva di essere d'accordo con Lui.
  Prima di lui era già successo ad Elia, che come lui si era dato alla fuga. E prima ancora era successo a Giobbe, che però aveva reagito in modo diverso: non si era allontanato da Dio, come gli aveva suggerito la moglie, ma era rimasto lì, vicino a Dio, a litigare con Lui, con una furia che cresceva quanto più il suo "Avversario" non gli rispondeva.
  Un giovane cresciuto in una famiglia di evangelici un giorno ha detto in pubblico che lui non pregava più perché tanto - ha spiegato - non sembra che Dio tenga conto di quello che gli chiede, e in ogni caso "fa sempre come gli pare". Tanto vale quindi - non l'ha detto, ma se ne potrebbe dedurre - organizzarsi la vita per conto proprio senza starsi a preoccupare di quello che ne pensa Dio. Non è detto che abbia smesso di credere in Dio, ma a un certo punto ha deciso di smettere di pensarci. Cioè si è allontanato da Lui.
  Nei casi di Giona, Elia e Giobbe c'è un elemento che li accomuna nel disaccordo con Dio: la giustizia. E' un termine che oggi ha un suono quasi lugubre, ma che tuttavia ogni tanto viene ancora usato: "Non vogliamo vendetta, ma solo giustizia", si dice qualche volta, e questo significa una cosa ben precisa: punizione. Senza punizione in certi casi non c'è giustizia.
  Giobbe non capisce un Dio che punisce lui che non se lo merita, mentre Elia e Giona non capiscono un Dio che non punisce chi se lo merita. Per ognuno dei tre casi la cosa si presenta come una questione di vita o di morte. Giobbe non vuole morire, Elia lo desidera, Giona vuole vivere, ma non come prima. Cerca di ottenerlo con la fuga: vuole riprendere in mano la sua vita; e questo significa rompere con la vita di prima, andare lontano dalla faccia dell'Eterno. E' con questo pensiero che decide d'imbarcarsi.
  Una volta sulla nave, il dado è tratto. Giona si trova sul mare dei gentili, staccato dalla terra degli ebrei. La sua vita ora è nelle mani di quei marinai pagani che conoscono il mare e sanno come governare le forze della natura a loro vantaggio. Sanno come dev'essere fatta una nave per poter galleggiare e sanno come sfruttare i venti per condurla dove vogliono. E' contento Giona di essersi imbarcato con loro e di andare con loro a Tarsis. Tarsis sarà per lui il nuovo che desidera: un nuovo che per essere davvero nuovo dev'essere diverso. La vicinanza con Dio gli aveva fatto conoscere qualcosa di grande, ma adesso tutto era diventato troppo grande per lui. Il compito che Dio gli ha affidato gli appare troppo pesante; non lo capisce; non è d'accordo. E quindi lo rifiuta. Anche lui avrà ragionato come Elia: se il compito che Dio vuole da me è davvero tanto importante e io non riesco a comprenderlo, allora troverà qualcuno più adatto di me.
  Ed è qui che Giona sbaglia. Non ha tenuto in conto la capacità che ha Dio di resistere alla resistenza dei suoi servitori e insistere nel portare avanti il suo progetto senza rinunciare ai suoi servitori che gli vogliono resistere. A portare l'annuncio ai pagani assiri dovrà andarci Giona, e Dio si servirà della sua resistenza per far arrivare la conoscenza di Sè anche ad altri pagani.
  Sulla nave Giona avrebbe voluto cominciare la sua vita "laica" in mezzo ai marinai pagani evitando di sollevare la questione su Dio. Succede facilmente ai religiosi quando sono in fuga dalla loro religione: non ne vogliono più parlare, né della loro né di quella degli altri. Giona aveva scelto la linea del riserbo: dire poco di sé, evitare discorsi sulle divinità, restare a bordo come un anonimo passeggero.
  Ma questo educato equilibrio viene improvvisamente rotto da un preciso intervento di Dio che getta sul mare un forte vento. Come conseguenza si abbatte sul mare una tremenda tempesta, e in mezzo al mare la nave minaccia di sfasciarsi. E' in gioco la vita di tutti, ed è notevole il movimento del "gettito" dall'alto in basso. Dio getta (טול) il vento sul mare; i marinai gettano (טול) in mare le merci per non affondare, pregando ciascuno il suo dio; e alla fine avverrà che per salvarsi i marinai dovranno gettare (טול) in mare l'unico a bordo che non prega il suo Dio: Giona E solo così il problema sarà risolto.
  Ma andiamo con ordine. La prima cosa che Dio ottiene gettando sul mare un forte vento è che Giona è costretto ad uscire dal suo anonimato. Quando il capitano gli chiede di invocare "il suo Dio", lui non risponde, anche perché così si sarebbe scoperto. I marinai allora decidono di tirare a sorte "per sapere a causa di chi ci capita questa disgrazia". Tirano a sorte, e la sorte cade su Giona". Sono pagani, quei marinai, e non si sa a quali divinità pensavano tirando a sorte, ma il fatto è che a rispondere è proprio l'Eterno, il Dio d'Israele. Loro pensavano che se qualcuno ha fatto arrabbiare il suo dio, sarà proprio questo dio ad indicare chi è che l'ha offeso. E così ha fatto l'Eterno: ha risposto chiaro e tondo che il responsabile è lui, Giona, il passeggero salito a Giaffa. Il capitano allora va da lui e gli chiede bruscamente: che lavoro fai? da dove vieni? da quale paese? da quale nazione? E se chiede queste cose è perché evidentemente a bordo non le sapevano: Giona se le era tenute accuratamente per sé.
  E' a questo punto che la storia coinvolge Israele e le nazioni sotto la sovranità di Dio. Giona, il servo di Dio, è colto in fallo dal suo Signore. L'unico sulla nave che conosce Dio e sa perché capita addosso a tutti loro "questa disgrazia" viene svergognato davanti chi non conosce ancora Dio. Così il tentativo di Giona di allontanarsi da quel Dio che su quella nave solo lui conosce ha come risultato di far avvicinare a Dio i marinai della nave che ancora non Lo conoscevano. Sono le vie di Dio.
    "I miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice l'Eterno. Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri" (Isaia, 55:8-9).
Ma torniamo sulla nave. Giona non si nasconde più. Qui sta la sua grandezza: è onesto. Sa che non può più traccheggiare e non lo fa. Nella sua scarna dichiarazione dice tre cose fondamentali:
  1. "Io sono ebreo". E' l'unica volta nella Bibbia che si riporta una dichiarazione così netta, e si sa che nella storia questa frase qualcuno l'ha ripetuta prima di essere ucciso.
  2. "Temo l'Eterno". Giona è in fuga da Dio, ma a differenza dei marinai conosce Colui da cui vuole fuggire, e in cuor suo avverte che al centro di tutta la storia c'è il rapporto fra Dio e lui. Dio non si disinteressa di lui; e lui, Giona, non riesce a disinteressarsi di Dio. Voleva fuggire lontano, dimenticare, ma si accorge che Dio non lo dimentica. E allora ammette che anche lui non riesce a dimenticarlo: "temo l'Eterno", dice agli ignari marinai. Non è un'espressione di paura, ma piuttosto di timorosa soggezione davanti a un Dio che manifesta un carattere che Giona forse avrebbe voluto vedere maggiormente in Lui: la giustizia. Lo si capirà da quello che dirà in seguito ai marinai.
  3. "L'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra". Il capitano aveva invitato Giona a chiedere anche lui al "suo dio" di fare qualcosa per opporsi alla furia del mare. Giona gli fa sapere che l'Iddio del cielo", che lui teme, ha fatto il mare e la terra, quindi non c'è autorità superiore alla sua. E forse avrà fatto anche capire ai marinai che se loro chiedono a lui di invocare il suo Dio, lui chiede a loro di smettere di invocare i loro dei, perché la cosa certamente disturba l'unico "Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra".
  Dopo di che spiega agli attoniti marinai che il suo semplice stare a bordo della loro nave è una conseguenza del suo fuggire lontano dalla faccia del'Eterno. Si direbbe che in quell'occasione il Signore abbia dato alla parola del suo servo un'eccezionale autorità, perché i marinai non solo sono convinti, ma addirittura spaventati. Con l'accoglienza a bordo del fuggiasco possono essere considerati complici della trasgressione di Giona. E' proprio a lui allora che si rivolgono con apprensione chiedendo: "che ti dobbiamo fare affinché il mare per noi si calmi?" perché "il mare si faceva infatti sempre più tempestoso", come se quella confessione avesse reso Dio ancora più infuriato. Non dicono "affinché il mare si calmi", ma "affinché il mare per noi si calmi". Che è come dire: se Dio ce l'ha con te, noi che c'entriamo? Per questo avevano chiesto "che ti dobbiamo fare?", cioè in che modo dobbiamo punirti per distinguere le nostre responsabilità dalle tue?
  Giona si ritrova incastrato in un modo davvero magistrale, da potersi dire addirittura "diabolico", se si dà per assodato che il diavolo è un imitatore di Dio. Nella nostra presunzione di uomini illuminati facciamo fatica ad accettare che Dio abbia delle vie diverse dalle nostre, ed è per questo che poi cadiamo nelle trappole delle vie del diavolo, che metodologicamente è un attento osservatore e imitatore delle vie di Dio.
  In disaccordo con Dio per il modo in cui esercita la giustizia verso i pagani, Giona si era imbarcato su una nave di pagani, per andare con loro in una città pagana, e lì cominciare una nuova vita lontano dalla faccia dell'Eterno. A bordo aveva cercato di mantenere un buon clima di amicizia lasciando da parte ogni riferimento all'Eterno, che i pagani non conoscevano e di cui lui non voleva parlare. E adesso si ritrova a dover parlare di Dio ai pagani; e questi, venuti a conoscenza di chi è Giona e dei suoi rapporti con Dio, per non essere incolpati da Colui che adesso riconoscono anche loro come "l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra", capiscono di dover prendere le distanze da Giona. E così chiedono proprio a lui, che conosce da tempo quel Dio che loro hanno conosciuto soltanto adesso, che cosa devono fare per attenersi alla volontà dell'Eterno.
  L'elevato senso di giustizia di Giona lo costringe a dare l'unica indicazione che gli appare possibile: devono sbarazzarsi di lui. Lui sa qual è la causa di quella tempesta, e l'ha capito subito, a differenza dei marinai. Per questo non è andato con loro a pregare: loro invocavano divinità che non esistono, o tiravano alla cieca sperando che qualcuno sentisse, ma lui era l'unico a sapere chi si sarebbe dovuto invocare, ed era l'unico che in quel momento avrebbe potuto farlo. Ma non l'ha fatto. E' in gabbia. Ci si è messo da solo. Senza volerlo, naturalmente, come accade a tutti quelli che poi finiscono in gabbia.
  Quando si è in torto con Dio, c'è sempre una prima cosa da fare: riconoscere il fatto. Ai marinai dice chiaramente: "io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia". Loro non lo sapevano, perché non conoscevano l'Eterno, lui invece lo sa, perché è ebreo. E da lui vengono a saperlo anche i marinai pagani, che adesso vorrebbero agire in modo conforme alla volontà di Dio, ma non sanno cosa fare. Giona invece lo sa. Allora i marinai lo interrogano, e si può immaginare l'ansietà con cui aspettano la risposta. Forse adesso - pensano - si deciderà, lui che è ebreo, a chiedere al suo Dio di far cessare la tempesta; così sarà esaudito e la nave non affonderà. No, Giona resta fermo: lui non prega. Riconosce il fatto, ma non si pente. Non vuole parlare con Dio; continua a voler rimanere lontano dalla faccia dell'Eterno. E tuttavia Lo conosce.
  Il nodo intorno a cui si avvolge il problema è sempre quello della giustizia. Giona sa che se i marinai di quella nave finiranno in fondo al mare, la colpa è sua, soltanto sua, perché senza la sua presenza a bordo quella tempesta orribile non ci sarebbe stata. Quindi, per non condividere la responsabilità di Giona e lasciare che la giustizia segua il suo corso senza essere suoi complici, i marinai devono fare una cosa sola: gettarlo in mare. In questo modo manifesteranno disapprovazione per il comportamento di Giona e prenderanno posizione davanti a Dio. E per rassicurare i marinai sulla loro sorte, Giona aggiunge qualcosa di più: "gettate me in mare, e il mare per voi si calmerà".
