Notizie 16-31 agosto 2025
Dall’America First a Gaza: la nuova destra e la distanza da Israele
di Davide Cucciati
Il consenso della destra occidentale verso Israele, ritenuto per anni un pilastro ideologico automatico, mostra oggi crepe evidenti. Negli Stati Uniti, la base MAGA sta scavando un solco profondo in nome della discontinuità con i Neocon che dominarono la scena mondiale all’inizio di questo millennio.
Ad esempio, secondo il Los Angeles Times del 31 luglio 2025, la deputata repubblicana Marjorie Taylor Greene ha affermato che “È la cosa più veritiera e più facile dire che il 7 ottobre in Israele è stato orribile e che tutti gli ostaggi devono essere restituiti, ma lo è anche il genocidio, la crisi umanitaria e la fame che stanno accadendo a Gaza”. Inoltre, Greene sta portando avanti una campagna contro l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), ben rappresentata da un suo post su X dell’8 agosto 2025: “Buongiorno a tutti coloro che sono stanchi dell’AIPAC, degli aiuti esteri e del finanziamento di guerre all’estero”.
Non siamo di fronte a un afflato progressista di una deputata repubblicana; al contrario, Greene è sostenitrice del nuovo corso della destra americana che ha invertito rotta rispetto alle amministrazioni Bush, in nome dell’isolazionismo, della lotta alle élite e al cosiddetto “deep state”. A tal proposito, è necessario evidenziare anche che in data 19 gennaio del 2023, l’Independent ha riportato che un sopravvissuto agli attacchi terroristici dell’11 settembre ha condannato la nomina di Marjorie Taylor Greene in una commissione chiave per la sicurezza della Camera, sottolineando che la deputata repubblicana ha a lungo diffuso teorie complottiste proprio sull’11 settembre, come il dubbio che un aereo avesse colpito il Pentagono, poi in parte ritrattate.
L’esempio più estremo dell’isolazionismo tra i repubblicani è rappresentato da Thomas Massie che, secondo quanto pubblicato da Il Corriere della Sera, ha condannato l’intervento militare statunitense contro il regime iraniano, suscitando l’ira del presidente Trump. Ma non solo: come riportato da Newsweek il 29 maggio 2025, Thomas Massie ha più volte espresso posizioni critiche verso Israele. Il 30 maggio 2025 ha scritto su X che “nulla può giustificare le decine di migliaia di vittime civili a Gaza” e ha chiesto l’immediata fine degli aiuti militari USA a Israele. Negli anni, Massie è stato l’unico repubblicano a votare contro una legge che condannava l’antisemitismo (2022), motivando la sua scelta con la difesa del Primo Emendamento e l’opposizione alla censura su Internet. Nel 2024 ha votato contro una legge per aumentare il supporto militare a Israele e ha criticato la campagna militare israeliana in Libano, affermando che gli Stati Uniti non dovrebbero finanziare la distruzione di obiettivi civili.
Queste posizioni sono una legittimazione inedita di idee che esistevano da tempo. Già negli anni ’80-’90, frasi attribuite a Pat Buchanan (come “Israeli-occupied territory” riferito al Congresso) anticiparono in parte il pensiero MAGA. Allo stesso modo, Ron Paul si oppose sistematicamente agli aiuti esteri, sostenendo che l’America non dovrebbe finanziare nessun alleato. Nel nuovo scenario conservatore, figure come John Bolton o Nikki Haley, che fino a pochi anni fa incarnavano la linea dura e lealtà a Israele, sono ora relegati a ruoli secondari. La visione MAGA, senza i correttivi improvvisi e circostanziali di Donald Trump, ha sostituito l’ideologia neoconservatrice con una visione più ristretta e identitaria. La destra americana sembra rifarsi più a Charles Lindbergh che a George W. Bush. L’eroe dell’aviazione divenuto portavoce dell’“America First” negli anni ’30, e sospettato di antisemitismo, è evocato anche nel romanzo Il complotto contro l’America di Philip Roth, in cui una sua presidenza immaginaria porta l’America a voltare le spalle agli ebrei.
Questa svolta trova riscontro anche nel campo mediatico. Come ha segnalato il Jerusalem Post il 29 agosto 2025, giornalisti conservatori quali Tucker Carlson, Piers Morgan e Megyn Kelly stanno cavalcando una nuova linea editoriale in cui il sostegno automatico a Israele è messo in discussione. Lo fanno evocando la “propaganda israeliana”, definendo i media mainstream troppo schierati con Gerusalemme, o insistendo sui “crimini” commessi a Gaza. Secondo il Jerusalem Post, queste figure parlano senza esperienza diretta del conflitto e con una superficialità che danneggia la comprensione della realtà, contrapponendole a reporter come Douglas Murray che hanno documentato sul campo le atrocità di Hamas.
A questo cambio di paradigma si affianca una riflessione teorica che trova radici nel libro La lobby israeliana e la politica estera degli Stati Uniti, scritto nel 2007 da John Mearsheimer (University of Chicago) e Stephen Walt (Harvard University), due studiosi affatto vicini al mondo conservatore. Gli autori sottolineano l’influenza della lobby pro-israeliana che avrebbe indotto gli Stati Uniti a sostenere lo Stato ebraico anche a discapito della stabilità in Medio Oriente. Questa visione trovò l’avallo, secondo Tablet, anche di Osama Bin Laden, che raccomandò espressamente di leggere il libro di Mearsheimer e Walt. Quando Greene o Massie denunciano AIPAC, citano (senza dirlo) la stessa struttura analitica: solo che, mentre Mearsheimer e Walt agivano sul piano metodologico, i MAGA traducono tutto in linguaggio populista anti-élite. Ma la traiettoria concettuale si intreccia. È qui che si apre la frattura più profonda. Con George W. Bush alla Casa Bianca, Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Condoleezza Rice, gli Stati Uniti si concepivano come forza guida del mondo. Israele era l’avamposto democratico in un Medio Oriente da rifondare con la “guerra al terrore” e parte di un disegno più ampio.
In questa cornice, si colloca J.D. Vance, attuale vicepresidente degli Stati Uniti. Vance ha sempre espresso un forte scetticismo verso gli interventi esteri, denunciando l’abbandono delle classi popolari americane da parte delle “élite belliciste”. Anche se oggi il Vicepresidente statunitense appare favorevole a Israele, è lecito domandarsi quanto di ciò sia dettato da convinzione personale e quanto da lealtà tattica a Trump. Nel 2016, Vance era contrario alla candidatura di Trump; solo in seguito si è convertito alla sua visione. Resta un punto interrogativo: se in una sorta di distopia futura lo stesso Vance dovesse correre per la Casa Bianca contro una figura come Alexandria Ocasio-Cortez, il sostegno bipartisan a Israele potrebbe non essere più garantito.
La Storia ha spesso dimostrato che movimenti rivoluzionari tendono a moderarsi una volta al potere ma il quesito è se stia cambiando la concezione del mondo e della vita negli USA, la weltanschauung.
In questo contesto, l’amicizia verso Israele non è più scontata: è subordinata a considerazioni di mera convenienza e non più fondata su affinità valoriali.
(Bet Magazine Mosaico, 31 agosto 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 12
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Davanti al Faraone
Dopo esitazioni e varie peripezie, accompagnato dal suo “scudiero” Aaronne, Mosè si trova davanti al Faraone per eseguire l’incarico ricevuto dal Signore. Lo scudiero inizialmente non era previsto, perché dal roveto in fiamme Dio aveva detto a Mosè di radunare gli anziani di Israele, raccontare loro il fatto avvenuto e quello che il Signore aveva intenzione di fare. Dopo di che:
“Essi ubbidiranno alla tua voce; e tu, con gli anziani d'Israele, andrai dal re d'Egitto, e gli direte: 'L'Eterno, l'Iddio degli Ebrei, ci è venuto incontro; ora dunque, lasciaci andare tre giornate di cammino nel deserto per offrire sacrifici all'Eterno, al nostro Dio’” (Esodo 3:18).
Dunque dal Faraone doveva andare una delegazione composta da Mosè e rappresentanti degli anziani, ma davanti alla scusa di non saper parlare avanzata da Mosè, Dio si adirò, gli concesse l’accompagnatore dalla lingua sciolta e ribadì in modo secco il suo ordine.
Alla fine Mosè ubbidì, ma non si sa con quale animo, perché quando riportò il gregge a suo suocero e l’informò di voler tornare in Egitto, non presentò la cosa in modo corretto:
“Allora Mosè se ne andò, tornò da Ietro suo suocero, e gli disse: “Lascia che io me ne vada e torni dai miei fratelli che sono in Egitto, per vedere se sono ancora vivi”. E Ietro disse a Mosè: “Va' in pace” (Esodo 4:18).
Non era vero. Non andava in Egitto per vedere se i suoi parenti erano vivi, ma già da questo si vede una sua tendenza, come già aveva fatto con Dio stesso, a giocare con le parole, adattandole ai suoi interessi.
Quando ormai era in viaggio, il Signore dettò a Mosè, affinché le consegnasse ad Aaronne, le precise parole che avrebbe dovuto dire al Faraone:
“Tu dirai al Faraone: 'Così dice l'Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito; e io ti dico: Lascia andare mio figlio, affinché mi serva; e se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito'” (Esodo 4:22-23);
compito molto rischioso, come s’è visto. Ma vediamo come si svolse il primo incontro.
“Dopo questo, Mosè e Aaronne si recarono dal Faraone, e gli dissero: “Così dice l'Eterno, l'Iddio d'Israele: 'Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto’. Ma il Faraone rispose: ‘Chi è l'Eterno che io debba ubbidire alla sua voce e lasciare andare Israele? Io non conosco l'Eterno, e non lascerò affatto andare Israele’” (Esodo 5:1-2).
Mosè e Aaronne, come rappresentanti dei discendenti di Giuseppe in Egitto, chiedono al Faraone di lasciar andare il popolo nel deserto. La motivazione sarebbe: celebrare una festa all’Eterno, l’Iddio di Israele. A dire il vero, il termine “festa” non compare nelle parole dette da Dio a Mosè, né si sa con precisione che cosa potessero intendere per festa i partecipanti al colloquio, ma in ogni caso il Faraone in questo momento non è interessato a sapere che cosa di preciso andrebbero a fare gli ebrei nel deserto: lui è colpito dal fatto che sta ricevendo un ordine. E da chi? dall’Eterno, dicono i due ebrei. E chi è l’Eterno? l’Iddio di Israele, precisano. “Io non conosco l’Eterno”, dichiara deciso il Faraone. E per far capire bene che non prende ordini dall’Iddio di Israele aggiunge: “e non lascerò affatto andare Israele”.
L’elemento del contendere verte dunque su un nome: l’Eterno (in ebraico il nome di Dio che gli ebrei non nominano). I due rappresentanti di Israele cercano di convincere il Faraone:
“Ed essi dissero: ‘L’Iddio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare tre giornate di cammino nel deserto per offrire sacrifici all'Eterno, che è il nostro Dio, affinché egli non ci colpisca con la peste o con la spada’” (Esodo 5:3).
Cercano di impietosire il Faraone dicendogli che se non riescono a portare a compimento il loro incarico, “il nostro Dio” - dicono - li colpirà con la peste e con la spada. Ma questo, il Signore non l’aveva detto. Non aveva detto a Mosè che avrebbe colpito gli ebrei se la loro missione non riusciva, ma che avrebbe colpito il Faraone uccidendogli il figlio primogenito se non avesse ubbidito all’ordine ricevuto. In conclusione, Mosè non ha detto il vero. E’ venuta fuori in lui l’esitazione che aveva mostrato nel colloquio davanti al roveto ardente e nell’uso scorretto delle parole che aveva detto al suocero. Certo, alla fine Mosè aveva ubbidito a Dio e si era mosso nella giusta direzione, ma forse era rimasta in lui una forma di resistenza che gli ha impedito al momento giusto di riportare le precise parole che il Signore gli aveva dettato. Pensava di evitare il peggio, e invece il peggio è arrivato:
“E il re d'Egitto disse loro: ‘Perché, Mosè e Aaronne, distraete il popolo dai suoi lavori? Andate a fare quello che vi è imposto!’ E Faraone disse: ‘Ecco, ora il popolo è numeroso nel paese, e voi gli fate interrompere i lavori che gli sono imposti’. E quello stesso giorno Faraone diede quest'ordine agli ispettori del popolo e ai suoi sorveglianti: ‘Voi non darete più, come prima, la paglia al popolo per fare i mattoni; vadano essi a raccogliere della paglia! E imponete loro la stessa quantità di mattoni di prima, senza alcuna diminuzione; perché sono dei pigri; e però gridano dicendo: 'Andiamo a offrire sacrifici al nostro Dio!’ Questa gente sia caricata di lavoro; e si occupi di quello senza badare a parole false’. Allora gli ispettori del popolo e i sorveglianti uscirono e dissero al popolo: “Così dice Faraone: 'Io non vi darò più paglia'. Andate voi a procurarvi della paglia dove ne potrete trovare, ma il vostro lavoro non diminuisca per nulla'. Così il popolo si sparse per tutto il paese d'Egitto, per raccogliere della stoppia da usare come paglia. E gli ispettori li sollecitavano dicendo: ‘Completate i vostri lavori giorno per giorno, come quando c'era la paglia!’ E i sorveglianti dei figli d'Israele stabiliti sopra di loro dagli ispettori del Faraone, furono percossi; e fu loro detto: ‘Perché non avete fornito, ieri e oggi come prima, la quantità di mattoni che vi è imposta?’” (Esodo 5:4-14).
La crisi che si è creata tra popolo e Faraone è molto grave, ed è collegata al riferimento che Mosè ha fatto al Dio di Israele. Secondo Faraone, gli ebrei dicono di dover andare a fare sacrifici nel deserto per non essere puniti dal loro Dio, e invece sarà il Faraone a punire loro perché non hanno ubbidito a lui e hanno fatto riferimento al loro Dio. Si dovrà vedere chi è che comanda.
• Mosè e Aaronne contestati dal popolo
La crisi con l’autorità egiziana si comunica subito anche all’interno di Israele. Gli anziani, che si erano inchinati davanti a Mosè e ad Aaronne e sulla base delle loro parole avevano creduto che Dio li aveva visitati per liberarli dalla mano degli egiziani, vedono che tutto questo non sta avvenendo, anzi avviene il contrario: i figli d’Israele sono oppressi di lavoro dai sorveglianti, e i sorveglianti sono coperti di botte dagli ispettori. Bisogna fare qualcosa. I sorveglianti decidono di rivolgersi al Faraone. Non ci mandano però Mosè e Aaronne a trattare: ci vanno loro, probabilmente perché non si fidano più di quei due.
Allora i sorveglianti dei figli d'Israele andarono a lamentarsi dal Faraone, dicendo: “Perché tratti così i tuoi servitori? Non si dà più paglia ai tuoi servitori, e ci si dice: 'Fate dei mattoni!' ed ecco che i tuoi servitori sono percossi, e il tuo popolo è considerato come colpevole!” (Esodo 5:15-16)
La risposta è tremenda: ancora una volta il Faraone fa riferimento all’Eterno:
“Ed egli rispose: ‘Siete dei pigri! siete dei pigri! Per questo dite: Andiamo a offrire sacrifici all'Eterno. Ora dunque andate a lavorare! non vi si darà più paglia e fornirete la quantità di mattoni prescritta”. I sorveglianti dei figli d'Israele si videro ridotti a mal partito, perché si diceva loro: “Non diminuite per nulla il numero dei mattoni imposto giorno per giorno”. (Esodo 5:17-19).
Missione fallita. La situazione è peggiorata. Il Faraone è furente. I sorveglianti escono dalla stanza in cui è avvenuto lo scontro, e chi trovano?
“Uscendo dal Faraone, incontrarono Mosè e Aaronne, che stavano ad aspettarli” (Esodo 5:20).
Erano andati con loro, ma erano dovuti restare fuori della porta. Forse i due pensavano di dover essere loro a parlare col Faraone; forse pensavano che spettasse a loro il compito di mediare tra autorità e popolo, invece questa volta è il popolo a dire loro qualcosa:
“… e dissero loro: ‘L’Eterno volga il suo sguardo su voi, e giudichi! poiché ci avete messi in cattiva luce davanti al Faraone e davanti ai suoi servitori, e gli avete messo la spada in mano perché ci uccida’” (Esodo 5:21).
Sono parole che devono essere cadute come un macigno sulla testa di Mosè e Aaronne. Con riferimento all’Eterno, i sorveglianti pronunciano su di loro l’esatto contrario di una benedizione. Mosè e Aaronne avevano usato il nome dell’Eterno sia per convincere il popolo, sia nel rivolgersi al Faraone; e ora il Faraone usa il nome dell’Eterno per colpire più fortemente il popolo, e il popolo usa il nome dell’Eterno per maledire tutti e due.
• L’Eterno contestato da Mosè
Per Mosè, il colpo che gli arriva dai sorveglianti è davvero grosso. Non riesce a sopportarlo, perché vede bene che in fondo loro hanno ragione. Si sentono dire da lui che una potente mano (Esodo 3:19) avrebbe costretto il Faraone a farli uscire dal paese, e si accorgono che dopo il suo intervento la “potente mano” del Faraone li colpisce e li schiaccia più di prima. A questo punto Mosè non ci sta. Non accetta di addossarsi tutta la responsabilità del disastroso risultato. Non ci è andato di sua iniziativa dal Faraone, perciò non è stato lui a “mettergli la spada in mano” per uccidere gli ebrei. E se non è stato lui, chi è stato? La risposta gli appare fin troppo chiara.
Allora Mosè tornò dall'Eterno, e disse: “Signore, perché hai fatto del male a questo popolo? Perché dunque mi hai mandato? Poiché, da quando sono andato dal Faraone per parlargli in tuo nome, egli ha maltrattato questo popolo, e tu non hai affatto liberato il tuo popolo” (Esodo 5:22-23).
Sono parole forti, temerarie. Dio aveva fatto la promessa di liberare il suo popolo, rivolgersi dunque a Lui dicendogli in modo netto: “tu non hai affatto liberato il tuo popolo”, è un’accusa gravissima. Come risponderà il Signore?
Stranamente, Dio non se la prende. Non risponde all’accusa. Eppure avrebbe potuto farlo molto bene. Al suo accusatore avrebbe potuto dire: e tu, caro Mosè, perché non hai detto al Faraone tutto quello, e soltanto quello, che ti avevo ordinato di dire? Perché gli hai detto - e non era vero - che in caso di insuccesso della vostra missione io vi avrei colpiti? E perché invece non gli hai detto - ed era vero - che se lui non ubbidiva gli avrei ucciso il figlio primogenito? Le tue parole non hanno avuto effetto sul Faraone perché non erano le mie parole, ma le tue, dettate dalla tua paura, provocata dalla tua scarsa fiducia in me.
Ma il Signore non risponde così. Non entra nel merito dell’accusa ricevuta e si limita a dare una stringata risposta:
“L’Eterno disse a Mosè: ‘Ora vedrai quello che farò al Faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare; anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese’” (Esodo 6:1).
• Lo strano modo di agire del Signore
Fino a questo punto, tra Dio e Mosè ci sono stati due momenti di scontro:
- Quando Dio si adira con Mosè che trova scuse per non partire (Esodo 4:14-17);
- Quando Mosè accusa Dio di non mantenere la sua parola (Esodo 5:22-23).
Poiché la ragione sta sempre dalla parte di Dio, è chiaro che a sbagliare è stato sempre Mosè. Ma tra i due casi sembrerebbe che il secondo sia molto più grave del primo.
Nel primo caso, Mosè manifesta un’umana ritrosia ad accettare subito un compito pesante e rischioso; e ci riconosciamo facilmente in lui. Vien voglia di dire allora che forse il Signore avrebbe anche potuto essere un po’ più leggero e comprensivo con lui. E invece, per la prima volta nella Bibbia si trova scritto che “l’ira dell’Eterno si accese”. E per Mosè non dev’essere stata un’esperienza piacevole.
Nel secondo caso invece Mosè sbaglia due volte: prima, perché per paura non riporta esattamente le parole di Dio; poi, con maggiore gravità, perché attribuisce a Dio l’insuccesso del suo intervento e lo incolpa addirittura di non aver mantenuto la sua parola. Il Signore non reagisce, non punisce il temerario bestemmiatore. Si mette sulla difensiva e dice soltanto che gli farà vedere come manterrà la sua parola.
Un fatto accomuna i due casi: il tipo di conseguenza.
Nel primo caso, un Dio adirato costringe Mosè a superare la sua esitazione e lo manda a svolgere la parte che gli compete nel suo progetto di liberazione del popolo.
Nel secondo caso, un Mosè indignato induce Dio a confermargli che farà presto quello che aveva promesso di fare per la liberazione del suo popolo.
In entrambi i casi si vede che l’interesse di Dio non sta nel far sì che Mosè raggiunga un alto livello di moralità personale, affinché possa diventare un modello di comportamento per tutti gli uomini e in tutti i tempi. L’interesse di Dio in questo momento sta nel far sì che il suo popolo sia liberato e possa compiere il passo successivo nel cammino verso la grande nazione che Dio ha promesso ad Abraamo.
Per il suo progetto Dio aveva scelto Mosè, ed è per questo che quando lo vede esitare nell’accettare l’incarico, per un po’ gli viene incontro dandogli spiegazioni e rassicurazioni, ma non può permettere che egli respinga l’incarico. Alla fine dunque si adira e a brutto muso gli ordina di andare a fare quello che gli aveva detto di fare.
Ottiene che Mosè vada dal Faraone, ma conosce il suo uomo e si accorge che non è ancora del tutto ben disposto. Vede il suo impaccio quando congedandosi dal suocero non dice chiaramente i motivi del suo viaggio; e si accorge che davanti al Faraone modifica le parole che doveva dire quel tanto che serve a renderle meno rischiose. Dio non gli impedisce di farlo; non lo riprende dopo che l’ha fatto: lascia che lo faccia e ne assapori le amare conseguenze.
E se intorno al roveto ardente era stato Dio ad adirarsi contro Mosè per la sua ritrosia, adesso tocca a Mosè infuriarsi contro Dio per quella che pensava essere inadempienza della sua parola. Ma il Signore se l’aspettava. Gli risponde con poche parole: “Ora vedrai…” da cui presto Mosè capirà quanto sia stata ingiusta la sua accusa. Glielo dice con molta calma. E sarà questa la sua punizione.
(Notizie su Israele, 31 agosto 2025)
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Missili, 007 e diplomazia. I sette fronti aperti nella lotta per l'esistenza
Il conflitto con le milizie yemenite è solo l'ultimo di un quadro più ampio. Le minacce di Teheran e di Hamas
di Fiamma Nirenstein
La guerra di sopravvivenza su sette fronti e più richiede acrobazie a un Paese piccolo come una regione d'Italia: una ginnastica militare, diplomatica, dei servizi segreti, che ha dell'incredibile. Il fronte yemenita è stato nelle ultime ore il più drammatico, anche se non mancano fuochi d'artificio anche con la Turchia, da cui Erdogan annuncia la rottura dei rapporti economici dopo che Netanyahu ha riconosciuto il genocidio armeno; con la Siria, si combatte sia sul fronte militare dell'avvistamento indispensabile sul Golan, che sul terreno diplomatico del prossimo probabile accordo con al Julani; in Libano, dove il governo cerca finalmente di sequestrare le armi degli hezbollah e di andare verso la pace con Gerusalemme. A Gaza, Israele ha recuperato il corpo di Ilan Weiss, un padre eroico combattente rapito e ucciso il 7 ottobre: l'operazione di recupero è stata non meno che commovente e incredibile. Questo aggettivo si può usare per l'attacco aereo che ha colpito in due luoghi diversi, sembra, il primo ministro dei Houthi Ahmed al Rahawi e un incontro di capi militari incluso il ministro della difesa Mohamed al Atifi, jihadista responsabile dei rapporti con l'Iran, e il capo di Stato maggiore Abd al Karim al Ghamari. È stata un'azione di intelligence a 2mila chilometri di distanza che ha portato l'esercito a chiudere i conti, per lo meno momentaneamente, con la leadership militare della milizia yemenita jihadista sciita che agli ordini degli Ayatollah conduce la sua guerra a fianco di Hamas.
A prima vista è difficile capire perché Israele non abbia agito più tempestivamente dal momento che gli attacchi che sono stati portati a Israele con missili spesso intercettati, a volte esplosi, talora invece arrivati al bersaglio sono circa 500, e molti letali nelle intenzioni. Immaginiamo un Paese europeo obiettivo di 500 missili, sparati mentre piovono anche migliaia di altri missili (palestinesi, iraniani) sulle case, le scuole, gli ospedali, provenienti da un Paese che non ha niente a che fare con la tua storia. La lunga attesa prima della risposta diretta, la si legge guardando alla tv i discorsi fanatici di Abdul Maliki al Houthi da Sana'a, le promesse di distruzione che lasciano intravedere sangue e miseria nel suo Paese. Gli Houthi, insomma, sono apparsi un gruppo di pazzi jihadisti, sparsi per villaggi, caverne, deserti, sempre in fuga dal governo sunnita. Invece sono pericolosi per il traffico marittimo, per Israele, per l'Occidente, e portano terrore al Medio Oriente sunnita tutto. Israele si è risvegliato alla necessità di capirne a fondo la natura solo quando nel giugno 2024 un israeliano è stato ucciso.
Da allora si è tentato di bloccarne i rifornimenti, distrutta l'elettricità, anche Trump si è illuso di averli fermati, ma la forza jihadista va fino in fondo verso l'obiettivo metafisico dell'eliminazione di chi si oppone alla conquista dell'Islam. L'Iran, battuto negli attacchi aerei e nella situazione internazionale che la vede adesso intrappolata nello snapback europeo, li ha usati come pallottole di riserva. Gli Houthi sono abili: dopo vari deboli attacchi hanno ristabilito l'elettricità, trovato nuovi nascondigli, e sparato nuovi missili. La povertà della struttura, l'appartenenza a un mondo premoderno sparso e nascosto però alla fine non li ha salvati.
Israele, costretta di continuo a correre nei rifugi ha impiegato l'infiltrazione per scoprire proprio come era successo con Nasrallah, che l'attacco era giovedì o mai più. È stato il 16° attacco a Sana'a per fermare gli attacchi a Israele e alle navi di tutto il mondo che cominciarono il 23 novembre 2023, già un mese dopo il massacro di Hamas. Un passo verso un Medio Oriente in pace.
(il Giornale, 30 agosto 2025)
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Molinari: "Trump preme su Netanyahu, ma servirà l’aiuto arabo-turco"
Macron? È il vero rivale del tycoon”
di Aldo Torchiaro
Maurizio Molinari, saggista ed editorialista di Repubblica – che ha diretto, dopo La Stampa – ha trascorso due settimane in Israele per capire meglio la realtà di questa fase del conflitto.
- Rientrato da un viaggio in Israele, cosa ti ha colpito di più a quasi due anni dal 7 ottobre 2023?
«Quanto ho visto a Majdal Shams e a Tel Aviv. Majdal Shams è il villaggio druso sul Golan dove gli Hezbollah uccisero con un razzo 12 bambini. È attraversato dal confine Israele-Siria. Oggi su entrambi i lati vi sono soldati israeliani e civili drusi. Bandiere israeliane e druse sventolano assieme. E i drusi sul lato siriano, che avevano abbandonato le case durante la guerra civile, ora sono tornati perché si sentono sicuri. È l’immagine di un Medio Oriente dove Israele protegge le minoranze siriane minacciate dal governo di al-Jolani che nasce dal fondamentalismo sunnita. A Tel Aviv invece, roccaforte delle proteste anti-Netanyahu, basta entrare in un caffè per accorgersi che il Paese è diviso sul premier ma compatto sulla necessità di sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi. Per scongiurare un altro 7 ottobre».
- La maggioranza Netanyahu traballa, le esternazioni di Smotrich e Ben-Gvir non aiutano. Cosa vedi in prospettiva?
«Ho incontrato a Ramat Gan alcuni giovani leader della protesta anti-Netanyahu. Ritengono che lo sfidante più credibile sia Naftali Bennett, l’ex premier. Si preparano a sostenerlo quando si voterà nel 2026. Perché è un moderato e può rubare voti a Netanyahu. Anche le forze più a sinistra guardano a Bennett. Alla destra di Netanyahu, in ascesa è Ben-Gvir. Si prepara, assieme a Smotrich, ad una campagna in cui contesterà la fine della guerra a Gaza. Il momento spartiacque può arrivare a ottobre, quando la Knesset tornerà a riunirsi: allora, se la guerra sarà finita, le strade di Netanyahu e di Ben-Gvir/Smotrich potrebbero separarsi. Dando inizio alla campagna elettorale».
- Gli aiuti iniziano ad arrivare con maggiore regolarità, la dichiarazione di Gaza City come zona di guerra operativa li mette in discussione?
«Siamo all’inizio dell’operazione militare che Trump e Netanyahu hanno concordato alla Casa Bianca, durante cinque lunghi giorni di incontri. I punti dell’accordo sono due: più aiuti umanitari e resa dei conti con Hamas per disarmarla e liberare tutti gli ostaggi. Trump vuole finire entro 2-3 settimane per far partire la ricostruzione a Gaza attorno al rilancio degli Accordi di Abramo. Ma per Netanyahu il rischio è alto perché Hamas può uccidere i 20 ostaggi ancora vivi sui 48 che mancano all’appello».
- Perché è svanito l’accordo Israele-Hamas che sembrava fatto?
«Perché quando Witkoff è venuto in Italia, a Roma e in Sardegna, per incontrare i mediatori, l’intesa era quasi fatta ma l’annuncio di Macron sulla volontà di riconoscere lo Stato palestinese ha spinto Hamas a irrigidirsi facendo saltare la tregua».
- È stato Macron a far saltare l’intesa sul cessate il fuoco a Gaza?
«L’ambasciatore Usa a Gerusalemme, Mike Huckabee, lo ha detto in più occasioni. L’iniziativa francese sul riconoscimento dello Stato palestinese ha fatto percepire ad Hamas la possibilità di cogliere un risultato politico tale da abbandonare il compromesso a cui Usa, Qatar, Egitto e Turchia l’avevano obbligata. Questo è il motivo per cui il vero rivale di Trump in Medio Oriente è Macron. Hanno progetti alternativi: Trump vuole sconfiggere Hamas per inviare una forza interaraba a Gaza e rilanciare i Patti di Abramo, Macron punta invece sulla creazione di uno Stato palestinese sostenuto da truppe Onu. Al momento l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman sostiene Trump ma Macron la corteggia».
- Perché Marco Rubio non concede il visto di ingresso ad Abu Mazen, leader dell’Anp, per l’Assemblea dell’Onu?
«Il motivo formale è la carenza di impegno di Abu Mazen e dell’Anp nella lotta al terrorismo di Hamas. Quello più politico svela la volontà di impedire la dichiarazione dello Stato palestinese che proprio Abu Mazen voleva fare dal podio del Palazzo di Vetro».
- Il mondo arabo moderato sta cambiando atteggiamento nei confronti di Israele. Quali sono i segnali da cogliere?
«Gli Stati arabi hanno paura del movimento dei Fratelli musulmani, di cui Hamas fa parte, perché lo ritengono una minaccia diretta alla loro stabilità. Da Riad al Cairo, da Amman ad Abu Dhabi, l’interesse è la sconfitta di Hamas. Per questo l’Egitto sta addestrando un importante contingente di sicurezza composto da gazawi e destinato, con il sostegno Usa, ad assumere la responsabilità della sicurezza nella Striscia quando Israele si ritirerà dopo il ko di Hamas».
- Su chi preme di più Trump: Netanyahu o il Qatar?
«Su entrambi perché Netanyahu guida le operazioni militari ma l’Emiro al-Thani è il vero protettore di Hamas. Molti dei capi jihadisti restano a Doha e i fondi qatarini sono vitali per Hamas. Witkoff conduce un negoziato serrato che ha anche un terzo cruciale protagonista: bin Salman. C’è un episodio che descrive cosa sta maturando: qualche tempo fa bin Salman nei corridoi della Casa Bianca ha incrociato Edan Alexander, ex ostaggio di Hamas, ed hanno parlato in arabo, perché Alexander lo ha imparato dai rapitori. Alexander ha descritto a Mbs le celle nei tunnel. Anche questo è il Medio Oriente che cambia e consente di pensare alla ricostruzione».
- Dunque il conflitto è avviato alle battute finali?
«Trump vuole la conclusione della guerra e preme su Netanyahu per ottenere in fretta la sconfitta di Hamas, ma senza una forte pressione arabo-turca il gruppo terrorista potrebbe voler combattere all’infinito, puntando sul sostegno che ottiene in molti Paesi occidentali per riuscire a centrare quello che è il suo obiettivo di fondo: sopravvivere per perseguire la Jihad».
- Paesi occidentali tra cui l’Italia, dove si moltiplicano gli episodi antisemiti e le campagne antiisraeliane. Gli attori a Venezia, la Flotilla… E c’è addirittura chi legge i comunicati di Hamas in pubblico.
«Il clima di intolleranza nasce da un corto circuito. La solidarietà per le vittime civili palestinesi a Gaza assai raramente si accompagna ad una pari solidarietà per le vittime civili israeliane e per gli ostaggi. Solo riuscendo a trovare un unico approccio a sostegno di tutte le vittime della guerra si può arginare l’odio».
- Un docente di diritto a Palermo ha chiesto su Facebook alla sua rete di «bandire gli amici ebrei. Anche quelli buoni. Tutti: perché alla fine gli ebrei mentono tutti». Il Rettore prende le distanze ma non adotta sanzioni…
«Quando nel 2007 Giorgio Napolitano parlò dell’antisionismo come “antisemitismo travestito” e quando Sergio Mattarella, dopo l’elezione a Quirinale, inserì Stefano Taché, il bambino ucciso nell’attentato alla Sinagoga di Roma del 1982, nella lista delle vittime del terrorismo, indicarono con chiarezza all’Italia quella sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo che sta oggi generando un’intolleranza contro gli ebrei senza precedenti dalla nascita della Repubblica nel 1946. Un’intolleranza costellata da una moltitudine di violazioni dell’articolo 3 della Costituzione, come quella avvenuta a Palermo».
(Il Riformista, 30 agosto 2025)
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L’inferno visto da Israele: prima, durante e dopo il 7 ottobre
di Luigi Giliberti
• Introduzione
Se si guarda a Gaza, il mondo parla di assedio, carestia, vittime. Se si guarda a Israele, il silenzio è assordante. È come se la storia iniziasse il giorno dopo, saltando l’origine e ignorando il contesto. Ma l’inferno per Israele non è cominciato il 7 ottobre: era già scritto da prima. È esploso quel giorno. E continua dopo, tra sirene, missili e attacchi su più fronti, nel disinteresse generale.
• Prima: l’attesa cieca dell’Occidente
Prima del 7 ottobre, Israele viveva in un equilibrio precario: Missili da Gaza lanciati a intermittenza, «per ricordare» che la tregua non esisteva. Attacchi terroristici a Gerusalemme, Tel Aviv, nelle cittadine del sud: autobus esplosi, coltelli nei mercati, auto contro i civili. Il confine con Gaza trasformato in un terreno di prove generali: incendi appiccati con palloni incendiari, droni artigianali caricati di esplosivo, tunnel che spuntavano sotto le case di Sderot. Tutto sotto gli occhi dell’Occidente, che definiva “escalation minore” ciò che per gli israeliani era la vita quotidiana: mandare i figli a scuola con il terrore di non rivederli la sera.
• Il 7 ottobre: la ferita che non si rimargina
Poi è arrivato il sabato nero: All’alba, migliaia di razzi sparati in pochi minuti hanno saturato l’Iron Dome. Sirene ovunque, dal Negev a Tel Aviv. Miliziani di Hamas e Jihad Islamica hanno sfondato il confine, devastato kibbutz, bruciato case, massacrato famiglie. Giovani, bambini, anziani trascinati nei tunnel come ostaggi. Donne violentate, corpi esposti, stragi riprese con i cellulari per diventare propaganda. Per Israele, il 7 ottobre non è stato un episodio. È stato un terremoto nazionale: la Shoah del XXI secolo, come l’hanno definita molti sopravvissuti.
• Dopo: l’inferno che non finisce
L’Occidente ha voltato pagina in fretta. Israele no: le sirene continuano. Dal sud, razzi di Hamas e gruppi minori ancora attivi. Dal nord, Hezbollah ha aperto un secondo fronte: missili sulla Galilea, villaggi evacuati, artiglieria dal Libano. Dal cielo, droni iraniani intercettati dalle difese aeree. Dallo Yemen, missili a lungo raggio degli Houthi diretti verso Eilat. Israele non ha mai smesso di essere sotto attacco. La guerra non è un episodio chiuso: è un assedio su più lati, contemporaneo e costante. Ma questa parte della storia raramente compare nei titoli dei giornali.
• L’indifferenza che brucia
Eppure nessuno ne parla. Le piazze globali urlano “Free Palestine”, ma tacciono sulle sirene israeliane che suonano ogni notte. Nessuna marcia per i bambini israeliani che dormono nei rifugi. Nessuna indignazione per i villaggi bruciati, per gli ostaggi che da mesi non tornano a casa. Israele viene raccontato solo come potenza militare, mai come società civile sotto attacco. È la normalizzazione della paura: se sei israeliano, il mondo si abitua all’idea che vivere sotto i missili sia routine.
• La doppia ipocrisia
C’è un doppio standard che corrode il discorso pubblico: Quando muore un palestinese, è colpa di Israele. Quando muore un israeliano, è “conseguenza del conflitto”. Le parole cambiano tutto. Un attentato a Gerusalemme viene archiviato come “incidente di sicurezza”. Un bombardamento su Gaza diventa “strage indiscriminata”. Il linguaggio è già propaganda.
• Oltre la propaganda: il dato di fatto
Il 7 ottobre non è un punto isolato: è l’apice di un disegno che parte da Teheran, passa per Gaza, Beirut, Sana’a, e punta dritto al cuore di Israele. Hamas, Hezbollah, Houthi, IRGC: la rete è unica, il bersaglio è uno solo. E Israele vive dentro questo assedio. Prima: tra coltellate e razzi. Durante: la mattanza del 7 ottobre. Dopo: un fuoco incrociato da più paesi, nel silenzio di chi preferisce non vedere.
