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Il mio servo Giobbe (1)

di Marcello Cicchese

Riflessioni sul libro di Giobbe

CAPITOLO 1
  1. C'era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest'uomo era integro e retto; temeva Iddio e fuggiva il male.
  2. Gli erano nati sette figli e tre figlie;
  3. possedeva settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di bovi, cinquecento asine e una servitù molto numerosa. E quest'uomo era il più grande di tutti gli Orientali.
  4. I suoi figli solevano andare gli uni dagli altri e darsi un convito, ciascuno nel suo giorno: e mandavano a chiamare le loro tre sorelle perché venissero a mangiare e a bere con loro.
  5. E quando la serie dei giorni di convito era finita, Giobbe li faceva venire per purificarli; si levava di buon mattino, e offriva un olocausto per ciascun d'essi, perché diceva: 'Può darsi che i miei figli abbian peccato ed abbiano rinnegato Iddio in cuor loro'. E Giobbe faceva sempre così.
  6. Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
  7. E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal camminar per essa'.
  8. E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
  9. E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
  10. Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
  11. Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
  12. E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
  13. Or accadde che un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie mangiavano e bevevano del vino in casa del loro fratello maggiore, giunse a Giobbe un messaggero a dirgli:
  14. 'I buoi stavano arando e le asine pascevano lì appresso,
  15. quand'ecco i Sabei son piombati loro addosso e li hanno portati via; hanno passato a fil di spada i servitori, e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  16. Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: 'Il fuoco di Dio è caduto dal cielo, ha colpito le pecore e i servitori, e li ha divorati; e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  17. Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: 'I Caldei hanno formato tre bande, si son gettati sui cammelli e li han portati via; hanno passato a fil di spada i servitori, e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  18. Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: 'I tuoi figli e le tue figlie mangiavano e bevevano del vino in casa del loro fratello maggiore;
  19. ed ecco che un gran vento, venuto dall'altra parte del deserto, ha investito i quattro canti della casa, ch'è caduta sui giovani; ed essi sono morti; e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  20. Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
  21. 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
  22. In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.

CAPITOLO 2
  1. Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro a presentarsi davanti all'Eterno.
  2. E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal camminar per essa'. E l'Eterno disse a Satana:
  3. 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
  4. E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
  5. ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
  6. E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
  7. E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
  8. E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
  9. Ma lascia stare Iddio, e muori!'
  10. E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

CAPITOLO 42
  1. Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
  2. Ora dunque prendetevi sette tori e sette montoni, venite a trovare il mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi stessi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi; ed io avrò riguardo a lui per non punir la vostra follia; poiché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe'.
  3. Elifaz di Teman e Bildad di Suach e Tsofar di Naama se ne andarono e fecero come l'Eterno avea loro ordinato; e l'Eterno ebbe riguardo a Giobbe.
  4. E quando Giobbe ebbe pregato per i suoi amici, l'Eterno lo ristabilì nella condizione di prima e gli rese il doppio di tutto quello che già gli era appartenuto.
  5. Tutti i suoi fratelli, tutte le sue sorelle e tutte le sue conoscenze di prima vennero a trovarlo, mangiarono con lui in casa sua, gli fecero le loro condoglianze e lo consolarono di tutti i mali che l'Eterno gli avea fatto cadere addosso; e ognuno d'essi gli dette un pezzo d'argento e un anello d'oro.
  6. E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più dei primi; ed egli s'ebbe quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di bovi e mille asine.
  7. E s'ebbe pure sette figli e tre figlie;
  8. e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia.
  9. E in tutto il paese non c'eran donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro una eredità tra i loro fratelli.
  10. Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
  11. Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

In un suo articolo sul libro di Giobbe, il pedagogistista cattolico Matteo Perrini scrive:

    «Nell'economia dell'Antico Testamento il Libro di Giobbe segna una svolta. L'umanità non ha mai cessato di leggerlo. Giobbe, l'uomo giusto nella desolazione più nera, è sconfitto nel suo implacabile contendere con Dio, o Dio è vinto dalle “ragioni” di Giobbe, e noi ci ricorderemmo di lui proprio a causa del suo prevalere sull'Onnipotente? O forse il rapporto tra Giobbe e Dio si pone al di sopra del dilemma vittoria-sconfitta? Due pensatori, Schopenhauer e Kierkegaard, fuori dell'orizzonte cristiano l'uno e grande cristiano l'altro, hanno preso sul serio Giobbe e hanno fatto benissimo perché il dolore risveglia nell'uomo la coscienza metafisica ed in ultima analisi è il “soffro, dunque sono” il punto di partenza di ogni serio interrogare se stessi e gli altri sul senso della vita. E chi meglio di Giobbe ha saputo sviscerare i termini della tremenda questione? Per questo potremmo anche noi prendere in mano quel testo - un libro di assalto alle false evidenze e di domande che mozzano il fiato - e lasciarci mettere in discussione da esso».

Sono in molti a pensarla in modo simile, credenti e non credenti. Il libro di Giobbe affronterebbe in modo drammatico il "mistero della sofferenza", ponendo l'uomo davanti alla metafisica domanda: "Perché soffro?"
  Chi pensa così però non prende in vera considerazione il libro di Giobbe nella sua totalità, ma solo la parte centrale di esso. Con una fine operazione di chirurgia letteraria, al libro vengono amputate la testa e la coda, cioè il prologo e l'epilogo,  che qui invece, appositamente, abbiamo voluto riportare per esteso.
  In certi casi la cosa viene esplicitamente dichiarata. Per il noto biblista cattolico Gianfranco Ravasi, per esempio, la parte amputata è una cornice "piuttosto imbarazzante, che davvero non corrisponde alla forza del poema centrale". E in un altro punto aggiunge: "Il quadretto finale posticcio (42,10- 17) con una nuova famiglia prospera e serena è solo un modo per quietare le riserve degli ascoltatori superficiali che vogliono a tutti i costi un lieto fine".
  Nella sua totalità dunque il libro mette in imbarazzo,  ma dopo la sua amputazione invece affascina molto i lettori più pensierosi, perché  - dicono - affronta arditamente il mistero insondabile della sofferenza umana.
  Nel libro intero però la sofferenza di Giobbe non è affatto un mistero. Se qualcuno si chiede "perché soffre Giobbe?" la risposta è semplice: "perché Satana ha lanciato una sfida a Dio sulla pelle di Giobbe, e Dio l'ha accettata". Dov'è il mistero? Il mistero se l'è creato chi ha deciso di amputare il libro. Ma è un problema suo, che nasce da lui, non dal libro. I lettori più filosofici però non sanno rinunciare al  gusto di elaborare teorie complicate per problemi che senza la filosofia potrebbero trovare risposte semplici.
  Un altro imbarazzato commentatore è lo studioso francese Samuel Terrien, citato da Ravasi, che fa questa considerazione  sull'epilogo del libro: «Dopo una visione di Dio così alta come quella dei capitoli precedenti - dobbiamo proprio dirlo - il racconto della ricompensa finale di Giobbe non è altro che una digressione fuori luogo con un tocco di volgarità.» E da parte sua il biblista cattolico aggiunge: «Infatti, disturba non poco vedere quest'uomo che ha sfidato Dio, che è penetrato nel mistero, che ha cercato in tutti i modi di caricare su di sé quasi tutta la gamma del soffrire e del dolore e che è diventato quasi un vessillo della sofferenza umana, concludere alla fine la sua esistenza come uno sceicco orientale, sotto le sue tende che volano al vento, mentre, dimentico dei figli che ha perso e delle disgrazie precedenti, banchetta e si gode la nuova numerosa famiglia e il bestiame che popola il suo orizzonte restaurato.»
  Un lettore così, dopo aver letto il libro, invece di riconoscere di non averci capito niente e concludere magari con una valutazione spregiativa, lo prende in mano, lo amputa delle parti  ritenute superflue e dipinge quello che  resta  con artistici colori di sua scelta.
  Amputazioni e adattamenti di questo tipo sono usuali in tutti coloro che trattano la Bibbia come un'antologia di racconti da cui trarre interessanti spunti di riflessione. Sono liberi di farlo, ma la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) ha a che fare con la verità, non con l'arte, è rivelazione di Dio, cioè esposizione ispirata di fatti che solo Dio ha compiuto  nei suoi rapporti con la terra e con gli uomini. A quello che Dio racconta non si può togliere né aggiungere nulla. Chi non crede in Dio può leggere la Bibbia e dirne quello che vuole, ma fino a che non ne riconosce l'Autore e non accoglie la Sua parola non può sperare di capirla veramente.
  In quanto rivelazione di Dio, la Bibbia è autosufficiente, cioè non ha bisogno di supporti esterni essenziali per la comprensione profonda di quello che Dio vuole comunicare. Riferimenti archeologici, documenti storici, considerazioni linguistiche sono certamente utili, in qualche caso indispensabili per la comprensione di un particolare testo e dei suoi collegamenti con la realtà fattuale, ma non sono determinanti per l'interpretazione del senso vero che Dio vuol dare agli Scritti Sacri nel Suo rapporto con gli uomini, sia a livello personale, sia a livello storico.
  Il libro di Giobbe può essere allora un buon esempio di come si possono applicare questi presupposti nello studio del testo. Il significato dei termini e delle espressioni deve essere preso nel senso più letterale possibile, in armonia con la totalità del messaggio biblico e  con l'uso che ne viene fatto in altre parti della Bibbia stessa. Le varie "scienze" possono avere un ruolo ancillare, mai magisteriale.
  Una prima domanda riguarda allora la sua collocazione tra gli Scritti sacri.

• Che ci fa il libro di Giobbe nel canone ebraico?
  Il libro di Ester è noto come l'unico libro della Bibbia in cui non compare mai il nome di Dio, il tetragramma, qui tradotto con Eterno. Compare invece più di cinquanta volte il termine giudeo o giudei. Il libro di Giobbe presenta invece un'altra particolarità: in esso non compare  mai alcun nome collegato alla storia di Israele, né di persona né di luogo, mentre compare 22 volte (tante quante sono le lettere dell'alfabeto ebraico) il tetragramma; e di queste, 21 si trovano proprio nella "cornice" che si vorrebbe scartare: il prologo e l'epilogo. Nel corpo del libro compare una sola volta in bocca a Giobbe (12:9). Gli amici non lo usano mai.
  Non si sa chi sia l'autore umano, e tutto sommato questo rafforza la convinzione che in ogni caso il vero autore è Dio stesso, quali che siano gli strumenti e i modi che può aver usato.
  Il libro tratta di storia, come tutta la Bibbia, cioè di fatti veramente accaduti; non è dunque  un componimento poetico con acclusa morale. Giobbe è un uomo del passato  in carne ed ossa, da trattare con la stessa concretezza con cui si considerano personaggi biblici come Noè, Abramo, Mosè, Davide ed altri.
  La storia della sua vita è contenuta nel libro che porta il suo nome: un libro che è parte del patrimonio spirituale di Israele, ed è in questo che sta il privilegio prioritario del popolo ebraico. Ma se è così resta aperta la domanda: come mai nelle sue pagine non si trovano tracce della storia di questo popolo? La spiegazione è semplice: perché Giobbe è vissuto quando Israele non c'era ancora, cioè prima di Abramo. Israele ha ricevuto il libro da Dio come rivelazione  di fatti che hanno preceduto la formazione del popolo ebraico e appartengono dunque, in un certo senso, alla sua preistoria, come tutti gli avvenimenti che precedono la chiamata di Abramo.
  E' chiaro allora che i fatti riportati nel prologo del libro potevano essere raccontati soltanto da Dio, perché lì si parla di un'assemblea dove erano presenti, oltre che Dio,  soltanto quelle particolari creature che la Bibbia in altra parte chiama angeli. Dunque non c'erano testimoni oculari appartenenti al genere umano.
  Ma dove sono gli angeli nel libro di Giobbe?

    Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro a presentarsi davanti all'Eterno (1:6).

Chi sono i figli di Dio? L'autosufficienza della Bibbia costringe a cercare la risposta esclusivamente tra le sue pagine, anche se si possono fare confronti con altre fonti. Si trova allora che quando nell'Antico Testamento si parla di figli di Dio (al plurale) questi sono sempre angeli (buoni o cattivi), mai uomini. La cosa può essere dimostrata con precisi riscontri biblici, ma per convincere può anche essere utile fare un confronto con quelli che nella Bibbia sono chiamati figli degli uomini. L'espressione sottolinea la provenienza, il modo in cui si è generati. Si dice infatti, proprio in questo libro, che «L’uomo, nato di donna, vive pochi giorni, ed è sazio d’affanni» (14:1). I figli degli uomini sono tutti  nati di donna, cioè  hanno tutti un padre e una madre umani, mentre i figli di Dio sono generati direttamente da Dio. In questo senso si può dire che tra gli uomini solo Adamo ed Eva sono figli di Dio, tutti gli altri sono figli degli uomini.
  La differenza non è di poco conto. Qualcuno infatti potrebbe chiedersi come mai Dio, dopo aver visto che Adamo si sentiva solo, non ha pensato di popolare la terra con tanti altri Adami prodotti in serie come il primo? La scelta di Dio ha un significato profondo: riguarda il modo in cui Dio vuole che gli uomini vengano al mondo e la terra sia popolata: per generazione da altri uomini. Più precisamente, come frutto di una relazione d'amore tra un uomo e una donna uniti in un legame simile a quello di Adamo ed Eva.  Questo ha un valore scottante anche oggi, anzi  proprio oggi.
  Ma torniamo al libro. Tra gli angeli compare un essere che per la prima volta nella Bibbia è chiamato Satana. Questo personaggio compare solo tre volte nell'Antico Testamento, e la narrazione che si fa nel prologo del libro di Giobbe può essere considerata una rivelazione  che Dio fa arrivare a Israele, e poi a tutti gli uomini, su un fatto avvenuto prima della sua fondazione, in cui compare proprio questo essere.  . Nel resto della storia biblica di Israele si dice poco su Satana, forse perché è bene che la sua natura e le sue opere siano pienamente svelate soltanto dopo la sua sconfitta, avvenuta a suo tempo nella persona e nell'opera del Signore Gesù Cristo. Nel Nuovo Testamento si parla più estesamente di Satana, mettendo in evidenza la vittoria che su di lui ha compiuto in Gesù, e a cui partecipano tutti i veri credenti in Cristo.
  La descrizione dell'assemblea di angeli buoni e cattivi presieduta da Dio, in cui può entrare lo stesso Satana con diritto di parola, ha il significato di una rivelazione fatta da Dio stesso, non di una creazione artistica fatta da uomini. Trascurare la presenza nel creato del mondo angelico, solitamente invisibile agli uomini ma tuttavia concreto e operante, è una delle gravi lacune della cultura illuministica occidentale. Ci si appoggia in tutto e per tutto alla cosiddetta scienza, senza tener conto che in questo modo ci si autolimita volontariamente nella comprensione dei fatti. Nella cosiddetta scienza non compariranno  mai dei referti indicanti la presenza di angeli o demoni, per il semplice fatto che nei suoi presupposti protocollari questi termini non esistono, e quindi non possono comparire in nessuna spiegazione dei fatti. E' ovvio allora che non si può trovare ciò che non si cerca. Ma non cercare un oggetto non implica che l'oggetto non esista.
  Satana dunque esiste, perché la Bibbia lo dice e una molteplicità di fatti lo conferma. Se si hanno occhi per vedere.
  Dopo il peccato originale Satana è diventato il principe di questo mondo (Giovanni 14:30) e considera quindi il mondo un suo dominio. All'inizio di questo libro lo troviamo che fa su e giù per la terra come una polizia stradale che sorveglia il movimento dei suoi sudditi. Tra questi ne vede uno che non si comporta da buon cittadino del suo regno, e allora decide di presentarsi di persona nell'assemblea celeste per parlarne con Dio stesso. Forse aveva in mente di elevare una vera e propria rimostranza: "Com'è che questo mio cittadino  si comporta come se fosse alle tue dipendenze e non alle mie? Non è giusto (secondo il codice di giustizia di Satana)". Il Signore capisce al volo e per togliere d'imbarazzo l'ospite comincia Lui il discorso. Sarà interessante seguirne gli sviluppi.

(Notizie su Israele, 19 dicembre 2021)


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Il mio servo Giobbe (2)

Riflessioni sul libro di Giobbe

CAPITOLO 1
  1. C'era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest'uomo era integro e retto; temeva Iddio e fuggiva il male.
  2. Gli erano nati sette figli e tre figlie;
  3. possedeva settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di bovi, cinquecento asine e una servitù molto numerosa. E quest'uomo era il più grande di tutti gli Orientali.
  4. I suoi figli solevano andare gli uni dagli altri e darsi un convito, ciascuno nel suo giorno: e mandavano a chiamare le loro tre sorelle perché venissero a mangiare e a bere con loro.
  5. E quando la serie dei giorni di convito era finita, Giobbe li faceva venire per purificarli; si levava di buon mattino, e offriva un olocausto per ciascun d'essi, perché diceva: 'Può darsi che i miei figli abbian peccato ed abbiano rinnegato Iddio in cuor loro'. E Giobbe faceva sempre così.
  6. Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
  7. E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal camminar per essa'.
  8. E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
  9. E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
  10. Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quel che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
  11. Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
  12. E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
  13. Or accadde che un giorno, mentre i suoi figli e le sue figlie mangiavano e bevevano del vino in casa del loro fratello maggiore, giunse a Giobbe un messaggero a dirgli:
  14. 'I buoi stavano arando e le asine pascevano lì appresso,
  15. quand'ecco i Sabei son piombati loro addosso e li hanno portati via; hanno passato a fil di spada i servitori, e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  16. Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: 'Il fuoco di Dio è caduto dal cielo, ha colpito le pecore e i servitori, e li ha divorati; e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  17. Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: 'I Caldei hanno formato tre bande, si son gettati sui cammelli e li han portati via; hanno passato a fil di spada i servitori, e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  18. Quello parlava ancora, quando ne giunse un altro a dire: 'I tuoi figli e le tue figlie mangiavano e bevevano del vino in casa del loro fratello maggiore;
  19. ed ecco che un gran vento, venuto dall'altra parte del deserto, ha investito i quattro canti della casa, ch'è caduta sui giovani; ed essi sono morti; e io solo son potuto scampare per venire a dirtelo'.
  20. Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
  21. 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
  22. In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.

