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Notizie 1-15 dicembre 2016


Come si vive in Israele circondati da nemici

Dal Libano alla Striscia di Gaza, passando per la Siria, viaggio ai confini dello Stato ebraico. In una regione ostaggio del fanatismo religioso, il bastione dell'Ovest è assediato da Paesi instabili su confini contestati. Un circolo vizioso senza via d'uscita.

di Luciano Tirinnanzi

Un carro armato israeliano nel Golan sorveglia il villaggio siriano di Bariqa
Quando atterro all'aeroporto di Tel Aviv il fon e vento mi ricorda che in queste settimane Israele è preda di una serie d'incendi che hanno messo a dura prova il Paese. Lo capisco meglio quando raggiungo l'albergo, dove vigili del fuoco di diverse nazioni affollano la hall. La solidarietà è palpabile: russi e ucraini insieme, azeri, alcuni europei. Persino i palestinesi sono giunti per dare una mano.
La brutta notizia arriva mentre sono a colloquio con il ministro della Pubblica sicurezza, Gilad Erdan, astro nascente della politica israeliana: «In parte sono certamente dolosi», alcuni palestinesi hanno persino tentato di dare fuoco alla caserma dei pompieri di Haifa. «Le indagini sono ancora in corso» dice cupo il ministro «ma sappiamo già che è così».
   Ecco Israele, penso mentre arriva il pullman, patria dei paradossi e delle contraddizioni. Parto per il confine col Libano, culla di Hezbollah, il «partito di Dio» sciita oggi impegnato in Siria in appoggio al regime di Assad. Pochi giorni prima c'è stata una grande parata militare, con carri armati per le strade e soldati in uniforme. Definirli terroristi, come fanno Usa, Ue e Lega araba, è riduttivo. «Sono il principale problema d'Israele» ripetono come una litania qui «perché desiderano la nostra completa distruzione». Superata Metullah, un dito di terra nella punta nord d'Israele, arrivo a pochi passi dalle prime roccaforti di Hezbollah. È l'estremo punto d'osservazione dell'Idf (lsrael defense forces), da dove le forze armate controllano le pendici del Golan e la frontiera libanese. Oltrecortina si trova il villaggio fantasma di Kfar Kela, apparentemente disabitato. Solo qualche raro camion si muove veloce lungo il confine, che altro non è se non una sofisticata rete elettrificata.
   Qui dovrebbe operare l'Unifil, la forza d'interposizione Onu, ma non c'è nessuno. «Dove sono i caschi blu?» chiedo al maggiore Amsalem, che mi accompagna. «Passano di rado, giusto per pattugliare il confine». In cima al monte c'è una fortificazione. «Quella è Nabi El Aradi, una base militare Libanese, ma non escono quasi mai, qui comanda solo Hezbollah», Mi chiedo se non sia pericoloso stare qui. «Non ultimamente» rassicura il maggiore. «In queste settimane la maggior parte dei miliziani sono impegnali oltre il Golan, gli altri si dedicano al traffico di droga». In quest'area passano le metanfetamine e la marijuana che i narcotrafficanti libanesi producono in grandi quantità più a nord, nella valle della Bekaa, anch'esso territorio di Hezbollah.
   Due giorni dopo, al quartier generale dell'Idf, edificio orwelliano di oltre 20 piani, il generale Amikam Nurkin, prossimo comandante dell'Aviazione, mi mostrerà una cartina delle attività di Hezbollah nell'area. Chaqra, ad esempio, una cinquantina di chilometri a sudovest rispetto a Metullah, è una sequenza di depositi di armi, pezzi d'artiglieria, tunnel e postazioni di fanteria. L'Idf ne ha mappato l'attività. Tutto è allestito per una guerra. Secondo il generale, il vero conflitto deve ancora iniziare: le forze armate si preparano a una guerra entro i prossimi cinque anni. «Non possiamo farci trovare impreparati, sappiamo che Hezbollah si sta riorganizzando, come Hamas nella Striscia di Gaza. Noi siamo la prima linea di tutto». Lascio le alture con la sensazione di un territorio dai bordi troppo incerti. Anche la frontiera siriana, del resto, è contestata: il maggiore Amsalem non ha saputo dire con precisione dove finisca Israele e inizi la Siria.

 
Emmanuel Nahshon, portavoce del ministero degli Affari esteri israeliano
La sera del 28, a cena col portavoce del ministero degli Affari esteri, Emmanuel Nahshon, discutiamo di altri confini incerti: quelli con la Palestina. Chiedo ingenuamente come possano esservi due Stati, quando sulla cartina ce ne sono almeno tre: Gaza e la Cisgiordania non confinano tra loro. «La soluzione c'è» dichiara sicuro. «Prevede tunnel o ponti sopraelevati per connettere le due regioni, che distano tra loro solo 40 km. Si può fare». Obietto che un Paese ha bisogno di continuità territoriale, ma lui insiste: «Nel mondo vi sono molti esempi simili di discontinuità». Cito Kaliningrad, l'enclave russa in Europa, e lui annuisce. Gli ricordo come quello sia un problema per Europa e Nato, visto che Mosca vi ha appena piazzato dei missili balistici. Intanto arriva il pesce San Pietro, specialità locale. Non c'è più tempo per rispondere.
   Poche ore prima ho visitato lo Ziv Hospital Cerner, nella cittadina di Safed, sulle montagne della Galilea che digradano lungo il confine con la Siria. Qui un'equipe medica guidala dal professor Alexander Lerner cura i feriti della guerra civile. L'ortopedico bielorusso fa miracoli con ani lacerati dalle bombe, ossa esplose e frammenti di schegge che infieriscono sui muscoli dei pazienti. Lo spettacolo è straziante. Dall'inizio del 2013, oltre 700 profughi siriani sono stati ricoverati in ospedali civili israeliani e negli ospedali da campo dell'Idf. Tra le vittime di guerra in cura a Ziv, ci sono anche combattenti.
   Non è chiaro come siano arrivati qui. Mi ritrovo a parlare con due di loro. Entrambi ventenni, hanno la barba lunga da salafiti e un cappello nero per il freddo. Sono qui da due mesi. Vietato fotografarli.
   Dicono di essere del Free syrian army, ma non paiono convinti. Il primo è spaurito e si sente solo. Chiede se posso aiutarlo. Ha perso i contatti con la famiglia. Non tornerà a combattere perché il comandante l'ha abbandonato «nel bel mezzo di un bombardamento». li secondo è sorridente e fiero, ansioso di raccontare la sua storia. La sua famiglia è fuggita da Damasco, riparando a Quneitra. È stato ferito alle gambe da un razzo, a Daraa. Vuole tornare sul campo prima possibile «per uccidere Bashar Al Assad». Crede nel Califfato? Risponde convinto: «Sì». Imbarazzato, l'interprete dice che c'è un errore di traduzione.
   Il 29 novembre, anniversario della risoluzione Onu che nel '47 inaugurò il piano di ripartizione della Palestina, raggiungo il confine con Gaza. Faccio tappa a Sderot, tra le più bersagliate dai razzi di Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla la Striscia. Dal 2005 a oggi, ha lanciato più di 11 mila razzi su Israele. Molti su Sderot. Di conseguenza, la città è «mostrificata»: ogni fermata dell'autobus ha bunker tascabili in cui ripararsi al suono delle sirene. Ogni palazzo è dotato di un'ala anti-razzo. Il cemento rende tetri persino gli asili.
   
Oltre 5 milioni di cittadini israeliani sono esposti alla minaccia dei razzi (ormai anche Tel Aviv e Gerusalemme), perciò l'Idf ha creato Iron dome, un sistema d'intercettazione antimissilistico altamente tecnologico. Ma la verità, dicono i residenti, è che verso Sderot partono razzi ad altezza uomo che neanche Iron dome può intercettare. Come si può vivere così? «Non cederemo mai ai terroristi» è la risposta corrente. «Resistiamo contro di loro anche per voi in Occidente».
   «Loro» abitano per lo più a Gaza City, quasi 2 milioni di anime ostaggio di Hamas. Dal nostro punto di osservazione, una collina circondata da filo spinato a meno di un chilometro dalla frontiera, si vedono grandi caseggiati e una moschea da cui proviene la voce del muezzin che annuncia l'ora della preghiera. Un graduato del comando Sud dell'Idf indica i villaggi di Beit Hanoun e Jabàlya. «Da lì partono i razzi e molti dei tunnel. Meglio non avvicinarsi troppo, però. I cecchini si divertono a tirare in questa direzione». Al momento non c'è molta attività. «Il fronte più caldo è al confine con l'Egitto». Mi spiega che l'Isis, presente nella Striscia, tenta incursioni giornaliere nel Sinai. Sul lato israeliano, invece, «i droni hanno rilevato che Hamas si sta addestrando per azioni future. Sappiamo dadall'intelligencehe scavano nuovi tunnel. il paradosso» aggiunge «è che li fabbricano col cemento che gli forniamo noi, sfruttando la luce elettrica della centrale di Askhelon».
   I tunnel sono grandi abbastanza da poterli percorrere in moto. Sotto i miei piedi c'è una rete sotterranea che si estende per chilometri fin dentro Israele. «La tattica è sempre la stessa, sbucano all'improvviso in gruppi di una dozzina e tentano di rapire i civili dei kibbutz, ma soprattutto soldati. Per loro sono più preziosi». Il perché è chiaro: sono merce di scambio per negoziare. «Vedi quei caseggiati bianchi? Sono punti di osservazione. Anche adesso ci guardano». Domando come mai non li distruggano. «A che serve? Li ricostruiscono in pochi giorni, almeno così li possiamo controllare».
   Così appare la realtà ai confini d'Israele, dove ogni certezza è sfumata. L'ultimo bastione dell'Occidente, l'argine all'islamismo militante, è un luogo condannato a un eterno e ripetitivo presente, senza troppe illusioni di un futuro migliore.

(Panorama, 15 dicembre 2016)


Quando la patria uccide. Storie di antisemitismo

«Quando la patria uccide, storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige» sarà presentato il 19 dicembre alla sinagoga di Merano alle ore 19.

di Giancarlo Riccio

In Quando la patria uccide, storie ritrovate di famiglie ebraiche in Alto Adige, finalmente edito (e arricchito in fonti e contenuti) anche in italiano e sempre da Raetia di Bolzano, occorrerebbe specchiarsi. Comunque confrontarvisi con attenzione. Perché questa pubblicazione irrompe drammatica ma indispensabile nella nostra storiografia cosiddetta «locale» (dove talvolta ritroviamo anche cose superficiali insieme con tanti studi invece importanti) e costringe ad una riflessione.
Il libro di Sabine Mayr e Joachim Innerhofer è «avvolto» dalla cura rigorosa del museo ebraico di Merano e ripercorre storie di famiglie di religione (e sensibilità, storia, esperienza) ebraiche in un territorio che la Storia ha voluto, anche in questo caso, attraversato da barbarie e da drammi privati e collettivi.
«Merano per la sua particolare posizione geografica di confine tra due mondi, quello italiano e quello austriaco-tedesco, ha rappresentato da sempre una particolarità - approfondisce in una delle prefazioni del volume Riccardo Di Segni, grande protagonista della storia della Comunità ebraica di Roma - e anche la Shoah locale ha avuto delle sue caratteristiche particolari. Sapere cosa c'era prima e cosa e come è stato travolto, chi è stato vittima e chi carnefice, chi ha assistito inerme e chi ha collaborato, chi è caduto e chi è riuscito a salvarsi».
Una prima edizione di questa ricostruzione è comparsa in lingua tedesca, con un titolo seducente che pone l'accento sul tema del tradimento: quello che cittadini leali hanno subito dalla loro patria. Ora vede la luce questa edizione in lingua italiana, ulteriormente accresciuta di dati e aggiornamenti. «Vi leggiamo - prosegue Di Segni - le storie di gente comune e di imprenditori, di albergatori, cantori, commercianti, medici, pellicciai, sarti, avvocati. Una ricchezza di umanità da tenere cara nel ricordo. È con attenzione e gratitudine che saluto quest'opera, augurandole la massima diffusione, non solo a livello locale».
C'è da augurarselo sinceramente. Tanto più che «il testo percorre in senso quasi memorialistico storie collettive, familiari e di singoli della Comunità ebraica di Merano, uniti fra loro da vincoli culturali, religiosi e sociali, devastati dalle leggi razziali prima, deportati e sterminati in seguito durante la Shoah», come tiene a dire Elisabetta Rossi, che di questa Comunità è l'infaticabile e coraggiosa presidente. La quale continua così nella sua riflessione: «Non bisogna infatti sottovalutare che la trasmissione della memoria passa anche attraverso la conservazione di una documentazione spesso dispersa, frastagliata e difficilmente reperibile. Il frutto del lavoro dell'autrice e dell'autore, dopo anni di scrupolosa ricerca, contribuisce in modo esemplare alla trasmissione del valore della memoria di fatti storici assolutamente inconfutabili. Ancora ai giorni nostri, sul finire dell'anno 2016 (inizio del 5777 per noi ebrei), si può constatare con amarezza e con sconcerto che il dilagare di idee e teorie revisionistiche alla pari del più bieco antisemitismo serpeggino ancora tra le compagini del nostro Paese, in Europa e nel mondo».
E ancora: «Ricostruire il nostro passato recente costituisce un'imperdibile occasione per custodire i tratti di un mondo per tanti aspetti scomparso e perduto - aggiunge Elisabetta Rossi - per l'insieme di questi motivi, in considerazione anche del fatto che stiamo vivendo una fase transitoria durante la quale assistiamo inesorabilmente al progressivo venire meno degli ultimi testimoni diretti, ritengo che questo volume possa essere una ottima piattaforma di lavoro e di studio per molti interessati, ma in special modo per le giovani generazioni».
Quando la patria uccide (Raetia Verlag, Bolzano) sarà presentato a Merano lunedì 19 dicembre alla sinagoga di Merano alle 19.
Ospiti saranno i testimoni Aziadè Gabai, Lola Polacco, Alexander von Bach, Cesare Moisè Pinzi, Eric Herzum, Bent Schlesinger e Federico Steinhaus, nonché i discendenti Franca Avataneo, Lydia Cevidalli, Elisabeth Huldschiner ed Esther Schmorak, Maurizio Goetz, Daniele e Massimo Gronich, Martin e Peter Langer, Ludwig Thalheimer e Sandro Wagmeister.
Musica ad opera di Stellerranti (Cinzia Bauci voce, Lydia Cevidalli violino, Pierantonio Gallesi fisarmonica), con la collaborazione del Museo ebraico, Urania.
Il libro è stato pubblicato con il contributo della Provincia di Bolzano, della Regione, del Comune di Merano, dell'Archivio Storico di Bolzano, della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano, Furcht Pianoforti e Schulze Pollmann.

(Corriere dell'Alto Adige, 15 dicembre 2016)



Parashà della settimana: Va-ishlach (Mandò avanti)

Genesi 32.4-36.43

 - "I-o sono il D-o di beth-El. Ora levati, esci da questo paese e torna alla tua terra natia" (Gen. 31.13).
Parole del Signore rivolte a Giacobbe che viveva ancora in esilio. Per questa ragione la sua personalità era rimasta soffocata nella casa dello zio Labano, come oggi accade a molti ebrei che vivono fuori dalla Terra d'Israele. E' giunto il momento di tornare e Giacobbe doveva rientrare nel suo vero essere, che dopo aver trascorso due decenni in esilio era diventato molto simile a quello di Esaù.
Durante il ritorno, dopo aver aiutato la sua gente ad attraversare un fiume, "Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'alba" (Gen. 32.25).
Chi era quest'uomo? Secondo alcuni commentatori era l'angelo di Esaù, che combatte (vayeavek) contro Giacobbe. Rashì suggerisce un'altra possibile spiegazione: il verbo "vayavek"(lottare) è simile al verbo (vayechavek) che significa "abbracciare". In realtà si tratta dell'ambivalenza di Giacobbe come sostenuto da Nahmanide (Ramban) in quanto il significato del verbo può essere duplice cioè lotta ma anche abbraccio.
Il combattimento con l'angelo rivela che la spiritualità fuori dal mondo della realtà (materia) è una benedizione vana, una vera schizofrenia. Il progetto di Giacobbe era invece quello di unire questi due mondi e tale tentativo è simbolizzato dalla lotta con l'angelo di Esaù, l'angelo della materialità. Una tale situazione si verifica solo quando Giacobbe entra nella Terra d'Israele, "luogo" di incontro tra spiritualità e realtà. Difatti la scala sognata da Giacobbe, poggia i suoi piedi in terra d'Israele e la sua cima in cielo, da cui scende la benedizione necessaria per realizzare il progetto Divino nella storia. Giacobbe, dopo questa lotta con l'angelo, riceve da questo la benedizione e cambia la sua identità per chiamarsi "Israele" (Gen. 32.29).
Il combattimento dura tutta la notte "fino allo spuntare dell'alba" come riportato nella Torah. E' la notte dei tempi attraverso le guerre e le sofferenze dell'Umanità al cui centro sta il popolo ebraico come capro espiatorio del Potere delle Nazioni. Durante la lotta Giacobbe viene colpito dall'angelo all'anca cioè "all'estremità del femore" che simbolicamente si considera come luogo di crescita della storia. Nel giudaismo difatti lo scopo della lotta è quello di trasmettere i valori della Torah di generazione in generazione (dor va dor) fino al compimento dei tempi (era messianica) quando cielo e terra si incontreranno con la benedizione di D-o.
"Esaù corse incontro a Giacobbe , lo abbracciò, gli si gettò al collo e lo baciò" (Gen. 33.4)
Rashì ritiene che in realtà non fu un "bacio" ma un "morso" di Esaù dato al collo del fratello, interpretando la radice del verbo baciare simile a quella di mordere. Nella tradizione ebraica Esaù viene assomigliato ad un maiale, che si presenta con l'unghia del piede spaccata, il che fa credere che sia "kasher" quando, non essendo un animale "ruminante" non viene considerato" kasher" dalla Torah. Fuori appare pulito mentre dentro è sporco. Il prototipo dell'ipocrisia che finge di fare teshuvà (pentimento) mentre all'interno resta sulle sue posizioni di vendetta nei confronti del fratello. Esaù non vuol comprendere che oltre alla forza fisica esiste nella storia del mondo, una forza spirituale, che domina e vince la materia. E' la forza che nasce con lo studio e con l'osservanza della Legge donata all'uomo da D-o.

La violenza su Dina
Dina era l'unica figlia di Lea e Giacobbe. Questa venne violentata da Scehem figlio di Chamor. I fratelli di Dina saputo della violenza subita dalla sorella, ne furono addolorati e adirati( Gen. 34.7).
Chamor e suo figlio Schehem chiesero di sposare Dina alla cui richiesta i figli di Giacobbe acconsentirono a condizione che tutti gli abitanti del posto venissero circoncisi. Costoro dettero ascolto a Chamor e nel terzo giorno quando ancora erano sofferenti per l'intervento subito, Simeone e Levi figli di Giacobbe, presero le loro spade e uccisero tutti i maschi compreso Chamor e suo figlio.
Di fronte a questa rappresaglia Giacobbe rimproverò i suoi figli dicendo loro: "Mi avete danneggiato, mettendomi in cattiva luce presso i Cananei" (Gen. 34.30).
Il midrash riferisce che la critica di Giacobbe ai figli è fatta per sminuire le sue responsabilità su quanto accaduto. Nell'incontro con Esaù - riporta il midrash - Giacobbe "nascose" la propria figlia Dina per timore che suo fratello potesse chiederla in sposa. La successiva violenza fatta su Dina da Schehem è da interpretare come una punizione per Giacobbe che aveva ostacolato l'incontro con suo fratello. Se il matrimonio fosse avvenuto, Dina, avrebbe potuto riportare Esaù sulla giusta strada. Giacobbe aveva trascurato per necessità vitali il dialogo con il fratello, cosa questa che portò alla loro tragica divisione. La Torah vuole darci un profondo insegnamento umano: "La dimensione fraterna non deve essere mai rigettata". F.C.

*

 - Le paure dell'incredulo Giacobbe
Giacobbe è partito da Beer Sheva verso Paddan Aram con la benedizione del padre Isacco, ma con la paura di dover subire prima o poi la vendetta del fratello Esaù. A Charan si trova incastrato e sfruttato dallo zio Labano, sia sul piano della famiglia sia su quello del lavoro. Quando Dio gli dice: "Torna al paese dei tuoi padri e al tuo parentado" (Gen. 31.3) Giacobbe è pronto a farlo, ma lo fa di nascosto perché ha paura di quello che potrà fargli lo zio. Dio gli viene in aiuto ingiungendo in sogno a Labano di non azzardarsi a toccare un capello a Giacobbe. La questione fra i due è risolta, ma subito dopo Giacobbe viene a sapere che il fratello Esaù gli viene incontro con quattrocento uomini, ed è colto dall'angoscia. Eppure, le esperienze del nonno e del padre, oltre a quelle sue personali, avrebbero dovuto renderlo certo della protezione del Signore. Dov'è la sua fede? Nella sua fedeltà Dio ha impedito che avvenisse ciò di cui Giacobbe aveva paura, ma non ha impedito che l'incredulo Giacobbe ne provasse paura come se la cosa dovesse realmente avvenire. E' in questo modo che Dio punisce l'incredulità dell'uomo, confermando nello stesso tempo la sua fedeltà. E quando questo avviene, il risultato è una maggior gloria a Dio per la sua fedeltà, e una maggiore umiliazione all'uomo per la sua incredulità.
Oltre alla fragilità del suo rapporto con Dio, Giacobbe continua a non essere simpatico nei suoi rapporti con gli uomini. Ha una paura tremenda del fratello, nonostante le promesse di Dio; continua a non fidarsi di Esaù nonostante il calore con cui l'ha abbracciato e non accetta la protezione che vuol dargli con la sua scorta; lo costringe ad accettare i suoi doni come se in questo modo volesse pagare la benevolenza ricevuta; lo inganna ancora una volta quando gli dice che lo raggiungerà a Seir e subito dopo che è partito devia in direzione di Sichem. E lì la tremenda storia dello stupro di Dina e del massacro dei sichemiti fa capire quali sono i risultati che ottengono i servitori di Dio quando per evitare situazioni di cui hanno paura agiscono di testa propria.

Giacobbe cerca la benedizione
In mezzo a storie di una umanità fin troppo familiare a noi esseri umani, la Bibbia ogni tanto fa emergere una di quelle storie strane, enigmatiche, che rendono questo libro altamente resistente a sbrigative classificazioni.
Una di queste è la lotta notturna di Giacobbe con "un uomo" sulle rive dello Iabbok. Alla fine dello scontro Giacobbe dice: "Ho visto Dio faccia a faccia" (Gen. 32:30), e questo spiega chi era in realtà quell'uomo. Ma perché questa lotta? Possiamo tentare una riflessione, più che una vera e propria spiegazione. Forse è l'uomo che comincia la lotta e Giacobbe si difende come da un'aggressione; poi comincia ad avere il sopravvento e allora l'altro mostra di voler sfuggire alla presa e scappare. Giacobbe però a un certo punto capisce che contro di lui è Dio stesso a combattere e allora con tutte le sue forze cerca di impedire che si divincoli e scappi. Perché? Perché vuole essere benedetto, avvertendo che senza quella benedizione per lui sarebbe la fine. La benedizione che aveva strappato al fratello con il commercio adesso vuole ottenerla con la forza. L'uomo misterioso riconosce di essere stato vinto in quel tipo di lotta e allora manifesta la sua autorità con un colpo speciale: tocca la commessura dell'anca del suo avversario. Dopo di che gli cambia il nome, e per la prima volta, applicato al patriarca Giacobbe, figlio d'Isacco figlio d'Abramo, nella Bibbia compare il nome "Israele".
E fu in quella notte che nacque la nazione di Israele.
Questa affermazione, che certamente provocherà obiezioni, ha un valore storico simile a quello usato da Theodor Herzl quando, dopo il primo congresso sionistico del 1997, scrisse nel suo diario: "A Basilea ho creato lo stato ebraico".
Per essere più precisi, si può dire che in quella notte avvenne il concepimento di Israele; nei successivi quattrocento anni ci fu la gestazione nel grembo dell'Egitto; e alla fine del periodo di schiavitù ci furono le dieci piaghe, che rappresentano le doglie a cui seguì il parto della nazione, sotto la guida saggia e competente della levatrice Mosè.
Ma su questo ci proponiamo di ritornare in successivi commenti.

Un futuro che si va formando
E' importante in ogni caso sottolineare che i suggestivi racconti della Genesi hanno un carattere essenzialmente profetico, cioè annunciano un futuro che si va formando sotto la potente mano del Signore.
Questo è confermato da un'altra chiara presa di posizione di Dio, che in un'apparizione ripete a Giacobbe le stesse promesse di benedizioni che aveva fatto ad Abramo e a Isacco. Sono parole che annunciano un futuro in cui compaiono, ancora una volta, due elementi essenziali: la progenie e la terra.
"Dio apparve ancora a Giacobbe, quando questi veniva da Paddan-Aram, e lo benedisse. Dio gli disse: «Il tuo nome è Giacobbe. Tu non sarai più chiamato Giacobbe, ma il tuo nome sarà Israele». E lo chiamò Israele. Dio gli disse: «Io sono il Dio onnipotente; sii fecondo e moltìplicati; una nazione, anzi una moltitudine di nazioni discenderà da te, dei re usciranno dai tuoi lombi; darò a te e alla tua progenie dopo di te il paese che diedi ad Abraamo e ad Isacco»" (Gen. 35:9-12). M.C.

  (Notizie su Israele, 15 dicembre 2016)


"Vorrei ringraziare chi non ha permesso ai due F-35 americani di decollare alla volta di Israele"

di Roberto Della Rocca

12 DICEMBRE, ore 17:33 - Vorrei ringraziare personalmente chi, in Italia, non ha permesso ai due f-35 americani di decollare alla volta di Israele, ritardando di diverse ore la sfarzosa e inutile cerimonia di atterraggio in una base dell'areonautica israeliana, alla presenza del primo ministro, del presidente, del ministro della difesa e una lunga fila di politici che invece di occuparsi dei veri problemi dello stato, hanno cercato una opportunita' per farsi fotografare vicino ad un aereo che non risolvera' nessuno dei nodi politici, sociali e culturali di fronte ai quali si trovano oggi i cittadini israeliani. Quei costosissimi aerei (e dicono anche non tanto buoni) non serviranno a risolvere il conflitto con i palestinesi, ne' il prossimo, mai sia, confronto con Hamas a Gaza, ne' aiuteranno i 2.5 milioni di poveri, tra i quali un milione di bambini, a uscire dalla spirale della disperazione (dato pubblicato proprio oggi con rabbrividente concomitanza). Il rumore mediatico sviluppatosi negli ultimi giorni intorno a quei costosissimi aerei, che forse fra qualche anno scopriranno essere arrivati grazie a mazzette pagate a gente dell'enturage del primo ministro supremo (come successo con i sottomarini tedeschi), e' servito solo alla propaganda e a far dimenticare in quale situazione caccuta ci troviamo. Israele e' in pericolo! la nostra democrazia e' in pericolo! ma tutti sono occupati a seguire questi baccanali. Sicurezza per Israele non e' solo esercito, per quanto sia importante, sicurezza per Israele e' prima di tutto rafforzare la democrazia, invece di minarla, rafforzare la societa' e i ceti disagiati, invece di affondarli e risolvere il conflitto con i palestinesi, invece di soggiogarli. Questa e' la vera sicurezza! Chi ama Israele, come me', e chi la vuole vedere forte e leader mondiale, come me', puo' solo essere preoccupato in questo cupo periodo, molto.

(Frammenti vocali in MO: Israele e Palestina, 14 dicembre 2016)


Piloti dell'IAF volano per la prima volta su Israele con i nuovi F-35


Netanyahu in Asia centrale per accrescere sostegno internazionale

GERUSALEMME - La visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nelle repubbliche centroasiatiche di Azerbaigian e Kazakhstan è stata contraddistinta dalla firma di accordi nei settori della ricerca e sviluppo, dell'aviazione, della cooperazione agricola e di quella militare. In particolare, nel corso della sua permanenza ad Astana, il premier israeliano ha sottolineato l'importanza delle relazioni diplomatiche con Gerusalemme ed il sostegno che questi paesi possono dare nei consessi internazionali. Il viaggio nei due paesi dell'Asia centrale di Netanyahu è iniziato ieri in Azerbaigian, dove ha incontrato il presidente azero Ilham Aliyev. L'Azerbaigian ha finora acquistato sistemi di difesa da Israele per un valore complessivo di circa 5 miliardi di dollari, ha affermato il capo dello Stato azero, spendendo inoltre parole positive riguardo la cooperazione militare fra i due paesi, che dura ormai da diversi anni. "Per dare un'idea di quanto siano estesi gli scambi nel settore della difesa, fino ad ora i contratti siglati fra compagnie di Azerbaigian e Israele per sistemi militari ammonta a circa 5 miliardi di dollari", ha spiegato il capo dello Stato azero, parlando con la stampa. Da parte sua, il premier israeliano ha dichiarato che vi è un rafforzamento della cooperazione nei settori dell'energia, dell'agricoltura, dell'informatica e dell'istruzione.

(Agenzia Nova, 14 dicembre 2016)


Una mostra per raccontare i cento anni della comunità ebraica in Toscana

 
Palazzo Medici Riccardi a Firenze
C'è il gruppo di Livorno, il più numeroso, poi quello di Firenze, quello di Pisa, il piccolo nucleo di Pitigliano. Ci sono i Nunes a Piombino, i Bemporad a Rosignano o i Finzi ad Anghiari. Sono le tante comunità ebraiche che negli anni hanno contribuito a costruire la storia della Toscana. Una rete diffusa e diversificata che viene raccontata adesso nella mostra "Ebrei in Toscana (XX-XXI secolo)", progetto ideato e realizzato dall'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della Provincia di Livorno.
  "Questa mostra rientra appieno nelle politiche della memoria che la Regione Toscana sta portando avanti da anni", ha commentato la vicepresidente Monica Barni durante la conferenza stampa di presentazione. "Ed è un progetto di grande rilievo perché ricostruisce le vicende storiche di tutte le comunità ebraiche toscane, allargando lo sguardo a partire dalla prima guerra mondiale fino a oggi. Ne è uscita una esposizione monumentale, risultato di una lunga e articolata azione di studio ed analisi, aspetto importante perché oltre alla memoria la Regione sostiene fortemente anche la ricerca".
  "Ebrei in Toscana (XX-XXI secolo)" nasce nell'ambito delle iniziative che la Regione Toscana ha finanziato per il centesimo anniversario della Prima guerra mondiale e del settantunesimo anniversario della Liberazione del campo di sterminio di Auschwitz.
  Dentro questa cornice si colloca la ricerca storico-scientifica condotta dall'Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea della Provincia di Livorno, con la collaborazione della Scuola Normale Superiore di Pisa e di partner di rilevanza nazionale ed internazionale quali il Memorial de la Shoah di Parigi, lo Yad Vaschem di Gerusalemme, il Primo Levi Center di New York.
  Un progetto di ricerca che si è sviluppato nell'arco temporale di tre anni e che la Regione ha sostenuto per fornire alle nuove generazioni conoscenza e consapevolezza storica e civile del valore della cultura ebraica per la città di Livorno e per l'intera società toscana.

 La mostra
  Allestita nei locali della Sala delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi a Firenze, la mostra - visitabile dal 20 dicembre - racconta 100 anni di vita delle comunità ebraiche toscane e i loro intrecci con il resto della comunità ebraica italiana, i suoi collegamenti con quella europea, mediterranea e internazionale.
  L'importanza delle comunità ebraiche nella storia della regione è legata alla presenza di una rete diffusa e diversificata di gruppi. Ogni comunità, tramite i suoi componenti, ha legami con il resto del mondo. Alcune famiglie provengono dall'antica emigrazione iberica, altre dall'America latina, altre dal bacino del Mediterraneo. Ogni comunità poi ha relazioni con la tradizione sionista nazionale ed europea ed extraeuropea, con i fermenti culturali che attraversano il paese, con le ideologie più significative che lo agitano.
  Attraverso un approccio metodologico innovativo, in questa mostra si vogliono narrare le vicende riguardanti le comunità ebraiche toscane in un'ottica meno consueta allargando lo sguardo, accanto all'irrinunciabile tema della Seconda guerra mondiale e della Shoah, all'intero arco della storia della minoranza ebraica dentro la storia d'Italia: dalla Prima guerra mondiale, ai giorni nostri.

(#gonews.it, 14 dicembre 2016)


Accordo su gasdotto per l'Europa tra Israele, Grecia e Cipro

Il Ministro israeliano delle Infrastrutture nazionali, Energia e Risorse Idriche, Yuval Steinitz ha incontrato ieri a Gerusalemme il Ministro greco dell'Economia, Sviluppo e Turismo, Giorgos Stathakis e il collega cipriota dell'Energia Commercio, Industria e Tursimo, Georgios Lakkotrypis, per promuovere una piu' stretta cooperazioneeconomica nel settore dell'energia con l'Europa e incontrare al piu' presto il Commissario Europeo per l'Energia e l'Azione sul Clima, Miguel Arais Canete. Lo riporta il giornale economico Globes.
Obiettivo dell'incontro e' stata la decisione di promuovere la costruzione di un gasdotto che colleghi Israele a Cipro e alla Grecia e di qui l'Italia e la Bulgaria (progetto per il quale l'Unione Europea ha gia' preparato uno studio di fattibilita') per esportare gas naturale e rendere l'Europa meno dipendente da un punto di vista energetico dalla Russia.
Il costo dell'opera dovrebbe aggirarsi intorno ai 5.7 miliardi di dollari e dovrebbe raggiungere l'equilibrio finanziario ed essere economicamnte vantaggioso con un prezzo di 7-9 dollari per BTU. Alcune fonti interne al settore energetico stimano, tuttavia, questo calcolo inferiore al costo reale che dovrebbe essere di almeno 2 miliardi di dollari in piu' e un prezzo di 7-9 dollari per BTU non economicamente accettabile in un mercato nel quale la Russia, oggi, vende 175 miliardi di metri cubi di gas ad un prezzo medio di 4.40 dollari per BTU e rappresenta il 43% di tutto il gas consumato in Europa.
Nello stesso giorno il Commissario europeo per l'Energia ha reso noto che i 124 accordi commerciali bilaterali per la fornitura di gas saranno riunificati in un solo strumento sempre nell'ottica di ridurre la dipendenza dell'Unione Europea dalla Russia.
Il gasdotto, naturalmente, puo' diventare un affare ancora piu' appetibile se le forniture di gas aumenteranno a seguito di nuove scoperte mentre il Ministro Steinitz, ha, infine, sottolineato l'aspetto politico-strategico per gli equilibri fra gli Stati nella regione.

(Tribuna Economica, 14 dicembre 2016)


Addio a Spizzichino, scovò Priebke

Muore a novant'anni la donna che fece arrestare il nazista. Il dolore della Comunità Ebraica: «Aveva grande coraggio». Fu lei a stanarlo dopo la fuga a Bariloche, cuore dell'Argentina. «Cordoglio e vicinanza alla famiglia» dal presidente Mattarella.

Che tenacia e che storia. Giulia Spizzichino, la donna che fece arrestare Erich Priebke, è morta nella notte tra lunedì e ieri a novant'anni. «Diamo onore a una eroina della nostra Comunità - ha scritto su Facebook Riccardo Pacifici, ex presidente della Comunità Ebraica romana - la sua tenacia ha consentito al nostro Paese di processare Erich Priebke, andò a scovarlo personalmente a Bariloche in Argentina- Sentimenti di «cordoglio e di vicinanza alla famiglia» anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Ho appreso con profonda commozione la notizia della scomparsa di Giulia Spizzichino», ha fatto sapere il Capo dello Stato.
Giulia Spizzichino - ricorda la Comunità Ebraica di Roma - perse gran parte della sua famiglia nell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Cacciata a undici anni dalla scuola per le leggi razziali, i suoi parenti vennero catturati dai nazisti nella retata del 21 marzo 1944 dopo la delazione di un fascista. Si salvò miracolosamente insieme alla madre perché in quel momento non era con il resto della famiglia. Testimone della Shoah italiana, la sua storia è raccontata nel libro "La farfalla impazzita - Dalle Fosse Ardeatine al processo Priebke", curato da Roberto Riccardi per raccontare gli avvenimenti della sua vita. Fu lei che nel 1994 si recò personalmente in Argentina per far estradare il boia nazista Erich Priebke dove, fino ad allora, aveva vissuto senza mai affrontare la giustizia. «Una perdita dolorosa per la Comunità - dice la presidente Ruth Dureghello - Giulia ci ha insegnato con il suo coraggio e la sua tenacia che non è mai tardi per pretendere giustizia. Ci lascia un'altra testimone della memoria, a noi spetta il compito di ricordare alle nuove generazioni il suo esempio positivo». «Sono profondamente addolorato per la scomparsa di Giulia Spizzichino - dice tra gli altri il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti - È stata una donna coraggiosa che con la sua preziosa testimonianza permise l'estradizione e la condanna del capitano delle SS Erich Priebke. Il compito delle istituzioni è quello di impegnarsi costantemente per formare una nuova generazione di testimoni capaci di guardare al futuro con la consapevolezza di quello che è stato». L.Lip.

(Il Messaggero, 14 dicembre 2016)


Niente gonne corte alla Knesset: scoppia la protesta

"Questo non è il Parlamento iraniano!", "Volete il burqa?". Alla Knesset, il parlamento israeliano, è scoppiata una bufera sulla lunghezza delle gonne delle assistenti parlamentari, dopo che nei giorni scorsi diverse di loro sono state fermate all'ingresso per l'abito troppo corto. E oggi è partita la protesta: decine di assistenti, scrive il Jerusalem Post, si sono presentate in gonna corta. A sostenerle sono arrivati anche parlamentari dell'opposizione, fra cui uomini anche loro con la gonna. Le donne sono state tutte bloccate all'ingresso.
   Il 'dress code' della Knesset esclude le "gonne corte" ma senza quantificare la lunghezza considerata accettabile. Dopo che alcune settimane fa l'abito di una donna entrata alla Knesset ha scatenato alcune lamentele, la direzione generale ha diramato una nota alle guardie all'ingresso che da allora sono diventate più rigide.
   Ma la vicenda non ha fatto altro che scaldare gli animi, in un Paese dove il governo di Benjamin Netanyahu appare sempre più nazional conservatore. "Questa è una lotta per la libertà delle donne, alle quali lo speaker della Knesset Yuli Edelstein ha dichiarato guerra", ha detto oggi Shelly Yachimovich di Unione Sionista. "Cosa vogliono, che indossino il burqa?", ha aggiunto il suo collega Manuel Trajtenberg, che ha cercato di entrare in canottiera, mentre il deputato del partito Meretz Ilan Gilon si chiedeva se la Knesset è diventata "il Parlamento iraniano".

(Adnkronos, 14 dicembre 2016)


Hamas: "Abbiamo un vero esercito per combattere Israele"

Intervistato alla tv, un capo di Hamas dice che il gruppo terrorista che controlla Gaza è pronto a vendere missili ai paesi arabi "purché li usino contro gli ebrei".

Fathi Hammad, membro dell'ufficio politico di Hamas ed ex ministro degli interni di Hamas a Gaza, ha dichiarato che il suo gruppo si è ormai dotato di un "vero esercito" per combattere Israele ed è anche diventato il principale produttore di missili nel mondo arabo.
Nel corso di un'intervista dello scorso 8 dicembre alla tv al-Aqsa, tradotta e diffusa in inglese dal Middle East Media Research Institute (MEMRI), Hammad ha affermato che Hamas "ha assunto la risoluta decisione di attenersi saldamente alla jihad [guerra santa] come unico mezzo per liberare la Palestina". Nell'intervista, Hammad ha definito il disimpegno di Israele dalla striscia di Gaza dell'estate 2005 una liberazione avvenuta "sotto il comando di Hamas e grazie alla sua jihad", e ha vantato i successi della gestione sociale di Gaza sotto il controllo di Hamas.

(israele.net, 14 dicembre 2016)


Teva: Arriva il primo inalatore di Cannabis per uso medico

 
Inalatore medico di Cannabis
Sembra che l'industria farmaceutica stia cambiando approccio verso la cannabis medica. La Teva Pharmaceutical Industries Ltd. ha recentemente stipulato un accordo di cooperazione e marketing con la società israeliana Syqe Medical al fine di commercializzare il primo inalatore di cannabis al mondo. La cifra dell'investimento rimane top secret.
Secondo l'accordo, Teva Israel sarà il distributore esclusivo in Israele di questo inalatore medico di Cannabis, mentre Syqe sarà responsabile della produzione del dispositivo e delle sue cartucce.
I dati indicano che nel 2016, Israele ha avuto circa 26.000 licenze di consumo di cannabis medica, e le stime sostengono che le licenze raddoppieranno entro il 2018.
L'inalatore di Syqe fornisce ai pazienti una soluzione efficiente che permette loro di inalare un dosaggio ottimale di cannabis per contrastare il dolore.
L'inalatore di Syqe sarà prodotto per una vasta gamma di pazienti con malattie diverse, sulla base delle indicazioni approvate dal Ministero israeliano della Salute. Il dispositivo è stato già utilizzato al Rambam Medical Center di Haifa per un anno. In realtà, il Rambam è il primo ospedale al mondo in cui la cannabis è stata usata come trattamento medico regolare.
Una versione speciale per gli ospedali fornirà agli infermieri ed operatori sanitari un dispositivo medico certificato adatto per le cliniche del dolore, centri oncologici e unità di terapia intensiva. Il Syqe Inhaler Exo è disponibile per uso ospedaliero in Israele.

(SiliconWadi, 14 dicembre 2016)


L'ambasciata? «A Gerusalemme»

Trump non intende firmare l'ordine esecutivo che, periodicamente, «blocca» lo spostamento da Tel Aviv fino a quando non sarà chiarito lo - status - della Città Santa.

di Elena Molinari

NEW YORK - Prima ancora di insediarsi alla Casa Bianca, Donald Trump prepara un'altra mossa diplomatica controversa. Dopo aver riaperto di fatto un canale di comunicazione con Taiwan, suscitando le ire della Cina, il presidente designato ora intende spostare l'ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Una mossa che rischierebbe di alimentare le tensioni già molto forti fra arabi e israeliani nella regione.
   In base a una legge varata dal Congresso americano nel 1995, la principale rappresentanza diplomatica Usa dovrebbe già essere a Gerusalemme, definita nel provvedimento «capitale indivisibile dello Stato ebraico». Ma finora tutti i presidenti hanno emanato decreti esecutivi per bloccare l'entrata in vigore della misura fino a quando un accordo di pace fra israeliani e palestinesi non risolverà la questione dello status di Gerusalemme.
   La sospensione continua da Bill Clinton a Barack Obama, passando per George W Bush, ed è considerata necessaria per motivi di sicurezza nazionale. All'inizio di dicembre Obama ha firmato una proroga di altri sei mesi. Ma lo scorso marzo l'allora candidato repubblicano promise alla maggiore organizzazione ebraica americana, l' Aipac, che avrebbe cambiato le cose. E ora uno dei suoi principali consiglieri, Kellyanne Conway, l'ha confermato: la questione è di «altissima priorità» per Trump. «Si tratta di una cosa che Israele, un grande amico che abbiamo in Medio Oriente, apprezzerebbe, e che molti ebrei americani hanno indicato essere una loro preferenza», ha detto Conway. Lo staff del neoeletto sarebbe già alla ricerca del luogo dove far costruire la nuova residenza e, stando al Times of Israel, avrebbe individuato un punto nel comprensorio di Talpìot, dove si trova il consolato degli Stati Uniti. Il trasferimento potrebbe però non essere semplice. Sempre secondo il quotidiano israeliano, «dal progetto è stato escluso il dipartimento di Stato, e il personale diplomatico americano è profondamente irritato dall'idea». Ugualmente, «funzionari dell'intelligence e della diplomazia israeliana si dicono preoccupati delle possibili conseguenze di un trasferimento immediato, temendo le reazioni da parte del mondo arabo e sulle strade di Gerusalemme Est». I palestinesi considerano infatti Gerusalemme Est, territorio che Israele conquistò durante la guerra del 1967, come capitale del loro futuro Stato.

(Avvenire, 14 dicembre 2016)


Cartoline da Israele

di Sira Fatucci

"Cartoline": così si chiama il progetto che si pone l'obbiettivo di dare voce al pensiero di studenti israeliani che hanno avuto una formazione didattica sul tema della Shoah.
Il progetto nasce in Israele da una collaborazione fra la scuola centrale di Yad Vashem per l'insegnamento della Shoah e il dipartimento di grafica del centro accademico WIZO di Haifa. Una collaborazione proficua che ha prodotto finora una serie e di cartoline, alcune delle quali molto significative e valide sia da un punto di vista artistico che didattico.
Le cartoline mostrano aspetti della Shoah dal punto di vista dei giovani israeliani e ciascuna potrebbe essere un punto di partenza e uno stimolo per ulteriori approfondimenti sul tema.
Nelle cartoline possiamo vedere, ad esempio, la foto di un paio di stivali indossati da un giovane e che potrebbe essere facilmente scambiata per una pubblicità, se non fosse per la scritta che compare sulla foto e la attraversa: 'Ho visto la paura negli occhi di mia nonna nel momento in cui ha notato gli stivali'.
In altre cartoline vengono narrate in modo molto sintetico storie individuali, come quella di Malka Rozental, costretta a dare un'interpretazione molto personale del gioco del "Nascondino".
In un'altra ancora si vede la fotografia originale di persone reali le cui sagome sono offuscate e ridotte ad un'ombra.
Il progetto, grazie all'impegno di Yad Vashem e che viene pubblicato anche grazie all'aiuto di ICHEIC Humanitarian Fund, da oggi "parla" anche italiano ed è stato presentato e distribuito - per ora solo ad un gruppo di insegnanti - questa settimana a Gorizia.

(moked, 14 dicembre 2016)


Arte e spiritualità ebraica: in Triennale 40 candelabri d'artista

MILANO - Gli oggetti e il sacro, un rapporto ultramillenario su cui il Triennale Design Museum di Milano continua a riflettere. In questo senso si inquadra anche la mostra "Lumi di Chanukkah - Tra storia, arte e design", allestita nell'atrio del Palazzo dell'Arte e dedicata ai candelabri rituali a nove braccia della tradizione ebraica, rivisitati in chiave contemporanea. Il curatore dell'esposizione, Elio Carmi, ha ricordato la genesi del candelabro, portatore di luce perenne per il Tempio."Come viene raccontata questa storia dal punto di vista dell'oggetto d'uso? Attraverso - ci ha detto - una forma che comprende otto candele o otto contenitori a olio e un lume esterno, che serve a indicare la continuità, è lo Shamash, il continuatore, quello che accenderà notte dopo notte, giorno dopo giorno, queste candele".Su questa struttura sia fisica sia spirituale si inseriscono gli interventi degli artisti. "Hanno fatto il loro gioco - ha aggiunto Carmi - hanno interpretato a modo loro questo tipo di storia e questa storia è una storia facile da interpretare, perché chiunque può leggerci ciò che vuole. Per esempio Dalisi con la povertà del territorio che lui occupa, è un artista che lavora con le fasce deboli del mondo napoletano, e con rame di recupero ha fatto questo paesaggio di otto luci".La mostra presenta 40 candelabri che provengono dalla collezione della Comunità ebraica di Casale Monferrato, rappresentata da Claudia De Benedetti, presidente dell'Agenzia ebraica italiana, che ha parlato del legame tra l'arte e la dimensione spirituale."Il valore aggiunto - ha spiegato - viene dai simboli della festa, come per esempio nell'opera di Lele Luzzati nella quale i rabbini fungono da contenitore delle candele e quindi ogni sera ricorderemo uno dei capisaldi dell'ebraismo, che è il rapporto con il maestro, nell'accendere dei lumi che, nella loro semplicità, portano comunque al ricordo della tradizione".In mostra anche lavori di alcuni grandi artisti, come Mimmo Paladino, che ha creato una struttura di ceramica con nove nicchie per i lumi, oppure Arnaldo Pomodoro, che ha usato le sue classiche forme scultoree per dare un sostegno alle candele. O ancora Emilio Isgrò, l'artista della cancellatura."Nel mondo ebraico - ha concluso Carmi - la parola Dio non c'è, viene annullata, viene cancellata. Allora Emilio si ritrova su un territorio nel quale può mettere in gioco questi aspetti".La mostra in Triennale resta aperta al pubblico fino all'8 gennaio, conclusione della festa di Chanukkah che quest'anno cade in corrispondenza del Natale cristiano.

(askanews, 13 dicembre 2016)


Israele - Bando per l’assunzione di un impiegato all'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv

TEL AVIV - Indetta dall'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv una procedura di selezione per l'assunzione di un impiegato a contratto da adibire ai servizi di assistente amministrativo nel settore segreteria-archivio-contabile presso l'Ambasciata.
Le domande di ammissione alle prove di assunzione dovranno essere presentate entro le ore 18.00 del giorno 11 gennaio 2017, utilizzando l'apposito modello di domanda.
L'avviso è stato affisso il 12 dicembre all'Albo dell'Ambasciata. L'avviso può essere scaricato al link
Il bando è segnalato dal Comites di Israele.

(Inform, 14 dicembre 2016)


«Sì, Mussolini salvò tremila ebrei dai lager»

Debenedetti conferma la sua teoria riferita al campo di Tarsia Ma l'affermazione dell'ebreo ferrarese lascia molte perplessità.

di Gian Pietro Zerbini

 
FERRARA - «Mussolini ha salvato circa tremila ebrei durante la seconda guerra mondiale».
  Un'affermazione quella fatta da Israel Corrado Debenedetti domenica nel corso del convegno sugli ebrei italiani e il sionismo in Castello, promosso dal Meis, che ha fatto storcere il naso a molti e non è passata inosservata.
  Una dichiarazione che accende i riflettori su una vicenda storica su cui ci sono ancora molti spunti da chiarire e verificare con attenzione.
  Cosa intendeva dire e a quali episodi si riferiva Debenedetti con questa sua affermazione nell'ambito di un appuntamento che aveva la finalità di portare alla luce le testimonianze concrete di chi è sfuggito alle persecuzioni razziali, rischiando anche di morire solo perché ebreo? Per sciogliere i dubbi lunedì mattina, prima che partisse per tornare in Israele, dove abita dal 1949, abbiamo chiesto spiegazioni a Debenedetti di questa sua affermazione e lui ha ribadito quanto espresso in sede di convegno.
  «Mussolini ha salvato circa tremila ebrei - spiega Debenedetti, confermando la sua teoria - perché ha costruito il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia a Cosenza, al sud. Se lo avesse fatto al nord Italia, probabilmente quegli ebrei che erano internati non si sarebbero salvati. Il campo fu costruito nel 1940 e all'interno sono stati deportati soprattutto ebrei e anche qualche cinese. Era un vecchio campo usato per i prigionieri turchi nella prima guerra mondiale. Gli internati in quel campo di concentramento in Calabria furono poi liberati con l'arrivo delle truppe alleate».
  Debenedetti ricorda anche il suo periodo ferrarese, ha vissuto la sua infanzia e la sua gioventù in via de Romei 8 e ha frequentato le scuole statali fino all'avvento delle leggi razziali.
  «Quando ci hanno cacciato da scuola perché ebrei - ricorda Debenedetti - siamo andati a scuola di via Vignatagliata nel ghetto, ricordo che come insegnanti avevamo anche Giorgio Bassani, a sua volta cacciato come insegnante dal liceo Ariosto».
  A soli sedici anni, nel 1943, Israel Corrado Debenedetti ricorda ancora quando fu incarcerato esclusivamente perché ebreo. E ieri mattina, durante il sopralluogo al Meis ha rivisto la sua cella.
  «Che emozione ho avuto? Beh, devo dire che la muratura e un po' cambiata rispetto a oltre settant'anni fa, però ho provato tanta emozione nel salire quei gradini che portano alla cella».
  Quel sedicenne ferrarese ebreo rischiò quell'anno di essere trucidato nella rappresaglia nazifascista davanti al muretto del Castello.
  «Mi trovavo in carcere in quella tragica notte - racconta Debenedetti- e quando ho visto che hanno portato via quattro persona tra cui l'ex senatore Arlotti, qualcuno disse che li stavano salvando, invece poi al mattino abbiamo saputo che invece erano stati condotti al macello. Io sono rimasto in carcere fino al 15 gennaio 1944 quando mi vennero concessi gli arresti domiciliari nella mia abitazione di via de Romei. A liberarmi secondo me ha contribuito molto mia nonna Emilia Tedeschi Vita Finzi, che andò a protestare vivacemente negli uffici della prefettura in Castell. o, dicendo che era una vergogna tenere incarcerato un ragazzo di 16 anni che non aveva fatto nulla. La cacciarono fuori in malo modo, ma evidentemente quella sortita ha fatto breccia nel cuore di qualcuno, visto che il mattino seguente mi hanno liberato. Ho passato poi gli ultimi mesi della guerra nel Ravennate, prima a Faenza e poi Brisighella».
  Alla fine del conflitto Israel Corrado si iscrive alla facoltà di chimica, ma dopo due anni, nel 1949, decide di partire con la moglie e andare in Israele.
  «Perchè sono partito? Per prima cosa volevo abbandonare l'Italia, nazione che aveva tradito gli ebrei e secondo perché volevo costruire una società nuova e più giusta proprio in Isreale. Qualche volta sono tornato a Ferrara in questi anni e l'ho trovata sempre bella, ha preservato il suo fascino. Qui ho ancora tanti ricordi, alcuni belli altri drammatici».
  L'anziano ebreo ferrarese ha una risposta anche per gli studenti dell'Uds che domenica mattina contestavano il convegno sugli ebrei con slogan antisionisti, rivendicando la liberazione della Palestina.
  «A quei ragazzi - replica - devo dire che se contestate la politica di destra del governo isrealiano mi trovano pienamente d'accordo. Contrario sulle critiche all'esistenza dello stato di Israele. Sono stati tra i primi italiani a credere in quello stato e tra i primi a partire lasciando la mia Ferrara».

(la Nuova Ferrara, 13 dicembre 2016)


Hapoel Beer Sheva sempre più temibile: dove può veramente arrivare?

Avevamo preannunciato la temibilità di questa squadra già a settembre, quando sfiorarono la qualificazione in Champions League e prima di affrontare l'Inter.

 
La squadra dell'Hapoel Beer Sheva
E la sua presidentessa Alona Barkat
Quest'anno, l'Hapoel Beer Sheva, dopo l'ottimo campionato scorso, disputa per la prima volta la Champions League vivendo gli anni più belli della sua storia sfiorando l'impresa. Parte dal secondo turno e supera i moldavi dello Sheriff Tiraspol poi, nel terzo turno, elimina i favoriti greci dell'Olympiakos. Nel play-off decisivo per l'accesso al tabellone principale della competizione perde per 5-2 l'andata in casa del Celtic e nel ritorno sfiora l'impresa, imponendosi in casa per 2-0, ma viene eliminato. La storia della squadra Israelian parte da lontano, noi avevamo trattato questa sorpresa del calcio prima del debutto ufficale in Europa League. Oggi la squadra del capoluogo della regione desertica del Negev e della Presidentessa Alona Barkat è più di una sorpresa.
L'8 dicembre contro il Southampton, Hapoel Beer Sheva mostra tutta la propria forza e al propria determinazione dimostrando di non trovarsi li a caso. L'unico scopo era segnare al St.Mary's Stadium, quando uno 0-0 o una sconfitta avrebbe sancito la loro eliminazione, e la squadra israeliana realizza (gol di Buzaglo, poi pareggiata inutilmente ai fini della classifica finale) da Virgil Van Dijk e centra la qualificazione ai sedicesimi di finale. Una qualificazione guadagnata con otto punti ottenuti contro Inter e Southampton e Sparta Praha. Israele continua a sognare (unica formazione israeliana a raggiungere la fase ad eliminazione diretta, dopo l'eliminazione del Maccabi Tel Aviv) per la prima presenza ufficiale in una competizione europea.

(CalcioWeb, 13 dicembre 2016)


"Cimitero ebraico di Mantova, una verifica è fondamentale"

"Indipendentemente da qualsiasi progetto si vorrà effettuare, è fondamentale una verifica preliminare della presenza di antiche sepolture nel sottosuolo nell'area di San Nicolò e una conseguente valutazione sul da farsi attraverso una discussione tra le diverse autorità competenti. Tengo a precisare però che la Comunità ebraica non ha comunque alcun diritto legalmente valido sull'area, quindi qualsiasi richiesta di 'restituzione di proprietà' è da ritenersi inesigibile. La richiesta dei rabbini israeliani si conferma quindi, almeno in questi termini, piuttosto assurda".
   Torna a parlare Emanuele Colorni, presidente della Comunità ebraica mantovana. E torna a confrontarsi sulle richieste avanzate da un gruppo di rabbini israeliani e statunitensi guidati da rav Shmaya Levi che, negli scorsi giorni, in visita a Mantova, hanno reclamato l'antico cimitero ebraico locale di San Nicolò (da non confondere con quello attualmente in uso nel quartiere di San Giorgio) perché vi sarebbe seppelliti illustri Maestri e cabalisti del passato.
   "Per tutto il mondo ebraico è fondamentale che quella terra ritorni ai suoi legittimi proprietari" ha affermato rav Shmaya prima di incontrare il sindaco Mattia Palazzi e altri esponenti dell'amministrazione comunale. Incontro propedeutico a una richiesta ufficiale in questa direzione.
   Rovistando tra le carte dell'archivio, il presidente ha intanto ritrovato un documento ufficiale che attesta la cessione del cimitero di S.Nicolò da parte della Commissione Israelitica all'erario militare austriaco (scrittura del 3 agosto 1857 a rogito del notaio Quintavalle). In un altro documento del 1873 si attesta invece la proprietà del terreno "al Regio erario civile".
   "Qualsiasi siano i risultati delle verifiche che andranno disposte - afferma Colorni - è importante prestare attenzione alle parole e ai termini che vengono usati. Non stiamo infatti parlando di espropri forzosi o di sottrazione indebita di terreni ma di ben documentata vendita da parte della Comunità ebraica all'autorità pubblica.

(moked, 13 dicembre 2016)


L'Università Mediterranea instaurerà rapporti con Israele

Rafael Erdreich
REGGIO CALABRIA - L'Università degli Studi "Mediterranea" di Reggio Calabria rafforza i suoi rapporti internazionali. Martedì 13 dicembre, in occasione della Mediterranean International Day, è stato fatto il punto sui risultati degli accordi e delle partnership avviate in questi anni con altrettante università dell'area del Mediterraneo, europee ed extraeuropee.
Ma la giornata ha sancito i nuovi accordi che in prospettiva, la "Mediterranea" instaurerà con le principali università israeliane, grazie alla partecipazione del ministro consigliere dell'Ambasciata Italiana d'Israele Rafael Erdreich, accolto nell'Aula Magna "Antonio Quistelli" dal pro-rettore vicario delegato all'Internazionalizzazione Carlo Morabito, da una folta rappresentanza accademica dell'ateneo reggino e da rappresentanti di associazioni ebraiche e culturali tra Italia ed Israele. Rafael Erdreich, nella sua prolusione ha illustrato i primati israeliani nel campo della ricerca e dello sviluppo scientifico che pongono le università israeliane ai primi posti nel mondo. Il rappresentante dell'Ambasciata d'Israele in Italia ha manifestato interesse alla collaborazione accademica tra l'Università di Reggio Calabria e gli atenei del suo paese.
A fine giornata Morabito ha donato a Erdreich una medaglia che riproduce l'antica moneta con faccia leonina, simbolo dell'Università "Mediterranea". "Assieme alle collaborazioni che riguardano le attività dei nostri laboratori che hanno relazioni con laboratori internazionali - ha sottolineato Morabito - abbiamo presentato i programmi di mobilità studentesca. Tra il questi il programma 'GaragErasmus' che rappresenta una evoluzione del programma 'Erasmus', di cui la nostra Università è ateneo cofondatore assieme ad altre 21 Università europee.
Quindi, una giornata, che da un lato guarda all'innovazione tecnologia, o per meglio dire, all'applicazione delle cose che facciamo, dall'altra guarda al mondo studentesco, alla preparazione dei giovani che andranno poi a vivere e ad operare in questo ambito tecnologico". "C'è un'attenzione specifica per l'Università Mediterranea - ha concluso Morabito - sono già state avviate collaborazioni con alcune università israeliane, ma c'è anche l'interesse ad accogliere nostri studenti per una esperienza di studio in questi prestigiosi atenei".

