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Notizie 1-15 agosto 2016


Monaco 1972: commemorati gli atleti israeliani, per la prima volta durante un'Olimpiade

Il Comitato Olimpico Internazionale commemora per la prima volta durante un'Olimpiade gli 11 atleti israeliani vittime dei terroristi di Settembre Nero, a Monaco, nel 1972.
Durante la cerimonia al Villaggio Olimpico ha preso la parola Ankie Spitzer, vedova di una delle vittime. Assieme a Ilana Romano conduce da anni una campagna affinchè una commemorazione venga inscritta nel quadro dei giochi olimpici.
"Sentire finalmente pronunciare a voce alta nel villaggio olimpico i nomi degli 11 atleti israeliani seguiti da un minuto di silenzio è stato il risultato della nostra battaglia per il riconoscimento dei nostri cari come membri della grande famiglia olimpica" ha detto durante la cerimonia.
Israele chiedeva che un minuto di silenzio venisse rispettato durante la cerimonia d'apertura di tutti i Giochi a venire. Il Comitato Olimpico ha optato per la creazione di un memoriale con pietre portate direttamente da Olimpia nel villaggio di Rio. Una cerimonia si terrà ad ogni edizione delle Olimpiadi.
Il 5 settembre 1972 durante i Giochi di Monaco di Baviera il gruppo terroristico palestinese Settembre Nero fece irruzione nel villaggio olimpico e rapì 11 atleti israeliani. Due di loro, Yossef Romano (31 anni, pesista, nato in Libia, padre di 3 figli e veterano della Guerra dei Sei Giorni) e André Spitzer (27 anni, allenatore di scherma, nato in Romania e padre di una bambina di pochi mesi), vennero uccisi nelle prime fasi del sequestro, gli altri 9 atleti vennero uccisi all'aeroporto di Monaco durante il tentativo da parte delle autorità di tendere una trappola agli assalitori che avevano chiesto un volo per lasciare la Germania.

(euronews, 15 agosto 2016)


Presunti diritti storici basati su menzogne (oltretutto alquanto recenti)

Anche una mappa ufficiale giordana del '56 smentisce la propaganda palestinese sul Monte del Tempio

Nuovi documenti storici di cui si è avuta notizia durante lo scorso fine settimana sbugiardano una volta di più i tentativi palestinesi di riscrivere la storia, in particolare per quanto riguarda i legami ebraico con la zona del Monte del Tempio, a Gerusalemme.
Nel corso degli ultimi anni la propaganda dell'Autorità Palestinese non ha risparmiato nessuno sforzo, a livello locale e internazionale, per cercare di negare qualunque collegamento fra la storia e la tradizione ebraica e il luogo sacro di Gerusalemme, cercando ostinatamente di marcare sempre e solo il legame musulmano con la moschea di al-Aqsa (che sorge, come la Cupola della Roccia, sulla spianata in cima all'altura dove un tempo sorgevano il primo e il secondo Tempio ebraico)....

(israele.net, 15 agosto 2016)


Frammenti di memoria

Fulvio Canetti, Guerra e Shoà, ed. Terra Santa, 2014, p. 94, € 12.90

Dall'ultima pagina di copertina:
    Tre racconti, sospesi tra ricordi personali, ricostruzioni storiche (l'eccidio di Caiazzo del 1943) e testimonianze (tra tutte, quella di Lello Perugia, il "Cesare" de La Tregua di Primo Levi), conducono il lettore a rivivere una delle pagine più buie del XX secolo: la seconda guerra mondiale e la tragedia della Shoà. Fulvio Canetti in quegli anni era solo un bambino. Un bambino ebreo. A distanza di tanti anni ha scelto di raccontare la sua storia, nei lunghi mesi che lo videro rifugiarsi, insieme alla famiglia, sulle colline nei dintorni di Montecassino: i giochi spensierati e le avventure con i coetanei, nonostante i drammi del mondo degli adulti; l'esperienza della fame e delle privazioni; l'incontro ravvicinato con la crudeltà dei nazisti, per sempre indelebile nella sua memoria di uomo; la prigionia dello zio in un lager polacco e il suo ritorno a casa, quasi irriconoscibile; la morte del padre. "Scrivere di queste cose è stato per me durissimo, e allora perché farlo? Per ricordare. Chiunque volti le spalle o chiuda gli occhi di fronte alla Shoà offende non solo la memoria delle vittime, ma l'uomo stesso creato a immagine di JHWH".
Un estratto dal libro:

A molti anni di distanza dai tragici fatti della seconda guerra mondiale, sono tornato a percorrere a ritroso la via Casilina, strada del ricordo un tempo bianca e polverosa e oggi ricoperta di asfalto. Mi sembrava di rivedere i campi di battaglia, di sentire ancora l'ululato del terribile cannone tedesco Nebelwerfer che sputava proiettili fino al mare di Anzio.
   Risalendo verso Roma, si attraversa il fiume Volturno che bagna la città di Caiazzo, città martire per i crimini commessi nel casolare di Monte Carmignano dall'esercito tedesco in ritirata. Continuando in direzione nord si intravede Monte Cairo, spesso ricoperto di neve, da dove i tedeschi riuscivano a controllare ogni movimento di truppe alleate nella valle sottostante. Sulla sinistra, dove il fiume Rapido si getta nel Liri, sorge tranquillo il paesino di Sant'Angelo a Teodice, teatro di aspri e sanguinosi combattimenti tra le truppe tedesche e il 141o Battaglione di fanteria americano, che venne quasi del tutto decimato. Costeggiando dal basso l'abbazia di Montecassino, si attraversa l'angusta valle del Liri-Garigliano per giungere, attraverso la piana di Pontecorvo, nella valle del fiume Sacco e da questo alle porte di Roma.
   La capitale, dichiarata "città aperta" dai comandi italiani nell'agosto 1943, fu occupata subito dopo 1'8 settembre dalle truppe tedesche, che vi condussero una dura repressione ai danni della resistenza antifascista e degli ebrei. "Cinquanta chilogrammi d'oro per il Reich millenario" fu la somma richiesta alla Comunità ebraica di Roma dal comandante della Gestapo Herbert Kappler per evitare la deportazione. Gli ebrei si illusero e credettero a tale menzogna: anche con l'aiuto del Vaticano, riuscirono a racimolare la quantità d'oro richiesta. Con questo oro, alcuni ebrei avrebbero invece voluto comprare delle armi e opporre resistenza. Non vennero ascoltati, e la tragedia fu inevitabile: la retata al ghetto di Roma (16 ottobre 1943) portò alla deportazione ad Auschwitz di 1.030 ebrei. Tra questi, oltre cento bambini.
   Noi tutti siamo tenuti a conoscere !"'universo" ingannatore del carnefice per difenderci dalla sua micidiale violenza. Non è facile. Il carnefice è un "satana" che cambia volto, gioca con la morte, non rispetta un'etica: il suo imperativo è uccidere. Primo Levi ha insegnato: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Ecco dunque come il razzismo di un tempo può indossare oggi maschere diverse, come quella del terrorismo, talvolta tollerato se non addirittura giustificato. Il carnefice ha dunque questa capacità di cambiare pelle come il serpente, grazie all'odio che cova nel suo cuore. In realtà è un vile e aspetta solo l'occasione opportuna per mordere la sua vittima. (pp.46-47).

(Notizie su Israele, 15 agosto 2016)


Vergogna a Berlino. Il Kempinski Hotel (che fu di un ricco ebreo) "vieta" di telefonare in Israele

Vergogna ed anche mancanza di pudore a Berlino. Uno dei più prestigiosi alberghi della citta', il Kempinski prova a "vietare" le telefonate in Israele. Ironia della sorte il primo proprietario che si chiamava appunto Kempinski era un ebreo di origine ungherese, costretto a fuggire dal nazismo. Ritornato alla fine della guerra ricostruì l'albergo che era stato distrutto dai bombardamenti. Poi fu ceduto dopo la sua morte. Non sarebbe certo rimasto contento sapendo cosa avrebbero fatto per interesse i nuovi proprietari.
   La denuncia viene da Claude Lanzmann, giornalista e regista francese, autore di un documentario sulla Shoah. Si era recato a Berlino per i funerali dell'ex moglie ed aveva preso una stanza al Kempinski. Lanzamann consultando in camera l'elenco dei prefissi telefonici internazionali, perché voleva telefonare in Israele, si e' accorto che alla i mancava proprio la parola Israele. "Angosciato ed indignato", ha raccontato di essersi precipitato alla reception, dove candidamente gli hanno dato una risposta che non lo ha certo aiutato calmarsi. "La maggioranza della nostra clientela è araba, sono i clienti ad avere chiesto la cancellazione di Israele dalla brochure". Divenuta la notizia di dominio pubblico la direzione tardivamente ha parlato solo di una spiacevole svista. Ma la bugia è rimasta evidente.
   E si è anche saputo dalla direzione di un altro prestigioso albergo di Berlino, il Ritz-Carlton che nella capitale tedesca la clientela di fede musulmana è ormai arrivata al 99% delle presenze. Te' e frutta per chi è appena atterrato, e copie del corano e tappeti per la preghiera in direzione della Mecca sono tra le trovate per mettere a proprio agio i numerosi arabi. Favorire la fede di una parte della clientela è comunque diverso dal negare i valori di un altra civiltà, anche se meno numerosa.

(in20righe, 14 agosto 2016)


Torna a Ferrara la Festa del Libro Ebraico

Il primo weekend di settembre all'insegna della cultura

 
Ferrara - La Fondazione Meis

Torna a Ferrara la Festa del Libro Ebraico che da ormai sei anni accompagna l'inizio del settembre estense.
La due giorni dedicata alla cultura ebraica verrà presentata ufficialmente il 29 agosto, ma online è già apparso il calendario con gli eventi, le mostre e gli incontri. L'inagurazione è fissata per sabato 3 settembre, alle ore 21, nel giardino di Palazzo Roverella (in caso di maltempo Salone d'Onore Palazzo Roverella), con il saluto delle autorità, seguito dal concerto dell'Avishai Cohen Quartet.
Al Meis sarà aperta alle 21,30 la mostra "Torah fonte di vita", con la collezione del Museo della comunità ebraica di Ferrara. In contemporanea al Bookshop del Meis ci sarà un omaggio a Giorgio Bassani, la "Biblioteca itinerante di letteratura", realizzata in collaborazione con Ferrara Off.
La sera sarà l'occasione anche per approfittare della visita guidata al cantiere del Meis (alle 22), da via Rampari San Paolo, che porterà poi all'esposizione "Torah fonte di vita".
  • Domenica mattina, alle 9,30, al Giardino di Palazzo Roverella (in caso di maltempo Sala d'Onore Palazzo Roverella), si parlerà degli stampatori ebrei a Ferrara, con un dialogo tra il Rabbino Capo di Ferrara Luciano Caro e il direttore di Pagine Ebraiche Guido Vitale.
  • L'incontro successivo - stesso posto, ma alle 10,30 - sarà invece dedicato alla partecipazione degli ebrei alla Prima Guerra Mondiale, una tavola rotonda Con Alberto Cavaglion (Università di Firenze), Carlotta Ferrara degli Uberti (University College London), Gadi Luzzatto Voghera (Centro Documentazione Ebraica Contemporanea - Cdec). Coordina Anna Quarzi (Istituto Storia Contemporanea di Ferrara). Le conclusioni saranno affidate agli studenti Liceo Scientifico "Roiti".
  • Alle 12, sempre nel Giardino di Palazzo Roverella (in caso di maltempo Sala d'Onore Palazzo Roverella), presentazione del volume "Il Talmud torna italiano", con Clelia Piperno (direttore del Progetto Talmud), Rav Gianfranco Di Segni (Coordinatore traduzione), Shulim Vogelmann (La Giuntina). Modera Simonetta Della Seta (direttore del Meis)
  • Alle 13,30, in piena ora di pranzo, al Giardino di Palazzo Roverella, si potranno gustare i sapori ebraici e, a seguire nel pomeriggio, ci sarà il Premio Pardes di cultura ebraica, con i riconoscimenti per Riccardo Calimani Scrittore - Premio per la saggistica; Ernesto Ferrero Scrittore, già Direttore del Salone Inter- nazionale del Libro, Presidente del Centro Internazionale di Studi Primo Levi - Premio alla carriera; Emilio Jona Scrittore - Premio per la letteratura.
  • Alle 16,40 al Ridotto del Teatro Comunale, la tavola rotonda (in inglese) "Una memoria per il futuro: la missione dei musei ebraici". Introduce Dario Disegni, presidente della Fondazione Mei, modera Maurizio Molinari, direttore de La Stampa. Intervengono: Paul Salmona (direttore Museo d'Arte e di Storia dell'Ebraismo, Parigi), Emile Schrijver (direttore Generale Museo Ebraico, Amsterdam), Orit Shaham Gover (direttrice Museo delle Diaspore, Tel Aviv), Dariusz Stola (direttore Museo di storia degli Ebrei Polacchi, Varsavia), Simonetta Della Seta (direttore Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, Ferrara).
Il programma è però più vasto di così. Oltre alla proiezione di due docufilm (alla videoteca Vigor), nella giornata di domenica saranno tanti gli incontri con gli autori alla Sala Estense di Palazzo Roverella, tra i quali spicca quello con Sergio Minerbi per tracciare la storia della famiglia Minerbi a Ferrara.
Ci sarà spazio anche per un'altra mostra, "Alefbeth. Segni dell'alfabeto ebraico", che aprirà alle 19 di domenica 4 settembre in via Ripagrande 46, a cura di Gloria Soriani e con la presentazione di Sharon Reichel, storica dell'arte.

(estense.com, 14 agosto 2016)


Alla ricerca dell'unità perduta

di Rav Alberto Moshe Somekh

Rav Alberto Moshe Somekh

Uno degli elementi che tiene unito il popolo ebraico da secoli a dispetto di dispersioni e persecuzioni è l'uniformità delle regole di scrittura e di lettura del Sefer Torah. Mentre i non ebrei azzardano ipotesi e contro ipotesi sulla composizione del Pentateuco, noi ebrei siamo ferrei: una lettera in più, in meno o differente invalida l'intero rotolo finché non si provveda a correggerlo. Insomma, è affidata ai Maestri la facoltà di interpretare la Torah a patto che non si giunga a intaccarne il testo consegnatoci dalla Tradizione (Massorah). Anche la lettura pubblica della Torah segue criteri rigorosamente unitari. Se il lettore sbaglia una sola vocale, che peraltro nel testo non figura, viene prontamente ripreso. E il brano letto di volta in volta è identico in tutte le Comunità del mondo. Vero, ma fino a un certo punto. Ci sono degli anni in cui per un certo periodo in Israele e nella Diaspora non si legge la stessa Parashah settimanale. Per l'esattezza in Eretz Israel sono avanti di una Parashah rispetto a Chutz la-Aretz. Ciò accade allorché il secondo giorno di Shavu'ot o, come quest'anno, l'ottavo giorno di Pesach cade di Shabbat. È noto il fatto che fuori da Israele si aggiunge un giorno di Mo'ed in più rispetto alla madrepatria. In Israele questa giornata è lavorativa a ogni effetto, a meno che non cada di Shabbat. In tal caso vi si legge la prima Parashah settimanale disponibile, mentre in Diaspora sarà necessario attendere altri sette giorni. La compensazione avrà luogo non appena giungeranno due Parashot che per tradizione si prestano a essere unite: in Israele si leggeranno separatamente, mentre in Golah saranno lette di seguito nella stessa giornata consentendo in tal modo il "conguaglio". Le coppie di Parashot unibili sono sette in tutto, perlopiù concentrate da Pesach in avanti. Ci aspetteremmo che la scelta ricada sulla coppia più prossima, in modo da limitare nel tempo il più possibile l'effetto della discrepanza: eppure non è sempre così. Il problema è ulteriormente amplificato quest'anno dal fatto di essere un anno embolismico, dotato cioè di 13 mesi. Il mese aggiunto richiede già di dover separare almeno quattro delle sette coppie. Ciò circoscrive fortemente il numero di coppie disponibili per il "conguaglio". Per una tradizione che risale, a quanto pare, al Medioevo, in un anno come il nostro, embolismico e con l'ottavo giorno di Pesach di Shabbat, la discrepanza si protrae per oltre tre mesi. Per l'esattezza il "conguaglio" è previsto avvenire solo con le Parashot di Mattot e Mas'è, che in Diaspora si leggeranno unite a metà del periodo "fra i due digiuni" commemorativi della distruzione di Yerushalaim. Ciò sebbene nel frattempo si siano lette diverse altre Parashot considerate unibili. Perché attendere tanto?
  È molto raro in genere che Mattot e Mas'è si leggano separatamente. Fra i due digiuni del 17 Tammuz e del 9 Av intercorrono tre settimane esatte. Al terzo Shabbat è destinata per definizione la Parashat Devarim, in cui Moshe rimprovera al popolo le sue malefatte nel deserto e in particolare la "trasgressione degli esploratori" avvenuta il 9 Av: il triste episodio che impedì alla generazione uscita dall'Egitto di entrare in Israele. Le due Parashot precedenti sono Mattot e Mas'è. Se noi le leggessimo separate, ecco che Pinechas, quella che giunge ancora prima, verrebbe letta fuori dalle tre settimane. Ma noi abbiamo un valido motivo per fare invece in modo di leggerla subito dopo il 17 Tammuz. In che modo? Unendo Mattot e Mas'è nello stesso Shabbat! Il valido motivo è il seguente. La Parashat Pinechas parla della Chaluqqat ha-Aretz, la suddivisione di Eretz Israel fra le varie tribù delineata in prospettiva all'epoca di Moshe Rabbenu. A distanza di secoli e in particolare dopo l'esilio e la distruzione del Tempio di Yerushalaim, ecco che la lettura di questo brano dopo il digiuno del 17 Tammuz fu sentita come una fonte di consolazione: non tutto è definitivamente perduto, fa tornare le tribù al possesso della terra, "rinnova i giorni nostri come in antico"! Comprendiamo a questo punto perché si voglia attendere proprio la coppia Mattot-Mas'è per compiere il "conguaglio" di quest'anno nella Diaspora. Anche a costo di prolungare la discrepanza nella lettura settimanale della Torah fra Eretz Israel e Golah per alcuni mesi.
  Dicevamo all'inizio che la lettura della Torah è un fattore unificante del popolo ebraico. È lecito domandarsi perché nel nostro caso questa argomentazione passi apparentemente in secondo piano. Il messaggio che si vuol dare in realtà è chiaro. La sequenza delle Parashot è costruita in maniera per cui Pinechas la "consolatrice" quest'anno viene letta dopo il digiuno proprio in Diaspora, mentre in Israele lo si farà lo Shabbat precedente. È la Diaspora che in primis ha bisogno di essere consolata. Ricordiamoci peraltro che la Golah è sì causa di disgregazione, ma ne è anche l'effetto. Il secondo Tempio fu distrutto, dicono i Maestri (Yomà 9b), per l'odio immotivato fra gli individui. Se fossimo davvero rimasti uniti, non saremmo stati esiliati! Trovarci per tre mesi in ritardo sulla lettura della Parashah rispetto a Eretz Israel ce lo vuole rammentare. E chissà che proprio questo fattore non ci stimoli a un ripensamento? Chissà che questa temporanea disunità non ci porti essa stessa a ricercare l'antica unità perduta?

(moked, 14 agosto 2016)


Saluti negati e boicottaggi, le gare sbagliate dei Giochi

di Gianni Riotta.

"II judoka egiziano EI Shehaby? Si è ritirato no?". Occhiali da sole nella giornata estiva, nell'inverno dei Giochi di Rio, sorrisi ma nessuno della delegazione di Israele vuol tornare sul caso, ormai celebre, dell'atleta arabo che si rifiuta di stringere la mano all'israeliano Or Sassen, poi medaglia di bronzo. Sui media sembra un'Olimpiade ruvida per gli israeliani, partita con salve di fischi allo stadio Maracanà quando appare la Stella di Davide, alla testa della squadra più grande di sempre, 47 atleti in 17 discipline. All'inaugurazione manca il ministro dello Sport Miri Regev, «È Shabbat», e dal sito olimpico scompare l'icona con i colori nazionali, riapparendo solo dopo proteste. Gli sportivi avviati verso il bus, quella sera, si vedono sbarrare la strada dal dirigente libanese al-Haj Nakoula, non vuole viaggiare con gli ebrei, malgrado si vada a giurare fratellanza universale. Un post su Face-book dell'allenatore dei velisti Udi Gal svela la vicenda, da Israele nessun intervento.

 Fondamentalista salafita
  Per capire davvero come vivano gli sportivi israeliani a Rio si deve passeggiare un po' con «i ragazzi», i tecnici, gli accompagnatori. Vuoi la vera storia? Comincia da ben prima che El Shehaby vada sul tatami contro Or. Sul web del Cairo infuria una campagna violentissima perché si ritiri. Scrivono "Sarai la vergogna dell'Islam se combatti contro un israeliano. Se perdi sarai la disgrazia di un'intera nazione e di te stesso. Che succede se perdi con un ebreo? Se vinci che ci guadagni, collabori con un paese di assassini?". Un commentatore tv minaccia "Non illuderti e non ascoltare chi ti sta illudendo, se combatti non farai felice l'Egitto. Quando torni ti tratteremo da traditore collaborazionista"».
  Islam El Shehaby, nove volte campione d'Africa, è un fondamentalista salafita, la corrente più estrema dell'islamismo, detesta Israele. Ma la Federazione egiziana, legata al presidente Al Sisi, non vuole incidenti, «Abbiamo ammonito El Shehaby di competere da sportivo con l'atleta di Israele». Islam è forzato a combattere contro Or, battuto ne rifiuta la stretta di mano, limitandosi a un cenno del capo quando l'arbitro gli impone l'inchino tradizionale. Sasson gli offre perfino una sorta di High Five, poi si allontana, senza polemiche. Sa che per El Shehaby già esserci è molto, gli israeliani apprezzano la scelta ufficiale del Cairo. Igal Carmi, presidente del Comitato Olimpico di Israele, è franco, «Credo che l'atleta egiziano abbia fatto, dal suo punto di vista, la cosa che credeva giusta. E' entrato in gara contro la volontà di tanti nel suo paese, lo hanno messo in difficoltà, ha scelto un compromesso». Yael Arad, primo israeliano a vincere una medaglia olimpica proprio nel judo, rilancia, «E molto importante che El Shehaby abbia deciso di combattere. Come sportivo comprendo la pressione che ha subito e gliene do atto. Spero non corra ora rischi in Egitto», motivando così il repentino ritiro di El Shehaby. EI Shehaby quasi vittima.
  Tra gli israeliani, a sorpresa, il judoka disprezzato per la mancata stretta di mano passa quasi da vittima e anche il caso di Joud Fàhmy, saudita che s'è ritirata nel match contro Christianne Legentil di Mauritius, pur di non combattere al secondo turno contro l'israeliana Gili Cohen, è trattato con cautela: «Se volevano polemizzare, si ritirava prima del match con Gili. La federazione sa che il generale saudita Anwar Eshkzi, inviato di Re Salman e del figlio Mohammed, ha appena visitato Israele, missione rara, importante per il disgelo. Di nuovo è un buon compromesso, piuttosto ci bruciala sconfitta di Gill, speravamo nel podio».
  Quanti cliché scioglie la verità, al sole di Rio. Nella squadra di Israele militano insieme Alexander Shatilov, ginnasta nato in Uzbekistan da famiglia di ebrei russi, e Lonah Chemtai Korlima, fondista di origine keniana arrivata come baby sitter e naturalizzata, mentre il maratoneta Tasama Moogas è etiope. Tutti uniti dunque? No, l'editorialista arabo-israeliano Sayed Kashua annuncia sul quotidiano Haaretz: «Me lo ha insegnato mio padre, io non tifo mai per Israele, perché non vanno in campo atleti arabi e la bandiera perpetua le divisioni del Paese».
  Quest'anno, per la prima volta, i Giochi hanno ricordato gli atleti israeliani sterminati a Monaco 1972 dai terroristi di Settembre Nero. Prima di lasciare chiedo «Problemi con la sicurezza?», e di nuovo risate dietro gli occhiali da sole, «Ma sa chi governa tutta la sicurezza, radar, monitor, controlli, perfino gli algoritmi con le telecamere sui movimenti improvvisi della folla qui a Rio? Noi israeliani, con il sistema Isds, International Security and Defense Systems. Occhi aperti si, ma sull'antiterrorsmo nessuno ci batte...»

(La Stampa, 14 agosto 2016)


Gerusalemme ad alta tensione

Riportiamo questo articolo di un giornale e di un autore che sono accanitamente contro Israle soltanto perché segnalano una situazione presente oggi a Gerusalemme che altri media trascurano. L'autore naturalmente sostiene che il contrasto non è religioso e dipende dalla politica del governo di Netanyahu. L'aspetto religioso però ritorna fuori quando ricorda che Gerusalemme è il terzo luogo santo dell'islam e che l'Unesco ha definito la Spianata delle Moschee "sito religioso islamico". Resta soltanto da capire se l'odio anti-israeliano dell'autore sia religioso o politico. Ma la cosa non ha molta importanza, soprattutto per chi lo subisce. M.C.

 
Sul Monte del Tempio, chiamato dagli islamici e dall'UNESCO "Spianata delle Moschee"
Il sito "Monte del Tempio" non nasconde la soddisfazione per il previsto arrivo in massa di ebrei religiosi oggi all'ingresso della Spianata delle Moschee di Gerusalemme, il luogo dove secondo la tradizione ebraica sorgeva il biblico Tempio. «Domenica giungeranno masse di ebrei per il Tisha B'av - annuncia - in questa ricorrenza tanti ebrei vanno al Monte del Tempio ma quest'anno sarà raggiunto un numero record». Il sito sottolinea che i palestinesi seguono quanto accade e che uno dei leader del movimento islamico in Galilea, lo sceicco Kamal Khatib, ha esortato i musulmani a pregare in massa sul luogo sacro per contrastare l'arrivo degli ebrei. In ogni caso la polizia, aggiunge, si è mossa in anticipo per prevenire le «azioni» dei palestinesi. Nella città vecchia di Gerusalemme si annuncia un'altra giornata di forte tensione e, forse, di scontri tra polizia e palestinesi. Un anno fa, proprio nei giorni del Tisha B'av, gli attriti si acuirono fino a sfociare, all'inizio di ottobre, nell'Intifada di Gerusalemme.
  È solo in apparenza un conflitto religioso tra ebrei e musulmani. Piuttosto è la conseguenza del progetto della corrente sionista religiosa e messianica, che tanti rappresentanti conta ora alla Knesset e persino nel governo, di ottenere attraverso gli appelli alla ricostruzione del Tempio (accanto o al posto delle moschee), la fine dello status attuale della Spianata e la proclamazione della piena sovranità israeliana sul luogo sacro. Anche in risposta all'Unesco che di recente ha definito la Spianata un sito religioso islamico. Dietro le invocazioni al diritto degli ebrei di andare al Monte del Tempio non ci sono dei semplici cittadini israeliani ebrei desiderosi di visitare le bellezze e le ricchezze storiche, culturali e religiose di Gerusalemme. Ci sono organizzazioni e militanti della destra religiosa e del movimento dei coloni appoggiati dal governo Netanyahu. La vice ministra degli esteri Tzipi Hotovely un anno fa proclamò che il suo sogno è vedere la bandiera israeliana sventolare sul Monte del Tempio, ossia sulle moschee. Le proteste della Giordania, che si proclama protettrice dei luoghi santi islamici a Gerusalemme, hanno costretto il premier Netanyahu a contenere, per ora, le ambizioni dei nazionalisti religiosi. La partita però resta aperta e gli ultimi accordi tra Tel Aviv e Amman per riportare la calma sulla Spianata - che tagliano fuori i palestinesi - sono stati applicati sono in parte.
  Dal 1967 sino ad oggi il sito - terzo luogo santo dell'Islam dopo Mecca e Medina - è rimasto sotto il controllo dell'istituzione che amministra e tutela i beni religiosi del mondo islamico, il Waqf . Nei giorni scorsi la polizia e gli apparati di sicurezza hanno effettuto arresti, spesso preventivi, di giovani palestinesi della Città Vecchia di Gerusalemme e tra i dipendenti del Waqf, evidentemente considerati la prima barriera contro i "tour" di coloni ed estremisti di destra, i "turisti" come li definiscono i media israeliani. Diversi impiegati del Waqf sono accusati di aver tentato di impedire, anche con la forza, l'ingresso agli israeliani, di recente anche a un team di archeologi incaricato, secondo la stampa locale, di verificare il punto raggiunto dai lavori di restauro delle moschee avviati dalle autorità islamiche nei mesi scorsi. L'azione più importante comunque è stata fatta un anno fa quando la polizia, su ordine del ministro della sicurezza interna Gilad Erdan, ha smantellato con arresti e altre misure repressive la rete di "murabitat e murabitun", le "sentinelle" organizzate dal leader del movimento islamico in Israele, Raed Salah, a guardia della Spianata delle moschee. Il sito "Monte del Tempio" ha le idee chiare sul futuro: «Non vi è dubbio che la presenza domenica di tutti gli ebrei sul Monte del Tempio servirà a plasmare la politica del governo verso la montagna sacra».

(il manifesto, 14 agosto 2016)


Il grande gioco di Putin: strategia su tre fronti

di Maurizio Molinari

Le scintille lungo il confine con l'Ucraina, la cruenta battaglia di Aleppo e la riconciliazione con la Turchia di Erdogan descrivono la determinazione con cui Vladimir Putin sta costruendo attorno alla Federazione russa un nuovo ambizioso assetto internazionale.
   È un'offensiva che si sviluppa su tre fronti.
   Primo: le fibrillazioni con Kiev sui confini della Crimea, incluso l'invio di missili S-400, servono a far sapere all'Europa dell'Est che Mosca resta protagonista della regione, determinata a tutelare i diritti delle popolazioni russofone, per nulla intimorita dal dispiegamento di truppe Nato lungo i propri confini deciso al recente vertice di Varsavia.
   Secondo: l'intensificazione dell'offensiva di Aleppo, con i pesanti raid contro le aree in mano ai ribelli islamici anti-Assad, descrive la volontà di far prevalere il regime del Baath nella guerra civile, ipotecando la gestione della transizione a Damasco ovvero i futuri equilibri fra i grandi rivali del Medio Oriente, Iran ed Arabia Saudita.
   Terzo: la riconciliazione con Recep Tayyip Erdogan, interlocutore indispensabile sulla Siria perché sostiene i ribelli islamici, consente di identificare nella Turchia un partner economico e politico nel più vasto scacchiere dell'Eurasia a dispetto della sua appartenenza all'Alleanza Atlantica. Se guardiamo più da vicino a questi fronti ci accorgiamo che vedono ovunque Putin intenzionato a ridurre in maniera sensibile l'influenza degli Stati Uniti: in Ucraina vuole fiaccare la credibilità di Washington come garante dell'Europa dell'Est, in Siria punta a dimostrare più capacità militare contro i jihadisti rispetto alla coalizione di oltre 60 Paesi guidata da Obama ed in Turchia mira ad incrinare il legame di Ankara con la Nato, sfruttando a tal fine anche l'irritazione di Erdogan per la presenza in Pennsylvania del presunto regista del fallito golpe militare del 15 luglio scorso, Fethullah Gulen.
   Ciò che giova a Putin in questo Grande Gioco, il cui epicentro è nel Mediterraneo Orientale, è l'immagine di un Occidente lacerato dai disaccordi su migrazioni e terrorismo, indebolito economicamente e in ultima analisi carente di leadership perché a prevalere sono i movimenti di protesta, come dimostrato dal referendum su Brexit. A tratteggiare l'ambizione di Putin di porre le basi di un assetto internazionale non più incentrato sull'Occidente è Fyodor Lukyanov, apprezzato analista moscovita, secondo il quale «Putin ed Erdogan si sono sentiti entrambi emarginati dai progetti della Grande Europa dopo la Guerra Fredda» e condividono una volontà di riscatto che, secondo il politologo russo Maxim Suchov, include la «riscoperta dell'Eurasia» per via degli interessi convergenti in Paesi come il Kazakhstan, l'Azerbaigian e l'Armenia.
   Più in generale Putin sta costruendo una rete di legami privilegiati con nazioni rette da modelli politici diversi dalle democrazie occidentali - dalla Bielorussia alla Turchia, dall'Egitto all'Iran fino alle repubbliche ex sovietiche dell'Asia Centrale - sovrapponendo investimenti energetici, presenza militare e proiezione di un «soft power» russo assai efficace, come dimostra la popolarità della tv «Russia Today» nel modo arabo. Il Cremlino sa tuttavia che questa fase di espansione strategica rischia di incepparsi con l'uscita di Obama dallo Studio Ovale: chiunque sarà il successore avrà un approccio meno remissivo sulla scena internazionale e Mosca teme in particolare il successo di Hillary Clinton perché la sua candidatura esprime la volontà dell'establishment bipartisan di Washington di riconquistare il terreno perduto in questi anni.
   Ciò che Putin vuole scongiurare è il ripetersi di uno degli errori più gravi commessi da Mosca durante la Guerra Fredda ovvero quanto avvenne nel 1980 allorché l'America di Jimmy Carter sembrò così indebolita dalle crisi in Iran, Afghanistan e Nicaragua da far pensare al Cremlino di averla piegata quando invece la vittoria nelle urne di Ronald Reagan cambiò il corso della Storia, determinando l'esito opposto. Ecco perché Putin resta all'offensiva ed il profilo della Russia è destinato a crescere un po' ovunque, anche nel nostro Mediterraneo Centrale, come dimostra la scelta di opporsi senza mezzi termini ai raid Usa su Sirte sostenendo le posizioni del generale Khalifa Haftar, avversario del governo di Fayez Sarraj a Tripoli.

(La Stampa, 14 agosto 2016)



Grande tristezza e sofferenza continua
    Dico la verità in Cristo, non mento - poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo - ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; perché io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne, cioè gli Israeliti, ai quali appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse; ai quali appartengono i padri e dai quali proviene, secondo la carne, il Cristo, che è sopra tutte le cose Dio benedetto in eterno. Amen! Però non è che la parola di Dio sia caduta a terra; infatti non tutti i discendenti d'Israele sono Israele; né per il fatto di essere stirpe d'Abraamo, sono tutti figli d'Abraamo; anzi: «È in Isacco che ti sarà riconosciuta una progenie».
    (dalla lettera dell'Apostolo Paolo ai Romani, cap. 9).

La "grande tristezza" e "la sofferenza continua" dell'apostolo Paolo erano dovuti alla situazione dei suoi "parenti secondo la carne" come popolo e nazione, non come singoli individui. Quando l'apostolo ricorda che a loro "appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse" si riferisce ai privilegi che Dio ha accordato al popolo d'Israele in quanto tale, e non individualmente ad ogni suo membro. L'adozione, per esempio, si manifesta nel fatto che Dio ha chiamato Israele "mio figlio" (Esodo 4:22-23, Osea 11:1). A nessun altro popolo Dio ha mai concesso questo titolo, e anche nessun singolo ebreo avrebbe mai potuto dichiararsi figlio di Dio, se non per significare semplicemente di essere un membro del popolo eletto. Nell'Antico Testamento il termine "figlio di Dio" riferito ad una singola persona è attribuito soltanto al Messia (Salmo 2), e a nessun altro.
Il popolo d'Israele esiste in quanto ha ricevuto da Dio prerogative particolari: se queste vengono meno, il popolo sparisce, indipendentemente da quanto grande possa essere il numero dei suoi membri che si salvano. Se Israele non è più figlio di Dio, vuol dire che Dio ha ripudiato suo figlio. Se il regno messianico promesso a Davide non si realizzerà, vorrà dire che Dio non ha mantenuto le sue promesse. Ma è proprio questo che Paolo contesta quando dice che non è vero che "la parola di Dio sia caduta a terra".

 


Wagner sovverte Wagner, antisemitismo compreso

Con l'attacco all'«ebraizzazione» dell'arte aprì un'epoca buia. Ma le sue opere, specie il «Parsifal», scardinano l'ideologia.

Un testo cruciale
La nuova edizione italiana del suo intervento contro Felix Mendelssohn è un contributo importante che colma una grave lacuna.
Il pregiudizio
Sostiene che l'ebreo saprebbe solo imitare, ma non creare, perché non è radicato in una comunità storico-nazionale.

di Donatella Di Cesare

«Non posso ascoltare troppo Wagner! Già sento l'impulso a occupare la Polonia ... ». La battuta di Woody Allen, nel film Misterioso omicidio a Manhattan, compendia con ironia mordace la questione dibattuta da decenni intorno a Richard Wagner e alla sua musica. Nessun altro artista ha commosso tanto le folle, nessun altro è stato tanto odiato. Già a proposito della Prima guerra mondiale il grande comparatista francese Georges Dumézil scriveva: «I nomi wagneriani, la musica wagneriana hanno animato i combattenti tedeschi dal 1914 al 1918, nell'ora del sacrificio e del crollo ancor più che in quella del trionfo. Il Terzo Reich non ha avuto bisogno di crearsi i suoi miti fondativi».
   Wagner sì, Wagner no. In Germania il Festival di Bayreuth, dedicato esclusivamente all'opera di Wagner, costituisce uno degli apici della vita culturale e vanta tra gli ospiti abituali la cancelliera Angela Merkel. In Israele un bando di fatto ha vietato a lungo l'esecuzione pubblica della musica di Wagner. Nel luglio del 2001 il direttore d'orchestra Daniel Barenboim, ebreo argentino, ha aggirato l'interdizione proponendo al pubblico sorpreso un brano tratto da Tristano e Isotta non previsto nel programma. Non sono mancate le polemiche. Da allora, però, il tabù ha cominciato a cadere. Proprio in Israele, però, le emozioni sono forti, gli animi divisi. Il regista Udi Aloni ricorda che quando un gruppo culturale di giovani, di cui faceva parte, annunciò provocatoriamente sui giornali la proiezione, nel loro club, della versione filmica integrale del Ring, moltissimi anziani si presentarono all'appuntamento. Per loro la musica di Wagner rappresentava ben più dell'uso che i nazisti ne avevano fatto.
   Il «caso» Wagner non si è, dunque, mai chiuso. In che modo l'antisemitismo influisce sul suo pensiero, in che forma pesa sulla sua musica? Se lo chiede Leonardo Distaso nella premessa all'edizione italiana del saggio di Wagner Il giudaismo nella musica, appena pubblicato da Mimesis. Si tratta del «più clamoroso e influente dei suoi scritti», come osservò Léon Poliakov, lo storico dell'antisemitismo. Wagner lo pubblicò nel 1850, protetto da uno pseudonimo. La traduzione italiana uscì molti anni dopo, nel 1897, in una rivista specialistica di musicologia. Non ebbe, perciò, diffusione. Ecco perché l'edizione curata da Distaso, dove sono contenute anche le considerazioni che, in forma di lettera alla contessa Marte Muchanoff Nesselrode, Wagner aggiunse nel 186g, è un contributo importante che colma effettivamente una lacuna. Distaso punta, anzi, l'indice contro la cultura italiana, che per 119 anni non ha ritenuto di dover riflettere su questo scritto: vuoi perché non lo giudicava indispensabile per comprendere la musica di Wagner (eppure è un saggio sulla musica!), vuoi perché ha cercato di occultare quest'ombra della sua personalità, vuoi perché ha imboccato la facile via della separazione tra arte e vita. Ma in quest'ultimo caso Wagner stesso non sarebbe stato d'accordo.
   Al termine del volume Distaso ricostruisce il contesto storico in cui, mentre l'antisemitismo di Wagner assume contorni sempre più precisi, maturano le sue scelte artistiche. La ricostruzione aiuta il lettore a districarsi nella complessa trama dell'autobiografia di Wagner e a trovare soprattutto il nesso che lega la sua musica alla sua filosofia della storia e al suo progetto politico. In tal senso la tesi sposata da Distaso è chiara: l'antisemitismo è strettamente legato sia alla nuova forma mitico-religiosa del «dramma totale», che l'artista riceve dall'ispirazione del popolo, il vero inventore, limitandosi a esprimerlo e rappresentarlo, sia al tentativo compiuto da Wagner per destare a nuova vita la saga germanica dei Nibelunghi. Il popolo tedesco e la sua arte vengono proiettati «lassù, in alto, sopra tutti gli altri e sopra ogni cosa… über alles». Con la sua musica Wagner lancia un appello ai tedeschi affinché escano dalla secolare apatia e riscoprano la loro identità di stirpe. Scaturisce da qui il suo antisemitismo, che non può essere semplicemente considerato - come ha fatto lo studioso americano Jacob Katz - la «parte più oscura del genio».
   Restano, però, molti dubbi. E sarebbe forse auspicabile anche in Italia un'edizione critica come quella, di quasi quattrocento pagine, pubblicata da Pierre-André Taguieff in Francia nel 2012, dove sono compresi altri scritti di Wagner e dove viene ripercorso, in tutta la sua complessità, l'acceso dibattito intorno al «caso» Wagner dalla metà dell'Ottocento ai nostri giorni. Certo, aveva ragione Adorno, quando scriveva che «l'antisemitismo wagneriano riassume in sé tutti gli ingredienti dell'antisemitismo successivo». Sotto molti aspetti Das Judentum in der Musik (che sarebbe stato forse meglio tradurre L'ebraismo nella musica) costituisce l'atto di nascita dell'antisemitismo moderno. Basti pensare al termine di nuovo conio Verjudung, con cui Wagner indica quella «ebraizzazione» dell'arte moderna da cui tedeschi, e europei, devono emanciparsi. «L'ebraismo è la cattiva coscienza della civiltà moderna» - conclude perentorio, inaugurando un tema che sarà ripreso da molti, anche da Heidegger. Sebbene Wagner eviti di menzionarne il nome, il suo bersaglio è il compositore Giacomo Meyerbeer, un tempo suo mecenate; esplicitamente viene invece chiamato in causa Felix Mendelssohn Bartholdy. Entrambi per lui impersonano. ciascuno a suo modo, la sterilità artistica degli ebrei, attestano la decadenza del gusto musicale dell'epoca. Al contrario del tedesco, l'ebreo saprebbe solo imitare, non creare. Perché non è radicato in una comunità storico-nazionale ed è esponente del cosmopolitismo moderno. Un musicista ebreo non può avere, per Wagner, né originalità né interiorità. Mendelssohn-Bartholdy è l'archetipo di questo formalismo che riduce la composizione a un vuoto gioco di suoni senza contenuto. Perciò lo contrappone a Beethoven.
   In un saggio del 1944 Thomas Mano, dopo aver confessato di essere sempre ancora commosso nell'ascoltarne le note, ha scritto che la musica di Wagner è stata «creata e rivolta contro tutta la civiltà umanistico-borghese». Senza dubbio. Ma come immaginare l'Europa senza Wagner? Giustamente Slavoj Zizek, al termine del suo libro Variazioni Wagner (Asterios ), osserva: «Se c'è un evento culturale nel quale, al giorno d'oggi, la tradizione europea si condensa e si incarna, questo è Bayreuth». E paragona la musica di Wagner alla tragedia greca e alla poesia di Shakespeare. Programmatico è il titolo della prima parte del suo libro: Perché dobbiamo salvare Richard Wagner. Zizek non è solo; la sua posizione è in gran parte condivisa da Alaln Badiou che, a sua volta, ha pubblicato Cinque lezioni sul «caso» Wagner (Asterios).
   É possibile, dopo aver assunto l'antisemitismo in tutta la sua gravità, continuare a gioire della musica di Wagner? La risposta è sì! - dice Zizek. Non perché la musica «redima l'uomo. Ma il punto è che il contesto storico, a cui si richiama una vecchla lettura, ideologica e critica, non basta più. Questo tema è stato, peraltro, ripreso da Roger Sauton nel suo recente libro su Wagner, di stampo fortemente conservatore. Certo lo storicismo, in cui sembra dibattersi ancora Enrico Fubini, nel suo pur notevole saggio Wagner e la rivoluzione, trascura del tutto il fatto che l'opera dei grandi artisti spesso tradisce il loro progetto originario. E quel che accade a Wagner. E Nietzsche, il suo grande critico, lo aveva capito. Come non pensare al Parsifal, l'ultimo dramma, messo in scena nel 1882? Qui il protagonista, quasi lasciandosi alle spalle il legame fraterno e elitario del Graal, si apre a una nuova comunità. Visione dell'impasse, in cui l'Europa è finita, il capolavoro di Wagner è al contempo una risposta che mette radicalmente in discussione il potere. La musica non risponde a proclami politici e teorie estetiche; anzi, nel tessuto stesso dell'opera, li rovescia. La sua grandezza sta in questa sovversione.

(Corriere della Sera, 14 agosto 2016)


"Perché dobbiamo salvare Richard Wagner". Ma c'è proprio bisogno di salvarlo filosoficamente con ambigue frasi di apparente profondità come "Il capolavoro di Wagner è al contempo una risposta che mette radicalmente in discussione il potere", aggiungendo che "La musica non risponde a proclami politici e teorie estetiche; anzi nel tessuto stesso dell'opera, li rovescia"? Ma davvero la grandezza di Wagner sta "in questa sua sovversione"? Non sarebbe più semplice dire che la capacità di scrivere bella musica è stata data a Wagner dal Signore e che lui, nella sua perversa umanità, l'ha messa al servizio del Diavolo, che naturalmente ha colto l'occasione per usarla a modo suo? Prima o poi verrà qualche filosofo che ci spiegherà "Perché dobbiamo salvare il mago Balaam". M.C.


«De Magistris ha proprio esagerato, ora la cittadinanza onoraria a Erdogan»

Roberto Modiano, umorista ebraico, sul riconoscimento al palestinese Bilal Kayed: "Spero che il sindaco ci possa ripensare. questa nomina ha colpito molto la nostra comunità, siamo molto addolorati"

di Gabriele Bojano

NAPOLI - Non c'è niente da ridere sulla cittadinanza onoraria che il consiglio comunale di Napoli ha deciso di conferire al palestinese Bilal Kayed che, secondo la comunità ebraica napoletana, tutto sarebbe tranne che uomo di pace. Persino l'umorismo ebraico, che è solito non guardare in faccia a nessuno e a non assecondare mai l'unanime consenso (secondo un vecchio detto "due ebrei hanno tre opinioni"), stavolta fa un passo indietro e preferisce non esprimersi su un argomento che si rivela oltremodo delicato. «In questa vicenda di umoristico c'è ben poco», scuote la testa l'ingegnere Roberto Modiano, dirigente d'azienda in pensione, ebreo napoletano con la passione per il cabaret yiddish che ha in Moni Ovadia, suo amico e maestro, un interprete d'eccezione.

- Dopo Ocalan e Abu Mazen un'altra cittadinanza onoraria ingombrante parte da Palazzo San Giacomo. Ma secondo lei qual è la strategia del sindaco de Magistris?
  «Stavolta de Magistris ha proprio esagerato, me lo lasci dire, con il suo essere filopalestinese. Posso comprendere la cittadinanza onoraria conferita ad Abu Mazen che comunque ritengo sia un leader palestinese moderato. Ma mettere assieme Sophia Loren, recentemente insignita del titolo di cittadina onoraria, con questo Kayed,che è solo un terrorista ("un pericoloso estremista - scrive la comunità ebraica - che ha trascorso 14 anni nelle carceri israeliane per le sue azioni violente e gode del sostegno di un'organizzazione terroristica qual è Hamas", ndr), serve secondo me solo a fare rumore mediatico».

- Eppure la proposta non è partita direttamente dal sindaco de Magistris.
  «Sì, lo so, è stata avanzata dal consigliere Mario Coppeto, eletto con la lista "Napoli bene comune a sinistra". Spero che il sindaco ci possa ripensare, questo riconoscimento ha colpito molto la comunità ebraica, proprio non ce l'aspettavamo. Siamo molto addolorati e molto preoccupati. Vero è che finora de Magistris non ha mai tenuto conto della realtà israeliana presente a Napoli, non ci ha mai considerati».

- Come mai?
  «II sindaco di Napoli ufficialmente non è a sinistra, nelle ultime elezioni ha messo nelle liste un paio di persone che sono notoriamente antiisraeliane. Il suo è un tentativo per cercare di recuperare una platea a sinistra per garantirsi un maggiore consenso».

- Lei conosce molto bene Napoli, è vero che fa la guida turistica?
  «Sì, mi piace portare la gente in posti molto particolari della città, sono un buon affabulatore e parlo cinque lingue e mezzo».

- Dove porterebbe Bilal Kayed?
  «Bella domanda! Guardi, io con una persona che si è macchiata di morti e attentati, preferirei non avere nulla a che fare. Io sono italiano da sempre però ho anche tre quarti della famiglia ad Israele e quando succede qualcosa in Medio Oriente è sempre per noi motivo di dolore e grande preoccupazione».

- E adesso dopo Bilal Kayed secondo lei cosa succederà? Chi sarà il prossimo cittadino onorario di Napoli?
  L'umorismo ebraico, fino a questo punto tenuto a bada, fa capolino con tutta la sua nota forza dissacrante e provocatoria: «Se continua così - sorride e irride Modiano - de Magistris può mettere dentro di tutto e di più e fare cittadini onorari senza alcun problema Putin, Erdogan, il presidente siriano Bashar al Assad. E tanto per non colpire solo da una parte, provare anche a chiamare Donald Trump. Non solo, gli suggerirei infine anche qualche emiro dell'Arabia Saudita, di quelli che non permettono alle donne di far nulla. Tutti cittadini onorari».