  Ma sarà proprio così? Si saranno chiesti i marinai. Probabilmente non ne erano del tutto sicuri. Giona però conosce l'Eterno da tempo, anche se adesso è in rotta con lui; ed è sicuro che non lo smentirà davanti ai marinai. E sarà così. Ma prima di farne l'esperienza diretta, i marinai dovranno penare ancora un po' nel tentativo di adattare la via di Dio ai loro pensieri.

- 5 -

  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona, figlio di Amittai, dicendo:
  2. "Alzati, va' a Ninive, la gran città, e grida contro di lei, perché la loro malvagità è salita alla mia faccia".
  3. Ma Giona si alzò per fuggire a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; pagò il prezzo e s'imbarcò per andare con loro a Tarsis, lontano dalla faccia dell'Eterno.
  4. Ma l'Eterno gettò un grande vento sul mare, e vi fu sul mare una grande tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
  5. I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie che erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
  6. Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Alzati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
  7. Poi si dissero l'un l'altro: "Venite, tiriamo a sorte, per sapere a causa di chi ci capita questa disgrazia". Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
  8. Allora gli dissero: "Dicci dunque a causa di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? da dove vieni? qual è il tuo paese? e a quale popolo appartieni?"
  9. Egli rispose loro: "Sono ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra asciutta".
  10. Allora quegli uomini furono presi da una grande paura, e gli dissero: "Perché hai fatto questo?" Poiché quegli uomini sapevano che egli fuggiva lontano dalla faccia dell'Eterno, perché lo aveva detto a loro.
  11. E allora gli dissero: "Che ti dobbiamo fare affinché il mare per noi si calmi?" Il mare si faceva infatti sempre più tempestoso.
  12. Egli rispose loro: "Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare per voi si calmerà; perché io so che questa gran tempesta vi piomba addosso per causa mia"
  13. Ma quegli uomini ci davano dentro per raggiungere la terra asciutta; ma non ci riuscivano, perché il mare diventava sempre più tempestoso contro di loro.
  14. Allora gridarono all'Eterno e dissero: 'Deh, Eterno, non lasciare che periamo per la vita di quest'uomo, e non imputarci il sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quello che hai voluto".
  15. Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
  16. E quegli uomini furono presi da una grande paura dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Sulla nave i marinai avevano ascoltato con attenzione il racconto della fuga di Giona, e ne erano rimasti molto impauriti. Nello svolgersi di questa scena tutto è grande. Dio getta sul mare un grande vento (v.4); sul mare si scatena allora una grande tempesta (v.4); i marinai sono presi da una grande paura ascoltando il racconto di Giona (v.10); e alla fine sono "presi da una grande paura dell'Eterno".
  La grandezza di tutta la scena comincia col gesto di Dio che getta sul mare il vento e termina col gesto dei marinai che offrono un sacrificio a Dio. E il tutto si svolge in un'atmosfera in cui domina la paura. I marinai cominciano ad aver paura della tempesta; poi sono "presi da grande paura" quando ascoltano parlare dell'Iddio del cielo da Giona; poi sono di nuovo "presi da grande paura" quando sperimentano l'azione di Dio che calma improvvisamente il mare da cui erano sballottati. Proprio come Giona aveva detto loro.
  Ma in quel momento per loro Giona non ci sarà più.
  Le particolarità ritmiche nei racconti biblici hanno quasi sempre un senso che deve essere ricercato con un'osservazione attenta e rispettosa della forma. Il termine originale che nei tre versetti 5, 10 e 16 abbiamo sempre tradotto letteralmente con paura, nella Nuova Riveduta è tradotta in tre modi diversi: paura, spavento, timore. Si dirà che in questo modo si rende meglio il significato all'interno della frase in italiano, ma si rende peggio il senso ritmico che svolge l'uso ripetuto della medesima parola all'interno di tutto il racconto. E questo ha un significato.
  Tornando ai marinai, li ritroviamo perplessi dopo la risposta di Giona alla domanda: che ti dobbiamo fare? In sostanza, il fuggiasco aveva detto loro: "dovete uccidermi!" Gettarlo in mare infatti non significa altro che ucciderlo. I marinai non lo fanno. Perché? Lo faranno dopo, ma perché non l'hanno fatto subito? Che cos'è che li ha trattenuti?
  Uno dei marinai avrebbe potuto dire: Beh, se proprio deve mettere a posto i rapporti col suo dio, perché non ci si butta da solo in mare? Perché dobbiamo farlo noi?
  Un altro avrebbe potuto replicare: E tu avresti lasciato che si buttasse in mare? Ma che dio è quello che ordina a un uomo di uccidersi per calmare la sua ira. Ha detto che poi il mare si calmerà, ma come facciamo a esserne sicuri? Sarà stata disperazione in cui è sprofondato, quel disprezzo di sé che coglie quando ci si sente indegni. Ma noi dobbiamo opporci a questo suo istinto autodistruttivo; e se necessario, essere anche più buoni del suo dio. Che a dire il vero adesso mi sembra anche un po' strano. Dobbiamo vincolarci tutti a un impegno ben preciso: o tutti o nessuno. L'ospite è sacro, e lui è nostro ospite, anche se ci rimborsa le spese.
  Un altro dei marinai più esperti avrebbe forse cominciato a dire che secondo lui, stando ai suoi calcoli, il picco della tempesta era già stato raggiunto, e che se avessero saputo resistere ancora un po', probabilmente il mare si sarebbe calmato da solo. Senza bisogno - avrebbe detto - di stare a sentire le parole di Giona e del suo dio, e quindi senza commettere un immotivato omicidio, di cui poi forse dovremo rendere conto davanti a qualche dio più buono di quello di Giona. In fondo lui non ci ha fatto niente, perché dovremmo ucciderlo?
  I marinai alla fine si convinsero a non dare retta alle parole di Giona e ripresero a "darci dentro" (chatar) per raggiungere "la terra asciutta". Le traduzioni italiane del verbo chatar sono diverse: remavano con forza, cercavano a forza di remi, davano forte nei remi. Sono tentativi di rendere il senso di un verbo che solo qui ha questo significato, e in ogni caso non fa riferimento esplicito ai remi. Nel libro di Ezechiele viene usato quattro volte (8:8; 12:5,7,12) con il significato di "fare un foro", e precisamente in un "muro"; e anche negli altri casi ha il senso di uno sfondamento per passare da una parte a un'altra, quasi sempre per sfuggire a un pericolo.
  Questo fa capire la forza disperata con cui i marinai lottavano cercando di "forare il muro" della tempesta per uscire dal mare nemico e raggiungere... la "terra asciutta". In realtà il testo parla soltanto di "asciutto", e certamente intende la terra, ma in un senso salvifico, in contrapposizione alla mortifere acque del mare.
    Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo siano raccolte in un unico luogo e appaia l'asciutto». E così fu. Dio chiamò l'asciutto «terra», e chiamò la raccolta delle acque «mari» (Genesi 1:9, 10).
    I figli d'Israele invece camminarono sull'asciutto in mezzo al mare, e le acque formavano come un muro alla loro destra e alla loro sinistra (Esodo 14:29).
    Egli cambiò il mare in terra asciutta; il popolo passò il fiume a piedi; perciò esultiamo in lui (Salmo 66:6).
Su quella nave in viaggio da Giaffa a Tarsis si svolge dunque una scena epica in cui compaiono i tre protagonisti fondamentali della Bibbia: Dio, Israele e le nazioni. Israele è rappresentato da Giona, le nazioni dai marinai e Dio... dal mare. Giona si trova in conflitto con Dio, e anche i marinai sono in conflitto con Lui , perché lottano contro il mare. E' Dio infatti che agita il mare con il vento che vi ha gettato sopra, e il suo servitore Giona ha fatto sapere ai marinai che cosa avrebbero dovuto fare affinché il suo Dio ordinasse al mare di calmarsi. Ma loro, invece di credere a quella parola di Dio arrivata attraverso Giona, si affidano al loro umano senso di giustizia e si rifiutano, in un primo momento, di osservarla. Decidono di tentare tutto il possibile con le loro forze per raggiungere la terra asciutta, che per loro significa salvezza... "ma non ci riuscivano, perché il mare diventava sempre più tempestoso contro di loro".
  Tradurre quel "contro di loro" con un generico "minaccioso", come fanno le due Rivedute evangeliche, è fuorviante. Il mare si sarebbe calmato per loro, aveva detto Giona ai marinai, ma loro non gli danno retta e aumentano i loro sforzi per "forare il muro" della tempesta con le proprie forze. Il mare allora cresce in tempestosità e si mette contro di loro. E' Dio che fa la voce grossa.
  All'inizio della storia, quando quei marinai pagani avevano visto che non c'era più nulla da fare, sta scritto che "ognuno gridò al suo dio" (v.5), ma la presenza a bordo di quel fuggiasco ebreo ha fatto cambiare le cose e alla fine tutti "gridarono all'Eterno" (v.14), cioè all'Iddio del cielo di cui aveva parlato Giona.
  E sia pure con titubanza, si sottomettono tutti a quella parola, scaricandosi in un certo qual modo del peso dovuto a un atto che appariva essere un omicidio: "Perché tu, o Eterno, hai fatto quello che hai voluto". In altre parole: se lo buttiamo giù la colpa è Tua. E Dio non si offende, perché le cose stavano effettivamente così. Era proprio questo, ciò che Dio aveva voluto.
  Ma perché Dio ha voluto questo? Cerchiamo di capirlo con una lettura teocentrica della Bibbia, cioè esaminando il modo di agire di Dio, prima di osservare qual è la reazione degli uomini. Giona conosce il Signore, lo teme, il che nel linguaggio biblico è come dire che lo ama. Si è trovato in disaccordo con Dio per il modo in cui avrebbe voluto trattare quelli che secondo lui sono avversari da combattere. Ma è proprio a lui che Dio chiede di andare dai pagani assiri a consegnare loro una sorta di formale intimidazione. Avrebbe dovuto essere contento: andare a "gridare a loro" in faccia quanto sono malvagi. E quanto il Dio d'Israele è arrabbiato contro di loro per come si comportano. Giona però vi vede una provocazione: teme che invece di colpire subito i malvagi Niniviti, come secondo lui bisognava fare, Dio con questo avvertimento voglia dare a quei pagani la possibilità di essere perdonati. E non si sbaglia, cosa che conferma la sua intima conoscenza di Dio.
  Giona però non ci sta. E fugge. Decide di allontantarsi dal suo Dio mettendosi in mare su una nave pagana. Forse pensava di far trovare Dio davanti al fatto compiuto e di convincerlo, in questo modo, a lasciarlo andare senza pensare più a lui. Ma si sbaglia. Forse il pensiero di Dio su Giona poteva essere questo: tu adesso stai su una nave che si trova sopra il mare; e ti vuoi allontanare da me; e non mi parli. Io allora ti farò scendere da sopra il mare; ti porterò in fondo al mare; e lì ti ritroverò. E da lì potremo riprendere il colloquio interrotto.
  Ai marinai pagani, partecipanti involontari di questa contesa, avviene qualcosa di spaventoso. Scaricano in mare Giona... e di botto il mare si calma. Perché spaventoso? Avrebbero dovuto abbracciarsi tutti e piangere di gioia, come avviene sempre tra gli uomini in questi casi. Ma i marinai sentono di partecipare a qualcosa che non è soltanto "fra di loro". Avvertono la vicinanza di Qualcuno che prima non conoscevano: quell'Iddio del cielo che ha fatto il mare e la terra asciutta di cui aveva parlato loro l'ebreo Giona. E quei marinai pagani, che prima invocavano le loro demoniache divinità, adesso "offrono un sacrificio all'Eterno, e fanno dei voti". Giona, servitore di Dio in fuga, alla fine è stato costretto a compiere, suo malgrado, uno dei servizi che il Signore aveva pensato per lui.

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A bordo di quella nave pagana che veleggiava da Giaffa a Tarsis c'era un solo ebreo. E l'hanno buttato a mare. Detta così, la cosa può far nascere pensieri malevoli; e tuttavia può essere il punto di partenza di riflessioni inusuali.
   Perché l'hanno fatto? Non ci sono ragioni tecniche: avevano già scaricato in mare molti oggetti per tentare di salvarsi, e non avrebbero certo migliorato le cose alleggerendosi del peso di Giona. Non ci sono ragioni di odio, tutt'altro. Quegli ammirevoli marinai volevano salvare tutti, anche l'ebreo in mezzo a loro che aveva espresso intenzioni suicide. Quell'ebreo però non era un depresso stanco della vita che aveva bisogno di ricevere conforto da persone decise e vogliose di vivere; su quella nave Giona era un'autorità: lui sapeva che cosa si doveva fare e preannunciava quello che sarebbe accaduto. Da dove proveniva quell'autorità? Dal fatto di essere un ebreo che conosceva "l'Iddio del cielo che ha fatto il mare e la terra asciutta".
