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O ebreo o cristiano. Ma è proprio vero?

di Marcello Cicchese

"Venga, si accomodi nel mio ufficio", mi disse garbatamente la graziosa hostess israeliana all'aeroporto della Malpensa. Ero in attesa con mia moglie di salire sull'aereo di El Al che ci avrebbe portati per la prima volta in Israele. Il suo "ufficio" in realtà si rivelò essere un tavolino rotondo nella hall dell'aeroporto intorno al quale ci riunimmo in piedi per rispondere alle domande inquisitorie con cui doveva accertarsi che non fossimo strumenti volontari o involontari di terroristi. Ci chiese, tra l'altro, se conoscevamo qualcuno in Israele, ed io, senza pensarci troppo, risposi candidamente: "Sì, conosciamo a Giaffa un ebreo cristiano che..." "Ebreo cristiano?" m'interruppe gentilmente la giovane israeliana. "O è ebreo o è cristiano", mi fece notare. Mi accorsi troppo tardi del mio errore di dicitura e mi corressi: "Un ebreo che crede in Gesù come Messia d'Israele". Non replicò e non aggiunse altro, ma sono convinto che sapesse fin dall'inizio quello che intendevo dire, e con la sua precisazione probabilmente aveva voluto dirmi qualcosa.
   O sei ebreo, o sei cristiano: aut-aut.
   Ma siamo proprio sicuri che sia così? Daniel Boyarin, professore di Cultura talmudica all'Università della California, riconosciuto a livello internazionale come uno dei maggiori studiosi di Talmud, lo mette in dubbio. Le sue tesi in proposito sono contenute in un'opera recentemente tradotta in italiano: "Il Vangelo ebraico. Le vere origini del cristianesimo".
Ecco come si esprime Boyarin nel suo libro:
    "I termini «ebrei cristiani» ed «ebrei non cristiani» che userò in questo libro potrebbero spiazzare chi ancora considera cristiani ed ebrei due entità opposte. Ma se guardiamo attentamente ai primi secoli dopo Cristo, cominceremo a vedere che è proprio questo il modo in cui dobbiamo affrontare la storia della religione degli ebrei, a quel tempo. Prima di arrivarci, tuttavia, potrebbe essere utile mettere in discussione alcuni dei nostri assunti di fondo su cosa siano le religioni.
       Per i moderni, le religioni sono dei set preconfezionati di convinzioni dotati di confini ben definiti. Di solito ci domandiamo: Quali convinzioni proibisce il cristianesimo, quali pratiche richiede? E ci facciamo le stesse domande in merito all'ebraismo, all'induismo, all'islam, al buddhismo, le cosiddette grandi religioni. Un approccio del genere, com'è ovvio, boccia l'idea che uno possa essere al contempo ebreo e cristiano, assimilandola a una contraddizione in termini. Gli ebrei non corrispondono alla definizione che si dà dei cristiani, e i cristiani non corrispondono alla definizione che si dà degli ebrei. Vi sono semplici incompatibilità tra queste due religioni che rendono impossibile l'appartenenza a entrambe. In questo libro sosterrò la tesi secondo la quale ciò non si rispecchia sempre nei fatti, e nello specifico non rappresenta bene la situazione dell' ebraismo e del cristianesimo dei primi secoli dopo Cristo." (pag. 28)
Sia ben chiaro, l'autore non cerca, come si fa oggi nell'ecumenismo diplomatico, di sottolineare "quello che ci unisce più di quello che ci divide". La storia ha effettivamente collocato sotto l'etichetta di due differenti religioni due realtà sociali che per secoli si sono intimamente e fondamentalmente contrapposte, anche quando non si sono scontrate in modo violento. Boyarin cerca soltanto di dimostrare che in origine non era così, e per farlo analizza accuratamente e mette a confronto testi del Nuovo Testamento (soprattutto i Vangeli), dell'Antico Testamento (soprattutto i Profeti), e antichi testi talmudici. Gli eventi storici successivi alla caduta del Tempio e alla fallita rivolta "messianica" di Bar Kochba hanno portato ad una contrapposizione ideologica radicale, al punto che una delle caratteristiche fondamentali dell'essere ebreo è diventato il non essere cristiano, e una delle caratteristiche fondamentali dell'essere cristiano è stato il non essere (o non essere più) ebreo. Questa radicalità di contrapposizione è stata favorita anche dagli interessi "gestionali" delle autorità religiose di entrambe le parti, che hanno sempre visto con sospetto l'avvicinarsi all'altra parte di uno dei propri membri: "cristianizzarsi" per un ebreo, e "giudaizzarsi" per un cristiano sono stati visti non solo come errori, ma anche come fatti ignobili e indecorosi, come pericolose derive da cui mettere in guardia i propri adepti.
