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Notizie 16-31 dicembre 2019


Monsey, tutto fa brodo per incolpare Trump


Per la sinistra è sempre il suprematismo bianco trumpiano l'origine di tutti i mali, anche quando non c'entra nulla

di Caterina Giojelli

Thomas Grafton era tutto coperto di sangue quando si è consegnato agli agenti di polizia ad Harlem. Solo un'ora prima aveva fatto irruzione con un machete nella casa di Chaim Rottenberg, rabbino di Monsey, a 50 chilometri da New York, dove decine di ebrei ortodossi stavano festeggiando Hanukkah. Cinque accoltellati, due gravi, uno dei quali dilaniato da almeno sei fendenti, è il bilancio dell'aggressione avvenuta la sera del 28 dicembre che il governatore Andrew Cuomo ha definito «un atto di terrorismo domestico alimentato da intolleranza e ignoranza», «un'atmosfera di odio si è sviluppata in questo paese negli ultimi anni. In molta parte proviene da Washington e sta contagiando tutti noi», ha assicurato il sindaco di New York, Bill de Blasio.

 Se l'aggressore è un afroamericano
  Thomas Grafton è un 37enne di Greenwood Lake afroamericano. Come afroamericano era l'uomo che ha pugnalato a Brooklyn un ebreo ortodosso nei pressi della sinagoga, e afroamericana era la coppia di killer affiliati al Black Hebrew Israelites (movimento settario che predica la separazione dall'uomo bianco) che qualche settimana fa ha preso d'assalto un supermercato kosher di Jersey City, uccidendo quattro persone: l'obiettivo, secondo il sindaco Steven Fulop, era la yeshiva attigua, dove 50 bambini si nascondevano sotto i tavoli, terrorizzati. L'episodio «è stato per lo più ignorato negli Stati Uniti. Nessun raduno o marcia contro l'antisemitismo che lo ha scatenato (…), l'abituale rabbia sulla violenza legata alle armi da fuoco che esplode dopo una sparatoria di massa non l'abbiamo trovata. Le vittime e i responsabili dell'attacco sono scomodi. L'America non può piangere gli ebrei ortodossi e non può affrontare i colpevoli quando questi provengono da una comunità minoritaria» ha scritto schietto il Jerusalem Post, riferendosi al tentativo dei media di liquidare gli omicidi come «irrilevanti e casuali», e affrontando senza mezzi termini il problema della grande rimozione americana in fatto di antisemitismo.

 «White supremacy kills»
  «Nella società americana - prosegue il giornale - c'è generalmente posto per un solo tipo di razzismo. Ci sono suprematisti bianchi di estrema destra e poi tutti gli altri. Questa visione del mondo manichea dell'antisemitismo e del razzismo significa che siamo a nostro agio con un solo tipo di responsabile. Uomini bianchi e arrabbiati, quelli sono i razzisti». Va da sé che la deputata dem Rashida Tlaib, appena saputo dell'attentato al supermercato, abbia retwittato una foto delle vittime di Jersey City con il commento «è straziante. White Supremacy Kills». Il tweet è stato rimosso, ma dice molto sull'incapacità dell'America di affrontare una narrazione più complessa di quella offerta dal calderone degli slogan "tolleranza zero per i crimini d'odio" se non ha da punire un suprematista bianco.

 L'imbarazzo di chi divide il mondo in ideologie
  Lo stesso Forward, quotidiano ebraico - dopo aver pubblicato un articolo che accusava gli ebrei di essere troppo duri con i leader neri sulla questione antisemitismo e un editoriale del dem Eric Swalwell dal titolo fin troppo esplicativo "Dobbiamo ritenere Trump responsabile di abbracciare l'antisemitismo" - ammette che gli autori degli ultimi attacchi ai danni degli ebrei in America non erano bianchi, «lasciando molti in imbarazzo su come spiegarli o addirittura parlarne. Vi sono poche prove che questi attacchi siano ideologicamente motivati, almeno in termini di ideologie di odio con cui abbiamo più familiarità. E qui sta il problema nel parlare dei violenti attacchi contro ebrei ortodossi: in un momento in cui l'ideologia regna suprema nelle chiacchiere e nei dibattiti politici, il ritorno del pogrom sul suolo americano trascende l'ideologia. Nella lotta all'antisemitismo non si possono incolpare così facilmente i nemici tradizionali - perché nell'era di Trump, con molte persone è una questione persa in partenza».