(Il Giornale di Calabria, 14 dicembre 2016)


Nuovo possibile incidente diplomatico tra Svezia e Israele

Nuovo possibile incidente diplomatico tra Svezia e Israele: la ministra degli esteri di Stoccolma Margot Wallstrom nella sua imminente visita nella regione non sarà ricevuta da nessun rappresentante del governo israeliano. Secondo il portavoce del ministero degli esteri a Gerusalemme Emmanuel Nahshon - che ha confermato la notizia anticipata dai media - il fatto "è dovuto a problemi legati alla scaletta" della visita.
In realtà, secondo quanto riportato dai media, Wallstrom non sarebbe persona gradita in Israele a causa delle sue posizioni ritenute pro palestinesi. In passato Wallstrom - che già nel gennaio del 2015 ha dovuto cancellare una sua visita visto che nessun rappresentante del governo israeliano ha voluto incontrarla - ha accusato Israele di condurre "esecuzioni extragiudiziali" di palestinesi autori di attacchi terroristici.
Nella sua visita Wallstrom aveva chiesto di incontrare il premier, e ministro degli esteri, Benyamin Netanyahu - partito oggi per un viaggio di Stato in Khazakistan - ed altri rappresentanti ma non ha ottenuto risposta.

(Corriere del Ticino, 13 dicembre 2016)


Vincere la sete con l'acqua di mare

A pochi chilometri da Tel Aviv l'impianto di desalinizzazione di Sorek, il più grande e innovativo al mondo, è la risposta del Paese alla siccità decennale che ha prosciugato la Mezzaluna fertile.

di Luigi Bignami

 
L'impianto di desalinizzazione di Sorek, il più grande e innovativo al mondo
A una quindicina di chilometri da Tel Aviv due gigantesche vasche, grandi come campi da calcio, vengono riempite da acqua che arriva dal Mediterraneo. Fuoriesce da un tubo che emerge dalla sabbia che è così grande che ci si potrebbe camminare dentro. Le vasche contengono un letto di sabbia dove l'acqua subisce una filtrazione prima di finire all'interno di grandi capannoni. Il loro interno assomiglia alla camera dei motori di una navicella aliena. Migliaia e migliaia di cilindri biancastri di poco più di un metro d'altezza e larghi quanto un palmo di mano, contengono fogli di membrana di plastica che presentano pori con un diametro inferiore a un centesimo di quello di un capello umano.Ie quali avvolgono un tubo centrale. L'acqua marina viene sparata nei cilindri a una pressione di 70 atmosfere: l'acqua passa, il sale viene bloccato e la salamoia residua ributtata in mare. Il risultato è acqua potabile che serve per un milione e mezzo di persone.
  Si tratta del nuovo impianto di desalinizzazione di Sorek, il più grande al mondo, una vera e propria salvezza per Israele. Solo pochi anni or sono il Paese si trovava sprofondato in una delle peggiori siccità dell'ultimo millennio, ora ha acqua potabile da vendere. Nel 2008 infatti, Israele si trovò vicino alla catastrofe ambientale. Una siccità decennale aveva bruciato la Mezzaluna fertile e la più importante fonte di acqua dolce del Paese, il Mar di Galilea, era sceso fino a toccare la black line, la linea nera al di sotto della quale la quantità di sale presente nel lago lo avrebbe reso inutilizzabile per secoli a venire. I raccolti andarono quasi completamente distrutti. Nella vicina Siria si cercò disperatamente di perforare pozzi a 100, 200 fino a 500 metri di profondità per cercare acqua dolce, ma alla fine i contadini dovettero arrendersi e fu una corsa verso le principali città a cercare un lavoro di fortuna. In una ricerca apparsa su Proceedings of the National Academy of Sciences si dice che la situazione, trascurata dal governo Assad, è stata una delle cause dei drammatici sviluppi che si sono venuti a creare negli ultimi anni. La siccità e le conseguenze hanno colpito anche Paesi come l'Iran.I'Iraq e la Giordania sui quali pesa ancora oggi come una spada di Damocle.
  Israele, invece, è uscita dal dramma e questo attraverso due strade: da un lato vi è stata una profonda campagna per far capire quanto sia fondamentale non abusare dell'acqua e quindi quanto sia importante riciclarla il più possibile. Servizi igienici e docce a basso flusso d'acqua sono stati diffusi a livello nazionale, mentre sono stati costruiti sistemi innovativi di trattamento dell'acqua che riutilizzano oltre 1'85 per cento di quella di scarico. Dopo un trattamento, viene utilizzata per l'irrigazione in agricoltura, un riciclo che non ha confronti neppure con il secondo Paese al mondo, la Spagna, che ne riconverte il 19 per cento. Ma tali misura non erano sufficienti a far fronte alle richieste d'acqua, circa 1,9 miliardi di metri cubi all'anno, ne mancavano ancora almeno 500 milioni di metri cubi. Se si fosse continuato a pompare acqua dal Mar di Galilea, le fattorie avrebbe solo spostato in là di qualche anno la loro morte. E allora, ecco l'altra strada. Si è ricorsi agli impianti di desalinizzazione cercando i modi per abbattere i costi di manutenzione che fino a pochi anni prima rendevano l'acqua desalinizzata inarrivabile ai più. Israele infatti, non ha semplicemente comperato la tecnologia per la desalinizzazione da Paesi terzi, ma ha realizzato miglioramenti tecnologici di grandissimo interesse che ora esporta.
  Il lavoro lo si deve soprattutto a Bar-Zeev dell'Istituto Zuckerberg di Israele, esperto di biofouling, la tecnologia che studia e combatte le incrostazioni di microorganismi, alghe o altri animali che vivono e crescono su superfici bagnate. I sistemi più avanzati di desalinizzazione infatti, lavorano spingendo acqua salata in membrane che contengono micropori i quali lasciano passare l'acqua, ma non i sali. E su tali membrane cresce una grande quantità di microrganismi che fanno perdere efficienza al sistema. La pulizia è molto costosa e questo ha sempre fatto sì che la desalinizzazione dell'acqua marina fosse considerata un po' «l'ultima frontiera» a cui ricorrere per avere acqua dolce. Ma BarZeev ha sviluppato un sistema che, utilizzando pietra lavica, cattura i microrganismi prima che questi si adagiano sulle membrane. In questo modo i costi per avere acqua dolce si sono notevolmente abbattuti e ora Israele può permettersi di produrre con la desalinizzazione il 55 per cento di acqua dolce usata dai suoi abitanti. In un lavoro pubblicato su Scientific American, Osnat Gillor, dell'Istituto Zuckerberg spiega: «Il Medio Oriente si sta prosciugando, l'unico Paese che non soffre lo stress idrico acuto è Israele».
  L'impianto di Sorek, che produce 150 milioni di metri cubi di acqua, è solo l'ultimo di una serie: agli inizi della siccità si era costruito quello di Askelon che produce 127 milioni di metri cubi di acqua dolce. Poi, nel 2009, l'impianto di Hadera che butta fuori 140 milioni di metri cubi di acqua e altri ne sono stati costruiti e sono in arrivo. E se un tempo l'acqua da desalinizzazione costava più di un litro di vino, ora agli israeliani pagano una bolletta mensile di circa 30 dollari, più o meno simile a quella di molte città degli Stati Uniti (in Italia siamo attorno ai 15-20 euro). Il Mare di Galilea è tornato a risplendere, così come le aziende agricole.
  La strada intrapresa da Israele sta dilagando a macchia d'olio: secondo la International Desalination Association 300 milioni di persone al mondo bevono acqua desalinizzata e il numero è in rapida crescita. La società israeliana che ha costruito gli impianti nel proprio Paese ne sta ora costruendo una a Carlsbad, nel sud della California e altre commesse stanno arrivando da varie parti del mondo. Ogni anno se ne costruiscono almeno sei simili a quello di Sorek. Un impianto particolarmente ambizioso è quello in progetto sul Mar Rosso, dove israeliani, giordani e palestinesi si divideranno l'acqua prodotta e la salamoia verrà riversata nel Mar Morto che negli ultimi anni è sceso di oltre un metro in seguito al prelievo di acqua fatto dal 1960 ad oggi. Che sia l'acqua dallo stesso rubinetto a rimettere ordine nel Medio Oriente non è da escludere a priori.

(Avvenire, 13 dicembre 2016)


Mantova - Gli ebrei ortodossi di tutta Europa rivogliono l'antico cimitero perduto

Il cimitero fu chiuso nel 1786, ma qui riposano i resti di grandi cabalisti.

di Tommaso Papa

Per ricordare i loro avi
Dal 2011 le visite degli ebrei sono aumentate, arrivano e pregano nel luogo sacro
Al Gradaro
Francesco Gonzaga nel 1442 concesse il camposanto nel quartiere di pescatori
Dall'Ungheria
I nomi dei personaggi illustri sepolti in riva al Mincio trovati in un archivio di Budapest

 
Tiziana Grizzi e Mauro Vecchia
MANTOVA - Il titolo c'è già: «I custodi del cimitero perduto». La storia è quella di una famiglia mantovana che da un giorno all'altro scopre di vivere accanto a un luogo sacro agli ebrei ultra ortodossi.
  Siamo a Mantova, quartiere del Gradaro, un tempo fatto di modeste case di pescatori del porto dell'Anconetta, di conventi, di contrafforti militari. E di cimiteri, compreso il più antico camposanto ebraico della città, concesso da Francesco Gonzaga nel 1442 e chiuso da Giuseppe II nel 1786.
   Sul muraglione lungo vicolo Maestro una doppia targa in ebraico e in italiano testimonia la presenza delle tombe di alcuni tra i massimi cabalisti italiani, come i rabbini Menachem' Azariah da Fano e Mosheh Zacuto. Per gli ebrei, in particolare per i seguaci dello chassidismo, è uno dei luoghi più sacri d'Europa, e non a caso qualcuno di loro ora vorrebbe farselo restituire. A pochi metri dalla lapide, al civico 10, vivono con i tre figli in una rustica casa colonica Mauro Vecchia e Tiziana Grizzi, lei ex responsabile del sistema museale della Provincia di Mantova, lui ex funzionario dell'Ufficio strade sempre in Provincia. «Tutto è iniziato cinque anni fa - raccontano-. Era un caldissimo 27 luglio. Hanno bussato alla porta tre rabbini che guidavano un gruppo di persone, una ventina. Erano arrivati a noi dopo aver scartabellato nelle mappe della città». Gli ebrei ortodossi, in camicia bianca e vestito di lana nero, nonostante la temperatura torrida, tutti col cappello a cilindro e i classici tzitzit, i ricciolini di capelli che scendono dalle tempie, chiedono di visitare il camposanto.
  «Delle antiche tombe non è rimasto nulla - raccontano i coniugi Vecchia - solo qualche pietra sparsa qua e là con iscrizioni in ebraico». In effetti dietro il muro c'è solo un prato incolto, che è terreno del Demanio militare trasferito da poco al Comune, circondato da rovi e vegetazione spontanea. «Ci hanno chiesto una scala per andare oltre il muro - raccontano ancora marito e moglie-. Sono entrati a pregare, poi se ne sono andati». Sembra tutto finito, invece un anno dopo in Vicolo Maestro arriva un altro rabbino, questa volta dalla Francia, che affigge la targa in ebraico, poi tradotta su richiesta di Vecchia e della moglie. Dal 2011 ad oggi le visite degli ebrei ortodossi si sono moltiplicate: «Nessun problema - è il commento di Mauro e Tiziana - salvo che usano il nostro bagno e se sono in tanti... ». In effetti ad agosto di quest'anno è arrivata al Gradaro una comitiva di due pullman: hanno portato le chitarre e cantato, sono stati in raccoglimento davanti alle lapidi, hanno lasciato i biglietti autografi come si fa davanti al Muro del pianto.
  Ora a Tiziana Grizzi e al marito interessa sapere cosa succederà in futuro. Le incognite sono due: il megaprogetto del Comune per risistemare il Gradaro e Fiera Catena, e la richiesta di una rappresentanza di ebrei ortodossi di acquistare il terreno dell'ex camposanto. «Questa casa la prese mio nonno nel 1950 - dice l'ex funzionaria -. La nostra famiglia ci è molto legata».

(Il Giorno, 13 dicembre 2016)


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«Questa sacra terra è nostra ma siamo pronti a ripagarla»

All'archistar Boeri il piano di recupero

Attorno all'antico cimitero ebraico sta nascendo un piccolo caso. Tutto è nato dall'arrivo a Mantova di una delegazione di ebrei ortodossi, che hanno recuperato in un archivio di Budapest la documentazione e gli elenchi con i personaggi sepolti sulle rive del Mincio. Del gruppo facevano parte l'editore Rav Shmaya Levi e David Niederman, gran rabbino di New York.
  In Comune e in Provincia gli ortodossi hanno detto che quella terra era stata pagata dagli ebrei e che vorrebbero fosse loro restituita. In realtà, a quanto risulta e come racconta il professor Mauro Perani, docente di Ebraico all'Università di Bologna, nell'800 la comunità ebraica mantovana avrebbe venduto il terreno al Demanio militare.
  I fondamentalisti ebrei sarebbero comunque disposti a pagare.
  Quindi forse questo non è un problema, mentre lo è il progetto firmato dall'archistar Stefano Boeri per il recupero della zona. E previsto anche un museo della Memoria. Il sindaco Mattia Palazzi ha già programmato un incontro con Boeri: certo ci saranno da valutare rutti i costi dell'operazione. Ma anche da superare alcuni ostacoli, come il divieto assoluto per gli ebrei ortodossi di toccare anche una sola zolla dei loro cimiteri. Quindi di organizzare uno scavo archeologico. T.P.

(Il Giorno, 13 dicembre 2016)


Muti: il mio concerto per Israele ottant'anni dopo Toscanini

Il maestro e la serata del 20 dicembre che festeggerà la nascita della Filarmonica d'Israele: «Un evento per esaltare la musica contro i fascismi».

di Riccardo Muti

Riccardo Muti
Nel dicembre del 1936 Arturo Toscanini, su invito del grande violinista Bronislaw Huberman, giunse a Tel Aviv per dirigere il primo concerto dell'appena nata Orchestra di Palestina, oggi Filarmonica di Israele. A distanza di ottant'anni esatti, la gloriosa Istituzione celebrerà quell'avvenimento eseguendo lo stesso programma ideato dal grande Maestro: Rossini Sinfonia da «La Scala di Seta», Brahms Seconda Sinfonia, Schubert Sinfonia Incompiuta, Mendelssohn Notturno e Scherzo dal «Sogno di una Notte di mezza estate», Weber Ouverture da «Oberon».
  Toscanini, sempre più attivo nella lotta contro il fascismo, diresse gratuitamente quei primi concerti, eseguiti da musicisti ebrei, che dall'Europa centrale erano fuggiti per evitare la persecuzione nazista. Albert Einstein dagli Stati Uniti, dove era esule, scrisse al Maestro: «Sento il dovere di dirLe quanto La ammiri e la veneri» e, poco dopo, «L'esistenza di un simile contemporaneo cancella molte delle delusioni, che si devono continuamente subire da parte della species minorum gentium». Questo gesto di altissimo valore morale da parte del grande Direttore fu salutato con immensa gratitudine da tutte le comunità ebraiche e dalle genti di buona volontà del mondo intero.
  Toscanini portava, oltre alla sua impareggiabile Arte interpretativa, il senso altissimo di libertà, di dignità umana e di uguaglianza sociale. Il suo rifiuto di eseguire al Teatro Comunale di Bologna la Marcia Reale e Giovinezza, all'inizio di un programma per la commemorazione di Giuseppe Martucci, gli procurò un'aggressione da parte di fascisti infuriati per il suo diniego. Il concerto non ebbe mai luogo e la locandina di quell'evento giace nell'archivio del teatro bolognese, come monito severo a quanti abbiano idee liberticide o la memoria del passato offuscata. Quando ero direttore musicale dell'Orchestra di Philadelphia avevo nella fila dei violini un musicista, che aveva partecipato a quel primo concerto in Tel Aviv. Il suo nome era David Grunschlag ed era stato uno dei fondatori dell'orchestra israeliana e, successivamente, il suo primo violino. Io lo conobbi bene, perché egli fu membro dell'Orchestra di Philadelphia fino al giorno del suo ritiro nel 1984. È interessante il racconto sulle prime prove di Toscanini con la nascente formazione. Sembra che il Maestro, salito sul podio senza discorsi retorici, annunciando semplicemente: «Sinfonia di Brahms», non abbia avuto durante la prova alcuna di quelle particolari reazioni di ira o fastidio, che lo avevano reso famoso nel mondo. I musicisti credettero che, forse, il grande Direttore non fosse particolarmente coinvolto o non avesse una seria considerazione di essi; si trattava, in ogni caso, di validi artisti, che provenivano da prestigiose orchestre europee. Alla terza prova il Vulcano esplose, contrariato da qualche imperfezione e l'intera Orchestra reagì felice alle grida di rimprovero.
  In seguito agli avvenimenti politici in Austria nel 1938, mentre continuava a dirigere altri concerti in Israele, Toscanini aveva rinunziato a partecipare al Festival di Salisburgo. A questo proposito desidero ricordare alcune frasi di una lettera scritta al Maestro da Gaetano Salvemini, uno dei più celebri fuoriusciti antifascisti, che in quegli anni insegnava all'Università Harvard: «Bisogna che Le scriva per dirle la mia emozione, ammirazione, riconoscenza, entusiasmo per la nuova prova di generosità e di carattere che Ella ha dato, rifiutando di andare a Salzburg. In questi anni borgiani Ella è la sola persona, la cui luce morale rimane immobile nell'universale bassezza. Ella è il solo, che sia rimasto sempre fedele alla bella e pura tradizione dell'anima italiana». Oggi la Filarmonica di Israele è una delle grandi anime culturali di quel Paese e dopo ottant'anni di Musica nel mondo celebra la sua Storia, la sua Vita, la sua Luce. Toscanini diede il primo respiro a quei suoni che ancora oggi ci avvolgono e ci portano messaggi di Bellezza assoluta, in un mondo che desideriamo di Pace e di Fratellanza fra tutti i popoli. Ho ricevuto dai musicisti di quell'Orchestra l'invito a dirigere il 20 dicembre lo stesso programma che ottant'anni fa Toscanini eseguì. Sarà per me un grande onore.

(Corriere della Sera, 13 dicembre 2016)


La Turchia tra attentati e crisi economica riallaccia con Israele

di Raffaella Cantone

Il Presidente Reuven Rivlin riceve il nuovo ambasciatore turco Mekin Oke
Sono 235 gli arresti effettuati dalle autorità turche per presunti legami con i militanti curdi in blitz su tutto il territorio nazionale all'indomani del doppio attacco allo stadio di Istanbul in cui sono morte 44 persone.
"Vogliamo che tutti sappiano che non otterranno nulla nascondendosi dietro i partiti, alle spalle dei politici e dietro quei media che li proteggono", ha detto il ministro dell'Interno Suleyman Soylu.
Soylu ha promesso che i responsabili dell'attacco di sabato, rivendicato da un ramo del gruppo militante Pkk, saranno "spazzati da questa geografia. La nostra gente si aspetta da noi che sconfiggiamo ed eliminiamo questa organizzazione terroristica, che ha attaccato la nostra nazione per 40 anni", ha ribadito Soylu durante una visita di condoglianze al quartier generale della polizia a Istanbul. La maggior parte delle vittime erano agenti delle forze speciali. Oggi si sono svolti i funerali per il secondo giorno consecutivo alla presenza dei ministri del governo.
La Turchia è un paese estremamente polarizzato e fratturato, che solo nell'ultimo anno ha subito grandi traumi. In tale contesto, il Pil nazionale, dopo i livelli record raggiunti negli anni scorsi, ha registrato un rallentamento nell'ultimo trimestre. E' la prima volta dal 2009 che il Pil turco diminuisce su base annuale dal terzo trimestre del 2009, quando era stato registrato un calo del 2,8 per cento.
Sul versante della politica estera, la Turchia riallaccia i rapporti con Gerusalemme, attraverso l'insediamento dei nuovi ambasciatori. La designazione di entrambi gli ambasciatori rientra nell'accordo raggiunto nell'estate scorsa da Turchia e Israele per la normalizzazione dei rapporti bilaterali, dopo sei anni di gelo diplomatico.
I rapporti tra i due paesi erano stati interrotti in seguito all'incidente che nel 2010 ha coinvolto la nave turca Mavi Marmara, durante il quale erano morti dieci attivisti turchi che cercavano di violare l'embargo a Gaza via mare. Poco dopo l'incidente i due governi richiamarono in patria i rispettivi ambasciatori.
Eitan Naeh, nuovo ambasciatore israeliano in Turchia, è stato ricevuto la settimana scorsa dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ed entrerà ufficialmente in carica domani; mentre l'incarico di quello turco in Israele, Kemal Okem, prenderà il via ufficialmente entro la prima settimana di dicembre.
Lo scrive il sito del quotidiano Hurriyet, spiegando che il processo ha subito un'accelerata dopo che l'attuale incaricato d'affari israeliano ad Ankara, Amira Oron, è stato richiamato urgentemente in patria per aver parlato male del suo premier, Benjamin Netanyahu, durante un incontro a Istanbul.
Dunque, Mekin Oke, primo ambasciatore turco in Israele dal 2010, è stato ricevuto dal capo dello Stato israeliano presso la sua residenza a Gerusalemme: nell'occasione il presidente ha offerto le sue condoglianze per la morte di 44 persone nel duplice attentato di sabato a Istanbul. Rivlin ha manifestato la speranza che lo scambio di ambasciatori tra i due Paesi possa "aprire una nuova e promettente pagina" nelle relazioni tra Israele e Turchia.
Okem è stato consigliere diplomatico del primo ministro Binali Yildirim e dell'ex premier Ahmet Davutoglu. Precedentemente Okem ha lavorato presso il dipartimento sul Medio Oriente del ministero degli Esteri turco, e ha ricoperto incarichi presso le ambasciate turche a Londra e Riad. Infine, il nuovo ambasciatore turco in Israele ha prestato servizio presso la rappresentanza permanente di Ankara presso la Nato.
Secondo quanto riferisce il quotidiano israeliano "Times of Israel", il nuovo ambasciatore israeliano in Turchia Na'eh ha dichiarato ai giornalisti di essere molto felice di ritornare in Turchia come ambasciatore: "Abbiamo molto lavoro da fare".
Na'eh ha ringraziato la Turchia per il sostegno fornito per spegnere gli incendi divampati la scorsa settimana in diverse città di Israele, e ha ringraziato per l'accoglienza ricevuta prima di dirigersi verso la sede della rappresentanza diplomatica.

(l'Occidentale, 12 dicembre 2016)


I primi due F-35 atterrati questa sera nella base aerea di Nevatim

 
 
 
L'arrivo dei primi F-35 nella
base aerea di Nevatim
GERUSALEMME - I primi due F-35 in dotazione all'Aviazione israeliana sono atterrati questa sera nella base aerea di Nevatim vicino alla città di Beersheba (deserto del Negev) nello Stato di Israele. A riferirlo è il quotidiano israeliano "Jerusalem Post" citando un comunicato stampa delle Forze armate israeliane (Idf). I due F-35 atterrati questa sera nella base di Nevatim fanno parte di una partita di 50 aerei prodotti dalla società Lockheed Martin e ordinati dallo Stato di Israele agli Usa. Ogni velivolo ha un prezzo di oltre 100 milioni di dollari. Nella nota l'Idf ha sottolineato che i due F-35, "Adir" secondo la denominazione israeliana, sono atterrati alle 20:16 (ora israeliana) dopo essere decollati nel tardo pomeriggio di oggi dall'Italia, ultima tappa del loro viaggio verso Israele iniziato dallo stabilimento di Lockheed Martin di Fort Worth, in Texas.
  L'atterraggio è avvenuto con un ritardo di sei ore a causa delle avverse condizioni meteo sulla penisola italiana. Secondo il comunicato stampa delle Forze armate israeliane, sia Gerusalemme che Roma hanno scelto di attendere il miglioramento delle condizioni meteorologiche per evitare danni ai velivoli. L'arrivo dei primi due F-35 provenienti direttamente dagli Stati Uniti era atteso per oggi intorno alle 14 (ora israeliana). L'avvio della cerimonia ufficiale è stato posticipata alle 19:30 e ad essa hanno preso parte il presidente israeliano Reuven Rivlin, il premier Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, il capo di Stato maggiore del'Idf, il generale Gadi Eisenkot, il capo di Stato maggiore dell'Aviazione, Amir Eshel, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Ashton Carter, e l'ambasciatore statunitense in Israele, Dan Shapiro.
  Il primo a prendere la parola durante la cerimonia è stato il presidente Rivlin, il quale ha ricordato che l'arrivo nello Stato in Israele "di oltre 22 tonnellate di acciaio volanti cambierà il Medio Oriente". Il presidente ha dichiarato che Israele ripone "fiducia" che questo piano avrà un ruolo fondamentale per rafforzare l'Aviazione, sottolineando la necessità dello Stato di Israele di "avere un vantaggio strategico sui paesi nemici". Il presidente israeliano ha ringraziato i piloti che hanno condotto i caccia in Israele. "I caccia stealth e i loro piloti saranno in grado di operare in ogni arena, sia essa vicina o lontana - ha aggiunto Rivlin -. L'aereo cambierà le regole del gioco. I nostri nemici sanno già che Israele non può essere danneggiato".
  Da parte sua il premier Netanyahu ha ringraziato il presidente degli Stati Uniti uscente Barack Obama, il Congresso degli Usa e la popolazione degli statunitense, per aver reso Israele "più forte". "Voglio essere chiaro: chi pensa di attaccarci, sarà attaccato. La storia ci ha insegnato che solo la forza porta deterrenza, solo la forza porta pace e rispetto ", ha affermato il premier. Rivolgendosi al segretario alla Difesa Usa Carter, Netanyahu ha osservato che la sua presenza alla cerimonia "è un segno" dell'impegno degli Stati Uniti per Israele, "il migliore amico" di Washington in Medio Oriente". "Personalmente - ha ammesso - penso che tale rapporto vada al di là del Medio Oriente". Per Netanyahu l'obiettivo di Israele è ottenere la supremazia in ogni teatro: aria, acqua, terra e mondo cibernetico. "Israele sta decollando verso nuove altezze, e quando i nostri piloti a bordo dei loro caccia 'Adir' voleranno verso l'alto li guarderemo con orgoglio", ha dichiarato il premier israeliano.
  Il responsabile del Pentagono, Carter, ha sottolineato: "Non c'è miglior simbolo del nostro rapporto (con Israele, ndr) dell'F-35. Le molte minacce che dovrà affrontare Israele tutti i giorni da varie direzioni sono parte della ragione per gli Stati Uniti e Israele hanno stretti legami". Carter ha aggiunto che Washington continuerà a fornire Israele con gli armamenti più avanzati, tra cui ulteriori F-35, per poter accrescere il vantaggio qualitativo militare di Israele. "Con le attuali turbolenze nella regione siamo più attenti che mai alla sicurezza di Israele e l'impegno degli Stati Uniti a difendere la sicurezza dello Stato di Israele resta incrollabile", ha aggiunto Carter. "Ad oggi Israele è il nostro unico amico nella regione che vanta gli F-35. Gli F-35 aiuteranno le forze aeree degli Stati Uniti e di Israele ad operare in modo più unito ed efficace. Insieme domineremo i cieli", ha concluso il responsabile del Pentagono.

(Agenzia Nova, 13 dicembre 2016)


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Critiche (feroci) di Trump via Twitter. E Lochkeed affonda a Wall Street

Il titolo scende di oltre il 4% e brucia 4 miliardi di dollari di capitalizzazione. Il cinguettio del presidente eletto: il programma degli F-35 e i suoi costi sono «fuori controllo».

di Marco Sabella

Contrariamente alle aspettative sorte immediatamente dopo la sua elezione alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump non sta portando bene al settore della difesa militare, considerato inizialmente come uno dei comparti vincenti del mercato grazie alle politiche di riarmo annunciate in campagna elettorale.
Lochkeed Martin ha bruciato infatti 4 miliardi di capitalizzazione di mercato con le critiche via Twitter di Donald Trump. La società perde più del 4% dopo che il presidente eletto ha criticato il programma degli F-35 e i suoi costi che «sono fuori controllo».

 «Miliardi da risparmiare»
  Il programma degli F-35 seguito da Lockheed è il più costoso nella storia del Pentagono. Miliardi di dollari che, secondo Trump, «possono e saranno risparmiati sulle spese militari dopo il 20 gennaio». Il presidente eletto, qualche giorno fa, aveva già preso di mira un altro gruppo dell'aerospazio: Boeing, l'azienda che dovrebbe produttore dei due nuovi Air Force One, l'aereo su cui viaggia un presidente Usa ma di cui Trump intende cancellare l'ordine inoltrato da Obama a causa dei costi elevati.

 La replica di Lockheed Martin
  Il programma degli F-35 è «di grande valore» e la nostra azienda risponderà alle questioni sollevate da Trump, ha replicato la Lockheed Martin. Anzi «si tratta di un programma fantastico», ha detto Jeff Babione, direttore del settore F-35 della compagnia, che da Israele, dove proprio lunedì sono arrivati due F-35 «nvisibili», ha fatto sapere di essere disponibile a fornire «al presidente eletto qualsiasi risposta di cui egli abbia bisogno». Il contratto di Lockheed Martin con il Pentagono impegna la Difesa americana a pagare i caccia 100 milioni di dollari ciascuno fino al 2070, per una cifra complessiva di 1.500 miliardi di dollari. Babione ha sottolineato che sono stati investiti centinaia di dollari per ridurre i costi di produzione e i prezzi d'acquisto del velivolo da combattimento: secondo Lockheed, entro il 2019 o 2020 il prezzo di un apparecchio dovrebbe scendere a 85 milioni di dollari. I due F-35 venduti a Israele hanno un costo per lo stato ebraico di 110 milioni di dollari ciascuno.

(Corriere della Sera, 12 dicembre 2016)


Israel Breakfast

Mercoledi 14 dicembre 2016, ore 8:30

Evento di networking per gli amici di Israele con interessi professionali. Israel Breakfast si inserisce nel progetto Business Club del Keren Hayesod che mira a creare nuovi contatti utili professionali tra gli amici di Israele. A qualsiasi religione o comunità essi appartengano.
Ospite del primo incontro Gilad Carni un imprenditore di successo della nuova economia che ha già venduto le sue aziende sia a Google che a Facebook dedicandosi poi alla attività di angel investor e creando TVIbe un servizio di video broadcasting su misura.
Ai partecipanti verrà data la possibilità di creare una rete di rapporti con gli altri partecipanti....

(evensi.it, 13 dicembre 2016)


Bando per l'assunzione di 4 insegnanti all'Istituto Italiano di Cultura di Haifa

HAIFA - L'Istituto Italiano di Cultura di Haifa rende noto che è stata indetta una procedura di selezione per l'assunzione di 4 insegnanti con contratto a tempo determinato da utilizzare nei corsi di lingua e cultura italiane e/o biologia, chimica, matematica e fisica organizzati dall'Istituto, (presso la sede in Via Meir Rutberg 12), per il periodo dal 15 gennaio al 15 agosto 2017. Entro il prossimo 22 dicembre le domande di ammissione alle prove per l'assunzione. L'avviso è affisso da oggi 12 dicembre all'Albo dell'Ambasciata d'Italia in Tel Aviv e dell'IIC di Haifa.
Testo dell'Avviso

(Inform, 13 dicembre 2016)


"Ecco, questa era la mia cella". Debenedetti torna a Piangipane

di Daniela Modonesi

 
Israel Corrado Debenedetti
È infaticabile, Israel Corrado Debenedetti, ebreo ferrarese classe 1927. Già ieri, al convegno sul tema "Gli ebrei italiani e il sionismo: tra ricerca storica e testimonianze", promosso dal Meis nella Sala dei Comuni del Castello Estense di Ferrara, con i toni appassionati e ironici di chi ha vissuto sulla propria pelle, traendone un'energia speciale, alcune delle pagine più dolorose della nostra storia recente, Debenedetti ha raccontato la sua vicenda di ebreo sedicenne perseguitato, poi incarcerato (nel novembre del 1943), quindi in fuga in Romagna con la famiglia sotto falso nome, fino alla liberazione e alla scelta di trasferirsi in un kibbutz, in Israele. E questa mattina, per la prima volta dopo oltre settant'anni, Israel Corrado ha potuto rimettere piede nella cella in cui per due mesi fu recluso, nelle ex carceri di Via Piangipane, a Ferrara, dove ora sta sorgendo il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah.
   "Mi emoziona molto tornare qui, anche se tante cose sono cambiate". Nonostante i quasi novant'anni, Debenedetti si inerpica con grande slancio sulle scalette del cantiere, mosso dal desiderio di riappropriarsi finalmente di una parte del suo passato, di riconoscere i luoghi della reclusione. E quando arriva al secondo piano del blocco C, li ritrova: "Qui nel sottotetto c'erano i cameroni, in cui eravamo chiusi a gruppi di quindici, con un bugliolo per i nostri bisogni. Mentre di là - indica la parete verso Rampari di San Paolo - c'era l'unico vero bagno disponibile, dove potevamo andare solo se c'era una guardia ad accompagnarci. Era da lì che comunicavamo con i parenti e gli amici all'esterno, che ci aspettavano appostati sulle Mura".
   "Tre volte a notte - si riaffacciano nitidi i ricordi di Debenedetti -, i nostri carcerieri battevano le inferriate, per controllare che non le avessimo segate per scappare. Ma non erano tutti cattivi: Ferrandino, ad esempio, che era di Napoli, apriva lo spioncino della nostra cella e intonava canzoni napoletane per tirarci su di morale".
   Nei cameroni dove Debenedetti si rivede ragazzino sorgeranno aule didattiche e sale convegni del MEIS, ma la sua memoria va alla notte del 14 novembre 1943: "Mi arrestarono insieme a un centinaio di persone e quando cominciarono a fare l'appello partendo dal senatore Arlotti, che era un fascista, ma non aveva aderito alla Repubblica di Salò, pensammo che lo avrebbero liberato. Invece, i primi nominati erano destinati alla fucilazione davanti al muretto del Castello".
   Debenedetti si salvò anche grazie alla sua combattiva nonna, Emilia Tedeschi in Vita Finzi, che "il 15 gennaio fece irruzione in Questura, da un tale Stefani - spiega Debenedetti -, lamentandosi di essere solo una povera vecchia, con una figlia malata e un nipotino ingiustamente imprigionato. Fu così che mi misero agli arresti domiciliari. Per circa due settimane mi presentai negli uffici della Polizia mattino e sera, poi smisi di farlo e nessuno venne più a cercarmi".
   Dalla dimora di famiglia di Via de' Romei 8 alla fuga a Faenza, sotto mentite spoglie ("avevamo preso il cognome Bovino"), il passo fu breve, fino alla liberazione nel dicembre del '44: "Nel frattempo ci eravamo spostati poco sopra Brisighella, da cui nell'aprile del '45 tornammo nella nostra abitazione di Ferrara, trovando giusto i muri e praticamente nient'altro".
   Ma in quella casa Debenedetti non sarebbe rimasto ancora per molto perché, dopo due anni da studente universitario di Chimica, decise di trasferirsi in Israele, per vivere in un kibbuz a Ruchama: "Dall'Italia mi sentivo tradito: ad arrestarmi non erano venuti i fascisti, ma due carabinieri in divisa. E poi, in Israele volevamo costruire una società e un paese migliori. Nonostante le privatizzazioni, il kibbuz è il tipo di società più solidale che ci sia al mondo, quindi quell'obiettivo può dirsi raggiunto. Ma a creare uno stato nuovo purtroppo non ci siamo riusciti. Anzi, le cose sono andate in una direzione totalmente in contrasto con i nostri ideali di allora…".

(12 dicembre 2016)


Hanukkah nel nord di Israele

Quest'anno Hanukkah inizia il 24 dicembre, stesso giorno della vigilia di Natale. È una festività ebraica, chiamata anche Festa dei lumi o Festa delle Luci, perché per tutta la sua durata, otto giorni, si accendono i lumi della chanukiah, un particolare candelabro a nove braccia.
Hannukkà è una ricorrenza molto amata dai bambini, che ricevano regali e giocano con il sevivon, una speciale trottola.
Israele è un posto meraviglioso per trascorrere Hanukkah grazie ai molti eventi familiari che si svolgono in tutto il paese. Ci sono una vasta gamma di attività in ogni città che si possono fare respirando un'aria davvero unica.
Nello specifico, una zona molto suggestiva in cui festeggiare Hanukkah è il nord di Israele.
Ad Haifa un evento molto atteso è Holiday of Holidays, una manifestazione che prevede concerti, mostre, visite guidate, spettacoli e conferenze.
Un'altra città settentrionale in cui celebrare Hanukkah è Safed, una delle città sante di Israele, la cui amministrazione permette ai visitatori di entrare in alcuni caseifici e osservare il processo di caseificazione, assaggiando formaggi tipici della zona.

(Israel Cool, 12 dicembre 2016)


Il nuovo processore Intel progettato in Israele

 
Video  
Sviluppato presso il centro Intel di Haifa, il nuovo processore Intel di settima generazione, chiamato Kaby Lake, offrirà un ventata di freschezza all'elaborazione grafica di video ad alta definizione come nei giochi in realtà virtuale.
Il processore è il 19% più veloce rispetto al suo predecessore ed ha una durata di batterie notevolmente più lunga.
Il team israeliano ha ripristinato i chip Core i3, i5 e i7, che ora mostrano un chiaro aumento della velocità e delle prestazioni. Anche le caratteristiche di sicurezza e la navigazione web saranno più veloci.
Il primo chip Kaby Lake, disponibile dal mese di dicembre, verrà impiegato in laptop, tablet, computer ed altri prodotti elettronici.
Ran Senderovitz, CEO del centro di ricerca e sviluppo di Intel Israel ha rivelato:
Quando abbiamo iniziato il progetto, pensavamo solo ad apportare dei miglioramenti di base rispetto alla generazione precedente. Ma abbiamo iniziato a guardare le cose in modo diverso, e, con innovazione e determinazione, abbiamo fatto importanti miglioramenti.
Si parla di una straordinaria tecnologia, la tecnologia 14 nanometri, che è come prendere un capello e dividerlo per 8000.
La produzione del nuovo processore, effettuata a Kiryat Gat, ha richiesto un investimento enorme pari a 6 miliardi di dollari da parte del governo israeliano per l'installazione delle nuove macchine.
Il centro di ricerca e sviluppo Intel Israel, fondato nel 1974 come il primo centro di progettazione e sviluppo del business al di fuori degli Stati Uniti, è diventato il luogo di nascita di alcuni dei prodotti più avanzati.
Più di un miliardo di processori sono stati esportati da Israele, compreso l'8088, il primo processore sviluppato per PC ed il Pentium MMX, il più famoso processore del XX secolo.

(SiliconWadi, 12 dicembre 2016)


Mondo ebraico diviso sull'ex ministro

Dopo lo strappo sul voto negazionista dell'Italia alla risoluzione dell'Unesco, tra attesa, diplomazia e rabbia i rappresentanti parlano del premier incaricato.


di Filippo Caleri

Gli arrabbiati
Il leader del Kkl: «Siete sudditi dei paesi arabi. Non cambierete»
I contenti e quelli in attesa
Pacifici, Besso e Niren- stein: «Aspettiamo un segnale»
Dureghello
«Preferisco non parlare per senso di responsabilità e rispetto»

Cautela e attesa per il possibile arrivo a Palazzo Chigi di Paolo Gentiloni, presidente incaricato dal Quirinale per formare il governo post Renzi. Gli esponenti della comunità ebraica italiana sentiti da il Tempo non si sbilanciano, o meglio qualcuno sposa la linea della massima diplomazia, qualcun altro mostra una leggera irritazione, verso chi, da ministro degli Esteri, si è astenuto nella votazione all'Unesco (il 18 ottobre scorso) sulla risoluzione su Gerusalemme Est. Un voto che, a giudizio dello Stato ebraico, non riconosce legami tra gli ebrei e il Monte del Tempio di Gerusalemme e il Muro del Pianto. Una decisione fortemente contestata da Israele e sulla qua le, giorni dopo l'approvazione, intervenne anche Renzi definendo un voto allucinante, una risoluzione inaccettabile che va contro Israele». Un intervento che gli fece guadagnare la gratitudine di Israele, ma anche una marea di polemiche in casa, con la richiesta di far dimettere il ministro Gentiloni. Lo stesso che ora sta per diventare presidente del consiglio.
   Così non si dilunga in dichiarazioni Renzo Gattegna che nella veste di ex presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane spiega di non poter esprimere opinioni in questo senso. Così risponde tranchant quando gli viene chiesta una posizione personale:«Non ritengo opportuno parlare in questo momento». Nessun giudizio insomma.
   Più loquace Raffaele Besso, co-presidente della Comunità ebraica di Milano che, sul governo Gentiloni dice: «È una continuazione del governo precedente e con un mandato specifico per portare a casa la legge elettorale e il salvataggio delle banche». Sul punto delle posizioni espresse in sede Unesco, Basso spiega che l'Ucei aveva incontrato Gentiloni: «Era stato molto cordiale e aveva ribadito che una decisione del genere non sarebbe stata più quella ufficiale del Paese. Poi però quando ci sono state analoghe risoluzioni all'Onu, l'Italia e altri paesi si sono astenuti. La comunità italiana è rimasta molto male, ha sperato che la poca attenzione sul punto fosse legata alla quantità di dossier importanti che il governo aveva sul tavolo, come il referendum». Insomma vale la buonafede per Besso. Che ora attende Gentiloni alla prova del nove: «Speriamo in una maggiore attenzione. E attendiamo con fiducia».
   Chi invece non le manda a dire è Raffaele Sassun, presidente dell'ente nazionale ebraico per l'ambiente (Kkl), che esprime il rammarico per il mancato via libera alla riforma costituzionale di Renzi: «Avrebbe cambiato il Paese, che invece resterà uguale». Quanto a Gentiloni «che resterà per portare a compimento le legge elettorale, è un' ottima persona, pacata e disponibile all'ascolto e dunque punterà a essere un raccordo tra le forze politiche». Ma sul piano internazionale c'è preoccupazione. Sull'astensione e voto contrario sulle risoluzioni Unesco e Onu, Sassun non ha dubbi: «Penso che Renzi sapesse, che Gentiloni sapesse e che la posizione espressa fosse una scelta di comodo per mantenere gli equilibri con i Paesi arabi». Una scelta di opportunità politica. «Che capisco, ma non accetto» aggiunge Sassun secondo il quale «anche Gentiloni continuerà con la stessa visione verso il Medioriente». Per Sassun «la comunità ebraica attende fiduciosa che qualcosa avvenga anche perché finora non è cambiato nulla». Nel senso, specifica, che «quando si presenterà una nuova occasione per esprimere un voto a favore di Israele, voteranno come prima. Non avranno attributi per cambiare posizione perché resta sudditanza e paura verso i paesi arabi».
   Viene da una conoscenza personale con il premier incaricato, invece, il giudizio di Riccardo Pacifici, ex presidente della Comunità ebraica di Roma e oggi nel board del World Jewish Congress. «Ero vicepresidente della comunità romana quando Gentiloni era nella giunta di Roma guidata da Rutelli. Da lui mi attendo decisioni condivise e che siano espressione della massima rappresentanza». Questo perché la dottrina del mondo ebraico è quella di contrastare l'instabilità. «Dove c'è, questa si insinua la precarietà per tutte le minoranze» spiega Pacifici che oggi si batte per affermare questo principio in tutta l'Europa dalla quale «per l'avanzata dei populismi di destra e sinistra e per il fondamentalismo islamico gli ebrei stanno fuggendo». Sul punto dell'astensione e del voto contrario in occasione delle risoluzioni all'Unesco e all'Onu, Pacifici ricorda «che ci sono due anime allaFarnesina. È surreale che dopo il discorso di Renzi alla Knesset, che riscosse il plauso dell'opinione pubblica israeliana, il suo ministro avesse votato le risoluzioni anti israeliane. Ci sono strabismi che vanno corretti. E ora dal nuovo premier si attendono prove di dialogo». Va subito al dunque Fiamma Nirenstein, giornalista, scrittrice ed ex vicepresidente della Commissione esteri del Parlamento: «Spero che Gentiloni abbia da subito l'occasione di dichiarare che l'Italia ha oggi l'opportunità di fare una politica filoisraeliana, dichiarando subito ed esplicitamente la sua amicizia con Israele». La percezione del presidente incaricato, secondo la Nirenstein, è quella «di un politico che coltiva un sentimento amichevole verso Israele ma che si è contraddetto nel caso dell'astensione sulla risoluzione Unesco che stravolge la storia negando Gerusalemme al popolo ebraico. Una situazione che si è ripetuta quando all'Onu è stata votata una mozione simile». Più ufficiale e diplomatica l'opinione di Ruth Dureghello, attuale presidente della Comunità ebraica di Roma. «Prima dell'incarico definitivo preferisco non parlare per senso di responsabilità e rispetto. Con Gentiloni ho avuto un rapporto cordiale e tutte le istanze che gli abbiamo sottoposto sono state sempre attenzionate. Ma è un momento particolare per il Paese e non vorrei che fosse affrontato con superficialità questo passaggio».

(Il Tempo, 12 dicembre 2016)


La consegna dei primi due F-35 nel Negev

 
F-35 prodotto dalla Lockheed Martin
GERUSALEMME - Lo scorso 21 giugno, Lieberman si era recato in Texas per partecipare alla presentazione del primo caccia israeliano F-35 prodotto dalla Lockheed Martin. Israele è il primo partner straniero che riceverà l'F-35, velivolo che consentirà al governo di Gerusalemme di mantenere il suo livello qualitativo nel settore militare nel Medio Oriente. "Il fatto che siamo i primi a ricevere un F-35 ed i primi ad utilizzarlo vuol dire molto", aveva dichiarato Lieberman da Fort Worth. Inizialmente la commessa di Israele prevedeva la consegna di 33 velivoli F-35 entro il 2021, ma lo scorso novembre, il gabinetto di sicurezza israeliano ha stabilito l'acquisto addizionale di altri 17 caccia F-35, portando a 50 il numero complessivo di caccia di cuui Gerusalemme si doterà nei prossimi anni. L'F-35 ha una portata di 2.200 chilometri e può trasportare un massimo di 8,2 tonnellate di armamenti. Carter giungerà in Israele dopo aver visitato India, Giappone, Bahrain. Dopo la sua permanenza di Israele, si recherà in Italia e Regno Unito.

(Agenzia Nova, 12 dicembre 2016)


La brigata israeliana Golani e l'agguato di fine novembre

di Maria Grazia Labellarte

Come già pubblicato a fine novembre, un attacco aereo israeliano ha ucciso quattro militanti dello Stato Islamico presenti in territorio di Israele. Questo primo scontro ha assunto il rango di "evento" e destato allarme.
Ripercorriamo l'accaduto. Una domenica mattina di fine novembre, alle ore 08:30 del mattino, soldati dell'unità di ricognizione appartenenti alla brigata Golani, ovvero la prima brigata di fanteria israeliana subordinata alla 36a divisione, hanno oltrepassato la barriera di sicurezza con la Siria, mettendo in atto un vero e proprio "agguato."
Il motivo risiede nel fatto che, pur rimanendo all'interno del territorio di Israele, i soldati sono stati attaccati dall'esercito di Khalid ibn al-Walid , precedentemente noto come la brigata dei martiri di Yarmouk, formazione terrorista wahhabita operante in Siria al confine con Israele.
La brigata, nota per il rapimento dei 21 caschi blu dell' Onu filippini, in pattugliamento al confine delle alture del Golan, ha giurato fedeltà all'Isis e ne ha adottato la bandiera.
I soldati Israeliani hanno risposto in un primo momento al fuoco di armi leggere e si sono difesi, in seguito, da colpi di mortaio. L'agguato ha trovato la sua conclusione quando un aereo israeliano ha colpito un camion che trasportava quattro terroristi.
È importante sottolineare, tuttavia, che sia l'esercito di Khalid ibn al-Walid che la brigata Jabhat Fateh al-Sham (ex Fronte al-Nusra legata ad al-Qaeda) sono gruppi che da anni stanziano sui confini di Israele.
L'agguato di questo fine novembre ha evidenziato il primo caso di un attacco da parte di affiliati al sedicente Stato Islamico, che hanno deliberatamente attaccato truppe israeliane all'interno del loro territorio.
Sono numerosi i colpi di mortaio caduti all'interno del territorio Israeliano, alcuni dei quali potrebbero essere stati sparati da questi gruppi terroristici, anche se la maggior parte erano probabilmente "spill over" dei combattimenti in Siria.
Questo tipo di reazione da parte delle forze Israeliane vicino alle frontiere, avverse ai vari gruppi coinvolti nella guerra civile siriana, fungono da deterrente alla creazione di nuove minacce per lo Stato e i suoi cittadini.

(Difesa Online, 12 dicembre 2016)


La moneta israeliana continua ad apprezzarsi nei confronti di Euro e Dollaro

Il New Israeli Shekel (NISH) ha continuato ad apprezzarsi nei confronti del Dollaro Americano e dell'Euro, Il tasso interbancario del rapporto Dollaro/ Shekel e' diminuito dello 0.32% rispetto a lunedi scorso portando il valore di un dollaro a 3.79 Shekel mentre il rapporto Euro/Shekel si e' contratto dello 0.46% portando
il tasso di cambio a 4.07 Shekel per ogni Euro scambiato.
Tnuva inaugura un nuovo centro logistico. Il gruppo industriale agroalimentare israeliano Tnuva Food Industries Limited, ha inaugurato ad Eilat nel sud del Paese un nuovo centro logistico con un investimento di circa 35 milioni di Shekel (circa 8.6 milioni di Euro) che servira' la regione meridionale dell'Arava.
Il nuovo centro copre 2.5 acri ed e' organizzato in diverse zone a temperatura controllata con sistemi tecnologici di punta per immagazzinare e distribuire i prodotti Tnuva nella regione.
290.000 auto distribuite nel Paese. Secondo i dati del Dipartimento per le licenze del Ministero dei Trasporti israeliano, il numero delle autovetture nuove consegnate in Israele dall'inizio dell'anno e' stato pari a 279.698, il 14% in piu' rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Solo nel mese di novembre le automobili sono state 20.958 e di questo passo fonti di settore stimano per la fine dell'anno il numero record di 290.000 macchine. Hyundai e' la prima azienda costruttrice con 38.686 veicoli (+30% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno), segue Kia con 37.157 auto (+14%), Toyota, al terzo posto (29.318 macchine + 4%), Skoda in quarta posizione (19.364, + 22%) e Mitsubishi al quinto posto con 17.277 automobili, l'11% in piu'.

(Tribuna Economica, 12 dicembre 2016)


Dallo Yemen a Eretz Israel, la grande aliyah

In 50 anni quasi tutti gli ebrei yemeniti sono emigrati in Israele

di Eleonora Ardemagni

 
                      Alcuni ebrei yemeniti portati in Israele con un'operazione di salvataggio segreto espongono
                      insieme a Netanyahu un antico rotolo della Torah che hanno portato dallo Yemen

La comunità ebraica dello Yemen non c'è più. Tra i molti conflitti mediorientali, quello yemenita è sicuramente il più trascurato dai media: ma la vicenda degli ebrei di Yemen, dove storia e cronaca politica si intrecciano, sembra addirittura caduta nell'oblio.
  La guerra civile e l'ascesa militare degli huthi, i ribelli sciiti zaiditi del nord da sempre ostili verso gli ebrei e Israele, hanno accelerato l'eclissi della presenza ebraica in Yemen: negli ultimi anni, almeno 200 ebrei yemeniti hanno raggiunto Israele, oppure gli Stati Uniti, grazie al coordinamento della Jewish Agency. L'ultima aliyah è avvenuta, nella consueta riservatezza, il 20 marzo 2016, quando 19 ebrei yemeniti sono atterrati a Tel Aviv: secondo l'organizzazione, non vi saranno più viaggi per Israele. Infatti, i rimanenti 50 ebrei di Yemen hanno scelto di restare: di questi, 40 vivono dal 2007 nell'enclave blindata di Sana'a, a due passi dall'ambasciata degli Stati Uniti (chiusa da tempo per ragioni di sicurezza), sotto protezione del governo yemenita fino al golpe del gennaio 2015. La storia degli ebrei locali, soprattutto ortodossi e dediti allo studio dei testi sacri, è da sempre quella dello Yemen. Eppure, non vi è più traccia delle quasi quaranta sinagoghe che negli anni Trenta si ergevano nella capitale, descritte con minuzia dai viaggiatori dell'epoca.
  Non vi sono certezze storiche che stabiliscano quando gli ebrei comparvero nel paese, ma numerosi miti e leggende capaci di restituirci frammenti di storia. Nei racconti tramandati per secoli, Re Salomone avrebbe inviato i suoi mercanti in Yemen alla ricerca di oro e argento per le decorazioni del Tempio di Gerusalemme, così come la regina di Saba, la leggendaria e ancora misteriosa Bilqis, avrebbe chiamato a corte proprio un artigiano ebreo, incantata dalla sua sapienza orafa. Abili commercianti, artigiani, gioiellieri, gli ebrei di Sana'a erano maestri nella fabbricazione della janbiyya (il pugnale che ogni yemenita è solito portare alla cintura), ma non potevano girare per la città armati, un paradosso in un paese dove la diffusione delle armi personali è altissima e rappresenta un fenomeno di costume e di rango sociale. Quando l'Islam arrivò in Yemen nel VII secolo, agli ebrei fu conferito lo status di dhimmi, "la gente del libro" che può professare la propria religione in cambio del pagamento di una tassa. Iniziò così la vita con i musulmani yemeniti, sia sunniti di rito sciafeita (oggi il 55% circa) che sciiti di credo zaidita (il 40% circa), tra intolleranza e convivenza, come tratteggiato nelle pagine di Hayyim Habsus, guida ebrea yemenita di alcuni orientalisti europei di fine Ottocento. Gli ebrei poterono godere della protezione tribale dei clan locali, per esempio nelle vallate del Mareb, come testimoniato dal viaggiatore francese Joseph Arnaud nel 1843: percorrendo la via dell'incenso, i mercanti della comunità raggiungevano il grande suq di Sana'a. L'imam Ahmad, che regnò sullo Yemen del nord dal 1948 al 1962, nacque dall'imam Yayha e da una donna yemenita di etnia ebrea.
  Di certo, la comunità ebraica yemenita è stata condizionata, in età contemporanea, sia dagli avvenimenti sociali e politici che hanno scosso la regione mediorientale (come l'intermittente conflitto israelo-palestinese), che dalla cronica instabilità interna, culminata nel protagonismo politico e militare del movimento Ansarullah degli huthi, che oggi sfidano, con le armi, il governo legittimo. L'esperienza umana degli ebrei dello Yemen è preziosa non solo perché sta di fatto scomparendo, ma anche perché rappresenta un unicuum nel panorama dell'ebraismo mediorientale. Quella yemenita fu infatti una comunità isolata, nei secoli, sia dai Sefarditi originari della Penisola iberica che dagli Ashkenaziti germanofili; gli ebrei dell'Arabia felix poterono così sviluppare una cultura originale, ramificandosi in due gruppi (gli Shami, provenienti dal Levante arabo, vicini alla liturgia sefardita e i più tradizionalisti Baladi, seguaci degli insegnamenti del filosofo Moses Maimonides).
  Il primo massiccio esodo di ebrei dallo Yemen avvenne tra il 1880 e il 1914, quando in molti decisero di trasferirsi in Palestina. Le condizioni economiche e di vita della comunità ebraica locale peggiorarono parallelamente alla diffusione dell'antisemitismo (e dopo il 1948 dell'antisionismo) in Europa e in Medio Oriente. Nel dicembre 1947, un'ottantina di ebrei yemeniti vennero uccisi durante un assalto ad Aden: abitazioni e attività commerciali furono devastate, come accaduto nel 1933. Nel nord, l'imam Ahmad concesse agli ebrei, tra il 1949 e il 1950, di lasciare lo Yemen per raggiungere il neonato stato israeliano, mediante la cosiddetta operazione "Tappeto Volante". Tale permesso fu accordato, però, non prima che gli ebrei avessero insegnato ai connazionali musulmani i lavori, soprattutto manuali, nei quali eccellevano; una conferma del ruolo significativo che essi ricoprivano nel tessuto socio-economico dell'imamato zaidita e nella stessa città di Sana'a, dove negli anni Trenta operavano numerose scuole ebraiche. Dei 51 mila ebrei stimati in Yemen alla fine degli anni Quaranta, in 50 mila scelsero di raggiungere Israele fra il 1949 e il 1950.
  La questione degli ebrei di Yemen ha spesso complicato la già difficile alleanza tra Sana'a e Washington. Le aperture del presidente yemenita Ali Abdullah Saleh nei confronti della comunità ebraica hanno sempre coinciso con la necessità di riannodare il rapporto con gli Usa. Nel 1991, Saleh concesse i visti per l'espatrio a un gruppo di ebrei, che ripararono in Israele: attraverso questa mossa, Saleh tese la mano agli americani, dopo l'astensione di Sana'a sulla risoluzione dell'Onu che autorizzava l'intervento a guida Usa per la liberazione del Kuwait, invaso dal regime iracheno di Saddam Hussein (Sana'a era allora membro non permanente del Consiglio di Sicurezza). Nel 2001 il General People's Congress (GPC), il partito del presidente Saleh, scelse di candidare alle elezioni parlamentari Ibrahim Ezer, un ebreo yemenita, candidatura poi bloccata da una commissione interna, che sostenne la necessità che entrambi i genitori dei candidati fossero di fede musulmana.
  La situazione è poi precipitata nel 2007: gli huthi hanno moltiplicato le minacce e gli atti di intimidazione contro gli ebrei, specie nella regione di Saada, territorio già scosso dalla rivalità armata fra i miliziani sciiti e i salafiti sostenuti dalla confinante Arabia Saudita in chiave anti-huthi. "Dio è grande, morte all'America, morte a Israele, maledetti gli ebrei, gloria all'Islam" è lo slogan che gli huthi sono soliti scandire: gli ultimi ebrei di Yemen abitavano proprio le aree settentrionali (Saada, Amran, Sana'a) già roccaforti dei miliziani di Ansarullah. Nel 2008, durante l'operazione militare "Piombo Fuso" a Gaza (voluta dal governo di Israele per estromettere Hamas dalla Striscia), decine di ebrei yemeniti dovettero lasciare le loro case perché oggetto delle rappresaglie di miliziani huthi, questi ultimi già in guerra con l'esercito nazionale (le 6 battaglie di Saada tra il 2004 e il 2010). Sempre nel 2008, Moshe Yaish Nahari, insegnante ebreo yemenita di Raydah (Amran), venne ucciso, mentre la storica libreria ebraica di Saada (contenente manoscritti antichi e una preziosa copia della Torah) fu saccheggiata. Di fronte all'ultimatum degli huthi contro gli ebrei di Saada, il governo Saleh decise allora di trasferirne circa un centinaio in un'énclave blindata della capitale, per tutelarne la sicurezza. Da allora, si è però saputo pochissimo delle condizioni di vita di questi cittadini sfollati. Alcune organizzazioni non governative presenti sul campo hanno sostenuto che gli ebrei yemeniti ospitati nella struttura non possono avere contatti con i media. Nell'ottobre 2012, attivisti della ONG locale Sawa'a Organization for Anti-Discrimination sono stati arrestati dalle forze di sicurezza governative mentre tentavano di entrare nel compound per una visita, proprio nell'intento di documentare la vita quotidiana della comunità: la stessa organizzazione ha poi denunciato il taglio dei fondi destinati all'énclave di Sana'a da parte dell'esecutivo di transizione.
  Nonostante abbiano sempre rivendicato la loro appartenenza nazionale, gli ebrei yemeniti hanno sperimentano una condizione di marginalità sociale e sovente di discriminazione, sia da un punto di vista economico (accesso ai servizi sociali) che politico. Per esempio, i cittadini yemeniti ebrei non possono servire nelle Forze armate. A dispetto degli annunci della vigilia, nessun yemenita di etnia ebraica figurava fra i 565 delegati alla conferenza di Dialogo Nazionale svoltasi dal marzo 2013 al gennaio 2014 e incaricata di riscrivere la costituzione, delineando la fisionomia politica dello Yemen del futuro. Un'assenza che si è riproposta nella commissione ad hoc per la riforma federale nominata e presieduta dal capo dello stato ad interim Abdu Rabu Mansur Hadi (già vice di Saleh).
  Eppure, c'è stato un tempo in cui gli ebrei yemeniti erano, prima di tutto, abitanti delle terre dell'Arabia felix. Essi condividevano con i musulmani, per esempio, il rito della masticazione del qat (le foglie euforizzanti dell'arbusto della Catha edulis), simbolo di identità collettiva in Yemen, persino nel giorno per loro festivo dello shabbat. Nel diciassettesimo secolo, il poeta Salim al-Shabzi (chiamato anche Shalom Ben Joseph Shabbezi), yemenita ebreo, componeva poesie e canzoni d'amore nella città di Taiz, alternando versi in arabo e in ebraico all'interno dei suoi componimenti, esempi di poesia-canto humayni, genere dialettale yemenita di probabili origini sufi.
  Il conflitto yemenita e il colpo di stato degli huthi non hanno fatto che accelerare la dispersione, già in essere, della comunità ebraica del paese. Perché nello Yemen sconvolto da una guerra con molti attori locali e regionali, lo shofar (il corno di montone suonato per la preghiera) non risuona più, privando Sana'a di una pagina unica della sua storia.