• Conclusione
L’inferno visto da Israele è triplo: Prima, un terrorismo quotidiano ignorato. Durante, la strage del 7 ottobre che ha cambiato per sempre la coscienza israeliana. Dopo, un assedio multiplo che nessuno racconta. Il mondo grida slogan e si volta dall’altra parte. Israele resta solo, a difendere la propria esistenza. Con un dato semplice: senza esercito, oggi, Israele non esisterebbe più.
(Setteottobre, 29 agosto 2025)
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Ankara contro Gerusalemme, la nuova frattura
Sono passati tre anni dalla visita ufficiale ad Ankara del presidente israeliano Isaac Herzog.
La sua stretta di mano con Recep Tayyip Erdogan, allora, era stata salutata come un segnale di apertura dopo oltre dieci anni di rapporti difficili. Si parlò di stabilità regionale, di cooperazione economica, di un «viaggio di fiducia e rispetto». Una fotografia che oggi, con l’annuncio di Ankara di una nuova rottura con Israele, sembra appartenere a un’altra stagione politica.
Dopo le atrocità di Hamas del 7 ottobre 2023 e la guerra a Gaza, il presidente turco ha imboccato un’altra strada. La sua retorica si è fatta sempre più roboante e aggressiva, fino a definire Israele uno “stato terrorista” e a paragonare Benjamin Netanyahu a Hitler. Con l’acuirsi dello scontro, entrambi i paesi hanno richiamato i propri ambasciatori e oggi Ankara ha annunciato lo stop ai rapporti economici e la chiusura dello spazio aereo agli aerei israeliani.
Per Erdogan, sottolinea l’emittente Kan, la scelta di assumere la guida della retorica anti-israeliana è anche un calcolo di politica interna: presentarsi come il difensore dei palestinesi significa consolidare il consenso tra le frange più nazionaliste e religiose del paese, alimentando al tempo stesso una narrazione polarizzante che lo contrappone all’Occidente.
Le conseguenze di questo clima si fanno sentire anche sul mondo ebraico in Turchia. Già nel febbraio 2024, a Pagine Ebraiche una rappresentante della comunità ebraica di Istanbul aveva raccontato le sue paure, chiedendo di rimanere anonima per precauzione. Orgogliosa delle sue radici turche, spiegava come fosse diventato sempre più difficile vivere apertamente la propria identità ebraica: «Se non si esce dalla propria bolla, con amici istruiti e aperti, si riesce a vivere. Ma fuori, la propaganda rende tutto più difficile».
Nell’annunciare l’ennesima rottura con Gerusalemme, il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha parlato di «attacchi sconsiderati di Israele a Gaza, in Libano, Yemen, Siria e Iran». Aree su cui Erdogan sta cercando di costruire la sua politica di influenza. In particolare in Siria, dove la Turchia sostiene il nuovo governo del presidente Ahmad al-Sharaa, con un passato da jihadista e un presente da uomo di stato in cerca di legittimità. Per questo, su pressione americana, al-Sharaa sta tentando di mediare con Israele. Un processo che suscita malcontento ad Ankara, che vede incrinarsi la propria pretesa di essere l’unico interlocutore privilegiato di Damasco.
Erdogan non ha inoltre gradito la recente dichiarazione del primo ministro Netanyahu, che per la prima volta ha riconosciuto il genocidio armeno. Un passo non ancora formale, ma comunque contestato dalla diplomazia turca, che continua a negare le responsabilità storiche dell’Impero ottomano. d.r.
(moked, 29 agosto 2025)
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Yeva Ivanov, la più giovane promessa del drifting viene da Israele
di Nicole Nahum
A soli sedici anni, senza ancora la patente, Yeva Ivanov è già un nome noto nell’Europa del drifting, una disciplina sportiva dell’ambito automobilistico. Mentre i suoi coetanei si preoccupano di verifiche e social network, lei affronta curve in derapata contro piloti adulti, dimostrando che il talento non ha né età né genere.
La sua storia comincia a otto anni, quando il padre Ruslan, appassionato di motori fin da bambino, la porta su una pista di kart insieme alla sorella gemella. Mentre la sorella abbandona subito, Yeva resta affascinata. “Era il mio sogno da piccolo, ma alla fine è Yeva a realizzarlo” racconta lui. A quattordici anni riceve in regalo la sua prima auto da drifting, una BMW E36 modificata, e da quel momento la vita della giovane si divide tra lezioni di matematica e allenamenti in Georgia.
Oggi passa più tempo in pista che alle feste con le amiche. «Non sento di perdere nulla» afferma Yeva. Accanto a lei c’è sempre il padre, che oltre a fare il tifo, cura ogni dettaglio della macchina, e il coach Melod Meladze, il quale la considera una vera esperta: «Ha la disciplina di una professionista e non teme il rischio».
I risultati parlano da soli: ottava nella Winter Drift Cup, due volte terza e una quarta nella Georgian Drift Series, dove ora occupa il secondo posto in classifica generale. Gareggia anche nella categoria King of Drift Pro2, sfidando piloti molto più esperti.
Dietro il successo, però, ci sono sacrifici e costi elevatissimi. «Alla prima gara ho speso mille shekel per le gomme e mi sembrava tanto. Ora so che è solo l’inizio» ammette il padre. Le spese per pneumatici, manutenzione, viaggi e logistica sono enormi, ma la famiglia è pronta a sostenerla.
Yeva deve affrontare anche qualche battuta, soprattutto da parte dei compagni di classe. «C’è sempre qualcuno che mi chiede se ho distrutto l’auto o se sono arrivata ultima. Ma so che è solo invidia». Il suo obiettivo è quello di diventare una pilota professionista, rappresentando Israele nelle competizioni internazionali e, nonostante tutto, ci sta riuscendo.
Il 20 e il 21 agosto Yeva ha partecipato ad una gara a Karmiel, qualificandosi come la più giovane tra le concorrenti. «Per me è un’opportunità speciale», dice mentre si prepara su una nuova vettura. La pressione aumenta con l’avvicinarsi dell’evento, ma lei affronta la tensione con un rituale insolito: mangiare un limone per migliorare la concentrazione.
Quando le si chiede cosa prova sulla linea di partenza, Yeva non esita, ma spiega come «Ogni gara è la mia risposta a chi pensa che le ragazze non possano farcela». Per lei, ogni traguardo non è solo un risultato sportivo, ma un modo per scardinare vecchi pregiudizi e dimostrare che la passione non conosce limiti. Tra voli per la Georgia, allenamenti estenuanti e amicizie mantenute via videochiamata, questa ragazza sta tracciando la sua strada verso il vertice del motorsport mondiale, con coraggio, determinazione e un motore che non si ferma mai.
(Shalom, 29 agosto 2025)
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Israele attacca obiettivi terroristici Houthi nella capitale yemenita Sana'a
“Dopo la piaga delle tenebre arriva la piaga dei primogeniti”, ha affermato il ministro della Difesa israeliano Katz. “Chi alza le mani contro Israele, le vedrà mozzate”.
GERUSALEMME - Giovedì sera le forze di difesa israeliane hanno attaccato obiettivi terroristici Houthi nella città yemenita di Sana'a, secondo quanto riferito dall'esercito.
“L'IDF agisce con determinazione contro il regime terroristico Houthi, intensificando al contempo gli attacchi contro l'organizzazione terroristica Hamas nella Striscia di Gaza, e continuerà a fare tutto il possibile per eliminare qualsiasi minaccia ai cittadini dello Stato di Israele”, ha dichiarato l'esercito.
“L'organizzazione terroristica Houthi opera dall'inizio della guerra sotto la guida e il finanziamento dell'Iran per danneggiare lo Stato e i suoi alleati, minare la stabilità regionale e disturbare la libertà di navigazione globale”, ha aggiunto.
Il ministro della Difesa Israel Katz ha dichiarato in una dichiarazione separata: “Come abbiamo avvertito gli Houthi nello Yemen: dopo la piaga delle tenebre verrà la piaga dei primogeniti”. E ha aggiunto: “Chi alza la mano contro Israele, la perderà”.
Secondo fonti arabe, aerei da combattimento dell'aviazione israeliana hanno attaccato più di dieci obiettivi nell'area di Sana'a, che funge da capitale degli Houthi. Una fonte della sicurezza israeliana ha dichiarato all'emittente pubblica Kan News che uno degli attacchi era diretto contro una riunione di “funzionari Houthi di alto rango”.
Già giovedì l'aviazione aveva intercettato due droni lanciati dagli Houthi, che avevano fatto scattare le sirene di allarme aereo anche nei comuni di confine di Bnei Netzarim e Naveh.
“Dopo le sirene per l'intrusione di missili nemici, che sono suonate di recente nei comuni vicini alla Striscia di Gaza, un UAV lanciato dallo Yemen è stato intercettato con successo dall'IAF”, ha comunicato l'IDF.
Per il momento non sono stati segnalati feriti o danni.
Bnei Netzarim e Naveh si trovano vicino al confine egiziano e leggermente a sud del confine con Gaza.
Circa 90 minuti dopo, le sirene di allarme sono suonate nuovamente in alcune “aree aperte” non specificate in Israele, dopo l'intercettazione di un secondo drone.
“L'obiettivo è stato intercettato prima che potesse penetrare nel territorio dello Stato di Israele; gli allarmi sono stati attivati in conformità con le linee guida nelle aree aperte”, ha spiegato l'esercito.
Mercoledì mattina, l'IAF aveva già intercettato un missile balistico lanciato dagli Houthi nello Yemen.
L'attacco è avvenuto intorno alle 5:30 del mattino e ha fatto scattare le sirene di allarme aereo per circa 1,5 milioni di israeliani, tra cui quelli delle grandi città come Gerusalemme e Beit Shemesh, nonché delle colline della Giudea (“Shfela”).
Il servizio di soccorso israeliano Magen David Adom ha comunicato di non aver ricevuto segnalazioni di feriti o detriti di missili.
Gli Houthi stanno lanciando attacchi con missili balistici e droni contro Israele dall'invasione del Negev nord-occidentale guidata da Hamas il 7 ottobre 2023.
Dalla fine dell'ultima tregua nella Striscia di Gaza il 18 marzo, il gruppo sostenuto dall'Iran ha lanciato più di 70 missili balistici e oltre 20 droni contro Israele.
Domenica l'IDF ha attaccato diversi siti importanti nello Yemen, tra cui la capitale Sana'a e la città portuale di Hodeida, dopo che venerdì sera gli Houthi avevano lanciato per la prima volta un missile con una testata a frammentazione contro Israele.
Inizialmente si pensava che l'intercettazione fosse fallita, poiché la testata del missile si era frammentata in aria. I detriti sono caduti vicino a un edificio residenziale, ma nessuno è rimasto ferito.
La testata era composta da 22 testate più piccole; secondo l'emittente israeliana Channel 12, un missile identico era stato lanciato dall'Iran contro Israele durante la guerra di 12 giorni nel mese di giugno.
L'esercito ha dichiarato che gli obiettivi dell'attacco di domenica includevano una base militare con il palazzo presidenziale, le centrali elettriche di Asar e Hizaz e un deposito di carburante, tutte strutture utilizzate dal regime Houthi per sostenere i suoi attacchi terroristici.
(Israel Heute, 29 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’IDF recupera a Gaza il corpo di Ilan Weiss, rapito da Hamas il 7 ottobre
di Samuel Capelluto
L’IDF, in un’operazione speciale con lo Shin Bet e unità d’élite, ha recuperato nella Striscia di Gaza il corpo di Ilan Weiss Z”L, ostaggio israeliano assassinato il 7 ottobre 2023 dai terroristi di Hamas. Nell’operazione sono stati rinvenuti anche resti di un altro ostaggio caduto, il cui nome non è ancora stato autorizzato alla pubblicazione.
L’operazione, complessa e ad alto rischio, è stata condotta dal Comando Sud dell’IDF con il contributo di intelligence precisa fornita dalla Direzione dell’Intelligence militare e dallo Shin Bet. Grazie a queste informazioni, le forze israeliane hanno potuto penetrare in territorio nemico e riportare a casa i resti di Weiss, garantendogli ora una degna sepoltura in Israele.
Ilan Weiss, 55 anni, era un membro stimato del kibbutz Be’eri e faceva parte della squadra di emergenza locale (Tzachi). Il 7 ottobre 2023, quando centinaia di terroristi di Hamas fecero irruzione nelle comunità del sud di Israele, Weiss non esitò a uscire dalla propria abitazione per difendere i suoi vicini. Venne ucciso con brutalità e il suo corpo fu rapito nella Striscia di Gaza.
Il dramma della sua famiglia non finì quel giorno. La moglie Shiri e la figlia Noga furono anch’esse sequestrate e deportate nei tunnel di Hamas. Solo a novembre 2023, nell’ambito dell’accordo “Porte del Cielo”, poterono tornare a casa. Da allora, la comunità di Be’eri ha portato avanti la memoria di Ilan, simbolo di coraggio e sacrificio.
Dopo il recupero, il corpo è stato trasferito all’Istituto Nazionale di Medicina Legale, dove è stato identificato in collaborazione con la Polizia israeliana e la task force per gli ostaggi dell’IDF. Parallelamente, continua l’identificazione dei resti del secondo ostaggio caduto, mentre le famiglie colpite sono state informate personalmente dalle autorità.
Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha espresso le sue condoglianze alla famiglia Weiss e alla comunità di Be’eri: “Mia moglie ed io porgiamo le nostre più sentite condoglianze alle famiglie colpite. Ringraziamo i nostri comandanti e i nostri combattenti per la loro determinazione e il loro coraggio”.
Netanyahu ha ribadito che la lotta per riportare a casa tutti gli ostaggi è una priorità nazionale: “Non ci fermeremo finché non avremo riportato tutti i nostri ostaggi — vivi e caduti — alla loro casa”.
Secondo le informazioni ufficiali, nelle mani di Hamas si trovano ancora 49 ostaggi, di cui 20 ritenuti in vita. Le famiglie attendono ogni giorno notizie, mentre l’esercito prosegue senza sosta le operazioni di ricerca e pressione militare per riportarli a casa.
Il recupero del corpo di Ilan Weiss non è solo un gesto di giustizia verso la sua memoria, ma anche un segnale di speranza per chi continua ad aspettare il ritorno dei propri cari.
Ilan Weiss Z”L non è più tra noi, ma il suo nome resterà scolpito nella storia del kibbutz Be’eri e di tutto Israele come simbolo di coraggio e dedizione. Il suo ritorno, seppur tragico, rappresenta la promessa che lo Stato di Israele non abbandona i suoi figli, né vivi né caduti.
In un Paese ancora ferito, questa operazione ricorda che la missione non è finita: finché anche un solo ostaggio resterà nelle mani di Hamas, la battaglia non potrà dirsi conclusa. Israele continuerà a lottare, perché la vita — e la dignità dei suoi cittadini — valgono più di ogni altra cosa.
(Shalom, 29 agosto 2025)
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La fine dell'UNIFIL era attesa da tempo
L'UNIFIL ha permesso l'armamento di Hezbollah. Anche per questo motivo la sua fine è una buona notizia.
L'UNIFIL ha fallito nella sua missione. Negli ultimi anni, nonostante la presenza dei caschi blu, la milizia terroristica Hezbollah è riuscita ad armarsi pesantemente. È quindi positivo che il Consiglio di sicurezza abbia ora terminato il mandato della forza speciale. La comunità internazionale può impiegare in modo più efficace i 500 milioni di dollari all'anno.
L'UNIFIL avrebbe dovuto garantire l'attuazione della risoluzione 1701 del 2006. All'epoca il Consiglio di sicurezza aveva chiesto il disarmo di tutti i gruppi nel sud del Libano. Tuttavia, il giorno dopo il massacro terroristico del 7 ottobre, anche Hezbollah è intervenuto nella guerra contro Israele iniziata da Hamas, con armi che non avrebbe dovuto possedere.
• Nessuna forza d'impatto
Certo, il mandato ha i suoi punti deboli. La truppa ha le mani legate sotto molti aspetti. Dovrebbe sostenere l'esercito libanese nel disarmo, senza agire di propria iniziativa. Ma finora a Beirut è mancata la volontà politica. Di conseguenza, i circa 10.000 “caschi blu” si sono dimostrati inefficaci.
E “inefficaci” è un eufemismo. Hezbollah, sostenuto dall'Iran, ha letteralmente umiliato l'UNIFIL: nelle immediate vicinanze dei suoi posti di blocco, la milizia aveva nascosto le sue armi e gli ingressi ai tunnel terroristici, e ha persino svolto esercitazioni militari in vista delle truppe. Di recente, l'UNIFIL è servita a Hezbollah come “scudo umano” nei combattimenti con Israele.
• Il proprio fallimento
Ma la forza dell'ONU non è solo vittima del suo mandato poco ponderato. Nei suoi rapporti sulla situazione, ha ignorato la portata dell'accumulo di armi da parte di Hezbollah. Ha “nascosto la tempesta in arrivo”, ha affermato l'esperto di sicurezza israeliano Assaf Orion del think tank americano “Washington Institute”.
A ciò si è aggiunta la corruzione: durante gli interrogatori da parte degli israeliani, i terroristi di Hezbollah hanno dichiarato di aver pagato i rappresentanti dell'UNIFIL per utilizzare le strutture per i propri scopi. In questo modo hanno ottenuto l'accesso alle telecamere al confine con Israele. In altre parole: non solo Hezbollah ha deriso la forza, ma anche l'UNIFIL stessa ha deriso la propria missione con un comportamento del genere.
Da questo punto di vista, la fine di questa missione era attesa da tempo. Ma anche la regione è cambiata. Grazie agli attacchi israeliani contro Hezbollah, l'Iran e la Siria, il Libano può liberarsi da attori stranieri e aspirare a una vera sovranità. Un segno di ciò è la decisione di Beirut di disarmare Hezbollah, sostenuto dall'Iran, entro la fine di quest'anno.
• Preoccupazioni permanenti in materia di sicurezza
Non è ancora certo che i nuovi sforzi abbiano successo. L'esercito israeliano è attualmente presente in cinque postazioni in Libano per individuare tempestivamente sviluppi dannosi. Come sottolinea Sarit Sehavi, direttrice del think tank “Alma”, i cittadini israeliani osano tornare nel nord di Israele solo perché l'esercito è presente in Libano. Il timore di un altro 7 ottobre proveniente dal nord è ancora grande.
Ma l'inizio è stato fatto, soprattutto perché gli Stati Uniti possono guidare un meccanismo di sicurezza a sostegno dell'esercito libanese ed esercitare pressioni sul governo in caso di dubbio. Resta da sperare che l'UNIFIL non ostacoli questi nuovi sforzi per il resto del suo mandato.
(Israelnetz, 29 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Venezia, il Festival del Cinema ridotto a monotematismo politico
di Stefano Piazza
Il Festival del Cinema di Venezia dovrebbe essere la celebrazione della settima arte. E invece, anche quest’anno, il Lido si è trasformato in una vetrina monotematica, dove l’unico argomento capace di monopolizzare i riflettori è Gaza. Red carpet, conferenze stampa, interviste: ovunque la parola chiave resta la stessa. Non la qualità delle opere, non le innovazioni stilistiche, non il coraggio dei registi. Ma Gaza, sempre e soltanto Gaza.
È la nuova liturgia dell’industria culturale: indignazione selettiva e solidarietà a senso unico. Gli ospiti del Festival sventolano slogan e si concedono dichiarazioni di fuoco su Israele, ma ignorano sistematicamente il resto del mondo. I massacri nel Congo orientale, dove i civili vengono massacrati dai ribelli M23, non strappano una riga. La carestia nello Yemen, che ha provocato migliaia di vittime silenziose, non riceve un applauso. L’Ucraina, dopo due anni di guerra, è ormai uscita dall’agenda delle star. L’unico tema che garantisce visibilità e like resta la Striscia di Gaza.
La monocromia ideologica produce paradossi evidenti. Attori che non distinguerebbero Gerusalemme da Ramallah si improvvisano esperti di geopolitica, registi che fino a ieri dichiaravano «l’arte non deve piegarsi alla politica» oggi indossano kefiah sul tappeto rosso. L’arte, piegata a slogan precotti, diventa un accessorio alla moda, utile a guadagnarsi titoli di giornale e standing ovation in sala.
Nel frattempo, il clima avvelenato del Festival ha avuto un effetto silenzioso ma significativo: diversi attori e registi israeliani hanno deciso di rinunciare alla partecipazione per timori legati alla loro incolumità. Non si tratta solo di contestazioni o fischi: la tensione è tale che chiunque provenga da Israele rischia di trasformarsi in bersaglio, prima mediatico e poi fisico. Un paradosso nel paradosso: la Mostra che si proclama spazio di libertà e dialogo diventa un luogo in cui alcuni artisti non si sentono sicuri di esprimersi o persino di presentarsi.
L’aspetto più corrosivo, però, è la doppia morale che pervade l’intero evento. Il Festival si vanta di difendere la libertà di parola, ma premia e amplifica soltanto una narrazione. Tutto ciò che contraddice lo storytelling dominante viene relegato al silenzio. La complessità del conflitto scompare, sostituita da slogan semplificati. E la parola “pace”, che dovrebbe essere universale, diventa un vessillo di parte.
La riduzione del cinema a comizio politico ha conseguenze devastanti: si sacrifica la pluralità degli sguardi, si spegne il dibattito vero, si offusca la missione dell’arte di interrogare e disturbare. Invece di un mosaico di storie globali, Venezia si consegna al pensiero unico. Invece di celebrare la diversità del cinema, il Festival diventa il megafono di un’unica causa, applaudita a priori e ripetuta all’infinito.
Alla fine resta un’immagine amara: da un lato il tappeto rosso su cui sfilano star con dichiarazioni prefabbricate, dall’altro un’arte che abdica alla sua funzione critica per piegarsi al conformismo ideologico. Un Festival che doveva dare voce a tutte le storie del mondo, ma che ha scelto di raccontarne solo una, sempre la stessa.
Forse, per onestà, alla prossima edizione converrebbe togliere ogni ambiguità e ribattezzarlo direttamente «Gaza Film Festival».
(L'informale, 28 agosto 2025)
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Setteottobre: appello al Presidente della Repubblica perché condanni l’odio verso gli ebrei. Il “caso Nivarra”
Stefano Parisi: L’impunità di cui godono le persone e le organizzazioni che sempre più di frequente si lasciano andare a dichiarazioni ed episodi di odio verso gli ebrei libera nel paese i peggiori istinti antisemiti. È urgente una chiara e inequivocabile condanna da parte delle alte istituzioni della Repubblica
di Associazione Setteottobre
L’Associazione Setteottobre esprime sdegno per le dichiarazioni del professor Luca Nivarra, docente di diritto civile all’Università di Palermo, che nei giorni scorsi ha diffuso contenuti espliciti di odio verso gli ebrei. È un fatto gravissimo tanto più perché proviene da un esponente del mondo accademico. Il professor Nivarra offende non solo la comunità ebraica ma l’intera coscienza civile del Paese.
Come Associazione Setteottobre rivolgiamo un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella perché riaffermi inequivocabilmente che l’antisemitismo è incompatibile con i valori costituzionali, perché ricordi alla magistratura e alle forze dell’ordine che la legge Mancino del 1993 punisce l’incitamento all’odio razziale, ed invii un segnale forte e incontrovertibile a difesa della memoria storica e della dignità repubblicana.
Sul sito dell’Associazione Setteottobre abbiamo denunciato da subito quanto accaduto, al link: Clicca QUI
(Bet Magazine Mosaico, 27 agosto 2025)
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La denuncia di Ilana: “Violentata e torturata da Hamas”
di Samuel Capelluto
Una voce rotta dall’emozione ma ferma nella sua denuncia ha scosso ieri il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A parlare è stata Ilana Gritzewsky, giovane israeliana di origine messicana rimasta per 55 giorni nelle mani di Hamas dopo il 7 ottobre. Compagna di Matan Zangauker, ostaggio da 691 giorni nei tunnel di Hamas, Ilana ha raccontato la brutalità subita e ha accusato la comunità internazionale di praticare due pesi e due misure.
Davanti agli ambasciatori ha rievocato la sua cattura: i terroristi l’hanno trascinata fuori di casa, picchiata, spogliata in parte, umiliata con abusi sessuali e lasciata con ferite gravi – mascella fratturata, bacino spezzato, ustioni. Poi settimane di spostamenti tra case, tunnel e appartamenti sudici, con scarsissimo cibo e acqua quasi inesistente. Ha perso dodici chili in meno di due mesi, sopravvivendo in condizioni di terrore psicologico costante. “Promesse false, perquisizioni continue, manipolazioni: era un inferno quotidiano” ha detto, descrivendo anche la paura di non rivedere mai il suo compagno.
Nei giorni precedenti al rilascio, Ilana è stata trasferita prima all’ospedale Nasser e poi in un tunnel dove ha incontrato altri ostaggi israeliani. Lì ha scoperto che anche Matan era prigioniero a Gaza. “Ho supplicato i terroristi di farmelo vedere. Mi hanno detto ‘più tardi’. Quel momento non è mai arrivato” ha ricordato. Quando le hanno annunciato la liberazione, ha persino rifiutato: “Non volevo andarmene senza di lui. Sapevo che una parte di me sarebbe rimasta nei tunnel”.
La sua denuncia più dura è stata rivolta al comportamento ambiguo della comunità internazionale: “Quando i cartelli in Messico uccidono e torturano, il mondo li chiama terroristi. Perché con Hamas si esita? Perché chi brucia vivi i bambini, violenta le donne, mutila i corpi non viene condannato allo stesso modo? Perché i racconti delle vittime ebree vengono messi in dubbio?”. Ha parlato apertamente di tradimento e ipocrisia, accusando il Consiglio di Sicurezza di non avere il coraggio di nominare Hamas per quello che è: un’organizzazione terroristica.
Ilana ha poi rivolto un appello diretto: “Non voltatevi dall’altra parte. Non lasciate che divisioni politiche soffochino le voci delle vittime. Pretendete la liberazione immediata e senza condizioni di ogni ostaggio. Non domani, non in un futuro indefinito: adesso”.
Nel finale, le sue parole si sono fatte intime, rivolte a Matan: “Tua madre, tua sorella, il nostro cane Noni ed io… ti stiamo aspettando. Io ti sto aspettando”. Un messaggio d’amore e di resistenza che ha trasformato un discorso politico in un grido universale: riportare a casa chi è ancora prigioniero.
(Shalom, 28 agosto 2025)
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Israele vince l’oro nella seconda divisione dell’europeo di pallanuoto U18
La nazionale israeliana under-18 di pallanuoto ha raggiunto uno storico traguardo, aggiudicandosi per la prima volta il titolo di campione europeo di Divisione 1, la seconda serie continentale.
di David Fiorentini
Dopo una cavalcata sorprendente nelle acque di Rio Maior in Portogallo, Israele ha affrontato in finale il Belgio. Il primo quarto è stato equilibrato, con lo Stato ebraico avanti 3-2. Nel secondo però i belgi hanno ribaltato il risultato, portandosi all’intervallo in vantaggio 5-3. Alla ripresa, il Belgio ha allungato ulteriormente il divario, ma la nazionale bianco-azzurra non si è persa d’animo, trovando la forza di reagire e riportarsi avanti 8-7. Nell’ultima frazione, Israele ha mostrato grande qualità sia in attacco che in difesa, fino ad imporsi con un netto 12-9 e vincere il trofeo.
Questo successo testimonia la crescita del movimento pallanuotistico israeliano, che oltre alle recenti soddisfazioni nei tornei giovanili, sta lavorando duramente per qualificarsi alle massime manifestazioni internazionali, a partire dalla prossima Coppa del Mondo.
Come consolazione per i diavoli rossi, entrambe le finaliste sono state promosse in Divisione Elite, dove prenderanno il posto di Georgia e Ucraina, ultime classificate della massima categoria.
Nel frattempo infatti, all’edizione di Oradea (Romania), sono state le cosiddette “Big Seven”, Grecia, Ungheria, Montenegro, Spagna, Croazia, Serbia e Italia, a dominare la scena. Tra queste ha trionfato il Montenegro, aggiudicandosi il titolo con un percorso impeccabile di 6 vittorie su 6. L’Italia, invece, ha chiuso quarta, battuta 12-11 dalla Grecia nella finale per il terzo posto.
(Bet Magazine Mosaico, 28 agosto 2025)
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Ciclismo – Vuelta denuncerà propal che hanno bloccato squadra israeliana
Allo scorso Giro d’Italia attivisti propal hanno cercato più volte d’interrompere la corsa, rischiando di provocare gravi incidenti tra i ciclisti in gara.
Nella giornata di mercoledì l’ultima follia della “protesta” contro la presenza nelle corse internazionali della Israel Premier Tech (IPT) è andata in scena durante la quinta tappa della Vuelta, la corsa a tappe spagnola iniziata quest’anno da Torino. La cronometro a squadre di Figueres era in pieno svolgimento quando alcuni attivisti hanno tentato di bloccare il team israeliano al centro della strada, esibendo uno striscione in cui si leggeva “Neutralità è complicità. Boicotta Israele”. Gli attivisti sono stati allontanati pochi istanti dopo dai commissari di gara, ma la squadra è stata comunque costretta a mettere il piede a terra e la prova sportiva è stata inevitabilmente compromessa dal rallentamento e dalla inevitabile deconcentrazione rispetto allo sforzo fisico profuso. Malgrado ciò, la IPT ha comunque ottenuto un onorevole quattordicesimo posto.
«Oggi non è stata una giornata facile, ma siamo orgogliosi dei nostri ragazzi», ha comunicato il team a fine tappa. Emettendo contestualmente un comunicato in cui la squadra dichiara di «rispettare la libertà di ciascuno di esprimersi, che include la possibilità di protestare in modo pacifico». Sulle strade della Vuelta è però successo qualcosa di molto diverso. «Azioni pericolose», le definisce il team, perché hanno rischiato di compromettere l’incolumità «degli atleti e del personale di gara» oltre a quella «dei contestatori stessi». La IPT informa a tal proposito che «continuerà a lavorare assieme agli organizzatori della corsa e alle autorità per tutelare la nostra sicurezza alla Vuelta e in tutte le gare, affinché nessuna protesta abbia un impatto sulla nostra sicurezza e sulle nostre prestazioni». Dal suo canto il direttore della Vuelta, Javier Guillén, nel definire l’episodio un «atto di violenza», ha annunciato l’intenzione di presentare una denuncia alla polizia perché «non possiamo permettere che si ripeta quanto accaduto». La IPT, ha dichiarato Guillén, «ha partecipato al Tour e al Giro per i suoi meriti e nulla può impedirle di partecipare alla Vuelta».
(moked, 28 agosto 2025)
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“Gli scritti del Nuovo Testamento come letteratura ebraica”
All'inizio dell'anno, lo Yad Izhak Ben-Zvi Institute, un importante istituto di ricerca statale ed editore di libri e riviste su Gerusalemme, Israele e le comunità ebraiche dell'Est, ha organizzato un simposio a Gerusalemme.
di Gershon Nerel
GERUSALEMME - In tale occasione è stata presentata la nuova pubblicazione “New Testament Writings as Jewish Literature” (Gli scritti del Nuovo Testamento come letteratura ebraica). L'autore è il prof. Serge Ruzer dell'Università Ebraica di Gerusalemme. Anche tre suoi colleghi hanno contribuito alla stesura del libro. Nelle sue 581 pagine, l'opera tratta del contesto ebraico del Nuovo Testamento, degli incontri rabbinici con questi scritti, dell'influenza delle fonti di Qumran e delle ricerche dei moderni studiosi del Nuovo Testamento (come riportato da Israel Heute).
• La conferenza
Tra i circa 500 partecipanti c'erano guide turistiche, studiosi, ebrei ortodossi e teologi cristiani: un campione rappresentativo della società israeliana. Tutti volevano conoscere il Nuovo Testamento da una prospettiva ebraica.
Le quattordici relazioni hanno trattato argomenti quali: Il Nuovo Testamento tra ebraismo ed ellenismo; I rotoli di Qumran e il Nuovo Testamento; Gli “Scritti del Nuovo Testamento come letteratura ebraica” come letteratura israeliana; Le fonti cristiane e le tradizioni dei saggi: risultati e sfide nella ricerca; Il Nuovo Testamento nel sistema educativo israeliano; Come si può insegnare Yeshua e il Nuovo Testamento in arabo in un'università cattolica? Inoltre: Dilemmi nell'insegnamento del Nuovo Testamento (di seguito: NT) a un pubblico ebraico-israeliano; “Una guida turistica ebraica, il NT e la guida dei pellegrini cristiani”.
• Conferenza dell'autore
La conferenza di apertura è stata tenuta dal Prof. Ruzer (75). Ha parlato del tema “La ricerca sul NT in ebraico: da Joseph Klausner a David Flusser e fino ai giorni nostri”. Il libro di Klausner “Gesù di Nazareth: la sua vita, il suo tempo e il suo insegnamento” fu pubblicato per la prima volta in ebraico a Gerusalemme nel 1921. Poco dopo fu tradotto in inglese dallo studioso anglicano Herbert Danby e pubblicato nel 1925. Il libro di Klausner è stato lodato dai cristiani e criticato da molti ebrei. Tuttavia, il suo effetto rivoluzionario rimane ancora oggi, soprattutto perché è stato scritto da un rinomato studioso ebreo che ha attinto a numerose fonti storiche ed è riuscito a rappresentare in modo obiettivo il Signore Yeshua come un grande maestro e moralista ebreo. Gli oppositori di Klausner criticano il libro per aver abbandonato l'atteggiamento tradizionale negativo e sprezzante degli ebrei nei confronti del maestro galileo.
Il prof. David Flusser, che seguì le orme accademiche di Klausner, scrisse anch'egli ampiamente su “Gesù”. Proprio come Klausner, nelle sue pubblicazioni in ebraico utilizzava il termine ebraico errato “Yeshu” invece di Yeshua, il nome ebraico corretto che indica la redenzione. Anche Flusser evitava intenzionalmente il nome Yeshua. In questo modo poteva andare incontro a molti accademici ebrei che si rifiutavano di abbandonare una tradizione secolare. Per giustificare questo approccio, sia Klausner che Flusser sostenevano di non usare “Jeschu” come acronimo ebraico (יש"ו) per denigrare e maledire il Signore, ma semplicemente come termine tradizionale ebraico comunemente usato.
• Il vero nome ebraico del Salvatore
A differenza di Klausner e Flusser, Ruzer e i suoi tre colleghi utilizzano nelle loro opere il vero nome ebraico Yeshua. In questo modo riprendono il nome ebraico originale, menzionato nel Nuovo Testamento ebraico stesso. A differenza di Klausner e Flusser, che avevano molta paura di scrivere e parlare di Yeshua, il Salvatore che ha portato e continua a portare la salvezza al mondo, Ruzer evita naturalmente il termine ebraico “Yeshu” e scrive solo Yeshua.
Questo nuovo approccio nella nomenclatura riflette in realtà un profondo cambiamento sia nel mondo accademico che nella società israeliana. Oggi sempre più israeliani parlano liberamente di Yeshua e del Nuovo Testamento.
Allo stesso tempo, tuttavia, non pochi accademici ebrei e altri continuano a mantenere una posizione rigida e menzionano solo “Yeshu” e non Yeshua. Durante la conferenza, ad esempio, ben quattro relatori di spicco hanno continuato a parlare solo di “Yeshu” nei loro interventi. Questa situazione manifesta in realtà un atteggiamento ambivalente sia nei confronti del nome che della persona del Signore Yeshua.
• Seguaci ebrei di Yeshua
Nel suo nuovo libro, l'autore usa costantemente il termine seguaci ebrei di Yeshua (יהודים חסידי ישוע). È interessante notare che anche gli attuali credenti messianici ebrei di Yeshua usano questo termine per definire se stessi. Nelle mie ricerche e nei miei scritti ho spesso utilizzato questa denominazione per evitare l'espressione “ebrei messianici”, poiché esiste il rischio di confusione con i seguaci del Lubavitch/Rebbe “Chabad” o altre false figure messianiche. Nella comunità ebraica odierna esistono molti falsi messia. Oggi il termine “ebrei messianici”, soprattutto in ebraico, si riferisce anche ai messia politici tra gli ebrei ortodossi nazionalisti, ad esempio tra i coloni della Giudea e della Samaria. Ad esempio, i membri della Knesset spesso definiscono le persone che considerano “di estrema destra” come “messia pazzi”.
Nel complesso, tuttavia, rimane un dato di fatto realistico che il termine “ebrei messianici” sia spesso usato quando si parla di ebrei credenti in Yeshua. Se necessario, occorre quindi chiarire la questione: di quali seguaci del Messia si tratta esattamente?
• Yad L’Achim
Durante una delle pause della conferenza, mi sono improvvisamente trovato di fronte a due ebrei ortodossi barbuti nel corridoio. Dai loro camici spuntavano i fili dei tzitzit e indossavano entrambi un grande kippah nero (yarmulke). Uno di loro mi guardò e disse: “Shalom, Gershon”. All'inizio ero imbarazzato perché non riuscivo proprio a ricordare dove l'avessi conosciuto. Allora gli chiesi: “Mi scusi, ci siamo già incontrati?” Lui mi ricordò che era un attivista di Yad L'Achim e che mi aveva incontrato alcuni decenni fa in occasione di una certa riunione.
Yad L'Achim è nota in Israele come un'organizzazione militante anti-missionaria che combatte con una sua filiale contro i credenti ebrei in Yeshua e le istituzioni cristiane nel Paese. Alla mia domanda «Cosa ci fate qui a un evento scientifico mainstream?», lui rispose: «Siamo qui in missione di spionaggio sotto copertura e raccogliamo dati sul tema della conferenza e sui partecipanti...“
I ‘guerrieri’ di Yad L'Achim cercano ogni occasione per trovare motivi per attaccare la validità del Nuovo Testamento, spesso anche online.
• Traduzioni del Nuovo Testamento in ebraico
Gli organizzatori della conferenza mi hanno chiesto di parlare sul tema ”Traduzioni del Nuovo Testamento in ebraico tra gli ebrei messianici in Israele". Nella mia presentazione in Powerpoint mi sono concentrato principalmente sulla polemica in corso tra i sostenitori della traduzione classica di Franz Delitzsch, che utilizza uno stile biblico e una terminologia altrettanto biblica, e coloro che preferiscono versioni con un ebraico moderno e uno stile colloquiale.