 Vignette, disturbi mentali e corsi contro l'odio
  La questione è drammatica e complicata, lo è il nesso tra antisemitismo e la forte critica di Israele, lo è quello tra la retorica sulle categorie oppresse e la retorica sul privilegio bianco (che inevitabilmente cozzano spostando gli ebrei ora fra le vittime, ora fra gli oppressori colonialisti, o declassano l'antisemitismo a ostilità politica nei confronti di Israele). Ad aprile il New York Times ha pubblicato una vignetta che raffigurava il premier Benjamin Netanyahu come un cane, con la stella di David al collare, che trascina al guinzaglio un Trump cieco con la kippah (poi si è scusato). E nel lungo pezzo (a cura dell'Ap) che pubblica per raccontare con dovizia di particolari la storia dell'attentatore di Monsey (residente con la madre a Greenwood Lake, e che giocava a football alla William Paterson University etc), non dice mai che Thomas è afroamericano, soffermandosi piuttosto sulle dichiarazioni del pastore amico di famiglia che spiega come l'uomo abbia sofferto di disturbi mentali e che probabilmente sia questa la ragione dell'assalto. O ancora sulle dichiarazioni del sindaco Bill de Blasio che nei giorni precedenti all'assalto aveva annunciato «la formazione di coalizioni di sicurezza multietniche e interreligiose per mettere a punto strategie volte a disinnescare potenziali crimini d'odio prima che accadano», e che alcune scuole di Brooklyn introdurranno «corsi di sensibilizzazione contro i crimini d'odio durante le lezioni».

 Le colpe di Trump
  Nel frattempo la parola d'ordine è semplificare, rimuovere, liberare il paese dal «cancro» dell'odio che per Cuomo pervade la società e la politica. Ovviamente alimentata da quella che su twitter è già diventata «la più grave minaccia nel nostro paese: i legislatori repubblicani». Quando gli è stato chiesto se stava incolpando Trump per gli attacchi antisemiti, de Blasio ha risposto «non solo lui», e tra i dem è tutto un retwittare al popolo messaggi come quello di Nathan Schneider: «Trump è direttamente responsabile di questa violenza antisemita e se non prendiamo misure drastiche per affrontare questa minaccia, gli attacchi peggioreranno e saranno più frequenti».

 Eleggere leader come Obama
  Il Washington Post ha dato spazio alle tantissime critiche mosse dai progressisti contro il presidente degli Stati Uniti, accusato di non essere stato sufficientemente risolutivo nel denunciare l'antisemitismo e di avere spesso perpetuato stereotipi offensivi sul popolo ebraico. Il dem Steve Cohen ha condiviso un tweet del comico Noel Casler che collega l'attacco alla casa del rabbino a «tre anni di antisemitismo da parte dell'amministrazione Trump. Per non parlare delle politiche anti-musulmane, latinoamericane e omofobe a livello nazionale applicate con gioia da un GOP rabbioso e razzista». E la corrispondente del WP Mairav Zonszein ha twittato senza mezzi termini: «Ritengo la Casa Bianca di Trump direttamente responsabile delle crescenti violenze contro gli ebrei ortodossi in America». E dopo: «Io personalmente sono stata attaccata e insultata da quella che sembra una moda coordinata per sostenere un presidente che ha rafforzato il nazionalismo bianco e normalizzato l'antisemitismo. Mi sento minacciata in quanto ebrea per la prima volta in vita mia». Contro Trump e l'ondata di antisemitismo sotto il suo mandato anche lo scrittore Jonathan Safran Foer che invita a «eleggere leader che plasmino la civiltà, sopprimano i pregiudizi, legiferino per la giustizia. Non è una coincidenza che i crimini d'odio siano stati molto più bassi durante l'amministrazione Obama».

 Tra Washington e New York
  Da parte sua Trump ha definito l'assalto alla casa del rabbino di Monsey «Orribile, dobbiamo unirci per lottare, affrontare e sradicare il malefico flagello dell'antisemitismo». Più dura sua figlia Ivanka, di fede ebraica, che rispedisce ai Cuomo e ai De Blasio le accuse a Washington. «L'attacco feroce a Monsey, è stato un atto di pura malvagità. L'aumento della violenza antisemita a New York e nel paese riceve troppo poca attenzione da parte della stampa nazionale e troppo poca azione dai governi locali». Nella sola settimana della Festa delle Luci si sono registrati tra Mahattan e Brooklyn non meno di 10 aggressioni ai danni di persone ebree.