(moked, 11 dicembre 2016)


Festa ebraica Chanukkah tra tradizione millenaria e design

di Valentino Vilone

Una festività religiosa che affonda le radici in una tradizione millenaria e la sua interpretazione in chiave moderna si sviluppa attraverso l'arte e il design. Sono queste le due anime racchiuse nella mostra "Lumi di Chanukkah". Tra storia, arte e design protagonista al Triennale Design Museum di Milano dal 13 dicembre all'8 gennaio e dedicata alla ricorrenza ebraica nota come la "Festa delle Luci".
Quaranta chanukkioth, ossia candelabri rituali a nove braccia, disegnati da artisti e designer italiani e internazionali, parte della ricca collezione della Comunità ebraica di Casale Monferrato, saranno esposte al pubblico per raccontare il messaggio della festa, aprendo al contempo uno spazio di confronto innovativo tra arte ed ebraismo.
Nel corso della mattinata la mostra sarà presentata in anteprima ai giornalisti, che saranno accolti dall'ufficio stampa dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e da quello del Triennale Design Museum. Sarà un'occasione importante e straordinaria, nella cornice internazionale della Triennale, per comunicare il messaggio della festa di Channukkah, i valori ebraici che rappresenta e per farli conoscere al grande pubblico.
La collezione nasce dall'idea del designer Elio Carmi e di Antonio Recalcati, artista, di rappresentare la spiritualità attraverso la reinterpretazione di un oggetto della tradizione, utilizzato nei secoli nelle famiglie ebraiche e legato alla sfera religiosa come è la channukkiah.
L'accensione degli otto lumi del candelabro, infatti, serve a ricordare la vittoria dei Maccabei contro gli ellenisti nel 165 a.e.v. e il miracolo dell'ampolla d'olio da loro trovata nel Tempio sconsacrato: nonostante fosse sufficiente per un solo giorno, l'olio dell'ampolla durò per otto giorni permettendo al popolo ebraico di riconsacrare il Tempio e diventando la ricorrenza emblema del trionfo della Luce sulle tenebre. Per ricordare quegli avvenimenti, le famiglie ebraiche nel mondo ancora oggi accendono - a partire dal 25 di Kislev - per otto sere gli otto lumi della channukkiah utilizzando lo shamash, la nona candela e celebrando la vittoria della luce sul buio dell'idolatria e la gioia della libertà ritrovata.
I diversi significati della festa sono stati rappresentati in opere contemporanee dai tanti artisti presenti nella collezione esposta alla Triennale. Ciascuno ha declinato secondo la propria sensibilità i temi racchiusi nella storia di Channukkah e nel candelabro che la rappresenta. Di anno in anno autori, ebrei ma anche cattolici, evangelici, protestanti, musulmani, hanno raccolto l'affascinante sfida di tradurre concetti come identità, libertà, riaffermazione di sé in oggetti d'arte, esposti al Museo ebraico di Casale Monferrato e di cui una parte alla Triennale.

(Marco Polo news, 11 dicembre 2016)


Varese, la Comunità ebraica contro l'associazione che nega l'Olocausto: "Intervenga Alfano"

La Comunità militante dei dodici raggi di Caidate. Una lettera al ministro dell'Interno da parte dell'Ucei che rappresenta le 21 comunità in Italia. Sulla vicenda Pd e Sel hanno presentato due interrogazioni.

di Paolo Berizzi

 
La comunità dei dodici raggi di Caldate
"Abbiamo chiesto un intervento immediato del Viminale. La situazione della comunità neonazista di Caidate, in provincia di Varese, è allarmante e inquietante". L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha scritto una lettera al ministro dell'Interno, Angelino Alfano, per sollecitare un'azione nei confronti di Do.Ra. (Comunità militante dei dodici raggi) l'associazione di chiara ispirazione neonazista denunciata da Repubblica.
   Nella missiva si parla di "allarme" e "preoccupazione": gli stessi concetti ribaditi nelle interrogazioni parlamentari presentate - sul caso - da deputati del Pd e di Sel, e negli appelli arrivati in queste ore dall'Anpi e dai Comitati antifascisti. Tutti si aspettano, adesso, una presa di posizione da parte del ministro Alfano: perché una comunità che fa proselitismo sull'apologia di fascismo e nazismo, che festeggia il compleanno di Hitler con raduni e concerti e che profana luoghi simbolo della lotta partigiana contro le SS naziste (i Do.Ra. lo hanno fatto pochi giorni fa al sacrario del monte San Martino, ndr), viola apertamente i principi stabiliti dalla Costituzione e le leggi dell'ordinamento italiano (legge Scelba e legge Mancino).
   L'Ucei è l'ente che rappresenta le 21 comunità ebraiche in Italia. E' da loro che arriva ora un appello affinché il Viminale si attivi sul caso Varese. Lo chiedono con forza anche i deputati Emanuele Fiano (responsabile sicurezza del Pd), Daniele Marantelli e Eleonora Cimbro. Scrive quest'ultima in un interrogazione parlamentare: "Nel corso di questa legislatura abbiamo avuto modo più volte di segnalare al ministero, attraverso interrogazioni e interpellanze, i numerosi, gravi episodi di manifesto attacco ai valori antifascisti della nostra Costituzione, inequivocabili segnali della recente avanzata delle nuove destre sul territorio lombardo: dai festival neonazisti di Rogoredo, Castano Primo e Cantù, all'insediamento nelle istituzioni comunali del territorio milanese di formazioni politiche di ispirazione chiaramente fascista".
   "I due ultimi, recenti, episodi - la profanazione del Sacrario del San Martino da parte del gruppo neonazista Do.ra, e un evento sulla campagna di Russia promosso da due organizzazioni di estrema destra a Turbigo, patrocinato dallo stesso Comune - non possono che confermare le nostre preoccupazioni. Attraverso un'ulteriore interrogazione - si legge - chiediamo al Ministero di intraprendere, finalmente, una serie di iniziative per porre un argine alla propaganda negazionista, antisemita e xenofoba sul nostro territorio; propaganda che va ponendosi apertamente in contrasto con i valori della nostra Repubblica".
   Fiano, da parte sua, annuncia un'interrogazione urgente al titolare del Viminale spiegando che "non si può rimanere indifferenti, non possiamo lasciare che ancora accada. Occorrono - prosegue - provvedimenti nei confronti dei naziskin di Caidate, nel Varesotto, che vivono organizzati militarmente, negano l'Olocausto,
   Intanto il presidente della Comunità militante dei dodici raggi, Alessandro Limido, sul web replica alla denuncia di Repubblica parlando di "isterismo partigiano". E aggiunge: "Nessun passo indietro, la vita è solo avanti. La mia stragrande ammirazione per il Fascismo, il Nazionalsocialismo e la mia idea sull'Olocausto sono ben note a tutti".

(la Repubblica, 9 dicembre 2016)


Israele - Via libera all'acquisto dei giacimenti Karish e Tanin da parte della greca Energean

GERUSALEMME - Il Consiglio petrolifero del ministero delle Infrastrutture, dell'Energia e delle risorse idriche israeliano ha raccomandato al dicastero di approvare l'accordo che prevede la cessione dei giacimenti di gas naturale di Karish e Tanin alla società greca Energean. Lo riferisce il sito d'informazione economica israeliano "Globes", ricordando che lo scorso agosto l'azienda greca ha accettato di acquistare i due giacimenti. L'accordo prevede il versamento di 150 milioni di dollari alle società del consorzio, Noble Energy e Delek Group. I giacimenti di Karish e Tanin contengono circa 60 miliardi di metri cubi di gas. Il Consiglio petrolifero israeliano ha deciso di consentire a Noble Energy di trasferire il 3,5 per cento delle quote possedute nei giacimenti di Tamar e Dalit alla Everest partnership. La decisione si inserisce nelle trattative per la riduzione le azioni di Noble Energy nei due giacimenti del 25 per cento. Da parte sua, il ministro dell'Energia Yuval Steinitz ha commentato la vendita dei giacimenti di Karish e Tanin affermando: "Un passo importante per spezzare il monopolio nel settore del gas entro i tempi prestabiliti". L'ingresso di nuovi attori nella gestione del mercato del gas rafforzerà la competitività e la diversificazione, rafforzando la sicurezza energetica, ha aggiunto Steinitz. Infine, il ministro israeliano ha sottolineato che la competitività nel settore favorirà la sostituzione del carbone nelle centrali di Hadera con il gas naturale, migliorando la salute della popolazione israeliana.

(Agenzia Nova, 11 dicembre 2016)


Yoni Netanyahu storia del vero eroe «normale»

di Nicola Porro

Quella di Yonatan Netanyahu, fratello del premier israeliano, Bibi è una storia breve, ma esaltante. Michele Silenzi, nella bella introduzione alla raccolta di Lettere pubblicata da LiberiLibri, la definisce, senza retorica, una storia eroica. E aggiunge una considerazione, che in fondo avevamo sempre condiviso, ma mai espressa: Yoni è «un eroe di quelli che l'Occidente, per anni, ha tentato di dimenticare, di deridere, di riumuovere attraverso l'oscenità brechtiana beato il paese che non ha bisogno di eroi e sostituendo a questa epica dell'individuo eccezionale quella dell'eroe normale che poi non si capisce bene cosa significhi». Ben detto. Questa nota di Silenzi di per sé varrebbe l'acquisto del libro e la sua collocazione nella nostra ideale biblioteca liberale. Ma il testo è molto di più: sono più di cento lettere scritte da Yoni ai suoi fratelli, alla sua fidanzata, ai suoi genitori. Mentre l'Europa e l'America tra il 1963 e il 1976 (lasso di tempo in cui il giovane studente di matematica passa dal liceo ad Harvard e poi all'Esercito israeliano per poi cadere sul campo a Entebbe) giocava al '68, alla rivoluzione dei costumi, alla ribellione del femminismo, alla rottura dei valori borghesi, c'era un piccolo Stato-nazione incastonato tra i nemici in Medio Oriente che combatteva per la propria sopravvivenza.
   Yoni è Israele, è il suo spirito, è l'idea che ogni battaglia è volta all'annientamento della propria patria e non solo alla sua momentanea sconfitta. Yoni scrive che non capisce la frivolezza dei suoi compagni di liceo in America. Non ha paura della morte, non lo spaventa ma lo disturba. A Rina scrive: «Hai sedici anni. Ti rendi conto che hai vissuto quasi un quarto della tua Vita? Un insetto, che probabilmente vice solo pochi giorni, sente che l'arco della sua vita sia enorme. Ma l'uomo non vive per sempre, e dovrebbe usare al meglio i suoi giorni. Io so soltanto che non voglio arrivare ad una certa età, guardarmi intorno e scoprire improvvisamente che non ho creato nulla, che sono come tutti gli altri esseri umani che corrono di qua e di là come tanti insetti senza mai raggiungere niente». Yoni farà della propria dedizione a Israele la ragione di vita, la sua formazione nei paracadutisti la sua specialità. Nelle lettere si legge la storia di un ragazzo non comune, ma anche lo spirito di un popolo che bisogna ammirare. E dal quale, come nota bene Silenzi, noi Europei dovremmo imparare molto.

(il Giornale, 11 dicembre 2016)


Israele, la "Start Up Nation" su cui punta l'Italia

Innovazione, energia, difesa e cyber security. Israele vive in uno stato di tensione permanente, ma la sua economia cresce trasformando i limiti in nuove risorse.

di Antonio Passarelli

Nel 2015 l'economia israeliana ha registrato una crescita pari al 2,5% con un contestuale declino del tasso di disoccupazione, oggi al 5,3%, ben lontano dai nostri standard così come debito (64,9%) e deficit (2%). Sul piano delle relazioni economiche e commerciali internazionali, invece, il flusso di IDE (investimenti diretti esteri) in entrata si mantiene importante con 12 miliardi di dollari, un valore pari al 4,1% del PIL. Rispetto al 2014, il deficit della bilancia commerciale è stato dimezzato con l'Unione Europea, primo partner commerciale. L'Italia rimane il terzo fornitore tra gli Stati membri dell'UE, evidenziando una buona crescita delle esportazioni (+8,4%) pari a poco meno di 2,5 miliardi di euro in valore (+4,4% nel primo semestre del 2016).
A livello bilaterale, dal punto di vista merceologico le nostre esportazioni verso Israele sono ben diversificate e spaziano tra macchine utensili, attrezzature e impianti per l'industria manifatturiera, mobili, gioielli, prodotti chimici, fertilizzanti fino ad autoveicoli e prodotti in plastica. L'Accordo intergovernativo di cooperazione industriale scientifica e tecnologica, entrato in vigore nel 2002, ha dato l'avvio a una serie di iniziative per rafforzare le partnership in questi settori, dimostrandosi uno strumento fondamentale ed efficace.
L'Italia può contare sul fatto di essere percepita come un partner commerciale storico e affidabile da Israele, oltre a rappresentare un alleato strategico in campo industriale capace di rispondere alle esigenze e ai limiti - in termini di dimensioni - dell'industria israeliana, in ragione della stessa complementarietà tra sistemi produttivi dei due Paesi.
Naturalmente, le scoperte di giacimenti di gas naturale off shore nel 2009 in acque israeliane e l'inizio del loro sfruttamento hanno favorito questi risultati, portando alla progressiva diminuzione della dipendenza energetica di Israele dall'estero.

 Le caratteristiche dell'economia israeliana
 
  Inutile e scontato ricordare quanto sia unico lo status di Israele per storia, geografia, contesto politico e sociale, ruolo centrale nello scacchiere mediorientale. Con i suoi 8 milioni di abitanti, Israele rappresenta un piccolo mercato irrobustito però dall'essere un polo di innovazione e sviluppo eccezionale. Per l'Italia rappresenta un partner poliedrico in campi della conoscenza "delicati" ed altamente strategici.
Una diffusa cultura d'impresa e un'elevatissima capacità di innovazione rendono Israele il primo Paese al mondo per numero di brevetti pro-capite e secondo solo agli Stati Uniti per numero di start up attive. L'epicentro vitale è rappresentato dalla città di Tel Aviv dove si contano oltre 1.500 start up che occupano oltre 43.000 addetti, mentre sono oltre 60 le imprese israeliane attualmente quotate al NASDAQ.
In Laboratorio Israele. Storia del miracolo economico israeliano, il saggio di Dan Senor e Saul Singer del 2009, il Paese è stato definito una "Start Up Nation", rappresentando a conti fatti la realtà leader nei settori avanzati, con il governo che destina stabilmente almeno il 5% del PIL a incentivi per ricerca e sviluppo e una quota di investimenti pubblici in R&D (ricerca e sviluppo, ndr) tra le più importanti a livello mondiale.
Molte multinazionali - parliamo ad esempio di giganti come Intel, Microsoft, IBM, Google - hanno scelto proprio Israele per le sedi dei loro centri di ricerca e sviluppo, potendo contare e volendo sfruttare l'ecosistema di una delle realtà leader su scala globale nell'high-tech legato non solo a sicurezza informatica e difesa, ma anche all'industria biomedicale e alle life sciences, all'irrigazione e alle energie rinnovabili. Il destino di molte di queste start up è proprio quello di essere acquisite da una delle grandi multinazionali.
"Fields of Tomorrow", il padiglione di Israele a Expo Milano 2015, ha mostrato al mondo intero gli sviluppi tecnologici e i sistemi innovativi che il Paese adotta, esaltando il know-how nella coltivazione in condizioni estreme, nelle nuove tecniche d'irrigazione e nel miglioramento della qualità dei semi, oltre a svelare il "Vertical Planting", studiato per risparmiare e ottimizzare territorio e acqua, che è stato l'asse portante dello stesso concept architettonico scelto per l'esposizione internazionale tenutasi in Italia.
La base del successo del modello "Start Up Nation" va cercata infatti nella sinergia virtuosa e fruttuosa che coinvolge i mondi dell'accademia, dell'industria, i centri di sviluppo e ricerca e la difesa, quest'ultimo settore fondamentale e interesse prioritario per definizione, capace di generare innovazioni che successivamente l'industria civile fa proprie per garantirsi crescita e competitività.

 Cyber security
  Sempre in ragione dell'eccezionale situazione geopolitica, il campo sempre più strategico e vitale per il governo israeliano è rappresentato dalla cyber security, al cui sviluppo viene da tempo data assoluta priorità, rappresentando il Paese uno dei principali target di attacchi in tutta l'area del Medio Oriente. Da qui nasce l'ambizione di rendere Israele l'epicentro vitale e pulsante per il settore e per trasformare come sempre un'esigenza concreta in risorsa, con l'offerta di soluzioni innovative in grado di coprire orizzontalmente tutti i mercati, con un settore che conta oltre 300 aziende che nel 2015 hanno contribuito all'export con 3,5 miliardi di dollari coprendo per il 5% la domanda del mercato globale.
Alla base di questa economia, dunque, c'è un approccio totalmente rivolto verso innovazione e ricerca che grazie a politiche, incentivi e tramite la promozione della stretta sinergia fra mondo accademico e ricerca industriale, facilita le stesse possibilità di fund raising da parte di venture capitalist locali e stranieri. Israele vive in uno stato di tensione permanente, ma è ormai matura la convinzione che la sua economia vada slegata dalle preoccupazioni sulla stabilità geopolitica regionale.

(LookOut, 10 dicembre 2016)


La migrazione delle gru sul lago di Agamon Hula

Lo spettacolo del lago di Agamon Hula, nel Nord di Israele, pieno di gru grigie. La riserva naturale in autunno e primavera si popola di una enorme quantità di uccelli migratori che si allontanano dalle fredde aree dell'Europa e vanno a svernare in Africa.

(askanews, 10 dicembre 2016)


Roma - Israelitico, l'ospedale che rinasce dopo gli scandali e gli arresti

Un anno fa l'indagine-monstre sui rimborsi facili, che coinvolse anche l'allora direttore generale Antonio Mastrapasqua. Oggi, nuovo cda e buone prospettive: «Struttura sana e utenti soddisfatti»

di Paolo Conti

Nell'ottobre 2015 erano in pochi a scommettere sulla sopravvivenza dell'Ospedale Israelitico di Roma, istituzione della Comunità Ebraica con 400 anni di storia alle spalle. Timori fondati: una piccola struttura devastata da un'inchiesta che portò a 14 arresti, tra cui l'allora direttore generale Antonio Mastrapasqua, il direttore sanitario, il primario di Ortopedia. Un'accusa durissima, visite e cartelle false per ottenere rimborsi più elevati: sospensione della convenzione con la Regione, scioglimento del Consiglio di amministrazione (comunque non coinvolto), commissariamento da parte della Comunità (a sua volta mai coinvolta nell'inchiesta) e nomina di un commissario prefettizio per i rapporti con la Regione. Nel novembre scorso, l'Ospedale ha girato pagina con la nomina di un nuovo Consiglio da parte della Comunità ebraica e di un nuovo presidente, l'avvocato Bruno Sed, 49 anni, specializzato in diritto civile e commerciale: «L'ospedale è ora sostanzialmente sano sia dal punto di vista amministrativo che dell'attività sanitaria. Gli utenti sono molto soddisfatti, i medici e gli operatori sono desiderosi di far ripartire la struttura a pienissimo regime, sotto una guida ferma e verso obiettivi chiari».
   L'operazione, spiega Sed, non è stata indolore: «Per precisa scelta, il personale non è stato messo né in cassa integrazione né in ferie ma è stato regolarmente retribuito nonostante la sospensione dei pagamenti della Regione. E' stato usato il fondo cassa di 10 milioni. La Comunità ha mantenuto una posizione di estremo rispetto verso chi lavora anche per non creare allarme sociale». La struttura, spiega Sed, «ha 228 dipendenti, 169 medici e 800 persone complessivamente impiegate calcolando le cooperative di servizi esterni. Alla fine del 2016 conteremo 2319 interventi di day hospital per geriatria e ortopedia, dove abbiamo un centro di eccellenza per mano-spalla-ginocchio-anca. Fino a settembre abbiamo realizzato 5.328 interventi, alla fine del 2016 saremo sul milione di interventi ambulatoriali. La richiesta dell'utenza è fortissima, sia nella sede dell'isola Tiberina che alla Magliana e in via Giuseppe Veronese». Il 99% dei dipendenti è composto da non ebrei e il 99% dell'utenza riguarda non ebrei, essendo una struttura convenzionata aperta tutti. In più l'ospedale è chiuso di sabato per la festività ebraica ma pienamente operativo la domenica, giorno in cui molti romani per esempio ricorrono ai servizi odontoiatrici. Conclude Sed: «Agiamo su tre linee. Rigorosa osservanza delle regole e assoluta trasparenza, rinnovato clima di fiducia con le istituzioni, nomina del nuovo direttore generale Giovanni Naccarato. Abbiamo un dinamico progetto di rilancio e di nuovi investimenti che si aggiungeranno a strutture già all'avanguardia». Un ospedale che supera una drammatica crisi: una buona notizia per Roma.

(Corriere della Sera - Roma, 10 dicembre 2016)


Al confine con Gaza pericolo tunnel

L’esercito: 'per ora regna la calma, ma Hamas si prepara'

Vicino al confine israeliano con Gaza, l'allerta è alto. Oltre il reticolato ci sono le case di Sajaya, sobborgo di Gaza City. L'ufficiale dei carristi israeliano alza gli occhi verso la torretta bianca di sorveglianza di Hamas dall'altra parte della rete: "Per il momento hanno interesse a mantenere calmo il confine, ma sappiamo che si stanno preparando ad un nuovo round". Poi, dal bordo di una grande buca scavata dai trattori, indica l'ingresso in cemento del tunnel che sbuca in territorio israeliano e aggiunge: "Verranno da altri come questo ma non solo. La minaccia può giungere anche dal cielo: con droni o anche aquiloni. Possono montare telecamere o anche ordigni". E indicando il tunnel: "Quello che vedete è a circa 15 metri di profondità. Ma può essere scavato anche a 20-30 metri. Difficile da trovare. All'interno ci sono binari, elettricità, linee telefoniche, muratura in cemento, maschere antigas e anche moto da cross usate per i lanciarazzi".

(ANSA, 10 dicembre 2016)


La menzogna sovietico-palestinese

di Judith Bergman (*)

 
La recente scoperta che Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità palestinese (Ap) era una spia del Kgb a Damasco nel 1983, è stata definita dai media mainstream come una "curiosità storica", se non fosse che la notizia è venuta fuori in modo inopportuno nel momento in cui il presidente Vladimir Putin stava cercando di organizzare un incontro tra Abbas e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per far ripartire i colloqui di pace. Com'era prevedibile, l'Autorità palestinese ha respinto la notizia. Nabil Shaath, dirigente di Fatah, ha negato che Abbas sia mai stato un agente operativo del Kgb e ha parlato di "campagna diffamatoria".
   La scoperta, ben lungi dall'essere una "curiosità storica", è un aspetto di uno dei tanti tasselli del puzzle delle origini del terrorismo islamico del XX-XXI secolo. Quelle origini sono quasi sempre offuscate e occultate nei tentativi malcelati di presentare una particolare narrativa sulle cause del terrorismo contemporaneo, biasimando qualsiasi prova del contrario come "teoria del complotto". Non c'è nulla di cospiratorio riguardo alla recente rivelazione che arriva da un documento degli archivi Mitrokhin custoditi dal "Churchill Archives Center" dell'Università di Cambridge, nel Regno Unito. Vasily Mitrokhin era un alto funzionario del servizio di intelligence sovietico, poi degradato ad archivista del Kgb. Mettendo la sua vita in grave pericolo, ha trascorso 12 anni a copiare diligentemente i dossier segreti del Kgb che erano secretati (gli archivi dell'intelligence estera del Kgb non sono stati aperti al pubblico, nonostante il crollo dell'Unione Sovietica). Quando Mitrokhin disertò nel 1992 rifugiandosi nel Regno Unito, portò con sé i documenti copiati. Le parti declassificate dell'archivio Mitrokhin sono state portate a conoscenza dell'opinione pubblica negli scritti del professor Christopher Andrew, docente dell'Università di Cambridge, che è coautore del libro del disertore sovietico "L'archivio Mitrokhin" (pubblicato in due volumi). Gli archivi di Mitrokhin portarono, tra le altre cose, alla scoperta di molte spie del Kgb in Occidente e altrove.
   Purtroppo, la storia dell'entità dell'influenza del Kgb e delle informazioni fasulle non è così nota come
Il Kgb è stato un attore molto attivo nella creazione dei cosiddetti movimenti di liberazione in America Latina e in Medio Oriente, movimenti coinvolti nel terrorismo letale, come documentato tra l'altro nell'Archivio Mitrokhin e anche nei libri e negli scritti di Ion Mihai Pacepa, l'ufficiale comunista più alto in grado che abbia disertato dall'ex blocco sovietico.
dovrebbe essere, considerando l'enorme influenza che l'organo di polizia segreta dell'Unione Sovietica ha esercitato sulle questioni internazionali. Il Kgb ha condotto operazioni ostili contro la Nato, contro il dissenso democratico in seno al blocco sovietico e ha messo in moto eventi sovversivi in America Latina e in Medio Oriente, con ripercussioni fino ad oggi. Inoltre il Kgb è stato un attore molto attivo nella creazione dei cosiddetti movimenti di liberazione in America Latina e in Medio Oriente, movimenti coinvolti nel terrorismo letale, come documentato tra l'altro nell'Archivio Mitrokhin e anche nei libri e negli scritti di Ion Mihai Pacepa, l'ufficiale comunista più alto in grado che abbia disertato dall'ex blocco sovietico. Pacepa era ex capo del Servizio di informazioni estere dell'intelligence romena e consigliere personale del leader comunista romeno Nicolae Ceausescu prima che disertasse negli Stati Uniti nel 1978.
   Pacepa ha lavorato con la Cia per più di dieci anni per sconfiggere il comunismo; l'agenzia ha descritto la sua cooperazione come "un importante e straordinario contributo agli Stati Uniti".
   In un'intervista del 2004 a FrontPage Magazine, Pacepa disse: "L'Olp è stata concepita dal Kgb, che aveva un debole per le organizzazioni di 'liberazione'. C'era l'Esercito di liberazione nazionale della Bolivia, creato nel 1964 dal Kgb con l'aiuto di Ernesto "Che" Guevara (...) il Kgb ha anche creato il Fronte per la liberazione della Palestina, che ha compiuto numerosi attacchi dinamitardi. (...) Nel 1964, il primo Consiglio dell'Olp, composto da 422 rappresentanti palestinesi selezionati con cura dal Kgb, approvò la Carta nazionale palestinese - un documento che era stato redatto a Mosca. Anche il Patto nazionale palestinese e la Costituzione palestinese sono nati a Mosca, con l'aiuto di Ahmed Shuqairy, un influente agente del Kgb che è diventato il primo presidente dell'Olp...".
   Sulle pagine del Wall Street Journal, Pacepa ha spiegato come il Kgb costruì Arafat, o nel gergo corrente, come costruirono una narrativa per lui: Egli era un borghese egiziano trasformato in un devoto marxista dall'intelligence estera del Kgb. Il Kgb lo aveva formato nella sua scuola per operazioni speciale a Balashikha, cittadina a est di Mosca e a metà degli anni Sessanta decise di prepararlo come futuro leader dell'Olp. Innanzitutto, il Kgb distrusse i documenti ufficiali che certificavano la nascita di Arafat al Cairo, rimpiazzandoli con documenti falsi che lo facevano figurare nato a Gerusalemme e, pertanto, palestinese di nascita.
   Come ha scritto lo scomparso storico Robert S. Wistrich in "A lethal obsession", la guerra dei sei giorni scatenò una lunga e intensa campagna da parte dell'Unione Sovietica volta a delegittimare Israele e il movimento per l'autodeterminazione ebraica, conosciuto come sionismo. Ciò è stato fatto al fine di porre rimedio ai danni creati al prestigio dell'Urss dopo che Israele sconfisse i suoi alleati arabi: dopo il 1967, l'Urss cominciò a inondare il mondo di un costante flusso di propaganda antisionista. (...) I nazisti, nei loro dodici anni di potere, furono gli unici che siano mai riusciti a produrre un flusso sostenuto di false calunnie a mezzo stampa come strumento della loro politica interna ed estera.
   Per questo l'Urss utilizzò una serie di parole-chiave naziste per descrivere la sconfitta inflitta da Israele all'aggressione araba del 1967, e molte di queste parole-chiave sono ancora usate oggi dalla sinistra occidentale nei confronti di Israele, come ad esempio "esperti di genocidio", "razzisti", "campi di concentramento" e "Herrenvolk".
   Inoltre, l'Urss intraprese una campagna internazionale di diffamazione nel mondo arabo. Nel 1972, l'Unione Sovietica lanciò l'operazione "Sig" (Sionistskiye Gosudarstva o "Governi sionisti"), onde ritrarre gli Stati Uniti come "un arrogante e altezzoso feudo ebraico finanziato dal denaro ebraico e governato da politici ebrei, il cui obiettivo era quello di subordinare tutto il mondo islamico". Circa 4mila agenti furono inviati dal blocco sovietico nel mondo islamico, armati di migliaia di copie dei Protocolli dei Savi anziani di Sion, falso documentale utilizzato dalla Russia zarista. Secondo Yuri Andropov, capo del Kgb: Il mondo islamico era una piastra di Petri in cui potevamo coltivare un ceppo virulento di odio antiamericano e antisraeliano, cresciuto dal batterio del pensiero marxista-leninista. L'antisemitismo islamico ha radici profonde... Dovevamo solo continuare a ripetere i nostri argomenti - che gli Stati Uniti e Israele erano 'Paesi fascisti, imperial-sionisti" finanziati da ricchi ebrei. L'Islam era ossessionato dall'idea di evitare l'occupazione del suo territorio da parte degli infedeli ed era assolutamente ricettivo al ritratto da noi fatto
Già nel 1965, l'Urss aveva proposto ufficialmente una risoluzione all'Onu che condannava il sionismo come colonialista e razzista. Sebbene il tentativo fallì, nel novembre del 1975 fu alla fine approvata la Risoluzione 3379 che condannava il sionismo come "una forma di razzismo e discriminazione razziale".
del Congresso americano come un rapace organismo sionista volto a trasformare il mondo in un feudo ebraico.
Già nel 1965, l'Urss aveva proposto ufficialmente una risoluzione all'Onu che condannava il sionismo come colonialista e razzista. Sebbene il tentativo fallì, le Nazioni Unite si rivelarono grate all'Unione Sovietica per l'intolleranza e la propaganda e nel novembre del 1975 fu alla fine approvata la Risoluzione 3379 che condannava il sionismo come "una forma di razzismo e discriminazione razziale". Ciò fece seguito a quasi un decennio di diligente propaganda sovietica rivolta al Terzo Mondo, che descriveva Israele come un cavallo di Troia per l'imperialismo occidentale e il razzismo. Questa campagna fu concepita allo scopo di raccogliere consensi a favore della politica estera sovietica in Africa e Medio Oriente. Un'altra strategia consisteva nel fare comparazioni visive e verbali nei media sovietici tra Israele e il Sud Africa (questa è l'origine della frottola "apartheid israeliana").
   Il Terzo Mondo e la sinistra occidentale si sono bevuti tutta questa propaganda sovietica. E la sinistra occidentale continua a disseminarla in gran parte. In realtà, diffamare qualcuno, chiunque esso sia, definendolo razzista, è diventata una delle armi primarie della sinistra da utilizzare contro chi non condivide le sue posizioni.
   Parte delle tattiche sovietiche volte a isolare Israele facevano apparire l'Olp come un'organizzazione "rispettabile". Secondo Pacepa, questo era il compito assegnato al leader romeno Nicolae Ceausescu, che riuscì nell'impresa improbabile di far credere all'Occidente che lo spietato Stato di polizia romeno fosse un Paese comunista "moderato". Niente di più lontano dalla verità, come alla fine si scoprì nel processo del 1989 contro Nicolae Ceausescu e la moglie Elena, che si concluse con l'esecuzione della coppia (fucilata da un plotone di esecuzione, N.d.T.).
   Pacepa ha scritto sul Wall Street Journal: Nel marzo del 1978 condussi in gran segreto Arafat a Bucarest per le istruzioni finali su come comportarsi a Washington. "Devi solo far finta di rompere con il terrorismo e riconoscere Israele, ancora, e ancora e ancora", disse Ceausescu ad Arafat. (...) Ceausescu era euforico all'idea che Arafat e lui potessero riuscire ad accaparrarsi un premio Nobel per la pace con la loro farsa del ramoscello d'ulivo. ...
   Ceausescu non riuscì a ottenere il suo premio Nobel per la pace. Ma nel 1994 Arafat lo ricevette, proprio perché continuò a interpretare alla perfezione il ruolo che gli avevano affidato. Aveva trasformato la sua Olp terrorista in un governo in esilio (l'Autorità palestinese), fingendo sempre di porre fine al terrorismo palestinese, pur continuando ad alimentarlo. Due anni dopo la firma degli accordi di Oslo, il numero degli israeliani uccisi dai terroristi palestinesi era aumentato del 73 per cento.
   Nel suo libro "Orizzonti rossi", Pacepa ha riportato quello che disse Arafat nel corso di un incontro che ebbe con lui nel quartier generale dell'Olp a Beirut, nel periodo in cui Ceausescu cercava di rendere l'Olp "rispettabile": Sono un rivoluzionario. Ho dedicato la mia intera vita alla causa palestinese e alla distruzione di Israele. Non cambierò, né scenderò a compromessi. Non sarò d'accordo su qualcosa che riconosce Israele come Stato. Mai... Ma sono sempre disposto a far credere all'Occidente che voglio fare quello che il Fratello Ceausescu vuole che io faccia. La propaganda ha aperto la strada al terrorismo, ha spiegato Pacepa in National Review: Il generale Aleksandr Sakharovsky, che creò la struttura di intelligence della Romania comunista e poi diresse l'intelligence estera della Russia sovietica, spesso mi diceva: "Nel mondo di oggi, in cui le armi nucleari hanno reso obsoleta la forza militare, il terrorismo dovrebbe diventare la nostra arma principale".
   Il generale sovietico non stava scherzando. Solo nel 1969 ci furono 82 dirottamenti aerei in tutto il mondo. Secondo Pacepa, la maggior parte di questi dirottamenti fu compiuta dall'Olp o da gruppi affiliati, tutti appoggiati dal Kgb. Nel 1971, quando Pacepa incontrò Sakharovsky nell'ufficio di quest'ultimo nel
Nel 1982, Abbas studiava a Mosca presso l'Istituto di Studi orientali dell'Accademia delle Scienze dell'Urss (nel 1983 divenne una spia del Kgb). A Mosca egli scrisse la sua tesi di dottorato, pubblicata in arabo, dal titolo "L'altra faccia: le relazioni segrete tra il nazismo e i capi del movimento sionista".
palazzo della Lubjanka (sede del Kgb), il generale si vantava: "I dirottamenti aerei sono una mia invenzione". Al Qaeda usò la tattica del dirottamento dei voli di linea per gli attentati dell'11 settembre, facendo schiantare gli aerei contro gli edifici e provocandone il crollo.
E Mahmoud Abbas che ruolo ha in tutto questo? Nel 1982, Abbas studiava a Mosca presso l'Istituto di Studi orientali dell'Accademia delle Scienze dell'Urss (nel 1983 divenne una spia del Kgb). A Mosca egli scrisse la sua tesi di dottorato, pubblicata in arabo, dal titolo "L'altra faccia: le relazioni segrete tra il nazismo e i capi del movimento sionista". Nella sua dissertazione, Abbas ha negato l'esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento e ha messo in discussione il numero delle vittime dell'Olocausto definendo i sei milioni di ebrei che erano stati uccisi "una fantastica menzogna", accusando al contempo gli ebrei stessi dell'Olocausto. Il relatore della sua tesi era Yevgeny Primakov, che in seguito divenne ministro degli Esteri della Russia. Anche dopo aver finito la tesi, Abbas ha mantenuto stretti legami con la dirigenza sovietica, l'esercito e i membri dei servizi di sicurezza. Nel gennaio del 1989, Abbas fu nominato copresidente del Comitato di lavoro palestinese-sovietico (e poi russo-palestinese) sul Medio Oriente.
   La notizia che l'attuale leader degli arabi palestinesi era un accolita del Kgb - le cui macchinazioni hanno provocato la morte di migliaia di persone solo in Medio Oriente - non può essere liquidata come una "curiosità storica", anche se gli opinionisti contemporanei preferirebbero vederla come tale. Anche se Pacepa e Mitrokhin hanno lanciato l'allarme molti anni fa, solo in pochi si sono preoccupati di ascoltarli. Occorre farlo.

(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 10 dicembre 2016 - trad. Angelita La Spada)


Da Ferrara a Israele: domenica 11 un convegno su "Gli ebrei italiani e il sionismo"

Domenica 11 dicembre, a partire dalle 11.00, presso la Sala dei Comuni del Castello Estense di Ferrara si terrà il convegno "Gli ebrei italiani e il sionismo: tra ricerca storica e testimonianze", promosso dal Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah - MEIS, per indagare i rapporti tra gli ebrei italiani e il sionismo politico, coniato a fine Ottocento dal giornalista ungherese Theodor Herzl.
   Herzl visitò Ferrara nel 1904 per incontrarvi i primi italiani che avevano aderito al suo movimento in senso filantropico, ovvero teso a trovare una soluzione per gli ebrei dell'Europa dell'Est che subivano forti persecuzioni. Ad accoglierlo in città fu l'avvocato trentacinquenne Felice Ravenna, figlio di Leone, che accompagnò poi Herzl nei suoi appuntamenti romani con il re Vittorio Emanuele III e con Papa Pio X. Dal 1901 Ravenna presiedeva la Federazione Sionistica Italiana, nata proprio a Ferrara e alla quale fu data nuova vita dopo la Prima guerra mondiale, nel 1918.
   Gli ebrei italiani che abbracciarono queste idee, sentendosi "liberi e felici" sul suolo italiano, si mobilitarono in favore di un rifugio in terra d'Israele per gli ebrei perseguitati di altri paesi. Più tardi, tuttavia, con l'ascesa del fascismo e con le leggi antiebraiche del 1938, l'idea di emigrare in Palestina per sionismo calzò anche le nuove esigenze degli ebrei italiani. Il primo a partire fu, nel 1927, il romano Enzo Sereni. Catturato dai tedeschi in Toscana nel 1943, quando tentò di paracadutarsi sulle linee nemiche in aiuto degli ebrei italiani, Sereni è considerato un eroe di Israele.
   Il convegno di domani, modulato tra ricerca storica e testimonianze, vede la partecipazione di Gabriela Padovano - Ravenna, nipote di Felice Ravenna, e di Israel Corrado De Benedetti, ebreo ferrarese che si trasferì in un Kibbuz, dopo aver sperimentato, nel novembre del 1943, l'arresto e l'incarcerazione a Ferrara.
   Ad aprire il simposio il Presidente del MEIS, Dario Disegni. Tra gli storici presenti, Manuela Consonni, Direttore del Centro Internazionale Vidal Sassoon per lo Studio dell'Antisemitismo presso l'Università Ebraica di Gerusalemme, Alberto Cavaglion, dell'Università degli Studi di Firenze, Michele Sarfatti, studioso del periodo fascista, e il Direttore del MEIS, Simonetta Della Seta.

(Ferrara Italia, 10 dicembre 2016)


Israele: stop alla burocrazia nel sistema alberghiero

Israele ha varato una riforma del sistema alberghiero che renderà più facile la gestione delle strutture, fino ad oggi appesantita da una burocrazia farraginosa: obiettivo, rendere il comparto meno caro e più competitivo.
La riforma della regolamentazione degli hotel, rende noto l'Ice di Tel Aviv, va di pari passo con gli incentivi alle compagnie aeree, soprattutto low cost, e con i voli diretti sull'aeroporto di Ovda nel sud del Paese e fa parte di una strategia complessiva di rilancio del settore turistico.
Il Paese, intanto, secondo Ice, chiude il mese di novembre con un incremento record dei flussi turistici, per un +38% che porta il totale dell'anno a oltre 2milioni 600mila arrivi, con una crescita negli undici mesi rispetto al 2015 del 2%.

(TTG Italia, 10 dicembre 2016)


Spiacenti, non può entrare in Israele. Finalmente!

di Deborah Fait

 
Isabel Phiri, esponente del Consiglio mondiale delle Chiese
La signora Isabel Phiri è arrivata sicura di entrare in Israele confidando che lo stato ebraico non avrebbe fatto tante storie con lei, rappresentante di Chiese che promuovono il boicottaggio di Israele che, in passato, lasciava passare tutti i suoi acerrimi nemici salvo poi rispedirli a casa a causa dei loro rapporti con i terroristi o filoterroristi palestinisti.
E' stata delusa e rispedita a casa sua. La tolleranza di Israele verso i propri odiatori, lasciargli proclamare il loro astio con ogni tipo di menzogna in nome di una democrazia esagerata fino all'autolesionismo, aveva dato a costoro la possibilità di fare molti danni.
E li stiamo ancora pagando.
Quando arrivavano in pellegrinaggio da Arafat i personaggi più infami tipo Oliver Stone, Josè Saramago, comunisti antisemiti e filopalestinesi fin nel profondo delle loro anime nere, pronti a dichiarare che Israele era la quintessenza del Male, i vari governi israeliani lasciavano correre, l'unica reazione era "Il mondo capirà che sono menzogne".
No, il mondo non capiva, anzi credeva a questi cialtroni. Le loro opinioni marxiste e terzomondiste aborrivano gli ebrei, i quali, anziché continuare a vagare raminghi e perseguitati per il mondo, eterne vittime, si erano radicalmente trasformati, avevano gridato "Basta" e creato uno stato nella loro antica patria confidando solo sulle proprie forze per difenderlo e svilupparlo in un verde, moderno e democratico Paese.
Oliver Stone (" Israele è nazista"), Josè Saramago ("Ramallah è Auschwitz.... Israele è nazista, fascista e razzista"...), Luisa Morgantini che faceva il pianto greco per i poveri palestinisti, i vari pacifinti internazionali che sbavavano odio, arrivavano all'aeroporto Ben Gurion e immediatamente davano
Grazie a questi sordidi personaggi e alla loro instancabile propaganda una volta tornati in patria, Israele è diventato lo Stato paria, l'Ebreo tra gli stati, da odiare perché rifiutava le loro idee di distruzione e orgogliosamente difendeva colle unghie e coi denti la propria esistenza e democrazia.
interviste velenose contro Israele, il mostro, per poi andare a Ramallah a sputare altro veleno abbarbicati a Arafat e in seguito a Abu Mazen.
Grazie a questi sordidi personaggi e alla loro instancabile propaganda una volta tornati in patria, Israele è diventato lo Stato paria, l'Ebreo tra gli stati, da odiare perché rifiutava le loro idee di distruzione e orgogliosamente difendeva colle unghie e coi denti la propria esistenza e democrazia.
Questa vera e propria "Internazionale antisemita", peggiore delle campagne nazifasciste del passato, ha organizzato Durban 1 nel 2001 e a Durban 2 nel 2009, conferenze mondiali dell'ONU. Nel 2001, per 10 giorni, la conferenza si è trasformata in una vera e propria caccia all'ebreo. Orde di fanatici arabi e occidentali venivano sguinzagliati per le strade della città per aggredire gli ebrei e gli israeliani che incontravano urlando "A morte" e giù insulti e botte fino a quando le delegazioni israeliana e statunitense non lasciarono il Sudafrica.
Il discorso di chiusura della vergogna di Durban 1 fu pronunciato da... guarda un po'... Fidel Castro che applaudiva soddisfatto quando la folla lo interrompeva per gridare "Morte agli ebrei... Palestina libera", durante il suo discorso circolavano volantini con la scritta "se avesse vinto Hitler non ci sarebbe stato nè Israele né il sangue palestinese". Questa è stata la conferenza internazionale dell'ONU sulla "Pace e contro il razzismo"... antisemitismo escluso.
Perché ho parlato di Durban? Quell'odio profondo che il 21o secolo ha ereditato da quello precedente e da tutti i secoli passati, dopo quella conferenza ideata e sponsorizzata dalle Nazioni Unite, si è concretizzato, grazie ai poteri di internet, in una violenza organizzata su scala internazionale dando vita a un'infinità di nuove ONG finanziate dagli arabi e dall'Europa, come il WCC (World Council of Churches) e il BDS.
Non più improvvisate e caciarose manifestazioni di violenza di gruppi nazicomunisti, di centri sociali pieni di falliti e nullafacenti ma vere e proprie organizzazioni a delinquere che si fregiavano impudentemente della parola "pace" per diffondere a piene mani bugie e diffamazioni contro Israele e seminare odio, trasformando l'ossessione antisemita in ordinate operazioni di boicottaggio planetario promosse addirittura dai governi.
Stavolta a Isabel Phiri, assistente del segretario generale del Consiglio delle Chiese, e attivista affiliata al BDS, è andata male e si è vista respingere il visto turistico e rimandare a casa! E' la prima volta nella storia che Israele nega l'entrata nel paese a un nemico dichiarato, lo aveva fatto solamente nel 2008 con Norman Finkelstein che, per i suoi rapporti con Hezbollah e le sue dichiarazioni contro "gli assassini israeliani", è stato dichiarato persona non grata per motivi di sicurezza nazionale.
Alla notiza dell'espulsione di Isabel Phiri per attività antiisraeliane, mi sono spellata le mani a forza di applaudire il ministro della pubblica sicurezza, Gilad Erdan e il ministro degli interni Arieh Deri per aver deciso di rispedire la donna da dove era venuta. Finalmente, ho gridato, finalmente Israele si sveglia. La
Il mondo ci odia per tradizione, senza motivo, senza nessuna ragion d'essere, ci odia e basta, di generazione in generazione, così sarà fino alla fine dei secoli e la grande migrazione islamica in occidente significa nuovo odio da aggiungere a quello antico europeo.
mia rabbia era grande quando sentivo i miei connazionali israeliani dire, increduli e ingenui, "Antisemitismo? Ma noooo.".
Finalmente hanno capito che il mondo ci odia per tradizione, senza motivo, senza nessuna ragion d'essere, ci odia e basta, di generazione in generazione, così sarà fino alla fine dei secoli e la grande migrazione islamica in occidente significa nuovo odio da aggiungere a quello antico europeo.
L'organizzazione di Isabel Phiri rappresenta ben 340 chiese in 110 stati che vanno dall'Africa all'Asia, alle Americhe nord e sud e, naturalmente, all'Europa sempre tra i primi posti quando si tratta di boicottare lo stato ebraico.
"Questa è la prima volta, ha dichiarato il ministro Erdan, che lo stato di Israele rifiuta il visto a un turista che ha dichiarato il chiaro intento di promuovere il boicottaggio economico, culturale e accademico contro Israele.... Userò tutta l' autorità a mia disposizione per prevenire che si metta in pericolo Israele."
Ma non basta, il Jerusalem Post dà un'altra bella notizia! Sia Gilad Erdan che il ministro delle finanze Moshe Kahlon sono intenzionati a combattere il boicottaggio del mondo facendo passare una nuova proposta di legge che imporrà sanzioni a ogni società e azienda affiliata o simpatizzante del BDS o che abbia al suo interno persone che esprimano il loro appoggio o simpatia all'agenda (ne hanno una sola, quotidiana, che promuove l'odio contro Israele) della famigerata ONG.
Della serie "chi la fa l'aspetti" dunque e finalmente Israele ha deciso di comportarsi come ogni paese del mondo avrebbe fatto da molto tempo, boicottare i boicottatori e dichiarare persona non grata chiunque si presenti come un pericolo per lo Stato ebraico.
Per chi non lo sapesse il BDS ha nel suo ordine del giorno, fisso, il boicottaggio economico, il boicottaggio accademico, il boicottaggio culturale, l'embargo militare, il boicottaggio a HP (Hewlett-Packard gigante multinazionale USA che collabora con Israele).
E' appena partita la campagna #IONONCOMPROHP) e il diritto inalienabile al boicottaggio di Israele. Questa è la sola e unica politica del movimento BDS: colpire Israele con ogni mezzo disponibile.
Ben venga dunque la decisione di Israele di invitare la signora rappresentante delle chiese boicottatrici a lasciare il suolo ebraico prima di imbrattarlo con questo genere di ossessione. "Non pensavo che mi avrebbero respinta" ha dichiarato. E invece sì e spero tanto che questa svolta del governo continui e faccia fare dietro front a tutti i nemici, a tutti gli odiatori, a tutti quelli che vogliono boicottare la democrazia israeliana in nome della risorta ideologia nazista e di una Palestina araba inventata e mai esistita nella storia. E, sempre a proposito di questa inesistente, fantomatica Palestina, a Trieste il comitato Dolci, ex assessore comunista, è andato, con altri quattro gatti, a esprimere solidarietà in occasione della" giornata internazionale di solidarietà con la Palestina" sotto la targa che, in Piazza Unità d'Italia, ricorda le vittime della Shoah. Fortunatamente una delegazione della comunità ebraica ha impedito questa ennesima          offesa alla Memoria. Nessun popolo veramente sofferente ha avuto mai tanta solidarietà, il mondo se ne frega sempre di ogni tragedia, basta vedere l'indifferenza che regna sovrana per quello che oggi accade in Siria. Ci voleva un popolo inventato da contrapporre agli ebrei per svegliare la gente e portarla in piazza a urlare ancora e ancora e ancora "Ebrei a morte".
Il nazismo non è mai morto. Lo speravamo ma è qui, sempre presente e vitale, in attesa.....

(Inviato dall'autrice, 10 dicembre 2016)


Nelle Lettere di Yonatan Netanyahu la storia dell'eroe di Entebbe

La storia è quella di Yonatan Netanyahu, l'eroe di Entebbe. Una storia che oggi pomeriggio verra ricordata e raccontata alle ore 18.30 preso la sinagoga Maggiore di Milano in via Guastalla dove avrà luogo la presentazione del volume «Lettere» di Yonatan Netanyahu. L'eroe di Entebbe, così venne chiamato, guidò nel 1976 un'operazione magistrale: riuscì a liberare un centinaio di ostaggi israeliani da un aereo dirottato da terroristi tedeschi e palestinesi. Ci fu un unico caduto, lui. Questo libro racconta attraverso le sue lettere il percorso umano di un giovane idealista che da un Paese pacifico come gli Stati Uniti sceglie di andare in Israele. Suo fratello Benjamin oggi è primo ministro di Israele. Recentemente edito dal prestigioso editore maceratese Liberilibri il volume «Lettere» sarà presentato oggi in Sinagoga. Interverranno Iddo Netanyahu, il fratello di Yonatan e Benyamin, Antonia Arslan, scrittrice e autrice de «la masseria delle Allodole», Ray Alfonso Arbib, il rabbino capo di Milano e Michele Silenzi che è il curatore del volume. L'evento che è patrocinato dall'Assessorato alla Cultura della Comunità Ebraica di Milano e da «Amici di Israele» sarà moderato da Nicola Porro.

(il Giornale - Milano, 10 dicembre 2016)


Ecco il parco giochi iraniano dove i bimbi imparano l'odio

Nella «città dei piccoli rivoluzionari» si spara a simboli Usa e israeliani con i kalashnikov. Nel nome di Allah

di Fausto Biloslavo

 
Mussolini si era inventato i balilla in camicetta nera, moschetti da bambini e le prove di coraggio in nome dell'impero. Dopo la caduta del fascismo il massimo dell'ardimento era iscriversi agli scout. E nei vecchi luna park si spara con fucili ad aria compressa per vincere un' orsacchiotto. Ben più violenti i video giochi di guerra o di ammazzamenti vari come Assasin 's creed, ma nessun comune si sognerebbe mai di inaugurare un parco giochi dedicato ai più piccoli in stile balilla con Corano e moschetto.
   A Mashad, in Iran, è già la seconda volta che viene organizzata «la città dei giochi per i bambini rivoluzionari». I ragazzini dagli 8 ai 13 anni sono tutti invitati con ingresso libero per divertirsi ad «attaccare» i nemici della Repubblica islamica come Israele, gli Stati Uniti, ma pure l'Isis. Il particolare «luna park» fa indossare ai piccoli ospiti uniformi mimetiche della loro taglia, elmetti da vero soldatino ed imbracciare l'immancabile kalashnikov, per fortuna di plastica. Però, molto simile al vero fucile mitragliatore Ak 47, a tal punto che i balilla islamici possono sparare per gioco proiettili finti. Il tutto in un ambiente da prima linea con torri di guardia, sacchetti di sabbia per le trincee, crepitare, vero, delle mitragliatrici, attraverso degli altoparlanti e ordini via radio.
   Hamid Sadeghi è l'inventore dell'incredibile parco «giochi», che ha aperto i battenti in estate e poi a settembre per alcune settimane. «Stiamo cercando di trasmettere ai bambini la lotta e la Santa difesa nel contesto delle situazioni globali attraverso giochi, divertimenti e attività di gruppo» ha spiegato candidamente Sadeghi in un'intervista.
   La Santa difesa è la lunga guerra con l'Iraq costata 1 milione di morti negli anni Ottanta. I balilla iraniani strisciano sotto i reticolati o si fanno fotografare in trincea, al posto della banale giostra o delle montagne russe di casa nostra. Il parco «giochi» è diviso in 12 tappe dove i bambini possono sparare missili, colpi di artiglieria o proiettili rigorosamente di plastica a diversi obiettivi come l'immagine del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. «All'ingresso gli ospiti vengono divisi in squadre di 8 o 10 e nominato un loro comandante» spiegano gli accompagnatori. Nel settore dedicato alla rivoluzione islamica i piccoli combattenti per gioco vengono istruiti sulle direttive dell'imam Khomeini e del suo successore Alì Khamenei, la guida non solo spirituale del Paese. «I bambini simulano il combattimento e possono sparare contro bandiere americane e israeliane» spiega Sadeghi, l'ideatore. L'intero percorso da balilla iraniano dura dai 30 ai 45 minuti. I ragazzini possono anche giocare alla composizione delle parole con i proiettili che hanno inciso le lettere dell'alfabeto. In un settore è riprodotta la moschea di Zaynab, a Damasco, dove è sepolta la nipote del profeta Maometto. Nella realtà i luoghi santi sciiti come questo vengono difesi armi in pugno dagli Hezbollah giunti dal Libano. Nel parco "giochi" di Mashad i bambini possono «combattere» contro il Califfato, nemico giurato dell'Iran. Le bandiere nere degli estremisti sunniti sono messe sullo stesso piano della monarchia saudita. Ed indicati come bersagli ai giovani balilla.
   All'ultima tappa i bambini, in tenuta da combattimento, vengono bendati e devono lanciare ad occhi chiusi una palla contro un puzzle, che raffigura una bandiera israeliana facendola a pezzi. E poi assemblare un nuovo mosaico creando il vessillo iraniano.

(il Giornale, 10 dicembre 2016)


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E noi dobbiamo fidarci di chi ci vuole morti?

di Fiamma Nirenstein

Non si tratta di fare moralismi, di piangere sui poveri bambini iraniani, ma di capire per tempo cosa si può preparare per noi. E dai tempi della guerra Iran-Iraq negli anni '80 che inorridivamo sapendo che gli legavano al collo una chiave di plastica, quella del Paradiso, dandogli il viatico per camminare sui campi minati su cui sarebbero poi passati i soldati. Con che cosa abbiamo a che fare quando sentiamo parlare da parte della agenzia di notizie Raja News, quella della Guardia Rivoluzionaria che è il più terribile lupo da guardia della rivoluzione islamica, tutta fiera, dell'apertura della «città dei giuochi per bambini rivoluzionari». Possono i bambini essere rivoluzionari? Eccome, e possono fare grandi danni oggi e domani quando cresceranno. Nei campi di morte di Pol Pot impararono a ammazzare i loro genitori. A Gaza imparano a usare le anni quando ancora non hanno raggiunto i dieci anni, e poi li ritroviamo carichi di tritolo pronti a farsi saltare per aria per ammazzare gl israeliani in nome di Allah. I bambini dell'Isis crescono con lauree su come sparare in testa agli infedeli o a cercare di usare le loro piccole forze per staccargliela dal busto, un'arte che viene coltivata in Iraq e in Siiia.
   Ma il caso dell' Iran è molto fastidioso perchè ornai sono una paio d'anni che le trattative e poi l'accordo dell'estate scorsa ci hanno costretto a ignorare le sue mostruosità per mettere in primo piano i sorrisi di Mohammad Javad Zarif, il gentile ministro degli esteri. Adesso fra violenze e violazioni di diritti umani, ecco i bambini condotti per dodici stazioni in un «parco giochi» a combattere i nemici della rivoluzione e soprattutto allenati nell'odio antisraeliano e del nemico sunnita, e dove possono felici sparare proiettili di plastica in faccia a Netanyahu e a membri della famiglia reale saudita. I bambini, spiegano, compiono queste e altre attività per realizzare il magnifico compito della loro nazione, la guida del mondo, di schiacciare gli infedeli, di imporre la vera religione e consentire la venuta del Mahdi, il messia sciita. Uno scopo supremo, per cui si può distruggere, uccidere, creare una guerra di distruzione. E una fabbrica di terrorismo programmatica, che si accompagna a violazioni accertate degli accordi sul nucleare, all'incremento di sperimentazioni di missili balistici, all'uso dell'esercito in Siria, in Iraq, in Yemen, in LIbano... Questo è l'Iran, parco di divertimento religioso-militare in cui, armati fino ai denti, piccoli uomini crescono.

(il Giornale, 10 dicembre 2016)


La tragedia degli ebrei «prigionieri» dell'Urss

di Matteo Sacchi

Quando si pensa allo sterminio degli ebrei il pensiero corre immediatamente al nazismo. Ed è un percorso mentale ovvio vista la viscerale carica di odio antisemita del regime di Hitler e i milioni di morti provocati dal sistema di sterminio dei lager. Ma anche la condizione degli ebrei in Russia prima e in Urss poi è stata a lungo caratterizzata da persecuzioni e discriminazioni. Un clima di cui da molto ben conto il saggio di Riccardo Calimani, Passione e tragedia. La storia degli ebrei russi, che da oggi sarà in edicola con il Giornale al prezzo di 11,90 euro più il prezzo del quotidiano all'interno della collana Storia del comunismo.
Calirnani parte nella sua analisi dalla ambigua situazione degli ebrei durante il regime zarista in cui momenti di relativa calma si alternavano a violenti pogrom o accuse di omicidi rituali destituite di ogni fondamento. Questo equilibrio già fragile andò sgretolandosi agli albori del XX secolo, quando la popolazione degli ebrei nei domini degli Zar raggiunse i 5 milioni di individui. I pogrom si moltiplicarono, il periodo più caldo delle violenze fu proprio tra il 1881 e il 1921. In questo clima l'Okhrana (la polizia segreta zarista) fece circolare il falso documento che più ha provocato odio verso il popolo ebraico: I Protocolli dei Savi di Sion. Gli ebrei russi pur in questa complessa situazione portarono avanti anche progetti politici come il Bund,    L'Unione generale dei lavoratori di Lituania, Polonia e Russia. Una forza socialdemocratica che provò a mantenersi in contatto sia con i menscevichi che con i bolscevichi per portare avanti una modernizzazione del Paese. Fu una inutile utopia. Un terzo degli ebrei russi fuggi negli Usa. Gli altri furono vittime dello stalìnìsmo e poi dell'invasione tedesca. Chi riuscì a sopravvivere dovette assimilarsi, farsi sovietizzare. Ma nemmeno questa era una garanzia di vita facile. Gli intellettuali di origine ebraica continuarono a lungo a pagare le loro origini anche dopo la morte di Stalin.

(il Giornale, 10 dicembre 2016)


Da Israele arriva DarioLite, una tecnologia per la gestione del diabete

 
Ogni 19 secondi, a qualcuno viene diagnosticato il diabete. E ogni 19 secondi, qualcuno compra uno smartphone. La startup israeliana DarioHealth ha deciso di mettere insieme questi due concetti e di creare un dispositivo per le persone affette da diabete.
Dario è un monitor digitale del glucosio combinato con una applicazione smartphone gratuita, che consente agli utenti di impostare un profilo personalizzato del diabete, registrare le misurazioni del glucosio nel sangue in tempo reale, registrare l'assunzione di insulina, ricevere avvisi in caso di risultati anomali e confrontare e condividere i dati.
Il gadget tascabile, progettato da Tiko Product Design Studio di Tel Aviv, propone dei componenti, tra cui le strisce reattive, un dispositivo e misuratore di glucosio (pungidito), che si inserisce nel jack per le cuffie dello smartphone.
Quando si lancia l'applicazione Dario, viene richiesto di inserire una striscia reattiva nello strumento. La lettura appare immediatamente, senza ritardi, come potrebbe accadere con un Bluetooth o un monitor di glucosio abilitato al 3G.
Secondo alcune recensioni, si tratta di un ottimo strumento, soprattutto per le persone che vogliono avere tutte le informazioni a portata di mano da fornire al proprio medico e soprattutto sembra che questo strumento richieda la minor quantità di sangue attualmente possibile.