Nella controversia vengono avanzati due argomenti principali: da un lato, che solo lo stile biblico di Delitzsch consente un collegamento semplice e naturale tra il Nuovo Testamento e il Tanach e, dall'altro, che la traduzione moderna avvantaggia gli Olim (nuovi immigrati) e altri che non hanno familiarità con lo stile e il linguaggio antichi del Tanach.
Nella mia presentazione ho anche citato David Flusser, che ha scritto: “Ogni singolo libro del Nuovo Testamento contiene chiari segni dell'enorme influenza delle idee, delle parole e delle forme verbali ebraiche e giudaiche”. Flusser non aveva alcun dubbio che Franz Delitzsch fosse convinto che le prime testimonianze scritte sulla vita di Yeshua fossero state redatte in lingua ebraica.
• Sintesi
Il magnum opus scientifico di Ruzer è davvero un compendio impressionante. Tratta in modo approfondito un argomento rilevante. Molti studenti, ricercatori e altri consulteranno questo libro.
Attualmente, tutte le conferenze del simposio sono disponibili anche su YouTube.
Tuttavia, c'è una lacuna significativa nel nuovo libro ebraico sul Nuovo Testamento: la mancanza di riferimenti ai moderni credenti ebrei in Yeshua, in particolare nello Stato di Israele. Ad esempio, il Prof. Yaakov Ariel ha fornito un'introduzione molto utile al giudaismo messianico contemporaneo nella seconda edizione del 2017 di The Jewish Annotated New Testament, a cura di Amy-Jill Levine e Marc Zvi Brettler, Oxford University Press, pp. 756-759.
(Israel Heute, 28 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ritrovata a Gerusalemme una rarissima moneta d’oro della regina d’Egitto
La moneta è la prima del suo genere a essere stata trovata fuori dall'Egitto, cambiando la percezione passata di Gerusalemme come città povera e marginale
di Elena Usai
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FOTO 1
La rara moneta con il ritratto della regina Berenice II
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FOTO 2
l rovescio della moneta con la cornucopia, simbolo di prosperità e fertilità
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Durante gli scavi nella Città di David è riemersa una rarissima moneta ellenistica, testimonianza preziosa di un passato che continua a sorprendere. Si tratta di una moneta d’oro di Berenice II d’Egitto, vissuta oltre 2.200 anni fa, coniata in oro purissimo e destinata, probabilmente, come dono speciale per i soldati. Un reperto eccezionale: finora erano noti soltanto una ventina di esemplari simili e questa è la prima volta che uno di essi viene rinvenuto in uno scavo controllato.
La scoperta getta nuova luce sul volto della Gerusalemme ellenistica, una città che fino a poco tempo fa gli studiosi consideravano marginale ed economicamente debole dopo la distruzione del Primo Tempio. La moneta, insieme ad altri reperti, racconta invece di una città ben più viva, connessa e sorprendentemente centrale.
Chi visiterà Gerusalemme a settembre potrà ammirare questo piccolo tesoro durante la conferenza annuale di ricerca della Città di David: un’occasione unica per vedere da vicino un frammento scintillante della storia antica.
• La scoperta della moneta rara a Gerusalemme
Durante la setacciatura del terreno adiacente all’area di scavo, nel cuore della Città di David, la storia è riaffiorata in modo sorprendente. Una minuscola, ma preziosissima moneta d’oro, raffigurante la regina ellenistica Berenice II d’Egitto, è emersa durante gli scavi dell’Autorità israeliana per le Antichità. Si tratta di un quarto di dracma in oro purissimo, coniato oltre duemila anni fa durante il regno del marito Tolomeo III, e mai prima rinvenuto fuori dall’Egitto, cuore pulsante del dominio tolemaico.
Una scoperta che non solo arricchisce la collezione numismatica mondiale, ma racconta di una Gerusalemme antica molto più connessa e vitale di quanto si immaginasse.
Come ha raccontato Rivka Langler: “Stavo setacciando la terra quando all’improvviso ho visto qualcosa di brillante. L’ho raccolto e mi sono accorta che era una moneta d’oro. All’inizio non potevo crederci, ma dopo pochi secondi correvo eccitata attraverso lo scavo. Scavo nella Città di David da due anni e questa è la prima volta che trovo dell’oro! Ho sempre visto altri archeologi fare ritrovamenti speciali, aspettavo il mio momento, ed è finalmente arrivato!”
• Perché si tratta di una scoperta eccezionale
Si tratta di una scoperta incredibile non solo perché sono note soltanto venti monete di questo tipo, ma anche perché questa è la prima rinvenuta in un contesto archeologico appropriato. “Per quanto sappiamo, la moneta è l’unica del suo genere mai scoperta fuori dall’Egitto, che era il centro del dominio tolemaico”, hanno dichiarato il dott. Robert Kool, capo del Dipartimento di Numismatica dell’Autorità israeliana per le Antichità, e il dott. Haim Gitler, curatore capo di Archeologia e Numismatica al Museo d’Israele, che hanno studiato la moneta.
Inoltre, l’iscrizione greca “BASILISSES” – “della Regina”, è rara sulle monete di quel periodo. Qui Berenice appare non come consorte del re, ma come sovrana autonoma. Le donne comparvero occasionalmente sulle monete tolemaiche per quasi 300 anni (305–30 a.C.) e la più celebre fu Cleopatra. Questo, quindi, è uno dei primi casi in cui una regina tolemaica compare su una moneta con tale titolo in vita.
(SiViaggia, 28 agosto 2025)
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Netanyahu: le mosse importanti in Giudea e Samaria sono solo all'inizio
“Ho detto che avremmo impedito la creazione di uno Stato palestinese, e lo stiamo facendo, insieme”, ha dichiarato il premier.
di Akiva Van Koningsveld
Il riconoscimento di massa da parte di Gerusalemme delle nuove comunità ebraiche in Giudea e Samaria “non è la fine, è l'inizio”, ha promesso martedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ai leader locali.
“25 anni fa ho promesso che avremmo approfondito le nostre radici, e lo abbiamo fatto, insieme”, ha detto Netanyahu, intervenendo a un evento organizzato dal Consiglio regionale di Binyamin nel sud della Samaria.
“Ho detto che avremmo impedito la creazione di uno Stato palestinese, e lo stiamo facendo, insieme. Ho detto che avremmo costruito e mantenuto parti del nostro Paese, della nostra patria, e lo stiamo facendo”, ha continuato.
“Tutte le persone qui presenti possono testimoniare che la loro vita è diventata molto più semplice, molto più organizzata e che, in molte comunità, non si viene più trattati come figliastri [di seconda classe]”, ha affermato.
Netanyahu, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz e altri ministri del governo e legislatori hanno partecipato all'evento, organizzato dal capo del Consiglio regionale di Binyamin, Israel Ganz, per celebrare il riconoscimento o la legalizzazione di 17 comunità ebraiche esistenti e nuove all'interno della giurisdizione del consiglio negli ultimi mesi.
“Stiamo celebrando un momento storico ed emozionante che rappresenta la diretta realizzazione della visione sionista. La legalizzazione di 17 nuove comunità è un altro passo che rafforza le comunità della Giudea e della Samaria e stabilisce fatti concreti”, ha dichiarato Ganz.
Il leader regionale, che è anche a capo del gruppo ombrello delle comunità ebraiche Yesha Council, ha esortato: “Ora dobbiamo andare avanti nell'applicare la sovranità sulle regioni di Binyamin e su tutta la Giudea e la Samaria”.
“Il popolo di Israele è con voi. Il popolo di Israele è orgoglioso di voi. Non c'è mai stata una questione alla Knesset che abbia ricevuto un sostegno così schiacciante. Anche sulla scena internazionale, la gente è in attesa di sentire le notizie da qui”, ha detto ai funzionari presenti.
A maggio il Gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato 22 nuove comunità ebraiche in tutta la Giudea e la Samaria, comprese due nel nord della Samaria che erano state sradicate dalle forze israeliane nell'ambito del disimpegno da Gaza del 2005.
Alcune delle comunità approvate sono avamposti esistenti che finora non erano autorizzati dalla legge israeliana, mentre altre sono nuovi villaggi.
Inoltre, la scorsa settimana un ente governativo israeliano ha dato l'approvazione definitiva a un progetto edilizio in Giudea, nella zona di Gerusalemme, che secondo il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich “seppellisce l'idea di uno Stato palestinese”.
Il progetto prevede la costruzione di circa 3.400 unità abitative nella cosiddetta zona E1 di Ma'ale Adumim, situata tra Gerusalemme e la parte attualmente edificata di Ma'ale Adumim.
Al 1° gennaio, 529.704 ebrei vivevano nei territori della Giudea e della Samaria, pari a circa il 5,28% della popolazione dello Stato ebraico.
Nel frattempo, secondo un sondaggio pubblicato l'11 marzo dal Jewish People Policy Institute (JPPI), il 58% degli ebrei israeliani ritiene che le comunità della Giudea e della Samaria contribuiscano alla sicurezza del Paese.
Secondo un sondaggio condotto il 29 gennaio, quasi il 70% degli israeliani desidera che Gerusalemme estenda la piena sovranità giuridica sul territorio conteso.
Il governo israeliano ha recentemente avvertito alcune importanti nazioni europee che qualsiasi riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese potrebbe spingere Gerusalemme a estendere la sovranità su parti della Giudea e della Samaria.
Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar e il ministro degli Affari strategici Ron Dermer avrebbero detto a Francia, Regno Unito e altri paesi che questa mossa potrebbe portare Israele ad annettere l'Area C della Giudea e della Samaria e a legalizzare gli avamposti.
“Le mosse unilaterali contro Israele saranno contrastate con mosse unilaterali da parte di Israele”, ha detto Sa'ar ai suoi omologhi, secondo un articolo pubblicato a maggio da Israel Hayom.
(JNS, 27 agosto 2025)
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Per il professor Nivarra non esistono “ebrei buoni”, se si tratta d’Israele
di Filippo Piperno
Tra tutti gli episodi di ordinario antisemitismo in cui è possibile imbattersi ogni giorno se si frequenta un social network e soprattutto se si porta un cognome come il mio, il post su Facebook del professor Luca Nivarra è certamente uno dei più raccapriccianti.
Nivarra, professore ordinario di Diritto civile presso l’Università degli Studi di Palermo e giurista di chiara fama ha scritto un post, che riportiamo per intero in questa pagina, nel quale invita a ritirare l’amicizia su Fb «ai vostri amici ebrei». E anche agli amici «buoni, che si dichiarano disgustati da quello che sta facendo il governo di Israele e l’IdF. “Mentono – incalza Nivarra – e con la loro menzogna contribuiscono a coprire l’orrore: è una piccola, piccolissima cosa ma cominciamo a farli sentire soli, faccia a faccia con la mostruosità di cui sono complici».
Gli ebrei buoni che in realtà mentono con riguardo a Israele, scrive Nivarra, mentono perché sono ebrei, aggiungo io. Mentono in quanto ebrei, con riguardo a Israele.
Heinrich Himmler, il capo delle SS, amava spesso ripetere ai suoi collaboratori che qualche ebreo poteva anche sembrare una brava persona, corretta e persino leale. Che ogni tedesco poteva dire di annoverare qualche ebreo come un “buon amico”. Ma, metteva in guardia Himmler, non contava: restavano ebrei, e per questo andavano annientati.
Ieri, in una delle esternazioni più cristalline di antisemitismo che si siano lette in Italia e non solo Italia da molto tempo, Nivarra ci dice che non importa cosa pensino o dicano i singoli ebrei, non importa se si dissocino dalle decisioni del governo israeliano o dalle azioni dell’IDF. Essere ebrei, per il professore, significa comunque essere colpevoli. Non cittadini, non individui, non persone: ma un marchio collettivo di responsabilità da additare, da isolare, da isolare e ghettizzare. “Non esistono ebrei innocenti” è il sottotesto che si ricava dal post del professor Nivarra. Con riguardo ad Israele, ovviamente.
Su queste pagine lo abbiamo scritto e ripetuto fino alla nausea. Criticare le politiche di un governo è legittimo e fa parte di un normale dibattito democratico. Ma quando c’è di mezzo l’antisemitismo – e tutta la vicenda dell’indignazione antisraeliana, nella sua evidentissima unicità è permeata di antisemitismo – occorre fare molta attenzione perché il terreno diventa molto scivoloso.
Fate attenzione signore e signori che maneggiate con salottiera disinvoltura una materia che gronda lacrime e sangue. Fate attenzione. L’antisemitismo ha sempre avuto questa capacità di mutare linguaggio e ripresentarsi travestito da indignazione politica. Fate attenzione. Non è la prima volta che gli ebrei vengono stigmatizzati come un corpo estraneo, come complici universali di un crimine, come “mostri” da isolare.
E non si provi a ricorrere a semplificazioni furbastre che vorrebbero confinare questi fenomeni all’ignoranza delle persone. Nivarra è un giurista, un intellettuale, un educatore, un uomo che forma giovani in un’importante università italiana.
Quando un docente universitario – una figura che dovrebbe incarnare il rigore critico di un accademico– invita pubblicamente a “ritirare l’amicizia su Facebook agli amici ebrei”, non siamo di fronte a un eccesso retorico o a un’opinione mal formulata.
La confusione tra Israele e gli ebrei non è un errore in buona fede. Non è un espediente che noi altri “sionisti” utilizziamo per silenziare la critica ad Israele, come qualche sconsiderato continua a ripetere sui social e sui giornali: è l’anticamera dell’Abisso.
E chi si ostina a far finta di niente, chi continua a legittimare questa fogna a cielo aperto o è un irresponsabile o un complice.
Fate attenzione signore e signori. L’appello del professor Nivarra non è una “piccola cosa”. È un atto enorme, che dovrebbe pesare sulle vostre coscienze come un macigno. Sulle coscienze di chi scrive appelli per discriminare dalle università, dai festival cinematografici, dalle librerie, dagli scaffali dei supermercati. Di chi chiede agli ebrei, in quanto ebrei, di dissociarsi. Di chi definisce il 7 ottobre una “cazzata”. Di chi bestemmia la parola “genocidio”.
Fate attenzione signore e signori. Perché la puzza che tutta questa porcheria emana è già divenuta insopportabile.
(InOltre, 27 agosto 2025)
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Impressionante! Ma davvero si può arrivare a tanto? La risposta purtroppo è "sì". M.C.
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Con l'antisemitismo l'Europa nega sé stessa
L'Occidente guarda alla tragedia di Gaza rimuovendo quanto è accaduto il 7 ottobre. E nascondendo un fatto: se Hamas restituisse gli ostaggi, la guerra finirebbe. La narrazione pro Pal ha riacceso un odio anti ebraico che covava sotto la cenere.
di Silvana De Mari
Il vizio tragico dell'Europa cristiana, l'antisemitismo, dopo aver sfigurato l'anima del continente ne sta distruggendo ogni possibilità di futuro. L'Occidente è ubriaco di antisemitismo: le sinagoghe bruciano, gli ebrei sono picchiati negli autogrill, uccisi nelle strade, cacciati dai campus universitari. La guerra a Gaza è cominciata con il massacro più atroce del terzo millennio. Bambini sono stati mitragliati, bruciati vivi o decapitati davanti agli occhi dei genitori, ragazzine sono state stuprate a morte e mutilate, civili sono stati massacrati da persone che riprendevano la scena. Sono stati presi in ostaggio più di 200 israeliani, tra cui bambini. I due bambini che non sono stati restituiti sono i due bimbi con i capelli rossi, i fratellini Ariel e Kfir Bibas, rispettivamente 4 anni e 9 mesi, rapiti insieme alla loro madre dopo averli fatti assistere all' assassinio dei nonni, e strangolati insieme alla loro madre dopo un mese di cattività.
Non c'è stata nessuna vendetta da parte degli israeliani. Vendetta avrebbe voluto dire stuprare donne e ragazzini e ucciderli ridendo e mettere poi i video su Instagram. Vendetta sarebbe stato un bombardamento a tappeto come quello di Dresda, una volta al giorno per dieci giorni, in grado di cancellare dalla faccia della terra Gaza. Tutte le mattine gli abitanti di Gaza si svegliano perché gli israeliani non li hanno voluti uccidere. Tutte le mattine gli israeliani si svegliano perché gli abitanti di Gaza non hanno potuto ucciderli. Israele sta combattendo una guerra giusta: giusta vuol dire inevitabile. Non può sopravvivere se non ricupera i suoi ostaggi e se non disarma Hamas. La costituzione di Gaza prevede la distruzione dello Stato di Israele e lo sterminio di ogni ebreo nel mondo, come specificato nell'articolo 7.
I nostri media dedicano i primi 20 minuti di ogni trasmissione a raccontare con voce accorata di ogni proiettile sparato a Gaza, secondo Hamas, e di ogni vittima che il proiettile ha fatto, sempre secondo Hamas, poi si dedica qualche secondo all'Ucraina, con tono distaccato. L'enorme numero di bambini che stanno morendo in Sudan tra sofferenze atroci e senza nessun soccorso, massacrati dalle milizie islamiche o sterminati con la fame, non è mai nominato: come se quei bambini fossero irrilevanti. I cristiani che continuano ad essere martirizzati per la loro fede nelle atroci terre dell'islam reale continuano a non essere visti. Il massacro del 7 ottobre non viene più nominato, come se le ferite atroci del 7 ottobre potessero essersi rimarginate: nei sotterranei di Gaza ostaggi israeliani ridotti a scheletri scavano la loro fossa. Moltissime persone non sanno nulla del massacro del 7 ottobre. Giovanni Zenone, editore della casa editrice Fede & cultura, e io abbiamo osato parlare del massacro del 7 ottobre in un video in cui abbiamo correttamente definito «orchi» coloro che uccidono ridendo i bambini, con il maggior dolore possibile inflitto a loro e ai loro genitori. Come l'orco della fiaba di Pollicino, gli appartenenti a una cultura di morte dopo aver assassinato i bambini degli altri, causano la morte dei propri, usati come scudi umani, non protetti nei rifugi, oscenamente trasformati in bambini soldato. I palestinesi potrebbero interrompere in qualsiasi momento la morte e la distruzione della guerra restituendo gli ostaggi, ma preferiscono non farlo. Dopo la trasmissione molte persone mi hanno chiesto cosa fosse successo il 7 ottobre, perché non lo sapevano. Dopo la trasmissione sia io che la casa editrice Fede & cultura siamo sotto un boicottaggio micidiale. Sostenere le belve di Hamas paga, anche in termini economici, non solo per i fiumi di denaro che arrivano dagli anni Novanta, ma anche per il consenso. Sostenere Israele è un suicidio economico. Le armi di Gaza sono state pagate con i nostri soldi. Anche i tunnel dove sono stati strangolati i due bimbi con i capelli rossi e la loro mamma sono stati pagati con le nostre tasse, e così ogni rampa di missile da cui sono sparati missili in continuazione da anni. A Gaza, come in Giudea e Samaria, ora chiamate Cisgiordania, distribuivano dolcetti dopo che le belve palestinesi avevano compiuto in Italia i due massacri a Fiumicino, per un totale di 48 morti, dopo che avevano sparato sui bambini ebrei davanti alla sinagoga di Roma. Si distribuivano dolcetti mentre 3.000 creature umane morivano nelle Torri gemelle, mentre i treni spagnoli e la metropolitana di Londra si riempivano morte e distruzione. Hanno gioito per i trecento bambini di Besian uccisi, per il massacro del Bataclan e soprattutto per ogni attentato in Israele, per ogni bus scolastico in cui i bambini ebrei sono stati ridotti a tizzoni. Ogni bambino di Gaza, in età scolastica, dai sei anni in su alla domanda classica «cosa
vuoi fare?» risponde che vuole assassinare ebrei, che il suo unico sogno, l'unico scopo della sua vita non è
curare il cancro, scrivere un racconto o una canzone che commuova il mondo. Il suo unico sogno è rendere fieri i suoi genitori assassinando almeno un ebreo. Quel bambino, come suo padre, come suo nonno, dal 1967 in poi, ha studiato l'aritmetica su libri pagati con le tasse di tutti noi, libri forniti dall'Unrwa, l'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Su questi libri l'aritmetica si insegna così: se hai dieci ebrei e ne hai già uccisi sette, quanti ne devi ancora ammazzare?
Gli stessi individui che hanno commesso questi massacri nella letizia loro e in quella dei loro genitori in contatto telefonico, ora diffondono notizie false. Non c'è nessun genocidio a Gaza. Da quando nel 1967 sono arrivati gli israeliani, la popolazione di Gaza è quadruplicata. È dal 1974, cioè da dopo la guerra del Kippur, che qualsiasi azione faccia Israele arriva puntuale l'accusa delirante di genocidio. Israele è l'unica nazione in guerra che, benché tragicamente offesa e benché con la necessità assoluta di ricuperare i suoi ostaggi, ha evitato di condannare a morte i suoi nemici e ha addirittura fatto passare enormi quantitativi di cibo, unica nazione in guerra che sfama i propri nemici. Eppure con fotografie false è accusata di affamare i bambini palestinesi. Israele viene accusata di portare derrate alimentari, distribuirle per poi sparare su coloro che vanno a prenderle, operazione che da un punto di vista militare sarebbe una comportamento assolutamente idiota e ovviamente non dimostrato da nessuna foto.
L'antisemitismo non aspettava altro. La Shoah è stata possibile perché nessuna nazione estera ha accettato di accogliere gli ebrei in fuga dalla Germania. Lo sterminio degli ebrei è stato possibile perché l' antisemitismo covava nel cuore di tutti. Adesso sta esplodendo di nuovo, autorizzato dal vittimismo palestinese, vittimismo che è la chiave di volta per l'islamizzazione dell'Europa insieme al vittimismo dei cosiddetti migranti. Il vittimismo palestinese ha il compito di fare accettare agli europei il concetto che il terrorismo sia sempre una reazione a un'ingiustizia, dal terrorismo spicciolo dei maranza a quello più atroce dei jihadisti. Ai palestinesi uno Stato è già stato offerto innumerevoli volte, insieme a fiumi di quattrini. Non vogliono uno Stato, vogliono lo Stato: voglio distruggere lo Stato di Israele. E per questo che la gente li ama. Deve essere una soddisfazione per università non prestigiose rifiutare sdegnosamente come partner le grandiose università di Israele, la nazione con il più alto numero di premi Nobel per milione di abitanti. Piccoli nazisti crescono.
(La Verità, 25 agosto 2025)
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La responsabilità morale dell’odio di Venice for Palestine
di Costanza Escaplon
Cari “artisti” firmatari della lettera aperta “Venice for Palestine”, aspettiamo che ritiriate la firma. So che è chiedere tanto, perché persone come voi probabilmente firmano ma non leggono, e non ho quindi speranza che leggiate questo appello al ritiro della firma.
• L’appello
So che non leggete perché se aveste letto quello che stavate firmando vi sareste accorti che era scritto sotto un logo raffigurante la Palestina al posto di Israele. Non accanto. Proprio in sostituzione. Non “due popoli e due Stati”, ma uno Stato solo. Palestinese. Avete quindi firmato un appello creato da qualcuno che vuole non la pace, ma la cancellazione di Israele. Dico “qualcuno” perché non si trova traccia di chi siano i promotori di questo appello. Il loro sito non lo riporta. E nemmeno si può risalire a chi abbia registrato il dominio Internet su cui è caricato l’appello. È schermato. E non si capisce perché qualcuno che fa un appello pubblico debba nascondere il suo nome.
Non entro nel merito di quello che avete firmato, anche se ci sarebbe molto da dire. So che sarebbe inutile dirvi che a Gaza non esiste genocidio e nemmeno sterminio, e che l’uso di queste parole è strumentale alla demonizzazione di Israele alla banalizzazione della Shoah. Anche se da persone che affermano di lavorare nel mondo della cultura ci si aspetterebbe la conoscenza della differenza di significato tra “sterminio” e “guerra”, che non sono sinonimi. Per vostra tranquillità, e per evitarvi la fatica di informarvi (che mi rendo conto richiede tempo), vi assicuro che in Israele non esiste apartheid e che, anzi, ci sono medici, banchieri, commercianti arabi che sono cittadini come gli altri. Che votano, che hanno partiti politici arabi e vanno nelle stesse scuole, università e spiagge di tutti gli altri.
• Una firma da ritirare
Permettetemi di sottolineare – come ultima cosa – che un appello che sostiene “non volgeremo lo sguardo altrove” avrebbe dovuto “vedere” anche gli ostaggi israeliani. Noi abbiamo visto il corpo scheletrico di Evyatar David, affamato non da una guerra ma da aguzzini, terroristi che dal 7 ottobre lo tengono prigioniero, e lo torturano abusandone fisicamente e psicologicamente. Quindi aspettiamo che ritiriate la vostra firma e che vi dissociate almeno dalla rappresentazione di un unico Stato al posto di Israele. Oppure non fatelo, ma allora sapremo che Gaza è solo una scusa e che non si è mai trattato di Gaza.
(Il Riformista, 27 agosto 2025)
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“L'Europa deve decidere: Israele o Hamas”, afferma il ministro degli Esteri israeliano
“Ogni azione contro Israele favorisce direttamente l'asse jihadista in Medio Oriente”, ha dichiarato Gideon Sa'ar.
(JNS) Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar ha affermato domenica che gli europei devono scegliere da che parte stare: o con Israele o con i jihadisti.
“L'Europa deve decidere: Israele o Hamas. Qualsiasi azione contro Israele favorisce direttamente l'asse jihadista in Medio Oriente”, ha scritto Sa'ar su X.
Il ministro degli Esteri israeliano ha fatto riferimento alle lodi rivolte da Hamas al ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp e al presidente francese Emmanuel Macron per i loro sforzi volti a formare una coalizione di Stati che riconoscano uno Stato palestinese.
Hamas ha definito “coraggiose ed etiche” le dimissioni di Veldkamp e degli altri membri del gabinetto del suo partito “Nuovo Contratto Sociale” il 22 agosto, dopo che Veldkamp non è riuscito a far approvare sanzioni contro Israele durante una riunione di gabinetto.
“Le dimissioni di questi ministri olandesi riflettono una posizione di principio che incarna i valori umanitari e sottolinea l'impegno nei confronti dei fondamenti del diritto internazionale”, ha dichiarato Hamas in una dichiarazione del 23 agosto, secondo il Palestinian Information Center.
Hamas ha definito la decisione di Macron di riconoscere uno Stato palestinese un “passo positivo” e “un passo nella giusta direzione per ottenere giustizia per il popolo palestinese oppresso”.
Altri paesi europei hanno già riconosciuto uno Stato palestinese, tra cui Irlanda, Norvegia e Spagna a maggio.
Anche Hamas ha accolto con favore questa decisione.
“Consideriamo questo un passo importante per affermare il nostro diritto alla nostra terra”, ha dichiarato il gruppo in una dichiarazione, esortando “tutti i paesi del mondo a riconoscere i nostri legittimi diritti nazionali”.
Altri paesi hanno annunciato l'intenzione di riconoscere uno Stato palestinese, tra cui il Regno Unito, Malta, il Canada e l'Australia.
All'inizio della scorsa settimana, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scritto una lettera a Macron accusandolo di promuovere l'antisemitismo nel suo paese con la sua richiesta di riconoscimento internazionale di uno Stato palestinese.
Macron ha replicato il 19 agosto definendo “patetica” e “falsa” l'accusa di Netanyahu secondo cui il suo progetto di riconoscimento alimenterebbe l'antisemitismo.
“La Francia protegge i suoi cittadini ebrei e continuerà a proteggerli”, ha affermato Macron. Secondo il suo ufficio, la lettera di Netanyahu “non rimarrà senza risposta”, come riportato dal sito di notizie France 24.
Le critiche di Netanyahu sono state tuttavia appoggiate dall'ambasciatore statunitense in Francia, Charles Kushner, che in una lettera pubblicata domenica sul Wall Street Journal ha accusato Macron di contribuire all'escalation dell'antisemitismo con le sue dure critiche a Israele e la sua intenzione di riconoscere uno Stato palestinese alle Nazioni Unite a settembre.
Tali misure “incoraggiano gli estremisti, alimentano la violenza e mettono in pericolo la vita degli ebrei in Francia”, ha scritto Kushner. “Nel mondo di oggi, l'antisionismo è antisemitismo, è semplice”.
Ha criticato aspramente il governo Macron per la sua inazione di fronte al forte aumento dell'odio verso gli ebrei nel Paese dopo l'attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023.
L'antisemitismo “ha segnato a lungo la vita in Francia”, ha scritto Kushner, ma è “esploso” dopo il massacro guidato da Hamas del 7 ottobre 2023 e la successiva guerra nella Striscia di Gaza. “Non passa giorno senza che gli ebrei vengano aggrediti per strada, le sinagoghe o le scuole vengano imbrattate o i negozi ebraici vengano devastati”, si legge nella lettera.
(Israel Heute, 26 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ospedali bombardati? Tre domande da farsi
di luri Maria Prado
Ci sono domande legittime e serie da porsi quando un ospedale, sia pur in zona di guerra, è colpito.
Ieri è successo all'ospedale Nasser di Khan Younis, a Gaza.
La prima domanda riguarda l'ipotesi che l'esercito di Israele bombardi le strutture sanitarie perché vuole uccidere i pazienti, i medici e gli infermieri. È verosimile? Avrebbe senso? Per chi ritenga che Israele abbia quell'obiettivo, e che lo persegua incurante dell'esecrazione che inevitabilmente ne raccoglie, sì: è verosimile e ha un senso. Israele vuole uccidere tutti, malati e dottori compresi, e dunque bombarda gli ospedali per ucciderli. Forse qualcuno riterrà improbabile questa ipotesi, anche solo per la scarsa utilità, anzi la evidente dannosità, che Israele trarrebbe comportandosi così. Ma diamola per ammessa.
La seconda domanda riguarda l'ipotesi che l'esercito di Israele, quando colpisce un ospedale, lo fa perché ha accertato che vi si nascondono dei terroristi o che la struttura è utilizzata per attività ostili (costituzione di arsenali, impianto di postazioni di lancio di razzi, organizzazione di attacchi contro militari e civili israeliani, eccetera). Che la cosa sia successa, e non raramente, non è soltanto verosimile: è certo. Si può poi discutere sul fatto che abbia senso, o no, colpire un ospedale per eliminare i terroristi che vi si nascondono, o per neutralizzarne l'uso a fini ostili. L'unica cosa certa è che una struttura "civile" usata in quel modo perde - o vede attenuata - la guarentigia di protezione di cui è destinataria. Si può colpire, insomma. Certo, si tratta di vedere con quanta violenza e a quale costo in termini di danni alle persone. Può trattarsi di una violenza sovradimensionata e i danni possono essere eccessivi: ma tutto questo definisce l'inadeguatezza di fatto, non l'illegalità a priori, dell'operazione.
C'è poi una terza ipotesi, di cui è giusto occuparsi con un'altra domanda. E cioè che l'ospedale sia colpito dall'esercito israeliano per errore, vale a dire ritenendo erroneamente che vi si nascondano terroristi o che sia adoperato per attività ostili. È verosimile? Era il caso dell'ospedale colpito ieri? Diciamo che è possibile. Se è così, tuttavia, si tratta appunto di un errore, grave quanto si vuole e colpevole quanto si vuole. Ma non è la deliberata iniziativa rivolta a uccidere malati e medici. Non diventa una cosa buona, ma resta una cosa diversa.
Qualche parola, infine, sui giornalisti che sono rimasti uccisi nell'operazione. Non usiamo le virgolette ("giornalisti") perché non tutti, pare, erano come Mohammed Salama, il quale aveva accompagnato e ripreso i macellai del 7 ottobre mentre erano all'opera, glorificandola. È doveroso deplorare la morte di ogni essere umano, ovviamente. Ma lasciare intendere che si tratti dell'assassinio del nobile reporter per mano di chi vuol far tacere la stampa è un'altra cosa ancora. Una mistificazione che disonora e danneggia i giornalisti veri, ai quali dovrebbe ripugnare di essere accomunati agli accompagnatori dei macellai e ai distributori delle veline da tunnel.
(Il Riformista, 26 agosto 2025)
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Venezia – Festa del Cinema, due petizioni a confronto
Dario Calimani: «Manifestazioni a raffica, pregiudizio diffuso»
Resta teso il clima in Laguna, dove la petizione di Venice for Palestine sottoscritta da numerosi esponenti del mondo dello spettacolo agita la vigilia dell’82esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. L’attrice israeliana Gal Gadot, nel mirino della petizione, non dovrebbe partecipare alla rassegna al pari del suo collega britannico Gerald Butler, co-protagonista con Gadot del film fuori concorso In the Hand of Dante di Julian Schnabel. All’appello dei registi, degli attori e dei professionisti del settore perché durante la manifestazione «non venga mai meno la voce della verità sulla pulizia etnica, sull’apartheid, sull’occupazione illegale dei territori palestinesi, sul colonialismo e su tutti i crimini contro l’umanità commessi da Israele per decenni e non solo dal 7 ottobre» ha risposto nelle scorse ore una contropetizione dell’appena costituitosi comitato Venice for Israel, con il sostegno dell’organizzazione Free4Future. «L’arte non può essere usata come maschera della propaganda né piegata alle campagne d’odio che invocano la cancellazione di Israele», si legge nel documento, in cui si chiede ai vertici della mostra del Cinema e della Biennale di affermare «con chiarezza» che «i simboli culturali non possono diventare veicolo di antisemitismo e menzogna».
«Ci si sente piuttosto impotenti in questo periodo», dichiara a Pagine Ebraiche il presidente della Comunità ebraica veneziana Dario Calimani. «Ormai siamo sovrastati da manifestazioni a raffica e pure questa lettera di Venice for Palestine ha il suo effetto, parlando a un pubblico vasto». Per Calimani si tratta di un’iniziativa sbagliata, da stigmatizzare con forza come ogni proposta di boicottaggio, «ma finché mescoleremo le posizioni contro il governo israeliano e le azioni dei suoi ministri con l’antisemitismo puro e semplice ci faremo solo del male: c’è un antisemitismo diffuso che si sta espandendo a macchia d’olio nel paese sulla spinta di centinaia di associazioni, alcune delle quali dedite sulla carta alla difesa della Memoria; come ebraismo italiano dobbiamo concentrarci su quello, perché sta diventando una valanga irrefrenabile che mette a rischio il futuro». Secondo Calimani, il pericolo è altrimenti «quello di dare risposte scomposte, guardando il dito e non la luna, mentre l’odio conquista spazio ogni giorno di più».
(moked, 26 agosto 2025)
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“L’Iran dietro agli attacchi contro la comunità ebraica”
L’accusa del governo australiano
di Nathan Greppi
L’Australia ha recentemente accusato l’Iran di aver orchestrato due incendi dolosi che l’anno scorso hanno colpito la comunità ebraica australiana, decidendo di tagliare i legami diplomatici con il paese ed espellere i suoi diplomatici.
“Questi sono stati atti di aggressione straordinari e pericolosi orchestrati da una nazione straniera sul suolo australiano”, ha detto il Primo Ministro australiano Anthony Albanese in una conferenza stampa nella capitale Canberra, dove secondo il New York Times è stato affiancato da un alto funzionario dell’intelligence australiana, dal Ministro degli Esteri e dal Ministro degli Affari interni. Ha aggiunto che quelli perpetrati erano “tentativi di minare la coesione sociale e seminare discordia nella nostra comunità”.
• Antisemitismo in Australia
Dalla fine dello scorso anno, un’ondata di attacchi violenti contro imprese e istituzioni ebraiche ha scosso l’Australia, dove secondo i censimenti vivono circa 117.000 ebrei.
A Sidney, nel gennaio di quest’anno, un incendio doloso aveva colpito un asilo nido ebraico, mentre due sinagoghe erano state vandalizzate con graffiti riproducenti svastiche e messaggi inneggianti al nazismo. Già allora era emerso il sospetto che dietro gli attacchi ci fossero dei mandanti stranieri.
• Il ruolo dell’Iran
Le agenzie di sicurezza australiane hanno concluso che l’Iran è responsabile di due attacchi incendiari: uno, nell’ottobre 2024, contro un ristorante kasher vecchio di decenni, il Lewis’ Continental Kitchen di Sydney; l’altro, avvenuto due mesi dopo, contro la Sinagoga Adass Israel di Melbourne. Nessuno è rimasto ferito negli attacchi.
Mike Burgess, capo dell’intelligence australiana, ha detto che un’indagine durata mesi ha scoperto collegamenti tra i due attacchi e il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica dell’Iran, che l’Australia ora pensa di designare come organizzazione terroristica. Burgess ha detto che organizzazioni criminali attive al di fuori dell’Australia sono state coinvolte negli attacchi, ma non ha rivelato ulteriori dettagli.
Le Guardie della Rivoluzione avrebbero usato “una complessa rete di proxy per nascondere il loro coinvolgimento” negli attacchi, ha detto Burgess alla conferenza stampa. L’Ambasciatore iraniano in Australia, Ahmad Sadeghi, è stato informato dell’espulsione circa mezz’ora prima dell’annuncio, ha detto Albanese.
Il Ministro degli Esteri australiano Penny Wong ha detto che è la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale che l’Australia espelle un ambasciatore, ma che l’Iran ha “oltrepassato il limite”. Sadeghi e altri diplomatici e funzionari iraniani hanno avuto sette giorni per lasciare il paese, ha aggiunto.
Secondo la Wong, oltre ad espellere i diplomatici iraniani dall’Australia è stata anche chiusa l’Ambasciata australiana a Teheran. I diplomatici australiani che si trovavano lì sono stati trasferiti in sicurezza in paesi terzi, e gli australiani che attualmente si trovano in Iran sono stati esortati a lasciare il paese.
L’Ambasciata israeliana in Australia ha risposto rapidamente agli annunci, definendo la designazione terroristica per le Guardie della Rivoluzione “una mossa decisa e importante”. In una dichiarazione pubblicata sui social, l’Ambasciata ha dichiarato: “Il regime iraniano non è solo una minaccia per gli ebrei o per Israele, ma mette in pericolo l’intero mondo libero, compresa l’Australia”.