(Corriere del Mezzogiorno, 13 agosto 2016)


Judoka egiziano non stringe mano all'israeliano: piovono critiche

Il presidente delle Comunità del Mondo Arabo in Italia: «Gesto sbagliatissimo, potrebbe essersi trattato di una trovata pubblicitaria».

GENOVA - "Ha sbagliato, ed ha sbagliato molto, l'atleta egiziano a non stringere la mano al suo avversario israeliano". Così Foad Aodi, presidente delle Comunità del Mondo Arabo in Italia (Co-mai), ha condannato il gesto del judoka Islam El Shehaby, che si è rifiutato di stringere la mano del suo avversario, l'israeliano Or Sasson, dopo essere stato battuto negli ottavi di finale della categoria 100 chilogrammi ai Giochi di Rio. "Me lo ha chiesto proprio ieri mio figlio Nader che ha 18 anni", ha raccontato Aodi, arabo israeliano nato vicino a Nazaret. "Questo è un gesto enormemente sbagliato perché lo sport è una cosa e la politica è un'altra. È un gesto sbagliatissimo che non fa parte dello spirito sportivo e non escludo che possa essersi trattato di una trovata pubblicitaria dell'atleta".

(Corriere dello Sport, 14 agosto 2016)


El Shehabi rincara la dose: "Non mi si chieda di stringere la mano a un israeliano"

Ori Sasson judoka israeliano si presenta per salutare El Shehabi (Egitto) e quest'ultimo al termine della gara gli rifiuta la mano.

 
E' ufficiale: la mancata stretta di mano (al termine della gara) da parte del judoka El Shehabi (Egitto) nei confronti di Ori Sasson (Israele - nella foto in primo piano) non era un problema di "timidezza". Quanto piuttosto di antisemitismo abbinato ad anti-sportività diffusa. Peccato che la FederJudo egiziana al momento taccia. Il problema però permane ed è anche molto grave, perché gli atti di intolleranza da parte di atleti arabi nei confronti dei "colleghi" olimpici israeliano non sono più eccezioni, bensì la triste regola. In un mondo perfetto El Shehabi sarebbe punito dalla sua stessa federazione e sbattuto fuori del villaggio olimpico perché in netto contrapposizione con i principi e valori olimpici.
Si difende il judoka egiziano Islam El Shehaby, contestato dal Comitato Olimpico Internazionale e non solo per essersi rifiutato di stringere la mano al rivale israeliano Or Sasson che lo aveva battuto nella gara olimpica di ieri. Citato dalla rivista L'Esprit du Judo, l'atleta egiziano sostiene infatti di aver rispettato le regole dello sport e di non aver alcun obbligo di stringere la mano al suo rivale. Ma, allo stesso tempo, dichiara che non gli si può chiedere di stringere la mano di un israeliano. "Stringere la mano al tuo rivale non è un obbligo scritto nelle regole del judo. Avviene tra amici e lui non è un mio amico", ha detto El Shehaby, 32 anni. "Non ho alcun problema con gli ebrei o con persone di altra religione o di altri credo. Ma per ragioni personali non mi si può chiedere di stringere la mano a chiunque venga da questo Stato, soprattuto di fronte al mondo intero".
Dopo Yarden Gerbi che martedì sera si era aggiudicata la medaglia di bronzo nella prova di judo, ieri sera l'israeliano Ori Sasson (proprio l'atleta israeliano offeso da El Shehabi) ha conquistato un altro bronzo sempre nella stessa specialità sportiva.
Sasson prima di vincere la medaglia aveva battuto precedentemente (nei 32imi) l'avversario egiziano che rifiutandosi di stringergli la mano dopo l'incontro aveva scatenato lo sdegno del pubblico con una bordata di fischi perdendo sia come atleta che come uomo e offendendo profondamente lo spirito di quest'antica arte marziale.
Il neo vincitore, invece, con la medaglia di bronzo al collo ha dichiarato il suo amore per Israele.
«Questa vittoria la dedico a tutti gli israeliani e mi fa piacere aver dato tanto orgoglio a Israele. Non potrei vivere in un altro posto al mondo. Dovunque io vada, poi non vedo l'ora di tornarmene a casa nella mia Israele».

(Sport Economy, 13 agosto 2016)


“Non ho alcun problema con gli ebrei, ma...”. E’ una frase già sentita molte volte, anche se in altri contesti. Quel “ma” conferma ancora una volta che l’ultimo tipo di odio antiebraico ha trovato la precisa forma adatta al tempo: basta dirsi che si è “soltanto” contro Israele e tutto si aggiusta: l’odio viene sublimato e sparisce alla vista. Non è il caso di sorprendersi, perché è la stessa forma di odio che appare su tanti giornali, espressa soltanto con giri di parole meno rozzi, ma anche meno autentici e chiari di quelli usati dal judoka arabo. M.C


Egiziano contro israeliano: non gli dà la mano

Un altro caso che discrimina Tel Aviv: nel judo El Shehaby rifiuta di salutare Sasson.

di Gian Luca Patini

RIO DE JANEIRO - Ancora una volta la politica scende in campo all'Olimpiade, pare con la complicità dei social network che sempre di più stanno condizionando gli atleti e anche il tifo in questi Giochi. Il judoka egiziano El Shehaby, categoria 100 kg, dopo aver perso il suo match contro l'israeliano Or Sasson, ha rifiutato di dargli la mano come è consuetudine planetaria del judo, una volta terminato l'incontro. El Shehaby, già sul podio nel Mondiale del 2010 avrebbe ricevuto pressioni da gruppi islamici egiziani per non gareggiare contro il judoka con la Stella di David come già fatto da altri rappresentanti del mondo arabo in passato. Lui è, invece, sceso sul tatami, ma dopo la sconfitta si è fermato e non ha accettato la mano dell'israeliano. Rifiutando anche di commentare, con i media del suo paese l'accaduto. «Sono situazioni molto personali, non ne voglio parlare», avrebbe detto El Shehaby al termine del combattimento che potrebbe anche essere l'ultimo della sua carriera. A 34 anni parrebbe, infatti intenzionato a lasciare il judo.
   Non è questo l'unico episodio accaduto a Rio di discriminazione nei confronti di rappresentanti di Israele. Nei giorni scorsi il capo delegazione del comitato olimpico libanese è stato convocato dagli organizzatori dei Giochi per una lavata di capo: il giorno della cerimonia d'apertura, infatti, era stato chiesto a hbanesi e israeliani di condividere un pullman per raggiungere il Maracanà. Il dirigente libanese si era rifiutato. E così la delegazione israeliana aveva raggiunto lo stadio con un altro mezzo, mentre ai libanesi e - indirettamente a tutti gli altri stati che non riconoscono lo stato ebraico - era stato mandato un monito per cui non discriminassero ulteriormente gli atleti israeliani durante questi Giochi di Rio. Un paio di giorni dopo UD altro episodio «strano» o quantomeno sospetto era accaduto a UD saudita, ancora nel judo. Joud Fahmy, questo il suo nome, si era ritirato da un match contro il rappresentante delle Isole Mauricius. Si era avanzata l'ipotesi che questo ritiro fosse viziato dal fatto che in caso di vittoria il saudita sarebbe andato contro UD altro judoka israeliano, Gili Cohen. Ma non ci sono conferme ufficiali perché anche Fahmy non ha mai ammesso la scelta.

(La Gazzetta dello Sport, 13 agosto 2016)


Vergogna, a Rio vince l'odio per gli ebrei

Il mondo è strabico: non manda via a calci quelli che infrangono le regole dei Giochi.

di Fiamma Nirenstein

Ma come mai il mondo non si alza tutto in piedi gridando, questo mondo antirazzista, antiapartheid, in piena festa globalista alle Olimpiadi, perché è così strabico da riuscire (a ragione) a cacciare un atleta dopato che rompe il codice d'onore dello sport, e non manda via a calci quelli che ne infrangono la regola fondamentale di parità etnica e religiosa discriminando gli israeliani come lebbrosi, rifiutandosi di toccarli, di condividere con loro uno spazio, di competere? Oramai siamo a tre episodi ripugnanti di estremismo islamico, e nessuno alza un dito: ieri l'egiziano Islam el Shehabi, per cui evidentemente, come per tanti altri sui conterranei, non è mai stata firmata la pace con Israele del 1979 (parliamo di quasi quarant'anni fa!), ha rotto tutte le tradizione del judo rifiutandosi di stringere la mano al ragazzo israeliano che l'aveva battuto.
   Il pubblico ha protestato, i giudici hanno chiesto a el Shahabi di fare l'inchino rituale e lui l'ha fatto: un inchino si fa da lontano. Ma toccare un ebreo, che schifo, che orrore. Domenica era stata la volta di Joud Fahmi, anche lei judoka, la quale si è spinta a perdere apposta lo scontro precedente a quello che l'avrebbe inevitabilmente portata a battersi con Gili Cohen, israeliana. Cohen? Si chiama Cohen? Siamo pazzi? E pensare che i sauditi pochi giorni fa erano a Gerusalemme per delle riunioni in cui si discute di rapporti migliori, di piani di pace, di strategia. Ma altra cosa è la gente di un Paese integralista islamico rinunciare all'antisemitismo che impregno di sé tutto il suo mondo, con cui è stato educato dalla più tenera infanzia. Il primo episodio avrebbe già dovuto allarmare e destare una reazione immediata: gli atleti israeliani stanno per salire sull'autobus che li deve portare allo stadio Maracanà, all'apertura, proprio il primo giorno che dovrebbe essere tutto spirito sportivo e entusiasmo e gli atleti libanesi si parano davanti alla portiera impedendogli di salire. Condividere un bus con gli ebrei? IL Libano è il Paese degli hezbollah? E quando mai? Gli autobus sono un ben noto luogo di apartheid, ci sale solo chi è puro e degno. Non gli atleti israeliani. Non si comprende che il fatto che il mondo intero si mostri indifferente, che di nuovo Europa, America, i paesi occidentali in genere non attribuiscano nessuna importanza per questo evento è di fatto la copia dell'atteggiamento che fu preso a Monaco quando l'intera squadra israeliana fu sterminata con orribili torture da un commando di terroristi palestinesi? Anche allora i giochi proseguirono come se niente fosse accaduto. Non si capisce che non reagire a un atteggiamento integralista e estremo di odio verso gli ebrei apre la strada all'odio integralista e estremo verso tutto l'Occidente? In questi giorni l'Isis e altri gruppi terroristici hanno cosparso i network di richieste ai loro sostenitori di compiere attacchi alle Olimpiadi: «Un piccolo attacco col coltello e con ciò che trovate a Rio avrà maggiore effetto di qualsiasi altra azione nel mondo» spiegano i centri del terrore. È lo stesso ragionamento che, mutatis mutandis, ha portato gli atleti arabi a discriminare Israele. E le federazioni sportive che fanno? Che fanno i Paesi che hanno i loro atleti in gara a Rio? Si batteranno allegramente con i judoki antisemiti? Non capiscono che questa è una condanna che comminano a sé stessi?

(il Giornale, 13 agosto 2016)



Eliminato il prefisso di Israele

La decisione è stata presa per non irritare i ricchi arabi

di Roberto Giardina

BERLINO - Uno storico albergo di Berlino «cancella» Israele per non irritare i clienti arabi. In un'estate segnata dagli attentati in Germania, sembra una notizia senza importanza, trascurabile. In fondo, lo storico albergo a cinque stelle Kempinski ha cancellato, o dimenticato, il prefisso di Israele tra i tanti indicati, perché preoccuparsi? Ma all'errore, o eccessiva prudenza, i giornali, radio e tv hanno dato grande risalto: ogni sospetto di antisemitismo desta allarme in Germania.
È stato il regista francese Claude Lanzmann, che compirà 91 anni a novembre, l'autore del film Shoah (1985), a denunciare il fatto in una lunga lettera alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. «Ero venuto a Berlino per i funerali della scrittrice ebrea tedesca Angelika Schrobsdorff (nata nel 1927, scomparsa il 30 luglio), che per dieci anni fu mia moglie», racconta, «e sono sceso al Kempinski, il mio albergo a Berlino fin dal 1986 ».
   A Lanzmann nel 2013 è stato assegnato l'Orso d'oro alla carriera.
   Il regista in camera sfoglia il libretto con le istruzioni per gli ospiti, legge distrattamente la pagina con i prefissi internazionali: Italien, Italy, non dovrebbe essere preceduto da Israel? Ovviamente conosce a memoria il numero, 972, ma perché manca?
   Alla reception chiede spiegazioni. Un giovane impiegato, con imbarazzo, gli risponde: «Sono ebreo, e il fatto ferisce anche me». Non si tratta di un caso, ammette, la direzione dell'albergo ha tolto il prefisso perché molti dei clienti sono ricchi arabi, e hanno protestato. Israele cancellata dalla carte geografiche e anche dal libretto per gli ospiti del Kempinski. Lanzmann scrive di essere stato profondamente colpito: «Come è possibile nel 2016, che nella capitale della nuova Germania, Israele venga eliminato? Al Kempinski non mi posso sentire più a casa mia», conclude il regista.
   La Frankfurter Allgemeine si limita a pubblicare la protesta di Lanzmann. La popolare Bild Zeitung chiede spiegazioni al Kempinski, e la direttrice Brigitt Ullerich spiega che si tratta di «un caso sfortunato», e non può confermare quanto avrebbe dichiarato l'impiegato, la direzione dell'hotel berlinese non ha volutamente escluso Israele dalla lista, né ci sono decisioni al riguardo da parte della proprietà.
   Il Kempinski appartiene alla più antica catena europea di hotel di lusso, e la Süddeutsche Zeitung ha chiamato gli altri alberghi, dall'Adlon, sempre a Berlino, al Vier Jahreszeiten di Monaco, e tutti hanno smentito che ci sia una generale discriminazione anti-Israele. I prefissi internazionali sono 192, come indicarli tutti? Sulla pagine delle istruzioni se ne riportano 35, tra cui quello di Hong Kong o di Kiev. Tanto a che servono? Ogni cellulare riporta tutti i prefissi di città e nazioni.
   Ma il senatore agli interni di Berlino, il cristianodemocratico Frank Henkel, si è dichiarato «sorpreso e preoccupato» e ha invitato il Kempinski a intervenire: «Quanto racconta Lanzmann non è accettabile in una città come Berlino, con la sua storia». Ed è prontamente avvenuto: il prefisso verrà aggiunto alla lista. «Ci scusiamo per avere offeso involontariamente la sensibilità di qualche nostro ospite», si aggiunge. Incidente chiuso? Come stabilire la verità? Censura o semplice errore?
   Non si vede perché Lanzmann dovrebbe avere mentito riportando la dichiarazione di un impiegato, o dovrebbe aver mentito il giovane dipendente facilmente identificabile. Il Kempinski, al 27 della Kurfürstendamm, il viale delle boutique di lusso in quella che era Berlino Ovest, infine, non è più tedesco, appartiene a una società per azioni con sede in Svizzera, la cui maggioranza è detenuta da un gruppo thailandese.
   Piccola o no che sia la notizia, rimane un po' di amarezza. Berthold Kempinski era un ebreo tedesco, nato a Raschkow, oggi in Polonia. Arrivò a Berlino nel 1862 e aprì un locale dove serviva vini ungheresi con würstel e una zuppa calda. Fece fortuna, ma non aveva eredi maschi, e l'attività fu continuata dal genero Richard Unger. L'hotel fu aperto nel 1927, durante la Repubblica di Weimar. Dieci anni dopo, il 1o maggio del 1927, l'impresa venne «arianizzata», e la famiglia emigrò negli Stati Uniti. Un erede di Unger ricostruì il Kempinski nel 1951, in una Berlino in rovina. I berlinesi sono affezionati all'albergo, un po' simbolo della loro storia, anche quelli che non si sono mai potuti permettere di sedere a un tavolino del suo caffè per gustare una fetta di torta. Non è una piccola notizia estiva senza importanza, la «dimenticanza» che ha offeso Lanzmann.

(ItaliaOggi, 13 agosto 2016)


De Magistris, sindaco dei due mondi, da Napoli al Medio Oriente

Pur avendo una «guerra civile» in casa (le «stese» e i morti di camorra), il Comune interviene a gamba tesa nella vicenda Palestina-Israele. Ridicolo se non fosse tragico.

di Antonio Polito

 
Abu Mazen e De Magistris

Non voglio entrare nel merito della disputa israelo-palestinese accesa dall'ennesima iniziativa di politica estera del sindaco di Napoli de Magistris, che per il suo interventismo internazionale meriterebbe ormai di essere chiamato «il sindaco dei due mondi», come Garibaldi che dei due mondi fu «l'eroe». Anche se in realtà vorrei entrarci, eccome se vorrei. Quando leggo l'appello che gli ha rivolto Noemi Di Segni, presidente della Unione di tutte le comunità ebraiche d'Italia, che lo scongiura di non premiare con la cittadinanza onoraria di Napoli il militante palestinese Bilal Kayed, perché si tratta di un «pericoloso terrorista che ha trascorso quattordici anni nelle carceri israeliane per le sue azioni violente e gode del sostegno di un'organizzazione terroristica come Hamas», vorrei proprio sapere che cosa mai nella storia di Napoli, del suo popolo, della sua cultura, le ha meritato di essere iscritta a questa iniziativa di cieco odio anti-israeliano. E vorrei ricordare che il Comune di Napoli ha anche concesso in passato una sala per la proiezione di un film che si intitola «Israele-Il Cancro», che contribuisce alla campagna per contestare l'esistenza stessa dello stato di Israele. E vorrei dire agli ebrei italiani ed europei, e a tutti i cittadini di Israele, «not in my name»; assicurare cioè loro che il sindaco usa il suo potere per parlare a nome di una cittadinanza che invece è per la pace e contro il terrorismo, che vede sì gli errori politici del governo di Israele ma non vuole cancellare Israele dalla faccia della terra, e dunque non solidarizza con chi invece vuole farlo e anzi prova concretamente a farlo, uccidendo e ammazzando ebrei dovunque sia possibile.
   Ma, come ho detto, non voglio entrare nella disputa. Voglio invece chiedere al sindaco e al Consiglio comunale se con tutto quello che hanno da fare è proprio necessario utilizzare il proprio tempo per costruire la scimmiottatura di una politica estera del Comune di Napoli, che fa il paio con l'aspirazione a fondare «uno zapatismo in salsa napoletana, un Podemos partenopeo», e che si affianca ai proclami megalomani e maccheronici per lanciarsi in una carriera da impresario dello showbiz sulle orme del fratello (indimenticabile il messaggio del «ciao Al» per invitare Al Pacino), e all'ipotesi secessionista della fondazione di una Repubblica Partenopea «derenzizzata».
   Insomma, un giorno sì e l'altro pure Napoli vive le scene drammatiche di una sua quasi «guerra civile», assiste alle «stese», eufemismo per definire l'assalto di bande armate che sparano a raffica tra la folla incuranti di vittime «civili», cioè non militarizzate nei ranghi della camorra, e il sindaco e il Comune di Napoli si preoccupano di intervenire nella guerra civile in Palestina tra arabi e israeliani? Tutto ciò è ridicolo. Se non fosse tragico.

(Corriere del Mezzogiorno, 13 agosto 2016)


Bat Ye'or: "Il servilismo antisemita non salverà l'Europa dal jihad"

Secondo la storica ebrea, famosa per aver coniato l'espressione "Eurabia", gli islamisti in occidente si sentano come un pesce nell'acqua.

di Giulio Meotti

ROMA - "Non sono stupita dall'attentato alla chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, questo è jihad che dura da tredici secoli". Bat Ye'or, storica ebrea che vive a Ginevra e famosa per la sua cronaca della dhimmitudine e per aver coniato l'espressione "Eurabia" adottata da Oriana Fallaci, ritiene che gli islamisti in Europa si sentano come un pesce nell'acqua. "Non nascondono i loro progetti", dice Bat Ye'or al Foglio. "Una politica strutturata che si opponga al jihadismo è inesistente in Europa. La risposta agli attacchi sono i fiori, il servilismo, bugie costruite su un rifiuto totale di riconoscere la realtà terribile e che nasce da quarant'anni di una politica suicida e cinica". Questa è la ragione per rifiutare le radici giudaico-cristiane dell'Europa. "E sostituirle con le radici islamiche della Palestina, che ha ottenuto recentemente la Dichiarazione dell'Unesco. Dal 1973, l'Europa ha lavorato per creare un nuovo paese che si chiama 'Palestina' e per distruggere Israele. Ha speso miliardi per finanziare una campagna mondiale di odio, diffamazione, delegittimazione contro il popolo ebraico. Come si può sopravvivere se ti allei con chi vuole la tua distruzione? Se si inventano miti e bugie per nascondere la realtà? Se si nega la propria identità?". Non sappiamo dove stiamo andando. "Le vecchie élite sono pienamente responsabili di questa deriva e non possono cambiare la politica pianificata quarant'anni fa. Ora, a dispetto di tutto il servilismo, l'accattonaggio, le sconfitte morali, gli abbandoni etici, c'è il terrore in Europa. L'élite contempla il peggior incubo: l'Europa come Israele".
   L'islamismo come carnefice della propria naìveté? "Si tratta di un boia, non direi della nostra ingenuità, piuttosto del nostro cinismo, della nostra brama di denaro, delle nostre politiche criminali, della nostra cecità". E' punito il silenzio per il massacro di cristiani in medio oriente? "Sarebbe successo in ogni caso, ma aprire gli occhi sulle minoranze cristiane orientali avrebbe fatto capire la realtà". La Francia è stato il primo paese a cedere. "Il rifiuto di Israele e l'alleanza con le bande di terroristi dell'Olp ha legittimato il jihad e la sua ideologia: la distruzione del giudaismo e del cristianesimo e la loro sostituzione con il Corano. Anche se l'Europa rifiuta di considerarla guerra di religione, le relazioni con i paesi musulmani sono sempre su un piano religioso perché l'islam rifiuta il secolarismo. Il desiderio appassionato di riconciliazione con il mondo musulmano ha portato a uno stato di dhimmitudine. Il giudeo-cristianesimo è stato ripudiato per collegare l'Europa all'islam. Quanti politici dichiarano oggi che Israele è stato un incidente della storia?".

(Il Foglio, 7 agosto 2016)


Israele: Un farmaco contro il vomito causato dalla chemioterapia

 
RedHill Biopharma, una società farmaceutica israeliana, sta testando un potente antiemetico (farmaco che blocca o previene il vomito) dedicato ai pazienti che stanno affrontando la chemioterapia.
I farmaci chemioterapici sono noti per avere effetti collaterali invalidanti come nausea e vomito. Per affrontare questo problema oggi c'è lo Zophren, un farmaco antiserotoninico capace di antagonizzare l'azione della serotonina nell'organismo, che però deve essere assunto più volte al giorno.
Lo scopo del farmaco BEKINDA (RHB-102) è quello di migliorare la qualità di vita dei pazienti dopo aver effettuato un trattamento di chemioterapia o radioterapia. Infatti è attualmente l'unica formulazione orale che deve essere assunta una volta al giorno ed è probabile che possa diventare il primo farmaco di questo tipo a raggiungere il mercato degli Stati Uniti dell'Europa.
RedHill Biopharma Ltd. È una società quotata al NASDAQ che si concentra principalmente sullo sviluppo e la commercializzazione di farmaci per via orale per il trattamento di malattie infiammatorie e gastrointestinali, tra cui anche il cancro.
Tra i moltissimi farmaci, la RedHill è conosciuta anche per:
  • RHB-105 - Una terapia per combattere l'Helicobacter pylori;
  • RHB-104 - Una terapia orale per il trattamento della malattia di Crohn e per la sclerosi multipla;
  • YELIVA ™ (ABC294640) - Un farmaco oncologico;
(SiliconWadi, 12 agosto 2016)


Israele: scoperto cimitero dei Filistei

Appena fuori dalle mura di Ascalona, incredibile scoperta da parte degli archeologi: "Ora ne sapremo di più sulle origini del popolo".

Un antico cimitero dei Filistei è stato scoperto lungo la costa a sud di Israele. Gli archeologi sono convinti, ora, di poter ricostruire la storia di un popolo tra i più enigmatici della Bibbia. Il cimitero è stato rinvenuto appena fuori dalle mura di Ascalona, uno dei cinque principali centri abitati da questa popolazione tra il XII e il VII secolo avanti Cristo.
   Nel tempo, oltre ad Ascalona, era già stata scoperta l'esistenza di Ashdod, Gaza, Ekron e Gath, oltre a molte manifatture, ma di sepolture ne erano state scoperte pochissime. Ora, invece, un intero cimitero con i resti di 211 persone, risalenti a un periodo che va dall'XI all'VIII secolo a.C. Gli esperti potranno finalmente saperne di più su questo popolo, sull'origine e su come si assimilarono alla cultura locale.
   La cultura funeraria dei Filistei era praticamente ignota. Harvard Lawrence Stager, l'archeologo che guida la missione 'Leon Levy' ad Ascalona fin dal 1985, spiega: "Qualcuno, per scherzo, è arrivato anche a ipotizzare che questo popolo seppellisse i propri defunti in mare, come i Vichinghi".
   Nella Bibbia, i Filistei sono i 'cattivi' per antonomasia. I "non circoncisi" erano i controllori della regione costiera che oggi appartiene a Israele e alla Striscia di Gaza. Varie le guerre proprio con i vicini israeliti e un episodio su tutti: il furto dell'Arca della Santa Alleanza. Dalila, che privò Sansone della sua forza tagliandogli i capelli, era filistea. Così come il gigante Golia, abbattuto solo da Davide con la fionda.
   Dal mito alla storia. La comparsa di questa popolazione viene fatta risalire al XII secolo a.C., dopo il ritrovamento di alcuni manufatti "appartenenti a una cultura estremamente diversa" rispetto a quella di altri popoli contemporanei dei Filistei. Ceramiche simili a quelle greche, una scrittura che torna a 'copiare' quella dei popoli dell'Egeo, il consumo di maiale e pure di carne di cane. Secondo la Bibbia, i Filistei arrivavano dalla 'Terra di Caphtor', corrispondente probabilmente a Cipro e Creta.
   E a proposito di sepolture, i Filistei deponevano il corpo nella camera senza esumarlo un anno dopo per deporlo nella sepoltura secondaria. Era una sepoltura individuale, ma sono state rinvenute pure fosse e tombe comuni. Una volta messo lì, il corpo non veniva più toccato. Individuate anche sepolture di soggetti cremati.

(Italy Journal, 12 agosto 2016)


Google Maps: è stata cancellata la Palestina? No, non c'è mai stata

La Questione Palestinese, oltre a tenere banco ormai dalla metà del secolo scorso in ogni sede internazionale, ora si è spostata su un nuovo terreno di confronto, Google Maps: in effetti, un gruppo di giornalisti palestinesi ha accusato la società di Mountain View di aver letteralmente eliminato la Palestina dalle sue mappe, una scelta che violerebbe - a detta degli accusatori - diverse convenzioni internazionali.
Secondo i giornalisti, la società di Sundar Pichai avrebbe eliminato la Palestina da Google Maps in un giorno preciso, il 25 luglio, compiendo una scelta che negherebbe agli stessi palestinesi il loro diritto ad avere la terra palestinese, o ancora, di avere assunto una posizione a favore di Israele. Tuttavia, Big G ha risposto in modo deciso alla polemica, ribadendo che sulle sue mappe la Palestina non è mai stata rappresentata.

(pcprofessional.it, 12 agosto 2016)


Alle Olimpiadi di Rio. L'avversaria è israeliana: judoka araba diserta l'incontro

 
               Gili Cohen                        Joud Fahmy

Poco spirito olimpico a Rio, nonostante i tanti proclami e la retorica dei grandi eventi. Da parte di delegazioni arabe si registrano atteggiamenti, prese di posizione, di aperta ostilità verso quelle israeliane. La judoka Joud Fahmy saudita, dopo il primo turno con il match contro Christianne Legentil dalle Mauritius, ha «saltato» l'incontro con Gili Cohen, israeliana. Ufficialmente le notizie diffuse indicano che Fahmy avrebbe subito lesioni al braccio e alla gamba, ma secondo i media israeliani si tratterebbe di un incidente diplomatico, creato ad hoc proprio per evitare il combattimento con l'israeliana. Insomma, l'atleta saudita non avrebbe voluto avere contatti con la concorrente israeliana. L'Arabia Saudita non riconosce Israele, anche se stanno arrivando segnali concilianti, che potrebbe preludere a un cambiamento di posizione. Due settimane fa una delegazione saudita si è recata a Gerusalemme e ha incontrato funzionari e politici israeliani. Un ex ministro del governo israeliano che ha incontrato il gruppo in visita ha dichiarato che i legami normali tra i due Paesi potrebbero realizzarsi tra non molto.
  Però l'atmosfera a Rio non appare così rasserenante. Prima dell'episodio con le atlete dello judo, c'è stato un altro episodio, pochi giorni fa, proprio in occasione della cerimonia di apertura dei Giochi. La delegazione libanese ha rifiutato di far salire sul loro stesso autobus gli atleti israeliani. I quali sono stati costretti a salire su un autobus a parte. Il fatto non è passato inosservato, ma alla fine tutto è finito con una ammonizione alla delegazione libanese. Secondo uno dei tecnici della squadra di vela d'Israele, Udi Gal, i libanesi hanno rifiutato di dividere con degli atleti israeliani l'autobus che li avrebbe portati al Maracanà per la cerimonia di apertura. «Quando hanno scoperto che avrebbero dovuto dividere il bus con noi », ha raccontato Gal , «hanno protestato e chiesto all'autista di chiudere le porte. E' stata una cosa inaccettabile». Ma ormai l'incidente diplomatico era accaduto. e aveva avuto la sua eco negativa, anche se senza l'enfasi che ci si sarebbe potuto aspettare.
  Senza contare che in vista delle Olimpiadi i terroristi islamici hanno dato direttive ai «lupi solitari» di organizzare attacchi alla delegazione israeliane e ad altre occidentali, come ha riportato anche il sito JT A. Citando il portale di news Foreign Desk, il sito dell' organizzazione ebraica riferisce che starebbe circolando sui social media una lista di direttive per i jihadisti per colpire gli atleti americani, britannici, francesi e israeliani. Nei testi dei veri e propri consigli ai terroristi si legge: «Un piccolo attacco con il coltello agli americani/israeliani in questi luoghi avrà un maggiore effetto mediatico che qualsiasi altro attacco, se Allah lo vuole». E ancora: «La vostra chance di prendere parte alla Jihad globale è qui! La vostra chance di diventare un martire è qui!», come recita poi il testo, citando le facili procedure per ottenere un visto per un viaggio in Brasile, così come la grande disponibilità di armi da fuoco che si possono trovare nelle favelas.

(Libero, 12 agosto 2016)


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Olimpiadi di Rio - Simbolo nazista vicino agli impianti

Un ebreo vuole denunciare il reato ma gli organizzatori silenziano il caso.

Imbarazzo nel Comitato organizzatore di Rio per il disegno di una svastica fascista apparso vicino a uno degli impianti destinati alle competizioni. Il simbolo che evoca la cultura dell'egemonia tedesca durante gli anni 30-40 nonché il triste ricordo delle persecuzioni nei confronti del popolo ebraico, è stato tracciato su una parete a Pontai (la piccola penisola nella zona ovest della città dove si svolge la crono di ciclismo su strada), in un'area esclusiva, frequentata dai volontari e impiegati dei Giochi, dove normalmente vengono iscritti graffiti e messaggi di sostegno a favore dei collaboratori dell'Olimpiade brasiliana. Secondo i media locali, un individuo di origine ebraica, particolarmente contrariato per l'accaduto, dopo aver fotografato l'immagine si è rivolto alla Federazione israeliana dello Stato di Rio in cerca di aiuto per fare cancellare quella croce uncinata, pensando anche di sporgere denuncia per apologia, ma sarebbe stato dissuaso da un dirigente del Comitato organizzatore ad intraprendere questa azione.

(La Gazzetta dello Sport, 12 agosto 2016)


Ecco i "Nazareni", la rete di eroi che libera cristiani e yazidi dal Califfato

Lo storico Tom Holland: "L'omicidio di massa dei cristiani è il nuovo progetto dell'Isis". C'è chi ne ha salvati 2.400

di Giulio Meotti

 
Un campo di profughi siriani tra Grecia e Macedonia

ROMA - Il grande storico britannico Tom Holland ieri sul Times di Londra è stato chiaro: "L'omicidio di massa dei cristiani è il nuovo progetto dell'Isis". Secondo il World Watch List 2016, il report annuale dell'associazione Open Doors sulla persecuzione di cristiani nel mondo, si è passati da 4.344 vittime nel 2014 a settemila nel 2015. Non è un mistero che dei cristiani che vivevano nelle terre oggi controllate dal Califfato si siano lavati in tanti le mani: le cancellerie occidentali, che non hanno mai preso a cuore la loro sorte; molti vescovi, troppo tiepidi nel denunciare la loro sorte terribile; quasi tutti i media, come se li considerassero agenti coloniali. Ma esiste un esercito che nel mondo si sta occupando di mettere in salvo queste antichissime comunità cristiane, minacciate di morte ed esilio dagli ascari dell'Isis.
  2.400 di questi cristiani sono stati messi in salvo dal Nazarene Fund, salvati dai campi profughi o dai villaggi ancora sotto controllo del califfo. Un fondo che ha preso il nome proprio da quella lettera sinistra impressa sulle case dei cristiani a Mosul, la "N" di "nasrani". Nazareni. Cristiani. Mercury One, finanziata dal Fondo Nazareno, è diventata la più grande organizzazione umanitaria di rifugiati cristiani in Iraq. A ispirarla l'anchorman americano Glenn Beck. Le donazioni da centoventimila privati cittadini hanno messo insieme la cifra di dodici milioni di dollari. "Non sbagliatevi, questo è esattamente ciò che è: un genocidio", ha detto Beck annunciando il record di cristiani salvati finora dall'organizzazione americana. Due settimane fa, per citare una delle loro ultime iniziative, il Fondo Nazareno ha portato sessanta cristiani in Australia.
  C'è la rete di Steve Maman, che la stampa canadese ha ribattezzato lo "Schindler ebreo" delle minoranze religiose irachene. Imprenditore ebreo di Montréal, Maman è impegnato da un anno in una personale battaglia contro lo Stato islamico. Per questo ha lanciato la ong Liberation of Christian and Yazidi Children of Iraq, con cui Maman ha fatto liberare centinaia di donne cristiane irachene e yazide finite nelle mani dell'Isis e trasformate nelle schiave sessuali dei jihadisti. Maman usa intermediari sul posto e paga da mille a tremila dollari ogni "schiava" liberata.
  Un altro magnate ebreo, il compianto George Weidenfeld, editore britannico nato a Vienna e sopravvissuto all'Olocausto, ha messo in salvo molti cristiani iracheni. In Polonia è attivissima la Fondazione Hatune, dal nome della suora cattolica Hatune Dogan. Diretta dall'ex imprenditore danese Hans Erling Jensen, questa fondazione sta riportando alla vita tante donne cristiane e yazide tenute in ostaggio dall'Isis, sottoponendole a riabilitazione psicologica dopo averle messe in salvo. Sono 317 le ragazze cristiane e yazide che ha liberato. 200 quelle ospitate nei suoi centri in Polonia. Operazioni spesso finanziate da privati. Come il producer di Hollywood, Mark Burnett. Della logistica e della sicurezza si occupano spesso ex agenti dei servizi segreti, come gli ufficiali della Cia Joseph e Michele Assad. Per il primo è una questione personale: quando aveva diciannove anni, Joseph Assad, copto egiziano, fuggì le persecuzioni dei cristiani per trovare riparo in America.
  Il modello per queste missioni è quella del 1975 con cui, nell'arco di diverse settimane, per via aerea o per mare gli Stati Uniti misero in salvo decine di migliaia di vietnamiti dopo la caduta di Saigon. Un leader delle missioni americane di salvataggio di cristiani è Mark Arabo, caldeo-americano e fondatore della Minority Humanitarian Foundation, in prima linea assieme alla Christian Solidarity International. Se i rapporti con Ankara non si fossero deteriorati, c'era anche il progetto di usare Incirlik, la base aerea Nato nei pressi di Adana in Turchia, per un'operazione di salvataggio dei cristiani perseguitati. Ora invece sono messi in salvo con voli privati, spesso verso paesi dell'Europa orientale che li accolgono, e da lì verso gli Stati Uniti. Decisivo il ruolo della ong Barnabas: il modus operandi di questo fondo consiste nel far pressione sui governi affinché concedano il visto ai cristiani. Da parte sua, l'organizzazione garantisce che si accollerà tutte le spese.
  "Per mettere tutto ciò nella giusta prospettiva - ha detto ieri alla sua organizzazione l'ex star di Fox News, Glenn Beck - nella Seconda guerra mondiale alcuni dei Giusti fra le nazioni hanno salvato dieci ebrei, altri ne hanno salvati due. Persone come Raoul Wallenberg ne hanno salvati migliaia. Siete responsabili per il salvataggio di migliaia di vite dei cristiani in questo genocidio".

(Il Foglio, 12 agosto 2016)


Un terrorista cittadino di Napoli

Il sindaco De Magistris accoglie in città il palestinese Bilal Kayed

Il terrorista palestinese Bilal Kayed, cittadino onorario di Napoli
ROMA - Nel curriculum filopalestinese e islamofilo del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, mancava ormai soltanto la cittadinanza onoraria a "un terrorista palestinese". "Una decisione che lede l'immagine di Napoli", ha detto la neopresidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, assieme alla presidente della comunità ebraica di Napoli Lydia Schapirer. Bilal Kayed è tutto fuorché un uomo di pace. E' un pericoloso terrorista palestinese che ha trascorso quattordici anni nelle carceri israeliane per le sue azioni violente e gode del sostegno di un'organizzazione terroristica come Hamas, che non esita a uccidere donne, anziane e bambini israeliani.
Nel frattempo, come ha ricordato due giorni fa l'ex ministro Mara Carfagna, capogruppo di Forza Italia nel comune di Napoli, il consiglio comunale ha contestato l'ordine del giorno proposto per concedere la cittadinanza onoraria al rabbino di Gerusalemme. L'amministrazione di Napoli evidentemente ha fatto un' altra scelta. Di stare dalla parte dell'odio. Non è la prima volta che De Magistris dà prova di militanza antisraeliana. Il comune di Napoli ha concesso una sala al documentario "Israele - Il Cancro", per la cui proiezione De Magistris ha dato addirittura la sala comunale in piazza del Gesù Nuovo, intitolata a Tommaso Campanella. De Magistris ha poi ricevuto la cittadinanza palestinese, ha dato quella di Napoli ad Abu Mazen e la sua città ha fornito patrocinio alla Freedom Flotilla per Gaza.

(Il Foglio, 12 agosto 2016)


Comunità ebraica a de Magistris: "No a cittadinanza onoraria a terrorista palestinese"

La presidente Noemi Di Segni: "Bilal Kayed tutto è tranne che un uomo di pace ed è sostenuto da Hamas"

La cittadinanza onoraria a "un terrorista palestinese" sarebbe "una decisione che lede l'immagine di Napoli". Lo scrivono la presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) Noemi Di Segni e la presidente della comunità ebraica di Napoli Lydia Schapirer in un messaggio al sindaco Luigi de Magistris. La proposta di conferire la cittadinanza al palestinese Bilal Kayed era stata avanzata il 5 agosto, nel corso della prima riunione del nuovo consiglio comunale dal consigliere da Mario Coppeto, eletto con la lista "Napoli bene comune a sinistra". Contro la proposta si era schierata Mara Carfagna, eletta in Comune con Forza Italia. Nel 2013, de Magistris aveva conferito la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen, con una solenne cerimonia in Comune a cui era intervenuto lo stesso leader palestinese.
    "Gentile sindaco", si legge nella nota diffusa dalla Comunità ebraica, "lei più volte ha manifestato l'intenzione di fare della città che amministra un laboratorio di pace e di convivenza tra i popoli e le religioni del mondo. Un'ambizione che è nelle corde di Napoli, porta di accesso e tra le grandi capitali del Mediterraneo. Ci chiediamo però come possa coerentemente raggiungere questo obiettivo se, al tempo stesso, la sua amministrazione continuerà a promuovere iniziative di segno diametralmente opposto. L'ultima delle quali il conferimento della cittadinanza onoraria al palestinese Bilal Kayed, che tutto è fuorché un uomo di pace. Si tratta infatti di un pericoloso estremista, che ha trascorso 14 anni nelle carceri israeliane per le sue azioni violente e gode del sostegno di un'organizzazione terroristica quale è Hamas, che non esita a uccidere civili innocenti, compresi donne, anziane e bambini, pur di alimentare un conflitto permanente nella regione mediorientale".
    "Siamo pertanto attonite e preoccupate - proseguono Noemi Di Segni e Lydia Schapirer - da questa iniziativa, ultima di una serie, quando oggi tutte le istituzioni italiane sono chiamate a collaborare per la garanzia dei fondamentali valori costituzionali e a una rigorosa verifica di chi risiede e dimora nelle nostre città. Al fine di salvaguardare la storia e l'immagine di Napoli, quale città sempre attenta ai valori della vera democrazia, la preghiamo di intervenire al più presto per revocare tale iniziativa. Ben venga il suo impegno per un dialogo costruttivo, di conoscenza e di pace tra i due popoli, ma per conseguire tale fine occorre dare voce e spazio a chi si dedica a dare senso e valore alle nostre vite, da entrambe le parti".
Non è la prima polemica sulle attribuzioni di cittadinanza onoraria da parte del sindaco de Magistris. Lo scorso inverno si erano registrate forti tensioni con il governo turco dopo che l'onoreficenza era stata concessa al leader curdo Abdullah Ocalan.

(la Repubblica, 11 agosto 2016)


La guerra "universitaria" tra Hamas e Fatah

La striscia di Gaza è ormai risaputo è un problema non solo per Israele ma soprattutto lo è per Fatah che vuole dimostrarsi pacifista senza esserlo realmente.
Sembra proprio che ai palestinesi la situazione attuale sia per loro la migliore soluzione poiché sono considerati profughi in casa loro e assistiti dall'UNWRA, una branca dell'ONU con migliaia di dipendenti che nel suo sito informa di assistere ben 5 milioni di palestinesi (!).
Ma anche se rifugiati in casa loro (o presunta tale) le due entità palestinesi non sembrano amarsi più di tanto e sempre più sono in conflitto tra di loro … almeno apparentemente perché se Hamas vuole la distruzione di Israele, non è che Fatah non voglia la stessa cosa … (!)
Ebbene, la guerra fra le due fazioni palestinesi si sposta oggi sulle università ed in particolare sull'Università Al Aqsa della striscia di Gaza.
Dopo le dimissione del presidente Ali Abu Zuhri, Hamas , senza attendere l'approvazione dell'AP, ha nominato Moahammed Radwan come presidente facente funzione.
Questo è bastato per far si che l'AP dichiarasse che non riconoscerà le lauree rilasciata dall'Università Al Aqsa.
Hamas sempre più indipendente da Fatah e dall'AP ? E' probabile che alla fine ci siano due entità palestinesi, con stesso fine ma con interessi diversi.
Grazie all'UNWRA, all'ONU e alla demenza sinistroide europea.

(Osservatorio Sicilia, 11 agosto 2016)


Israele: Le ragioni del successo tecnologico

 
Come si è spesso sentire dire, dietro il successo economico e tecnologico israeliano si cela uno dei migliori supporter al mondo: il proprio governo.
La missione del Ministero della Scienza, Tecnologia e Spazio (Ministry of Science, Technology & Space) è di avanzare, incoraggiare e favorire la scienza ai più alti livelli di realizzazione e creatività in Israele.
Il Ministero identifica le aree di ricerca scientifica e tecnologica che sono di priorità nazionale. Inoltre, agisce per lo sviluppo del capitale umano per mantenere le pari opportunità in tutti i settori della scienza e della tecnologia.
Tra i suoi numerosi obiettivi, il Ministero è un anello di congiunzione tra la ricerca di base, la ricerca applicata e lo sviluppo industriale. Un altro obiettivo centrale del Ministero è quello di rafforzare e avviare collaborazioni scientifiche internazionali con altri paesi e organizzazioni internazionali.
Lo Stato di Israele continua ad investire e a supportare i settori scientifico-tecnologici perché i grandiosi risultati economici del paese poggiano in gran parte sulle capacità di Israele di sfruttare il proprio potenziale scientifico e tecnologico.
La scienza e la tecnologia servono come lingue unificanti che costituiscono un ponte tra le persone e le nazioni. Per questo il governo israeliano sta ponendo l'accento sulla collaborazioni internazionali.
Le alleanze e gli accordi internazionali consentono alle istituzioni scientifiche e di ricerca in Israele di instaurare rapporti solidi e duraturi con i principali scienziati di tutto il mondo. Tra le realizzazioni più significative avvenute in questo settore negli ultimi anni, si annoverano:
  • L'ingresso come membro associato all'interno del Research and Development Framework Program of the European Union and the European Organization for Nuclear Research (CERN)
  • Membro dell'Organization for Economic Co-operation and Development (OECD- OCSE).
Il campo aerospaziale costituisce un punto di riferimento per gli scienziati israeliani. Nell'ultimo anno il Ministero della Scienza e della Tecnologia ha aumentato notevolmente gli investimenti del governo nel programma spaziale civile attraverso l'Israel Space Agency (ISA). Inoltre, il Ministero promuove collaborazioni con altri paesi leader nel settore spaziale tra cui Stati Uniti, Francia, Italia, Russia, India e Giappone.
Tutte queste iniziative supportano la posizione di Israele tra i leader scientifici di tutto il mondo. Un paese che continua la sua crescita economica che si basa su una forte infrastruttura di ricerca e sviluppo. La ricerca scientifica e tecnologica rafforza la posizione di Israele a livello mondiale, riconosciuto come un paese tecnologicamente avanzato e leader nel campo della scienza e della ricerca.

(SiliconWadi, 12 agosto 2016)


Alla Festa del Libro Ebraico 'anteprima' Meis

Visibile il cantiere del Museo Nazionale dell'Ebraismo e della Shoah

FERRARA - Libri, musica, autori, progetti e soprattutto incontri intorno all'ebraismo e agli ebrei d'Italia.
L'appuntamento è a Ferrara, sabato 3 settembre e domenica 4, per la Festa del Libro Ebraico, che quest'anno diventa anche un laboratorio del nascente Meis, Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, presieduto da Dario Disegni e diretto da Simonetta Della Seta.
L'appuntamento è organizzato dalla Fondazione Meis, col patrocinio del Ministero dei beni e attività culturali, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ferrara, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e Comunità Ebraica di Ferrara. Il programma della manifestazione si sviluppa tra dibattiti e concerti, convegni internazionali e incontri con gli scrittori, mostre e proiezioni cinematografiche, una libreria tematica e un premio.
Il tutto accompagnato da visite guidate, anche notturne, al cantiere del Meis, per far toccare con mano lo stato di avanzamento dei lavori.

(ANSA, 11 agosto 2016)


Il mercato contro i boicottatori

Da Gerusalemme all'America, è guerra economica al BDS

di Marco Valerio Lo Prete

ROMA - Le vie del finanziamento all'odio anti israeliano sono infinite, o quasi. Questa settimana perfino l'Undp, cioè il programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, si è mostrato pubblicamente in imbarazzo di fronte all'ultima scoperta della giustizia israeliana: l'ingegnere Waheed Borsh, dipendente Onu, ha infatti ammesso di aver dirottato aiuti umanitari dell'agenzia per costruire un piccolo porticciolo utilizzato dai terroristi di Hamas, e di aver privilegiato la ricostruzione delle case di alcuni leader dello stesso movimento islamista. "Siamo molto preoccupati", hanno detto dall'Undp rispondendo al governo israeliano che ora sollecita un'inchiesta interna.
   La settimana scorsa lo stato ebraico ha indagato anche la filiale palestinese di World Vision, organizzazione non governativa evangelica nota in tutto il mondo, il cui direttore per le operazioni a Gaza, Mohammed el Halabi, avrebbe ammesso di aver girato milioni di dollari di aiuti umanitari sempre a Hamas. Subito il governo australiano e quello tedesco, sponsor istituzionali di World Aid al fianco tra gli altri della Commissione europea, hanno sospeso i nuovi finanziamenti destinati all'ong.
   Le autorità israeliane, d'altronde, sono oramai abituate a monitorare quanto più attentamente possibile l'uso dei fondi pubblici stranieri che arrivano nella Striscia di Gaza. E' più recente, invece, il tentativo di fornire una risposta efficace al rafforzarsi in tutto il mondo del movimento BDS, cioè per la promozione di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro lo stato ebraico. Domenica scorsa, per esempio, il governo di Benjamin Netanyahu ha fatto sapere che insedierà una commissione speciale con l'incarico di espellere "gli attivisti impegnati nel boicottaggio di Israele o nella sua delegittimazione". Misure radicali, la cui portata effettiva si potrà valutare solo con il passare del tempo. Intanto però si registrano le prime risposte "di mercato" al BDS. Più propriamente Benjamin Weinthal, fellow della Foundation for Defense of Democracies, in un saggio apparso sull'International Jerusalem Post, parla di "economic warfare" contro il boicottaggio, specie quando quest'ultimo non si limita più al solo mondo accademico. Il metodo è quello sintetizzato a luglio dal governatore democratico dello stato di New York: "E' molto semplice: se tu boicotti Israele, New York boicotterà te".
   Così per esempio il senatore dello stato dell'Illinois, Mark Kirk, ha chiesto e ottenuto che la banca tedesca Commerzbank avviasse un'indagine interna su un conto corrente destinato a foraggiare il BDS, portando alla chiusura dello stesso conto. Altro caso: quando la società inglese G4S (sistemi di sicurezza) ha deciso di abbandonare Israele su pressione del BDS, lo stato dell'Illinois ha minacciato di ritirare tutte le commesse pubbliche assegnate all'azienda, spingendola così a un parziale ripensamento. Weinthal, sulla versione internazionale del Jerusalem Post, sostiene che di iniziative simili se ne registra un numero crescente, seppure non ancora pari agli atti di boicottaggio. In Europa, secondo il ricercatore, sarà più complesso attivarsi in questo senso, anche se non impossibile. Difficile infatti contrastare i migliaia di micro finanziamenti come quelli che arrivano da municipi e comuni alla volta di manifestazioni pro BDS. Oppure frenare per esempio i soldi giunti direttamente dall'Iran alla Moschea Blu e al Centro islamico di Amburgo, in Germania, luoghi di culto già promotori di sit-in per la cancellazione di Israele; il giornale Hamburger Morgenpost ha dimostrato che le risorse passano attraverso la locale Hamburg Sparkasse: "Adesso chiudere i rubinetti - conclude Weinthal - è solo una questione di volontà politica". In America questa volontà s'intravvede, ma in Europa?