 Disponibile in sei lingue
  Con sede a Boston e a Cesarea, DarioHealth ha ricevuto l'approvazione per l' Europa, Australia, Canada e Stati Uniti.
Dopo aver ricevuto l'approvazione della FDA per iOS, il dispositivo lanciato negli Stati Uniti lo scorso marzo ha venduto circa 10.000 unità. L'approvazione della FDA per l'applicazione Dario Android è prevista nei primi mesi del 2017, afferma il CEO e Presidente Erez Raphael.
Il prodotto è multilingue e l'applicazione può impostare la lingua inglese, francese, spagnola, olandese, russa o ebraica.
"Questo soluzione per la gestione del diabete è stata progettata per le persone con diabete, e il feedback da parte degli utenti medi è quindi molto positivo", dice Raphael a ISRAEL21c, il cui padre aveva il diabete di tipo 2.
Fondata nel 2011, DarioHealth ha cercato di fondere il fattore di coinvolgimento dei dispositivi indossabili con la robustezza dei dispositivi medici convenzionali. Il dispositivo non è indossato ma viene trasportato in una tasca o sacchetto insieme allo smartphone dell'utente.

(SiliconWadi, 9 dicembre 2016)


ABM Italia agli israeliani di Kette

Valutata 400 milioni di euro, la società trevigiana è uno dei principali fornitori di articoli in plastica del gruppo Ikea.

Keter Plastic, produttore israeliano di casalinghi e articoli da giardino in plastica, ha rilevato dal fondo di investimenti Clessidra Sgr l'80% di ABM Italia, società trevigiana specializzata in arredi e contenitori in materiale plastico per la casa e l'ufficio, valutata nell'ambito dell'operazione 400 milioni di euro, ovvero un multiplo di 8-9 volte l'Ebitda.
Non sono stati forniti i dettagli dell'operazione, che potrebbe essere perfezionata entro la prima metà del 2017, dopo aver ricevuto l'autorizzazione delle autorità competenti.
ABM Italia (già Arredo Plast), sul mercato con il marchio KIS, è uno dei principali produttori europei di articoli stampati ad iniezione per l'organizzazione dello spazio (armadi, scaffali, contenitori), destinati ai canali fai-da-te, GDO e altre catene specializzate. La società è il principale fornitore di prodotti in plastica per il gruppo Ikea.
ABM Italia opera anche nel settore medicale con il marchio AP Medical producendo contenitori in plastica per aghi, siringhe e rifiuti ospedalieri speciali. Nel complesso, il gruppo trevigiano occupa circa 700 addetti in quattro siti produttivi tra l'Italia e il Canada.
Keter Plastic fa parte del gruppo Keter, dall'anno scorso controllato dalla società di private equity Partners e dal fondo pensionistico canadese PSP Investments. Il gruppo israeliano dispone di 18 stabilimenti e due poli logistici in nove paesi.

(Polimerica, 9 dicembre 2016)


Convegno alla Fondazione Levi sull'ebraismo italiano

di Lino Perini

Nell'ambito delle celebrazioni del cinquecentesimo anniversario dell'istituzione del ghetto di Venezia (2016) la Fondazione Levi propone un convegno internazionale dedicato alla nuova musica delle sinagoghe: dalla metà dell'Ottocento alla seconda guerra mondiale, le comunità ebraiche italiane ridefiniscono la propria identità anche attraverso il rinnovamento della loro musica liturgica, che ne rappresenta l'espressione pubblica. Mutuano generi, forme e stili esecutivi in uso nelle chiese cristiane: l'organo per l'accompagnamento di canti; brani strumentali; cori (anche femminili) e persino arie d'opera con testo sostituito. Si è così formato un repertorio musicale 'colto' coinvolgente ampi strati di popolazione anche al di fuori degli ambiti e dei luoghi della liturgia.
Nel convegno si esamineranno per la prima volta musiche inedite e documenti d'archivio (partiture e spartiti manoscritti, contratti con strumentisti, maestri di coro, compositori, spesso non ebrei). La sera del 13 dicembre alle ore 20.30, presso il Conservatorio "Benedetto Marcello", la manifestazione sarà chiusa da un concerto con esempi significativi di questo repertorio modellato sullo stile italiano, un fenomeno unico nella musica liturgica ebraica europea e insieme espressione di modernità considerata per certi aspetti fonte di ispirazione per i paesi nordici.

(Il Sestante, 9 dicembre 2016)


Israele, un mercato vivace e proteso verso il futuro

"Rispetto al consumatore italiano, o a quello europeo più in generale, l'israeliano è considerato più aperto e meno fedele a marchi tradizionali", questo è solo uno dei tanti temi trattati nell'intervista rilasciataci da Massimiliano Guido, Responsabile Ufficio ICE-Agenzia di Tel Aviv, il quale ha tenuto a sottolineare che "la condivisione di valori comuni e la vicinanza geografica tra Italia e Israele, sono senza ombra di dubbio, fattori di estrema importanza che hanno contribuito alla creazione della piattaforma sulla quale operano gli imprenditori dei due Paesi".

- Come sono cambiate nel tempo le relazioni economiche bilaterali fra Italia e Israele?
 
  Le relazioni economiche bilaterali fra Italia e Israele sono cambiate, e in meglio. Sino agli inizi degli anni '90, il mercato israeliano era considerato poco significativo per le aziende italiane a causa di fattori quali le dimensioni, i vincoli di natura geo-politica e una scarsa competitività rispetto ai mercati occidentali. Tuttavia, due importanti fenomeni hanno contribuito ad un profondo cambiamento di questa situazione: l'intenso sviluppo dell'industria ad alto contenuto tecnologico (divenuta ormai la forza trainante dell'economia locale con grandi investimenti diretti esteri) e le profonde riforme strutturali volte a liberalizzare il mercato. L'immagine di Israele come un Paese agricolo fondato sul socialismo dei kibbutz è stata quindi sostituita da quella di una nuova Silicon Valley, che vanta un elevatissimo numero di imprese in fase di start-up, sostenute da un flusso crescente di investimenti diretti esteri. Una Silicon Wadi, come è chiamata comunemente (wadi significa valle) che in questi anni è riuscita a consolidare un importante rapporto di collaborazione con l'Italia, grazie all'Accordo intergovernativo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica, entrato in vigore nel 2002 e le continue azioni promosse dalla nostra Ambasciata e dal nostro Uffficio. Negli ambienti imprenditoriali italiani è cresciuta, quindi, la consapevolezza del rilievo assunto dall'high-tech israeliano e delle opportunità che offre, mentre l'Italia è vista come un valido partner nella fase di industrializzazione dei prodotti e delle tecnologie, grazie a diversificazione, flessibilità ed estensione del nostro sistema industriale.

- Qual è la percezione dell'Italia e del Made in Italy in Israele?
  I prodotti italiani godono di una penetrazione consolidata sul mercato israeliano, grazie all'immagine molto positiva del Made in Italy in termini di qualità, prestigio, design e tecnologia. Inoltre l'Italia, grazie alla vicinanza geografica e culturale, rappresenta per Israele la porta ideale d'accesso verso il mercato UE. Vanno anche ricordate le comuni caratteristiche di propensione all'innovazione e alla flessibilità che derivano dalla forte incidenza di piccole e medie imprese in entrambi i sistemi economici.

- Quali sono le categorie merceologiche dei prodotti Made in Italy più apprezzate dalla popolazione locale?
  Quando si parla di categorie merceologiche di prodotti Made in Italy particolarmente apprezzati dai consumatori israeliani, si dovrebbe fare una distinzione tra i prodotti collegati al modo di vivere italiano, composto dalle famose tre "F" del Made in Italy (food, fashion, furniture) ed i prodotti che compongono effettivamente le voci di maggior rilievo delle nostre esportazioni verso Israele. Nel tessile-abbigliamento e accessori, così come nell'arredamento e nell'agro-alimentare, sono presenti, infatti, i principali marchi d'eccellenza del nostro Paese, ma questi non rappresentano le più consistenti voci del nostro export verso Israele. L'analisi statistica, rivela, infatti, che i tre settori di punta del nostro export nel 2015, rimangono sempre le macchine e gli apparecchi meccanici, con un totale esportato, secondo le stime dell'Ufficio Centrale di Statistica israeliano, di 673 milioni di dollari, i prodotti chimici ($ 266 mln), veicoli ed attrezzature ad essi associate ($ 243 mln), su un totale complessivo export di 2.5 miliardi di dollari.

- Quali sono le tre ragioni principali che dovrebbero spingere un imprenditore italiano a scegliere Israele per fare affari?
  Esistono diversi motivi per i quali gli imprenditori italiani dovrebbero considerare Israele come mercato ideale per la promozione del loro business, ma se dovessimo sceglierne tre, dovremmo citare la vicinanza geografica e culturale, l'attitudine all'innovazione e la robustezza del sistema economico. La condivisione di valori comuni e la vicinanza geografica tra Italia e Israele, sono senza ombra di dubbio, fattori di estrema importanza che hanno contribuito alla creazione della piattaforma sulla quale operano gli imprenditori dei due Paesi. Le comuni caratteristiche di dinamicità, flessibilità ed innovazione esistenti nelle due culture, determinano nella stragrande maggioranza dei casi, un rapporto d'intesa, nel quale entrambi le parti si trovano a loro agio nel fare affari insieme. Anche la spinta verso l'innovazione è un fattore che lega i due Paesi e fa sì che Israele rappresenti un partner di grande interesse per le nostre imprese. Israele, infatti, si contraddistingue come uno dei Paesi più avanzati al mondo per quanto riguarda le attività di R&S in diversi settori, con nuove tecnologie applicate sia nei settori dell'high-tech che a quelli tradizionali. Israele è quindi considerato un Paese leader a livello mondiale per lo sviluppo di nuove tecnologie e le strategie del governo locale, collocano questo Paese al primo posto tra quelli che investono di più in ricerca e sviluppo, superando Paesi come Svezia, Finlandia e Giappone, con incentivi alla ricerca e sviluppo che raggiungono circa il 5% sul totale del PIL. L'eco-sistema, ormai consolidato, in cui operano le startup locali, facilita, poi, le possibiltà di fund raising da parte di venture capital locali ed esteri, attraendo investimenti diretti che comprendono attività di M&A.
  Per quanto riguarda i rapporti Italia-Israele nella ricerca e nello sviluppo industriale, scientifico e tecnologico, i due Paesi sono legati da un accordo di cooperazione intergovernativo, entrato in vigore nel 2002 e sempre rifinanziato fino a quest'anno. Nell'ambito di questo accordo, il cui scopo principale è il finanziamento da parte dei governi israeliano e italiano di progetti di ricerca congiunta, vengono anche organizzate ogni anno numerose iniziative quali conferenze, seminari e workshop su varie tematiche di interesse reciproco. A questi eventi partecipano docenti universitari, ricercatori, rappresentanti di imprese e di istituzioni pubbliche e private, che contribuiscono di fatto alla creazione di nuove collaborazioni con rispettivi partner israeliani. Il bando industriale scientifico Italia-Israele del 2017 la cui scadenza sarà il 16.1.2017 ne è una testimonianza.Il terzo motivo per il quale si ritiene che questo mercato sia di particolare interesse per le nostre aziende, risiede nella solidità e nella dinamicità del sistema economico. Se si considera il 2015, infatti, l'economia israeliana ha registrato una crescita del PIL pari al 2,5% (dato superiore alla media dei Paesi OCSE), con flussi IDE in aumento, così come le acquisizioni e gli investimenti in start-up locali. In discesa, invece, il tasso di disoccupazione (5,3%), un deficit pubblico del 2% ed un debito pubblico che si è ridotto nell'ultimo anno fino al 64,9% del PIL. Il tasso di inflazione (-1%), invece, non è dovuto a debolezze interne ma al calo dei prezzi mondiali delle materie prime. A confermare la stabilità dell'economia israeliana, sono le principali società di credit rating internazionali: basti menzionare che a novembre 2016 l'agenzia di rating Fitch ha innalzato il rating di Israele ad da A a A+ con un outlook stabile per futuro, allineandosi cosi alle previsioni di Moody's e Standard&Poor's.

- Esistono difficoltà di rilievo per chi vuole fare business nel Paese?
  Considerate le ridotte dimensioni del mercato interno e la situazione geopolitica, il commercio internazionale gioca un ruolo fondamentale nell'economia del Paese, la cui crescita è fortemente dipendente dalla performance dell'export e dai flussi di beni e servizi in entrata. La diffusione dei prodotti di importazione dall'Unione Europea non incontra qui particolari difficoltà: per quanto riguarda i prodotti alimentari, va considerata l'applicazione delle regole dettate dalla kasherut: molte imprese europee, tra cui le italiane, presenti su questo mercato, hanno tuttavia ottenuto il certificato rabbinico per prodotti identici a quelli venduti nei rispettivi Paesi di provenienza. Va detto, comunque, che i prodotti non kosher sono in genere liberamente importabili. I prodotti kosher sono distribuiti nelle principali catene di supermercati e negli alberghi e ristoranti annessi, anche se negli anni, sono state inaugurate anche catene di distribuzione di prodotti alimentari non-kosher. Nel corso del 2009, inoltre, Israele ed UE hanno raggiunto una nuova intesa commerciale, in vigore dal 2010, che prevede l'abolizione delle tariffe e delle quote su circa 95% dei prodotti alimentari scambiati. In prospettiva, l'accordo è servito a riequilibrare il traffico commerciale nel settore agroalimentare, squilibrato a vantaggio dell'UE, consentendo a diverse aziende di questo Paese di arrivare a competere efficientemente sul mercato europeo attraverso l'abolizione del dazio del 40%. Viceversa, si riscontrano per alcuni prodotti importati di genere alimentare, come formaggi e carne, problematiche di quote e dazi imposti dal governo, legati a regolamentazioni sanitarie e ad una volontà di tutela dell'industria locale, anche se negli ultimi anni Israele sta compiendo consistenti passi in avanti sul versante dell'apertura ai mercati e dell'eliminazione, o a quanto meno, della riduzione di queste barriere al commercio. Un'altra particolarità che emerge, (in particolare nel settore dei materiali elettrici), è legata ad ostacoli tecnici all'importazione di prodotti, attraverso l'imposizione di standard equivalenti ai criteri internazionali. In alcuni casi, per società estere che intendono inserire i loro prodotti sul mercato israeliano, emerge che, oltre agli standard europei, l'Istituto israeliano richieda che i prodotti esteri siano conformi anche ad uno standard locale, che spesso risulta essere più severo è complesso rispetto a quello Europeo con costi maggiori per le imprese italiane.

- Quali sono le previsioni di crescita del Paese nel prossimo triennio?
  Un'indagine sulle previsioni di crescita del Paese per prossimi anni di fonte Banca Centrale e Ministero delle Finanze israeliano, mostra come la lenta ripresa delle economie sviluppate e l'assenza di una crisi significativa nei mercati dei capitali, dovrebbero favorire la crescita delle esportazioni di Israele, anche se con tassi leggermente inferiori rispetto al reale potenziale di crescita del 3% nel biennio 2017-2018. Anche il PIL dovrebbe registrare dati di crescita leggermente inferiori al 3% nel biennio 2017-2018, (2,7% nel 2017 e 2,8% nel 2018), dati, comunque superiori alla media OCSE. Come negli anni passati, anche nel periodo di previsione considerato, la crescita sarà guidata principalmente dall'aumento nei consumi privati, accanto ad una graduale ripresa degli investimenti. Anche i più generali scenari internazionali influenzeranno l'andamento dell'economia del Paese.

- Come descriverebbe la cultura imprenditoriale israeliana?
  La cultura imprenditoriale in Israele è molto dinamica e vivace, ed è caratterizzata da un forte spirito di iniziativa che si riscontra in quasi tutti i settori. Questo è dovuto, in gran parte alla relativa chiusura geografica e alle piccole dimensioni del Paese, due fattori che limitano il raggio d'azione degli imprenditori locali e li spingono ad assumere un atteggiamento proattivo che rende fluida e diretta la relazione di business. Un'altra caratteristica importante della cultura d'impresa locale, soprattutto nei settori dell'alta tecnologia, risiede nel fatto che il fallimento viene percepito quasi sempre come fenomeno positivo dal quale si può imparare e migliorare nel futuro. Tentare nuovamente con un nuovo approccio dove non si ha riscosso successo, viene visto, infatti, come parte del processo di studio e spinge a "non mollare" fino a che il successo viene raggiunto. Il dare legittimità al fallimento, differenzia la cultura d'impresa degli israeliani da altre culture dove un risultato negativo viene spesso associato ad una sostanziale inadeguatezza.

- Secondo la sua esperienza, quali sono le differenze più evidenti fra consumatori israeliani e consumatori italiani?
  L'esperienza del nostro Ufficio sul comportamento dei consumatori israeliani, insegna come essi siano alla ricerca di prodotti nuovi e funzionali, ma non a qualsiasi prezzo, fattore, quest'ultimo, capace di incidere in maniera significativa sulla scelta finale. La maggior parte dei consumatori locali nell'ambito dei beni di consumo preferisce, inoltre, che i nuovi prodotti siano proposti da marchi conosciuti, poichè questo contribuisce ad un senso di sicurezza e familiarità nell'atto di acquisto. Tuttavia, rispetto al consumatore italiano, o a quello europeo più in generale, l'israeliano è considerato più aperto e meno fedele a marchi tradizionali.
  Per quanto riguarda, invece, la raccolta di informazioni prima dell'acquisto, le dimensioni del mercato e la sensazione che "in Israele, tutti si conoscano", contribuiscono a che la maggior parte dei consumatori locali si affidino di più al passaparola rispetto ai consumatori di altri Paesi, oltre, naturalmente, alla consultazione di social media e alla pubblicità sui diversi canali, come accade in tutto il resto del mondo. Per quanto riguarda i beni strumentali, l'utilizzatore israeliano, si documenta e partecipa ogni anno a numerose fiere internazionali in Italia e all'estero. In questa attività l'Ufficio ICE-Agenzia di Tel Aviv ha organizzato, solo nel 2016, 26 missioni di operatori israeliani a fiere italiane e ha svolto attività di consulenza e accompagnamento per quanti hanno deciso di cogliere le opportunità di questo mercato.

(Exportiamo.it, 9 dicembre 2016)


La giustizia secondo Israele

A Gerusalemme la Corte suprema è chiamata a sancire il delicato equilibrio tra sicurezza e diritti. Ed è il simbolo del lungo lavoro di cui ha bisogno l'occidente.

di Giulio Napolitano*

Le questioni giuridi- che in Israele hanno una speciale intensi- tà. A dirimerle è spesso chiamata la Corte suprema Daphne Barak,Erez, fino a qualche anno fa prof. di Diritto pubblico, è stata il più giovane giudice nominato alla Corte Talò: "L'Italia potrebbe trarre notevole vantaggio dallo sviluppo di una startup region nel Mediterraneo" Per il manager Chemi Peres che c'è ancora "the big elephant in the room". Lo stallo del negoziato con i palestinesi è totale

 
Il Palazzo della Corte Suprema a Gerusalemme
Può diventare rabbino capo dell'esercito chi, richiamandosi all'interpretazione della Torah, aveva in passato rilasciato dichiarazioni ambigue sull'ammissibilità della violenza sessuale da parte dei soldati in tempo di guerra? E può la Corte suprema sospenderne la nomina alla vigilia della cerimonia di insediamento e convocare l'interessato per rendere chiarimenti? Può la Knesset approvare una legge che legalizza gli insediamenti non autorizzati su terreni di proprietà privata di palestinesi, aggirando così l'ordine di demolizione sancito dalla Corte suprema e sfidando le censure della comunità internazionale?
  In Israele, molte delle questioni che animano il dibattito pubblico e l'agenda politica assumono una rilevanza giuridica del tutto straordinaria e peculiare. Capita così facilmente che l'attualità irrompa nelle discussioni con gli studenti del corso di Comparative administrative law che ho tenuto alla Radzyner Law School dell'Interdisciplinary Center di Herzliya, la più importante università privata in Israele, molto attiva anche sul fronte della internazionalizzazione. Gli studenti, in realtà, non sono abituati a parlare e intervenire in aula. La lezione è ancora quella "frontale", basata sull'esposizione della materia da parte del docente. Il metodo di insegnamento, anche nelle classi in lingua inglese, è dunque lontano da quello americano, incentrato sulla discussione critica di casi giurisprudenziali, al quale mi ero ispirato per preparare il corso. Eppure, mano a mano, i ragazzi prendono coraggio e si appassionano, portandosi dietro anche il ricco bagaglio di esperienze personali (quasi tutti hanno già servito per diversi anni nell'esercito). Non a caso, nelle pause delle lezioni, quando cominciano a conversare con i dottorandi di ricerca venuti con me dall'Università di Roma Tre e dalla Scuola Sant'Anna di Pisa, si stupiscono della loro giovane età.
  Quando entriamo nel vivo del programma, gli studenti si interessano subito ai primi casi giurisprudenziali tedeschi e francesi sui rifugiati e sui campi profughi che ho selezionato. Sanno bene quanto sia delicato l'equilibrio tra esigenze di controllo dei flussi anche a tutela della sicurezza (una barriera protegge Israele dal confine con il Sinai egiziano), istanze umanitarie e politiche di immigrazione (lo Stato di Israele, d'altra parte, nacque anche grazie all'aggiramento delle quote d'ingresso fissate dal protettorato britannico sulla Palestina). Analizzano le diverse forme di esercizio dei poteri pubblici che emergono da alcune recenti sentenze della Corte europea di giustizia e della Corte suprema americana. Il dibattito si concentra soprattutto sulle ipotesi in cui funzioni pubbliche sono trasferite a soggetti ibridi, pubblico-privati, o a imprese operanti a scopo di lucro. Discutono quindi con passione la sentenza con cui la Corte suprema israeliana, nel 2009, ha dichiarato l'incostituzionalità della legge sulla privatizzazione delle prigioni, un vero e proprio leading case a livello mondiale. Alcuni ritengono la decisione della Corte frutto di un pregiudizio ideologico contro il privato, che finisce così per frustrare le esigenze di contenimento della spesa pubblica e di tutela della sicurezza alla base dell'esperimento di privatizzazione. Altri, invece, elogiano la sensibilità della Corte per le istanze di protezione dei diritti umani dei detenuti. La ragionevolezza della conclusione allora raggiunta dalla Corte, d'altra parte, appare oggi confermata dal bilancio critico sull'esperienza dei penitenziari privati recentemente stilato dall'amministrazione statunitense.
  Al termine dell'ultima lezione, molti ragazzi si fermano a salutarmi affettuosamente. Sono contenti di aver superato l'iniziale ritrosia e di aver approfondito anche gli argomenti apparentemente più lontani inseriti nel programma, come i controversi poteri del Consiglio di Stato in Belgio o l'ambito del sindacato giurisdizionale sulla sanzioni irrogate agli operatori finanziari a Singapore. Mi parlano dei loro prossimi corsi e impegni. Alcuni di loro si apprestano a svolgere un anno di esperienza professionale in studi legali, anche internazionali, o presso amministrazioni pubbliche e società private.
  Le questioni giuridiche in Israele, d'altra parte, sembrano avere una speciale intensità. A dirimerle è spesso chiamata la Corte suprema, formata da quindici giudici, nominati da un comitato di selezione composto da tre giudici in carica, due membri del governo, due del Parlamento, e due rappresentanti dell'ordine degli avvocati. Una volta nominati, i giudici restano in carica fino al compimento dei settant'anni. Si tratta di un disegno istituzionale particolarmente sofisticato, uno dei più avanzati al mondo nella capacità di proteggere l'indipendenza della Corte. Tanta cura per questi congegni giuridico-istituzionali si può forse meglio comprendere quando si visita il vicino Yad Vashem, il Centro per la Memoria della Shoah. Di fronte alla raggelante visione delle schede relative alla diffusione a macchia d'olio delle leggi razziali negli anni Trenta in Germania e nel resto di Europa, al giurista viene spontaneo chiedersi se l'esistenza di più forti custodi della Costituzione avrebbe allora potuto impedire o quantomeno ostacolare il diffondersi di quel tragico e folle disegno criminale.
  Nel sistema giuridico israeliano, la Corte è chiamata a svolgere molteplici funzioni, sia come corte di ultima istanza nei giudizi civili, penali e amministrativi, sia come corte costituzionale. Particolarmente originale è la sua funzione di Alta corte di giustizia (Bagatz), che le consente di pronunciarsi sulla legittimità di qualsiasi decisione pubblica, anche laddove non sia prevista dall'ordinamento una specifica forma di ricorso. Ciò ha permesso alla Corte, in diversi periodi della sua storia, di svolgere un ruolo fondamentale nella protezione dei diritti umani, anche degli arabi e dei palestinesi nei Territori occupati, alla ricerca di un delicato equilibrio con le esigenze di tutela della sicurezza di Israele. Durante la visita nello splendido edificio moderno della Corte inaugurato nella città nuova di Gerusalemme nel 1992, si è colpiti dalla grande apertura degli spazi e dalla luce calda che penetra in ogni angolo dell'edificio con l'idea di rendere trasparente e accessibile a tutti l'amministrazione della giustizia. Quando entriamo in un'aula per assistere a una delle udienze programmate per la giornata, ci imbattiamo nella vigorosa arringa di un'avvocatessa araba, che difende dall'accusa di terrorismo il suo giovane assistito.
 
La giudice Daphne Barak-Erez
  La giudice Daphne Barak-Erez, fino a qualche anno fa professoressa di Diritto pubblico (l'avevo conosciuta in occasione di una conferenza internazionale negli Stati Uniti), ci riceve nel suo moderno e accogliente studio. Questa settimana è di turno per assumere i provvedimenti di urgenza e quelli di carattere organizzativo in attesa della riunione dei collegi giudicanti. E' stata il più giovane giudice nominato alla Corte (nel 2012, quando aveva 47 anni). La sua designazione fu accolta con grande favore, per il suo prestigio accademico e per l'assenza di affiliazioni politiche. Dopo aver servito nell'ufficio giuridico dell'esercito, Daphne Barak-Erez ha avuto una lunga e brillante carriera accademica, fino a diventare preside della Facoltà di Giurisprudenza a Tel Aviv. Ci dice che, dopo vent'anni passati a insegnare e fare ricerche anche all'estero, si sentiva pronta per dedicarne altrettanti all'attività di giudice presso la Corte. Racconta di aver imparato molto dai suoi colleghi nei primi anni di mandato e sottolinea l'importanza del rapporto umano tra persone destinate a spendere così tanti anni insieme (un po' come avviene nella Corte suprema americana). Nel tempo, farà parte di collegi giudicanti che, inevitabilmente, saranno di diverso orientamento e sensibilità. Già a breve scadrà il mandato di tre giudici. E in futuro non possono escludersi cambiamenti anche nelle procedure di nomina o nelle funzioni: alcuni intendimenti in tal senso sono stati annunciati dal ministro della Giustizia. Lei ci tiene a sottolineare l'importanza di evitare qualsiasi influenza politica nei giudizi. E ci spiega le ragioni dell'originale apertura della Corte alla comparazione giuridica, dovuta al carattere composito dell'ordinamento israeliano e alla formazione spesso internazionale di giudici e avvocati.
  Il ruolo così importante assunto dalla Corte, cui gli stessi partiti possono rivolgersi direttamente per cercare di fermare leggi e decisioni, è oggi la conseguenza anche di un sistema politico per molti versi bloccato, senza autentiche alternative di governo. La scena è dominata dalla personalità carismatica di Netanyahu. L'elezione di Trump (accolta da grandi manifesti con la scritta "make Israel great again") potrebbe rafforzarne la posizione anche a livello internazionale. La sua figura è talora sfiorata da scandali (l'ultimo riguarda il controverso acquisto di mezzi sommergibili per la difesa) e spesso da critiche. Alcuni giornali ne contestano anche la gestione della recente emergenza degli incendi, in parte di matrice dolosa, probabilmente terroristica, divampati ad Haifa e nel resto del paese. Proprio il fatto che gli incendi siano stati alla fine domati anche grazie alla solidarietà, tra gli altri, di Stati Uniti, Russia, Grecia, Italia e persino dell'Autorità palestinese, che hanno mandato tempestivamente i loro mezzi di soccorso, restituisce però un'immagine meno isolata di Israele e del suo governo di quanto a volte si può pensare.
  Il successo, non solo economico, di Israele, d'altra parte, è sotto gli occhi di tutti. Il livello di crescita del pil si mantiene alto, mentre il tasso di disoccupazione è contenuto. Elevata è anche la natalità, seppure in misura diversa nei vari settori della società e con rischi di crescenti squilibri demografici. I ragazzi fanno figli anche se sono ancora all'università e non hanno un lavoro. Il boom immobiliare, soprattutto a Tel Aviv, continua, insieme alla crescita delle attività finanziarie. La politica di sviluppo verso il Negev prosegue in nuove forme. L'insediamento dei kibbutz lascia il posto a stabilimenti industriali all'avanguardia. La città di Be'er Sheva diventa sempre più grande e popolata. L'immagine della start-up nation, oggetto anche di un fortunato best-seller, descrive bene lo sguardo continuamente rivolto al futuro e all'innovazione tecnologica. La galleria di eccellenze nel campo tecnico e scientifico che saluta i passeggeri all'aeroporto, d'altra parte, è impressionante. Tra le applicazioni più significative vi sono quelle nel campo della sicurezza e della Difesa, come conferma l'imponente conferenza sulla cybersecurity che raccoglie ogni anno a Tel Aviv esperti e imprese di tutto il mondo. Anche l'Italia potrebbe trarre notevole vantaggio dallo sviluppo di una start-up region nell'intero Mediterraneo, come sottolinea il nostro ambasciatore, Francesco Maria Talò, in un appassionato incontro con gli studenti in università, riprendendo un'intuizione emersa anche nei frequenti colloqui tra esponenti di governo e mondo scientifico di Italia e Israele.
  Girando per il paese, al visitatore esterno la qualità della vita, soprattutto nelle città maggiori, appare elevata. Il discorso vale naturalmente per la sempre più vitale Tel Aviv, dove prosegue il recupero dei palazzi Bauhaus insieme alla costruzione di nuovi grattacieli. I ragazzi affollano bar, ristoranti, locali, musei. Fanno jogging sul lungomare completamente rinnovato e adibito a grande spazio pubblico. Si tuffano nell'acqua pulita o la solcano con i loro surf scintillanti. Ma anche percorrere i diversi quartieri della città vecchia di Gerusalemme restituisce sul piano umano, insieme alle emozioni indescrivibili del Muro occidentale e del Santo Sepolcro, l'idea di una convivenza difficile, ma possibile, tra arabi ed ebrei. L'esistenza di telecamere nascoste si percepisce soltanto tornando più volte nei luoghi, quando si alza lo sguardo dalla vita che brulica attorno alle baracche dei piccoli negozi. Non mancano controlli e perquisizioni da parte dei giovani soldati, ai quali gli arabi si sottopongono con pazienza, sotto gli occhi dei turisti. Durante lo shabbat, i ragazzi intonano canti e cori religiosi lungo le strade che li conducono verso la preghiera.
 
Chemi Peres
  I problemi, tuttavia, non mancano. Come mi dice Chemi Peres, un affermato manager nel settore tecnologico, appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti per ringraziare gli amici americani che hanno voluto onorare la figura del padre recentemente scomparso, c'è ancora the big elephant in the room. Lo stallo del negoziato con i palestinesi è totale. E non si sa cosa potrà accadere quando la leadership moderata di Abu Mazen passerà la mano. Il Centro Peres per la pace, la cui meravigliosa sede progettata da Fuksas si affaccia sul mare a sud di Jaffa, svolge un ruolo fondamentale nel tenere aperti i contatti tra palestinesi e israeliani. Una delle attività più importanti ed encomiabili è il programma di assistenza sanitaria negli ospedali israeliani in favore dei bambini che non possono essere adeguatamente curati nelle ben più arretrate strutture dei Territori. Molto interessante è anche il progetto che mira a ridurre le barriere che ostacolano il commercio dei prodotti palestinesi, il cui rilancio potrebbe essere prezioso per migliorare le condizioni economiche della popolazione. Si tratta, tuttavia, di iniziative che rischiano di rimanere isolate senza un cambiamento significativo dell'agenda politica.
  La società israeliana, d'altra parte, appare sempre più divisa al suo interno. Le diseguaglianze economiche e sociali sono crescenti, nonostante l'apparente egualitarismo che circonda l'immediatezza e l'informalità dei rapporti umani. Si avverte il ritardo nello sviluppo di alcune infrastrutture, soprattutto nel settore del trasporto ferroviario. In diverse condizioni di contesto, i flussi turistici in luoghi così belli e stupefacenti potrebbero essere ben più consistenti. La macchina burocratica non sempre è efficiente. Lo segnala anche la governatrice della Banca di Israele commentando i dati emergenti dall'annuale rapporto Doing Business della Banca mondiale. Per suffragare la sua denuncia, con la concretezza tipica che contraddistingue l'approccio anche di chi ricopre alte cariche, la governatrice cita con minuzioso dettaglio la quantità di adempimenti e i costi che ha dovuto recentemente sostenere un vecchio kibbutz nel Negev quando ha cercato di riaprire le sue attività grazie a un nuovo finanziamento.
  Ma ciò che più preoccupa è il crescente conflitto politico e ideologico. Il paese è diviso in almeno quattro fazioni. Le componenti laiche, progressiste e moderate, che diedero un contributo fondamentale alla costruzione dello Stato, appaiono sempre più in difficoltà. I partiti tradizionali, soprattutto quello laburista, sono in crisi. Le formazioni politiche sorte negli ultimi vent'anni appaiono spesso effimere. Gli esecutivi rimangono precari e instabili. Ed emerge la contrapposizione tra elementi del governo in carica e l'esercito, portatore dalla visione laica propria dei fondatori dello Stato. Si tratta di tensioni e contraddizioni che colpiscono particolarmente il visitatore esterno, il quale, al suo arrivo, non può che rimanere impressionato dalla straordinaria capacità di narrazione del processo di nation building che si ritrova ovunque nel paese, ad esempio visitando la casa di Ben Gurion a Tel Aviv, il suo kibbutz nel Negev, e lo Yad Vashem a Gerusalemme. Oggi gli antichi equilibri appaiono in pericolo, nonostante il tentativo da parte del Presidente Rivlin di mantenere un tessuto unitario nel discorso pubblico, ad esempio quando ha recentemente reso un sincero e autocritico omaggio postumo alla figura di Rabin.
  Eppure, come sottolinea Chemi Peres, se si ragionasse nel merito delle cose da fare, sulle politiche necessarie nell'interesse nazionale, sulle iniziative da assumere sul fronte della sicurezza e nel dialogo con la Palestina, sugli sviluppi delle relazioni internazionali (non solo negli storici e consolidati rapporti con gli Stati Uniti, ma anche creando nuovi ponti verso l'India e l'Africa), sarebbe ancora possibile trovare un consenso ampio nel paese e unire le persone di buona volontà, che continuano a guardare con energia e fiducia al futuro. Una considerazione che vale, forse, non solo per Israele.
* Ordinario di Diritto amministrativo All'Università Roma Tre

(Il Foglio, 9 dicembre 2016)


Mercanti rovinati da un diamante. Vicissitudini di una famiglia ebrea

Espulsi dalla Spagna, gli israeliti diedero vita a commerci fruttuosi in tutto il Mediterraneo. Una ricerca di Francesca Trivellato sulla comunità sefardita di Livorno.

di Giuseppe Galasso

E' noto che il commercio è nato «interculturale» fin dall'alba dei tempi, come scambio fra comunità umane, divise da tutto (cultura, ordinamenti, strumenti), tranne che dalla reciproca necessità dello scambio di ciò di cui si abbondava con ciò di cui si mancava. Noto è pure che da tempi remoti lo scambio (anche di merci e oggetti di modesto valore) ha legato spesso per via diretta o indiretta, di mare o di terra, gruppi umani viventi a lunghissime distanze. E, certo, anche per tempi remoti è lecito definire globali questi scambi, anche se di veri e propri scambi, in senso stretto, globali si può parlare solo dopo la scoperta dell'America.
La notorietà di tutto ciò non scoraggia Francesca Trivellato dal precisare con molta solennità nel libro Il commercio interculturale. La diaspora sefardita, Livorno e i traffici globali in età moderna (Viella), il senso di «commercio interculturale» e di «traffici globali» secondo l'odierno «storicamente corretto», e perfino ciò che si debba intendere per «mercante» (da un testo inglese del 1752 si apprende, in sostanza, che essere mercante consiste nel «far mercanzìe»).
Il lettore non si scoraggi, però, a sua volta. Il libro della Trivellato è frutto di una ricerca ammirevole per ampiezza e rigore, che illustra con una non comune dovizia di particolari le vicende di una delle più singolari e operose comunità mediterranee, quella degli ebrei sefarditi nella loro diaspora dalla Spagna dopo il 1492. La loro dispersione trovò molti punti di approdo, dove gli espulsi ebrei iberici seppero non solo rifarsi una vita, ma dar luogo ad attività di rilievo nei commerci di cui il Mediterraneo era al centro.
Fondamentali a tal fine furono le loro reti operative. La Trivellato le studia concentrandosi, con una scelta molto felice, su una sola delle correnti della diaspora sefardita, quella che si stabilì a Livorno, e su una sola delle ditte fiorite nella comunità livornese, la Ergas & Silvera.
Ne esce molto arricchito, e con una migliore cronologia del grande commercio mediterraneo fra XVI e XVIII secolo, il profilo storico di Livorno quale porto e punto di riferimento di tale commercio sia per i mercanti mediterranei che per quelli di Francia, Olanda Inghilterra, già dalla fine del Cinquecento in crescente fortuna. E ciò anche perché l'attenzione dell'autrice al versante orientale e musulmano degli scambi mediterranei non è per nulla inferiore a quella dedicata al loro versante occidentale e cristiano.
Quanto agli Ergas e Silvera, la Trivellato sa bene che si tratta di un caso particolare, ma sa renderlo esemplare, mettendo pure meritoriamente, e molto bene, in rilievo «la fragilità di queste ditte familiari», e confutando chi esalta «le diaspore commerciali in antitesi dei giganti del mercantilismo europeo», mentre bastava «un investimento errato a seppellire un'impresa familiare che disponeva di limitate capacità di capitalizzazione e ridotte riserve di credito».
Ne emerge come nella diaspora la comunità sefardita curava di stringere rapporti matrimoniali e familiari, di garantire nell'attività e per via ereditaria i propri patrimoni, di praticare forme societarie diverse da quelle consuete, di estendere o contrarre la propria rete di rapporti (dentro e fuori del Mediterraneo) a seconda dei casi e dei tempi in un «quadro normativo disegnato da autorità di governo» cui erano dovute le discriminazioni della diaspora, di stabilire rigide norme per i suoi membri, di curare le relazioni con altre comunità con le quali i buoni rapporti non erano scontati a priori.
Gli Ergas fallirono, appunto, per un affare sbagliato, la vendita di un grosso diamante in una fase di grandi mutamenti nel commercio mediterraneo, di cui i mercanti sefarditi risentirono in modo particolare. Per la comunità livornese vi fu un tramonto non repentino, ma netto, e uno spostamento dal commercio alla finanza. Nell'Ottocento, poi, a Livorno gli ebrei diminuirono di numero, e si persero anche le tracce di famiglie di nome Ergas. Si erano messi in moto, ebrei e Ergas, ancora una volta, per scrivere un nuovo capitolo della loro perpetua odissea.
Una piccola storia, dunque, che è uno specchio rivelatore di motivi e vicende essenziali della grande storia. La Trivellato li ha esplorati su migliaia di lettere e documenti reperiti dal Mediterraneo ad Amsterdam, Lisbona, Goa, con frutto non solo storiografico (i due capitoli sul «galateo epistolare» di questi mercanti e sul fatale «diamante grosso» che ne fu la rovina sono, davvero, di una non comune attrazione). Un libro, inoltre, da apprezzare ancora di più perché monografie di tanto impegno di ricerca e di elaborazione, nei nuovi criteri italiani per le valutazioni accademiche, paiono destinate a minore considerazione di articoli e articoletti, che abbiano il molto peregrino pregio di essere pubblicati in determinate sedi editoriali.

(Corriere della Sera, 9 dicembre 2016)


Europa League: Celta all'ultimo respiro, storico Hapoel

Si chiude col botto la fase a gironi dell'Europa League. Sul più bello si qualificano ai sedicesimi anche Hapoel Beer Sheva, Krasnodar e Celta Vigo: gli israeliani chiudono al secondo posto il gruppo K dopo il pari 1-1 in casa del Southampton. Ai Saints non basta la rete di Van Dijk. Guidetti e Orellana affondano il Panathinaikos e mandano al turno successivo il Celta: nel Gruppo G rimane fuori lo Standard Liegi.
L'Ajax già qualificato non si scansa e così al Maurice Dufrasne la squadra di Jankovic non va oltre l'1-1 subendo il sorpasso in classifica dei galiziani. Uscita di scena amarissima anche per il Red Bull Salisburgo: gli austriaci piegano 2-0 lo Schalke (prima della classe nel Girone I con 15 punti) ma la miglior differenza reti e il ko nel primo turno contro il Krasnodar premiano la formazione russa (sconfitta 2-1 all'Allianz Riviera dal Nizza di Balotelli, ultimo con sei punti).
La storia più bella è senza dubbio quella dell'Hapoel Beer Sheva: una rete pesantissima di Buzaglo permette agli israeliani di qualificarsi alla fase ad eliminazione diretta con 8 punti.

(Il Sole 24 Ore, 9 dicembre 2016)


Morto a 99 anni il «falsario di Hitler»

Il tipografo ebreo Adolf Burger è sopravvissuto al campo di concentramento. Fu costretto a stampare sterline false per far crollare l'economia inglese. Dal '43 al '45 a Sachsenhausen i carcerieri ordinarono a 142 ebrei di lavorare alla falsificazione.

di Anna Gentile

 
Adolf Burger mostra una banconota falsa inglese
Addio al tipografo slovacco Adolf Burger, che stampò false sterline per il Terzo Reich e che ha raccontato in due libri l'inferno dei campi di concentramento nazisti. Il sopravvissuto all'Olocausto aveva 99 anni ed è morto martedì scorso a Praga. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla famiglia. Dal 1943 al 1945 i nazisti obbligarono 142 internati ebrei (tra cui Adolf Burger) a stampare sterline false nel lager di Sachsenhausen. La più grande falsificazione della storia, chiamata in codice «Operazione Bernhard» con l'obiettivo di far crollare l'economia inglese, è stata raccontata da Burger nel suo libro di memorie «L'officina del diavolo» (tradotto in italiano dalle edizioni Nutrimenti).
   Il libro ha ispirato il film «Il falsario - Operazione Bernhard» del regista Stefan Ruzowitzky, presentato al Festival di Berlino del 2007 e Premio Oscar come miglior film straniero nel 2008.
   Nato da una famiglia ebraica a Velka Lomnica, in Slovacchia, il 12 agosto 1917, nel 1939Adolf Burger iniziò a lavorare come tipografo a Bratislava per una cellula clandestina del partito comunista. Tre anni dopo, nel 1942, venne arrestato dalla Gestapo slovacca e deportato a Auschwitz. La moglie Gisela, anche lei arrestata e deportata, morì a soli 22 anni in una camera a gas del campo di Birkenau.
   Dopo diciotto mesi di lotta per la sopravvivenza, Burger venne trasferito nel campo di Sachsenhausen, dove entrò a far parte del «Kommando» di internati che per ordine di Heinrich Himmler stamparono 132 milioni di sterline false. Nell'aprile 1945 Burger fu liberato ad Ebensee dove lo avevano trasferito le Ss in fuga da Sachsenhausen insieme a casse di banconote false che furono gettate nel lago di Toplitz. Finita la seconda guerra mondiale, Burger si stabilì a Praga dove dopo la pubblicazione di un suo libro sulla prigionia nei lager nazisti, non volle più parlare fino al 1972.
   Grazie a «L'officina del diavolo» di Burger si è conosciuta nel dettaglio la mega operazione di falsificazione monetaria che i gerarchi nazisti architettarono per mettere in ginocchio l'economia del Regno Unito.
   Nel 1942 un telegramma raggiunse i comandanti dei campi di concentramento disseminati in territorio tedesco: conteneva l'ordine di reclutare tutti gli internati ebrei con esperienza nel settore grafico e di provvedere al loro trasferimento nel campo di Sachsenhausen, alle porte di Berlino.
   Era l'inizio della cosiddetta «Operazione Bernhard», un piano elaborato dalle alte sfere del Terzo Reich per la produzione su vasta scala di false sterline inglesi. A Sachsenhausen si ritrovarono in 142, scampati alla morte per fame, per malattia, alle camere a gas. Vennero tutti nutriti e rivestiti. Per la prima volta dal giorno della loro deportazione vennero «trattati come uomini», confessò Burger nelle sue memorie.
   I 142 tipografi ebrei vissero in totale isolamento all'interno di due baracche del lager di Sachsenhausen, la numero 18 e la numero 19, circondate su ogni lato dal filo spinato, con le finestre verniciate di bianco. Dentro era nascosta una vera e propria officina per la produzione di banconote e francobolli falsi, di documenti contraffatti.
   Gli internati del «Kommando» falsari ebbero privilegi che gli altri non conobbero: letti comodi, armadietti personali, cibo a sufficienza, possibilità di leggere libri. Ma quel luogo custodiva un segreto che non avrebbe mai dovuto essere svelato: era impossibile sperare di uscirne vivi.
   Adolf Burger, numero 64401 del lager di Auschwitz, ha raccontato nel libro «L'officina del diavolo» le atrocità di Auschwitz e di Birkenau, i dettagli tecnici dell'operazione di falsificazione, le rocambolesche ultime fasi della prigionia, fino alla liberazione. Una delle più ciniche operazioni del Terzo Reich è stata svelata attraverso l'avventura drammatica di Burger che ha mantenuto la promessa fatta a sé stesso: «sopravvivere per raccontare l'inferno dei campi di concentramento, contro qualsiasi tentativo di alterare la verità».

(Il Tempo, 9 dicembre 2016)


Londra. Il rabbino Saks chiede un codice etico condiviso

Rav lord Jonathan Sacks
Non possiamo avere una società senza un codice morale condiviso". Rav lord Jonathan Sacks, già rabbino capo del Commonwealth e una delle voci più ascoltate nel dibattito delle idee britannico, ricorda al suo Regno Unito, ma anche al mondo occidentale più in generale, i rischi che stanno correndo. Ovvero cosa succede se si perdono di vista i propri valori fondanti, a favore di una società neutra di principi. Nel suo discorso preparato in occasione del dibattito sul tema promosso dall'Arcivescovo di Canterbury Justin Welby alla Camera dei Lord, rav Sacks ha fatto notare come negli ultimi decenni si sia affermata l'idea che ogni individuo possa fare ciò che vuole a patto che non danneggi gli altri. "Il problema è che cosa danneggi gli altri non è così chiaro" sottolinea. "La crisi del matrimonio e della famiglia ha causato un danno immenso a molte generazioni di bambini, psicologicamente, socialmente ed economicamente. La crisi dei concetti condivisi di onore e responsabilità ha portato diverse figure importanti nel settore economico e finanziario a comportarsi in maniera orripilante, mentre coloro di cui avrebbero dovuto essere al servizio ne hanno sopportato il prezzo. C'è stato un evidente crollo della fiducia in una istituzione dopo l'altra, una inevitabile conseguenza del nostro fallimento nell'insegnare i concetti di dovere, obbligo, altruismo e bene comune".
   Nel ricordare come il paese in cui è cresciuto fosse una Gran Bretagna diversa, legata alle tradizioni ma aperta all'innovazione, che dava valore a famiglia e comunità pur lasciando spazio all'individualismo, in cui non c'era bisogno di urlare per affermare le proprie opinioni, chi vinceva non ostentava, chi perdeva manteneva l'orgoglio di aver partecipato, il rav riafferma la necessità, oggi più che mai, di ritrovare, e di coltivare quel codice di valori, fatti di una morale comune e di una responsabilità collettiva ("a maggior ragione ora che abbiamo scelto di proseguire verso il futuro da soli e non come parte dell'Unione Europea").
   "Quando una società può contare su principi morali comuni, c'è più fiducia e solidarietà, le persone diventano cittadini più attivi, si aiutano a vicenda e sono meno coloro che vengono abbandonati alla solitudine. Chi ha successo lo condivide con chi ne ha meno e c'è un senso di orgoglio collettivo e di destino comune che mette in moto la parte migliore della nostra natura. Raggiungere tutto questo non può essere responsabilità del governo da solo, ma esso può incoraggiare i gruppi civili, comunitari, di beneficienza e religiosi a ritrovarsi per immaginare la Gran Bretagna che vogliamo creare per le generazioni future e poi lavorare insieme per realizzarla".

(Faro di Roma, 8 dicembre 2016)


Israele e la linea rossa

Per la seconda volta in una settimana pare che Israele abbia colpito interessi militari di Hezbollah in Siria.

di Fabio Della Pergola

Anche se conferme dirette - israeliane o siriane - non ce ne sono, vale la pena di cercare di capire almeno due cose: la prima riguarda il motivo per cui lo stato ebraico ha ritenuto così urgente infilarsi nel pericoloso caos siriano pur di assestare un altro colpo pesante alle infrastrutture logistiche del "partito di Dio" libanese. E la seconda riguarda il misterioso silenzio-assenso di parte russa: l'obiettivo colpito appartiene al più fidato alleato storico del regime iraniano ed anche del governo "legittimo" di Assad, che a sua volta è da sempre alleato della Russia e supportato apertamente da Putin nel recento conflitto con l'area composita della ribellione sunnita.
Ciononostante tutto tace.
Blande reazioni da parte siriana, nessuna reazione da parte russa, toni non esasperati perfino da Hezbollah. I jet con la stella di David sembrano aver colpito nella più totale impunita tranquillità.
La logica vuole che sia stata tracciata già anni fa, lo ricorda il quotidiano della sinistra israeliana Haaretz, una precisa linea rossa che Israele non permette di oltrepassare: il trasferimento di armi sofisticate (chimiche o missilistiche) dai depositi sotto controllo siriano verso i magazzini libanesi di Hezbollah, il nemico storico, responsabile del duro conflitto del 2006, e attualmente anche il più pericoloso per lo stato ebraico.
Questa linea rossa deve essere stata chiarita al punto che Assad fu "convinto" a smantellare (almeno ufficialmente) il suo arsenale chimico messo in pericolo dall'avanzata dei ribelli siriani e dal Califfato.
E chiarita anche a Putin quando l'intervento diretto dei russi sul barcollante fronte siriano fu "concordato" con i due competitor locali: la trattativa con i turchi passò attraverso un duro braccio di ferro che costò l'abbattimento di un jet militare all'aviazione russa; quella con Israele è stata molto meno difficile alla luce del drastico raffreddamento dei rapporti israelo-americani durante l'amministrazione Obama.
Il risultato raggiunto sembra essere - in cambio di un non ostacolato intervento russo finalizzato a impedire la scomparsa degli alleati sciiti nel Vicino Oriente - una tacita autorizzazione a voli notturni di aerei "sconosciuti" o un'improvvisa distrazione degli addetti russi dallo schermo verde dei radar che sicuramente "vedono" quello che si muove in profondità nei cieli di Israele, oltre che in tutta la Siria.
In sintesi nessun impedimento a colpire quello che tassativamente non deve essere trasferito in Libano: armi troppo pericolose per Israele in mano a nemici agguerriti e determinati, oltre che obbedienti agli ordini di Teheran dove di sicuro non si sta fermi ad aspettare gli eventi.
In particolare dopo la vittoria di Trump nelle elezioni USA e, soprattutto, dopo le sue dichiarazioni bellicose verso il trattato sul nucleare voluto da Obama e sottoscritto solo un anno fa.
Il quadro complessivo sul territorio mediorientale lascia intravedere lo scontro di sempre, oltre lo scenario siriano, che lentamente e sanguinosamente si avvia ad una nuova pacificazione. "Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace" avrebbe detto Tacito e nessuna definizione sembra essere più adatta allo stato attuale del paese.
Fra poco Trump prenderà ufficialmente il posto di Barack Obama alla guida della superpotenza a stelle e strisce ed è noto che, storicamente, i presidenti repubblicani sono stati meno interventisti di quelli democratici, quindi meno belligeranti anche se, a parole, più bellicosi. Ma i due Bush hanno rovesciato l'assodata consuetudine provocando in due tappe successive un drammatico buco nero in quello che una volta si chiamava Iraq.
Non ci resta che aspettare per vedere se The Donald sarà il classico repubblicano isolazionista, come ha dichiarato più volte, e si limiterà a osservare da lontano le guerre per procura che i tanti attori mediorientali continueranno ad alimentare o se sarà uno di quelli che fanno i deserti e li chiamano "pace".
Proprio come il suo omologo di Mosca.

(AgoraVox Italia, 8 dicembre 2016)


Un docente d'eccezione, il Maggiore Avi Nardia (Israele) a Latina

di Luca Giacanella

LATINA - Avi è uno dei nomi più importanti al mondo nel campo della D.P. (Difesa Personale), e lo è altrettanto nell'addestramento contro il terrorismo.
Nella giornata odierna Avi nel proprio seminario ha riscontrato un grande successo di pubblico presso la palestra My 1One di Latina al fianco di Emilio Calogero e Pier Paolo Ibba .
Un Evento d'eccezione quindi per tutti gli appassionati di arti marziali, ha fondato uno dei Sistemi di Difesa Personale di maggior diffusione planetaria, il KAPAP. Persone da tutta Italia ed anche dalla Spagna appositamente per questo appuntamento essendo uno tra i sei istruttori al mondo col grado più elevato nel proprio Sistema (il Commando Krav Maga) ed avendo contribuito alla sua diffusione in Europa, ha buoni rapporti con esponenti di altri Sistemi Israeliani, quali appunto il KAPAP moderno di cui AVI è il fondatore. Nel 2005 ha invitato Moni Aizik, fondatore del Commando Krav Maga (CKM), adesso ho invitato il "cugino" Avi, altro grande nome.
Sono fermamente convinto che i miei allievi e gli appassionati debbano conoscere i nomi più importanti a livello internazionale, perchè purtroppo il mondo della Difesa Persona si stia inflazionando di persone che hanno ben poca esperienza Marziale nel settore (che non è quella che si pratica "sportivamente"), quindi debbano poter discernere la qualità che si deve necessariamente includere in una Scuola seria.
Conoscendo personaggi di altissimo livello, si può capire chi pratica in modo professionale e chi no.

(Buongiorno Latina, 8 dicembre 2016)


Lieberman durissimo con gli ambasciatori europei

Il Ministro della Difesa israeliano incontra una delegazioni di ambasciatori europei e non gliele manda a dire accusandoli, nemmeno tanto velatamente, di essere ipocriti

GERUSALEMME - A poche ore dalle accuse rivolte dalla Siria a Israele di aver lanciato un attacco su Damasco il Ministro della Difesa, Avidgor Lieberman, incontra gli ambasciatori europei in Israele e fa il punto della situazione senza peli sulla lingua con un discorso che non mancherà di scatenare le solite ipocrite reazione da parte europea....

(Right Reporters, 8 dicembre 2016)


«Arafat ucciso da un fuoriuscito di Fatah»

La tv «Channel 10» indica Dahlan e dice di aver visionato il rapporto della commisione d'indagine palestinese.

GERUSALEMME - Yasser Arafatsarebbe stato ucciso. E il suo assassino avrebbe un nome: quello di Mohammed Dahlan, leader a Gaza del movimento al Fatah, espulso dall'organizzazione per accuse di corruzione. A sostenerlo - «con certezza» - è la tv israeliana Channel 10 che afferma di aver visionato il rapporto della commissione d'indagine istituita dalle autorità palestinesi sulla misteriosa scomparsa del suo leader nel 2004. «Il leader espulso del movimento al Fatah, Mohammed Dahlan, è il responsabile diretto della morte del presidente dell'ex Autorità Nazionale palestinese Yasser Arafat», ha detto l'emittente israeliana spiegando di aver «visionato un documento redatto da una commissione d'inchiesta sulla morte di Arafat che conferma in modo assoluto che il deputato del Consigli Legislativo palestinese Mohammed Dahlan è stato colui che ha cambiato una medicina che prendeva Arafat con un'altra tossica». La tv aggiunge anche che «il documento accusa Dahlan di avere anche assoldato ufficiali e comandanti per compiere un golpe militare in Cisgiordania». Da notare che lo scorso 11 novembre in occasione del 12esimo anniversario della scomparsa di Arafat, l'attuale presidente dell'Anp, Abu Mazen, aveva annunciato che rivelerà «il nome del responsabile dell'omicidio di Arafat» non prima di aver detto che «nei risultati ci saranno delle sorprese sull'autore». L'11 novembre del 2004 Arafat morì in Francia: aveva 75 anni. Da tempo non era in buona salute, ma cominciò ad accusare sintomi più gravi mentre si trovava nel complesso presidenziale di Muqata a Rarnallah, in Cisgiordania. Le forze di sicurezza israeliane lo tenevano isolato da tre giorni, accusandolo di avere appoggiato una serie di attacchi terroristici. Arafat fu visitato da medici palestinesi, egiziani, giordani e tunisini e fu trattato per un'influenza e una trombocitopenia (il numero delle piastrine del suo sangue era basso). Fino al 27 ottobre non assunse antibiotici. Due giorni dopo fu trasportato con un elicottero in Giordania, e poi con un aereo privato fornito da Chirac all'ospedale militare Percy a Clamart, fuori Parigi. In Francia gli fu diagnosticata una grave patologia al sangue.
   Arafat entrò in coma il 3 novembre e morì l'll novembre. Fu sepolto a Ramallah. A partire dai giorni successivi molti funzionari palestinesi accusarono Israele di avere avvelenato Arafat, un'ipotesi più volte negata dagli israeliani.

(Avvenire, 8 dicembre 2016)


Perché, secondo Brandeis, americanismo e sionismo andavano assieme

Un nuovo libro sullo storico giudice della Corte Suprema

di Antonio Donno

Grazie, signor Sokolow, lei mi ha restituito al mio popolo". Con queste parole Louis D. Brandeis (1856-1941) si rivolse a uno degli esponenti di primo piano del sionismo europeo in visita negli Stati Uniti, Nahum Sokolow, in un meeting a Boston. Era il marzo del 1913. Può essere considerata quella la data in cui l'ebreo praghese, di famiglia laica, iniziò a prendere coscienza che il suo profondo americanismo e il suo totale attaccamento ai valori della democrazia americana avrebbero potuto conciliarsi con il sionismo, con l'aspirazione del popolo ebraico a far ritorno nella sua antica patria, Eretz Israel. Questa nuova consapevolezza rappresentò una svolta esistenziale per Brandeis, la cui origine ebraica non aveva costituito fino a quel momento un fattore d'identificazione culturale e morale. Come molti ebrei americani di origine tedesca o in genere mitteleuropea, giunti in America dopo le rivoluzioni del 1848, cui avevano aderito, in gran parte di famiglia borghese e benestante, Brandeis si riconobbe ben presto e completamente nei valori del liberalismo americano, molto vicini a quelli che gli ebrei europei avrebbero condiviso nel 1948.
  Il libro di Jeffrey Rosen, "Louis D. Brandeis: American Prophet" (Yale University Press), ci ripropone una figura molto importante della politica e della storia intellettuale degli Stati Uniti nel Ventesimo secolo, ma da molto tempo fuori dagli interessi di studio. Perché, secondo Rosen, Brandeis fu un "profeta americano"? La risposta, come si è accennato, è nel legame - cui Brandeis giunse quando aveva già cinquantasette anni - tra americanismo e sionismo. Quando Brandeis fu nominato da Woodrow Wilson membro della Corte suprema americana, nel gennaio del 1916, il progressismo ricevette un campione di straordinario impegno sociale. In un editoriale di Life del 10 febbraio si leggeva: "Mr. Brandeis è ebreo e fino a oggi non vi è stato mai un ebreo nella Corte Suprema. Forse è tempo che ve ne sia uno". Una grande dichiarazione di stima verso l'uomo. Brandeis si dichiarava un jeffersoniano (ammirava il Jefferson di Albert J. Nock) e, quando abbracciò il sionismo - scrive Rosen - "egli scoprì nella Palestina l'avveramento dell'ideale jeffersoniano di uno sviluppo economico e sociale fondato sulle piccole comunità agricole". Per questo motivo, negli ultimi anni della sua vita, pur apprezzando il welfare del New Deal, non poté non criticare gli aspetti maggiormente centralizzatori della politica di Roosevelt.
  Quando Brandeis scoprì il sionismo, il suo impegno fu spasmodico. Egli interpretò la "New Freedom" di Woodrow Wilson anche in funzione della libertà del suo popolo, del popolo da cui proveniva. Fu per lui una scoperta entusiasmante, totalizzante. A quest'aspetto della vita di Brandeis Rosen dedica pagine intense, di grande interesse. Di fronte all'Anti-Defamation League nel 1920, Brandeis disse con grande slancio: "Non vi può essere il più piccolo spazio per l'antisemitismo tra di noi. E' una pianta velenosa. E' cosa ovvia che debba essere sradicata. Non può avere posto nella libera America". Altri tempi. Purtroppo.
  Brandeis contestò senza indugi la posizione di coloro che accusavano i sionisti americani di doppia lealtà. Per Brandeis, "sostenere la nascita di una patria ebraica da parte degli ebrei americani - scrive Rosen - avrebbe significato creare americani migliori ed ebrei migliori allo stesso tempo". Anzi, per citare Brandeis, "la lealtà all'America richiede che ogni ebreo americano diventi un sionista". Qui era la connessione tra americanismo e sionismo: l'aspirazione alla libertà. Brandeis lo diceva in tutte le occasioni: "Il mio approccio al sionismo è avvenuto attraverso l'americanismo". E la Dichiarazione Balfour del 1917 sembrò essere il suggello per le speranze di libertà del popolo ebraico che il sionismo rappresentava e che vedrà in Louis Brandeis il suo campione sul suolo americano. A Pittsburgh, nel giugno 1918, gli ebrei americani fondarono la Zionist Organization of America ed elaborarono un programma di sviluppo economico della Palestina, che successivamente venne a stridere con il progetto tutto politico di Chaim Weizmann, capo della World Zionist Organization. Il che non era contestato da Brandeis; solo che la visione del giudice di una rinascita economica del territorio, come precondizione per la nascita di uno stato ebraico, cozzava con l'urgenza del sionismo europeo di sfruttare al meglio la Dichiarazione Balfour per giungere rapidamente all'agognata fondazione di uno stato degli ebrei e così sottrarre gli ebrei europei dalla persecuzione degli antisemiti. Da quel momento, pur sempre intimamente sionista, Brandeis si defilò, lasciando tuttavia un'eredità di primaria importanza nella storia del movimento che diede vita a Israele.