(Tempi, 31 dicembre 2019)



Hamas nega la tregua con Israele. Gerusalemme fa lo stesso

di Luigi Medici

Il gruppo palestinese Hamas ha negato di aver avuto colloqui per una tregua con Israele. «Confermiamo che l'assedio e le sanzioni sono ancora in corso e che il nemico sionista non ha rispettato tutti i diritti dei precedenti negoziati con l'Egitto», ha detto Hamas in una dichiarazione, ripresa da Anadolu. Hamas ha invitato tutte le parti ad «assumersi le proprie responsabilità per fermare l'assedio e revocare le sanzioni imposte alla Striscia di Gaza, sia da parte di Israele che dell'Autorità Palestinese».
   Il 29 dicembre, la Tv israeliana Channel 12 aveva detto che erano stati fatti progressi nei negoziati per un accordo di armistizio a lungo termine tra Israele e Hamas. Hamas ha rifiutato di fermare le operazioni in Cisgiordania come parte dei negoziati per concludere l'armistizio, aveva detto nello stesso giorno il canale ufficiale israeliano Kan. Egitto, Onu e Qatar hanno condotto consultazioni per diversi mesi per raggiungere una tregua tra le fazioni palestinesi a Gaza e Israele, basata sull'allentamento del blocco giunto al dodicesimo anno imposto sulla Striscia in cambio della cessazione delle proteste organizzate dai palestinesi vicino al confine con Israele.
   Anche il governo israeliano ha smentito il cessate il fuoco con Hamas, ponendo come condizione essenziale la restituzione dei prigionieri israeliani e i corpi dei soldati caduti a Gaza, ha detto il ministro degli Esteri Yisrael Katz: «Non ci sarà un accordo senza il ritorno dei prigionieri e dei soldati scomparsi, ma ci potrebbe essere la calma», ha detto Katz alla Radio dell'esercito.
   Il tentativo mediato dall'Egitto per un accordo di cessate il fuoco non significa che «il lupo vivrà con l'agnello», ha detto Katz. «Questo è un tentativo di creare una sorta di calma a breve termine (…) Hamas è un'organizzazione omicida con un'ideologia omicida, ma deve prendere decisioni pratiche a breve termine (…) Non sono sicuro che funzionerà. Ci sono fattori ribelli (…) Non possiamo accettare una mancanza di tranquillità nel Sud o in qualsiasi altro luogo», ha detto Katz, ripreso dal Jerusalem Post.
   Per mantenere Israele più sicuro, il governo sta esaminando la possibilità di un accordo di cessate il fuoco a breve termine, ha detto il Ministro.
   I commenti di Katz sono arrivati un giorno dopo che il consigliere per la sicurezza nazionale Meir Ben-Shabbat ha informato il Gabinetto di Sicurezza sui progressi verso un accordo di cessate il fuoco a lungo termine con Hamas, che ha detto che fermeranno le rivolte settimanali della "Grande Marcia del Ritorno" al confine con Israele per i prossimi tre mesi.
   Il cessate il fuoco mediato dall'Egitto comporterebbe l'allentamento degli scambi commerciali di Gaza da parte di Israele, compreso l'aumento dei permessi di ingresso e l'ampliamento della zona di pesca intorno alla Striscia, oltre a consentire la costruzione di un gasdotto per il gas naturale e una maggiore assistenza medica.
   I media di Gaza riportano che Israele permetterà l'ingresso a Gaza di nuovi pneumatici, che sono stati vietati per due anni, da quando sono iniziati i disordini al confine e hanno anche riferito che Israele permetterà l'importazione di barche da pesca, autobus e fertilizzanti a Gaza e l'esportazione di fragole.

(AGC COMUNICATION, 31 dicembre 2019)


Al via la produzione del giacimento a gas di Leviathan

Leviathan è il maggior giacimento a gas israeliano ed è controllato da Noble Energy, Delek Drilling e Ratio Oil

di Sebastiano Torrini

 
È partita ufficialmente la produzione del giacimento israeliano Leviathan dopo aver ricevuto l'approvazione finale dal Ministero della protezione ambientale. Secondo quanto riferisce il Jerusalem Post, Noble Energy la società che gestisce il progetto, dopo i rumors su ritardi nelle scorse settimane dovuti a questioni ambientali, ha accolto a tutte le condizioni richieste.