(Il Foglio, 11 agosto 2016)


Turchia-Israele: il parlamento turco approverà l'accordo di riconciliazione entro settembre

ANKARA - Il parlamento turco approverà l'accordo di riconciliazione tra Turchia e Israele prima di settembre. Lo ha detto il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, precisando che l'accordo non è stato ancora approvato per i ritardi dovuti al fallito colpo di Stato del 15 luglio. "Concluderemo tutto entro la pausa estiva del parlamento - ha detto Cavusoglu all'agenzia "Anadolu" -. Israele ha rispettato i nostri termini, aprendo la strada alla normalizzazione dei rapporti. Pertanto, noi dobbiamo farlo il prima possibile". Il parlamento turco sarà chiuso dal 19 agosto al 20 settembre, secondo quanto riferito dal vicepresidente del gruppo del partito di governo Giustizia e sviluppo (Akp), Mustafa Elitas. Turchia e Israele hanno siglato un accordo per normalizzare i rapporti bilaterali alla fine di giugno. La Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato il 29 giugno il trattato che prevede il ripristino della relazioni diplomatiche.

(Agenzia Nova, 11 agosto 2016)


Asma: Ingegnere israeliano inventa un inalatore intelligente

L'asma è una malattia cronica caratterizzata dall'infiammazione delle vie aeree (bronchi), che si traduce in difficoltà di respirazione, mancanza di respiro e respiro affannoso.
L'OMS (L'organizzazione Mondiale della Sanità) ha stimato che nel mondo circa 200-300 milioni di persone di tutte le età soffrono di asma.
Il trattamento, sia di base che di crisi, si basa su due modalità:
  1. Cortisone: Per il suo potente effetto antinfiammatorio;
  2. Broncodilatatore: Aumenta il diametro delle "strade" respiratorie per consentire un miglior passaggio di aria nei polmoni.
 
Durante un attacco d'asma (momento di crisi) solitamente un individuo trae immediato beneficio dall'inalazione di molecole che arrivano direttamente nei bronchi.
Nimrod Kaufmann è un ingegnere israeliano con oltre dieci anni di esperienza nel settore dei dispositivi medici. Osservando il figlio asmatico ha avuto l'idea di progettare un sofisticato dispositivo in grado di erogare la dose precisa del farmaco. Dopo gli studi clinici effettuati in collaborazione con il Dott. Guy Steuer, pneumologo presso lo Shneider Childen's Medical Center, ha creato un inalatore rivoluzionario chiamato Inspiromatic.
Kaufmann ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi a tempo pieno al suo progetto con la creazione dell'azienda Inspiro Medical all'interno del Misgav Venture Accelerator, il cui scopo è quello di unire ricerca farmaceutica e startup per sviluppare la ricerca medica al miglior costo.

 Come funziona Inspiromatic?
  Le particelle di farmaco vengono spruzzate nel sistema respiratorio del paziente, senza che sia necessario una inspirazione profonda. Se l'inalazione è corretta, si accende una luce verde in caso contrario si accende una luce rossa. Quando la dose erogata è corretta si avvertirà un segnale acustico. Un altro vantaggio risiede nella presenza di un micro-controllore interno con cui si può accedere ai dati memorizzati nel dispositivo, permettendo così di adattare il trattamento a seconda delle necessità del paziente.

(SiliconWadi, 11 agosto 2016)


Hamas intasca i soldi degli aiuti a Gaza

di Dimitri Buffa

Hamas lucra il 60 per cento dei soldi che vengono inviati a Gaza alla Organizzazione non governativa "World Vision" e ci compra le armi, ci scava i tunnel per contrabbandarle e far passare gli shahid e altre amenità para terroristiche del genere, grazie a un attivista infiltrato da anni nella struttura umanitaria. Il tramite italiano della notizia, che tutti i principali media israeliani hanno pubblicato martedì scorso con grande risalto, è la piattaforma israele.net, che grazie all'infaticabile monitoraggio di persone come Emanuele Baroz, che lavora anche per "Progetto Dreyfus", il contenitore di notizie su Israele messo su dalla comunità ebraica romana per informare correttamente su quanto accade nel Medio Oriente, non si fa sfuggire neppure una di queste chicche che in Italia invece vengono bellamente ignorate o quasi.
   Tra i progetti umanitari "taroccati" figurano la costruzione di serre, il rinnovamento di campi agricoli, progetti per la salute fisica e mentale, una falsa associazione per aiutare i pescatori, un centro per il trattamento di handicap fisici e mentali, la creazione di organizzazioni agricole. Sembra che l'indagine sia partita a giugno scorso dopo l'arresto di Muhammad Halabi, che adesso dovrà affrontare un processo a Beersheba.
   Quelli della Ong, ovviamente, lo difendono a spada tratta, ma nelle indagini, su cui i servizi di sicurezza israeliani hanno ampiamente relazionato i media israeliani visto che ormai sono finite (non come fanno in Italia che le conferenze stampa si fanno quando si inviano gli avvisi di garanzia), sono usciti fuori carteggi interni e intercettazioni telefoniche e ambientali in cui alcuni dirigenti di World Vision sostenevano di temere per la propria vita se fosse uscita la cosa.
   World Vision ha sede negli Stati Uniti ma opera in 100 Paesi (Italia compresa) e impiega 46mila persone. In Israele e territori è attiva dal 1975. Secondo le accuse, i soldi che hanno preso la destinazione sbagliata imposta da Hamas ammonterebbero a oltre il 60 per cento del bilancio della Ong e sarebbero serviti a rifornire la Santa Barbara dei terroristi a Gaza invece che ad aiutare i bambini nella salute e nell'istruzione. È l'altro volto del terrorismo islamico, quello che a nessuno in Europa fa comodo vedere.

(L'Opinione, 11 agosto 2016)


''lo condannato a morte dal fascismo islamico vi spiego il grande tradimento dell'Europa''

''Il peggio in Europa non sono le bombe. Deve arrivare". Intervista ad Abdel-Samad, politologo egiziano sotto scorta in Germania. Il suo libro è proibito in Francia. "Gli intellettuali non vogliono sporcarsi le mani con l'islam. Per gli applausi bisogna attaccare America e Israele''.

di Giulio Meotti

ROMA - Gli offrirono tutto quello che un ragazzo egiziano poteva desiderare: spiritualità, cameratismo, compagnia, uno scopo. A Giza, Hamed Abdel-Samad entrò così a far parte dei Fratelli musulmani. Il padre gli aveva già insegnato a leggere il Corano, ma fu la Confraternita a spiegargli come tradurre in pratica quegli insegnamenti. Il suo passatempo preferito era marciare con la Fratellanza durante le manifestazioni, sventolando la bandiera del Profeta. Abdel-Samad li ripudiò dopo una giornata nel deserto egiziano. Diedero a tutti i "fratelli" un arancio dopo che avevano camminato sotto il sole per ore. Fu loro ordinato di sbucciarlo. Erano felici di avere finalmente qualcosa per placare la sete. Poi la Fratellanza ordinò loro di seppellire il frutto nella sabbia, e mangiare la buccia. "Mi sono sentito completamente umiliato. L'obiettivo era spezzare la nostra volontà. Così si creano dei terroristi. Ho lasciato la Fratellanza subito dopo". Oggi Abdel-Samad ha 46 anni e vive a Monaco di Baviera, dove si è sposato con una ragazza danese e lavora per l'Istituto di Storia e cultura ebraica dell'Università di Monaco. Dopo la laurea, Abdel-Samad ha lavorato all'Unesco a Ginevra, poi è entrato al Dipartimento di Studi islamici presso l'Università di Erfurt
Il suo primo libro ha causato un putiferio nel villaggio natale di Abdel-Samad, dove alcuni residenti hanno voluto bruciare il libro. Abdel-Samad aveva commesso l'affronto di entrare a far parte di quelli che la rivista americana New Republic ha definito gli "atei invisibili", i reietti, gli eretici, i blasfemi del mondo islamico.
, prima che lo storico Michael Brenner gli offrisse una posizione all'Università di Monaco nell'autunno del 2008. Il suo primo libro ha causato un putiferio nel villaggio natale di Abdel-Samad, dove alcuni residenti hanno voluto bruciare il libro. Abdel-Samad aveva commesso l'affronto di entrare a far parte di quelli che la rivista americana New Republic ha definito gli "atei invisibili", i reietti, gli eretici, i blasfemi del mondo islamico. Un altro rogo, un rogo soffice, ha appena bruciato il nuovo libro di Abdel-Samad, "Der Islamische Faschismus: Eine Analyse", best-seller in Germania, dove è stato pubblicato da un editore come Droemer Knaur. La casa editrice francese Piranha aveva acquisito i diritti per tradurre in francese l'opera più nota di Abdel-Samad e c'era anche una data di uscita su Amazon, il 16 settembre. Ma la casa editrice all'ultimo momento ha fatto retromarcia. Jean-Marc Loubet, a capo della casa editrice, ha annunciato all'autore che la pubblicazione del suo libro è ora impensabile in Francia per ragioni di sicurezza, ma anche perché porterebbe "acqua al mulino dell'estrema destra". Samad in Germania per le sue critiche nei confronti dell'islam vive sotto scorta e pende su di lui una fatwa per eresia lanciata da alcuni imam egiziani.
   "La casa editrice Piranha aveva acquistato i diritti, aveva tradotto il libro, era già su Amazon quando hanno deciso di fermare la pubblicazione", dice Abdel-Samad al Foglio in questa intervista esclusiva. "Due anni fa avevano deciso di acquistare il libro, dopo l'attacco a Charlie Hebdo. Dopo Nizza, erano pronti a lanciarlo sul mercato a settembre. Il direttore della casa editrice ha scritto una email alla mia agente tedesca, spiegando che avevano avuto un incontro con i capi della casa editrice e che c'era un rischio troppo alto per i dipendenti nel pubblicare un simile titolo, che c'era stato Charlie Hebdo e che potevano anche loro fare la stessa fine. Io conosco bene i rischi che corrono in questi casi, vivo sotto protezione della polizia, ricevo minacce e avrei capito se avessero avuto soltanto paura, sarebbe stato comprensibile. Un anno fa avevano detto 'siamo Charlie' e ora dicono 'abbiamo paura di essere Charlie'. Ma nella seconda parte della email c'era scritto che il libro avrebbe portato 'acqua al mulino dell'estrema destra'. E' la tipica reazione di ricatto morale di chi non vuole che si critichi l'islam. E' più onesta la reazione dei terroristi islamici che mi dicono: 'Ti uccidiamo se critichi l'islam'. Ma c'è un'altra tattica da parte dei musulmani che ricatta in maniera emotiva dicendo: 'Il tuo libro ferisce i nostri sentimenti'. E questa tattica è oggi adottata dalla sinistra in Europa. Se critichi l'islam ti ritrovi accerchiato da questi gruppi. E' l'ipocrisia della cultura, perché hanno trasformato la paura in un vanto".
   Il caso Abdel-Samad non è certo il primo. "The Jewel of Medina", il romanzo dell'americana Sherry Jones sulla vita della terza moglie di Maometto, è stato acquistato e poi rifiutato dalla casa editrice Random House, che aveva già pagato un lauto anticipo all'autrice e aveva già lanciato un'ambiziosa campagna promozionale. Poi ci fu il caso della Yale University Press, che ha pubblicato il libro di Jytte Klausen, "The Cartoons That Shook the World", dedicato alla storia delle caricature danesi, ma senza riprodurre le vignette. "La capitolazione della Yale University Press è il peggiore episodio della resa all'estremismo religioso musulmano che si sta diffondendo in tutta la nostra cultura", commentò Christopher Hitchens. In Germania scoppia il caso di Gabriele Brinkman, romanziera apprezzata, che improvvisamente rimane senza casa editrice. Nel suo romanzo "Wem Ehre Gebuhrt" (A chi è dovuto l'onore) c'erano alcuni passaggi che, secondo gli avvocati della casa editrice Droste, avrebbero potuto "irritare la comunità islamica tedesca" ed esporre l'editore "a cause e intimidazioni". Così alla scrittrice è stato chiesto di censurare i passaggi delicati. L'autrice si è rifiutata e ha perso la casa editrice. La Brinkmann ha commentato: "È uno scandalo per un editore mettere la coda tra le gambe in questo modo. Si tratta di obbedienza preventiva". Andando ancora indietro c'era stato il caso di Salman Rushdie e dei suoi "Versetti satanici". La casa editrice francese Christian Bourgois si rifiutò di pubblicarlo dopo averne acquistato i diritti, e lo stesso fece l'editore tedesco Kiepenheuer, che si pentì di aver acquisito i diritti del libro e scelse di cederli a un consorzio di cinquanta editori di Germania, Austria e Svizzera raccolti sotto la sigla "UNCharta Artikel 19". Molto presto anche l'associazione inglese degli editori decise di non mettersi in prima linea nella vicenda Rushdie. Era vero che uno scrittore britannico e i suoi editori britannici erano sotto minaccia di morte. Ma l'associazione si dichiarò preoccupata "di non aggravare inutilmente una situazione profondamente sgradita". Un messaggio all'apparenza delicato, ma che aveva molto poco di onesto. La Oxford University Press decise così di prendere parte alla Fiera del Libro di Teheran assieme a due case editrici americane, McGraw-Hill e John Wiley, nonostante la richiesta di Viking Penguin, editore di Rushdie, di boicottare l'evento. Scelsero di combattere la censura omicida con la resa, disposti a sacrificare la libertà di espressione sull'altare del business as usual: la vendita di libri era più importante dei colleghi minacciati.

 La controrivoluzione di Hitler e dell'islam
  Veniamo al contenuto del libro di Abdel Samad che tanto scandalo ha generato. "Il mio libro è sulla religione, perché paragono l'islam al fascismo", continua Hamed Samad al Foglio. "Dicono che non posso accostare una religione del VII secolo a una ideologia del XX secolo. Tuttavia l'islam non è solo una religione, ma anche una ideologia politica, così come il fascismo è stata anche una religione politica. Il culto del leader, la verità assoluta, la cultura della morte, i martiri, il popolo eletto che soltanto lui accede alla verità: l'islam presenta queste stesse caratteristiche. L'islam influenza la vita di centinaia di milioni di
Il nazismo ha la razza ariana, l'islam la umma, la comunità dei credenti. Il popolo eletto dell'islam è rafforzato da una missione divina: unire le nazioni e governare il mondo. E' una missione sacra. Per entrambi, fascismo e islam, l'idea stessa di fare la guerra agli infedeli è simile: non combatti per vivere, ma vivi per combattere.
persone, compresa la loro vita sessuale nella camera da letto. Io parlo di islam e non di islamismo, perché il secondo deriva dal primo ed esiste dai tempi di Maometto. Il nazismo ha la razza ariana, l'islam la umma, la comunità dei credenti. Il popolo eletto dell'islam è rafforzato da una missione divina: unire le nazioni e governare il mondo. E' una missione sacra. Per entrambi, fascismo e islam, l'idea stessa di fare la guerra agli infedeli è simile: non combatti per vivere, ma vivi per combattere. E questo è il jihad, la guerra santa, che non riguarda confini o politica, ma è la guerra che non finisce mai. E' una guerra eterna per avvicinarti a Dio. Poi c'è il concetto di nemico: esterno e interno. Per il fascismo era l'occidente e gli Alleati, e quelli interni erano i comunisti, gli ebrei, gli oppositori. Nell'islam quello esterno è l'occidente e Israele, quello interno sono i laici, i cristiani, gli apostati. Entrambi disumanizzano il nemico, il nemico non è più un essere umano, è l'annichilimento totale del nemico, nessuno deve sopravvivere. Nel Corano, gli infedeli sono peggio degli animali, gli ebrei come maiali e scimmie, impuri, sporchi. E' la stessa semantica dei nazisti sugli ebrei. Se elimini l'aspetto umano del nemico elimini ogni simpatia, non lo uccidi soltanto, lo finisci, per farlo scomparire dalla terra. Hitler vedeva la fine degli ebrei come la salvezza della Germania. Così Maometto dice che gli ebrei devono essere combattuti fino all'ultimo, anche dietro a una pietra. E' un famoso hadith ed è anche nella carta fondamentale di Hamas. E' l'apocalisse. E' questo che imparano i bambini nelle scuole del mondo arabo-islamico. E' la visione dell'onnipotenza". L'islamismo è nato come ai tempi del nazismo. "La Prima guerra mondiale ha posto fine all'impero tedesco, a quello russo e al Califfato. Il nazismo e il fascismo sono fuoriusciti allora come il comunismo in Russia, mentre nell'islam nascono i Fratelli musulmani, che hanno come obiettivo finale la restaurazione del Califfato. Dalla Mecca a Raqqa, da Maometto all'Isis, c'è lo stesso obiettivo. Il terrorismo islamico terrorizza i nemici, come Mussolini e Hitler fecero con le loro camicie nere e le SS. Gli attacchi terroristici sono soltanto una strategia". Cosa vuole l'islam radicale oggi? "Nelle loro realtà vuole riportare le società a prima della modernità, prima dell'individualismo, della libertà di coscienza, della separazione dei poteri. E' una controrivoluzione contro la modernità e la cultura. Tutti devono sacrificarsi e essere sacrificati per questo fine. All'esterno, l'islam vuole conquistare il mondo, vuole la resa del resto del mondo alla sua legge, così come fece il nazismo".

 La lontananza delle élite europee
  Abdel-Samad prevede che lo scontro di civiltà, dichiarato dalle frange radicali dell'islam alla civiltà occidentale, andrà intensificandosi. "Nel lungo termine non sarà divertente", dice l'intellettuale egiziano. "Oggi ci sono trecento milioni di musulmani sotto i quindici anni. Questo è un fatto, non è una profezia. La gioventù è dal lato dell'islam. E' solo una questione di tempo. In quindici venti anni, i ragazzini di oggi saranno uomini. E molti di loro, nati in società frustrate, fallite e corrotte, cosa diventeranno? La cosa più terribile non sono le bombe di oggi, ma quello che accadrà domani. Non tutti questi milioni saranno terroristi, ma ne basta un milione soltanto. Fra trecento milioni di giovani musulmani se anche soltanto l'un per cento si radicalizzasse vuol dire tre milioni di persone. Al Qaida al suo picco aveva settemila militanti. Lo Stato Islamico al suo massimo ne ha trentamila. E sta terrorizzando il mondo". Poi ci sono i milioni di musulmani che vivono in Europa. "Gran parte di loro sono pacifici. Ma la maggioranza è
Più i musulmani frequentano i programmi di anti-radicalizzazione in Europa più si radicalizzano. E' spaventoso che ci stiamo abituando al terrorismo, aspettiamo soltanto il prossimo attacco. New York, Madrid, Londra, Parigi, Nizza, Bruxelles, Monaco ... A chi tocca il prossimo?". Da dove nasce l'odio di questi nuovi figli dell'Europa nei confronti della stessa?
irrilevante, non ferma questo orrendo fenomeno nelle loro comunità. In Germania ci sono mille tedeschi che combattono per lo Stato islamico. Un solo terrorista a Nizza o ad Ansbach è in grado di terrorizzare milioni di europei. E la radicalizzazione sta diventando sempre più forte. Più i musulmani frequentano i programmi di anti-radicalizzazione in Europa più si radicalizzano. E' spaventoso che ci stiamo abituando al terrorismo, aspettiamo soltanto il prossimo attacco. New York, Madrid, Londra, Parigi, Nizza, Bruxelles, Monaco ... A chi tocca il prossimo?". Da dove nasce l'odio di questi nuovi figli dell'Europa nei confronti della stessa? "Non rifiutano i beni di consumo, ma l'idea che c'è dietro: la modernità. Non abbandonano i kalashnikov perché sono fatti da infedeli. Ma lo spirito della modernità, la libertà, l'uguaglianza, queste le rifiutano. L'Europa non ha offerto ai migranti un'identità e i migranti non hanno consentito ai loro figli di diventare parte delle società che li ha accolti. Un muro è eretto dai genitori di fronte ai loro figli. Nel Corano c'è scritto di non diventare amico di ebrei e cristiani". La totale islamizzazione dell'Europa non ci sarà, ci sarà qualcosa di diverso. "I numeri non sono abbastanza grandi, poi i musulmani non fanno parte dello stesso background, ci sono sunniti, sciiti, alaviti, curdi, turchi. Ma l'islamizzazione di gran parte delle città europee è già una realtà. Londra, la banlieue francese, Malmò, alcune parti di Berlino, molte zone in Olanda. Soltanto in Europa esiste questa realtà, come a Johannesburg e San Paolo in Brasile. Le zone proibite. Il ghetto. Quando parlo in Germania di integrazione, rispondo: per prima cosa riprendetevi il monopolio della violenza, ridatela allo stato. Useranno queste aree, dove il tasso demografico è altissimo, dove il welfare pensa a tutto, per contaminare il resto dell'Europa. Lo stato sociale deve essere riformato, non puoi ottenere benefici sociali soltanto per il fatto di avere dei figli e non fare niente. Questa gente non ha idea da dove viene il denaro per vivere. Questo deve finire. Non hanno alcuna gratitudine per lo stato che li ha accolti, anzi, provano sempre più frustrazione. Là fuori trovano tre scelte: i salafiti, i drogati e i magnaccia. La tensione aumenterà con l'arrivo di un milione di migranti soltanto in Germania. Lo scenario è tale che nessuno sa cosa fare. Ci sarà più segregazione e più violenza, aumenteranno i crimini regolari e il terrorismo religioso. Il problema per me è che l'Europa consente a tutto questo di continuare in un senso di indifferenza, dai politici, dalla sinistra, con la rabbia della destra che pensa che i loro paesi siano stati sequestrati, così che il risentimento e l'odio diventano violenza. Angela Merkel non ha fatto niente dopo Colonia, Ansbach, Monaco. E' andata in tv e ha detto: 'Andrà tutto bene'. Dopo l'attacco a Charlie Hebdo i politici francesi sono andati a visitare una moschea, anziché un settimanale satirico o una comunità ebraica. Dopo il prossimo attacco che vadano a trovare le vittime. La democrazia non è sconfitta dall'esterno, ma dall'interno quando si smette di difendere i valori della libertà. Oggi c'è la stessa letargia. E' la grande menzogna che diventa mantra e che ripetiamo dopo ogni attacco, 'questo non ha nulla a che vedere con l'islam"'. Abdel-Samad parla di un vero e proprio tradimento dei chierici. "Questo tradimento delle élite non è nuovo. Quando Rushdie pubblicò i 'Versetti satanici' fu abbandonato dalle élite culturali europee, che presero le difese dei musulmani e non del romanzo. Quando Rudshdie fu invitato in Danimarca, l'Iran minacciò di non comprare più formaggio danese. E Rushdie non mise piede in Danimarca. E' un misto di opportunismo e indifferenza. Quando Kurt Westergaard ha dipinto Maometto con la bomba nel turbante, l'élite si è messa a discutere del valore artistico della vignetta. L'islam politico è la più grande sfida del XXI secolo, ma gli intellettuali europei non vogliono sporcarsi le mani con l'islam. E' più facile criticare Israele. Non è sexy parlare di islam. I giornalisti criticano l'America per ottenere gli applausi. Per loro, chi vive sotto scorta perché ha criticato l'islam non è interessante. Sento sempre il tradimento di questi intellettuali, che si preoccupano dei sentimenti dei musulmani, mai dei miei, di quello che ha significato per la mia vita. Possiamo criticare tutto, ma non l'islam. E' il grande ricatto morale del nostro tempo".

(Il Foglio, 11 agosto 2016)


Jihad e finanziamenti. Cinquecento operazioni sospette

Aumentano i trasferimenti di denaro anomali sotto la lente della Finanza. Via a un nuovo gruppo investigativo. Si occuperà solo dei soldi ai terroristi.

di Sara Menafra

 
ROMA - Le segnalazioni di operazioni sospette che possono essere collegate al finanziamento del terrorismo islamico aumentano. Quelle di Bankitalia, come quelle di commercialisti e notai. Le prime in particolare, generalmente le più interessanti dal punto di vista investigativo, sono passate da una media di 300 negli ultimi tre anni (348 nel 2015) a 463 nei soli primi sei mesi del 2016.
  Troppo poco, forse, per parlare di nuovo allarme finanziamenti al terrorismo, perché le segnalazioni possono crescere anche solo a causa della maggiore attenzione al tema, ma abbastanza per richiamare l'attenzione della Guardia di finanza: le indagini nate da queste verifiche che effettivamente portano a fascicoli per reati di terrorismo sono poche ma anch'esse in crescita, 14 nel 2015 e 12 nella prima metà del 2016, ma sul totale delle segnalazioni sospette attenzionate ( quindi non solo di via Nazionale) 696 sono state oggetto di una delega investigativa. Anche per questo, il comandante della Guardia di finanza Giorgio Toschi ha deciso di puntare ulteriormente l'attenzione delle Fiamme gialle sul delicato tema del terrorismo in particolare con due decisioni: da un lato istituendo una cabina di regia al comando generale, per coordinare e orientare l'attività investigativa; dall'altro dando il via ad un gruppo speciale creato ad hoc (Gift, Gruppo investigativo sul finanziamento al terrorismo) all'interno del Nucleo di polizia valutaria per approfondire in particolare le movimentazioni di denaro a rischio.

 Le rimesse all'estero
  A meritare l'attenzione della Guardia di finanza, che lavora sia sui dati in arrivo da Bankitalia, sia su quelle di commercialisti e notai ma anche di agenzie di compro oro o di trasferimento di denaro all'estero, sono soprattutto i cosiddetti Moneytranfer. Qui i vari elementi sono disomogenei tra loro. Da un lato i numeri dicono che le rimesse all'estero tramite questo canale sono complessivamente in calo: nel 2015 sono state pari a 5,251 miliardi di euro e destinati soprattutto alla Romania (16,1%), alla Cina (10,6%) e al Bangladesh (8.2%), ma il valore complessivo è appunto ben distante dalla soglia dei 7,7 miliardi raggiunta nel 2011. D'altro canto però i buchi normativi e i controlli a campione dicono che il quadro non è ancora chiaro. Al momento, infatti, gli agenti di intermediari comunitari, a differenza di quelli nazionali, non sono obbligati ad iscriversi all'albo degli agenti e dei mediatori a sua volta sottoposto al Testo unico bancario (e quindi a vari criteri di professionalità e di prevenzione). Peccato che, appunto, il 90% dei 22.000 Money transfer sul nostro territorio rispondono ad operatori stranieri. Una situazione che rende complicato, per le Fiamme gialle, forse non tanto controllare che i clienti registrati non siano nelle black list antiterrorismo, ma soprattutto assicurarsi che queste micro agenzie a loro volta controllino chi si rivolge a loro. Un piccolo dato a campione dà l'idea: da giugno al 2 agosto scorsi su 146 accertamenti eseguiti e 282 persone identificate, quasi il 20% (53) aveva precedenti di polizia.

 Le strutture
  Il Gruppo investigativo finanziamento terrorismo, all'interno del Nucleo di polizia valutaria guidato dal generale Giuseppe Bottillo, si occuperà di approfondire le richieste di informazioni che arrivano dalle agenzie estere in materia di finanziamento al terrorismo, di recepire le indicazioni che arrivano dal Casa (il comitato analisi strategica antiterrorismo) o dalla Dna, oltre a fare verifiche specifiche e di contesto. La "cabina di regia" presso il comando generale, come aveva annunciato nei giorni scorsi il ministro degli Interni Angelino Alfano, avrà invece il compito di sedere stabilmente all'interno del Casa e del Comitato di sicurezza finanziaria presso il ministero dell'Economia e si occuperà soprattutto di coordinare lo scambio di informazioni.

(Il Messaggero, 11 agosto 2016)


La gauche contro il modello israeliano

Ironie in Francia sulla sicurezza di Gerusalemme. Da che pulpito.

Da domenica pomeriggio, Eric Ciotti e Guillaume Larrivé, deputati francesi dei Républicains (Lr), si trovano in Israele per trarre ispirazione dalle soluzioni messe in pratica dal governo di Gerusalemme per contrastare la minaccia terroristica, soluzioni la cui efficacia è sotto gli occhi di tutti. Israele, che con il terrorismo convive da decenni, è per Ciotti un modello di riferimento. "Israele è un esempio in materia di lotta contro il terrorismo; la Francia, che oggi deve far fronte a una minaccia inedita in Europa, vi si deve ispirare", ha dichiarato il deputato di Lr.
   Ma il pensiero di Ciotti e di Larrivé, che lunedì mattina hanno visitato un centro di detenzione israeliano lodando via Twitter l'alto livello di sicurezza, il rigore dell'intelligence e l'efficacia di queste fortezze nella lotta contro il terrorismo, ha suscitato in Francia l'indignazione della sinistra e in particolare del ministro della Giustizia, Jean-Jacques Urvoas, secondo il quale i centri di detenzione israeliani sono "ben lungi dall'essere un esempio in materia di rispetto del diritto". Detto dal Guardasigilli di un paese che ha lasciato un terrorista islamico, Adel Kermiche, girare liberamente con il braccialetto elettronico e poi sgozzare un prete, nonostante i reiterati segnali di radicalizzazione, è a dir poco stucchevole. Anche perché dalle sue parole trapela un ingiustificato disprezzo. Israele "un modello?", si è chiesto con toni denigratori. Il bilancio del governo socialista in Francia nella lotta al terrore interno non dovrebbe lasciare spazio a ironie. E il modello israeliano, lo sappiamo, permette a un popolo assediato di mantenere viva l'unica democrazia del medio oriente. Ma essere efficaci e tosti contro i "poveri" - e magari "pazzi" - terroristi è chiedere troppo per la sinistra francese.

(Il Foglio, 11 agosto 2016)



AVVISO - A partire da questa prima parashà del Deuteronomio, le letture bibliche in Israele e in diaspora riprendono a coincidere. Il motivo sta nel fatto che in diaspora le due ultime parashot dei Numeri (Matot e Massè) sono state lette insieme.

Parashà della settimana: Devarim (Parole)

Deuteronomio 1:1-3:22

 - Devarim significa "Parole" ed è la prima parashà del 5o libro di Torah noto come Deuteronomio cioè il libro della seconda Legge. Questo ultimo libro è diretto a coloro che verranno ad abitare definitivamente in Israele (Deuteronomio 30.3).
Il libro con le sue parashot si presenta in generale sotto forma di ripetizione di leggi già esposte nei precedenti quattro libri. Gli stessi "Dieci Comandamenti" vengono ripetuti come pure le leggi riguardanti la giustizia, la distribuzione della ricchezza, la guerra e la pace.
Perché dunque tale ripetizione? Per la nuova situazione sociale che il popolo ebraico si appresta a vivere nella Terra promessa, lasciandosi alle spalle il deserto del Sinài.
'Giudicate con giustizia tra il proprio fratello e uno straniero... Non abbiate paura degli uomini perché la giustizia appartiene a D-o" (Deuteronomio 1.16).
Le leggi riguardanti il funzionamento della giustizia sociale, durante le peregrinazioni del popolo nel deserto, hanno avuto scarsa applicazione pratica per motivi logistici legati alla situazione contingente.
Ugualmente si può dire per la distribuzione della ricchezza. La manna che scendeva dal cielo e l'acqua che sgorgava dalla roccia era patrimonio di tutti. Con la conquista del Paese sorgevano problemi prima inesistenti, come la distribuzione delle terre fra le diverse tribù, i contratti di matrimonio ecc. per cui era di capitale importanza una ripetizione di alcune leggi per una maggiore coesione e identità tra le parti sociali.

Guerra e pace
La Torah riporta alcune indicazioni riguardo alla guerra e alla pace che forniscono delle chiavi necessarie a chiarire ed eventualmente a risolvere questi problemi.
Moshè dice: "Io mandai degli ambasciatori dal deserto di Kedemoth a Sichon re di Cheshbon per dire parole di Pace" (Deuteronomio 2.26).
I nosrti maestri insegnano che il Signore Iddi-o viene anche chiamato Shalom. Per questo motivo la Torah comanda di iniziare i rapporti umani sempre con la pace.
"Ma Sichon re di Cheshbon rifiutò il transito del popolo nel suo paese perché il Signore gli aveva indurito il cuore" (Deuteronomio 2.30).
Il popolo d'Israele in base a questo insegnamento è "obbligato" a ricercare la pace con il prossimo, pace comunque che non deve essere idolatrata ed essere coscienti che alcune volte è necessario scegliere la guerra.
La Torah parla chiaro. Se tu vai in pace verso il tuo prossimo e questi risponde con la guerra sappi allora che sei costretto a combatterlo fino alla sua totale sconfitta, in cui egli perde il diritto ad avere la pace.
In rapporto alla guerra la Torah impone delle limitazioni nella conquista del territorio.
"Voi passate per il territorio dei vostri fratelli figli di Esaù che abitano in Seir... ma non fate loro la guerra perché non vi darò del loro territorio neppure quanto ne copre la pianta del piede" (Deuteronomio 2.4).
Questo monito arriva nel momento in cui Israele si appresta a ricevere il proprio paese dalle mani di D-o, acquistando quindi una particolare importanza. Il popolo ebraico difatti deve avere rispetto della proprietà delle Nazioni e non sentirsi un popolo conquistatore. Le sue azioni di guerra si riducono alla presa di possesso del solo paese che gli è stato dato da D-o cioè la Terra d'Israele.
La parashà termina con l'invito al popolo ebraico a non temere i re di Basciam e Chesbon nei cui territori esso dovrà passare.
"Non li temere perché è il Signore che combatterà per voi" (Deuteronomio 3.22).
La promessa viene fatta per incoraggiare il popolo a proseguire la sua marcia verso Israele, non facendosi intimorire dalla disproporzione di forze che poco contano difronte alla certezza dell'aiuto divino.
Le parole della Torah sono di un'attualità bruciante. Israele ai nostri giorni ha combattuto e vinto "cinque" guerre contro i suoi nemici mille volte più numerosi con l'aiuto di D-o Benedetto, che ha combattuto insieme al Suo popolo. Se tutto questo non è un miracolo?
Aggiungo un piccolo commento su questa settimana che precede il 9 del mese di Av, data in cui vennero distrutti il primo e il secondo Tempio. Viene letto nelle sinagoghe un passo di Isaia (1.1-27) che ha profetizzato questi tragici avvenimenti. Le cause di tale catastrofe nazionale ebraica sono da rapportare alla disobbedienza delle leggi comandate dalla Torah rifiutando di osservare le sue regole morali.
"Cieli ascoltate e porgi orecchio terra, perché il Signore ha parlato: "I-o ho fatto crescere dei figli, ho reso costoro eccelsi, ma essi si sono ribellati a Me" (Isaia 1.2).
Questa ribellione è costata al popolo ebraico un esilio bimillenario simile alla morte da cui oggi il popolo è "risorto" con il suo ritorno alla Terra d'Israele.
Morte e risurrezione sono i temi messianici che precedono la Redenzione. Come non può esserci costruzione senza distruzione, così non ci può essere pentimento senza errore.
Bisogna leggere la Storia dall'interno e non dall'esterno. Secondo la tradizione orale difatti il Messiah nasce proprio il 9 del mese di Av (Agosto) perché dal pianto della distruzione del Tempio si passerà alla gioia della sua ricostruzione. F.C.

*

 - Sono passati quarant'anni da quando il popolo ha lasciato il monte Sinai, e adesso finalmente si trova davanti alla meravigliosa Terra che il Signore gli ha destinata e promessa. Sono in forte ritardo rispetto al programma originario, ma Mosè ricorda il motivo per cui questo è avvenuto: "Voi tutti vi avvicinaste a me e diceste: «Mandiamo degli uomini davanti a noi, che ci esplorino il paese, ci riferiscano qualcosa sulla strada che dovremo percorrere e sulle città alle quali dovremo arrivare»" (Deuteronomio 1:22). Come idea sembrava buona: è normale prassi militare far precedere il grosso dell'esercito da un manipolo di esploratori che saggino il terreno. Anche a Mosè l'idea parve buona: "La cosa mi piacque e presi dodici uomini in mezzo a voi, uno per tribù. Quelli si incamminarono, salirono sui monti, scesero nella valle di Escol ed esplorarono il paese (Deuteronomio 1:23-25).
  C'è però una difficoltà testuale: in questo libro l'idea degli esploratori sembra che sia venuta al popolo, nel libro dei Numeri invece sembra che sia venuta Dio: "L'Eterno parlò a Mosè, dicendo: «Manda degli uomini ad esplorare il paese di Canaan che io do ai figli d'Israele. Mandate un uomo per ogni tribù dei loro padri» (Numeri 13:1-3). Come si spiega questa formale contraddizione?
  Teniamo sempre presente che il personaggio principale della Bibbia è Dio, e il Signore non è una nebulosa cornice entro cui si svolgono certi fatti che avvengono tra uomini sulla terra, ma è l'origine divina che condiziona il muoversi di uomini sulla terra. La Bibbia, se letta con attenzione e nel giusto atteggiamento, fa incontrare questo Dio, che a noi uomini appare molto strano ma che è di vitale importanza cercare di conoscere e capire, tanto più che Lui vuole farsi capire. Per questo parla, e a noi dice: "Ascolta..."
  L'episodio di Balaam, nella sua stranezza, può aiutarci nella spiegazione. Balaam si avvicinò a Dio la seconda volta apparentemente per capire meglio quello che voleva, ma in realtà sperando di ottenere una modificazione dell'ordine ricevuto. Nello stesso modo, il popolo si è avvicinato a Mosè non per motivi tecnici, come si capisce dal seguito, ma per verificare se era proprio il caso di correre il rischio di entrare subito nel paese. Esaminare in anticipo come stanno le cose sul terreno avrebbe potuto essere saggio, se fosse stata soltanto una questione fra uomini, ma il testo dice che il popolo si avvicinò a Mosè per interrogarlo dopo aver ricevuto da Dio un ordine ben preciso: "Ecco, l'Eterno, il tuo Dio, t'ha posto il paese dinanzi; sali, prendine possesso, come l'Eterno, il Dio dei tuoi padri, t'ha detto; non temere, e non ti spaventare" (Deuteronomio 1:21). L'ordine era chiaro e netto: "Sali, prendine possesso", e l'aggiunta delle parole "non temere e non ti spaventare" sta a significare che l'esplorazione sul terreno era già stata fatta dal Signore, dunque non bisognava farne un'altra; il chiederlo non poteva che essere espressione di timorosa mancanza di fiducia e poca voglia di ubbidire. Allora Signore, proprio come nel caso di Balaam, fa sua la loro proposta, e quello che per il popolo doveva essere un'esplorazione del terreno, per Dio diventa un'esplorazione del cuore del popolo. E si sa come va finire il test.
  Si conferma allora quello che si ritrova tante volte nella Scrittura, fin dalla storia di Adamo ed Eva: quando la volontà di Dio arriva chiara e precisa, inserire prima dell'ubbidienza un tempo intermedio di riflessione sul "se" e sul "come" può essere fatale.
  In questo caso, il risultato dell'esitazione è una vera catastrofe: quello che avviene non è semplice disubbidienza a un ordine, ma rifiuto totale della Persona che dà l'ordine. "L'Eterno ci odia", questa è la conclusione che trae il popolo dalla relazione degli esploratori. Adesso finalmente il popolo ha capito chi è davvero Colui che li comanda e perché li ha messi in una situazione senza vie d'uscita. A Mosè che li esorta dicendo: "Quello che l'Eterno, il nostro Dio, ci dà, è un buon paese" (Deuteronomio 1:25), invitandoli dunque a ricordare l'amore che Dio ha già mostrato in tanti modi, rispondono di brutto muso che non è vero: "L'Eterno ci odia, per questo ci ha fatto uscire dal paese d'Egitto, per darci in mano agli Amorei e per distruggerci" (Deuteronomio 1:27).
  "L'Eterno ci odia": è una frase di cui si fa fatica a capire la gravità. Anche sul piano umano, la più grande sofferenza che prova chi ama non sta nel vedere che il suo amore non è corrisposto, ma nel vedere che l'altro interpreta il suo amore come un odio da cui difendersi e a cui reagire con altro odio. E' una cosa che può capitare tra genitori e figli; ed è una sofferenza tremenda.
  Ma che ha fatto l'Eterno davanti a questa gravissima parola di rifiuto in risposta al suo amore? Ha sofferto, certamente, perché come dice l'apostolo Paolo: "l'amore soffre ogni cosa" (1 Corinzi 13:7), ma come aggiunge, sempre nello stesso versetto: "crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa".
  
E' opportuno allora dire, in questo primo commento a un testo del Deuteronomio, che questo libro non è affatto una semplice ripetizione della legge, come potrebbe far pensare il discutibile termine greco con cui è indicato nelle traduzioni. Non sono i precetti ad essere in primo piano, ma il tempestoso rapporto d'amore fra Dio e il suo popolo. Mosè, che nei riferimenti a lui appare come il severo custode degli inesorabili ordini di Dio, è lo strumento con cui Dio fa dichiarazioni e prove d'amore a un popolo che nella sua storia ha fatto di tutto per far pentire il Signore della sua particolarissima predilezione. Ma non ci è riuscito. Né avrebbe potuto.
  Anticipiamo allora un testo della prossima parashà, che contiene una vera e propria dichiarazione d'amore di Dio verso il suo popolo:
  "Tu sei un popolo consacrato all'Eterno, il tuo Dio; l'Eterno, il tuo Dio, ti ha scelto per essere il suo tesoro particolare fra tutti i popoli che sono sulla faccia della terra. L'Eterno ha riposto in voi il suo amore e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, ché anzi siete meno numerosi d'ogni altro popolo; ma perché l'Eterno vi ama, perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l'Eterno vi ha tratti fuori con mano potente e vi ha redenti dalla casa di schiavitù, dalla mano di Faraone, re d'Egitto (Deuteronomio 7:6-8).
  E' strano che questo amore di Dio per il popolo ebraico si sia mantenuto nei secoli. Non è strano che abbia provocato tanto odio verso gli ebrei, perché questo è più che umano. E' strano invece che dei non ebrei ne parlino senza provare invidia e si sentano amati dallo stesso Dio che ama Israele. E' strano, sì, perché il Dio vivente e vero non può che apparire strano ai mortali. Ma la spiegazione c'è. M.C.

  (Notizie su Israele, 11 agosto 2016)


Le Olimpiadi di Berlino e gli ebrei

Che vedevano nei Giochi un forte elemento di pacificazione

di Roberto Giardina

BERLINO - Le Olimpiadi di Berlino cominciarono il 1o agosto del 1936, un sabato, e il tempo era come oggi, cielo nuvoloso e autunnale. A ottant'anni dai giochi nazisti, mentre sono in corso le Olimpiadi a Rio, sono già apparsi diversi articoli rievocativi. E al cinema viene proiettato un film sulla vita di Jesse Owens, l'atleta di colore che rovinò una giornata a Hitler vincendo una medaglia d'oro sotto i suoi occhi. Si ricorda il documentario di Leni Riefenstahl, e la discriminazione degli atleti ebrei. Tutto già noto. In libreria, puntualmente, è apparso Berlin 1936 - Sechzehn Tage im August, sedici giorni ad agosto (Siedler Verlag, 303 pagine, 19,99 euro) di Oliver Hilmes. Una cronaca quasi ora per ora dell'Olimpiade che fu un trionfo per la propaganda del III Reich.
  Hilmes è nato nel 1971, aveva un anno quando si svolsero le Olimpiadi di Monaco, che videro l'attacco palestinese al villaggio olimpico: dieci atleti israeliani furono uccisi (alcuni probabilmente dai militari tedeschi nel tentativo fallito di liberarli). Il suo libro è una cronaca ricostruita attraverso giornali, diari dei protagonisti, interviste, e tralascia l'aspetto politico dei giochi. Un tragico paradosso della storia, di solito trascurato, è che le Olimpiadi furono assegnate alla Germania grazie agli sforzi di influenti personalità ebraiche, nella Repubblica di Weimar. I tedeschi avevano cercato di ospitare l'Olimpiade già nel 1916, ma i giochi non si disputarono a causa della guerra. Dopo la sconfitta, la Germania partecipò solo nel 1928 all'Olimpiade di Amsterdam.
  Gli ebrei tedeschi si adoperarono, vedendo nei giochi uno strumento di pacificazione e di normalizzazione dei rapporti internazionali. Hitler era contrario: lo spirito olimpico di Pierre de Coubertin contrastava con l'ideologia nazista, di una razza ariana superiore e dominante. I giochi furono assegnati a Berlino nel 1931, e due anni dopo, conquistato il potere, Hitler cambiò idea. Ma all'estero si protestava contro i giochi con la svastica: si diffondevano le notizie sulla persecuzione degli ebrei già in atto, e degli avversari politici internati a Dachau, il primo campo di concentramento. Si era ancora in tempo a revocare l'assegnazione.
  Il Baltimore Jewish Times chiese ad Avery Brundage, presidente del Comitato Olimpico Usa, di ostacolare lo svolgimento dei giochi. Ma Brundage e il belga Henri de Baillet-Latour, presidente del Cio, risposero che non c'era nulla da temere. Gus Kirby, tesoriere del Comitato olimpico americano, non si accontentò, fece pressioni su Brundage finché questi si decise a partire per la Germania, e a «controllare con i suoi occhi». Niente di cui preoccuparsi, confermò al ritorno. Dopo, si difese sostenendo che nel suo viaggio era sempre stato circondato da funzionari nazisti che gli avevano impedito di «vedere». Ma Brundage era a sua volta un antisemita, e nel suo club non erano ammessi gli ebrei. Dopo il viaggio in Germania, si era lamentato in diverse lettere agli amici che la stampa statunitense fosse sotto il controllo degli ebrei. E gli Stati Uniti nel selezionare i loro campioni diversi atleti ebrei «per non irritare il padrone di casa».
 
Helene Mayer, a destra, riceve la premiazione con il saluto nazista
  Per fornire un alibi a Hitler, fu sfruttata anche la campionessa Helene Mayer, che a 17 anni aveva vinto la prima medaglia d'oro ad Amsterdam nel fioretto. Era bionda, alta, con gli occhi azzurri, uno «splendido esemplare ariano». In realtà il padre di Helene, Ludwig Mayer, un noto medico di Offenbach, era ebreo. Lei quindi, secondo la burocrazia nazista, era una Halb-Judin, una mezza ebrea. Per calcolo, si poteva chiudere un occhio. La giovane viveva da tempo negli Stati Uniti, dove era molto nota. Charles Sherill, del comitato olimpico, si recò a Berlino per convincere il Führer: l'invito a Helene avrebbe tolto dai pasticci sia la Germania sia gli americani. La ragazza avrebbe potuto rifiutare? Sarebbe ingiusto, direi crudele, tramutarla in una complice. Aveva 25 anni, era una fervente patriota, si sentiva tedesca, come gli ebrei che si erano battuti per portare i giochi a Berlino. E disse di sì, anche se il suo club sportivo di Offenbach l'aveva già espulsa. Partecipò all'Olimpiade del '36 per vincere «davanti a Hitler», ma fu sconfitta in finale dall'ungherese Ilona Elek Schacherer. La medaglia di bronzo andò all'austriaca Ellen Preis. La stampa nazista fu costretta a sorvolare sul fatto che sul podio erano salite tre atlete ebree. Helene vinse il titolo ai campionati del mondo l'anno dopo, nel 1940 ottenne la cittadinanza americana, tornò in Germania solo nel 1952, morì l'anno seguente di cancro. A Monaco, una strada porta il suo nome, nel villaggio olimpico, a pochi metri da dove avvenne l'attacco palestinese.