(Il Foglio, 8 dicembre 2016)



Parashà della settimana: Vayetzè (Partì)

Genesi 28.10-32.3

 - "Giacobbe uscito da Beer-Sheva andava in Charan" (Gen. 28.10).
Perché questa informazione presente nella parashà precedente viene ripetuta? Per puntualizzare che Giacobbe non solo lasciava la casa paterna per timore della vendetta di Esaù ma anche per non fare "contratti" dannosi con Avimelech riguardo ai pozzi d'acqua (Beer significa pozzo) e non ripetere gli errori commessi in passato da Isacco.

La scala di Giacobbe
Giacobbe presta ascolto alle parole dei genitori e si incammina verso Paddan-Aram per cercare una moglie tra i parenti di sua madre Rebecca. Durante il viaggio Giacobbe pernottò in un luogo, dove fece un sogno. "Vedeva una scala posata in terra, la cui cima arrivava al cielo" (Gen. 28.12).
Il luogo è il Monte del Tempio, legame tra il cielo e la terra. Giacobbe sa che i popoli del mondo cercheranno di cacciarlo da questo posto per appropriarsi della "porta del cielo". Prende allora una "pietra" per costruire in quel luogo un altare, su cui sorgerà il Tempio. Giacobbe lavora questa pietra e la unge con olio che sarà l'olio con cui verrà unto il Re Messiah. Difatti la parola ebraica per pietra è "even" (av-ben) una contrazione di padre (av) e figlio (ben) che rappresenta la continuità eterna della famiglia d'Israele fino ai giorni della Redenzione.

Rachele figlia di Labano
"Giacobbe baciò Rachele, alzò la voce e pianse" (Gen. 29.11).
Giacobbe incontra Rachele nella casa di Labano a Charan. Ma perché questo turbamento nel suo animo? Giacobbe riconosce in Rachele l'immagine di sua madre Rebecca il cui ricordo gli causava dolore per aver dovuto abbandonare tutti i suoi affetti e fuggire a causa della collera di Esaù. In questo frangente la Torah ripete tre volte che Labano è il fratello di sua madre Rebecca, per far notare che in realtà questo individuo invece di dare un sostegno a Giacobbe, è pronto ad approfittarne a suo vantaggio. Labano comprende subito l'opportunità che gli si presenta con l'arrivo del povero "nipote", una vittima indifesa, che deve accettare qualsiasi situazione per sopravvivere.
Giacobbe dovrà lavorare sette anni alle dipendenze di Labano per avere in moglie Rachele come ricompensa. Ma Labano lo imbroglia, dandogli per moglie Lea un'altra sua figlia. Per avere la sua amata Rachele dovrà lavorare ancora sette anni per lo zio Labano. E quando Giacobbe vuol ripartire per tornare nella casa paterna, Labano lo implora di non andare dicendogli: "Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, rimani perché il Signore mi ha benedetto a causa tua" (Gen. 30.27).
Labano sa che il giorno in cui Giacobbe lascerà la sua casa anche la benedizione scomparirà e per questo vuol tenere Giacobbe "prigioniero" presso di sé. Giacobbe-Israele porta la benedizione e Labano intende utilizzare questa per arricchirsi facendo prosperare la sua economia. E' un copione che si ripeterà nella storia del popolo ebraico.
Non accadde altrettanto nell'Egitto dei Faraoni con Giuseppe? Oppure nel regno di Spagna di Isabella la cattolica? Oppure ancora nella Europa del ventesimo secolo? E quale è stato il ringraziamento per la benedizione apportata dalla presenza del popolo ebraico? Il genocidio in Egitto, l'Inquisizione spagnola e per terminare la Shoà nella "civile" Germania nazista.
La Torah mette in guardia sui pericoli dell'assimilazione tra le Nazioni del mondo, che accettano gli ebrei allo stesso modo di Labano perché la loro presenza è una benedizione di prosperità e di ricchezza. I nostri Saggi cazal hanno visto in Labano, uomo apparentemente inoffensivo, la radice stessa dell'antisemitismo. Quello che fa stupore in questo frangente, è la rassegnazione di Giacobbe, che deve continuamente giustificarsi. Da dove viene una tale carenza "difensiva" che si ritrova nel corso della storia del popolo ebraico? Dall'esilio!
Perché questo possa finire, la Torah chiede al popolo ebraico di rifiutare l'assimilazione tra i Gentili, non farsi illusioni sulla loro amicizia e soprattutto ritornare nella propria Terra. Per questa ragione noi ebrei come Giacobbe il cui nome è "Israele" vogliamo tornare a vivere in casa nostra. E' un avvertimento questo della Torah molto serio, che deve farci riflettere sulle sue conseguenze disastrose. F.C.

*

 - Giacobbe lascia Beer-Sheba per andare a Charan, da suo zio Labano. Glielo aveva consigliato per prima la madre, per sfuggire alla vendetta del fratello Esaù, ma non è per questo che Giacobbe parte. Isacco era stato ingannato, e tuttavia avalla il passaggio del diritto di primogenitura, trasmette a Giacobbe la benedizione che aveva ricevuto dal padre Abramo e gli ordina di partire verso Charan non per fuggire alla vendetta di Esaù, ma per non correre il rischio di fare come lui prendendosi una moglie tra le figlie di Canaan (Gen. 28:1-5).

Una singolare famiglia
Ci si potrebbe chiedere che cosa avesse di tanto particolare la famiglia allargata di Abramo per andarvi a cercare moglie facendo migliaia di chilometri. Letta con occhi secolari, quella parte di storia sacra costituita dai rapporti tra Giacobbe e la famiglia di Labano è una storia di imbrogli tra uomini e gelosie tra donne. Non si mantiene però la sacralità della storia togliendo, o nascondendo, o tacendo, o addolcendo le parti in cui compaiono aspetti fin troppo umani dei protagonisti. La storia di cui parla la Bibbia è sacra perché soltanto in essa si rivela la potente e misericordiosa mano di Dio che guida verso un fine stabilito certi fatti di uomini in carne ed ossa come tutti noi.
Per questo è buona norma fare particolare attenzione a quei passi in cui è Dio stesso che parla o agisce. Per esempio, se in un versetto si dice che "L'Eterno, vedendo che Lea era odiata, la rese feconda" (Gen. 29:31), si deve riconoscere che in questo caso è proprio Dio che fa così, e manifesta in questo modo un aspetto della sua volontà. Sta a noi uomini il compito di capirla.
E sta a noi anche il compito di capire perché invece Rachele è nata sterile, completando così il sacro terzetto delle matriarche originariamente tutte sterili e solo in seguito rese feconde. Ci dev'essere indubbiamente qualcosa di profondo da capire in questa strana scelta di Dio. Una cosa anzitutto però si può notare: la sterile Sara diventò feconda per una decisione sovrana del Signore annunciata ad Abramo; la sterile Rebecca diventò feconda perché Dio esaudì la preghiera appassionata del marito Isacco; la sterile Rachele diventò feconda perché Dio esaudì la preghiera di Rachele per sé stessa (Gen. 30:22). L'origine della benedizione sta sempre in Dio, ma nel suo concreto attuarsi il Signore chiede sempre la partecipazione degli uomini.

Il collegamento tra cielo e terra
Ma il passo che più di ogni altro in questa parashà rivela la profondità del progetto di Dio si trova nel sogno di Giacobbe.
"Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa" (Gen. 28:12).
L'espressione "la sua cima raggiungeva il cielo" ricorda immediatamente quella usata dagli uomini quando volevano costruire una torre "la cui cima raggiunga il cielo". Indubbiamente questa scala è la risposta di Dio alla torre di Babele. Non si raggiunge il cielo con una laboriosa e intelligente opera umana; soltanto Dio può stabilire un contatto non distruttivo ma vivificante tra il cielo e la terra attraverso l'opera che Egli stesso ha deciso di compiere.
Il preannuncio che il Signore ha voluto dare a Giacobbe con questo sogno mette anzitutto in evidenza che il progetto di Dio non si conclude con la generazione dei patriarchi ma si estende fino a un lontano futuro, che non arriverà prima di quattrocento anni, come Dio aveva rivelato ad Abramo in quella terribile notte (Gen. 15:7-21).
A Giacobbe che adesso si trova in viaggio e sta dormendo con il capo scomodamente appoggiato su una pietra Dio dice in sogno:
«Io sono l'Eterno, l'Iddio d'Abraamo tuo padre e l'Iddio d'Isacco; la terra sulla quale tu stai coricato, io la darò a te e alla tua progenie; e la tua progenie sarà come la polvere della terra, e tu ti estenderai ad occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzodì; e tutte le famiglie della terra saranno benedette in te e nella tua progenie» (Gen. 28:13-14).
Come ad Abramo e ad Isacco, Dio annuncia a Giacobbe il suo progetto che si estende nel futuro e contiene due elementi essenziali: la terra e la progenie. Quanto alla terra, anche a Giacobbe Dio ripete: "Io la darò a te e alla tua progenie"; il che significa che Giacobbe risusciterà e vedrà il compimento di queste parole.
La terra su cui si appoggia la scala è indubbiamente la terra d'Israele. Questo spiega il feroce antisionismo di oggi: se nel passato gli uomini hanno tentato di raggiungere il cielo innalzando una torre dalla terra di Scinear, oggi gli uomini cercano di impedire che il cielo faccia poggiare la sua scala sulla terra d'Israele, ostacolando così la discesa della benedizione su tutto il mondo.
La progenie è il popolo etnico d'Israele, da cui nel piano di Dio deve scaturire il "germoglio di giustizia" che costituisce la vera scala che congiunge in modo salvifico il cielo e la terra: il Messia.
In quei giorni e in quel tempo, io farò germogliare per Davide un germoglio di giustizia, ed esso eserciterà il diritto e la giustizia nel paese" (Ger. 23:15).

"Vieni a vedere"
Nel primo capitolo del Vangelo di Giovanni si vedono alcuni israeliti che incontrano Gesù e decidono di seguirlo. Uno di questi, Andrea, incontra il fratello Simon Pietro e gli dice: "Abbiamo trovato il Messia" , e lo porta da Gesù. Il giorno dopo Gesù incontra Filippo e gli dice "Seguimi", e Filippo lo segue. Poi Filippo incontra Natanaele e gli dice: "Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge e i profeti: Gesù da Nazaret, figlio di Giuseppe". Natanaele, che evidentemente conosce le Scritture, obietta: "Può forse venire qualcosa di buono da Nazaret?» Filippo non si mette a discutere ma gli dice soltanto: "Vieni a vedere", e lo porta da Gesù. Natanaele alla fine si convince e dice a Gesù: "Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d'Israele». Gesù riconosce la sincerità di questa affermazione e aggiunge, rivolto a tutti i presenti,:
"In verità, in verità vi dico che vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo".
Il lontano futuro annunciato in forma di sogno a Giacobbe trova attuazione nella persona del Messia Gesù. M.C.

  (Notizie su Israele, 8 dicembre 2016)


E' stato l'illuminismo il vero padre di razzismo e nazismo

La xenofobia nasce dalle pseudoscienze del secolo dei Lumi, quando vennero a cadere tutti i freni imposti dal cristianesimo.

di Francesco Agnoli

 
«CATALOGO» di Lombroso - Esempi di fisiognomica di criminali secondo Cesare Lombroso
Oggi si sente molto spesso parlare, a sproposito, di razzismo. Vi è una categoria di persone che distribuiscono patenti per screditare chi la pensa diversamente da loro: questa è la genesi di parole come «omofobia», o, anche se in maniera diversa, «xenofobia». Xenofobia e omofobia, «malattie» indefinibili (chiunque può essere accusato di esserne «infetto»), sarebbero poi null'altro che forme di «razzismo». Così chi afferma che sia giusto regolamentare l'immigrazione diventa «razzista-xenofobo»; chi osteggia l'ideologia gender, diventa «razzista-omofobo». Si tratta di una battaglia per impadronirsi delle parole, e della storia, perché chi controlla le parole e la storia, controlla il presente. Per questo è opportuno ridare alle parole il loro significato, rileggendo la storia con serietà. Il sonno della ragione, si dice, genera mostri, ma i sogni della ragione sono altrettanto pericolosi.

 Le origini
  Il razzismo «scientifico», per comune convinzione dei grandi storici (come Léon Poliakov, George Mosse, George M. Fredrickson) è una creazione moderna, settecentesca. In pieno illuminismo, si diffondono convinzioni capaci di andare ben al di là del tradizionale etnocentrismo. George M. Fredrickson, professore di Storia a Stanford, nella sua Breve storia del razzismo ricorda che esistettero certamente «pregiudizi etnici nell'antichità», ma che questi non possono essere definiti «razzismo». «Il punto di vista prevalente fra gli studiosi che hanno analizzato il significato di differenza nel mondo antico è che non è possibile trovare un concetto veramente equivalente a quello di razza nel pensiero dei greci, dei romani e dei primi cristiani». Questi ultimi «celebravano la conversione degli africani come prova della loro fede nell'eguaglianza spirituale di tutti gli esseri umani». Certamente la storia dell'umanità è segnata dai pregiudizi, persino da «proto-razzismi», ma «per sviluppare pienamente il suo potenziale come ideologia il razzismo doveva emanciparsi dall'universalismo cattolico». Per secoli infatti le chiese cristiane «persistevano nell'affermare che gli ebrei e i neri avevano un'anima da salvare», esattamente come tutti gli altri uomini: «L'ortodossia cristiana relativa all'unicità del genere umano, basata sul racconto della Bibbia di Adamo ed Eva come progenitori di tutti gli esseri umani, era un potente ostacolo allo sviluppo di un razzismo ideologico coerente». Quanto al colore della pelle, anch'esso divenne un «problema» solo in età moderna, dal momento che sin dal principio i cristiani, anche i santi, erano indistintamente europei, africani, etiopi, o neri. Sulla stessa linea di Fredrickson si pone lo storico George Mosse, autore del celeberrimo Il razzismo in Europa (La Terza). La sua conclusione è che il razzismo è una «religione laica» il cui inizio si deve collocare «nel secolo XVIII, qualunque precedente possa essere scoperto in epoche più lontane. Fu in questo secolo che la struttura del pensiero razzista si consolidò», anche a causa della critica presente nel pensiero settecentesco all'idea della creazione degli uomini da parte di Dio.

 Determinismo
  Un altro celebre storico, Léon Poliakov, nel suo Il mito ariano (Editori Riuniti) nota come i primi teorici del razzismo fossero per lo più deterministi, cioè negatori del libero arbitrio, seguaci di un «laicismo militante» e poligenisti. Costoro partirono spesso dalla contestazione della Bibbia per poi affermare la razza come vero motore della storia, riconducendo le manifestazioni dell'intelligenza ai fatti fisici, e fondando, in ottica materialista o panteista, la psicologia sulla fisiologia. Afferma Poliakov che «il rifiuto di vedere l'uomo creato a immagine di Dio» fu in buona parte alla base del pensiero determinista e razzista del XIX secolo». Infatti «la tradizione giudaico-cristiana era "antirazzista" e "antinazionalista" », sia, appunto, per la sua concezione dell'uomo, sia per il dogma dell'unità del genere umano: per questo «l'antropologia della Chiesa» ha sempre giocato un «ruolo di freno» alle teorie razziste.

 Il ruolo del panteismo
  D'altro canto le filosofie materialiste o panteiste, in epoche di colonialismo, di nazionalismo di destra e di progressismo di sinistra, hanno fornito ai razzisti i concetti basilari con cui giustificare le loro dottrine. Il primo fondamento filosofico su cui poggiare la «razionalità» del razzismo fu dunque la negazione del monogenismo biblico: non è possibile, si diceva, che bianchi, neri, gialli, così diversi per aspetto, bellezza, cultura, sviluppo abbiano la stessa origine. Occorre marcare una netta differenza all'interno dell'umanità, che stenta ormai a essere definita con un'unica parola. Si diffonde così il poligenismo, e con esso nascono le razze con le loro differenze eterne, ereditarie, definitive. Al posto di Adamo ed Eva, tanti progenitori di aspetto, intelligenza, lingua diversi. «La teoria poligenetica» scrive Francesca Castradori in Le radici dell'odio (Xenia), «libera del tutto l'europeo dall'affratellamento con l'africano». Nel difendere questa nuova concezione, si distinguono alcuni filosofi razionalisti come Voltaire e David Hume, le cui credenze razziste sono, lette oggi, piuttosto sconcertanti.

 Lingue a confronto
  Accanto a loro troviamo linguisti e filologi come Friedrich Schlegel (1772-1829), secondo il quale l'ebraico e l'arabo sarebbero lingue inferiori rispetto al sanscrito, la lingua indiana, ariana, e alle lingue indoeuropee (e la presunta maggior nobiltà di una lingua indica la superiorità di chi la parla); e poi giornalisti e soprattutto scienziati intenti a classificare gli uomini così come si classificano pietre e piante. Non appena il poligenismo lascia spazio al monogenismo darwiniano, cioè all'idea dell'evoluzione di ogni forma di vita da un'origine comune, il razzismo assume una nuova veste: origine comune degli uomini, ma stadi evolutivi incolmabilmente diversi.
  In questo senso diviene centrale «il mito potente della catena dell'essere», cioè l'idea che debba esistere un «anello mancante» che unisce «l'uomo agli animali». Questa idea sfocia nella convinzione secondo cui l'animale posto più in alto, cioè la scimmia, sia collegato con l'uomo posto più in basso, cioè l'africano, costituendo quel famoso «anello mancante» di cui si è continuato a lungo a favoleggiare. In questo clima si affermano le pseudo-scienze, che però tra fine Settecento, Ottocento e
  prima metà del Novecento sono considerate a tutti gli effetti scienze esatte. Capaci di giustificare, appunto, il razzismo «scientifico». Siamo ormai nel secolo in cui la fede cristiana è «superstizione», e la scienza è la vera religione.
  Così l'anatomista Petrus Camper nel 1792 inventa l'angolo facciale, una modalità per misurare la dignità umana: secondo lui l'angolo facciale dei greci e degli europei sarebbe quello perfetto, vicino ai 100 gradi, mentre quello dei neri non supererebbe i 70 gradi. Criteri estetici vengono affiancati a criteri pseudoscientifici forniti dalla fisiognomica (la «scienza» della lettura del volto umano), dalla frenologia (la «scienza della lettura della testa, la cui forma è ritenuta conseguenza della costituzione del cervello), l'antropometria, la craniometria, la criminologia, l'eugenetica.
  La frenologia viene consacrata da Franz Joseph Gall (1758- 1828), convinto che «il carattere di un individuo potesse essere determinato sulla base della configurazione della testa». Di qui l'appassionato studio dei bernoccoli, delle forme dei crani, della loro ampiezza, e l'idea che il cervello delle persone riveli la loro natura, determinata a priori. Queste credenze sono utilizzate da inglesi e francesi, in Africa, per giustificare il colonialismo (i neri avrebbero conformazioni craniche figlie di «miseria morale»), così come dai nazisti, che sosterranno che la natura ha scritto sulla nostra faccia il nostro «destino».

 Collezione di crani
  Prosperano in questo clima personaggi come Samuel George Morton (1799-1851), antropologo americano, che possiede una collezione di oltre mille crani e che in base alla grandezza del cervello stabilisce le gerarchie razziali. «Morton», scrive Marco Marsilio, «si dedicò a riempire i suoi crani con pallini di piombo per effettuare misurazioni accurate» sulla grandezza dei cervelli. «Ne uscirono tre tabelle dove le razze erano gerarchicamente ordinate secondo la grandezza media dei cervelli». In Francia l'esperto in misurazione di crani è il fondatore della Società antropologica francese, Paul Broca (1824- 188o). Di quest'ultimo, che crede di poter dimostrare che con il progredire della civiltà cresce la massa del cervello, si può ricordare la delusione nell'apprendere che i crani di Anatole France e Franz Joseph Gall erano più piccoli di quello di un africano!

 Misure
  Tutto l'Ottocento è dunque zeppo di misurazioni: quante palline di piombo stanno nel cranio di un bianco? E di un nero? Di un uomo? E di una donna? Inutile dire che gli scienziati credono spesso di aver trovato la spiegazione di tutto. Elementare, Watson! Il bianco ha una capacità cranica maggiore del nero, e l'uomo maggiore della donna: «È la scienza, bellezza!».
  Cosi vi sono razze con gli angoli facciali «giusti» e razze con quelli errati; razze evolute e razze che invece non sono molto diverse dalle scimmie. E all'interno di una stessa razza, uomini eugenici e disgenici (questi ultimi coincidono, guarda caso, con le classi povere); uomini la cui riproduzione va incentivata, e altri che sarebbe meglio sterilizzare. Nasce cosi un'altra pseudoscienza, l'eugenetica di Francis Galton, che troverà la sua applicazione più diffusa in molti stati americani e nella Germania nazista, soprattutto con il progetto eutanasico.
  Ma oltre ai disgenici, vi sono i criminali: non sono forse anch'essi identificabili, a priori, da segni esteriori? Già Lavater credeva che si sarebbero potuti impedire molti delitti leggendo il vizio dei criminali sui loro volti.
  Parte da qui Cesare Lombroso (1835-1909), fondatore dell'antropologia criminale, che, come ricorda il già citato George Mosse, «ebbe un'influenza decisiva sul pensiero razziale da lui personalmente avversato».

(La Verità, 8 dicembre 2016)


La frenologia interpretata da Trilussa
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Ministro della Difesa israeliano: i nostri raid sono per evitare il traffico di armi verso Hezbollah

GERUSALEMME - L'aeronautica israeliana opera in Siria per evitare che "armi avanzate, equipaggiamenti militari ed armi di distruzione di massa" finiscano nell'arsenale del movimento sciita libanese Hezbollah. Lo ha detto oggi Avigdor Lieberman, ministro della Difesa israeliana a margine di un incontro con alcuni diplomatici europei. Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano "Times of Israel", Lieberman non si è riferito ad un episodio particolare, ma ha parlato soltanto di "quanto accaduto in Siria". Questa mattina, infatti, i media arabi hanno riferito che i caccia israeliani hanno colpito una base aerea a sud-ovest di Damasco. La notizia, tuttavia, non è stata confermata dalle autorità israeliane. L'agenzia stampa siriana "Sana" ha riferito, invece, che alcuni missili lanciati dalla zona montuosa di Tal Abu Nada (Monte Avital per Israele), sulle alture del Golan, hanno raggiunto la base aerea di Mezzeh, a sud-ovest di Damasco.
   Spiegando la strategia difensiva di Israele, Lieberman ha detto: "Stiamo lavorando, soprattutto, per difendere la sicurezza dei nostri cittadini e proteggere la nostra sovranità". Per raggiungere questo obiettivo, Gerusalemme sta "cercando di prevenire il traffico di armi sofisticate, equipaggiamenti militari ed armi di distruzione di massa dalla Siria a Hezbollah". Parlando del conflitto nella vicina Siria, Lieberman ha ribadito che l'obiettivo di Israele è difendersi, non far parte degli scontri.
   Il timore che Hezbollah riceva armi dall'estero è stato ribadito recentemente anche dall'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon. Lo scorso 23 novembre Danon aveva detto che l'Iran contrabbanda armi e munizioni destinate a Hezbollah attraverso i voli commerciali esistenti tra la Repubblica islamica ed il Libano. Il diplomatico israeliano ha illustrato le modalità adottate dalle Guardie della rivoluzione islamica per rifornire di armi Hezbollah. Danon afferma che "questi velivoli volano direttamente fino agli aeroporti del Libano o di Damasco, e da lì le armi vengono poi trasferite via terra a Hezbollah". Questi traffici, secondo l'ambasciatore, costituiscono una violazione diretta delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite numero 1701 e 2231, che regolamentano rispettivamente la cessazione delle ostilità della guerra tra Libano ed Israele del luglio del 2006 e l'accordo sul nucleare iraniano firmato a luglio del 2015.

(Agenzia Nova, 7 dicembre 2016)


I Segreti di Bologna

di Maria Sole Sanasi d'Arpe

Secondo Valerio Cutonilli e Rosario Priore, autori de "I segreti di Bologna", "La verità non ha tempo" e non è mai troppo tardi per raccontarla. La sua intrinseca soggettività si pone quale cronaca lucida e asciutta che conduce a più spunti di riflessione. Sono passati trentasei anni da quel sabato 2 agosto 1980. Quel giorno l'attentato alla stazione ferroviaria di Bologna ha provocato ottantacinque morti e duecento feriti in seguito all'esplosione di una bomba di ventitré chilogrammi. La totale astrazione concettuale del principio di verità, sostituita fattualmente dall'analisi del tempo e degli avvenimenti, ovvero, nel caso specifico, da indagini che nel trascorrere del tempo si sono rincorse sempre uguali, ammantate di schemi e modelli della società: i soliti colpevoli del sistema di quell'epoca.
   Quella di Priore, magistrato che ha indagato su alcuni grandi casi italiani (da Ustica al caso Moro) e Cutonilli, avvocato civilista e portavoce da anni di un comitato per l'estraneità dei Nuclei armati rivoluzionari alla strage, è una contestazione; una voce che si oppone alla condanna definitiva dei Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Il tutto sezionando i fatti, elementi della verità processuale, per costruirne e affermarne un'altra. Per affermare la possibilità di legare l'esplosione dell'ordigno a un patto non scritto e violato nel settembre del 1979 con l'arresto di Abu Anzeh Saleh a Bologna, esponente del Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina): il cosiddetto lodo Moro, un presunto accordo secondo cui gli arabi potevano trasportare armi in Italia in cambio dell'immunità del nostro paese dagli attentati. Dunque, "il punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui cospirano tutta una molteplicità di causali convergenti" (C. E. Gadda) ne dirime almeno una, quella che ha fatto la differenza; l'ambiguità di una circostanza che precede soltanto di un mese il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse, che lo uccisero il 9 maggio. Una prova concreta dell'avvenuta intesa tra Italia e palestinesi emerge nella notte del 9 gennaio 1982, quando a Roma viene arrestato il leader brigatista Giovanni Senzani: un suo appunto che riassume i contenuti di un colloquio a Parigi con il capo dei servizi segreti dell'Olp, Abu Ayad. C'è scritto che l'Urss, in contatto con i terroristi rossi e celata regista degli attentati in Europa tra il '73 e il '77, ha voluto opporsi alla politica dei paesi europei in medio oriente. La trama internazionale, more solito in Italia, cede il passo alle questioni di natura politica del paese, all'origine della condanna di Mambro, Fioravanti e Ciavardini (nel 2007, data la minore età all'epoca dei fatti) e nemmeno la riapertura delle indagini da parte della procura della Repubblica di Bologna nel 2005 rappresenta una svolta nella pista palestinese.
   "La persistente ambiguità di un elemento di fatto, storicamente accertato e non compiutamente giustificato: la presenza a Bologna del terrorista tedesco Thomas Kram, la mattina del 2 agosto 1980": Kram, definito da Priore come "l'esplosivista di Carlos" (Carlos lo Sciacallo, famigerato terrorista internazionale legato a doppio filo all'Fplp) è il nome rivelato dal pm Enrico Cieri in seguito all'archiviazione dell'inchiesta nel febbraio 2015 e al contempo il motopropulsore che dà vita a questo libro, una ricerca dettagliata - per mezzo di un'esaustiva consultazione degli atti della vecchia istruttoria bolognese con la documentazione delle commissioni parlamentari d'inchiesta e degli archivi dei paesi del vecchio blocco sovietico - che si presenta al lettore in due parti differenti, per volontà dei due autori, con l'intenzione di fornire tutti i dati necessari affinché sviluppi una critica personale.

(Il Foglio, 7 dicembre 2016)


SFO vola con United Airlines e il 787

Il nuovo volo di United Airlines per Tel Aviv e le altre novità a SFO

di Daniel Mori

 
Settemila startup (quasi una ogni mille abitanti), PIL in crescita del 3% all'anno, settanta fondi di Venture Capital che investono oltre due miliardi di dollari all'anno in nuove iniziative economiche high tech: sono i numeri dell'economia di Israele; la somiglianza con quella della Silicon Valley è tale da aver procurato all'area costiera che da Tel Aviv si estende fino a Haifa il nomignolo di Silicon Wadi.
In questa ottica, l'apertura da parte di United Airlines di un collegamento diretto fra San Francisco e Tel Aviv è tutt'altro che sorprendente: raccogliendo l'invito del sito sfotlv.org, promotore di una petizione con 8.586 firmatari, United Airlines ha inaugurato la rotta a fine marzo 2016 con tre voli a settimana. Già a metà ottobre il collegamento è diventato giornaliero, operato da 787-8 con 36 posti in BusinessFirst, 70 in Economy Plus, 113 in classe turistica.
Ho avuto modo di provare personalmente i voli United Airlines 954 e 955 in Economy Plus per un breve viaggio di lavoro a Tel Aviv a inizio novembre. Questa mia prima esperienza sul Dreamliner è stata ampiamente positiva: mi ha colto decisamente di sorpresa la comodità della poltrona - ergonomicamente perfetta nonostante i soli 17,3 pollici di larghezza; sia l'imbottitura che il supporto lombo-dorsale si sono rivelati eccellenti per questi voli lunghi circa 14 ore. La pressurizzazione e la (relativa) umidità della cabina del 787 - o forse un utilissimo effetto placebo - hanno contribuito a farmi arrivare a destinazione piuttosto riposato.
Il volo per Tel Aviv appartiene a una serie di nuovi collegamenti non-stop inaugurati da United Airlines dal proprio hub di San Francisco: fra il 2014 e il 2016 il vettore ha aperto anche Chengdu, Osaka, Auckland, Singapore, Xi'an e Hangzhou - tutte con 787. Per gli abitanti della Silicon Valley il Dreamliner ha mantenuto la promessa di aumentare il numero di destinazioni servite senza scalo. Per gli addetti del settore tech, il diretto SFO-TLV corona il gemellaggio informale tra le due valli del silicone.

(Aviazione.Civile.it, 7 dicembre 2016)


Via libera di Israele all'acquisto dei giacimenti Karish e Tanin da parte della greca Energean

GERUSALEMME - Il Consiglio petrolifero del ministero delle Infrastrutture, dell'Energia e delle risorse idriche israeliano ha raccomandato al dicastero di approvare l'accordo che prevede la cessione dei giacimenti di gas naturale di Karish e Tanin alla società greca Energean. Lo riferisce il sito d'informazione economica israeliano "Globes", ricordando che lo scorso agosto l'azienda greca ha accettato di acquistare i due giacimenti. L'accordo prevede il versamento di 150 milioni di dollari alle società del consorzio, Noble Energy e Delek Group. I giacimenti di Karish e Tanin contengono circa 60 miliardi di metri cubi di gas. Il Consiglio petrolifero israeliano ha inoltre deciso di consentire a Noble Energy di trasferire il 3,5 per cento delle quote possedute nei giacimenti di Tamar e Dalit alla Everest partnership. La decisione si inserisce nelle trattative per la riduzione le azioni di Noble Energy nei due giacimenti del 25 per cento. Da parte sua, il ministro dell'Energia Yuval Steinitz ha commentato la vendita dei giacimenti di Karish e Tanin affermando: "Un passo importante per spezzare il monopolio nel settore del gas entro i tempi prestabiliti". L'ingresso di nuovi attori nella gestione del mercato del gas rafforzerà la competitività e la diversificazione, rafforzando la sicurezza energetica, ha aggiunto Steinitz. Infine, il ministro israeliano ha sottolineato che la competitività nel settore favorirà la sostituzione del carbone nelle centrali di Hadera con il gas naturale, migliorando la salute della popolazione israeliana.

(Agenzia Nova, 8 dicembre 2016)


"Cimitero ebraico di Mantova, richiesta senza fondamento"

di Adam Smulevich

"È una cosa che non sta né in cielo, né in terra. Una pretesa senza basi fondate, ma anche una pessima figura davanti a tutta la cittadinanza. Indirettamente, anche la nostra Comunità ne esce danneggiata in termini di immagine"
Si è preso qualche giorno per commentare. Ma l'amarezza non è passata, anzi. Emanuele Colorni, presidente della Comunità ebraica mantovana, risponde così alle pretese avanzate da un gruppo di rabbini israeliani e statunitensi guidati da rav Shmaya Levi, giunti nelle scorse ore in città per reclamare l'antico cimitero ebraico locale, ormai dismesso da secoli e in cui (stando almeno alle loro ricostruzioni, basate sul ritrovamento di un antico documento a Budapest) sarebbero seppelliti illustri cabalisti del passato. "Per tutto il mondo ebraico è fondamentale che quella terra ritorni ai suoi legittimi proprietari" ha affermato rav Shmaya prima di incontrare il sindaco Mattia Palazzi e altri esponenti dell'amministrazione comunale. Incontro propedeutico a una richiesta ufficiale in tal senso. Anche se i piani dell'amministrazione appaiono ben diversi: in quell'area abbandonata, diventata in tempi più recenti campo di concentramento dei nazisti e quindi area militare ceduta lo scorso anno dal demanio statale al Comune, dovrebbero sorgere un centro ricerche per la biodiversità e un centro per l'agroalimentare.
"L'area del cimitero è oggi circondata da un vecchio muretto e all'interno vi si trovano soltanto erbacce e rovi. Queste tombe non esistono" sostiene Colorni, che in questi giorni ha svolto alcune ricerche nell'archivio amministrativo della Comunità mantovana. Tra le carte, è emerso tra gli altri un interessante documento (nella foto) che attesta la cessione del cimitero di S.Nicolò da parte della Commissione Israelitica all'erario militare austriaco (scrittura del 3 agosto 1857 a rogito del notaio Quintavalle). In un altro documento del 1873 si attesta invece la proprietà del terreno "al Regio erario civile".
"La mia speranza, ma è anche una solida certezza, è che il sindaco non dia ascolto alle richieste assurde che gli sono state rivolte e vada avanti con i suoi progetti. Con queste persone - conclude Colorni - la Comunità ebraica mantovana non ha niente da spartire".

(moked, 7 dicembre 2016)


Roma - Un bosco in Israele per Alisa, la raccolta fondi nel quartiere ebraico

La sottoscrizione per ricordare la ragazza di 18 anni morta venerdì in un incidente stradale

di Gabriele Isman

ROMA - Una raccolta fondi per intitolare un bosco in Israele ad Alisa Coen, la ragazza di 18 anni morta venerdì scorso in un incidente nella zona di Porta Portese. L'idea è della sezione italiana del Keren Kayemeth LeIsrael, che, dal 1901 (è la più antica organizzazione ambientalista al mondo) si occupa di sviluppare e tutelare il patrimonio ecologico e paesaggistico. Nel quartiere ebraico e non solo si è aperta una vera gara di solidarietà: nei bar, nei locali, nelle pasticcerie sono spuntati salvadanai e bussolotti per raccogliere i fondi e ricordare così una ragazza - "molto solare" come dice chi l'ha conosciuta bene - che era cara alla comunità ebraica romana.
   "La sottoscrizione è partita in maniera spontanea dai ragazzi che la conoscevano e che lei aveva frequentato anche all'ultimo congresso dell'Unione giovani ebrei italiani. Il Kkl Italia ha un parco in Israele e la raccolta permetterà di realizzare una targa che ricordi Alisa anche con una porzione di bosco" dice Daniele Regard, 30 anni, uno dei promotori della sottoscrizione. Nella vicenda entra in gioco anche il cognome di Alisa: i Coen, sacerdoti della religione ebraica, secondo i dettami tradizionali non potrebbero andare nei cimiteri e quindi intitolare un bosco ad Alisa avrebbe un valore anche per i suoi familiari.
   "Ci eravamo incontrati dieci giorni prima dell'incidente, a Bologna al congresso dell'Ucei" racconta Benedetto Sacerdoti, 27 anni, appena eletto negli organi direttivi dell'Unione.
   "Alisa era davvero solare, attiva, propositiva: proviene dai movimenti giovanili ebraici nell'età del liceo. La sua scomparsa prematura ci ha molto colpito: aver cenato e ballato con lei la settimana prima oggi sembra quasi una fortuna. Mi ha permesso di conoscere una persona speciale. Ma rimane un profondo senso di vuoto, quasi di dubbio e arrabbiatura: Alisa ci è stata strappata via a 18 anni quando aveva una vita davanti".

(la Repubblica - Roma, 7 dicembre 2016)


Merav Rotem Naaman: «Vi racconto come ha fatto Israele a diventare una startup nation»

Il Paese, la cultura, le responsabilità militari, i primi venture capital: una delle figure di spicco dell'ecosistema dell'innovazione di Tel Aviv spiega perché Israele è diventata una startup nation.

di Francesco Riccardi

 
Merav Rotem Naaman 
«Essere un migrante significa essere un imprenditore». E l'imprenditoria ha bisogno di studio, ostinazione, networking. Nel caso di Israele, una parte di primo piano la fanno anche la formazione militare e i finanziamenti pubblici. Abbiamo chiesto a Merav Rotem Naaman, figura di spicco dell'ecosistema dell'innovazione di Tel Aviv, di spiegarci le caratteristiche che fanno dello Stato ebraico una startup nation. Naaman, specializzata nel trovare nuove startup e grande sostenitrice dell'imprenditoria giovanile, è a capo di Nautilus, la società d'investimenti e scouting del fondo vc Aol, e di Verizon Ventures Israel.

- Come ha fatto Israele a diventare una startup nation?
  «Siamo un piccolo Paese, con poco più di 8 milioni di persone. Praticamente un'isola, sempre in stato di guerra. Non abbiamo risorse naturali, il 60% del territorio è deserto. Ciò che abbiamo, invece, è una lunga storia di fiducia nell'istruzione. Penso che ci fosse già all'epoca della fondazione dello Stato, quando si trattava di tirare fuori qualcosa dal nulla. Essere migrante significa essere un imprenditore, perché devi ri-costruire la tua vita. E gli ebrei sono sempre stati cacciati da un paese all'altro. I miei nonni sono fuggiti dall'Olocausto. Non avevano capitali, non avevano nulla. E non erano diversi dalla maggior parte della gente di qui all'epoca: tanti migranti, e tanti imprenditori. È qualcosa che si è infiltrato nella nostra cultura».

- La cultura come strategia di sopravvivenza, quindi.
  «Non solo. Un'altra caratteristica nel nostro modo di vivere è l'essere un po'… rudi. È ciò che si dice essere hutzpah [termine ebraico usato anche dagli americani, con grafia chutzpah, ndr]. È qualcosa tra l'essere audaci e … beh, ogni tanto passiamo la linea e diventiamo soltanto scortesi (ride). L'idea è che se vuoi qualcosa te la vai a prendere. E dire sempre ciò che si pensa, anche quando non sarebbe il momento giusto, senza vergogna di mettere in discussione l'autorità. Perfino nell'esercito, siamo incoraggiati a mettere in discussione l'autorità. I soldati possono chiamare i comandanti con il loro nome, e contestare quello che dice lo stato maggiore. E va bene così - sono spronati a farlo. Anche questo ci ha ispirato a essere imprenditori, a osare per realizzare».

- L'esercito ha avuto anche un ruolo nello sviluppo tecnologico, come negli Stati Uniti?
  «Sì. Prima di tutto, dall'esercito viene fuori tecnologia, ad esempio dalla famosa unità tecnologica 8200 - intelligence technology. Un sacco di gente che ha poi fondato imprese tecnologiche di successo in Israele viene da lì. Pensate a Checkpoint, l'azienda che si è imposta con il firewall. L'hanno sviluppato nell'esercito e poi ci hanno fatto un'azienda. Ma molti che ora stanno sviluppando aziende di cybersecurity, computer vision, intelligenza artificiale, deep learning, machine learning, sono partiti da lì, con le cose che hanno imparato là… è una delle migliori università tech del mondo! Mentre servono nell'unità vengono addestrati e hanno una vera esperienza, quindi escono da lì formati, in un certo senso».

- C'è anche un risvolto sociale?
  «L'esercito gioca un enorme ruolo nell'ambiente sociale in Israele: il servizio militare è obbligatorio per uomini e donne. Ed è anche un modo per colmare il gap economico. Chi è nato in un'area povera del Paese può svolgere il servizio accanto a chi viene da una famiglia ricca. Lì sono uguali. E si crea un network. Ne hai bisogno - basta pensare alla Silicon Valley. E nell'esercito puoi farlo, con agganci che non potresti avere normalmente. E soprattutto, hai questi ragazzi di 18 anni a cui vengono date responsabilità fortissime: questo crea fiducia in se stessi, pensi di poter fare tutto».

- E poi si passa dalle responsabilità militari a quelle imprenditoriali.
  «C'è la mentalità "get stuff done". Dobbiamo portare a termine il lavoro. Non importa come, basta che concludi. Poi certo ci vuole denaro e l'abilità di fare exit, perché senza il denaro non arriverà alle startup».

- Puoi darci qualche dato per capire le dimensioni della startup nation?
  «Oggi ci sono almeno 300 forme di cooperazione internazionale che hanno un r&d center in Israele. E interagiscono con le startup, investendo, comprando o entrambe le cose, fondando acceleratori, avendo uno startup program, o facendo un hackathon o una competizione. Nel 2015 abbiamo avuto 9 miliardi di dollari in exit, quasi 5 miliardi investiti in startup. Le startup sono in Israele 4800: un numero folle, per un paese di 8 milioni di abitanti! Poi ci vuole il mondo accademico: abbiamo alcune delle università più avanzate del mondo. E poi hai bisogno dei soldi. Che ora non sono un problema».

- Che ruolo ha giocato lo Stato in questa crescita?
  «Un grosso ruolo all'inizio. Negli anni Settanta il governo ha creato i primi venture capital. Hanno permesso a compagnie private di avere denaro pubblico e investirlo in startup: loro non sapevano come farlo. Investire in startup non è come investire in niente altro, se lo fai lo devi fare nel modo giusto, altrimenti uccidi l'azienda. Un'altra fase c'è stata negli anni '90, quando abbiamo avuto un milione di immigrati dall'Urss - erano un quarto della popolazione! È stata dura, per un piccolo Paese in stato di guerra. Ma il governo fece qualcosa di molto interessante. Ci si accorse che molti di loro avevano una istruzione tecnologica, così hanno costruito gli incubatori per togliere dalla strada molti ingegneri. Cominciò a costruirsi il grande potere ingegneristico che abbiamo in Israele. Concluso questo processo, gli incubatori hanno avuto un nuovo compito: attirare denaro da fuori».

- In che modo?
  «Si scelse una formula: investire per l'85% con denaro pubblico, lasciando il 15% a investitori e compagnie globali, che poi si prendono il 100% dell'equity. Il governo ha il suo denaro indietro solo se la startup ha successo. La royalty è 3 o 4 volte l'investimento iniziale. Il pubblico si prende gran parte del rischio, e questo ha incoraggiato gli investimenti stranieri. Poi ci sono i vari programmi favorevoli di tassazione per aprire r&d qui… insomma lo Stato ha fatto molto per attirare il denaro estero. E ora si è formato un ciclo: si investe in Israele perché c'è modo di fare una exit, e inoltre si crea una forza lavoro ben qualificata. Gli ingegneri che hanno iniziato in grande compagnie globali come Facebook, Intel, Microsoft, con processi top of the line, nutrono le startup dell'ecosistema».

- Le startup in Israele lavorano per i mercati esteri. Non c'è la tentazione, per gli startup, una volta diventate grandi, di andare fuori? Ad esempio trasferendosi in Silicon Valley.
  «Vuoi che tornino perché probabilmente fondano un'altra azienda, oppure investono, o fanno da mentors. Otto anni fa, per i 60 anni di Israele, fu lanciato un programma per chi tornava: 10 anni di esenzione sulle tasse sul reddito che avevano fuori Israele. Molti sono tornati così. Le tasse in Israele sono molto alte. Ma gli israeliani all'estero di solito vogliono stare solo qualche anno e poi tornare. Forse perché siamo una nazione giovane, e c'è l'ideale di costruire il proprio posto qui… Ah, e un'ultima cosa».

- Prego.
  «Il fallimento significa esperienza in Israele. Fallire è una gran cosa. Se hai fallito, voglio investire in te. Esagero un poco, ma in generale, fallimento è visto come esperienza e non come una scommessa persa. Se hai corso un rischio vuol dire che ne hai la propensione. Hai probabilmente imparato qualcosa dai tuoi errori e potrai essere un buon imprenditore».

(StartupItalia!, 7 dicembre 2016)


Rita, nascosta in via Cavour

A 30 anni dal Nobel alla Levi-Montalcini il racconto dei suoi giorni in fuga dai nazisti. Le lettere alla famiglia fiorentina che ospitò lei, la sorella e la mamma. E una dedica ritrovata. "Non dimenticheremo mai con quanta gentilezza e ospitalità ci avete accolto".

di Adam Smulevich

Rita Levi-Montalcini
FIRENZE - Ufficialmente erano delle sfollate, cattoliche pugliesi, dirette verso il Meridione. In realtà la loro origine era assai più problematica. E la signora Consilia l'aveva capito subito. Bastava guardarle, bastava sentirle parlare per rendersi conto che qualcosa non tornava.
  Decise comunque di correre il rischio. Un rischio davvero grande, in quei tempi. Un rischio che da un momento all'altro poteva costare la vita a lei e ai suoi cari, complici in quello slancio di solidarietà. «Fino a quando le nubi non si diraderanno, fino a quando lo riterrete opportuno, potrete restare in questo appartamento» l'annuncio che fece alle tre donne braccate. Pur accennata in un capitolo di Elogio dell'imperfezione, la sua avvincente biografia pubblicata da Garzanti nel1g87, un anno dopo aver ottenuto il Nobel, la storia di salvezza fiorentina che vide protagonista Rita Levi-Montalcini, insieme a sua sorella Paola e alla madre Adele, non è molto conosciuta. «Colpa» anche della riservatezza dei discendenti di Consilia, che mai hanno voluto far sfoggio di questa vicenda. Vicenda che è però di stretta attualità nell'imminenza del trentesimo anniversario dal conferimento del Nobel per la Medicina (10 dicembre 1986) alla grande scienziata torinese. «E un argomento che stiamo affrontando da poco, in particolare da quando ho ritrovato alcune lettere che Rita scrisse alla nostra famiglia dopo la fine della guerra. Un ritrovamento emozionante, del tutto inaspettato», racconta Laura, una delle nipoti di Consilia. Rita, Paola e Adele alloggiarono per alcuni mesi in via Cavour, al civico 84, in una casa presa in affitto dalla famiglia Leoncini. Si era nel pieno delle persecuzioni antiebraiche, nella Firenze occupata dai tedeschi: i nazifascisti alla ricerca di nuove prede per alimentare la macchina annientatrice del Terzo Reich; i delatori sempre vigili, con l'obiettivo di procacciarsi cinquemila lire in cambio di una spiata. Tanto valeva la vita di un ebreo allora. Le tre donne erano fuggite da Torino con la speranza di trovare la salvezza al Sud, in mano agli Alleati. Ma il viaggio era lungo e pieno di ostacoli. Firenze fu così una sosta quasi inevitabile. E l'appartamento di via Cavour in cui vennero accolte si rivelò un ancoraggio sicuro, anche se non definitivo. Per prudenza dovettero infatti cambiare varie volte alloggio e fare affidamento anche su altre persone.
  Ma la memoria di quei giorni in casa Leoncini, come provano le lettere, resterà sempre speciale. «Non dimenticheremo mai quei mesi passati insieme di tanta trepidazione, né potremo certo dimenticare con quanta ospitalità e gentilezza ci hanno accolto mentre fuori infuriava la grande bufera» scrive Rita nel gennaio del 1947, in un carteggio con la famiglia di Laura. La carriera della scienziata è a un punto di svolta. Pochi giorni e partirà alla volta di St. Louis, in Missouri. Pensa agli Stati Uniti come a una tappa di passaggio e invece la sua, come noto, diventerà una permanenza lunghissima. Trent'anni in tutto. In America troverà gratificazioni professionali e fama internazionale, obiettivi forse irraggiungibili in patria. Ma ancora ovviamente non può saperlo. «Paola dipinge molto e ha grande successo. Io - scrive di sé Rita - sono sempre in laboratorio, circondata da una bella famiglioula di embrioni di pollo che crescono sani e prosperosi malgrado i miei interventi chirurgici molto demolitivi». Evocando le giornate trascorse in via Cavour, la Montalcini spiega che mamma Adele ricorda «con molta nostalgia» la sua stanza fiorentina. È questo perché, nonostante le molte minacce esterne, nonostante la condizione di clandestinità, «allora si viveva tutti insieme, e non capitava come adesso che io mi assenti per tutta la giornata, anche troppo assorbita dal mio lavoro». Aggiunge inoltre Rita: «Credo che se potesse vorrebbe ritornare a quei tempi e baratterebbe volontieri la grande stufa sempre affamata di legna con lo scaldino a carbone preparato con tanta cura dall'ottimo Ferruccio (il padre di Consilia). E io ripenso molto sovente alla terrazza fiorita dove ho passato tante ore serene in contemplazione, sdraiata al sole come una lucertola».
  L'ultima sorpresa Laura l'ha avuta qualche giorno fa, mettendo ordine nella stanza del figlio Nicola. In un mucchio di libri, in quella posizione chissà da quanto, è spuntata una copia dell'autobiografia. La cercava da tempo senza fortuna, tanto che aveva quasi rinunciato. All'interno del volume c'è una dedica firmata a mano da Rita, che in poche ma emozionanti righe si rivolge a Cosetta (la figlia di Consilia) con «affetto» e «gratitudine». Le strade della vita e della professione pochi mesi prima l'hanno portata al riconoscimento più alto. Sono quindi giorni di grande impegno, di grande testimonianza in Italia e nel mondo. Ma è anche l'occasione per dire ancora grazie a chi c'è stato davvero, nel momento più duro.

(Corriere Fiorentino, 7 dicembre 2016)


Torna il vizio antico di chi perde. Attaccare quegli elettori «inferiori»

Destra o sinistra, non importa. Torna l'argomento antropologico. Per decifrare i fenomeni elettorali e ribadire l'inferiorità di chi vota in una direzione che non piace.

di Pierluigi Battista

E' tornato. Dopo qualche anno di oblio è tornato il formidabile argomento antropologico come chiave per decifrare i fenomeni elettorali e soprattutto per ribadire l'inferiorità appunto antropologica di chi vota in una direzione che non ti aggrada.
  Luisa Puppato, una neo-pasdaran del Sì un tempo molto di sinistra nel Pd ma che per la sua conversione filo-renziana ha dovuto addirittura subire l'anatema e poi l'espulsione dell'Anpi, nota che il Sì vince all'estero: testimonianza che la «fuga dei cervelli», l'espressione è sua, c'è stata veramente e dunque che i più intelligenti, e non i buzzurri, gli incolti, i rozzi, hanno capito le ragioni della riforma costituzionale clamorosamente bocciata nelle urne.
  Poi c'è il pasticcio geo-antropologico di Chicco Testa che su Twitter si è, per così dire, espresso male: «Il Sì fa il risultato migliore a Milano, Bologna e Firenze e il peggiore a Napoli, Bari, Cagliari. C'è altro da aggiungere?». C'è da aggiungere che Chicco Testa è stato interpretato molto malignamente e travolto da un'ondata di insulti dove «razzista» era uno dei più benevoli. Lui poi si è spiegato, ha detto che non aveva niente contro i meridionali ma voleva suggerire l'idea che il No avesse vinto nei capoluoghi dove massimo è il voto di scambio. Precisazione anche questa problematica, perché qualcuno ha fatto notare che due città su tre, Bari e Cagliari, sono rette da giunte di centrosinistra con sindaci che si sono apertamente schierati per il Sì. Ma insomma la frittata era stata fatta. Solo che la frittata aveva messo in moto una replica di tipo altrettanto socio-antropologico perché un interlocutore ha chiesto: «A Capalbio chi ha vinto?».
  Ecco il contro-argomento antropologico: se il popolaccio vota i populisti, allora, per ritorsione polemica, l'establishment, i privilegiati, gli snob, i radical-chic votano per la minoranza che si considera la serie A. E dunque Capalbio, ovvio, secondo lo stereotipo più vieto la capitale dello chicchismo benpensante, benestante, aperto (tranne con le quote di profughi), illuminato, progressista. E dunque anche sarcasmi «in Rete» (si dice così) per il fatto che le uniche zone di Roma dove è prevalso il Sì, molto di misura peraltro, siano il centro storico, quello delle terrazze e degli ambienti cool e soprattutto i Parioli, antropologicamente un tempo territorio della destra e dei «fasci» e da un po' di anni a questa parte tempio dei benestanti benpensanti che votano la sinistra blasonata. Ed ecco l'immediata e velenosa risposta antropologica a chi ha fatto notare che il Sì a Renzi ha la maggioranza nelle zone più avvantaggiate di Milano (mentre l'hinterland ha premiato il No «straccione»): «Consolatevi con un sano happy hour». Ecco non più sezioni, ma apericena: la mutazione antropologica della sinistra bene è tutta in questa dicotomia.
  Per la verità l'argomento antropologico ha vissuto il suo momento di gloria attorno al '94, quando la sinistra «chic» rimase traumatizzata dal massiccio voto popolare a favore della Lega ma soprattutto a favore di Berlusconi, il venditore, il tycoon, la maschera che incarnava l'antitesi antropologica del mondo delle buone letture, come quello di Umberto Eco, che diceva di leggere Kant mentre i suoi connazionali guardavano la tv. Ed è singolare e paradossale che il protagonista della scomunica antropologica nei confronti dell'elettorato credulone e populista che si era fatto abbindolare da Berlusconi rispondesse al nome di Gustavo Zagrebelsky, uno dei pesi massimi del No accusato a sua volta di essere espressione di una inferiorità antropologica. Zagrebelsky scrisse infatti un denso libro, Il «Crucifige» e la democrazia in cui si dimostrava che il popolo lasciato a se stesso («il paradigma della massa manovrabile», si espresse dottamente) non avrebbe fatto altro che scegliere Barabba e condannare Gesù. Da qui l'allarme verso quelle che chiamava «le concezioni trionfalistiche e acritiche del potere al popolo». Un'analisi molto più raffinata del rude argomento antropologico adoperato allora da Dario Fo verso l'elettorato leghista: «gente imbecille». E anche dell'invettiva contro la «porca Italia» che Umberto Saba scagliò contro il popolo che alle elezioni del '48 si era permesso di optare per lo Scudo crociato anziché per il Fronte popolare. Popolare, non «populista», perché allora il termine aveva tutto un altro significato. L'antropologia come arma per screditare chi vota all'opposto dei suoi desideri. Già sentita. Meglio l'happy hour.

(Corriere della Sera, 7 dicembre 2016)


La migrazione delle gru in Israele

Più di mezzo miliardo di uccelli di circa 400 specie diverse attraversano la Valle del Giordano per arrivare in Africa e tornare in Europa nel corso dell'anno.

GERUSALEMME - La Valle di Hula si trova nel nord di Israele ed è una delle tappe principali degli uccelli migratori, che in questo periodo si allontanano dalle regioni fredde dell'Europa e vanno a svernare in Africa. Per questo motivo è anche uno dei luoghi più importanti per il bird-watching.
Più di mezzo miliardo di uccelli di circa 400 specie diverse attraversano la Valle del Giordano per raggiungere l'Africa e tornare in Europa nel corso dell'anno.