   In un primo momento quei marinai pagani non gli avevano creduto, e opponendosi alle sue parole avevano reso minaccioso contro di loro quel Dio di cui Giona aveva parlato. Ma alla fine, giunti all'estremo limite delle loro forze, avevano fatto due cose fondamentali: avevano innalzato una preghiera a Dio chiedendogli di salvarli; e avevano ubbidito alla parola di Dio buttando Giona in mare.
   E dopo tutto questo che succede? Ai marinai resta la visione di un Giona che scompare nei flutti del mare. Forse vedono il pesce che lo inghiotte, o forse no. Ma in ogni caso Giona per loro è un capitolo chiuso.
   Rimane aperto invece il capitolo che avevano appena iniziato con Dio. Non Lo vedono, ma quel mare tremendamente calmo intorno al loro, insieme al ricordo di un mare infuriato che poco prima, con devastanti ondate sospinte da un vento irresistibile si era accanito contro la nave come se volesse a tutti i costi farla affondare, per loro adesso significa avvertire personalmente la presenza di un Dio che fino a quel momento era a loro sconosciuto. La maestosa calma di quel mare li riempie di "un grande timore dell'Eterno" (1.16). E fanno altre due cose fondamentali: adorano l'Eterno offrendogli per la prima volta un sacrificio; e prendono impegni di ubbidienza a un Dio che da quel momento in poi non sparirà più dalla loro vita. Ed è il vero Dio che sono arrivati a conoscere nel rapporto avuto con l'ebreo Giona.
   Quanto a Giona, nel tragitto che l'ha portato dalle braccia dei marinai alla superficie del mare avrà pensato che per lui non c'era più storia. Ma si sbagliava.
  Dal capitolo 2:
  1. L'Eterno preparò un gran pesce per inghiottire Giona; e Giona fu nel ventre del pesce tre giorni e tre notti
  1. E l'Eterno diede un ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sull'asciutto .
   Di questo secondo capitolo del libro vogliamo per ora sottolineare soltanto l'aspetto che presenta Dio in azione. Non dobbiamo dimenticare infatti che la Bibbia è in primo luogo un libro di storia. A dire il vero, è l'unico vero autentico libro di storia, perché è il racconto delle operazioni che Dio ha compiuto fra gli uomini dopo aver creato i cieli e la terra, insieme alle risposte che gli uomini hanno dato alle Sue azioni.
   Nella prima parte del libro di Giona le operazioni si susseguono così: Dio agisce dando un ordine a Giona; Giona reagisce non eseguendo l'ordine e fuggendo sul mare; Dio agisce gettando sul mare il vento e provocando la tempesta; Giona reagisce chiedendo ai marinai di gettarlo in mare, cosa che questi fanno.
   Dopo di che Dio rientra in azione risolvendo la cosa a modo suo. Visto che il servo Giona per non ubbidire al suo ordine aveva lasciato la terra e si era messo in mare, Dio ordina a un altro suo servo che si trova in mare, il pesce, di andare a riprendere il servo Giona e di riportarlo a terra. Compito che il servo pesce esegue diligentemente.
   A questo punto Giona si ritrova a fare i conti con quel Dio da cui voleva fuggire, anche se lo temeva e lo amava. Certamente, nei giorni trascorsi in fondo al mare nel ventre di quel pesce è accaduto qualcosa di nuovo nel rapporto fra Dio e Giona. Ma per ora esaminiamone soltanto le conseguenze.
   Dal capitolo 3:
  1. E la parola dell'Eterno fu su Giona per la seconda volta, dicendo:
  2. 'Alzati, va' a Ninive, la gran città, e proclamale quello che io ti comando'.
  3. E Giona si alzò, e andò a Ninive, secondo la parola dell'Eterno. Or Ninive era una grande città dinanzi a Dio, di tre giornate di cammino.
  4. E Giona cominciò a inoltrarsi nella città per il cammino d'una giornata, e predicava e diceva: 'Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta!'
  5. E i Niniviti credettero a Dio, bandirono un digiuno, e si vestirono di sacchi, dai più grandi ai più piccoli.
  6. Ed essendo la notizia giunta al re di Ninive, questi s'alzò dal trono, si tolse di dosso il manto, si coprì d'un sacco, e si mise a sedere sulla cenere.
  7. E per decreto del re e dei suoi grandi, fu pubblicato in Ninive un bando di questo tenore: 'Uomini e bestie, armenti e greggi, non assaggino nulla; non si pascano e non bevano acqua;
  8. uomini e bestie si coprano di sacchi e gridino con forza a Dio; e ognuno si converta dalla sua via malvagia, e dalla violenza perpetrata dalle sue mani.
  9. Chi sa che Dio non si volga, non si penta, e non acqueti l'ardente sua ira, sì che noi non periamo'. 1
  10. E Dio vide quel che facevano, vide che si convertivano dalla loro via malvagia, e si pentì del male che avea parlato di far loro: e non lo fece.
La successiva operazione di Dio dopo aver ripreso il fuggiasco consiste nella ripetizione dell'ordine iniziale con qualche aggiunta. Se la prima volta Dio aveva dato a Giona l'ordine generico di gridare contro la città di Ninive, la seconda volta diventa più preciso e gli impone di proclamarle quello che Dio gli comanda. Giona svolge diligentemente il suo compito e proclama le parole di Dio che consistono nella semplice comunicazione di un fatto: "Tra quaranta giorni Ninive sarà distrutta".
  Non suonano strane queste parole trasmesse da Giona per ordine di Dio? Non c'è nessun invito al pentimento; non c'è nessuna promessa di perdono. Qualcuno potrebbe pensare che Dio abbia voluto venire incontro a Giona, e che per convincere il severo fustigatore di costumi ad andare a Ninive abbia voluto incoraggiarlo dicendogli che non avrebbe dovuto parlare di comprensione e perdono, ma soltanto di un prossimo castigo. E tutto fa pensare che il lavoro svolto da Giona fu di un'efficacia tremenda, perché riuscì a terrorizzarli tutti. Ma era appunto questo il suo compito: spargere il terrore; che è una delle cose che il Dio di Abraamo e il Terrore di Isacco" (Genesi 31:42,53) si riserva di fare e in certi casi effettivamente ha fatto, affidandone l'esecuzione al suo popolo o a qualche suo servo.
    Oggi comincerò a ispirare paura e terrore di te ai popoli che sono sotto il cielo intero, sì che, all'udire la tua fama, tremeranno e saranno presi d'angoscia dinanzi a te (Deuteronomio 2:25).
    Nessuno vi potrà resistere; l'Eterno, il vostro Dio, come vi ha detto, spanderà la paura e il terrore di voi per tutto il paese dove camminerete (Deuteronomio 11:25).
Nei marinai pagani prima e nei Niniviti poi, la vicinanza di Dio espressa dalla presenza in mezzo a loro del servitore ebreo Giona provoca come prima cosa il terrore. Dio agisce sul mare, e la tempesta terrorizza i marinai; Dio agisce su Giona, e le sue parole terrorizzano i Niniviti. E in entrambi i casi alla fine i terrorizzati sono benedetti. Si direbbe che la cura di Dio funziona. Certo, non è imitabile. Gli psicoterapeuti infatti non ci provano nemmeno. O forse sì, quando in assenza di un confronto con Dio arrivano a credersi saggi. Per la rovina di coloro che si affidano alle loro cure:
    I saggi saranno confusi, sconcertati e presi al laccio. Hanno rigettato la parola del Signore, quale sapienza possono avere? (Geremia 8:9).
Come predicazione fatta nel nome di Dio per raggiungere i peccatori, quella di Giona è davvero eccezionale. Non si è mai visto un predicatore che annuncia il giudizio di Dio sui peccatori non per indurli a pentirsi, ma sperando che questi non lo facciano. Ma di questo parleremo più avanti.
   Per ora si può notare il fatto che l'annuncio non contiene una sottolineatura esplicita delle forme di malvagità dei Niniviti, ma che è proprio la vicinanza di Dio espressa dalle parole autorevoli di Giona a provocare in loro la coscienza della loro malvagità. Il re di Ninive parla infatti, senza che Giona glielo suggerisca, di via malvagia e di violenza perpetrata dalle sue mani (3:8). Ed è in questa terribile consapevolezza che "i Niniviti credettero a Dio" (3:5), cioè arrivarono a credere che il Dio annunciato da Giona era il vero, unico Dio; e che aveva tutti i motivi per essere arrabbiato contro loro (v.3:9). E in tutto questo sentono pendere su di loro il peso di una sentenza già pronunciata: "Fra quaranta giorni Ninive sarà distrutta". Giona, si può esserne certi, non li aveva rassicurati: non si era speso in promesse dicendo che Dio avrebbe potuto cambiare idea se si fossero pentiti. Al re di Ninive allora non resta altro che esortare ogni cittadino a convertirsi (שוב) dalla sua via, nella speranza (senza averne la certezza) che in questo modo Dio arriverà a convertirsi dalla sua decisione.
   Dice infatti il testo:
    "Chi sa che Dio non si volga, non si penta (שוב), e non acqueti l'ardente sua ira, sì che noi non periamo" (3:9).
E il verbo שוב, tradotto purtroppo in due modi diversi a seconda del soggetto, è sempre lo stesso. Anche qui incontriamo un'altra particolarità: non è Dio che con la sua parola cerca di convertire l'uomo, ma è l'uomo che con la sua azione cerca di convertire Dio. E sappiamo che in questo caso ci riesce.
   Ma non è la prima volta. Ci era già riuscito Mosè sul Sinai, non con azioni, ma con parole. Anche lì si trovano gli stessi termini usati qui: si parla di un'ardente ira di Dio, di un invito al pentimento da parte di Mosè, e alla fine arriva la conclusione: "E l'Eterno si pentì" (Esodo 32: 7-14)
  Sarà forse proprio questa "conversione" di Dio ad indurre qualcuno, ebreo o non ebreo, a reagire come Giona e a dire: no, non sono d'accordo, non mi piace un Dio che cambia idea. Ma il libro di Giona, come tutta la Scrittura, non è in primo luogo ammaestramento morale, ma rivelazione che Dio fa di Sé. E quando questa rivelazione si avvicina all'uomo, i risultati sono quasi sempre imprevedibili.

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Capitolo 4
  1. Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
  2. 'O Eterno, non è forse questo che io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò mi affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
  3. Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me è meglio morire che vivere'.
  4. E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
  5. Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che sarebbe successo alla città.
  6. E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che salì al di sopra di Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grande gioia a causa di quel ricino.
  7. Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
  8. E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, che si sentì venir meno e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
  9. E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così per il ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi. fino alla morte'.
  10. E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
  11. e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Dopo aver svolto il suo compito di predicatore annunciando la Parola di Dio ai pagani peccatori, Giona si ferma a pregare. In una versione edificante del racconto si sarebbe letto che Giona confessa al Signore la sua iniziale disubbidienza, Lo ringrazia per averlo scampato da sicura morte in mare e innalza a Lui un inno di lode per l'efficacia della Sua parola che ha indotto i peccatori a ravvedersi dalla loro malvagità. Nulla di tutto questo. Nella sua preghiera Giona manifesta anzitutto un gran dispiacere per il mancato avveramento della sua profezia e non nasconde la sua irritazione per l'incomprensibile comportamento di Dio, che dopo averlo ripescato in mare lo spedisce a migliaia di chilometri di distanza dalla costa, lo fa camminare per tre giorni nell'immensa Ninive ordinandogli di dire a tutti che entro quaranta giorni la città sarà distrutta, per vedere poi, alla fine, che Dio ci ripensa e perdona tutti.
  Possiamo immaginare un Giona che dice al Signore: 'se vuoi fare del bene a tutti, allora fallo anche a me e toglimi la vita, perché per me, stando così le cose, è meglio morire che vivere'.