(ItaliaOggi, 11 agosto 2016)


Prato - Israeliano scippa un cinese: inseguito e arrestato

Lo scippatore dopo esser entrato nella stazione centrale è stato bloccato in prossimità dei binari. Al cinese aveva rubato una collana.

PRATO - Arrestato vicino alla stazione di Prato un israeliano che aveva scippato un cinese. E' successo martedì 9 ad opera di uomini della Guardia di finanza. Nella circostanza, i militari, appartenenti alla Sezione operativa Baschi Verdi, mentre camminavano nei giardini adiacenti la stazione venivano richiamati dalle grida di una persona, vista mentre stava per rincorrere il malvivente.
I finanzieri così si mettevano all'inseguimento della persona, intimandogli ripetutamente ed a gran voce 'alt polizia'. Ma il fuggitivo ha continuato la fuga e anche reagito colpendo alla nuca un militare con un sasso. Poi l'israeliano, dopo esser entrato nella stazione, è stato bloccato in prossimità dei binari. Al cinese aveva rubato una collana.
L'arresto è stato convalidato ed il tribunale ha disposto la custodia in carcere.

(Il Tirreno, 10 agosto 2016)


Anche tra gli israeliani ci sono dei ladri. Qualcuno l’aveva messo in dubbio?


La retorica dei luoghi comuni

di Deborah Fait

 
Rio - Le squadre di Libano e Israele

Leggevo tempo fa che l'etica dei Giochi olimpici si può riassumere in amicizia, lealtà, solidarietà, impegno, rispetto, coraggio, pace e uguaglianza a prescindere dalle differenze culturali e etniche. Bellissime parole che forse hanno un valore per la maggior parte dei paesi e degli atleti partecipanti ma non per tutti. Non ho timore di asserire che queste belle parole non abbiano nessun senso per il mondo arabo. Certamente solidarietà, pace e rispetto erano assenti nel 1972 quando la squadra israeliana fu massacrata da terroristi palestinisti e nessuno pensò di interrompere i Giochi o almeno di rimandarli per rispetto dei morti e solidarietà per le loro famiglie e il loro Paese così gravemente colpito.
   Come ho scritto giorni fa, quest'anno, per la prima volta e dopo ben 44 anni, le vittime ebree sono state ricordate ufficialmente a Rio de Janeiro. Tardi ma per le vedove ha avuto un gran significato e conforto morale.
   Belle parole: pace e uguaglianza a prescindere dalle differenze culturali e etniche.... Belle parole: amicizia, solidarietà, coraggio, pace! Ma per chi? Certo, la sfilata delle squadre di tutto il mondo la notte dell'inaugurazione dei Giochi è sempre una grande emozione, un incontro globale di giovani e giovanissimi, le telecronache degli inviati contribuiscono a esaltare non soltanto il sogno di vincere una medaglia e la retorica che vuole tutti fratelli, molto spesso dimenticano di citare alcuni importanti particolari. Per esempio, quest'anno, nonostante qualche giorno prima il presidente del CIO avesse commemorato gli atleti israeliani assassinati nel 1972, nessun inviato ha parlato dell'avvenimento, nessuna televisione ne ha dato notizia. L'eccezione, in Italia, è rappresentata dalla Gazzetta dello Sport.
   Il coraggio è un valore ma per molti giornalisti è qualcosa di sconosciuto, oscuro e sfuggente al contrario dell'ambiguità, gioco di cui fanno largo uso. Prima dell'inizio delle Olimpiadi quasi tutte le testate giornalistiche avevano dato la notizia (FALSA) che la sicurezza israeliana avesse trattenuto all'aeroporto tutte le divise e le attrezzature della squadra palestinese. Naturalmente niente di vero, la squadra è arrivata a Rio con tutte le sue cose intatte ma la diffamazione era partita, una delle tante bufale cui nessun giornalista si sottrae se riguardano Israele. Benissimo! una menzogna in più cosa volete che sia! La cosa scandalosa e rivoltante è che nessuna agenzia ha scritto che la squadra libanese ha rifiutato di condividere lo stesso autobus con gli atleti israeliani.
   I libanesi erano già nell'autobus quando si sono accorti che gli israeliani stavano avvicinandosi, hanno immediatamente ordinato all'autista di chiudere le porte e si sono barricati dentro impedendo agli altri di salire. Grandissimo esempio di rispetto, amicizia, pace, coraggio! Ma non basta, la judoca saudita ha rifiutato l'incontro con la sua rivale israeliana. Succede ogni anno, ad ogni manifestazione sportiva internazionale arabi e musulmani non vogliono gareggiare con gli israeliani, Israele non può entrare in nessun paese arabo o islamico per partecipare a qualche manifestazione sportiva. Nei summit internazionali gli arabi impediscono a Israele di partecipare. E' una regola assurda e ributtante che nessuno al mondo ha il fegato di contestare. Naturalmente non mi meraviglio del comportamento incivile del mondo arabo e islamico, quello che mi lascia disgustata è il solito silenzio dei media, l'ingiustizia del CIO (che rispecchia l'ingiustizia del mondo contro Israele) perché chiunque rifiuti di gareggiare col rivale di un Paese che odia o che gli sta antipatico dovrebbe essere espulso dai Giochi. La squadra libanese doveva essere immediatamente squalificata e rimandata a casa con disonore, lo stesso per la judoca saudita. Nel 1972, i terroristi palestinisti non hanno ammazzato soltanto 11 atleti di Israele ma anche l'etica delle Olimpiadi, hanno annegato nel sangue ogni valore umano, hanno trasformato in fanghiglia nauseante, in inutile e ipocrita retorica l'etica dello sport. Hanno ricoperto di vergogna il mito leggendario di Olimpia!

(Inviato dall'autrice, 10 agosto 2016)


''L'Europa sarà cristiana o non sarà". L'ultimo scritto di Maurice Dantec

Ho vlsto il futuro mentre il sole scendeva su Sarajevo

di Giulio Meotti

ROMA - Maurice Dantec è morto due mesi fa nella sua casa di Montreal, dove viveva con la moglie Sylvie e la figlia Eva, per un attacco cardiaco a 57 anni. Negli ultimi venti, Dantec aveva scelto il Quebec, stufo della "decadenza dell'Europa". La sua "Sirena rossa", pubblicato nel 1992, aveva scosso le lettere francesi, facendo di Dantec un autore di culto. Nell'ultrasensibile mondo dell'editoria francese, Dantec fu una bomba. Il suo ultimo scritto risale al 28 giugno 2003 e lo ha appena ripubblicato il mensile Causeur di Elisabeth Levy. Dantec gli aveva affidato le sue idee sul destino del vecchio continente.
   "Ho visto il futuro dell'Europa, una sera, mentre il sole scendeva su Sarajevo in un maestoso silenzio. E' stato bello come un mondo che stava crollando sotto il proprio peso. Un buco nero. Avevo le lacrime agli occhi". Inizia così uno degli ultimi scritti di Dantec, che se la prende con il "pacifismo democratico" e le "vecchie arpie del bolscevismo" che vogliono "inchiodare l'Europa alla bara della storia". Dantec sosteneva che "ci sono diversi metodi per uccidere una civiltà. Uno di questi e dei migliori è quello di farti ammalare e poi farti credere che ti sei salvato, quando la medicina somministrata in realtà è un brutto veleno". Sì, ho visto il futuro dell'Europa, scriveva Dantec: "Una grande area liberal-socialista, senza alcuna sovranità politica, tanto meno religiosa, senza il minimo di storia. Oh, posso già sentire le voci nasali degli ordini di giornalisti che vengono a piagnucolare alle mie orecchie: 'fascista', 'Cassandra', 'Bushista' così via, perché alla feccia di sinistra al potere da venti anni non piace che gli vengano ricordati i loro crimini, le loro bugie, i loro errori, per non parlare di quelli che si sta preparando a commettere". Per Dantec, l'Europa era morta con la Carta di Nizza che aveva per prima espunto le radici giudaico-cristiane dell'Europa dalla sua mai approvata costituzione. "Venticinque secoli di storia europea stanno morendo ai piedi della burocrazia di Bruxelles, mentre noi cerchiamo di rimuovere qualsiasi riferimento alla civiltà cristiana in quella che dovrebbe essere la Carta del futuro cittadino della Nuova Unione". Sì, ho visto il futuro dell'Europa e "quello dei Borgia e delle guerre di religione faranno una magra figura accanto al grande processo implosivo che attende il continente che volta le spalle a se stesso, all'occidente, al cristianesimo, alla libertà". Nello stile del protagonista dei romanzi di Dantec, il malinconico Hugo Cornélius Toorop, che si era dato una regola precisa: "Mai camminare nel senso del vento".

(Il Foglio, 10 agosto 2016)


Il nord del Mar Morto a rischio idrico

di Lucia Giannini

GERUSALEMME - Il capo dell'amministrazione civile di Giudea e Samaria, generale Achvat Ben-Hur, ha messo in guardia l'Ad della società "Mekorot", Shimon Ben Hemo e il vertice dell'Autorità idrica, Alexander Kushnir, delle gravi carenze idriche causate dall'interruzione dell'attività del pozzo Jericho 5.
Stando a quanto riprova Arutz Sheva7, Ben Hur ha detto che Jericho 5 non è attivo, e deve essere riparato immediatamente; l'inattività del pozzo causerà una carenza del 40% del rifornimento idrico per l'area del Mar Morto. Una simile ampia riduzione della fornitura di acqua può danneggiare notevolmente l'agricoltura nel nord della zona del Mar Morto e dell'economia del Consiglio regionale Megillot. «Ci è stato detto che ora Jericho 5 è inattivo«, ha scritto il capo dell'Amministrazione civile in una lettera, «questa situazione può avere gravi conseguenze, tra cui una carenza del 40% nella fornitura di acqua al Consiglio regionale Megillot e una scarsità d'acqua diffusa a Gerico e dintorni. Anche se la carenza interesserebbe principalmente l'agricoltura e l'acqua non potabile, sarebbe un colpo grave per le economie israeliana e palestinese della zona che si basano sull'agricoltura», ha avvertito Ben-Hur, ed ha chiesto alla società di «dare a questo problema la massima priorità, mettendo in comune tutte le risorse per riportare Jericho 5 alla piena capacità operativa al più presto».

(agc, 9 agosto 2016)


Palestina: un paradiso per Hamas, distruzione e dolore per Al Fatah

Per la prima volta in dieci anni i palestinesi sono chiamati alle urne per le elezioni amministrative sia in Cisgiordania che a Gaza. A ottobre 2016 si deciderà se a controllare i territori continuerà ad essere Hamas, al potere dal 2006, o Al Fatah, fazione opposta che ha governato fino al 2006.

di Raffaella Scuderi

Il 'Movimento di Resistenza islamico', considerato un'organizzazione terroristica da Israele, Europa e Usa, nonostante in passato si sia pronunciato a favore del boicottaggio del voto, quest'anno ha deciso di sostenere i suoi candidati. Per farlo ha diffuso in questi giorni un video di propaganda piuttosto idilliaco, che racconta di prati verdi, costruzioni nuovissime, spiagge con bagnanti, piscine, bambini che giocano in ambienti puliti e famiglie felici in belle case arredate. Insomma, nessuna menzione ai confini chiusi, alle limitazioni dei passaggi, a una popolazione in ginocchio e a una società sull'orlo del collasso, in essere proprio dal 2006. I protagonisti del video recano un cartello con sopra scritto "Grazie Hamas", che è anche il titolo del filmato.
La fazione opposta, Al Fatah, ha risposto con una clip di 53 secondi che mostra il contrario: frequente assenza di energia elettrica, disperazione sui volti degli adulti, interi quartieri distrutti e i tunnel sotterranei, scavati sotto la barriera che separa l'Egitto dalla Striscia di Gaza, per aggirare l'embargo e far entrare viveri, armi e medicinali

(la Repubblica, 9 agosto 2016)


Come fu distrutta la possibile convivenza fra nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico

Dichiarazione Balfour, aspirazioni sioniste e nascita d'Israele non c'entrano nulla con la frustrazione del progetto di uno stato arabo indipendente.

Com'è noto, in un ennesimo tentativo di mettere in discussione la legittimità di Israele il ministro degli esteri dell'Autorità Palestinese Riyad al-Maliki, su incarico del suo presidente Abu Mzzwen, ha chiesto alla Lega Araba di aiutarlo a intentare una causa legale contro il governo britannico per la promulgazione, quasi cento anni fa, della "catastrofica" Dichiarazione Balfour. Se Maliki e Abu Mazen verificassero con più attenzione i dati della storia potrebbero essere costretti a giungere a conclusioni assai diverse.
Nel gennaio 1916, più di un anno prima della Dichiarazione Balfour, Gran Bretagna e Francia si erano segretamente spartite tra loro grandi porzioni di terre arabe che a quell'epoca facevano ancora parte dell'Impero Ottomano. Con l'accordo sottoscritto da Mark Sykes e Charles Picot, la Gran Bretagna si aggiudicava gran parte di quelli che oggi sono l'Iraq, la Palestina o Terra d'Israele e il Regno di Giordania, mentre la Francia avrebbe dovuto ricevere quelli che oggi sono Siria, Libano e la regione settentrionale di Mosul (in Iraq). In altri termini, i giochi erano fatti fra le due superpotenze dell'epoca prima che venisse promulgata qualunque dichiarazione a favore delle rivendicazioni sioniste....

(israele.net, 9 agosto 2016)


Israele si aspetta che l'Onu si accerti che gli aiuti umanitari non finanzino Hamas

GERUSALEMME - Gerusalemme si aspetta che l'Onu, ed in particolare le sue agenzie umanitarie, condannino Hamas per lo sfruttamento del sistema di aiuti umanitari per i propri interessi e prenda misure concrete per accertarsi che le attività umanitarie aiutino chi ne ha bisogno a Gaza e non finanzino i leader terroristi. E' quanto ha fatto sapere il ministero degli Esteri israeliano attraverso un comunicato indirizzato all'ufficio del segretario delle Nazioni Unite ed i responsabili del programma allo sviluppo dell'Onu (Undp), diffuso anche alle sedi diplomatiche presenti nel mondo. Il dicastero degli Esteri israeliano ha informato e fornito i dettagli dell'arresto di Wahid Abdullah Burash, un ingegnere palestinese dipendente delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza, accusato di aver usato la sua posizione all'interno dell'organizzazione per sostenere l'organizzazione terroristica Hamas, prosegue la nota diplomatica.

(Agenzia Nova, 10 agosto 2016)


Un blogger iraniano dissidente arrestato in Italia

Teheran vuole l'estradizione, il figlio dello Scià si appella a Renzi

Siamo di fronte a un nuovo caso Shalabayeva? L'interrogativo è d'obbligo alla luce dei contorni che sta assumendo la vicenda del blogger iraniano Mehdi Khosravi, in arte Yashar Parsa, arrestato domenica a Dorio, in provincia di Lecco. Su di lui pende un mandato di cattura internazionale emesso dal tribunale di Teheran per corruzione e spetta ora al governo italiano decidere se concedere l'estradizione. Khosravi non è però un criminale comune. Il suo avvocato sostiene che non c'è alcuna accusa di corruzione a suo carico. Tutti gli elementi noti fino ad ora, tra cui la prigionia di Khosravi durante i moti studenteschi del 1999, sembrano andare nella direzione di una caccia al dissidente da parte di Teheran.
  La vicenda di Khosravi ha suscitato l'attenzione, e soprattutto l'intervento, di Reza Ciro Pahlavi, figlio dello Scià costretto ad abdicare per via dell'avvento della rivoluzione di Khomeini in Iran. Pahlavi, presidente del Consiglio nazionale iraniano per libere elezioni, ha scritto al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, chiedendo di porre attenzione su "un'urgente questione" che riguarda "il rifugiato e richiedente asilo" Mehdi Khosravi. Si legge nel testo della lettera: "Chiediamo con urgenza il suo intervento, in favore del Signor Khosravi […] Il Signor Khosravi è un attivista per la democrazia e la tutela dei diritti umani, nato in Iran, ma residente nel Regno Unito in qualità di rifugiato politico, perché costretto ad abbandonare l'Iran dopo le dimostrazioni del 2009. Inoltre, il Signor Khosravi è stato negli ultimi tre anni Amministratore esecutivo del Consiglio nazionale iraniano per le libere elezioni".
  Nella nota diramata dalla questura di Lecco alla stampa si collega l'arresto a un provvedimento di cattura internazionale emesso dal Tribunale di Teheran "per il reato di corruzione ai fini dell'estradizione". Sahand Saber, avvocato del blogger iraniano, ha dichiarato però a Bloomberg che "non ci sono accuse di corruzione" a carico di Khosravi. "Mehdi oggi scrive articoli e blog sulla democrazia e la necessità di una separazione dei poteri in Iran", ha aggiunto il legale. Saber ha sottolineato che a suo parere l'arresto "può rappresentare un tentativo da parte di alcuni funzionari del governo italiano di ingraziarsi gli iraniani dopo l'accordo sul nucleare della scorsa estate". Accuse pesanti, quelle del legale, per il quale "il governo italiano vuole lavorare economicamente con il regime. Può darsi che al governo italiano sia stato chiesto di fare ciò".
  La vicenda di Khosravi fa da sfondo a una questione più grande, quella che riguarda l'Iran e i rapporti con l'Occidente, anche alla luce della politica di 'appeasement', cioè di distensione, promossa dal presidente uscente degli Stati Uniti, Barack Obama, nei confronti di Teheran. Una questione che è entrata prepotentemente nella campagna elettorale americana già lo scorso marzo, quando il candidato dei Repubblicani, Donald Trump, affermò che la sua priorità, una volta eletto presidente, è quella di smantellare l'intesa sul programma nucleare iraniano, raggiunta lo scorso 14 luglio a Ginevra e confermata il 16 gennaio scorso. Un'intesa storica, che ha portato alla revoca della sanzioni internazionali.
  Ora l'Iran ritorna nella sfida senza esclusioni di colpi tra Trump e Hillary Clinton. Lo fa con la storia dell'esecuzione di uno scienziato nucleare iraniano, accusato di spionaggio a favore degli Stati Uniti. Ed è lo stesso Trump a guidare il fronte di chi accusa Hillary. "Molte persone stanno dicendo che gli iraniani hanno ucciso lo scienziato che ha aiutato gli Stati Uniti a causa delle email hacked di Hillary Clinton", ha scritto Trump su Twitter, riferendosi allo scandalo sull'uso di un server privato per le gestione della posta elettronica in cui è coinvolta l'ex first lady.

(L'Huffington Post, 9 agosto 2016)


Israele - "Slot e scommesse ippiche dovrebbero essere vietate"

Si è tenuta una conferenza stampa congiunta per discutere il rapporto che è stato rilasciato dal Ministero della Giustizia e il Ministero delle Finanze israeliano. Alla commissione era stato affidato il compito di identificare i modi per aumentare l'efficienza del settore del gioco d'azzardo e ridurre i rischi per i giocatori. Il risultato è stato una raccomandazione di vietare le slot e che sono gestite dal monopolio della lotteria nazionale Mifal Hapayis. Attualmente circa 500 macchine.
Sia il ministro delle Finanze, e il ministro della Giustizia Emi Palmor, si sono impegnati a garantire che le raccomandazioni siano approvati dal parlamento israeliano, la Knesset.
Moshe Kahlon è un avversario particolarmente agguerrito del gioco d'azzardo e ha suggerito che ci dovrebbe essere una tassa sulle vincite alle lotterie.

(PressGiochi, 9 agosto 2016)


Noemi Di Segni ricorda soldati israeliani caduti a Gaza

Due anni dopo, i corpi di Shaul e Goldin non sono mai stati restituiti alle famiglie.

ROMA - "In occasione del secondo anniversario dalla scomparsa di Oron Shaul e Hadar Goldin, soldati israeliani caduti nella Striscia di Gaza i cui corpi sono ancora oggi trattenuti dai terroristi di Hamas, gli ebrei italiani si uniscono al dolore delle loro famiglie e di tutto il popolo di Israele nella speranza che questa offesa al valore della vita e della dignità umana, valori sacri e inviolabili per una nazione che ha a cuore ogni suo singolo figlio e che in questo senso da sempre si adopera, cessi al più presto". Lo afferma in una nota la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni.
"La memoria di Shaul e Goldin - prosegue - è con noi ogni giorno. E nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere ci sono anche Avraham Mengistu, soldato di origine etiope, e un giovane beduino israeliano, entrambi scomparsi per mano di Hamas.
Non li dimentichiamo assieme a tutti i soldati che hanno dato la loro vita per la difesa di Israele e a tutte le vittime del terrorismo, e ci auguriamo che anche la comunità internazionale si unisca a noi, adoperandosi nei modi più opportuni affinché cessi al più presto questa inaccettabile violenza rivolta sia verso i vivi che verso i morti. Israele non abbandona i suoi figli. Ma troppi, nel mondo, non sentono il bisogno di intervenire. È un silenzio che fa male e che non possiamo più accettare".

(ANSAmed, 9 agosto 2016)


AirBase: La qualità dell'aria in tempo reale

La startup israeliana Airbase Systems Ltd. ha sviluppato una tecnologia che misura la qualità dell'aria in tempo reale. L'obiettivo principale di questo sistema è quello di aiutare le persone a proteggere la propria salute.
AirBase, fondata nel 2010 da un team israeliano, è l'unica azienda nel settore dell'inquinamento dell'aria in grado di fornire una gamma completa di servizi, tra cui la produzione delle apparecchiature di rilevamento e l'analisi dei dati generati. La tecnologia di AirBase permetterà alle persone di venire a conoscenza dell'inquinamento esistente nel loro ambiente e fornirà raccomandazioni su come affrontare l'inquinamento giorno per giorno. Si tratta di un sistema flessibile che può essere distribuito in una sola casa oppure fino ad una completa copertura di un territorio.
Secondo l'OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, l'inquinamento dell'aria è responsabile di circa 2 milioni di morti l'anno in tutto il mondo. Gli effetti disastrosi dell'inquinamento atmosferico sono ad esempio:
  • Nascite premature;
  • Malattie cardiache;
  • Asma;
  • Danneggiamento dell'agricoltura (fino alla perdita del 10% del raccolto).
Le persone con asma, allergie e sportivi potrebbero essere i primi interessati a beneficiare di tale sistema.
Nel corso degli ultimi anni, AirBase ha sviluppato un'unità di monitoraggio che incorpora alcune sensori nano-tecnologici di ultima generazione. Questi minuscoli sensori hanno caratteristiche uniche: basso consumo energetico, eccellenti capacità di rilevamento, manutenzione e soprattutto, sono molto economici. Questi sensori sono inseriti in un "router fatto in casa" una sorta di scatola che viene semplicemente montata e alimentata da Internet (Wi-Fi o GSM). Ogni 20 secondi vengono inviate le informazioni e qualsiasi deviazione dallo standard universalmente accettato, genera un avviso immediato.
Secondo alcune fonti sul web, questa idea made in Israel è stata acquistata da una azienda di Berlino.

(SiliconWadi, 9 agosto 2016)


Palestinese aiutò feriti ebrei: l'Anp lo licenzia

Ebrei israeliani si mobilitano per un palestinese.

Un palestinese che il mese scorso soccorse a nord di Hebron (Giudea-Samaria) una famiglia di ebrei caduti in un'imboscata armata e' stato successivamente licenziato dall'Autorita' nazionale palestinese ed e' rimasto sia disoccupato, sia ostracizzato dagli abitanti della localita' dove risiede. Lo ha riferito al quotidiano filo-governativo Israel ha-Yom un esponente del movimento degli ebrei degli insediamenti, Yochay Damari, secondo cui e' necessario che per lui si trovi una occupazione adeguata in Israele, anche se cio' potrebbe accrescere il suo isolamento fra i palestinesi.
Secondo Damari, sopraggiunto assieme con la moglie sul luogo di un attentato, l'uomo ha subito soccorso i figli della coppia israeliana colpita da spari e li ha portati nella propria automobile. Quindi, assistito da un medico palestinese pure di passaggio, ha provveduto a prestare le prime cure ad un donna rimasta ferita in modo grave. Cosa che, secondo Damari, potrebbe averle salvato la vita. Richiesta di un commento, l'Anp ha negato che l'uomo sia stato punito per aver aiutato ebrei e ha precisato che il licenziamento si e' reso necessario per la riorganizzazione del posto in cui lavorava. Le sue generalita' non sono state rese note.

(ANSAmed, 9 agosto 2016)


Incidenti in Cisgiordania


Consultazione tra Abbas e Hamdallah sulla sicurezza.

Situazione sempre più incandescente in Cisgiordania. In seguito a diversi episodi di violenza, il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier Rami Hamdallah hanno presieduto la scorsa notte una riunione di sicurezza e hanno fatto il punto sugli «sforzi esercitati dai servizi in vari distretti per imporre lo stato di diritto, in difesa dei cittadini». Secondo quanto scrive il quotidiano palestinese «Al Ayyam», alla luce delle tensioni verificatesi nelle settimane scorse a Nablus e negli ultimi giorni a Tulkarem, le autorità palestinesi locali hanno deciso di capire meglio che cosa fare per riportare la calma nella regione.
Fonti locali aggiungono che a Tulkarem elementi di Al Fatah (il partito di Abbas e forza maggioritaria nell'Organizzazione per la liberazione della Palestina) si sono scontrati con reparti dei servizi di sicurezza palestinesi in seguito a proteste popolari per i tagli alla erogazione della corrente elettrica. Un esponente di spicco di Al Fatah, aggiungono le fonti, è stato percosso duramente dagli agenti e ricoverato in ospedale. Numerosi arresti sono stati compiuti fra attivisti di Al Fatah. Il partito esige dal presidente Abbas la loro liberazione immediata. In precedenza incidenti analoghi erano stati segnalati a Nablus.

(L'Osservatore Romano, 9 agosto 2016)


''Il terrore non cambierà il nostro stile di vita. Ci sarà un altro 11 settembre"

La tempesta perfetta è alle porte dell'Europa "agnostica e statalista". Ecco i nuovi barbari. Intervista a Davis Hanson.

di Giulio Meotti

 
Victor Davis Hanson

ROMA - I greci vincitori a Salamina, Platea e Maratona erano convinti di dovere i loro trionfi alla libertà. Come riferivano Eschilo ed Erodoto, i "liberi cittadini sono guerrieri migliori, in quanto combattono per se stessi, le proprie famiglie e i propri beni, non per dei sovrani, degli aristocratici, dei sacerdoti". Non, dunque, schiavi sottoposti all'arbitrio di sultani "re dei re", spinti in battaglia a legnate o con minacce di morte, a rischio della confisca dei beni come l'ammiraglio Alì Pascià, che a Lepanto si imbarca assieme al suo tesoro. A trasformare l'occidente in una macchina da guerra invincibile è stata una miscela di eredità culturali dell'antichità classica, conservate in forma esplicita o latente attraverso i millenni: "Razionalismo, militarismo civico, le convenzioni del capitalismo, le idee di libertà, l'individualismo". E' questa la tesi, espressa nel libro "Massacri e cultura" (Garzanti), che ha reso famoso lo storico americano Victor Davis Hanson, il primo ad aver legato inscindibilmente la superiorità bellica occidentale, dalle Midway al Tèt, non solo alla supremazia economico-tecnologica, ma soprattutto alla disponibilità a combattere per la libertà. Docente alla California State University, antichista, esperto di strategia di guerra, Hanson è anche membro della Hoover Institution e del Claremont Institute, il centro studi che raccoglie l'eredità intellettuale di Leo Strauss. "Settantacinque anni dopo la Seconda guerra mondiale, e sessanta milioni di morti, l'Europa non crede più in se stessa e preferisce leader che ammansiscono il terrorismo e ne produrranno di più, piuttosto a chi crede nella deterrenza", dice al Foglio Davis Hanson. "Altre uccisioni per mano dei terroristi avverranno in Europa, perché queste stragi di massa seriali sono una sorta di raccolto di dolore di occidentali che non rispondono duramente e in maniera articolata al terrorismo".
   Secondo Hanson, il mondo islamico sta vivendo una schizofrenia "che deriva in larga parte della sua incapacità di controllare gli appetiti all'interno del liberalismo occidentale. E qui nasce l'odio di sé di chi segue i dettami dell'islam medievale fondamentalista. L'islam radicale è un tonico per l'odio di sé e il fallimento, ma sempre preferibile alle riforme che potrebbero mettere fine a tribalismo, misoginia, autocrazia, statismo, antisemitismo e intolleranza religiosa che perpetuano l'arretratezza economica del medio oriente e la sua violenza nichilista". Sembra che la nostra risposta sia sempre una letargica compassione: "Sentiamo che il prezzo che stiamo pagando sia tollerabile e che i crimini non debbano far deviare dagli stili di vita benestanti e indolenti dell'occidente. Un altro 11 settembre è all'orizzonte". E' pessimista sul futuro delle libertà occidentali: "Le stiamo già insidiosamente perdendo, autocensuriamo linguaggio e scrittura per non offendere gli islamisti e ammantiamo la nostra codardia di luoghi comuni multiculturali sulla 'tolleranza' e il 'liberalismo'. Il politicamente corretto è il rifugio dei codardi. Onore, patriottismo, orgoglio culturale sono visti come elementi reazionari".
   Ma può l'occidente sopravvivere con questo pacifismo? "Sta già crollando. Gli occidentali sono così autocritici e odiano se stessi al punto di vivere nelle menzogne e nei paradossi. Viviamo nel regno delle bugie, che spiega l'ascesa di Trump e della Brexit, perché le persone sono così disperate e in cerca di un candore di qualsiasi tipo piuttosto che la solita poltiglia politicamente corretta".
La demografia è il veleno dell'Europa: "Curioso è il motivo per cui l'Europa si sta restringendo, il sintomo primario di una civiltà in rapido declino", continua Davis Hanson. "L'Europa è la Crotone di Petronio", dal nome della città del Satyricon con protagonista Eumolpo, un anziano danaroso senza figli. "Il giovane europeo soddisfa i propri appetiti, come un adolescente perenne che vive nell'appartamento dei genitori, cercando di mungere il sistema. Perché avere una famiglia o investire per il futuro, quando lo stato promette una casa di riposo piacevole e politicamente corretta?". La tempesta perfetta dell'Europa è alle porte. "Una contrazione statalista e una società agnostica che non crede nella trascendenza, familiare o religiosa, è in guerra con i vicini di una specie molto diversa: i fondamentalisti islamici crescono in numero e credono che la loro vita non sia nulla in confronto alla resurrezione della fenice del Califfato". Hanson chiude con un altro paragone: "Quello che accade oggi mi ricorda l'Italia del 450 d.C., quando i Romani stanchi invitarono i barbari ad attraversare il Reno e il Danubio. I barbari erano un pericolo inferiore rispetto ad Annibale settecento anni prima, quando l'Italia non era la Roma globale ma una piccola Repubblica agraria. Ma i secondi credevano in qualcosa, mentre i primi avevano dimenticato chi fossero".

(Il Foglio, 9 agosto 2016)


Ex capo dello Shin Bet: fondi per aiuti umanitari sottratti per finanziare Hamas

GERUSALEMME - Nel corso di un'intervista rilasciata all'emittente radiofonica dell'esercito israeliano, Ditcher ha detto che la maggioranza degli operatori umanitari che lavorano per le Nazioni Unite nella Striscia di Gaza appartengono ad Hamas, che controlla il territorio palestinese dal 2007. Nei giorni scorsi lo Shin Bet ha scoperto che Halabi ha sottratto negli ultimi cinque anni circa il 60 per cento del bilancio dell'associazione che sarebbe finito nella casse di Hamas per scopi illegali. Secondo quanto reso noto dal servizio di sicurezza israeliano, lo scorso 4 agosto, Halabi avrebbe confessato di aver sottratto alla World Vision circa 7,2 milioni all'anno negli ultimi cinque anni.

(Agenzia Nova, 8 agosto 2016)


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Se il terrorismo infiltra le organizzazioni umanitarie

Il terrorismo dentro le organizzazioni umanitarie: fondi sottratti. Ecco come.

di Daniele Capezzone

La notizia è clamorosa, e infatti i media mainstream italiani l'hanno trattata come fanno di solito in questi casi: con una pressoché sistematica censura. O per non aver compreso la portata del fatto, oppure - avendola compresa fin troppo bene - per evitare di sollevare interrogativi inquietanti.
L'organizzazione terroristica Hamas ha per anni sottratto e distorto fondi ingentissimi destinati agli aiuti umanitari in Palestina. Ne è stato responsabile un uomo di Hamas strategicamente collocato nel ramo dell'organizzazione umanitaria internazionale World Vision operante nella striscia di Gaza. World Vision ha sede in America ed e' attiva in 100 paesi del mondo (Italia inclusa), ed è finanziata sia dalle Nazioni Unite sia dai singoli paesi occidentali.
La figura chiava e' quella di Mohammed El Halabi, direttore dell'organizzazione a Gaza, in realtà membro di Hamas sin dalla giovinezza, che sarebbe riuscito a dirottare circa il 60% del budget annuale della sua associazione al finanziamento del gruppo terroristico. Come? Essenzialmente finanziando progetti fittizi, oppure sostenendo pseudo-organizzazioni e associazioni agricole, che in realtà servivano solo come copertura del trasferimento di fondi a favore di Hamas.
In questo modo, denaro teoricamente destinato ad aiutare poveri, disabili, sofferenti, e' stato utilizzato per stipendiare terroristi, per costruire tunnel funzionali ad attaccare Israele, per acquistare armi, o anche per l'uso personale dei capi di Hamas.
Dalle rivelazioni di questo signore verrebbe fuori che anche suo padre, impiegato sempre a Gaza presso le Nazioni Unite, avrebbe operato secondo il medesimo criterio.
Da questa tristissima storia si ricavano almeno due nuclei di domande, da girare al Ministro degli Esteri italiano, il primo più legato alla realtà esistente, il secondo più legato a cosa sarebbe necessario fare (o non fare) in futuro.
  1. Che tipo di controlli esistono nel nostro Paese per evitare che cose di questo genere possano accadere attraverso funzionari infedeli di Ong finanziate dall'Italia? Quando una Ong e' finanziata dall'Italia, siamo sempre certi della catena di comando e della struttura organizzativa che concretamente gestirà le risorse? E i controlli sono sufficientemente penetranti anche per l'effettiva verifica della realizzazione dei progetti umanitari dichiarati?
  2. Siamo certi che l'attuale meccanismo di cooperazione non sia in radice esposto a distorsioni e tradimenti? Mi riferisco anche agli accordi di cooperazione tra UE o singoli paesi occidentali e paesi in via di sviluppo. Molto spesso questi accordi includono lodevoli clausole relative al rispetto dei diritti umani o ad altri principi sacrosanti. Ma il fatto è che, nonostante tali disposizioni siano regolarmente violate, il flusso di denaro non viene quasi mai interrotto. E quel denaro (anche senza bisogno di funzionari corrotti, a quel punto!) diventa automaticamente uno strumento di rafforzamento o di dittature o dei gruppi autoritari al potere in un territorio. Occorre imporre un principio radicalmente diverso, che chiamerei di "ricatto democratico": se vuoi disporre di risorse, devi garantire in modo effettivo e stringente libertà, democrazia, garanzie per le minoranze, rifiuto e contrasto al terrorismo, eccetera. In mancanza di ciò, quel denaro non servirà a far fiorire un deserto, ma solo a "innaffiare" il terrore e i regimi che lo fiancheggiano.
(Affaritaliani.it, 9 agosto 2016)


La Corte suprema ha deciso: i manoscritti di Kafka alla Biblioteca di Israele

Dopo anni di diatribe giudiziarie.

I manoscritti di Franz Kafka (1883-1924) resteranno di proprietà della Biblioteca nazionale di Israele. Lo ha stabilito la Corte suprema d'Israele. La decisione mette fine a una questione che durava da tempo. I materiali erano stati affidati da Kafka a Max Brod, ceco ebreo, suo amico ed esecutore testamentario. Brod custodì gli autografi dell'autore di La metamorfosi, nonostante la richiesta dell'amico di bruciarli alla sua morte. Quando Brod lasciò la Cecoslovacchia, occupata dai nazisti, n portò con sé in Palestina. Prima della morte, avvenuta nel 1968 a Tel Aviv, Brod affidò i diari e le carte di Kafka alla sua segretaria, Ester Hoffe, e dispose che fossero donati all'Università ebraica di Gerusalemme o a «un'altra istituzione ebraica in Israele o all'estero». Hoffe, invece, decise di mettere all'asta il manoscritto originale de Il processo per due milioni di dollari e alla sua scomparsa, nel 2007, lasciò i materiali ai suoi eredi. Nel 2009 lo Stato d'Israele ha fatto loro causa reclamando la proprietà dei manoscritti. Ora arriva la decisione della Corte suprema di respingere l'appello presentato degli eredi di Esther Hoffe stabilendo che Brod, l'amico di Kafka, avrebbe voluto che i manoscritti fossero non venduti ma conservati.

(Corriere della Sera, 9 agosto 2016)


Come è andato il "patto di protezione" che Baghdadi offrì ai cristiani di Raqqa

Due anni fa il califfo firmò un editto in cui spiegava ai cristiani le regole da rispettare per avere salva la vita. Oggi però sono quasi tutti in fuga dalla città.

di Daniele Raineri

 
Rifugiati siriani all'ultimo check point di Mabrouka, in Siria, prima di raggiungere Raqqa
L'attenzione dei media è arrivata in ritardo sullo Stato islamico, più o meno durante la caduta di Mosul in Iraq, ma ci sono fatti e documenti precedenti che meritano di essere raccontati. Un esempio chiaro è il patto stretto tra il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, e i cristiani di Raqqa, in Siria, nel febbraio 2014. Un minimo di contesto: all'epoca i gruppi armati siriani avevano cacciato lo Stato islamico dal nord-ovest del paese, ma il gruppo era riuscito ad attestarsi nella città di Raqqa, a est, verso il confine iracheno. La zona garantiva una certa sicurezza e a gennaio al Baghdadi era stato visto dirigere la preghiera in pubblico assieme ai suoi combattenti - come farà di nuovo a luglio, questa volta davanti alle telecamere. Il suo controllo su Raqqa era completo, com'è ancora oggi. A febbraio Baghdadi firmò un editto in cui spiegava ai cristiani locali il patto di sottomissione da rispettare per avere salva la vita, le proprietà, le chiese e continuare a esercitare il culto. Interessante notare che il testo è firmato con il titolo "comandante dei credenti", che è una qualifica che fa capire cosa avrebbe fatto di lì a cinque mesi, ovvero proclamare il ritorno del Califfato nella storia.
  Baghdadi offre incolumità ai cristiani e in cambio impone queste condizioni: non devono costruire in città o in periferia nuove chiese o monasteri o eremitaggi per monaci e non devono ristrutturare gli edifici caduti in rovina; non devono mostrare la croce o qualsiasi delle loro scritture nelle strade e nei mercati dei musulmani (quindi, all'aperto); non devono farsi sentire dai musulmani durante la lettura delle loro scritture, e lo stesso vale per le campane, "anche suonate dentro le chiese"; non devono commettere atti ostili contro lo Stato islamico, incluso l'aiuto dei nemici, e se venissero a conoscenza di un piano contro lo Stato islamico devono subito riferire; non possono fare un qualsiasi gesto religioso all'esterno delle chiese; non possono fermare un cristiano se vuole convertirsi all'islam; non possono portare armi; non possono bere vino in pubblico e non possono vendere vino o carne di maiale ai musulmani o nei loro mercati; devono avere cimiteri separati; devono accettare i precetti imposti dallo Stato islamico in materia di modestia degli abiti e altro. Il punto più importante di questo patto di protezione, in arabo dhimma, è il pagamento della jizya, la tassa, che corrisponde a circa 16 grammi di oro per ogni maschio adulto di ciascuna famiglia e deve essere versata in due appuntamenti annuali.
  Ogni cristiano di Raqqa ha quindi ricevuto un lasciapassare dello Stato islamico che attesta la sua condizione. Il ricercatore britannico che per primo tradusse il documento, Aymenn Jawad al Tamimi, nota che non si trattò di una mossa a sorpresa da parte di Baghdadi, perché c'è un'ampia letteratura nella teologia islamica classica su questi accordi e anche perché lo Stato islamico aveva già imposto la protezione ai cristiani in alcune aree che controllava durante la guerra in Iraq, per esempio nel 2007 nel quartiere al Dora di Baghdad e nel nord del paese (quando Baghdadi era emiro della zona di Mosul, per esempio). Due anni dopo, alla fine di marzo 2016, lo Stato islamico ha emesso un nuovo editto che vieta ai cristiani di lasciare Raqqa, e di fatto li rende prigionieri della città. Secondo i dati degli attivisti locali, delle millecinquecento famiglie cristiane "protette" dal primo editto di Baghdadi nel febbraio 2014 oggi ne sono rimaste 43.

(Il Foglio, 9 agosto 2016)


Procuratore di Israele invita i pubblici ministeri ad inasprire le pene per possesso di armi

GERUSALEMME - Il procuratore dello Stato israeliano Shai Nitzan ha esortato i pubblici ministeri ad essere più severi sulla vendita delle armi da fuoco e chiedere la reclusione in carcere sia per i possessori che per chi commercia armi prive di licenza e munizioni. La pena detentiva per chi possiede armi illegalmente dovrebbe andare da uno a tre anni, ha suggerito Nitzan, come riferisce oggi il quotidiano israeliano "Times of Israel". Per i reati più gravi, come ad esempio la vendita di armi, i pubblici ministeri dovrebbero chiedere al giudice una pena che va dai quattro ai sei anni, ha fatto sapere il procuratore attraverso un comunicato. Secondo Nitzan, chi viene sorpreso in possesso di munizioni illegali dovrebbe trascorrere sei mesi in carcere o svolgere dei compiti presso le strutture dei servizi sociali. Per chi trasporta le munizioni, il procuratore ha invitato i pubblici ministeri a chiedere dai sei agli otto mesi di carcere, mentre chi vende munizioni dovrebbe essere condannato a una pena detentiva dai sei ai dodici mesi.

(Agenzia Nova, 8 agosto 2016)


A tredici anni in collegio con il mitra
   
di Maddalena Ingrao

La pistola che teneva in camera il ragazzo arabo di 13 anni
GERUSALEMME - La polizia israeliana ha arrestato un ragazzo arabo di 13 anni, per il possesso di una pistola mitragliatrice e due caricatori pieni in un collegio a Gerusalemme, il 7 agosto.
Nel comunicato della polizia, ripreso da Arutz Sheva7, si legge che: «La polizia ha effettuato una perquisizione nella stanza di un minore palestinese di 13 anni e mezzo in un collegio» ritrovando l'arma nella sua stanza. I legislatori israeliani la scorsa settimana hanno approvato un disegno di legge che consente alle autorità di incarcerare i terroristi dai 12 anni in su in caso di condanna per "reati gravi", tra cui omicidio e tentato omicidio. La legge è stata approvata dopo il recente rilascio di diversi terroristi coinvolti in attacchi contro gli israeliani.

(agc, 8 agosto 2016)


Ventimiglia - Questa sera l'autrice di 'Sono sionista' sarà alla 'marina'

Questa sera, lunedì 8 agosto, la scrittrice Ariel Shimona Edith Besozzi sarà la protagonista dell'evento organizzato dall'Associazione Culturale Italia Israele. Si svolgerà dalle ore 18 presso il ristorante San Giuseppe della passeggiata Marconi alla 'marina'.
Ariel Shimona Edith Besozzi, nata nel 1973 a Milano, ha sempre orgogliosamente affermato il proprio essere ebrea e sionista. Amante della scrittura, lettrice instancabile e studiosa eclettica. Ha svariati interessi che spaziano dalla cultura orientale a quella naturale, alla corsa e alla vita all'aria aperta, oltre all'Ebraismo e a Israele.
Nel suo libro Edith descrive alia perfezione i sentimenti di chi si scopre sionista dopo essersi allontanato dagli antichi idoli, le organizzazioni della sinistra italiana, partiti e sindacati, strutture che non avevano nulla a che vedere con giustizia, equità, libertà individuale e collettiva ma che portavano all'appiattimento morale e sociale. Edith, durante una visita in Israele nel 2008, scopre il legame profondo e radicato del popolo ebraico con la Terra e capisce che questo amore avrebbe definitivamente distrutto quegli idoli fatti di odio, menzogne e appiattimento della società in cui viveva.

(Sanremo News, 8 agosto 2016)


L'idea del partito islamico imbarazza il Pd e gli ebrei

Troppe ombre sui possibili finanziamenti da Paesi come il Qatar e sui rapporti coi Fratelli Musulmani

di Alberto Giannoni

Democrazia islamica. L'Italia potrebbe avere presto fra i protagonisti della sua vita politica il partito dei musulmani. L'imam Hamza Piccardo è sotto i riflettori per la proposta di introdurre anche in Italia quello che considera il «diritto civile» alla poligamia. E chissà se sarà nel programma della sua «creatura». Il fondatore dell'Ucoìì, infatti, si sta cimentando soprattutto con la fondazione della assemblea costituente islamica. E ha le idee molto chiare su tempi e modello: poche settimane per il documento programmatico, poi il voto in primavera. Il modello è il Movimento 5 Stelle. Tutto on line. Piccardo garantisce un «percorso democratico» eppure non sembra avere in mente una nuova Ucoìì, unione dei centri islamici da cui è uscito per dissidi coi nuovi vertici.
   Democrazia islamica dunque. Un paradosso? Su un progetto del genere aleggia l'ombra dei Fratelli musulmanì, che rifiutano la secolarizzazione della nazione islamica e ormai hanno «sezioni» in diversi Paesi. Qualcuno parlando del partito del presidente turco Erdogan citava fino a poco tempo fa la Democrazia cristiana. Ma la repressione di Istanbul ha preso un'altra piega, che non dispiace affatto a Piccardo senior, tanto da fargli salutare con entusiasmo il ritorno della «grande nazione musulmana», Piccardo ha smentito la sua adesione ai Fratelli musulmani. Ha escluso «un giuramento» o «altra formale o sostanziale affiliazione», ammettendo invece di condividere solo «i fondamentali del loro pensiero». Con Repubblica ha parlato di una «vicinanza amichevole», escludendo di essere «un membro organico della congregazione». Lo stesso ha fatto il figlio Davide, leader delle moschee milanesi (Caim) che ha partecipato a diverse manifestazioni per il deposto presidente egIzIano Morsi. Davide ha inoltre difeso Tareq Suwaidan, imam radicale che le comunità ebraiche hanno definito «un predicatore d'odio della peggior specie» (il Viminale gli aveva negato !'ingresso in Italia). Entrambi i Piecardo fanno parte dell'European muslim network, l'organizzazione che a Milano ha invitato Tariq Ramadan, nipote del fondatore dei Fratelli musulmani El Banna, quello che la consigliera comunale del Pd Sumaya Ab del Qader ha inserito, con tanti altri, nel suo pantheon. Inutile dire che tutta la vicenda - come il caso poligamia - crea enorme imbarazzo al Pd, che al Caim è ritenuto vicino. E c'è inquietudine nel mondo ebraico. «Pensiamo - riflette Davide Romano, segretario degli Amici di Israele - a quanto potrebbe fare un gruppo di musulmani liberali e senza soldi, contro delle organizzazioni cresciute all'ombra dell'Arabia Saudita o del Qatar o della Turchia. L'Ucoii per bocca del suo presidente ha dichiarato di avere ricevuto 25 milioni da un fondo del Qatar. Parliamo di cifre irraggiungibili e che inquinerebbero l'equità di eventuali elezioni».

(il Giornale, 8 agosto 2016)


Il governo israeliano non si opporrà a tagli di elettricità nelle città paelstinesi morose

GERUSALEMME - Il governo israeliano non si opporrà più ai tagli della fornitura elettrica adottati dalla società nazionale Israel electrict corporation (Iec) nei Territori palestinesi a causa dei voluminosi debiti contratti. Secondo quanto riferisce oggi l'emittente radiofonica dell'esercito israeliano, Gerusalemme, pur potendo obbligare la Iec a continuare a fornire energia elettrica alle città palestinesi morose, non eserciterà più questo diritto. La decisione del governo israeliano è in controtendenza con quella adottata in passato, quando Gerusalemme ha obbligato la società elettrica nazionale a riprendere il normale flusso di corrente nelle località palestinesi. Nei mesi di aprile e maggio scorsi, infatti, la Iec ha iniziato a ridurre la fornitura elettrica a Gerico e Betlemme a causa di un debito nei pagamenti di circa 500 milioni di dollari.