(Bet Magazine Mosaico, 26 agosto 2025)
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Riguardo all’antisemitismo mondiale siamo ancora nel paradigma errato
Non è solo Hamas, non è solo l’Iran; perché tutto il mondo è contro di noi?
di Rav Chaim Navon
La Francia imparò la lezione dalla Prima Guerra Mondiale e costruì la Linea Maginot. Era un’enorme muraglia di potenti fortificazioni, la maggior parte sotterranee, collegate da ferrovie sotterranee. La Linea Maginot fu un enorme successo ingegneristico – ma i tedeschi la aggirarono facilmente all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, e si precipitarono con i loro carri armati moderni a spaccare la Francia. I francesi avevano davvero imparato la lezione dalla guerra – solo che non era la lezione giusta.
Fino al massacro di Simchat Torah 5784 vivevamo dentro una bolla. Poi la bolla scoppiò, e imparammo la lezione. Ma abbastanza presto scoprimmo che non era la lezione giusta. Come le bambole russe che una volta chiamavamo “babuschka”, si rivelò che vivevamo in una bolla dentro una bolla. Quando scoppiò la prima bolla capimmo quanto avevamo sottovalutato il valore di Sinwar e il pericolo di Hamas; quanto ci eravamo illusi che il muro che avevamo costruito potesse fornirci protezione; quanto ci eravamo sbagliati quando avevamo permesso agli assassini pazzi di Hamas di costruire uno stato del terrore a distanza di sputo.
Ma da allora si sono accumulate prove che ci hanno insegnato che anche questa immagine è molto parziale. Sempre più scoperte ci insegnano che non si trattava di qualche piano puntuale e maligno del genio malvagio Sinwar, ma di un dettaglio di un piano gigantesco per la distruzione dello Stato di Israele, ideato dai suoi padroni in Iran. Il ministro Smotrich ha approfondito questo tema non molto tempo fa in un discorso pubblico.
Altri dettagli di questo piano continuano a emergere, e oggi sembra che Hamas fosse l’anello debole. Se avessero invaso Israele simultaneamente Hamas da sud, Hezbollah da nord e grandi milizie irachene da est – con grande orrore è difficile credere che saremmo riusciti a fermarli. Se quello stesso giorno fossero stati lanciati contro Israele anche decine di migliaia di missili balistici dall’Iran, avremmo potuto contare i nostri morti in sei cifre. Quella avrebbe potuto essere la fine dello Stato ebraico.
Quando questa seconda bolla si frantumò scoprimmo che Sinwar non era il cervello malvagio e brillante che aveva ideato un piano militare geniale, ma un comandante avventato e avido di gloria, che insistette nel metterlo in pratica senza coordinarsi con i suoi partner. Hamas da solo lo fermammo a fatica, grazie a migliaia di volontari che si precipitarono in battaglia, senza che nessuno li chiamasse; grazie alla polizia, che rapidamente installò posti di blocco; e grazie alla malvagità dei terroristi, che non riuscirono a trattenersi e si fermarono al festival Nova, per stuprare e torturare e massacrare. Senza questi tre fattori, i membri di Hamas avrebbero potuto arrivare anche a Tel Aviv. Se si fossero uniti a loro gli altri nemici di Israele, come volevano e pianificavano – guai a noi e ai nostri figli.
La domanda che mi tormenta oggi è se con questo abbiamo esaurito le nostre bolle; se non è possibile che siamo ancora intrappolati dentro una terza bolla, ancora più grande delle precedenti: la bolla dell’odio verso Israele. Ci troviamo di fronte a un’ondata senza precedenti di antisemitismo: da parte dei nostri nemici terroristi, che sono disposti a far diventare tutta Gaza un cumulo di macerie purché riescano a uccidere altri ebrei; e da parte della maggior parte del mondo occidentale, che esprime riserve insipide e piene di rancore verso lo Stato ebraico. Non sono contro di noi perché sono a favore dei diritti umani; sono contro di noi perché sono contro di noi. L’antisemitismo è di nuovo di moda in Occidente.
Non molto tempo fa si è scoperto che 1.500 rifugiati sono stati massacrati in un giorno ad aprile di quest’anno in un campo profughi in Darfur. Ne avete sentito qualcosa? Avete visto il mondo occidentale agitarsi?
Nei decenni trascorsi dalla Shoah eravamo abituati a pensare che l’antisemitismo fosse un fenomeno passeggero, e che la simpatia per gli ebrei fosse la nuova normalità. Ma forse stiamo assistendo al frantumamento di questa bolla; al riconoscimento del fatto che proprio il declino dell’antisemitismo in Occidente era l’eccezione temporanea e anormale, e che oggi stiamo tornando alla realtà che i nostri padri conoscevano da sempre: “È noto che Esaù (e Ismaele) odiano Giacobbe“.
Non c’è alcuna spiegazione razionale per il prezzo che gli arabi musulmani sono disposti a pagare in cambio del massacro tra noi; non c’è alcuna spiegazione razionale per l’entusiastico sostegno che ricevono nelle capitali occidentali. Dato che è così, rimaniamo con la spiegazione irrazionale. I gentili odiavano mio padre, quando cercarono di ucciderlo nelle battaglie del Canale; odiavano mio nonno, quando si nascose in Olanda durante la Shoah e si travestì da pastore di maiali locale; odiavano il mio bisnonno, quando gli bruciarono la barba nella Prima Guerra Mondiale. Perché mi è venuto in mente che non avrebbero odiato me? Non sono migliore dei miei padri.
Nonostante questo odio, potremo con l’aiuto di Dio esistere in sicurezza in questa terra. Potremo accumulare forza, stringere alleanze temporanee, trovare partner, identificare interessi comuni. La terra potrà riposare quarant’anni. Quello che non potremo fare d’ora in poi è dormire con entrambi gli occhi chiusi. Se la terza bolla si sta davvero frantumando adesso, d’ora in poi dormiremo sempre con un occhio aperto.
(Kolòt - Morashà, 26 agosto 2025)
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Come il mondo ha pigramente accettato la sorte degli ostaggi israeliani
di Iuri Maria Prado
Sono passati ormai quasi due anni da quando i nazisti di Gaza, dopo averne uccisi più di milleduecento indiscriminatamente – uomini, donne, vecchi, bambini, lattanti – ne hanno rapiti altri duecentocinquanta, ancora una volta uomini, donne, vecchi, bambini, lattanti. In questi quasi due anni i nazisti di Gaza hanno torturato e assassinato un buon numero di quegli ostaggi.
E in questi quasi due anni il mondo ora ha accettato quell’andazzo aguzzino, ora l’ha considerato un mezzo magari non commendevole, ma in ogni caso comprensibile e inevitabile, nel quadro della guerra di Gaza.
Rapire un bambino di otto mesi e il fratello di quattro anni, e strangolarli, e restituirli in due bare nere tra la folla in festa, con i “giornalisti” che riprendevano l’evento e con la Croce Rossa che firmava i documenti, magari con qualche stretta di mano con i macellai, ecco, tutto questo era e continua a essere osservato dal mondo maggioritario come la parte magari non gradevole della guerra di Gaza, ma insomma come la parte naturale e legittima della guerra di Gaza.
Tutt’al più in questi quasi due anni – ma nemmeno sempre – quel mondo maggioritario ha chiesto la liberazione degli ostaggi. L’ha chiesta come si chiede la liberazione dei tombini intasati, come si chiede il rifacimento di un cornicione ammalorato, come si chiede il ripristino di un manto stradale con troppe buche, ma allargando le braccia se non vi si provvede. Vabbè, c’è un po’ d’acqua per strada; amen, il cornicione è scassato; pazienza, staremo attenti alle buche.
Ma il meccanismo emotivo e umano che tratta l’ebreo preso in ostaggio e tenuto sequestrato per due anni, e torturato, e ammazzato con un colpo alla testa, il meccanismo emotivo e umano che lo tiene nel conto in cui è tenuto un marciapiede allagato o la facciata scrostata di un edificio, cose magari spiacevoli ma pazienza, da dove viene? In che cosa consiste e da dove viene?
Consiste e viene da due elementi ora alternativi e ora combinati. Il primo è semplice: si tratta di ebrei. Il secondo, che in qualche modo dipende dal primo, è più strutturato. Quei rapimenti, quelle torture, quegli assassinii acquisiscono legittimità – una “legittimità” che si traduce in quella noncuranza – in forza o per meglio dire a causa dell’illegittimità della presenza ebraica in Israele.
Sono i padri, le madri, i figli, le figlie, i nipoti e le nipoti degli usurpatori: il che, se non giustifica, almeno spiega la violenza di cui sono destinatari. E simultaneamente spiega, se non giustifica, il gesto di chi li rapisce, li tortura, li strangola e per due anni continua a trattenerli, vivi o cadaveri.
Pensateci. Già il fatto che la liberazione degli ostaggi sia parte di una ipotesi di accordo, già il fatto che quella formula vuota e routinaria – “la liberazione incondizionata degli ostaggi” – mai fatta oggetto di qualche intimazione in caso di inottemperanza (non c’è mai un “altrimenti…”), già il fatto che sia considerata materia transigibile, già soltanto questo dice tutto.
Dice in piccolo, riproduce in piccolo, ciò che successe nella seconda guerra mondiale. Il mondo vittorioso sulla Germania nazista festeggiava la liberazione, festeggiava la vittoria contro la Germania nazista. Ma questa non era la percezione degli ebrei d’Europa, perché la Germania nazista aveva vinto la guerra contro gli ebrei.
I nazisti di Gaza saranno sconfitti, e sarà solo Israele a sconfiggerli. Ma i nazisti di Gaza avranno vinto la loro guerra contro gli ostaggi. E l’avranno vinta grazie al mondo maggioritario che gliel’ha fatta vincere.
(InOltre, 25 agosto 2025)
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La grande amarezza a Venezia: quel cinema che si consegna ai pro pal
di Francesca Nocerino
Si, c’è da aver paura, molta paura quando un bel pezzo del mondo del cinema firma un appello sconnesso, contraddittorio e grondante sangue, come questo “Venice for Palestine” in occasione della 82° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Paura perché tanta brava gente del cinema, sicuramente mossa da buoni sentimenti e propositi pacifisti, si è lasciata trascinare in una macchina dell’odio, e del fango, senza battere ciglio. Voglio pensare, e questo non è bene, che i più non abbiano letto ciò che hanno firmato. Che gli hanno proposto un “appello per Gaza” e tutti a dire: sì, certo!
E allora, intanto questo è un appello che incita il venir meno proprio della funzione del cinema, che sarebbe il core business della Mostra di Venezia. È attraverso le immagini e le sceneggiature infatti che il cinema dovrebbe parlare: occhio sul mondo e sulle diverse realtà, strumento di denuncia e resistenza, di conoscenza e informazione, di parola e pensiero.
Accade invece che la campagna V4P (roba professionale eh, studiata da mesi, mica improvvisazione emotiva!) da un lato sostenga : “La Biennale e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica dovrebbero celebrare la potenza dell’arte come mezzo di trasformazione, di testimonianza, di rappresentazione dell’umano e di sviluppo della coscienza critica. Ed è proprio questo a renderla uno straordinario mezzo di riflessione, di partecipazione attiva e di resistenza.” E, in contemporanea invita : “chi lavora nel cinema a immaginare, coordinare e realizzare insieme, durante la Mostra, azioni che diano risonanza al dissenso verso le politiche governative filosioniste: un dissenso espresso nel segno della creatività, grazie alle nostre capacità artistiche, comunicative e organizzative”.
Non basta dunque la potenza dell’arte. Ci vuole lo squadernamento dell’odio, degli occhi iniettati di sangue, delle bandiere pro-pal sguainate per minacciare emarginare e censurare gli artisti israeliani. Gal Gadot e Gerard Butler sono solo i primi a finire nel mirino dei guardiani del cinema di regime, con la richiesta di esclusione dalla mostra. Urleranno che non tutti i palestinesi sono con Hamas, al contrario tutti gli artisti israeliani (bambini compresi) sono complici del presunto genocidio. Come avrebbe detto Orwel alcune manifestazioni artistiche sono universali ma altre sono meno universali. Potenza del totalitarismo del pensiero.
Lo sanno le tante brave persone del cinema che hanno firmato per una grafica che disegna Israele, col sangue? Che lo cancella dalla mappa del Medioriente? Non una legittima critica politica (d’accordo o no) ma la rappresentazione di un popolo intero (bambini compresi ovviamente) con le mani sporche di sangue? Lo sanno di aver firmato per un falso storico e per di più negazionista? Per queste parole: “che non venga mai meno la voce della verità………sul colonialismo e su tutti i crimini contro l’umanità commessi da Israele per decenni e non solo dal 7 ottobre.” Parole che, proprio in sintesi, negano la legittimità dello Stato di Israele (Non rifacciamo la storia che Israele è dal 48 che viene attaccata e vive stabilmente sotto una pioggia di missili ecc.. ecc.. tanto è proprio questo che negano inventandosi decenni di crimini). Parole che, sempre in sintesi, non citandolo, negano l’orrore del 7 ottobre anzi, peggio, quasi lo giustificano…
Parole che raccontano un Paese come la summa di tutte le negatività del mondo. Un Paese da odiare. Da cancellare. A cui è negato il diritto a difendersi. Il diritto alla verità, a contrastare le narrazioni menzognere. Che deve abbassare il capo davanti alle aggressioni. Che diventa esso stesso responsabile dei vomitevoli fenomeni di antisemitismo a cui stiamo assistendo. Parole che sanno tanto di venir fuori dal repertorio dei fiancheggiatori di Hamas.
Parole che, probabilmente, la brava gente del cinema non ha letto o non ha approfondito prima di firmare (almeno crediamo). Ed è questo che ci spaventa: come l’odio cieco e incondizionato venga spesso alimentato da chi ha troppo timore o troppa pigrizia per guardare oltre il main stream e sventare l’ipnosi della propaganda. Magari ha anche buone intenzioni ma, come diceva un guru di certo pensiero come Karl Marx, “è proprio di buone intenzioni che è lastricata la strada per l’inferno”.
(Shalom, 25 agosto 2025)
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Ismaele ed Esaù: l'antica alleanza contro Israele e il suo nuovo volto in Occidente
I conflitti in Medio Oriente non sono solo scontri politici o territoriali. Hanno radici profonde nella storia spirituale dell'umanità. Ismaele ed Esaù, entrambi figli di Abramo, entrambi esclusi dalla scelta divina, entrambi portatori di una profonda resistenza interiore alla promessa divina fatta a Isacco e Giacobbe, formano una linea che attraversa la storia e il presente. Israele si trova ad affrontare un'alleanza attuale tra ideologie islamiche e movimenti occidentali post-cristiani. Qual è l'alternativa spirituale a questa alleanza?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Perché la storia biblica di Ismaele continua ad avere ripercussioni sulla politica mondiale ancora oggi? Cosa accomuna Esaù alle ONG di sinistra, alle risoluzioni delle Nazioni Unite e alle proteste di piazza a Berlino? E perché tra Ismaele ed Esaù si può vedere un'alleanza profetica contro Israele, allora come oggi?
Il legame tra Ismaele e Isacco si fonda su una linea profonda e allo stesso tempo controversa che attraversa la profezia biblica, l'interpretazione ebraica e gli attuali sviluppi geopolitici. Il legame tra Esau (Edom) e Ismaele è stato interpretato per secoli nell'esegesi biblica come un'alleanza spirituale contro Israele, teologica, ideologica e, in alcune epoche, anche militare.
• Ismaele, capostipite
La Bibbia descrive Ismaele, capostipite dei popoli arabi, in quattro momenti chiave. Ognuno di essi porta con sé un messaggio profondo sul rapporto tra Israele e Ismaele, tra ebraismo e islam.
Nascita con una condizione. La nascita di Ismaele viene annunciata da un angelo, ma a condizione che Agar torni nella casa di Abramo. Il messaggio è: l'esistenza spirituale di Ismaele dipende dal legame con le origini abramitiche, non come sostituto, ma come derivazione dell'alleanza.
Rifiuto per divergenza spirituale. Ismaele viene respinto a causa di una misteriosa “risata”. L'interpretazione ebraica vede in questo un rifiuto morale o spirituale. Il messaggio è che l'allontanamento di Ismaele rappresenta l'alienazione dallo spirito di Abramo. Tuttavia, la conversione rimane possibile.
Il funerale di Abramo, un segno di pentimento. Alla morte di Abramo, Ismaele si fa da parte e lascia il posto a Isacco. Il messaggio è chiaro: il riconoscimento dell'elezione di Israele può portare alla riconciliazione spirituale.
Il matrimonio con Esaù: un'alleanza pericolosa. La figlia di Ismaele sposa Esaù, simbolo delle alleanze ostili contro Israele. E il messaggio è: ogni coalizione teologica o politica contro Israele contraddice il piano divino.
La Bibbia non demonizza Ismaele. Lo mostra come una figura instabile, in bilico tra ribellione e ritorno. La sua storia è un invito: a riconoscere l'origine comune nell'alleanza di Abramo e alla riconciliazione nel rispetto dell'elezione di Israele.
La Bibbia racconta (Genesi 28,9): «Allora Esaù andò da Ismaele e prese in moglie, oltre alle altre, Machalat, figlia di Ismaele, figlio di Abramo, sorella di Nebaioth». Questo legame è più di un matrimonio, è un simbolo dell'unione di due linee che non discendono da Isacco, Esaù come nipote di Abramo, Ismaele come figlio di Abramo. Entrambi sono esclusi dalla benedizione divina, che è riservata solo a Giacobbe e ai suoi discendenti.
• Alleanza contro Israele
Nell'interpretazione biblica, ciò è visto come un'alleanza contro Israele. Gli studiosi ebrei interpretano questo legame come un modello profetico: Esaù rappresenta Edom, poi l'Impero Romano e infine l'Occidente cristiano. Ismaele rappresenta il mondo arabo-musulmano. Insieme, alla fine dei tempi, si schiereranno contro Israele.
Inoltre, un midrash (Tanchuma su Toldot) avverte: “Due popoli sono nel tuo grembo, Esaù e Giacobbe, e la storia del mondo sarà determinata dalla loro lotta.” L'alleanza tra Esaù e Ismaele è vista come una minaccia strategica per il popolo di Israele, non per amore, ma per inimicizia verso il popolo eletto.
Si potrebbero vedere parallelismi attuali nell'alleanza tra l'Occidente e le forze islamiche. Ciò a cui assistiamo oggi, ad esempio nelle proteste in Europa e negli Stati Uniti, potrebbe essere considerato una forma moderna di questa alleanza. Le nazioni di impronta cristiana (discendenti di Esaù), un tempo influenzate dalla Chiesa, oggi spesso secolari e umanistiche, si schierano spesso contro Israele sotto la bandiera dei «diritti umani» e della «solidarietà con la Palestina». Molti di questi movimenti sono guidati o influenzati da arabi o islamisti (Ismaele). Spesso si sottolinea in modo unilaterale la sofferenza dei palestinesi, trascurando però la lotta esistenziale di Israele per la sicurezza e l'esistenza. Questa “alleanza moderna” è spesso ideologico-morale, ma ha lo stesso effetto di quella antica, perché delegittima Israele e mette in discussione la sua elezione, il suo diritto all'autodifesa e all'autodeterminazione.
I gruppi islamisti guidano il movimento, seguito da ONG occidentali, chiese e sinistra di ogni tipo. Esempi sono noti a Londra, Berlino o Parigi, spesso con slogan antisemiti, in parte organizzati da organizzazioni vicine ad Hamas, ma sostenuti anche da attivisti occidentali. Istituzioni come Amnesty, Human Rights Watch o ICC usano termini come “diritti umani” o “diritto internazionale” per attaccare moralmente Israele, spesso basandosi su narrazioni musulmane come “Al-Aqsa è in pericolo”. Si chiede la tregua, si invita al boicottaggio di Israele, si esercita pressione sulla politica interna israeliana – tutto questo senza condannare contemporaneamente il terrorismo islamista.
• Teologia della sostituzione
Ismaele ed Esaù negano entrambi l'elezione biblica di Israele. Nel cristianesimo ciò avviene sotto forma di teologia della sostituzione (“La Chiesa ha sostituito Israele”), mentre nell'Islam sotto forma di “Tahrif” (falsificazione delle Scritture ebraiche). Il risultato è lo stesso: si sostiene che non esiste più un'alleanza valida tra Dio e Israele, entrambi gli approcci negano la posizione voluta da Dio per Israele. In molti luoghi si assiste a una simbiosi propagandistica nelle università occidentali: le narrazioni filopalestinesi sono promosse da gruppi di ispirazione islamica, con il sostegno di accademici laici, liberali di sinistra (un tempo di impronta cristiana).
Le potenze occidentali (Edom) sostengono sempre più gli interessi arabi in Medio Oriente, ad esempio riconoscendo gli Stati arabi a scapito delle rivendicazioni ebraiche. Ciò è evidente in quello che può essere percepito come un patto petrolifero: dopo la crisi petrolifera del 1973, il rapporto dell'Occidente con il mondo arabo è cambiato radicalmente. Molti Stati occidentali si sono sottomessi alle condizioni arabo-islamiche, il che si è riflesso in una politica ostile a Israele, nella copertura mediatica e nelle risoluzioni delle Nazioni Unite. Esiste un blocco palese delle Nazioni Unite contro Israele, poiché nell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è formato da decenni un blocco automatico anti-israeliano composto dagli Stati arabo-musulmani (Ismaele) e dai loro sostenitori in Occidente (Esaù/Edom).
• Profezia biblica
Ma dal punto di vista biblico, il messaggio teologico è chiaro e l'alleanza non è negoziabile. Il tentativo di spodestare Israele dal centro del piano divino non è un attacco politico, ma un errore teologico. Il profeta Zaccaria dice (cap. 12): “In quel giorno renderò Gerusalemme una pietra pesante per tutti i popoli”. Il Salmo 83 descrive esattamente questa alleanza: "Si sono consultati insieme con un unico intento: Hanno stretto un patto contro di te, le tende di Edom e gli Ismaeliti...» Edom = Esaù, Ismaeliti = Arabi.
Questa descrizione profetica è spaventosamente attuale. Il mondo ebraico (e quindi anche quello cristiano) deve riconoscere che molti attacchi contro Israele hanno origine in un conflitto spirituale più profondo, non solo in divergenze politiche. È necessario distinguere i veri alleati dai simulatori: non tutte le voci occidentali sono contro Israele, ma c'è bisogno di un sostegno sincero, non di moralismi paternalistici. E manca un'identità teologica: i cristiani legati a Israele devono rendersi conto che non sono figli di Esaù, ma figli di Giacobbe attraverso la fede, se rispettano la vocazione di Israele.
Esistono però anche movimenti di solidarietà cristiana che si oppongono alla coalizione Ismaele-Edom. Si levano voci teologiche che rifiutano il concetto di teologia sostitutiva, riferendosi a Romani 11: «Non sei tu che porti la radice, ma la radice porta te.» Tradotto in termini politici, ciò significa che i cristiani che si schierano con Israele si oppongono all'alleanza di Edom e Ismaele, come «eredi di Giacobbe nello spirito», e per questo si è affermato il termine «sionismo cristiano».
• Realtà spirituale
La linea profetica che va da Ismaele a Esaù fino ai nostri giorni non è una teologia astratta, ma una realtà spirituale che si manifesta ripetutamente nella storia di Israele. Il legame tra Ismaele ed Esaù, descritto nel primo libro della Genesi e sviluppato nelle interpretazioni ebraiche nel corso dei secoli, appare oggi sotto una nuova veste: un'alleanza ideologica tra un Occidente secolare, spesso post-cristiano, e un Islam politico e fortemente carico di connotazioni religiose. Entrambi concordano nel rifiutare Israele come popolo eletto da Dio.
Questa alleanza non è sempre consapevole o organizzata: spesso agisce in modo diffuso, sotto il manto dei diritti umani, della giustizia e della solidarietà. Ma l'effetto è lo stesso: Israele viene demonizzato, la sua autodifesa delegittimata, il suo diritto all'esistenza messo in discussione. E dietro tutto questo non c'è solo la politica degli interessi, ma una profonda resistenza spirituale all'idea che Dio abbia stretto un patto con un popolo concreto in un paese concreto e che non abbia mai revocato questo patto.
La Bibbia però non lascia spazio a dubbi: questa alleanza è “eterna” (Genesi 17,7) e la sua validità non dipende dal consenso internazionale, ma dalla parola stessa di Dio. Il tentativo di spodestare Israele dal suo centro spirituale non è quindi solo un attacco a un paese, ma all'ordine divino stesso.
• Radici comuni
Ma c'è speranza. Come Ismaele prese il posto dietro Isacco al funerale di Abramo, così anche oggi nell'Islam ci sono voci di pentimento, di conversione, di riconoscimento. Queste voci dicono: «Israele ha un ruolo. Israele è legittimo». Sono voci che non vedono nell'alleanza di Abramo una concorrenza, ma una radice comune. Queste voci devono essere rafforzate e allo stesso tempo bisogna smascherare l'inganno che si maschera da attivismo per i diritti umani, ma che in realtà rappresenta la teologia del rifiuto.
La storia non è ancora finita. Ma la strada è visibile: chi benedice Israele sarà benedetto. Chi si pone sotto l'alleanza non sarà deluso. E chi chiama il conflitto con il suo nome, che è teologico, ha la possibilità di risolverlo anche spiritualmente. Perché la religione non è il problema. È la chiave per la soluzione. Per il relativismo morale o per la chiarezza spirituale.
(Israel Heute, 25 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Rosh Chodesh Elul – Rav Arbib: Dalle volpi al Tempio alla ricostruzione
di Rav Alfonso Arbib *
Viviamo un periodo molto complicato della nostra storia, complicato e in buona parte inaspettato con un risorgere prepotente dell’antisemitismo. Ci sentiamo messi sotto accusa. Chi ci accusa ritiene di farlo in nome di una superiore moralità, è un antisemitismo dei buoni, di persone che pensano di essere dalla parte giusta della storia. Persone e organizzazioni che pensavamo amiche non si sono rivelate tali. nello stesso tempo le vicende che abbiamo vissuto in questi due anni sono estremamente dolorose. Viviamo in mezzo a una guerra che comporta lutti e sofferenze e che è conseguenza del peggior massacro di ebrei dalla Seconda Guerra Mondiale. Un pogrom che ancora non si è concluso, continua con l’angoscia per la sorte degli israeliani rapiti da Hamas, torturati e che ancora non sono stati restituiti. Tutto questo nella sostanziale indifferenza del mondo intero.
Come reagire a tutto questo?
Propongo di farlo ricorrendo alle nostre fonti tradizionali cercando ispirazione nella Torà e nella tradizione ebraica. La parashà che abbiamo letto questa settimana comincia con queste parole: Reè – vedi, pongo davanti a te la benedizione – berakhà – e la maledizione – kelalà. Il verbo usato è inusuale: vedere indica qualcosa che è presente davanti a me mentre il verso fa riferimento al futuro. C’è un midràsh che forse ci può spiegare l’uso di questo verbo. Il midràsh racconta del momento in cui i Chakhamim e Rabbi Akivà giungono davanti al Bet Hamikdash distrutto dai Romani e vedono una volpe che passeggiava nel luogo più sacro del santuario, il Kodesh hakodashim. I Chakhamim piangono e Rabbi Akivà ride.
I Chakhamim gli chiedono: «Perché ridi?» Lui risponde: «Perché voi piangete?» «Come si fa a non piangere», dicono, «davanti a uno spettacolo del genere? Come si fa a non piangere vedendo la profanazione del luogo più sacro dell’ebraismo, il luogo in cui poteva entrare solo il Kohèn Gadòl nel giorno di Kippùr e ora le volpi vi passeggiano». Rabbi Akivà risponde: «Per questo stesso motivo rido. Si è appena realizzata una profezia, quella della distruzione, sono sicuro che si realizzerà anche quella che dice che ancora “siederanno anziani e anziane nelle strade di Gerusalemme”. La profezia della ricostruzione, della salvezza». I Maestri rispondono: «Akivà, ci hai consolato».
Che cosa dice Rabbi Akivà ai maestri che loro non sapessero già? Le profezie erano ovviamente conosciute anche da loro. In realtà Rabbi Akivà non si limita a citare i testi ma è come se vedesse in quel momento la distruzione e la ricostruzione, come se riuscisse a vedere anche nel momento più terribile la salvezza. Questa capacità di vedere un futuro migliore nei momenti più difficili è una delle caratteristiche più straordinarie del popolo ebraico. Vorrei ricordare un avvenimento storico fra i tanti.
Nel XIV secolo, in conseguenza della peste nera e delle accuse agli ebrei di essere portatori della peste e i responsabili della terribile strage in Europa, assistiamo a una delle peggiori persecuzioni della storia europea. assistiamo a uccisioni, sofferenze ed espulsioni. Gli ebrei vengono espulsi soprattutto dalle città tedesche e si rifugiano in altre da cui però potevano essere espulsi nuovamente. Vivono una vita estremamente precaria. Che cosa si fa in un caso del genere? Si vive giorno per giorno, senza fare progetti perché non si ha alcuna certezza nel futuro. ma gli ebrei non fecero questo: costruirono Battè knesset, luoghi di studio, una vita ebraica. Non persero la speranza, conservarono la loro capacità di vedere un futuro migliore anche in presenza di un presente che non prometteva niente di buono.
Questo è probabilmente il senso di Reè che abbiamo letto all’inizio della parashà. Nel momento in cui vedi la kelalà, in cui vedi realizzarsi qualcosa di negativo, devi riuscire a non perdere la speranza, devi riuscire a vedere la berakhà, la benedizione. Oggi è Rosh Chòdesh Elùl e comincia il periodo che ci porterà a Rosh Hashanà e Kippùr. È un periodo in cui siamo chiamati a ripensare il passato a considerare i nostri errori avendo però come prospettiva il futuro. Vorrei sottolineare questo secondo elemento. Il messaggio fondamentale delle feste di Rosh Hashanà e Kippùr è che si può sempre ricominciare da capo, che per quanti errori abbiamo commesso dobbiamo progettare un futuro migliore. Quest’idea, che nella tradizione ebraica va sotto il nome di teshuvà, è secondo rav Sachs uno degli elementi più straordinari dell’ebraismo. Rav Sachs dice che una delle parole chiave della tradizione ebraica è la parola tikvà, speranza: speranza non vuol dire che andrà tutto bene, vuol dire che possiamo agire perché vada bene, perché la nostra vita cambi, possiamo agire credendo fermamente in un futuro migliore.
Elùl, Rosh Hashanà e Kippùr vengono poco dopo la data più triste della storia ebraica, il 9 di Av, e il messaggio è molto evidente: dalla distruzione alla ricostruzione.
Negli anni precedenti nelle nostre Comunità si è data una grande importanza al rapporto con il mondo esterno. Quello che è accaduto negli ultimi due anni dimostra che qualcosa non ha funzionato. Credo sia giunto il momento di rafforzarci soprattutto all’interno, di migliorare noi stessi, di rafforzare la nostra identità. Questo non vuol dire che non dobbiamo preoccuparci o occuparci degli altri. Per poterlo fare però è necessario capire meglio chi siamo noi e cosa vogliamo, come immaginiamo il nostro futuro. Rosh Chòdesh è il momento del nuovo ciclo lunare, Rosh Chòdesh Elùl rappresenta questa prospettiva di rinnovamento più di ogni altro capo mese.
* Rabbino capo di Milano Presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana
(Bet Magazine Mosaico, 24 agosto 2025)
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Rosh Chodesh Elul: le novità di quest’anno
di Rav Riccardo Di Segni *
“I Valori Ebraici??? Siete senza Vergogna”. Queste testuali parole, maiuscole comprese, sono state inserite con una firma strana in un post della Comunità Ebraica di Roma dove si facevano gli auguri per il compleanno a un rabbino e si era parlato di valori ebraici. Una reazione di questo tipo, da parte di persone che non amano ebrei ed ebraismo, c’è sempre stata. Il problema di oggi è che queste reazioni sono diventate comuni, diffuse, coinvolgenti un pubblico sempre più vasto, espressione di pensieri convinti, condivisi e senza contraddittorio. La guerra in corso dal 7 ottobre 2023 è stata accompagnata da una campagna accusatoria e diffamatoria che non si è limitata al governo dello Stato d’Israele ma si è allargata allo Stato stesso, agli ebrei e finalmente all’ebraismo stesso come cultura e religione. Siamo arrivati a un punto in cui dei sistemi di convivenza stabili sono entrati profondamente in crisi. Chi non l’ha capito finora è bene che lo faccia presto.
Un piccolo esempio dell’aria che tira. Molte volte in passato, durante lezioni e interventi su temi ecologici, ho spiegato che nella lingua ebraica della Bibbia e dei rabbini del Talmud la parola “natura” non esiste, perché il concetto stesso di natura implica un’autonomia creatrice, mentre c’è un vero e solo Creatore; quindi, non c’è una natura indipendente ma solo il creato. Nel medioevo, però, i filosofi ebrei si trovarono nella necessità di dare un nome alla natura e si inventarono la parola teva’, per indicare qualcosa di coniato, stampato. Un secolo fa, i primi immigrati in Eretz Israel fondarono una casa farmaceutica e le dettero il nome di Teva, natura. L’impresa ha prosperato nei decenni ed è diventata una multinazionale con la maggior parte degli stabilimenti in Europa. Ognuno di noi ha acquistato in questi anni in farmacia un farmaco generico marcato Teva e probabilmente ignorava che ditta fosse e le origini del suo nome. Ora però qualcuno se ne è accorto, ha scoperto il peccato originale ed è partita una campagna di boicottaggio che vede uniti nel coro amministratori sanitari, farmacisti, semplici cittadini e zelanti medici e infermiere che di propria iniziativa buttano al secchio i campioni di prodotti sanitari Teva offerti agli ospedali. Vaglielo a spiegare che storia c’è dietro, e che danneggiano le fabbriche europee, i risparmiatori, la loro stessa salute e i principi bioetici più elementari.
Per anni ci siamo compiaciuti del contributo ebraico alla scienza, dei premi Nobel e di tutte queste belle cose. Possiamo continuare a esserne compiaciuti ma di questi argomenti alla gente non importa più tanto. Possono invece scatenare reazioni di invidia o teorie di potere e di complotto. Per decenni, dopo la Shoà, è stato costruito un sistema di ricordo e di compassione che noi abbiamo alimentato con tutte le nostre energie. Al punto di creare una sorta di identità ebraica al negativo, dolorosa e di ricerca compiaciuta di solidarietà. Ma adesso è finito tutto. Ora, nella narrazione comune, i genocidi siamo noi. Non potremo più fare una qualsiasi commemorazione senza che ci venga detto: “però voi…”, “voi che avete sofferto tanto…” ecc.
Il dialogo faticosamente costruito con la Chiesa cattolica è in crisi. Da una parte rispuntano i vecchi schemi oppositori con l’Antico Testamento fonte di violenza e il fatto che gli ebrei siano una nazione, il popolo “eletto”, un peccato da cancellare; dall’altra prevale una sorta di equidistanza pacifista con suoni di campane e letture pubbliche di lunghe liste di vittime, inviti accorati al risveglio delle coscienze, dove, s’intende, quelle addormentate sarebbero prima di tutte le nostre. “Fermiamo la strage degli innocenti. Siete tutti compagni di Erode”.
Il tema comune che compare sotto tante forme, laiche e religiose, è che l’ebraismo sia moralmente malato, che i suoi valori siano infettati e quel che di buono che c’era se lo è preso qualcun altro.
Il problema è anche nostro, interno. Davanti a una crisi che mette in discussione l’immagine che noi abbiamo dell’ebraismo e il nostro rapporto con la società circostante, le reazioni possibili sono diverse. Sappiamo quante centinaia di migliaia di persone manifestano in Israele contro il governo. Siamo una comunità complessa e divisa in mille rivoli. Dalle nostre parti c’è chi si schiera, senza se e senza ma, con qualsiasi decisione del governo israeliano, chi invece fa dei distinguo, e chi si dissocia pubblicamente, magari firma appelli la cui opportunità suscita ulteriori discussioni. Lo fanno invocando i valori dell’ebraismo, e gli si obietta osservando che molti di loro si ricordano dell’ebraismo solo al momento della firma. Questa obiezione però non vale quando a parlare e firmare sono i rabbini. Hanno cominciato i “progressive”, poi l’ondata ha coinvolto alcuni ortodossi, di tipo “modern”, “lite” (=leggero), alcuni molto politicizzati. Come gli ebrei si dividono in “ebrei buoni” (pieni di valori di amore universale) e “buoni ebrei” (che cercano di vivere il loro ebraismo in modestia e con onestà), a quanto pare, anche i rabbini si potrebbero dividere in rabbini buoni e buoni rabbini; ma la maggioranza degli ebrei e dei rabbini non si fa inquadrare in questo schema. I problemi morali sollevati da questa guerra sono micidiali e nessuno può nasconderlo, la coerenza con le fonti è oggetto di discussioni laceranti in cui ognuno ha un po’ di ragione, ma non tutta. Chi vive in Israele rischia in prima persona, per noi della diaspora i rischi ci sono, ma di altro tipo, e fare i giudici gli uni per gli altri non è semplice e neppure tanto corretto oltre che dannoso. Il quadro si complica ulteriormente con altri rabbini che invitano a pregare, proprio in questi giorni di rosh chòdesh, contro il decreto della coscrizione obbligatoria degli studenti delle yeshivòt. I solchi sociali, che in una situazione di pericolo dovrebbero ridursi, invece si allargano.