  Che avrebbe dovuto fare Dio a questo punto? Provando a rispondere come se non sapessi quello che avviene dopo, mi sorprendo a ragionare come Giona. Ma a parti invertite. L'ebreo Giona si irrita con Dio perché è troppo buono coi gentili; e io, gentile, mi sento un po' irritato con Dio perché mi sembra troppo buono con l'ebreo Giona. A me sembrerebbe che, arrivati a questo punto, al fuggiasco renitente si sarebbe dovuto impartire una sonora lezione. E invece no. Dio si limita a sollecitare dolcemente la coscienza morale del ribelle con una semplice domanda: "Fai tu bene a irritarti così?" E Giona nemmeno risponde.
  Più irritato che mai esce dalla città e si sistema nei paraggi mettendo insieme una capanna di fortuna, con l'evidente intenzione di rimanere lì per vedere come va a finire la cosa.
  Di nuovo allora interviene Dio, che invece di mostrarsi fieramente irritato per il comportamento inaccettabile del suo servitore, si preoccupa dello stato di irritazione in cui è caduto Giona, e si propone di "guarirlo".
  Sta scritto che fece crescere un ricino. Il verbo qui usato nell'originale è manah (מנה) , che in questo libro viene usato quattro volte e tradotto in italiano in modi diversi:
  2:1  Dio fece venire un gran pesce
  4:6  Dio fece crescere un ricino
  4:7  Dio fece venire un verme
  4:8  Dio fece soffiare un gran vento.
  Come già osservato in precedenza, i traduttori cercano l'espressione più adatta ad inserirsi nella lingua italiana, ma in molti casi si perde la sottolineatura che il racconto vuol dare proprio attraverso la ripetizione della medesima parola. Ammirevole in questo senso è la storica traduzione inglese King James, che in tutti e quattro i casi traduce sempre prepared. Sarebbe forse meglio, in certi casi, lasciare che la resa letterale di certi termini originali attirasse la giusta attenzione del lettore sul significato contenuto nel testo proprio attraverso la stranezza del costrutto italiano, invece di coprirlo con una varietà di traduzioni "più scorrevoli".
  In italiano l'uguaglianza nell'originale dei quattro termini può risaltare in quel ripetuto fece. Dio fece venire, fece cresce, fece soffiare. Questo mette in evidenza un Dio che fa, affinché non si dimentichi che il Dio creatore dei cieli e della terra continua ad essere un facitore di ciò che avviene sotto i cieli e sopra la terra. E per un Dio simile, preparare quattro oggetti utili per lo svolgimento di una storia come questa non è una gran fatica.
  Dio dunque vede che l'irritato Giona si è fatto una capanna all'ombra, cosa evidentemente indispensabile sotto il cocente sole orientale. Ma per accrescere la gradevolezza del suo soggiorno, Dio gli prepara un ombrifero ricino. Giona ne prova una grande gioia, sentendosi così ripagato del grande dispiacere che aveva provato vedendo che su Ninive non si abbatteva la mano punitiva di Dio. Così quel giorno andò a letto contento e soddisfatto.
  L'indomani però, Dio torna in azione: prepara un verme che per sfamarsi, com'è suo diritto di verme nella natura, attacca il ricino. E questo si secca. Ma non basta. Dio prepara anche un soffocante vento d'oriente a cui si unisce un sole ardente che picchia implacabile sul capo di Giona. A questo punto il profeta sta per svenire. Prima che ciò avvenga però trova la forza di rivolgersi di nuovo a Dio e di chiedergli, ancora una volta, di farlo morire perché, ripete: "Per me è meglio morire che vivere".
  Di nuovo Dio si rivolge a Giona chiedendogli dolcemente: "Fai tu bene a irritarti così a causa del ricino?" E' chiaro che è una domanda retorica, un altro modo per dire educatamente: 'guarda che non è bene fare così'. Giona l'ha capito benissimo, e risponde a tono: "Sì, faccio bene, fino alla morte", che è come dire: difendo il mio diritto ad essere irritato, e lo difenderò fino alla morte. E' una riposta sbattuta in faccia con caparbietà. Com'è possibile che Dio non abbia reagito trattandolo come si meritava? E' una domanda che faccio nello stile di Giona, perché la giustizia punitiva sugli altri mi attira. Forse il Signore avrebbe potuto rispondere così: 'Vedi, Giona, se avessi dovuto colpire i niniviti per i tuoi motivi di giustizia, per gli stessi motivi avrei dovuto colpire anche te; ma poiché per i miei motivi di giustizia, che tu ora non capisci, ho deciso di non colpire te, per gli stessi motivi ho deciso di non colpire i niniviti.
  Adesso dunque la questione si è definita come un contrasto tra la visione di giustizia di Giona e quella di Dio. Ed è su questo piano che Dio accetta il confronto, con una pazienza che si può dire davvero sovrumana, perché a quanto pare Giona rifiuta il confronto. Dio accetta di essere messo sulla difensiva, e le ultime parole con cui si conclude il libro, di solito intese come un generico riferimento alla misericordia di Dio, vogliono gentilmente ricordare a Giona chi è il Creatore e chi la creatura. Dopo di che si chiude il discorso.
  Sorge allora la domanda: ma poi, come va a finire? Chiederà Giona perdono a Dio? Oppure sarà Dio a dare a Giona la definitiva, eterna lezione che si merita? Qual è la morale da trarre? La domanda appare importante per i molti che leggono la Bibbia come un'antologia di racconti più o meno ispirati da cui trarre ispirazione per pensieri profondi o stimoli a comportamenti virtuosi. Nella lettura moraleggiante si dirige l'attenzione sull'esempio buono da imitare o sul cattivo da evitare. E in questo caso, come dev'essere valutato l'esempio di Giona? E' buono o cattivo? Ma il libro non si presta a valutazioni troppo semplici e schematiche, anche per una sua caratteristica particolare: appare bruscamente troncato. Manca un finale. E anche questo potrebbe essere parte del messaggio: la prosecuzione dev'essere cercata nel resto della Bibbia.

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Dopo la tremenda tempesta di mare provocata dall'Eterno, sulla nave pagana che veleggiava da Giaffa a Tarsis il viaggio era ripreso tranquillo. La ritrovata calma del mare favoriva a bordo un nuovo clima spirituale che induceva l'equipaggio a offrire sacrifici di culto al vero ”Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra asciutta” che avevano imparato a conoscere dall'ebreo Giona.
   Giona però non era più con loro. Perché? E' stato lui a trasmetterci la conoscenza del vero Dio - potevano pensare i marinai - e adesso non è qui per continuare a comunicarci altre cose di quel Dio che lui conosceva personalmente. Chi ha calmato il mare è stato certamente Dio, ma Giona sapeva che l'avrebbe fatto; noi invece abbiamo messo in dubbio le sue parole. Non sarebbe stato meglio che fosse rimasto qui con noi: avremmo potuto offrire insieme sacrifici di lode all'unico vero Dio creatore del cielo e della terra. Perché ha dovuto essere gettato in mare?
   A bordo dunque, insieme alla gioia dello scampato pericolo e della nuova vita spirituale, restava in piedi l'«enigma Giona». E' indubbio che a Tarsis avrebbero raccontato a tutti dello straordinario fatto che avevano vissuto in mare; ed è altrettanto indubbio che gli uditori avrebbero fatto la stessa domanda: ma perché? Perché Dio ha voluto assolutamente che quell'ebreo fosse gettato in mare? Aveva confessato di essere entrato in contrasto con Dio, ma questo significa che era comunque in rapporto con Lui; non poteva Dio accontentarsi della sua pubblica ammissione e perdonarlo, placare il mare e consentire a tutti di celebrare insieme, d'amore e d'accordo, un culto al suo Nome?
  Effettivamente, qualcuno forse avrebbe preferito che le cose si fossero svolte così: Giona rivela per filo e per segno la sua disubbidienza a Dio davanti ai marinai; riconosce pubblicamente il suo peccato e chiede pubblicamente perdono al Signore; avverte i pagani che anche loro sono peccatori come lui e che anche loro possono essere ugualmente perdonati ; i marinai, compunti, riconoscono tutti di essere peccatori e chiedono perdono al Signore; il Signore concede a tutti il suo perdono e per mostrarlo chiaramente calma il mare; grida di alleluia a bordo e conclusione della storia con un esultante culto di ringraziamento a Dio. Quanti bei sermoni edificanti avremmo potuto ricavarci, noi predicatori evangelici, da una storia come questa!
   E invece niente. Sulla nave nessuno chiede perdono: né Giona, né i marinai. Saranno i Niniviti a farlo, ma questa è una storia di terra avvenuta a Ninive che potrebbe essere del tutto distinta dalla storia di mare avvenuta sulla nave, se non fosse per l'«enigma Giona», che indubbiamente le collega. E' dunque su questo centrale mistero che bisogna puntare l'attenzione.

Capitolo 2
  1. E l'Eterno fece venire un gran pesce per inghiottire Giona; e Giona fu nel ventre del pesce tre giorni e tre notti.
  2. E Giona pregò l'Eterno, il suo Dio, dal ventre del pesce, e disse:
  3. Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta, ed egli m'ha risposto; dal grembo dello sheol ho gridato, e tu hai udito la mia voce.
  4. Tu m'hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi son passati sopra.
  5. E io dicevo: io son cacciato via lontano dai tuoi occhi! Vedrò ancora il tuo Tempio santo?
  6. Le acque m'hanno attorniato fino all'anima; l'abisso m'ha avvolto; le alghe mi si sono attorcigliate al capo.
  7. Io son disceso fino alle radici dei monti; la terra con le sue sbarre mi ha rinchiuso per sempre; ma tu hai fatto risalire l'anima mia dalla fossa, o Eterno, Dio mio!
  8. Quando l'anima mia veniva meno in me, io mi son ricordato dell'Eterno, e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo Tempio santo.
  9. Quelli che onorano le vanità bugiarde abbandonano la fonte della loro grazia;
  10. ma io t'offrirò sacrifizi, con canti di lode; adempirò i voti che ho fatto. La salvezza appartiene all'Eterno.
  11. E l'Eterno diede l'ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sull'asciutto.
Dopo essere stato buttato fuori dalla nave, Giona non arriva subito nella bocca del pesce. Il mare non si calma immediatamente, come si può desumere dalla sua preghiera, e la violenza delle onde che si erano abbattute sulla nave adesso si rivolge contro di lui. Il mare in tempesta è la voce minacciosa di Dio che prima ha imposto ai marinai di gettarlo in mare e adesso, sia pure per poco tempo, si avventa contro di lui. In tutto questo Giona avverte su di sé un fatto per lui tremendo: il rigetto di Dio. Con determinazione era fuggito lontano dalla faccia dell'Eterno e adesso sperimenta che è Dio ad allontanarlo. Dopo che i marinai l'hanno gettato in mare, l'azione di Dio non si presenta subito come una misericordiosa opera di soccorso per impedire che anneghi; al contrario: ”tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi sono passati sopra”, dice poi nel ventre del pesce. Dio non gli si presenta come il soccorritore che impedisce che vada a fondo; al contrario: Tu m'hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare”. Giona sente Dio che lo spinge in basso: "io sono disceso fino alle radici dei monti, e poi sempre più giù, fino a raggiungere il grembo dello sheol”. Quest'ultima espressione è tradotta in vari modi in italiano: profondità del soggiorno dei morti, profondo degli inferi, viscere del soggiorno dei morti, ventre del sepolcro. In ogni espressione si riconosce comunque un riferimento alla morte, più precisamente al luogo dove risiedono le anime dei morti. Ed è in questo senso che in effetti viene usato nella Bibbia il termine ebraico sheol (שאול). Volendo restare letterali, si deve dire allora che Giona è passato per l'esperienza della morte, e la sua anima è andata ad abitare per un certo tempo nello sheol. E poiché nello sheol le anime non perdono coscienza, è proprio da lì che Giona ha cercato di far arrivare la sua voce a Dio.
   Ma è possibile una cosa simile? Se lo sarà chiesto anche Giona, e tuttavia ci ha provato. Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta, ed egli m'ha risposto”, esperimento riuscito dunque. Giona lo ricorda nella preghiera mentre si trova nel ventre del pesce, e aggiunge, rivolgendosi direttamente a Dio: dal grembo dello sheol ho gridato, e Tu hai udito la mia voce”.