CAPITOLO 2
  1. Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro a presentarsi davanti all'Eterno.
  2. E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal camminar per essa'. E l'Eterno disse a Satana:
  3. 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
  4. E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
  5. ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
  6. E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
  7. E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
  8. E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
  9. Ma lascia stare Iddio, e muori!'
  10. E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

E' stato già osservato che alla domanda: "perché soffre Giobbe?" il libro dà una risposta molto semplice: "perché Satana ha lanciato una sfida a Dio sulla pelle di Giobbe, e Dio l'ha accettata". Ma allora perché si dice che il libro affronta il mistero della sofferenza umana? La domanda dovrebbe essere un'altra: "perché Dio ha accettato quella sfida?" Le due domande sono espressioni di due tipi di lettura: antropocentrica e teocentrica.
  La lettura antropocentrica parte dall'uomo e all'uomo ritorna, facendo intervenire Dio soltanto come suggestiva cornice in cui si svolge l'intero processo di riflessione. Il problema "serio" sta tutto nel drammatico dibattito che costituisce il corpo del libro.
  La lettura teocentrica invece parte da Dio e a Dio ritorna, cercando di capire le sue parole, le sue scelte, i suoi interventi; e solo in relazione a questi esamina le reazioni degli uomini. Dio parla e agisce in primo luogo per essere conosciuto:

    "Essi conosceranno che io sono l'Eterno, il loro Dio, che li ho fatti uscire dal paese d'Egitto per abitare in mezzo a loro. Io sono il l'Eterno il loro Dio" (Esodo 29:46).
E' Dio che dobbiamo conoscere se vogliamo conoscere noi stessi. Da Lui dobbiamo partire, non da noi.
  Ma molti comincerebbero a leggere il libro dal capitolo 3: "Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita". Ecco un incipit interessante: maledire il giorno in cui si è nati, e indirettamente Colui che l'ha voluto. Chi non ha mai provato in qualche momento la stanchezza di dover sopportare non solo il peso di qualche problema, ma proprio il peso dell'esistenza? Ecco allora che si diventa attenti a quello che i personaggi dicono, cercando nei loro colloqui qualche espressione o qualche situazione in cui riconoscersi? Ma sta qui il centro del libro? E inoltre, leggendo il libro in questo modo, si può davvero trovare qualche conforto?
  E' vero che il libro comincia presentando "un uomo che si chiamava Giobbe". Un uomo dunque, dirà qualcuno, un uomo come tutti noi: è giusto allora esaminare il libro partendo dai problemi umani. Come tutti noi? "Quest'uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male". Quanti di noi sono pronti a riconoscersi in un uomo così? Già a questo punto è possibile che nella lettura cominci a verificarsi un distacco tra quello che è scritto e quello che si vorrebbe far dire al testo per armonizzarlo con quello che si pensa. Giobbe non appare affatto "come uno di noi".
  Viene poi detto che "quest'uomo era il più grande di tutti gli Orientali". Chi sono costoro? In Genesi 11:2 sta scritto: "Partendo dall'oriente, gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Scinear, e là si stanziarono", dunque si può supporre che con il termine Orientali si intenda la totalità degli uomini che ancora tutti uniti abitavano in oriente e poi si mossero verso la pianura di Scinear per tentare la scalata al cielo con la torre di Babele.
  Per quanto riguarda il paese di Uz, la Bibbia lo nomina soltanto nelle Lamentazioni: “Esulta, gioisci, o figlia di Edom, che risiedi nel paese di Uz!" (4:21), ma questo non obbliga a farlo coincidere con il paese di Giobbe, dal momento che tra i due fatti sono intercorsi molti secoli e il nome geografico può essere stato usato in diversi luoghi.
  Tra gli Orientali c'era anche Giobbe. Uno come tanti? Certo, era molto ricco, era un grande proprietario di bestiame, ma solo questo? Sta scritto che "quest'uomo era il più grande di tutti gli Orientali". Stranamente, anche commentatori più aderenti al testo biblico non sottolineano questa particolarità. Si tratta di un superlativo! Giobbe era il più grande di tutti! Non dice neanche "il più ricco", ma "il più grande". Questo significa che aveva una posizione di preminenza in quella società. Giobbe era unico. La sua prosperosa famiglia di sette figli e tre figlie, l'abbondanza esuberante del suo patrimonio di animali erano l'espressione della sua gloria in mezzo agli uomini. Era conosciuto da tutti, anche in zone lontane, per questo ai tre amici che vivevano in paesi diversi poté arrivare la notizia della tremenda disgrazia che gli era capitata. E per l'importanza del fatto si misero tutti e tre in viaggio per svolgere quello che sembrava loro essere un doveroso compito.
  Di quest'uomo, che in quel tempo era il più grande sulla terra, Dio dà un giudizio preciso, contenuto nelle parole che rivolge a Satana: "Non ce n’è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Dio e fugga il male” (Giobbe 1:8). Giobbe dunque non era soltanto il più grande di tutti; era anche il più "integro e retto" di tutti. Ancora una volta qui si usa il superlativo. Sono parole dette da Dio, non da un uomo, ed il sottolinearlo con forza è espressione di una lettura teocentrica del testo. Non è stile iperbolico, come quando si dice di un cantante famoso che "nessuno al mondo canta come lui", per dire soltanto che piace moltissimo. Qui è Dio che parla.
  A questo punto, prima di continuare s'impone una domanda a chi legge: ti riconosci in questo Giobbe, nel suo rapporto con la società, con la famiglia, con Dio? Probabilmente no, ma allora, se non ti riconosci nel Giobbe qui presentato, perché pensi di riconoscerti in lui quando maledice il giorno della sua nascita (3:1) e accusa Dio che gli nega giustizia e gli amareggia l'anima (27:1)?
  Per trovare una corrispondenza tra la sofferenza di Giobbe e quella nostra bisogna tagliare testa e coda del libro, ma anche così quello che resta è un'illusione. Se il Signore avesse davvero voluto che noi imparassimo la sofferenza dall'esempio di un uomo, avrebbe dovuto sceglierne uno un po' più simile a noi, con una storia un po' più vicina alle nostre.
  Osserviamo adesso la sua famiglia. Nel libro viene presentata come un ammirevole esempio di convivenza umana. Le regole che la tengono insieme hanno qualcosa di rituale: una serie di conviti "ciascuno nel suo giorno" (1:4) secondo una fissata successione di giorni (1:5), alla fine della quale Giobbe "si alzava di buon mattino e offriva un olocausto per ciascuno di loro" (1:5).
  Perché questo scorcio di famiglia? Chi vede nel libro solo un'opera letteraria può avere la risposta pronta: per rendere più colorito il racconto. Ma questo libro, come tutta la Bibbia, non è una favola, ma un libro di storia, e se si colloca Giobbe nel periodo che va tra la fine del diluvio e la torre di Babele, in cui non c'erano popoli e nazioni e non esisteva ancora Israele, nell'umanità l'unica forma di sottosocietà prevista in origine da Dio era la famiglia: "l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua moglie, e saranno una stessa carne" (Genesi 2:24). Tutte le altre sottosocietà che si formeranno in seguito dopo la caduta dell'uomo sono conseguenza di peccato. La prima città fu fondata da Caino (Genesi 4:17) per evitare di essere "vagabondo e fuggiasco sulla terra" (Genesi 4:12), come Dio gli aveva annunciato. Le nazioni furono conseguenza della bramosia globalista degli uomini che volevano evitare di essere "dispersi sulla faccia della terra" (Genesi 11:4), contro il preciso ordine dato Dio a Noè: "Crescete, moltiplicate e riempite la terra" (Genesi 9:1). La costituzione del regno in Israele è conseguenza della richiesta del popolo a Samuele di procurargli un re "come l'hanno tutte le nazioni" (1 Samuele 8:5), e Dio disse a Samuele di accontentarli "perché essi hanno rigettato non te, ma me, affinché io non regni su di loro" (1 Samuele 8:7).
  Si può dire allora che in questo periodo della storia, quando non c'era ancora un "popolo santo" con al centro un santuario, Dio aveva scelto una "famiglia santa" come centro della sua azione nel mondo, con Giobbe come capofamiglia avente funzione di sacerdote. Purtroppo, come famiglia biblica quella di Giobbe è poco considerata, eppure precede quelle di Abramo, Isacco e Giacobbe.
  Ma sui patriarchi Giobbe ha un'altra priorità temporale: è il primo ad essere stato riconosciuto esplicitamente da Dio come suo servo.

    "E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'. (1:8).

"Il mio servo Giobbe", cinque volte viene ripetuta nel libro questa espressione, due nel prologo e tre nell'epilogo: 1:8, 2:3, 42:7, 42:8. E' sorprendente che anche in questo caso molti commentatori hanno tralasciato di sottolineare la presenza ripetuta di una forma linguistica che nella Bibbia assume una particolare importanza. Le persone che Dio chiama "mio servo" sono molto poche, e tutte di gran peso:

    Abramo - "E l'Eterno gli apparve quella stessa notte, e gli disse: Io sono l'Iddio d'Abrahamo tuo padre; non temere, poiché io sono con te e ti benedirò e moltiplicherò la tua progenie per amore di Abrahamo mio servo" (Genesi 26:24).
    Mosè - “Mosè, mio servo, è morto. Alzati dunque, attraversa questo Giordano, tu con tutto questo popolo, per entrare nel paese che io do ai figli d’Israele” (Giosuè 1:2).
    Davide - “Io ho fatto un patto con il mio eletto; ho fatto questo giuramento a Davide, mio servo(Salmo 89:3)
    Isaia - "E l'Eterno disse: 'Come il mio servo Isaia va seminudo e scalzo, segno e presagio, durante tre anni, contro l'Egitto e contro l'Etiopia..." (Isaia 20:3)
    Eliakim - "In quel giorno, io chiamerò il mio servo Eliakim, figlio di Hilkia" (Isaia 22:20)
    Israele - "Ma tu, Israele, mio servo, Giacobbe che io ho scelto, progenie d'Abrahamo, l'amico mio,  tu che ho preso dalle estremità della terra, che ho chiamato dalle parti più remote d'essa, e a cui ho detto: 'Tu sei il mio servo; t'ho scelto e non t'ho reietto', (Isaia 41.8-9)
    Il Messia - "Egli dice: 'È troppo poco che tu sia mio servo per rialzare le tribù di Giacobbe e per ricondurre gli scampati d'Israele; voglio far di te la luce delle nazioni, lo strumento della mia salvezza fino alle estremità della terra" (Isaia 49:6).

Giobbe dunque non è semplicemente una brava persona che Dio osserva dall'alto con compiacimento; Giobbe è un servo di Dio, cioè una persona da Lui scelta, che vive alle sue dipendenze. Nelle civiltà di quel tempo il servo era proprietà del padrone, espressione della sua personalità; e se verso l'interno il servo doveva ubbidienza al suo padrone, verso l'esterno egli esprimeva la gloria di colui da cui dipendeva. Colpire un servo significava automaticamente colpire il suo padrone. E' per questo che Satana, volendo colpire Giobbe, colpisce a morte i suoi servi. Ma se Giobbe è un servo di Dio, allora Satana, colpendo il servo Giobbe, vuole colpire Dio.
  E' guerra. Guerra tra una creatura angelica, Satana, e il Creatore, combattuta sul campo di una creatura umana, Giobbe. Ma è solo un momento di una guerra totale che è presente nella Bibbia dalla Genesi all'Apocalisse. E' chiaro allora che per avvicinarsi alla comprensione di questo libro, si deve decidere non solo di non amputarlo di certe sue parti, ma anche di non sviscerarlo dal suo corpo che è l'intera rivelazione biblica.
  E' quello che cercheremo di fare.

(Notizie su Israele, 26 dicembre 2021)


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Il mio servo Giobbe (3)

Riflessioni sul libro di Giobbe
    «L'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'» (Giobbe 1:8).

In una lettura teocentrica della Bibbia, la prima attenzione è rivolta al personaggio principale, cioè Dio. Nel versetto citato sopra sta scritto: "L'Eterno disse a Satana: hai tu notato il mio servo Giobbe?" Per chi crede alla Scrittura questa frase ha lo stesso valore di verità di quella in cui si dice

    «L'Eterno gli apparve quella stessa notte, e gli disse: 'Io sono l'Iddio di Abraamo tuo padre; non temere, poiché io sono con te e ti benedirò e moltiplicherò la tua progenie per amore di Abraamo, mio servo(Genesi 26:24)

Giobbe e Abraamo sono entrambi servi di Dio, e ad ogni suo servo Dio dà un incarico. Nel suo rivolgersi a Satana, Dio avrebbe potuto presentare la domanda in questo modo: "Hai tu notato che bel servizio svolge per me Giobbe?" Satana non chiede spiegazioni, perché ha visto molto bene lo zelo che Giobbe ha per Dio (e si suppone che ne sia stato tremendamente infastidito), ma nella lotta in corso tra lui e il Creatore decide di puntare sulla carta della correttezza tra duellanti. "Non vale", dice in sostanza a Dio: "Non l'hai tu circondato di un riparo?"  (1:10). Riparo da che cosa? Dagli assalti di Satana, che vede in Giobbe, servo di Dio, un uomo che opera per conto del suo nemico.
  Concentriamoci allora sulla posizione che Giobbe  aveva prima di essere dato nelle mani di Satana. In quanto servo, Giobbe aveva un rapporto di parola con Dio: "io invocavo Dio ed Egli mi rispondeva" (12:4). Non è cosa di poco conto. Ricorda infatti un privilegio che avrà in seguito un altro importante servo di Dio: "Or l'Eterno parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla col proprio amico" (Esodo 33:11).
  Si capisce allora lo strazio di Giobbe quando questo colloquio s'interrompe bruscamente,  proprio mentre è  sotto i colpi di Satana, e su di lui cade il silenzio totale, ostinato, inspiegabile di Dio: "Io grido a te, ma tu non mi rispondi; ti sto davanti, ma tu non mi consideri!" (30:20).
  La spiegazione di quella che era la posizione di Giobbe prima della sfida di Satana con Dio si trova nella  sua ultima replica, contenuta nei capitoli 29, 30, 31 del libro. Nel capitolo 29 Giobbe ricorda quello che era; nel capitolo 30 osserva quello che è adesso;  nel capitolo 31 trae le sue conclusioni su di sé e sull'avvenuto, prende posizione e si dichiara pronto sottoporsi a testa alta al giudizio di Dio: "Gli renderò conto di tutti i miei passi, mi avvicinerò a lui come un principe!" (31:37).
  Esaminiamo allora attentamente il capitolo 29, perché nella sua interpretazione si trova il punto chiave  della tesi che qui si vuole sostenere.

  1. Giobbe riprese il suo discorso e disse:
  2. «Oh fossi io come nei mesi d'un tempo, come nei giorni in cui Dio mi proteggeva,
  3. quando la sua lampada mi risplendeva sul capo, e alla sua luce io camminavo nelle tenebre!»

I commentari di solito presentano questo capitolo come lo sfogo di un disperato che una volta stava tanto bene e adesso sta tanto male. Presentata così, la cosa non è affatto fuori del comune: ralasciando gli aspetti contingenti legati alla situazione particolare del personaggio, resta la descrizione di uno stato d'animo che vede il passato a tinte rosa e il presente a tinte nere. Molto umano, naturalmente, e sull'esame di questo aspetto si sbizzarrisce a tutto spiano la lettura antropocentrica, che facilmente scivola nella psicologia, appunto perché riguarda la psiche, l'aspetto umano per eccellenza.
  In questo caso però l'elemento essenziale che entra in gioco è Dio. Ma anche per questo caso lo psicologismo ha la sua risposta pronta: fare il nome di Dio nell'affrontare problemi personali non è che un particolare linguaggio con cui si esprimono i propri pensieri e stati d'animo. E anche Dio ripiomba nella psiche.
  Ma per Giobbe il semplice nominare Dio è una cosa seria. "Dio mi proteggeva", dice agli amici nella sua ultima replica; e se questo non fosse stato vero, Giobbe avrebbe potuto essere incolpato di "millantato credito", cosa che non aƒstvrebbe mai osato fare. Dice  infatti: "E invero mi spaventava il castigo di Dio, ed ero trattenuto dalla maestà di lui" (31:23).
  Dunque è proprio vero che Dio proteggeva Giobbe, e Satana stesso, sia pure probabilmente a malincuore, è costretto a riconoscerlo: "Non l'hai tu circondato di un riparo?" (1:10). Ancora una volta è Dio che agisce: decide di mettere una siepe di protezione intorno a Giobbe. Ma non è generica provvidenza: Dio fa così perché Giobbe è il suo servo, e in quanto tale riceve la protezione necessaria per svolgere l'incarico che gli è stato affidato, come Dio fa con ogni suo servo. E tra questi si può citare proprio Israele: "Ecco, colui che protegge Israele non sonnecchierà né dormirà" (Salmo 121:4); Dio lo protegge perché lo ama e perché gli ha affidato un compito da svolgere. E la stessa cosa fa Dio con Giobbe.
  Anche il riferimento alla lampada che risplende sul suo capo fa risaltare la posizione di Giobbe come servo di Dio, in analogia a quanto dice il servo Davide: "Sì, tu sei la mia lampada, o Eterno, e l'Eterno illumina le mie tenebre" (2 Samuele, 22:29).

  1.  Oh fossi com'ero ai giorni della mia maturità, quando il consiglio di Dio era sulla mia tenda,
  2.  quando l'Onnipotente stava ancora con me, e avevo i miei figli dintorno;
  3.  quando mi lavavo i piedi nel latte e dalla roccia mi fluivano ruscelli d'olio!

Il versetto 4 è tradotto in vari modi. Invece di maturità, alcuni traducono giovinezza, altri ancora autunno, termine che  traduce letteralmente l'ebraico charof (חרף). La mia tenda nominata da Giobbe può essere paragonata alla tenda di convegno del santuario. Non era quindi una tenda qualsiasi, perché su di essa vegliava (come qualcuno traduce) il consiglio di Dio. Gli amici di Giobbe gli rimproverano allora quello che invece era una realtà: "Hai tu sentito quel che s'è detto nel consiglio di Dio? Hai tu fatto incetta della sapienza per te solo?" (15:8).
  Il latte in cui il servo Giobbe si lavava i piedi e la roccia da cui fluivano ruscelli d'olio possono essere messi a confronto, anche nella forma linguistica, col paese dove scorre latte e miele (Esodo 33:3) promesso al servo Israele. In entrambi i casi sono espressione dell'abbondanza di benedizioni terrene che Dio aveva riservato ai  suoi servitori.

  1. Allorché uscivo per andare alla porta della città e mi preparavano il seggio sulla piazza,
  2. i giovani, al vedermi, si ritiravano, i vecchi s'alzavano e rimanevano in piedi;
  3. i maggiorenti cessavano di parlare e si mettevano la mano sulla bocca;
  4. la voce dei capi diventava muta, la lingua s'attaccava al loro palato.

Questa descrizione è una conferma di quello che all'inizio del libro si dice di Giobbe: era il più grande di tutti gli Orientali. Dunque nella società umana di quel tempo Giobbe era il primo cittadino, il più grande, la persona più importante. Proprio questo viene sottolineato nei versetti sopra riportati; Giobbe dava ordini (v.7); veniva onorato con segni di rispetto da giovani e vecchi (v.8); notabili e capi, cioè persone che avevano altri sotto di loro ed erano abituati a prendere decisioni e dare ordini, quando si trovavano davanti a lui chiudevano la bocca, il che significa che non avevano autonomo diritto di parola. L'espressione la lingua s'attaccava al loro palato fa capire che avevano addirittura paura di parlare, e se anche avessero tentato di farlo, non ci sarebbero riusciti.
  A questo punto il lettore deve decidere:  come dev'essere considerata una descrizione tutta al superlativo come questa? Se non è vera, allora Giobbe è un fanfarone che si era montato la testa; le sue frecce polemiche contro gli amici e le sue invettive contro Dio perdono quell'alone di sublime e tormentata misteriosità che molti ci trovano e le sofferenze che subisce se le merita tutte. Se invece è vera, allora bisogna seriamente chiedersi chi era questo Giobbe prima dell'attacco satanico, e da dove proveniva l'autorità che mostrava di avere con tanta sicurezza e che gli era riconosciuta da tutti.
  La risposta che qui si propone è questa: Giobbe era  in quel tempo e in quella società  il servo di Dio scelto per svolgere il compito di manifestare concretamente agli uomini la Sua autorità, la Sua misericordia, la Sua giustizia.
  Nei versetti 4-6 Giobbe riceve da Dio saggezza, benedizione familiare e abbondanza di beni.
  Nei versetti 7-10 riceve da Dio suprema autorità di governo sull'intera società.
  Ma passiamo agli altri versetti.

  1. L'orecchio che mi udiva mi diceva beato; l'occhio che mi vedeva mi rendeva testimonianza,
  2. perché salvavo il misero che gridava aiuto e l'orfano che non aveva chi lo soccorresse.
  3. Scendeva su di me la benedizione di chi stava per perire, facevo esultare il cuore della vedova.