Che siamo un popolo particolare, anche per la divisione e la polarizzazione estrema delle posizioni, lo sappiamo. Non basta saperlo, adesso, in un momento così forte di destabilizzazione. Nel calendario ebraico l’inizio del mese di Elul, l’ultimo mese dell’anno, segna l’avvio del ciclo penitenziale. Si suona lo shofàr, un piccolo anticipo di quello si farà tra un mese, a Rosh haShanà. Tutti i testi sacri per l’occasione raccomandano di cominciare a fare teshuvà, marcia indietro. I rabbini parlano, il pubblico ascolta, qualcuno è scosso, altri dicono “vabbè”. Questo rosh chòdesh però l’invito generico dovrebbe avere un contenuto più specifico. La consapevolezza che niente è più come prima. Addio all’ammirazione per il contributo ebraico al progresso. Addio alla condivisione del ricordo della Shoà. Addio all’ebraismo bello ed esemplare, medaglietta chic da ostentare. Ci vorrà molto tempo, ammesso che ci si riesca, a ricomporre un’immagine corretta di ebraismo all’esterno. Per ora pensiamo all’interno. Ci vogliono convincere della nostra essenza malvagia. Bisogna resistere e opporsi all’attacco devastante, con il recupero del nostro vero ebraismo, la correzione dei comportamenti, delle idee e delle conoscenze. E che ognuno cerchi, per quanto gli è possibile, di colmare i solchi delle spaccature che ci dividono.
* Rabbino Capo di Roma
(Shalom, 23 agosto 2025)
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E' così: l'odio contro gli ebrei è ormai un fiume in piena che si è ingrossato in un modo spaventoso, in una misura al di là di ogni previsione. Ormai straripa da tutte le sponde, e se si cerca di tapparne una falla se ne formano altre dieci più gravi. Che potrà dire un non ebreo che si dissocia? Anche questo è un problema. Da che parte si comincia? Quali argomenti scegliere? Nell'imbarazzo, rinviamo alla presentazione del nostro sito, di cui riportiamo qui soltanto uno stralcio dell'approfondimento dal titolo "Manifestare amore". NsI
Gli ebrei avvertono che verso di loro c'è un odio gratuito, cioè un'ostilità che non può essere interamente spiegata da nessuna motivazione razionalmente giustificabile: sono odiati perché ci sono. E anche quando l'ostilità non si concretizza in atti di violenza, la percezione di questi sentimenti di avversione li fa soffrire. Abbiamo detto che questo non dipende dagli ebrei, ma dal rapporto degli uomini con Dio. L'astio contro gli ebrei non è che l'espressione dell'umana ribellione contro Dio, è quindi manifestazione di peccato. I credenti in Gesù sanno di aver ricevuto il perdono dei peccati attraverso il Messia d'Israele, vivono in comunione con Dio e di conseguenza diventano partecipi del suo amore verso il suo popolo. L'amore dei veri cristiani verso Israele è quindi un amore gratuito, cioè un sentimento che non può essere spiegato da nessuna motivazione o interesse razionalmente giustificabili: il popolo d'Israele viene amato soltanto perché c'è, perché è un'espressione della volontà di quel Dio con cui i cristiani vivono in comunione d'amore. Sarebbe una grave perdita per gli ebrei se fossero capaci di percepire soltanto l'odio gratuito contro di loro, senza saper riconoscere e avvertire anche l'amore gratuito di cui sono oggetto. Se è vero che non c'è popolo sulla terra che sia stato tanto odiato, è anche vero che non ce n'è un altro che sia stato tanto amato. E anche se in questo periodo della storia del mondo l'odio è molto più appariscente dell'amore, non è vero che sia più reale.
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Perché Dio ha creato il mondo? - 11
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Botta e risposta fra Dio e Mosè
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni; e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani, e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese dove scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei. E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me, e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li tormentano. Ora dunque vieni e io ti manderò dal Faraone perché tu faccia uscire il mio popolo, i figli d'Israele, dall'Egitto” (Esodo 3:7-10).
Dall’interno del roveto in fiamme Dio dice a Mosè che ha visto l’afflizione del suo popolo e che è sceso per liberarlo e farlo salire in un bel paese. Che Dio voglia liberare il suo popolo per il progetto che ha in mente, si capisce, ma perché è sceso? Non può fare tutto anche dal cielo? Evidentemente no, perché la guerra di liberazione del creato dal dominio di Satana è uno scontro che avviene in cielo ma si combatte sulla terra, e prevede la piena riappropriazione della terra da parte di Dio per essere donata all’uomo, a sua volta liberato dal peso del peccato che lo tiene schiavo del Nemico, come gli ebrei erano schiavi del Faraone. Tutto ciò è detto in modo necessariamente sintetico, ma serve a stimolare la riflessione e tener viva l’importanza che ha la terra nel piano redentivo di Dio.
Il discorso dal roveto ardente si conclude con un ordine semplice e chiaro: “Ora dunque vieni e io ti manderò dal Faraone perché tu faccia uscire il mio popolo, i figli d'Israele, dall'Egitto”. Sembra facile, detta così, ma di difficoltà ce n’erano, non solo per Mosè, che erano evidenti, ma anche per Dio, perché per Lui si trattava di riuscire a convincere un uomo a cui aveva concesso, per propria autolimitazione, lo spazio di libertà connaturato al suo essere uomo creato a immagine di Dio. Non è facile, neppure per Dio, convincere gli uomini a fare cose che a loro appaiono pesanti e rischiose.
Dopo l’ordine di Dio comincia il botta e risposta.
Domanda:
E Mosè disse a Dio: “Chi sono io per andare dal Faraone e per trarre i figli d'Israele dall'Egitto?” (3:11).
La domanda è ragionevole; equivale a dire: a che titolo mi presenterò alla più alta autorità del paese d’Egitto?
Risposta:
E Dio disse: “Va', perché io sarò con te; e questo sarà per te il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai tratto il popolo dall'Egitto, voi servirete Dio su questo monte” (3:12).
Dio ribadisce l’ordine: “Va’”, a cui segue la spiegazione “perché io sarò con te”, cioè tu andrai a titolo mio; non è che io ti sosterrò quando tu presenterai al Faraone le tue rivendicazioni; sono Io che dico a te, come mio delegato, di comunicare al Faraone un ordine del Dio degli ebrei. Tu parlerai a nome mio: la risposta che ti darà sarà come se l’avesse data a me, ma gli effetti della sua ira ricadranno su di te. Altro che facile! Messa così, la cosa diventa esplosiva, per Mosè e per tutti gli ebrei.
E nel caso Mosè pretendesse di avere un segno come conferma, la precisazione di Dio (un po’ irritante) è che il segno lui lo vedrà alla fine, quando capirà che se un’impresa così impossibile è riuscita, vuol proprio dire che è stato Dio a volerla. E così è accaduto. Mosè avrebbe dovuto esserne convinto fin dall’inizio, perché Dio gliel’aveva detto: io sarò con te.
Domanda:
E Mosè disse a Dio: “Ecco, quando sarò andato dai figli d'Israele e avrò detto loro: 'L'Iddio dei vostri padri mi ha mandato da voi', se essi mi dicono: 'Qual è il suo nome?', che cosa risponderò loro?” (3:13).
Anche questa domanda è ragionevole, perché se Mosè va dagli anziani a dire che lo manda Dio, ci si può aspettare che diventino sospettosi e facciano domande su quel Dio che l’avrebbe inviato. Come dovrà rispondere? Mosè chiede istruzioni.
Risposta (un po’ sibillina):
Iddio disse a Mosè: “Io sono colui che sono”. Poi disse: “Dirai così ai figli d'Israele: 'L'Io sono mi ha mandato da voi'” (3:14).
Indubbiamente, il carattere enigmatico di questa risposta dipende dalle difficoltà legate al nome di Dio, che da secoli gli ebrei non pronunciano, ma forse, capendo che con parole di questo tipo Mosè non avrebbe ottenuto un grande successo tra gli ebrei, il Signore aggiunge altre parole di indicazione.
Agli anziani Mosè avrebbe dovuto dire che l’Eterno gli è apparso (3:16); e che gli ha detto che li avrebbe tratti fuori dalla schiavitù d’Egitto; e che li avrebbe fatti andare nel paese dei Cananei; e che quello è un paese dove scorre il latte e il miele (3:17). Ma pensando che Mosè potrebbe avere qualche dubbio sulla sua capacità di convincere gli anziani a credere a tutte queste belle cose, tentò di rassicurarlo dicendo che gli anziani ubbidiranno alla sua voce (3:18).
Al Faraone invece Mosè avrebbe dovuto dire, andando a trovarlo insieme agli anziani, di lasciarli andare per tre giorni di cammino nel deserto, perché loro dovevano fare dei sacrifici al loro Dio. Avverte però che il Faraone non avrebbe per niente accettato quello che gli chiedono (3:19). Tuttavia, “forzato da una mano potente”, sarebbe stato costretto a lasciarli andare. E per di più non se ne sarebbero andati a mani vuote, ma gli egiziani stessi li avrebbero fatti partire con molti doni (Esodo 3:20-22)
Replica a Dio:
Mosè rispose e disse: “Ma ecco, essi non mi crederanno e non ubbidiranno alla mia voce, perché diranno: 'L'Eterno non ti è apparso'” (4:1).
Dicendo che gli anziani non gli crederanno, Mosè usa un comune buon senso, perché da persone normali non ci si può aspettare che credano subito a notizie di grandiosi fatti soprannaturali. Dio però aveva chiaramente detto a Mosè che gli anziani ubbidiranno alla sua voce; quindi il primo a non credere alle parole di Dio è lui, non gli anziani. Il Signore però capisce sia gli anziani sia Mosè, e sovviene all’incredulità di tutti operando davanti a lui segni miracolosi che avrebbero dovuto essere ripetuti davanti agli anziani (4:1-9).
Mosè, che evidentemente non ha proprio voglia di mettersi in quell’impresa, mette avanti un’altra scusa: dice che è “lento di parola e di lingua”, insomma che non sa parlare. Risposta di Dio:
E l'Eterno gli disse: “Chi ha fatto la bocca dell'uomo? o chi rende muto o sordo o veggente o cieco? non sono io, l'Eterno? Ora dunque va', e io sarò con la tua bocca, e ti insegnerò quello che dovrai dire” (4:11-12).
Esaurite le scuse e messo alle strette, Mosè rivolge al Signore la richiesta fondamentale che aveva in mente fin dall’inizio: “O Signore, manda il tuo messaggio per mezzo di chi vorrai!” (4:13), che è come dire: cercati qualcun altro.
Davanti a questo educato rifiuto espresso in forma di proposta, “l’ira dell’Eterno si accese contro Mosè” (4:14).
Qui accade qualcosa di nuovo: è la prima volta che Dio si adira con uno dei suoi uomini. Non era mai successo prima con i patriarchi. Si dovrà tornare su questo punto, perché i racconti biblici non sono cronache giornalistiche, e l’ira di Dio è un fatto serio. Se viene registrata nel testo, vuol dire che qui è presente un aspetto della rivelazione che Dio vuol fare di Sé. Se ne riparlerà.
In questo caso, l’ira ha un effetto conclusivo: è il segnale che Dio rivolge a Mosè dicendogli “basta”. Toglie l’argomento pretestuoso dalle mani di Mosè dicendogli che gli darà Aaronne come dicitore al posto suo, e replica con un secco ordine: “Ora prendi in mano questo bastone con il quale farai i prodigi” (4:17). Fine del colloquio.
La conclusione è un ordine, ma è un ordine militare. Il che vuol dire che Mosè è stato arruolato nell’esercito di Dio: quello con cui sarà portato a compimento il progetto redentivo di riconquista del creato.
Mosè, da militare, non replica più e ubbidisce. Comunica al suocero la sua intenzione di tornare in Egitto e si avvia.
“Mosè dunque prese sua moglie e i suoi figli, li mise su degli asini, e tornò nel paese d'Egitto; e Mosè prese nella sua mano il bastone di Dio” (4:20).
Mentre è in cammino verso l’Egitto, cioè quando aveva già cominciato a svolgere in ubbidienza il compito ricevuto, il Signore gli fornisce qualche spiegazione in più. Gli dice che il bastone che aveva in mano avrebbe dovuto agitarlo, oltre che davanti agli anziani, anche davanti al Faraone. Non per picchiarlo però: lui farà soltanto il gesto. Quando sarà il momento, ad ogni gesto corrisponderà un colpo. E saranno colpi di intensità crescente che Dio farà cadere, uno dopo l’altro, sul capo del testardo Faraone e del suo popolo. Insomma, come Mosè con la bocca farà giungere al Faraone le parole che gli manda Dio, così col bastone farà sentire al Faraone le botte che gli arriveranno dalla stessa Fonte.
Forse Mosè aveva proprio bisogno di sapere che aveva in mano un bastone di tale potenza, perché da una parte gli era stato detto che il Faraone aveva il cuore indurito e non avrebbe accolto la sua richiesta di lasciarli andare, e dall’altra deve comunicargli un ordine di Dio talmente duro da far rizzare i capelli in testa a chi ha l’incarico di trasmetterlo:
“Tu dirai al Faraone: 'Così dice l'Eterno: Israele è mio figlio, il mio primogenito; e io ti dico: Lascia andare mio figlio, affinché mi serva; e se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io ucciderò tuo figlio, il tuo primogenito'” (4:22-23).
Questa è una minaccia. Una minaccia all’autorità suprema della nazione nell’esercizio delle sue funzioni. Chi osa trasmettere al Faraone parole simili non può aspettarsi che la morte. E’ difficile immaginare l’animo con cui Mosè continuò il suo viaggio pensando a quell’incarico. Ma continuò.
Per strada incontrò il fratello Aaronne che gli veniva incontro per ordine del Signore:
“L’Eterno disse ad Aaronne: “Va' nel deserto incontro a Mosè”. Ed egli andò, lo incontrò al monte di Dio, e lo baciò. E Mosè riferì ad Aaronne tutte le parole che l'Eterno lo aveva incaricato di dire, e tutti i segni prodigiosi che gli aveva ordinato di fare (4:27-29).
Mosè raccontò al fratello la sua esperienza con Dio e l’ordine che aveva ricevuto, ma va tenuto presente che lui era fuori dall’Egitto da quarant’anni, quindi non aveva più rapporti diretti con i figli d’Israele. Ecco perché la vicinanza di Aaronne ora è per lui davvero “provvidenziale”, al fine di entrare in contatto con la comunità ebraica in Egitto.
Mosè e Aaronne dunque andarono, e radunarono tutti gli anziani dei figli d'Israele. E Aaronne riferì tutte le parole che l'Eterno aveva detto a Mosè, e fece i prodigi in presenza del popolo. E il popolo prestò loro fede. Essi compresero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva visto la loro afflizione, si inchinarono e adorarono (4:27-31).
Come Dio aveva detto a Mosè - e lui non aveva creduto - gli anziani di Israele ubbidirono alla sua voce e si inchinarono davanti a lui e ad Aaronne riconoscendoli come conduttori; e adorarono Dio riconoscendo di essere stati visitati da Lui.
Arrivati a questo punto, anche se è chiaro che Mosè non è quell’eroico liberatore di popoli tipo Che Guevara che qualcuno potrebbe immaginarsi, si potrebbe comunque dire: fin qui tutto bene.
Ma i guai non tarderanno ad arrivare.
(Notizie su Israele, 24 agosto 2025)
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Chi ha infranto il sogno di due popoli due Stati
di Niram Ferretti
Tutti noi nutriamo un antico rispetto per il Corriere della Sera, che continuiamo a non voler assimilare alle gazzette volgari, partigiane e ideologizzate che popolano il panorama della stampa italiana. Ma il titolo del suo editoriale di ieri (I due Stati e la fine di un sogno) lascia davvero senza parole. Come se la morte di un progetto che si discute da 80 anni sia da attribuire alla recentissima decisione di Israele di dare compimento a una costruzione urbana nel “corridoio E-1” tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim, cittadina situata a est della Capitale, ovvero all’interno dei cosiddetti territori occupati.
• Due popoli, due Stati: la storia
Proviamo allora a ricapitolare la storia dell’idea “due popoli, due Stati”, lasciando parlare i fatti, mettendo da parte i sogni. È una storia nota e documentata, che nessuno in buona fede dovrebbe rimuovere. Nel 1937 la Commissione Peel, incaricata dalla Gran Bretagna, allora titolare del Mandato per la Palestina del 1922, propose agli arabi (non a un popolo senza patria) l’80% dei territori della regione. L’offerta subì un rifiuto netto. Dieci anni dopo toccò all’ONU, quando, nel 1947, l’Assemblea Generale propose un piano di spartizione che assegnava agli arabi (di nuovo non un popolo senza patria) la Giudea e la Samaria e Gaza, per edificarvi il loro Stato. Gli ebrei, nonostante il piano li privasse illegalmente di quanto aveva assegnato loro il Mandato, accettarono; gli arabi rifiutarono.
Il tempo passa e con esso le guerre arabe, tutte aventi come scopo quello di annichilire lo Stato ebraico. A seguito della guerra dei Sei giorni del 1967, la Lega Araba tenne un summit a Khartoum durante il quale formulò tre dinieghi perentori: nessuna pace con Israele, nessuna negoziazione con Israele, nessun riconoscimento di Israele. Si dovettero aspettare dodici anni per gli accordi di pace separati di Camp David tra Israele ed Egitto (1979) e ventisette (1994) per quelli tra Israele e Giordania. Nel frattempo, “il popolo senza patria”, ovvero gli arabi, trasformati per ragioni squisitamente politiche in palestinesi, avevano preferito il terrorismo alla conclusione dei negoziati con Israele (Camp David 2000, Taba 2001).
Ci fu poi, nel 2005, la decisione israeliana di sradicare gli insediamenti ebraici a Gaza in nome del principio “terra in cambio di pace”; quindi la proposta di Ehud Olmert del 2008, ancora più generosa di quella fatta da Ehud Barak nel 2000 a Camp David e, nel 2009, il congelamento per dieci mesi degli insediamenti di Israele in Giudea e Samaria al fine di portare l’Autorità palestinese al tavolo dei negoziati. Questa è la storia dell’idea “due popoli, due Stati”, per chi vuole sapere e capire, senza fare propaganda. Eppure, secondo il Corriere, “la fine del sogno” l’avrebbe sancita la decisione di Israele di dare corpo a un progetto edilizio fermo da trent’anni. Un modo davvero singolare di fare informazione e di ricostruire la storia tormentata della regione.
(Il Riformista, 23 agosto 2025)
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Con il mondo ossessionato da Israele, il Libano è sull’orlo del baratro
Sono così impegnati nella condanna a Israele, così presi dal riconoscere la cosiddetta "Palestina" da disinteressarsi completamente di quello che sta avvenendo in Libano con Hezbollah che, come sempre fomentato da Teheran, rifiuta il disarmo e minaccia la guerra civile
di Franco Londei
Il mondo è troppo impegnato nella condanna a Israele per vedere come il Libano sia sull’orlo del baratro di una terribile guerra civile.
Nonostante le promesse, Hezbollah continua a rifiutare il totale disarmo, rifiuta cioè di diventare solo una forza politica e non più una forma militare che nei fatti crea uno Stato nello Stato o, peggio, fa le veci dello Stato.
Secondo il Segretario Generale di Hezbollah, lo sceicco Naim Qassem, «chiunque oggi chieda la consegna delle armi, sia internamente che esternamente, sulla scena araba o internazionale, sta servendo il progetto israeliano», progetto che secondo Hezbollah mira a controllare il Libano da remoto, cioè a fare quello che faceva l’Iran fino all’attacco israeliano.
Ma il Libano ha bisogno urgentissimo di aiuti materiali e finanziari, aiuti che sono condizionati proprio al disarmo di Hezbollah e di tutte le milizie.
Nonostante il Primo Ministro libanese, Nawaf Salam, abbia incaricato le Forze Armate Libanesi (LAF) di preparare un calendario per il disarmo e lo smantellamento di tutte le milizie armate, l’impresa appare impossibile senza scatenare una terribile guerra civile. Hezbollah rifiuta categoricamente di disarmare sfidando apertamente il Governo libanese a imporre la decisione del Primo Ministro.
A dar man forte ai terroristi libanesi lo scorso 13 agosto è arrivato in Libano Ali Larijani, segretario del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale iraniano.
L’Iran non vuole perdere anche il Libano dopo aver perso definitivamente la Siria e Larijani ha portato a Hezbollah e al Governo Libanese il messaggio della Guida Suprema, Ali Khamenei, con il quale si riafferma la totale vicinanza dell’Iran al Libano, che tradotto significa “totale vicinanza a Hezbollah”.
Senza la rotta siriana e con il Libano attento a non far arrivare armi a Hezbollah, per Teheran non sarà facile rimpinguare le scorte di missili di Hezbollah in modo che torni ad essere una vera minaccia per Israele. Tuttavia gli attuali arsenali di Hezbollah, se non bastano per spaventare Israele, certamente bastano per intimidire il governo libanese.
Più facile per l’Iran fare entrare clandestinamente il denaro sufficiente a garantire a Hezbollah il pagamento degli stipendi, dei risarcimenti alle vedove e, soprattutto, a garantire i servizi alla popolazione sciita che poi è quella che garantisce al gruppo terrorista di sedersi in Parlamento.
Ed è questo che probabilmente è venuto a promettere Ali Larijani, un sostanzioso aiuto finanziario a Hezbollah da parte dell’Iran.
Per di più il momento è particolarmente favorevole a “riprendere fiato” con Israele ancora impantanato a Gaza e con possibili problemi in Cisgiordania, con oltretutto il mondo intero impegnato a condannare sistematicamente ogni mossa israeliana.
E se Hamas il 7 ottobre ha praticamente copiato il piano di Hezbollah volto a invadere la Galilea, Hezbollah potrebbe beneficiare del successo mediatico che sta avendo Hamas in occidente per distrarre gli occhi occidentali dal Libano e cominciare la sua ricostruzione proprio da Beirut.
Il governo libanese non può contare solo sulle promesse americane o sulle minacce israeliane per impedire a Hezbollah di trasformare nuovamente il Libano in una provincia iraniana, serve tutta la comunità internazionale per sventare una più che probabile guerra civile che vincerebbe il gruppo terrorista sciita.
Il Libano ha bisogno di ogni aiuto possibile e i leader mondiali (arabi compresi) invece di star dietro ad un improbabile “stato palestinese” dovrebbero far sentire il proprio peso aiutando il Libano a liberarsi di Hezbollah. O lo farà Israele, e non sarà indolore.
(Rights Reporter, 23 agosto 2025)
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Pisa: il collettore di Hamas sanzionato da USA in prima fila assieme alle Forze dell’Ordine
di Giovanni Giacalone
Il 20 agosto si sono svolti a Pontasserchio, comune di San Giuliano Terme, nel pisano, i funerali di Marah Abu Zhuri, la ventenne palestinese arrivata da Gaza due giorni prima per ricevere cure mediche.
Come riportato da Ansa, la cerimonia funebre è stata voluta dal sindaco di San Giuliano, Matteo Cecchelli (Partito democratico), che ha offerto un posto in uno dei cimiteri del paese per far riposare per sempre le spoglie della ragazza.
La narrativa di molti di coloro che hanno preso parola è ovviamente stata quella del “genocidio” e della “carestia” causati da Israele nei confronti della popolazione di Gaza. Secondo tale narrazione, la ragazzina non sarebbe morta di malattia, ma per colpa del governo di Gerusalemme, come affermato proprio da Cecchelli:
“La morte di Marah non è un’eccezione, come si è provato a far credere attaccando i nostri bravi medici. La sua morte è la conseguenza del genocidio del popolo palestinese portato avanti dal governo israeliano. A Gaza si muore ogni giorno nel silenzio assordante dei governi mondiali. Noi abbiamo deciso di fare rumore di fronte a una catastrofe umanitaria e politica di questa portata“.
Immancabile l’intervento dell’ex presidente UCOII e imam di Firenze, il palestinese Izzedin Elzir: “Non siamo antisemiti. Siamo contro l’occupazione illegale di Gaza da parte del governo di Israele e chiediamo che non siano più fornite armi a Tel Aviv. Si faccia valere il diritto internazionale e si fermi Israele, perché non può fare quello che vuole e dove vuole“.
A fare da grancassa a tali dichiarazioni, l’emittente televisiva qatariota al-Jazeera, braccio mediatico di Hamas, fatta accorrere sul posto per l’occasione. Non a caso i leader dell’organizzazione terrorista palestinese sono da anni residenti proprio a Doha da dove tirano le fila.
Da parte del sindaco e dei rappresentanti palestinesi però nessuna parola sugli ostaggi trattenuti da Hamas o sull’eccidio del 7 ottobre.
Tra i presenti e in prima fila c’era invece chi a suo tempo ha definito il massacro perpetrato da Hamas come “legittima difesa” e ha più volte elogiato terroristi come Yahya Ayyash, Saleh el-Arouri, ovvero il leader dell’Associazione Palestinesi in Italia, Mohammad Hannoun. Il soggetto in questione, già fotografato a suo tempo con i leader di Hamas Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, è stato sanzionato per ben due volte in otto mesi dal Dipartimento del Tesoro statunitense (ottobre 2024 e giugno 2025, assieme alle associazioni “ABSPP” e “Cupola d’Oro”) con l’accusa di essere “uomo di Hamas in Italia “e “collettore di denaro per l’organizzazione”. Secondo informazioni recenti, il conto di una delle associazioni legate a Hannoun presso Poste Italiane e sanzionate dagli USA risulta ancora aperto. Come mai?
La scorsa settimana, durante una manifestazione a Milano, Hannoun ha tra l’altro accusato il Dipartimento del Tesoro statunitense di “menzogne” nei propri confronti. Evidentemente in Italia si sente protetto e continua ad agire indisturbato.
Il 9 novembre 2024, durante una manifestazione sempre a Milano, Hannoun, aveva applaudito e promosso le violenze nei confronti dei tifosi israeliani ad Amsterdam, dopo la partita tra Ajax e Maccabi Tel Aviv: “Per cominciare mandiamo un applauso ai giovani di Amsterdam. Un applauso a tutti i giovani, ragazzi e ragazze, che hanno dato una lezione”. Queste le sue parole. Pochi giorni dopo erano arrivati dei provvedimenti nei suoi confronti da parte della Polizia di Stato, ovvero una denuncia per istigazione a delinquere e un foglio di via da Milano, ma di soli 6 mesi, il minimo possibile.
Va inoltre evidenziato che in prima fila al funerale, a pochi metri da Mohammad Hannoun e dal suo compagno di battaglia, Suleiman Hijazi (già noto alle cronache per dei post pro Hamas), erano presenti alti ufficiali delle Forze dell’Ordine; aspetto che non è certo passato inosservato.
Qualcuno potrebbe giustamente ricordare che la ragazzina deceduta era in Italia su attività umanitaria del governo italiano ed è per quello che erano presenti le Forze dell’Ordine. Ammesso e concesso che questo sia il motivo, è normale che questi ultimi si trovino a dover presenziare e condividere la prima fila con un personaggio sanzionato per ben due volte dal governo degli Stati Uniti, plurisegnalato dalle autorità israeliane e indicato anche in un recente report su Hamas in Europa pubblicato dalla European Leadership Network?
In questo modo si rischia, anche solo involontariamente, di legittimare sul piano rappresentativo il soggetto in questione, e questo è un problema. Le autorità competenti non hanno forse effettuato le dovute verifiche precedenti all’evento? Chi ha organizzato il tutto?
Vedere alti gradi delle FFOO italiane a pochi metri da un personaggio sanzionato dagli Stati Uniti, in prima fila, è quanto meno imbarazzante e non fa certo bene ai rapporti tra Roma e Washington. Altro grave aspetto riguarda l’utilizzo del funerale di una ragazzina per fare da gran cassa alla narrativa di al-Jazeera, di Hamas e con tanto di sindaco con fascia tricolore.
(L'informale, 22 agosto 2025)
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Minacce a Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone, Giulia Sorrentino e Andrea Pasini: la solidarietà della Comunità
Il Tempo e Libero Quotidiano sono finiti nel mirino degli anarchici, con minacce di morte all’indirizzo di Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone e Andrea Pasini. Nella redazione de Il Tempo è arrivata una lettera in cui, tra le altre cose, si legge: “Servi del potere morirete“. La missiva riporta come firma la classica “A” cerchiata degli anarchici.
A denunciare l’accaduto è il quotidiano Il Tempo, che ha reso noto che nella giornata di giovedì 21 agosto è giunta in redazione una lettera firmata con la caratteristica “A” cerchiata degli anarchici, contenente minacce di morte all’editore Giampaolo Angelucci, al vicepresidente Andrea Pasini, al direttore Tommaso Cerno e al direttore editoriale di Libero Quotidiano Daniele Capezzone.
Immediatamente è scattata la denuncia ai carabinieri, che hanno già avviato i rilievi del caso.
Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano ha voluto esprimere solidarietà e appoggio ai giornalisti minacciati: “L’intera comunità ebraica milanese offre solidarietà incondizionata a Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone, Andrea Pasini e Giulia Sorrentino per essere stati minacciati solo per avere fatto il loro lavoro. L’intolleranza sta raggiungendo livelli di allerta preoccupanti”, – ha scritto in un comunicato. – “È inquietante il fatto che oggi denunciare l’illegalità e certe connivenze sia pericoloso. Tutto questo è sintomo di un clima di intolleranza che sta raggiungendo livelli di allerta preoccupanti. Cari Tommaso, Giampaolo, Daniele, Andrea e Giulia… sono certo che andrete avanti così, e sicuramente con ancora maggiore determinazione di prima, per il bene del Paese. Sappiate che avete il sostegno non solo della comunità ebraica, ma della stragrande maggioranza degli italiani che sono un popolo ragionevole e che odia gli estremismi che stiamo vivendo di questi tempi. Avanti così, avanti tutta!”.
Sulla vicenda è intervenuto anche Davide Romano, direttore del museo della Brigata ebraica: “Solidarietà incondizionata a Cerno, Angelucci, Capezzone e Pasini vittime di una intolleranza che colpisce anche il mondo ebraico. Chi attacca la libertà di stampa e di religione ferisce la costituzione antifascista e per questo non esito a definirlo “fascista”. Rivolgo una appello agli “stati generali della tolleranza” perché come diceva Camilleri: “le parole sono pietre e possono trasformarsi in pallottole”
“Esprimo solidarietà incondizionata a Tommaso Cerno, Giampaolo Angelucci, Daniele Capezzone e Andrea Pasini per le minacce ricevute, sintomo di un clima di intolleranza che dal 7 ottobre 2023 opprime sempre di più anche la comunità ebraica in generale, per non parlare di diversi suoi esponenti che debbono girare con la scorta: dalla senatrice Liliana Segre ad altri che preferisco non citare per non esporli ancora di più. Urge una riflessione da parte di operatori dei media, della cultura e della politica su un fatto tragico: chi oggi ha certe idee o una identità religiosa ebraica o anche nazionale israeliana corre dei pericoli sempre più concreti. La libertà di pensiero e di religione è un caposaldo della Costituzione antifascista. Per questo non esito a definire “fascista” chi attacca quei principi conquistati dai partigiani e dagli Alleati, Brigata ebraica inclusa. Faccio dunque un appello agli “Stati Generali della tolleranza”, che coinvolgano la politica, i media e il mondo universitario al fine di studiare cosa sta succedendo alla nostra società e trovare come depotenziare le fonti dell’odio online e offline. Perché come diceva Andrea Camilleri: “Le parole sono pietre, le parole possono trasformarsi in pallottole, bisogna pesare ogni parola che si dice e far cessare questo vento dell’odio”.
(Bet Magazine Mosaico, 22 agosto 2025)
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Cirielli difende Il Tempo: "Inaccettabile intimidire chi smaschera legami con Hamas"
"È inaccettabile che giornalisti che svolgono il proprio lavoro con serietà e rigore vengano intimiditi da ambienti estremisti, talvolta legati all'area anarchica o a frange ideologicamente radicalizzate. Ogni attacco alla libera informazione è un attacco ai valori costituzionali e democratici della nostra Repubblica. Le istituzioni hanno il dovere di intervenire con fermezza contro ogni forma di minaccia o pressione violenta". Lo ha dichiarato il vice ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Edmondo Cirielli.
"L'inchiesta del Tempo che ha sollevato interrogativi su presunti legami tra esponenti di partiti della sinistra italiana e attivisti filo-palestinesi vicini a soggetti sanzionati a livello internazionale - come Mohammad Hannoun, segnalato dagli Stati Uniti per il suo sostegno a Hamas - rappresenta un importante esempio di giornalismo d'inchiesta. Un lavoro che contribuisce a fare luce su dinamiche che non possono essere sottovalutate, soprattutto in un momento in cui si registra un preoccupante aumento di episodi di antisemitismo e di sostegno, anche indiretto, a organizzazioni terroristiche", ha aggiunto Cirielli. "Non possono inoltre essere ignorate le dichiarazioni, gravi e fuorvianti, della Relatrice ONU Francesca Albanese, secondo la quale Hamas sarebbe un semplice partito politico. Ricordo che Hamas è riconosciuto come organizzazione terroristica da gran parte della comunità internazionale e che la sua Carta fondativa ne dichiara esplicitamente l'obiettivo di distruggere lo Stato di Israele e sterminare il popolo ebraico", ha precisato il vice ministro. "È necessario riaffermare una ferma condanna contro ogni forma di estremismo e contro chi, direttamente o indirettamente, ne diventa complice. Va difesa con decisione la libertà di stampa, la sicurezza dei cittadini e i valori fondamentali della democrazia. All'editore Giampaolo Angelucci, al direttore del Tempo Tommaso Cerno e alla giornalista Giulia Sorrentino, esprimo la mia più profonda solidarietà con l'auspicio che questi codardi vengano perseguiti con estrema severità", ha concluso Cirielli.
(Il Tempo, 22 agosto 2025)
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Lo scriba in vetrina
La scrittura di un rotolo della Torah è un’operazione che si svolge in genere in ambienti privati e silenziosi. Anche per garantire al sofer, lo scriba, tutta la concentrazione necessaria per non fare errori e invalidare così la sua opera. A Dresda la scelta della comunità ebraica di ispirazione chassidica e liberale è stata diversa. Per i prossimi 18 mesi, la realizzazione di una Torah avverrà sotto gli occhi di tutti i passanti in un box collocato davanti all’ingresso del museo della città, in collaborazione con le autorità locali. «Invitiamo tutti a guardare, domandare e imparare», ha affermato il rabbino Akiva Weingarten, che ha scritto le prime lettere del rotolo insieme al sofer Yehoshua Diaz. L’iniziativa ha ricevuto il plauso tra gli altri di Dave Panetti, viceconsole statunitense a Lipsia, che ha descritto quest’operazione «come un forte segno di dialogo, che mostra al pubblico come un’antica tradizione possa combinarsi con la modernità, favorendo la reciproca comprensione».
(moked, 22 agosto 2025)
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Non è possibile evitare di entrare a Gaza City
Israele come gli Alleati a Berlino nel 1945 per liberare la Striscia di Gaza dai nazi-terroristi di Hamas: se ci si ritira ora, la guerra è stata inutile
di Andrea B. Nardi
È come se agli Alleati avessimo detto: «Beh, siete sbarcati, ora basta, fermatevi sulle spiagge della Normandia». Oggi i nazisti sono i terroristi di Hamas, sono asserragliati a Gaza City, sono ancora tanti e sono ben armati. Non è possibile evitare di entrare a Gaza City. Occorre smantellare completamente la loro roccaforte, altrimenti tutta questa guerra sarebbe inevitabilmente persa. Hamas ripartirebbe dalla città, dai suoi labirintici chilometri di tunnel che distano solo duemila metri dal confine israeliano, e ricomincerebbe a uccidere civili israeliani come ha fatto ininterrottamente negli ultimi vent’anni, ossia da quando Israele cedette alle solite pressioni internazionali e commise l’errore di lasciare la Striscia all’Anp e ad Hamas.
• Hamas asserragliata e in ritirata come i nazisti
Solo nelle ultime ore, nell’area di Khan Younis, a sud di Gaza City, più di quindici terroristi si sono infiltrati in una fortificazione appartenente al Battaglione Nachshon della Brigata Kfir e hanno effettuato un attacco combinato con mitragliatrici e missili anticarro RPG per tentare di rapire soldati israeliani. La guerra è ancora in pieno svolgimento: non è possibile interromperla ora, pena la sconfitta di Israele. Certo, tutto questo costerà altra sofferenza: a Israele, per un ulteriore, pericoloso impegno dei propri soldati; e ai civili gazawi, vittime di una guerra cui li ha portati Hamas. Anche nella Seconda guerra mondiale le fasi più cruente e sanguinose furono alla fine, con i nazisti asserragliati e in ritirata. Nessuno ha mai pensato di addebitare agli Alleati quella coda di sangue e sofferenza. E infatti il governo Netanyahu non ha preso questa decisione alla leggera, nessun governo lo farebbe, ma l’opposizione protesta chiedendo di non entrare nella città.
• Le finte proposte sugli ostaggi
La soluzione proposta dall’opposizione interna e internazionale sarebbe questa: arrendersi ad Hamas, lasciare che si riarmi e si riorganizzi, lasciare che riprenda gli attacchi contro Israele, e sperare così che i terroristi rilascino gli ostaggi, cosa che non hanno fatto in due anni. Un proponimento che non può che palesarsi come irrealistico, per usare un eufemismo. Demenziale sarebbe più appropriato come aggettivo. Netanyahu è stato sempre molto chiaro: se Hamas vuole interrompere la guerra, Israele la interrompe immediatamente, a patto che siano rilasciati subito tutti gli ostaggi, e siano deposte le armi. Però Hamas non l’ha mai fatto e si guarda bene dal farlo. Le finte proposte dei maggiorenti dell’organizzazione, che ingrassano negli hotel a cinque stelle di Doha, in Qatar, sono sempre le stesse: rilasciare alcuni pochi ostaggi israeliani, già morti, in cambio di centinaia di terroristi arabi prigionieri, e continuare a combattere mentre all’Idf si chiede il cessate il fuoco. È un tranello che va avanti da due anni. Ora basta.
• Gaza City come Berlino nel ’45
Strategicamente, politicamente, eticamente bisogna liberare Gaza City, e per farlo bisogna purtroppo entrarci dentro, strada per strada, quartiere per quartiere, come a Berlino dal 16 aprile al 2 maggio 1945, dacché – proprio come allora – si tratta di una vera guerra, e i nemici in armi sono migliaia, irreggimentati, addestrati, spietati, sanguinari, pure se non indossano uniformi ma vigliaccamente si nascondono fra i civili. Sbaglia Travaglio a dichiarare «è come se per catturare Provenzano avessimo bombardato la Sicilia». E no! Provenzano era un individuo solo, e la mafia non ha mai aggredito militarmente per vent’anni la Penisola compiendo stragi di migliaia di italiani innocenti. Se lo avesse fatto, stia pur sicuro Travaglio che anche la Sicilia sarebbe stata invasa dall’Esercito italiano.