 I pozzi sono situati a 130 chilometri a ovest di Haifa
  Leviathan è il maggior giacimento a gas israeliano ed è controllato da Noble Energy, Delek Drilling e Ratio Oil. La consegna del gas raddoppierà la produzione del paese. I pozzi sono situati a 130 chilometri a ovest di Haifa. "Questa è una giornata storica per Noble Energy e i nostri partner. L'esecuzione sicura e di successo della fase iniziale di sviluppo è stata di prim'ordine, continuando la nostra eccezionale esperienza nella consegna di grandi progetti. Noble è orgoglioso dei benefici che le nostre scoperte hanno portato e porterà alla regione ", ha affermato David L. Stover, Presidente e Amministratore Delegato di Noble Energy, secondo quanto riferito dal sito del quotidiano israeliano.

 Le proteste dei cittadini
  I residenti che vivono vicino alla spiaggia hanno però lasciato le loro case in segno di protesta sostenendo che l'inquinamento atmosferico lungo la costa aumenterà. I partner del progetto hanno sottolineato al contrario che "le attività svolte sulla piattaforma non incidono sulla vita di routine". Mentre il Ministero della protezione ambientale ha invitato i cittadini a scaricare l'applicazione 'SvivaAIR' che aggiorna in tempo reale i risultati delle stazioni di monitoraggio che mostrano lo stato della qualità dell'aria nell'area.

 Molto presto al via l'export di gas a Egitto e Giordania
  Le esportazioni di gas naturale del Leviatano verso i paesi vicini dovrebbero iniziare nelle prossime settimane. I partner del progetto hanno già firmato accordi multi miliardari di export all'Egitto e alla Giordania.

(Energia Oltre, 31 dicembre 2019)


«L'America-mosaico in difficoltà. Ma le cause non sono politiche»

Il celebre avvocato: «L’antisemitismo è amplificato dai social. Trump? Estraneo»

di Massimo Gaggi

L'aumento di violenze ed episodi di intolleranza antisemita devono preoccuparci, ma non dimentichiamo che stiamo parlando di episodi sporadici: casi isolati che vengono dal basso. A differenza di quanto è avvenuto in passato - una spirale arrivata fino a Hitler - e di quanto sta ricominciando ad accadere in alcune parti d'Europa, in America l'antisemitismo rimane un fenomeno bottom-up, non top-down: non parte dai vertici politici o da gruppi organizzati della società, né gode di coperture significative».
Alan Dershowitz, costituzionalista e grande avvocato americano dei diritti civili è scosso dall'attacco col machete di Rockland, ma, dice al Corriere, non si deve eccedere in allarmismo.

- Le comunità ebraiche della diaspora hanno sperimentato nei secoli forme di antisemitismo di varia intensità. L'America, da sempre uno dei luoghi più sicuri per gli ebrei fino a registrare nel 2013 il livello più basso di episodi di intolleranza e zero vittime, negli ultimi anni ha visto crescere di nuovo attacchi e tensioni razziali: gli ebrei sono stati i principali bersagli, ma non gli unici. È il modello della società multietnica americana che non tiene più? Troppe crepe nel melting pot?
  «Non amo l'immagine della pentola nella quale tutto si mischia: preferisco quella del mosaico. L'America è un mosaico nel quale ogni comunità vive con la sua cultura, i suoi costumi, praticando liberamente la sua religione, nel rispetto delle altre comunità. È il grande patrimonio degli Stati Uniti: va difeso a tutti i costi. Fin qui ci siamo riusciti abbastanza bene. Ora le cose stanno diventando più difficili».

- Perché?
  «Parlando di antisemitismo credo che i problemi nascano soprattutto dalla diffusione delle reti sociali sulle quali circola di tutto senza filtro, comprese incitazioni all'intolleranza e alla violenza che possono incendiare le menti più fragili. Ed è molto pericolosa la predicazione di personaggi come Louis Farrakhan, un pastore noto per la sua retorica antisemita».