   Ma anche a questo riguardo l'autore non invita al "volemose bbene", non cerca di favorire i contatti interpersonali tra gruppi diversi "nel reciproco rispetto della propria identità", come si suol dire oggi nei salotti buoni dell'ecumenismo diplomatico. L'analisi critica dei testi fatta da Boyarin procede con il taglio del filologo e dello storico, non del teologo, e tanto meno del leader religioso con tendenze ecumeniche. Ed è da questo tipo di analisi che fa scaturire conclusioni come questa:
    "La teologia dei Vangeli, ben lungi dal costituire un'innovazione radicale nel contesto della tradizione religiosa israelitica, è un ritorno alquanto conservatore ai momenti più antichi della tradizione, nel frattempo soppressi in gran parte - ma non del tutto. L'identificazione di colui che cavalca le nubi con il simile a un figlio di uomo in Daniele fornisce il nome e l'immagine del Figlio dell'Uomo, anche nei Vangeli. Ne segue che le idee su Dio che identifichiamo come cristiane non sono affatto delle innovazioni ma potrebbero benissimo essere profondamente collegate ad alcune delle più antiche idee israelitiche su Dio. Queste idee si rifanno, perlomeno, a un'interpretazione plausibilissima (e attestata) di Daniele 7". (pag. 57)
Particolarmente importanti sono le considerazioni che l'autore svolge sulla figura del "servo sofferente" di Isaia 53, di cui riporta nel libro stesso il testo integrale:
    Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?
    A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
    È cresciuto come un virgulto davanti a lui
    e come una radice in terra arida.
    Non ha apparenza né bellezza
    per attirare i nostri sguardi,
    non splendore per provare in lui diletto.
    Disprezzato e reietto dagli uomini,
    uomo dei dolori che ben conosce il patire,
    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,
    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
    Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
    si è addossato i nostri dolori
    e noi lo giudicavamo castigato,
    percosso da Dio e umiliato.
    Egli è stato trafitto per i nostri delitti,
    schiacciato per le nostre iniquità.
    li castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
    per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
    Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
    ognuno di noi seguiva la sua strada;
    il Signore fece ricadere su di lui
    l'iniquità di noi tutti.
    Maltrattato, si lasciò umiliare
    e non aprì la sua bocca;
    era come agnello condotto al macello,
    come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
    e non aprì la sua bocca.
    Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
    chi si affligge per la sua sorte?
    Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi,
    per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte.
    Gli si diede sepoltura con gli empi,
    con il ricco fu il suo tumulo,
    sebbene non avesse commesso violenza
    né vi fosse inganno nella sua bocca.
    Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
    Quando offrirà se stesso in espiazione,
    vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
    si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
    Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
    e si sazierà della sua conoscenza;
    il giusto mio servo giustificherà molti,
    egli si addosserà la loro iniquità.