Kissinger scrisse che non esiste nulla di più sbagliato che iniziare una guerra che non si abbia intenzione di portare a termine. Se ci si ritira ora da Gaza, la guerra è stata inutile. L’obiettivo quindi deve essere distruggere Hamas, esautorare l’Anp, rimuovere il monopolio delle agenzie Onu complici e liberare la popolazione araba da questo giogo corrotto e criminale. Dopodiché, visto che l’Egitto non ci pensa proprio a riannettere la Striscia con i suoi “fratelli” arabi, si instaurerà un governo multinazionale arabo che garantisca la sicurezza di Israele, il benessere dei gazawi e che proceda alla ricostruzione di un territorio che potrebbe davvero diventare una Miami Beach del Mediterraneo.
(Il Riformista, 22 agosto 2025)
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Dissidenti palestinesi contro il totalitarismo palestinista
di Davide Cavaliere
Un giorno, nel tempo che verrà, quando la «questione palestinese» avrà trovato la sua risoluzione – ossia quando i «palestinesi» avranno accettato senza riserve né risentimento la legittimità e la presenza di Israele – forse saranno tre i palestinesi celebrati come «eroi nazionali»: Bassem Eid, Mossab Hassan Yousef e Sandra Solomon.
Bassem Eid è nato a Gerusalemme Est al tempo dell’occupazione giordana ed è cresciuto nel campo profughi di Shuafat. Attivista per i diritti umani, da decenni è uno dei critici più feroci di Hamas e dell’Autorità Palestinese, denunciandone abusi e corruzione.
Mossab Hassan Yousef è invece nato a Ramallah, figlio maggiore di Sheikh Hassan Yousef, uno dei fondatori e leader più prominenti di Hamas in «Cisgiordania». Arrestato da Israele a 18 anni, durante la detenzione rimase disgustato dai metodi brutali e dalla corruzione all’interno dell’organizzazione di suo padre. Questo lo portò a diventare una talpa per il servizio di sicurezza interno israeliano, lo Shin Bet, per circa un decennio, durante la Seconda Intifada, contribuendo a sventare numerosi attentati suicidi.
Sandra Solomon (al secolo Sandra Sabih), anche lei nata a Ramallah, nipote di Zakaria Habash, uno dei terroristi che guidarono la Seconda Intifada. Ha raccontato di essere cresciuta in una cultura che glorificava il terrorismo e incitava all’odio nei confronti degli ebrei. Oggi ha abbandonato l’Islam e condanna fortemente la «causa palestinese» come veicolo del jihad globale.
Queste tre personalità, veri e propri «dissidenti» del totalitarismo islamico, non hanno solo condannato Hamas e le altre organizzazioni jihadiste, ma hanno denunciato e deplorato il fanatismo religioso, la cultura del vittimismo e dell’odio, nonché l’antisemitismo profondamente radicato nella società «palestinese». Inoltre, rifiutano il «diritto al ritorno» e reputano la «causa palestinese» come negativa in sé, generatrice di violenza e intolleranza. Tutti e tre si sono detti contrari alla creazione di uno «Stato di Palestina» nelle attuali circostanze e in futuro, sostenendo che i palestinesi avrebbero più diritti, più libertà e una vita più prospera come cittadini di Israele che sotto un governo di Hamas o dell’AP.
Le loro voci sfidano la narrazione dominante sulla presunta «occupazione» israeliana e gettano una luce sinistra sulla matrice religiosa del conflitto, come sulla società «palestinese» nel suo complesso, che soprattutto nella testimonianza della Solomon emerge in tutta la sua ignobiltà: «Ci hanno insegnato che Israele deve essere spazzato via, che gli ebrei non hanno il diritto di esistere».
Bassem Eid, Mossab Hassan Yousef e Sandra Solomon sono le figure pubbliche a cui andrebbe affidata la gestione di Gaza dopo Hamas. Tali «dissidenti» sono la migliore garanzia per un futuro pacifico e stabile, perché conoscono dall’interno i meccanismi della «società della paura palestinese» e sanno come contrastarli efficacemente.
La loro emarginazione attuale all’interno della società palestinese ricorda da vicino quella dei dissidenti sovietici come Natan Sharansky, che negli anni ’70 e ’80 venivano isolati, incarcerati e diffamati dal regime che sfidavano, mentre all’Ovest erano celebrati come eroi e profeti di un futuro più libero. Allora, il sostegno fermo e inequivocabile dell’Occidente a quelle voci solitarie non fu un atto di interferenza, ma un investimento morale e strategico sulla verità e sulla libertà, che contribuì in modo decisivo al crollo dell’Impero del Male.
Oggi, sostenere i dissidenti palestinesi che lottano contro il totalitarismo islamico e la corruzione significa schierarsi dalla parte di coloro che, pagando un prezzo personale enorme, hanno riconosciuto la responsabilità univoca dei loro connazionali nella perpetuazione del conflitto. Onorare il loro coraggio è il primo, necessario passo per applicare la lezione della storia e non abbandonare coloro che, in minoranza, combattono la battaglia più importante: quella per le coscienze del loro stesso popolo.
(L'informale, 22 agosto 2025)
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Turisti israeliani aggrediti in un parco vacanze olandese
Il Ministero degli Esteri di Gerusalemme ha esortato il governo olandese “ad agire con determinazione per impedire attacchi contro gli israeliani nel suo territorio”.
Giovedì due turisti israeliani sono stati aggrediti violentemente al Center Parcs De Kempervennen nella provincia del Brabante Settentrionale, nei Paesi Bassi, e hanno dovuto ricorrere alle cure ospedaliere.
La notizia iniziale riportata dal media ebraico olandese Jonet è stata verificata per JNS dal Centro per l'informazione e la documentazione su Israele (CIDI), l'organismo di controllo olandese che monitora l'antisemitismo, il quale ha affermato di aver ottenuto la conferma della violenza ai danni di due israeliani nel parco.
Secondo quanto riportato dai media olandesi, i visitatori sono stati aggrediti da residenti locali all'interno del parco vacanze. Entrambi sono stati evacuati con ferite e ricoverati in un ospedale di Eindhoven.
Il ministero degli Esteri israeliano ha pubblicato su X che sta “monitorando e gestendo questo attacco attraverso l'ambasciata israeliana all'Aia”, invitando il governo olandese “ad agire con determinazione per prevenire attacchi contro gli israeliani nel suo territorio, individuare i criminali e assicurarli alla giustizia”.
L'attacco ha sollevato preoccupazioni per campagne coordinate di molestie contro gli israeliani nel Paese.
Mercoledì, il parco vacanze Center Parcs de Eemhof a Zeewolde, una città situata a circa 30 miglia a est di Amsterdam, ha riconosciuto che gli israeliani che soggiornavano lì erano stati filmati di nascosto da attivisti anti-israeliani che hanno pubblicato i video online con inviti a prendere di mira gli israeliani e a segnalarne la posizione.
Un portavoce del parco ha dichiarato all'emittente Omroep Flevoland che la direzione era “scioccata” dai video, che sono stati diffusi sui social media di almeno cinque gruppi anti-israeliani, tra cui la sezione di Amsterdam di Students for Justice in Palestine, secondo quanto riportato.
L'incidente è l'ultimo di una serie inquietante di episodi di violenza antisemita e anti-israeliana in tutta l'Europa dopo il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023. Le comunità ebraiche da Londra a Parigi a Berlino hanno segnalato livelli record di molestie, atti vandalici e aggressioni fisiche, con gruppi di controllo che avvertono che l'attivismo anti-israeliano sta sempre più confondendosi con l'odio aperto verso gli ebrei.
“La violenza contro i turisti israeliani è inaccettabile e sintomatica di un clima in cui l'odio verso Israele si trasforma troppo facilmente in odio verso gli ebrei”, ha affermato il CIDI. “Le autorità devono agire con decisione per garantire che sia gli ebrei olandesi che i visitatori israeliani possano vivere e viaggiare qui in sicurezza”.
(JNS, 22 agosto 2025)
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Quando il matchmaking diventa globale: 10.000 ebrei si danno appuntamento il 25 agosto
di Michelle Zarfati
Lunedì 25 agosto, 10.000 giovani ebrei di oltre trenta Paesi si connetteranno simultaneamente per prendere parte al più grande evento di speed-dating ebraico mai realizzato. Si tratta di The Met\@Chabad Largest Global Dating Event ed è molto più di un esperimento sociale: è la punta di diamante di una rete globale di matchmaking guidata da oltre mille rabbini e rebbetzin Chabad, sostenuta da un algoritmo sviluppato in collaborazione con ricercatori di Yale e con la tecnologia del quartier generale Chabad.
In un’epoca segnata dalla “swipe fatigue” delle app di incontri, l’iniziativa propone un’alternativa radicale: incontri online, selezionati e radicati nei valori ebraici, con partecipanti verificati e presentati dai leader locali delle comunità ebraiche. “Non ci sono bot, non ci sono ghosting: solo persone reali che cercano relazioni autentiche” spiegano gli organizzatori.
La data non è casuale. Dopo l’attacco del 7 ottobre e la guerra che ne è seguita, molti giovani ebrei hanno espresso un nuovo bisogno di costruire case e famiglie ebraiche solide. “I ragazzi ci ripetono la stessa frase: voglio qualcuno che condivida i miei valori” ha raccontato il rabbino Mendy Kotlarsky, presidente di Chabad Young Professionals International. “Questa iniziativa dà voce a quella ricerca”.
L’evento avverrà a Rosh Chodesh Elul, il primo giorno del mese ebraico che precede le festività solenni, ovvero Rosh Hashanà (il Capodanno Ebraico), Kippur e Sukkot. Non solo un’occasione romantica, ma anche un richiamo spirituale, ispirato al versetto tradizionale: “Io sono del mio amato e il mio amato è per me”. Ogni partecipante prenderà parte a una serie di mini-incontri virtuali di 9 minuti, selezionati dall’algoritmo e seguiti dai rabbini locali. Una vera rivoluzione del matchmaking, con il vecchio shtetl che incontra l’intelligenza artificiale: shidduchim tradizionali che, con strumenti del XXI secolo, aiutano a realizzare il sogno più antico — trovare l’anima gemella e costruire una casa ebraica.
(Shalom, 22 agosto 2025)
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Le forze armate israeliane controllano oltre il 75% della Striscia di Gaza prima dell'operazione nella città di Gaza
Dalla ripresa delle operazioni il 18 marzo, l'IDF ha ucciso 2.000 terroristi e attaccato 10.000 obiettivi terroristici - Netanyahu ordina un'accelerazione dei tempi “per conquistare gli ultimi bastioni del terrorismo e sconfiggere Hamas”.
di Joshua Marks
Secondo quanto riferito dall'esercito, mercoledì le forze armate israeliane hanno preso il controllo di oltre tre quarti della Striscia di Gaza e hanno ucciso 2.000 terroristi dalla ripresa delle operazioni di terra circa cinque mesi fa.
Altri successi ottenuti dal 18 marzo includono attacchi contro 10.000 obiettivi terroristici; lo smantellamento delle infrastrutture di Hamas, dei depositi di armi e delle reti sotterranee; nonché la creazione dei corridoi Morag e Magen Oz: il primo separa le brigate di Hamas a Rafah e Khan Yunis, il secondo divide la brigata di Khan Yunis da est a ovest.
Centinaia di aerei da combattimento e altri velivoli dell'aeronautica militare, nonché la marina israeliana, hanno partecipato agli attacchi contro obiettivi di Hamas, tra cui alti comandanti e terroristi coinvolti nell'invasione del sud di Israele del 7 ottobre 2023, che ha scatenato la guerra.
Secondo l'IDF, il colpo più significativo è stato l'operazione del 13 maggio nella zona di Khan Yunis, nel sud di Gaza, che ha portato all'uccisione di Mohammed Sinwar, capo dell'ala militare dell'organizzazione terroristica, Mohammad Sabaneh, comandante della brigata Rafah di Hamas, e Mahdi Quara, comandante del battaglione sud di Khan Yunis di Hamas.
Cinque divisioni dell'IDF, che operano contemporaneamente lungo tutta la fascia costiera, hanno distrutto tunnel terroristici, eliminato cellule terroristiche e neutralizzato roccaforti di Hamas sia in superficie che sottoterra, secondo quanto riferito dall'esercito.
Secondo l'IDF, l'espansione territoriale ottenuta durante l'operazione “Gideon's Chariots” sotto il comando sud ha aumentato la pressione su Hamas, creando nuove opportunità per colpire le sue capacità residue e minare la sua catena di comando, oltre a preparare il terreno per le prossime fasi dell'operazione.
Le truppe dell'IDF sono entrate per la prima volta nella Striscia di Gaza il 27 ottobre 2023, 20 giorni dopo il massacro perpetrato da Hamas nel sud di Israele il 7 ottobre.
Mercoledì il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha approvato la mobilitazione di 60.000 riservisti e ha prorogato il servizio militare obbligatorio per altri 20.000, dopo aver approvato un piano dell'IDF per la conquista della città di Gaza. I riservisti saranno mobilitati per sostituire i soldati in servizio attivo in altri settori del Paese, in modo che questi ultimi possano essere liberati per l'offensiva contro uno degli ultimi bastioni di Hamas nella Striscia. L'operazione potrebbe iniziare all'inizio di settembre.
In una dichiarazione rilasciata mercoledì, l'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato: "Prima di approvare i piani per la manovra a Gaza City, il primo ministro Netanyahu ha ordinato di accelerare i tempi per la conquista degli ultimi bastioni terroristici e per la sconfitta di Hamas.
Il primo ministro esprime il suo profondo apprezzamento per i riservisti chiamati alle armi e le loro famiglie, nonché per tutti i soldati dell'IDF. Insieme vinceremo".
Il portavoce dell'IDF, il generale di brigata Effie Defrin, ha dichiarato mercoledì in una conferenza stampa che sono già in corso misure preparatorie alla periferia di Gaza City, tra cui nelle zone di Zeitoun e Jabalia.
Defrin ha sottolineato che negli ultimi giorni le truppe hanno scoperto un tunnel nella città di Gaza che conteneva armi e ha sottolineato che nei prossimi giorni altri soldati parteciperanno all'operazione.
Ha inoltre descritto gli sforzi umanitari per proteggere la popolazione civile a Gaza, tra cui l'espansione dell'area umanitaria nel sud di Gaza sotto la guida del COGAT in vista dell'atteso afflusso di civili.
“Sono in fase di allestimento ulteriori centri di distribuzione degli aiuti umanitari. Questo approccio romperà la dipendenza della popolazione da Hamas”, ha affermato Defrin in merito alla distribuzione degli aiuti umanitari.
Prima che le truppe entrino nella città di Gaza, circa 800.000-1 milione di abitanti saranno evacuati a sud, nella zona di al-Mawasi, vicino a Rafah. Lì saranno allestiti altri due ospedali da campo e quattro centri di distribuzione degli aiuti della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), portando il numero totale delle sedi della GHF a otto, secondo quanto riportato dal canale israeliano Channel 12. L'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, ha recentemente affermato che il piano prevede un'estensione a 16 sedi della GHF.
Il portavoce ha inoltre riferito di un grave incidente avvenuto mercoledì mattina a sud di Khan Yunis, dove le truppe della brigata Kfir hanno sventato un attacco terroristico contro un posto di blocco della brigata.
Più di 15 terroristi sono usciti da un tunnel e hanno aperto il fuoco sui soldati, anche con lanciagranate. Le forze israeliane hanno ucciso nove dei terroristi e ferito molti altri. Nello stesso incidente, i terroristi sono riusciti a penetrare in un edificio dove si trovavano dei soldati. I terroristi sono stati eliminati. L'IDF sta indagando su come siano riusciti a entrare nella struttura e trarrà le necessarie conclusioni, ha affermato Defrin.
Un soldato è rimasto gravemente ferito nello scontro, ha detto il portavoce.
In totale, dall'inizio della guerra sono caduti 898 soldati su tutti i fronti.
Defrin ha inoltre sottolineato che in quasi due anni di guerra Hamas si è trasformata da organizzazione terroristica militare a “organizzazione guerrigliera distrutta e demoralizzata” e che l'operazione a Gaza City continuerà a indebolire le capacità del gruppo terroristico.
“Continueremo a colpire duramente Hamas a Gaza City, roccaforte del terrore governativo e militare dell'organizzazione terroristica”, ha affermato Defrin. “Continueremo a distruggere le infrastrutture terroristiche sopra e sotto terra e a spezzare la dipendenza della popolazione da Hamas”.
(Israel Heute, 21 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Israele accoglie 225 nuovi Olim: record di Aliyah nonostante la guerra
di Michelle Zarfati
Atterraggio emozionante all’aeroporto Ben Gurion: 225 nuovi Olim provenienti dal Nord America sono arrivati in Israele a bordo del 65° volo speciale organizzato da Nefesh B’Nefesh, in collaborazione con il Ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione, l’Agenzia Ebraica per Israele, Keren Kayemeth LeIsrael e la JNF-USA. Il volo segna non solo la ripresa dei charter dopo l’inizio della guerra, ma contribuisce ad un agosto da record: oltre mille nuovi arrivi in Israele, la cifra mensile più alta degli ultimi vent’anni. Dal 7 ottobre 2023 a oggi, più di 7.000 nordamericani hanno fatto Aliyah, un dato che testimonia una straordinaria resilienza e un rinnovato impegno verso il sogno sionista.
Tra i passeggeri, 45 famiglie con 125 bambini, dieci single e tre pensionati. Il più giovane ha appena nove mesi, mentre il più anziano ha 72 anni. A bordo anche cinque medici e 19 operatori sanitari, pronti a entrare nel sistema sanitario israeliano. Oltre trenta degli Olim hanno aderito al programma “Go Beyond”, nato per il rafforzamento delle comunità a Gerusalemme.
“È emozionante vedere così tante persone scegliere Israele proprio adesso” ha commentato il ministro dell’Aliyah e dell’Integrazione, Ofir Sofer, sottolineando il lavoro congiunto delle istituzioni per favorire l’integrazione dei nuovi olim per quanto concerne lavoro, casa e lingua ebraica.
Per Tony Gelbart, co-fondatore di Nefesh B’Nefesh, “questo non è solo un viaggio simbolico, ma un investimento concreto nel futuro di Israele”. Un’iniziativa innovativa ha reso il volo ancora più speciale: per la prima volta, i nuovi cittadini hanno ricevuto la Teudat Zehut (carta d’identità israeliana) e il certificato d’immigrazione direttamente a bordo, completando l’iter burocratico prima ancora di atterrare nello Stato ebraico.
Gli Olim provengono da vari stati americani e canadesi – tra cui New Jersey, New York, Florida, Ontario e Illinois – e si stabiliranno a Gerusalemme, Tel Aviv, Beer Sheva, Haifa, Modi’in. Le loro competenze spaziano dalla medicina all’ingegneria, dal diritto alla finanza, offrendo un contributo significativo allo sviluppo del Paese. Il presidente dell’Agenzia Ebraica, Doron Almog, ha definito la scelta degli Olim “una potente dichiarazione di appartenenza”, mentre la presidente del KKL, Ifat Ovadia Luski, ha sottolineato come ogni nuovo arrivo sia “un’espressione di fiducia nella resilienza della società israeliana”.
(Shalom, 21 agosto 2025)
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Iran: «abbiamo creato nuovi e più potenti missili da usare contro Israele»
di Sadira Efseryan
Mercoledì l’Iran ha ammonito Israele di essere pronto a rispondere a qualsiasi nuovo attacco, annunciando di aver sviluppato missili con capacità superiori a quelli utilizzati durante la recente guerra.
“I missili utilizzati nella guerra dei 12 giorni sono stati fabbricati… alcuni anni fa”, ha dichiarato il ministro della Difesa Aziz Nassirzadeh, citato dall’agenzia di stampa ufficiale IRNA.
“Oggi abbiamo fabbricato e possediamo missili con capacità di gran lunga superiori a quelle dei missili precedenti e, se il nemico sionista si imbarcherà nuovamente in questa avventura, li useremo senza esitazione”.
Le dichiarazioni di Nassirzadeh sono giunte dopo che domenica un alto funzionario del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche aveva affermato che una nuova guerra con Israele o gli Stati Uniti potrebbe scoppiare in qualsiasi momento.
“Non siamo in una fase di cessate il fuoco, siamo in guerra”, ha dichiarato ai media iraniani Yahya Rahim Safavi, alto consigliere militare della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei. “Penso che potrebbe scoppiare un’altra guerra e che dopo di essa non ce ne saranno più”.
Nassirzadeh ha parlato mercoledì con i media iraniani a margine di un incontro con il personale militare alleato, in visita nella Repubblica Islamica in vista della Giornata dell’Industria della Difesa Nazionale del Paese, il 22 agosto.
Secondo l’agenzia di stampa semi-ufficiale Mehr News Agency, Nassirzadeh ha parlato a lungo del “successo” dell’Iran durante la guerra dei 12 giorni con Israele, iniziata il 13 giugno con un attacco a sorpresa israeliano contro le capacità nucleari e militari di Teheran.
Ha affermato che Israele non si aspettava che l’Iran fosse in grado di lanciare un contrattacco così “ampio e preciso” come quello che ha fatto, sostenendo che il 90% di tutti i missili balistici ha raggiunto gli obiettivi previsti.
“A differenza del codardo regime sionista, che ha preso di mira comandanti militari, scienziati, donne e bambini innocenti, infrastrutture civili e centri industriali, abitazioni, centri medici, forze di soccorso, prigioni e media nazionali, la Repubblica Islamica dell’Iran ha scelto deliberatamente i suoi obiettivi missilistici”, ha proclamato.
Contrariamente a quanto affermato da Nassirzadeh, i potenti missili balistici iraniani non solo hanno preso di mira basi militari e centri di ricerca, ma hanno anche danneggiato 2.305 abitazioni in 240 edifici, oltre a due università e un ospedale.
Secondo i funzionari sanitari e gli ospedali, gli attacchi hanno ucciso 31 persone e ne hanno ferito oltre 3.000 in Israele.
Nassirzadeh ha affermato che l’Iran non solo ha ottenuto la vittoria su Israele, ma anche sugli Stati Uniti – che si sono uniti a Israele nell’attacco alle strutture nucleari iraniane – e su tutti i paesi che hanno offerto assistenza nella difesa contro gli attacchi missilistici balistici.
“Dall’altra parte c’era la Repubblica Islamica dell’Iran che, dopo oltre 40 anni di sanzioni, ha fatto affidamento esclusivamente sulle capacità delle sue industrie di difesa completamente autoctone”, si è vantato Nassirzadeh.
Egli ha affermato che l’Iran ha accettato di cessare i suoi attacchi contro Israele non perché si trovava con le spalle al muro, ma perché voleva impedire “l’espansione della crisi e della guerra nella regione”.
“Tuttavia, non abbiamo alcuna fiducia nel regime sionista e nei suoi sostenitori, gli Stati Uniti, né nel loro rispetto degli impegni”, ha avvertito. “Se l’altra parte dovesse continuare con il suo avventurismo e le sue ostilità, questa volta la risposta dell’Iran, data la nostra conoscenza dei punti deboli del nemico, sarà mortale, sorprendente, dolorosa e incalcolabile”.
Israele ha affermato che il suo attacco su vasta scala contro i principali leader militari iraniani, gli scienziati nucleari, i siti di arricchimento dell’uranio e il programma missilistico balistico era necessario per impedire alla Repubblica islamica di realizzare il suo dichiarato piano di distruggere lo Stato ebraico.
L’Iran ha sempre negato di voler acquisire armi nucleari. Tuttavia, ha arricchito l’uranio a livelli che non hanno alcuna applicazione pacifica, ha ostacolato gli ispettori internazionali nel controllare i suoi impianti nucleari e ha ampliato le sue capacità missilistiche balistiche. Israele ha affermato che l’Iran ha recentemente compiuto passi verso la militarizzazione.
L’Iran ha reagito agli attacchi israeliani lanciando oltre 500 missili balistici e circa 1.100 droni contro Israele.
(Rights Reporter, 21 agosto 2025)
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Farmaci israeliani nella spazzatura, Ame scrive al ministro
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Dottoressa e infermiera in servizio alla casa della salute di Pratovecchio Stia (AR) gettano nella spazzatura farmaci israeliani
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È arrivato fino in Israele il video della dottoressa e dell’infermiera in servizio alla casa della salute di Pratovecchio Stia (AR) filmatesi mentre, con sguardo compiaciuto, buttavano nella spazzatura alcuni farmaci dell’azienda israeliana Teva.
«Si tratta di un episodio molto serio. Le medicine sono beni a tutela della salute dei pazienti», dichiara in una intervista con Ynet Daniele Radzik, pediatra a Venezia e membro del Consiglio dell’Associazione Medica Ebraica (Ame). Quando si verificano episodi del genere «è molto importante mettere pressione, non rimanere in silenzio», aggiunge l’esponente dell’Ame, sottolineando come l’associazione sia subito intervenuta con una lettera inviata al ministro della Salute, Orazio Schillaci, e ai vertici della struttura sanitaria. «È evidente che il gesto non sia stato casuale, ma compiuto con l’intento di invitare al boicottaggio di farmaci prodotti in Israele», si afferma nel documento dell’Ame, firmato in calce dalla presidente Rosanna Supino. L’Ame parla di fatto «particolarmente grave», perché i farmaci «non devono essere strumenti di polemica politica o ideologica: essi sono beni fondamentali essenziali per la cura dei cittadini». L’Ame chiede che l’episodio venga valutato «con la necessaria attenzione» e al tempo stesso che si riaffermino i principi di «responsabilità, neutralità e centralità della cura» nel sistema sanitario italiano. Sul caso è tra gli altri intervenuta l’Asl Toscana, precisando «di essersi già attivata per ricostruire l’accaduto» e di riservarsi «di intraprendere ogni azione utile a tutela della propria immagine e del personale che, ogni giorno, opera con impegno, dedizione e correttezza». In un video di “scuse”, diffuso dopo che il caso era montato a livello mediatico, le due dirette interessate hanno presentato il loro atto come un «gesto simbolico volto alla pace».
(moked, 21 agosto 2025)
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Qualcuno forse capirà che certi atti "volti alla pace" sono in realtà ripugnanti atti di guerra. Ma essendo un atto contro Israele, molti non capiranno. Perché non vogliono capire. M.C.
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Whistleblower contro l’ONU: ostacolati gli aiuti a Gaza e rifiutato il coordinamento con Israele
di Davide Cucciati
Secondo il Jerusalem Post del 18 agosto 2025, un informatore che ha operato nelle missioni umanitarie nella Striscia di Gaza ha presentato un esposto formale all’Ispettorato generale di USAID, accusando alcune agenzie delle Nazioni Unite di avere ostacolato la consegna degli aiuti e rifiutato il coordinamento con Tzahal. La fonte riporta che nel reclamo si parla di “gravi abusi e cattiva gestione di fondi umanitari” da parte del World Food Programme (WFP), dell’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) e di altre agenzie, e che si chiede un’indagine per accertare se le scelte siano state prese localmente o su impulso dei vertici ONU.
Fox News Digital precisa di avere visionato una copia del reclamo: il denunciante sostiene che ufficiali dell’esercito israeliano avrebbero offerto protezione e coordinamento ai rappresentanti di WFP e OCHA, ricevendo però la risposta che non erano pronti a discutere tale cooperazione. A supporto delle accuse, il denunciante cita anche “immagini disponibili pubblicamente” secondo cui Tzahal avrebbe autorizzato l’ingresso di migliaia di tonnellate di beni umanitari ONU rimasti fermi dentro Gaza in attesa di distribuzione. Nelle conclusioni, il reclamo sollecita un’indagine indipendente per verificare se il rifiuto di coordinarsi con l’esercito israeliano configuri un uso improprio di fondi dei contribuenti americani.
Un alto funzionario del Dipartimento di Stato, citato dalla stessa fonte, afferma che le salvaguardie operative della Gaza Humanitarian Foundation “minacciano” i meccanismi con cui Hamas si finanzia, motivo per cui i siti della fondazione sarebbero stati ripetutamente attaccati. Inoltre, a detta di FoxNews, durante l’amministrazione Biden, l’Ispettorato di USAID ha segnalato criticità nei controlli sul personale ONG a Gaza e, a seguito di indagini, numerosi dipendenti UNRWA affiliati a Hamas sarebbero stati rinviati al Dipartimento di Stato per possibili sospensioni o esclusioni.
Il portavoce del Segretario generale dell’ONU, Stéphane Dujarric, dichiara di non essere a conoscenza dell’esposto presso USAID e definisce “delirante” l’idea che le agenzie ONU rifiutino il coordinamento con Israele, sostenendo che OCHA e WFP mantengono contatti quotidiani con Tzahal e con il COGAT per la logistica degli aiuti. Il World Food Programme, secondo FoxNews, nega di avere ostacolato la consegna degli aiuti o l’assistenza dell’esercito israeliano e aggiunge che l’ONU è “al 100% trasparente” con le autorità israeliane; un portavoce del WFP precisa inoltre che i quattro siti GHF si trovano in aree specifiche e che le rotte di consegna sono diverse da quelle usate da altre organizzazioni. Tuttavia, guardando la pagina X del COGAT, si evince come, in realtà, i rapporti con l’ONU siano tutt’altro che limpidi. Ad esempio, il 4 agosto 2025 veniva scritto: “L’UNRWA, l’agenzia UN i cui dipendenti hanno preso parte attivamente al massacro del 7 ottobre e opera secondo gli ordini di Hamas, sostiene che ci sono 6.000 camion di aiuti umanitari in attesa di entrare a Gaza. Notizia dell’ultimo minuto: tale affermazione è una palese falsità, volta a mascherare la quasi totale mancanza di attività umanitaria nella Striscia da parte di UNRWA.”.
Il whistleblower afferma di non avere riscontrato prove di “carestia” o “fame estrema” generalizzate a Gaza ma piuttosto sacche di grave insicurezza alimentare: una lettura che contrasta con i rapporti di varie agenzie ONU e che al momento resta un elemento del reclamo in attesa di verifiche ufficiali. La testata giornalistica americana aggiunge che funzionari israeliani riferiscono di avere proposto all’ONU l’impiego di società di sicurezza private per scortare i convogli umanitari a Gaza, proposta respinta dall’ONU, che tuttavia accetterebbe tali scorte armate in altri teatri, come Sud Sudan o Congo. Sempre secondo la fonte statunitense, l’esposto avrebbe attirato l’attenzione di uffici del Congresso che avrebbero avviato contatti con USAID e Dipartimento di Stato. Nel dibattito compaiono anche valutazioni politiche più controverse, come l’ipotesi che esistano indicazioni dall’alto volte a ostacolare gli aiuti: accuse che richiederebbero, se confermate, ulteriori riscontri indipendenti.
In attesa di eventuali esiti ispettivi, l’intero dossier resta diviso tra accuse documentate dal denunciante e smentite altrettanto nette delle agenzie ONU: il nodo centrale è se la mancata cooperazione denunciata abbia effettivamente impedito la distribuzione degli aiuti e, soprattutto, chi abbia preso le decisioni operative contestate.
(Bet Magazine Mosaico, 20 agosto 2025)
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Israele apre un'ambasciata in Zambia
Dopo la visita nel Paese africano, il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar farà tappa anche ad Addis Abeba per colloqui con il suo omologo etiope.
Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa'ar è partito martedì per un viaggio in Africa per inaugurare la nuova ambasciata israeliana in Zambia.
Durante la sua visita è previsto un incontro con il presidente dello Zambia Hakainde Hichilema, il ministro degli Esteri Mulambo Haimbe e la presidente del Parlamento Nelly Mutti.
Nel corso della visita, Israele e Zambia intendono inoltre presentare una serie di iniziative volte ad approfondire le relazioni bilaterali.
L'inaugurazione dell'ambasciata è prevista per mercoledì a Lusaka, la capitale dello Zambia.
Israele aveva già avuto un'ambasciata in Zambia negli anni '60 e '70, che era stata chiusa nel corso di una più ampia riduzione delle rappresentanze diplomatiche israeliane in Africa.
“La riapertura dell'ambasciata dopo decenni è un passo importante per approfondire le relazioni bilaterali con lo Zambia e fa parte di un'iniziativa più ampia volta ad ampliare e rafforzare le relazioni con gli Stati africani”, ha dichiarato l'ufficio di Sa'ar.
Lo Zambia ha un'ambasciata in Israele dal 2015.
Sulla strada per Lusaka, Sa'ar farà tappa ad Addis Abeba per incontrare il ministro degli Esteri etiope Gedion Timotheos, il quarto incontro tra i due da quando Sa'ar ha assunto la carica.
La scorsa settimana, il vice ministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel ha visitato la Nigeria per discutere del rafforzamento delle relazioni bilaterali. Il viaggio di tre giorni ha segnato l'ultimo tentativo in un crescente braccio di ferro tra sostenitori e oppositori dello Stato ebraico in Africa.
Gli Stati africani guidati dal Sudafrica si sono distinti come critici accaniti di Israele, mentre altri mantengono stretti rapporti basati su interessi strategici comuni e sulla fede.
Haskel ha anche visitato il Sud Sudan, come parte della prima delegazione ufficiale israeliana nel Paese.
(Israel Heute, 20 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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IDF elimina il terrorista che rapì Yarden Bibas
Il sopravvissuto: “Grazie eroi”
di Samuel Capelluto
Il 10 agosto, in un’operazione mirata condotta dal Comando Sud dell’IDF e dal servizio di sicurezza interno (Shin Bet), è stato eliminato Jihad Kamal Salem Najar, membro dell’ala militare di Hamas. Un nome che, fino a oggi, era ignoto a molti. Ma dietro quel volto, ora rimosso dal campo di battaglia, si nascondeva uno dei responsabili diretti di uno dei crimini più emblematici del 7 ottobre: il rapimento di Yarden Bibas.
Per comprendere il peso di questa notizia, bisogna tornare a quel sabato nero, quando centinaia di terroristi armati sfondarono i confini israeliani e travolsero le comunità civili del sud del Paese. Al kibbutz Nir Oz, uno dei primi bersagli dell’invasione, viveva la famiglia Bibas: Yarden, sua moglie Shiri e i loro due figli piccoli — Ariel, 4 anni, e Kfir, appena 9 mesi. Sì, nove mesi. Un neonato, con i capelli rossi come la madre, diventato a sua insaputa simbolo dell’impotenza del mondo di fronte al terrorismo.
Quel giorno, Yarden fu separato dalla moglie e dai bambini. Le immagini del rapimento — Shiri stringe i figli, terrorizzata, — hanno fatto il giro del mondo. Ma da quel momento, il silenzio. Nessuna conferma, nessuna prova di vita, nessuna pietà. Solo propaganda, menzogne e comunicati distorti da parte di Hamas.
Dopo oltre un anno di prigionia, Yarden è stato liberato. Solo allora ha appreso ciò che il governo israeliano già temeva: Shiri, Ariel e Kfir erano stati uccisi a Gaza. Secondo le autorità israeliane, non c’è alcun dubbio: sono stati assassinati dai loro rapitori. Hamas, nel tentativo di scaricare la responsabilità, aveva fatto circolare la tesi — infondata — che fossero morti in un attacco aereo israeliano. Ma l’esame dei corpi, restituiti in seguito grazie ad un accordo di cessate il fuoco, ha raccontato un’altra verità. Più cupa, più cruda. E infinitamente più colpevole.
Najar non era un semplice esecutore. Era un operatore militare dell’ala armata di Hamas, coinvolto direttamente nel blitz a Nir Oz, riconosciuto in video e foto diffuse da fonti ufficiali. È lui ad aver preso parte al sequestro di Yarden Bibas. Ed è lui che, fino a oggi, ha continuato ad agire liberamente a Gaza, protetto dalla rete di tunnel, armi e complicità che tengono in ostaggio un’intera popolazione.
La sua eliminazione non è solo un successo militare. È un atto di giustizia. Un segnale. Un promemoria: Israele non dimentica. Israele non abbandona le sue vittime. E anche a distanza di mesi, ogni responsabile sarà raggiunto.
La notizia dell’eliminazione di Najar ha suscitato anche la reazione di Yarden:
“Oggi si è chiuso un piccolo pezzo del mio cerchio. Grazie alle forze dell’IDF, allo Shin Bet e a tutti coloro che hanno preso parte all’eliminazione di uno dei terroristi che mi rapirono il 7 ottobre. Grazie a voi, non potrà più fare del male a nessuno. Per favore, abbiate cura di voi, eroi. Attendo la chiusura del cerchio con il ritorno dei miei amici David e Ariel e degli altri 48 ostaggi ancora prigionieri”.
Le sue parole non chiedono vendetta, ma testimoniano la potenza umana della giustizia: il desiderio che nessun altro subisca ciò che ha vissuto lui. E la speranza, ancora viva, che chi è rimasto indietro possa tornare.
Questa non è una storia “di guerra”. Non è l’eliminazione di “un comandante” qualsiasi. È la chiusura, almeno parziale, di un cerchio di dolore che ha segnato un intero popolo.
Ed è anche una risposta, indiretta, a chi chiede a Israele di “contenere la reazione”, di “negoziare sempre e comunque”, anche con chi ha ucciso neonati e nascosto i loro corpi. Israele oggi non festeggia. Ma piange con più forza e colpisce con più giustizia.
Per Yarden Bibas, sopravvissuto all’inferno, forse è un primo passo verso la pace interiore.
E per chi guarda da lontano, è un invito a non dimenticare che in questa guerra c’è ancora una linea netta tra vittime e carnefici.