   Quando si trovava sulla nave nel mare in tempesta, Giona non si era mai rivolto a Dio; i marinai avevano prima invocato i loro dei, poi avevano gridato all'Eterno, ma Giona niente: muto come un pesce. Considerava rotti i suoi rapporti con Dio, e quando una coppia è in stato di litigio, spesso i due smettono di parlarsi e ciascuna delle due parti s'impone di non essere la prima a rompere il silenzio. Giona aveva voluto fuggire lontano dalla faccia dell'Eterno proprio per non dover più interessarsi di Lui; la circostanza della tempesta lo aveva costretto sulla nave a parlare di Dio, ma non aveva manifestato nessuna intenzione di parlare con Lui. Nella situazione di contesa, Giona non sarebbe stato il primo a rompere il silenzio. Così aveva deciso.
  Il fatto è che una cosa simile doveva averla decisa anche Dio. Si sarà notato infatti il suo silenzio in tutta la prima parte della fuga di Giona: nessuna riprensione al fuggiasco, nessuna correzione a quello che aveva detto di Lui ai marinai. Il primo a riprendere il colloquio interrotto doveva essere Giona. E così è stato: Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta”. Dunque Dio ci è riuscito: Giona rompe il silenzio per primo; "ed Egli m'ha risposto", e Dio per secondo. Ma quanta fatica deve fare il Signore per esercitare la sua grazia verso i servitori che ama!
   Molti stentano ad accettare che Giona sia fisicamente morto e la sua anima sia scesa nello sheolg, e considerano queste parole come un linguaggio poetico; ma se si comincia qui a parlare di poesia, non c'è motivo per non estendere la poesia anche al pesce, al mare, alla nave e così avanti, fino a dire che tutto il racconto è solo una favola poetica a fini didascalici. E così fanno molti, anche tra ebrei e cristiani di tutti i tipi. Se invece si considera il racconto come un fatto storico di cui Dio vuole spiegarci il significato, allora la morte fisica di Giona in mezzo al mare, la discesa della sua anima nello sheolg e il successivo ritorno in vita provocato dalla voce di Dio possono e devono essere visti come un fatto inusuale, certo, ma realmente avvenuto. Se si accettano fatti inusuali come il rapimento in cielo di Enoc ed Elia, senza che i loro corpi conoscessero la morte fisica, perché deve dar problemi la singolarità di quello che è successo a Giona? Non potrebbe essere che proprio attraverso la singolarità di un fatto inusuale come questo Dio voglia comunicare agli uomini qualcosa di Se stesso e del suo modo di agire nella storia?
   Tornando a Giona, la novità di quando si trova nello sheol è che si decide, per la prima volta dopo la sua fuga, ad aprire la sua bocca e a gridare all'Eterno. Era fuggito lontano dalla faccia dell'Eterno con il programma di andare a Tarsis, e si ritrova nel grembo dello sheol, non come uno che fugge volontariamente in un posto che lui ha scelto, ma come uno che si sente sospinto a forza in un posto che Dio ha scelto. Ed è in questo luogo che avviene la riconciliazione: nel grembo dello sheol. Nel ventre del pesce Giona ricorda quello che è avvenuto: un'esperienza di entrata nella morte in conseguenza della sua scelta e di uscita dalla morte in conseguenza della misericordia di Dio in risposta al suo grido. Proprio questo voleva il Signore voleva, e questo è riuscito ad ottenere. Rientra nella volontà di Dio l'esercitare amorevole misericordia verso le sue creature, ma la misericordia di Dio ha le sue regole.
  Quello che Giona ha provato fuori della nave è tremendo: è stato attorniato fino all'anima” dalle acque, avvolto dall'abisso; aveva voluto allontanarsi da Dio, e si è sentito "cacciato via lontano dai suoi occhi". Dio non mi vuole più vedere - avrà pensato - e io non potrò più vedere il suo ”Tempio santo”. Ha vissuto l'intero fatto come un'esperienza di non ritorno: non avrebbe più potuto risalire: La terra con le sue sbarre mi ha rinchiuso per sempre”. Non c'è più nulla da fare, avrebbe detto chiunque.
  Giona invece può dire qualche altra cosa sul proseguimento della sua esperienza: "Quando l'anima mia veniva meno in me, io mi sono ricordato dell'Eterno, e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo Tempio santo”. Giona si era volutamente allontanato dal Tempio, ma adesso gli è concesso di riavvicinarsi a quel luogo santo in una preghiera che è il riconoscimento di quello che Dio ha fatto per lui: Tu hai fatto risalire l'anima mia dalla fossa, o Eterno, Dio mio!
  Si può dire dunque che l'esperienza di Giona porta il segno di quella che è la caratteristica fondamentale del popolo ebraico: la risurrezione dai morti.
  E dopo questa esperienza Giona fa nel ventre del pesce quello che sulla nave, a differenza dei marinai, non aveva fatto: offre all'Eterno sacrifici in forma di canti di lode. E come i marinai fa dei voti che promette di adempiere. Ma quando? Non si deve dimenticare che Giona eleva il suo inno di lode al Signore non dopo essere stato scaricato sano e salvo sulla terra ferma, ma quando si trova ancora nel ventre del pesce. E neppure eleva a Dio un'esplicita richiesta di farlo uscire da quella biologica prigione, ma si limita a confessare una realtà in cui fermamente crede: "Il salvare appartiene all'Eterno".
  "E l'Eterno diede l'ordine al pesce, e il pesce vomitò Giona sull'asciutto".

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Il libro di Giona visto da un intellettuale laico:
    «La storia biblica di Giona è una fiaba mirabile, un gioiello della letteratura universale. Giona, che, in un primo tempo, vuol sottrarsi all'incarico di annunciare la distruzione a Ninive, scappa, incappa in un naufragio, sopravvive in modo miracoloso nel ventre di un pesce e annuncia, alla fine, a una Ninive impazzita una punizione divina che sembra fin troppo giusta. Ma quando, di fronte alla potente penitenza di Ninive, Dio si fa commuovere e non porta a compimento la punizione annunciata, Giona si adira con Dio perché questi non si è ritenuto obbligato al piano che Giona gli aveva attribuito nella sua immagine del mondo. L'umorismo è un atteggiamento che, in virtù di una fiducia più profonda, riconosce, in mezzo alle assurdità e alle debolezze spesso curiose della vita umana, una sorta di velata amabilità. È di questo 'umorismo' di Dio su e con gli esseri umani che il libro di Giona, questa meravigliosa fiaba biblica, dà testimonianza.»
    (Presentazione del libro "E il pesce vomitò Giona all'asciutto. Il libro di Giona interpretato alla luce della psicologia del profondo" di Eugen Drewermann).
"Una fiaba mirabile, un gioiello della letteratura universale". Qualcosa del genere si è detto anche della favola di "Pinocchio". Ma il libro di Giona non è una bella fiaba, così come il Sermone sul Monte di Gesù non è una splendida lezione di elevata moralità; chi crede nel Dio della Bibbia rifiuta questo tipo di apprezzamenti, che in una veste di ammirazione svuotano il messaggio biblico del suo autentico, tremendamente serio significato e lo sostituiscono con altro materiale di proprio gradimento. Nei resoconti biblici si parla di fatti. E sono fatti che mettono in gioco questioni di vita e di morte, per il mondo e per i singoli. E con queste cose non si gioca, né i loro resoconti nella Bibbia sono lì per strappare applausi.
  Vediamo allora come è stata presa in considerazione la storia di Giona da qualcuno che la conosceva bene:
    Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno». Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti. I Niniviti compariranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco, qui c’è più che Giona! La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c’è più che Salomone! (Matteo 12:38-41)
    Mentre la gente si affollava intorno a lui, egli cominciò a dire: «Questa generazione è una generazione malvagia; chiede un segno ma nessun segno le sarà dato, tranne il segno di Giona. Infatti come Giona fu un segno per i Niniviti, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione. Nel giorno del giudizio la regina del mezzogiorno si alzerà con gli uomini di questa generazione e li condannerà; perché ella venne dagli estremi confini della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco qui c’è più di Salomone. Nel giorno del giudizio i Niniviti si alzeranno con questa generazione e la condanneranno; perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui c’è più di Giona. (Luca 11:29-31)
Gesù ha parlato di Giona come un fatto di storia, non come un'edificante narrativa didattica o una fantastica rappresentazione simbolica. Prendere o lasciare dunque: o Giona e Gesù sono tutto simbolo, o sono tutto storia.
  Per Gesù la storia di Giona è un segno. Il termine "segno" ha un significato forte nella Bibbia; è usato in diversi modi ma non serve mai a trasportare il lettore in un mondo di fantastica immaginazione. Al contrario, il segno è un indicatore che mette in collegamento due fatti, entrambi presenti nella concretezza della storia. Di solito c'è un fatto del presente, visibile a chi parla, che si può chiamare "indicatore", e un fatto del passato o del futuro, non più o non ancora visibile a chi parla, che si deve ricordare o aspettare secondo i casi.
  Gli esempi nella Bibbia sono moltissimi. Eccone alcuni:
    “Dio disse: «Ecco il segno del patto che io faccio tra me e voi e tutti gli esseri viventi che sono con voi, per tutte le generazioni future. Io pongo il mio arco nella nuvola e servirà di segno del patto fra me e la terra” (Genesi 9:12,13).
L'indicatore del segno è l'arcobaleno, concretamente visibile dagli uomini sulla terra, l'indicato è l'impegno di Dio a non distruggere gli uomini col diluvio finché esisterà una terra su cui abitano.
    “Poi Dio disse ad Abraamo: «Quanto a te, tu osserverai il mio patto: tu e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione. Questo è il mio patto che voi osserverete, patto fra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio tra di voi sia circonciso. Sarete circoncisi; questo sarà un segno del patto fra me e voi.” (Genesi 17:9-11).
L'indicatore del segno è l'atto della circoncisione, l'indicato è l'impegno di Dio a conservare il suo popolo per il compito che gli ha riservato.
    “Ed ecco che un uomo di Dio giunse da Giuda a Betel per ordine dell’Eterno, mentre Geroboamo stava presso l’altare per ardere il profumo; e per ordine dell’Eterno si mise a gridare contro l’altare e a dire: ‘Altare, altare! così dice l’Eterno: Ecco, nascerà alla casa di Davide un figlio, per nome Giosia, il quale immolerà su di te i sacerdoti degli alti luoghi che su di te ardono profumi e s’arderanno su di te ossa umane’. E quello stesso giorno diede un segno miracoloso dicendo: ‘Questo è il segno che l’Eterno ha parlato: ecco, l’altare si spaccherà, e la cenere che v’è sopra si spanderà’. Quando il re Geroboamo ebbe udita la parola che l’uomo di Dio aveva gridata contro l’altare di Betel, stese la mano dall’alto dell’altare, e disse: ‘Pigliatelo!’ Ma la mano che Geroboamo aveva stesa contro di lui si seccò, e non poté più ritirarla a sé. E l’altare si spaccò; e la cenere che v’era sopra si disperse, secondo il segno che l’uomo di Dio aveva dato per ordine dell’Eterno (1 Re 13:1-5).
L'indicatore del segno è l'altare che nel presente si spacca; l'indicato è l'immolazione dei sacerdoti idolatri che nel futuro sarà fatta su di esso, secondo la parola che Dio aveva pronunciato attraverso il profeta.
  Come si vede da quest'ultimo esempio, l'indicatore può essere un avvenimento, e quando anche l'indicato è un avvenimento storico preparato da Dio per il futuro, si potrebbe dire che il segno è una "parabola profetica". Ma è una parabola raccontata da Dio in prima persona, i cui elementi simbolici sono costituiti da fatti concreti che rimandano ad altri fatti concreti che avverranno un giorno nella storia.
  La Bibbia è piena di queste "parabole profetiche" di Dio; e certamente non hanno nulla in comune con immaginose favole o figurative rappresentazioni artistiche.
  All'infedele sacerdote Eli il Signore annuncia la rovina della sua casa raccontandogli a modo suo una "parabola", cioè facendo avvenire nel presente di Eli un avvenimento che sarà per lui un segno di ciò che Dio avrebbe fatto nel futuro. L'indicato futuro del segno è questo:
    ”Ecco, i giorni vengono, in cui troncherò il tuo braccio e il braccio della casa di tuo padre, in modo che non vi sia in casa tua nessun vecchio. Vedrai lo squallore nella mia dimora, mentre Israele sarà ricolmo di beni, e non vi sarà mai più nessun vecchio nella tua casa. Quello dei tuoi che non toglierò via dal mio altare, rimarrà per consumarti gli occhi e rattristarti il cuore; e tutti i nati e cresciuti in casa tua moriranno nel fiore degli anni” (1 Samuele 2:31-33).