Qui vediamo Giobbe esercitare l'autorità ricevuta da Dio per compiere azioni di misericordia verso i deboli della società. Se nei versetti 7-10 Giobbe è la voce di Dio in terra, nei versetti 11-13 è il braccio di Dio in terra. Un braccio che soccorre l'orfano e la vedova perché sta scritto che “Dio è padre degli orfani e difensore delle vedove” (Salmo 68:5) e Giobbe in questo tempo ha il compito di manifestare concretamente queste caratteristiche di Dio in una società ancora priva di altre rivelazioni.

  1. La giustizia era il mio vestito e io il suo; la rettitudine era come il mio mantello e il mio turbante.
  2. Ero l'occhio del cieco, il piede dello zoppo;
  3. ero il padre dei poveri, studiavo a fondo la causa dello sconosciuto.
  4. Spezzavo la ganascia al malfattore, gli facevo lasciare la preda che aveva fra i denti.

Qui si vede Giobbe indossare la toga del magistrato che esercita per delega la giustizia di Dio sulla terra. Una giustizia che secondo l'uso biblico contiene una spinta verso la parità: ciechi e zoppi vanno aiutati perché mancanti di qualcosa che altri hanno, ma ai malfattori che vogliono rubare ad altri ciò che a loro appartiene la giustizia richiede che si compia una punizione esemplare. E dicendo che spezzava la ganascia al malfattore, Giobbe fa capire che era pronto a farlo. Non si può negare inoltre che il riferimento a ciechi e zoppi ha un tono messianico che si manifesterà in seguito nell'azione di Gesù: "Allora vennero a lui, nel tempio, dei ciechi e degli zoppi, ed egli li guarì” (Matteo 21:14).

  1. E dicevo: 'Morrò nel mio nido, e moltiplicherò i miei giorni come la rena;
  2. le mie radici si stenderanno verso l'acque, la rugiada passerà la notte sui miei rami;
  3. la mia gloria sempre si rinnoverà, e l'arco rinverdirà nella mia mano'.

Qui si vede Giobbe che pensa alla sua morte. La rivelazione di Dio su ciò che avviene dopo la morte, se esiste ancora una vita e di che qualità è, non era ancora stata data, perché legata all'avvenimento fondamentale della visita di Dio in terra nella persona del Messia. Ma in ogni caso, nella ferma convinzione di essere vissuto in piena comunione con Dio, di averlo servito con diligenza e onestà, Giobbe era certo che la fine della sua vita avrebbe espresso, anche nella forma, quella benedizione di Dio che durante la sua vita si era riversata su di lui nell'abbondanza di beni e consolazioni che aveva ricevuto. Vedeva le sue opere al servizio di Dio come radici piantate in terra che a suo tempo avrebbero dato buoni frutti a gloria sua e in benedizione a tutti. E' un modo di sentire che in qualche modo si può ritrovare nella sobria e significativa formula con  cui gli ebrei si riferiscono a una persona scomparsa che ha operato bene in vita: "il suo ricordo sia in benedizione".
  Si può capire allora il lacerante sconcerto che prova Giobbe quando, dopo un certo tempo, si accorge che sta avviandosi verso una morte ignominiosa, che nella sua forma lercia e repellente provoca disgusto ed esprime il totale rigetto da parte di Dio. Non è dunque generica paura della morte, quella di Giobbe. E' molto di più.

  1. Mi ascoltavano, aspettavano il mio parere, e tacevano per udire il mio consiglio.
  2. Quando avevo parlato, non replicavano; la mia parola scendeva su di loro come una rugiada.
  3. Mi aspettavano come la pioggia, aprivano la loro bocca come a una pioggia di primavera.
  4. Se a loro sorridevo, non osavano crederlo, e non potevano oscurare la luce del mio volto.
  5. Quando andavo da loro, mi sedevo come capo; ero come un re tra le sue schiere, come un consolatore in mezzo agli afflitti.

In questo passo ci sono due soggetti: io e loro. L'io che parla è Giobbe, ma chi sono i "loro"? Sono tutti gli altri, tutti quelli che il libro presenta come Orientali, che come abbiamo detto sono la totalità degli uomini che soggiornavano dopo il diluvio in oriente e poi si sono messi in marcia  verso la pianura di Scinear. Ma in ogni caso, anche se questa spiegazione non fosse del tutto soddisfacente, si può dire che questi Orientali costituiscono l'unica forma di società umana che Dio ha preso in considerazione per esercitare in essa la sua opera, in un tempo in cui non c'erano ancora popoli e nazioni. E in questa società, Giobbe era il primo in assoluto.
   I versetti poco sopra riportati spiegano in che senso Giobbe era "il più grande di tutti gli Orientali" (1:3). Si può presumere che egli descriva i momenti in cui andava alla porta della città, saliva sul seggio preparato per lui sulla piazza (29:7) e si rivolgeva al popolo che pendeva dalle sue labbra. Loro ascoltavano in silenzio, aspettavano che lui dicesse il suo parere, e una volta uditolo non replicavano, ma lo consideravano come una pioggia di benedizione che scendeva su di loro. Se chi lo stava guardando incontrava il suo volto sorridente, quasi stentava a credere che si rivolgesse proprio a lui. Ma il volto di Giobbe rimaneva in ogni caso luminoso, perché neanche la tristezza  che in qualche caso poteva leggere sui loro visi sembrava poter oscurare la luce del suo volto. Anche questo particolare richiama a un altro fatto biblico: Mosè che scende dal Sinai col volto raggiante perché aveva parlato con Dio (Esodo 34:29-35).
  Ma il versetto decisivo che descrive la posizione di Giobbe in quella società è l'ultimo di questa serie, che esprime in modo sintetico e chiaro il rapporto tra lui (Giobbe) e loro (gli altri). Giobbe andava da loro, il che significa che non era uno dei tanti, lui si sedeva, cioè occupava una posizione elevata, perché sedeva come capo (rosh, ראש), come re (melek, מלך) e come consolatore degli afflitti.
  Con queste parole Giobbe termina la rievocazione di quello che lui era una volta agli occhi di Dio per il servizio agli uomini. Tanto più amare appaiono allora le parole con cui inizia il capitolo successivo:

    "E ora servo di zimbello a dei più giovani di me, i cui padri non mi sarei degnato di mettere fra i cani del mio gregge!" (30:1).

Se dunque in quel tempo e in quella società Giobbe era "il più grande" nel senso spiegato in questo passo, e se la sua posizione è legittimata dalle parole "il mio servo Giobbe" con cui Dio l'ha presentato a Satana, allora bisognerà riprendere in mano il libro dall'inizio, e invece di porsi la domanda antropocentrica "perché Giobbe soffre?" si dovrà porre la domanda teocentrica: "perché Dio ha lasciato che Giobbe soffrisse sotto l'azione di Satana?" Ma per rispondere a questa domanda non basterà leggere soltanto il libro di Giobbe.

(Notizie su Israele, 2 gennaio 2022)


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Il mio servo Giobbe (4)

Riflessioni sul libro di Giobbe

CAPITOLO 30
  1. E ora servo di zimbello a dei più giovani di me, i cui padri non mi sarei degnato di mettere fra i cani del mio gregge!
  2. E a che mi sarebbe servita la forza delle loro mani? Gente incapace a raggiungere l'età matura,
  3. smunta dalla miseria e dalla fame, ridotta a brucare nel deserto, la terra da tempo nuda e desolata,
  4. strappando erba salsa presso ai cespugli, ed avendo per pane radici di ginestra.
  5. Sono scacciati di mezzo agli uomini, la gente grida lor dietro come dietro al ladro,
  6. abitano in burroni orrendi, nelle caverne della terra e fra le rocce;
  7. ragliano fra i cespugli, si sdraiano alla rinfusa sotto i rovi;
  8. gente da nulla, razza senza nome, cacciata via dal paese a bastonate.
  9. E ora io sono il tema delle loro canzoni, il soggetto dei loro discorsi.
  10. Mi detestano, mi fuggono, non si trattengono dallo sputarmi in faccia.
  11. Non hanno più ritegno, mi umiliano, rompono ogni freno in mia presenza.
  12. Questa gentaglia insorge alla mia destra, m'incalzano, e si appianano le vie contro di me per distruggermi.
  13. Hanno sovvertito il mio cammino, lavorano alla mia rovina, essi che nessuno vorrebbe soccorrere!
  14. Avanzano come attraverso un'ampia breccia, si precipitano innanzi in mezzo alle rovine.
  15. Terrori mi si rovesciano addosso; l'onore mio è portato via come dal vento, è passata come una nube la mia felicità.
  16. Ora l'anima mia si strugge in me,
  17. giorni d'afflizione m'hanno colto.
  18. La notte mi trafigge, mi stacca le ossa, e i dolori che mi rodono non hanno posa.
  19. Per la grande violenza del mio male la mia veste si sforma, mi si serra addosso come la tunica.
  20. Dio m'ha gettato nel fango, e rassomiglio alla polvere e alla cenere.
  21. Io grido a te, e tu non mi rispondi; ti sto dinanzi, e tu non mi consideri!
  22. Ti sei mutato in nemico crudele verso di me; mi perseguiti con la potenza della tua mano.
  23. Mi levi per aria, mi fai portare via dal vento, e mi annienti nella tempesta.
  24. Io lo so, tu mi conduci alla morte, alla casa di convegno di tutti i viventi.
  25. Ma chi sta per perire non protende forse la mano? e nell'angoscia sua non grida al soccorso?
  26. Non piangevo io forse per chi era nell'avversità? l'anima mia non era forse angustiata per il povero?
  27. Speravo il bene, ed è venuto il male; aspettavo la luce, ed è venuta l'oscurità!
  28. Le mie viscere ribollono e non hanno requie, sono arrivati per me giorni d'afflizione.
  29. Me ne vado tutto annerito, ma non dal sole; mi alzo in mezzo all'assemblea e grido aiuto;
  30. son diventato fratello degli sciacalli, compagno degli struzzi.
  31. La mia pelle è nera, e cade a pezzi; le mie ossa son calcinate dall'arsura.
  32. La mia cetra non dà più che accenti di lutto, e la mia zampogna voce di pianto.
    "Beato l’uomo che Dio castiga! E tu non disdegnare la correzione dell’Onnipotente; perché egli fa la piaga, ma poi la fascia; egli ferisce, ma le sue mani guariscono, In sei distrette egli sarà il tuo liberatore e in sette il male non ti toccherà" (Giobbe 5:17-19).

Sono le parole con cui Elifaz di Teman cerca nel suo primo intervento di convincere Giobbe a riconoscere i suoi peccati, umiliarsi davanti a Dio  e aspettare fiducioso il Suo perdono, nella certezza di essere un giorno pienamente ristabilito. 
  Ma né lui né i suoi compagni riescono a smuovere Giobbe. Nell'ultima delle tre tornate di interventi, il secondo degli amici, Bildad di Suach, dice soltanto poche parole, mentre il terzo, Tsofar di Naaman, rinuncia del tutto a intervenire.
  Alla fine Giobbe rimane il totale padrone del campo, e in assenza di oppositori si lancia nel suo ultimo appassionato discorso. Che svolge in tre tempi, con due interruzioni alla fine dei capitoli 26 e 27, come volesse lasciare a qualcuno degli amici la possibilità di intervenire ancora; cosa che però non accade. 
  Dopo l'intermezzo del capitolo 28, nei capitoli 29, 30, 31,  Giobbe conclude in piena solitudine la sua arringa davanti a un Dio che si mantiene ostinatamente silenzioso e a cui ogni tanto  rivolge la parola. Ma da cui non riceve risposta.
  Nel capitolo 29 Giobbe riporta alla memoria un passato stupendo. Quello che Giobbe nostalgicamente ricorda non è usuale: rimpiange il tempo in cui Dio gli era amico, quando l'Onnipotente stava ancora con lui (29:4). Da Dio aveva ricevuto  l'incarico di svolgere il prezioso servizio di amministrare per Suo conto la società degli uomini con giustizia e misericordia. 
  Al fine di svolgere bene questo incarico, Dio gli aveva dato energia, saggezza e decisione; e per sostenere la sua autorità davanti agli empi e ai ribelli gli aveva concesso qualcosa che in seguito darà anche a Israele: il potere di spandere il terrore dell'Eterno intorno a lui..

    "Il terrore dell'Eterno s'impadronì di tutti i regni dei paesi che circondavano Giuda, al punto che non mossero guerra a Giosafat"  (2 Cronache 17:10).

Qualcosa del genere accadeva infatti anche intorno a Giobbe. Anche i malfattori, anche i meno convinti della sua autorità e della giustizia della sua opera, avevano dovuto adattarsi alle sue decisioni e piegare il capo. Giobbe non scherzava, lo ricorda lui stesso molto bene:

    "Spezzavo la ganascia all’iniquo, e gli facevo lasciare la preda che aveva fra i denti" (29:17).
Si può immaginare allora quello che avranno provato quegli iniqui con la ganascia rotta quando hanno visto Giobbe rotolarsi nel fango.

    Ora io sono il tema delle loro canzoni, il soggetto dei loro discorsi. Mi detestano, mi fuggono, non si trattengono dallo sputarmi in faccia. Non hanno più ritegno, mi umiliano, rompono ogni freno in mia presenza (30:9-11).

Avranno ricordato il tempo in cui Giobbe andava da loro e  si sedeva come capo e come re (29:25). Allora i malfattori avevano dovuto piegarsi e tacere, ma adesso... adesso che a quanto pare il Dio di Giobbe ha trovato qualcosa da ridire anche su di lui e l'ha scaricato, adesso loro vogliono prendersi le dovute soddisfazioni.
  Giobbe confidava di morire nel suo nido e diceva:

    "la mia gloria sempre si rinnoverà" (29:20);

adesso invece, mentre si rigira nella melma è costretto a dire:

    "Dio mi dà in balìa degli empi, mi getta in mano dei malvagi" (16:11).

E non può aggiungere niente, non può obiettare, perché deve riconoscere, sulla base di quello che lui stesso aveva insegnato, che

    "questo testimonia contro di me, la mia magrezza si leva ad accusarmi in faccia" (16:8).

Ecco allora il dramma lacerante di Giobbe: Dio gli aveva dato gloria ponendogli sul capo la corona di re, e adesso l'amara realtà da riconoscere è questa:

    "Dio ... m'ha spogliato della mia gloria, m'ha tolto dal capo la corona" (19:10-11);
    "l'onore mio è portato via come il vento"
    (30:15).

Il suo problema è Dio. Certo, la sua situazione personale è disastrosa, alla sofferenza morale del disprezzo subito dagli uomini si aggiunge una tremenda sofferenza fisica:

    Le mie viscere bollono e non hanno requie, sono venuti per me giorni d’afflizione. Me ne vado tutto annerito, ma non dal sole; mi levo in mezzo alla radunanza, e grido aiuto;  son diventato fratello degli sciacalli, compagno degli struzzi. La mia pelle è nera, e cade a pezzi; le mie ossa sono calcinate dall’arsura. La mia cetra non dà più che accenti di lutto, e la mia zampogna voce di pianto (30:27-31).

Ma il tormento più grande è di sapere che tutto quello che gli arriva proviene da Dio. Era un amico, ma Dio si è trasformato in nemico. Perché? perché? Giobbe vorrebbe saperlo, quello che gli dicono gli amici non lo convince affatto. Allora s'interroga: "Avrò forse commesso qualche errore involontario, di cui non mi sono accorto?" Ma non riesce a trovare nulla:

    "Il mio piede ha seguito fedelmente le sue orme, mi sono tenuto sulla sua via senza deviare; non mi sono scostato dai comandamenti delle sue labbra, ho riposto nel mio seno le parole della sua bocca" (23:11-12).

Questi comandamenti non sono come i precetti di Mosè, né sono norme generali della coscienza di cui Dio provvede ogni uomo: queste sono precise disposizioni di servizio comunicate per voce da Dio a Giobbe.  
  E questo parlare di Dio col suo servo di ciò che è bene e ciò che è male, questa possibilità per Giobbe di entrare in una comunione personale con Lui, il Creatore e Signore di tutte le cose, certamente è stato vissuto da Giobbe come un grande onore e un'ineffabile esperienza d'amore con Dio.
  E adesso il crollo totale, inaspettato:

    "Dio m’ha gettato nel fango, e rassomiglio alla polvere e alla cenere" (30:19).

E di nuovo la domanda: perché? perché? Vorrebbe saperlo, lo chiede implorante a Dio. Ma... silenzio.

    "Io grido a te, e tu non mi rispondi; ti sto dinanzi, ma tu non mi consideri!" (30:20).

Ecco allora l'amara conclusione:
    Ti sei mutato in nemico crudele verso di me; mi perseguiti con la potenza della tua mano. Mi levi per aria, mi fai portar via dal vento e mi annienti nella tempesta (30:21-22).

E infine la cupa visione di ciò che lo aspetta:

    "Io lo so, tu mi conduci alla morte, alla casa di convegno di tutti i viventi" (30:23).

La morte per Giobbe non aveva il semplice significato di una vita che termina, come è comune a tutti i mortali. Morire in quel modo significava per lui, e per tutto il mondo intorno a lui, cadere in modo totale e definitivo sotto i colpi della maledizione di Dio; significava la piena sconfessione di tutto il suo operato; significava uscire  dalla terra dei vivi per entrare da maledetto nel "convegno di tutti i viventi", sapendo che dopo di lui il suo nome sarebbe rimasto in maledizione di chi lo ricorda.
  Si capiscono allora i primi tormentati "perché?" con cui Giobbe dà inizio alle sue invettive:

    Perché non morii nel seno di mia madre?
    Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
    Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
    (3:11-12)

"Se mi volevi far morire in questo modo, perché mi hai fatto nascere?" chiede Giobbe a Dio dal fondo della sua angoscia. 
  Già, perché?