- Lei guarda a sinistra, agli afroamericani radicali, ma c'è chi accusa soprattutto l'estrema destra della supremazia bianca. Il Ku Klux Klan ha combattuto i neri ma ha sempre detestato anche gli ebrei.
  «L'antisemitismo della destra radicale lo conosciamo bene da più di un secolo. È una costante della storia americana dall'inizio del Novecento. Oggi si aggiungono due altri fattori: Internet e certe frange della sinistra più dura. Penso alle parlamentari democratiche soprannominate The Squad. Ilhan Omar, ad esempio, ha fatto discorsi antisemiti. La sinistra radicale deve rendersi conto dei rischi, assumersi le sue responsabilità. Parliamo ancora di casi isolati, ma quello che sta avvenendo nei campus universitari deve preoccupare. Vanno respinti gli estremismi di ogni colore. Destra o sinistra, violenze e discriminazioni diventano comunque feroci. Lo abbiamo già visto, su fronti opposti, con Hitler e Stalin».

- Donald Trump è un grande amico di Israele e degli ebrei. Una parte della sua famiglia è ebraica. Ma qualcuno lo critica perché a volte, pur elogiando gli ebrei, parla di loro come di una comunità separata dal resto dell'America. Pare lo abbia fatto anche alla recente festa di Hanukkah alla casa Bianca. Lei, che è suo amico e magari potrebbe trovarsi a difenderlo tra qualche settimana al processo per l'ìmpeachment, era presente a quella cerimonia ...
  «Se cerca qualcuno che attribuisca qualche responsabilità al presidente per l'antisemitismo, non chieda a me: Trump non solo è un grande amico della comunità ebraica, ma coi suoi ordini esecutivi sta facendo il possibile per sradicare l'antisemitismo. Elogiando l'appartenenza a una fede o a una comunità non rendi qualcuno meno americano: io sono orgoglioso di essere ebreo, ma mi sento anche americanissimo».

- Insomma, anche in un quadro che si sta deteriorando, America molto meglio dell'Europa, per le minoranze.
  «Assolutamente sì. In Europa l'antisemitismo si sta diffondendo e, cosa ancora peggiore, si sta strutturando: le cose vanno molto male in Germania, Polonia, Scandinavia, buona parte della Gran Bretagna e nel sud della Francia. L'unica isola felice è l'Italia».

- Be', qualche problema c'è stato anche da noi, come gli attacchi alla senatrice Liliana Segre.
  «Lo so, ma sono casi limitati che vengono subito isolati: la reazione è forte, le istituzioni tengono. È la cosa più importante: educare e non lasciare spazio a posizioni equivoche».

- Nel caso di Rockland e di altri episodi di intolleranza nelle periferie si può parlare anche di tensioni razziali legate a fenomeni economici come la gentriticazione, col trasferimento delle comunità ortodosse in quartieri più poveri e il conseguente impatto locale sul costo della vita?
  «No, non parliamo di tensioni razziali. Tensioni è una parola neutra. Parliamo di intolleranza. E l'intolleranza non è mai accettabile. Né giustificabile con argomenti economici».

(Corriere della Sera, 31 dicembre 2019)