(Agenzia Nova, 8 agosto 2016)


Islam sfrontato: vanno in chiesa e sputano sul Crocefisso

di Serenella Bettina

VENEZIA - Entrano in chiesa e vilipendiano il crocefisso. Quattro donne musulmane, con il velo, pochi giorni fa sono entrate nella chiesa di San Zulian a Venezia, pochi passi da piazza San Marco, e hanno sputato sul simbolo sacro, sotto gli occhi del sorvegliante. A raccontarlo il parroco don Massimiliano D'Antiga che ha informato la curia e ha chiesto ai carabinieri di tutelare il tempio. Dopo il gesto, le islamiche si sono allontanate confondendosi tra i turisti. L'ultimo episodio, invece, sabato mattina, sempre nella chiesa di San Zulian. Due giovani orientali, dopo aver assistito alla funzione religiosa celebrata dal parroco, si sono messi in fila con i fedeli per ricevere la Comunione. Dopo averla presa, hanno sputato, davanti agli occhi del parroco e degli altri presenti, la particola, allontanandosi dalla chiesa in fretta. Gli episodi giungono a poco meno di un mese di distanza dal magrebino che aveva staccato un braccio a un crocefisso, sempre a Venezia all'interno della chiesa di San Geremia. Il 12 luglio il magrebino di 25 anni, con permesso di soggiorno francese, ora espulso dall'Italia, era entrato nel luogo sacro e aveva cominciato a urlare: «Qui c'è qualcosa che non va, ve la do io la verità, la porto io la verità». Poi si era diretto verso un Cristo settecentesco, alto tre metri e largo due e aveva cominciato a scuoterlo, fino a farlo cadere e a danneggiarlo mentre il sacrestano tentava inutilmente di fermarlo.
  Questi non sono i soli episodi accaduti ultimamente nelle chiese veneziane. C'è anche chi entra in chiesa per pregare con il rito islamico. Due settimane fa, sempre nella chiesa di San Zulian, due musulmani sono entrati nell'edificio, hanno steso il tappetino tipico e si sono messi a pregare tranquilli, invocando Allah. Quando il sacrestano ha mostrato loro qualche disappunto, questi hanno risposto: «Possiamo farlo, il Papa ci ha dato il permesso». Stessa scena l'altro giorno, in Piazza San Marco, un'intera famiglia islamica si è messa a pregare in piazza , inchinata sul «classico» tappetino, rivolta verso la Mecca. Il tutto sotto gli occhi dei centinaia di turisti che hanno cominciato a fare foto e a postarle nei social.

(il Giornale, 8 agosto 2016)


Intanto Israele continua a salvare la vita di siriani feriti nella guerra civile

Video: soldati israeliani si assumono enormi rischi per soccorrere i cittadini di un paese che non riconosce il loro stato e che è ufficialmente in guerra con loro.

Otto siriani feriti, tutti in modo grave - tra di loro due bambini, uno di sette e l'altro di 11 anni - sono stati prelevati la settimana scorsa dalle Forze di Difesa israeliane al confine con la Siria (paese che non ha mai riconosciuto Israele e che con Israele è tuttora ufficialmente in stato di guerra) e trasportati in vari ospedali della Galilea, nel nord del paese, per essere curati.
I feriti erano arrivati alla recinzione di confine dopo che un pesante fuoco d'artiglieria, a quanto risulta proveniente dalle forze del regime di Assad, aveva colpito il centro medico della città di Qunietra, pochi chilometri al di là del confine con Israele. Qualcuno aveva portato i feriti dal centro medico bombardato fino a ridosso della recinzione di confine. A quel punto il corpo medico delle Forze di Difesa israeliane ha dichiarato la loro presenza poco al di là del confine una situazione di emergenza medica umanitaria che vedeva coinvolte più vittime....

(israele.net, 8 agosto 2016)


Israele espellerà chi boicotta lo stato

Il governo insedierà una commissione per individuare ed espellere gli attivisti che sostengono il bocottaggio di Israele Tweet Israele sblocca 13 milioni di dollari per colonie in Cisgiordania Accordo Israele-Turchia, Netanyahu: "Avrà implicazioni immense per l'economia israeliana" Terrore a Tel Aviv: 4 morti e 6 feriti. Hamas 'benedice' attentato. Israele congela permessi 07 agosto 2016 Non ci sarà più spazio in Israele per gli attivisti che sostengono il boicottaggio dello Stato. Il governo di Benyamin Netanyahu ha deciso di insediare una commissione speciale con l'incarico di espellere ''gli attivisti impegnati nel boicottaggio di Israele, o nella sua delegittimazione'', e di impedire l'ingresso a quanti di loro cercassero di arrivare dall'estero in futuro. E' quanto reso noto da un comunicato congiunto del ministro degli interni Arye Deri (Shas) e del ministro per la sicurezza interna Gilad Erdan, del Likud. La task force formata dai due ministri dovrà ''localizzare centinaia di attivisti che si trovano oggi in Israele''. ''Oggi - si legge in un comunicato pubblicato dai ministri Deri ed Erdan - sono attive decine di organizzazioni che, sotto forme diverse, operano in Israele per raccogliere informazioni nell'intento di sostenere il suo boicottaggio, il suo isolamento e quello dei suoi cittadini''. ''Spesso - prosegue il comunicato - gli attivisti per il boicottaggio giungono in Giudea-Samaria, aizzano la popolazione locale contro le forze dell'ordine e così ne intralciano le attività''.

(RaiNews, 7 agosto 2016)


Benevento - Isidea: l'ex chiesa di S. Stefano diventi museo ebraico

La proposta del presidente dell'associazione, Rito Martignetti

BENEVENTO - "Nel convegno internazionale sulla "Italia Judaica", tenutosi nel 1995 a Tel Aviv, il grande storico dell'ebraismo in Italia meridionale Cesare Colafemmina (1933-2012) scelse di relazionare sul tema "Gli ebrei in Benevento". Ampiamente attestata in epoca longobarda, la "gens Hebraea" fu attratta dalla "posizione felice della città, in cui l'Appia Antica si biforcava nella Traiana e a cui facevano capo le strade provenienti dalle città del Tirreno e del Sannio". Lo studioso, tra l'altro, ricordava che opere fondamentali della storiografia ebraica medievale, in particolare quelle di Sefer Yosefon, erano state composte in Benevento, dove sarebbe anche maturata la leggenda del Golem.
  Un altro storico, Alfredo Zazo, ha ipotizzato l'esistenza di un primo nucleo ebraico in Benevento già ai tempi della costruzione dell'Appia Traiana. Oltre al prestito ad usura, gli ebrei controllavano attività artigianali, come la produzione dei colori destinati all'industria tessile (tincta iudeorum)".
  Parte da qui la nota di Rito Martignetti, Presidente di Isidea che dopo una lunga analisi storica propone l'istituzione di un museo che testimoni la presenza ebraica a Benevento.
  La nota, prosegue: "Un codice provenzale del 1459 rivela la presenza a Benevento di una scuola ebraica di altissimo livello, con la produzione di libri poi venduti a Napoli.
  Nel XII secolo, il noto viaggiatore Beniamino da Tudela annotava la presenza in una giudecca, un quartiere preferenziale localizzato tra piazza Piano di Corte ed il complesso di Santa Sofia, di duecento ebrei "a capo dei quali vi erano rabbi Qalonimos, rabbi Zerah e rabbi Abraham".
  Obbligati dal 1459 a distinguersi col "signum" a seguito di una bolla di Pio II, gli ebrei rimasero in Benevento fino all'espulsione decretata nel 1569 da Pio V.
  La loro assenza fu molto avvertita sul piano economico, considerato che il 22 maggio 1617 i Consoli di Benevento si rivolsero in questi termini a papa Paolo V: "Si supplichi N. S. di far venire i giudei a questa Città, per utile di essa Città..." Ma non c'è traccia di quel ritorno. Gli ebrei avevano un loro cimitero, ipotizzato in contrada Cretarossa dopo il ritrovamento nel 1898 dell'epigrafe conservata al Museo del Sannio, nella quale si legge, in traduzione: "Nel secondo giorno della settimana, nel primo mese di Scebhat morì messer Samuele figlio di m. Isacco, l'anno 4913 della Creazione (corrispondente all'anno 1153), che la sua anima sia legata nel fascetto della vita! Amen S[ela]".
  Tre i luoghi cultuali di riferimento, come appare documentato nell'Obituarium Sancti Spiritus compilato nel 1198: S. Nazarius a Judeca (sull'area dell'attuale Piano di Corte), S. Januarius de Judeca (presso Porta Somma) e S. Stephanus de Judeca o S. Stephanus in plano Curie e, infine, Santo Stefano de Neophitis, cioè dei convertiti (nel vicolo di fronte alla basilica di S. Bartolomeo).
  Come ricorda il De Nicastro, il sacro edificio era a due navate con due altari e su quello maggiore era venerato il Legno della Croce e la Madonna della Pace, mentre sulla parete destra era collocato S. Stefano e su quella sinistra S. Vito (contro la rabbia). Danneggiata dal sisma del 1688, la chiesa fu ricostruita ad una sola navata con accanto un campanile, nel quale suonò una campana benedetta dall'Orsini nel 1695 e su cui erano scolpiti S. Stefano, S. Michele arcangelo e S. Bartolomeo.
  Il 6 luglio 1866 il Consiglio comunale deliberò di trasferire la predetta parrocchia nella basilica di S. Bartolomeo. Utilizzata prima come deposito e, recentemente, come negozio di cosmesi, la presunta sinagoga, oggi in desolato abbandono, ritorna all'attenzione grazie ad alcune foto postate su facebook dalla Delegazione FAI di Benevento e reclama una più degna destinazione d'uso.
  ISIDEA propone di trasformare quella spoglia navata in un Museo, che racconti a grandi linee la storia dimenticata della presenza ebraica in Benevento, con pannelli illustrativi, documenti e la ricollocazione di quell'epigrafe di messer Samuele, conservata solitaria al Museo del Sannio".

(Ottopagine, 7 agosto 2016)


La resa del kibbutz di frontiera. «C'è crisi, il collettivismo è finito»

Svolta capitalista nel Negev: gli ex hippies da compagni diventano soci: stipendi differenziati, case e terreni a prezzi di mercato, apertura verso chi viene da fuori.

di Davide Frattini

 
Il kibbutz di Kerem Shalom

KEREM SHALOM - La mensa comune è chiusa da febbraio e ha riaperto venerdì sera per la cena. L'ultima seduti insieme alla tavola con la tovaglia di plastica a fiori, il cibo portato da tutti, sulle pareti le foto di gruppo quando il gruppo era ancora numeroso. Prima di mangiare, gli abitanti di questo kibbutz che s'infila nell'angolo tra Israele, Egitto e la Striscia di Gaza hanno messo la loro ipotesi di futuro nell'urna di cartone.
   La maggioranza ha riconosciuto che la crisi economica si è trasformata in recessione degli ideali. Solo sei sui trentotto adulti hanno votato perché nulla cambiasse e Kerem Shalom (la Vigna della Pace) restasse socialista com'era nato quarantotto anni fa, quando una comitiva di anarchici e hippies era scesa nel deserto del Negev per farlo sbocciare con le speranze dei figli dei fiori. Gli altri - ammettono con un sorriso già nostalgico - hanno scelto di «essere pragmatici». Che vuol dire cambiare lo statuto e trasformarsi da compagni in soci: stipendi differenziati, case e terreni a prezzi (quasi) di mercato, apertura verso chi lavora fuori e vuole vivere qui senza dover condividere le mansioni o i guadagni. Il movimento che raggruppa i kibbutz ha dato il beneplacito, da simbolo e avanguardia della nazione si è trasformato nell'esecutore fallimentare del sogno cooperativo: su 270 villaggi agricoli solo 50 restano comunitari. Da ieri sono 49.
   La freccia punta verso il basso e indica la porta blindata del rifugio, l'insegna dice «Pub colpo di mortaio», qua sotto si possono condividere una birra e la paura. Nel resto di Israele la Protezione civile ha calcolato quanti secondi restino prima dell'impatto dei razzi da quando suonano le sirene d'allarme: 90 a Gerusalemme o Tel Avìv, 30 ad Ashdod sulla costa verso sud, 15 a Sderot. Kerem Shalom non rientra nelle tabelle ufficiali, anche perché vicino al nome dovrebbe riportare uno scoraggiante zero.
   Gaza sta a settanta metri di distanza dall'altra parte del muro di cemento tirato su davanti alle finestre delle case. Nei 59 giorni di eonflitto con Hamas tra il luglio e l'agosto di due anni fa le villette disabitate sono diventate le caserme dei soldati, ancora adesso due giovani sentinelle sorvegliano il cancello all'ingresso. La Vigna della Pace ha contraddetto il suo nome più di quanto i suoi fondatori avrebbero potuto immaginare: nel 2006 il caporale Gilad Shalit è stato rapito dagli estremisti palestinesi mentre era di guardia sul confine qua davanti, da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia con un colpo militare i ciclici scontri con Israele hanno sempre lasciato il segno sul villaggio come le schegge dell'esplosione nel muro del pollaio.
   «Il conflitto del 2014 è stato il colpo finale - racconta Rachel Elmkies mentre controlla che gli otto bambini dell'asilo non si picchino: abbiamo lasciato le nostre case per troppo tempo, al ritorno qualcosa si era rotto, avevamo perso il senso della comunità». Che - ammette - stava già scomparendo: «In tanti hanno approfittato dell'organizzazione socialista, lavoravano poco perché comunque guadagnavano la stessa cifra. Abbiamo smesso di riunirci, di ritrovarci insieme il venerdì sera per la cerimonia dello Shabbat. Siamo diventati come un sobborgo di periferia».
   Rachel è arrivata cinque anni fa perché ci credeva: cresciuta in un kibbutz voleva ritrovare lo spirito di solidarietà, il calore della comunanza, per lei una protezione verso l'altra guerra, quella economica combattuta da individualisti in un Paese costruito su ideali e necessità egualitari ma dove le disuguaglianze sociali sono sempre più profonde. Così per sopravvivere i villaggi cooperativi rincorrono la «nazione start-up» che li sta lasciando indietro: da incubatori di pioneri e fondatori della patria (nel primo parlamento i kibbutznik erano 26, in quello in carica sono scesi a zero) a «incubators» di aziende ipertecnologiche.
   Adesso Kerem Shalom spera di attrarre nuovi residenti. Deve prima raccogliere i fondi che permettano di tappare i buchi nel bilancio e nel sistema di irrigazione. «Perché il villaggio non sembri troppo desolato» spiega Zohar Ronen, incaricato di curare i giardini. «Perfino la sabbia del vicino è più verde» sta scritto tra l'ironico e il disperato sul cartello appeso dietro la scrivania.
   Il deserto e la polvere ricoprono tutto, anche l'entusiasmo di Evelina Zinchencho, che sui blocchi grigi alti nove metri del muro di protezione ha dipinto i personaggi di «Alice nel paese delle meraviglie»: nata in Ucraina, immigrata in Israele nel 1999, è arrivata dieci anni fa ispirata dai racconti sul comunismo della nonna. E attratta dalla vicinanza con il mare: solo dopo il trasloco ha capito che tra lei e il Mediterraneo passano il filo spinato e il corridoio di terra dove vivono quasi due milioni di palestinesi.

(Corriere della Sera, 7 agosto 2016)


Il programma «moderato»: «In Italia la poligamia è un diritto che ci spetta»

Il fondatore dell'Ucoii sbeffeggia il sindaco di Milano: «Meglio noi delle unioni omosex».

di Nino Materi

Chissà se c'è scritto anche sulla carta di identità. Professione: «islamico moderato». Tanto «moderato» da affermare esageratamente: «La poligamia è un nostro diritto civile». Ma dove, nei paesi arabi? «No, in Italia». Parola di Hamza Piccardo, fondatore dell'Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii) e padre di Davide Piccardo, figura di spicco del Coordinamento delle Associazioni Islamiche di Milano (Caim).
   Piccardo senior e Piccardo junior sono ormai dei «portavoce di Maometto» che i salotti televisivi si contendono, anche se i Piccardo's - più che integrasi alla nostra cultura - vorrebbero integrare noi a quella del loro amato Profeta. E non solo sul fronte religioso, ma pure su quello delle relazioni sentimentali. Così ieri il signor Hamza Piccardo ha detto la sua in tema di unioni civili. «Anche la poligamia è un diritto», il titolo del post su Facebook, accompagnato dalla fotografia del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, gran cerimoniere delle prime unioni omosex regolamentate dal ddl Cirinnà. «Una grande e storica giornata», l'ha definita un eccitatissimo Sala; decisamente più accorata la valutazione di Piccardo: «Io e milioni di persone non condividiamo la relazione tra persone dello stesso sesso». Il fondatore dell'Ucoii, più che le unioni gay, vede di buon occhio le unioni poligame: «Siamo una minoranza. L'intera società può accettarci tutti».
   Quando Piccardo parla di «intera società», si riferisce ovviamente all'intera società italiana dove, anche per colpa di una legislazione ambigua, la poligamia è, se non accettata, quantomeno tollerata.
   Secondo una ricerca condotta dall'Associazione donne marocchine in Italia, presieduta dall'ex parlamentare del Pdl, Suad Sbai, nel nostro Paese i bigami sono circa 20mila (non esistono statistiche ufficiali ma solo stime di riferimento), di cui la metà tra Lombardia e Veneto. Un esercito di «mogli di riserva» o «mogli di scorta» (senza nessun diritto per la nostra legge), frutto perverso di quel Corano e di quella Sharia che consente agli islamici di avere fino a 4 donne. Un fenomeno che - come dimostrato da una recente inchiesta del Giornale Controcorrente - sta crescendo in maniera esponenziale sull'onda dell'arrivo massiccio della popolazione musulmana. Un impatto cui lo Stato italiano mostra di essere inadeguato sotto il profilo normativo. La nostra giurisprudenza, in tema di poligamia e concubinaggio, ne è una prova clamorosa. La conferma viene dal giudice Dembele Diarra, ex vicepresidente della Corte penale internazionale: «In Italia è possibile essere poligami di fatto senza violare formalmente la legge, anche se essa sanziona il reato di bigamia». L'alto magistrato ha recentemente presieduto un summit fra esperti di diritto di famiglia di sette Paesi (Turchia, Italia, Francia, Mali, Bulgaria, Israele, Senegal). Le parole più sferzanti l'alto magistrato le ha riservate proprio al nostro Paese, dove «le donne sono vittime di questa gravissima forma di violenza che si chiama poligamia». Il motivo? «La vostra legge non è chiara e finisce col legittimare i matrimoni religiosi all'interno delle moschee: riti celebrati da imam privi di scrupoli che non richiedono nessun tipo di certificazione civile».
   Una procedura contra legem che Ali Abu Shwaima, ex imam della moschea di Segrate, «poligamo praticante» ( con due mogli e sette figli), non ha difficoltà a confermare: «Personalmente ho celebrato decine di matrimoni religiosi. Non mi sento assolutamente in colpa. Il problema è solo di voi italiani. La legge è infatti dalla nostra parte».
   Con la benedizione di Allah.

(il Giornale, 7 agosto 2016)

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Poligamia, omofobia e ipertrofia

di Marcello Cicchese

Sorprendente non è l'uscita di Piccardo sulla poligamia, ma il fatto che la cosa abbia sorpreso. Doveva essere evidente che dopo i matrimoni omosex sarebbe arrivata la richiesta di accogliere e ratificare la poligamia. "E' un nostro diritto civile", dice Piccardo, e quali sono gli argomenti per negarlo? Per quale motivo in un "matrimonio" civile così come oggi è giustificato si dovrebbe preferire il numero 2 rispetto ad altri numeri? Cittadini liberamente consenzienti potrebbero costituire "società matrimoniali" formate da un numero non fissato di maschi, femmine e generi misti, con la possibilità di liberi scambi sessuali e conseguente obbligo di allevamento dei prodotti umani che ne nascerebbero. Dunque non solo poligamia, ma anche poliandria o, come già detto, altre forme di convivenza organizzata a scopo di sessualità e procreazione.
   Tutto questo può sembrare provocatorio, ma resta il fatto che con le nuove forme di "unione civile" si sono gettati a mare tutti i validi motivi che potrebbero giustificare una limitazione dell'istituto matrimoniale ad una coppia formata da un uomo e una donna. Piccardo ha fatto presto ad accorgersene e ha colto la palla al balzo. Ha cominciato a tirare il sasso nello stagno, e sa che più avanti, dopo che si saranno esaurite le prime onde di contestazione, il discorso potrà essere ripreso in modo più tranquillo e operativo. Probailmente ha imparato il mestiere dalle lobby omofile, che per chiudere la bocca ai dissenzienti hanno cominciato a strillare all'omofobia. Piccardo potrebbe avere già pronta l'accusa di islamofobia da lanciare contro chi si oppone alla poligamia, dicendo che chi rifiuta l'ottenimento di questi "diritti civili" in realtà lo fa perché odia l'islam, cioè soffre di islamofobia, atteggiandosi naturalmente a vittima dell'intolleranza altrui, come fanno da tempo gli omofili che strillano all'omofobia.
   Piccardo insomma ha saputo fare bene il suo gioco, al contrario dei suoi oppositori che stolidamente hanno manifestato sorpresa, indignazione e come prima goffa reazione hanno portato come argomento la difesa della donna, che nella poligamia sarebbe abbassata nella sua dignità. A parte il fatto che Piccardo potrebbe portare ad esempio illustri patriarchi biblici della storia ebraica e cristiana come Giacobbe ed altri, qualcuno potrebbe chiedere: ma se la forma poligamica di matrimonio è così indecorosa per la donna, come mai non si cerca di scovare i casi di "poligamia di fatto" a quanto pare già largamente praticati nell'ambiente musulmano? Perché non sono ricercati, individuati, resi pubblici e condannati a norma di legge? Non si fa perché non si può. Perché ormai non si può più fare. Con le "unioni civili" si è rotta una diga e si sono distrutti strumenti che avrebbero potuto arrestare l'inondazione. La società occidentale se ne vanta, e con compiacimento si avvia a rimanere soffocata da quella fradicia ipertrofia che impropriamente chiama "libertà".

(Notizie su Israele, 7 agosto 2016)


Gratitudine delle vittime siriane. Tsahal cura tutti i feriti

di Daniel Reichel

 
Mentre a Rio la delegazione olimpica libanese impedisce con la forza a quella israeliana di salire sullo stesso autobus, in Israele i medici sono impegnati in queste ore a salvare la vita a diversi civili siriani, trasportati d'urgenza oltreconfine dopo essere rimasti vittima di scontri a fuoco nella città di Qunietra. L'operazione d'evacuazione, di cui si è data notizia in queste ore, è stata portata avanti la scorsa settimana: otto siriani, tra cui due bambini, sono stati trasferiti dal centro medico di Qunietra (che si trova a pochi chilometri da Israele) in un ospedale israeliano in Galilea. I feriti trasportati, ha raccontato Micky Almakis della squadra medica di Tsahal, sono arrivati in gravissime condizioni. Il centro medico da cui provenivano era stato investito da colpi di artiglieria pesante, presumibilmente - spiegano i media israeliani - sparati dalle truppe di Assad. "Abbiamo dovuto chiamare a rinforzo il team medico del Corpo corazzato che era nel Golan in quel momento per un esercitazione - spiega Almakis - Avevamo bisogno di integrare le forze mediche della brigata che è normalmente responsabile per la zona". "Sette squadre di medici, tra cui personale medico di alto livello sono state chiamati sul luogo. - il racconto del medico di Tsahal delle prime ore dell'operazione - I due bambini avevano ustioni su tutto il corpo e rischiavano di perdere la vita. Gemevano per il dolore. Ora, sono guarendo e sono sotto le cure del miglior personale medico a disposizione. La nonna dei due bimbi è a loro fianco, e ci ha ringraziato per ciò che abbiamo fatto". "I siriani feriti - ha aggiunto Almkis - erano sorpresi per la cura e la compassione che abbiamo dimostrato loro quando hanno attraversato il confine".
   Finora sono stati oltre 2500 i siriani curati in Israele dall'inizio del conflitto civile che sta martoriando il paese guidato dal dittatore Bashar al-Assad. Negli ultimi due anni, ad esempio, all'ospedale di Nahariya sono stati trattati oltre 500 pazienti, molti dei quali minori. "La maggior parte arriva qui in stato di incoscienza - spiegava Masad Barhoum, direttore generale del centro medico, che dista una decina di chilometri dal confine con il Libano - Si svegliano dopo qualche giorno e sentono una lingua diversa, vedono persone estranee. Quando riescono a parlare, chiedono 'dove sono?'. Sicuramente per loro è una shock scoprire di trovarsi in Israele". Da quando si è diffusa la notizia dello sconfinamento in Israele di alcuni feriti, Assad li ha pubblicamente accusati di collaborare con Gerusalemme (i due paesi sono ufficialmente nemici) e di esserne delle spie. Per questo, per proteggerne la sicurezza, non vengono pubblicati i loro nomi e resa nota la loro identità. "Quando ci sarà la pace, appenderà una bandiera israeliana al tetto della mia casa", ha dichiarato il nonno di uno dei piccoli pazienti. Nei pressi del confine siriano, Israele ha realizzato alcuni ospedali da campo per dare il primo soccorso a chi ne ha bisogno. Ci sono anche associazioni impegnate a fornire cibo e vestiario che vengono consegnati ai pazienti prima che tornino in patria".
   Secondo recenti studi, i paramedici del Golan impegnati ad aiutare i siriani hanno subito contraccolpi psicologici dopo aver visto e trattato i feriti della guerra che si sta consumando oltreconfine. "Abbiamo uno psicologo di Tsahal sempre a portata di mano, e come personale medico, esprimiamo tutto quello che passa per le nostre menti. - ha raccontato un paramedico al sito d'informazione ynet - Inoltre condividiamo i nostri sentimenti l'un con l'altro. Il sistema è di grande supporto".

(moked, 7 agosto 2016)


Brain Drain. Parola a Olga Vanoncini

È nata a Bergamo nel 1978. Professione: artista. Il grande passo, trasferirsi in un altro Paese - in Israele, a Tel Aviv -, l'ha fatto (anche) per amore. E ha trovato una realtà attiva e internazionale. Quella che racconta qui.

di Neve Mazzoleni

Olga Vanoncini

- Cosa ti ha portato a Tel Aviv?
  Mi sono trasferita nel settembre 2014, favorita da fattori personali: mio marito è israeliano. Ha giocato anche la curiosità di fare un cambiamento. Tel Aviv è una città internazionale, vivace nelle arti, dinamica nella società. È incorniciata da spiagge e piste ciclabili chilometriche, architetture coloniali, "bianco Bauhaus" e grattacieli, mercati a cielo aperto e boutique di design, una vastissima offerta di eventi artistici e culturali, una night life molto intensa e godibile. È uno stile di vita che mi piace.

- Quali opportunità ci sono per gli artisti?
  Ci sono istituzioni con ottimi e diversificati programmi di studio come la Bezalel Academy e lo Shenkar College. E poi organizzazioni come Artport, che gestisce residenze, e fondi internazionali come Artis. Ci sono diversi programmi di arti visive specifici per gli ambiti performativo, multimediale, sociale.

- Quale la differenza più evidente del sistema dell'arte israeliano rispetto a quello europeo e italiano?
  Israele è un Paese piccolo, quindi il suo sistema dell'arte è più localizzato. Ma è profondamente connesso col mondo, quindi l'arte si dilata quantitativamente e qualitativamente attraverso scambi e mobilità molto marcate. Rispetto all'Italia e all'Europa, Israele è basata realmente su multiculturalismo e multilinguismo.

 
Preston Scott Cohen - Museum of Modern Art Tel Aviv

 
Olga Vanoncini, Pop corn and chaos theory, performance, 2010

- Una breve descrizione del sistema dell'arte cittadino.
  Tel Aviv è la città più attiva in Israele. La scena è molto dinamica e in continua evoluzione. Nel 2013 ho pubblicato un reportage sul mio blog, mappandone i vari circuiti. Il museo di riferimento è il Tel Aviv Museum of Art, comprendente anche l'Helena Rubinstein Pavilion, con una programmazione eccellente, variegata e ricca di attività didattiche. C'è una fiera, Fresh Paint. Ci sono collezioni private che aprono i loro spazi, come SIP - The Shpilman Institute of Photography e Givon Art Forum. Riguardo alle gallerie, ci sono diverse aree di concentrazione, dalle gallerie storiche in Gordon Street e Ben Yehuda, a Rothschild Boulevard, alla zona sud della città con gallerie giovani talvolta indipendenti e un'alta concentrazione di studi d'artista. Centri di produzione indipendente sono CCA - The Center for Contemporary Art, Tel Aviv Artists' Studio, Artport. La municipalità di Tel Aviv supporta diverse manifestazioni come weekend di open studios e festival di interventi site specific in spazi particolari con un programma chiamato Loving Art Making Art e organizza mostre nello spazio storico Beit Ha'ir. Appena fuori Tel Aviv ci sono altri musei con una programmazione interessante, come Moby Bat Yam e Herzliya Museum of Contemporary Art.

- Come sei cambiata artisticamente?
  Da quando mi sono trasferita, la mia pratica si è concentrata sul processo e sull'esperimento. All'inizio del 2015 ho sviluppato un nuovo progetto, Crossing the Blue/Live, consistente in una parte testuale e in una parte visiva, unite in un processo site specific basato su un approccio multidisciplinare che unisce ricerca artistica, estetica, filosofia, scrittura, letteratura, performance, esperimento e altro. Anche l'educazione si intreccia alla mia pratica, dall'esperienza come docente di Fenomenologia delle Arti Contemporanee all'Accademia di Belle Arti Santa Giulia Brescia, all'esperienza nella didattica creativa nelle scuole in Israele. In particolare mi interessa la connessione tra educazione, processualità, esperimento, esperienza e multidisciplinarietà. Inoltre, come sempre nella quotidianità, sento il bisogno di costruire il mio cosmo allargato, e ciò si è concretizzato con Le Cosmos d'O/Home, design della casa/studio, e Le Cosmos d'O/Objects, oggetti quotidiani come lampade e borse.

- Consigli per chi vuole andare in Israele?
  Studiare in anticipo la lingua, la storia e la cultura, informarsi prima sulla scena dell'arte con uno screening delle realtà attive, fare viaggi preparatori documentati, essere aperti e curiosi di conoscere realtà differenti e discontinue rispetto al sistema dell'arte contemporanea (archeologia, scienza, hi-tech ecc).

- Mantieni contatti con l'Italia?
  Sono artist at large con The Blank Contemporary Art, di cui sono stata coordinatrice. Curo a distanza The Blank TR - Transit Message, insieme alla curatrice Claudia Santeroni, attuale coordinatrice dell'associazione. È un progetto trasversale in lancio nel 2016, basato su un protocollo analogico, un esperimento e un esercizio sulla ricerca di cosa significhi oggi mandare un messaggio, comunicare, transitare. È possibile che in futuro torni in Italia - mai dire mai - ma in questo momento non è nei miei piani.

(Artribune, 6 agosto 2016)


Israele avverte i tifosi del Celtic: "Niente bandiere pro-Palestina durante il match con l'Hapoel"

di Diego Megale

 Champions League Celtic Glasgow-Israele
  Le autorità israeliane hanno messo in guardia i tifosi scozzesi dall'esibire messaggi di supporto alla popolazione palestinese durante il playoff di Champions League contro l'Hapoel Be'er Sheva.
  Si prospetta più teso di quanto già non lo fosse il preliminare di Champions League tra Celtic Glasglow ed Hapoel Be'er Sheva. Gli Hoops infatti oltre a giocarsi il fondamentale accesso alla fase finale della coppa europea, disputeranno un partita parallela sugli spalti dove i loro tifosi saranno ben monitorati dalle autorità israeliane per il loro risaputo sostegno alla causa palestinese.
  La gara di andata si giocherà a Beersheba, a sole 35 miglia da una delle zone più instabili e sanguinose del pianeta ovvero la Striscia di Gaza. "Io non credo che sarà permesso ai tifosi di esibire bandiere a favore della Palestina - ha detto un portavoce dell'ambasciata israeliana a Londra - Non capisco inoltre per quale motivo uno scozzese debba volare con addosso una bandiera palestinese".
  Ricordiamo che due anni fa il Celtic ricevette una multa da 16 mila sterline da parte dell'UEFA per il comportamento dei propri tifosi, rei di aver esposto simboli palestinesi durante un match contro gli islandesi del Reykjavik, violando così la norma che vieta qualsiasi riferimento alla politica dentro gli stadi.
  Un ulteriore avvertimento è arrivato dall'Ufficio degli Esteri israeliano: "La situazione di sicurezza è tesa ed imprevedibile, ci sono episodi di violenza in Israele, Cisgiordania, Tel Aviv, Gerusalemme, nella zona del porto di Damasco oltre a frequenti scontri tra manifestanti e polizia. C'è il rischio che i turisti o gli astani possano essere coinvolti in incidenti".

(UK Premier, 6 agosto 2016)


Israele - Menzionato un eroe biblico su un vaso di argilla

Era il comandante della 'unità di elite' di re Davide

L'iscrizione con il nome di Eshbaal Ben Bada' sul vaso vecchio di tremila anni scoperto a Kiafa in Israele
GERUSALEMME - Al termine di anni di paziente ricostruzione dei cocci di un vaso di argilla vecchio di tremila anni, ricercatori israeliani si sono adesso trovati di fronte il nome di un eroe biblico: Eshbaal Ben Bada', il comandante di una unita' di elite composta da '30 coraggiosi', fedelissimi al re Davide nelle sue lotte con i filistei. La scoperta dei frammenti del vaso, diverse centinaia, era avvenuta quattro anni fa nella localita' di Kiafa (la antica Shearaim), nella valle di Elah (fra Gerusalemme e Ashqelon) durante scavi condotti dagli archeologi Yosef Gurfinkel e Saar Ganor. Ma solo adesso, scrive il quotidiano Makor Rishon, e' stato possibile decifrare il nome che vi compariva: appunto Eshbaal Ben Bada', che a volte viene indicato nella Bibbia anche col nome di Ishbaam Ben Hakhmoni.
Dopo aver presidiato con successo la strategica fortezza di Shearaim, Eshbaal - precisa il giornale - avrebbe fatto una folgorante carriera nell'apparato militare di re Davide , fino ad ottenere il comando di 12 mila uomini.

(ANSAmed, 5 agosto 2016)


Cosa si nasconde dietro le Ong "amiche" dei terroristi islamici

Molte organizzazioni umanitarie islamiche hanno legami con i gruppi jihadisti. Ecco quelle attive in Italia.

di Giuseppe De Lorenzo
Sono numerose le Ong islamiche che appoggiano la guerra santa dei terroristi contro l'Occidente. Non è un mistero: dietro lo scudo degli aiuti umanitari spesso si nasconde il sostegno al jihadismo internazionale.
  Vale in tutto il mondo: amicizie con i Fratelli Musulmani, appoggio ai "ribelli" siriani e sostegno alla causa palestinese. Nemmeno l'Italia è immune a questo cancro.
  A destare sospetti, infatti, sono due Ong attive nel Belpaese: la Onsur-Italia (Campagna mondiale di sostegno al popolo siriano) e la Ossmei (Organizzazione Siriana dei Servizi Medici di Emergenza in Italia? ). Oltre a lavorare quasi sempre assieme, le due Ong condividono un particolare non secondario: nei loro stemmi compare la bandiera dei "ribelli siriani". Quelli, per intenderci, che si oppongono ad Assad e che nei giorni scorsi hanno sgozzato un bambino di 11 anni accusandolo di essere una spia.

 I legami della Onsur con i Fratelli Musulmani
  Partiamo dai legami delle Ong con i Fratelli Musulmani, il movimento islamico bandito da Emirati Arabi, Arabia Saudita e Egitto con l'accusa di essere un'organizzazione terroristica. Il presidente della Onsur è Ahmad Amer Dachan, un italo-siriano molto attivo sui social network. Se non si tratta di un caso di omonimia, suo padre è Nour Dachan, presidente emerito dell'Ucoii, l'Unione delle Comunità Islamiche Italiane che subisce l'influenza dei Fratelli Musulmani. La sorella invece è stata fidanzata con Ammar Bacha, uno dei jihadisti di Cologno Monzese partiti nel 2012 per combattere in Siria contro Assad.
  A documentare la vicinanza tra la Onsur e la Fratellanza Musulmana ci sarebbero poi alcune foto presenti nel profilo Facebook di Dachan. In un'occasione si è fatto immortalare in un caloroso abbraccio con un volontario della Islamic Relief. Nulla di strano, se non fosse che questa Ong (attiva in molti Paesi e con sede a Londra) è stata accusata dal governo di Israele di aver sostenuto la cellula terroristica che ha rapito tre studenti israeliani nel 2014. Tra i dirigenti di Islamic Relief, inoltre, spiccano nel tempo individui come Ibrahim El-Zayyat, Essam el-Haddad e Ahmed al-Rawi a loro volta rappresentanti autorevoli della Fratellanza.
  Se il quadro non fosse abbastanza chiaro, il puzzle si conclude con altri due tasselli: il primo è una foto che ritrae Dachan ad un gazebo a sostegno di Mohamed Morsi, l'ex presidente egiziano esponente dei Fratelli Musulmani; il secondo, un evento organizzato dal Nour Dachan nel 2015 per conto dell'Ucoii in cui - come ha ricostruito Valentina Colombo - avrebbe invitato a parlare membri della Fratellanza.

 Le amicizie della Onsur con i jihadisti palestinesi
  Come se non bastasse, lo scorso ottobre Ahmad Amer Dachan si scatta un selfie sotto la sede della Abspp, l'Associazione Benefica di Solidarietà con il Po?polo Palestinese. Questa Onlus ha sede a Genova e - per ammissione del suo stesso fondatore, Mohammad Hannoun - con le donazioni raccolte ha più volte foraggiato le famiglie dei kamikaze palestinesi. Beneficienza per sostenere il terrorismo.
  Non è tutto. Un'altra foto imbarazza le due Ong. Sui pacchi degli aiuti umanitari diretti in Siria, i loghi della Onsur e della Osmei vengono applicati a fianco di quelli della Insani Yardim Vafki (IHH), una Ong islamica turca. La IHH è considerata dai servizi segreti di molti Paesi vicina ad Al Quaeda e Hamas. Oltre ad Israele, che l'ha inserita tra le organizzazioni terroristiche, anche il governo tedesco ha riscontrato legami con i jihadisti. Nel 2010 l'allora ministro dell'Interno, Thomas de Maiziere, disse senza peli sulla lingua: "Sotto la copertura degli aiuti umanitari la IHH appoggia finanziariamente (...) associazioni legate ad Hamas, responsabile di azioni di violenza contro Israele e gli israeliani".

 La Ossmei e il traffico di migranti
  Per quanto riguarda la Ossmei, non sono pochi gli episodi di dubbia legalità. Nel 2013, El Debuch Ahmad, 51enne siriano, è stato arrestato con l'accusa di essere uno "scafista di terra". La polizia di Reggello (Firenze) gli sequestrò 3600 dollari mentre era in compagnia di due clandestini siriani, soldi riconducibili al traffico di migranti. Interrogato, non negò di "essere responsabile dell'associazione Ossmei".
  Ecco. Questa è la realtà delle Ong islamiche che operano in Italia. Visto il velo di mistero che le ricopre ed appurati i loro legami con i Fratelli Musulmani, forse le attività che conducono meriterebbero maggiore attenzione da parte del governo. Ma al momento tutto tace.

(il Giornale, 5 agosto 2016)


Palestina: chi controlla i tunnel nella Striscia di Gaza?

Hamas e Islamic Jihad puntano sulle gallerie sotterranee per sferrare attacchi in territorio israeliano. Tel Aviv risponde alla minaccia costruendo un muro lungo sessanta chilometri.

di Rocco Bellantone

I tunnel sotterranei nella Striscia di Gaza non sono più sotto il monopolio esclusivo di Hamas. Ridotte in buona parte in polvere dalle forze armate israeliane dopo l'ultimo conflitto dell'estate del 2014, le gallerie rimaste in piedi per il traffico di beni commerciali e il piccolo contrabbando sono ormai circa una ventina. A queste se ne aggiunge un numero imprecisato destinato, invece, al traffico di armi.
   Negli ultimi mesi l'"impero sotterraneo" di Hamas, arrivato a toccare quota 2.500 tunnel nel 2007 quando l'organizzazione ha assunto il potere nella Striscia, è stato però sensibilmente messo in discussione da Islamic Jihad, il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina, il secondo gruppo militante palestinese per numero di sostenitori e forza militare.
 
"Miliziani" di Islamic Jihad a Khan Yunis nella Striscia di Gaza
   Secondo l'osservatorio di affari mediorientali Al Monitor sarebbero almeno tre gli indizi che nell'ultimo mese hanno dimostrato le ambizioni in tal senso da parte delle Brigate Al-Quds, il braccio militare di Islamic Jihad. Il 10 luglio scorso, le Brigate Al-Quds per la prima volta hanno rilasciato una dichiarazione con cui hanno celebrato la morte di un loro membro, deceduto in seguito al crollo di un tunnel in fase di costruzione nella parte settentrionale della Striscia.
   Successivamente, il 18 luglio, media locali palestinesi hanno riferito della scomparsa di un altro membro delle Brigate Al-Quds, morto sempre a causa del crollo di un tunnel a est di Khan Yunis, località situata nella parte meridionale della Striscia. Al-Quds ha parlato di un "preparation martyr", termine usato per indicare i suoi membri morti durante gli addestramenti militari, nel testare delle armi oppure, come in questo caso, mentre scavano delle gallerie sotterranee.
   Infine, in un discorso pronunciato in occasione dell'ultima festa chiamata "Bond of Blood Festival", tenutasi nella città di Rafah, a sud di Gaza, in onore delle vittime del conflitto con Israele del 2014, il portavoce delle Brigate al-Quds ha rivolto un messaggio a tutti i palestinesi detenuti nelle carceri israeliane dicendo loro che verranno scavati "tunnel per liberarli" e per combattere "l'occupante israeliano".
   La risposta di Hamas non si è fatta attendere. Attraverso il suo braccio militare, le Brigate Ezzedin al-Qassam, l'organizzazione terroristica ha dichiarato che i suoi miliziani starebbero costruendo 10 chilometri di gallerie al mese per sferrare nuovi attacchi contro le forze di sicurezza israeliane.
   Secondo Ibrahim Habib, esperto di questioni di sicurezza in Palestina e Israele, sul fronte dei tunnel "Islamic Jihad sta cercando di tenere il passo con l'ala militare di Hamas. Dalla fine della guerra del 2014 il ritmo degli scavi per la costruzione di nuove gallerie è aumentato da entrambe le parti".
   Considerata l'impossibilità di contrastare Israele con il lancio di razzi - come hanno dimostrato gli attacchi sistematicamente intercettati e neutralizzati dal sistema di difesa missilistico Iron Dome nel 2014 - è per le gallerie sotterranee che dunque passano le residue speranze tanto di Hamas quanto di Islamic Jihad di oltrepassare le linee nemiche, effettuare blitz improvvisi e rapire soldati israeliani da proporre poi in cambio di prigionieri palestinesi.

 Il muro di Israele
  Israele sa bene che la più grande minaccia per la propria incolumità sono i tunnel. Per tale motivo, dopo recenti segnalazioni di nuove gallerie, il governo ha accelerato la definizione di un progetto per la costruzione di un muro in cemento armato lungo i sessanta chilometri di confine che separano la Striscia dai territori israeliani, profondo decine di metri: costo complessivo 2,2 miliardi di shekel israeliani (circa 576 milioni di dollari), termine dei lavori previsto entro i prossimi tre anni.
   Israele è pienamente consapevole del fatto che questo muro non risolverà definitivamente il problema delle gallerie. Ma è un modo per mettere ancora più pressione sui territori palestinesi e prevenire ogni possibile attacco. In attesa che i lavori si completino, lungo il confine sud-orientale con la Striscia negli ultimi mesi altri tunnel sono stati fatti saltare in aria. E a Gerusalemme poco importa se a costruirli siano stati i militanti di Hamas o quelli di Islamic Jihad.

(LookOut News, 6 agosto 2016)


Europa, mani in alto!

Eserciti "grassi e obsoleti" che sembrano ''Medici senza frontiere con le pistole". Il disarmo di un continente che ha sostituito la guerra con un messaggio in codice: "Ci arrendiamo".

di Giulio Meotti

Gideon Rachman avverte: "Un' Europa disarmata affronterà da sola il mondo". I paesi della Nato stanno smobilitando. "Non sono sicuro che la missione dei mili- tari sia quella di com- battere" (ex porta- voce del ministero della Difesa belga). La Svezia ha un esercito in grado di difendersi "in un unico luogo al massimo per una settimana". L'esercito della Germania ha elicotteri che non possono volare e carri armati che non possono sparare.