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(Corriere del Ticino, 7 dicembre 2016)


La lettera di un ebreo dimenticato

di David Harris (*)

Sono un ebreo dimenticato. Le mie radici risalgono a quasi 2600 anni fa. I miei antenati hanno dato il loro fondamentale contributo alla civiltà mondiale, ed ero presente ovunque, dal Nord Africa alla Mesopotamia. Ma oggi, io praticamente non esisto più.
  Vedi, io sono un ebreo del mondo arabo. No, forse non è proprio quella la definizione giusta. Io ero già là, prima delle conquiste arabe, in ognuna di quelle terre. Per esempio, quando i conquistatori arabi invasero il nord Africa, io ero già lì da più di sei secoli. Oggi, in tutta quella grande regione, non c'è più traccia di me. Prova a cercarmi in Iraq. Ricordi l'esodo babilonese dall'antica terra di Giudea, che fece seguito alla distruzione del Primo Tempio, nel 586 a.C.? Ricordi la vivace comunità ebraica che viveva lì e produsse il primo Talmud babilonese? Sapevi che nel nono secolo, durante il dominio musulmano, noi ebrei in Iraq eravamo costretti a portare una pezza gialla sui vestiti per distinguerci - come sarebbe poi successo con l'infamante stella gialla che ci cucirono addosso i nazisti - ed eravamo sottoposti a misure discriminatorie? Sapevi che nell'undicesimo e nel quattordicesimo secolo eravamo soggetti a severe oppressioni e pagavamo tasse ingiuste mentre le nostre sinagoghe venivano distrutte? E mi domando, hai mai sentito parlare del Farhud, il collasso dell'ordine pubblico che accadde a Baghdad nel giugno del 1941? George Gruen, specialista dell'Ajc, scriveva così: "In un'esplosione di violenza impazzita, sono stati uccisi tra i 170 e i 180 ebrei, ne sono stati feriti 900, e 14.500 di loro hanno perso tutti loro averi a seguito dei saccheggi e della distruzione dei loro negozi e delle loro case. Anche se alla fine il governo ha ristabilito la calma, gli ebrei sono stati cacciati dagli uffici pubblici, segregati nelle scuole, e hanno dovuto affrontare salatissime multe, il carcere, o il sequestro dei loro beni a seguito delle false accuse di far parte di uno di due movimenti messi fuori legge. Non solo, le leggi trattano il comunismo ed il sionismo come se fossero la stessa cosa. In Iraq, il solo fatto di ricevere una lettera proveniente da un ebreo della Palestina (pre-1948) è sufficiente per venire arrestati e veder sequestrati i propri beni". Al nostro apice nel 1948, si contavano 135mila di noi ebrei iracheni, ed eravamo parte vitale in ogni aspetto della vita del Paese. Per illustrare meglio il nostro ruolo, ecco cosa scrive l'Enciclopedia Giudaica a proposito degli ebrei dell'Iraq: "Durante il ventesimo secolo, intellettuali, autori e poeti ebrei diedero un importante contribuito alla lingua e alla letteratura araba attraverso la stesura di vari libri e numerosi saggi".
  Nel 1950, dinanzi a me e agli altri ebrei iracheni si prospettava la revoca della cittadinanza, il sequestro dei beni e, terribilmente, addirittura l'impiccagione nella pubblica piazza. L'anno precedente, il primo ministro iracheno Nuri al-Sa'id, aveva raccontato all'ambasciatore britannico ad Amman del progetto di espellere l'intera popolazione ebraica mandandola al confine con la Giordania. L'ambasciatore racconterà poi quest'episodio nelle sue memorie, "Dai Corridoi: Memorie di Amman, 1947-1951".
  Nel 1951, circa 100mila ebrei riuscirono miracolosamente a fuggire grazie all'aiuto straordinario di Israele; tutto quel che possedevamo erano i vestiti che indossavamo. Gli israeliani diedero il nome di Ezra e Nehemiah a queste operazioni di salvataggio. Chi tra noi rimase lì, ci rimase in uno stato di paura costante, paura delle violenze e delle pubbliche esecuzioni, come quelle che avvennero il 27 gennaio 1969, quando nove ebrei falsamente accusati furono impiccati in pieno centro a Baghdad sotto gli occhi di centinaia di migliaia di iracheni che tifavano all'impazzata per le esecuzioni. A quel punto chi era ancora rimasto riuscì in qualche modo a fuggire. Tra questi c'erano alcuni miei amici che trovarono rifugio in Iran quando era sotto il dominio dello Scià. Ora lì non esistono più ebrei. Non ci sono monumenti, musei, o altri segni della nostra presenza sul suolo iracheno, che è durata ventisei secoli. C'è forse un cenno della nostra presenza, del nostro contributo positivo all'evoluzione della società e della cultura irachena nei libri di testo delle scuole del Paese? Neanche uno. Duemilaseicento anni di Storia cancellati, spazzati via come se non fossero mai accaduti. Riesci a metterti nei miei panni e sentire il dolore straziante della perdita e dell'invisibilità?
  Io sono un ebreo dimenticato. Arrivai nella terra che ora si chiama Libia quando in Egitto regnava Tolomeo Lago (323-282 a.C.), come scrive Josephus, lo storico ebreo del primo secolo. I miei progenitori vissero in questa terra per oltre due millenni. Il nostro popolo cresceva grazie ai Berberi che si convertivano all'ebraismo, agli ebrei di Spagna e Portogallo che fuggivano dall'Inquisizione, agli ebrei italiani che attraversavano il mediterraneo. Dovetti affrontare la legislazione anti-ebraica che arrivò assieme alle forze di occupazione dell'Italia fascista. Nel 1942, fui internato assieme ad altri 2600 ebrei in un campo dell'Asse. Nello stesso anno, sopravvissi alla deportazione forzata in Italia di 200 ebrei, come me. Durante la guerra, fui costretto ai lavori forzati. Ho vissuto attraverso i moti musulmani del 1945 e del 1948, dove morirono quasi 150 ebrei libici, e dove centinaia furono feriti e migliaia persero la casa. Osservai con aria incerta quando, nel 1951, la Libia ottenne l'indipendenza. Mi domandai cosa sarebbe successo ai 6mila tra noi che erano ancora là, dei 39mila che formavano in origine una fiera comunità ebraica, fino a quando le rivolte li costrinsero a fare i bagagli e partire, scegliendo quale destinazione principale il neonato Stato di Israele. Di positivo c'era che la nuova Costituzione della nazione libica proteggeva i diritti delle minoranze. Di negativo, purtroppo, che queste protezioni furono completamente ignorate. Nei primi dieci anni dall'indipendenza mi fu tolto il diritto di voto; mi fu fatto divieto di assumere cariche pubbliche, di arruolarmi nell'esercito, di ottenere un passaporto, di acquistare immobili o terreni, di essere socio di maggioranza di una società, di partecipare nella gestione degli affari pubblici.
  Nel giugno del 1967 non avemmo più scelta. Chi di noi era rimasto, sperando contro ogni evidenza che in una terra a cui eravamo profondamente legati e che, a volte, era stata buona con noi, le cose potessero migliorare, non poté fare altro che fuggire. A seguito della "Guerra dei sei giorni", l'atmosfera per le strade era esplosiva. Diciotto ebrei furono uccisi, e le case ed i negozi degli ebrei furono rasi al suolo. Io dovetti fuggire assieme ad altri 4mila ebrei, portando con me una valigia fatta in fretta e i pochi spiccioli che avevo in tasca. Non mi fu mai concesso di ritornare. Nonostante le promesse del Governo, non mi fu mai restituito nulla di quello che avevo lasciato in Libia. Tutto mi fu rubato: le case, i mobili, il negozio, i beni della comunità, tutto. E come se non bastasse - non potei neanche visitare le tombe dei miei parenti. Quello fu un dolore particolarmente acuto. Mi raccontarono poi che quando nel 1969 il Colonnello Gheddafi prese il potere, i cimiteri ebraici furono distrutti, e le pietre tombali utilizzate per costruirci strade.
  Io sono un ebreo dimenticato. Le mie esperienze - belle e brutte - vivono nella mia memoria, e farò tutto quel che posso per trasmetterle ai miei figli e ai miei nipoti, ma quante potranno assorbirne veramente? Quanto riusciranno a identificarsi con una cultura che sembra solo un cimelio di un passato distante che appare sempre più remoto e intangibile? Certo, è stato scritto qualche libro e qualche articolo sulla mia storia, ma diciamo che non sono stati proprio dei best seller. E comunque, è mai possibile che questi libri possano competere con il tentativo sistematico da parte dei leader libici di rimuovere qualunque traccia della mia presenza negli ultimi duemila anni? Potranno mai questi libri competere con un mondo che è rimasto a guardare indifferente la fine stessa della mia esistenza? Dai un'occhiata all'indice del New York Times del 1967, e vedrai da solo in che modo i quotidiani dell'epoca raccontarono della tragica fine di un'antica comunità. Io l'ho fatto: ci troverai poche misere righe e nulla più.
  Io sono un ebreo dimenticato. Sono uno di centinaia di migliaia di ebrei che vivevano un tempo in nazioni come l'Iraq e la Libia. Eravamo quasi novecentomila nel 1948. Ora siamo rimasti in meno di 5mila, in prevalenza concentrati in due Paesi moderati, il Marocco e la Tunisia. Un tempo, le nostre comunità fiorivano in Aden, in Algeria, in Egitto, in Libano, in Siria, nello Yemen e altri Paesi, e le nostre radici erano antiche, di duemila anni e più. Ora siamo praticamente scomparsi. Perché nessuno parla di noi e della nostra storia? Perché il mondo si occupa incessantemente, ossessivamente, dei profughi palestinesi delle guerre in Medio Oriente del 1948 e del 1967 - guerre che, e questo non è un dettaglio, furono volute dai loro fratelli arabi - ignorando invece i profughi ebrei delle guerre del 1948 e del 1967? Perché il mondo crede che esista una sola popolazione di rifugiati del conflitto arabo-israeliano - o per essere più precisi: dal conflitto degli arabi contro Israele - quando, in realtà, le popolazioni di rifugiati sono due, e il numero dei nostri rifugiati è addirittura superiore a quello dei palestinesi? Ho passato molte notti insonni a tentare di capire il perché di questa ingiustizia. Dovrei prendermela con me stesso? Forse siamo stati noi, ebrei dei Paesi arabi, ad aver accettato il nostro destino in maniera troppo passiva. Forse abbiamo perso l'opportunità di raccontare la nostra storia. Guarda agli ebrei europei. Loro hanno scritto articoli, libri e poesie, hanno fatto cinema, teatro e pittura per raccontare la loro storia. Hanno descritto i periodi di gioia e i tempi delle tragedie, e l'hanno fatto in modi che hanno catturato l'immaginazione di molti non ebrei. Forse io sono stato troppo fatalista, troppo scioccato, troppo incerto dei miei talenti artistici o letterari. Ma non può essere quello l'unico motivo per cui mi ritrovo ad essere un ebreo dimenticato. Non è vero che non ho provato a fare rumore, l'ho fatto. Ho organizzato incontri e petizioni, ho allestito mostre, ho fatto appelli alle Nazioni Unite, ho incontrato funzionari di praticamente tutti i governi dell'Occidente. Eppure, sembra che tutto questo sia servito a poco. Anzi, la verità è che non è servito praticamente a niente. Non so se conosci l'acronimo Mego - My eyes glazed over (avevano uno sguardo annoiato e accondiscendente che lasciava trasparire che non vedevano l'ora che finisse l'incontro, N.d.T.). Era spesso quella l'impressione che leggevo negli occhi dei giornalisti, dei diplomatici, dei funzionari di governo mentre gli raccontavo degli ebrei delle terre arabe. Anche se potrei sempre fare di più in nome della Storia e della giustizia, non credo di dovermela prendere con me stesso. C'è una spiegazione fondamentale, molto più importante. Noi ebrei del mondo arabo, dopo la nostra fuga dall'intimidazione, dalla violenza e dalla discriminazione, abbiamo raccolto i pezzi delle nostre vite infrante e siamo andati avanti. La maggior parte di noi è andata in Israele, dove siamo stati accolti. I primi anni dopo il nostro arrivo non sono stati facili - abbiamo cominciato dal nulla e ci siamo dovuti fare da soli. Ognuno di noi aveva il suo personale livello di educazione, e invariabilmente, non possedeva quasi nulla in termini di beni materiali. Ma avevamo un qualcosa che ci sosteneva nel difficile processo di adattamento e di cambiamento culturale: il nostro incalcolabile orgoglio di ebrei, la nostra fede profonda, i nostri amati usi e i nostri rabbini, la nostra determinazione per il benessere e la sopravvivenza di Israele. Circa un quarto o un terzo di noi scelse invece di approdare verso altre sponde. Gli ebrei dei Paesi arabi francofoni andarono in Francia, oppure in Québec. Gli ebrei della Libia formarono le loro comunità a Roma e a Milano. Gli ebrei egiziani e libanesi si sparsero tra l'Europa e il Nord America, e alcuni scelsero il Brasile. Gli ebrei siriani immigrarono negli Stati Uniti, principalmente a New York, mentre altri ancora andarono a Città del Messico e a Panama. In ogni posto dove ci siamo stabiliti ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo ricreato nuove vite. Abbiamo imparato la lingua locale se non la conoscevamo già, abbiamo trovato lavoro, abbiamo mandato i nostri figli a scuola e, appena possibile, abbiamo ricreato le nostre congregazioni, per preservare i riti e i rituali che contraddistinguono la nostra tradizione.
  Non sottovaluterei mai le difficoltà di coloro che, a causa dell'età, della salute o della povertà, non ce l'hanno fatta; ma in generale, abbiamo fatto passi da gigante, sia in Israele che negli altri Paesi. Sarò un ebreo dimenticato, ma la mia voce non rimarrà in silenzio. Non posso farlo, e se dovesse mai accadere, diventerei complice del revisionismo e del negazionismo storico. Ho scelto di parlare, perché non lascerò che il conflitto degli arabi con Israele venga definito, ingiustamente, attraverso una sola popolazione di profughi, quella palestinese. Ho scelto di parlare, perché quello che è accaduto a me sta accadendo oggi, con inquietanti similitudini, ai cristiani, altra minoranza nella regione, e ancora una volta vedo che il mondo sceglie di voltarsi dall'altra parte, come se rifiutarsi di affrontare la realtà sia mai servito a qualcosa. Ho scelto di parlare, perché mi rifiuto di essere un ebreo dimenticato.
(*) Direttore esecutivo dell'American Jewish Committee

(L'Opinione, 6 dicembre 2016)


Israele, in cielo appare una "misteriosa" nuvola

Una misteriosa ed enorme nuvola è stata osservata in Israele: si tratterebbe di una strana tempesta di polvere e pioggia al confine con la Siria, nello stesso luogo dove c'è stato uno scontro con l'Isis. Le immagini sono state viste da milioni di utenti e sono in molti che hanno commentato scrivendo di un "segno divino" a difesa del popolo di Israele.

(Youmedia, 6 dicembre 2016)


"Lumi di Chanukkah tra storia, arte e design" alla Triennale - Gli artisti

CASALE-MILANO — E' una collezione unica, per l'arte e per l'importante significato che riveste: sono le lampade di Channukà realizzati dai più grandi artisti internazionali per la Comunità Ebraica di Casale Monferrato. Una selezione di 40 opere da questa raccolta di oltre 180 pezzi abitualmente collocata sotto la sinagoga monferrina, sarà eccezionalmente esposte alla Triennale di Milano a dal 13 dicembre all'8 gennaio
L'inaugurazione della mostra dal titolo "Lumi di Chanukkah tra storia, arte e design" alle ore 19 di martedì 13 dicembre vedrà la partecipazione delle più importanti autorità cittadine, a partire dal sindaco di Milano Beppe Sala, dei rappresentanti delle Comunità Ebraiche, ma anche i rappresentanti della curia e della comunità islamica, perché le Channukià sono negli anni diventate un simbolo di unione e di pace nel nome di una luce destinata a rischiarare il mondo. Persino la data di inaugurazione è significativa: per i cattolici è Santa Lucia, un giorno celebrato proprio attraverso la luce.

 La storia da un antico miracolo al Museo dei lumi
  La storia del museo dei lumi è singolare. Tutto nasce dalla celebrazione della Channukà, la festa ebraica che ricorda la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme nell'anno 165 a.e.v. dopo la sconfitta del re greco-siriano, Antioco. In questa occasione era prevista la riaccensione del candelabro del tempio - la luce che indica la vita e la vitalità del pensiero ebraico - che secondo il rituale deve essere sempre alimentata con olio d'oliva puro, Kasher. Nonostante l'olio fosse esaurito, miracolosamente ogni giorno per otto giorni si autogenerò la quantità necessario per alimentare costantemente il candelabro. Per ricordare questo miracolo la festa di Channukà che dura 8 giorni prevede che in ogni giorno si accenda una lampada di un candelabro detto Channukkia a otto braccia più una lo shamash che serve ad accendere le altre. La collezione nasce nell'autunno del 1994, in occasione delle celebrazioni per i quattrocento anni della Sinagoga di Casale, dall'incontro di esperti e appassionati, tra cui Elio Carmi designer e vicepresidente della Comunità casalese, gli artisti Antonio Recalcati, Aldo Mondino e il critico d'arte Paolo Levi. La comunità ebraica possedeva allora alcune lampade di Channukah in argento realizzate da Elio Carmi e l'artista Emanuele Luzzati stava creando un'opera simile in ceramica da regalare alla Comunità. Nacque così l'idea di promuovere una collezione di Channukiot (plurale di Channukià) prodotte da artisti non necessariamente ebrei, ma anche cattolici, evangelici, protestanti, mussulmani. La partecipazione all'iniziativa da parte di molti maestri anche di fama internazionale è stata subito entusiasta nello spirito di questa festa di libertà.
Il Museo dei Lumi di Casale Monferrato è così in continua crescita: ogni anno si aggiungono alla collezione nuove lampade. Una raccolta che ha attirato l'attenzione internazionale: selezioni delle opere sono state esposte a Parigi, Girona, Amsterdam, Mantova. Ora per la prima volta arriveranno a Milano.

(Il Monferrato, 6 dicembre 2016)


Mantova - Città capitale della cabala. Seppelliti qui i grandi maestri

Nell'antico cimitero ebraico di Mantova è seppellito Azariah da Fano (Fano, 1548 - Mantova, 1620) considerato fra i più eminenti cabalisti d'Italia. Ma la lista dei nomi autorevoli dell'ebraismo seppelliti al Gradaro è lunga. Rabbì Moshè Zacuto (Amsterdam 1625 - Mantova 1697) è forse il più importante cabalista italiano. Rabbì Aviad Basilea fu talmudista, cabalista, filosofo e scienziato. Nacque a Mantova nel 1680, e qui fu allievo di Rabbì Yehudà Briel. A 44 anni si dedicò allo studio della cabala lurianica e compose il libro "Emunàt Chakhamìm", pubblicato a Mantova nel 1730.
Rabbì David Finzi, mantovano degli inizi del 18o secolo, fu allievo di Rabbì Yehudà Briel nell'ambito biblico, talmudico e normativo, e di Rabbì Moshè Zacuto per la mistica. Fu suocero di Rabbì Moshè Chayìm Luzzatto.
Rabbì Yehudà Briel (1643 - 1722) fu rabbino a Mantova, dove succedette a Rav Moshè Zacuto. Fu una delle personalità più importanti della sua epoca. Parte dei suoi responsi fu pubblicata nelle opere di altri rabbini italiani.

(Il Monferrato, 6 dicembre 2016)

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La visita dei rabbini dagli Stati Uniti e da Israele

 
Rabbi David Niederman
 
I rabbini provenienti dagli Stati Uniti e da Israele

Il colloquio con la delegazione del comune di Mantova
MANTOVA - La sensazione, netta, è che la storia stia chiamando la città. E' una voce che arriva da un passato lontano, ma arriva chiara, ed è articolata in una sintassi di documenti, oggetti, edifici, spazi aperti.
Quando in tarda mattinata la delegazione di rabbini dagli Stati Uniti d'America e da Israele ha fatto il suo ingresso nella splendida sinagoga di via Govi, è come se il cerchio del tempo si fosse finalmente chiuso.
   Lo stupore, la gioia di vedere un'antica sinagoga ha acceso gli sguardi di questi rabbini che, pure, sono abituati a visitare i luoghi della memoria e della fede. Hanno guardato tutto con attenzione, hanno fatto domande ai rappresentanti della comunità mantovana che li accompagnavano (Aldo Norsa e Miriam Jarè), hanno fotografato tutto e si sono fatti fotografare.
   La tradizione è la tradizione, ma in certi casi nemmeno rabbini del calibro di David Niederman (rabbino capo di New York) o di Chizkiya Kalmanowitz (Comitato europeo per la protezione dei cimiteri ebraici), rinunciano a immortalare il momento. I rabbini americani, che sono venuti a Mantova insieme al rabbino, editore e ricercatore israeliano Rav Shmaya Levi, hanno raccolto libri e documentazione sulla sinagoga e, salutando, hanno detto che torneranno presto.
   Sì, perché prima della visita alla sinagoga la delegazione di rabbini ha incontrato, in Provincia, il sindaco Mattia Palazzi con gli assessori Andrea Murari e Giovanni Buvoli ed il presidente Mauro Morselli. Oggetto della riunione, l'antico cimitero ebraico del Gradaro, aperto su concessione di Francesco Gonzaga nel 1442 e chiuso da Giuseppe II nel 1786. Sull'area del cimitero ci sono i progetti firmati dall'architetto Stefano Boeri che dovranno ridefinire tutto il comparto di Fiera Catena, progetti per i quali da Roma sono in arrivo diciotto milioni di euro.
   Nell'antico cimitero ebraico è seppellito Azariah da Fano (Fano, 1548 - Mantova, 1620) considerato fra i più eminenti cabalisti d'Italia
   Il punto di partenza dei rabbini, così come è stato anticipato nei giorni scorsi dalla Gazzetta, è semplice: «La terra fu pagata dagli ebrei, deve tornare agli ebrei». Il punto di partenza del sindaco è altrettanto netto: «I piani di Boeri sono stati finanziati per diciotto milioni, noi andiamo avanti». In mezzo c'è un confronto che potrà portare ad un compromesso soddisfacente per tutti e che verrà aperto con il nuovo anno.
   La prossima volta che i rabbini verranno a Mantova, infatti, incontreranno sia il Comune che Boeri, per verificare le possibilità di mettere insieme la riqualificazione urbanistica e la storia dell'area di San Nicolò. La sensazione è che una strada si possa trovare, con l'impegno di tutti. «La storia va rispettata - è il commento di Rabbì David Niederman - e il comitato lavora in tutta Europa per preservare e riportare alla luce i cimiteri ebraici. Il cimitero di Mantova, poi, è importantissimo per tutta la comunità perché qui sono seppelliti i più grandi maestri della cabala. E' un gioiello. Per la città sarebbe importantissimo che il cimitero fosse recuperato: sia per ragioni storiche, sia perché Mantova diventerebbe la meta per migliaia di ebrei provenienti da tutto il mondo. Un museo della memoria, poi, servirebbe a far tornare disponibile l'immenso patrimonio documentale che riguarda la comunità mantovana». Mantova capitale italiana della cabala: suona decisamente bene, e attiverebbe nuove opportunità di studio per ricercatori di tutto il mondo.
   Come la Gazzetta aveva spiegato, l'editore Rav Shmaya Levi aveva trovato a Budapest, che è un po' il punto di riferimento per la documentazione sulle comunità ebraiche europee, la mappa delle sepolture del cimitero ebraico del Gradaro. Seppelliti a Mantova ci sono i maestri della cultura ebraica europea. «Ci siamo spiegati - è il commento del sindaco Mattia Palazzi - e le cose sono molto chiare. Ci incontreremo con Stefano Boeri per avviare un'eventuale collaborazione con il comitato, a patto che si parli anche degli eventuali ulteriori investimenti finanziari da affrontare».

(Gazzetta di Mantova, 6 dicembre 2016)


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Il cimitero ebraico di Mantova

L'incontro di oggi [5 dicembre] fra il sindaco Mattia Palazzi e il comitato di ebrei ortodossi venuti da Israele e dagli Stati Uniti d'America con l'obiettivo di ottenere l'area dell'antico cimitero ebraico del Gradaro.


Le parole del sindaco di Mantova
 
Le parole del rabbino capo di New York

(Fonte: Gazzetta di Mantova, 5 dicembre 2016)


Netanyahu: non vedo l'ora di discutere con Trump dell'accordo sul nucleare

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che il paese vuole continuare a impedire all'Iran di acquisire armi nucleari. Rivolgendosi ai partecipanti del Saban Forum a Washington, in collegamento via satellite, il premier israeliano ha ribadito la propria convinzione secondo cui dallo scorso anno, dopo la firma dell'accordo sul nucleare con le maggiori potenze mondiali, l'Iran è divenuto un attore regionale ancora più aggressivo, e ha sottolineato di voler discutere la questione con il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump. Il primo ministro israeliano si aspetta che in futuro gli Usa continuino a giocare un ruolo di primo piano in Medio Oriente. Sulla questione palestinese, Netanyahu ha detto di credere ancora a una soluzione a due Stati, ad una condizione:: "I palestinesi devono riconoscere Israele come uno Stato-nazione". Netanyahu ha poi suggerito che un accordo di pace potrebbe essere raggiunto attraverso un'intesa regionale.

(Agenzia Nova, 5 dicembre 2016)


Asse Italia-Israele, nasce a Treviso il primo polo di cybersecurity 4.0

L'accordo tra L'italiana Yarix e il governo israeliano farà sorgere in Italia un centro di sicurezza IT di nuova generazione: un concentrato di eccellenza tecnologica per proteggere fabbriche connesse e infrastrutture strategiche minacciate dal Lato oscuro dell'loT.

di Andrea Frollà

Nascerà a Montebelluna il primo Security Operation (enter 4.0. L'accordo fra Yarix, azienda di Var Group specializzata in cybersecurity, e il governo israeliano farà sorgere nel comune trevigiano un centro in grado di monitorare, rilevare e rispondere agli attacchi informatici di nuova generazione, ossia quelli che transitano per i dispositivi loT e i sistemi informatici Scada (Supervisory Control And Data Acquisition), sempre più usati per il controllo dei sistemi fisici di produzione nelle fabbriche e nelle infrastrutture strategiche.
Sarà una task farce internazionale a gettare Le basi di quello che si propone di essere un centro globale all'avanguardia nella sicurezza informatica Legata alle nuove frontiere hi-tech. IL progetto ha visto La Luce durante La quarta edizione della lsrael Hls&Cyber Conference, appena conclusa a Tel Aviv, cui Yarix ha partecipato. "Israele rappresenta, ad oggi, La punta di diamante delle competenze e delle tecnologie in tema di cybersecurity - commenta Mirko Gatto, ceo di Yarix -. Per questo motivo, siamo orgogliosi di aver posto Le basi, in occasione del viaggio a Tel Aviv, per La realizzazione in Italia del primo Security Operation Center 4.0 su scala globale".
   I due obiettivi della presenza della società italiana all'evento israeliano erano Lo scouting di tecnologie innovative da trasporre sul mercato italiano e L'avvio di partnership strategiche con soggetti governativi ed economici israeliani. Target che, guardando al progetto Soc 4.0, appaiono più che centrati. IL centro sarà il risultato dell'impegno congiunto degli esperti informatici di Yarix, di un gruppo di ricercatori in forze presso Le maggiori università italiane e delle aziende israeliane più innovative.
   "L'Italia, tra i Paesi Europei, è uno dei primi partner commerciali per Israele e La cybersecurity è senz'altro uno degli ambiti dove vediamo una crescita costante - sottolinea Natalie Gutman Chen, Minister, Head of the Economic and Trade Mission presso L'ambasciata israeliana a Milano -. È stato un piacere avere un'azienda come Yarix nella nostra delegazione all'evento ed il fatto che gli incontri organizzati a Tel Aviv serviranno da punto di partenza per nuove collaborazioni, ci rende ancora più soddisfatti del nostro Lavoro".
   Il progetto sarà sviluppato a partire dal Soc di Yarix, riconosciuto tra i più innovativi a livello nazionale e internazionale. Nel 2016 ha gestito 4 miliardi di eventi di sicurezza relativi ad attacchi ad infrastrutture di enti pubblici e governativi e di aziende private (sanità, Tlc, finanza, trasporti e altri settori).
   Il tema della sicurezza nel mondo loT è piuttosto caldo: La trasformazione digitale dei sistemi produttivi e di comunicazione presta il fianco alla criminalità informatica, che ne coglie gli aspetti di vulnerabilità. Secondo L'ultimo rapporto di Akamai, infatti, nel 2016 sono aumentati del 138% gli attacchi DDos (distributed denial of service) realizzati tramite reti loT compromesse e L'Italia, secondo L'analisi del motore di ricerca Shodan, che indicizza i dispositivi loT per tipologia, produttore e modello, consentendo di individuare possibili falle di sicurezza a chiunque, in un click e senza costi, figura all'8o posto tra Le nazioni più vulnerabili tramite i sistemi digitali di controllo industriale Scada.
   "Senza abbandonarsi ad inutili allarmismi, crediamo sia quanto mai necessario investire in innovazione e ricerca: La collaborazione con Israele sul Soc 4.0 va certamente in questa direzione - aggiunge il ceo di Yarix -. In parallelo, confidiamo nella diffusione di una nuova cultura della sicurezza, presente sin dalla progettazione dei dispositivi (security by design) e non adottata solo in seguito al manifestarsi dell'attacco".

(CorCom, 5 dicembre 2016)


Nuova tecnica israeliana per una rapida diagnosi del dolore durante l'allattamento

 
Il dermatoscopio è uno strumento tipicamente utilizzato dai dermatologi per visualizzare immagini ingrandite di lesioni cutanee per una più corretta diagnosi. Due ricercatori israeliani hanno scoperto che questo strumento è utile anche per diagnosticare rapidamente le cause del dolore durante l'allattamento.
In un articolo pubblicato sulla rivista di ricerca clinica Breastfeeding Medicine, due scienziati dell'Università Ben Gurion mostrano nel dettaglio come l'uso di un dermatoscopio possa diventare uno strumento importante per una rapida e precisa identificazione dei fattori responsabili del dolore al capezzolo, condizione spesso lamentata da numerose neo mamme.
Queste le parole del Dott. Sody Naimer:
È noto che il latte materno fornisce una nutrizione ottimale e protezione immunologica ai neonati. Tuttavia, molte donne sperimentano dolore al capezzolo, il quale è uno dei motivi più comuni che fanno rinunciare a questa importante fase nutrizionale del bambino.
Una valutazione rapida è fondamentale per una corretta diagnosi volta ad identificare la causa di questo dolore in modo che la neo mamma possa riprendere ad allattare in tutta tranquillità.
Il dermatoscopio, che ingrandisce ed illumina una zona della pelle per ottenere un'immagine ottimale per la diagnosi, è una tecnologia già esistente e facilmente adattabile. E, come sottolineato da Naimer e Silverman, richiede poca formazione ad un costo ragionevole.
Il dermatoscopio può aiutare a identificare le cause del dolore al capezzolo che vanno dall'infezione asintomatica da candida a lesioni estremamente dolorose.
I ricercatori sperano in una più ampia adozione di questo metodo, già disponibile, per l'osservazione di un'area che spesso crea disagio nelle donne, al fine di portare ad una corretta valutazione e cura del problema.

(SiliconWadi, 5 dicembre 2016)


Università di Perugia - Delegazione di Ingegneria in Israele

Nell'ambito degli accordi di collaborazione didattica e scientifica tra l'Ateneo e il Technion Israel Institute of Technology di Haifa, una delegazione del Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ambientale, formata dal Direttore Prof. A. Luigi Materazzi, dal Prof. Filippo Ubertini e dall'Ing. Ilaria e Venanzi, è stata invitata a presentare i risultati di alcune recenti attività di ricerca nell'ambito della protezione sismica delle costruzioni, presso la 34th Israeli Conference on Mechanical Engineering.
Il convegnoi si è tenuto al Technion nelle giornate del 22 e 23 novembre. Nelle foto si vede la bandiera Italiana esposta in segno di benvenuto alla delegazione perugina durante la cerimonia di apertura della Conferenza.

(Università degli Studi di Perugia, dicembre 2016)


Navi da guerra israeliane in costruzione in un cantiere navale di proprietà di Abu Dhabi

GERUSALEMME - Il ministero della Difesa d'Israele ha riferito che la costruzione di quattro corvette della Marina presso un cantiere di proprietà di una società di Abu Dhabi non pregiudica in alcun modo le informazioni classificate, perché tutti i sistemi di combattimento saranno installati e collaudati in Israele. "Il contratto per proteggere l'acquisto delle navi è stato firmato con una società tedesca, con il coinvolgimento diretto del governo tedesco, che finanzia un terzo del costo della transazione", ha riferito il ministero della Difesa alla "Jerusalem Post". "Prima della firma dei contratti, il direttore della sicurezza della Difesa ha effettuato controlli con i funzionari del governo tedesco per confermare che nessun materiale classificato impiegato nel progetto sia trasferito a un organismo non autorizzato". "È importante notare che il cantiere tedesco costruisce solo lo scafo delle navi, tutti i sistemi poi saranno installati in Israele", ha aggiunto. Il ministero ha risposto a un rapporto di "Yediot Aharonot" secondo cui il cantiere tedesco da dove provengono i nuovi vascelli è gestito dalla compagnia Abu Dhabi Mar ed è di proprietà di Iskandar Safa, uomo d'affari francese di origine libanese. Il gruppo di Safa, Privinvest, con sede a Beirut, detiene il 30 per cento del capitale dell'azienda Mar, mentre l'al Ain International Group di Abu Dhabi detiene il restante 70 per cento. Israele considera il Libano uno "Stato nemico" e non ha relazioni diplomatiche con il suo vicino. Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, ha invece legami diplomatici formali con Israele, ma ai titolari di passaporto israeliano è vietato l'ingresso nel paese. La costruzione delle quattro navi da guerra di classe "Saar-6", che sono arrivate in Israele nel 2020 per difendere le riserve di gas naturale off-shore, è stata concordata per 430 milioni di euro nell'ambito di un accordo tra Israele e la società tedesca ThyssenKrupp nel 2015. ThyssenKrupp avrebbe poi subappaltato il lavoro alla tedesca Naval Cantieri Kiel, che è stata poi venduta ad Abu Dhabi Mar nel 2011.

(Agenzia Nova, 5 dicembre 2016)


Russia-Israele, cresce un'amicizia

Miglioramento dei rapporti interstatali rafforzati dall'adesione russa alla lotta contro l'antisemitismo.

di Franco Soglian

Pochi altri rapporti tra Stati e tra popoli sono intrisi di storia, con tutte le sue vicissitudini e contraddizioni, come quelli tra Russia e Israele, tra russi ed ebrei. Oggi a Mosca si ricorda spesso e volentieri che nell'ormai lontano 1948 Iosif Stalin, nientemeno, diede un contributo forse non determinante ma certo considerevole alla vittoria nel neonato Stato ebraico sui suoi nemici arabi, fornendogli cannoni di grosso calibro di fabbricazione cecoslovacca. Era appena scoppiata la 'guerra fredda' tra l'Unione Sovietica e i suoi alleati nel conflitto con la Germania nazista e il 'padre dei popoli' (uno dei suoi appellativi correnti) aveva interesse ad appoggiare la causa sionista, ossia la rivendicazione dell'indipendenza ebraica nella 'terra promessa', contrastata innanzitutto dalla Gran Bretagna, potenza mandataria in Palestina.
  Meno si ricorda, sempre a Mosca, che pochi anni più tardi gli eredi di Stalin passarono armi e bagagli a sostenere la causa opposta, quella del nazionalismo arabo più militante deciso a ricacciare in mare gli intrusi. Lo fecero in nome di un impegno anticolonialista, applicabile anche in Palestina in quanto Israele, bollato da molti in Occidente come 'pedina avanzata dell'imperialismo', godeva della multiforme protezione soprattutto americana, avendo del resto perso per strada l'originaria vocazione socialista incarnata dai kibbutz.
  Si è invece festeggiato nei giorni scorsi, ancora a Mosca, il venticinquesimo anniversario del ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Israele, che erano state rotte dal Cremlino nel 1967, a coronamento della svolta appena menzionata, in seguito allo scatenamento della 'guerra dei sei giorni' con la quale Israele aveva inflitto una seconda sconfitta agli avversari arabi. Son dovuti trascorrere insomma quasi un quarto di secolo, le alterne vicende della guerra fredda e della distensione e infine la disintegrazione dell'URSS perché la nuova Russia postcomunista effettuasse, appunto nel 1991, un'ulteriore giravolta, ponendo lo Stato ebraico, divenuto nel frattempo persino una potenza nucleare sia pure piccola e non dichiarata, sullo stesso piano dei suoi altri interlocutori mediorientali.
  Inizialmente alquanto scontato, per un verso, l'affiatamento ritrovato tra i due Stati nel mutato contesto internazionale poteva diventarlo assai meno allorché la Russia, economicamente e istituzionalmente irrobustita, imboccò un indirizzo più assertivo in politica estera con conseguente rischio di collisione, poi effettivamente avvenuta, con l'Occidente. Al contrario, salito al potere dopo Boris El'zin, Vladimir Putin dimostrò subito di voler migliorare e intensificare ulteriormente i rapporti bilaterali in ogni campo, dagli scambi commerciali che aumentarono rapidamente alle consultazioni politiche che divennero frequenti anche ad alto livello.
  Già nel 2003 un 'falco' come il Premier Ariel Sharon poteva definire Putin 'un vero amico di Israele', anche se una visita del 'nuovo zar' in Terrasanta ebbe luogo solo nel giugno 2012, precedendo comunque di nove mesi la prima di Barack Obama, già da quattro anni alla Casa bianca. Un'amicizia sostenuta dalla comune lotta contro il terrorismo, per lo più di matrice islamica, e ricambiata o propiziata da Gerusalemme astenendosi (come pochi altri Governi) dal criticare la dura repressione russa in Cecenia e più tardi il comportamento di Mosca nella crisi ucraina.
  Un'amicizia, inoltre, che poteva essere compromessa o almeno turbata dall'intervento militare russo in Siria e che invece ha avuto modo di confermarsi grazie all'intesa per conciliare le rispettive esigenze e mosse su un terreno e in uno spazio aereo così pericolosamente affollati. E che ha resistito altresì ai legami di ogni genere tra la Russia e un nemico giurato di Israele quale l'Iran, a sua volta patrono di un'altra pecora nera per Gerusalemme come il libanese Hezbollah ugualmente impegnato in Siria. Tutte le forniture militari di Mosca a Teheran non hanno impedito ad Israele di vendere alla Russia una diecina di droni insieme ad altri beni di alta tecnologia, mentre non risulta alcuna consegna di armi israeliane all'Ucraina.
  A giudicare dagli esiti e dal clima che hanno caratterizzato lo scambio di visite tra i due premier, Benjamin Netanyahu nello scorso giugno a Mosca e Dmitrij Medvedev in novembre in Israele (in questo caso anche per festeggiare la ricorrenza della schiarita del 1991), la bonaccia non sembra destinata a svanire nei tempi brevi o anche più in là. Al contrario, i più recenti sviluppi hanno visto i due Governi accomunati persino da reazioni positive all'approdo di Donald Trump alla Casa bianca, salutato tra l'altro dal rabbino capo della capitale russa, Pinchas Goldschmidt, che presiede la Conferenza dei rabbini europei, come un evento promettente di miglioramenti nei rapporti non solo tra USA e Russia ma anche tra USA e Israele.
  Questi ultimi, in effetti, lasciavano a desiderare da non poco tempo a causa sia del malcontento americano per l'intransigenza di Netanyahu sulla questione palestinese sia della preoccupazione israeliana per la tendenziale riduzione degli impegni USA nel Medio Oriente come in altre aree del mondo. Preoccupazione che si è proficuamente incrociata, specie nei tempi più recenti, con l'impegno tanto militare quanto politico-diplomatico della Russia per rilanciare il proprio ruolo di grande potenza in una regione ad essa vicina non più schierandosi a fianco di una singola parte contro un'altra bensì piuttosto nella stessa veste di arbitro già indossata dagli USA, però con decrescente successo. Arbitro, tendenzialmente, anche tra sciiti e sunniti malgrado l'apparente sbilanciamento di Mosca a favore dei primi, per quanto meno smussare una spaccatura che nel frattempo, tuttavia, ha oggettivamente avvantaggiato Israele ridimensionando la centralità della questione palestinese.
  Pur sempre esposto a rischi ed insidie di vario genere, l'ulteriore avvicinamento tra Mosca e Gerusalemme può contare su una base divenuta ormai fisicamente solida: quel milione abbondante di cittadini israeliani di nazionalità russa, circa un quinto della popolazione totale. Trattandosi di ebrei per lo più emigrati dall'URSS negli anni '70 sotto la spinta di una pressione interna e internazionale sul regime sovietico, essi rappresentavano naturalmente un fattore divisivo supplementare tra i due Paesi prima del fatidico 1991. Poi si sono trasformati in un preminente fattore, appunto, di avvicinamento, anche se il parziale ricollegamento della Russia postcomunista al passato zarista non si presentava molto rassicurante al riguardo.
  L'antisemitismo, infatti, era ben radicato anche in quell'impero come in tutta l'Europa orientale, in particolare, terra di pogrom per eccellenza, benché forse più in Ucraina, ad esempio, che nella 'grande Russia', l'apporto della quale all'emigrazione ebraica verso Occidente, Stati Uniti compresi, era comunque più che rilevante già a quel tempo. Le discriminazioni e le vere e proprie persecuzioni che la provocavano contribuiscono d'altronde a spiegare il ruolo di primissimo piano svolto da ebrei russi nella rivoluzione bolscevica del 1917. Basti ricordare, fra tanti altri, il nome di Trozkij (Leon Davidovic Bronstein quello vero), fondatore e capo dell'Armata rossa vittoriosa nella susseguente guerra civile.
  Lo stesso Trozkij, tuttavia, si profilò ben presto come fautore di una 'rivoluzione permanente', conforme all'originaria vocazione internazionalista del movimento comunista, e quindi accanito contestatore, ma infine vittima tra tante altre, della svolta anche autoritaria, e repressiva a tutto campo, impressa da Stalin optando per il 'socialismo in un solo Paese'. Ne conseguì una caduta in disgrazia degli ebrei in generale, sottolineata dal tentativo di relegarli in una piccola 'repubblica autonoma' nella Siberia orientale, che si protrasse anche durante l'effimera simpatia staliniana per la nascita di Israele e poi, sia pure con minore asprezza e qualche rara eccezione, per tutta la restante vita dell'URSS.
  La loro riabilitazione anche domestica, che si accompagna all'amicizia con lo Stato ebraico e non solo simbolicamente la rafforza, è stata in certo qual modo coronata adesso da una Conferenza internazionale per la lotta contro l'antisemitismo svoltasi a Mosca all'inizio di novembre, con un'ampia e altamente rappresentativa partecipazione di organizzazioni e personalità ebraiche di ogni parte del mondo a cominciare dal Congresso ebraico mondiale. L'antisemitismo vi è stato condannato in tutte le sue forme vecchie e nuove compresa l'ostilità pregiudiziale nei confronti di Israele, e insieme del resto ad ogni altro tipo di xenofobia.
  Vi è stato altresì sottolineato che in Russia il fenomeno, per quanto ancora diffuso e di dimensioni stimate a più del doppio rispetto agli USA e all'Europa occidentale, risulterebbe (secondo un rapporto di un'organizzazione ebraica americana che fornisce questi dati) in sensibile decrescita e sceso comunque al di sotto del livello che si riscontra in altri Paesi ex sovietici o ex comunisti come le repubbliche baltiche e la Polonia. E' lecito domandarsi se la fine, insieme con l'URSS, dell'antisemitismo di Stato sarà sufficiente ad assicurare alla lunga la scomparsa anche di quello popolare più o meno spontaneo. Gli ebrei non mancano oggi neppure tra gli 'oligarchi' russi, tanto straricchi e potenti quanto impopolari, una impopolarità della quale, con la crisi economica, potrebbero fare le spese soprattutto gli ebrei poveri residui. Ma se lo Stato, sia pure probabilmente mosso anche da interessi finanziari a largo raggio, dà il buon esempio, qualche motivo di ottimismo dovrebbe sussistere.

(L'Indro, 5 dicembre 2016)


L'Intifada diplomatica e i silenzi dell'Italia

di Pierluigi Battista

Ora che abbiamo smesso di accapigliarci sull' Armageddon referendario, possiamo cominciare a ragionare sull'accondiscendenza dell'Italia di fronte all'Intifada diplomatica con cui i nemici di Israele stanno travolgendo le istituzioni internazionali? Meno di un mese fa lo scivolone «allucinante» (copyright Matteo Renzi) dell'Unesco, che ha dato prova di un antiebraismo forsennato negando l'ebraicità dei luoghi di Gerusalemme cari agli ebrei da sempre, con la sconcertante astensione dell'Italia. L'ultima di una delle tante risoluzioni Unesco con cui il fronte che nega lo stesso diritto all'esistenza dello Stato di Israele cerca di mettere all'angolo il nemico «sionista». Ora ci si mette, nel silenzio del mondo, l'Assemblea generale dell'Onu che reitera una mozione «per la quale ogni azione presa da Israele, il Potere occupante, volta a imporre le sue leggi, la sua giurisdizione e la sua amministrazione, sulla Città Santa di Gerusalemme, è illegale e dunque nulla e priva di validità». Israele «Potere occupante»: è l'Onu a dirlo, e l'Italia, ancora una volta, si è accodata senza reagire a una mozione sbilanciata, ingiusta, persecutoria nei confronti di uno Stato liquidato come un esercito di occupazione. La debolezza dell'Italia su questi temi è preoccupante. Le scelte del premier Renzi sono molto chiare, in linea di principio, e ribadite anche nel suo intervento alla Knesset, il Parlamento israeliano. Ma le giustificazioni molto pasticciate del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni sul voto «allucinante» di astensione dell'Italia alla famigerata mozione Unesco dimostrano una confusione di idee che non promette niente di buono. Forse non si vuole capire che l'Intifada diplomatica con cui si vuole cancellare il diritto di esistere della nazione ebraica (nell'ambito di una giusta politica incentrata su «due popoli, due Stati»), non è una somma di casi singoli, ma una strategia fondata sul presupposto che i regimi non democratici nemici di Israele sono maggioranza. Per questo i Paesi democratici, che hanno a cuore le sorti dello Stato di Israele, dovrebbero contrastare con forza la delegittimazione dello Stato ebraico ottenuto attraverso una raffica di mozioni dell'Onu. Non un'astensione disattenta. Non il silenzio imbarazzato per mantenere buoni rapporti con gli Stati arabi e islamici. Ma un'azione di contrasto esplicito. Per non trovarsi a dire «allucinante» solo a cose fatte. Quando non c'è più tempo.

(Corriere della Sera, 5 dicembre 2016)


"Haaretz": l'Italia potrebbe essere l'ultimo paese a dire sì al populismo

Il quotidiano israeliano "Haaretz" ha messo a confronto due manifestazioni avvenute in Italia alla vigilia del voto referendario: la prima, organizzata dal movimento populista dei Cinque Stelle contro le proposte di modifica della Costituzione; la seconda contro la violenza sulle donne. Secondo il quotidiano israeliano alla prima hanno partecipato solo poche migliaia di persone e, nonostante un accorato discorso del leader del Movimento, Beppe Grillo, la marcia non è stata particolarmente sentita. A pochi isolati di distanza, invece, il corteo in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne ha attratto un gran numero di partecipanti. L'approfondimento del giornale ricorda come non ci sia stato molto entusiasmo nel corso della campagna referendaria in vista del voto di ieri domenica 4 dicembre, e che i sondaggi di opinione indicavano che circa la metà degli elettori non ha apertamente mostrato la propria preferenza prima del voto. Gli economisti internazionali prevedono, inoltre, che le dimissioni del premier, Matteo Renzi, potrebbero innescare instabilità economica e comportare il fallimento di alcune delle principali banche del paese. Tra le conseguenze dirette, secondo l'analisi israeliana, anche una vittoria implicita dei partiti populisti e l'allontanamento dall'eurozona.

(Agenzia Nova, 5 dicembre 2016)


Riportare gli articoli di Haaretz come “analisi israeliana” mette in evidenza la preferenza che la stampa internazionale ha per questo giornale di sinistra screditato presso la maggior parte degli israeliani. M.C.


Ester Rada: pop-rock afro-ebraico da Israele al Teatro Manzoni di Milano

di Roberto Zadik

Per "Aperitivo in concerto", il prossimo 11 dicembre, la grande cantante si esibirà al Teatro Manzoni di Milano. Sarà possibile ascoltare live le canzoni del suo ultimo disco Life happens, successo internazionale, in inglese e amrica.

Ester Rada
 "Could it be"
MILANO - Ormai Israele, come tutto il mondo, sta diventando una società sempre più mista e variegata e gli ebrei provenienti dall'Etiopia e dall'Eritrea costituiscono un'etnia importante e numerosa all'interno del meltin' pot del cosmopolita Stato ebraico. Questa varietà di stili ed esperienze, anche artistiche, giunge a Milano per la rassegna "Aperitivo in concerto" al Teatro Manzoni. Il prossimo 11 dicembre, infatti, si esibirà la cantante israeliana di origini etiopi Ester Rada, dopo il trionfale concerto jazz del trombonista Avi Lebovich, che lo scorso 13 novembre si è esibito affiancato dal pianista Omer Klein e da una "task force" di 13 affiatati e straordinari musicisti, in uno scatenato live tenutosi davanti a un pubblico in adorazione.
Con la sua voce calda e sensuale e una presenza scenica vivace e coinvolgente, Ester Rada, che lo scorso 7 marzo ha compiuto 31 anni essendo nata nel 1985 a Kiryat Arba, in Israele, da genitori etiopi scappati dalla guerra nella lontana patria, è cresciuta in un ambiente famigliare molto osservante, parlando in casa la lingua amrica, dialetto etiope, mentre in Eritrea si parla il tigrino.
Da quando era bambina, a 11 anni, ha cominciato a cantare. Poi, dopo il divorzio dei genitori, nella sua scatenata adolescenza, assieme alla madre e al fratello, la cantante ha cominciato a esibirsi in piccoli concerti rap e funk a Nethanya. Acclamata da pubblico e critica per le sue indubbie doti canore, la bella cantante, influenzata dal Rn'B, dal soul, e dal jazz di grandi artisti etiopi come Mulatu Astatke, così come da storiche cantanti afroamericane, come Ella Fitgerald che cantava spesso in coppia con l'amico Louis Armstrong e Aretha Franklin, ha portato un genere nuovo nella musica israeliana.
Tradizionalmente, la maggioranza dei cantanti israeliani si è sempre esibita in ebraico e si dividevano fra "cantautori impegnati" alla Arik Einstein e David Broza o seguivano un genere pop o etnico, cantando le loro origini, ashkenazite e est-europee o sefardite o yemenite, nel genere "mizrahì" (orientale) reso popolare da artisti di origini yemenite come Noa, Eyal Golan o Ofra Haza.
Ebbene le cose stanno cambiando; ora, dopo il ribelle Assaf Avidan e il suo bellissimo album Gold Shadow, arriva un'altra artista israeliana che canta in inglese e intona un genere molto originale, all'americana, di musica R'nB e vivace.
Con canzoni suggestive come No more, la vivace Monsters e rifacimenti delle canzoni di Nina Simone come Feeling Good, ricantata anche dalla rockband inglese dei Muse, ma da lei in versione reggae, Ester Rada salirà sul palco del Teatro Manzoni pronta a stupire e a divertire il pubblico della manifestazione "Aperitivo in concerto" con la sua verve e i successi del suo album Life Happens.

(Mosaico, 5 dicembre 2016)


Obama prepara l'ultimo tranello a Israele

Tira una brutta aria per Israele dalle parti della Casa Bianca. Se da un lato gli Stati Uniti sono stati uno dei pochi a votare contro la recente vergognosa risoluzione anti-israeliana emessa dall'Assemblea Generale dell'Onu, dall'altro il Segretario di Stato uscente, Jhon Kerry, lancia messaggi inquietanti sulla possibilità che Obama non ponga il veto su una eventuale (e probabile) risoluzione palestinese al Consiglio di Sicurezza dell'Onu volta alla creazione unilaterale di una Stato di Palestina....

(Right Reporters, 5 dicembre 2016)



Antico cimitero ebraico. Oggi l'incontro in municipio

MANTOVA - Quest'oggi, in Comune, è in programma l'incontro fra il sindaco Mattia Palazzi e gli assessori Giovanni Buvoli e Andrea Murari con gli esponenti del comitato di ebrei ortodossi che sono venuti a Mantova da Israele e dagli Stati Uniti d'America con l'obiettivo di ottenere l'area dell'antico cimitero ebraico del Gradaro (aperto nel 1442 e chiuso nel 1 786).
«La terra è stata pagata dagli ebrei e deve tornare agli ebrei» è la tesi del rabbino, editore e ricercatore Rav Shmaya Levi, che del cimitero del Gradaro si è occupato per anni, recuperando a Budapest la mappa completa delle sepolture. A Mantova, ha accertato Rav Shmaya Levi, sono seppelliti molti grandi maestri della cultura ebraica. Per questo l'editore ha mobilitato un comitato di rabbini e ricercatori ebrei statunitensi specializzato nel salvataggio dei cimiteri ebraici. «Ne abbiamo recuperati molti - ha spiegato alla Gazzetta - anche nei Paesi socialisti». Il sindaco Palazzi, che non esclude a priori una forma di collaborazione, ha comunque anticipato che il piano di Boeri per l'area andrà avanti.

(Gazzetta del Mezzogiorno, 5 dicembre 2016)


Quell'ebraismo che rifiuta il sionismo

Secondo il rabbino chassidim Yisroel Dovid Weiss, prima del Messia non può esserci Israele

di Riccardo Bottazzo

 
Il rabbino chassidim Yisroel Dovid Weiss e il suo discepolo Yehoshua Rosenberger
La Terra Santa? "Appartiene esclusivamente al popolo Palestinese". Israele? "Uno stato illegittimo che non ha nessuna ragione di esistere". Ebraismo e sionismo? "Due concetti antitetici". Il chassidismo rifiuta il principio che sta alla base di questa ideologia: quello del diritto degli ebrei ad avere un loro Stato. Perlomeno sino a che il promesso Messia non busserà alle porte di Gerusalemme, inaugurando un'era di pace e prosperità sia per i vivi che per i morti.
  "Nell'attesa, noi preghiamo per un immediato e pacifico smantellamento dello Stato di Israele, perché i sionisti abbandonino la loro criminale ideologia e perché la terra di Palestina venga restituita ai loro legittimi proprietari. Così che anche in quei luoghi si possa tornare a vivere in pace come era nel passato". Parola di ebreo. Anzi, parola di rabbino: Yisroel Dovid Weiss, religioso ortodosso appartenente al movimento chassidista e noto attivista anti sionista, portavoce dell'organizzazione Neturei Karta (traducibile dall'aramaico come "i guardiani della città").
  Assieme al discepolo Yehoshua Rosenberger, rabbi Weiss, martedì 29 novembre, in occasione della giornata che l'Onu dedica ai diritti dei palestinesi, è venuto a Venezia dagli Stati Uniti dove risiede per spiegare che quanto il governo israeliano sta portando avanti nella Terra Santa è un crimine che nulla ha a che vedere con l'ebraismo.
  Per gridare al mondo la sua denuncia, rabbi Weiss si è scelto un palcoscenico mica male: piazza San Marco. I due ortodossi hanno chiesto l'appoggio di alcuni militanti per i diritti dei palestinesi di Venezia. Appoggio, detto per inciso, non poco problematico perché i due rabbini ortodossi debbono seguire regole rigidissime, tanto nell'alimentazione quando nel vestire e nel rapportarsi con gli altri. Gli è vietato, tanto per fare un esempio, non soltanto sfiorare un essere di genere femminile ma anche farsi inquadrare in una fotografia assieme ad una donna. Il che, in una piazza perennemente strapiena di turisti come quella di San Marco, è una pretesa non da poco.
  Anche le regole che rabbi Weiss detta per l'iniziativa sono alquanto particolari. Le riprese e le foto non devono inquadrarlo davanti a chiese o edifici religiosi. Così sceglie lo sfondo del palazzo Ducale, dopo essersi assicurato che il governo della Serenissima, ai suoi bei tempi, fosse sufficientemente laico. Niente altoparlanti ma solo la voce diretta, lingua inglese o ebraica. Solo i due religiosi inoltre, dovranno sostenere il cartello con la denuncia di Israele. Che si cominci la piazzata con "solo" un paio di ore di ritardo, era il minimo che ci si potesse aspettare. I due chassidim hanno un orologio tutto per conto loro.
  Si parte verso le sei di sera in una piazza San Marco che non è mai deserta. Quando rabbi Weiss comincia a parlare ad alta voce, dietro quel cartello con scritto, in italiano, l'ebraismo rifiuta il sionismo e lo Stato di Israele, si forma subito un capannello di turisti incuriositi dai nostri personaggi che, detto senza offesa, sembrano un anticipo di carnevale.
  E cominciano subito le contestazioni. Già, perché tra tanta gente da tutto il mondo non manca mai qualche turista israeliano che, sul sionismo, la pensa in tutt'altra maniera. Non passa un quarto d'ora che una viaggiatrice israeliana, particolarmente incavolata dall'acceso battibecco sostenuto col rabbino, telefona alla polizia. In tre minuti arrivano, nell'ordine, due vigili di piazza e una vigilessa, due soldati armati con bombe, maschere antigas e mitraglie come se fossero sulle strade di Mosul, con un poliziotto a sostegno (sono le famose ronde per la "sicurezza" che il sindaco di Venezia apprezza tanto), due carabinieri, altri due poliziotti in divisa e uno della Digos in borghese.
  C'è da sottolineare che la sceneggiata che ne è nata aveva il suo lato comico. Nessuno di questi signori spiaccicava una sola parola di inglese, per tacer dell'ebraico, inoltre nessuno di loro aveva idea che esistessero ebrei ortodossi antisionisti. I cartelli che denunciavano Israele, in mano a due uomini che possedevano tutte le caratteristiche del tipico ebreo da film, li spiazzava non poco. Quando i due rabbini hanno esibito regolari passaporti a Stelle e strisce, e non di qualche strano stan ex sovietico, i tutori dell'ordine hanno cominciato a pensare che le cose fossero più complicate del previsto. Come se non bastasse, tra tutte quelle forze in campo, non era neppure chiaro chi dovesse prendersi la responsabilità di decidere se portarli dentro per accertamenti o limitarsi a sgomberare il sit in.
  Ma un passaporto rilasciato dagli Usa dà sempre qualche vantaggio rispetto ad uno emesso in Libia o in Sudan. Così, una volta resisi conto che la questione era sì complicata ma non rientrava nel genere "attentato terroristico di matrice islamica", hanno optato per un saggio "lasciamo perdere". Non senza aver prima preso i documenti di un paio di italianissime persone che si erano gentilmente offerte di fare da interpreti con l'inglese ed essersi accertati che i due rabbini si incamminassero verso il loro albergo.
  Senza voler entrare nel merito della delicata questione se la causa palestinese tragga o no vantaggio da un sostegno che, per così dire, arriva dalle file dell'integralismo religioso ebraico, va sottolineato che l'iniziativa dei due rabbini nordamericani ha avuto quanto meno il merito di mettere il dito nella piaga del problema: l'uguaglianza ebreo = israeliano = sionista, con la quale Israele giustifica le sue continue violazioni ai diritti dei palestinesi, non ha motivo di essere. Si può essere ebreo senza essere sionista e si può essere sionista senza essere ebreo.
  "L'ebraismo è una religione, una forma di spiritualità, mentre il sionismo è una ideologia nazionalistica che non ha nulla a che vedere con la religione ebraica - spiega rabbi Weiss-. Più di un secolo fa, qualcuno decise di creare uno Stato per il popolo ebraico mentre noi crediamo fermamente che questo ci è proibito perché siamo stati esiliati dalla Terra Santa per decreto divino. Israele è stata creata sull'oppressione di un intero popolo e continua ancora ad opprimere commettendo continue violenze e atrocità. Noi ebrei non possiamo che ribadire che questo è un crimine. Nei dieci comandamenti è scritto 'non uccidere' e 'non rubare'. Eppure al mondo viene data l'impressione che i crimini sionisti siano commessi in nome del popolo ebraico, quando simili azioni sono espressamente proibite nella Torah".

- Eppure Israele continua ad essere appoggiata dalla maggior parte dei governi. Come vede questo sostegno?
  "Il mondo deve capire che l'appoggio allo Stato di Israele non è assolutamente di aiuto al popolo ebraico. Al contrario, il sionismo sta favorendo la ripresa dell'antisemitismo. Alla gente viene fatto credere che tutti gli ebrei siano favorevoli allo Stato di Israele, mentre, di fatto, ci sono centinaia di migliaia di ebrei che si oppongono all'esistenza stessa di uno Stato fondato su una ideologia nazionalista. A Gerusalemme comunità religiose cristiane, ebraiche e musulmane vissero in armonia per secoli. Fu l'intervento di questo movimento politico, il sionismo, che occupò le terre e commise crimini inauditi, a scatenare l'odio e la violenza che vediamo ancora oggi".

- Quali sono le soluzioni per portare la pace in Palestina?
  "Ce n'è una sola di soluzione che è anche la cosa giusta da fare: la Terra Santa appartiene ai palestinesi e a loro va restituita".

(Frontierenews, 4 dicembre 2016)


Citazioni dall’articolo:
  • La Terra Santa? "Appartiene esclusivamente al popolo Palestinese". Israele? "Uno stato illegittimo che
       non ha nessuna ragione di esistere".
  • "Nell'attesa, noi preghiamo per un immediato e pacifico smantellamento dello Stato di Israele, perché i
       sionisti abbandonino la loro criminale ideologia e perché la terra di Palestina venga restituita ai loro
       legittimi proprietari.”
  • Quali sono le soluzioni per portare la pace in Palestina? "Ce n'è una sola di soluzione che è anche la cosa
       giusta da fare: la Terra Santa appartiene ai palestinesi e a loro va restituita".
    E’ quello che su queste pagine chiamiamo da tempo “Antisemitismo giuridico”. La frase magica che serve a mantenerlo in vita è “territori occupati”. Da quando questa dizione, fondamentalmente e fraudolentemente errata sul piano del diritto internazionale, è stata accettata anche da ebrei e amici d’Israele "amanti della pace", che caldeggiano la soluzione dei “due stati per due popoli che vivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza”, la battaglia sul fronte della diplomazia internazionale è stata irrimediabilmente persa. I nemici d’Israele non molleranno la presa fino a che lo stato “illegittimo” non cesserà di esistere e la “Terra Santa” non sarà “restituita” ai loro “legittimi proprietari”: i palestinesi. M.C.


    Georgia: vandalizzata una sinagoga

    di Nathan Greppi

    La sinagoga di Gori
    Giovedì 1 dicembre a Gori, nella Georgia orientale, è emerso che una sinagoga ha subito atti di vandalismo da parte di ignoti, che hanno rubato e distrutto alcuni dei testi sacri che vi erano al suo interno. Ne dà notizia Ynet.
    Le autorità locali hanno iniziato le indagini in cerca dei colpevoli. Se catturati, riceveranno una condanna dai tre ai cinque anni di carcere.
    Secondo i media georgiani, la sinagoga era chiusa da Gennaio, perciò il crimine è stato scoperto solo giovedì, quando i membri della comunità ebraica locale sono entrati per pregare.
    Oltre a strappare i testi della Torah, i vandali ne hanno gettati in cortile altri dopo averli rovinati. Sempre secondo Ynet, questo è uno scandalo che non ha precedenti nel paese. Ksenia Svetlova, parlamentare israeliana e membro dal Gruppo di Amicizia Parlamentare Israele-Georgia, ha rilasciato la seguente dichiarazione: "Ero scioccata quando ho sentito della distruzione della sinagoga […] Questo è un precedente pericoloso che va affrontato ora prima che cresca. La Georgia è uno dei paesi con cui Israele ha i rapporti più amichevoli, e ciò rende i fatti ancora più sorprendenti e preoccupanti."
    La presenza ebraica in Georgia, storicamente antica, ammonta oggi a circa 13.000 persone, la maggior parte delle quali vive nella capitale Tbilisi. Molti furono i georgiani che negli anni si trasferirono in Israele. Si calcola che dal 1989 ad oggi più di 21.000 abbiano fatto l'aliyà.

    (Mosaico, 4 dicembre 2016)


    Museo della Memoria, Tel Aviv ci pensa

    di Stefano Manca

    NARDÒ - Strutture ricettive e turismo culturale: il binomio sembra possibile a Santa Maria al Bagno. È in arrivo, infatti, un accordo tra il Grand Hotel Riviera e un tour operator israeliano. Ad annunciarlo è la storica struttura ricettiva neretina, tornata a nuova luce lo scorso agosto. L'obiettivo, fanno sapere dal Grand Hotel, è ora quello di ospitare dalla prossima stagione turisti richiamati qui dalla presenza del Museo della Memoria e dell'Accoglienza. «A partire dal prossimo anno - annuncia Ada Miraglia, direttore commerciale di CdsHotels - accoglieremo gruppi di turisti israeliani desiderosi di visitare il Museo e le altre attrazioni del Salento. Abbiamo ospitato il tour operator, con cui abbiamo già un rapporto di collaborazione per un'altra nostra struttura, il Riva Marina Resort di Carovigno e lo abbiamo portato, in compagnia del sindaco di Nardò, a visitare il Museo. Questo importante passo in avanti - prosegue Miraglia - avrà ricadute positive su tutto il territorio, perché il nostro albergo ha solo 98 camere e non riuscirà a soddisfare la domanda di tutti i turisti israeliani che vorranno pernottare qui per poi fare escursioni anche nel resto del Salento con vantaggi per tutti».