(Notizie su Israele, 9 gennaio 2022)


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Il mio servo Giobbe (5)

Riflessioni sul libro di Giobbe

CAPITOLO 31
  1. Io avevo stretto un patto con gli occhi miei; come dunque avrei fissati gli sguardi sopra una vergine?
  2. Che parte mi avrebbe assegnata Dio dall'alto e quale eredità m'avrebbe data l'Onnipotente dai luoghi eccelsi?
  3. La sventura non è forse per il perverso e le sciagure per quelli che fanno il male?
  4. Dio non vede forse le mie vie? Non conta tutti i miei passi?
  5. Se ho camminato insieme alla menzogna, se il piede mio s'è affrettato dietro alla frode
  6. (Dio mi pesi con bilancia giusta e riconoscerà la mia integrità),
  7. se i miei passi sono usciti dalla retta via, se il mio cuore è andato dietro ai miei occhi, se qualche sozzura mi si è attaccata alle mani,
  8. ch'io semini e un altro mangi, e quel che è cresciuto nei miei campi sia sradicato!
  9. Se il mio cuore s'è lasciato sedurre per amor d'una donna, se ho spiato la porta del mio prossimo,
  10. che mia moglie giri la macina ad un altro, e che altri abusino di lei!
  11. Poiché quella è una scelleratezza, un misfatto punito dai giudici,
  12. un fuoco che consuma fino a perdizione, e che avrebbe distrutto fin dalle radici ogni mia fortuna.
  13. Se ho disconosciuto il diritto del mio servo e della mia serva, quando erano in lite con me,
  14. che farei quando Dio s'alzasse per giudicarmi, e che risponderei quando mi esaminasse?
  15. Chi fece me nel grembo di mia madre non fece anche lui? non ci ha formati nel grembo materno uno stesso Dio?
  16. Se ho rifiutato ai poveri quel che desideravano, se ho fatto languire gli occhi della vedova,
  17. se ho mangiato da solo il mio pezzo di pane senza che l'orfano ne mangiasse la sua parte,
  18. io che fin da giovane l'ho allevato come un padre, io che fin dal grembo di mia madre sono stato guida alla vedova,
  19. se ho visto uno soffrire per mancanza di vesti o il povero senza una coperta,
  20. se non m'hanno benedetto i suoi fianchi, ed egli non s'è riscaldato con la lana dei miei agnelli,
  21. se ho alzato la mano contro l'orfano perché mi sapevo sostenuto alla porta...
  22. che la mia spalla si stacchi dalla sua giuntura, il mio braccio si spezzi e cada!
  23. E invero mi spaventava il castigo di Dio, ed ero trattenuto dalla maestà di lui.
  24. Se ho riposto la mia fiducia nell'oro, se all'oro fino ho detto: 'Tu sei la mia speranza',
  25. se mi son rallegrato che le mie ricchezze fossero grandi e la mia mano avesse molto accumulato,
  26. se, contemplando il sole che risplendeva e la luna che procedeva lucente nel suo corso,
  27. il mio cuore, in segreto, s'è lasciato sedurre e la mia bocca ha posato un bacio sulla mano
  28. (misfatto anche questo punito dai giudici, perché avrei difatti rinnegato l'Iddio che è di sopra),
  29. se mi son rallegrato della sciagura del mio nemico ed ho esultato quando gli ha incòlto sventura
  30. (io, che non ho permesso alle mie labbra di peccare chiedendo la sua morte con imprecazione),
  31. se la gente della mia tenda non ha detto: 'Chi è che non si sia saziato della carne delle sue bestie?'
  32. (lo straniero non passava la notte fuori; le mie porte erano aperte al viandante),
  33. se, come fanno gli uomini, ho coperto i miei falli celando nel petto la mia iniquità,
  34. perché avevo paura della folla e dello sprezzo delle famiglie al punto da starmene quieto e non uscir di casa...
  35. Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
  36. ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
  37. Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui m'avvicinerò come un principe!
  38. Se la mia terra mi grida contro, se tutti i suoi solchi piangono,
  39. se ne ho mangiato il frutto senza pagarla, se ho fatto sospirare chi la coltivava,
  40. che invece di grano mi nascano spine, invece d'orzo mi crescano zizzanie!
    Qui finiscono le parole di Giobbe.

L'ultimo intervento di Giobbe, nei capitoli 29, 30, 31 non è una replica agli amici, perché l'ultimo dei suoi interlocutori, Tsofar di Naaman, aveva del tutto rinunciato a parlare, probabilmente perché ormai del tutto convinto  che ogni tentativo di far cambiare opinione a Giobbe sarebbe stato inutile. Questi tre capitoli costituiscono quindi il discorso conclusivo di Giobbe, in cui ricorda nel capitolo 29 quello che era stato nel passato e nel capitolo 30 quello che è ora nel presente; e infine, nel capitolo 31, mette a confronto il suo passato  con le indicazioni e i comandamenti ricevuti da Dio. Fa questo perché lo spaventoso male che gli sta arrivando addosso non può che essere interpretato, agli occhi di tutti ma anche ai suoi se fosse capitato ad un altro, come un severo giudizio di Dio sul suo operato. Si sente pesato, insieme alle sue opere,  su un'implacabile bilancia di giustizia, e da questa pesata sarebbe derivata la terribile sentenza di condanna che ora sta subendo. Giobbe capisce il sistema di giudizio, ed è d'accordo, perché l'ha usato anche lui in tanti casi; ma adesso, nel suo caso, i conti non gli tornano. Adesso mette in dubbio la correttezza della bilancia e fa sentire la sua rivendicazione:

    "Dio mi pesi con bilancia giusta e riconoscerà la mia integrità" (31:6).

E' un parlare ardito, certamente, perché porta a chiedersi: ma Dio, che bilancia ha? Si pone dunque il problema della giustizia. Giobbe non capisce. Lui è stato servo di Dio, ha amministrato la giustizia sugli uomini per conto Suo e davanti ai reclami di chi era colpito da castigo sapeva spiegare il perché di quel castigo, ma adesso che è colpito lui, non sa spiegare il perché. Allora sono gli amici che glielo spiegano, ma  lui non è  convinto. Lui vorrebbe  avere spiegazioni direttamente dal Capo in persona :

    "Ma io vorrei parlare con l'Onnipotente, avrei caro di ragionar con Dio" (13:3)

Ma Dio tace. Ed è un silenzio che pesa.
  Giobbe continua allora il suo esame di coscienza, ma non trova nulla. A noi sembra strano che non trovi nulla, perché amiamo dire che nessuno è perfetto. Se Giobbe pensa di esserlo, forse proprio per questo non è perfetto. Pensiamo.
  Quello di Giobbe però non è l'esame di coscienza di un uomo qualsiasi, perché Dio lo ha scelto come suo servo. Non è questione di generica moralità: Giobbe avverte su di sé la tremenda accusa di essere stato un "malvagio servitore". E non l'accetta, si ribella: non è vero! Ed effettivamente è così! Non è vero. Dio stesso  l'aveva attestato di fronte a Satana.
  Con questo non si vuol dire che Giobbe era senza alcun peccato, ma che non aveva trasgredito nessuno degli ordini ricevuti da Dio nell'esercizio della sua funzione. La cosa dunque si chiarisce proprio se si considera Giobbe come un servo di Dio in quel particolare momento della storia della salvezza, e non come un generico esemplare umano a cui si applicano norme etiche universali valevoli per tutti gli uomini in tutti i tempi e in ogni luogo.
  La stessa cosa si può dire di Noè, che  avendo eseguito con fede e costanza l'ordine ricevuto da Dio, poteva essere definito da Lui giusto, anche se poi si sbronzò e si denudò in mezzo alla sua tenda.
  Molti dei peccati che Giobbe nega di aver commesso non sono da considerare trasgressioni di generali obblighi morali:

    "Se ho disconosciuto il diritto del mio servo e della mia serva, quando erano in lite con me" (31:13);
      "Se ho rifiutato ai poveri quello che desideravano, se ho fatto languire gli occhi della vedova, se ho mangiato da solo il mio pezzo di pane senza che l’orfano ne mangiasse la sua parte" (31:16-17);
      "Se ho visto uno perire per mancanza di vesti o il povero senza una coperta" (31:19).

Le ipotetiche omissioni sopra elencate appaiono essere precise inadempienze a doveri che competono ad un'autorità con obblighi di servizio, più che generiche trasgressioni di un codice morale applicabile a tutti. E' per questo che anche ai suoi occhi simili mancanze appaiono gravissime, tanto da spingerlo a dire:

    "Che farei quando Dio si alzasse per giudicarmi, e che risponderei quando mi esaminasse?" (31:14);

per poi concludere:

    "E invero mi spaventava il castigo di Dio, ed ero trattenuto dalla maestà di lui" (31:23).

La questione di Giobbe si presenta dunque come un reale problema di rapporto tra Dio e un suo preciso servitore, non come un sofferto rapporto tra uomo e  cose espresso in un linguaggio immaginoso che ricorre ad un ignoto dio rappresentato in una varietà di modi secondo i gusti.
  E' una questione come quella di Giona. Anche in quel caso è in gioco un disaccordo tra Dio e un suo servitore. E anche in quel caso è fuorviante parlare di disubbidienza, peccato, ribellione, sulla scia di un moralismo universalistico dal basso che purtroppo qualche volta assume le forme di un superspiritualismo religioso verso l'alto. Dio agisce nella concretezza dei fatti. Giona è in disaccordo con Dio perché vuole perdonare i pagani; Giobbe è in disaccordo con Dio perché vuole castigare lui. Ed entrambi non capiscono perché; in entrambi i casi Dio alla fine ha un atteggiamento estremamente morbido verso i due "ribelli";  in entrambi i casi la storia appare tronca: manca qualcosa, resta un interrogativo. Nel caso di Giona, Dio non dice come tratta il fuggiasco  dopo la sua risposta impudente; nel caso di Giobbe, Dio non proclama chi è il vincitore nella sfida tra Satana e Lui.
  A tutto questo si può aggiungere che in entrambi i casi si tratta di una storia di sofferenza e amore tra le due parti in gioco. Ma di questo si potrà parlare in seguito.
  Concentriamoci allora sul finale della requisitoria di Giobbe contro Dio. Giobbe non è un ribelle, non è un contestatore ideologico del sistema giuridico di Dio; lui lo approva, lo ha sempre approvato, ma adesso che viene messo personalmente in colpa, proprio lui che ne era un autorevole esecutore, non capisce più. Tutto sembra accusarlo, ma lui dice con onestà: “Sento di non essere quel colpevole che sembro" (9:35). Vuole conoscere il preciso motivo per cui è punito, pretende di conoscerlo, lo chiede implorando a Dio, ma non ottiene risposta. Dio tace.
  Alla fine Giobbe decide di giocare la sua ultima carta. Fino a quel momento aveva resistito al consiglio di sua moglie che gli aveva detto: "Ma lascia stare Dio e muori" (2:9). No, lui si era sempre rifiutato di staccarsi interiormente da Dio; ma adesso, se dopo quella sua ultima mossa Dio avesse continuato a tacere, avrebbe deciso di seguire il consiglio di sua moglie. "Basta, non insisterò più - si sarebbe detto - allontanerò da me definitivamente il pensiero di Dio e cercherò soltanto di morire nel modo meno doloroso possibile".
  Giobbe allora fa un elenco, che poi mette per iscritto, di ipotetiche trasgressioni di cui avrebbe potuto essere accusato,  in forma di ripetuti se. "Se il mio cuore s'è lasciato sedurre... Se ho disconosciuto il diritto del mio servo... Se ho  rifiutato ai poveri quel che desideravano..." e così via. Giobbe stesso quindi elenca le ipotetiche accuse che Dio avrebbe potuto muovergli, e implicitamente gli rivolge una domanda: di questo tu mi accusi? Avanti, dillo. Vorrebbe avere una risposta, ma tutto tace. "Oh, avessi pure chi m’ascoltasse!..." (31:35), esclama sconsolato.  Ma poiché sembra che non l’ascolti nessuno, prende il suo scritto, lo firma e lo presenta a Dio (31:35):

    "Ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda"

E se ci sono altre cose di cui Dio lo vuole accusare, allora

    "Scriva l'avversario mio la sua querela".

Se l'Onnipotente non vuole parlare, allora scriva, come ho fatto io, dice  Giobbe. E conclude la sua provocazione dichiarando con fierezza:

    "Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!” (31:37).

Ancora una volta è un parlare ardito, quasi insolente. Ma perché Dio non lo fulmina subito? Ecco una domanda a cui è difficile rispondere. Una domanda su Dio, in primo luogo, non su Giobbe.
  Anche qui si può fare un paragone con l'insolenza di Giona che alla domanda di Dio: "Fai bene a irritarti così?" risponde secco: "Sì, faccio bene a irritarmi, fino alla morte" (Giona 4:9). E in entrambi i casi Dio "abbozza". Perché?
  In questo caso Giobbe si è spinto davvero molto avanti. La questione in gioco è la giustizia. Nella contesa sembra che Dio gli abbia gettato la palla tra le mani, aspettando di vedere che cosa ne farà. Dopo tanto combattere e tormentarsi, Giobbe ha deciso di rigettare la palla dall'altra parte. Sente di essere pesato, trovato mancante, secondo la bilancia della giustizia di Dio; ma per lui quella bilancia non è giusta. Con il suo documento Giobbe chiede formalmente a Dio di rispondergli per iscritto, con un preciso testo d'accusa che gli dia la possibilità di difendersi. Che farà Dio con quella palla in mano? A Giobbe la sua richiesta appare profondamente giusta; quindi, se Dio continuerà a tacere, vorrà dire che dalla parte ingiusta ci sta Lui. Giobbe smetterà di cercarlo e seguirà il consiglio di sua moglie.
  Qui finiscono le parole di Giobbe (31:40).
  E Dio continua a tacere.

(Notizie su Israele, 16 gennaio 2022)


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Il mio servo Giobbe (6)

Riflessioni sul libro di Giobbe

Il libro di Giobbe è unico tra i libri della Bibbia. E’ scritto in ebraico  e appartiene indubbiamente al patrimonio di Israele, eppure non contiene alcun nome, alcun riferimento alla realtà di Israele, né storico né geografico. Non compaiono i patriarchi, non compare Mosè e, soprattutto, non compare nessun riferimento diretto o indiretto alla Torà. Ma allora, che ci sta a fare questo libro nelle librerie dei rabbini? A questa domanda potranno rispondere loro, se vogliono, mentre nell’ampio mondo della cultura il libro è visto come un frutto geniale dell’immaginazione umana. A questa fantasia ciascuno può dare il colore che preferisce: religioso o laico, filosofico o pedagogico, serioso o scherzoso, l'importante è che il viaggio interpretativo si muova su una linea che parte dalla terra e ritorna alla terra, proprio come un aeroplano.  E’ la lettura antropocentrica della Bibbia. Ce ne sono di molti tipi. La parte di viaggio che si svolge nell’aria delle idee universali può toccare diverse punte, ma partenza e arrivo sono sempre gli stessi.
  La lettura teocentrica sostiene invece che il corretto viaggio interpretativo debba svolgersi dal cielo alla terra. Nel nostro caso, il libro dev’essere visto come rivelazione di un intervento di Dio nella storia degli uomini. Cercare di capire il libro significa tentare di interpretare la natura e il motivo di questo intervento inserendolo nella totalità della rivelazione di Dio come esposta nella Bibbia.
  E’ quello che ci proponiamo di continuare a fare. L’interpretazione che ne verrà fuori non pretende di essere l’unica o la migliore, ma  le altre interpretazioni con cui vale la pena di mettersi a confronto sono soltanto quelle che si muovono sulla stessa linea biblico-teocentrica. Dedicarsi a letture filosofico-romanzate del libro di Giobbe, inteso come geniale poema frutto dell’arte umana,  è solo un’irritante perdita di tempo. Il Don Chisciotte della Mancia di Miguel De Cervantes può essere ammirato come geniale produzione dell’immaginazione umana, la Divina Commedia di Dante Alighieri invece no. La realtà distorta e romanzata inquina la realtà dei fatti e contamina la figura dell’immaginazione. Se il libro che stiamo considerando è storia rivelata da Dio, allora Giobbe fa parte della storia con maggiore certezza di Giulio Cesare e Napoleone.
  Nel libro non compare mai Israele, dunque i fatti ivi descritti devono appartenere alla sua preistoria, e precisamente ai circa cinquecento anni che vanno dalla fine del diluvio alla chiamata di Abramo. Il Signore avrà voluto consegnare al suo popolo, attraverso l’ispirazione di un suo servitore rimasto sconosciuto, la rivelazione di una vicenda che era importante fosse conosciuta da Israele, e al tempo dovuto in tutto il mondo.
  In questa linea, una corretta interpretazione deve escludere che il libro sia mozzato di testa e coda, come fanno molti, e che sia sviscerato dall’organismo vivo in cui si trova inserito, cioè la Bibbia.
  Esaminando l’Antico Testamento, si trova che Giobbe viene citato esplicitamente soltanto nel libro di Ezechiele, al capitolo 14:

  1. La parola dell'Eterno mi fu ancora rivolta in questi termini:
  2. 'Figlio d'uomo, se un paese peccasse contro di me commettendo qualche prevaricazione, e io stendessi la mia mano contro di lui, e gli spezzassi il sostegno del pane, e gli mandassi contro la fame, e ne sterminassi uomini e bestie,
  3. e in mezzo ad esso si trovassero questi tre uomini: Noè, Daniele e Giobbe, questi non salverebbero che le loro persone, per la loro giustizia, dice il Signore, l'Eterno.
  4. Se io facessi passare per quel paese delle male bestie che lo spopolassero, sì ch'esso rimanesse un deserto dove nessuno passasse più a motivo di quelle bestie,
  5. se in mezzo ad esso si trovassero quei tre uomini, com'è vero ch'io vivo, dice il Signore, l'Eterno, essi non salverebbero né figli né figlie; essi soltanto sarebbero salvati, ma il paese rimarrebbe desolato.
  6. O se io facessi venire la spada contro quel paese, e dicessi: - Passi la spada per il paese! - in modo che ne sterminasse uomini e bestie,
  7. se in mezzo ad esso si trovassero quei tre uomini, com'è vero ch'io vivo, dice il Signore, l'Eterno, essi non salverebbero né figli né figlie, ma essi soltanto sarebbero salvati.
  8. O se contro quel paese mandassi la peste, e riversassi su d'esso il mio furore fino al sangue, per sterminare uomini e bestie,
  9. se in mezzo ad esso si trovassero Noè, Daniele e Giobbe, com'è vero ch'io vivo, dice il Signore, l'Eterno, essi non salverebbero né figli né figlie; non salverebbero che le loro persone, per la loro giustizia.
  10. Poiché così parla il Signore, l'Eterno: Non altrimenti avverrà quando manderò contro Gerusalemme i miei quattro tremendi giudizi: la spada, la fame, le male bestie e la peste, per sterminarne uomini e bestie.
  11. Ma ecco, ne scamperà un residuo, dei figli e delle figlie, che saranno portati fuori, che giungeranno a voi, e di cui vedrete la condotta e le azioni; e allora vi consolerete del male che io faccio venire su Gerusalemme, di tutto quello che faccio venire su di lei.
  12. Essi vi consoleranno quando vedrete la loro condotta e le loro azioni, e riconoscerete che, non senza ragione, io faccio quello che faccio contro di lei, dice il Signore, l'Eterno'.

Dovendo annunciare al profeta Ezechiele il tremendo giudizio che sarebbe presto caduto su Gerusalemme, il Signore comunica al profeta che soltanto un piccolo residuo scamperà. L'esempio portato sta a significare che i profughi in Babilonia a cui Ezechiele si rivolge non devono sperare che la presenza di qualche giusto in Gerusalemme possa assicurare la salvezza dell'intera città: i giusti ci saranno, ma saranno pochi e soltanto loro scamperanno.
  Fa riflettere allora che come esempio di giusti Dio non abbia scelto alcun grande personaggio della storia d'Israele. Noè precede la formazione della nazione e Daniele rappresenta la fine di un certo modo di essere nazione del passato e ne annuncia profeticamente uno nuovo che si realizzerà nel futuro.
  Giobbe, che non ha avuto alcun rapporto con Israele, si trova nel mezzo, in una zona temporale tra Noè ed Abramo, quando gli uomini sembravano in un certo senso abbandonati a se stessi, con l'unica indicazione di moltiplicarsi e disperdersi sulla faccia della terra. E' un periodo su cui la Bibbia dice poco, ma teologi e biblisti non dicono quasi nulla.  Forse potrebbe essere proprio la figura di Giobbe a darci qualche indicazione.
  Nel Nuovo Testamento Giobbe è citato una sola volta, nella lettera di Giacomo, capitolo 4:

  1. Prendete, fratelli, per esempio di sofferenza e di pazienza i profeti che han parlato nel nome del Signore.
  2. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sofferto con costanza. Avete udito parlare della costanza di Giobbe, e avete veduto la fine riserbatagli dal Signore, perché il Signore è pieno di compassione e misericordioso.