Nel 1970, Mogens Glistrup, un politico di primo piano in Danimarca, divenne famoso per aver suggerito che il suo paese sostituisse le forze armate con un messaggio registrato in russo: "Ci arrendiamo". Glistrup non è più fra noi, ma il suo approccio alla difesa sembra guadagnare terreno in tutta Europa. Come ha scritto il premio Pulitzer Bret Stephens sul Wall Street Journal, "i membri dell'Unione europea hanno speso più di duecento trilioni di dollari l'anno per la difesa, messo in campo più di duemila aerei da combattimento e cinquecento navi da guerra, impiegando 1,4 milioni di personale militare. Più di un milione di agenti di polizia sono a piedi nelle strade d'Europa. Eppure, di fronte alla minaccia islamista, il continente sembra impotente".
   Il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato di recente una inchiesta dal titolo: "Le forze disarmate della Germania". Il Guardian ha rincarato la dose: "Dimenticate la Wehrmacht, presto non ci sarà più alcun esercito tedesco". Politico Europe ha titolato sulla "ingloriosa Bundeswehr". "Non sparate per favore, siamo tedeschi", ha sintetizzato l'Economist.
   Così, mentre l'allora ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, prometteva di fare della Germania una "leader della pace e del disarmo", sui media americani uscivano rapporti sul fatto che i soldati tedeschi non potevano neppure sparare durante la missione in Afghanistan.
   "Un'Europa disarmata affronterà da sola il mondo", ha scritto Gideon Rachman sul Financial Times. Dal 2008, in risposta alla crisi economica, la maggior parte dei grandi paesi europei ha tagliato le spese destinate alla difesa del 15 per cento. E la maggior parte dei membri dell'Alleanza atlantica sta smobilitando: la Germania è passata da 545 mila militari nel 1990 a 180 mila, mentre la Francia è scesa da 548 mila a 213 mila. Un paragone con la Russia di Putin? Mosca ha aumentato del 79 per cento la spesa militare in un decennio.
   La Royal Air Force inglese oggi ha solo un quarto del numero di aerei che aveva nel 1970. I cacciatorpedinieri e le fregate della Royal Navy sono 19, rispetto ai 69 del 1977. L'esercito britannico è previsto che si riduca a 82 mila soldati, il numero più basso dai tempi delle guerre napoleoniche. Così tanti soldati hanno lasciato l'esercito britannico negli ultimi cinque anni che il Regno Unito è ormai a corto di 3.400 operativi. Complici le guerre in Afghanistan e in Iraq che hanno rallentato gli arruolamenti. Nel l990 la Gran Bretagna aveva 27 sottomarini (esclusi quelli che trasportano missili balistici) e la Francia ne aveva 17. I due paesi ormai ne hanno sette e sei rispettivamente. Eppure, Gran Bretagna e Francia sono comunemente considerate come le uniche due nazioni europee che ancora prendono sul serio la difesa.
   La Spagna devolve meno dell'un per cento del suo pil alle spese militari. E gran parte della spesa militare serve a pagare gli stipendi. Come in Belgio, dove il 75 per cento della spesa destinata alla difesa va a coprire i salari dell'esercito. Molte delle forze della Nato oggi sono scarsamente equipaggiate perché gran parte del denaro viene speso per retribuzioni e benefici. Mentre gli Stati Uniti spendono il 36 per cento del loro bilancio della difesa per le buste paga, la maggior parte dei membri della Nato in Europa vi destina una media del 65 per cento.
   Durante la guerra in Iraq, l'allora segretario generale della Nato, George Robertson, scosse non poco il World Economie Forum con una dichiarazione: "Il problema in Europa è che ci sono troppe persone in uniforme e troppo pochi di loro in grado di entrare in azione".
   Il Belgio, ad esempio, impiega centinaia di barbieri militari, musicisti e altro personale inutile e che non è suscettibile di essere chiamato in battaglia. Eppure, il Belgio non ha il denaro per sostituire gli elicotteri. I funzionari statunitensi dell'antiterrorismo sono a tal punto frustrati con l'incapacità del Belgio di affrontare cellule terroristiche all'interno che un alto ufficiale dei servizi segreti degli Stati Uniti ha paragonato la forza di sicurezza belga a dei "bambini". Un ex portavoce del ministro della Difesa belga, Andre Flahaut, ha lasciato intendere perché sia un problema soprattutto ideologico: "Non sono sicuro che la missione dei militari sia quella di combattere". Il Belgio, pur finito sotto attacco terroristico a Bruxelles lo scorso marzo, vede il suo ruolo militare principalmente focalizzato sulle operazioni di "mantenimento della pace". I soldati messi a guardia delle sinagoghe di Bruxelles dopo l'uccisione di quattro ebrei al Museo Ebraico non avevano proiettili nei loro fucili. Uno show.
   Stufo di quanto ha visto, il generale Joseph Ralston, ex comandante supremo della Nato per l'Europa, ha così definito gli eserciti europei: "Grassi, obsoleti e ridondanti". Nel 2011 la prima campagna militare della Nato in Libia non guidata dagli americani aveva già mostrato i limiti della potenza militare del continente. "La mancanza di investimenti per la difesa in Europa renderà sempre più difficile per l'Europa assumersi la responsabilità per la gestione delle crisi internazionali oltre i confini europei", ha detto il segretario generale della Nato fino a due anni fa, Anders Fogh Rasmussen.
   Non a caso questa settimana il governo libico si è rivolto agli Stati Uniti per bombardare le postazioni dello Stato islamico. In Libia, 250 aerei compivano 150 missioni al giorno, contro le ottocento missioni al giorno durante la campagna Nato in Kosovo nel 1999. Nel 2011, mentre tutte le 28 nazioni della Nato avevano approvato la missione in Libia, meno della metà vi presero parte. "Le capacità militari semplicemente non ci sono", disse il capo del Pentagono Robert Gates.
   Venti anni fa, alla fine della Guerra fredda, gli alleati europei contribuivano per un terzo alle spese per la difesa della Nato. Oggi solo per il venti per cento. La Germania, la più grande economia europea, si rifiutò di partecipare alla missione libica. "Le nazioni hanno diverse priorità", disse il tenente colonnello Holger Neumann, un portavoce del ministero federale tedesco della Difesa. La Germania deve affrontare ben più gravi "sfide economiche".
   I Paesi Bassi oggi investono nella difesa appena 1'1,15 per cento del loro pil, tanto che Rob de Wijk, un olandese consulente della difesa, ha riferito al Parlamento dei Paesi Bassi che gli olandesi ormai sono solo degli "scrocconi internazionali". Per questo agli americani l'Europa interessa sempre meno. Mentre la spesa americana per la difesa europea è scesa del 20 per cento negli ultimi dieci anni, la spesa per la difesa del Pacifico è aumentata quasi del 200 per cento. L'anno scorso, per la prima volta da secoli, le nazioni asiatiche hanno investito in potere militare più dei paesi europei.
   L'11 marzo del 2004, 192 persone vennero uccise e 1.400 ferite in una serie di attacchi terroristici a Madrid. Tre giorni più tardi, il leader socialista spagnolo José Luis Rodriguez Zapatero venne eletto primo ministro. Appena 24 ore dopo il giuramento, Zapatero ordinò alle truppe spagnole di lasciare l'Iraq "il più presto possibile". Una vittoria monumentale per l'islam radicale. Da allora, l'Europa ha schierato i propri boots on the ground non per combattere il jihadismo all'estero, come nel caso dell'Isis, ma all'interno dei paesi europei per proteggere monumenti e civili.
   "Opératìon Sentinelle" è l'operazione con cui l'esercito francese "protegge" sinagoghe e gallerie d'arte, scuole materne, redazioni di giornali, moschee e stazioni della metropolitana: è la prima operazione militare su vasta scala all'interno della Francia. Un'operazione che, per la prima volta dalla fine della Guerra fredda, coinvolge ben la metà di tutti i soldati francesi attualmente impiegati in operazioni militari. E di questa metà, metà a sua volta è impegnata a proteggere 717 scuole ebraiche. La ritirata francese è immortalata dall'immagine della polizia sotto la sede di Charlie Hebdo, la polizia che fugge sotto il fuoco dei terroristi islamici.
   Un'analoga proporzione troviamo in Italia: degli 11 mila soldati che attualmente risultano impegnati nelle varie missioni militari, infatti, più della metà è utilizzata nell'operazione "Strade sicure" nelle nostre città. Questi soldati ci garantiscono sicurezza, o almeno una sua parvenza, ma il fatto che siano impegnati quasi esclusivamente a protezione di civili e monumenti dovrebbe farci riflettere. Come dovrebbe farci riflettere che utilizziamo l'esercito, vantandocene, in operazioni di salvataggio dei migranti in mare.
   Un anno fa, Sir Nigel Essenhigh, già capo della marina inglese, scrisse un articolo sul Telegraph in cui paragonava la difesa dell'Inghilterra di oggi a quella durante l'ascesa del nazismo: "Alla fine degli anni Venti e ai primi anni Trenta, la Gran Bretagna era avvolta dalla ripugnanza per gli orrori della Grande guerra. Nonostante la crescente minaccia del nazismo, la Gran Bretagna dava per scontato che non sarebbe stata in guerra nel prossimo decennio. Le difese della nazione furono indebolite progressivamente". Oggi, scrive Essenhigh, ci sono molte somiglianze, basta vedere "le risposte deboli per eventi in medio oriente, come in Libia, in Siria e ancora una volta in Iraq, così come di fronte alla minaccia posta dallo Stato islamico". Poi l'appello: "Dobbiamo dimostrare ai potenziali nemici che la Gran Bretagna continuerà a essere un paese che non sarà costretto alla sottomissione attraverso la debolezza militare". Nel 1958 un noto scrittore politico americano che stava svolgendo un'inchiesta sulla situazione europea per l'Herald Tribune, Joseph Alsop, rivolse al pacifista Bertrand Russell questa domanda: "E se i sovietici non si lasciassero indurre, in nessun modo, a un accordo per il disarmo nucleare controllato?" "In tal caso - rispose il premio Nobel sarei personalmente favorevole al disarmo unilaterale". Mezzo secolo dopo, la profezia di Russell sembra inverarsi.
   Fino a un paio di decenni fa, la Svezia era una potenza militare. Poi, una serie di decisioni basate sulla convinzione che le guerre in Europa sono "una cosa del passato", ha praticamente lasciato la Svezia senza difese. Secondo il comandante supremo della Svezia, Sverker Gòransson, il paese scandinavo oggi è in grado, nel migliore dei casi, di "difendersi in un unico luogo solo per una settimana".
   Il 16 aprile 2015, la televisione pubblica svedese (Svt) ha mandato in onda il documentario "Cosa è successo alla difesa?". Rispetto al 1985, oggi la Svezia ha il sei per cento delle unità da combattimento che aveva allora, cento aerei anziché duecento, metà della marina di una volta. L'Amministrazione Obama ha accusato i leader europei di mettere in pericolo la pace proprio a causa del 10- ro crescente pacifismo e della riluttanza a investire nella difesa. L'ex segretario alla Difesa degli Stati Uniti Gates ha detto che sta diventando sempre più difficile per Stati Uniti ed Europa "combattere insieme". In una riunione a Washington di funzionari della Nato ed esperti di sicurezza, Gates ha denunciato che "la pacificazione dell'Europa" è andata troppo lontano. Mentre le truppe ucraine stavano combattendo i separatisti filorussi ai confini orientali dell'Europa, un battaglione tedesco prendeva parte a una esercitazione Nato in Norvegia. Non avevano armi con sé, ma l'esercito tedesco, la Bundeswehr, ha pensato bene cosa fare: i soldati hanno preso un manico di scopa, lo hanno dipinto di nero e lo hanno usato come arma. Vignettisti e comici hanno avuto una giornata campale nello sfottere l'ex Wehrmacht.
   La Bundeswehr possiede elicotteri che non possono volare, e carri armati che non possono sparare. Il ministro della Difesa, Ursula von der Leyen, ha assunto esperti indipendenti, guidati dalla società di consulenza Kpmg, per indagare alcuni dei grandi problemi dell'esercito. Gli esperti si sono ripresentati con una lista di 140 questioni gravi da risolvere.
   Come scrive Konstantin Richter della Zeit, "l'esercito tedesco zoppica anche per la sua mancanza di sostegno pubblico. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, i tedeschi si sono trasformati in veri e propri pacifisti, godendo del loro ruolo a margine di conflitti globali. La maggioranza del pubblico tedesco si oppone a missioni di combattimento e sostiene la Bundeswehr come un'organizzazione quasi umanitaria, una sorta di Medici senza frontiere con le pistole". Definizione che potrebbe essere adottata per la maggioranza degli eserciti europei.
   In Canada, le basi militari sono ora utilizzate per ospitare i migranti e il premier Justin Trudeau prima ha fermato gli attacchi contro l'Isis e poi si è rifiutato di unirsi alla coalizione contro di esso. Il terrorismo non è una priorità per Trudeau, non come "l'uguaglianza di genere", il riscaldamento globale, l'eutanasia e le ingiustizie commesse contro gli indiani nativi.
   Sono le nuove "regole di ingaggio" ideologiche dell'occidente.

(Il Foglio, 6 agosto 2016)


Se nello spot elettorale di Fatah ci sono gli israeliani ammazzati

di Davide Frattini

Essere un partito di lotta e di governo rischia di accartocciare le convinzioni. «Abbiamo ammazzato 11 mila israeliani, abbiamo sacrificato 170 mila martiri». Una delle tante pagine ufficiali del Fatah ha scelto di elencare questi «successi» per attrarre i palestinesi indecisi che fra due mesi votano alle elezioni municipali. Il movimento fondato da Yasser Arafat ha voluto sorpassare in corsia del terrore i fondamentalisti di Hamas, avversari politici. Che i numeri siano iperbolici e lontani dalla realtà è meno sconcertante della decisione di esaltare la morte dei «nemici» o la propria nel tentativo di eliminarli — e di scommettere che possa conquistare nuovi sostenitori. Il presidente Abu Mazen, che da Arafat ha ereditato anche la guida della fazione, ripete di voler riaprire i negoziati di pace congelati (ormai ibernati) dall'aprile del 2014. Ai diplomatici stranieri spiega di essere contro la violenza: è quello che gli riconosce l'intelligence militare israeliana, negli undici anni al potere ha dato ordine ai suoi poliziotti di contrastare gli attacchi. Poche settimane prima della seconda Intifada, Arafat aveva proclamato in un discorso da Ramallah «milioni di martiri marceranno su Gerusalemme» per poi delineare in un editoriale sul «New York Times» la sua visione della convivenza tra i due popoli. Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, accusa anche il successore Abu Mazen di parlare due lingue: l'inglese della conciliazione e l'arabo dell'ostilità intransigente. Manifesti come quello pubblicato su Facebook — tradotto dall'organizzazione Palestinian Media Watch che monitora le dichiarazioni anti-semite o anti-israeliane — possono solo approfondire il sospetto reciproco.

(Corriere della Sera, 6 agosto 2016)


Perché, contro gli islamisti, l'Europa rischia di fare la fine degli zulù

di Emanuel Segre Amar*

Da anni, oramai, l'Europa è sconvolta da attacchi scatenati dai terroristi islamici.
Assistiamo oggi ad una presa di coscienza del pericolo da una parte della popolazione che tuttavia, non trovando nei partiti tradizionali nessun politico attento alla situazione reale, finisce col seguire le parole di altri personaggi che si dichiarano pronti a guidarci alla riscossa. Ma costoro sono, molto spesso, interessati soprattutto a fare il pieno di voti per prendere il potere.
   Del tutto insufficiente è stata, nel passato, l'attenzione a quanto i nostri nuovi nemici (quando si parla apertamente di guerra, anche se questa è asimmetrica, non bisogna aver paura ad usare tale parola, altrimenti diventa inutile qualsiasi discorso) vanno ripetendo da lungo tempo; i pochi che, come Oriana Fallaci, seppero ascoltare e capire, ancora oggi sono spesso vituperati.
   Il dittatore algerino Boumedienne, nell'intervento che fece, circondato da tutti gli onori, nel 1974, alle Nazioni Unite, disse: "Presto irromperemo nell'emisfero Nord. E non vi imporremo da amici, no. Vi irromperemo per conquistarvi. E vi conquisteremo popolando i vostri territori coi nostri figli. Sarà il ventre delle nostre donne a darci la vittoria." Analoga previsione la fece successivamente Mohammed Badie, importante personaggio della Fratellanza Musulmana in Egitto. Evidentemente il progetto, oggi in atto, era già da tempo ben delineato.
   Quando la basilica della Natività di Betlemme, occupata nel 2002 dai terroristi palestinesi, venne finalmente liberata, sui muri mostrava la seguente scritta: "Prima quelli del sabato, poi quelli della domenica". Questa stessa frase venne ripetuta infinite volte nel mondo arabo, e non erano vuote parole; oggi, infatti, viene messa in pratica anche la seconda parte di quello che è un progetto ben studiato e preparato, nella cecità di coloro che, conoscendolo (non potevano non conoscerlo) non si sono minimamente preoccupati. Anzi!
   Lo stesso dittatore Gheddafi, poche settimane prima di essere ucciso, nella sua ultima intervista rilasciata ad un quotidiano italiano spiegò chiaramente che l'eventuale fine del suo regime, definito "governo stabile", avrebbe lasciato il territorio nelle mani delle bande di Bin Laden (non c'era ancora ISIS, ma poco cambia davvero), ed il Mediterraneo sarebbe "diventato un mare di caos". Esattamente quello che tutti quanti vediamo da allora, ogni giorno.
   L'aspirante califfo Erdogan sembra aver ben congegnato, con machiavellica genialità, il modo per imporre definitivamente sulla Turchia l'Islam più vicino alle posizioni dei Fratelli Musulmani, e addirittura, parole sue, segue l'esempio di Hitler, ma l'Europa sembra reagire solo con vacue parole, non potendo fare altro, priva oramai della volontà e dei mezzi militari necessari per contrastarlo (più o meno la stessa situazione della Francia invasa, nel '39, dalle truppe naziste enormemente più moderne e preparate).
   Il filosofo francese Daniel Sibony ricordava recentemente l'episodio degli Zulù che, volendo cacciare un manipolo di soldati inglesi che occupavano un fortino in Sud Africa, li circondarono ma, prima di tirare le frecce con gli archi, seguendo tradizioni antiche, si inchinarono davanti al nemico, permettendogli, quindi, di sparare per primo. Gli Zulù sono così stati annientati per sempre.
   L'Europa oggi sta commettendo lo stesso errore, ma quanti se ne rendono conto?
   Cerchiamo almeno di descrivere la situazione nella sua realtà e speriamo che, rapidamente, possa apparire all'orizzonte un novello Churchill.

* Presidente Gruppo Sionistico Piemontese

(Il Foglio, 5 agosto 2016)


Iraq - Distrutta la sede della Corte della sharia istituita dallo Stato islamico

BAGHDAD - Il ministero della Difesa iracheno ha annunciato che la sede della Corte della Sharia istituita a Mosul dallo Stato islamico, dopo l'occupazione della città nel 2014, è stata distrutta. In un comunicato l'ufficio stampa del ministero della Difesa di Baghdad ha fatto sapere che "L'aviazione militare irachena ha condotto un raid contro lo Stato islamico, distruggendo la Corte della Sharia", istituzione giudiziaria creata per l'applicazione della legge islamica. "Il raid è stato condotto sulla base di informazioni di intelligence precise ed ha anche distrutto una fabbrica di esplosivi", aggiunge la nota.

(Agenzia Nova, 5 agosto 2016)


La patria del Forex trading (Israele) stringe le maglie dei controlli. E i broker tremano

  Il sottobosco della piazza finanziaria di Tel Aviv da un paio d'anni è in subbuglio perché l'ISA (lsraeli Securities Authority, omologa della Consob italiana), forte della rinnovata normativa locale, sta mettendo sotto forte pressione le società finanziarie che offrono servizi di trading online su Forex e CFD. E questo dopo aver vietato tassativamente nel marzo di quest'anno il trading sulle opzioni binarie "per le caratterisitiche di questo servizio più simile a scommesse"; un'attività che - scrive ancora l'ISA - "colpirà negativamente non solo tutti i clienti (inclusi gli investitori sofisticati) ma anche la reputazione dell'intero mercato".
Ancor prima però, cioè a maggio dello scorso anno, la normativa ha introdotto obblighi molto più stringenti che in passato per i broker in Forex e CFD. In particolare, da metà 2015 devono dimostrare che non hanno clienti residenti negli Stati Uniti, devono impostare sistemi per al gestioni dei rischi derivanti da azioni legali dei clienti, da attacchi e malfunzionamenti informatici, da negligenza o attività illegali dei dipendenti e devono introdurre conti dei clienti segregati. Inoltre sono stati limitati la possibilità di usare la leva, diminuiti i sottostanti utilizzabili, modificato a favore dei clienti il modo di calcolare gli spread. Sistemi e attività costose, paragonabili a quelli già utilizzati in Italia, per esempio, da SIM e banche. Ma non è tutto. Anche pubblicità e marketing sono finiti sotto il maglio dell'ISA: i broker non possono più dare bonus e hanno regole più severe nella comunicazione ai clienti di novità, con limitazioni anche nell'interattività dei banner, senza contare che le pubblicità dovranno essere approvate preventivamente dal regolatore.
Tutto questo, potrebbe a breve provocare un esodo delle società israeliane dal proprio Paese, anche perché la revisione delle licenze di intermediazione da parte dell'ISA ha già bocciato i primi broker (iTrader, Capital Markets 24, Trader Marker, Etrader, i Market), mentre altri come Easy Trade, iForex lsrael hanno ritirato la domanda e altri ancora attendono con trepidazione l'esito dell"'esame".

 Israele e il Forex trading.
  Ma perché è così importante la situazione dei broker online in Israele? Per comprenderlo bisogna fare almeno due passi indietro. Vivendo una situazione di conflitto pressoché costante da decenni, il Paese mediterraneo ha da molti anni avviato un'intensa attività di sviluppo ndi tecnologie avanzate, utilizzabili in primis per la difesa. Sono stati poi creati dei fondi appositi per finanziare a pioggia start up e attività private focalizzate sutl'hi-tech a tutti i livelli, ma con particolare attenzione sul software. Le ricadute sono state tali, sia in termini di numero di aziende sia di risultati (nei settori delle tecnologie informatiche, per la sicurezza, per l'energia, per le biotechnologie, per l'agricultura avanzata, etc.) che esiste un indice di borsa delle aziende hi-tech israeliane (il TASE-Bigitech index). E queste ricadute si sono fatte sentire anche in settori imprevisti: dapprima nelle scommesse e nei casino online,con sofisticate piattaforme di gioco con integrati sistemi per le transazioni sicure, e successivamente con l'allargamento da questo settore a quello della finanza, in particolare con il Forex e con i CFD. Rispetto al trading azionario o sui derivati, infatti, il trading sulle valute spot e sui CFD non ha book, ma una maschera con indicati i prezzi di acquisto e vendita dell'unico livello, esattamente come i software per il gioco online. Ironia della sorte, l'incontro tra gioco e finanza a dato vita in Israele al boom del forex trading.

 Gli effetti sul mercato italiano.
  E l'Italia, cosa c'entra in tutto questo? È presto detto. Nel 2007 in tutta l'Unione Europea è entrata in vigore la Mifid, direttiva sui mercati e sugli strumenti finanziari che ha imposto una serie di regole stringenti all'intero settore finanziario, limitando e sorvegliando fortemente l'operato degli intermediari finanziari extra-UE. Per questo, decine di forex broker israeliani hanno aperto società con sede legale a Cipro, il Paese dell'UE geograficamente più vicino a Israele che notoriamente è un porto di mare con pochi controlli sui capitali più o meno trasparenti provenienti da tutto il mondo, a partire dalla Russia.
Gli effetti di questo esodo verso Cipro (ma anche verso Londra) dei broker israeliani ha avuto un deciso impatto sull'Italia quando, nel 2010, la Banca d'Italia ha obbligato le "106" (intermediari in cambi) a diventare SIM o banche oppure a chiudere i battenti: il nuovo Testo Unico Finanziario aveva infatti trasformato il trading in cambi da servizio a strumento finanziario (in particolare il rollover viene riconosciuto come derivato). Tutte le società italiane (alcune decine) chiudono nel giro di un paio di mesi. Tuttavia, la "patente europea" garantisce che le società dell'UE possono operare in tutti i Paesi dell'Unione facendo riferimento alla normativa del proprio Paese d'origine e la normativa cipriota era molto differente da quella italiana. Nel giro di due o tre anni, circa cento società o marchi di forex broker (poi anche CFD broker) controllati da una manciata di società israeliane (tra cui Safecap e Reliantco) occupano quasi completamente il mercato italiano, successivamente seguiti dagli intermediari che offrono opzioni binarie.

(Annuario del Trading Online Italiano, 5 agosto 2016)


L'Australia sospende finanziamenti ad ong attiva a Gaza

Per sottrazione di denaro da parte di Hamas

CANBERRA - Ieri, 4 agosto, il servizio di sicurezza israeliano Shin Bet ha reso noto che Hamas ha sottratto nel corso di diversi anni "decine di milioni di dollari" all'organizzazione World Vision per finanziare la sua ala militare. Gli investigatori hanno scoperto che circa il 60 per cento del budget dell'organizzazione caritatevole è stato utilizzato per l'acquisto di armi, la costruzione di tunnel sotterranei e di installazioni militari ed il pagamento ai combattenti da parte di Hamas. Il tribunale di Beersheba ha incriminato Muahammad Halabi, membro di Hamas e direttore delle operazioni di World Vision, per il suo presunto coinvolgimento nella riciclaggio di denaro. Le indagini hanno rivelato che Halabi sarebbe stato introdotto all'interno dell'organizzazione caritatevole con l'obiettivo di sottrarre il denaro e darlo ad Hamas. "E' stata un'importante e significativa indagine che ha mostrato il modo cinico e rozzo con cui Hamas beneficia dei fondi destinati alle organizzazioni umanitarie", si legge in un comunicato dello Shin Bet. Dal canto suo, World Vision difende l'uomo, che a sua volta ha negato le accuse contro di lui.

(Agenzia Nova, 5 agosto 2016)


Gaza, i milioni rubati da Hamas alla popolazione palestinese

di Daniel Reichel

Decine di milioni di dollari raccolti da un'ong, la World Vision, e destinati alla popolazioni della Striscia di Gaza, sono stati distratti e utilizzati per finanziare le operazioni del movimento terroristico di Hamas. È quanto afferma lo Shin Bet, il servizio di sicurezza israeliano, che lo scorso 15 giugno ha arrestato presso il valico di Eretz Mohammed El-Halabi, direttore della sezione di Gaza della World Vision (organizzazione internazionale cristiana impegnata in missioni umanitarie) con l'accusa di aver usato la sua posizione per passare enormi quantità di denaro a Hamas.
Secondo quanto riporta il New York Times, un alto funzionario dello Shin Bet - incontrando i giornalisti in condizione di anonimato - ha dichiarato che Halabi è stato reclutato nel 2004 da Hamas e incaricato di infiltrarsi nella World Vision con l'obiettivo di raggiungere una posizione influente all'interno della ong. Quest'ultima è un'organizzazione umanitaria evangelica cristiana, che dispone di 50 mila dipendenti, lavora in oltre cento paesi e ha un bilancio annuo di 2,6 miliardi di dollari. Tra coloro che la sostengono, figurano le Nazioni Unite e diversi governi occidentali.
Secondo il funzionario citato dal Times, nel corso degli anni Halabi, diventato nel 2010 direttore della sezione di Gaza della World Vision, è riuscito a trasferire a Hamas il 60 per cento del bilancio annuale destinato dall'organizzazione alla Striscia.
Nelle scorse ore, presso il tribunale di Beer Sheva, sono state formalizzate ufficialmente le accuse contro Halabi, attraverso la documentazione presentata dallo Shin Bet. Per i servizi israeliani, il metodo principale per distrarre i soldi e destinarli a Hamas era pubblicare bandi di gara fittizi per progetti sponsorizzati dalla World Vision a Gaza. La società vincitrice, a cui venivano elargiti i fondi, doveva poi versarne una buona parte nelle casse del movimento terroristico palestinese.
Il funzionario citato da New York Times ha spiegato che parte del denaro è stato usato dai militanti di Hamas per scavare i tunnel sotterranei per attaccare Israele, per pagare gli stipendi dei miliziani, per costruire basi militari. 2500 pacchi alimentari destinati a famiglie bisognose, denuncia lo Shin Bet, sono andati ai battaglioni di Hamas.
Nelle scorse ore, il governo australiano, tra coloro che sovvenzionano i progetti della World Vision nei territori palestinesi, ha dichiarato di voler sospendere i finanziamenti. Le accuse sono "profondamente preoccupanti" ha dichiarato su twitter l'ambasciatore australiano in Israele Dave Sharma mentre il dipartimento per gli affari esteri dell'Australia ha avviato una propria indagine sul caso.
La World Vision invece ha rilasciato una dichiarazione a sostegno di El-Halabi. "Sulla base delle informazioni a nostra disposizione in questo momento, non abbiamo ragione di credere che le accuse siano vere. Rivedremo con attenzione le prove presentateci e prenderemo azioni appropriate sulla base di tale prove", ha dichiarato l'organizzazione in un comunicato.

(moked, 5 agosto 2016)


Donna arabo-israeliana CEO di una startup contro il cancro

La Dott.ssa Amal Ayoub

Amal Ayoub

Una donna araba si propone di tracciare un sentiero nel settore high tech di Israele. La Dott.ssa Amal Ayoub, una arabo-israeliana della città di Nazareth, è la fondatrice e CEO di Metallo Therapy, una startup biomedica, nata nel 2009, che ha sviluppato una tecnologia per monitorare al meglio lo sviluppo dei tumori maligni.
La Dott.ssa Amal Ayoub, laureata in fisica al Technion di Haifa e con un dottorato di ricerca in ingegneria biomedica all'Università Ben Gurion, sta lavorando duramente per dare alla propria azienda il successo commerciale che merita.
Ormai è scientificamente noto che un tumore rilevato in anticipo può essere eliminato da una combinazione di chirurgia, chemioterapia e radioterapia.
Quindi la questione su cui sta lavorando la Dott.ssa Ayoub è: come possiamo rilevare i tumori in anticipo?
I metodi attualmente utilizzati per diagnosticare un tumore (come ad esempio la TAC con liquido a contrasto) hanno dei limiti. Le sostanze utilizzate per il liquido a contrasto, con alcuni tipi di cancro, come per esempio il cancro della prostata, non sono efficaci perché le cellule attorno al tumore non sviluppano infiammazione, quindi non vi è la possibilità di tracciarlo chiaramente. Questa situazione porta a falsi negativi, in cui un tumore esiste ma non viene diagnosticato. Allo stesso modo, a volte c'è un'infiammazione nel corpo ma che non è correlata al cancro, ma viene riportata come falsa positiva.
La tecnologia sviluppata dalla Metallo Therapy, si basa sull'uso di nanoparticelle d'oro che consente ai medici di rilevare i tumori in anticipo. Inoltre permette loro di vedere i confini precisi del tumore e se vi sono metastasi. Una volta iniziato il trattamento la tecnologia permetterà ai medici di determinare molto rapidamente se il trattamento è attivo o inattivo.
Queste le parole della Dott.ssa Ayoub:
L'oro è un metallo pesante e presumibilmente non interagisce con il corpo umano. Quando le nanoparticelle d'oro entrano in un tumore, con la TAC forniscono un migliore contrasto rispetto ad altri agenti contrastanti, come lo iodio.
Inoltre il team della dottoressa ha sviluppato anche un rivestimento composto da aminoacidi che rende le nanoparticelle non-tossiche.
Attualmente sono in corso studi pre-clinici sulla sicurezza della tecnologia e sui piani di regolamentazione.
Nizar Mishael, il direttore finanziario del fondo NGT3 ha fornito alla Dott.ssa Ayoub il capitale iniziale. La startup araba è in procinto di iniziare gli studi clinici completi.

(SiliconWadi, 5 agosto 2016)


A Gerusalemme il più grande convegno di travel blogger al mondo

Appuntamento dal 20 al 22 marzo 2017

Il Jerusalem Conventions and Visitors Bureau, sotto la direzione della Jerusalem Development Authority, ha annunciato che Tbex, il maggior evento al mondo dedicato a travel blogger, giornalisti di viaggio che scrivono per testate online, creatori di nuovi contenuti media, brand di viaggio e professionisti del settore, ha scelto Gerusalemme per il suo prossimo convegno internazionale, che si terrà dal 20 al 22 marzo 2017.
Ogni anno, Tbex organizza eventi di questo genere per i suoi partner provenienti da Nord America, Europa e Asia, così da creare un momento di incontro, networking e aggiornamento dedicato alle menti più creative dell'industria turistica. La prima edizione si tenne nel 2009 e, da allora, la sua crescita è stata esponenziale, fino a renderla la comunità con focus viaggio/turismo più grande al mondo, con eventi organizzati su base annuale, che coinvolgono ad ogni edizione circa 1.000 partecipanti provenienti da ogni parte del globo.
Un'opportunità decisamente interessante per le destinazioni e i brand turistici che hanno, così, l'opportunità di relazionarsi con i travel blogger più influenti e con i creatori di contenuti online leader nel settore.
Ilanit Melchior, direttrice di Jerusalem Development Authority, ha accolto con entusiasmo l'annuncio e ha affermato: "Questa è un'importante opportunità che ci permetterà di raggiungere i migliori opinion leader dell'industria turistica, così come giornalisti specializzati. La decisione di Tbex è per noi un'occasione per celebrare il nuovo Jerusalem Conventions and Visitors Bureau, inaugurato meno di un anno fa".

(Guida Viaggi, 5 agosto 2016)


Togliere denaro per i bambini per darlo ai terroristi

di Luigi Medici

 
Muhammad Halabi
GERUSALEMME - Uno dei più grandi enti di beneficenza del mondo sarebbe stato truffato: per anni avrebbe finanziato Hamas senza saperlo.
A rivelarlo è l'agenzia di sicurezza interna di Israele, lo Shin Bet, ripreso da Arutz Sheva7. Il gruppo World Vision, organizzazione caritatevole cristiana multi-miliardaria di base negli Usa, avrebbe inconsapevolmente finanziato Hamas a Gaza per circa un decennio dopo che un membro di Hamas, Muhammad Halabi, 38 anni, ingegnere civile, vi si è infiltrato nel 2005. Secondo il rapporto dello Shin Bet uscito il 4 agosto, Halabi ha incanalato milioni di dollari destinati a scopi umanitari verso il gruppo terroristico. Nel 2010, Halabi aveva raggiunto una posizione di alto livello all'interno di World Vision, che ha un suo ramo a Gaza, tale da consentirgli di spostare più di 7 milioni di dollari all'anno nelle casse di Hamas.
In un'operazione congiunta di Shin Bet, Idf, e polizia israeliana, Halabi è stato fermato per il suo collegamento con Hamas. Durante l'interrogatorio, Halabi ha ammesso di aver lavorato all'interno World Vision per conto dell'ala militare di Hamas e di aver canalizzato fondi e altre risorse verso il gruppo terroristico. La Shin Bet ha detto di aver arrestato Halabi a giugno al valico di Erez lungo il confine di Gaza. Durante il suo incarico come direttore locale, circa il 60% dei fondi destinati al ramo a Gaza di World Vision è stato trasferito all'ala militare di Hamas, consentendo al gruppo di costruire una base, espandere la propria rete di tunnel, pagare gli stipendi e acquistare armi.

(agc, 5 agosto 2016)


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Aiuti umanitari per milioni di dollari dirottati da Hamas verso usi terroristici

Dall'indagine su un alto funzionario palestinese di World Vision emerge che Hamas ha rubato persino i pacchi alimentari e i soldi destinati a bambini indigenti e disabili

Nel corso di diversi anni l'organizzazione terroristica Hamas ha dirottato alla propria ala militare "decine di milioni di dollari" dell'organizzazione umanitaria internazionale World Vision, che ha sede negli Stati Uniti ma opera in 100 paesi (Italia compresa) e impiega 46.000 persone. In Israele e territori è attiva dal 1975. Lo hanno comunicato giovedì i servizi di sicurezza israeliani. I fondi - che ammonterebbero al 60% del bilancio totale della ong - sono stati utilizzati per acquistare armi, scavare tunnel e costruire installazioni militari....

(israele.net, 5 agosto 2016)


Record di episodi antisemiti a Londra

Lo denuncia l'associazione ebraica Community Security Trust

LONDRA - Aumento da record degli episodi di antisemitismo a Londra. È quanto denuncia il rapporto dell'associazione ebraica Community Security Trust, secondo cui l'incremento è stato del 62% nei primi sei mesi dell'anno rispetto al periodo precedente.
Il dato nazionale è invece molto più basso, seppure preoccupante, con una crescita dell'11%. Si stima che la comunità ebraica subisca abusi, dalle scritte infamanti alle offese per strada a episodi di violenza, in media tre volte al giorno.
Il ministro dell'Interno Amber Rudd ha definito deplorevole il fenomeno in rapido aumento e promesso la tolleranza zero del governo contro l'antisemitismo.

(Ticinonline, 5 agosto 2016)


Il Duce amico dell'Islam

di Giancarlo Mazzuca

 
Mussolini brandisce la spada dell'islam
Sotto i colpi dei micidiali attentati perpetrad dai terroristi dell'Isis, ora l'Europa intera, nonostante le parole del Papa, guarda all'Islam con sentimenti d'odio e di grandissima paura. Ma c'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi, pur tra luci ed ombre, di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto. Un grande «feeling» che venne propiziato dall'affettuosa amicizia che il futuro duce intrattenne, quando era ancora direttore dell'Avanti!, con la giornalista Leda Rafanelli di fede musulmana. E che, poi, culminò con il matrimonio di Tripoli del 20 marzo 1937, testimone di nozze Italo Balbo, quando un impettito Mussolini, in sella a un magnifico puledro, sguainò la famosa spada dell'Islam ricevuta in dono dai berberi.
   Quell'immagine è diventata il simbolo di un lungo corteggiamento nato nel 1919, prima ancora della Marcia su Roma, con la pace di Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Quella conferenza più che un trattato si rivelò, infatti, un vero e proprio «diktat» non solo per la Germania sconfitta, ma anche per l'Italia che, pure, quella guerra l'aveva vinta. A ispirare lo spirito di rivalsa nei confronti dell'asse franco-inglese era stato Gabriele D'Annunzio, il Vate della «vittoria mutilata» e il protagonista dell'impresa di Fiume, che mise il Belpaese sullo stesso piano del mondo arabo da sempre in conflitto con le potenze coloniali.
   Pur con le dovute differenze, il nazionalismo che cominciava a serpeggiare in una parte dell'Europa era della stessa matrice di quello che già si respirava sulla «quarta sponda». Revanscisti gli uni, revanscisti gli altri, divenne quasi naturale cercare punti d'incontro. Se la conquista dell'Etiopia venne presentata - i due amici-nemici Mussolini e D'Annunzio in primis - come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani, il «bel suol d'amore», Tripoli, diventò il terreno fertile per rinsaldare quell'intesa cordiale che oggi sembra davvero una grandissima utopia. Nel 1939, infatti, il governatore Balbo, nonostante i dissapori con il duce, fece ottenere la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B. Ci furono, in quegli anni, tanti punti d'incontro: se già nel 1934 Radio Bari cominciò a trasmettere programmi in lingua araba perché la comunicazione era un pallino del duce, i rapporti commerciali con i Paesi dell'Islam divennero intensi tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano. Parallelamente, dalle parti della Mezzaluna, si diffusero movimenti giovanili che guardavano al fascismo con particolare interesse, dalle Falangi Libanesi al Partito Giovane Egitto, dalle Camicie Verdi a quelle Azzurre. Anche allora, comunque, non tutti si trovarono d'accordo sull'innamoramento per gli «infedeli»: a parte il malumore di qualche alto prelato, è il caso di Leo Longanesi, romagnolo come Mussolini e amico della prim'ora, che, all'indomani dell'«incorona-zione» del duce con la spada dell'Islam, sentenziò: «Sbagliando s'impera». Eppure, piccola curiosità, il fatto che Benito fosse amico del mondo musulmano starebbe nel cognome stesso: secondo un'ipotesi , non del tutto infondata, Mussolini deriverebbe da musli-min, plurale di muslin che, in arabo, significa musulmano. Strani gli scherzi del destino...

(il Giornale, 5 agosto 2016)


Ministro Katz: la Knesset presto voterà un progetto di costruzione per un porto a Gaza

GERUSALEMME - Il parlamento israeliano voterà nelle prossime settimane il progetto di costruire un'isola artificiale che collega la Striscia di Gaza con l'esterno. Lo ha detto il ministro dei Trasporti israeliano Israel Katz, come riferisce oggi il quotidiano "Jerusalem Post", precisando che il costo del progetto è di circa cinque miliardi di dollari. L'idea di creare un'isola artificiale circola già da qualche anno, ma negli ultimi mesi si sono registrati dei passi in avanti, e la proposta sembra essere sostenuta anche negli ambienti della Difesa israeliana che teme le ricadute economiche di un'eventuale ulteriore guerra a Gaza. L'impegno di Israele nella costruzione di un porto a Gaza porterebbe benefici sia alla popolazione palestinese che vi abita, sia all'immagine che il paese ha a livello internazionale, ha evidenziato il ministro Katz, precisando che "il mondo vede in Israele il responsabile (della situazione) di Gaza". Il ministro Katz ha fatto notare, tuttavia, che questo progetto infrastrutturale "non modificherà l'ideologia di Hamas", ma dovrebbe consentire alla popolazione di Gaza di raggiungere nuovi orizzonti economici.

(Agenzia Nova, 4 agosto 2016)


Il miracolo di Beer Sheva, da periferica città in mezzo al deserto a capitale del cyber

di Jonathan Pacifici

Quando alcuni anni fa il premier Benjamin Netanyahu annunciò: "Beer Sheva non solo sarà la capitale del cyber israeliano, ma sarà anche uno dei luoghi più importanti del cyber a livello mondiale", le risate furono fragorose. L'ennesima improbabile promessa di un politico. In effetti, in termini italiani equivaleva a promettere la trasformazione di Reggio Calabria nell'hub della finanza globale. Per chi abita in Israele, la "capitale del deserto del Neghev" è decisamente fuori mano. Situata a circa 115 chilomeri a sud di Tel Aviv, in pieno deserto, è sempre stata considerata la più periferica delle grandi città israeliane.
   La scorsa settimana mi sono dovuto ricredere. A dire il vero erano anni che non mettevo piede a Beer Sheva. Per tre meravigliosi anni ci ho abitato, durante il mio B. A. in Management alla Ben Gurion University, il fiore all'occhiello della città. Intitolata al fondatore del moderno Stato d'Israele, l'università ne raccoglie il testimone spirituale: trasformare il deserto, il nulla, nella frontiera del sapere, della tecnologia e in definitiva della crescita di Israele. La Ben Gurion accoglie circa 20 mila studenti ed è considerata un'eccellenza internazionale per le sue facoltà di ingegneria, informatica, medicina e più recentemente nanotecnologie e cyber security. Nonostante ciò, la città ha continuato a essere periferica e io stesso - come la maggior parte degli alumni - ho proseguito altrove la mia carriera senza tornarci per tanti anni.
   Martedì scorso avevo in agenda il Cda di una delle nostre start up, Croosing.com, che ha sede proprio a Beer Sheva. Così ho colto l'occasione e sono andato un po' prima per quella che doveva essere una ricognizione nostalgica. Un buco nell'acqua. La Beer Sheva nella quale ho vissuto non esiste più. Dall'arrivo in città dopo appena un'ora attraverso la nuova autostrada 6 ho avuto la sensazione di trovarmi dentro a una partita a "Sim City" nella quale qualcuno ha messo le mani sulla mia città. Quartieri interi sorgono dove prima c'era solo la sabbia; giardini, parchi, teatri, una nuova stazione dei treni e una selva di gru che costruiscono nuove torri residenziali su quelli che erano quartieri disagiati. Ma la vera sorpresa è stata proprio il campus universitario. In appena quindici anni il numero degli edifici è almeno triplicato. Scintillanti edifici di vetro e cemento, tutti firmati da audaci architetti sostituiscono polverosi parcheggi. La rivoluzione è appena fuori l'università, dove una nuova stazione ferroviaria funge da perno dal quale si irradia la raggiera della Beer Sheva in divenire. Se da una parte la stazione è connessa al campus da un ponte coperto immerso in un curatissimo giardino di piante grasse, dall'altra un avveniristico ponte elicoidale conduce al nuovo Gav-Yam Negev Advanced Technologies Park, il vero nucleo della rivoluzione del Neghev.
   Costruito con un investimento congiunto del governo, dell'università e del conglomerato nippo-americano Kud, è diventato la sede del CyberSpark, un'alleanza sul cyber dei colossi americani Emc/Rsa e Lockheed-Martin, assieme al fondo israeliano Jvp. E questo è stato solo l'inizio. Basta alzare la testa per vedere le insegne di Mellanox, Deutsche Telekom, Wix, Paypal e tanti altri giganti. Ma anche start up agli esordi che riempiono i locali di WeWork, il colosso israeloamericano dei coworking spaces che ha stupito tutta l'industry israeliana aprendo una filiale nel nuovo parco. "Voglio vedere quando lo riempiono…", commentava qualche amico. E' completamente pieno. E siamo solo ai primi due dei ventitré palazzi programmati.
   Nella visione di Netanyahu, il parco dovrà portare alla creazione di 30 mila posti di lavoro nel settore. Come se ciò non bastasse, l'esercito sposterà qui le più avanzate tra le unità di intelligence informatica, inclusa la mitica 8200, l'equivalente israeliano della Nsa a stelle e strisce. Senza contare le molte altre unità dell'esercito che si stanno spostando attorno alla città nel quadro del programma "Tzhaal Daroma", l'esercito verso il sud, mirato a liberare grandi terreni nel centro del paese da riconvertire in edilizia.
   L'indotto è da capogiro e l'impatto sul mercato immobiliare anche, con una città che si appresta ad accogliere migliaia di famiglie con un reddito certamente superiore alla media. E i risultati si vedono. CyActive una delle società dell'acceleratore cyber di Jvp è stata recentemente acquisita da Paypal per 60 milioni di dollari. Magari la prossima storia sarà proprio quella di Croosing.com che ha l'ambizioso obiettivo di disegnare l'evoluzione della navigazione internet. La sua piattaforma permette infatti di seguire la navigazione di terzi. Permette cioè a ciascuno di trasmettere il suo browsing come vera sessione. C'è chi l'ha definita la più grande rivoluzione della navigazione web dall'epoca di YouTube.

(Foglio, 4 agosto 2016)


Eni: Descalzi, il gas potra' unire Egitto e Israele

ROMA - Il giacimento Zohr di Eni apre nuove prospettive per il Medio Oriente, l'Africa e l'Europa. Lo afferma l'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, in un'intervista a Bloomberg nella quale ribadisce la strategia vincente del gruppo in una fase di prezzi bassi del petrolio. Grazie alla scoperta del giacimento nel Mediterraneo 'l'Egitto sara' completamente autosufficiente dal punto di vista energetico. Alla fine, riusciranno anche ad esportare energia. Questo creera' stabilita' nel Paese. Si potra' creare un flusso di cassa dalla vendita di gas e promuovere lo sviluppo. Si potra' creare un hub con Israele, con Cipro e, in futuro, anche con la Libia. Questa potra' essere una delle soluzioni per la sicurezza energetica europea', sottolinea il manager. Attraverso l'energia inoltre Israele potra' collaborare con l'Egitto. 'Questi paesi hanno bisogno l'uno dell'altro. Possono condividere strutture e lavorare insieme. Quando l'energia mette insieme le persone, e' molto positivo. Questo potrebbe essere un caso molto positivo per creare buone relazioni', dice l'ad. .

(la Repubblica, 4 agosto 2016)


Israele sostiene gli agricoltori del Paraguay con tecnologie di irrigazione

Israele sostiene gli agricoltori del Paraguay con tecnologie di irrigazione. Lo scorso mese di giugno Israele ha consegnato ad una cooperativa di piccoli agricoltori del Paraguay, 13 sistemi di irrigazione a goccia, come parte di un processo di collaborazione tecnica tra lo Stato ebraico e la Federation of Production Cooperatives, una cooperativa agricola locale.
Come spiega l'Ambasciata israeliana di Asuncion, grazie a questo progetto, i piccoli agricoltori di San Pedro avranno accesso per la prima volta a dei sistemi di irrigazione all'avanguardia. I produttori potranno così utilizzare tali sistemi per la coltivazione di ortaggi come pomodori, peperoni e carote.
La tecnologia fornita è la famosa Netafim, l'azienda israeliana leader nel campo dell'irrigazione a goccia che mette a disposizione della collettività le proprie conoscenze tecniche ed agronomiche.
La tecnologia israeliana di Netafim sfrutta al massimo ogni goccia d'acqua, con conseguente maggiore resa delle colture utilizzandone solo la metà. L'applicazione della tecnologia di irrigazione a goccia è adatto a tutti i tipi di terreno, ed è molto compatibile con le pratiche agricole attuate dai produttori del Paraguay.
Secondo l'Ambasciatore israeliano in Paraguay, Peleg Lewi, gli agricoltori che beneficeranno di questa tecnologia sono invitati a diffondere le conoscenze acquisite anche con altri agricoltori.
La consegna è stata gestita dall'Ambasciata israeliana in Paraguay ed è parte dello sforzo globale di Israele di fornire aiuti ai paesi in via di sviluppo. Nello scorso mese di gennaio, Israele ha anche fornito assistenza umanitaria e kit alimentari ai cittadini del Paraguay colpiti da una inondazione che ha devastato grandi aree della nazione.

(SiliconWadi, 4 agosto 2016)


Chi finanzia le moschee

Dal Qatar alla Turchia: fondazioni e (tanti) soldi per l'Islam italiano

di Vladimiro Polchi

Da anni l'Arabia Saudita investe nei grandi templi simbolo delle principali capitali europee. Come quella di Roma, che oggi si qualifica come polo moderato. Mentre le ricche famiglie del Regno foraggiano i centri più piccoli tramite contatti informali con singole associazioni. Ministri inviati per periodi di tempo determinato e sostegno alle comunità di riferimento: è questa la scelta di Turchia e Marocco. C'è poi il Kuwait: marginali per ora i contributi nella nostra penisola, sono molti invece gli edifici che ha aiutato a fondare in Germania.

Un palazzone di quattro piani, nel popoloso quartiere di Centocelle a Roma, si prepara a ospitare oltre 800 fedeli. La struttura, un ex mobilificio di Stefano Gaggioli, è stata comprata per quattro milioni di euro dall'Unione delle comunità islamiche d'Italia (Ucoii), grazie a una donazione della Qatar Charity. «Ora aspettiamo altri finanziamenti per la ristrutturazione interna — spiega Izzedin Elzir, imam di Firenze e presidente dell'Ucoii — poi la più grande moschea della periferia di Roma sarà pronta per l'inaugurazione ». I musulmani di Centocelle non sono però i soli a dover ringraziare i milioni di riyal piovuti dal Qatar: oggi in Italia non si aprono moschee senza il flusso generoso di denaro dall'estero. Ma chi sono i principali finanziatori e a chi arrivano i soldi?

 I milioni del Qatar
  Quella di Centocelle è solo l'ultima delle moschee che l'Ucoii è pronta ad aprire in Italia, grazie ai soldi del Qatar. «In tre anni — conferma Elzir — abbiamo raccolto 25 milioni di euro di fondi grazie alla Qatar Charity. Sono serviti per costruire 43 moschee, tra cui quelle di Ravenna, Catania, Piacenza, Colle Val d'Elsa, Vicenza, Saronno, Mirandola».
  Su quella di Bergamo, per la quale l'ong del Qatar ha staccato un assegno da 4 milioni e 980mila euro, la procura indaga per truffa aggravata in seguito a una denuncia della stessa Ucoii e i lavori sono fermi. Ma cos'è la Qatar Charity? Una ong (in verità connessa al fondo sovrano del Qatar) che raccoglie donazioni per interventi umanitari e, come si legge sul suo sito, per «preservare la cultura islamica, attraverso la costruzione di moschee, centri islamici e insegnando alle persone a recitare il Corano ». Il suo protagonismo è dimostrato da alcuni comunicati ufficiali del 2013: «La Qatar Charity sta realizzando un numero di progetti importanti in Sicilia con un investimento di circa 11 milioni di riyal (circa 2.355.430 euro)». Non solo. «La Qatar Charity si sta attivando per finanziare sette altri centri islamici con circa 17 milioni di riyal in alcune città italiane: Mazara del Vallo, Palermo, Modica, Barcellona, Donnalucata, Scicli e Vittoria».
  «La Qatar Charity — sostiene Valentina Colombo, docente di cultura e geopolitica dell'islam all'università Europea di Roma — sembra avere il monopolio dei finanziamenti all'islam europeo ed è stata sospettata in passato di vicinanza con ambienti estremisti. La verità è che finanzia quasi esclusivamente la galassia della Fratellanza musulmana, portatrice di una visione conservatrice della religione ». Una cosa è certa, in Italia principale beneficiaria dei soldi qatarini è l'Ucoii. «Noi accettiamo donazioni da chiunque, solo se trasparenti e senza condizioni — chiarisce Elzir — ma se vogliamo davvero dire no ai finanziamenti stranieri, dobbiamo sottoscrivere un'intesa tra lo Stato e la fede musulmana, come previsto dall'articolo 8 della Costituzione. Per poi poter accedere all'8 per mille».

 I petrodollari sauditi
  «Altro grande finanziatore dell'Islam italiano è l'Arabia Saudita — racconta Maria Bombardieri, sociologa a Padova — a partire dagli investimenti sulla capitale». Un esempio? La Grande moschea di Roma, retta dal Centro islamico culturale d'Italia, che oggi si qualifica come polo dell'Islam "moderato". Chi la sostiene? «La moschea — si legge in un rapporto interno del Viminale — ha solide relazioni diplomatiche con tutti i Paesi arabi e si regge su un "patto" che comprende sauditi (grandi finanziatori), marocchini (gestori sul piano amministrativo e politico) ed egiziani (su quello teologico, fornendo gli imam formatisi nell'università di Al Azar)».
  Il regno dell'Arabia Saudita investe ufficialmente da anni nelle grandi moschee simbolo delle principali capitali europee. Mentre le ricche famiglie saudite finanziano centri più piccoli, tramite contatti informali con singole associazioni islamiche.