    (Piazzasalento, 4 dicembre 2016)


    L'Egitto avvia la catalogazione delle antichità giudaiche

    Alla scoperta delle sinagoghe perdute

    di Rossella Fabiani

     
    La sinagoga di Ben Ezra al Fustat
    L'Egitto ha avviato la catalogazione delle Antichità giudaiche nel tentativo di proteggerle da furti e abbandono. È un passo avanti importante per la conservazione e la valorizzazione della memoria del patrimonio ebraico. Ancor più significativo perché avviene in un Paese a stragrande maggioranza musulmana.
       «Le Antichità giudaiche sono sempre state considerate patrimonio culturale dell'Egitto e appartengono a tutto il mondo non soltanto a noi egiziani»; per questo Saeed Helmy, il capo del dipartimento dei Monumenti islamici e copti presso il ministero delle Antichità, lancia un appello a tutti i Paesi perché aiutino finanziariamente l'Egitto a preservare le antichità.
       Oggi, delle tante sinagoghe costruite dagli ebrei in Egitto ne rimangono dieci al Cairo e quella di Eliahu Hanavi ad Alessandria. Al loro interno sono conservati migliaia di manoscritti che documentano la storia della comunità insieme ai registri di nascita e di matrimonio degli ebrei egiziani. Molte sinagoghe nel cuore del Cairo sono visitate da turisti e studiosi, in particolare Ben Ezra, Ashkenazi e Sha'ar Hashamayim.
       La sinagoga di Ben Ezra al Fustat (il Cairo vecchio), è la più antica ancora esistente nel Paese e la sua ghenizah (la parte destinata a servire da deposito) conserva 280 mila frammenti datati per la massima parte fra il 1028 e il 1266, che formano una delle più importanti documentazioni dell'attività commerciale e della vita sociale dell'ebraismo in Egitto e che testimoniano anche l'esistenza di società miste ebraico-islamico-cristiane in un clima di sostanziale tolleranza garantito dal regime ismailita dei Fatimidi del Cairo tali da obbligare a una riscrittura della storia economica dei secoli IX, X e XI. I testi — redatti in ebraico, arabo, giudeo-arabo, giudeo-persiano e aramaico su diversi supporti, dalla carta al papiro, al tessuto e alla pergamena — comprendono anche traduzioni della Bibbia, copie della Torah, grammatiche ebraiche e commentari del Tanakh.
       Questo ritrovamento fortuito nella ghenizah della sinagoga del Fustat si deve al fatto che le opere ebraiche che trattano argomenti religiosi una volta diventate inutilizzabili devono essere sotterrate in un cimitero. Quando questo non avviene è categoricamente proibito distruggerle se compare uno dei sette nomi sacri di Dio, comprese le lettere personali e i contratti legali che si aprono con un'invocazione a Dio. Il Fustat è anche il luogo dove si trova la prima moschea, Amr ibn al-As, costruita in Egitto nel 642, ed è pure il luogo dove sono state edificate le più antiche chiese copte, tra le quali la famosa chiesa detta La Sospesa.
       La sinagoga Ashkenazi che si trova in Attaba el Khadra Square, costruita nel 1887, ha bisogno di una manutenzione completa, oltre a lavori di ristrutturazione dei suoi pavimenti e delle pareti. Gli ebrei ashkenaziti, provenienti dall'Europa orientale, hanno fondato nel Paese la loro comunità nel 1865 e hanno rappresentato circa l'8 per cento di tutti gli ebrei d'Egitto. Negli anni Quaranta la sinagoga è stata oggetto di atti di vandalismo, fu saccheggiata e incendiata. Venne ricostruita nel 1950; a inaugurarla fu Liscovitch, un gioielliere del Cairo, in quegli anni il capo di quella comunità. Significativo fu che l'Arca Santa di questa sinagoga ashkenazita fosse ornata con una tenda del xvii secolo proveniente dalla sinagoga perduta nota come "Torkiya" che si trovava a el Haret Yahoud (il quartiere dei Giudei) tra i brulicanti, al tempo, mercati di Mousky e il bazar di Khan el Khalili.
       La sinagoga Sha'ar Hashamayim (Porta del Cielo) si trova al numero 17 di Adly Street nel quartiere Ismailia della capitale cairota. Costruita nel 1899, ricorda nello stile gli antichi templi egizi e allora era il più grande edificio che si affacciava sul viale. È una sinagoga sefardita, ma molti ebrei ashkenaziti erano membri della sua congregazione e hanno contribuito alla sua costruzione e manutenzione.
       Oggi, nonostante il loro piccolo numero, i membri della comunità ebraica in Egitto continuano a curare e a valorizzare il patrimonio ebraico. Incessante in tal senso è l'impegno di Magda Haroun, attuale presidente della comunità ebraica egiziana, che in una recente intervista al quotidiano «Al-Youm al-Sabeh» aveva lamentato le mancate promesse dei funzionari egiziani responsabili della documentazione e del restauro degli edifici ebraici. Ma Magda Haroun, nota in Egitto per la sua tenacia, si è rivolta direttamente al presidente Abdel Fattah al-Sisi chiedendo un suo intervento affinché i responsabili avviassero un progetto per preservare questo patrimonio culturale, soprattutto dopo che infiltrazioni d'acqua avevano danneggiato le pareti di alcune sinagoghe.
       «Sono consapevole delle priorità di questo Paese e delle grandi responsabilità che il presidente al Sisi deve fronteggiare, ma sono stata costretta a rivolgermi a lui per cercare di preservare questo grande patrimonio», ha detto Haroun. E al Sisi pare avere accolto la richiesta di aiuto con l'annuncio fatto dal ministero della nascita di un comitato speciale per fare il punto sulle Antichità giudaiche nelle sinagoghe e per catalogarle.

    (Osservatore Romano, 4 dicembre 2016)


    Città da visitare in Israele: Safed

    Safed
    Safed è una delle città sante di Israele ed è situata nelle fitte foreste della Galilea. È un luogo meraviglioso dove il passato e il presente si incontrano, formando una delle bellezze del paese, che è entrata sempre di più nell'itinerario di viaggio di molte persone.
    Per migliaia di anni, l'antica città di Safed fu conquistata e riconquistata. Si dice che sia stata fondata da uno dei figli di Noè dopo il Diluvio Universale ed è un luogo da mozzare il fiato.
    È una città mistica, ricca di storia, dove si respira un'aria davvero particolare, che l'ha portata a essere una delle più vibranti d'Israele.
    Safed ha goduto di grande prosperità fino al XVI secolo, poi una serie di problematiche, tra cui terremoti, epidemie e conflitti ne sancirono un inesorabile declino fino alla rinascita nel XX secolo grazie alla fondazione dello Stato d'Israele, che le ha restituito un ruolo di prestigio in tema di studi ebraici.
    Una curiosità: qui fu costruita la prima tipografia del Vicino Oriente nel 1578.
    Una delle parti più caratteristiche è il quartiere degli artisti (Safed's Artists' Quarter), soprannominata il "centro Bohemian di Israele", che attira esperti e amanti dell'arte ma anche visitatori casuali che rimangono colpiti dalla sua bellezza.

    (Israel Cool, 4 dicembre 2016)


    L'Onu approva sei risoluzioni contro Israele, l'Italia vota a favore

    di Riccardo Ghezzi

    L'Onu ha voluto celebrare la giornata internazionale "per la solidarietà con il popolo palestinese", prevista ogni 29 novembre, in grande stile. Oltre alla kefyah e alla sciarpa con i colori palestinesi esibite in aula dal presidente dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Peter Thomson, sono state votate addirittura sei risoluzioni contro Israele.
    Una presa di posizione netta ed evidente che sottolinea l'ormai aperta ostilità delle Nazioni Unite nei confronti dello stato ebraico. Al di là della celebrazione di una giornata istituita per celebrare le sofferenze di un popolo, prestando il fianco a chi strumentalizza e accusa un altro popolo, quello israeliano, di "razzismo", "genocidio", "apartheid", la Comunità internazionale sembra ormai aver dissolto ogni dubbio in merito alla delicata questione arabo-israeliana: Israele ha torto ed è il male, i palestinesi hanno ragione e sono le vittime.
    La pioggia di risoluzioni, su spinta ovviamente dei paesi arabi spalleggiati da nazioni notoriamente antisemite, ne è la logica conseguenza.
    Nella fattispecie, le ultime sei risoluzioni approvate erano perlopiù a sostegno della recente presa di posizione dell'Unesco che ha di fatto riscritto in chiave musulmana la storia e la cultura dei territori israeliani, cancellando ogni residuo di identità ebraica.
    Ma a stupire sono i paesi che hanno votato a favore: tra quelli europei, oltre ai soliti Francia e Spagna, anche la Germania e il Regno Unito. E, purtroppo, l'Italia.
    Questo nonostante le parole pronunciate dal premier Matteo Renzi a pochi giorni dall'approvazione della risoluzione anti-israeliana dell'Unesco. Il presidente del Consiglio italiano l'aveva definita "allucinante", criticando quindi aspramente la decisione di astenersi dell'ambasciatore presso l'Unesco e non lesinando frecciate nei confronti del comportamento della Farnesina, tanto da far ipotizzare addirittura le dimissioni del ministro degli esteri Paolo Gentiloni
    Non è accaduto nulla, a distanza di pochi giorni l'Italia non ha rispettato le promesse di Renzi ("mai più voti a risoluzioni contro Israele) e si è schierata tra i nemici di Gerusalemme. Unici Paesi disposti a non riscrivere la storia si sono rivelati Stati Uniti, Canada, Isole Marshall, Micronesia, che hanno votato contro le sei risoluzioni Onu.

    (L’Informale, 4 dicembre 2016)


    Il Nord estremo

    In Scandinavia nascono le ''città deisraelizzate'', come da noi ci sono i comuni denuclearizzati. La penisola dei pacifisti e degli antisemiti.

    di Giulio Meotti

    Sui giornali topi che mangiano stelle di David e israeliani coi piedi da animale. Nessuno si era spinto a tanto dopo la Shoah. L'ex presidente finlandese Ahtisani, Nobel per la Pace, dopo le stragi di Parigi ha detto: "Risolvere la questione palestinese". "E' strano vedere come i multi-culturalisti, figli dell'ideologia marxista, abbiano spesso un'avver- sione verso gli ebrei".

    Lo scorso luglio, il premier israeliano Benjamin Netanyahu è andato alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme, a presentare la mappa aggiornata degli stati amici e nemici di Israele. Soltanto cinque paesi sono apertamente ostili allo stato ebraico: Iran, Iraq, Siria, Afghanistan e Corea del Nord. Poi ci sono i paesi amici, sempre di più, compresi tanti stati africani che un tempo non avevano relazioni diplomatiche con Israele. Ma guardando bene la mappa si vede come una regione in Europa per la prima volta è passata dal colore blu dell'amicizia al grigio dell'inimicizia. E' la Scandinavia.
     
    La terza città della Norvegia, Trondheim, che ha appena approvato il boicottaggio delle merci israeliane.
    In Svezia intanto si trasmettono in tv documentari contro la "lobby ebraica" negli Usa.
    La Sinagoga di Trondheim
      Le volte che si cita la Norvegia nei media internazionali è per dire che i suoi abitanti e il suo governo rappresentano gran parte di ciò che vi è di buono al mondo. Il Global Peace Index la colloca fra i paesi più pacifici del mondo. E' al vertice della libertà di stampa secondo Giornalisti senza frontiere. E' uno dei paesi meno corrotti del mondo secondo Transparency International. E' al quarto posto per l'impegno negli indici di sviluppo. Ma c'è un numero che è come una macchia nella storia della Norvegia. Soltanto venticinque ebrei ritornarono dai campi di sterminio. In Danimarca, i piani nazisti fallirono per la generosa solidarietà della popolazione con i perseguitati e gli israeliti fatti fuggire in Svezia. Gli ebrei norvegesi non sfuggirono agli artigli di Adolf Eìchmann. Infatti in Norvegia sopravvissero solo venticinque ebrei dei 710 che erano stati portati nei campi di concentramento. Per questo hanno fatto discutere le recenti parole di Hanne Nabintu Herland, storica delle religioni e autrice di bestseller, che ha accusato la Norvegia di essere "il paese occidentale più antisemita".
      La conferma è arrivata nei giorni scorsi, quando la terza più grande città della Norvegia ha votato per il boicottaggio di tutti i beni e servizi prodotti negli insediamenti israeliani. Il Consiglio comunale di Trondheim, famosa per l'aurora boreale, ha approvato la mozione che recita: "Il comune si asterrà dall'acquisto di beni e servizi prodotti nei territori occupati". Il consiglio comunale chiede ai residenti anche di boicottare personalmente i beni e i servizi israeliani. Una città che aspira a essere "deisraelizzata", così come ci sono i comuni denuclearizzati in Italia.
      Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia: eccoli i paesi che odiano di più Israele in occidente. L'estremo nord scandinavo. Nelle settimane prima di questo voto, il Teatro nazionale norvegese ha aperto con un drammatico videoclip la Biennale internazionale Ibsen a Oslo. Con un video che richiede il boicottaggio del Teatro nazionale di Israele, l'Habima di Tel Aviv. Finanziata dal governo di Oslo e mandata in onda al festival, la clip mostra un'attrice che posa come portavoce del Teatro nazionale, e invoca il boicottaggio del teatro israeliano. L'attrice nel film, Pia Maria Roll, si "scusa pubblicamente per la nostra collaborazione vergognosa con Habima, il Teatro nazionale di Israele", aggiungendo che la cooperazione è servita a "normalizzare l'occupazione israeliana". Pia Maria Roll definisce Israele uno stato "basato sulla pulizia etnica, il razzismo, l'occupazione e l'apartheid". Il ministero degli Esteri di Israele ha risposto rievocando quel numero terribile, venticinque, per dire che il video di sette minuti ricorda "i collaborazionisti norvegesi Vidkun Quisling e Knut Hamson".
      La Norvegia è il paese europeo più esposto e impegnato nelle campagne contro Israele, nel mondo degli affari, in diplomazia, nei finanziamenti alle ong, nei giornali, nella cultura. Bruce Bawer, il giornalista americano che vive in Norvegia e che ha partecipato al convegno del Foglio a Roma "Israele, frontiera dell'Europa", ha scritto che "l'élite culturale norvegese ha sostituito l'affinità con l'Unione sovietica con l'altra grande ideologia totalitaria del nostro tempo: l'islamismo". Basta chiederlo ad Alan Dershowitz, il principe del foro americano, professore di Legge a Harvard, consulente legale del fondatore di WikiLeaks Julian Assange, che si era offerto per un tour gratuito di lezioni sul diritto internazionale, Israele e le guerre in medio oriente. E' successo che tutte le università norvegesi si sono rifiutate di ospitarlo, opponendogli un rifiuto radicale e giustificato così: "Non parli d'Israele". Dershowitz ha loro ricordato che soltanto altri due paesi si erano opposti alle sue lezioni: il Sudafrica dell'apartheid e l'Unione sovietica. "Perché ero l'avvocato di Nelson Mandela", ricorda il professore.
      Nel 2009 una proposta di boicottaggio accademico contro Israele era stata promossa proprio dall'Università norvegese di Trondheim. Se approvato, il boicottaggio sarebbe stato il primo del suo genere in una università europea. Per fortuna, non è riuscito. L'iniziativa di boicottaggio è iniziata con una lettera, firmata da 34 professori e assistenti all'università, sostenendo che le università israeliane e altre istituzioni di istruzione superiore "hanno giocato un ruolo chiave nella politica di oppressione" di Israele.
      Sembra che il paese, oltre a lenire le ferite del Terzo mondo, sia tutto impegnato a delegittimare Israele. Il ministero delle Finanze norvegese ha escluso aziende israeliane, come Africa Israel Investments e Danya Cebus, dal Pension Global Fund, il fondo che investe la ricchezza di petrolio e gas del paese nordico in titoli esteri e obbligazioni e che detiene più dell'un per cento di tutti gli stock globali. Il sindacato norvegese EL & IT, che rappresenta oltre trentamila lavoratori dell'energia e delle telecomunicazioni, ha poi adottato il boicottaggio dell'Histadrut, lo storico sindacato di Israele. In Norvegia l'antisemitismo ha influenzato anche i cosiddetti "intellettuali". Uno è Johan Galtung, il sociologo norvegese soprannominato il "padre degli studi sulla pace", che ha fatto dichiarazioni antisemite e anti-israeliane durante le sue lezioni all'Università di Oslo, dove ha affermato che esiste un possibile collegamento tra i responsabili del massacro a Utoya in Norvegia e il Mossad. I giornali norvegesi sono pieni di classici dell'antisemitismo. Una caricatura nel più grande quotidiano, il Verdens Gang, mostra l'ex primo ministro israeliano Ehud Olmert mentre si rasa, si guarda allo specchio e vedere il leader di Hezbollah Hasan Nasrallah; i piedi di Olmert sono quelli di un animale. L'ebreo come subumano. L'Aftenposten, conservatore, è il secondo più grande quotidiano della Norvegia: una sua vignetta ha mostrato la bandiera israeliana rosso sangue gocciolante. Un'altra vignetta, sempre dell'Aftenposten, dal titolo "Una migliore specie di essere umano", mostra un topo che mangia la stella di David. Questo umore anti-israeliano degenera spesso in recrudescenza antisemita. Martin Bodd, un rappresentante della comunità ebraica di Oslo, in una conferenza internazionale della Anti-Defamation League, ha osservato che ci sono stati più attacchi agli ebrei negli ultimi due anni che in qualsiasi momento dal 1945. Il Dagbladet ha pubblicato una vignetta in cui i terroristi palestinesi liberati in cambio di Gilad Shalit provengono da una prigione con il simbolo nazista di Buchenwald: "Jedem Das Seine". E' successo che Evelyne Zeira, che lavora nel laboratorio di terapia genica all'ospedale di Gerusalemme Hadassah, abbia chiesto alla ricercatrice norvegese Ingrid Harbitz materiale per sviluppare trattamenti per le vittime palestinesi della thalessemia, una malattia del sangue. Harbitz ha risposto: "A causa della situazione attuale in medio oriente, non voglio consegnare materiale a un (sic) università israeliana". Gli ebrei israeliani non meritano il sangue norvegese!
      Durante la guerra di Israele contro Hezbollah, il quotidiano Aftenposten ha pubblicato un articolo in cui Jostein Gaarder, il più famoso scrittore della Norvegia, ha immaginato la distruzione di Israele. Gaarder, il cui libro "Il mondo di Sofia" è stato tradotto in 53 lingue e che ha venduto 26 milioni di copie, ha previsto l'espulsione di tutto il popolo ebraico dalla sua terra. Nessun antisemita dopo l'Olocausto si era mai avventurato in questo terreno. Lo hanno fatto i quisling socialdemocratici.
      Se ci si sposta in Svezia, la situazione non cambia. L'ex ministro svedese, Mehmet Kaplan, di origini turche, ha preso parte all'assalto della Freedom Flottilla del 2010 e ha chiesto la "liberazione di Gerusalemme" durante un raduno pro palestinese. Un altro ministro, quello dell'Istruzione Gustav Fridolin, si è fatto arrestare di fronte alla barriera antiterrorismo costruita da Israele.
      Nei giorni scorsi la tv pubblica svedese ha trasmesso "The Occupation of the American Mind: Israel's Public Relations War in the United States", un film complottista su come la lobby israeliana detti legge negli Stati Uniti. Durante la Seconda Intifada, a Stoccolma, la foto di una kamikaze palestinese sorridente veleggiava su una barca bianca in una vasca piena di liquido rosso sangue. "Biancaneve e la follia della verità", questo il titolo dell'opera esposta al museo di Stoccolma. Il 17 agosto 2009 le pagine culturali dell'Aftonbladet, il più venduto quotidiano svedese, pubblicarono un articolo di Donald Bostrom in cui, senza prove, scriveva che l'esercito israeliano, in combutta con l'establishment medico, aveva rapito palestinesi per prendere i loro organi. Il Dagens Nyheter, il più sofisticato quotidiano svedese, ha anche pubblicato uno dei più violenti e antisemiti editoriali che si ricordino, dal titolo "E' permesso odiare gli ebrei", in cui l'autore, lo storico delle religioni Jan Samuelson, spiega che fino a che Israele occuperà i territori del 1967, l'odio per lo stato ebraico sarà giustificato. Dopo le stragi parigine del 13 novembre a Parigi, la ministra degli Esteri, Margot Wallström, disse che "per contrastare la radicalizzazione dobbiamo tornare alla situazione in medio oriente, dove i palestinesi vedono che non c'è futuro per loro e devono accettare una situazione disperata o ricorrere alla violenza".
      L'ex presidente della Finlandia e premio Nobel per la Pace, Martii Ahtisaari, ha detto lo stesso: "L'Europa deve prestare attenzione alle ragioni della radicalizzazione. Avanzare il processo di pace in medio oriente è di fondamentale importanza. La questione di Israele e Palestina deve essere risolta". La "Notte dei Cristalli" del 1938 è stata commemorata in Svezia senza invitare le vittime di allora: gli ebrei. La compagnia aerea Scandinavian Airlines ha sospeso i voli verso Tel Aviv, a causa della "instabilità politica".
      "Israele è un paese che dovrebbe essere sottoposto a critica nello stesso modo come qualsiasi altro", dice al Foglio Hanne Nabintu Herland. "Detto questo, una forte forza motrice che contribuisce all'antisemitismo in paesi come la Norvegia e la Svezia può essere attribuita al notevole successo delle ideologie degli anni Settanta, fin da quando abbiamo visto forti movimenti anti-israeliani. Questi paesi sono stati particolarmente desiderosi di abbracciare l'ideologia neo-marxista introducendo nella nostra cultura il multiculturalismo, il femminismo radicale, l'internazionalismo socialista del 'No Border' e sentimenti antireligiosi. L'elemento marxista si oppone con forza, come tutti sappiamo, ai valori europei tradizionali, la famiglia, la religione e così via. E' strano vedere come i multiculturalisti spesso mostrano una notevole avversione per gli ebrei". Come un famoso medico norvegese, Mads Gilbert, icona dell'umanitarismo, che dopo gli attacchi dell'll settembre dichiarò al Dagbladet: "Gli oppressi hanno il diritto morale di attaccare con qualsiasi arma". Poi ci sono i media. "Qualcuno dovrebbe prendere il proprio Phd su come il controllo dei media è diventato un importante strumento di oppressione nei paesi scandinavi, e le tattiche di bullismo e di molestie pubbliche siano usate contro giornalisti, editori e scrittori che non rispettano il politicamente corretto. E' facile perdere la propria carriera nel mondo accademico, nei media, nelle case editrici e così via, se uno si oppone in qualsiasi modo. Dietro la facciata norvegese amante della pace vi è dura repressione in corso. Di conseguenza, i giornali sono inondati con le notizie quasi esclusivamente di parte su Israele, alimentando l'odio. La mia opinione è che difficilmente avrebbe potuto essere peggio nella Germania di Goering. Viviamo, ancora una volta, nel 1930. Questa ingiustizia prende corpo non solo contro gli ebrei, guardiamo la guerra in Libia, per esempio, e le atrocità orribili fatte contro quel paese". C'è un terzo fattore. "La crescente popolazione musulmana. A norvegesi e svedesi viene fatto il lavaggio del cervello". Il trenta per cento della popolazione svedese è di origine straniera. Secondo Manfred Gerstenfeld, che all'estremo nord ha dedicato il libro "Under the humanitarian mask'', ci sono molti fattori. "Il primo è la tradizione luterana che odia gli ebrei. Il secondo è la forza dei partiti di sinistra, che hanno sviluppato posizioni anti-israeliane estreme. Questo si manifesta in accuse pubbliche a Israele da parte di governi, inedia, accademici, chiese, ong",
      Intanto la sinagoga di Trondheim è diventata uno degli edifici più protetti di tutta la Norvegia. E Karsten Tveit, uno dei volti più noti della Nrk, la tv di stato norvegese, ha pubblicato un libro dal titolo "La colpa". La colpa di Israele. La colpa di esistere.

    (Il Foglio, 3 dicembre 2016)


    Quella kefyah all'Assemblea Generale dell'Onu

    di Federico Steinhaus

     
    Peter Thomson, Presidente dell'Assemblea Generale dell'ONU
    Mercoledi scorso l'ONU ha celebrato la Giornata della solidarietà col popolo palestinese, e per l'occasione il presidente dell'Assemblea Generale, Peter Thomson delle Fiji, si è decorato le spalle con la bandiera palestinese e la kefyah. Se qualcuno si domanda con quali altri popoli l'ONU celebri la propria solidarietà, la risposta è:nessuno. Non con il popolo del Tibet, non con quello ucraino, non con quello siriano, non con quello curdo, non con quello armeno…quelli, all'ONU, come sappiamo, contano ben poco e non interessano a nessuno.
    Ma l'Assemblea Generale non si è limitata a questa scenografica giornata di blabla. Ha anche lavorato.
    Appunto, ha approvato - e chi poteva dubitarne? - sei risoluzioni contro Israele. Le elenchiamo:
    1. Il Comitato per l'esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese è stato richiesto di mobilitare il sostegno internazionale al popolo palestinese; per inciso, questo è l'unico e solo comitato dell'Assemblea Generale che abbia una sola finalità
    2. La Divisione per i diritti palestinesi facente capo alla segreteria delle Nazioni Unite dovrà intensificare la propria attività di propaganda a favore della causa palestinese mediante convegni internazionali ed altre iniziative mediatiche
    3. Al Programma speciale di informazione sulla questione palestinese facente capo al Dipartimento dell'informazione pubblica della segreteria dell'ONU si affida l'incarico di promuovere missioni giornalistiche "nei territori palestinesi occupati, incluse Gerusalemme ed Israele" nel 2017 e 2018
    4. Si chiede il rispetto per i luoghi santi, in particolare Haram al-Sharif - il Monte del Tempio nella versione araba - ed esprimendo preoccupazione per provocazioni ed incitamenti all'odio si fanno riferimenti al terrorismo, senza però indicarne i responsabili
    5. Si tratta di una risoluzione che praticamente ricalca la numero 4, ma riferendosi alla sola città di Gerusalemme usa un linguaggio estremamente duro nei confronti di Israele
    6. Questa risoluzione esprime la profonda preoccupazione per il fatto che Israele non si è ancora ritirato dalle alture del Golan siriano, che invece dovrebbe essere restituito alla sovranità della Siria.
    Queste sono 6 delle 20 risoluzioni contro Israele che in questa sessione, come negli anni passati, l'Assemblea Generale dell'ONU approva. L'elenco degli stati che l'ONU critica per come i governi opprimono i loro popoli è molto eloquente; nella sessione 2016-2017 le condanne sono state: zero contro l'Afghanistan, zero contro la Repubblica Centro Africana, zero contro la Cina, zero contro Cuba, zero contro il Congo, zero contro la Libia, una contro la Corea del Nord, zero contro il Pakistan, una contro la Russia, zero contro l'Arabia Saudita, zero contro il Sudan, una contro la Siria, zero contro la Turchia, zero contro il Venezuela, una contro l'Iran, zero contro l'Iraq, e 20 contro Israele.
    Come possiamo meravigliarci se poi sulla stampa compaiono articoli che falsano la realtà? L'Independent, ad esempio, ha pubblicato la foto di una cassetta di mele del Golan descrivendola come fosse la prova documentata dello sfruttamento israeliano dei poveri arabi del Golan abusivamente occupato. Purtroppo per il giornale, sulla foto si legge in ebraico la scritta Abu Jabal, e viene indicata la cittadina drusa di Madjal Shams come luogo di coltivazione e raccolta di quelle mele.
    Non basta: l'Autorità Palestinese ha già avviato quella che sarà la sua prossima campagna per delegittimare Israele ed annullare il principio dell'autodeterminazione dei popoli, al quale i palestinesi stessi si appellano per un loro stato. L'obiettivo dichiarato è quello di costringere il governo inglese a chiedere scusa per aver stabilito, 99 anni fa, con la famosa lettera nota come Dichiarazione Balfour, che in Palestina si sarebbe dovuto creare un focolare nazionale per il popolo ebraico. Sarà la ciliegina sulla meschina e lugubre torta che stanno cucinando da anni: il sionismo come razzismo, il sionismo come colonialismo e/o imperialismo, l'assenza di qualsiasi legame degli ebrei con la terra di Palestina.

    (L'Informale, 2 dicembre 2016)


    Gli ebrei ortodossi a Mantova: "Rivogliamo la nostra terra"

    Delegazione di rabbini e ricercatori in arrivo da Israele e Usa per reclamare l'area di San Nicolò. "Siamo pronti a finanziare mappatura, pulizia e costruzione di un museo della memoria"

    di Enrico Comaschi

     
    La targa al cimitero
     
    Due stele provenienti dall'antico cimitero ebraico sono finite a far da paracarri a un ristorante giapponese
    MANTOVA - Rav Shmaya Levi, rabbino ortodosso israeliano, editore e ricercatore, ci ha messo anni. Alla fine ha trovato quello che cercava: a Budapest è riuscito a scovare il libro delle sepolture del cimitero ebraico di Mantova autorizzato da Francesco Gonzaga nel 1442 e chiuso da Giuseppe II nel 1786.
       Pubblicare antichi manoscritti è il suo mestiere, ed i libri editi dalla HaOtzar Publications fanno il giro del mondo. Ma la ricerca su Mantova aveva un significato particolare e da subito deve avergli fatto sgranare gli occhi per le eminenti personalità ebraiche che qui sono seppellite (ved.
    articolo riportato sotto).
       Accertato dapprima che nell'area di San Nicolò sono sepolti Azariah da Fano, il più eminente cabalista italiano, e altre importantissime figure dell'ebraismo. Saputo, alcuni mesi fa, che l'area era stata finalmente liberata dal Demanio. E saputo, sempre alcuni mesi fa, che il Comune si appresta a coinvolgere l'ex cimitero nella complessiva riprogettazione di Fiera Catena, Rav Shmaya Levi ha mobilitato un potentissimo comitato di ebrei ortodossi statunitensi che a giorni incontreranno la giunta municipale.
       Viene al sodo, insomma, un lavoro iniziato nel lontano 2010, quando la Gazzetta di Mantova documentò la visita dei rabbini ortodossi che erano venuti a pregare sulla tomba di Azariah da Fano. Proprio nei giorni scorsi Rav Shmaya Levi ha preso l'aereo ed è venuto in Italia.
       «Per tutto il mondo ebraico - spiega Rav Shmaya Levi alla Gazzetta, dopo aver incontrato il presidente della Comunità ebraica di Mantova, Emanuele Colorni - è fondamentale che quella terra ritorni ai suoi legittimi proprietari. Gli ebrei pagarono per quella terra e, dunque, la terra appartiene ancora agli ebrei. Non possiamo accettare che sulla nostra terra venga costruito un mercato ortofrutticolo, così come non accettiamo che i nazisti si siano presi la terra che era nostra costruendo il loro campo di concentramento».
       E' per questo che entra in gioco il comitato americano: «Si tratta di persone specializzate nel salvataggio di cimiteri ebraici in tutto il mondo - spiega Rav Shmaya Levi. E' gente influente, forte e decisa: dai documenti sappiamo che quel cimitero ci appartiene e deve ritornare a noi. Siamo riusciti in un'impresa simile in Paesi socialisti, vogliamo riuscirci anche qui».
       L'idea è quella di programmare un intervento in tempi brevi: «Abbiamo macchinari che servono a monitorare il terreno, così sapremo quante tombe sono rimaste e avremo una mappatura completa. Le costruzioni messe in piedi dai nazisti devono scomparire perché sotto ci sono le tombe degli ebrei. Noi vogliamo costruire un museo della memoria».
       Chissà cosa ne pensa il sindaco Mattia Palazzi, che per l'area ha progetti ambiziosi basati sul masterplan di Stefano Boeri. Lo scopriremo presto. Una cosa è certa: la comunità mantovana, che ortodossa non è, è interessata alla memoria: «La pulizia dell'area, la mappatura delle sepolture rimaste, la costruzione di un museo della memoria sono idee che condividiamo», precisa Colorni.

    (Gazzetta di Mantova, 3 dicembre 2016)


    Russia - Israele: quei silenzi sui raid israeliani che turbano Teheran

    I raid aerei israeliani sulla Siria dell'altro giorno hanno aperto una serie di domande sui rapporti tra la Russia e Israele che turbano Teheran. Il silenzio di Putin seguito agli attacchi israeliani a un convoglio di armi diretto a Hezbollah e a un deposito di munizioni dell'esercito siriano è eloquente dell'imbarazzo di Mosca che, secondo fonti di intelligence, è stata presa del tutto alla sprovvista dall'azione israeliana....

    (Right Reporters, 3 dicembre 2016)


    Energica Motor: definiti gli accordi commerciali con Israele

    Duplice conquista internazionale per Energica Motor S.p.A.: oltre alla California, il mercato delle moto elettriche italiane apre oggi ufficialmente al Medio Oriente. Energica ha infatti concluso l'iter burocratico per l'apertura degli accordi commerciali con Israele. In data odierna la casa modenese ha ottenuto le autorizzazioni per l'immatricolazione dei veicoli da parte delle autorità governative competenti.
    Un nuovo paese extra europeo si aggiunge all'importante rete di vendita internazionale delle moto Energica che saranno importate nel territorio israeliano da AUTO ELECTRIC. L'attenzione al mercato mediorientale rappresenta per EMC un importante potenziale di sviluppo, in linea con la strategia di crescita del brand.
    Israele è un mercato prioritario e di grande valore commerciale per l'apertura verso il medio Oriente ma anche per la presenza di aziende ad alta tecnologia, pioniere nel settore delle batterie, dei sistemi di ricarica e della mobilità elettrica.

    (Trader Link, 2 dicembre 2016)


    Ebrei: Dello Sbarba e Bertoldi solidali dopo la mozione dei Freiheitlichen

    Macellazioni tradizionali, il presidente Kompatscher media: «Tutti vanno rispettati».

    BOLZANO - Il presidente Kompatscher tenta di mediare dopo la polemica scoppiata sulla mozione dei Freiheitlichen che, in nome della difesa degli animali, chiedeva all'aula di schierarsi contro la macellazione per dissanguamento, senza stordimento. Il testo accomunava ebrei e islamici sono un'unica definizione che li indicava come «estranei alla popolazione locale», accomunati dalla pratica «crudele» della macellazione rituale.
       «Le tradizioni e i costumi locali vanno rispettati, cosi come le leggi e la Costituzione - dice Kompatscher - altrimenti ciascuno potrebbe domattina inventarsi una nuova regola esigendo che essa venga accertata». Alessandro Urzi, unico autore di un intervento in aula in merito attacca la destra tedesca: «Accomunare sono un'unica definizione ebrei e islamici, affermando che i primi, come i secondi, siano estranei alla nostra cultura, è una scorrettezza perché occorre prendere atto al contrario che l'Alto Adige è terra ru ebrei come di cristiani», afferma il consigliere di «Alto Adige nel cuore».
       Sulla difesa degli animali ha invece centrato l'attenzione Paul Kiillensperger del Movimento Cinque Stelle, che sottolinea l'esigenza: « In questo spirito ho votato il provvedìmento». Critico contro la crudeltà nella macellazione degli animali anche Sven Knoll.
       Il consigliere verde Riccardo Dello Sbarba, invece ricorda che «affermare che islamici e ebrei non contribuiscono a rappresentare l'identità di questo territorio costituisce un falso storico, dal momento che proprio gli ebrei costituiscono da tempo una realtà saldamente presente nel Tirolo storico».
    Il vice presidente nazionale dell'Unione di Associazioni pro Israele Alessandro Bertoldi ha manifestato la solidarietà alla presidente della comunità ebraica di Merano Elisabetta Rossi Innerhofer.
       «Dobbiamo fare attenzione agli sciocchi e anche a chi dimentica troppo facilmente - il richiamo di Lionello Bertoldi, presidente emerito dell'Associazione nazionale partigiani, che definisce oltremodo «improvvida» l'iniziativa dei consiglieri liberalnazionali.

    (Corriere dell'Alto Adige, 3 dicembre 2016)


    Washington rinnova le sanzioni contro l’Iran. Zarif: "Gli Usa non sono affidabili"

    La decisione del Senato degli Stati Uniti, che ha rinnovato per dieci anni le sanzioni contro l'Iran, conferma che Washington non rispetta le decisioni prese. Così il ministro degli Esteri di Teheran Javad Zarif, commentando il voto all'unanimità di due giorni fa al Senato sulla proroga dell'Iran Sanction Act, cui qualche giorno prima aveva dato il via libera la Camera dei rappresentanti.
    "Il prolungamento delle sanzioni imposte all'Iran - ha detto Zarif, citato dalla tv pubblica mentre è in visita in India - mostra alla comunità internazionale che gli Stati Uniti non sono affidabili. L'America contraddice i suoi stessi impegni".
    In realtà, l'amministrazione di Washington sostiene che l'Isa non sia in contrasto con l'accordo sul nucleare raggiunto con Teheran. La proroga delle sanzioni deve comunque essere firmata dal presidente Barack Obama, che si era detto contrario al prolungamento di dieci anni.

    (Adnkronos, 3 dicembre 2016)


    Baltica week - Una settimana nel ricordo del genocidio degli ebrei a Rumbula

    Una toccante cerimonia con la posa di centinaia di candele di fronte al Monumento alla libertà a Riga ha ricordato i 25 mila ebrei uccisi nei boschi di Rumbula nel 1941, fra gli eventi principali di questa settimana.

    Il monumento alla libertà a Riga
    Fra il 30 novembre e l'8 dicembre del 1941 25 mila ebrei furono trucidati dalle SS naziste e dai reparti collaborazionisti lettoni nei boschi presso Rumbula, a pochi chilometri da Riga. Mercoledì scorso una toccante cerimonia con la deposizione di centinaia di candele di fronte al monumento alla libertà, nel centro di Riga, ha voluto ricordare questo tragico avvenimento a settantacinque anni dalla sua ricorrenza.
    L'olocausto di Rumbula è il più grande assassinio di massa perpretato in suolo lettone. Fu organizzato e condotto dai reparti delle SS che avevano occupato la Lettonia, con la collaborazione di alcuni reparti della polizia locale. Furono anche i giorni in cui vennero uccisi più lettoni che in ogni altro evento storico nel paese baltico.
    L'occupazione nazista della Lettonia dal giugno del 1941 aveva portato anche nel paese baltico lo sterminio del popolo ebraico. Furono creati commandi speciali, organizzati da collaborazionisti lettoni, gli Arāja commandos, detti anche Einsatzgruppe A, che si incaricavano di effettuare retate di ebrei nelle principali città lettoni: in particolare, Riga,  Arāja e Daugavpils. Furono distrutte le sinagoghe, e i cittadini ebrei vennero confinati in ghetti.
    Proprio dal ghetto di Riga il 30 novembre del 1941 i nazisti misero in marcia una lunghissima colonna di prigionieri ebrei, per portarla fino ai boschi di Rumbula. Dieci chilometri in marcia, sotto la scorta dei soldati nazisti e di personale di polizia lettone.
    Nei boschi di Rumbula gli ebrei furono costretti a spogliarsi, a lasciare le loro cose (avevano portato con sè le loro cose, perché gli era stato detto che quello era un trasferimento) per poi venire fucilati dalle milizie degli Arāja commandos e dai soldati tedeschi. Nel ghetto di Riga vivevano circa 30 mila persone, e non era possibile ucciderle tutte in un solo giorno nei boschi di Rumbula. Per questo l'uccisione di massa fu prolungata fino all'8 dicembre.
    Per ricordare questo tragico avvenimento, a 75 anni di distanza, è stata organizzata una cerimonia molto particolare di fronte al monumento alla libertà a Riga. Centinaia di candele deposte ai piedi del monumento in ricordo delle vittime ebree.
    Fra economia e politica è stata una settimana poco esaltante per la Lettonia e complessivamente per i paesi baltici, che si sono visti ridurre drasticamente le previsioni di crescita economica per quest'anno dall'OCSE.
    Sono usciti questa settimana anche i sondaggi dei partiti in Lettonia. I russofoni di Saskaņa si confermano primo partito nel paese, e aumentano il proprio consenso fino al 20%. Dietro di loro ZZS, al 15%. Perdono i nazionalisti di Visu Latvijai!, mentre resta sostanzialmente stabile, in bilico sulla soglia di sbarramento del 5% Vienotība.
    Il presidente lettone Vējonis ha intenzione di rinviare al parlamento la norma sul nuovo sistema fiscale e contributivo a carico delle micro imprese, una delle norme più contestate all'interno della legge di bilancio lettone del 2017.
    Intanto sono stati resi pubblici alcuni dei progetti che saranno finanziati grazie alla famigerata "deputātu kvota", la quota di soldi pubblici riservata ai parlamentari per promuovere progetti locali di interesse pubblico. Circa 420 mila euro saranno destinati al completamento di appartamenti popolari a Smiltene, mentre 95 mila euro finiranno a Valka, in gran parte per la costruzione di un monumento  Pagaidu latviešu nacionālajai padome, , il Consiglio nazionale provvisorio lettone, che proprio da Valka fu uno dei motori per l'acquisizione dell'indipendenza del paese baltico nel 1918.
    La parte del leone comunque per i finanziamenti ricevuti (20 milioni in totale) fra i vari comuni l'ha fatta Ventspils, che ottiene 4,1 milioni di euro, seguita da  Arāja (1,7 milioni), Rezēkne (1,4 milioni), Jelgava e Valmiera (1,1 milioni). La maggior parte dei progetti finanziati è stata presentata da deputati della maggioranza, mentre sono pochissimi quelli dell'opposizione. Questa è una delle questioni che hanno scatenato maggiori critiche sul metodo della "deputātu kvota".
    E' stata approvata dal parlamento lettone una nuova norma che prevede il ritiro della patente di qualsiasi mezzo motorizzato (anche barche) a chi è in ritardo sul pagamento degli alimenti al coniuge o ai figli. Una norma che entrerà in vigore dal 1o gennaio 2017 e che si spera serva per regolare meglio una materia molto importante, in un paese con un'alta percentuale di coppie separate.
    Per qualcuno è stata comunque una settimana fantastica. Si è registrata infatti una vincita record al lotto lettone, esattamente al Viking Lotto, dove un gruppo di giocatori ha indovinato i sei numeri vincenti, che hanno fruttato la somma di 815 mila euro. Dei cinque vincitori in gruppo, uno solo è lettone: poi c'è un finlandese, un danese e due norvegesi.
    Per chi è in Lettonia in questi giorni l'attrazione principale è senza dubbio quella dei mercatini di natale che hanno aperto un po' ovunque, sia a Riga che nel resto del paese.
    In questo weekend potete anche visitare il tradizionale albero di natale che è stato acceso ieri in Rātslaukums, fra il palazzo comunale di Riga e la Casa delle Teste nere con un meccanismo di accensione davvero particolare e da guinnes dei primati .
    E' il luogo fra l'altro in cui si narra che sia stato addobbato il primo albero di natale della storia nel 1510. Ma non ditelo agli estoni, che potrebbero arrabbiarsi.

    (Baltica, 3 dicembre 2016)


    Scovato a Budapest il registro completo delle sepolture

    Il lavoro su Mantova dell'editore Rav Shmaya Levi: «Qui ci sono le tombe dei maestri della cultura ebraica»

     
    L'epitaffio di Moshè Zacuto ritrovato e identificato da Mauro Perani
    MANTOVA - Un antico documento che l'editore, rabbino e ricercatore israeliano Rav Shmaya Levi ha scovato a Budapest riporta con esattezza il registro delle sepolture dell'antico cimitero ebraico di Mantova. Il salto indietro nei secoli crea suggestioni straordinarie. Nel documento ritrovato in Ungheria, Rav Shmaya Levi ha avuto la conferma che a Mantova sono seppelliti esponenti importantissimi dell'ebraismo.
    La Gazzetta di Mantova aveva raccontato che nell'antico cimitero è seppellito Azariah da Fano (Fano, 1548 - Mantova, 1620) considerato il più eminente cabalista d'Italia. Ora, grazie al ritrovamento del registro completo delle sepolture, la lista dei nomi autorevoli dell'ebraismo seppelliti nel cimitero del Gradaro si allunga.
    «Moshè Zacuto, Aviad Basilea, David Finzi, Yehudà Briel - spiega Rav Shmaya Levi - sono seppelliti a Mantova, ora lo sappiamo per certo. Per la nostra comunità questi nomi sono i maestri. Ancora oggi leggiamo e studiamo le loro opere ogni giorno».
    Una ricerca sul portale "Rabbini italiani" consente di farsi un'idea del livello delle personalità cui Rav Shmaya Levi si riferisce.
     Rabbì Moshè Zacuto (Amsterdam 1625 - Mantova 1697) fu uno dei maggiori cabalisti italiani. Dei suoi molti libri videro la stampa: "Shudà' De-Dayyanè" (Mantova 1678, sulle regole relative a cause pecuniarie), "Qol ha-Re.Ma.Z." (Amsterdam 1719, un commento alla Mishnà), "Sh.U-T. ha-Re.Ma.Z." (Venezia 1761, responsi), "Iggheròt ha-Re.Ma.Z." (Livorno 1780, un epistolario contenente trentasette lettere di argomento cabalistico).
     Rabbì Aviad Basilea fu talmudista, cabalista, filosofo e scienziato. Nacque a Mantova nel 1680, e qui fu allievo di Rabbì Yehudà Briel. A 44 anni si dedicò allo studio della cabala lurianica e compose il libro "Emunàt Chakhamìm", pubblicato a Mantova nel 1730. Delle sue opere è noto anche un commento al "Toftè 'Arùkh" di Rabbì Moshè Zacuto. Alcuni suoi responsi sono riportati nel "Pàchad Itzchàk" e nelle opere dei suoi contemporanei Rabbì Moshè Hagiz e Rabbì Ya'aqòv Emden. Ha lasciato inediti scritti di ingegneria e geometria. Morì nel 1743.
     Rabbì David Finzi, mantovano degli inizi del 18o secolo, fu allievo di Rabbì Yehudà Briel nell'ambito biblico, talmudico e normativo, e di Rabbì Moshè Zacuto per la mistica. Fu suocero di Rabbì Moshè Chayìm Luzzatto. I suoi responsi si trovano sparsi in alcune raccolte, quali il "Shémesh Tzedaqà" o il "Divrè Yosèf".
     Rabbì Yehudà Briel (1643 - 1722) fu rabbino a Mantova dove succedette a Rav Moshè Zacuto. Fu una delle personalità più importanti della sua epoca. Parte dei suoi responsi fu pubblicata nelle opere di altri rabbini italiani quali il Pachad Ytzhàk, lo Shemèsh Tzedakà, il Zèrà Emèt ed il Devàr Shemuèl. Tradusse dal latino in ebraico le lettere di Seneca e utilizzò la conoscenza del latino per combattere i libelli antisemiti dell'epoca.

    (Gazzetta di Mantova, 3 dicembre 2016)


    «Quello è il cancello di Dachau». Rubato due anni fa, era in Norvegia

    Memoriale del lager, giallo sui ladri: neonazisti o collezionisti

    di Roberto Giardina

    Il cancello di Dachau dopo il ritrovamento
    BERLINO - Dopo esattamente due anni e un mese è stata ritrovata la porta in ferro battuto del Lager di Dachau, con la scritta «Arbeit macht frei», il lavoro rende liberi, esempio del macabro umorismo nazista. Grazie a una soffiata anonima, la polizia norvegese l'ha recuperata in un deposito alla periferia della città di Bergen. In Germania è stata inviata una foto, e da un primo esame gli esperti bavaresi sono sicuri che si tratti dell'originale «con quasi assoluta cerezza».
       Il furto della porta, pesante oltre un quintale e alta un paio di metri, era avvenuto a Dachau il 2 novembre 2014, si presume su commissione di qualche collezionista o di un gruppo neonazista. I ladri hanno potuto agire senza eccessiva preoccupazione perché la zona non era e non è videosorvegliata, entrando in azione tra due turni delle guardie notturne. Ma la scritta non è originale, le lettere in ferro scomparvero subito dopo la guerra, e furono sostituite da una copia fedele nel 1965. Si presume che il committente abbia poi rinunciato a comprare la porta a causa del clamore suscitato dal furto. E i ladri hanno preferito abbandonarla.
       Dachau fu il primo lager a entrare in funzione già nelle prime settimane dopo l'avvento di Hitler, nel 1933. Vi venivano internati comunisti e altri oppositori del regime, e non era un campo di sterminio, ma i prigionieri morivano di stenti e per i maltrattamenti.
       Già nel dicembre 2009 era stata trafugata la scritta «Arbeit macht frei» all'ingresso del lager di Auschwitz, in Polonia. Il fregio pesante una quarantina di chili e lungo cinque metri, era stato ritrovato diviso in tre parti qualche giorno dopo in una località nel nord del paese. Grazie a una taglia di 27.500 euro, fu possibile arrestare i colpevoli, cinque polacchi tra 25 e 39 anni che confessarono di aver agito su commissione di un collezionista svedese. Furono condannati a pene fino a due anni, come il mandante arrestato e condannato a Stoccolma. La scritta è stata restaurata e rimessa sul portone principale del lager, dove fu sterminato oltre un milione di ebrei.
       Per le autorità polacche, la scritta avrebbe avuto un valore di almeno mezzo milione di euro sul mercato nero dei collezionisti. Gli oggetti del III Reich, dalle armi alle divise, alle decorazioni, continuano a crescere di valore, anche perché è sempre più difficile trovare pezzi autentici. I più fanatici sono gli americani, seguiti dai nuovi ricchi russi, seguiti dagli arabi e da cinesi e giapponesi.
       Il mese scorso, a un'asta a Londra un anello d'oro appartenuto a Eva Braun, la compagna del Fuhrer, è stato aggiudicato per 1.250 sterline, un portarossetto per 360. In giugno, a Monaco, la casa d'aste Hermann Historica ha incassato 170mila euro grazie ai fan del III Reich. Tutti nostalgici? I superstiti dei campi di sterminio, e i loro discendenti, protestano, ma la vendita non è vietata.

    (Nazione-Carlino-Giorno, 3 dicembre 2016)


    Il mondo perduto di Esther, Isaac e Israel

    L'epopea letteraria dei fratelli Singer, il rapporto con l'ebraismo orientale e l'incontro con la cultura razionale e illuminista.

    di Paolo Delgado

     
    La famiglia Singer
    Se l'avessero fatto apposta sarebbe un esperimento letterario di prim'ordine. Due scrittori, sorella e fratello, entrambi dotatissimi e vicini per età, lei più grande di appena due anni, raccontano la stessa vicenda autobiografica, identica ma colta da punti di vista opposti: quello di un maschio che rifiuta la comunità in cui è nato e cresciuto e quello di una femmina per cui ribellarsi, proprio in quanto femmina, è infinitamente più arduo. La comunità è quella di un "mondo che non c'è più", la dimensione particolarissima anche all'interno dell'ebraismo, dell'universo ebraico-orientale. Il mondo degli Shtetl, del misticismo chassidico, delle grandi e lussuose corti rabbiniche i cui maestri erano venerati come santi e si tramandavano spesso il titolo di padre in figlio.
      Gli autori che hanno raccontato in due libri straordinari la loro esperienza privata all'interno di quella realtà scomparsa sono Esther Kreitman Singer, nel suo primo romanzo pubblicato, La danza dei demoni, del 1936, e suo fratello Israel Singer, che la stessa vicenda aveva narrato tre anni prima nel suo Da un mondo che non c'è più. Il romanzo di Esther, che era già uscito anni fa in Italia col titolo Deborah, è stato da poco riportato da Bollati-Boringhieri nelle librerie nella nuova traduzione di Marina Morpurgo. Il libro di Israel, che al contrario del romanzo della sorella, è esplicitamente una memoria autobiografica, è uscito in Italia nel 2015 in due diverse versioni: col titolo originale e la traduzione di Marina Morpurgo da Bollati-Boringhieri. Col titolo La pecora nera e la traduzione di Anna Linda Callow da Adelphi.
      I genitori di Esther e Israel veni vano da correnti opposte dell'ebraismo orientale. Il padre era un rabbino chassidico, un mistico che credeva nella possibilità di una comunione con Dio veicolata dalle emozioni estatiche più che dalla ragione e nelle doti sovrannaturali assolute, inclusa la capacità di compiere miracoli, dei "santi" delle corti chassidiche, gli Tsadik che si tramandavano spesso titolo e santità di padre in figlio. La madre, donna colta che a differenza delle ebree chassidiche aveva studiato, era invece figlia di uno dei più importanti e sapienti rabbini ost-juden. Si trattava però di un'illuminista che disprezzava la mistica chassidica e la considerava alla stregua di una superstizione.
      I giovani Singer erano dunque cresciuti in una famiglia segnata dal gelo, con un padre che si sforzava continuamente di piacere e rendere orgogliosa una moglie sprezzante e fredda. Tanto più che il rabbino non era affatto portato alle cose di questo mondo. La famiglia era quindi costretta a vivere molto poveramente in un piccolissimo Shtetl. Quando il padre fu chiamato a insegnare in una delle più importanti corti rabbiniche le cose peggiorarono ulteriormente. Il santo si rivelò presto un furbo imbroglione che rifiutava di pagare il maestra, lasciando la sua famiglia nella miseria più nera. A salvarli fu un conoscente occasionale, che convinse il padre dei due ragazzi a trasferirsi in una delle zone ebraiche più misere e malfamate di Varsavia priva di rabbino, dove la situazione della famiglia migliorò sensibilmente.
      Israel, illuminista e vicino al socialismo, racconta la storia facendosene protagonista e guardandola dal punto di vista della madre e del nonno materno. Non nasconde il disprezzo per le superstizioni chassidiche e per il piccolo mondo dello Shtetl. Non c'è velo di poesia o magia, neppure nel ricordo, ad addolcirne lo sguardo. Applica alla storia sua e della sua famiglia lo stesso realismo crudo che si ritrova nei suoi grandi romanzi.
      Esther, la femmina tenuta lontana dai libri dal padre, ignorata dalla madre infelice, divorata da un desiderio di sapere che è condannata a non appagare, non riesce mai a farsi protagonista della sua stessa storia. La racconta come chi è costretto a osservare senza partecipare, impegnata in un combattimento impari per sottrarsi a quel destino. Che è però la chiave del suo stile pittorico, opposto a quello del fratello. Esther sa descrivere nei particolari, con una partecipazione che le permette di cogliere l'essenza, quello stesso mondo che Israel sferza con la sua prosa. Proprio perché costretta a ritirarsi sul fondo della storia, è in grado di coglierne tutti gli aspetti e di descriverli con la partecipazione che manca alla visione del fratello. Non sfuggono la bellezza del padre, la sua nobiltà infelice, e pur senza mai scivolare in un giudizio feroce, destina la sua empatia e la sua comprensione al rabbino generoso e inetto molto più che alla madre intellettuale e gelida.
      Quando la famiglia arriva a Varsavia però i punti di vista aumentano, con l'ingresso in scena di Isaac il fratellino piccolo, destinato a diventare uno dei più grandi scrittori del Novecento e a vincere il Nobel nel 1978. Più giovane di Esther di 13 anni e di Israel di 11, Isaac Baashevish era probabilmente troppo piccolo per ricordare gli anni dello Shtetl. Sulla corte rabbinica di via Krochmalna a Varsavia ha scritto però un libro di ricordi, Alla corte di mio padre, che non è solo considerato tra i suoi migliori ma rivela come le storie che aveva sentito raccontare lì da quelli che si rivolgevano al padre perché risolvesse, in veste di giudice, controversie spinose o casi difficili sono stati poi l'inesauribile materiale di tutta la sua opera e in particolare dei racconti, nei quali Isaac eccelle più che nei romanzi. Il mondo dell'ebraismo orientale, nella sua visione è insieme grottesco e incantato, spesso surreale eppure capace di presentare in ogni vicenda raccontata una sorta di dilemma filosofico. A Esther, la sorella infelice condannata a un ruolo non suo e destinata a soffrirne per tutta la vita, Isaac ha dedicato uno dei suoi racconti migliori e forse il più famoso di tutti, anche per il film che ne ha tratto, come regista e interprete, Barbra Streisand: Yentl, la storia di una ragazza che pur di studiare nella yeshiva, la scuola rabbinica, si fa passare per maschio.
      Nei loro romanzi, nei racconti e nelle memorie tutti e tre i Singer hanno parlato di un mondo che non c'è più, quello ost-juden, l'ebraismo orientale che aveva trovato modo di costruire una sorta di "patria in esilio", con la sua cultura specifica e la sua lingua, l'yiddish adoperato da tutti e tre gli scrittori nelle versioni originale. Ma lo hanno fatto da angolazioni diverse, che si riflettono poi immediatamente sui rispettivi stili di scrittura. Israel, razionale e beffardo, è consapevole di essere stato tra gli agenti della disgregazione di quel mondo. Lo guarda a ritroso a volte con affetto ma mai con rimpianto. Lo inserisce nel quadro ampio delle trasformazioni storiche e sociali circostanti, a partire dalla rivoluzione russa. Lo rievoca senza sconti e senza sentimentalismi, come il grande scrittore realista che era.
      Anche Esther, la prima a scrivere costretta però a bruciare tutto dopo il matrimonio combinato, è un agente della disgregazione di quel mondo, col suo rifiuto di accettare il ruolo riservato alle donne, ma ne è anche una vittima che tuttavia non arriva mai al rifiuto drastico di Israel e sembra anzi essere quella che meglio di tutti riesce a cogliere le qualità di quel mondo scomparso.
      Isaac cresciuto già nella grande città e con l'esempio dei fratelli maggiori è il solo a raccontare il mondo ebraico-orientale senza aver vissuto da protagonista ma solo come testimone della sua fine. E' l'unico, soprattutto, a scrivere dopo la Shoah, consapevole che il mondo ost-juden non c'era più non solo perché erano venute meno la sua cultura e il suo tessuto sociale, ma perché era stato cancellato e sterminato. Lo traspone quindi in una dimensione fantastica, quasi onirica, diversa sia dal realismo ancora ottocentsco del fratello sia dalla visione più intima e partecipe ma ancora realista della sorella.
      Esther Kreitman è stata considerata a lungo solo "la sorella dei Singer". Ora chiunque può scoprire che era invece molto più di questo e stupirsi chiedendosi come dalla stessa famiglia siano potuti arrivare tre scrittori così eccezionali.

    (Il Dubbio, 3 dicembre 2016)


    L'ONU: "Iraniani: l'accordo sul nucleare ha aumentato le violazioni dei diritti umani in Iran"

    Shabnam Madadzadeh e Arash Mohammadi
    Oltre al rapporto del mese scorso del Segretario Generale dell'ONU, che ha parlato nel dettaglio dell'aumento delle violazioni dei diritti umani in Iran, due dissidenti recentemente fuggiti, hanno raccontato le loro storie personali di abusi, affermando che l'accordo sul nucleare sta solo incoraggiando il regime ad essere più repressivo ed espansionista, dice The Washington Times.
    I due dissidenti, Shabnam Madadzadeh, 29 anni e Arash Mohammadi, 25 anni, hanno parlato a Rowan Scarborough della brutalità che hanno dovuto subire quando hanno preso parte alle proteste pubbliche. Entrambi sono stati fatti uscire di nascosto dall'Iran dalla rete clandestina organizzata dai Mojahedin del Popolo Iraniano (MEK).
    Questi manifestanti hanno parlato dell'odio diffuso per il regime e del senso di sfiducia verso l'Occidente che non fa nulla per appoggiare le aspirazioni per la democrazia. Mohammadi, arrestato per aver preso parte alle manifestazioni del 2009, ha detto che nelle strade si gridava: "Obama, stai con loro o con noi?".
    Shabnam Madadzadeh ha detto: "Non è cambiato nulla nella vita del popolo iraniano. L'accordo è stato solo con il regime". Il denaro sbloccato dalla revoca delle sanzioni se n'è andato per l'esportazione del terrorismo, per sostenere il regime di Assad e per la repressione. "Ogni negoziato con il regime rappresenta altre forche in Iran", ha detto a The Washington Times.
    Shabnam Madadzadeh è diventata famosa per essere stata la coordinatrice degli studenti durante le proteste popolari del 2009. E' stata menzionata nei rapporti del Dipartimento di Stato sulle violazioni dei diritti umani in Iran del 2010 e del 2011. Il Dipartimento di Stato ha detto che Shabnam Madadzadeh è stata condannata a cinque anni di reclusione per diffusione di propaganda contro lo stato. Il suo avvocato non era presente in aula, le autorità l'avevano arrestata per aver protestato contro la condanna a morte di ragazzino.
    Tra le varie prigioni in cui è stata rinchiusa Shabnam Madadzadeh c'è anche il famigerato carcere di Evin e la sua Sezione 209 diretta dal Ministero dell'Intelligence. Ha detto di essere stata picchiata, minacciata di stupro e sottoposta a finte esecuzioni. A Shabnam Madadzadeh è stato detto: "Dì che sei contro i Mojahedin". Ma lei non l'ha fatto.
    Arash Mohammadi è rimasto in carcere per due anni, periodo durante il quale "gli inquirenti dell'intelligence lo hanno picchiato e minacciato", ha riportato The Washington Times. Gli era stato offerto del denaro per denunciare il MEK e "diventare un riformista accettato", ma Mohammadi ha rifiutato.
    Tutti e due questi dissidenti hanno parlato a Parigi durante una conferenza cui hanno partecipato altri iraniani oppositori del regime iraniano. Mohammadi vuole essere "la voce di chi non ha voce". Il suo messaggio al Presidente eletto Donald Trump è: "La responsabilità del cambiamento è mia e della mia generazione. Noi siamo la forza per il cambiamento. Se l'Occidente vuole avere una buona reputazione in Iran, la mia opinione è, restate al nostro fianco. Restate al fianco della resistenza. La storia vi ricorderà benevolmente. E' per il vostro progresso e per il progresso del popolo iraniano".