Giobbe è nominato insieme ai profeti, dunque come qualcuno a cui Dio ha dato un incarico nel compimento del suo progetto storico, e in quanto tale anche lui ha dovuto soffrire, e lo ha fatto con costanza. Questo sta a significare, ancora una volta, che non è la generica sofferenza umana del personaggio a dover essere oggetto di attenzione, ma il motivo per cui in quel particolare momento della storia ha dovuto percorrere un così tremendo cammino di tribolazione. E prendere atto che lo ha sopportato con costanza.
  Tornando all'Antico Testamento, nella preistoria israeliana c'è un personaggio ben noto, ma anche abbastanza misterioso. Si trova al capitolo 14 della Genesi:

  1. Melchisedec, re di Salem, fece portare del pane e del vino. Egli era sacerdote del Dio altissimo.
  2. Ed egli benedisse Abramo, dicendo: «Benedetto sia Abramo dal Dio altissimo, padrone dei cieli e della terra!
  3. Benedetto sia il Dio altissimo, che t'ha dato in mano i tuoi nemici!» E Abramo gli diede la decima di ogni cosa.

Questo personaggio compare ancora nel Salmo 110 e poi nel Nuovo Testamento, dove viene presentato nella Lettera agli Ebrei come figura emblematica del Messia Gesù. Qui vogliamo soltanto far notare che per Abramo è stato naturale riconoscere in Melchisedec un sacerdote a cui dare "la decima di ogni cosa". Dunque nella Bibbia si parla di sacerdoti e decime anche prima di Abramo e prima ancora delle leggi mosaiche sul sacerdozio. E si parla anche di altare, olocausti, animali puri e impuri:

    Noè edificò un altare all'Eterno; prese d'ogni specie d'animali puri e d'ogni specie d'uccelli puri, e offrì olocausti sull'altare (Genesi 8:20).

Questo fa pensare che nel tempo tra Noè ed Abramo era presente una vita religiosa, indubbiamente soggetta a forme di idolatria satanica ma in mezzo alla quale Dio ha compiuto i suoi interventi di parola e azione, sia al fine di contenere il male, che prima di Noè aveva raggiunto dimensioni insopportabili, sia per mandare avanti, nei tempi storici e nei modi dovuti, il piano di redenzione che si era proposto. Un piano a cui si potrebbe dare il nome di "riconquista della terra" per sottolineare la forma "politica" dell'agire di Dio, cioè il suo modo concreto di agire nella storia degli uomini interagendo con loro mediante persone e in forme da lui scelte.
  In questa chiave di lettura, Giobbe appare come un interlocutore scelto da Dio per mandare avanti il suo progetto in un periodo intermedio che va da Noè, strumento di non distruzione totale dell'originaria creazione degenerata, ad Abramo,  strumento di ricostruzione di un nuovo mondo che sia il compimento dell'intenzione originaria di Dio.
  Si propone dunque, detto con una formula sintetica, una "lettura noachica" del libro di Giobbe, cioè un modo di vedere quella storia nel quadro di una "dispensazione" in cui non valgono soltanto norme dettate dalla coscienza personale, ma anche disposizioni fatte arrivare da Dio alla società in diversi modi.
  L'ebraismo tradizionale  sostiene che le leggi di Mosè sono state date in dono a Israele, mentre al resto dell'umanità sarebbero stati lasciati i "sette precetti noachidi", cioè provenienti da Noè, che qui non elenchiamo. Ci sarebbe dunque una "legge di Mosè" per soli ebrei e una "legge di Noè" per tutti. Senza discutere la validità di questa impostazione ebraica, qui si vuol dire che è proprio dal libro di Giobbe che si può desumere qualcosa sul modo in cui Dio ha fatto arrivare agli uomini le sue indicazioni morali nel tempo che va da Noè ad Abramo. Le dispute di Giobbe con i suoi amici sarebbero quindi da vedere come un appassionato dibattito su come si devono interpretare le norme morali date da Dio.
  Ci si può chiedere infatti: che tipo di etica è quella su cui si basano i personaggi del libro? Da dove proviene? Da quale catalogo di norme? A quali fatti storici si riferisce, per trarne stimoli di condotta? In quei colloqui si trovano risonanze sparse un po' in tutta la Bibbia, a conferma che essa ha un unico Autore, ma se il libro di Giobbe parla di fatti che precedono Abramo, allora più che dare istruzioni su come gli uomini oggi si devono comportare davanti a Dio, il libro mostra come Dio ha operato in quel periodo nel suo interagire con gli uomini.
  Le controversie tra Giobbe e i suoi amici si svolgerebbero dunque in un tempo in cui tra gli uomini era già presente una certa conoscenza di Dio e di ciò che Egli vuole. Di questo discutono con passione Giobbe e i suoi amici, senza riuscire a trovare una sintesi che soddisfi tutte le parti. E per un tempo insopportabilmente lungo, Dio tace. Lascia che gli uomini discutano fra di loro, senza disturbarli.
  Dio comincia a intervenire in incognito quando fa parlare il giovane Elihu. Il quale come prima cosa "s'accese d'ira" contro i tre amici, perché pur essendo anziani ed esperti non erano stati capaci di rispondere in modo adeguato a Giobbe. Allora ci prova lui. E bisogna dire che ci riesce, perché è uno strumento che Dio sceglie per venire in soccorso del suo servo Giobbe che sta pericolosamente sbandando. Perché Dio ama il suo servo. E non vuole che Giobbe, dopo avergli fatto vincere la sfida con Satana, vada a finire tra le grinfie del nemico perché "moltiplica le sue parole contro Dio" (34:37).
  Nel suo rimprovero a Giobbe, Elihu ci fa capire che anche in quel tempo Dio non aveva lasciato gli uomini senza segni della sua presenza e indicazioni della sua volontà. Dal capitolo 33:

  1. Dio parla, una volta, e anche due, ma l’uomo non ci bada;
  2. parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
  3. allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
  4. per distogliere l’uomo dal suo modo d’agire e tenere lontano da lui la superbia;
  5. per salvargli l’anima dalla fossa, la vita dalla freccia mortale.
E più avanti, nel capitolo 36:
  1. Se gli uomini sono stretti da catene, se sono presi nei legami dell’afflizione,
  2. Dio fa loro conoscere la loro condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
  3. egli apre così i loro orecchi ai suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.

Di questo tipo potrebbero essere state le "norme noachide" che valevano prima di Abramo. In questa chiave si potrebbero rileggere tutti gli interventi di Giobbe e dei i suoi amici, e accorgersi che tutti e quattro dicono cose anche molto sensate, che noi stessi oggi ripeteremmo in certe occasioni. Loro però non erano in grado, né una parte né l'altra, di metterle in giusta relazione con il fatto enorme e inaspettato del crollo totale di un colosso come Giobbe.
  E noi, sappiamo farlo?

(Notizie su Israele, 23 gennaio 2022)


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Il mio servo Giobbe (7)

Riflessioni sul libro di Giobbe

GENESI 11

  1. Or tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole.
  2. E avvenne che, essendo partiti dall'Oriente, gli uomini trovarono una pianura nel paese di Scinear, e quivi si stanziarono.

Seguendo la tesi fin qui esposta, si può dire che la storia di Giobbe si colloca nell'ambito dei due versetti sopra citati. Siamo in un tempo postdiluviale e preabramitico. Non ci sono ancora popoli e nazioni, dunque non c'è Israele e non ci sono precetti codificati da osservare.
  Il mondo però non è abbandonato a se stesso, come poteva sembrare prima del diluvio, e proprio la storia di Giobbe ne è la dimostrazione. Dio si fa sentire e interviene in vari modi fra gli uomini, e sa distinguere chi teme Dio e chi no, chi fugge il male e chi ci sguazza dentro.

CAPITOLO 1

  1. C'era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest'uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male.
  2. Gli erano nati sette figli e tre figlie;
  3. possedeva settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di bovi, cinquecento asine e una servitù molto numerosa. E quest'uomo era il più grande di tutti gli Orientali.
  4. I suoi figli solevano andare gli uni dagli altri e darsi un convito, ciascuno nel suo giorno: e mandavano a chiamare le loro tre sorelle perché venissero a mangiare e a bere con loro.
  5. E quando la serie dei giorni di convito era finita, Giobbe li faceva venire per purificarli; si levava di buon mattino, e offriva un olocausto per ciascun d'essi, perché diceva: 'Può darsi che i miei figli abbian peccato ed abbiano rinnegato Iddio in cuor loro'. E Giobbe faceva sempre così.

Tra tutti i cosiddetti Orientali, Dio individua Giobbe, uomo integro e retto, e lo assume al suo servizio. Cinque volte si ripete nel libro "Il mio servo Giobbe": com'è possibile ignorare questa evidente sottolineatura del testo biblico? Dio ha scelto Giobbe, come ha fatto con Noè, Abramo, Mosè. Come loro, l'ha scelto per inserirlo nel suo piano di "riconquista della terra". Perché a Dio interessa quello che avviene in ogni tempo sulla terra, in vista di quello che avverrà un giorno quando ci saranno "nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia" (2 Pietro 3:13).
  Dio incorona il suo servo Giobbe con la gloria di una sovrabbondante benedizione terrena, ben visibile e comprensibile da tutti gli uomini, in modo da servire come segno della presenza del governo di Dio in mezzo agli uomini e susciti in loro un timoroso rispetto.
  Dio benedice anche "l'opera delle sue mani" (1:10), ma poiché Giobbe è un servo di Dio, questo significa che ad essere benedetto è il suo servizio a Dio, non solo il suo generico comportamento di uomo morale. Nel vivere di Giobbe si vede Dio all'opera sulla terra in quel particolare periodo della storia.
  Si capisce allora il fastidio che ne prova Satana, che considera la terra una zona di sua esclusiva competenza e non tollera che su di essa si sia installato un regime a lui nemico.
  Questo regime si presenta al mondo nella forma di una vita di famiglia. Perché la figura e il servizio di Giobbe sono inseparabili dalla sua famiglia. Questa sottolineatura familiare appare superflua a  chi punta l'attenzione sul tormento interiore dell'uomo sventurato colpito da un destino ingiusto e crudele, ma in una corretta lettura teocentrica il punto di primaria importanza non è il soffrire dell'uomo, ma l'agire di Dio.
  Trattandosi poi di preistoria israeliana, è proprio dalla posizione di Israele che si può osservare e tentare di capire Giobbe e la sua famiglia. Se la vicenda personale del protagonista, presa da sola, non sembra avere nulla a che fare con la storia d'Israele, qualche spunto di riflessione si può trovare invece proprio nella sua famiglia.
  Se Abramo ha dato origine a una nazione eletta, Giobbe, in un tempo in cui le nazioni ancora non c'erano, ha dato origine a una famiglia eletta.
  La famiglia allargata di Giobbe comprende le sette famiglie dei sette figli maschi. E il pensiero corre spontaneamente ai 12 figli di Giacobbe che danno origine a dodici tribù.
  La vita della famiglia allargata comprende  un ciclo periodico di sette gioiosi conviti organizzati a turno dai sette figli. E questo fa pensare alle ricorrenti feste di Israele.
  Ci sono poi altri elementi che pur non avendo un corrispondente nella storia di Israele, portano a riflettere, perché non sembrano particolari di contorno.
  Ai gioiosi conviti Giobbe non è presente, ma vi sono sempre invitate le sue tre figlie femmine, che evidentemente vivono con lui, mantenendo così un collegamento d'affetto con la famiglia originaria del progenitore.
  Al termine dei sette conviti si vede il capostipite che raccoglie intorno a sé i sette figli e offre per ognuno di loro un olocausto di purificazione.
  Su questo religioso modo di vivere Dio dal cielo esprime il suo gradimento, mostrando così che la vita di questa famiglia è parte della Sua volontà sulla terra.
  Si tratta di preistoria, abbiamo detto, quindi non si devono cercare paragoni troppo stretti, ma il semplice fatto che prima ancora di Israele Dio abbia scelto e protetto la famiglia di Giobbe, fa riflettere.
  Dopo la descrizione della routine familiare di Giobbe, la scena si sposta dalla terra al cielo.
  E' Satana che s'innalza, passando da una sua perlustrazione terrestre ad un'assemblea celeste convocata dal Signore. Lo stile che qui usiamo è in forma ironica, ma quello che dice la Bibbia su questo punto è pura e semplice verità, che solo Dio conosce e può rivelare.
  La storia dunque ha inizio in cielo, perché è lì che Dio sceglie Giobbe; poi continua sulla terra, mantenendo però in ogni passaggio un implicito riferimento al cielo. Soltanto alla fine del percorso arriva dal cielo una parola decisiva che porta sulla terra nuova giustizia e rinnovo di benedizione.
  Una delle prime domande su quello che avviene in cielo riguarda Satana: chi è? Abbiamo già dato un accenno di risposta in questo studio, ma una risposta convincente può venire soltanto da una lettura attenta di tutta la Bibbia, fiduciosamente creduta come rivelazione di Dio in ogni sua parte. In modo sintetico e deliberatamente provocatorio si può dire che non è possibile  capire il libro di Giobbe se non si capiscono i Vangeli.
  La difficoltà che trova la lettura ebraica a capire chi è Satana è legata alla difficoltà di capire chi è il Messia. Quel misterioso Avversario compare in modo solo episodico nella storia e preistoria israeliana, ma ricompare in modo esteso e decisivo nel punto più cruciale della storia d'Israele: la venuta del Messia. Ovviamente qui non si può neanche sfiorare un argomento di tale portata, ma si può dare qualche spunto di riflessione.
  Satana ottiene il permesso di mettere alla prova gli uomini quando vede che Dio sceglie qualcuno per il compimento del suo piano. Fa così nel momento iniziale della creazione, quando il serpente entra senza trovare alcun cartello di divieto nel giardino di Eden e tenta di provocare una rottura tra il Creatore e la creatura. E ci riesce. Fa la stessa cosa in un altro momento decisivo, quando ottiene la possibilità di esporre a una simile tentazione Colui che Dio aveva scelto per la restaurazione del Suo progetto originario:

    "Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo" (Matteo 4:1).

Una certa somiglianza di metodo si potrebbe trovare anche tra il caso di Giobbe e quello di Pietro. Gesù avverte Pietro di una richiesta di Satana:

    «Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano» (Luca 22:31)

Una cosa simile chiede Satana per Giobbe: chiede che sia messa alla prova la sua fedeltà come servo di Dio. E  in entrambi i casi la richiesta viene esaudita. Ma è interessante vedere poi come prosegue la parola di Gesù:

    «ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, fortifica i tuoi fratelli» (Luca 22:32).

La fede di Pietro non viene meno, e la stessa cosa avviene per Giobbe, perché in entrambi i casi l'assalto di Satana  si svolge sotto l'occhio attento e amorevole di Dio. Amorevole? Sì, amorevole. Ma non è un po' strano? Sì, è molto strano, ma che ne sanno gli uomini di amore? Nulla, se Dio non lo rivela. Perché l'amore di Dio si può conoscere soltanto sperimentandolo di persona: "Dio ha tanto amato il mondo..." (Giovanni 3:16).
  E' anche interessante notare la somiglianza di finale delle due storie. Sia Giobbe che Pietro sono sorretti dalla mano di Dio e alla fine della prova si convertono. A Pietro poi Gesù ordina di fortificare i suoi fratelli, e a Giobbe Dio chiede di pregare per i suoi amici (42:8). Ai servitori che sono passati attraverso la prova Dio concede l'onore di continuare il loro servizio in altra forma .
  Questo insieme di considerazioni fa capire in quale direzione ci si deve muovere se si vuol cercare di comprendere questo libro: cioè nella Bibbia stessa, non in ciò che si offre all'attenzione come alta scienza o sublime poesia.
  Cercando in questa direzione, si pone anzitutto una domanda: perché Satana è così infastidito dalla persona di Giobbe? che cosa vuole ottenere? E' forse l'irritante santità di Giobbe che l'innervosisce? E' il desiderio di volerlo portare con sé all'inferno che lo spinge a tentare di farlo cadere? E' un tipo di spiegazione moralistico-spirituale abbastanza diffuso, in cui l'individuo è messo al centro. Ma spiega tutto questo la complessità della narrazione?
  L'ottica qui usata è invece di tipo storico, come i racconti dell'uscita di Israele dall'Egitto. Si trascura spesso che Dio è intervenuto in favore del suo popolo  per liberarlo dalla schiavitù  e condurlo  in un'altra terra preparata per lui:

    "Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei" (Esodo 4:8).

Nel paese in cui devono andare vivono però altri popoli che sono sotto il governo di Satana. Quella di Israele sarà dunque una guerra di "riconquista della terra" al fine di riportarla sotto il governo legittimo di Dio. Perché sta scritto:

    "All'Eterno appartiene la terra e tutto quel che è in essa, il mondo e i suoi abitanti" (Salmo 24:1).

Ma nella Bibbia si può vedere quanto forte e tenace sia sempre stata la resistenza opposta da Satana ad ogni avanzamento dell'opera di Dio sulla terra, fino alla resistenza massima che ha messo in campo quando Dio ha deciso di scendere personalmente sulla terra nella persona del Messia.
  Si può dunque dire che il libro di Giobbe descrive un momento iniziale dell'opera di "riconquista della terra" da parte di Dio. In un tempo in cui Israele ancora non esisteva, Satana ha visto nella presenza sulla terra della famiglia "regale" di Giobbe agli ordini di Dio una pericolosa roccaforte del suo nemico. E ha deciso di intervenire.
  Di questo intervento satanico e delle sue conseguenze si dovrà parlare in seguito.

(Notizie su Israele, 30 gennaio 2022)


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Il mio servo Giobbe (8)

Riflessioni sul libro di Giobbe

    «E udirono la voce dell'Eterno Dio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Dio, fra gli alberi del giardino. E l'Eterno Dio chiamò l'uomo e gli disse: 'Dove sei?' Ed egli rispose: 'Ho udito la tua voce nel giardino, e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto'» (Genesi 3:8-9).

Il passo sopra riportato può essere paragonato con quello che segue:

    «Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro. E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal camminare per essa' » (Giobbe 1:6-7).

Entrambi i passi hanno lo stesso valore di verità. Sono fatti riportati in un unico documento: la Bibbia, e hanno uno stesso narratore: Dio. Dal che si capisce una volta di più che una corretta lettura della Bibbia non può che essere teocentrica. Sono fatti che non hanno testimoni umani, e  poiché il Narratore è unico, ha senso ricercare possibili confronti.
  C'è un verbo che compare nei due racconti: camminare (halach, הלך). L'Eterno Dio camminava nel giardino (gan,גן ), e Satana camminava per la terra (erez,  ארץ).
  Il giardino di Eden avrebbe dovuto essere il centro della terra creata da Dio affinché fosse popolata da uomini e donne generati dalla prima coppia Adamo-Eva.
  Ma in quel giardino aveva ottenuto il permesso di entrare anche Satana, presentatosi nella forma di un serpente: doveva avere la possibilità di dire la sua parola. Satana ne approfittò per fare agli uomini una proposta, presentata come integrativa e migliore di quella di Dio. La proposta fu accettata.
  Solo a conti fatti gli uomini  si accorsero che la proposta non era integrativa, ma alternativa. Si accorsero che la parola del serpente era la trasgressione netta dell'ordine che avevano ricevuto da Dio. La terra da cui erano stati tratti e su cui avrebbero dovuto esercitare un benefico dominio, cominciò allora a bruciare sotto i loro piedi. Avevano ricevuto in dono la terra di quel giardino perché la lavorassero e la custodissero, e su di essa adesso sentivano risuonare i passi del Proprietario. Fuggono. Si nascondono.
  Ma li raggiunge la Parola di Dio: "Adamo, dove sei?" Anche in questo modo Dio rivela qualcosa di Sé; non dice: "Adamo, dove vai?", tirandolo fuori dal cespuglio dove si è nascosto; gli rivolge una parola e se ne aspetta una risposta responsabile.
  Adamo lo fa; esce da solo dal cespuglio e confessa: ho avuto paura. La voce di Dio lo ha destabilizzato. O meglio, si è accorto che era come se la terra su cui si appoggiava cominciasse a tremare sotto i suoi piedi e lo rendesse instabile.
  La terra infatti poco dopo sarà maledetta, e la sua amministrazione, originariamente assegnata ad Adamo, sarà sottoposta alla superamministrazione  di Satana, che si farà forte della fiducia posta da Adamo nella sua parola.
  Al tempo di Giobbe dunque la terra continuava a trovarsi sotto il dominio di Satana: un dominio condizionato e non a tempo indeterminato, quindi esercitato da lui con una certa ansia.
  Quest'ansia aumenta quando Satana vede installata sulla "sua" terra una "zona franca" del Nemico che sembra sfuggire al suo controllo. "Che ci fa sulla mia terra questo principato di Giobbe sotto la sovranità del mio nemico?" avrà pensato. La cosa indubbiamente l'innervosisce. E molto.
  Al contrario di Adamo, Satana non si nasconde, anzi va lui stesso dal Nemico a discutere. E anche a lui Dio rivolge una domanda contenente un "dove": non "dove sei?", ma "da dove vieni?". A differenza di Adamo, Satana non dice di aver paura, ma tradisce un certo nervosismo. Nella sua risposta infatti, prima del verbo "camminare"  compare un altro verbo: "shut, שוט" che qui viene tradotto con "percorrere". Se si vuol capire il peso di una parola biblica, una delle prime cose da fare è vedere come viene usata in altri contesti. Nel libro di Amos, per esempio, si trova:

    "Allora, vagando da un mare all’altro, dal settentrione al levante, correranno qua e là in cerca della parola dell'Eterno, ma non la troveranno" (Amos 8:12).