L'indicatore presente del segno è questo:
    ”E ti servirà di segno quello che accadrà ai tuoi figli, a Ofni e a Fineas: tutti e due moriranno in uno stesso giorno" (1 Samuele 2:34).
L'indicatore del segno può essere anche un gesto concreto che Dio chiede a un uomo di compiere, come avviene con il profeta Ezechiele:
    «Metti dunque fuori, di giorno, in loro presenza, il tuo bagaglio, simile a quello di chi va in esilio; poi la sera, esci tu stesso, in loro presenza, come fanno quelli che se ne vanno esuli. Fa’, in loro presenza, un foro nel muro, e attraverso di esso porta fuori il tuo bagaglio. Portalo sulle spalle, in loro presenza; portalo fuori quando farà buio; copriti la faccia per non vedere la terra; perché io faccio di te un segno per la casa d’Israele» (Ezechiele 12:4-6).
Al che segue la presentazione di quello che è l'indicato del segno:
    «Così parla il Signore, l'Eterno: Quest'oracolo concerne il principe che è in Gerusalemme, e tutta la casa d'Israele di cui essi fanno parte. Di': Io sono per voi un segno: come ho fatto io, così sarà fatto a loro: essi andranno in esilio, in cattività» (Ezechiele 12:10-11).
"Come ho fatto... così sarà fatto": ecco il modo in cui Dio racconta le sue parabole.
  Qualche volta l'uomo richiede il segno come certificato di autenticazione, come a volersi assicurare che i fatti del presente sono realmente collegati a una parola detta da Dio nel passato. Questo però non è un modo che Dio in linea di principio approva. In certi casi può anche assecondare una simile richiesta, per venire incontro alla debolezza di chi la fa, come nel caso di Gedeone e Tommaso, ma si riserva di non rispondere quando l'uomo la pretende come se fosse un suo diritto. E' Dio che sceglie i segni con cui vuole sostenere la sua Parola, ed è dall'atteggiamento con cui l'uomo riceve questa Parola che dipende la possibilità per lui di riconoscere la validità del segno ricevuto.
  Quando scribi e farisei dicono a Gesù: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno», quello che gli chiedono non è una generica dimostrazione di spettacolare potenza miracolosa. Molto semplicemente gli chiedono di accreditarsi presso di loro come l'autentico Messia di Israele. Il segno avrebbe dovuto servire come la firma di Dio apposta in calce all'attestato di autenticità. La richiesta poteva apparire legittima, perché di fronte a tutte le populistiche speranze messianiche che circolavano in quel tempo poteva sembrare serio e ragionevole sostenere che soltanto alle autorità competenti spettava il compito verificare la validità di un attestato di autenticità messianica. Il Messia era per loro quello che oggi per noi è il Vaccino: il salvifico rimedio. E come oggi circolano molti vaccini, così allora giravano molti sedicenti messia; e allora come oggi sembrava indispensabile doversi rimettere all'attestato delle autorità riconosciute.
  Gesù però aveva già dato, di sua iniziativa, diversi segni messianici che avrebbero dovuto essere presi in seria considerazione dalle autorità religiose. Nei Vangeli se ne contano almeno tre:
  la guarigione del lebbroso (Matteo 8:2-4, Marco 1:40-45, Luca 5:12-16);
  la guarigione dell'indemoniato muto (Matteo 12:22-37, Marco 3:19-30);
  la guarigione del cieco nato (Giovanni 9:1-38).
  Certamente non possono essere trattati qui per esteso, ma va sottolineato che secondo l'insegnamento rabbinico soltanto il Messia avrebbe potuto compiere guarigioni di quel tipo.
  E' particolarmente significativo il primo di questi tre segni,
    “Mentre egli si trovava in una di quelle città, ecco un uomo tutto coperto di lebbra, il quale, veduto Gesù, si gettò con la faccia a terra e lo pregò dicendo: «Signore, se vuoi, tu puoi purificarmi». Ed egli stese la mano e lo toccò, dicendo: «Lo voglio, sii purificato». In quell’istante la lebbra sparì da lui. Poi Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno. «Ma va’», gli disse, «mostrati al sacerdote e offri per la tua purificazione ciò che Mosè ha prescritto; e ciò serva loro di testimonianza»” (Luca 5:12-14).
Nella Bibbia solo due lebbrosi totali hanno ottenuto una totale guarigione: Maria, sorella di Mosè (Levitico 12:1-16) e Naaman il Siro (2 Re 5:1-19), e in entrambi i casi ciò è avvenuto per un intervento diretto di Dio. Secondo l'insegnamento rabbinico quindi soltanto il Messia avrebbe potuto fare una cosa simile. Per questo Gesù dice all'uomo guarito di rivolgersi all'autorità sacerdotale, affinché riconosca l'autenticità della guarigione e di conseguenza l'autorità di chi l'ha prodotta: ”e ciò serva loro di testimonianza”.
  Gesù dunque non rifiuta la posizione di autorità dei sacerdoti in Israele, ma rifiuta di sottoporsi a un ulteriore segno richiesto da "una generazione malvagia e adultera”. E per generazione qui s'intende non tutto il popolo d'Israele in tutti i tempi della sua storia passata presente e futura, ma precisamente la generazione dei responsabili di Israele a Lui contemporanea. I fatti di Giona e Gesù sono storia. E la storia prosegue.

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La storia di Giona di solito piace. Può essere raccontata in forma gioiosa per bambini, o elaborata in forma pensosa per filosofi e psicologisti. E' stata rappresentata innumerevoli volte in forma pittorica e le sono stati attribuiti significati di vario genere. Gli studiosi della Bibbia si preoccupano di stabilire a quale "genere letterario" appartiene il racconto; dopo di che si cerca di trarne applicazioni interessanti.
  Ma già l'espressione "genere letterario", usata anche da tenaci difensori della Bibbia, tradisce l'ottica con cui si guarda il testo. Perché i generi letterari non esistono in natura, non sono oggetti della primordiale creazione come il sole e la luna, le piante e gli animali, ma oggetti del pensiero umano, data base entro cui si catalogano e ordinano modi di parlare e scrivere degli uomini. Nulla di più. Ma forse i pensatori postmoderni direbbero che non c'è nulla di più; che la realtà delle cose non è nulla di più che il nostro parlare delle cose: le nostre narrazioni.
  Seguendo questa linea di pensiero, il libro di Giona si presta meravigliosamente a servire come spunto per una varietà illimitata di nuove elaborate narrazioni, come si fa in musica: variazioni sul tema.
  In opposizione a questo fuorviante modo di pensare, ho elencato in altra sede tre cose che al di là di ogni opinione nel mondo ci sono: la Bibbia, Israele e la diaspora di Gesù. In questa sede, come membro della diaspora di Gesù intendo usare la Bibbia per trarre vantaggio da un bene prezioso appartenente al patrimonio storico di Israele.
  Il libro di Giona indubbiamente è un racconto, ma chi racconta è Dio. E per noi che leggiamo è il racconto di qualcosa che un giorno è veramente avvenuto. Dunque è storia. Ma non è storia che si esaurisce in un resoconto puro e semplice di fatti, in stile reportage, perché il Regista che sta dietro ai fatti, anzi che determina la forma dei fatti, vuole trasmettere a chi legge il significato che ad essi si deve dare; cioè il carattere di segno per altri fatti che avverranno in seguito. E' questo che si vuol intendere quando si dice che il racconto di Giona è una parabola profetica, raccontata da Dio stesso attraverso interventi concreti nella realtà storica degli uomini, prima che con la parola scritta.
  Resta allora per chi legge il compito di provare a ricercare i significati che stanno dietro ai vari particolari del racconto, ed è quello che qui si tenterà di fare, senza la pretesa di darne l'interpretazione autentica e definitiva, ma con il desiderio di individuare e offrire spunti di riflessione.
  Come già detto in precedenza, i personaggi principali della parabola storica di Giona sono anche i protagonisti fondamentali di tutta la Bibbia: Dio, Israele e le Nazioni. L'elemento con cui si apre e chiude la parabola presenta un Dio che parla. All'inizio parla a Giona trasmettendogli un ordine d'azione, alla fine parla di nuovo a Giona cercando di far capire al suo recalcitrante servitore i motivi per cui ha agito in quel modo. E stando a quel che è scritto, si direbbe che non ci sia riuscito.
  Ma è soltanto con Giona, rappresentante di Israele, che Dio entra in relazione verbale diretta; mentre le Nazioni, rappresentate da marinai e niniviti, vengono a conoscere la volontà di Dio soltanto attraverso Giona.
  Il senso della parabola va dunque ricercato nel gioco che si stabilisce fra questi tre elementi. E' vano dunque voler fare riferimenti generici a elementi universali come la misericordia di Dio verso tutti o la necessità per l'uomo di sottomettersi all'autorità divina. E quanto a misericordia, è bene ricordare che soltanto cento anni dopo Dio non mostrerà verso i niniviti la stessa delicatezza usata al tempo di Giona, come si legge nel libro del profeta Naum, interamente dedicato a il giudizio che ricadrà sulla città di Ninive: Tutti quelli che ti vedranno fuggiranno lontano da te, e diranno: Ninive è distrutta!” (Naum 3:7).
  Giona è la personificazione di Israele, servo del Signore. L'ordine che Dio dà Giona è una disposizione di tipo "militare", non un generico ordine di moralità personale. Dio ha un piano d'azione per quella che si potrebbe chiamare la riconquista del mondo, e Israele è parte del suo esercito.
  Che Giona rappresenti la parte di Israele si vede dal fatto che Dio si è rivolto a lui come profeta, cioè come riconosciuta controparte di Dio nel suo rapporto con Israele. La "disubbidienza" di Giona può essere paragonata al dissenso di un Generale sul campo di battaglia nei confronti di un ordine proveniente dal Comando Supremo. Il Generale dissente, ma per motivi che a lui sembrano validi: forse non ritiene giusto l'ordine ricevuto, per ragioni militari o umanitarie. E in qualche modo prende le distanze. Da notare inoltre che il dissenso tra Dio e Giona-Israele riguarda il rapporto da avere con il terzo degli elementi fondamentali della storia: le Nazioni.
  Ma la distanza che Giona ha voluto prendere da Dio era davvero pericolosa per lui. Proseguendo nel paragone militare, Dio avrebbe potuto passarlo per le armi, o quanto meno destituirlo, ma in questo modo la rottura sarebbe stata definitiva. Dio non poteva permettere che questo avvenisse, non perché Giona, o per lui Israele, lo meritasse, ma perché si era obbligato con Se stesso a non farlo mai. Aveva stipulato con Israele un patto, fin dal tempo di Abramo, ed era un patto unilaterale, dipendente soltanto dal Suo impegno.
  L'originario patto con Abramo, tuttora in auge, è stato stipulato al fine di riconquIstare il mondo a Dio; e pur nell'unilateralità del Suo impegno, Dio si è imposto di far avanzare il suo progetto preparando occasioni che consentissero ogni volta all'uomo di dare una libera risposta positiva alla Sua parola. Perché per Dio riconquistare il mondo significa arrivare ad avere una creazione abitata da una umanità che lo accolga liberamente e con gioia come suo Creatore e Signore.
  Ma sarà mai possibile tutto questo? Non è forse vero che nella sua struttura l'uomo ha un cuore "insanabilmente maligno" (Geremia 17:9). Nel piano di Dio è prevista una soluzione anche a questo problema:
    Vi darò un cuore nuovo e metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra, e vi darò un cuore di carne (Ezechiele 36.26).
Concedere all'uomo spazi di libertà per offrirgli la possibilità di rispondere a Dio, fa inevitabilmente correre il rischio di sentir rispondere no. Ed è quello che è accaduto molte volte in Israele. Ma il no "primordiale", quello che ha influenzato in modo determinante - anche se non definitivo - il suo successivo percorso, è la "caduta" dell'adorazione del vitello d'oro. E' questo l'autentico "peccato originale" di Israele. In quel punto iniziale della storia di Israele è stato violato il patto originario di Mosè; e la successiva forma che ha preso la legge dopo quella caduta porta tracce inconfondibili di questa violazione, insieme a segni anticipatori di una futura redenzione.
  Da quel momento si può dire che Israele è in fuga dall'Eterno. Dio però non demorde, e pazientemente lavora alla preparazione di un'occasione in cui il suo popolo arriverà a rispondergli liberamente . Questo è assolutamente necessario, perché non è possibile che Dio accolga un sì dall'umanità in generale senza aver ricevuto prima un decisivo dal Suo popolo particolare. E questo indubbiamente avverrà, anzi è già avvenuto, in una forma giuridicamente valida anche se ancora priva di effetti storici visibili.