 I finanziamenti turchi e marocchini
  Il governo turco, tramite il ministero degli affari religiosi, sostiene invece il Ditib: organizzazione ufficiale dei musulmani turchi all'estero. In Italia hanno tre piccoli centri a Milano, Imperia e Reggio Emilia. Anche i ministri di culto arrivano da Istanbul, per periodi di tempo determinato.
  Stessa politica seguita dal Marocco: fornisce imam e finanzia le sue comunità in Italia, tramite la tesoreria di Stato marocchina che ha una voce di spesa dedicata ai luoghi di culto. E la maggior parte dei musulmani d'Italia oggi proviene appunto dal Marocco (quasi 500mila). A rappresentarli c'è la Confederazione islamica italiana, benedetta da re Muhammad VI. Infine il Kuwait: in Italia non risultano grandi investimenti, molte invece le moschee in Germania costruite con i suoi soldi.

 Tra collette ed elemosina
  «La fonte principale di sostegno delle comunità musulmane restano però l'autofinanziamento e le collette tra i fedeli — precisa Bombardieri — anche perché l'elemosina è uno dei cinque pilastri dell'islam ». Così si finanziano le comunità senegalesi e bangladesi. «Anche la Coreis vive per ora di quote associative — spiega Yahya Pallavicini, vicepresidente della Comunità religiosa islamica italiana — per arrivare all'8 per mille ci vorrà prima un'intesa con lo Stato italiano e per questo è necessario che le associazioni musulmane presentino un bilancio delle proprie attività: solo così si potrà capire chi ha diritto di mettersi al tavolo».
  Intanto Pallavicini ha presentato la sua proposta al Viminale: «Sul modello francese, costituiamo una fondazione per le opere di culto dell'Islam italiano, gestita da ministero e associazioni riconosciute, dove far confluire finanziamenti pubblici e stranieri alla luce del sole e senza rischi di condizionamenti».

(la Repubblica, 4 agosto 2016)



Parashà della settimana: Massè (Viaggi)

Numeri 33.1-36.13

 - La promessa della Terra
Dopo le peripezie che hanno accompagnato gli ebrei durante la loro permanenza nel deserto del Sinài, il popolo arriva finalmente alle porte della Terra promessa.
«Il Signore parlò a Moshè nella pianura di Moav, presso il Giordano di Gerico, e disse: "Quando avrete passato il Giordano e sarete entrati nella terra di Canaan, scaccerete davanti a voi tutti gli abitanti del paese per abitarla. A voi ho destinato quel paese come possesso"» (Numeri 33.50).
E il testo della parashà continua: "E coloro che lascerete saranno come spine nei vostri occhi, come pungoli nei vostri fianchi e vi angustieranno nel paese dove abitate" (Numeri 33.55).
Parole di una attualità bruciante! Ma vediamo quale è l'interpretazione dei nostri saggi su questo punto della parashà.
Maimonide (Rambam) ritiene che è un obbligo per gli ebrei risiedere in Israele, mentre secondo Rashì è una promessa fatta da D-o che verrà mantenuta solo quando saranno cacciati gli abitanti idolatri.
Al di là di queste interpretazioni, tra l'altro non tanto diverse, bisogna puntualizzare che è un fondamento del giudaismo abitare nella Terra d'Israele. Questo è il Paese degli ebrei e non ne esistono altri.
Il primo dovere di Abramo fu quello di raggiungere la Terra da cui Isacco suo figlio, non è mai uscito nemmeno per cercar moglie. Dopo la miracolosa liberazione di Israele dalla schiavitù d'Egitto, vi fu il rifiuto degli "esploratori" di salire nel Paese per conquistarlo. Fu il primo peccato collettivo che venne punito da D-o con la morte. Difatti tutta la generazione del deserto, compreso Moshè, non entrò nella Terra promessa.
Il profeta Ezechiele afferma che la promessa di D-o è promessa di D-o. Pertanto Egli riporterà il popolo ebraico nella Terra perché il Suo Nome non venga profanato da una promessa mancata (Ezechiele 36.16-38).
In questa ottica il peccato degli esploratori è stato gravissimo. Essi non solo hanno disobbedito ad un comandamento di D-o, ma opponendosi alla Sua volontà, sono stati la causa dell'esilio del popolo ebraico e della distruzione del Tempio.
D-o Benedetto però, non ha dimenticato quanto aveva promesso nel Patto fatto con Abramo ed anche della Terra si è ricordato, concedendo il perdono al popolo d'Israele con il ritorno nel suo Paese.
Difronte a questi miracoli, l'uomo moderno nonostante i suoi sogni e i suoi fantasmi non può riscrivere una nuova Torah. E' inutile essere sordi o ciechi difronte al conflitto israelo-palestinese, che insanguina la Terra d'Israele, rendendo questa impura agli occhi del Signore. "Non rendere impura la Terra in cui abitate entro la quale I-o dimoro perché I-o il Signore dimoro in mezzo ai figli d'Israele" (Numeri 35.34).

Le città rifugio
"Le città che darete ai Leviti saranno sei città di rifugio perché ivi trovi protezione l'omicida involontario... e darete inoltre ai Leviti 42 città" (Numeri 35.6).
Le sei città di rifugio, tre in Canaan e tre in Cisgiordania, daranno automaticamente asilo a chiunque entrerà nel loro recinto, mentre le altre 42 daranno protezione su richiesta del profugo.
Sappiamo dal libro dei profeti che era stata costruita nel regno della Giudea tutta una rete stradale, non per scopi bellici, ma per facilitare l'accesso alle sei città di rifugio nella prospettiva di raggiungere una società con più giustizia e con più shalom.
Secondo la tradizione ebraica le sei città simboleggiano i sei comandamenti (mitzvot) che siamo obbligati ad osservare.
Il primo è credere in D-o Benedetto, il secondo è il divieto di praticare l'idolatria, il terzo proclamare l'unità di D-o, il quarto è l'amore, il quinto è il Suo timore e il sesto è quello di non lasciarsi sedurre dal male.

Il vendicatore del sangue
"La congrega dovrà salvare l'uccisore dalla mano del parente prossimo dell'ucciso, consegnandolo alla città di rifugio, dove egli resterà fino alla morte del sommo sacerdote" (Numeri 35.25).
Non c'è dubbio che l'interpretazione di questa legge ha provocato delle visioni per non dire dei pregiudizi, sul valore morale della Torah.
Bisogna dire che niente è più voluto da un assassino che il voler sfuggire alla giustizia. E' precisamente questo che la Torah cerca di evitare e vuole insegnarci. Difronte alla vendetta dei parenti prossimi della vittima, la Legge protegge l'assassino mediante l'istituzione di queste sei città rifugio, in attesa del giudizio del tribunale.
Difatti non potendo l'assassino trovare clemenza dai parenti della vittima è probabile che egli la troverà nel tribunale che giudicherà questi senza "passioni" ma con il rigore della legge.
"Non accetterete riscatto per farlo fuggire dalla sua città e tornare ad abitare nel paese fino alla morte del gran Sacerdote" (Numeri 35.31).
Perché l'assassino involontario deve restare nella città rifugio fino alla morte del sommo sacerdote? E' vero che tale città è una protezione per questi, ma è nello stesso tempo una punizione intesa come "espiazione". Solo la morte del gran sacerdote libererà l'omicida dalla colpa.
Il motivo di una tale misura che comporta l'espiazione per l'assassino è in relazione solo con il sacerdote che aveva la possibilità di ottenere l'espiazione dei peccati, con l'offerta di un sacrificio al Tempio del Signore da parte del peccatore.
Il significato morale di un tale comportamento è evidente: colui che sbaglia nei riguardi del prossimo, deve pagare "qualcosa" per il suo errore, al fine di ottenere il perdono. F.C.

*

 - Davanti a una disposizione di legge possiamo avere due tipi di atteggiamento: ubbidiente o riflessivo. Nel primo caso cerchiamo di capire il modo in cui osservare la norma, quali sono le precise richieste da ottemperare per non diventare trasgressori. Nel secondo caso invece cerchiamo di capire qual è la cosiddetta ratio legis, cioè quale sia la causa che ha mosso il legislatore a emanare una tale norma e quale sia l'obiettivo che si propone di ottenere.
  Quando si tratta di leggi mosaiche, sembra che alcuni abbiano soltanto il primo atteggiamento. L'unica cosa che conta - pensano - è capire che cosa esattamente bisogna fare. E farlo. Perché questa è la volontà del legislatore. Punto. Tutto il resto non conta. Naturalmente nascono discussioni all'infinito, ma riguardano sempre il come, non il perché.
  Il semplice atteggiamento ubbidiente però non è possibile per norme come quelle sulle città di rifugio, per il semplice fatto che oggi non ci sono più. Potremmo dire allora che la cosa non ci riguarda, disinteressarcene del tutto e lasciarla come oggetto di studio per gli storici.
  Chi invece vuole avere un atteggiamento riflessivo è spinto ad interessarsi della volontà del legislatore, e in questo caso chi crede ha davanti a sé qualcosa di impegnativo, perché il legislatore non è un'astrazione, ma Dio stesso, il Creatore del cielo e della terra, che ancora oggi ha una sua volontà che riguarda tutti, che siano d'accordo o no.
  Detto questo, riflettiamo sulla stranezza di questa disposizione, senza pretendere di aver capito una volta per tutte il modo di pensare del Signore, e tuttavia riconoscendo la necessità di provare a farlo, almeno in parte, sulla base di quanto si trova scritto.
  Il testo continua a chiamare "omicida" l'uomo che ha provocato la morte di un altro, senza distinguere se l'abbia fatto volontariamente o no. Questo richiede la morte dell'esecutore per motivi oggettivi, indipendenti dalle intenzioni dell'autore, perché il sangue sparso contamina la terra santa di Dio e l'unico modo per purificarla è lo spargimento di sangue riparatore. Il vendicatore del sangue, come rappresentante della parte direttamente lesa, deve compiere quest'opera di purificazione senza essere obbligato a svolgere istruttorie o fare introspezioni psicologiche. A lui infatti non si muove alcun rimprovero, non gli si chiede di controllare la sua rabbia: è all'omicida che si danno ordini, non a lui. Come si può allora evitare la morte di un omicida involontario senza calpestare la legge di Dio?
  La possibilità di un fatto come questo era stata presa in considerazione già nella prima formulazione della legge mosaica. Sta scritto infatti: "Chi percuote un uomo sì che egli muoia, dev'essere messo a morte" (Esodo 21:12). Segue subito la clausola limitativa per quello che noi chiamiamo "omicidio involontario", ma che il testo presenta con altre parole: "Se però non gli ha teso un agguato, ma Dio glielo ha fatto cadere in mano io stabilirò un luogo dove egli possa rifugiarsi" (v.13). Questa spiegazione a qualcuno è parsa così scandalosa che una traduzione molta diffusa in ambiente evangelico presenta il testo italiano così: "Se non gli tende agguato, ma lo uccide involontariamente...", aggiungendo soltanto in nota la traduzione letterale. Scandalosa però non è la Bibbia, ma il modo in cui ci si permette di alterarla. Non è lecito omettere nella traduzione il termine "mano" e addirittura anche il termine "Dio". Una traduzione ancora più semplice potrebbe essere: "... ma se Dio glielo ha dato nelle mani..."
  Forse il punto essenziale sta proprio qui: il delitto rimane, ma Dio se ne assume la responsabilità oggettiva. Dopo che l'assemblea degli anziani ha accertato che l'omicidio non è avvenuto per odio, il Signore, che in qualche modo ha partecipato al fatto, sottrae l'uccisore dalla comunità attiva e lo porta sotto la sua diretta giurisdizione: abiterà in una città levitica, senza avere la possibilità di decidere se e quando lasciarla. L'uomo ora appartiene in modo speciale al Signore; farà vita insieme ai leviti, e se da una parte sarà protetto dall'ira del vendicatore del sangue, dall'altra non potrà tornare sulla sua terra a fare la vita di prima fino a quando non gli sarà permesso dal Signore. E questo avverrà soltanto alla morte del Sommo Sacerdote, non prima. Perché? Non è facile rispondere, ma proprio per questo è necessario mantenere un atteggiamento riflessivo. Che cosa aveva in mente il Legislatore?
  Forse con la morte del Sommo Sacerdote, "che fu unto con l'olio santo" (Numeri 35:25) e quindi rappresenta Dio presso il popolo, si estingue il debito di giustizia che si era aperto con la morte violenta di un innocente. Dopo di che, con la venuta di un nuovo Sommo Sacerdote l'uccisore può "tornare nella terra di sua proprietà" (Numeri 35:28) e riprendere il posto che aveva prima nella comunità. Può essere, ma in ogni caso è utile riflettere.
  Si può anche chiedersi se dietro questo particolare modo di agire del Legislatore non ci sia qualche messaggio allusivo per noi. Non sarebbe strano, perché è in questa forma che si presentano quasi tutte le profezie.
  Alcuni cristiani vedono nelle città di rifugio un'allusione al rifugio che trova in Cristo il peccatore che si ravvede, ma qui si tratta di qualcuno che ha peccato per errore, e non è questo il caso di ogni uomo davanti a Dio. Potrebbe essere più convincente vedere nell'omicida involontario un'allusione al popolo d'Israele, a cui Dio ha legato il suo nome, anche perché in tutto il testo, oltre che in tutto l'Antico Testamento, il focus sta proprio nel rapporto di Dio con il suo popolo.
  Sulla croce Gesù ha detto: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Luca 23:34). Gesù dunque considera peccatori involontari coloro che lo stanno mettendo in croce. Nel Getsemani Gesù dopo aver pregato tre volte torna dai discepoli e dice: «Dormite pure, l'ora è vicina, e il Figlio dell'uomo è dato nelle mani dei peccatori» (Matteo 26:45). Gesù dunque non sta per essere preso con la forza dai peccatori, ma sta per essere dato nelle loro mani. Chi è che lo dà? Di chi è la responsabilità ultima? Chi deve rispondere di quello che sta per accadere?
  L'espressione "dato nelle mani" di uomini, riferita a Gesù, compare almeno otto volte nei Vangeli, e nel libro degli Atti viene ripetuta dall'Apostolo Pietro quando, parlando di Gesù, dice pubblicamente: "Uomini d'Israele... quest'uomo... vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio..." (Atti 2:22-23); e in un suo successivo discorso si rivolge allo stesso pubblico sottolineando l'inconsapevolezza con cui il popolo aveva operato contro Gesù: "Uomini d'Israele... Il Dio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi metteste nelle mani di Pilato e rinnegaste davanti a lui... Ora, fratelli, io so che lo faceste per ignoranza, come pure i vostri capi" (Atti 3:12-17).
  Torniamo allora alla norma contenuta nel libro dell'Esodo: "Chi percuote un uomo sì ch'egli muoia, dev'essere messo a morte. Se però non gli ha teso un agguato, ma Dio glielo ha dato nelle mani, io stabilirò un luogo dove egli possa rifugiarsi" , e continuiamo a riflettere su quelle che possono essere state le intenzioni del Legislatore. M.C.

  (Notizie su Israele, 4 agosto 2016)


Il Bar Sport del Papa si trova a tremila metri

Ad alta quota Papa Francesco va a ruota libera.

di Domenico Cacopardo

Il viaggio di papa Francesco da Cracovia a Roma è stata l'occasione per l'ennesima esternazione a ruota libera. Come un Mario Rossi seduto al Bar dello Sport, il papa ha esercitato il ministero religioso con una serie di affermazioni superficiali, discutibili o completamente sbagliate. Sembra impossibile che la massima responsabilità del cattolicesimo, una delle più importanti del cristianesimo, esprima questo genere di convinzioni come se non fosse gravato da vere responsabilità storiche nei confronti della Chiesa che è stato chiamato a governare e del popolo dei suoi fedeli.
Vediamone una: «... vorrei parlare della violenza cattolica, a guardare i giornali e vedere quello che succede pure in Italia...»
Sua Santità, quindi, confronta gli sporadici (ma frequenti) fatti di sangue che accadono in Italia per ragioni passionali, d'interesse, di rivalità o, più semplicemente, per l'alienazione mentale dei protagonisti - fatti tutti che appartengono alla fisiologia delle società animali - alla campagna di odio organizzata in nome del Corano da bande di fanatici organizzati in Medio ed Estremo oriente, nel Maghreb, in Europa e negli Stati Uniti.
Per Bergoglio il fenomeno mondiale aperto dall'11 settembre 2001 non ha per protagonisti uomini e donne dell'Islam e vittime occidentali ed equivale alla normale conflittualità delle società in cui viviamo. La sua volontà di assolvere i dinamitardi che stanno mettendo a ferro e fuoco porzioni, per fortuna limitate, d'Europa è assoluta, tanto da spingerlo a distorcere la realtà: una follia. La colpa sarebbe la nostra, di noi occidentali, europei e nordamericani che onoriamo e adoriamo il Dio denaro.
Intorno a queste azzardate indimostrate e indimostrabili asserzioni, a questi atti di accusa papali, applaudono schiere di agiografi, di presunti teologi, di adoratori più o meno in malafede della criminalizzazione della nostra civiltà. Quella che ha dato al mondo la democrazia: il sistema peggiore tranne tutti gli altri. Si rimane senza parole: l'Occidente è sull'orlo del baratro costituito dal terrorismo e dalla xenofobia e Francesco non ha altro da dire che anche in Italia ci sono fatti di sangue.
Santità: prima di parlare conti almeno sino a 3.

(ItaliaOggi, 4 agosto 2016)


Sua Santità? Ma perché anche i laici, anche chi vuole criticare Bergoglio si adatta ad usare il frasario di un retrivo, antievangelico cattolicesimo? E' proprio il caso di dare tanto risalto, e con parole indebite, a quello che dice Sua Sciocchezza Papa Francesco I? M.C.


Soldato israeliano strappa la bici a una bimba, sospeso

Polemiche dopo un video diffuso da attivisti che hanno catturato l'intera scena avvenuta a Hebron

GERUSALEMME - Un soldato israeliano è stato sospeso dopo la diffusione di un video in cui lo si vede bloccare una bimba palestinese di 8 anni, prendere la sua bicicletta e buttarla via in mezzo ai cespugli. L'incidente è avvenuto a Hebron, epicentro di tensione tra la maggioranza degli abitanti palestinesi e un'agguerrita comunità di coloni
ebrei. Le immagini, diffuse dall'organizzazione israeliana peri diritti umani B'T selem, mostrano la bimba di 8 anni, Anwar Burqan, mentre va in bici lungo la strada. Improvvisamente, arriva correndo un soldato israeliano che la ferma, bloccando a terra la bici con il piede. I due scambiano qualche frase fino all'arrivo di un secondo soldato che manda via la bimba in lacrime. Nel video si vede poi uno dei militari buttare la bici in mezzo alla vegetazione alta lungo la strada, coprendola con dei rami. Il capo della polizia di frontiera, Yaakov Shabtai, ha riferito che l'ufficiale, dopo una breve indagine, è stato «immediatamente sospeso dal servizio attivo».

(Avvenire, 4 agosto 2016)


Israele introduce l'era della desalinizzazione

di Roberto Todini

 
La notizia è che Israele oggi ha più acqua di quanta necessita grazie a risparmio e riciclo e agli impianti di desalinizzazione, la premessa è che non solo Israele è una delle terre più aride del mondo, ma che fino alla seconda metà del decennio precedente ha vissuto una decennale siccità, così devastante come non se ne erano mai registrate.
La cosiddetta mezzaluna fertile (l'area tra i quattro grandi fiumi Nilo, Giordano, Tigri ed Eufrate in cui è fiorita la civiltà) stava morendo, l'orlo della catastrofe si raggiunse nel 2008. Gli israeliani che in quanto ad inventiva e tenacia sono un popolo straordinario, da un lato lanciarono una grande campagna per il risparmio dell'acqua che li ha portati a un impressionante 86% dell'acqua potabile che va negli scarichi che viene riciclata depurata ed usata in agricoltura, dall'altro intensificarono gli sforzi presso l'istituto Zuckerberg per la ricerca sulle acque, il lavoro degli scienziati dell'istituto sopratutto grazie al contributo di un giovane ricercatore fresco di studi a Yale, Edo Bar-Zeev, ha portato a un rivoluzionario sviluppo tecnico negli impianti di desalinizzazione (o dissalazione). Molto si sta scrivendo dal punto di vista politico del fatto che mentre Israele ora ha acqua in abbondanza tutto il resto della regione muore, Bar-Zeev e gli altri scienziati da bravi ottimisti ed idealisti pensano che insegnare agli altri paesi a fare quello che loro hanno fatto potrebbe essere una svolta decisiva alla riduzione della conflittualità in Medio Oriente, tralasciamo questo aspetto non pertinente a un articolo di ricerca e sviluppo e concentriamoci sull'innovazione tecnica.

 I problemi tecnici degli impianti di desalinizzazione.
  Non è che la desalinizzazione si scopra oggi, ma perché finora è stata una strada poco percorsa? Enormi problemi tecnici e di costi, un impianto di desalinizzazione funziona pompando acqua attraverso una membrana porosa che lascia passare le molecole d'acqua ma trattiene quelle più grosse di sale, il problema è che l'acqua di mare è anche piena di microorganismi che ben presto colonizzano la membrana occludendo i pori, questo costringe a periodiche operazioni di ripulitura che sono costose e richiedono un grande impiego di sostanze chimiche, il che considerato che si sta parlando di acqua che deve diventare potabile non sembra molto desiderabile.

 Che cosa hanno fatto Bar-Zeev e colleghi.
  Bar-Zeev è un esperto di biofouling, cioè di incrostazioni, di come certi materiali vengono attaccati e colonizzati da certi organismi, insieme ai colleghi dell'Istituto Zuckerberg ha scoperto un sistema per tenere pulita la membrana e senza l'utilizzo di sostanze chimiche. L'acqua marina viene prima fatta passare per rocce laviche porose che trattengono la maggioranza dei microorganismi, questo è il più importante me non l'unico punto di svolta degli ultimi anni nella tecnologia delle membrane. Oggi Israele ottiene il 55% della sua acqua potabile dalla desalinizzazione, la siccità è superata e il Mare di Galilea (che in realtà è u lago di acqua dolce) che si stava pericolosamente abbassando, gode di ottima salute.
La desalinizzazione naturalmente non riguarda solo il Medio Oriente sulla Terra esistono altre aree molto aride che però hanno un mare ragionevolmente vicino, già oggi 300 milioni di persone dispongono di acqua grazie alla desalinizzazione. Per quel che riguarda Israele attualmente esistono tre impianti attivi Ashkelon, Hadera e Sorek che insieme forniscono 600 milioni di metri cubi d'acqua l'anno. Altri impianti sono in arrivo tra cui un faraonico progetto da 900 milioni di dollari per un impianto da realizzare sul mar Rosso in collaborazione con la Giordania che fornirebbe acqua ad israeliani, giordani e palestinesi.

(Ultima Voce, 3 agosto 2016)


Le origini ebraiche dell'erbazzone

E' a tutti noti il gustoso erbazzone come uno dei piatti simbolo della cucina reggiana, ed invece Reggio Emilia sembra essere solo il punto di arrivo, perché a favorirne la nascita e l'evoluzione sono stati i montanari modenesi e reggiani, i liguri, gli ebrei, i romani e i toscani.

di Francesco Folloni

L'erbazzone

E' a tutti noti il gustoso erbazzone come uno dei piatti simbolo della cucina reggiana, ed invece Reggio Emilia sembra essere solo il punto di arrivo, perché a favorirne la nascita e l'evoluzione sono stati i montanari modenesi e reggiani, i liguri, gli ebrei, i romani e i toscani. Una storia, quella dell'erbazzone, di cui i fatti certi sono ancora pochi, ma le ipotesi sono molto più intriganti delle stesse certezze.
   Partiamo da ciò che sicuramente conosciamo, ossia il primo manoscritto in cui sono presenti le radici dell'Erbazzone moderno, ossia il Moretum, un testo che fa parte dell'Appendix Vergiliana, che non fu scritto da Virgilio come si pensa, ma probabilmente da Lucio Giunio Moderato Columella che visse ben 70 anni prima di Cristo. Le origini romane sono evidenti dalla stessa uinone di focaccia, formaggi e verdure che era alla base dell'alimentazione romana.
   Il lontano parente dell'erbazzone dovrebbe essere il Moretum, di cui però prende spunto solo per l'idea del pestare in un mortaio diversi sapori, ma anche questi sono differenti. Questa pietanza era tipica dei popoli emiliani durante l'invasione romana, tuttavia il parente più vicino all'erbazzone sembra essere un altro piatto, ossia la Turta de Gee Ligure, o detta anche Torta Cappuccina o Pasqualina. Infatti, entrambe sono composte da una scatola di pasta di pane e da un ripieno contenente coste di bietola e vari altri ingredienti.
   Tuttavia il nome Erbazzone assomiglia molto più ad un altro piatto, ossia lo Scarpozzone, che si differenzia dal piatto reggiano perché lo strato di pasta è uno solo. Mettendo da parte questa differenza è da notare che i primi erbazzoni sono di origine montanara modenese, reggiana e parmense, e anche lo scarpazzone ha origini sempre in terre montanare.
   Tuttavia la parola fondamentale in questo caso è "Pasqua". Infatti, se la Turta de Gee Ligure si chiama Pasqualina è dato dal fatto che veniva mangiata specialmente durante la pasqua. L'origine di questa tradizione non è però cristiana come potreste pensare, bensì ebraica. Infatti, sono note in diverse città italiane la presenza di torte di questo genere durante la Pèsach, ossia la pasqua ebraica. E' possibile che a contribuire alla ricetta dell'erbazzone siano stati proprio gli ebrei.
   Fatto ancora più importante è che a creare lo Scarpazzone sembra essere stata la comunità ebraica livornese che abitava in montagna. E' possibile che data la vicinanza con gli appennini dell'Emilia Occidentale, il passaggio al di là dei monti sia stato più semplice che mai. Non dimentichiamo che durante l'età moderna furono molti i signori italiani che perseguitarono gli ebrei obbligandoli ad emigrare.
   Tuttavia l'ultima, ma fondamentale, trasformazione avviene a valle. Una volta che la tradizione dell'erbazzone giunge in pianura Padana, essa si mischia con il gusto del Parmigiano Reggiano, arricchendone ulteriormente il gusto. Perché è però considerata un piatto reggiano? Perché a cucinarlo con la tradizione moderna sarebbero stati gli ebrei del ghetto di Reggio Emilia. Infatti il gustoso Scarpasoun è di un artigiano ebreo di Reggio Emilia, un certo Federico Sacerdoti.

(Modena Today, 3 agosto 2016)


Medicina: da studio su israeliani e palestinesi nuova luce su colesterolo buono

ROMA - Ricercatori dell'Università Ebraica di Gerusalemme hanno pubblicato uno studio sulla rivista 'Atherosclerosis' condotto sia su israeliani che palestinesi. Riuscendo a confutare la diffusa idea secondo cui le componenti del colesterolo 'buono' Hdl (Hdl-C) che proteggono cuore e arterie siano solo le lipoproteine ad alta densità.
   In particolare sono stati reclutati 274 arabi e 230 ebrei residenti a Gerusalemme, sui quali è stata utilizzata la risonanza magnetica nucleare per identificare il numero e le dimensioni delle particelle di Hdl nel plasma, e altri esami per identificare i livelli di calcificazione nelle arterie coronarie. E' stata poi avviata una sperimentazione con farmaci mirati ad aumentare i livelli di questa sostanza nel sangue: i dati non sostengono il legale fra quantità di colesterolo Hdl-C e riduzione del rischio di malattia coronarica. I risultati mostrano invece un'associazione inversa statisticamente significativa sia del numero di particelle Hdl (Hdl-P) che della concentrazione di particelle Hdl piccole e medie (Ms-Hdl-P) con la calcificazione coronarica.
   L'associazione con l'Hdl-C risulta invece più debole e inconsistente, sia tra gli uomini che fra le donne. "I nostri risultati indicano che l'Hdl-P e Ms-Hdl-P sono marcatori più indipendenti di malattia coronarica, come risulta dalla calcificazione delle arterie coronariche, rispetto all'Hdl-C, almeno in questa popolazione bi-etnica di israeliani e palestinesi", ha detto Chobufo Ditah, medico africano che ha collaborato con Jeremy Kark della Hebrew University.

(Adnkronos, 3 agosto 2016)


Verso Rio 2016. Sognando la maratona, Lonah e la sua nuova vita israeliana

Lonah Chemtai
Quando Lonah Chemtai è arrivata a Tel Aviv nel 2009 come ragazza au pair dell'ambasciatore del suo paese, il Kenya, non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe rappresentato Israele ai Giochi olimpici. E invece in queste ore sta facendo la valigia per Rio, dove parteciperà a una delle più nobili delle gare, la maratona. Ma se il suo fisico atletico e l'assistenza del suo allenatore nonché marito hanno reso la preparazione per la gara un sogno che si è realizzato, meno in discesa è stata la strada per la qualificazione da un punto di vista burocratico. Perché anche se Lonah vive in Israele da vari anni ed è sposata con un israeliano, non ha ottenuto la cittadinanza fino quasi alla scadenza della presentazione della domanda di qualificazione quest'estate. Il momento decisivo è stata la vittoria della maratona di Tel Aviv e la sua apparizione in televisione, dopo le quali la sua storia ha fatto il giro del paese attirando anche l'attenzione del ministro dell'Interno Aryeh Deri, il quale ha fatto sì che le pratiche fossero accelerate e approvate all'ultimo minuto, facendola naturalizzare giusto in tempo per Rio.
   "Sono molto fiera di gareggiare per Israele, e spero di poter stabilire un nuovo record personale", ha dichiarato Chemtai, la quale per percorrere i 42,195 chilometri della maratona impiega intorno all'ora e 40. Un tempo di circa venti minuti superiore a quello delle campionesse del mondo, ma come ha fatto notare il suo allenatore-marito Dan Salpeter, contano anche le condizioni di gara, e le strade sterrate nelle zone umide di Israele dove si prepara Lonah non sempre sono le migliori . "Un record personale a Rio dipende molto anche dal contesto - le sue parole - che può cambiare di giorno in giorno, dunque è difficile prevedere come andrà". Quello che è certo è che "Lonah ha un grandissimo potenziale che potrà implementare molto nei prossimi dieci anni e più".
   Chemtai ha ventisette anni, ed è nata in una zona rurale del Kenya occidentale. Insieme a Dan, che ha sposato proprio nel suo paese di origine, è mamma di Roy, che adesso ha un anno e mezzo. E da un anno e mezzo è anche maratoneta, poiché ha iniziato ad allenarsi per quella specifica gara esattamente dopo la nascita del suo bambino. La corsa però la pratica già da molto più tempo, e ha affermato che per i prossimi Giochi olimpici che si svolgeranno a Tokyo nel 2020 vorrebbe addirittura partecipare ai 10 mila metri. Del resto, ha detto che in fondo correre la maratona "non è una sfida poi tanto ardua".

(moked, 3 agosto 2016)


Una scoperta israeliana contro il deterioramento della memoria

La ricerca condotta dalla Prof.ssa Malka Cohen-Armon del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Facoltà di Neuroscienze dell'Università di Tel Aviv, in collaborazione con il Prof. Menachem Segal del Weizmann Institute, ha rivelato un processo biochimico alla base della formazione della memoria a lungo termine che coinvolge i neuroni delle zone del cervello i quali controllano le funzioni di acquisizione della conoscenza.
Lo studio, che ha coinvolto anche ricercatori dell'Istituto di Biotecnologie di Strasburgo del Thomas Jefferson University di Philadelphia, potrebbe aprire la strada al trattamento del deterioramento della capacità di apprendimento causato da malattie oppure dall'avanzamento dell'età. Lo studio è stato recentemente pubblicato sulla rivista Scientific Reports.
I neuroni cerebrali sono collegati da una rete complessa di milioni di sinapsi (zone di contatto) che trasmettono i segnali nervosi da cellula a cellula.
Come sottolinea il Prof. Arnon:
Sulla base delle conoscenze attuali, pensiamo che il processo di formazione della memoria a lungo termine sia soggetto a cambiamenti nelle sinapsi o alla creazione di nuove sinapsi nei centri cerebrali responsabili dell'apprendimento. Tuttavia, i meccanismi alla base di questo proceso non sono noti.
In uno studio precedente il Prof. Armon aveva scoperto che una proteina chiamata PARP1, presente in tutti gli animali e piante ed implicata nella riparazione delle rotture del DNA, è necessaria per l'acquisizione della memoria a lungo termine. Il nuovo studio mostra il meccanismo biochimico con cui questa proteina svolge un ruolo nel processo di apprendimento.
Come parte di questo esperimento, i ricercatori israeliani si sono sottoposti ad una stimolazione elettrica dei neuroni prelevati nelle aree cerebrali coinvolte, decodificando i processi biochimici che avvengono nel nucleo delle cellule in risposta a questo stimolo.
I neuroni del cervello non si rigenerano durante il percorso di vita. Dalla nascita alla morte il corpo umano accumula frammenti di DNA. La proteina PARP1 si lega a questi frammenti di DNA e interviene nella loro riparazione.
Spiega il Prof. Arnon:
Il nostro studio ha rivelato che quando si verifica un cambiamento specifico nella struttura della proteina dopo il legame con il DNA, essa non riesce più a ricevere i segnali.
Questa straordinaria scoperta potrebbe aprire la strada per il trattamento del deterioramento delle capacità di apprendimento a causa delle lesioni presenti nel DNA dei neuroni in casi di età avanzata o a causa di malattie.
La ricerca non si ferma, gli esperti stanno continuando gli studi al fine di procedere a passo spedito verso una risoluzione definitiva.

(SiliconWadi, 1 agosto 2016)


"Musulmani francesi contro il terrore. Tranne quando tocca agli ebrei"

Nell'appello anti terrorismo non ci sono Hyper Cacher e Tolosa: "Getta luce sulle tracce di antisemitismo nel Corano".

di Giulio Meotti

Daniel Sibony
ROMA - Dopo la manifestazione ecumenica nelle chiese, leader e intellettuali musulmani di Francia hanno pubblicato un appello sul Journal du Dimanche sotto il titolo: "Noi, musulmani francesi, siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità". I firmatari islamici elencano cinque attacchi terroristici: Charlie Hebdo, il 13 novembre, l'omicidio di due agenti di polizia a giugno, Nizza e l'attacco alla chiesa in Normandia. Non si fa riferimento né all'assassinio di quattro ebrei al supermercato kosher di Parigi né all'esecuzione di tre bambini e un rabbino a Tolosa. "Se siete pronti ad assumervi le vostre responsabilità, avete iniziato male", denuncia Robert Ejnes, il direttore esecutivo dell'Unione delle comunità ebraiche francesi. Una omissione che non sorprende Daniel Sibony, scrittore, psicoanalista e filosofo, autore del libro appena uscito "Islam, phobie, culpabilité", edizioni Odile Jacob. "E' una dimenticanza molto significativa, un vero lapsus che riconosce l'odio antiebraico conficcato nel cuore dell'identità islamica, nel suo testo fondatore, il Corano", dice Sibony al Foglio. "Tutti coloro che sono cresciuti in questa cultura hanno memorizzato versetti del Corano pieni di vendetta nei confronti degli ebrei".
   Continua Daniel Sibony nell'intervista al Foglio: "Il Corano maledice gli ebrei perché il Dio che l'ha dettato non ha potuto fare altro che copiare la Bibbia ebraica accusando gli scribi che l'hanno scritta di averla falsata, di non aver annunciato per nome l'arrivo di Maometto. E' questo schema che condiziona il rifiuto istintivo degli ebrei presso gli autori di questo appello e presso la maggior parte dei musulmani. Non è che vivano questa vendetta in ogni istante, possono anche dimenticarla quando si accompagnano con degli ebrei, ma questa non li lascia mai nei momenti decisivi nei quali loro 'prendono posizione'; questa si esprime attraverso di loro, anche senza che se ne accorgano, anche tramite dei silenzi". Altro fatto eloquente: "Esperti musulmani sottolineano che nell'attentato di Nizza c'è stata una novità terribile: per la prima volta si sono uccisi dei bambini. Dimenticano l'attentato di Tolosa contro una scuola ebraica, dove tutti hanno visto in televisione questo bravo islamista trascinare per i capelli una bambinetta prima di piantarle un proiettile in testa. Ma non era una bambina, era un'ebrea".
   Secondo Sibony, "nella maggior parte dei casi, i musulmani non sono coscienti degli appelli violenti nel loro testo contro gli altri; loro vogliono vivere in pace; è proprio questo che obbliga i più zelanti a sacrificarsi per mettere in pratica questi appelli. Molti fedeli pensano che questi appelli siano obsoleti e tipici di un'epoca passata; e molti occidentali sono pronti a crederlo, per buon senso e per simpatia. Ma la realtà è differente, questi appelli non sono affatto rari e loro condannano gli altri per l'eternità, dal momento che è la parola di Allah. Poco importa se questo prevalere ha poche probabilità di lasciare il segno, e se il progetto finale di islamizzare il mondo sembra aberrante; ciò che importa è che questo sia affermato ogni giorno, ed è ciò che avviene". Sibony ritiene che sia sull'"impotenza occidentale" che scommette la strategia islamista: "E include il jihad e il suo sottile mescolamento con propositi pacifici (la radice della parola islam è 'pace'). E sulla impossibilità di un criterio universale per distinguere l'amico dal nemico. Del resto è la stessa idea di un tale criterio a essere sovvertita dal testo fondatore, nel quale gli appelli alla pace sono mescolati agli appelli aggressivi. Questi giovani che vengono spesso presentati come degli esclusi, degli psicotici, il che testimonia un curioso logocentrismo, hanno spesso dato segni di vita normale e integrata nella società dei consumi, ed è a titolo di un supplemento spirituale, per dare un senso più elevato alla loro vita, che loro la mettono al servizio di una causa perfettamente esplicitata nel testo sacro. Si potrà obiettare loro la proibizione di uccidere, ma nel Corano vi è la proibizione di uccidere tranne che per una causa giusta. I loro atti appaiono non già come un atto disperato e nichilista, ma come un soprassalto spirituale per una causa onorevole e contro una vita bassamente materiale". La questione non sta nel riformare l'islam, "ma sapere se i musulmani d'Europa denunciano la chiamata alla guerra santa invece di negarne l'esistenza". Senza quest'ammissione, il dialogo salta in aria assieme al kamikaze.

(Il Foglio, 3 agosto 2016)


Himmler, feroce aguzzino, tenero padre e marito

La Bild svela i volumi mancanti dei diari del capo delle SS. L'ispezione delle camere a gas di Sobibor: 400 donne fatte arrivare apposta per la dimostrazione, poi la festa.

di Alessandro Alviani

 
Pagina del 20 luglio 1944, giorno dell'attentato a Hitler
BERLINO - Ci sono voluti anni per leggerle, digitalizzarle, ordinarle nel loro con testo storico, decifrare il senso di quella miriadi di incontri, telefonate e viaggi annotati con la stessa minuziosità di un contabile. Ora le agende del capo delle SS e organizzatore dell'Olocausto, Heinrich Himmler, relative agli anni 1938, 1943 e 1944 sono state rese pubbliche per la prima volta e diffuse in parte dalla Bild. Non si tratta di veri e propri diari, ma di calendari dettagliati. Oltre mille pagine in tutto.
   Mille pagine battute a macchina che aiutano a ricostruire meglio la figura di Himmler, che una volta chiede per il campo di concentramento di Auschwitz dei cani da guardia capaci di sbranare «chiunque ad eccezione dei guardiani»; un'altra ancora propone di salvare le truppe delle SS accerchiate a Stalingrado con le stesse razioni disidratate usate dai soldati di Gengis Khan; un'altra ancora, il 12 febbraio 1943, decide di controllare personalmente l'«efficacia» delle uccisioni col gas nel campo di sterminio di Sobibor (400 ragazzine e donne vengono fatte arrivare apposta per lui da Lublino, visto che non ci sono trasporti in programma quel giorno) e in seguito festeggia con un banchetto con le SS.
   3 gennaio 1943. 9,30: colazione. Dalle 10 alle 12: massaggio col suo medico personale Felix Kersten. 12,50: telefonata a «Marni e Puppi». «Marni» è l'appellativo con cui Himmler chiamava sua moglie Margarete, «Puppi» («bambolina») è sua figlia, Gudrun. La stessa sera Himmler ordina l'uccisione di un gruppo di polacchi che il giorno prima avevano dato l'assalto a un posto di polizia a Zarnowiec, nella Polonia occupata, nonché l'arresto e la deportazione in un campo di concentramento dei loro familiari.
   «È una di quelle scene che non riesco a togliermi dalla mente e che dimostrano la sua estrema spietatezza nei confronti delle vittime e, per contrasto, il suo essere affettuoso in privato», spiega al telefono il professore Nikolaus Katzer, direttore dell'Istituto tedesco di storia di Mosca. È il suo istituto ad aver scoperto il materiale nell'archivio centrale del ministero della Difesa russo a Podolsk. Il ritrovamento, spiega, risale a 7-8 anni fa; solo negli ultimi tre anni, però, sono stati intensificati i lavori per interpretare quelle carte grazie alle quali, nota, «viene colmato un vuoto, quello degli anni 1943-1945». Non si tratta infatti delle prime agende di Himmler tornate alla luce: già anni fa sono state pubblicate le agende relative al periodo 1940-1942.
   I calendari diffusi adesso, chiarisce il professor Katzer, contengono soprattutto «nuove informazioni su come Himmler tentò in modo risoluto di estendere la sua influenza nel sistema di comando del regime nazista e di trasferire sempre più competenze alle SS o alla polizia». Dalle agende, cioè, «emergono in modo particolarmente chiaro le ambizioni di Himmler di allargare la sua sfera di potere attraverso i suoi contatti personali».
   La capillarità di tali contatti e il suo ruolo centrale nel sistema nazista diventano ora «ancora più chiari», aggiunge il ricercatore Matthias Uhl, che ha studiato il materiale. Una rete di contatti vastissima: in meno di due anni e mezzo, tra il 1943 e il 1945, Himmler incontra oltre 1600 persone. Tra queste ci sono più volte anche il Duce e altri gerarchi fascisti, come dimostrano alcune pagine delle agende visionate da La Stampa. Il 20 luglio 1944, il giorno del fallito attentato del colonnello Claus von Stauffenberg ad Adolf Hitler, Himmler va a prendere nel pomeriggio Benito Mussolini alla stazione di Gòrlitz e lo accompagna da Hitler alla Wolfsschanze (la Tana del Lupo).
   Il 15 settembre del 1943, pochi giorni prima della nascita della Repubblica sociale italiana, Himmler annota tra l'altro una cena col «Fùhrer e il Duce» alle 20,45 e alle 23 un incontro presso «Exzellenz Ricci» (Renato Ricci, comandante della Guardia nazionale repubblicana nella Rsi), col quale torna nella Wolfsschanze all'l,15. Tre giorni dopo, il 18 settembre, giorno in cui Mussolini annuncia la nascita della Rsi, Himmler incontra alle 17,30 «Exzellenz Tassinari», quel Giuseppe Tassinari al quale la Germania nazista pensava, prima della liberazione di Mussolini, di affidare la guida della Rsi.

(La Stampa, 3 agosto 2016)


Design. A Tel Aviv una mostra dedicata allo studio di design giapponese Nendo

Fondato da Oki Sato, tra i più grandi designer internazionali, lo studio di progettazione in questa esposizione rivela i tratti distintivi della sua multiforme e impeccabile creatività,

TEL AVIV - Fino al prossimo 30 ottobre il Design Museum Holon di Tel Aviv ospita la prima mostra dedicata al celebre studio di design giapponese Nendo, fondato 10 anni da Oki Sato, tra i maggiori designer a livello mondiale, premiato come "Designer of the Year" dalla rivista Wallpaper e insignito del titolo di "Designer of the Year" dalla fiera parigina Maison & Objet. "Nendo" in giapponese significa "creta" e la scelta del nome non è di certo casuale sottendendo che il loro lavoro, nel campo dell'architettura d'interni, dell'arredo e della grafica è appunto duttile e flessibile come la creta.
Settanta sono le opere in mostra di altissimo design dislocate in tutto lo spazio espositivo, altrettanto all'avanguardia nella sua particolare struttura architettonica. Il museo, infatti, realizzato da Ron Arad, sorge a circa sei chilometri da Tel Aviv, e si distingue per le sue linee curve che lo rendono quasi una sorta di architettura-scultura.
La mostra dal titolo Nendo: the space in between raccoglie buona parte della multiforme attività del famoso studio di progettazione, in un percorso distribuito in sei sezioni: between processes, between textures, between boundaries, between the object, between relationships, between senses. A queste sezioni va ad aggiungersi una installazione site specific in perfetto dialogo con la struttura museale. Qualità, purezza, essenzialità ed eleganza sono i tratti distintivi di queste opere di design impeccabili che rivelano la straordinaria creatività che contraddistingue lo studio Nendo.
La mostra curata da Maria Cristina Didero è stata inaugurata il 7 giugno scorso e dopo questa tappa israeliana si sposterà in altre sedi espositive in giro per il mondo.

(Artemagazine, 3 agosto 2016)


«Come osate indagare mio figlio». Erdogan dichiara guerra all'Italia

Di fronte a questo despota l'Europa ha solo da perdere

di Fiamma Nirenstein

Quanta profonda rabbia mista ad astuta strategia. Il furioso anatema lanciato da Erdogan contro l'Unione Europea, contro Federica Mogherini, e contro l'Italia, è tipico del presidente turco Tayyp Erdogan adesso esacerbato dal golpe: da una parte rivela una natura incontinente abituata a punire, a eliminare, a rinchiudere: un despota.
   Ma in realtà i sultani sulla cui memoria Erdogan si misura erano più misurati nel gestire il potere che gli era attribuito dal ruolo. Ha fatto bene Renzi a rispondergli seccamente sul figlio indagato per riciclaggio a Bologna: Erdogan immagina che avere buoni rapporti con un Paese significhi poterlo svillaneggiare, accusare di lesa maestà e ottenere quindi che si pieghi all'intimidazione e alla minaccia. La mafia non c'entra nulla, è solo un'allusione antitaliana volgare: la minaccia è per noi quella di una crisi con la Turchia che porta il colore dell'invasione di profughi. La sua aggressività non comporta una crisi diplomatica, ma epocale, fatale. Erdogan è arrabbiato? Si, ma non è solo preda del suo caratteraccio: nell'attacco alla UE si legge bene il calcolo e la delusione storica. Il patto con l'Europa del 18 marzo, con cui in cambio di un sostanziale, indispensabile sostegno turco al contenimento dell'immigrazione irachena e turca si sono promessi visti liberalizzati a 75 milioni di turchi e svariati miliardi, oltre alla riapertura dei colloqui sull'ingresso in Europa, è a rischio nostro malgrado.
   Erdogan ha spaventato tutti con la sua reazione sanguinaria e liberticida del post golpe: è difficile prescindere dal possibile ripristino della pena di morte, per altro già praticata, dai 15miIa arrestati, dai 70mila sospesi dal lavoro, dalle centinaia di scuole chiuse, dai 130 giornali serrati. Erdogan attacca per difendersi, minaccia e ricatta per ottenere quello che vuole: di soldi ne sono arrivati pochini (solo 3 milioni), l'Europa medita un piano b che mette in mezzo la Grecia e le sue isole. La delusione della Turchia ribolle ormai da anni: dal successo strepitoso nel periodo della Primavera Araba in cui tutto il mondo inneggiava al Paese musulmano moderato amico degli americani e quasi europeo la Turchia è passata ad essere un Paese attaccato spietatamente dal terrorismo, passerella dei freedom fighters, dalla politica estera fallita, rientrato in rotta di collisione col suo nemico storico, la Russia; l'alleanza con la Siria, si è rovesciata completamente, il rapporto con gli USA, si è sgretolato, l'appartenenza alla Nato che perde ogni giorno di significato mentre ne acquista quello di leader della Fratellanza Musulmana, fratello di Hamas e amico intimo del Qatar. E adesso l'attacco in Libia che punisce il suo protetto, il governo di Tripoli, favorendo quello di Tobruk subito dopo il colpo più duro, il tentativo di colpo di stato. E pensare che la Germania non gli ha nemmeno permesso di arringare i suoi che a Colonia hanno fatto un rally di 30mila persone in suo onore. Erdogan è esploso: o fate come voglio io, o vi punisco con un'invasione di profughi. Questo è il messaggio.
   Che rabbia quest'Europa, eppure era sulla buona strada. Quando la Mogherini in giugno ha richiamato l'ambasciatore Hansjorg Haber che aveva osato dire che Erdogan usava una «definizione troppo larga di terrorismo» per compiere le sue purghe, sembrava che avesse capito l'antifona. E invece non è così. A volte anche i sultani esagerano e forse ormai l'Europa ha più da perdere che da guadagnare da questo leader che vuole rifarsi a gomitate.