La storia del giudeo bolscevico

Dietro Lenin ci sarebbe un complotto demoplutogiudaico

di Diego Gabutti

Tutta la storia, antica e recente, è una storia di fantasmi. Tra gli spettri del Novecento spicca il «giudeo bolscevico», un mito di cui Paul Hanebrink ricostruisce le sventure attraverso l'immaginario del Ventesimo secolo. Ferocemente rivoluzionario, l'«ebreo bolscevico» prima devasta la Russia contadina e subito dopo vuole mettere a ferro e fuoco il mondo intero, a cominciare dalla Germania umiliata dalle potenze vincitrici. Un fumetto ideologico dagli esiti apocalittici che inizia nel 1917, quando «l'ebreo Lenin» (che non è ebreo) e «l'ebreo Trockij» (ebreo, ma non particolarmente osservante) prendono il potere a Mosca, dopodiché tentano spavaldamente la sorte prima con un mezzo tentativo di marciare su Varsavia, poi provando ad allargarsi in Ungheria con la repubblica bolscevica di Bela Kun («un altro ebreo», se lo additano tra loro fascisti e nazionalisti) e infine lanciando i dadi anche in Germania, nel 1919, con la repubblica dei consigli bavarese.
   Controrivoluzionari, vescovi e antisemiti mettono in relazione «giudei» e bolscevichi fantasticando che dietro Lenin ci sia un complotto demoplutogiudaico (in atto fin dai tempi di Marx e Bakunin, per quanto entrambi fossero antisemiti persi, il primo nel suo inconfondibile stile intellettualistico, il secondo smaniando come gli antisemiti da osteria).
   Niente di nuovo. È quanto già adombrava la polizia segreta zarista nei suoi Protocolli dei Savi Anziani di Sion (il falso all'origine d'ogni futura dezinformatsiya).
   Esaurita la tempesta del primo dopoguerra, la «rivoluzione internazionale» predicata dai bolscevichi decresce a «socialismo in un paese solo», ma il mito del «giudeo bolscevico» rimane intatto. Nel 1936, quando il Front populaire vince le elezioni in Francia, Léon Daudet (compagno d'avventure estetiche e «incomparabile amico» di Marcel Proust, che gli dedica il terzo volume della Recherce, ma anche cofondatore con Charles Maurras del giornale antisemita e nazionalista Action française) commenta il risultato elettorale «paragonando» Léon Blum, il neopresidente socialista del consiglio, «a un cane il cui «destino etnico» è il suo padrone, un padrone che l'aveva «portato a fare una pisciata ebraica e una cacata comunista».
   Seguono Hitler, i rastrellamenti d'ebrei e la Shoah in tutta l'Europa. Pochi anni dopo (quando l'Armata rossa occupa le nazioni che hanno collaborato con le Einsatzgruppen hitleriane nello sterminio degli ebrei, polacchi, rumeni, ucraini, slovacchi e via elencando piaghe mai davvero rimarginate) la parte «bolscevica» della cospirazione è al potere, quella giudaica no. I comunisti russi, che all'antisemitismo non sono mai stati estranei, cancellano dalla memoria ufficiale dell'est europeo il mito del «giudeo bolscevico» e mettono al centro del loro feuilleton ideologico un nuovo, più duraturo, spaventapasseri giudaico: il sionismo, ma prima ancora le «lagne» e il «vittimismo» degli ebrei scampati all'Olocausto. È l'inizio della banalizzazione (via, abbiamo sofferto tutti, anche chi ha collaborato con Hitler) che presto genererà la sua metastasi: il negazionismo, che nasce proprio all'interno dei circoli goscisti e ipercomunisti europei.
   «In Romania» scrive Hanebrink «Ana Pauker [vicepresidente del consiglio della repubblica popolare, ebrea) offre l'amnistia ai legionari della Guardia di Ferro [antisemiti così sanguinari e feroci da sgomentare gli stessi hitleriani) ammettendo che «erano più numerosi di quanto avesse immaginato» e che «soprattutto avevano un grande seguito operaio». Quanto ai «leader di partito ungheresi, essi consigliarono agli ebrei di rinunciare alle loro richieste di giustizia. Nel 1946, il segretario di una sezione locale del partito, dava istruzione agli ebrei del posto di «finirla di mettere a soqquadro i villaggi per ritrovare i [loro] utensili da cucina».
   Sempre in Ungheria, subito dopo la proclamazione della repubblica, apparve sull'organo del partito, il Szabad Nép, un articolo intitolato Una parola onesta sulla questione ebraica! «L'articolo avallava l'isterica retorica fascista sulla «vendetta ebraica» insinuando che gli ebrei stessero sfruttando la loro condizione di vittime per vivere come parassiti dell'onesto lavoro del popolo ungherese». Pochi anni dopo, a questa «parola onesta sulla questione ebraica», seguiranno degli onesti fatti: il «complotto dei medici» a Mosca, la propaganda antisraeliana, l'invenzione del «palestinismo» nelle aule dell'Università Lumumba di Mosca, dove fior di nichilisti impararono il bi e il ba del terrore.
   Purtroppo, il libro di Hanebrink ha un epilogo, dove ad aggirarsi per l'Europa è un nuovo spettro: non più il «giudeo bolscevico» ma il «musulmano terrorista». Hanebrink si sposta dal terreno della storia (la storia dell'antisemitismo in Europa) a quello dell'ideologia (denunciando l'«islamofobia», che sgomenta le anime pie). Hanebrink sostiene infatti la bizzarra (ma assai diffusa) tesi che accomuna il destino dei «migranti di religione musulmana» nel tempo presente a quello degli ebrei tra le due guerre mondiali. Peggio che una bestemmia, è una sciocchezza. Gli ebrei braccati da Hitler non erano migranti; erano a pieno titolo cittadini polacchi, tedeschi, francesi, rumeni, italiani, ucraini, slovacchi. A differenza di quel che accadeva in Germania tra le due guerre, oggi nessuno, in Europa, predica lo sterminio dei musulmani (sono i leader musulmani, piuttosto, a predicare la distruzione d'Israele) e soltanto un idiota potrebbe onestamente paragonare i pamphlet d'Oriana Fallaci alle Bagatelle per un massacro di Céline.
   Ebrei e gentili, prima che si scatenasse il caos, erano tutti europei. Studiavano nelle stesse scuole, lavoravano negli stessi uffici, leggevano gli stessi libri e giornali, si servivano nelle stesse botteghe, ridevano delle stesse barzellette, guardavano gli stessi film. Inoltre, l'antisemitismo che sfociò nella Shoah non odiava soltanto i «giudei» e il «comunismo giudaico». Odiava anche il «liberalismo semitico», la «scienza ebraica», la «democrazia cosmopolita». Gli ebrei, trasformati in alien e subumani già dagli antisemiti ottocenteschi, furono elevati dagli antisemiti del Novecento a maestri segreti di tutto ciò che minacciava la miseria che essi chiamano Tradizione (con la maiuscola, come nei romanzi fantasy). Qualcuno, allora, può seriamente pensare che i «sovranisti» e le SS siano la stessa cosa? O che detestare la Sharia, sperando non venga mai introdotta in Occidente, sia la stessa cosa che detestare, come facevano gli hitleriani e i comunisti, le libertà politiche e civili? Hanebrink (il cui libro raccomando lo stesso, epilogo a parte) sembra pensarlo. Strano pensiero.