Di chi si parla in questo passo, si chiede Boyarin? Ecco la sua risposta:
    "Impossibile sopravvalutare quanto l'interpretazione di questo passaggio abbia ancorato il convenzionale modo di intendere la relazione tra giudaismo e messianismo. In epoca moderna si è partiti dal presupposto che gli ebrei lo abbiano sempre letto in chiave metaforica, intendendo il servo sofferente come il popolo di Israele e incolpando i cristiani di averne cambiato e distorto il significato allo scopo di trovarvi un riferimento a Gesù. Ora invece sappiamo, al contrario, che molte autorità ebraiche, forse addirittura la maggioranza, hanno interpretato Isaia 53 fino al periodo moderno come un testo riguardante il Messia. Fino a pochi secoli fa, la lettura allegorica era in netta minoranza." (pag. 134).(*)
Ma la figura di un Messia che soffre per i peccati degli uomini non è forse un'idea tipicamente cristiana, del tutto estranea al modo di porsi ebraico? Anche a questo risponde Boyarin:
    "Il Messia sofferente che espia i nostri peccati è stata un'idea assai comune nella storia della religione ebraica, anche molto prima della separazione dal cristianesimo. L'idea di un Messia sofferente è presente tanto nell'ebraismo antico quanto in quello medievale moderno. Questo fatto, come minimo, mette in dubbio il clichè secondo il quale la formazione e l'accettazione di questa idea da parte dei seguaci di Gesù abbia costituito un punto di rottura necessario e assoluto con la religione di Israele. Il Messia sofferente è parte integrante della tradizione giudaica dall'antichità alla modernità. Il Vangelo attinge quindi dalla tradizione ebraica, e non solo: questa idea è rimasta ebraica per molto tempo dopo la separazione dal cristianesimo nella tarda antiçhità." (pag. 132)
Sarebbe tuttavia del tutto fuor di luogo interpretare queste considerazioni critiche dell'ebreo Daniel Boyarin come una "vittoria" del cristianesimo sull'ebraismo, cosa che certamente non era nelle intenzioni dell'autore. Con considerazioni esegetiche dello stesso tipo si potrebbero mettere in difficoltà anche tante compiaciute dichiarazioni teologiche di un certo cristianesimo supponente. Per esempio, molti cristiani che conoscono bene l'esistenza di Isaia 53 e amano citare spesso questo testo, indubbiamente importante, restano sorpresi quando a loro si fa notare che nel libro di Isaia si trovano anche molti passi che indicano il popolo d'Israele come servo del Signore. Chi è dunque questo servo? Ho trattato questo argomento nell'articolo "Chi è il servo del Signore?", presente in questo sito e inserito in seguito nel libro "La superbia dei Gentili".
   Non si tratta dunque di ammassare armi culturali per vedere chi riesce a vincere tra ebrei e cristiani, e neppure, essendo passati i tempi delle violente battaglie ideologiche e pratiche, di individuare sedi di dibattito per confronti ad alto livello, regolati da precise norme procedurali al fine di evitare spiacevoli incidenti. Per usare un linguaggio che era diffuso nel mitico '68, non è l'ecumenismo di vertice che occorre ricercare, ma piuttosto il confronto diretto, alla base, tra uomini e donne che si rispettano come persone, ma che non per questo temono di interrogarsi insieme ad altri su ciò che è vero e ciò che è falso.
   Ecco allora un tema di ricerca e confronto che può essere suggerito dal libro di Daniel Boyarin: i Vangeli. Rendersi conto che i Vangeli non sono libri di sacrestia, ma frutto esclusivo del popolo ebraico, sia pure discusso e discutibile, come lo sono tanti altri temi all'interno di quel mondo, non può che far bene a tutti, sia ebrei sia cristiani. Non è da persone aperte e oneste, e vorrei dire anche culturalmente rispettabili, accontentarsi di avere un'opinione sui Vangeli ereditata pigramente dall'ambiente in cui si è cresciuti, sia esso ebreo o cristiano, senza sentire il bisogno di verificarne di persona il contenuto. E' disarmante osservare come talvolta persone di grandi conoscenze culturali, che sanno fare dotte citazioni di storia e filosofia, si accodino poi a ripetere banali stereotipi popolari, o cadano in veri i propri errori testuali, quando si avventurano in frettolosi riferimenti alla Bibbia.
   Un effetto scongelante dell'usuale rigida contrapposizione tra ebrei e cristiani potrebbe essere ottenuto dalla lettura attenta del libro di Daniel Boyarin, che non appare finalizzato a ottenere una vittoria per i cristiani o per gli ebrei, ma esamina i testi dei Vangeli nel loro rapporto con il mondo ebraico da cui provengono, al fine di capire come stavano in origine le cose, e non come sono state usate in seguito dalle istituzioni religiose di entrambe le parti.