  Se Giona rappresenta Israele tuttora in fuga dall'Eterno, si pongono osservazioni e domande interessanti, a cui si cercherà di dare qualche risposta in seguito. Ecco subito due spunti di riflessione.
  Osservazione - Nel racconto, l'allontanamento interiore di Giona dall'Eterno subisce un arresto e un mutamento con l'episodio del pesce, ma non si conclude. Alla fine Giona ubbidisce, ma resta sulle sue. Dio l'invita a riflettere ponendogli domande, ma non lo riprende, né gli dà nuovi ordini. Il racconto appare troncato, privo di un finale.
  Domanda - Che peso si deve dare, sia in riferimento a Giona nel racconto, sia in riferimento a Israele nella storia, alla straordinaria esperienza di Giona-Israele nel ventre del pesce?

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Dal Vangelo di Matteo, capitolo 12
  1. Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno».
  2. Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
  3. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti.
  4. I Niniviti compariranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco, qui c’è più che Giona!
  5. La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c’è più che Salomone!
Anche in questo racconto evangelico compaiono i tre elementi fondamentali presenti in tutta la Bibbia: Dio, Israele e le Nazioni. In questo caso i rappresentati sono, nell'ordine: Gesù, gli scribi e farisei, i Niniviti e la regina del mezzogiorno.
  Le autorità religiose israelite vorrebbero avere da Gesù un segno chiaro e indiscutibile che Egli rappresenta il profetizzato anello di collegamento tra Dio e Israele: cioè il Messia. Gesù si rifiuta e gli scribi e farisei considerano anche questo come un chiaro segno che Gesù non è il Messia ma un disturbatore della relazione fra Dio e Israele. Gesù sostiene invece che è in crisi la relazione fra Dio e la ”generazione malvagia e adultera” che in quel momento governa Israele. E fa intervenire nella scena il terzo elemento della storia: le Nazioni. I Niniviti e la regina del Mezzogiorno assunsero a suo tempo il giusto atteggiamento nei confronti di Dio: i primi riconobbero l'azione di Dio nella persona di Giona e si ravvidero dei loro peccati; la seconda riconobbe l'azione di Dio nella persona di Salomone e rese gloria a Dio per la sua sapienza. E qui - dice Gesù ai suoi connazionali - c'è più che Giona e Salomone.
  Gesù aveva iniziato il suo ministero annunciando, sulla scia di Giovanni Battista, una buona notizia: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (Marco 1:15). Era la notizia che Israele aspettava da molto tempo, ma che cosa dovevano fare gli israeliti nell'imminenza del grande fatto annunciato? Gesù lo spiega subito dopo: ”Ravvedetevi e credete al vangelo”. Sembra facile, ma per ravvedersi bisogna anzitutto riconoscersi in colpa, e questo a molti appare insopportabile. I Niniviti invece lo fecero, e davanti alle parole di Giona si ravvidero; la generazione malvagia e adultera di Israele invece non lo fece, e davanti alle parole di Gesù si indurì. Gli chiesero un segno, come per dire che se l'avesse fatto l'avrebbero accolto come Re nel regno di Dio. Ma Gesù non li esaudì, ben sapendo che qualunque nuovo prodigio in aggiunta a quelli già fatti non sarebbe servito a nulla. E replicò che avrebbero ricevuto il segno del profeta Giona. Ma che voleva dire Gesù? Avrebbero capito i capi religiosi queste parole? Sì, i capi religiosi capirono benissimo che cosa intendeva dire Gesù, perché a questo riguardo erano stati più attenti alle sue parole dei suoi stessi discepoli. Ai suoi infatti Gesù aveva detto chiaramente: «Il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini ed essi l’uccideranno; ma tre giorni dopo essere stato ucciso, risusciterà» (Marco 9:31), ma si direbbe che se ne erano tutti dimenticati, perché ad aspettare vicino alla tomba che comparisse Gesù risuscitato dopo ”tre giorni e tre notti” passati sotto la terra non c'era nessuno. La mattina del primo giorno della settimana erano arrivate alcune donne a cercare Gesù, ma lo cercavano tra i morti, non tra i viventi. E non lo trovarono.
    “Mentre se ne stavano perplesse di questo fatto, ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti; tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: «Perché cercate il vivente tra i morti? Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand’era ancora in Galilea, dicendo che il Figlio dell’uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare». Esse si ricordarono delle sue parole” (Luca 24:4-8).
”Ricordate come egli vi parlò”, dicono i due angeli, ed ”esse si ricordarono delle sue parole”. Se le erano dimenticate. Anche loro, le pie donne che avevano a cuore Gesù come persona e volevano quindi onorare quello che restava del suo corpo. Come anche gli uomini, che da competenti politici desiderosi di veder installarsi il Regno di Dio sulla terra non erano certo interessati a vedere nel corpo di Gesù morto il fallimento delle loro speranze. L'apostolo Pietro, avvertito dalle donne che tornavano dal sepolcro, neppure dopo aver visto coi suoi occhi la tomba vuota si ricordò di quello che aveva detto Gesù sulla sua risurrezione, ma se ne tornò a casa, ”meravigliandosi dentro di sé per quello che era avvenuto” (Luca 24:12).
  I discepoli non si ricordarono delle parole di Gesù sulla sua risurrezione per il semplice motivo che fin dall'inizio non le avevano capite. Il pensiero di un Messia che muore e poi risorge appariva loro talmente strano da non riuscire ad entrare nel loro giro di pensieri. E non potendo contestare l'autorità spirituale di Gesù, a loro non restava altro che riporre quelle strane parole nel cassetto delle cose non chiarite. E di quello che rimane in quei cassetti molto presto ci si dimentica.
    “Egli istruiva i suoi discepoli, dicendo loro: «Il Figlio dell’uomo sta per essere dato nelle mani degli uomini ed essi l’uccideranno; ma tre giorni dopo essere stato ucciso, risusciterà». Ma essi non capivano le sue parole e temevano d’interrogarlo” (Marco 9:31,32).
I soli che dopo la morte di Gesù si ricordarono delle sue parole sulla risurrezione furono i capi religiosi di Israele:
    “L’indomani, che era il giorno successivo alla Preparazione, i capi dei sacerdoti e i farisei si riunirono da Pilato, dicendo: «Signore, ci siamo ricordati che quel seduttore, mentre viveva ancora, disse: “Dopo tre giorni, risusciterò”. Ordina dunque che il sepolcro sia sicuramente custodito fino al terzo giorno; perché i suoi discepoli non vengano a rubarlo e dicano al popolo: “É risuscitato dai morti”; così l’ultimo inganno sarebbe peggiore del primo»” (Matteo 27:62-64).
I capi religiosi infatti, a differenza dei discepoli, non subivano l'influenza dell'autorità spirituale di Gesù, quindi per loro non era difficile pensare che un fanatico adescatore del popolo, come ritenevano fosse Gesù, potesse immaginarsi o far credere di risuscitare dopo tre giorni. Così, quando effettivamente risultò che la tomba di Gesù era stata trovata vuota, furono posti ancora una volta davanti a un dilemma: è davvero risorto Gesù? è proprio questo il segno autentico e definitivo della sua messianicità? o si tratta ancora una volta di uno dei tanti imbrogli di quel seduttore? Questa volta non era Gesù a rispondere alle loro domande, ma erano loro a dover rispondere a Gesù che implicitamente diceva loro: il segno della mia messianicità è questo, lo riconoscete? Ma per loro riconoscerlo avrebbe significato anche riconoscere di avere sbagliato, e ammettere di averlo fatto per non essersi ravveduti alla predicazione di Giovanni Battista prima e di Gesù poi. Non lo fecero. E anche dopo di loro i capi religiosi di Israele non l'hanno fatto.
  Ma perché Gesù ha parlato del segno di Giona? Non bastava dire che sarebbe risuscitato dai morti, e che sarebbe stato quello il segno della sua messianicità? Basta la coincidenza numerica dei tre giorni e tre notti? oppure il fatto di Giona rappresenta davvero, nella sua interezza, un segno profetico anticipatore di quello che poi sarebbe avvenuto con il fatto di Gesù nei rapporti fra Dio, Israele e le Nazioni?

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    Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno». Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell'uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti» (Matteo 12:38-39).
Ad una prima lettura sembrerebbe che la risposta di Gesù ai farisei sia un modo per chiudere il discorso e sbarazzarsi dei molesti capi religiosi che volevano incastrarlo. Come se dicesse: non vi darò nessun segno prodigioso, vedrete i fatti. Ma nella storia della salvezza i fatti da soli non dicono niente: ciò che li rende eloquenti è il riferimento alla parola di Dio che li precede e in qualche caso li segue.
  Giovanni Battista si era presentato al popolo come precursore di un Messia che viene a portare un Regno in cui ci sarebbe stata un'impietosa separazione tra giusti ed empi. Il suo messaggio era terrificante, nello stile degli antichi profeti:
    "Già la scure è posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto, sta per esser tagliato e gettato nel fuoco. Ben vi battezzo io con acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dietro a me è più forte di me, ed io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con fuoco. Egli ha il suo ventilabro in mano, e netterà interamente l'aia sua, e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma arderà la pula con fuoco inestinguibile" (Matteo 3:10-12).
Avvenne invece che ben presto il profeta Giovanni finì nella prigione del malvagio Erode. E questo mal si accordava con la forma del suo annuncio. La scure sembrava colpire lui, non Erode. E in effetti poco dopo la scure di Erode colpì Giovanni mozzandogli la testa.
  E' comprensibile allora che a Giovanni, mentre era ancora vivo, venissero dei dubbi:
    "Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?» Gesù rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!»" (Matteo 11:2-6).
Per spiegare quello che stava accadendo in quel momento Gesù dunque fa riferimento a fatti che erano stati annunciati dalla Parola di Dio nel passato:
    "Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto canterà di gioia; perché delle acque sgorgheranno nel deserto e dei torrenti nei luoghi solitari" (Isaia 35:5,6).
Le guarigioni compiute da Gesù dovevano essere comprese come segni dell'avverarsi di parole che Dio aveva detto a Israele nel passato. Ma i capi religiosi non le accolsero come tali e richiesero un segno aggiuntivo. Gesù si rifiutò di farlo e annunciò che come segno, da loro non richiesto, avrebbero visto l'avverarsi di un'altra parola che Dio aveva detto nel passato.
  La parola di Dio espressa nel libro di Giona non deve dunque essere intesa come istruzione rivolta agli uomini per indurli a comportamenti virtuosi, ma come anticipata rivelazione in forma di parabola storica di quello che Dio aveva deciso di fare in mezzo agli uomini. E' questo che si intende quando si dice che la vicenda di Giona è un segno.
  Ma qual è il contenuto del segno? Il segno che i capi religiosi avevano chiesto a Gesù era un segno messianico, dunque la risposta di Gesù è decisiva: la vicenda di Giona è un segno messianico, cioè anticipata rivelazione che Dio fa al suo popolo, attraverso fatti storici, sulla figura del Messia che verrà.
  Presentare il racconto di Giona come parabola raccontata da Dio stesso in forma storica sottolinea dunque il suo aspetto di rivelazione di quello che Dio vuole fare e non di istruzione su quello che gli uomini devono fare, come sono in fondo tutte le parabole di Gesù nei Vangeli, anche quelle che ad una prima lettura sembrano essere soltanto esortazioni a comportarsi bene. E' chiaro che ogni rivelazione di Dio contiene implicitamente un'istruzione per gli uomini, ma è un'istruzione a credere anzitutto alla rivelazione ricevuta e solo di conseguenza a fare. E' una fatale deformazione della Bibbia, in particolare dei Vangeli, trasformare frettolosamente gli indicativi in imperativi. Gesù inizia il suo ministero con un indicativo: il Regno di Dio è vicino, e solo dopo, come conseguenza, seguono due imperativi: ravvedetevi e credete all'Evangelo.
  Come tutte le parabole, anche la vicenda di Giona richiede di essere interpretata. Abbiamo già detto che Giona rappresenta Israele, mentre i marinai sulla nave e gli abitanti di Ninive rappresentano le nazioni. Ma se Giona rappresenta Israele, come mai Gesù lo rapporta a Se stesso mentre si trova in una situazione di contesa con i capi di Israele? Gesù si paragona a Giona, non a Israele, che invece viene indicato come "questa generazione malvagia e adultera". Diciamo allora subito la tesi intepretativa che qui si vuole proporre:
    Giona rappresenta sia il popolo d'Israele, sia il Messia d'Israele.