Qualcosa di simile si trova anche in altri passaggi, per cui è legittimo immaginare qui un Satana che corre qua e là per la terra per vedere se tutto è in ordine. Poi però si riprende e si mette dignitosamente  a camminare per la terra, come compete a un capo di governo. E dopo aver visto quello che succede in Uz decide di partecipare all'assemblea celeste presieduta da Dio.
  Nel giardino terrestre  c'era stato un colloquio tra Satana e l'uomo avente come oggetto Dio. In quell'occasione Satana era riuscito a staccare l'uomo da Dio e a guastare il suo rapporto con la terra benedetta per portarlo a rimanere sotto il suo dominio in una terra maledetta.
  Nell'assemblea celeste ora c'è un colloquio tra Dio e Satana avente come oggetto l'uomo. Satana teme, non senza motivo, che Dio voglia riprendersi l'uomo e la terra su cui vive. Dio indica a Satana il suo ottimo servo Giobbe che si muove in piena comunione con Lui e  ottiene ottimi risultati di governo sulla terra (cap. 29). Forte dell'esperienza fatta nel giardino di Eden, Satana sa che l'unico modo per vanificare questo progetto è riuscire a staccare l'uomo da Dio. Con Adamo c'era riuscito  provocando nell'uomo una spinta di attrazione: la concupiscenza per qualcosa di superiore all'offerta di Dio; con Giobbe tenterà di riuscirci con una spinta di repulsione: il disgusto per  quello che Dio gli ha offerto.
  Satana però sa che deve ottenere il consenso di Dio; e lo ottiene col collaudato metodo dell'insinuazione maligna. Nel paradiso terrestre aveva insinuato nell'uomo il dubbio sulla sincerità di Dio; nell'assemblea celeste insinua in Dio il dubbio sulla sincerità dell'uomo. E sembra riuscirci. Come l'uomo aveva fatto una mossa sbagliata dopo aver ascoltato le parole del serpente, anche la mossa che fa Dio dopo aver ascoltato le parole di Satana potrebbe sembrare sbagliata. Si pensi infatti, in un'ottica di guerra, a quello che era riuscito a ottenere Satana dopo aver convinto Dio a lasciargli Giobbe nelle mani. Il podere di Giobbe non era un semplice insieme di fattorie agricole di particolare successo: era una Reggia, con la ricchezza sontuosa che ad essa si addice. E la famiglia di Giobbe ne costituiva la corte regale, con le sue forme tradizionali da tutti ammirate. Il mondo intorno osservava quello accadeva "all'uomo più grande di tutti gli Orientali", e in tutto questo scorgeva il segno della benedizione di Dio. Chi, come Giobbe, temeva Dio e fuggiva il male era pieno di ammirazione e gratitudine, mentre  gli empi e i malfattori ne erano intimiditi.
  A Satana ovviamente la cosa non poteva andare a genio, e non appena ottiene il via libera ne approfitta subito in modo devastante. Giù tutto: buoi, asine, servitori, pecore, altri servitori, cammelli, e ancora servitori. E infine il botto finale:  figli e figlie tutti seppelliti sotto il crollo della casa del fratello maggiore in cui si trovavano gioiosamente riuniti per il tradizionale convito. Fine della Reggia di Uz e della sua corte regale.
  Ma non doveva essere il segno della sovranità di Dio sulla terra? Il dubbio viene: forse il Dio di cui parla Giobbe se l'è inventato lui, per i suoi personali interessi; o forse è proprio il vero Dio, ma allora bisogna dire che questa volta Dio si è arrabbiato di brutto col santo Giobbe.
  Uno dei messi che porta le notizie di sciagura sembra appoggiare questa seconda ipotesi, perché annuncia così il disastro: "Il fuoco di Dio è caduto dal cielo..." (1:16). Saranno stati i fulmini, ma per il messo era chiaro chi li lanciava.
  Una mazzata simile avrebbe steso tutti, ma la reazione di Giobbe è sconcertante, soprattutto per Satana:

    «Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse: 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò nel seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'» (1:20-21).

Peggio di così per Satana non poteva andare. Il primo round è perso. Ma non demorde: ci riproverà.

(Notizie su Israele, 6 febbraio 2022)


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Il mio servo Giobbe (9)

di Marcello Cicchese

Riflessioni sul libro di Giobbe 

CAPITOLO 1

  1. Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
  2. 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
  3. In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.

L'atteggiamento di Giobbe dopo il primo attacco di Satana  è esemplare. Riconosce che tutti i beni di cui aveva goduto fino a quel momento, animali, servitori,  figli e figlie, gli erano stati dati in dono da Dio non come sua proprietà, ma come "in comodato d'uso", dunque non erano mai stati interamente suoi. Accetta di essere privato di tutti i doni ricevuti e si avvicina ancor di più al Donatore, manifestandolo con un gesto di profonda adorazione.
  L'unico dono che Dio non gli toglie è la vita stessa. Questo è confermato dalla presenza accanto a lui di sua moglie, che non gli viene tolta perché è parte di se stesso, come Dio aveva detto in origine: "... e saranno una stessa carne" (Genesi 2:24). E poiché la moglie fino a questo punto non parla, vuol dire che accetta la parola del marito come parola sua.
  "Giobbe non peccò", sottolinea il testo, quindi non manifestò alcuna forma di ribellione a Dio, né si azzardò a pensare, come capita in qualche caso in momenti difficili,  che "questa volta Dio ha sbagliato". No, "non attribuì a Dio nulla di mal fatto".  
  Ma allora perché il racconto continua in quel modo? La previsione di Satana non si era avverata, Giobbe non aveva "rinnegato Dio in faccia", anzi aveva reagito adorando e benedicendo l'Eterno. La sfida sarebbe potuta finire qui. Dio avrebbe potuto richiamare Satana, fargli notare che la sua previsione non si era avverata e anticipare il finale del libro ristabilendo subito Giobbe nella condizione di prima, rendendogli anzi "il doppio di tutto quello che gli era appartenuto" (42:10). La morale sarebbe stata semplice, i predicatori ne avrebbero tratto eccellenti spunti di esortazione alla fede, e anche gli artisti figurativi non avrebbero perso niente, perché a loro interessano le immagini, e tutto quel tormento di parole intorno a Dio, Satana, Giobbe e amici vari non può diventare un quadro, quindi a loro non interessa.
  Il seguito della storia invece è un altro, inaspettato e apparentemente contraddittorio. La struttura complessiva del libro nella sua integrità non si presta dunque a una spiegazione facile e immediata, sia come racconto inventato, sia come storia vera in tutto e per tutto, come qui facciamo.

CAPITOLO 2

  1. Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro a presentarsi davanti all'Eterno.
  2. E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal camminar per essa'. E l'Eterno disse a Satana:
  3. 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
  4. E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
  5. ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
  6. E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
  7. E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
  8. E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
  9. Ma lascia stare Dio, e muori!'
  10. E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.

Perché Dio concede ancora la parola a Satana? Sta qui il primo enigma da sciogliere. E'chiaro però che la stessa formulazione della domanda contiene un'asserzione che qualifica l'enigma e ne delimita il campo di ricerca. 
  Supponiamo infatti che qualcuno ponga un interrogativo in questa forma: Perché la Cina ha diffuso il Covid-19 nel mondo? E' chiaro che si metterebbero a cercare la risposta soltanto coloro che credono alla verità della dichiarazione che si ottiene togliendo il perché davanti alla domanda: la Cina ha diffuso il Covid-19 nel mondo. In tal caso cercherebbero di capire e interpretare i movimenti della Cina sulla base dei dati a loro disposizione. In caso contrario, rifiuterebbero la domanda e volgerebbero i loro interessi da un'altra parte. 
  Qualcosa del genere si può fare con la domanda sul libro di Giobbe. Se non crediamo alla sua parte dichiarativa, è meglio volgere il proprio interesse da altre parti; se invece crediamo alla verità del fatto che Dio concede la parola a Satana, cercheremo di capirlo sulla base dei dati a nostra disposizione, che si trovano tutti nella Bibbia, e soltanto nella Bibbia. 
  Qui si ha un'altra caratteristica particolare di questo libro: non ha addentellati fuori del testo biblico. Ecco perché molti preferiscono adottare la soluzione che appare più semplice: è una favola. A questo punto il campo di ricerca sarebbe un altro: che tipo di favola è? chi l'ha scritta? quando è stata scritta? perché è stata scritta? quale messaggio voleva lanciare? e così via.
  Ma se si considera il libro come storia di fatti avvenuti, è chiaro che la sua lettura non può che essere teocentrica, come il primo capitolo della Bibbia. La domanda "Perché Dio concede ancora la parola a Satana?" è un interrogativo sulla politica di Dio, come la domanda sulla Cina. E' l'agire di Dio che è oggetto di ricerca. 
  Esaminiamo allora il testo più da vicino. 
  "Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe". Satana dunque può parlare con Dio soltanto quando è ammesso alla sua presenza, e come si è visto, quando gli è consentito cerca di sfruttare fino in fondo la libertà ottenuta, che userà sempre per distruggere o mentire. In questo caso, la distruzione della Reggia di Uz evidentemente non era il suo scopo ultimo. Il suo obiettivo è colpire e annientare Giobbe, perché sa che la presenza sulla terra di un solo uomo che Dio considera giusto, cioè corrispondente ai Suoi piani perché in sintonia con la Sua volontà, rappresenta per lui un pericolo mortale. Accettando di colpire Giobbe soltanto in ciò che riguarda i suoi beni e i suoi affetti  aveva sperato che questo bastasse per staccarlo da Dio, ma così non è stato.  Si è azzardato allora a fare a Dio una richiesta più ardita: colpirlo nella sua "pelle", cioè nella sua persona fisica. 
  Senza provare per ora a sciogliere l'enigma della volontà di Dio, ci limitiamo qui a osservare lo svolgimento dei fatti.
  Il secondo colpo è davvero duro per Giobbe. E' colpito nella sua persona fisica con un'ulcera maligna su tutto il corpo, ma ancora di più nella sua persona morale, costituita dall'unità di marito e moglie. La moglie propone al marito di "lasciar stare Dio". 
  Si può fare un paragone con la storia in Eden. La donna di Adamo spinge l'uomo ad andare su fino a Dio; la donna di Giobbe suggerisce all'uomo di non farsi tirare giù dal pensiero di Dio. Nessuno cominci a parlare di maschilismo e femminismo: in entrambi i casi la coppia resta unita, nella responsabilità come nelle conseguenze. Giobbe resiste, ma il semplice fatto che la moglie, una parte di se stesso, abbia prospettato come possibile soluzione il prendere le distanze da Dio costituisce già un'incrinatura nella sua coscienza, una ferita morale che non si sa se e quando si richiuderà. 
  Si può notare un’altra differenza tra i due modi in cui Giobbe reagisce ai colpi di Satana. La prima volta vede Dio che gli toglie un bene; la seconda volta vede Dio che gli aggiunge un male. E questo è più duro da accettare. Giobbe fa esperienza sul suo corpo dell'esistenza del bene e del male, e questo avrebbe dovuto ricordargli che è progenie di Adamo, che Dio ha allontanato da Sé dopo la caduta nel peccato. 
  Da notare anche i due commenti del testo alla reazione di Giobbe. La prima volta:

    "In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto" (1:22)

La seconda volta:

    "In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra" (2:10)

"Giobbe non peccò", questo è detto due volte, chiaramente. Quindi, per quel che riguarda il test di fedeltà a Dio richiesto da Satana, questo dev'essere considerato validamente superato. Due fatti appoggiano questa conclusione. Anzitutto, a Satana non è più permesso di prendere la parola e sparisce del tutto dal racconto. In secondo luogo, è un fatto generale nella Bibbia che i test a cui Dio sottopone gli uomini sono prove di fede, non di resistenza. Si presentano sempre in forma di bivio: si tratta di scegliere quale strada prendere sulla base della Parola ricevuta da Dio fino a quel momento. A Giobbe Dio aveva parlato, e lui aveva seguito le Sue indicazioni, ma su istigazione di Satana viene sottoposto a un test, non in forma di ordine da eseguire, ma di giudizio da dare su quanto gli stava accadendo.
  Chi dubita che Giobbe abbia superato il test dopo il secondo assalto di Satana deve dire in quale momento questo potrebbe essere avvenuto. Le sue ultime parole alla fine del capitolo 31 sono di tono ben diverso da quelle di 2:10: Giobbe non sembra affatto disposto ad accettare da Dio il male. Né si può dire che alla fine del libro lui mostra di essersi pentito, perché questo avviene soltanto dopo un intervento diretto ed esplicito di Dio, e questo non rientrava nel regolamento della sfida. Nessuno dei due scommettitori avrebbe dovuto intervenire. Se Dio l'avesse fatto mentre la partita era ancora in corso, Satana avrebbe potuto dire: non vale! Perché in questo modo Giobbe sarebbe stato ancora una volta "circondato di un riparo" (1:10), mentre Satana chiedeva che gli fosse lasciato da solo nelle mani, sia pure entro limiti fissati.
  Ma se Giobbe alla fine del capitolo 2 aveva superato il test, perché Dio lascia per tanto tempo il suo servo vittorioso  in una situazione così atroce sul piano fisico e morale? Le risposte possono essere diverse, ma è in questa direzione che si deve indirizzare la ricerca.


(Notizie su Israele, 13 febbraio 2022)


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Il mio servo Giobbe (10)

di Marcello Cicchese

Riflessioni sul libro di Giobbe

CAPITOLO 2

  1. Or tre amici di Giobbe, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Tsofar di Naama, avendo udito tutti questi mali che gli erano piombati addosso, partirono ciascuno dal suo paese e si misero d'accordo per venire a condolersi con lui e a consolarlo.
  2. Alzarono gli occhi da lontano e non lo riconobbero; allora alzarono la voce e piansero; si stracciarono i mantelli e si cosparsero il capo di polvere gettandola verso il cielo.
  3. E rimasero seduti per terra, presso a lui, sette giorni e sette notti; e nessuno di loro gli disse una parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande.

Questi tre versetti costituiscono una sorta di diaframma tra due versioni di Giobbe. Se da lontano i tre amici non lo riconoscono fisicamente, quando arrivano vicini a lui e lo sentono parlare non lo riconoscono moralmente: è un altro Giobbe.
  Esaminiamo allora questi tre versetti, che come spesso accade nella Bibbia contengono informazioni indirette che sono lì per essere colte con reverente attenzione. Il termine usato nell'originale per indicare i tre che discutono con Giobbe è רע (rea), reso in tutte le traduzioni con "amici". Nella maggior parte dei passaggi biblici però il termine non sottolinea l'aspetto affettivo, ma piuttosto quello della parità sociale, e nella traduzione sono usati termini più generali come compagno, prossimo, vicino. Un esempio significativo:

    Il giorno seguente [Mosè] uscì, vide due ebrei che litigavano e disse a quello che aveva torto: «Perché percuoti il tuo compagno?» (Esodo 2:13).

Mosè qui certamente non voleva sottolineare l'amicizia fra i due, ma il fatto che tutti e due erano ebrei, cioè appartenenti allo stesso popolo. Nei comandamenti si usa sempre il termine rea per indicare il prossimo, come per esempio in Esodo 20:16: "Non attestare il falso contro il tuo prossimo", dove non sottolinea certo l'amicizia affettiva fra i due, ma la parità di posizione davanti a Dio nella società. Interessante è anche l'uso che se ne fa in Esodo 33:11: "Or l'Eterno parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla col proprio amico", dove si vuol sottolineare che Dio parlava con Mosè come se fosse un suo pari.
  Nel caso che qui stiamo trattando, per i tre che parlano con Giobbe si potrebbe usare il termine colleghi. Colleghi in teologia. Di che cosa parlano infatti i quattro nelle loro animate discussioni? Parlano di Dio, partendo dal fatto che hanno una base comune a cui richiamarsi e su cui discutere.
  Se consideriamo il libro come preistoria israeliana, si potrebbe dire che qui si ha un'anticipazione di quello che nelle accademie talmudiche si chiama pilpul, un intenso dibattito analitico su diverse interpretazioni possibili della volontà di Dio espressa nei testi tramandati. Naturalmente in questo caso il dibattito non è puramente teorico, ma si svolge in un contesto di appassionata partecipazione personale, con conseguenze pesanti per tutti. In ambiente ebraico si potrebbe usare per gli amici anche il termine maestri, perché da come parlano si può pensare che istruissero anche altri nelle vie di Dio e provenissero tutti dalla medesima scuola del grande maestro Giobbe.
  Elifaz infatti comincia rispettosamente il suo primo discorso sottolineando questa posizione di eccellenza di Giobbe:

    "Ecco, tu ne hai ammaestrati molti, hai fortificato le mani stanche; e le tue parole hanno rialzato chi stava cadendo, hai rafforzato le ginocchia vacillanti" (4:2-3).