(Shalom, 20 agosto 2025)
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Hostages Families Forum nella Giornata mondiale dell’aiuto umanitario: “50 ostaggi privati dei diritti fondamentali da 683 giorni
Questo incubo deve finire”
Oggi, 20 agosto, mentre il mondo celebra la Giornata mondiale dell’aiuto umanitario, il Prof. Hagai Levine, responsabile del team sanitario dell’Hostages Families Forum, ha inviato il seguente messaggio al Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e all’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani:
“Per 683 giorni, 50 ostaggi sono stati tenuti prigionieri a Gaza, in violazione dei diritti umani fondamentali. Sono sottoposti a torture mentali, fisiche e sessuali, fame intenzionale, scarse condizioni igieniche e sono tenuti sottoterra con scarsa illuminazione e ventilazione. Sono isolati dalle loro famiglie e dal mondo esterno, senza cure mediche o visite della Croce Rossa. Sono letteralmente all’inferno. Chiunque abbia a cuore i principi umanitari deve parlare per il loro rilascio, che porterebbe alla fine di questa guerra sanguinosa e mortale. Apprezziamo il contributo dei nostri colleghi operatori umanitari che rischiano la vita per salvare vite umane e li invitiamo a rimanere fedeli ai loro principi morali: non lasciare indietro nessuno!
La scorsa settimana, durante i miei incontri con il presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) e il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), abbiamo concordato che tutti gli ostaggi sono casi umanitari e devono essere riportati a casa immediatamente: i vivi per la riabilitazione e i deceduti per una degna sepoltura. Questo incubo deve finire”.
(Bet Magazine Mosaico, 20 agosto 2025)
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Proteste a New York contro Sharon
Gaza 2005 - Il vergognoso piano di "disimpegno"
23 MAGGIO 2005. NEW YORK - Nella sua recente visita a New York, il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha incontrato la massiccia opposizione degli avversari del piano di ritiro. Durante il suo discorso al Baruch College, più di mille dimostranti hanno scandito frasi contro il piano di Sharon, che prevede lo sgombero di 21 insediamenti ebraici nella striscia di Gaza.
Sharon ha tenuto domenica una conferenza al Baruch College, a cui erano presenti anche l'ambasciatore israeliano negli USA, Daniel Ajalon, e l'ambasciatore di Israele all'ONU, Dan Gillerman. Davanti alla porta dimostravano circa 1.200 persone, le cui grida potevano essere udite anche all'interno della sala della conferenza.
La folla innalzava striscioni, bandiere e T-shirt color arancione, il colore della protesta contro l'evacuazione degli insediamenti ebraici dalla striscia di Gaza e dalla Samaria del nord. Tra i dimostranti c'erano numerosi ebrei ortodossi e chassidici, rabbini e aderenti al gruppo di destra Krach. «Gli abitanti di Gush Katif sono i veri eroi del popolo ebraico», ha detto Dov Hikind, deputato dello Stato di New York e ebreo ortodosso.
Dagli ospiti invitati all'incontro con Sharon, tra cui importanti leader americani di gruppi ebraici, Sharon è stato accolto con applausi. Quando il Primo Ministro è salito sul podio, ci sono state prolungate e spontanee ovazioni.
Nel suo primo incontro con gruppi ebraici americani dal 2001, Sharon ha parlato soprattutto dei forti legami tra ebrei della diaspora e Israele. L'emigrazione di ebrei in Israele ("Aliyà") è il tema più importante del suo governo. Nei prossimi 15 anni vuole veder arrivare in Israele un milione di ebrei, ha detto il Premier.
Quando è arrivato a parlare del piano di ritiro, alcune persone in T-shirt arancione hanno cominciato a gridare innalzando cartelli con le scritte «Ebrei non cacciano ebrei!» e «Gush Katif per sempre». Dopo che sono stati portati fuori della sala, Sharon ha detto: «Grazie per l'aiuto. Di solito mi occupo io stesso di queste faccende.» Nell'auditorium sedevano anche studenti in T-shirt con la scritta: «Per amore di Israele: smettete l'occupazione!»
«La decisione del ritiro è stata molto difficile per me», ha detto Sharon. «Conosco molto bene i coloni di Gaza. Come agricoltore sono in grado di apprezzare le loro conquiste agricole. Come soldato rispetto il loro coraggio.» Lunedì il Premier ha rimarcato in un altro discorso che Gerusalemme non sarà toccata: «Io non tratterò mai su Gerusalemme.»
Mortimer Zuckermann, ex presidente della Conferenza delle organizzazioni di ebrei americani, ha elogiato Sharon come «un guerriero, quando si tratta della difesa di Israele e del popolo ebraico: adesso è un operatore di pace, perché tenta di concludere la pace con i vicini.» E ha aggiunto: «E' una benedizione per noi avere lei come leader d'Israele in questi tempi difficili. [...] Gli ebrei non arriveranno mai ad aver un'unica opinione, ma quando si tratta d'Israele dobbiamo essere uniti.»
(Israelnetz Nachrichten, 23 maggio 2005)
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Cure? No grazie, sono israeliane. Meglio il cestino e un video su TikTok
di Stefano Piazza
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Dottoressa e infermiera nell'esercizio delle loro funzioni
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Alla Casa della Salute di Pratovecchio Stia (Arezzo), la sanità pubblica si è reinventata: non più terapia, diagnosi e cura, ma cabaret ideologico in corsia. In scena, due protagoniste d’eccezione: la dottoressa Rita Segantini e l’infermiera Giulia Checcacci. Con camice, orario di servizio e telefono in mano, decidono di girare un piccolo film. Il copione è semplice: prendere medicinali prodotti da TEVA – colpevoli di portare l’inconfondibile marchio “made in Israel” – e gettarli nel cestino come fossero cartacce. Non basta disfarsene: bisogna sorridere, ridere di gusto, e soprattutto filmare il tutto per condividerlo con il mondo.
Non si tratta di farmaci scaduti o difettosi: sono medicine regolarmente acquistate, pagate con i soldi delle tasse dei cittadini. Ma hanno un peccato originale imperdonabile: sono israeliani. Tanto basta per trasformarli, nell’immaginario militante, in oggetti contaminati. Non strumenti di cura, ma simboli politici da cancellare con un gesto teatrale.
È il trionfo della propaganda sulla medicina. Il giuramento di Ippocrate viene riscritto in chiave ideologica: «Curare quando non contrasta con la linea politica. Altrimenti, ridere e buttare via». Sembra assurdo, ma è accaduto davvero: dentro una struttura sanitaria pubblica, due dipendenti stipendiati con denaro pubblico hanno deciso che la salute dei cittadini viene dopo la lotta contro Israele. Il messaggio è chiaro: il problema non è la malattia, ma la provenienza geografica del farmaco. Non importa se un paziente ha bisogno di quella medicina, non importa se è efficace. Importa solo da dove arriva. E se arriva da Tel Aviv, il cestino diventa l’unica destinazione accettabile. È la geopolitica applicata alla terapia: «il paziente può anche aspettare, ma la causa ideologica no»
Non è libertà di opinione. Non è dissenso terapeutico. È fanatismo puro. Perché un conto è criticare un governo, un altro è boicottare a colpi di sceneggiata i farmaci che potrebbero salvare vite. E il palcoscenico scelto – un ospedale – rende la cosa ancora più grottesca: il tempio della cura trasformato in discarica ideologica.Chiunque paghi le tasse dovrebbe sentirsi preso in giro: quei medicinali non sono “loro”, sono della collettività. Sono stati acquistati per essere usati a beneficio dei malati, non per diventare comparse in un video da social. La scenetta non ha solo ridicolizzato un’istituzione pubblica, ma ha reso evidente la confusione tra ruolo professionale e militanza politica.
Si ride, si pubblica, si raccolgono like. Ma intanto resta un dettaglio: chi indossa il camice non dovrebbe mai decidere il valore di un farmaco in base alla nazionalità della fabbrica che lo produce. Perché se passa questo principio, allora la medicina non è più scienza ma tifoseria. Oggi si buttano i medicinali israeliani, domani magari quelli americani, dopodomani quelli francesi. Finché l’unico farmaco rimasto sarà quello “ideologicamente corretto”. Peccato che ai pazienti non interessi la politica estera, ma la guarigione.
Una scena del genere non è da TikTok, ma da licenziamento immediato. Perché se il camice diventa strumento di propaganda, allora chi lo indossa ha tradito la sua funzione. Chi trasforma un farmaco in spazzatura solo perché israeliano non è un medico, non è un infermiere: è un attivista travestito da sanitario. E di attivisti, francamente, ce ne sono già troppi. In conclusione, resta l’amara verità: i malati aspettano cure, ma la priorità, ormai, è garantire like e applausi nella piazza virtuale. Così i farmaci israeliani finiscono nel cestino, e con loro finisce anche la credibilità di una parte di sanità che confonde la coscienza professionale con il teatrino della propaganda.
(L'informale, 20 agosto 2025)
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"“Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti" (Zaccaria 12:), dice il profeta. In attesa che questo avvenga, si direbbe che Israele sia diventato una coppa di rimbecillimento per tutti i propal del pianeta. M.C.
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L'IDF si prepara alla vittoria decisiva su Hamas
Ex funzionari della difesa israeliani affermano che la determinazione assoluta di Israele è la chiave per sconfiggere Hamas e raggiungere gli obiettivi di guerra.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Dopo la CXdecisione del gabinetto di sicurezza israeliano di prepararsi a una conquista militare definitiva e su larga scala della città di Gaza, la guerra contro Hamas entra nella sua fase più cruciale. L'operazione imminente, che secondo quanto riferito coinvolgerà circa 80.000 soldati, mira a distruggere l'ultimo grande bastione dell'organizzazione terroristica, che continua a detenere 20 ostaggi israeliani vivi e i corpi di altri 30 ostaggi.
Negli ultimi giorni, ex alti funzionari della difesa israeliani hanno dichiarato che questa rischiosa offensiva è un passo necessario e atteso da tempo per raggiungere gli obiettivi finali della guerra. Hanno sostenuto che il successo della missione non dipende solo dalla forza militare, ma anche dalla capacità di Israele di mostrare determinazione e di separare strategicamente la popolazione civile dal controllo di Hamas, forzando così il crollo dell'organizzazione terroristica come regime e fattore di potere nella Striscia di Gaza.
Shalom Arbel, ex membro di alto rango dei servizi segreti interni Shin Bet, che ha prestato servizio a lungo a Gaza, ha dichiarato a JNS che Hamas, guidata da un'ideologia jihadista-islamista di lungo corso che mira alla distruzione di Israele a qualsiasi costo, agisce come uno spietato agente immobiliare che effettua costantemente analisi costi-benefici.
“Hamas agisce sulla base della sua agenda satanica, che è la dottrina dei Fratelli Musulmani”, ha detto Arbel. Questa ideologia considera la terra di Israele come territorio islamico che “deve essere restituito all'Islam. Ciò non significa che ciò debba avvenire entro cinque o vent'anni. Dal loro punto di vista, la strada verso la ‘redenzione’ è lunga. È un percorso eterno”.
“Hamas, per come la conosco, valuta quotidianamente la situazione, calcola le sue mosse e cerca quelle che la avvicinano di più al suo obiettivo”, ha affermato Arbel. “Il suo obiettivo è quello di dissanguare Israele, di esaurirlo socialmente, nazionalmente e militarmente e di danneggiarlo economicamente”.
Tuttavia, se Hamas “vede che Israele è determinato – anche se non ha ancora raggiunto completamente il suo obiettivo, ma ci è vicino [di conquistare l'intera Striscia di Gaza] – farà ciò che si chiama minimizzazione delle perdite, alzerà bandiera bianca e dirà: ‘Basta, negoziamo’. Non vorrà perdere tutto”, ha stimato Arbel.
La percezione della determinazione israeliana da parte di Hamas è fortemente influenzata da fattori esterni, ha spiegato l'ex ufficiale dei servizi segreti.
“Finché la pressione internazionale su Israele sarà forte, Hamas sarà incoraggiata e si manterrà più salda. Finché la scena interna israeliana sarà in fermento, Hamas rimarrà naturalmente più salda”, ha spiegato. Per quasi due anni Hamas non ha creduto alle minacce di Israele di andare fino in fondo e ha così potuto prolungare il conflitto.
La chiave della vittoria, secondo Arbel, sta nell'attaccare la più grande vulnerabilità strategica di Hamas: la sua dipendenza dalla popolazione di Gaza come scudo umano. “Fin dall'inizio della guerra, Israele non ha trattato in modo molto intelligente la questione della popolazione di Gaza come un'arena indipendente che influenza così fortemente la campagna”, ha affermato.
Separando la popolazione dai terroristi, Israele potrebbe privare Hamas della sua difesa più importante. Arbel ha ipotizzato lo scenario in cui i mediatori suggeriscono a Hamas di cercare di ottenere il rilascio dei prigionieri palestinesi detenuti per motivi di sicurezza, di accettare l'esilio dei propri leader da Gaza e di disarmarsi, pena la morte e la perdita totale. E se si dice loro che devono disarmarsi, Hamas
“lo accetterà? Se si ricorre a mezzi di pressione. Loro reagiscono solo al potere”, ha spiegato.
Tuttavia, secondo Arbel, anche questo non è un risultato scontato, a causa dell'ideologia martirizzante della jihad che permea Hamas. "Hamas è disposta ad assassinare bambini israeliani, giustificando questo con il fatto che sarebbero cresciuti come soldati. È disposta a vedere la propria popolazione uccisa e senza tetto, costretta a vivere in tende alla ricerca di cibo. Tutto è giustificato per il jihad", ha affermato, riferendosi alla convinzione di Hamas che la prossima generazione di palestinesi possa continuare la guerra.
Nel frattempo, i recenti avvenimenti nella città di Gaza dimostrano che le tensioni tra la popolazione locale e Hamas stanno aumentando. Secondo un articolo pubblicato domenica su Israel Hayom, uomini armati del clan Jundiya hanno assaltato l'ospedale Al-Maamadani (anche noto come Al-Ahli) nella città di Gaza, scontrandosi con combattenti di Hamas dell'unità Sahm (unità di sicurezza interna di Hamas) che si nascondevano lì. Quando Hamas ha inviato rinforzi, secondo quanto riferito, questi sarebbero stati colpiti da un aereo dell'IDF. Questo incidente evidenzia la resistenza interna che un'operazione israeliana su vasta scala potrebbe sfruttare per accelerare il crollo del dominio di Hamas dall'interno.
Da parte sua, l'IDF ha dichiarato che uno dei suoi aerei ha attaccato una cellula terroristica armata di Hamas che si trovava nelle vicinanze e all'esterno del complesso ospedaliero Al-Maamadani nella zona di Sajun, nella Striscia di Gaza centrale. “I terroristi sono stati identificati mentre immagazzinavano armi e si armavano nel complesso ospedaliero, che utilizzavano come rifugio”.
Il capo di Stato Maggiore dell'IDF, il tenente generale Eyal Zamir, ha visitato domenica la Striscia di Gaza per supervisionare gli ultimi preparativi. In un discorso ai comandanti, ha dichiarato: "Oggi approviamo il piano per la prossima fase della guerra. Come nelle recenti operazioni in Iran, Yemen, Libano, Giudea e Samaria e a Gaza, continueremo a ridefinire la realtà della sicurezza. Manterremo lo slancio dell'operazione “Carri di Gedeone”, concentrandoci sulla città di Gaza. Continueremo a colpire fino alla sconfitta decisiva di Hamas, tenendo sempre al centro dei nostri pensieri gli ostaggi".
Ha aggiunto: “Presto passeremo alla fase successiva dell'operazione ‘Carri di Gedeone’, in cui intensificheremo ulteriormente i colpi contro Hamas nella città di Gaza fino alla sua sconfitta decisiva. L'operazione ‘Carri di Gedeone’ ha raggiunto i suoi obiettivi; Hamas non ha più le capacità che aveva prima dell'operazione; le abbiamo inferto un duro colpo”.
Nel frattempo, una delegazione di Hamas è rimasta al Cairo, capitale dell'Egitto, per “intensi colloqui” con i mediatori egiziani e qatarioti. Una fonte vicina ai dettagli ha detto a i24NEWS che il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, è atteso in Egitto per partecipare ai colloqui.
Il generale di brigata in pensione Harel Knafo, ex comandante del corso di comando e stato maggiore dell'IDF e capo di stato maggiore del comando sud, ha dichiarato domenica al Jerusalem Press Club che la conquista completa dell'intera Striscia di Gaza avrebbe dovuto essere il piano fin dall'inizio.
“Abbiamo detto che non ci sarebbe stata altra alternativa che occupare tutti i territori e controllare l'intera popolazione civile nella Striscia di Gaza, perché altrimenti Hamas non avrebbe mai rilasciato tutti gli ostaggi”, ha spiegato Knafo. “E naturalmente non sarà disposta a rinunciare alle sue armi”.
Knafo ha spiegato che questo passo è stato ritardato perché Israele doveva prima neutralizzare la minaccia di Hezbollah in Libano, cambiare la realtà strategica in Siria e occuparsi del programma nucleare iraniano.
Knafo ha stimato che Israele abbia già raggiunto circa l'80% dei suoi obiettivi di guerra. “L'80% degli ostaggi è ora in Israele”, ha detto, aggiungendo: “Abbiamo raggiunto anche l'altro obiettivo all'80%: distruggere Hamas... Non hanno più armi strategiche contro Israele. Non possono più fare quasi nulla ai civili che vivono intorno alla Striscia di Gaza”.
Tuttavia, per raggiungere l'ultimo 20%, è ora inevitabile un'operazione di terra su vasta scala, ha sostenuto. Ha ammesso che ciò comporta grandi rischi per gli ostaggi rimasti, ma ha ribattuto che ritardare l'operazione equivarrebbe a una condanna a morte per loro.
«Avete visto le immagini degli ostaggi, avete visto come stanno, avete visto che stanno morendo di fame e non ricevono alcun aiuto», ha detto. «Penso che moriranno prima che abbiamo finito, se scegliamo l'altro piano [un assedio]. Non so se avremo abbastanza tempo per riportare indietro tutti gli ostaggi».
Per quanto riguarda la popolazione civile di Gaza City, Knafo ha dichiarato che prima dell'offensiva sarebbero stati dati ampi avvertimenti per l'evacuazione. “Alla fine della giornata dovremo entrare a Gaza City e penso che chiunque rimanga lì sarà considerato un combattente. Altrimenti se ne sarebbe andato. Conosce le minacce, sa che stiamo arrivando con forze ingenti”, ha detto Knafo.
(Israel Heute, 19 agosto 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Su Israele lombra della terza Intifada
Gaza 2005 - Il vergognoso piano di "disimpegno"
di Stefano Magni
15 GIUGNO 2005 - Il futuro ritiro è un coltello a due lame puntato al basso ventre di Israele. Qualsiasi cosa accada, non sembra che vi sia fine al lancio di razzi Qassam, che vi sia o meno il disimpegno. Così scrive al quotidiano Haaretz un lettore di Bat Chefer. Un altro lettore precisa che: La recente dichiarazione di Abu Mazen che i Palestinesi non rinunceranno al diritto al ritorno è un chiaro segnale che la soluzione dei due popoli in due Stati, per ora non è percorribile. Daltra parte non cè nulla, nelle azioni e nei fatti dei Palestinesi, che possa suggerire il contrario. E non sono casi isolati. Nonostante, il 9 giugno scorso, la Corte Suprema israeliana abbia respinto il ricorso dei coloni e sancito la piena legalità del piano di disimpegno dalle colonie di Gaza, stando al sondaggio effettuato dal centro di ricerca Maagar Muhot, meno del 50% degli Israeliani è daccordo con il programma di disimpegno. Il sostegno popolare al piano di Sharon è crollato rispetto allabbondante 70% dellanno scorso. Sebbene risultati del sondaggio non siano certi, Sharon rimane ottimista e non ha intenzione di rinunciare al suo piano di disimpegno. È comprensibile, però, che si sia diffuso un certo malcontento, non solo tra i coloni che dovranno lasciare le loro case.
Fra questi ultimi la disperazione è palpabile: prova ne è il tentato suicidio per protesta di due coloni, che volevano darsi fuoco sulla loro auto e le ripetute minacce alla vita del premier Sharon. I coloni alzano il tono e qualcuno inizia a volte anche ad adottare la tattica del suicidio-omicidio, anche se finora non è mai avvenuto nulla di simile. Ma a parte i coloni, è comprensibile il malcontento anche nel resto di Israele, per una ragione di fondo: i palestinesi non rinunciano alla violenza, nonostante Abu Mazen e nonostante le prime elezioni. Hamas ha già annunciato di non voler deporre le armi: il nuovo leader politico, Khaled Mashaal lo ha dichiarato pubblicamente alla fine di maggio. E i fatti lo dimostrano: una pioggia di razzi Qassam si è abbattuta sugli insediamenti israeliani nei dintorni di Gaza e sulle cittadine meridionali in territorio israeliano, tanto che il capo del Consiglio di Sicurezza Giora Eiland ha dichiarato che lesercito israeliano deve essere pronto a rioccupare, se necessario, i centri abitati palestinesi a ridosso degli insediamenti.
La paura è che il disimpegno, già di per sé difficile, venga ostacolato da una pioggia di razzi e granate. Lincapacità delle forze di sicurezza palestinesi di mantenere il controllo del territorio di Gaza è dimostrata anche dalla crescita di violenza fra i palestinesi. La città, una delle aree più densamente popolate nel mondo, è in balia delle bande armate già da settimane. Lultimo episodio di violenza è lassalto (condotto anche con armi pesanti) contro il quartier generale della Sicurezza Preventiva. Ma solo dallinizio di giugno si sono registrati molti altri gravi episodi di violenza, motivati da regolamenti di conti e faide: venerdì 3 lalto funzionario Ali Faraj è stato assassinato assieme a suo fratello, molto probabilmente per una vendetta politica e familiare; lo stesso giorno, uomini armati di Al Fatah si sono scontrati con reparti della polizia e la sparatoria si è conclusa solo in seguito ad una difficile mediazione. Il giorno successivo, un diplomatico palestinese è stato sequestrato dai Falchi di Al Fatah al confine con lEgitto. Estremisti e bande armate, insomma, imperversano nella città. Per lanciare un segnale forte, Abu Mazen ha ricominciato ad eseguire sentenze capitali, a partire dallimpiccagione di tre prigionieri e dalla fucilazione di un quarto, tutti condannati a morte per omicidio anni fa.
Ma il pieno ripristino della pena capitale fa temere il peggio, perché tra i condannati ci sono ancora prigionieri che sono stati processati in modo sommario, anche con accuse di tipo politico. In questo scenario da incubo, è comprensibile che tutti abbiano letto, con attenzione e apprensione, quanto dichiarato dal capo di Stato Maggiore uscente, Moshe Yaalon, il quale teme che il disimpegno da Gaza non possa far altro che estendere il conflitto al resto di Israele: Tel Aviv e Gerusalemme saranno come Sderot. Faranno attentati suicidi ovunque potranno. È altamente probabile che vi sia una seconda guerra terroristica (
) Lidea che possa esservi uno Stato palestinese entro il 2008 è semplicemente avulsa dalla realtà e pericolosa. Un tale Stato si adopererebbe per minare lo Stato di Israele e prima o poi vi sarebbe una guerra, una guerra che potrebbe essere pericolosa per Israele. Cioè una terza Intifada, forse ancora peggiore rispetto alla seconda. E daltra parte, al primo processo di pace e al ritiro dal Libano meridionale, la guerriglia palestinese aveva risposto lanciando la seconda Intifada. Perché escludere che al ritiro da Gaza segua una terza Intifada?
(ideazione.com, 15 giugno 2005)
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Hamas arretra, Israele al bivio: trattare o finire la missione?
di Samuel Capelluto
Hamas avrebbe trasmesso una risposta positiva ai mediatori Egitto e Qatar riguardo a una bozza di accordo simile alla cosiddetta “proposta Witkoff”, secondo quanto riferito da fonti arabe. Israele, che ha ricevuto la risposta solo successivamente, non ha ancora preso una posizione ufficiale, ma secondo fonti egiziane fornirà una risposta entro Shabbat.
L’accordo, secondo fonti arabe citate da Al-Mayadeen, includerebbe:
• cessate il fuoco di 60 giorni;
• il ritiro delle forze israeliane per mille metri da alcune aree del nord e dell’est della Striscia di Gaza (eccetto Shuja’iyya e Beit Lahia);
• il rilascio di 10 ostaggi israeliani vivi in cambio di 200 prigionieri palestinesi, tra cui detenuti condannati all’ergastolo;
• la fornitura di aiuti umanitari (carburante, elettricità, attrezzature per ospedali);
• una revisione congiunta delle mappe relative alla presenza militare dell’IDF nella Striscia.
• Netanyahu sotto assedio politico
La nuova fase pone il Primo Ministro Netanyahu in una posizione estremamente delicata, stretto tra forti pressioni provenienti sia da destra che da sinistra.
A destra, figure come Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich avvertono che accettare un accordo parziale equivarrebbe a “una catastrofe storica” e segnerebbe “il mancato completamento della vittoria su Hamas”. A loro avviso, ogni concessione in questa fase rappresenta un segnale di debolezza strategica e un rischio per le generazioni future.
Dall’altra parte, il fronte centrista guidato da Benny Gantz sollecita una decisione rapida e responsabile. “La coalizione ha una maggioranza chiara e una solida rete di sicurezza. Ora è il momento di decidere — per il bene degli ostaggi e della sicurezza nazionale” ha dichiarato.
• La logica della pressione
Secondo fonti israeliane, Hamas avrebbe accettato la proposta proprio in seguito all’intensificarsi della pressione militare, e in particolare alla prospettiva concreta di una conquista della città di Gaza da parte dell’IDF. Anche il Ministro della Difesa, Katz, e il Capo di Stato Maggiore parlano apertamente di un “punto di svolta” nella guerra, sottolineando che Hamas si trova oggi in una situazione di estrema difficoltà.
• Un’occasione o un rischio?
Resta da vedere se Netanyahu — che solo ieri ha ribadito che “Hamas è sotto una pressione enorme” — manterrà la linea annunciata nei giorni scorsi, ovvero il rifiuto di ogni accordo parziale, oppure se deciderà di cogliere l’opportunità, spinto dalle pressioni internazionali, dall’urgenza umanitaria e dalla speranza di riportare a casa almeno una parte degli ostaggi.
Ogni scelta comporterà un prezzo. Ma in un momento in cui Hamas mostra segni visibili di cedimento, la vera domanda non è solo “quanto possiamo ottenere ora”, bensì “a quale costo per il domani”.
(Shalom, 19 agosto 2025)
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Fa inorridire il solo pensiero che una simile ripugnante proposta sia stata presa in considerazione. M.C.
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Guerra, appelli e boicottaggi: 150 docenti contro l’appello di cinque rettori
Negli atenei israeliani la discussione sulla guerra a Gaza e sulla possibile intesa con Hamas per il rilascio degli ostaggi è una costante. Il confronto tra docenti e studenti è acceso ma rimane nei limiti di un dibattito democratico, segno della vitalità dell’ambiente accademico israeliano. Alcune università hanno aderito alla grande manifestazione di domenica per chiedere la fine del conflitto e un accordo sugli ostaggi; in precedenza, cinque rettori avevano inviato al primo ministro Benjamin Netanyahu una lettera in cui sollecitavano un intervento urgente contro la crisi umanitaria nella Striscia.
Tra i firmatari figuravano i presidenti dell’Università Ebraica di Gerusalemme, del Technion di Haifa, dell’Università di Tel Aviv, della Open University e dell’Istituto Weizmann, che hanno richiamato il dovere morale di ridurre le sofferenze dei civili, pur riconoscendo la responsabilità primaria di Hamas. Un appello che ha suscitato un acceso dibattito soprattutto alla Bar Ilan University, dove circa 150 professori e docenti hanno diffuso un documento contestando i colleghi che avevano sostenuto l’iniziativa dei cinque rettori. Secondo i 150, «parlare di carestia significa cadere nella trappola propagandistica di Hamas», che sfrutta la crisi umanitaria «per accusare Israele e l’esercito israeliano di affamare deliberatamente la popolazione palestinese». I firmatari hanno poi invitato i colleghi «a non lasciarsi trascinare da appelli populisti e irresponsabili, che rischiano di rafforzare Hamas e ridurre le possibilità di riportare a casa gli ostaggi».
In questo clima di confronto, l’attenzione si concentra anche sull’ultima classifica Shanghai, il più noto ranking accademico internazionale che valuta oltre 2.500 università in base a indicatori come premi Nobel, pubblicazioni su Nature e Science e collaborazioni scientifiche globali. Tre atenei israeliani figurano ancora nella top 100 mondiale – il Weizmann, l’Università Ebraica e il Technion – ma tutti hanno perso posizioni. Il Weizmann è sceso al 71º posto, l’Università Ebraica all’88º e il Technion al 97º.
Un arretramento che preoccupa i rettori, legato non tanto alla qualità della formazione, rimasta molto alta, quanto alle crescenti difficoltà sul piano delle collaborazioni internazionali. La possibile esclusione di Israele dal programma europeo Horizon, che finanzia progetti di ricerca d’eccellenza, è vista come il rischio maggiore per la competitività del paese. «Avere tre istituzioni tra le prime cento è un risultato notevole, ma in un periodo segnato da pressioni senza precedenti dobbiamo essere vigili», ha commentato Asher Cohen, presidente dell’Università Ebraica. Dal Technion ricordano che, se rapportati alle dimensioni ridotte dell’ateneo, i risultati lo collocherebbero molto più in alto, ma avvertono che «il mantenimento di questo livello dipende dalle collaborazioni internazionali, messe a dura prova dai boicottaggi».
(moked, 19 agosto 2025)
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Un unico coagulo
di Davide Cavaliere
Da quando i terroristi di Hamas e della Jihad Islamica, insieme a comuni musulmani arabi di Gaza, hanno invaso il territorio israeliano il 7 ottobre, assassinando, violentando e rapendo donne e bambini, il dibattito si è, paradossalmente, incentrato sulla loro innocenza nonché sulla «crudeltà» di Israele nel perseguirli per i loro atti di terrore. Lo Stato ebraico è stato accusato di aver adottato una risposta «sproporzionata» ed eccessivamente «punitiva» nei confronti dei gazawi.
I mass media si sono dati da fare per presentare i «civili palestinesi» come pure vittime, totalmente estranee alle azioni e all’ideologia di Hamas. Ma possono essere, davvero, considerati innocenti? La risposta è ovviamente no. Hamas non è qualcosa di «esterno» che si è imposto sui palestinesi; tutt’altro: il gruppo islamista è il prodotto purissimo della mentalità e della cultura arabo-palestinese. In Hamas si raccolgono e si coagulano tutti gli elementi caratteristici della società palestinese: un antisemitismo ossessivo radicato nella tradizione religiosa, il culto della morte e del martirio, il disprezzo per ogni forma di compromesso e di pacificazione con il nemico «infedele».
Il gruppo islamista, è bene ricordarlo, è arrivato al potere mediante libere elezioni. I palestinesi hanno scelto Hamas perché quest’ultima ha saputo incarnare al meglio i loro valori e le loro ambizioni. Quindi, non sono i terroristi di Hamas a rappresentare un problema – possono, infatti, essere eliminati fisicamente con una certa facilità da un esercito moderno –, ma i «palestinesi» in quanto tali, tra i quali personalità del «genere Hamas», ossia psicotiche e stragiste, possono diventare socialmente rilevanti e politicamente rappresentative.
A sostegno di quanto detto finora vi è un sondaggio condotto dalla società di ricerca Arab World for Research and Development (AWRAD), che rileva, tra l’altro, che più di tre «palestinesi» su quattro hanno un’opinione positiva di Hamas in seguito all’attacco del 7 ottobre. Alla domanda se sostenessero o si opponessero alle azioni di Hamas del 7 ottobre, il 59,3% dei palestinesi intervistati ha dichiarato di sostenere «estremamente» gli attacchi, mentre il 15,7% ha dichiarato di sostenere «abbastanza» la serie di orrendi omicidi.
Il 98% degli intervistati, inoltre, ha affermato che l’eccidio li ha fatti sentire «più orgogliosi della loro identità di palestinesi». Questo significa che l’«identità palestinese» si rafforza a ogni atto di terrore contro gli ebrei, rivelando la sua natura puramente negativa: il «palestinese» esiste in quanto negazione dell’ebreo.
Dunque: ci sono civili innocenti a Gaza? Molti meno che a Berlino o Tokyo nel 1944. I tedeschi sostenevano Hitler e i giapponesi supportavano la macchina da guerra imperiale. Quei dissidenti e oppositori che non erano d’accordo, per motivi tattici o morali, erano una piccola minoranza. Una minoranza ancora più esigua tra i cosiddetti palestinesi – solo il 7% si è dichiarato «estremamente» contrario all’omicidio e al rapimento di bambini (dei soli bambini, si badi bene).
La maggioranza dei «palestinesi» vuole una guerra per distruggere Israele. Se adesso si lamentano e chiedono a gran voce un cessate il fuoco, non è perché non vogliono la guerra, ma perché stanno perdendo la guerra che volevano e che hanno iniziato. Loro desiderano ancora lo scontro, solo non vogliono essere sconfitti del tutto.
Ma vi sono dati ancora più curiosi: il 92% non apprezza l’UE, l’88% non ama le Nazioni Unite e il 69% si dice contrario alla Croce Rossa Internazionale. Insomma, i «palestinesi» odiano i loro sponsor. Cosa c’è dietro questa follia? Esattamente quello di cui si è detto prima: una «struttura spirituale» distorta e un macabro culto della morte.
Come nella Sodoma del libro della Genesi, anche a Gaza è impossibile trovare un numero minimo di «giusti» per mezzo dei quali possa essere salvata l’intera collettività. L’uomo moderno non è a suo agio con questa vicenda biblica, perché non crede più alla realtà di un male radicale e totalizzante. Eppure, questo male esiste, ed è in grado di manipolarci: fa leva sulla nostra compassione quando non ne ha per noi direttamente. Cedere ai ricatti morali di Hamas, alla sua propaganda lacrimevole, alla retorica delle vittime innocenti, significa permettere al male di sopravvivere, rafforzarsi e tornare a colpire.
(L'informale, 17 agosto 2025)
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Il Riformista e la scelta di fare contro informazione su Israele. Velardi: «un successo sorprendente»
In soli tre mesi si è fatto promotore di diverse iniziative volte a contrastare la disinformazione dominante sulla maggior parte dei media nazionali, raggiungendo una crescita degli abbonamenti e dei lettori. In questa intervista esclusiva a Mosaico-Bet Magazine, il direttore racconta le motivazioni e i risultati di una scelta controtendenza.
di Ilaria Myr
II 20 maggio è uscito con la prima edizione di una pagina interamente dedicata alle “Ragioni di Israele” per “offrire uno spazio di analisi, riflessione e confronto libero da pregiudizi”. Poi a inizio giugno, il lancio dell’appello «Dalla parte di Israele», firmato da 650 persone, che in pochi giorni sono arrivate a oltre 8000, e che è sfociato in un incontro pubblico a Roma. E poi, a luglio, l’avvio di una newsletter intitolata Kippah, dedicata alla contro-narrazione sul tema Israele.
Non lasciano spazio al dubbio le iniziative prese negli ultimi tre mesi dal quotidiano Il Riformista che, in un periodo in cui la maggior parte dei media nazionali e internazionali portano avanti una narrativa antisraeliana appiattita sulle informazioni fornite da Hamas, ha scelto in modo molto netto quale tipo di informazione vuole portare avanti: un’informazione scevra da pregiudizi e narrazioni facili e appiattite, che propone storie e punti di vista su Israele poco noti e diversi da quelli mainstream, e soprattutto che racconta la complessità della società israeliana e del conflitto in corso a Gaza. Una scelta a dir poco controtendenza, quella del quotidiano diretto da Claudio Velardi, che ha però ottenuto risultati inaspettati fin da subito.
«Non ci aspettavamo un riscontro così importante al lancio della pagina quotidiana dedicata alle Ragioni di Israele – spiega soddisfatto a Mosaico Bet-Magazine il direttore Velardi -. Purtroppo le voci che si levano a difesa delle ragioni di Israele sono molto poche: con questa iniziativa diamo voce a studiosi, giornalisti, intellettuali e testimoni diretti, con l’ambizione di offrire strumenti per capire, senza filtri o barriere, e uno sguardo consapevole, critico e giusto, contro il fanatismo di chi sogna di cancellare lo Stato ebraico dalla faccia della Terra». E i numeri registrati in questi tre mesi dimostrano che la scelta è stata quella giusta: gli abbonamenti sono cresciuti di 500 unità, arrivando a superare quota 1500, mentre ogni post mattutino registra decine di migliaia di visualizzazioni. «Certo, non mancano critiche e insulti, soprattutto sui social – continua Velardi -, ma di fatto gli abbonamenti e le visualizzazioni sono cresciuti esponenzialmente. Quindi continuiamo a fare il nostro lavoro, dando la nostra visione, nella convinzione di essere dalla parte giusta».
Dopo il lancio della pagina quotidiana, un’altra mossa importante: alla vigilia delle manifestazioni organizzate dalla sinistra il 6 e 7 giugno “contro la guerra di Gaza” e “per fermare Israele”, il quotidiano ha lanciato l’appello “dalla parte di Israele” per denunciare quelle iniziative “irresponsabili nei confronti degli ebrei di tutto il mondo, perché avranno il doppio effetto di armare sempre più l’opinione pubblica contro il diritto di Israele a sconfiggere il nemico che vuole distruggerlo e di consentire all’antisemitismo di dispiegarsi in libertà, minacciando la vita di ogni ebreo. Quelle manifestazioni sono organizzate e promosse da chi non capisce o non vuol capire che cosa è successo e quel che ha significato il 7 ottobre 2023”. Un vero successo: dai 650 firmatari iniziali si è arrivati in pochi giorni a 8000 tanto che il giornale ha riempito il Teatro Rossini a Roma con un evento, che ha visto la partecipazione di numerosi ospiti italiani e internazionali: politici, scrittori, giornalisti, storici, blogger e molte altre voci autorevoli.
Infine, a luglio, il lancio della newsletter Kippah che nelle intenzioni del direttore doveva essere settimanale, ma che è subito diventata quotidiana, raggiungendo più di 1800 iscritti ogni giorno, con un tasso di apertura medio fra il 55 e il 60%.
Interessante è anche la composizione del lettorato del quotidiano: se la fascia più rappresentata è quella fra i 50 e i 65 anni, prevalentemente maschile, non mancano però anche giovani fra i 20 e i 30 anni.