    Ma lo studio dei Vangeli, in collegamento e confronto con quello del Tanach, potrebbe anche avvenire in un ambiente esclusivamente ebraico, come una delle innumerevoli discussioni che si fanno oggi tra ebrei. I quali discutono di tutto e con tutti ma, stranamente, considerano il discorso su Gesù come una cosa non di loro pertinenza, come una faccenda che riguarda gli altri, i gentili. Ed è strano, perché fondamentalmente i Vangeli sono stati scritti per rispondere a una precisa domanda: è Gesù il Messia d'Israele? E' evidente allora, senza dover nemmeno pensare alle possibili risposte, che la semplice formulazione di una domanda come questa non ha senso al di fuori dell'ambiente ebraico. Chi può capire il significato del termine "Messia" senza fare riferimento agli scritti sacri del popolo d'Israele?
   E' accaduto nella storia che una parte del popolo ebraico ha creduto che il Messia d'Israele fosse arrivato nella persona di Gesù di Nazaret. Ed è per affermare e diffondere questo fatto che sono stati scritti i Vangeli, non per gettare le fondamenta di una multinazionale religiosa con il compito di dominare spiritualmente il mondo, né per raccogliere un insieme di storie edificanti per convincere gli uomini a comportarsi bene. "Queste cose sono scritte affinché crediate che Gesù è il Cristo (Messia), il Figlio di Dio, e affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome" (Giovanni 20:31): questo è il contenuto centrale del messaggio dei Vangeli. Com'è possibile che agli ebrei questo non interessi?
   Due fatti nuovi di fondamentale importanza sono avvenuti nel secolo scorso. Uno è chiaramente riconosciuto, anche se valutato in modi diversi: la costituzione dello Stato d'Israele. L'altro è meno considerato, ma di importanza niente affatto minore: la costituzione in diverse parti del mondo, e non solo in Israele, di comunità di ebrei che non solo riconoscono in Gesù il Messia, come è sempre accaduto anche nel passato, ma si rifiutano di accettare che la loro fede implichi la perdita della loro identità di ebrei e l'esclusione dal popolo ebraico. E per far intendere che la loro scelta di fede non significa l'uscita da una società per entrare in un'altra hanno deciso di chiamarsi "ebrei messianici", con il risultato di essere visti con sospetto da tutti, ebrei e cristiani. La dizione è ovviamente ambigua, perché da una parte tutti gli ebrei che aspettano in qualche modo un Messia futuro possono dirsi "messianici", e dall'altra, se con il termine "messianico" si vuol intendere che si crede in Gesù come Messia, è chiaro che tutti i cristiani sono messianici. Ma non ci si può gingillare con il significato filologico dei termini per evitare di affrontarne la portata reale. Gli ebrei messianici oggi ci sono come lo Stato d'Israele c'è. Sono fatti che parlano. Si può criticare la politica d'Israele, ma questo con cambia il fatto che Israele c'è; si può criticare la teologia degli ebrei messianici, ma questo non cambia il fatto che gli ebrei messianici ci sono. Questo è linguaggio biblico, linguaggio delle potenti gesta dell'Eterno. Non è strano allora che molti non lo intendano e non lo accettino, sia tra gli ebrei, sia tra i gentili.
   Ma resta il fatto, dopo le opportune precisazioni terminologiche, che dirsi ebreo e cristiano non è affatto una contraddizione in termini. Tutt'altro.

(*) Per un approfondimento del tema si può consultare il saggio di Arnold G. Fruchtenbaum: "Rabbinic
     Views of Messiah and Isaiah 53", contenuto come appendice nel libro "Messianic Christology".


Le citazioni dal libro sono state fatte con l'autorizzazione scritta della casa editrice. Riportiamo qui il testo del copyright: "Tutti i diritti riservati. La riproduzione di parti di questo testo con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza l'autorizzazione scritta dell'Editore è severamente vietata."


(Notizie su Israele, maggio 2013)