Il primato di Giobbe però non è soltanto dovuto alla sua conoscenza "teologica", come diremmo noi oggi, ma alla posizione spirituale e sociale in cui Dio l'aveva posto: Giobbe era in quel tempo "il mio servo", il servo del Signore. Ed era anche "il più grande di tutti gli orientali" (1:3). A che doveva questa grandezza? Pensiamo a quello che Dio dirà poi al suo servo Abramo: "ti benedirò e renderò grande il tuo nome" (Genesi 12:2). La stessa cosa, prima di Abramo, fa ora Dio con Giobbe: lo benedice e rende grande il suo nome.
  Si può dire allora che questo Oriente, in cui Dio aveva posto Giobbe destinandolo ad essere il più grande di tutti, è la zona della terra in cui Dio aveva deciso di esercitare la Sua signoria in quel momento della storia: una sorta di anticipazione di quello che sarà Regno di Dio nelle sue varie manifestazioni storiche, dove Uz compare al posto di Gerusalemme, il paese di Uz al posto di Israele e Giobbe al posto del Re. Le nazioni sono rappresentate dai paesi di Elifaz, Bildad e Suach, presenti in quell'Oriente a cui Dio rivolge in quel tempo la sua attenzione.
  Non sta scritto in questa forma nella Bibbia, certo, ma le analogie tra tempi cronologicamente diversi sono "parabole storiche" che costituiscono una forma di rivelazione per allusioni che Dio usa per farsi conoscere dagli uomini. E'compito nostro dunque rifletterci sopra e tentare di interpretarle.
  In questa interpretazione molti particolari possono trovare il loro posto.
  Il riferimento ai "loro paesi" da cui i tre amici partono dopo essersi accordati mette in evidenza diverse cose. La vicenda di Giobbe non era anzitutto un fatto puramente privato, quindi tutti gli arzigogolamenti psicologistici in chiave intimistica, frutto di una lettura antropocentrica, sono del tutto fuori luogo. La caduta di Giobbe ha il valore di un avvenimento epocale con risonanza su tutta l'ecumene di quel periodo. Gli amici non sono vicini di casa di Giobbe; ci vuole del tempo prima che la notizia arrivi fino a loro. L'Oriente, per il semplice fatto che viene indicato con lo stesso nome usato per la torre di Babele, non può che essere una zona molto vasta della terra.
  Il crollo della Reggia di Uz, con il tonfo fisico e morale del Re, è stato un cataclisma la cui notizia non poteva che spandersi in tutto l'Oriente. Ma prima che arrivi ai tre amici in paesi diversi, e che questi si accordino fra loro dandosi un appuntamento e alla fine riescano a raggiungere Uz, passano settimane, o mesi, o forse anni.
  E in tutto questo tempo Giobbe si accorge che nulla cambia. Tutto tace. Dal cielo non arrivano più segnali, come se il macigno arrivatogli addosso fosse l'ultimo, definitivo messaggio che Dio aveva voluto mandargli. Intorno a lui il deserto. Gli è rimasta solo la moglie. E lei continua a dirgli di lasciar stare, di rassegnarsi e smetterla di continuare a tormentarsi col pensiero di Dio.
  Quando gli amici arrivano, non lo riconoscono. Il che vuol dire che fra di loro si conoscevano, non solo come amici di affezione ma, mi permetto di dire, "come fratelli in fede". Giobbe, con l'autorità e la forza che gli dava il suo essere servo del Signore, li aveva convinti; forse erano stati suoi discepoli diretti. Le sue spiegazioni sulla persona di Dio, la Sua volontà, la sorte dei giusti e degli empi, e tante altre sue istruzioni erano state oggetto di discussioni fra loro, e forse anche di ammaestramento ad altri.
  Si avvicinano dunque a lui in un atteggiamento di timorosa compartecipazione, non di curiosità o censura. Sono sempre stati sulla stessa barca: se Giobbe ora è colpito, lo sono anche tutti loro. Ecco perché quando sono ancora lontani, dopo aver alzato gli occhi e averlo visto in quello stato miserevole, alzano la voce in grida e pianti, si stracciano le vesti e si cospargono il capo di polvere. Il giudizio di Dio che si è abbattuto sul maestro è come se ora si abbattesse su tutti loro. Partecipano alla colpa, e dunque anche al cordoglio.
  Giobbe sta seduto sulla cenere. Si siedono anche loro. In silenzio. Mai avrebbero osato aprire la bocca prima del loro maestro. Tanto meno adesso, di fronte a un dolore così grande. Aspetteranno che il primo a parlare sia Giobbe.
  Ma Giobbe non parla. Silenzio. Per tutto il giorno. Come se il silenzio di Dio con Giobbe dovesse spandersi adesso anche sugli amici. Come se avesse detto: se Dio non parla a me, io non parlo a loro. Del resto, che cosa avrei da dire?
  Arriva la notte, si aspetta il giorno dopo. Arriva il giorno dopo, tutto è come prima: silenzio. Forse aspettavano che Giobbe li portasse a considerare la grandezza di Dio e la piccolezza dell'uomo; che li invitasse tutti ad esaminare le proprie vie; a porsi davanti a Dio in una posizione di umiltà; a rinnovare impegni di fedeltà al Signore. Erano pronti a sentirsi peccatori insieme a lui, a riconoscere di non essere degni della benevolenza di Dio, e che a Lui appartiene in ogni caso il dare e il togliere. Erano dunque pronti a condolersi con Giobbe, nella speranza che questo fosse per lui il conforto che volevano fargli arrivare.
  Solo dopo sette giorni, tanti come i giri di silenzio degli ebrei intorno a Gerico per far cadere le sue mura, Giobbe apre la bocca. E quello che sentono le orecchie degli amici fa gelare il sangue nelle vene. La bocca di Giobbe lancia maledizioni.

CAPITOLO 3
  1. Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
  2. E prese a dire:
  3. «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
  4. Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Dio dall'alto, né splenda su di esso raggio di luce!
  5. Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti su di esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempian di paura!
  6. Quella notte diventi preda d'un buio cupo, non abbia la gioia di contar tra i giorni dell'anno, non entri nel novero dei mesi!
  7. Quella notte sia notte sterile, e non vi s'oda grido di gioia.
  8. La maledicano quei che maledicono i giorni e sono esperti nell'evocare il drago.
  9. Si oscurino le stelle del suo crepuscolo, aspetti la luce e la luce non venga, e non miri le palpebre dell'alba,
  10. poiché non chiuse la porta del grembo che mi portava, e non celò l'affanno agli occhi miei.
Adesso un macigno come quello caduto addosso a Giobbe sembra pendere anche sui suoi stretti amici. Erano venuti per immedesimarsi nella colpa dell'amico e insieme a lui ricercare il consenso benedicente del Signore, ma se Giobbe si mette a parlare contro Dio usando il linguaggio degli empi, allora qualcosa di veramente grave deve essere avvenuto nella sua vita, e il compito degli amici è quello di convincerlo a invocare il perdono di Dio, chiedendogli umilmente di rimuovere il macigno sotto cui langue. E quanto a loro, devono stare ben attenti a non indulgere in atteggiamenti di complicità con manifestazioni di indebita comprensione,  affinché non accada che un simile macigno piombi un giorno anche su di loro.


(Notizie su Israele, 20 febbraio 2022)


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Il mio servo Giobbe (11)

di Marcello Cicchese

Riflessioni sul libro di Giobbe

Per qualcuno il libro di Giobbe dovrebbe cominciare nel primo versetto del capitolo 3: "Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita" e terminare nell'ultimo versetto del capitolo 31: "Qui finiscono le parole di Giobbe". Il prologo e l'epilogo sono considerati contorno favolistico; e anche il successivo intervento di Elihu appare ridondante e superfluo. E' la conclusione inevitabile di una lettura antropocentrica del libro. L'immagine di un fiero contestatore di Dio e dei suoi ottusi paladini sollecita la hybris dell'uomo che si compiace della sua piena autonomia in tutti i campi.
   Il centro della questione si trova invece, come nel caso di Giona, nel problematico rapporto fra Dio e un suo servitore. In entrambi i casi il servitore si trova in disaccordo con la scelta di Dio perché non la capisce; è spinto a distaccarsi da Lui, ci prova, ma non ci riesce, perché Dio non glielo permette. E il modo in cui Dio lo fa è "meraviglioso", in senso letterale: desta meraviglia e pone interrogativi. Interrogativi che non sembrano trovare piena risposta all'interno dei due libri, che per questa ragione appaiono tronchi, privi di ciò che potrebbe dare loro una soddisfacente spiegazione. Ma è così per l'intero Antico Testamento, che si può paragonare a un romanzo giallo in cui manchi l'ultimo capitolo. L'intreccio è interessante, ma mancando il finale, le proposte di soluzione dell'enigma si accumulano senza che se ne trovi una decisiva e convincente.
   Anche la chiave interpretativa del libro di Giobbe non potrà essere trovata se si trascura il capitolo finale del romanzo giallo. In poche parole, come abbiamo già detto: non si può capire il libro di Giobbe se non si capiscono i Vangeli. E anche se questo collegamento richiede un impegnativo lavoro che qui si potrà soltanto abbozzare per accenni, quello che si può sicuramente dire è che il nocciolo del libro non si trova nel problema della sofferenza umana. E' del tutto fuorviante proporre agganci psicosociali con la realtà umana.
   Esaminiamo allora come riprende il racconto nel capitolo 32, dopo che Giobbe ha smesso di parlare.

  1. Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli riteneva se stesso giusto.
  2. Si accese allora contro Giobbe l'ira di Elihu, figlio di Barakel, il Buzita, del clan di Ram,  perché egli riteneva giusto se stesso anziché Dio.
  3. Anche contro i suoi tre amici l'ira sua si accese, perché non avevano saputo trovare la risposta, sebbene condannassero Giobbe.

Terminato l'acceso dibattito teologico fra i quattro, in questi tre versetti viene posto il vero problema che non ha trovato ancora risposta: la giustizia. Si noti la differenza tra i versetti 1 e 2. Secondo i tre amici, Giobbe riteneva se stesso giusto agli occhi di Dio, mentre secondo loro non lo era e non voleva ammetterlo. L'avevano invitato dunque più volte a modificare il suo atteggiamento e a rimettersi a posto con quel Dio che insieme avevano conosciuto, onorato e servito. Ma non ci erano riusciti: Giobbe non avvertiva di doversi pentire del suo passato. "Rifarei tutto come prima", avrebbe potuto dichiarare, come si dice qualche volta per proclamare la propria innocenza.
   Elihu invece ha capito che per Giobbe il problema non è il suo comportamento, ma quello di Dio. Respinge l'accusa di essere stato un "malvagio servitore", di avere infranto le regole di servizio. Quindi se quello che gli è arrivato addosso è una punizione, l'ingiusto è Dio. Gli argomenti degli amici non potevano toccarlo; i due discorsi si muovono paralleli in senso contrario e non possono incontrarsi: nessuna delle due parti poteva convincere l'altra.
   Elihu si arrabbia con entrambe le parti: con Giobbe, perché aveva capito dove voleva arrivare; e con gli amici, perché non avevano capito niente.
   "Ma io vorrei parlare con l’Onnipotente, avrei voglia di ragionar con Dio" (13:4), dice Giobbe agli amici che non sanno rispondergli perché non lo capiscono. Avrebbe voluto che ci fosse almeno un intermediario fra lui e Dio, ma non lo vede: "Non c’è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!" (9:33).
   E Dio, senza che Giobbe se ne renda conto, glielo concede: è il giovane Elihu, il quale comincia subito ad attirare l'attenzione dell'accusato non mettendosi dalla parte dei suoi contestatori. Anzi li rimprovera: "Nessuno di voi ha convinto Giobbe, nessuno ha risposto alle sue parole" (32:13) si sentono dire i tre anziani amici dal giovane Elihu, che probabilmente nessuno di loro conosceva.
   "E' proprio così, questi non hanno capito niente", avrà detto Giobbe in cuor suo. Poi però sente dire da Elihu che "Dio soltanto lo farà cedere, non l'uomo" (32:13); e chi doveva cedere evidentemente era proprio lui. Ma se soltanto Dio avrebbe potuto farlo cedere, perché Elihu continua a parlare? In fondo anche lui è un uomo. Ma è un servo di Dio, costituito in questa occasione come suo portavoce. Il suo compito è simile a quello del gregario che in una gara ciclistica tira la volata al capitano per fargli vincere la gara. E Dio la vincerà, la gara. Riuscirà a far cedere il testardo che nessun uomo aveva potuto convincere; ma il suo servo deve preparargli il campo. Elihu è Dio in incognito, come Gesù con i discepoli sulla via di Emmaus (Luca 24:13-35).
   Dopo un preambolo di presentazione, Elihu  comincia il suo discorso in modo deciso e autorevole.

CAPITOLO 33

  1. Adesso ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
  2. Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
  3. Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; le mie labbra diranno sinceramente quello che so.
  4. Lo Spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
  5. Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
  6. Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io fui tratto dall'argilla.
  7. Spavento di me non potrà quindi coglierti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
  8. Davanti a me tu dunque hai detto (e ho udito bene il suono delle tue parole):
  9. "Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
  10. ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi considera suo nemico;
  11. mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti".
  12. Ecco, io ti rispondo: "In questo non hai ragione"; poiché Dio è più grande dell'uomo.
  13. Perché contendi con lui? Egli non rende conto dei suoi atti.
  14. Dio parla una volta, e anche due, ma l'uomo non ci bada;
  15. parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
  16. allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
  17. per distogliere l'uomo dal suo modo di agire e tenere lontano da lui la superbia;
  18. per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dalla freccia mortale.
  19. L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
  20. quando egli ha in avversione il pane e lo ripugnano i cibi più squisiti;
  21. la carne gli si consuma e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori;
  22. egli si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che infliggono la morte.
  23. Ma se, presso di lui, c'è un angelo, un interprete, uno solo tra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
  24. Dio ha pietà di lui e dice: "Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto".
  25. Allora la sua carne diviene più fresca di quella di un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
  26. implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con gioia e lo considera di nuovo come giusto.
  27. Ed egli canterà tra la gente e dirà: "Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
  28. Dio ha riscattato l'anima mia dalla fossa, e la mia vita si schiude alla luce!"
  29. Ecco, tutto questo Dio lo fa due, tre volte, all'uomo,
  30. per salvarlo dalla fossa, perché su di lui splenda la luce della vita.
  31. Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, e io parlerò.
  32. Se hai qualcosa da dire, rispondimi, parla, perché io vorrei poterti dare ragione.
  33. Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saggezza».

La prima differenza fondamentale fra gli amici di Giobbe e Elihu è che i primi accusano Giobbe per quello che avrebbe fatto nel passato, mentre Elihu attacca Giobbe per quello che dice nel presente. Prende infatti in attento esame le sue parole: "Davanti a me tu dunque hai detto ...", sottolineando il fatto di essere testimone di quello che lui ha detto.
   E per avvertirlo della precisa responsabilità che si sta prendendo, aggiunge: "... e ho udito bene il suono delle tue parole" .
   Poi  ripete quello che Giobbe ha precisamente detto: "Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me". Dicendo questo però Giobbe non voleva in primo luogo scusare se stesso, come gli amici pensavano, ma accusare Dio, come invece Elihu ha capito. Il resto di quello che ha detto lo fa capire chiaramente: "ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi considera suo nemico; mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti".
   Ecco dunque l'accusa chiara contro Dio. E questo è precisamente il nocciolo del libro di Giobbe: il contrasto, in un tempo storico ben preciso, tra Dio e un uomo da Lui scelto e dichiarato come suo servitore. Come nel libro di Giona.
   Nel suo progetto redentivo di "riconquista della terra", Dio forma il suo esercito e costituisce i suoi ufficiali. Accade ogni tanto che qualcuno di questi ufficiali non si comporti secondo gli ordini ricevuti o non sia d'accordo con la strategia del Capo Supremo. Sorge allora un problema di "politica interna", cioè di rapporto tra Dio e il suo servitore. Nel caso di Giobbe, come in quello di Giona, la natura del contendere sta nel modo in cui bisogna trattare il nemico.
   Per Giona il nemico sono i pagani niniviti, che non devono essere perdonati;  quindi non riesce ad accettare quello che Dio vuol fare con loro. Per Giobbe invece il nemico vero è Satana, ma lui non lo sa e nella sua percezione il nemico è il male che commettono gli uomini nella loro cattiveria. Come servitore che "teme Dio e fugge il male" (1:8), Giobbe si è sempre applicato a combattere il male con tutte le sue forze, esercitando l'autorità che Dio gli ha data (29:1-25). Che significato può avere allora quella mazzata caduta addosso a lui, fedele servo di Dio, senza nessun preavviso, nessun rimprovero, nessuna spiegazione, nessuna conclusione prevista? Ecco dove sta l'enigma, sia per lui che lo viveva allora, sia per noi che lo leggiamo adesso.
   Se questo è il vero centro del libro, se si tratta di politica interna di Dio con evidenti conseguenze su quella estera, l'unico modo per tentare di capirne i meccanismi è rivolgersi alla rivelazione stessa che Dio ne fa, cioè la Bibbia.
   Si deve dire anzitutto che questo contrasto "interno" al progetto di Dio nasce da una spinta proveniente dall'esterno: la richiesta di Satana. E questo dovrà essere approfondito. In ogni caso, Dio acconsente. Senza avvertire il suo servitore, senza prepararlo. Errore tattico? Spazio concesso improvvidamente al nemico? Ovviamente no: doveva essere così. Satana, che è molto esperto di questioni giuridiche eterne, sapeva che nella legislazione di Dio la sua richiesta è giuridicamente legittima, quindi l'ha fatta. Accondiscendendo alla richiesta di Satana, Dio dunque non ha ubbidito ad altri che Se stesso.
   E di mezzo c'è andato Giobbe. All'oscuro di tutto. Ma anche questo doveva procedere così. Per Satana la richiesta era un'azione di guerra contro Dio, per Giobbe doveva essere un test di fedeltà al suo Signore. E in un test, come nel caso dei compiti in classe, l'esaminando è lasciato solo. Anche Gesù dovette superare un test all'inizio del suo ministero: quaranta giorni da solo nel deserto, senza cibo, attorniato da bestie selvatiche, senza nessuno con cui scambiare due parole ad eccezione di Satana, le cui proposte costituivano appunto il documento che Gesù doveva esaminare per esprimere il suo giudizio e fare la sua scelta. Solo dopo che l'esame fu superato a pieni voti, Dio mandò degli angeli a servire Gesù (Matteo 4:11). Satana, avendo ormai sparato tutte le sue cartucce, si allontanò, ma, come dice il Vangelo, "fino ad altra occasione" (Luca 4:13).
   A proposito, dove stava Satana mentre Giobbe litigava coi suoi amici? E' una buona domanda, servirà per studiare l'andamento del test, che in realtà costituisce il centro della discussione su questo libro.
   Quello di cui possiamo essere certi è che il candidato ha superato la prova. Lo dimostra chiaramente l'epilogo, che proprio per questo non può essere assolutamente tralasciato.
   Ma quando è avvenuto il superamento del test? Ci sono due possibili risposte:
   1) alla fine dei due attacchi espliciti di Satana, quando Giobbe accetta da Dio anche il male (2:10);
   2) alla fine delle parole di Elihu, quando dice: "[Dio] non degna di uno sguardo chi si presume savio" (37:24).
   Nel secondo caso l'aspetto positivo di Giobbe sta nel fatto che ha accolto la strapazzata di Elihu senza dire una parola, cosa che con gli amici non aveva mai fatto, anzi li aveva ridotti al silenzio. Con Elihu invece le cose sono andate diversamente. Dopo avergli impartito una prima sonora lezione, Elihu si rivolge a Giobbe in tono secco: "Sta’ attento, Giobbe, ascoltami; taci, ed io parlerò. Se hai qualcosa da dire, rispondimi, parla, perché io vorrei poterti dare ragione. Se no, tu dammi ascolto, taci, e t’insegnerò la saggezza" (33:31-33). E' la voce di Dio. E Giobbe non apre più la bocca.
   E' preferibile la prima delle due tesi, ma il portare argomenti a favore dell'una o dell'altra richiede una riflessione sui testi biblici che in ogni caso è legittima e produttiva.


(Notizie su Israele, 6 marzo 2022)


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Il mio servo Giobbe (12)

di Marcello Cicchese

Riflessioni sul libro di Giobbe

CAPITOLO 31

  1. Oh, avessi pure chi mi ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
  2. ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema.
  3. Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!