«Dal punto di vista giornalistico siamo molto contenti di tutto quello che stiamo raggiungendo – continua il direttore -. Purtroppo non possiamo dire lo stesso del livello dell’informazione più generale, dove si intensifica sempre di più un’informazione unilaterale su Israele, mentre non viene dato risalto a notizie importanti come, ad esempio, la condanna da parte della Lega Araba del 7 ottobre (ripresa solo dopo vari giorni, ndr), così come alle centinaia di migliaia di morti in Ucraina. Dal canto nostro, continuiamo a lavorare seguendo le nostre convinzioni, ben consapevoli che è una battaglia difficilissima, ma necessaria».
Per il futuro, dunque, Il Riformista continuerà in questo sforzo quotidiano di difesa della verità contro la disinformazione e manipolazione dell’informazione. Ma non solo. «Vorrei immettere anche elementi più politico-strategici nelle nostre analisi, per ragionare su quali possono essere le dinamiche future in Medio Oriente, considerando i diversi soggetti in gioco: Israele, i Paesi arabi, ma anche Russia, Qatar e Cina – spiega Velardi -. La mia intenzione è insomma quella di riuscire a passare da un livello di testimonianza e controinformazione su Israele e le sue ragioni a uno successivo di analisi e riflessione più politica che guarda in prospettiva per arrivare a dire come si potrebbe uscire da questa situazione che è purtroppo a un’impasse».
(Bet Magazine Mosaico, 19 agosto 2025)
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Il peso della parola “Adesso”
di Samuel Capelluto
Tel Aviv, Gerusalemme e altre città israeliane sono da settimane teatro di manifestazioni accese. Migliaia di persone scendono in piazza regolarmente, esibendo cartelli con scritte come “Adesso!” o “Riportatelo a casa”. È un grido collettivo e disperato per il ritorno degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Familiari, amici e semplici cittadini bloccano strade, presidiano snodi strategici e accusano il governo di non fare abbastanza — o di non agire abbastanza in fretta. Questo movimento, pur composto da anime diverse, si è unito sotto un’unica parola, potente e semplice: “Adesso”. “Adesso!”. Adesso il governo deve firmare un accordo e riportare a casa gli ostaggi. Adesso bisogna agire, prima che sia troppo tardi. Adesso, perché ogni giorno conta, ogni vita ha valore, ogni minuto in mano ad Hamas è una ferita aperta. Chi può rimanere indifferente davanti a questo appello così umano, così giusto? Eppure, in Israele – come spesso accade in questa terra complicata – le cose non sono mai così semplici. Anche la parola “adesso” porta con sé una rete di dilemmi profondi, morali e strategici, che dividono il Paese e spezzano il cuore. Gli israeliani non sono divisi tra chi vuole riportare a casa gli ostaggi e chi no. Tutti li vogliono a casa. Ma sono divisi sul “come” e sul “prezzo”. Oggi, secondo diverse fonti, i termini richiesti da Hamas per un accordo includono la liberazione di centinaia di terroristi condannati per crimini brutali, il ritiro totale dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza (anche dalle aree a ridosso dei kibbutz israeliani), il mantenimento del potere da parte di Hamas… E, fatto ancor più cinico, Hamas pretende che sia proprio Israele – insieme alla comunità internazionale – a finanziare e sostenere la ricostruzione della Striscia. Secondo alcune fonti israeliane, questo significherebbe che il rilascio degli ultimi ostaggi avverrebbe solo dopo la ricostruzione completa – o almeno sostanziale – di Gaza. Sono richieste che, nella percezione di molti israeliani, non rappresentano una soluzione, ma la premessa per la prossima tragedia. Per il prossimo 7 ottobre. Per i prossimi ostaggi. E allora, cosa significa davvero dire “adesso”? Firmare un accordo che salva oggi ma rischia di distruggere domani? Oppure resistere, con il cuore a pezzi, e dire “non così, non a queste condizioni”? Molte persone vedono solo una parte della storia: la sofferenza delle famiglie, le madri che piangono, i volti dei prigionieri. Ed è giusto che sia così. Ma per capire bene, bisogna entrare anche nel lato scomodo, doloroso, della riflessione strategica. In una guerra, e in una lotta contro un nemico che ha già dimostrato di usare le concessioni per colpire di nuovo, ogni decisione ha un prezzo. Anche quelle mosse dal cuore. Chi oggi dice “no” a un accordo con Hamas non lo fa perché ha meno compassione. Lo fa perché teme che un accordo sbagliato condanni non solo gli ostaggi di oggi, ma anche quelli di domani. In Medio Oriente, anche i mercati obbediscono alla logica del conflitto. Se un venditore capisce che il cliente è disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole – il prezzo sale. Sempre. E Hamas, purtroppo, ha capito benissimo come funziona questa dinamica. Israele si trova quindi sospesa tra la pietà e la paura, tra il dovere morale e il rischio esistenziale. Non esiste una risposta facile. Ma esiste un nemico che conosce bene la debolezza delle democrazie: la pressione emotiva. E la sfrutta con cinismo. Per questo, chi in Israele si oppone a un accordo “a tutti i costi” non è meno umano. È solo dolorosamente consapevole di cosa può succedere dopo l’“adesso”.
(Shalom, 18 agosto 2025)
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"Portatelo a casa adesso". Chi? mio figlio, naturalmente, o forse mia figlia, o forse mio marito, o forse mia moglie, o forse... insomma qualcuno a cui IO sono interessato. Per gli altri non so. Ciascuno penserà per sé, ciascuno metterà il suo cartello, e LORO... loro chi? Quelli del governo, naturalmente, e Netanyahu in modo particolare. Non si dice ai terroristi di Hamas: fateli partire, si dice al governo di Israele: portatelo indietro. Come? Se lo sapete, perché non lo dite? Forse perché se lo dicessero in modo chiaro e conseguente la vergogna si appiccicherebbe indelebilmente in faccia a loro. La sofferenza di chi ha un proprio caro in queste condizioni è degna di compassione, l'egoismo sfacciato e irresponsabile di chi reagisce in questo modo no. Sono deprecabili azioni di estensione e rafforzamento del male. E le frasi del tipo "se tu fossi al mio posto" non stanno in piedi. E' bene dirlo subito. M.C.
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19 luglio 2005: «Giornata internazionale contro il ritiro»
Gaza 2005 - Il vergognoso piano di "disimpegno"
23 MAGGIO 2005 - Gli avversari dell'evacuazione dei coloni dalla striscia di Gaza e dal nord della Samaria hanno dichiarato il 19 luglio «Giornata internazionale contro il piano di ritiro». Si prevede che migliaia di ebrei-chabad chassidici andranno in Israele per dimostrare contro il piano.
Grandi manifestazioni si terranno a Tel Aviv nella «Giornata contro il ritiro»; ma anche in altri paesi i dimostranti vogliono scendere in strada. Negli USA la manifestazione più grande avverrà nella capitale Washington, riferisce l'agenzia di notizie «Arutz Sheva».
In un primo tempo, il governo israeliano aveva fissato il 20 luglio come giorno d'inizio dell'evacuazione dei coloni ebrei. Ma poiché il ritiro avrebbe coinciso con il periodo di cordoglio del «Tisha Be' Av», Ariel Sharon ha rinviato l'esecuzione del piano ad un tempo successivo. Il nono giorno del mese ebraico Av, cioè il 14 agosto, i credenti ebrei ricordano la distruzione del primo e del secondo tempio a Gerusalemme, insieme ad altri tragici avvenimenti della storia del popolo ebraico.
Rabbi Shalom Dov Wolpe, una personalità di spicco del movimento Chabad e propugnatore di un «Grande Israele», durante una sua visita a New York ha esortato gli ebrei chassidici negli USA ad andare in Israele a dimostrare contro il piano di ritiro. Quando il governo darà l'ordine di evacuazione, i Chassidim dovrebbero impedire «che anche solo un pezzo della terra d'Israele venga dato via». Questo insegnerebbe anche la dottrina del Rabbi Menachem Mendel Schneerson. Schneerson è stato uno dei più importanti maestri del movimento Chabad ed è stato venerato come il «Messia». E' morto nel 1994.
(Israelnetz Nachrichten, 23 maggio 2005 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il Principe Verde che rinnegò Hamas. "Vogliono sostituire ebrei e cristiani"
Mossab Hassan Yousef si commuove al museo sul 7 ottobre. "Ai bimbi palestinesi insegnano la violenza contro gli infedeli"
di Fiamma Nirenstein
Ci incontriamo per visitare a Glilot il nuovo museo sul 7 di Ottobre organizzato dall'esercito e non ancora inaugurato, e per commentare la genesi e realizzazione della inenarrabile strage. Lo facciamo guardando negli occhi neri, spalancati, affermativi, Mossab Hassan Yousef, il Principe Verde, il Figlio di Hamas che parla al mondo di sé stesso e invita a combattere sulla base dell'orrore cannibalesco della sua prima esistenza. C'è coraggio e guerra senza fine in quello sguardo, nessuna illusione. Suo padre, lo sceicco Hassan Yussef, uno dei fondatori di Hamas, l'ha condannato a morte, e lui si sente impegnato in un duello storico.
Come un eroe mitologico, Mossab è tutto il bene e tutto il male, brucia in ogni parola, vive per la determinazione di non esitare di fronte a nulla, e mentre descrive la sua origine dentro Hamas che è un «death cult», un culto della morte, è come se avesse fatto un voto, con in mano una spada. Mossab si è fatto cristiano, ma le sue memorie non portano remissione, chiedono solo cambiamento, pentimento, è spietato la sua stessa storia, non ha pietà verso la sua infanzia piena di violenza a scuola, a casa, per strada, e di insegnamenti omicidi, prima di tutto uccidere gli ebrei, e poi chiunque non sia parte dell'Islam. Vede al museo il ruolo dell'Unrwa e dice: ognuno di quei bambini, è destinato a diventare una Nukba. «Avrei potuto tante volte vendicarmi di ciò che mi hanno fatto mentre avevo scelto di lavorare per gli israeliani per bloccare le stragi continue sugli autobus, nelle pizzerie. Ho salvato tanta gente, ma ho sempre rifiutato di implicare una vendetta personale. Mio padre è salvo per questo. Io cerco solo giustizia e che si capisca la terribile verità di con chi avete a che fare».
Mossab ha 47 anni, ma il viso magro di un ragazzo; vive molto lontano, dove Hamas e tutti i terroristi che lo cercano non lo possano trovare. Ma c'è sempre in questa guerra senza fine; così visita il museo insieme a Dan Diker che lo ha invitato in Israele per il Jerusalem Center for Foreign and Strategic Affairs. Là si impara tutta la verità su Hamas, è si capisce che solo una rivoluzione totale può far sperare in una pace coi palestinesi.
Guardiamo foglietti di istruzione per la strage, mappe dei kibbutz con gli asili nido e le case, anche una lunga lettera di ordini di Sinwar. Mossab sorride: «Devo dire che scrive molto bene, ottimo arabo». Le sue divisioni sono divise per luogo e per compito, tutto è segnato. I fogli scritti a penna, come i biglietti in possesso dei terroristi ordinano «in nome di Allah» di «uccidere con donne bambini e vecchi, fotografare, stuprare, fotografare gli stupri, rapire...». «Rapire a centinaia è decisivo, fondamentali - dice Mossab - l'arma geniale, vincente... E attenzione: l'invasione è chiamata Inondazione di Al Aqsa. Lo tsunami sovrasta cadendo dall'alto, gli occhi neri sono ancora più grandi e scuri», cancella allo scopo di sostituire.
È una scelta religiosa, prettamente islamica. «L'Islam arriva 1500 anni dopo l'ebraismo, 700 dopo il cristianesimo: lo scopo di Hamas è compiere a fondo la grande guerra di religione. Sostituire le altre due religioni. Lo dovrete capire tutti a vostre spese se non agite in fretta». Anche l'invenzione di Al Aqsa, spiega, è un'invenzione di guerra: Gerusalemme non esiste nel Corano, e la Moschea si inventa per arricchire una narrativa fasulla, per un popolo che non esiste. Siamo Arabi, dice Mossab, la bandiera palestinese esiste solo dagli anni Sessanta dello scorso secolo. Mossab ride all'accusa di islamofobia: «Basta guardare nei libri di testo, i bambini lo imparano dall'asilo, sulle tv: sottomettere l'infedele con la violenza».
E più avanti, oltre lo stand dove si allineano le armi lasciate sul campo (russe, degli Hezbollah nordcoreane, iraniane) i libri di Gaza: un kit religioso da portare con sé nella strage, col Corano, e i libri che si trovano sia a Gaza che nelle case del West Bank. Mossab li sfoglia, li ha visti a casa sua: c'è il Mein Kampf di Hitler, i libri di Abd Allah al Azzam teorico di Al Qaeda che ha anche scritto la carta di Hamas nel 1988, c'è Mahmoud al Zahar, tuttora nella leadership di Hamas che ha scritto «Odiare gli ebrei», c'è «La fine degli ebrei».
I libri di testo vanno oltre: «Io a scuola imparavo le sottrazioni togliendo gli ebrei morti da quelli vivi per sapere quanti ne erano rimasti». Vediamo i video coi bambini che odiano, che sparano, con le mamme che li candidano a divenire Shahid. Mossab sta impietrito carico di ricordi di fronte al video, annuisce, sa. Poi, solo chi è forte riesce a guardare. Mossab lo è, ma nell'ultima stanza, davanti allo schermo, deve uscire un momento, torna e quasi grida: «Ognuna di quelle membra strappate, di quegli stupri, ognuno di quei bambini stuprati e arsi vivi è un crimine di guerra! Nessuno lo denuncia. Qui ci sono 1200 crimini di guerra: io mi sono detto adesso, specie dopo ciò che si è visto il mondo si alzerà in piedi... e non è successo. Che cosa possiamo fare se non capite che di fronte a questa guerra neonazista di religione ci si deve difendere fino all'ultimo?».
I grandi occhi spalancati di Mossab guardano una vita, una cultura intera: «Io dedico tutto me stesso a difendere Israele e il popolo ebraico dalla guerra psicopatica contro ebrei e cristiani. Se non mi si ascolterà, io continuerò da solo».
(il Giornale, 18 agosto 2025)
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Riproponiamo un articolo presente nel nostro archivio dal 2008: "Perché il figlio di un leader di Hamas si è convertito al cristianesimo"
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Tornando a casa: perché ho lasciato l’Europa per Israele
Sono un musicista. Sono israeliano. E più di ogni altra cosa, sono figlio di un popolo che è sopravvissuto, ha creato e sognato, anche quando il mondo ha cercato di oscurare la sua luce”.
Comincia così il racconto di Oded Nir e del suo ritorno in Israele, pubblicato sul sito Jfeed. “Ho vissuto ad Amsterdam per 19 anni. Una città bellissima, aperta, creativa, ricca di cultura. Mi ha accolto con entusiasmo fin dal mio arrivo: un giovane artista con i suoi sogni, la chitarra in mano, la musica nel cuore. Mi sono esibito in tutta Europa, ho collaborato con musicisti di ogni estrazione e mi sono costruito una vita in un luogo che ammiravo. Ma lentamente, e sempre in modo discreto all’inizio, quell’accoglienza si è affievolita. E’ iniziata con piccole domande. Sguardi silenziosi. Silenzi inquieti. ‘Sei israeliano?’, ‘Cosa pensi di quello che sta facendo il tuo paese?’, ‘Sei ebreo, vero?’. Non erano attacchi. Non all’inizio. Ma col tempo, il significato che si celava dietro si è acuito. Il mio nome, la mia identità, persino la mia musica, cominciavano a sembrarmi un peso. Un peso ebraico. Un peso israeliano.
Mi sono detto, come molti fanno, che sarebbe passato. Che avrei potuto superarlo. Che la musica, che l’arte trascende la politica, i pregiudizi e la storia. Ma alla fine, mi sono ritrovato a modificare chi ero. A nascondere certi testi. A evitare titoli in ebraico. A scegliere collaborazioni che non sollevassero domande. E quello è stato il momento in cui ho capito: non mi sarei arreso. Stavo venendo cancellato, un piccolo silenzio alla volta. Quando nemmeno la mia musica poteva veicolare la mia identità senza paura, ho capito che cosa dovevo fare. Sono tornato a casa.
“Mi sono ritrovato a modificare chi ero. A nascondere certi testi. A evitare titoli in ebraico.
E quello è stato il momento in cui ho capito”
Oggi vivo a Rishon LeZion con mia moglie. Abbiamo costruito una vita, non nell’utopia, ma nel nostro posto. In Israele non ho bisogno di scusarmi per il mio nome. Non ho bisogno di spiegare le mie origini. Posso camminare con una kippah, una chitarra o una bandiera, senza chiedermi chi attraverserà la strada per evitarmi. Questo è ciò che il sionismo ha sempre significato per me: un ritorno non solo dall’esilio, ma dalla cancellazione. Non solo una casa fisica, ma una bussola spirituale. Non sono tornato a casa perché Israele è perfetto. Non lo è. Ma sono tornato a casa perché qui posso vivere liberamente, come ebreo, come israeliano, come artista. E nel 2025, questo non è qualcosa che do per scontato. Il sionismo non è un’idea obsoleta. Non è una reliquia. E’ un diritto. E per molti di noi è l’unica bussola che ci indica ancora casa. A ogni ebreo che si è sentito piccolo, in imbarazzo o in colpa per la sua esistenza, dico questo: non rinunciate alla nostra storia. Non lasciate che il mondo decida quanto vi sia permesso essere ebrei.
E non dimenticate mai: il diritto di vivere liberamente come ebrei in una patria ebraica non è un cliché. E’ un privilegio. Un privilegio che è stato conquistato con sacrifici, lotte e con l’incrollabile convinzione che meritiamo di essere integri”.
Il Foglio, 18 agosto 2025 - trad. Giulio Meotti)
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Bat Ye’or smonta il “mito andaluso”
Il XX secolo, scrive sulla Tribune Juive Bat Ye’or – scrittrice e saggista britannica nata al Cairo nel 1933 – «fu dominato da tre ideologie genocidarie: il comunismo, il nazismo e il mito andaluso». Se le prime due sono state combattute e poi studiate la terza, nata negli anni Sessanta, è rimasta a lungo un argomento proibito: «chiunque vi si avvicinasse rischiava, nel migliore dei casi, l’esclusione sociale riservata ai reietti, o la morte prescritta dal jihad».
Il mito andaluso si fonda sull’idea che nella Spagna medievale governata dagli arabi le leggi coraniche, applicate a ebrei e cristiani, incarnassero una suprema eccellenza morale, regolando la loro vita secondo i principi della giustizia islamica definiti dalla legge e dall’ideologia del jihad. Comandamenti giuridici elaborati già nell’VIII secolo e codificati nella shari’a, la legge islamica, che stabilivano diritti e doveri delle popolazioni indigene ormai islamizzate. In questa prospettiva il mito arriva a legittimare come modello universale i principi dell’islamizzazione jihadista, combinati con regole della “dhimmitudine” che garantivano una sopravvivenza condizionata ai «più privilegiati» tra coloro che erano scampati a massacri o schiavitù.
La dhimmitudine, secondo l’autrice (Bat Ye’or è lo pseudonimo di Gisèle Littman), è la condizione giuridica e sociale imposta storicamente alle popolazioni non musulmane (“dhimmi”, soprattutto cristiani ed ebrei) nei territori governati dalla legge islamica. Non stupisce, nota l’autrice, che movimenti jihadisti come Olp e Hamas proclamino la loro adesione a tale ideale, attribuendo alla «mancata sottomissione ad Allah» la causa dei mali del mondo. Colpisce, per contro, «la totale approvazione occidentale del mito andaluso», che di fatto cancella tredici secoli di jihad contro la cristianità. Che i musulmani lodino le proprie leggi, osserva, è naturale, ma che «le vittime li superino nelle lodi» desta sorpresa.
Questa convinzione trova espressione in dichiarazioni politiche che arrivano ad aspirare a una fusione euro-araba «per riattivare l’età d’oro andalusa». Il legame tra politica comune verso Israele e sviluppo euro-mediterraneo iniziò con la dichiarazione della Cee del novembre 1973, che esprimeva sostegno ai diritti dei palestinesi, mentre il successivo Dialogo Euro-Arabo mirava a rafforzare la cooperazione con il mondo arabo. Il mito andaluso ne divenne la base ideologica, alimentando progetti di fusione culturale, religiosa e migratoria «in un radioso futuro euro-islamico senza Israele». Questa impostazione, sostiene Bat Ye’or, collocava la Cee «nel campo dei suoi ex-alleati degli anni 1920-1945», manovrando con nemici dichiarati di Israele fino a riesumare la Risoluzione Onu 181 del 1947, respinta dagli arabi e seguita da guerra, invasioni e massacri senza reazione internazionale.
Nel 1967, la liberazione dei territori da parte israeliana suscitò nuove ostilità europee; negli anni Settanta, il sostegno all’Olp si consolidò e da allora, l’Ue — «per scelta e non per costrizione» — avrebbe protetto sé stessa dal jihad divenendone al tempo stesso supporto e finanziatore contro Israele, in una collusione che l’autrice accosta all’«euro-jihadismo nazista». Il jihad globale degli anni ’90 e 2000 non ha incrinato il mito andaluso, al contrario: ha alimentato accordi migratori, flussi finanziari e una narrativa che attribuiva a Israele la responsabilità di guerre e terrorismo, assolvendo i jihadisti.
L’Unrwa contribuì a interiorizzare in Occidente «la concezione islamista della giustizia», incentrata sulla sharia dell’«età dell’oro». Mentre l’Europa celava la natura jihadista dell’OLP, le stesse logiche minavano le sue città, l’economia, la sicurezza e il tessuto sociale. Il divario tra mito e realtà generò disillusione e conflitti interni, con il rischio di «emirati fondamentalisti» sul suolo europeo. Sul piano mediatico e politico, accuse costanti a Israele hanno, secondo Bat Ye’or, creato odio genocidario, un «soffio di Lucifero che si compiace della sofferenza e della morte».
L’autrice sottolinea che non è la prima volta che il popolo ebraico affronta simili minacce. Le nazioni dell’Oci, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, afferma l’autrice, non celano l’obiettivo di ricreare un Califfato con capitale a Gerusalemme. Alcuni esponenti di Olp e Hamas celebrano Hitler. Da decenni, l’Ue lavorerebbe a sostituire la narrazione biblica con quella coranica. Non è la prima volta, ripete Bat Ye’or: tre millenni fa, Israele proclamava la sacralità della vita, la giustizia, il libero arbitrio e l’uguaglianza di legge per lo straniero. I testi sacri mettono in guardia contro chi «chiama bene il male e male il bene», ma «non hanno mai detto che bisogna dare un coltello all’assassino perché ci uccida». La «coalizione della Croce con la Mezzaluna contro la Stella» ha già causato ecatombi; oggi la corruzione si maschera da umanitarismo e assolve il carnefice.
(moked, 17 agosto 2025)
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Perché Dio ha creato il mondo? - 10
Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Grida e gemiti
Ora, nel corso di quel tempo, che fu lungo, avvenne che il re d'Egitto morì; e i figli d'Israele gemevano a causa della schiavitù, e alzavano grida; e le grida che la schiavitù strappava loro salirono a Dio. Dio udì i loro gemiti; e Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe. E Dio vide i figli d'Israele, e Dio ebbe riguardo alla loro condizione (Esodo 2:23-25).
Gli ebrei alzano grida a causa della schiavitù a cui li sottopongono gli egiziani. Dio ode i loro gemiti e… ne prende atto. Ritengo sia questa la traduzione migliore di quel verbo yadà (ידע) che significa conoscere. Non è un sentimento di compassione, quello del Signore, ma la percezione di un momento storico che si avvicina. Come dopo aver consultato un’agenda, Dio si ricorda. Si ricorda del suo patto con Abraamo, e precisamente delle parole che gli aveva detto in quella notte tempestosa:
“Sappi per certo che i tuoi discendenti dimoreranno come stranieri in un paese che non sarà loro, e saranno schiavi, e saranno oppressi per quattrocento anni; ma io giudicherò la gente di cui saranno stati servi; e, dopo questo, se ne partiranno con grandi ricchezze’” (Genesi 15:13-14).
Dio dunque sapeva in anticipo che i discendenti di Abraamo sarebbero stati oppressi dagli egiziani per quattrocento anni. La sua reazione alle grida degli ebrei sotto il giogo della schiavitù non può dunque essere interpretata come un moto di compassione o un desiderio di giustizia. La permanenza della progenie di Abraamo all’interno di quella nazione in una posizione di sottomissione all’autorità pagana, entro un determinato tempo, era parte del piano redentivo. Dio non giustifica l’oppressione operata dagli egiziani, ma la fa rientrare nel suo piano intervenendo al momento opportuno: né prima, né dopo, come aveva già fatto in altri casi.
Per quanto riguarda le sofferenze che i figli d’Israele dovettero subire in Egitto, va detto inoltre che se anche per tanti anni erano stati oppressi, tuttavia non erano rimasti schiacciati, né numericamente, né politicamente. La tribù familiare di Abraamo non si era dissolta: era diventata un popolo. Non una minoranza etnica di cui ricordare le antiche origini e ammirare i folcloristici costumi, ma una realtà sociale presente in modo significativo nella vita politica della nazione, al punto da far dire al Faraone: “il popolo dei figli d'Israele è più numeroso e più potente di noi” (Esodo 1:9).
Gli ebrei dunque cominciarono ad essere un popolo odiato anche perché temuto. E per questo motivo ancor più angariato e oppresso. Ma “più lo opprimevano, e più il popolo si moltiplicava e si estendeva; e gli Egiziani presero in avversione i figli d'Israele” (Esodo 1:12).
Le cose andarono avanti così per secoli, ma le grida degli israeliti si fecero particolarmente acute in un preciso momento storico: quando Mosè, invece di venire in aiuto del suo popolo, era scappato nel paese di Madian e lì aveva messo su famiglia. Lo strumento che il Signore aveva scelto per il suo progetto doveva tornare al suo posto e svolgere la parte che gli era stata assegnata nel piano redentivo di Dio.
Dopo quattrocento anni, la gravidanza della progenie di Abraamo nel grembo d’Egitto era giunta a compimento, e i gemiti che salivano al Signore erano da intendere come avvisaglie di parto: il bimbo-popolo doveva uscire da quel grembo e avviarsi a diventare la grande nazione che l’Eterno aveva promesso a Giacobbe quando in visione gli aveva detto: “Non temere di scendere in Egitto, perché là ti farò diventare una grande nazione” (Genesi 46:2-3).
E la parte principale nell’operazione spetterà proprio a Mosè.
• Il roveto ardente
“Mosè pascolava il gregge di Ietro suo suocero, sacerdote di Madian; e guidando il gregge dietro al deserto, giunse alla montagna di Dio, a Oreb. E l'angelo dell'Eterno gli apparve in una fiamma di fuoco, in mezzo a un roveto. Mosè guardò, ed ecco il roveto era tutto in fiamme, ma non si consumava. Allora Mosè disse: “Ora voglio andare da quella parte a vedere questa grande visione e come mai il roveto non si consuma!”. E l'Eterno vide che egli si era scostato per andare a vedere. Dio lo chiamò di mezzo al roveto e disse: “Mosè! Mosè!”. Ed egli rispose: “Eccomi”. E Dio disse: “Non ti avvicinare qua; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai, è terra santa”. Poi aggiunse: “Io sono l'Iddio di tuo padre, l'Iddio di Abraamo, l'Iddio di Isacco e l'Iddio di Giacobbe”. Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio” (Esodo 3:1-6).
L’incontro tra Dio e Mosè davanti al roveto ardente costituisce indubbiamente un momento topico nella storia di Israele. Può essere paragonato e messo in collegamento col sogno che Giacobbe fece a Betel quando era in viaggio verso Caran alla ricerca di una moglie (Genesi 28:10-22), di cui abbiamo già trattato in precedenza. In entrambi i casi non si tratta di colorite esperienze di uomini speciali, ma di significativi momenti storici nel piano redentivo di Dio.
Ricordiamo allora che l’obiettivo di questo piano salvifico non consiste nel rendere possibile l’ascesa in cielo del maggior numero di persone, ma nel rendere possibile la discesa di Dio su una terra santificata dalla sua presenza, in cui Egli possa abitare in mezzo a uomini santificati dalla sua grazia.
Si deve però tener presente che dopo il peccato di Adamo la terra è stata maledetta da Dio (Genesi 3:17) e gli uomini allontanati dalla sua presenza. In questa situazione Dio non può entrare in contatto diretto con la terra senza consumarla e in rapporto ravvicinato con gli uomini senza distruggerli. La relazione di Dio con gli uomini dunque avviene a distanza, attraverso messaggi, visioni, sogni, apparizioni angeliche.
Nello stesso tempo però Dio prepara la sua decisiva discesa sulla terra con successivi avvicinamenti, in forma di contatti sapientemente dosati con particolari uomini. La scala di Giacobbe e il roveto ardente sono due momenti di contatto di questo tipo. Esaminiamoli e mettiamoli a confronto.
- In entrambi i casi Dio prende contatto con un uomo facendogli avvertire distintamente la sua presenza. Nel primo caso con un sogno, nel secondo caso con un roveto che brucia senza consumarsi.
- In entrambi i casi Dio si presenta all’uomo usando le stesse parole: “Io sono l’Eterno, l’Iddio di Abraamo tuo padre”, aggiungendo “e l’Iddio di Isacco” quando parla a Giacobbe, e “l’Iddio di Isacco e l’Iddio di Giacobbe” quando parla a Mosè.
- In entrambi i casi Dio fa riferimento alla terra su cui si trova il suo interlocutore: la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua discendenza” dice a Giacobbe; e “il luogo sul quale stai è terra santa” dice a Mosè.
- In entrambi i casi l’uomo avverte sensibilmente la presenza dell’Eterno ed è preso da paura. Nel primo caso: “Appena Giacobbe si svegliò dal suo sonno, disse: “Certo, l'Eterno è in questo luogo e io non lo sapevo!”; ebbe paura, e disse: “Com'è tremendo questo luogo! Questa non è altro che la casa di Dio, e questa è la porta del cielo!”.
Nel secondo caso, quando Dio dal roveto ardente gli rivolge la parola, ”Mosè si nascose la faccia, perché aveva paura di guardare Dio”.
- In entrambi i casi si stabilisce un collegamento cielo-terra. Nel primo caso il collegamento avviene attraverso il sogno di “una scala appoggiata sulla terra, la cui cima toccava il cielo”, con “gli angeli di Dio, che salivano e scendevano per la scala”. Il traffico degli angeli che vanno su e giù tra cielo e terra significa che è in corso un collegamento, ma la necessità della presenza di una scala mette in evidenza che si tratta di un collegamento a distanza.
Nel secondo caso invece il collegamento avviene in modo diverso. Si può dire che Dio ritira la scala, mette a riposo gli angeli e decide di scendere in prima persona dal cielo sulla terra per prendere contatto ravvicinato (ma non troppo) con Mosè, l’uomo che aveva scelto per la prosecuzione del suo piano. Certo, la terra su cui Dio ora scende non è la stessa su cui si appoggiava la scala, ma anche questo potrà trovare la sua spiegazione.
Le secche parole (Esodo 3:7-11) che l’Eterno, dopo essersi educatamente presentato come l’Iddio di Abraamo, di Isacco e di Giacobbe (Esodo 3:6), rivolge dall’interno del roveto in fiamme a Mosè che sta fuori a piedi scalzi sono schematizzabili in tre verbi: ho visto, sono sceso, ti manderò. Ho visto l’afflizione del mio popolo; sono sceso per liberarlo e farlo andare in un bel paese; ti manderò dal Faraone per far uscire il mio popolo dall’Egitto. È un Dio in piena azione, autorevole con tutti, ma “col giudeo prima e poi col greco”: in questo caso prima con Mosè, che riceve l’ordine di andare, poi con il Faraone che riceverà l’ordine di lasciar andare. C’è infine un verbo che schematizza l'immediata reazione del giudeo: e Mosè disse…
Nulla di simile era mai avvenuto prima con i patriarchi.
Esamineremo in seguito il valore di queste incisive parole dell’Eterno e l’intenso colloquio con Mosè che ne seguì, ma poniamoci ora una domanda: perché Dio ordina severamente a Mosè di non avvicinarsi? La risposta che Dio dà a Mosè è significativa: "Perché il luogo sul quale stai è terra santa" (Esodo 3:5)), versetto citato anche nel Nuovo Testamento. (Atti 7:33).
Nella Bibbia l'espressione "terra santa" (adamat kodesh, אדמת קדש) compare soltanto qui e in un passo del profeta Zaccaria: "L'Eterno possederà Giuda come sua parte nella terra santa e sceglierà ancora Gerusalemme" (Zaccaria 2:12).
L'episodio del roveto ardente si presenta dunque come la prima, personale discesa di Dio sulla terra, il suo primo "atterraggio", fatto con le dovute precauzioni. Dio si presenta in una fiamma di fuoco, simbolo di distruzione purificante, ma il roveto non si consuma. La divina presenza è lì, posata su un piccolo lembo di terra diventata "terra santa” da questa presenza, e quindi non calpestabile con i calzari ai piedi.
Dio appare e parla di mezzo (mitoch, מתוך) al roveto, un termine che in altre frasi diventa in mezzo (betoch, בתוך) ed è di fondamentale importanza perché si vedrà che lo scopo essenziale per cui il Signore chiederà a Israele di costruirgli un santuario sarà di poter venire ad abitare in mezzo al popolo: "E mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro (betokham, בתוכם) (Esodo 25:8).
Il roveto ardente dunque si può considerare come il primo santuario temporaneo in cui Dio è sceso, la prima tappa del suo progetto di venire un giorno ad abitare definitivamente in mezzo agli uomini, come sta scritto in Apocalisse 21:2-3.
E se il roveto in fiamme costituisce il primo luogo in cui si presenta la santità di Dio sulla terra, si può dire che l’ordine di non avvicinarsi al roveto e togliersi i calzari dai piedi rappresenta il nocciolo di quella che poi sarà la legge originaria di Mosè: cioè la difesa della santità del santuario e la purificazione di coloro che hanno a che fare con esso (Esodo 25:1-31:18).
Perché è il collegamento con la terra santificata dalla presenza di Dio che giustifica e santifica la legge. Là dove questo collegamento non avviene, quando manca il radicamento alla terra nella forma voluta da Dio, la legge si trasforma in un moralismo volatile che si tenta di ancorare alla terra con una quantità indefinita di precetti che come tanti fili inevitabilmente prima o poi si spezzano e devono essere sostituiti ad ogni cambiar del vento storico.
Ma di questo bisognerà riparlare.
(Notizie su Israele, 17 agosto 2025)
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ll copyright di Hamas e l’etica del grottesco
Come se, per raccontare Auschwitz, fosse stato necessario il consenso di Goebbels
di Daniele Scalise
C’è un momento, nelle degenerazioni morali del nostro tempo, in cui la realtà non si limita a superare la fantasia, ma la umilia. Il Toronto International Film Festival lo aveva appena dimostrato: fuori programma The Road Between Us: The Ultimate Rescue, documentario del regista canadese Barry Ivrich sull’eroismo del generale Noam Tibon durante il massacro del 7 ottobre. La ragione? Mancavano le “autorizzazioni legali” per l’uso di filmati girati dai terroristi di Hamas. Sì, proprio loro. I carnefici.
Motivazione ufficiale (e non ridete, perché qui non c’è niente di comico): serve il permesso dei “titolari dei diritti” per proiettare quelle immagini. Come se, per raccontare Auschwitz, fosse stato necessario il consenso di Goebbels e il timbro in carta bollata del Reich. Come se i cinegiornali dei lager fossero proprietà intellettuale delle SS e ogni proiezione senza liberatoria un reato di pirateria audiovisiva. Al TIFF avevano aggiunto che c’era anche il rischio di “significativi disordini” e che bisognava “gestire i rischi noti e prevedibili”. Tradotto: evitiamo grane con i contestatori pro-Hamas. Il paradosso è di quelli che inchiodano. L’orrore documentato non veniva oscurato perché falso, ma perché il boia ne reclamava la paternità artistica. Si codificava un diritto d’autore sul crimine, elevando i carnefici a creativi audiovisivi e relegando le vittime al ruolo di comparse silenziate. È la logica perversa dell’anti-israelismo e dell’anti-sionismo, quella che si traveste da scrupolo giuridico o da prudenza politica ed è soltanto la faccia che si pretende rispettabile dell’antisemitismo.
La scena è da teatro dell’assurdo: funzionari che, con aria professionale, spulciano i fotogrammi e chiedono “Avete il permesso dell’autore?”, dove “autore” è colui che ha massacrato civili, bruciato case, sequestrato bambini. Un’iperbole degna di intelligenza artificiale, e invece è il frutto lucidissimo della mascalzonaggine umana. Poi è arrivato il contraccolpo. L’indignazione ha travolto il festival, l’assurdo è diventato virale, il ridicolo è stato messo a verbale. E così Cameron Bailey, direttore del TIFF, ha scritto una lettera pubblica: scuse “per qualsiasi dolore causato”, smentita di ogni intento censorio, promessa di lavorare con il regista per “soddisfare i requisiti di proiezione” ed “esplorare tutte le opzioni disponibili”. L’ipotesi di reinserire il film in cartellone è tornata sul tavolo.
Una retromarcia necessaria che però, ahilui e ahiloro, non cancella il punto. L’idea stessa che Hamas possa vantare un copyright sui propri atti di barbarie resta un insulto al buon senso e uno sputo in faccia alle vittime. Perché la verità non ha bisogno del timbro dell’assassino. E se la si lascia in ostaggio delle sue pretese legali, si è già perso molto più di un documentario: si è persa la capacità di distinguere la vittima dal carnefice, di chiamare il male per nome, di difendere la memoria da chi vorrebbe riscriverla. Questa vicenda, anche se si concluderà con la proiezione del film, resta un monumento crisoelefantino alla codardia culturale. È la prova che vaste aree dell’Occidente sono da tempo infette da un morbo morale: la paura di disturbare i resoconti comodi, di incrinare il mito dei “resistenti contro occupanti”, di ammettere che il 7 ottobre non è stato un incidente militare di alcuni svitati, ma un massacro a sangue freddo di una banda di assassini. E che non c’è copyright che possa oscurare questa verità.
(Il Riformista, 16 agosto 2025)
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