(ItaliaOggi, 31 dicembre 2019)


I nuovi marrani

Dall'Europa all'America, per sopravvivere gli ebrei si nascondono. Lipstadt; "E' come l'Inquisizione"

di Giulio Meotti

 
Deborah Lipstadt
ROMA - "Durante un viaggio a Berlino, un amico mi ha dato indicazioni per una sinagoga fuori mano e ha aggiunto che, se mi fossi persa, avrei dovuto cercare la polizia per strada con le mitragliatrici", scriveva ieri sull'Atlantic la celebre storica dell'Olocausto Deborah Lipstadt. "Altrimenti tieni d'occhio gli uomini con i cappelli da baseball e seguili, ti condurranno alla sinagoga', mi ha detto. Mi sono persa e ho seguito i cappelli da baseball, come da istruzioni. Mi sono sentita sollevata quando ho visto la polizia. Avevo trovato la sinagoga. Da molti anni, gli ebrei sanno che quando visitano una sinagoga europea, devono portare con sé il passaporto e aspettarsi di essere interrogati dalle guardie. Adesso chiamo per far sapere a una sinagoga che sto arrivando. E questo non sempre garantisce l'ingresso. Qualche anno fa, sono stata allontanata da una sinagoga di Roma". Conclude Lipstadt: "Non stanno abbandonando la loro identità ebraica, la stanno nascondendo. Sono diventati marrani".
   Dopo che un afroamericano ha accoltellato diversi ebrei in casa del rabbino Chaim L. Rottenberg di Monsey, vicino a New York, Lipstadt non esita a usare questa parola terribile e angosciante - "marrani" - che rifluisce dalla storia ebraica: gli ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo in Spagna dopo il 1492, ma che in segreto continuarono a professare l'ebraismo. Una strategia di sopravvivenza, un ebraismo segreto e senza identità pubblica. Oggi stiamo assistendo a una nuova forma di marranesimo nella società liquida senza persecuzione ufficiale e di stato, ma spicciola e quotidiana, nondimeno pericolosa. "La Homeland Security ha ricevuto dalla comunità ebraica americana più di 150 milioni di dollari in richieste", ha detto ieri Michael Masters, a capo della sicurezza delle Federazioni ebraiche del Nordamerica. Il magazine Politico ha appena rivelato che la comunità ebraica di Groningen, in Olanda, non pubblica più gli orari delle preghiere. "Un gruppo di volontari manda messaggi agli amici via WhatsApp. La comunità ha un piano di emergenza in caso di attacco e non pubblica i dettagli dei suoi servizi, ma si affida ai fedeli per tenersi informati a vicenda sul programma". La stella di Davide e il "911" sono stati dipinti sulla sinagoga di South Hampstead, a Londra. Il numero potrebbe riferirsi alla cospirazione antisemita secondo cui gli ebrei sarebbero responsabili dell'11 settembre; altri temono che si tratti di un riferimento alla Kristallnacht, il pogrom contro gli ebrei del 9 novembre 1938 nella Germania nazista. Numerose pattuglie della polizia inglese sono state dislocate di fronte alle sinagoghe della capitale. "Non consiglierei a nessuno di passare da qui indossando una kippah", ha appena detto alla Bild il capo della comunità ebraica di Halle, Max Privorozki, dove di recente un neonazista ha cercato di fare strage durante Yom Kippur (è stato il delegato alla lotta all'antisemitismo del governo tedesco, Felix Klein, a suggerire agli ebrei di non indossare più la kippah in pubblico).
   In un articolo su Sydsvenskan, una coppia di insegnanti ebrei, figli di sopravvissuti all'Olocausto, racconta cosa significa insegnare a Malmo, la terza città svedese. La coppia non osa rivelare la propria identità agli studenti. "Molti di loro provengono dal medio oriente e l'atmosfera è tale che mi sentirei a disagio a dire che sono ebreo". In Europa, che fino a 70 anni fa ospitava metà della popolazione mondiale, oggi si fatica a riconoscere un simbolo ebraico per strada.