(il Giornale, 3 agosto 2016)


L'oleodotto segreto nel deserto di Israele

Costruito nel 1968 con l'Iran dello Scià, è al centro di una doppia causa: con ecologisti e ayatollah

di Davide Frattini

 
ASHKELON - Il cartello indica la strada per entrare, la guardia armata invita a restare fuori, a ripercorrere all'indietro il viale colorato dai fiori di carta della bougainvillea. Circondata dalle dune, la Eilat Ashkelon Pipeline Company pubblicizza quello che in realtà vuole mantenere segreto. Il simbolo con i tubi e la petroliera stilizzati sui cancelli, i depositi per il greggio, l'andirivieni dei camion verso il porto: tutto è visibile, alla luce abbagliante del sole sul Mediterraneo. Eppure la società è coperta dal segreto di Stato, protetta dalla censura militare. Gli israeliani non possono sapere i nomi di chi siede nel consiglio di amministrazione, in un Paese dove ormai è pubblica perfino l'identità del capo del Mossad.
   Le attività dell'Eapc sono insabbiate come il fiume nero che ha allagato il deserto del Negev nella notte del 3 dicembre 2014. I cinque milioni di litri sono fuoriusciti da una rottura nell'oleodotto, hanno invaso la riserva naturale di Evrona, contaminato i tronchi delle acacie centenarie, le pozze dove si abbeverano duecento gazzelle. Pochi giorni dopo le ruspe hanno coperto la chiazza scura e densa con terra arida, in superficie non si vede più nulla, sotto i danni possono durare decenni.
   È considerato il disastro ambientale più grave nella storia di Israele, la causa contro la società va avanti da mesi, le associazioni ecologiste continuano a presentare petizioni per riuscire a identificare i responsabili. Orit Kratz, l'avvocata che rappresenta il governo, ha dichiarato in tribunale «di non poter confermare o negare che esistano legami tra l'Eapc e Io Stato». I giudici hanno di recente respinto la richiesta di togliere Benjamin Netanyahu dalla lista dei querelati, è improbabile che il primo ministro accetti di andare in aula a testimoniare.
   Perché - spiega il quotidiano Haaretz - la riservatezza che offusca le operazioni della compagnia è considerata vitale dal premier. Che insisterebbe a tutelare l'Eapc per colpire il nemico più irriducibile. L'oleodotto è stato costruito nel 1968 con investimenti al 50 per cento iraniani. Allora al potere c'era Io Scià che aveva richiesto la clausola di riservatezza per non pubblicizzare troppo tra i vicini mediorientali i buoni rapporti con lo Stato ebraico.
   Dopo la rivoluzione islamica del 1979, Israele da socio in affari diventa il Piccolo Satana, ancora più detestato dagli ayatollah del Grande (I' America). Il premier Menachem Begin impone di non pagare più i dividendi a un Paese ormai ostile, l'oleodotto continua a pompare greggio. Da ventidue anni gli iraniani cercano di recuperare quello che spetterebbe loro, i tribunali in Svizzera e in Francia a cui si sono rivolti per l'arbitrato internazionale calcolano il debito accumulato e il risarcimento in oltre 1 miliardo di dollari. Per il regime riuscire a spillarli sarebbe una vittoria politica e strategica. Per Netanyahu è inaccettabile doverli pagare: come sovvenzionare - ragionano i suoi consiglieri - gli armamenti della nazione che proclama di volerci distruggere.
   Aluf Benn, direttore di Haaretz, sostiene che la segretezza vada superata: «I manager dell'Eapc godono di privilegi stravaganti e straordinari, se confrontati a quelli di altre aziende pubbliche. I dossier della Corte dei Conti che criticavano duramente la gestione sono stati seppelliti e dimenticati». La serie di articoli dedicati dal suo giornale alle attività della compagnia petrolifera è stata condannata dalla censura militare perché avrebbe «danneggiato la sicurezza del Paese».
   Anche Tamar Zandberg, deputata all'opposizione con la sinistra radicale di Meretz, chiede che la riservatezza venga in parte rimossa, Io scrive in un'interpellanza al procuratore generale dello Stato: «Gli israeliani hanno diritto di conoscere i salari, le qualifiche, i bilanci, gli investimenti di un gruppo in cui - pare - finiscono anche i loro soldi».
   La linea a zig zag mostra il percorso dell'oleodotto dal porto di Ahskelon a Eilat sul Mar Rosso. La strada alternativa per il petrolio era stata voluta dal governo israeliano per sottrarsi agli eventuali ricatti economici del leader egiziano Gamal Abdel Nasser che minacciava di chiudere il canale di Suez ai traffici internazionali. La mappa sta appesa negli uffici a Tel Aviv di Adam Teva v'Din, l'organizzazione ambientalista che guida le petizioni alla Corte Suprema e le cause per danni delle comunità nel Negev. «La segretezza impedisce di risalire - spiega l'avvocata Leehee Goldenberg - ai responsabili della fuoriuscita di petrolio». Indica la cartina, il filo di tubi che unisce il Mediterraneo al triangolo dove Israele incontra la Giordania e l'Egitto: «Quali sostanze scorrono lì dentro? In quale direzione? È ancora greggio? Quanto è tossico? Per garantire il "segreto di Stato" la gente non può neppure sapere che cosa le scorra vicino a casa».

(Corriere della Sera, 3 agosto 2016)


A settembre XVII Giornata europea della cultura ebraica

Tema: 'Lingue e dialetti ebraici', Milano capofila in Italia

ROMA - Si svolgerà domenica 18 settembre 2016, in settantaquattro località in Italia, la Giornata europea della cultura ebraica, la manifestazione che invita a scoprire storia, luoghi e tradizioni degli ebrei attraverso centinaia di eventi tra visite guidate a sinagoghe, musei e quartieri ebraici, spettacoli, mostre, concerti, degustazioni kasher e altri appuntamenti culturali. L'evento, giunto alla diciassettesima edizione, è coordinato e promosso nel nostro Paese dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, parte di un network internazionale al quale aderiscono quest'anno trentacinque Paesi europei.
"Siamo convinti che in un periodo storico estremamente complesso e difficile quale è quello che stiamo vivendo, sia importante continuare a proporre iniziative positive, che stimolino la costruzione di legami e ponti all'interno di una società inclusiva e attenta ai diritti di tutti", ha scritto nella presentazione dell'iniziativa la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni.
Un tema comune, "Lingue e dialetti ebraici", unirà idealmente tutti gli appuntamenti. Oltre all'ebraico, la lingua della Torah, il riferimento è allo Yiddish degli ebrei dell'est Europa, al Judeo-Espanol parlato dalle comunità ebraiche del bacino mediterraneo, ma anche ai diversi dialetti italiani, come il giudaico-romanesco, il bagitto livornese, il giudaico-veneziano e il giudaico-torinese. L'argomento sarà declinato in molti modi, dal teatro ai concerti, dai laboratori alle conferenze, con iniziative aperte e gratuite per tutta la cittadinanza e diffuse in quattordici Regioni. A Milano, prescelta quale capofila della manifestazione in Italia, si darà il via simbolico agli eventi nel nostro Paese, nell'anno in cui la comunità ebraica milanese, parte viva e integrante del tessuto sociale e culturale della città, festeggia i centocinquant'anni dalla nascita. La minoranza ebraica è presente in Italia da oltre due millenni, con testimonianze di vita e cultura diffuse sul territorio, dalle grandi città ai piccoli centri, da nord a sud alle isole. Siti e percorsi tra i più belli d'Europa, che rendono l'edizione italiana, con circa cinquantamila presenze ogni anno, una delle più seguite, realizzando da sola più di un quarto dei visitatori complessivi dell'intero continente.

(ANSAmed, 3 agosto 2016)


Estremo cinismo e menzogne pur di demonizzare Israele

Prima il padre palestinese cerca di "martirizzare" il figlio, poi la tv dell'Autorità Palestinese trucca il video per inventare un eroico "balilla" palestinese

Un padre palestinese ha spinto venerdì scorso il suo bambino di 4 anni verso i soldati israeliani che stazionavano in servizio di guardia nella zona di Ni'lin, incoraggiandolo a lanciare pietre contro i militari. Intanto scherniva i soldati, spronandoli a sparare contro il bambino. Uno dei soldati, una volta raggiunto dal bambino, gli ha dato "il cinque" e gli ha stretto la mano. Poi il bambino, pressato dalle esortazioni del padre che continuava a gridargli di lanciare pietre contro i militari, ha preso dei sassi e li ha lanciati senza convinzione a lato della strada....

(israele.net, 3 agosto 2016)


Notizie su Israele aveva riportato questa notizia quattro giorni fa"Il bimbo palestinese costretto dal papà a provocare i soldati. Ma…"


Volo storico Casale-Venezia in ricordo di Olper

di Dionigi Ruggero

Salomone Olper
CASALE-VENEZIA — L'Aeroclub Palli di Casale sta organizzando per fine agosto un volo storico, con tre velivoli, Casale-Venezia, in ricordo di Salomone Olper collegato anche alle cerimonie per il quinto centenario del ghetto veneziano.
Il vicolo che porta alla Sinagoga di Casale è dedicato a Salomone Olper, nato a Rovigo nel 1811, primo dei quattro figli del veneziano Leon e di Benedetta Finzi. Nel 1837 conseguì la laurea in lettere presso l'Università di Padova e contemporaneamente il titolo di rabbino al Collegio di quella città. Dall'anno successivo fu vice rabbino della comunità veneziana a fianco di Abraham Lattes e poi protagonista della gloriosa Repubblica Veneta. Era segretario del governo provvisorio proclamato il 22 marzo 1848, dopo la liberazione dalle carceri austriache di Daniele Manin (anch'egli di famiglia ebraica) e di Niccolò Tommaseo. Filomazziniano e apertamente repubblicano, invitava il popolo veneziano alla resistenza con queste parole: "Cristiani ed ebrei / semo tuti fradei, / ebrei e cristiani / semo tuti italiani". Si narra anche che avesse baciato il crocefisso in piazza San Marco esortando la folla alla causa nazionale.
   Così, quando la città cadde in mano austriaca fu esule in diverse città italiane. Dal 1849 tenne a Firenze la cattedra di rabbino maggiore, poi insegnò privatamente a Livorno ebraico e italiano. Sorvegliato speciale in Toscana, solo grazie ad un passaporto provvisorio ottenuto dal console statunitense, raggiunse Genova e finalmente nel 1856 ricopre il ruolo di rabbino maggiore presso l'Università generale israelitica del Monferrato, che comprendeva il capoluogo Casale e i centri minori di Acqui, Moncalvo e Nizza Monferrato. Fu sua costante preoccupazione, nel triennio casalese, la riforma scolastica della comunità cittadina, in modo che i giovani diventassero buoni ebrei e buoni italiani, come aveva dimostrato di essere stato lui. Sostenne anche con vigore il progetto di ampliamento e abbellimento della sinagoga redatto dall'arch. Archinti con "quella magnifica predica che egli lesse, quando fu chiamato a questa Cattedra Rabbinica".
   Così si legge nella orazione pronunciata nel tempio israelitico di Casale sabato 19 aprile 1856 dal rabbino maggiore Salomone Olper, pubblicato a Casale dalla Tipografia G. Nani nel 1856.
   Raggiunto il capoluogo subalpino nel 1859, come attesta il suo "Discorso d'ingresso alla Cattedra rabbinica dell'Università israelitica di Torino il giorno 1o aprile 1859 nell'oratorio maggiore di rito italiano", pubblicato a Torino (Bona, 1859), il rabbino-patriota si spense, dopo breve malattia, il 13 dicembre 1876.

(Il Monferrato, 2 agosto 2016)


La liberissima stampa d'Israele

I media odiano Netanyahu e si inventano pure una sua dittatura

Una volta è il successo strepitoso di Israel Hayom, il più venduto quotidiano israeliano di proprietà del magnate dei casinò americani Sheldon Adelson, finanziatore del primo ministro Benjamin Netanyahu e di tanti candidati repubblicani negli Stati Uniti. Un'altra volta è l'interim di Netanyahu come ministro della Comunicazione. Un'altra sono le nomine nei grandi media. Un'altra ancora è la riforma della tv pubblica israeliana, la Israel Broadcasting Authority.
"Un'atmosfera di intimidazione ha iniziato a prendere piede in molte, se non nella maggior parte, delle redazioni del paese", si legge adesso sul New York Times, che non perde mai un'occasione per demonizzare il premier israeliano. E non conta il fatto che un governo eletto voglia aprire il settore delle comunicazioni a una maggiore concorrenza. No, si tratta per forza di autocrazia in fieri. Netanyahu come Erdogan.
E' una realtà inventata di sana pianta da una stampa conformista e asservita al pregiudizio. La libertà di parola sarebbe "schiacciata" da Bibi, mentre una vibrante, stampa libera continua ad attaccarlo senza timori e remore ogni giorno? Evidentemente le parole non hanno più alcun significato quando si tratta di Israele.
La stampa in Israele è liberissima e agguerrita, scava nella vita del primo ministro (e di sua moglie Sara) alla ricerca di qualche spicciolo, mette sotto inchiesta i generali e riesce a farli dimettere, anima dibattiti infuocati sulla natura democratica del paese. Israele ha di gran lunga più giornali pro capite rispetto alla maggior parte delle democrazie occidentali e la sua stampa è più di sinistra rispetto a quella di tanti paesi europei. Per capire questa vivacità incredibile, basta aprire il numero del weekend di Haaretz, il quotidiano dei fighetti della diaspora ebraica e di ormai pochissimi lettori israeliani della sinistra radicale: "Israel is an evil state". Provassero a pubblicare un editoriale di questo tipo in qualsiasi stato che confina con Israele. Chiedessero a Can Dündar cosa gli è successo per molto meno in Turchia.
Ciò che i media non perdoneranno mai a Netanyahu è aver surclassato alle urne per tre volte i loro beniamini progressisti.

(Il Foglio, 2 agosto 2016)


Il Papa, il terrorismo, il dio denaro

Davvero uccidere un prete è come dare uno schiaffo a una suocera? L'illusione che la forza di una negazione sia utile per difenderci dal nuovo nazismo. Il terrorismo islamico spiegato con affetto a Papa Francesco.

di Claudio Cerasa

 
Non capiterà, speriamo, ma se dovesse ricapitare, se un altro prete, in Europa o in medio oriente, dovesse essere nuovamente sgozzato da un terrorista disposto a uccidere e farsi uccidere in nome di una lettura integralista del Corano sappiamo che l'interpretazione ufficiale di quel fatto che verrà data dal capo della chiesa cattolica, Papa Francesco, è più o meno questa. Il terrorismo islamico è una follia omicida (16/6/16) che non ha nulla a che fare con il Corano, perché l'islam è una religione di pace, comunque non meno violenta della religione cattolica, perché anche noi cattolici abbiamo quello che uccide la fidanzata o la suocera (30/7/16), e se c'è qualche pazzo che si fa saltare in aria recitando i versetti del Corano è necessario, per capire quel gesto, non ragionare su cosa è l'islam ma interrogarci su cosa può aver spinto quel "folle" a compiere un simile gesto.
   Partendo dal presupposto che la violenza, il conflitto e il terrorismo si alimentano con la paura e la disperazione che nascono da povertà e frustrazione (25/11/15); che il terrorismo cresce anche quando non c'è un'altra opzione in un mondo che mette al centro dell'economia il dio denaro (30/7/16); che la guerra di religione non esiste ma esiste soltanto la guerra per interessi, per i soldi, per il dominio dei popoli (27/2016); e che quando si parla di terrorismo bisogna chiedersi quanti sono i giovani che noi europei abbiamo lasciato vuoti di ideali, senza lavoro, che vanno a cercare la droga, o si arruolano in gruppi fondamentalisti (30/7/16). Al di là delle molte obiezioni che si potrebbero sollevare sulle argomentazioni minimaliste di Papa Francesco - forse c'è una lieve differenza tra un omicidio commesso da chi crede in Dio e un omicidio commesso in nome di Dio contro un infedele ucciso per la sua fede in un altro dio - la negazione della radice del terrorismo di matrice islamista deve fare i conti con una serie di circostanze che sarebbe utile ricordare (i terroristi islamici, tanto per fare un esempio, arrivano spesso da famiglie di media borghesia e la loro spinta verso la violenza, come sostiene Alan Krueger nel famoso libro "What makes a terrorist", avviene non perché non avevano alternative, a causa della diseguaglianza generata dal dio denaro, ma per questioni legate all'ideologia).
   Al Papa forse non si può chiedere di far propria la teologia di sant'Agostino - bellum non est per se inonestum - e concedere ai bombardamenti contro lo Stato islamico il bollino della guerra giusta. Ma a Francesco si può chiedere di riflettere se siano del tutto prive di senno argomentazioni come quelle offerte dal cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, o come quelle offerte due giorni fa da monsignor Yousif Mirkis, arcivescovo cattolico caldeo di Kirkuk. Entrambi hanno paragonato il radicalismo dell'Isis a quello del nazismo. Schönborn lo ha fatto sul Corriere in modo più sfumato ("Il radicalismo è una tentazione di ogni epoca: i giovani che sono diventati SS durante nazismo, da dove venivano"), Mirkis lo ha fatto in modo più netto sul Point: "Padre Jacques Hamel è un martire ed è stato ucciso perché è cristiano e con le stesse modalità con cui gli islamisti uccidono da decenni i cristiani in medio oriente. Lo Stato islamico è peggio del nazismo".
   Come suggerito da Pascal Bruckner in un saggio profetico che trovate oggi nel nostro giornale, continuare a rifugiarsi nel senso di colpa dell'uomo bianco rischia di avere un effetto drammatico. Rischia di non rendere giustizia ai martiri uccisi per la loro fede, sostenendo che un prete ammazzato con un taglio alla gola sia la stessa cosa di una suocera colpita con uno schiaffo. Rischia, soprattutto, di far abbassare ancora di più le difese immunitarie di un'Europa secolarizzata, cavalcando l'illusione che la forza immobile del silenzio e della negazione possano essere utili per difenderci da una guerra che gli islamisti hanno lanciato spinti non dall'odio contro il neoliberismo imperante ma dall'odio contro il simbolo della più grande religione dell'occidente: il cristianesimo.

(Il Foglio, 2 agosto 2016)


"L'Occidente cristiano sotto attacco"

Dal massacro di Rouen alla guerra civile. Intervista a Rémi Brague

di Giulio Meotti

Notre Dame de Paris

ROMA - Rémi Brague non è rimasto abbagliato dal tripudio di ecumenismo non soltanto da parte della comunità islamica francese, l'abbraccio multiculturale nelle chiese, il rifiuto della sepoltura islamica al terrorista che ha sgozzato padre Hamel, il concordato stato-moschea voluto da Manuel Valls. Brague non crede neppure alla ritrovata unità fra il cattolicesimo e la République. "La prima reazione, subito dopo Saint-Etienne-du-Rouvray, è stata ovviamente emotiva: il dolore, la compassione, la rabbia", dice Brague al Foglio. Cattedra di Filosofia alla Sorbona, un'altra di Storia delle religioni alla Ludwig-Maximilian-Universität di Monaco, fra i massimi studiosi di Maimonide, autore di quella "Europe la voie romaine" tradotto in quattordici lingue, Brague ha ricevuto il premio Ratzinger dalle mani di Benedetto XVI.
   Il suo ultimo saggio è "Le Règne de l'homme" (Gallimard). "Una volta che la polvere si è depositata, un fatto nuovo e molto interessante è venuto alla luce: questa è la prima volta in Europa, fatta eccezione per il fallito attentato a Villejuif, nel mese di aprile 2015, che il terrorismo islamico attacca frontalmente il cristianesimo. Questa non è la prima volta che chiese o cimiteri vengono profanati. Ma questa è la prima volta che un prete viene ucciso nella sua chiesa, alla fine della messa. Vedo un'ammissione di ciò che le nostre politiche vorrebbero nascondere, vale a dire l'identità cristiana profonda, consapevole o no, della nostra civiltà occidentale. Coloro che vogliono farla finita con essa avvertono che il cristianesimo è al centro del bersaglio".
    Secondo Brague, la classe dirigente francese ha capitolato quando nel mirino c'erano i cristiani orientali. "I cittadini francesi non sono rimasti a braccia conserte e hanno aiutato i loro fratelli d'oriente inviando denaro. Ma è un dato di fatto che le autorità dello stato francese hanno mostrato una certa strana riluttanza a chiamare le cose con il loro nome. Così, quando lo Stato Islamico ha rapito i lavoratori egiziani in Libia, separandoli dai mussulmani e macellando ventuno copti, il presidente Hollande ha parlato della strage di 'cittadini egiziani'. I media ufficiali preferiscono utilizzare l'acronimo Daesh invece di parlare di 'Stato islamico di Iraq e Siria', anche se questo è il suo nome sedicente. Dobbiamo a tutti i costi evitare l'uso dell'aggettivo 'islamico' per suggerire che questi crimini non hanno alcuna relazione con l'islam".
    Un'arrendevolezza, secondo Brague, che cela un sentimento profondo. "Ci sono alcuni francesi, politici e mezzi di comunicazione, che hanno un desiderio più o meno consapevole e più o meno dichiarato di porre fine al cristianesimo. E' una vecchia storia che risale al XVIII secolo, a prima della Rivoluzione, e che è stato in larga misura un tentativo di scristianizzazione. Oggi, i media conducono la lotta sul campo culturale, quello della vita di tutti i giorni. Un esempio: oggi dicono 'questo è il santo X' e 'questo è il festival di X'. Il riferimento cristiano viene rimosso in anticipo, con il pretesto che 'potrebbe offendere i musulmani'. Mascherano la loro inazione o semplicemente il loro silenzio con argomenti quali: 'Dopo tutto, i crociati non erano molto gentili con i Saraceni; nessuna meraviglia, è il loro turno adesso…'. Si dimentica però una grande differenza tra i due: le crociate sono del passato, mentre è oggi che lo Stato islamico uccide e si potrebbe cercare di fermarlo".
   Che cosa temete di più per il futuro della Francia? "Sono in campagna e ho dimenticato a Parigi la mia sfera di cristallo", conclude Brague l'intervista al Foglio. "Non so predire il futuro. Al massimo, posso dire quello di cui ho paura. Diversi scenari sono possibili, compreso il peggiore. Tra i peggiori, c'è una guerra civile di cui si comincia a parlare. Sarebbe esattamente quello che vuole lo Stato islamico. La loro strategia è la stessa dei gruppi di estrema sinistra degli anni Settanta, come da voi le Brigate Rosse: provocare l'autorità e scatenare una repressione cieca in modo che l'intera popolazione solidarizzi con la minoranza rivoluzionaria. Eppure, mi chiedo se non ci sia qualcosa di peggio. Mi permetta il paradosso: il peggio è che non succede nulla, che continui così. L'obiettivo è più importante dei mezzi. E lo Stato islamico ha lo stesso obiettivo dell''islam moderato': il dominio del mondo sotto la sharia. I mezzi violenti non sono gli unici, e sono forse controproducenti nella misura in cui potrebbero risvegliare le nazioni che attaccano. I mezzi morbidi, discreti, pazienti come la pressione sociale, la propaganda, sono forse più pericolosi, perché più efficaci".

(Il Foglio, 2 agosto 2016)


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L'Occidente cristiano è destinato a cadere

di Marcello Cicchese

Davanti all'avanzata lenta ma continua dell'islam molti, anche e soprattutto tra i laici, stanno sottolineando il valore storico e morale della civiltà cristiana occidentale, e in qualche modo sembrano rimproverare al Papa di non essere abbastanza fermo nel difenderla. Il Papa invece oggi ama presentarsi al mondo come il mite predicatore di pace del cristianesimo evangelico. E' falso. Il papato vaticano, con a capo l'attuale Jorge Mario Bergoglio, è l'espressione più evidente di un superbo cristianesimo trionfante che ha pensato per secoli di avere il diritto di dominare su re, popoli e nazioni. Sontuose cattedrali come quella di Notre Dame a Parigi, in cui si rappresenta una chiesa trionfante che umilia una sinagoga sconfitta, sono destinate a crollare, se non materialmente almeno in quello che vogliono significare, come quando sono trasformate in moschee. L'islam non arriverà a dominare il mondo, ma come gli Assiri della Bibbia può benissimo essere lo strumento dell'ira di Dio per il passaggio ad un altro periodo della storia, prima che non subisca anche lui la sorte che gli spetta per essere stato usato come "verga della Sua ira".
   Prima di salire al cielo Gesù ai suoi discepoli ha detto: «... e mi sarete testimoni in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra» (Atti 1:8). Il cristianesimo autentico è costituito da testimoni di Gesù che fino al suo ritorno avrebbero dovuto rimanere in diaspora, come gli ebrei e accanto a loro. Aver voluto formare a Roma un centro imperiale in opposizione a Gerusalemme è una deviazione storica del Vangelo che sta avvicinandosi alla tragica conclusione del suo ingannevole percorso. Forse il Papa attuale in qualche forma l'avverte e forse è vero quello che qualcuno ha supposto: ha paura. Ha paura che il sontuoso castello che ha sede in Vaticano sia prossimo a cadere. Quanto prossimo non si può dire, ma è un fatto che il superbo, trionfante "Occidente cristiano" è destinato a cadere. Nessuno lo rimpianga.
   Non finirà invece la testimonianza di Gesù, fatta di tanti uomini, donne e comunità di semplici credenti che nella debolezza della loro posizione di fede testimoniano di Cristo senza gli apparati di sicurezza con cui va in giro il Papa a raccomandare agli uomini di essere buoni, di seguire la loro religione, qualunque religione, perché tutte le religioni sono buone. Ma dice questo il Vangelo? O esattamente il suo contrario. Chiese, basiliche e monasteri possono crollare, ma se per la testimonianza di Gesù anche veri credenti in Cristo sono caduti insieme a quegli edifici religiosi, questo non è la fine della fede cristiana, ma il suo inveramento e la sua pubblica espressione.

(Notizie su Israele, 2 agosto 2016


La Chiesa islamicamente corretta

di Deborah Fait

 
La pagliacciata si è conclusa tra il delirio dei media italiani. I musulmani hanno accettato l'invito dei preti e si sono precipitat... ehm... sono andati, alcuni un po' sospettosi, verso le chiese in obbedienza al circo mediatico preparato all'uopo per dire quanto buoni e rispettosi della vita umana, che sinceri "fratelli" siano i musulmani. Chissà perché non credo a una sola parola di pace pronunciata da un musulmano, chissà perché! Perché sei razzista, diranno i soliti pronti a baciare le babbucce di ogni imam o sceicco, pronti a credere ad ogni esibizione di Taqiyya
   Menzogna finalizzata alla vittoria dell'islam
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   Vediamo un po', secondo il Sole 24 Ore, nel 2010, i musulmani in Italia erano 1.580.000, dopo 6 anni, nel 2016, saranno molti di più tra regolari e clandestini e, scrivono i media, anzi urlano i media, ben 23.000 (secondo altri 15.000) sono entrati nelle varie chiese. Un bel flop, non c'è che dire, 23.000 su un paio di milioni, uno schiaffo, anzi un knock down vero e proprio, tirato in faccia a Papa Francesco che dalla Polonia e dall'aereo che lo riportava a Roma continuava la sua patetica litania "L'islam non è violenza... è sbagliato pensare che il terrorismo sia legato all'islam..."
   E' pericolosissimo questo Papa e, mi spiace dirlo, non porterà nulla di buono all'Europa, all'Occidente, a tutto il mondo cristiano. I buonisti che piangono lacrime di retorica idiota non sanno che sul Corano sta scritto che dove un musulmano posa il suo piede quella diventa automaticamente terra islamica e la loro storia di guerre e conquiste lo dimostra ma, si sa, il buonismo è sinonimo di stupidità e la stupidità è pericolosa quanto il terrorismo perché lo nutre e lo giustifica. Quello che è successo nelle chiese domenica non è stato altro che una grande, anzi piccola sceneggiata mediatica, un gesto ipocrita come ha detto, molto onestamente, l'imam di Lecce. Ipocrita e pericoloso esattamente come la partecipazione alle messe di Natale a Betlemme del terrorista Arafat che, mentre parlava di Gesù palestinese e Terrasanta, sorridendo viscido e velenoso come un serpente, mandava i suoi scagnozzi a fare la strage di Monaco e altre stragi in Europa e in Israele, adorato dagli stupidi buonisti antisemiti.
   I musulmani, religiosi e no, hanno colpito l'Europa e Israele col terrorismo per quasi mezzo secolo ma il Papa assicura che islam non è violenza e nemmeno terrorismo. Non vorrei sbagliare ma mi pare che Gesù, da buon ebreo, abbia insegnato anche la dignità di ciò che si è. Devo ammettere che Davide Piccardo, il nuovo volto della televisione italiana, invitato in tutti i talk show, ha dimostrato più dignità di tanti altri declinando l'invito. In Piazza San Babila a Milano giravano cartelli con le scritte "L'islam è pace"... infatti tutto il mondo islamico è un grande giardino dell'Eden dove fanciulle intrecciano corone di fiori e bimbi paffuti giocano a palla... "Il terrorismo non ha religione"... infatti è appannaggio del mondo islamico che in Medio oriente fa centinaia di morti al giorno e che sta invadendo l'Europa con le bombe e gli attentati e le pance delle donne islamiche. Invitare i musulmani a partecipare alla messa è stata non solo una pagliacciata ma anche un autogol della cristianità che se finora era oggetto di odio da parte dell'islam, d'ora in poi avrà tutto il suo disprezzo a causa della debolezza dimostrata. Come scrivo spesso una delle basi del Corano, oltre alla conversione forzata, all'assassinio di ebrei e cristiani, è la Taqiyya, cioè la menzogna, l'inganno per il bene dell'islam e questa sceneggiata domenicale avrà le sue conseguenze. L'Isis si è fatto subito sentire "Spezzate la croce" hanno dichiarato e la spezzeranno. Non vorrei fare l'uccello del malaugurio ma temo che la Chiesa di Roma abbia firmato la propria condanna a morte. Un grande Papa come Benedetto XVI lo aveva predetto e, in un certo senso, gli è costato il trono di Pietro.

(Inviato dall'autrice, 2 agosto 2016)


Bat Ye' or: "Il servilismo antisemita non salverà l'Europa dal jihad"

di Giulio Meotti

ROMA - "Non sono stupita dall'attentato alla chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray, questo è jihad che dura da tredici secoli". Bat Ye'or, storica ebrea che vive a Ginevra e famosa per la sua cronaca della dhimmitudine e per aver coniato l'espressione "Eurabia" adottata da Oriana Fallaci, ritiene che gli islamisti in Europa si sentano come un pesce nell'acqua. "Non nascondono i loro progetti", dice Bat Ye'or al Foglio. "Una politica strutturata che si opponga al jihadismo è inesistente in Europa. La risposta agli attacchi sono i fiori, il servilismo, bugie costruite su un rifiuto totale di riconoscere la realtà terribile e che nasce da quarant'anni di una politica suicida e cinica". Questa è la ragione per rifiutare le radici giudaico-cristiane dell'Europa. "E sostituirle con le radici islamiche della Palestina, che ha ottenuto recentemente la Dichiarazione dell'Unesco. Dal 1973, l'Europa ha lavorato per creare un nuovo paese che si chiama 'Palestina' e per distruggere Israele. Ha speso miliardi per finanziare una campagna mondiale di odio, diffamazione, delegittimazione contro il popolo ebraico. Come si può sopravvivere se ti allei con chi vuole la tua distruzione? Se si inventano miti e bugie per nascondere la realtà? Se si nega la propria identità?". Non sappiamo dove stiamo andando. "Le vecchie élite sono pienamente responsabili di questa deriva e non possono cambiare la politica pianificata quarant'anni fa. Ora, a dispetto di tutto il servilismo, l'accattonaggio, le sconfitte morali, gli abbandoni etici, c'è il terrore in Europa. L'élite contempla il peggior incubo: l'Europa come Israele".
   L'islamismo come carnefice della propria naìveté? "Si tratta di un boia, non direi della nostra ingenuità, piuttosto del nostro cinismo, della nostra brama di denaro, delle nostre politiche criminali, della nostra cecità". E' punito il silenzio per il massacro di cristiani in medio oriente? "Sarebbe successo in ogni caso, ma aprire gli occhi sulle minoranze cristiane orientali avrebbe fatto capire la realtà". La Francia è stato il primo paese a cedere. "Il rifiuto di Israele e l'alleanza con le bande di terroristi dell'Olp ha legittimato il jihad e la sua ideologia: la distruzione del giudaismo e del cristianesimo e la loro sostituzione con il Corano. Anche se l'Europa rifiuta di considerarla guerra di religione, le relazioni con i paesi musulmani sono sempre su un piano religioso perché l'islam rifiuta il secolarismo. Il desiderio appassionato di riconciliazione con il mondo musulmano ha portato a uno stato di dhimmitudine. Il giudeo-cristianesimo è stato ripudiato per collegare l'Europa all'islam. Quanti politici dichiarano oggi che Israele è stato un incidente della storia?"

(Il Foglio, 2 agosto 2016)


La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico

Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp. Molte anni delle Brigate Rosse provenivano dalla Palestina.

di Dimitri Buffa

Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre exNar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero.
   Un po' di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell'andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti.
Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime.
   Ma l'indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all'Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell'Isis (toccando ferro), non è negoziabile né rivelabile. E dopo gli anni '70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall'inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell'epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima.
   Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un'alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf.
   Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell'Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime.
   Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell'Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all'autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L'Aquila.
   Poi c'è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dal!' allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un'ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell'appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall'Egitto di Sadat .. senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo.
   Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull'altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell'Olp e del Fplp, nonché quelli con Gheddafi che includevano l'aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar.
   Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell'Italia tra «la moglie americana e l'amante libica, e magari l'amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L'Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio.

(Il Tempo, 2 agosto 2016)


La musulmana moderata epurata dal Pd: «La sinistra dialoga solo con l'islam politico»

L'intervista a Maryan lsmail. Ha lasciato il partito e ora attacca: «Preferiscono gli islamici ideologizzati».

di Leone Gratti

Errori
Troppi spazi a chi vuole una religione ideologizzata
Sindaci
Da Pisapia a Sala nessuno mi ha ascoltato

«Prima che l'islam muoia, ucciso dagli stessi musulmani, c'è bisogno che si alzino voci desiderose di preservare la spiritualità e la bellezza di questa religione». Nata a Mogadiscio nel 1959, musulmana sufi che porta il nome della madre di Gesù, donna di sinistra e progressista, antropologa, Maryan Ismail è la
Maryan lsmail
storica portavoce della comunità somala di Milano. Figlia di un politico e diplomatico oppositore del regime di Siad Barre, è scappata con la famiglia in Italia, che l'ha accolta come rifugiata politica: il 27 marzo dell' anno scorso, infatti, i terroristi di al Shabaab hanno ucciso suo fratello, Yusuf Mohamed Ismail Bari-Bari, ambasciatore somalo all'Onu. Fiera avversatrice dell'islam politico, nonostante fosse iscritta al Pd e facesse parte della segreteria metropolitana, l'anno scorso si è opposta al bando della giunta Pisapia per costruire una o più moschee a Milano. Per questo è stata accusata di «apostasia» ma non si è tirata indietro. Candidata come consigliere nella lista di Giuseppe Sala, ha abbandonato il Pd dopo che il partito ha puntato tutto su Sumaya Abdel Qader, leader della galassia Ucoii (Unione comunità islamiche italiane) e del Caim. Ora, con Stefano Parisi e Matteo Forte, entrambi all'opposizione in Consiglio comunale a Milano, ha presentato il "Forum delle idee e del confronto", ideato per dare spazio ai musulmani che «non si riconoscono nell'islam politico».

- Il suo discorso è molto simile a quello del vicepresidente degli imam di Francia, Hocine Drouiche, che si è dimesso dopo l'attentato di Nizza: «Non possiamo negare il problema dell'estremismo islamico».
  
«L'islam politicizzato e ideologizzato rappresenta solo il 18 per cento dell'islam. Ma è l'unico che ha
voce in capitolo. Eppure ci sono tante persone moderate, laiche, che vogliono una religione spirituale liturgica e basta. Ma la loro voce non passa dai media. Siamo troppo frammentati, abbiamo bisogno di una comunicazione corale».

- A che pro?
  
«In modo che possiamo dissociarci dal terrorismo ed essere ascoltati, così che qualsiasi musulmano di buona volontà possa riconoscersi. Attualmente l'islam politico è l'unico a trovare spazio e costruire una narrazione sull'islam».

- Lei è a favore della costruzione di una moschea?
  
«Certo, anche i musulmani hanno diritto alla libertà di culto garantita dalla Costituzione. Ma una moschea deve essere costruita in modo trasparente e inclusivo. Non può essere gestita da una sola parte dell'islam».

- Pisapia non l'ha ascoltata?
  
«No. Ho inviato email, ho fatto telefonate, ho richiesto appuntamenti. Nessuno ci ha mai risposto. Solo una volta qualcuno si è preso la briga di contattarmi: era un incontro per chiedere la nostra disponibilità economica».

- Alla fine il bando è stato vinto dal Caim.
  
«Esatto e io ho fatto notare che non era adeguato per le esigenze della comunità islamica di Milano. Ma il mio partito non mi ha mai ascoltato. Ho fatto presente più volte che bisognava stare attenti alla separazione tra politica e religione, che non bisognava appaltarla all'islam ideologizzato, che bisognava mettere al centro le donne».

- Cosa le ha risposto il partito?
  
«Mi hanno quasi epurata, mi hanno dato un bel calcio nel sedere. Perché si dà un calcio nel sedere ad alcune comunità islamiche e se ne accolgono altre?».

- Il bando è finito in un nulla di fatto. E si è ripartiti con Sala.
  
«Io pensavo che avessero capito. L'assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino (nominato da Pisapia e riconfermato da Sala) disse anche che bisognava ripensare tutti insieme alla moschea, oltre che dal punto di vista economico, anche da quello sociale».

- Tutto bene insomma.
  
«Sì, fino alla presentazione delle liste elettorali, nelle quali è stata inserita la candidatura di Sumaya Abdel Qader».

- Sala non conosceva le simpatie dei parenti di Sumaya per i terroristi di Hamas o le frequentazioni con chi predica la distruzione di Israele?
  
«L'hanno presentata come una donna capace di dialogo nell'islam, una donna "aperta" solo perché aveva partecipato a una biciclettata. Ma lei non ha mai fatto nulla per il partito, non ha neanche la tessera, da anni è stipendiata dal Comune come mediatrice culturale e questa retribuzione pubblica è l'unica attività che mi risulti».

- Alla fine Sumaya, sempre vistosamente velata, è entrata in Consiglio comunale e Ismail no.
  
«Guardi, io sono una donna di sinistra, ho appoggiato la legge Cirinnà, dal 2005 ogni 25 aprile sfilo con la comunità ebraica perché penso che l'antisemitismo non possa far parte del Dna di uno Stato democratico e laico, ero un quadro dirigente del partito, ne ho condiviso battaglie e scelte, ero nella segreteria metropolitana e sono stata svilita in questo modo».

- Ora ha trovato una buona sponda politica in Parisi?
  
«Si è mostrato interessato alle mie idee e mi ha chiesto di collaborare. Ho accettato, anche perché nel frattempo ero stata convocata dal ministro dell'Interno Angelino Alfano a partecipare al tavolo di dialogo tra comunità islamiche e governo. Poiché mi è stato assegnato il compito di dialogare con le istituzioni, l'ho fatto parlando con Parisi, che è uomo delle istituzioni».

- A maggior ragione avrà parlato con il sindaco Sala?
  
«Invece no, perché il sindaco, per il quale mi sono battuta e che ho appoggiato, non ha mai risposto al mio appello. Mai aperto bocca. Come mai non vuole dialogare con tutto l'islam? Di cosa ha paura?».

- Allarghiamo ancora il campo. Il mondo musulmano è in crisi?
  
«È un momento storicamente molto importante per l'islam, che nonostante sembri potente è davvero una religione molto fragile, vicina all'implosione. Non riusciamo infatti a sopportare questa tensione legata alla religione e il terrorismo sta devastando le coscienze di tanti musulmani. Quello che il ministro Alfano sta cercando di fare è un aiuto».

- Avete parlato anche di finanziamenti delle moschee?
  
«Ne parleremo a settembre, quando affronteremo il tema dei luoghi di culto. Non è facile questo processo perché l'islam non ha un Papa e bisogna trovare intese con diverse realtà. Ma questa è la strada giusta».

(il Giornale, 2 agosto 2016)


Il Papa ha paura?

Lettera a Libero

In questi tempi, resi angosciosi da continui crimini commessi da islamici contro le comunità cristiane in ogni parte del mondo, i credenti in Cristo avrebbero bisogno di ascoltare dai loro leader religiosi non solo parole di conforto, ma soprattutto forti e coraggiose condanne e denunce della violenza islamica insita nell'insegnamento coranico. Invece constatiamo che il Papa e i cardinali sono reticenti e timorosi, impauriti di fronte alla ferocia islamica, forse perché consapevoli che ne saranno presto i principali bersagli e incapaci di formulare una adeguata risposta: ripensando al Manzoni mi viene di considerarli come altrettanti don Abbondio.
Santino Schiavini


(Libero, 1 agosto 2016)


«Ecco come ho insegnato il gusto agli israeliani»

 
Ever Cohen
È la curiosità nei confronti di tutte le culture il punto forte degli israeliani, quello che li porta anche a voler scoprire sempre di più anche la cucina italiana. Lo racconta a Pagine Ebraiche Ever Cohen, che la scena gastronomica del paese ha avuto modo di conoscerla a fondo nei dodici anni passati alla guida della delegazione dell'Accademia italiana della cucina, l'istituzione riconosciuta dal ministero dei Beni e delle Attività culturali nata per promuovere l'aspetto culturale del cibo in generale e della cucina italiana in particolare, tutelandone l'autenticità e proponendo varie attività divulgative come convegni, pubblicazioni, ricerche storiche, istituzioni di premi e borse di studio. L'Accademia ha più di duecento delegazioni in tutte le province italiane, ma anche 69 all'estero in cinque continenti, nate per fare sì che la cucina italiana mantenga la sua autenticità anche fuori dai confini nazionali. Cohen spiega infatti che spesso accade che le ricette vengano reinterpretate secondo il gusto locale, "ma i risultati sono spesso incompatibili con il nostro, a causa delle troppe alterazioni".
   "Valorizzare i prodotti tipici, farli conoscere, divulgare la preparazione e la degustazione di quello che l'Italia ha saputo produrre in campo gastronomico vuol dire anche difendere la propria identità culturale, poterne esigere il rispetto e rafforzarne l'immagine di qualità", si legge dunque sul sito dell'Accademia. Per farlo, in Israele la delegazione organizza vari eventi, tra gli altri anche in collaborazione con l'Istituto di cultura italiana di Tel Aviv, e soprattutto gira i ristoranti, per valutarne la qualità, controllare che rispettino alcuni standard e recensirli sui canali dell'Accademia. Tra gli errori più frequenti, spiega Cohen, vi è quello di buttare nel sugo della pasta con una quantità eccessiva di ingredienti, che creano sofisticazioni che sono lontane dalla semplicità dei sapori italiani.
   Nonostante questo, nell'ambito di una crescita generale dell'interesse per la cucina e la gastronomia, Cohen rileva anche un miglioramento in quelli che sono i tentativi degli chef israeliani di portare nel paese una cucina italiana più autentica.
   "Negli ultimi vent'anni è stato un fenomeno molto rilevante - osserva - e la grande intelligenza degli chef israeliani è stata quella di riuscire a coinvolgere le cucine di tutte le culture". Del resto, la rivista di viaggi Traveler, ha nominato Tel Aviv tra le cinque città con la migliore cucina al mondo, e parlando di questo boom Cohen fa ad esempio notare che alla televisione sono sempre più numerosi talent e i programmi di cucina. In questo contesto in costante evoluzione si sono così moltiplicati anche i ristoranti italiani, anche se non sono ancora moltissimi, ma soprattutto è notevolmente aumentata l'importazione di prodotti italiani, come la pasta, il che per Cohen è specchio del fatto che gli israeliani amano cucinarli. Tripolino, spostatosi poi a Roma, Ever Cohen è arrivato in Israele perché è "cresciuto con il sionismo". Eclettico imprenditore di professione, all'alimentazione si è sempre interessato come sportivo e negli anni ha approfondito quella che è diventata una vera e propria passione. Per contrastare la sbagliata interpretazione della tradizione culinaria italiana all'estero, per lui lo strumento più efficace sono i corsi di cucina, di cui c'è sempre maggiore richiesta, e che sono tra i suoi progetti per il futuro. Ma per quanto riguarda la cucina italiana, esiste già un miglioramento: "Io penso che sia legato al fatto che molti israeliani hanno finalmente scoperto che l'Italia non è solo Roma, Firenze e Venezia Un tempo andavano solo lì - le sue parole - però mano a mano grazie al loro spirito d'avventura hanno scoperto anche il sud dell'Italia e soprattutto le cucine territoriali".

(Pagine Ebraiche, agosto 2016)


Un membro della delegazione saudita in Israele: "Gli israeliani vogliono la pace"

Abd al-Mujid al-Hakim: "La società che ho incontrato è diversa dall'immagine che ne abbiamo nei paesi arabi"

Abd al-Mujid al-Hakim, un membro della delegazione saudita che ha recentemente visitato Israele e territori palestinesi, ha detto venerdì alle trasmissioni in arabo della BBC d'essersi convinto che la società israeliana vuole la pace.
"Nelle società arabe - ha detto Hakim - l'immagine che si ha della società israeliana è che essa abbracci una cultura della morte, che brami versare sangue e che non creda nella pace. Questa immagine non è corretta. La società israeliana che ho incontrato abbraccia una cultura di pace, ha creato realizzazioni che vuole proteggere, desidera la convivenza e vuole la pace"....

(israele.net, 1 agosto 2016)


Cancro alla prostata: Test israeliano riduce le biopsie

Cancro alla prostata: Test israeliano riduce le biopsie. Il cancro alla prostata è il secondo tumore più comune negli uomini americani dopo il cancro della pelle, con quasi 190.000 nuovi casi negli Stati Uniti previsti per il 2016 e circa 26.000 morti, secondo l'American Cancer Society e riportato dal TheTimes Of Israel.
Il cancro alla prostata può spesso essere rilevato prima della comparsa dei sintomi testando la quantità di un antigene prostatico specifico (PSA). Un elevato livello di PSA potrebbe essere indicativo di cancro e se un esame del sangue non dovesse rilevare questo parametro, il paziente molto probabilmente sarà sottoposto ad una biopsia.
Ma è qui che sorge il problema. Perché il PSA è secreto sia dalle cellule tumorali che da quelle normali ed i livelli possono essere alti anche per altri motivi, non necessariamente legati alla presenza di cancro. Ma il più delle volte quando i medici ricevono un valore del PSA elevato, mandano i loro pazienti a fare una biopsia, solo per essere più sicuri.
Come dice l'israeliano Arnon Chait, CEO di Cleveland Diagnostics, l'azienda dell'Ohio che sta sviluppando una nuova tecnologia per la diagnosi di cancro alla prostata:
Negli Stati Uniti ogni anno vengono effettuate circa 1,5 milioni di biopsie. In media il 70 per cento di esse sono negative, il che è un bene per il paziente ma ad un costo molto alto per il sistema sanitario nazionale (circa $4000 a biopsia).
l ricercatori non guarda al livello di PSA nel sangue. Il test va ad analizzare da dove proviene l'antigene: da cellule normali o cellule tumorali? Questo aiuterà gli operatori sanitari a risparmiare milioni di dollari ma soprattutto a non sottoporre il paziente ad inutile e fastidiose procedure. Potenzialmente, come sottolineato da Chait, il nuovo test IsoPSA, che dovrebbe entrare nel mercato nel corso dell'ultimo trimestre di questo anno, potrebbe sostituire il test PSA fino ad oggi utilizzato nel processo più ampio di screening contro il cancro.
Questa stessa tecnologia potrebbe essere utilizzata anche in altre malattie oncologiche, come ad esempio per il cancro al seno e cancro ovarico. Un'ulteriore speranza per il futuro è quella di giungere alla diagnosi precoce della malattia di Alzheimer perché si utilizzerà la stessa tecnologia ma analizzando proteine diverse.

(SiliconWadi, 1 agosto 2016)


Israele - Il Ministero delle Infrastrutture promuove turbine eoliche in aree naturali protette

Il ministero delle Infrastrutture, dell'energia e delle acque d'Israele sta lavorando per garantire l'installazione di turbine eoliche per la produzione di energia, anche in riserve naturali protette. La proposta del ministero sarà discussa entro oggi da una commissione apposita (National planning and building Council). Il ministero delle Infrastrutture sostiene che la promozione dei dispositivi ha incontrato numerosi ostacoli, soprattutto a causa degli ambientalisti e d'altra parte ribadisce che gli spazi prescelti sono aree dove le condizioni di vento sono particolarmente favorevoli per la produzione di energia elettrica. Ciò è particolarmente vero per la Galilea e le alture del Golan.

(Agenzia Nova, 1 agosto 2016)


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