    (Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 3 dicembre 2016)


    "La nostra nuova vita si chiamò Italia"

    Il progetto Edoth del Cdec di Milano raccoglie le testimonianze degli ebrei fuggiti dal Medio Oriente e Maghreb.

    di Ada Treves

     
    Ritratti della famiglia Debasc-Guetta
    "Sono ricordi preziosi, frammenti di un passato che non esiste più narrati da chi li ha vissuti in prima persona, racconti che abbiamo registrato e raccolto per costituire una sorta di pozzo delle memorie che serve a ricostruire la vita delle persone, l'atmosfera del paese, i costumi, le abitudini, ma anche sapori, i profumi, riti... Così Adriana Goldstaub descrive l'immensa mole di materiale raccolto a partire dal 2011 dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano (Cdec): un centinaio di interviste, tutte registrate in video di durata variabile a seconda sia dell'abilità dell'intervistatore che, soprattutto, della voglia di ricordare e di raccontare dell'intervistato. Coordinatrice del progetto Edoth, ha raccolto, insieme a un team di volontari appositamente formati e seguendo una traccia preparata da Betti Guetta circa cento interviste a ebrei milanesi, scelti fra i più anziani nati in Egitto, Siria, Libano, Libia e Persia e nella maggior parte dei casi fuggiti dai rispettivi paesi. "Per noi era soprattutto importante sentire le loro voci, essenzialmente perché quando hanno dovuto andarsene erano già adulti, e potevano quindi essersi formati una stratificazione di ricordi precisi, per noi preziosi".
      Un progetto socio antropologico che documenta una realtà - quella ebraica milanese - estremamente ricca e unica in Italia. "Questa è la missione del Cdec - ha spiegato la direttrice del progetto Edoth, Liliana Picciotto - raccogliere la memoria ebraica del Novecento". Così è nato il progetto di raccolta documentaria, un deposito di storia orale in cui ogni singolo intervistato porta le proprie specificità la propria storia di individuo, che va a sommarsi a quelle di coloro che sono fuggiti dallo stesso paese, per arrivare a comporre un mosaico preciso. Adriana Goldstaub, che ha raccolto personalmente molte delle testimonianze, spiega che quando si parla con queste persone spesso gli occhi si illuminano, e i racconti fluiscono senza esitazioni: "Alcuni degli intervistati erano emozionati, hanno raccontato per filo e per segno come hanno fatto, che traversie hanno passato, con la paura addosso".
      Così ora negli archivi del Cdec si accumulano le storie, che raccontano di una integrazione faticosa ma quasi sempre di successo, in cui le tipicità della cultura di origine si sono spesso stemperate nella vita italiana. C'è chi racconta di essere stato chiuso in casa un mese e di aver regalato o svenduto tutto prima di partire e chi ricorda l'antisionismo, spesso molto venato di antisemitismo dei colleghi, le difficoltà e l'amarezza, ma anche spesso la storia del proprio successo uno volta arrivati in Italia: una signora libanese una vita arrivata a Milano ha iniziato a occuparsi dell'accoglienza delle profughe ebree arrivate con le migrazioni successive, impegnandosi per per non farle sentire sole, aiutandole ad inserirsi. Quella che sarebbe poi diventata la prima assistente sociale della comunità, invece, aveva studiato a Teheran, dove aveva anche già iniziato a lavorare prima della partenza per l'Italia.
      Tratto comune a tutte le storie è la necessità del nomadismo, l'aver dovuto cambiare paese per reinventarsi una vita altrove, semplicemente perché ebrei. "Va ricordato - ha spiegato Liliana Picciotto - che nel giro di due generazioni il mediterraneo si svuota dei suoi ebrei, e l'ebraismo sefardita perde quella supremazia anche culturale che aveva sulla scena internazionale. Dopo esserci preparati sul contesto storico abbiamo proceduto con le interviste, con l'idea di far aggiungere al quadro storico i frammenti di memoria, le vicende vissute, e anche di fare emergere un ritratto della natura ricca e composita della comunità ebraica milanese''. Caratteristica tipica degli ebrei di origine egiziana - uno dei gruppi più numerosi a Milano - , per esempio, è l'altro gradi di scolarizzazione precedente alla fuga: arrivati prima nel '57 e poi fra '67 e '68 sapevano inglese e francese e hanno trovato il modo di arrangiarsi. Si tratta di un caso di immigrazione riuscita, caratterizzata ora da un'altissima integrazione, con tracce di identità che restano a livello di cucina, di linguaggio, insieme a pochissima osservanza religiosa, che era però già bassa prima della partenza.
      In previsione ora c'è l'estensione del progetto su base nazionale, a partire da una serie di interviste agli ebrei tripolini che verranno fatte a Roma, ma, come ha spiegato Betti Guetta, che ha lavorato allo schema per le interviste, mancano le forze, e anche i finanziamenti. "Si tratta di un lavoro che parla di identità, storie e tradizioni dei paesi di provenienza che racconta chi sono coloro che hanno scelto di venire in Italia. Oltre ad essere una quantità notevole di materiale - i video durano, in media, un'ora e mezza e si tratta di informazioni utilizzabili per molte ricerche". Dalle analisi incrociate alla ricostruzione antropologica della storia di comunità che non esistono più, a uno studio sulle dinamiche dell'integrazione in Italia, sono molte le chiavi di lettura che potranno essere utilizzate. E tutto il materiale è a disposizione dei ricercatori.

    (Pagine Ebraiche, dicembre 2016)


    Ferrara - Meis, domenica a porte aperte

    Anche il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara tra i musei che aderiscono all'iniziativa #DomenicalMuseo, promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Per tutta la giornata di domenica 4 dicembre (dalle 10 alle 18) il Meis sarà infatti aperto gratuitamente.
    La struttura, in via di realizzazione, offre la possibilità di visitare la mostra "Torah fonte di vita" (via Piangipane 81) e il bookshop, per l'occasione e fino a domenica 18 dicembre, applicherà il 10 per cento di sconto su libri, giochi e gioielli legati alla storia e alla cultura ebraica.
    La mostra "Torah fonte di vita" presenta una selezione di 70 oggetti di arte cerimoniale e di testi della collezione del Museo Ebraico della Comunità di Ferrara, la cui sede di Via Mazzini, dove sono ospitate anche le sinagoghe, ha subito gravi danni in seguito al terremoto del 2012 ed è tuttora chiusa al pubblico.
    Il Meis, in collaborazione con il ministero della Cultura, il Comune di Ferrara e la Comunità ebraica di Ferrara, ha adottato un allestimento che, lungo tre sale, esplora i diversi momenti in cui l'individuo viene a contatto con la Torah, testo fondante della religione: la sinagoga e la comunità, con la lettura pubblica durante le preghiere, il rito pubblico e il rito privato,
    L'intento è quello di restituire alla città una parte importante della sua identità, superando i danni del terremoto e offrendo, attraverso il restauro conservativo degli oggetti, un supporto concreto per la conservazione e la valorizzazione dei tesori del patrimonio culturale ebraico.

    (moked, 2 dicembre 2016)


    L'ambasciata resta a Tel Aviv, Obama firma il decreto

    WASHINGTON - Barack Obama ha firmato una nuova proroga per l'ambasciata Usa in Israele, che così per almeno altri sei mesi resterà a Tel Aviv. Questo mentre Donald Trump ha rinnovato il suo impegno di volerla spostare una volta per tutte a Gerusalemme.
    La proroga semestrale è oramai una consuetudine dai tempi della presidenza Clinton. In base al Jerusalem Embassy Act varato dal Congresso americano nel 1995, infatti, l'ambasciata Usa dovrebbe spostarsi da Tel Aviv a Gerusalemme, definita nel provvedimento "capitale indivisibile" di Israele.
    Ma finora tutti i presidenti sono ricorsi alla loro autorità emanando decreti esecutivi che di fatto hanno bloccato l'entrata in vigore della legge. La sospensione del provvedimento - da Clinton ad Obama, passando per Bush - è stata considerata necessaria per motivi di sicurezza nazionale. La mossa di spostare l'ambasciata a Gerusalemme, infatti, rischia di scatenare l'ira di molti alleati arabi degli Usa.
    È un pericolo che esiste tutt'oggi, con la questione palestinese ancora irrisolta e i palestinesi che contestano lo status di Gerusalemme capitale di Israele. È probabile che anche Trump una volta alla Casa Bianca si avvalga della proroga. Così come ha fatto Obama che pure in campagna elettorale nel 2008 aveva promesso il cambio di sede.

    (tio.ch, 2 dicembre 2016)


    Dall'Italia un altro schiaffo a Israele

    All'Unesco si era astenuta, all'Onu ha addirittura votato la mozione filo-palestinese

    di Fiamma Nirenstein

    Questa si chiama persecuzione del popolo ebraico, se qualcuno ancora non l'avesse capito, e poiché il mondo ne ha una certa esperienza, dovrebbe fermarsi a pensare. Infatti ci risiamo e con maggiore orrore e scandalo, dato che errare è umano, ma perseverare è diabolico. L'assemblea generale dell'Onu, come spinta da un tic, ha votato di nuovo una risoluzione su Gerusalemme che usa solo la terminologia e la logica araba e musulmana e condanna Israele per il solo fatto di essere a Gerusalemme. Una risoluzione ricalcata su quella dell'Unesco, sulla quale poi c'è stato, specie da parte dell'Italia, un gran battersi il petto. Di 193 stati, 147 hanno votato per la risoluzione, contro Israele, 7 hanno votato contro e 8 si sono astenuti. L'Italia che ha fatto? Uno si immaginerebbe che si sia opposta, dopo che Renzi aveva dichiarato il suo dispiacere perché si era astenuta in occasione del voto all'Unesco che negava agli ebrei ogni retaggio su Gerusalemme.
       Invece, proprio per quell'automatismo che il primo ministro lamentava come la causa del voto all'Unesco, quasi tutti gli stati europei hanno votato a favore, Italia con Francia, Germania, Inghilterra. I pochi cuor di leone che ce hanno detto no sono stati, oltre a Israele, Stati Uniti, Canada, Isole Marshall, Micronesia, Naura e Palu. Questa risoluzione è un bubbone nel buon senso del mondo, anche nella sua dignità e capacità di difendersi dall'attacco dell'islamismo. Presentata da una schiera di paesi islamici (Algeria, Bahrain, Egitto, Irak, Autorità Palestinese, ma anche Indonesia e repubblica democratica del Lao) è stata votata insieme a altre sei risoluzioni più di odio che di condanna per celebrare il giorno dedicato ai palestinesi. Essa dice che «ogni azione intrapresa da Israele, il Paese occupante, per imporre le sue leggi, la sua giurisdizione, amministrazione sulla città santa di Gerusalemme, sono illegali e quindi nulle e vuote e non hanno validità quale che sia», e quindi si chiama Israele «a cessare ogni e qualsiasi misura unilaterale».
       La risoluzione spinge a pensare che occorre dare mano libera al terrorismo perché spazzi via da Gerusalemme nel sangue più civili possibili, e si estenda verso le capitali europee. Sembra che questa sia l'intenzione di questa e migliaia di risoluzioni dell'Onu contro gli ebrei, mentre i veri violatori dei diritti umani come Siria, Arabia Saudita o Cina vengono ignorati.


    In un’intervista a Renzi pubblicata oggi sul Corriere della Sera compare un accenno ai rapporti del Primo Ministro italiano con Israele:
      Per la verità Massimo D'Alema Le ha tirato anche un'aitra frecciata. Riguarda i suoi rapporti con l'attuale governo di Israeie.
      «Quanto alla critica sulla mia amicizia con il premier Netanyahu, sono un amico del popolo di Israele e lavoro come tutti alla soluzione "due popoli, due Stati". Se dico che è un errore il boicottaggio universitario contro le università israeliane o certe vergognose polemiche antisemite non mi devo certo vergognare, anzi: ne vado fiero».
    A Netanyahu, se potessimo, daremmo volentieri un consiglio: stia ben attento a certe amicizie. M.C.

    (il Giornale, 2 dicembre 2016)


    Se Israele è l'eterno nemico

    Accettare la narrazione iper-semplicistica palestinese significa sostenere che Israele è un crimine in se stesso, e chiudere gli occhi su tutto il resto.

    Nei minuti in cui state leggendo questo articolo delle persone vengono uccise in Siria. Nello stesso momento in cui il regime di Assad sta schiacciando la resistenza ad Aleppo e si consuma una delle peggiori crisi civili dalla seconda guerra mondiale, il tema più discusso nei campus universitari del mondo occidentale rimane la questione israelo-palestinese. Un conflitto fra opposte narrazioni.
    Conosco bene la versione palestinese. So che è una narrazione iper-semplicistica che suona più o meno così: un giorno arrivarono gli ebrei che cacciarono via i palestinesi e ora li opprimono sulla terra che hanno rubato loro e, quel che è peggio, hanno la sfacciataggine di dire che quella terra è il loro paese....

    (israele.net, 2 dicembre 2016)


    Sulla scia di Exodus

    Ricordo di Ruth Gruber eccezionale testimone delle vicende fondamentali del Novecento. È stata la prima giornalista accreditata a visitare la Siberia nell'Urss di Stalin

    di Anna Foa

     
    Ruth Gruber
    E' morta a New York all'età di 105 anni Ruth Gruber. È stata un personaggio assolutamente fuori dal comune: scrittrice, giornalista, fotografa, funzionaria del governo americano, sempre impegnata dove si trattava di difendere diritti e salvare vite umane. Ha visto salire al potere Hitler in Germania, è stata la prima giornalista accreditata a visitare la Siberia nell'Urss di Stalin, ha seguito le vicende della nave Exodus portandole all'attenzione del mondo, è stata testimone e voce di vicende fondamentali del Novecento.
       Era nata a Brooklyn nel 19n in una famiglia di immigrati ebrei russi. Si era laureata giovanissima e nel 1931, a vent'anni, si era addottorata a Colonia con una tesi su Virginia Woolf. Là aveva visto con preoccupazione, prima che Hitler prendesse il potere, le sfilate naziste. Tornata negli Stati Uniti, aveva cominciato la sua carriera giornalistica nel «New York Herald Tribune» e per questo giornale aveva scritto una serie di articoli sulle donne sotto il fascismo e il comunismo. Era stata corrispondente in Siberia, visitandovi un gulag.
       La guerra interrompe però la sua attività più specificamente giornalistica. Viene infatti nominata da Harold Ickes, segretario degli interni di Roosevelt, politico riformatore e molto impegnato anche sul fronte della discriminazione razziale, sua assistente speciale.
       Nel 1944 viene inviata in Europa a scortare negli Stati Uniti mille profughi ebrei. Li intervista, li fotografa, riesce a portarli negli Stati Uniti a bordo di un sommergibile e riesce poi, tra mille difficoltà, a far sì che che possano restarvi ottenendo la cittadinanza. Fu l'unica o quasi deroga fatta alle restrittive norme contro l'accoglienza ai profughi che impedirono a tanti ebrei di salvarsi oltreoceano, come ci dimostra la drammatica vicenda della nave St. Louis, con oltre novecento profughi tedeschi, respinta nel 1939 da Cuba e dagli Stati Uniti e rinviata in Europa, dove 250 di loro avrebbero trovato la morte nei campi nazisti.
       Nel 1946 Ruth Gruber ritorna al suo posto al «New York Herald Tribune» e viene incaricata di seguire come giornalista la missione angloamericana che doveva indagare sulla situazione dei profughi ebrei (displaced persons) e sulla loro richiesta di essere ammessi in Palestina.
       È il momento in cui centinaia di migliaia di sopravvissuti ebrei vagano in Europa senza più un luogo dove tornare, mentre la Gran Bretagna si batte contro l'immigrazione clandestina in Palestina. E' il preludio alla fondazione dello stato di Israele. La commissione sostiene la necessità di accettare centomila ebrei in Palestina. La stessa raccomandazione è fatta propria successivamente dall'Onu in una seconda missione che Ruth Gruber segue per il suo giornale. I suoi articoli sulla stampa americana contribuiscono a mobilitare l'opinione pubblica americana a favore della costituzione di Israele. Ancor più forte sarà nel successivo 1947 l'impatto dei suoi resoconti della vicenda dell'Exodus, che Gruber segue da vicino, ad Haifa e poi in Europa. La storia è assai nota, anche perché è all'origine del libro di Leon Uris e del film famosissimo di Preminger: la nave Exodus, carica di 4500 passeggeri scampati ai lager, si dirige verso la Palestina nell'ambito dell'emigrazione clandestina dall'Europa - in molta parte dall'Italia - che fra il 1946 e il 1948 sbarcò migliaia di scampati nella futura Israele. La nave fu attaccata dagli inglesi, i profughi furono rinchiusi nei campi inglesi a Cipro, poi rinviati in Europa, in Francia dove si rifiutarono di sbarcare e infine in Germania, dove furono collocati in campi che erano stati precedentemente campi di concentramento nazista. L'impatto dell'opinione pubblica in Europa e in America fu enorme. L'unico giornalista che ebbe il permesso di accompagnare i profughi in Germania fu appunto Ruth Gruber, che li intervistò e fotografò. Famosissima divenne una sua foto con la bandiera inglese coperta da una grande svastica e i prigionieri ebrei dietro il filo spinato. Fra gli altri eventi importanti da lei "coperti" come giornalista la guerra di indipendenza di Israele del 1948 e il processo di Norimberga. Tutte vicende su cui ha scritto, oltre agli articoli sui giornali, molti libri: Haven sul salvataggio dei mille ebrei, Exodus 1947, e altri, tutti di grande successo. In vecchiaia ha scritto anche due volumi di autobiografia.
       Negli anni successivi al dopoguerra l'attività di Ruth Gruber continuò a muoversi dentro questo filone di attenzione per i diritti dei più deboli. Nel 1985, a settantaquattro anni, seguì il salvataggio degli ebrei etiopi e scrisse un libro, Rescue. Importante e fitta di riconoscimenti fu anche la sua attività di fotografa. Si sposò due volte, dopo i quarant'anni, e fece il primo figlio a 41 anni, nel 1951, cosa eccezionale per i tempi. Sopravvisse a entrambi i suoi mariti. Quando le chiesero il segreto dei suoi successi, rispose: «Avere sogni e visioni e non lasciare che nessun ostacolo ti fermi». È morta vecchissima, in un mondo che forse non avrebbe riconosciuto come suo.

    (L'Osservatore Romano, 2 dicembre 2016)


    Hannukkah, la festa delle luci al Museo ebraico di Firenze

     
    FIRENZE - Una delle feste più magiche della tradizione ebraica vista con gli occhi dei bambini. È infatti dedicato a loro l'appuntamento in programma domenica 4 dicembre (ore 11) al Museo Ebraico di Firenze che prevede una visita animata per guidare i più piccoli alla scoperta di Hanukkah, la Festa delle Luci.
    Hannukkah (o Chanukkà) è una delle ricorrenze ebraiche più sentite, un'occasione gioiosa in cui abbondano i momenti conviviali e dove proprio i più piccoli ne sono protagonisti. Il significato è molto profondo e commemora la consacrazione del Tempio di Gerusalemme dopo la profanazione greca e pagana. Il rito principale è l'accensione della Chanukkià, la speciale lampada a nove bracci. La leggenda racconta che dopo la riconquista di Gerusalemme il popolo ebraico per alimentare la menorah, il candelabro, trovò un'unica ampolla di olio, sufficiente appena per un giorno. In maniera inspiegabile quella piccola scorta bastò invece a tenere illuminato il tempio per ben otto notti.
    Concluso il laboratorio didattico i bambini parteciperanno a una piccola visita della Sinagoga con un premio finale da ritirare al bookshop.

    (stamptoscana, 2 dicembre 2016)


    Voto all'Unesco, il Vaticano: «Non si può negare la storia biblica»

    Dal Vaticano finora non c'erano stati commenti alla risoluzione dell'Unesco che cancellava la storia e il Monte del Tempio di Gerusalemme nominandolo solo con il nome arabo. Ora prende posizione con un testo dei maggiori rappresentanti di Israele e della Santa Sede.

    di Gian Guido Vecchi

    CITTÀ DEL VATICANO - Il testo firmato dai rappresentanti del Gran Rabbinato d'Israele e della Santa Sede non la manda a dire: «Nella discussione di argomenti di attualità, è stato affermato il principio del rispetto universale per i luoghi santi di ciascuna religione, ponendo attenzione ai tentativi di negare l'attaccamento storico del popolo ebraico al proprio luogo più santo».

     Il riferimento all'Unesco
      Per «sobrietà» diplomatica, si spiega Oltretevere, è stato scelto di affermare il principio generale e di non citare esplicitamente l'Unesco e l'approvazione in ottobre della risoluzione «Palestina occupata», che cancellava la storia e il Monte del Tempio di Gerusalemme nominandolo con il solo nome arabo al-haram al-Sharif, «il nobile santuario», assieme alla moschea di Al-Aqsa. Ma il riferimento all'Unesco è evidente e voluto, e compare nel comunicato finale dell'ultima «commissione bilaterale» composta dal Gran Rabbinato e dai delegati vaticani per i «rapporti religiosi con l'ebraismo». Parole nette: «La commissione bilaterale ha preso posizione con forza contro la negazione politica e polemica della storia biblica, esortando tutte le nazioni e le fedi a rispettare tale legame storico e religioso».

     L'appello a tutte le nazioni e le fedi
      Dal Vaticano finora non erano arrivati commenti di sorta. All'indomani del voto, il presidente della Knesset Yuli Edelstein aveva parlato di un «affronto per cristiani ed ebrei»; era trapelata la notizia di una lettera alla Segreteria di Stato nella quale lo speaker del Parlamento israeliano chiedeva al Vaticano di «usare i suoi migliori uffici per impedire il ripetersi di questi sviluppi di questo tipo».
    Le delegazioni si occupano di questioni religiose, la quattordicesima riunione aveva come tema «promuovere la pace nel contesto della violenza in nome della religione». Tanto più significativa, quindi, l'affermazione che non si può cancellare la storia biblica per questioni politiche. E l'appello a «tutte le nazioni e le fedi».

     I big del cattolicesimo
      Come quelle del Gran Rabbinato, le firme della parte cattolica sono al massimo livello. Il testo è firmato dal cardinale Peter Turkson, al quale il Papa ha affidato il nuovo dicastero per il «Servizio dello sviluppo umano integrale»; dagli arcivescovi Pierbattista Pizzaballa (amministratore apostolico di Gerusalemme, già Custode di Terra Santa) e Bruno Forte (il teologo che Bergoglio ha nominato segretario speciale dei due ultimi Sinodi), e dal vescovo ausiliare di Gerusalemme Giacinto-Boulos Marcuzzo, dal viceprefetto dell'Ambrosiana Pier Francesco Fumagalli e dal salesiano Norbert Hofmann.

    (Corriere della Sera, 1 dicembre 2016)


    Dunque per «sobrietà» diplomatica il Vaticano ha evitato di citare esplicitamente l'Unesco, e l'articolista sembra condividere tale «sobrietà» perché a suo dire "il riferimento all'Unesco è evidente e voluto". La stessa «sobrietà» diplomatica fu usata da Pio XII in un discorso nel Natale 1942, quando espresse pubblicamente il suo anelito alla pace con queste parole: «Questo voto di pace in un ordine nuovo, l'umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento». Certo, anche di questo caso si può dire che il riferimento agli ebrei che bruciavano nelle camere a gas era evidente e voluto, ma il riferimento esplicito non si fece per «sobrietà diplomatica». E’ il solito stile curiale del papato, ma il fatto più grave è che chi sta intorno sembra non volersene accorgere. M.C.


    Technion di Haifa: Anno accademico iniziato con 2000 nuovi studenti

     
    Il 25 ottobre duemila nuovi studenti hanno iniziato il loro primo anno presso il Technion di Haifa. Le facoltà più richieste per i corsi di laurea sono Medicina, Ingegneria Elettronica, Informatica, Ingegneria Meccanica e Ingegneria Industriale e Management.
    Quest'anno il Technion ha circa 14.000 studenti in 18 facoltà: circa 9.500 studenti universitari e circa 4.500 studenti laureati, tra cui 1.109 dottorandi.
    Tra i nuovi studenti che hanno iniziato i loro studi universitari, il 43% sono donne. La percentuale di donne tra gli studenti universitari è del 48%, e tra i dottorandi, il 43%.
    Negli ultimi dieci anni c'è stato un aumento significativo della percentuale di studenti provenienti da gruppi minoritari che frequentano il Technion. Degli studenti appartenenti a gruppi minoritari che hanno iniziato i loro studi di quest'anno, il 61% sono donne.
    Rivolgendosi ai nuovi studenti durante la cerimonia di apertura dell'anno accademico, il Presidente del Technion Prof. Peretz Lavie ha commentato:
    Questa è una festa per voi e per noi. Siete qui oggi dopo aver dimostrato, attraverso il duro lavoro e i risultati al liceo o in studi pre-universitari, che meritate di essere studenti del Technion. Vi state unendo ad una delle istituzioni accademiche più importanti del mondo, ma prima di tutto vi state unendo ad una nuova famiglia: la famiglia del Technion. In questa famiglia allargata, ebrei laici e religiosi, musulmani, cristiani, drusi e circassi di entrambi i sessi coesistono in piena uguaglianza.
    Nell'anno accademico 2016-17, il Technion ha aperto nuovi programmi:
    • Il Science and Engineering Data Program (Undergraduate): L'obiettivo del programma, che è offerto dalla Facoltà di Ingegneria Gestionale, è quello di formare gli ingegneri di domani ed insegnare a gestire i Big Data in una varietà di applicazioni.
    • Master's Degree in the Views Program: Il programma per laureati che si tiene presso la Facoltà di Scienze della formazione e della tecnologia, è in espansione e offre ora un master.
    (SiliconWadi, 1 dicembre 2016)


    Pisa - Domenica 4 dicembre cooking show e concerto in sinagoga

    Il Festival Nessiah, organizzato dalla Comunità ebraica di Pisa e diretto dal Maestro Andrea Gottfried, prosegue con un altro doppio appuntamento da non perdere in programma domenica 4 dicembre (ingresso libero).

    Nella Gipsoteca Arte Antica alle 17.30 Cooking Show di cucina giudaico romanesca a cura dello chef Giovanni Terracina. Un evento in collaborazione con il festival "Gusto Kosher". Giovanni Terracina, chef di fama internazionale, si distingue per la capacità di coniugare il rispetto delle usanze ebraiche e l'eccellenza dell'eno-gastronomia italiana con una continua ricerca di innovazione e sperimentazione. Prendendo spunto dalla sua storia personale racconterà alcune ricette della tradizione giudaico romanesca. L'evento è in collaborazione con il Catering Le Bon Ton e con la manifestazione Gusto Kosher.
    E alle 21 nella Sinagoga di via Palestro il concerto "Sounds from Jaffa", suoni e voci dal medioriente, sul palco Eran Zamir - oud, Yehezkel Raz - tastiere.
    Jaffa, in ebraico Yafo, anche chiamata Japho o Joppa, è uno delle più antiche città portuali al mondo. Se ne trova già menzione in una lettera dell'Antico Egitto datata 1440 a.c., ed è conosciuta per la sua associazione con le storie bibliche di Jona, Salomone e S. Pietro cosi come le storie mitologiche di Andromeda e Perseo. Oggi, la Jaffa moderna ha una popolazione eterogena composta da Ebrei, Cristiana e Mussulmani che creano un tessuto sociale ricco di fascino. Il concerto Sounds of Jaffa esplora le relazioni e contrasti tra passato e presente, tradizione e modernità, sacro e profano, oltre alla unica mescolanza di popolazione di Jaffa, attraverso la musica e i suoni utilizzando due differenti strumenti - uno è l'Oud arabo, il più famoso strumento musicale della musica tradizionale araba, e l'altro è il computer, con le sue infinite sonorità e tessiture.
    Eran e Yehezkel vivono entrambi a Jaffa.

    (Pisa 24, 1 dicembre 2016)


    Israele e Turchia accelerano sul gas in Europa

    Israele vuole vendere attraverso le condotte turche il metano da poco scoperto

    di Federica Zoja

    Avanzano di pari passo i progetti energetici di Israele e Turchia dopo colloqui di alto livello che hanno sancito la volontà reciproca di creare una filiera del gas con sbocco ideale in Europa. Ostacoli tecnici e politici lasciano pensare, però, che il percorso sia ancora lungo, nonostante un'evidente accelerazione mediatica sull'argomento da parte degli organi di stampa di entrambi i Paesi. Ecco le ultime mosse dei due attori energetici. Il ministero dell'Energia israeliano ha indetto una gara per la concessione di 24 licenze di esplorazione offshore per l'individuazione di campi di gas e giacimenti petroliferi nelle proprie acque. La selezione terminerà il 21 aprile 2017. I'intera operazione mira a trasformare Israele in un esportatore energetico di primissimo piano nel Mediterraneo. Gli esperti israeliani, affiancati da colleghi statunitensi del dipartimento americano dell'Energia, sono convinti, in proposito, che nelle acque israeliane siano ancora da scoprire campi consistenti, forse anche più dei già celebrati Tamar (200 miliardi di metri cubi) e Leviathan (450 miliardi di metri cubi di gas): da quest'ultimo, peraltro, proverrà il gas diretto in Giordania, come da contratto siglato per 10miliardi di dollari con la casa regnante hashemita e reso noto nel mese di settembre. Non prima della seconda metà del 2019, precisano tuttavia i licenziatari consorziati Delek-Noble. Indiscrezioni, inoltre, danno per imminente la firma di un'altra intesa strategica, quella con l'Egitto di Abdel Fattah al-Sisi, bisognoso di gnl per rilanciare la propria economia. Nel frattempo, il gruppo energetico turco Zorlu chiarisce che saranno necessari almeno 3 anni per portare il gas dei campi Afrodite (Cipro greca) e Leviathan appunto attraverso i condotti turchi sul mercato globale.
       A questo punto, a nessuno può sfuggire il nodo politico che tiene in ostaggio lo sviluppo del progetto: se Ankara e Nicosia (capitale della Repubblica di Cipro, membro Ue dal 2004) non risolvono i contenziosi aventi per oggetto Cipro Nord, è difficile che la Cipro "greca" accondiscenda a un progetto comune, tra l'altro criticato da più parti per il possibile impatto ambientale. E se il nodo cipriota fosse troppo duro da sciogliere nel breve termine? Per Ankara si pon gono due problemi: l'approvvigionameno interno e gli introiti derivanti dall'attività distributiva. La Turchia acquista 19 milioni di metri cubi al giorno dall'Azerbaijan, 28,5 milioni dall'Iran e 90 milioni dalla Russia (42 attraverso la West linee 48 dal Bluestream). Un quantitativo di gas non sufficiente: l'obiettivo è quello di giungere a un import di 350 milioni di metri cubi giornalieri. Ankara non chiude nessuna strada e, mentre cerca nuovi fornitori, lavora ali' ammodernamento delle piattaforme di stoccaggio e liquefazione. Ma ogni giorno perso è un vantaggio per i competitor regionali. Entro la fine del 2017 sarà operativo Zohr, campo nella concessione egiziana di Shorouk: è questo il gigante degli offshore mediterranei, con 850 miliardi di mc di gas, in licenza maggioritaria a Eni. L'incubo di turchi e israeliani, a meno che non si trovino inedite e fruttuose convergenze mediterranee.

    (Avvenire, 1 dicembre 2016)


    Si insedia oggi ad Ankara il nuovo ambasciatore israeliano Eitan Na'eh

    ANKARA - Precedentemente Okem ha lavorato presso il dipartimento sul Medio Oriente del ministero degli Esteri turco, ed ha ricoperto incarichi presso le ambasciate turche a Londra e Riad. Infine, il nuovo ambasciatore turco in Israele ha prestato servizio presso la rappresentanza permanente di Ankara presso la Nato. L'ambasciatore israeliano Na'eh ha già prestato servizio nel 1993 come primo e secondo segretario dell'ambasciata israeliana ad Ankara, per poi divenire ambasciatore dello Stato ebraico in Azerbaigian. Dal 2013 ad oggi è stato il viceambasciatore israeliano a Londra.

    (Agenzia Nova, 1 dicembre 2016)


    L'ambasciatore d'Israele in visita a Bari

    BARI - «Per le aziende pugliesi ci sono moltissime possibilità di cooperare con le imprese israeliane». Lo ha detto l'ambasciatore dello Stato d'Israele, Ofer Sachs, parlando a Bari con i giornalisti in occasione di un incontro organizzato nella sede di Confindustria per presentare opportunità di collaborazioni economiche, produttive e scientifiche. «Parliamo di piccole e medie imprese che possono proficuamente entrare in contatto con il comparto tecnologico israeliano che - secondo l'ambasciatore - può rappresentare un moltiplicatore delle proprie capacità. Parliamo di aziende che possono raggiungere non solo il mercato israeliano ma anche quello mondiale». «Israele vuole avere un rapporto con l'Unione Europea e con i singoli Stati. Nei settori del food e della tecnologia dell'acqua - ha aggiunto - stiamo cercando di mettere in atto politiche comuni. Quello dell'acqua è un problema non solo della Puglia o di Israele, ma del mondo intero». Da parte sua il Console onorario di Israele in Puglia, Luigi De Santis, ha spiegato che «i campi di cooperazione sono tantissimi, ad iniziare dal biomedicale, dall'agricoltura e dall'aerospazio. È la prima volta che Ofer Sachs viene qui nel Mezzogiorno, in Puglia per rendersi conto delle possibili collaborazioni tra realtà industriali».

    (Corriere del Mezzogiorno, 1 dicembre 2016)


    L'hi-tech apre una nuova via per l'industria dell'auto in Israele

    di John Reed

     
    Per breve tempo, negli anni '50 e '60, Israele produsse automobili: Sussita, Carmel e Sabra. Quest'ultima, cosa alquanto insolita, aveva per logo un cactus. Di quelle auto non se ne vendettero molte, ma entrarono a far parte dell'immaginario collettivo e ancora oggi gli israeliani vi diranno che erano irresistibili per i cammelli, che adoravano addentare e biascicare rumorosamente le loro parti in fibra di vetro. Israele era ed è totalmente privo dell'indispensabile infrastruttura industriale e di un mercato interno dell'automobile tale da consentirgli di competere con le case automobilistiche di Stati Uniti, Europa o Giappone.
      A sessant'anni di distanza, tuttavia, le funzioni hi-tech nelle quali eccellono le aziende israeliane - cyber sicurezza, intelligenza artificiale, intelligenza computazionale - sono sempre più utilizzate a bordo delle automobili e finalmente pare arrivato anche il momento dell'industria automobilistica dello stato ebraico. Le regioni centrali e costiere di Israele dell'hi-tech si stanno affermando infatti come il cuore pulsante e in espansione dei fornitori del settore automobilistico e delle aziende di servizio. I produttori di auto di tutto il mondo che si recano nella Silicon Valley alla ricerca di nuovi prodotti e di aziende che mettono a punto dispositivi connessi ora si rivolgono anche a Tel Aviv, come testimonia la recente ondata di nuovi contratti che coinvolgono aziende tecnologiche israeliane.
      Ford Motor ha comunicato in agosto che stava rilevando SAIPS, un'azienda con sede a Tel Aviv che sviluppa l'apprendimento delle macchine e la visione elettronica, nell'ambito di un proprio piano mirante a lanciare per il 2021 un'auto che si guida da sola. L'azienda israeliana utilizza una tecnologia di apprendimento profondo, immagini, e algoritmi video per consentire all'automobile di prendere decisioni immediate in rapporto allo spazio circostante. Il prezzo di vendita dell'azienda non è stato reso noto.
      La sua concorrente statunitense General Motor possiede già un centro tecnico avanzato nella città di Herzliya lungo la costa di Israele, che si occupa prevalentemente di «tecnologie non tradizionali dell'industria automobilistica», inclusa la guida senza conducente, l'analisi dei dati, l'IA, l'intelligenza computazionale e sensori molto sofisticati, in poche parole «tutto ciò che facilita il futuro dell'era della mobilità», come ha detto Gil Golan, il direttore. GM dice che l'azienda dà lavoro ad «alcune centinaia di persone» e continua a espandersi, ma per motivi legati alla forte concorrenza non ha voluto precisare il numero dei dipendenti o dare ulteriori informazioni sulle sue attività.
      A maggio Volkswagen ha investito 300 milioni di dollari in Gett, la rivale israeliana di Uber, nell'ambito di un suo piano mirante a entrare nel settore del ride-sharing e delle automobili autonome. A luglio BMW ha stretto un accordo con i produttori di chip Intel e MobilEye, pioniere israeliano della tecnologia per la guida autonoma quotato nel borsino del Nasdaq, per contribuire a rendere la casa automobilistica con sede a Monaco capace di produrre vetture senza conducente e completamente automatizzate entro il 2021.
      «Se si pensa alle sfide future in campo automobilistico, quella più grande è sicuramente la guida automatizzata - ha detto al Financial Times Amnon Shashua, presidente e amministratore delegato di MobilEye-. In Israele l'informatica è una delle materie più forti dal punto di vista accademico e in termini di hi-tech, quindi è naturale che il paese sviluppi dispositivi di IA, fotocamere, software e sistemi di decisione automatica che nascono tutte dal settore informatico». La trasformazione delle automobili - da prodotti per lo più di ingegneria meccanica a «computer intelligenti» su ruote - ha portato un ingente flusso di capitali di rischio e di investimenti a una nuova serie di giovani start-up.
      «Nel settore automobilistico in Israele si può parlare di boom - dice Eran Shir, fondatore e direttore esecutivo di Nexar, una start-up israeliana che sta mettendo a punto l'equivalente per la rete stradale di un sistema di controllo per il traffico aereo-. Ciò dipende principalmente dal fatto che il settore automobilistico stesso non è più incentrato sull'hardware bensì sul software». Nexar sta realizzando una rete che metta istantaneamente in comune in tempo reale tutto ciò che accade sulla rete stradale - dall'accelerazione del traffico alla velocità di scorrimento, dai dossi alle buche nell'asfalto, per prevenire e prevedere eventuali incidenti. Al pari di Waze, l'app israeliana di navigazione comprata da Google per 1,3 miliardi di dollari, Nexar raccoglie informazioni tramite un'app scaricata sugli smartphone dei conducenti. In caso di collisioni, quindi, è in grado di fornire resoconti precisi per ricostruire come sono andati gli eventi.
      Via, un'altra start-up, ha finanziato la diffusione della tipica istituzione israeliana nel mondo dei taxi collettivi detta "sherooteem", che preleva e porta a destinazione i conducenti in posti diversi con un'app che permette ai clienti (per adesso a Manhattan, Chicago e Washington DC) di prenotare corse collettive in minivan con un biglietto a tariffa fissa di 5 dollari. «Ci risulta una nuova linea bus al secondo», dice Oren Shoval, cofondatore e responsabile della tecnologia. L'azienda è stata fondata alla fine del 2012, e nella prima parte di quest'anno aveva raccolto 70 milioni di dollari in finanziamenti.
      La tecnologia israeliana e il suo potenziale nel settore automobilistico avevano iniziato a riscuotere l'interesse degli investitori con Better Place, una start-up fondata dall'israeliano Shai Agassi: l'azienda abbinava esperienza nella navigazione e nella tecnologia di ricarica delle automobili elettriche oltre a un sistema di cambio delle batterie nelle stazioni di rifornimento, invece di costringere gli utenti ad attenderne la ricarica. Nel 2013 la start-up è andata in bancarotta dopo aver raccolto circa un miliardo di dollari poiché non è riuscita a trovare una massa critica di conducenti interessati. L'attuale generazione di start-up israeliane, invece di reinventare qualcosa dall'inizio, preferisce firmare accordi di partenariato con le società automobilistiche e assumere veterani esperti del settore.
      Argus Cyber Securityu, la più grande azienda nel settore emergente della cyber-sicurezza nelle automobili, ha un veterano di Daimler a capo delle sue operazioni in Europa. Otonomo, un'altra start-up, punta invece a offrire ai produttori di automobili un modo per guadagnare estrapolando informazioni precise dalla grande quantità di dati che i loro veicoli raccolgono creando un "marketplace" o un punto di scambio al quale potranno accedere assicuratori, venditori di carburante e altri ancora. Steve Girsky, ex vice-presidente di GM, ne è uno degli investitori e consulenti. «L'industria automobilistica non si occupa più di metallo su ruote, bensì di computer su ruote», sintetizza Ziva Eger, capo della cooperazione all'estero e industriale con il ministero dell'Economia israeliano, che promuove le società dell'hi-tech. «Quando per essere competitivi in questo campo si deve assicurare ai propri clienti sempre più tecnologia, e di ottima qualità, Israele ha davvero molto da offrire».

    (Il Sole 24 Ore, 1 dicembre 2016 - trad. Anna Bissanti)



    Parashà della settimana: Toledot (Generazioni)

    Genesi 25.19-28.9

     - Il Signore esaudì la preghiera e Rebecca rimase incinta. Preoccupata per la gravidanza perché i feti si urtavano nel suo ventre, consultò il Signore. "Nel tuo ventre vi sono due Nazioni" fu la risposta (Gen. 25.22).
    A riguardo Rashì spiega che la Torah parla di Nazione. Il giudaismo difatti non è una religione, ma una Nazione dove il disegno Divino nella storia si manifesta. La parashà di Toledot si articola intorno al conflitto "escatologico" tra Esaù e Giacobbe che inizia nel ventre della madre e continua fino ai nostri giorni con la disputa giudaico-cristiana.

    Diritto di primogenitura
    "I ragazzi crebbero ed Esaù divenne esperto nella caccia, mentre Giacobbe era un uomo pacifico che viveva nelle tende" (Gen. 25.27). Un giorno tornando da una battuta di caccia, Esaù disse a Giacobbe: "Fammi trangugiare un po' di questa roba rossa perché sono stanco". E Giacobbe rispose: "Vendimi la tua primogenitura" (Gen. 25.30).
    Alcuni hanno voluto vedere in questa vendita uno scherzo senza importanza, altri invece la prova dello spirito "mercantile" degli ebrei, che trae profitto da qualsiasi situazione. Queste due tesi hanno poco fondamento perché quello che era in gioco era l'eredità "spirituale" di Abramo. Ad Esaù non interessava un diritto di primogenitura che era un "dovere". Un piatto caldo di lenticchie era da preferirsi alle idee fumose del fratello, che impiegava il suo tempo nello studio e nel rispetto della Tradizione.
    "Isacco amava Esaù perché era un cacciatore" (Gen.25.28).
    Come mai Isacco preferiva Esaù a Giacobbe? Il motivo è sorprendente: Esaù portava dei prodotti della caccia nella bocca del padre cioè lo ingannava. Isacco, l'uomo che ha vissuto la Akedà si lascia sedurre da un boccone di carne! Non è così. Isacco comprende che Esaù è un uomo con i piedi per terra mentre Giacobbe è un uomo con la testa negli studi. Il primo è un uomo di Stato mentre il secondo è un uomo di yeshivà. Isacco opta per Esaù. Ma Rebecca comprende che Esaù non riuscirà a dare al suo materialismo una dimensione spirituale per cui sceglie Giacobbe, che sarà capace di riunire queste due dimensioni nel servire D-o.
    Difatti giammai Esaù riuscirà ad appropriarsi della "voce" di Giacobbe ma quest'ultimo può impossessarsi dei "vestiti " di Esaù. Questo episodio della Torah è un magnifico esempio di saggezza femminile che presenta Rebecca come protagonista nella scelta della benedizione (ruah Eloqim cioè soffio Divino), che Giacobbe riceverà dal padre per continuare la Tradizione di Abramo.

    Ammonizione su Avimelech
    "Vi fu una carestia nella terra… ed Isacco si recò a Gherar da Avimelech re dei Filistei" (Gen. 26.2).
    La prima volta che si incontra Avimelech è con Abramo che è costretto a dire una bugia su Sara per salvare la sua vita. "In questo posto - è scritto - non c'è timore del Signore e sarei stato assassinato a causa di mia moglie" (Gen. 20.5). Nonostante Avimelech sia un "rapitore" di donne, Abramo stringe un patto con lui. La medesima cosa si ripete con Isacco dove Avimelech è presentato come un "guardone"che spia attraverso la finestra Isacco che gioca con sua moglie.
    Isacco stringe un patto con Avimelech sulla proprietà dei "pozzi" d'acqua, che il re non rispetterà. Difatti fa chiudere tutti i pozzi della zona e caccia via Isacco dicendogli: "Ti abbiamo fatto solo del bene perché ti mandiamo via in pace" (Gen.26.29).
    Da ciò si può dedurre che gli ebrei sono sempre desiderosi di convincersi che i loro nemici sono divenuti amici. La Torah però ammonisce su un tale comportamento, legandolo a quello di Esaù. Questi aveva 40 anni quando prese per mogli Yeudith e Basmat figlie dei Chittei, fatto che provocò amarezza ad Isacco e Rebecca, che non credevano possibile una simile cosa. La Tradizione vuole insegnarci che per il futuro dell'ebraismo bisogna stare "attenti" nel concludere " trattati" con governanti che non sono timorosi del Signore! F.C.

    *

     - Certi racconti biblici, come quello dei due gemelli Esaù e Giacobbe, e il piatto di lenticchie, e l'imbroglio di Rebecca e Giacobbe ai danni di Isacco ed Esaù, sono ormai talmente noti da essere usati come medaglioni da collocare in una quantità indefinita di narrazioni di vario tipo. Ma nella Bibbia è necessario riconoscere la linea storica continua che si va gradualmente costituendo, accumulando fatti che si depositano nel passato e annunciandone altri che in forma sempre più chiara illuminano il futuro verso cui la storia si dirige.
    Due aspetti si ripresentano continuamente in questa linea: la progenie e la terra . Si possono ricollegare alle parole di giudizio e grazia che Dio rivolge all'uomo e alla donna dopo la caduta. A Eva dice: partorirai con dolore; e ad Adamo dice: la terra ti produrrà spine e triboli.
    In entrambi gli aspetti è presente una realtà di morte da cui il Signore fa emergere una realtà di vita.

    La progenie
    Ad Abramo Dio aveva promesso una progenie che si prolungherà nei secoli. E come prima cosa gli dà per moglie una donna sterile. Nell'utero di Sara però avviene una sorta di risurrezione e nasce Isacco. Pensando all'importanza della progenie, Abramo fa fare al servo Eliezer un viaggio di migliaia di chilometri alla ricerca della donna che il Signore gli indicherà. E al ritorno del viaggio si scopre che anche questa donna è sterile. La cosa è strana, indubbiamente. Isacco avrebbe potuto prendersela un po' con tutti: con Abramo, con Eliezer, con Labano, e in ultima istanza con Dio stesso, anche perché il Signore su Rebecca, a differenza di Sara, non aveva fatto nessuna promessa. Isacco avrebbe potuto chiedere il ripudio di una donna incapace di dargli una prole. E sarebbe stato nel suo diritto. Si presenta invece un fatto nuovo, significativo:
    "Isacco implorò l'Eterno per sua moglie Rebecca, perché ella era sterile. L'Eterno l'esaudì e Rebecca, sua moglie, concepì"
    (Gen. 25:21).
    In questo caso dunque la risurrezione nell'utero della donna non è avvenuta come compimento di una promessa di Dio, ma come esaudimento di una preghiera rivolta a Dio. E anche questo ha un significato.

    La terra
    Ad Abramo Dio aveva ordinato di andare in un paese dove l'avrebbe grandemente benedetto, e quando arriva vi trova la carestia. Questo lo convince ad andare in Egitto, con le spiacevoli conseguenze che sappiamo.
    A Isacco succede la stessa cosa: nel paese dove si trova arriva un'altra carestia. Isacco si sposta a Gherar, il paese dei Filistei, e lì l'Eterno gli appare, confermandogli il patto stabilito con Abramo e dicendogli di non andare in Egitto, come aveva fatto il padre, ma di restare nel paese.
    Isacco ubbidisce e resta nel paese colpito dalla carestia. Lì, in quella terra diventata sterile, avviene una sorta di risurrezione:
    "Isacco seminò in quel paese e in quell'anno raccolse il centuplo; e l'Eterno lo benedisse"
    (Gen. 26:12).
    Avviene dunque un'anticipatoria espressione della benedizione che cade là dove si attua il piano di redenzione del Signore.
    Ma le benedizioni che cadono su Isacco sembrano non finire mai:
    "E l'uomo divenne grande, andò crescendo sempre più, finché diventò ricchissimo: fu padrone di greggi di pecore, di mandrie di buoi e di numerosa servitù" (Gen. 26:13-14).
    E' un modo di agire del Signore, quando vuol far sentire in modo potente la realtà della sua presenza: aumentare in modo spropositato le benedizioni. Qualcosa del genere si trova anche nei Vangeli.
    Una volta Gesù stava parlando alle folle dalla riva del lago di Gennesaret, e poiché la gente continuava a pressarlo con il rischio di farlo cadere in acqua, ebbe un'idea: montare sulla barca di Simone, che si trovava lì vicino, scostarsi un po' dalla riva e di lì parlare alla folla. Quando ebbe finito di parlare disse a Simone di prendere il largo e di gettare le reti per pescare. Con molto tatto, lo sperimentato pescatore fece cortesemente notare al saggio Maestro che ormai era giorno, e che si va a pescare di notte, e che loro avevano pescato tutta la notte e non avevano preso niente. "Però - aggiunse con gentilezza - alla tua parola calerò le reti" (Luca 5:5). E presero una tale quantità di pesci che le reti si rompevano e la barca di Simone affondava, insieme con quella dei suoi colleghi che gli erano corsi in aiuto. "Spavento aveva preso lui e tutti quelli che erano con lui, per la presa di pesci che avevano fatta" (Luca 5:8):
    Nel caso dei Filistei invece la conseguenza nell'immediato non è lo spavento, ma l'invidia. Otturano i pozzi che Abramo aveva fatto scavare, e dopo che Isacco li fa scavare di nuovo cominciano a dire che l'acqua appartiene a loro. C'è qualcosa di attuale in tutto questo.
    Isacco allora se ne va a Beer Sheba, dove l'Eterno gli appare ancora una volta. Dopo qualche tempo il re di Gherar lo va a trovare col capo del suo esercito. Dopo l'invidia era subentrato in loro lo spavento: "Noi abbiamo chiaramente visto che l'Eterno è con te" (Gen. 26:28), dicono ad Isacco, e poiché temono che adesso possa vendicarsi, gli chiedono di fare un accordo di pace. Cosa che Isacco concede di buon grado. E anche questo dà spunti di riflessioni sull'attualità.

    L'uomo di mondo Esaù e il pio Giacobbe
    Sembra che la Bibbia non faccia proprio nulla per rendere simpatico Giacobbe. Invece d'andare a caccia, come s'addice a veri uomini, se ne sta vicino alla gonna della mamma a chiacchierare oziosamente. Poi si fa condizionare dalla madre e accetta di imbrogliare il povero padre sfruttando la sua cecità. Poi, quando s'accorge che il fratello è infuriato da far paura, dà retta ancora una volta alla madre che gli dice di scappare. Ma che razza di uomo è questo venerando patriarca? Questo potremmo chiederci di Giacobbe, se lo guardiamo con gli occhi di Esau. Che forse sono anche i nostri.
    Ci limitiamo qui a sottolineare una differenza essenziale tra i due gemelli. Giacobbe conosce ed ha a cuore il progetto futuro di Dio collegato alla sua famiglia. Esaù invece è un uomo concreto, realistico, pragmatico: lui pensa all'oggi e a come si può vivere nel modo migliore qui, adesso, su questa terra. La sua reazione alla proposta del fratello può essere stata di questo tipo: ma che m'interessa un lontano futuro in cui si dice che la nostra discendenza avrà un destino glorioso, quando so che domani morirò e adesso sento che ho fame. Prenditi pure il mio diritto di domani e dammi oggi la tua minestra.
    Quanti sono gli ebrei che pensano come Esau? M.C.

      (Notizie su Israele, 1 novembre 2016)


    La Coca Cola "sfida" gli Usa e apre un impianto nella striscia di Gaza

    Una decisione che può sembrare in controtendenza e che sicuramente fa un po' sensazione

    La Coca Cola, icona per eccellenza del «Made in Usa», ha aperto un impianto nella Striscia di Gaza, l'enclave costiera palestinese controllata da 2007 da Hamas. La società di Atlanta sembra quindi sfidare in questo modo gli Stati Uniti che hanno inserito Hamas nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. L'impianto di imbottigliamento, parzialmente già in attività da qualche mese, è entrato ieri nella piena operatività al termine di una cerimonia ufficiale.
    L'impianto è costato al colosso statunitense 20 milioni di dollari e porterà alla creazione di circa 120 posti di lavoro, con una possibile espansione possibile che potrebbe portare ad impiegare fino a 270 persone.
    «L'apertura del nostro primo impianto a Gaza è un importante pietra miliare», ha detto Zahi Khouri, fondatore della «National Beverage Company» e responsabile della Coca-Cola nei territori palestinesi. «Il nostro impianto a Gaza dimostra il nostro impegno ad investire e sostenere il progresso nelle comunità intorno al mondo», ha dichiarato invece l'amministratore delegato della Coca Cola, Muhtar Kent.

    (il Giornale, 1 dicembre 2016)


    XV Raduno Nazionale Evangelici d'Italia per Israele - Torino 8-10 dicembre

    Con l'autorevole partecipazione di Avital Kotzer Adari, consigliere Affari Turistici dell'Ambasciata di Israele il programma del XV Raduno Nazionale EDIPI si presenta nella stesura definitiva.
    La presenza della dr.essa Adari è della massima importanza in vista delle visite che EDIPI ha in progetto di fare in Israele, soprattutto su tematiche di archeologIa biblica, avvalendosi del ben noto e collaudato archeologo Dan Bahat, per sottolineare le allucinanti contraddizione sulle recenti decisioni dell'UNESCO riguardanti Gerusalemme.
    Ovviamente saranno in programma anche i viaggi tradizionali.
    Sempre la punto di vista istituzionale segnaliamo la presenza del dr. Vito Anav, presidente della Comunità Ebraica di Gerusalemme, del dr. Carmel Luzzati, rappresentante di Keren Hayesod in Italia (associazione preposta all'Aliyah, cioè il ritorno degli ebrei in terra di Israele), di Bedros Nassanian dell'European Coalition For Israele e del Senatore Lucio Malan, nella veste non solo di Questore del Senato della Repubblica Italiana ma anche di quella più originale e in perfetta sintonia con il Raduno EDIPI, di cantore accompagnadosi con l'arpa di Davide.
    Quella del senatore Malan, può considerarsi la ciliegina sulla torta misicale che ha come ingredienti il duo Israeliano Avner&Rachel Boskey, il gruppo di Bedros&Rebekah di Gataways Beyond Geneva e da Torino il Coro David, l'Arpa di Davide e la band di Albino Montisci.
    Questa nutrita parte musicale che si svilupperà nei pomeriggi e nelle serate di giovedì venerdì e sabato, verrà integrata con gli interventi di Avner Boskey e Mike Brown nelle mattinate di venerdì e sabato sulle tematiche di grande interesse ed attualità: "Israele, la chiave del risveglio mondiale" e "Perch'è Israele...?"
    Avner Boskey da Israele e Mike Brown dagli USA sono attualmente due tra i più autorevoli insegnanti biblici sul ruolo di Israele e la realtà delle comunità giudeo-messianiche.
    L'appuntamento è per giovedì 8 dicembre ore 15:00 alla Gospel House in via Druendo 274 - Torino-Venaria Reale.
    info@edipi.net - tel. 3475788106
    Programma

    (EDIPI, 1 dicembre 2016)


    "O la sottomissione o l'esilio"

    Lo storico Georges Bensoussan spiega la violenza dei paesi del Maghreb contro gli ebrei.

     
    Georges Bensoussan
    A Milano a fine novembre per incontrare la Comunità ebraica e per una giornata di studio organizzata dal Memoriale della Shoah Binario 21, lo storico Georges Bensoussan ha parlato con Pagine Ebraiche anche di una realtà che conosce bene: quella degli ebrei rifugiati dai Paesi arabi e in particolare dal Maghreb. Lo storico, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi, ha tra le altre cose commentato positivamente l'accordo siglato dagli archivi nazionali del Marocco e il Mémorial de la Shoah parigino, volto a ricostruire la storia ebraica marocchina. Quest'ultima si è per lo più dissolta a causa della grande fuga ebraica, a seguito della repressione subita in Marocco negli anni della nascita dello Stato di Israele. Nel dopoguerra circa 250mila ebrei lasciarono infatti il Maghreb per trovare rifugio in Israele e in Francia, lasciando dietro di sé beni, case e una storia secolare. "Credo sia un segnale positivo - ha spiegato Bensoussan a Pagine Ebraiche parlando dell'accordo, lui che peraltro è di origine marocchina - Tutto quello che è recupero della memoria è da accogliere favorevolmente e se davvero Rabat vuole ricostruire il passato ebraico, non possiamo che esserne contenti". Bensoussan pone però un grosso "ma" sulla questione: "l'iniziativa non deve essere un lavaggio delle coscienze di quanto accaduto e dell'approccio di sottomissione adottato in Marocco contro gli ebrei". Per lo studioso, che al tema degli ebrei nei Paesi arabi e islamici ha dedicato un libro - Juifs en pays arabes: le grand déracinement 1850-1975, edito da Tallandier -, l'accordo non può essere un colpo di spugna sulle sofferenze patite dagli ebrei marocchini né una semplice ricostruzione folkloristica del passato ebraico del Paese. Ma il Marocco così come tutti i paesi del Maghreb e islamici dovrebbero fare i conti con quello che Bensoussan definisce un antisemitismo specifico, oggi impronta sociale di molte realtà islamiche. Un antisemitismo che, ha sottolineato più volte lo storico, "affonda le sue radici ancor prima della nascita dello Stato di Israele ed è riconducibile alla figura del Dhimmi, l'ebreo suddito all'interno degli stati arabi. E' risaputo che questo statuto di Dhimmi intendeva relegare perennemente gli Ebrei - come anche i cristiani che vivono in Medio Oriente - in una situazione di sudditanza, all'interno del mondo arabo". "La nascita dello Stato di Israele - spiegava in un'altra intervista Bensoussan - ha messo in crisi questo modello, obbligando gli arabi a misurarsi con gli ebrei da pari a pari. Tuttavia è da una trentina d'anni, che l'antisemitismo arabo ha compiuto una svolta diabolica, soprattutto dopo la Guerra dei sei giorni, che per il mondo arabo è stata un grosso trauma. Com'è possibile, che un piccolo paese come Israele, composto da un popolo di Dhimmi, da sempre sottomessi, abbia potuto sconfiggere la coalizione araba? Essendo stati sconfitti, non una volta, ma più volte, questi ripetuti fallimenti sono diventati incomprensibili. Questa incomprensione, di fronte alla sconfitta ha generato, anche nel mondo arabo, la teoria del complotto ebraico mondiale, collegandosi, in questo modo, alla medesima teoria del complotto di stampo occidentale, recuperando e integrando nel proprio immaginario il famoso falso storico I protocolli dei Savi di Sion. Tuttavia l'antisemitismo musulmano ha origini proprie; per esempio nel Corano vi sono molteplici invettive contro gli Ebrei traditori".
    Da questa realtà di obbligata sudditanza, da quella che alcuni hanno definito "dhimmitudine", fuggirono 850mila ebrei che in Israele e in paesi come Francia o Stati Uniti riuscirono a trovare la strada per una vera integrazione sociale.

    (Pagine Ebraiche, dicembre 2016)


    Gli invisibili profughi ebrei dai paesi arabi

    Fino alle guerre civili arabe, il mondo pensava che "profugo" in Medio Orientale fosse sinonimo di "profugo palestinese"

    In una giornata d'inizio autunno del 1956 Lilian Abda stava tranquillamente nuotando dalle parti del Canale di Suez quando i soldati egiziani la arrestarono. "Venni portata in costume da bagno alla stazione di polizia - ricorda - Il giorno dopo, io e tutta la mia famiglia venivamo espulsi dal paese".
    Lilian Abda, che ora vive a Haifa, è uno dei 25.000 ebrei egiziani che sessant'anni fa subirono le brutali conseguenze della crisi di Suez. Temendo i piani di Gamal Abdel Nasser, il dittatore militare egiziano, di nazionalizzare il Canale di Suez, Gran Bretagna e Francia si accordarono con Israele per attaccare l'Egitto. Gli israeliani lo fecero per rispondere ad un atto di guerra di Nasser - la chiusura dello Stretto di Tiran - e ad anni di incursioni terroristiche organizzate dal Cairo....

    (israele.net, 1 dicembre 2016)


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