Con queste parole Giobbe presenta la sua sfida conclusiva a Dio, che nel suo cuore probabilmente era stata già pensata prima che arrivassero gli amici. Dopo una settimana di silenzio, quello che gli amici hanno sentito uscire dalla sua bocca sono parole di maledizione. Hanno cercato con ripetuti interventi di fargli cambiare opinione, ma non ci sono riusciti, né in realtà potevano riuscirci, perché anche quando rispondeva alle parole insinuanti degli amici, il pensiero di Giobbe era sempre rivolto a Dio nelle sue risposte: avrebbe voluto che ci fosse Lui a sentire e si decidesse a parlare, a dire che cosa aveva da rimproverargli. Si può immaginare  Giobbe che presenta a Dio un'arringa di questo tipo:
  "Tu mi colpisci in modo feroce e tutti pensano che io abbia commesso chissà quale misfatto, ma non mi hai detto e non mi dici ancora qual è il mio torto. Non mi hai ripreso personalmente come tuo servitore, perché allora mi svergogni davanti a tutti senza ch'io abbia la possibilità di difendermi? Indicami i miei torti, spiegami i tuoi motivi, ascolta le mie ragioni. Ti ho chiesto e supplicato più volte di poter parlare con te, ma tu non rispondi. Allora metto per iscritto le possibili trasgressioni che avrei potuto commettere e ti chiedo di indicarmi chiaramente quali sono le infrazioni che ho commesso. Ti renderò conto di tutti i miei passi. Scrivi. Metti per iscritto le tue accuse. Io saprò come difendermi".
  A questo punto Giobbe forse è convinto di aver "incastrato" Dio. Ha presentato una formale richiesta scritta: "... ecco qua la mia firma", come se fosse una raccomandata con ricevuta di ritorno. A una richiesta presentata in questa forma la risposta è obbligatoria: "L'Onnipotente mi risponda", scrive infatti nel suo documento, usando la terza persona come per dare più ufficialità alla sua domanda.
  Si presenta davanti all'Onnipotente come un accusato davanti a un tribunale, e in quanto tale considera suo diritto poter conoscere gli elementi di accusa. Chiede che l'atto di accusa contro di lui sia formulato in forma scritta: "Scriva l'avversario mio la sua querela".   Se Dio non lo fa, l'ingiusto è Lui.
  A questo punto interviene Elihu. Qualcuno pensa che i capitoli da 32 a 37, che contengono il suo intervento, siano un'interpolazione successiva, un'aggiunta non necessaria alla trama del libro. Non accettiamo questa tesi, ma indubbiamente sembrerebbe che il discorso fili molto bene senza quei capitoli, perché il capitolo 31 termina con una richiesta perentoria di Giobbe, formalizzata in terza persona: "L'Onnipotente mi risponda!" (31:35); e il capitolo 38 comincia con le parole: "Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta e disse..." (38:1).  Sembra proprio un botta e risposta, confermando implicitamente che l'oggetto del libro è il contrasto fra Dio e Giobbe, non il problema della sofferenza umana.

CAPITOLO 38

  1. Allora l’Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
  2. Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?
  3. Orsù, cingiti i lombi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!
  4. Dov’eri tu quand’io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza.

Nella sua requisitoria contro Dio, Giobbe si è fatto sempre più ardito, e al punto in cui è arrivato è convinto che per lui non c'è più speranza, che non ha più niente da perdere. Ormai ha capito quello che Dio vuole fare:

    "Ecco, egli m’ucciderà; non spero più nulla; ma io difenderò in faccia a lui la mia condotta!" (13:15)

Dio ha deciso di ucciderlo, e lui ha deciso di difendere se stesso fino alla fine. E lo farà "in faccia a lui", a fronte alta, diremmo noi. Si è preparato bene al confronto col suo avversario come davanti a un ipotetico tribunale:

    "Ecco, io ho disposto ogni cosa per la causa, so che sarò riconosciuto giusto". (13:18)

Quella di Giobbe dunque è un'autentica sfida a duello. Non a colpi di pistola, come nel Far West, ma a colpi di domande, come nell'aula di un tribunale. Dio accetta la sfida, e cavallerescamente invita il suo avversario a prepararsi al duello: "Orsù, cingiti i lombi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!" (38:3).
  Giobbe ha già fatto le sue domande, adesso tocca a Dio fare la sua prima. E quella che fa è micidiale: "Dov’eri tu quand’io fondavo la terra?" Fine del duello.
  Un ipotetico arbitro avrebbe potuto già assegnare la vittoria. Per abbandono. Che risposta infatti avrebbe potuto dare lo sfidante a quella domanda? Ma Giobbe resta lì, come un pugile in mezzo al ring, obbligato a subire una serie impressionante di colpi in forma di domande sempre più incalzanti del suo avversario : "Hai tu mai comandato in vita tua al mattino? ... Sei tu penetrato fino alle sorgenti del mare? ... Hai tu visto le porte dell'ombra di morte? ... Hai tu abbracciato con lo sguardo l'ampiezza della terra? ... Sei tu entrato nei depositi della neve? ... Sei tu che stringi i legami delle Pleiadi? ... Sei tu che al suo tempo fai apparire le costellazioni? E così avanti per due capitoli. Alla fine dei quali Dio s'interrompe e chiede allo sfidante:

    "Il censore dell'Onnipotente vuole ancora contendere con lui? Colui che censura Dio ha egli una risposta a tutto questo? (40:2).

A questo punto lo sfidante capisce in quale situazione si è andato a mettere, e molto volentieri porrebbe fine allo scontro:

    "Allora Giobbe rispose all’Eterno e disse: ‘Ecco, io sono troppo meschino; che ti risponderei? Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola, due volte... ma non lo farò più" (40:3-4).

Giobbe riconosce la superiorità del suo "avversario" e spera di potersi ritirare, ma non gli è concesso, perché quello che ha riconosciuto è ancora troppo poco. Dio allora non si ferma e interpella di nuovo lo sfidante.

CAPITOLO 40

  1. L’Eterno allora rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
  2. Orsù, cingiti i lombi come un prode; ti farò delle domande e tu insegnami!
  3. Vuoi tu proprio annullare il mio giudizio? condannare me per giustificare te stesso?

Si confrontino le domande con cui Dio fa partire i due round. La prima volta Dio chiede a Giobbe: "Dov’eri tu quand’io fondavo la terra?" La seconda volta: "Vuoi tu proprio annullare il mio giudizio? condannare me per giustificare te stesso?" Alla fine del primo round Giobbe riconosce la superiorità del suo avversario e assicura che non ci proverà più a sfidarlo. Ma non basta. Elihu aveva detto che Giobbe "riteneva giusto se stesso anziché Dio" (32:3); allora Dio adesso chiede a Giobbe se vuole confermare questa dichiarazione,  cioè  giustificare se stesso e condannare Dio. A questo punto Giobbe cede del tutto e ammette di aver voluto "oscurare i disegni di Dio con parole prive di senno". Riconosce dunque non soltanto la sua inferiorità quanto a potenza, ma anche la sua superbia nel pensare di essere superiore a Dio quanto a senno e giustizia.
  Il duello fra Dio e Giobbe finisce qui. Lo sfidante perde per abbandono; lo sfidato  non si gloria della sua vittoria e non umilia l'avversario sconfitto. Il testo non dice che Dio perdona, e neppure dice il contrario: la questione con Giobbe viene velocemente archiviata
  L'aspetto che anzitutto colpisce nei quattro capitoli dal 38 al 41 è il fatto che Dio parli con Giobbe "faccia a faccia" come poi farà in quella forma soltanto con Mosè (Esodo 33:11). Dio comincia a parlare a Giobbe tra tuoni e fulmini, "dal seno della tempesta" (38:1), quando Elihu è alla fine di un discorso sempre più incalzante con cui ammonisce minacciosamente Giobbe: "Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia" (36:17).
  Questo parlare di Dio tra tuoni e fulmini si ripete nella Bibbia quando Dio scende sul monte Sinai e consegna al popolo le "dieci parole" del suo patto. Ai piedi del monte il popolo è atterrito, ma "Mosè parlava, e Dio gli rispondeva con una voce" (Esodo 19:19), legittimando in questo modo Mosè come suo servitore e intermediario presso il popolo.
  Qualcosa di simile fa Dio anche qui. La tempesta con tuoni e fulmini con cui manifesta la sua gloria e vuol far percepire la sua autorità, non la sente solo Giobbe, ma anche gli amici con cui stava questionando. L'intervento di Dio serve allora a mettere le cose a posto con tutti. Parlando pubblicamente "faccia a faccia" con Giobbe, Dio da una parte dà una raddrizzata al suo servitore e dall'altra ne conferma la posizione di preminenza rispetto a tutti i suoi pari, perché di lui Egli parla come "il mio servo Giobbe", dunque uno che risponde a Lui, non ad altri.
  Dopo aver messo a posto Giobbe, Dio si rivolge ai suoi amici: poche parole, ma sorprendenti.

CAPITOLO 42

  1. Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
  2. Ora dunque prendetevi sette tori e sette montoni, venite a trovare il mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi stessi. Il mio servo Giobbe pregherà per voi; ed io avrò riguardo a lui per non punir la vostra follia; poiché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe'.
  3. Elifaz di Teman e Bildad di Suach e Tsofar di Naama se ne andarono e fecero come l'Eterno aveva loro ordinato; e l'Eterno ebbe riguardo a Giobbe.
  4. E quando Giobbe ebbe pregato per i suoi amici, l'Eterno lo ristabilì nella condizione di prima e gli rese il doppio di tutto quello che già gli era appartenuto.

In un'ottica antropocentrica, quello che si poteva rimproverare ai tre amici era di non aver saputo provare empatia per lui,  di non essersi sentiti amorevolmente coinvolti  nella sua pena, di aver accresciuto il suo dolore caricandolo di complessi di colpa per presunti peccati nascosti; e alla fine, davanti alla sua caparbia resistenza, di aver espresso giudizi di condanna contro di lui.
  Nel testo biblico  invece non si rimprovera ai tre amici di aver parlato male di Giobbe, ma di non aver parlato bene di Dio. Più precisamente: di non aver parlato di Dio "secondo la verità". Aggiungendo poi: "come ha fatto il mio servo Giobbe". Dunque è il rapporto con la verità su Dio che distingue Giobbe dai suoi amici. Non è una diversità di comportamento morale, ma di posizione storica e di giudizio teologico. Giobbe è stato messo da Dio in una posizione che lo pone come maestro di altri perché ha con Dio un rapporto particolare. "Io invocavo Dio ed egli mi rispondeva" (12:4), dice agli amici che lo accusano; e non si limita a difendersi, ma li rimprovera per il rapporto che hanno con Dio, prima che con lui.

CAPITOLO 13

  1. Ascoltate, vi prego, quel che ho da rimproverarvi; state attenti alle repliche delle mie labbra!
  2. Volete dunque difendere Dio parlando con menzogna? Sostenere la sua causa con parole di frode?
  3. Volete aver riguardo alla sua persona? E costituirvi difensori di Dio?
  4. Sarà un bene per voi quando egli vi scruterà a fondo? Credete di ingannarlo come s'inganna un uomo?
  5. Certo egli vi riprenderà severamente, se nel vostro segreto avete dei riguardi personali.
  6. La sua maestà non vi farà sgomenti? Il suo terrore non piomberà su di voi?

Giobbe ha avuto un rapporto di conoscenza amorosa con Dio, un rapporto vero, dovuto alla sua particolare posizione di servitore. Il crollo della Reggia di Uz ha fatto crollare il pensiero che Giobbe aveva di Dio, e il crollo di Giobbe ha fatto crollare il pensiero che avevano di lui gli amici. Nel contrasto che vedono esserci tra Dio e Giobbe, i tre osservatori scelgono di stare dalla parte del più forte, non per motivi di giustizia e verità, ma per convenienza e paura. Ma attenzione, dice Giobbe agli amici,  "se nel vostro segreto avete dei riguardi personali", Dio se ne accorgerà e "vi riprenderà severamente".
  Ed è quello che poi avviene: la punizione arriva, ma non è troppo severa: è umiliazione. Agli amici che chiedevano a Giobbe di umiliarsi davanti a Dio, Dio chiede a loro di umiliarsi davanti a Giobbe: dovranno offrire un olocausto in sua presenza, ad espiazione dei loro peccati.
  Tutti dunque, Giobbe e amici, sono costretti a percorrere il proprio tratto di vergogna, ma in modi diversi: a ciascuno il suo. Giobbe ubbidisce a Dio pregando per gli amici affinché siano perdonati;  come farà poi Abrahamo, che pregherà per  Abimelec affinché lui e la sua casa siano guariti: "E Abrahamo pregò Dio, e Dio guarì Abimelec, la moglie e le serve di lui, ed esse poterono partorire" (Genesi 20:18). In entrambi i casi Dio informa la parte su cui potrebbe cadere la punizione che questa potrà essere evitata per la preghiera del suo servo. Si paragonino infatti questi due versetti:

    "Il mio servo Giobbe pregherà per voi; ed io avrò riguardo a lui per non punire la vostra follia" (Giobbe 42:7)
    "Or dunque, restituisci la moglie a quest'uomo, perché è profeta; ed egli pregherà per te, e tu vivrai"(Genesi 20:7).
Anche da qui si intuisce che questo libro è preistoria israeliana: Giobbe è trattato da Dio come un profeta, al pari di Abrahamo. La sua posizione come servo di Dio viene qui confermata in quanto testimone del sacrificio di espiazione e intercessore della grazia di Dio per il perdono ai peccatori.
  Manca in questo finale Elihu. Che fine ha fatto? Di lui non si parla più perché è entrato nella vicenda soltanto come emissario di Dio per il compimento del suo proposito; quindi a lui Dio non ha niente da dire, tanto meno da rimproverare.
  Infine a Giobbe, che poteva pensare di essere parte lesa, mentre invece il vero offeso era Dio, viene chiesto di pregare per i suoi amici, per una piena riconciliazione fra di loro. Soltanto dopo la preghiera per gli amici, Giobbe riottiene una gloria doppia di quella di prima.

CAPITOLO 42

  1. L'Eterno benedisse gli ultimi anni di Giobbe più dei primi; ed egli ebbe quattordicimila pecore, seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine.
  2. Ebbe pure sette figli e tre figlie;
  3. e chiamò la prima, Colomba; la seconda, Cassia; la terza, Cornustibia.
  4. In tutto il paese non c'erano donne così belle come le figlie di Giobbe; e il padre assegnò loro un'eredità tra i loro fratelli.
  5. Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
  6. Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lieto fine non piace agli intellettuali, religiosi e non. Ricordiamo infatti quello che dice in proposito il teologo protestante Samuel Terrien:
  «Dopo una visione di Dio così alta come quella dei capitoli precedenti - dobbiamo proprio dirlo - il racconto della ricompensa finale di Giobbe non è altro che una digressione fuori luogo con un tocco di volgarità.»
  A lui fa eco il teologo cattolico Gianfranco Ravasi:
  «Disturba non poco vedere quest'uomo che ha sfidato Dio, che è penetrato nel mistero, che ha cercato in tutti i modi di caricare su di sé quasi tutta la gamma del soffrire e del dolore e che è diventato quasi un vessillo della sofferenza umana, concludere alla fine la sua esistenza come uno sceicco orientale, sotto le sue tende che volano al vento, mentre, dimentico dei figli che ha perso e delle disgrazie precedenti, banchetta e si gode la nuova numerosa famiglia e il bestiame che popola il suo orizzonte restaurato.»
  Ma la Bibbia non è un'antologia di favole. Per chi è convinto della verità storica dei racconti biblici, i fatti descritti nel libro di Giobbe sono credibili almeno quanto i prodigi di Mosè per la liberazione di Israele dalla schiavitù d'Egitto. Prendere o lasciare, non è lecito gustare la Bibbia "à la carte".
  Togliere al libro di Giobbe l'epilogo sarebbe come togliere ai Vangeli i capitoli che parlano della risurrezione di Gesù, perché il tema centrale che accomuna la storia di Israele e quella di Gesù è la risurrezione dai morti. Di questo parlano, in forma di parabola storica, sia il libro di Giobbe, sia il libro di Giona.

CAPITOLO 19
  1. Ma io so che il mio Redentore vive, e che alla fine si ergerà sulla polvere.
  2. E dopo che la mia pelle sarà distrutta, so che nella mia carne vedrò Dio;
  3. proprio io lo vedrò; coi miei occhi io lo contemplerò, e non un altro. Le mie viscere si struggono in me.

Il mio Redentore vive, questa dichiarazione, riportata nel famoso Alleluia del Messiah di Händel, esprime la certezza confusa, ma comunque presente, che il rapporto d'amore vissuto da Giobbe con Dio non potrà essere spezzato neppure dalla morte del corpo. "Le mie viscere si struggono in me" è una frase che rivela il desiderio intenso - unito a una certezza umanamente inspiegabile ("io so") - di ritrovare quel rapporto d'amore che aveva sentito come vero e adesso sembra spezzato. Poco prima agli amici che lo affliggevano aveva detto (capitolo 19):

  1. Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
  2. allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nella sua rete è Dio.
  3. Ecco, io grido: "Violenza!" e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
  4. Dio mi ha sbarrato la via e non posso passare, ha coperto di tenebre il mio cammino.
  5. Mi ha spogliato della mia gloria, mi ha tolto dal capo la corona.
  6. Mi ha demolito pezzo per pezzo, e io me ne vado. Ha sradicato come un albero la mia speranza.
  7. Ha acceso la sua ira contro di me, mi considera come suo nemico.

Dio "mi considera come suo nemico". Ma perché? Questo è il fatto che Giobbe non riesce a capire. Si vede rigettato da Dio,  considerato come suo nemico, ma non riesce a sua volta a pensare a Dio come nemico. La sua concezione della giustizia lo richiederebbe, ma il rapporto d'amore che ha vissuto lo impedisce.
  A questo punto, il paragone con Giona diventa ancora più stringente. Se Giobbe nella sua esperienza si è sentito avvolto nella rete di Dio, Giona si è visto circondato dalla corrente del mare, sommerso dalle onde e i dai flutti mossi da Dio:

    "Tu mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato, tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi hanno travolto. Io dicevo: Sono cacciato lontano dal tuo sguardo! Come potrei vedere ancora il tuo tempio santo?” (Giona 2:3, 4).

Ma poi aggiunge:

    “Le acque mi hanno sommerso; l’abisso mi ha inghiottito; le alghe mi si sono attorcigliate al capo. Sono sprofondato fino alle radici dei monti; la terra ha chiuso per sempre le sue sbarre su di me; ma tu mi hai fatto risalire dalla fossa, o Eterno, mio Dio! Quando l'anima mia veniva meno in me, io mi sono ricordato dell'Eterno, e la mia preghiera è giunta fino a te, nel tuo tempio santo.” (Giona 2:5-7)

Sia Giobbe che Giona hanno fatto un'esperienza di morte e risurrezione. E non è forse questa la caratteristica specifica della storia del popolo d'Israele? che è anche l'esperienza fatta dal suo Messia?
  Ribadiamo allora, sinteticamente, alcuni punti chiave che hanno guidato lo studio di questo libro e ne costituiscono il quadro conclusivo.

• In negativo:
  1. Giobbe non rappresenta il generico uomo che soffre nei suoi rapporti con uomini e cose (posizone umanistica);
  2. Giobbe non rappresenta il generico uomo religioso che soffre nei suoi rapporti con Dio (posizione moralistico-spirituale).

• In positivo:
  In quel particolare periodo della storia dell'umanità, Giobbe è il servo del Signore che sperimenta, per esclusiva volontà di Dio e nella sua posizione di fedele servitore, un processo di abbassamento fino alle soglie della morte e di vittorioso rialzamento ad una pienezza di vita e di benedizione.
  La serie di riflessioni qui presentata termina con la proposta, per chi è convinto, di fare di questa esposizione il punto di partenza di un serio esame del posto che deve occupare il libro di Giobbe nell'insieme della rivelazione biblica e del ruolo che svolge la figura di Giobbe nel piano di salvezza di Dio.


(Notizie su Israele, 20 marzo 2022)


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