L'affermazione naturalmente va approfondita, ma in ogni caso va detto che questo modo di presentazione delle cose è conforme allo stile biblico. E' presente in particolare nel libro di Isaia, dove il servo del Signore è presentato contemporaneamente nella forma del servo-popolo e in quella del Servo-Messia; e l'autore passa con disinvoltura dall'una all'altra senza avvertire, come a testimoniare che agli occhi di Dio le due figure sono indissolubilmente collegate. Abbiamo detto che Giona rappresenta Israele in fuga dal Signore da quando ha violato il patto originario del Sinai con l'adorazione del vitello d'oro. Israele però non se ne accorge; pensa di essere abbastanza a posto con Dio. Certo, non tutto è perfetto, ma lui ha la legge, e questo gli permette di riconoscere di essere mancante, e qualche volta anche di correggersi. I Gentili invece sono lontani da Dio per posizione, non conoscono la legge e nemmeno sanno di essere tutti immersi nel peccato. Israele sa di avere dei problemi, ma non sa di essere lui stesso un problema. Dio però ha deciso di risolvere questo problema, da cui dipende la risoluzione del problema del rapporto di Dio con tutta l'umanità.
  Nella vicenda di Giona si riconosce dunque, in forma parabolica anticipata, un aspetto del modo in cui Dio decide di risolvere il problema dell'umanità con Lui ; ed è per questo che in essa compaiono tutti gli elementi in gioco nella storia della salvezza: Dio, Israele, le Nazioni.
  Per far emergere l'inconsapevole stato di autocompiacimento in cui si trovava la "parte buona" di Israele, quella che osserva i precetti e vede in Giona il suo campione, Dio fa cadere sulla testa del suo profeta un preciso, particolarissimo ordine, ben sapendo che non sarebbe stato eseguito. Con questo si vuole sottolineare non tanto la "disubbidienza" di Giona, come di solito si fa, quanto l'azione pedagogica di Dio. Questo spiega anche il tono sorprendentemente morbido con cui Dio tratta il "ribelle" Giona. E spiega anche perché l'ubbidiente Gesù non abbia esitato ad accostarsi al "disubbidiente" Giona. In entrambi i casi c'è Dio all'opera, in una dolorosa azione pedagogico-salvifica verso il suo popolo.
  In sintesi: sottolineare la disubbidienza di Giona è antropocentrico; sottolineare l'azione pedagogico-salvifica di Dio nella storia è teocentrico.
  In tutte le parabole, quindi anche in questa, esiste un centro intorno a cui è costruito il racconto, ma non a tutti i particolari si deve dare un preciso significato. In questa interpretazione il centro della parabola si trova nel momento in cui Dio raggiunge Giona-popolo nel ventre del pesce. E' lì che si ristabilisce tra i due il collegamento.
  La cosa comincia con un grido:
    "Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta, ed egli m'ha risposto; dal grembo dello Sheol ho gridato, e tu hai udito la mia voce" (Giona 2:3)
"Io ho gridato... ho gridato... e tu hai udito...". Dio ha dovuto lasciare che Giona arrivasse nella sua esperienza fino al fondo della sua distretta e con la sua anima fino grembo dello Sheol, cioè che conoscesse la morte fisica. Questo significa, secondo questa interpretazione, che Dio non ha fatto venire il pesce per impedire a Giona di morire, ma perché facesse l'esperienza della risurrezione dai morti dopo aver conosciuto la morte come conseguenza della sua ribellione, che qui appare non come una generica disubbidienza personale, ma come espressione della posizione di peccato in cui si trova il suo popolo dopo la rottura del patto originario del Sinai.
  Quello che si può definire come il "salmo di Giona", contenuto nel secondo capitolo del suo libro, dovrebbe essere considerato come un salmo messianico, in analogia con quello che si fa col salmo 22. E' nel grembo dello Sheol che Giona-Messia si identifica con Giona-popolo e in un certo senso lo sostituisce. Si potrebbe dire che nel versetto 2:3 è Giona-popolo che grida a Dio, mentre dal versetto 4 in poi, dopo che Dio ha udito il grido di soccorso, è il Giona-Messia che prende la parola e si rivolge a Dio in rappresentanza di tutto Israele. Questo salto o sovrapposizione di significati può sembrare artificioso al nostro modo di organizzare ed esporre i pensieri, ma appartiene indubbiamente allo stile biblico.
  Confontando il salmo di Giona con il salmo 22, in entrambi i casi si vede il protagonista esprimere la sua angoscia nel sentirsi colpito e abbandonato da Dio:
    "Tu m'hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi sono passati sopra" (Giona 2:4);
    "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?"
    (Salmo 22:1);
e in entrambi i casi si conclude con un inno di lode a Dio:
    "Io t'offrirò sacrifici, con canti di lode; adempirò i voti che ho fatto" (Giona 2:10);
    "Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea" (Salmo 22:22).
La vicenda del profeta Giona può dunque essere vista come un segno preparato da Dio affinché Israele al tempo stabilito potesse riconoscere il Messia in colui a cui fosse avvenuto un fatto simile. Il riferimento di Gesù a Giona non è dunque la semplice descrizione di ciò che sarebbe avvenuto nell'immediato futuro, ma il ricordo ai capi religiosi di ciò che Dio aveva detto nel lontano passato e che presto sarebbe avvenuto. Dio ha preparato la vicenda di Giona per essere il segno messianico decisivo, il segno dei segni, quello destinato a togliere ogni dubbio.
  E così è stato. Perché è soltanto dopo la morte e la risurrezione di Gesù che i suoi discepoli hanno riconosciuto definitivamente in Lui il Messia d'israele. I segni precedenti li avevano entusiasmati, ma non erano stati sufficienti a radicare in loro la fede: nei tre giorni e tre notti passati da Gesù nel cuore della terra i discepoli avevano fatto in tempo a smettere tutti di credere che Gesù fosse il Messia. E anche dopo, i Vangeli alludono delicatamente alla difficoltà con cui i discepoli arrivarono ad essere convinti che Gesù fosse proprio il Messia morto e risuscitato.
  Se questa può essere la linea interpretativa della parabola storica di Giona, si possono trarre alcune conseguenze e porre altre domande.
  Quando il pesce vomita sulla terra il poco gradito contenuto che per tre giorni e tre notti lo aveva infastidito, Giona-Israele è perdonato. Non è la "disubbidienza" di Giona che deve essere accentuata, ma il perdono da lui ricevuto. Se così non fosse, Giona dovrebbe rimanere, insieme ad Israele da lui rappresentato, il prototipo del più incallito e testardo dei peccatori: il peggiore profeta, il peggiore tra i servitori di Dio.
  Ma così non è. Perché nella parabola storica Giona-Israele esce perdonato dal ventre del pesce. E nell'interpretazione storica della parabola si ottiene che Israele, da quando il Messia risuscitato è uscito dal cuore della terra, è un popolo perdonato da Dio.
  La tesi che Israele oggi è un popolo perdonato da Dio, e non un popolo maledetto, è già contenuta nel libro "La superbia dei Gentili". Ne presentiamo qui alcuni estratti.
    «Deve essere abbandonata l'idea che dopo la morte di Gesù Dio mantenga un volto adirato verso il suo popolo e per questo motivo lo sottoponga a innumerevoli sofferenze. E' vero esattamente il contrario. Dio era adirato con Israele prima della venuta di Gesù, fin dal tempo di Isaia, e anche per questo aveva mantenuto il silenzio per circa quattrocento anni. Ma attraverso i profeti, a cominciare proprio da Isaia, aveva annunciato il giorno in cui si sarebbe riconciliato con il suo popolo, perché Egli stesso si sarebbe caricato dei suoi peccati e avrebbe perdonato la sua iniquità.

    "Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati. La voce di uno grida: «Preparate nel deserto la via del Signore, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio! Ogni valle sia colmata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; i luoghi scoscesi siano livellati, i luoghi accidentati diventino pianeggianti.»" (Isaia 40:1-4).

    Il "debito della sua iniquità" è stato pagato quando Gesù è morto in croce "colpito a causa dei peccati del mio popolo" (Isaia 53:8).
      Prima che per i miei peccati personali, Gesù è morto per i peccati del suo popolo, cioè di Israele. Accogliere per sé il perdono e dichiarare che il popolo d'Israele si trova ancora sotto l'ira di Dio a causa dei suoi peccati perché ha ucciso Cristo significa praticare una distorsione del messaggio biblico che prima o poi conduce ad atteggiamenti antisemiti.»
Questo spiega anche la grande gioia con cui viene annunciata a tutto il popolo sia la venuta del Messia, sia la sua risurrezione.
    "In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore." (Luca 2:8-11).
Quale può essere la gioia che tutto il popolo avrebbe avuto, se la conseguenza della venuta di Gesù sarà considerata dagli ebrei il più grande disastro nella storia d'Israele? Il libro degli Atti si preoccupa di sottolineare questa gioia. Agli israeliti presenti a Gerusalemme nella festa di Pentecoste dopo la morte, la risurrezione e l'ascensione al Padre di Gesù, l'apostolo Pietro annunciò il Messia, invitando tutti a ravvedersi, non per evitare il giudizio di Dio, come aveva fatto Giovanni Battista, ma per ricevere da Dio i doni che aveva promesso nel passato al suo popolo:
    "E Pietro a loro: «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo" (Atti 2:38)
In quel giorno tremila persone accettarono la parola di Pietro. E fu allora che tutto il popolo cominciò a gustare quella grande gioia che gli angeli avevano annunciato ai pastori.
    "Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati." (Atti 2:44-47).
"Tutto il popolo" non si riferisce certamente a tutti gli israeliti uno ad uno, ma nello stile biblico sta a significare che Dio attribuisce a tutto il popolo quello che in quel momento solo una parte, il "residuo" d'Israele, riconosce e sperimenta.
  Lo studio della parabola storica di Giona potrebbe proseguire nel tentativo di interpretarne altri particolari. Dopo essere stato vomitato sulla terra dal pesce, Giona-Israele è perdonato da Dio, ma non ancora del tutto convinto. In lui si agitano due anime, come è sempre accaduto nella storia di Israele, dai tempi di Giacobbe ed Esaù fino ad oggi. Una di esse spinge Giona ad ubbidire a Dio, e questo gli permette di far arrivare alle Nazioni, rappresentate dai Niniviti, il messaggio di perdono che Dio gli aveva affidato fin dall'inizio; l'altra invece rimane dubbiosa, perplessa, recalcitrante. Dio però aspetta, perché sa che la riconciliazione ormai è avvenuta, anche se non se ne godono ancora tutte le conseguenze. Non ordina più, discute. Con infinita pazienza replica pacatamente alle parole del suo irritato servitore che gli rimprovera di essere troppo buono.
  E a dire il vero, qualche rimprovero dello stesso tipo mi sentirei anch'io di muoverlo al Signore, per come ha trattato Giona. Perché se fosse stato per me, l'avrei preso e rigettato in mare, senza chiamare un pesce a raccoglierlo. Antisemitismo di un gentile invidioso dell'intramontabile ebreo? Potrebbe essere. Ma se è così, allora mi identifico coi Niniviti e "grido con forza a Dio, e mi converto dalla mia via malvagia e dalla violenza che è nella mia mente" (cfr. Giona 3:8), come dovrebbero fare tutti quelli che odiano Israele.
  Giona che mugugna sotto il ricino è l'Israele di oggi. Quando era in fuga da Dio mentre si trovava sulla nave, Giona non sapeva di essere nel peccato ancor prima di imbarcarsi; adesso che è in fuga da Dio rimanendo a rodersi sotto il ricino, non sa di essere perdonato. Quell'incontro in fondo al mare nel ventre del pesce l'ha salvato per sempre. Ma sembra che lui non lo sappia, e quindi non può ancora goderne i benefici.
  È per questo che la storia di Giona s'interrompe bruscamente con una domanda di Dio a cui non è stata data ancora una risposta. Manca il finale. Manca la risposta di Giona-Israele.
  Ma il Signore aspetta. Perché sa che verrà il giorno in cui Israele dirà con tutto il cuore: ברוך הבא בשם יהוה (Salmo 118:26).
  Del resto Gesù l'aveva detto:
    "Da ora innanzi non mi vedrete più, finché non direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»" (Matteo 23:39).