(Il Foglio, 31 dicembre 2019)


"L'antisemitismo cresce e nessuno può sentirsi tranquillo", dice Safran Foer

Lo scrittore americano commenta la notizia dell'attentato a colpi di machete nella casa del rabbino Chaim Rottenberg vicino a New York.

di Alberto Ferrigolo

"L'antisemitismo ha la sua storia, i suoi contorni, ed è diretto contro un gruppo di cui io sono parte, ma va considerato che sta crescendo proprio ora, in un più ampio contesto di nazionalismo e insicurezza. Nessuno può sentirsi tranquillo". In un'intervista al Corriere della Sera, lo scrittore americano Jonathan Safran Foer reagisce con questo stato d'animo alla notizia dell'attentato a colpi di machete nella casa del rabbino Chaim Rottenberg, a pochi chilometri da New York.
   Foer aggiunge anche che i politici hanno responsabilità dirette in episodi simili "quando non si schierano apertamente e con forza contro odio e pregiudizi" perché "la cultura diventa meno vigile e il virus può diffondersi". E porta un esempio: "Dopo il letale raduno dei suprematisti bianchi a Charlottesville, Donald Trump parlò di responsabilità da entrambe le parti. Dubito che la sua frase abbia creato odio, ma lo ha legittimato", dichiara. Un alternativa a questo stato di cose, a suo avviso, "sarebbe eleggere leader che plasmino la civiltà, sopprimano i pregiudizi, legiferino per la giustizia".
   "Non è una coincidenza", aggiunge Foer, "che i crimini d'odio siano stati molto più bassi durante l'amministrazione Obama. Detto questo - precisa poi - ci sono stati più di 7 mila episodi antisemiti anche sotto di lui" a cui è seguita poi "l'ondata di antisemitismo con Trump", ma anche "una maggiore copertura giornalistica: una forma di vigilanza necessaria", dice.
   Secondo lo scrittore nato a Washington, nipote di ebrei scampati alla Shoah ed emigrati negli Stati Uniti, "tutti dovrebbero essere spaventati" perché "si sarebbe tentati di attribuire l'escalation a una tendenza più ampia: c'è stato un aumento dei crimini di odio contro gli ebrei negli Stati Uniti e questo è l'apice".
   Infatti, dal 23 dicembre sono stati censiti otto casi negli Stati Uniti di aggressioni fisiche e verbali nei confronti di ebrei. Il 10 dicembre sei persone sono morte nell'attacco a un supermercato kosher nel New Jersey e il mese scorso un ebreo ortodosso è stato accoltellato vicino a una sinagoga a New York.
   Tuttavia, secondo lo scrittore, "gli avvenimenti di questa settimana potrebbero esser e casi isolati, condotti da squilibrati", e questo atteggiamento "è diverso dall'antisemitismo più insidioso e pervasivo divenuto metastasi nell'ultimo paio d'anni negli Usa e in Europa". Quindi "sarebbe facile reagire in modo eccessivo", ma al tempo stesso "sarebbe tragico sottostimare il pericolo". Ma in ogni caso, prosegue Foer, "mi sembra esista una versione dell'antisemitismo ovunque ti giri: dall'estrema destra all'estrema sinistra e tra di esse".
   E pertanto "sarebbe anche sbagliato suggerire che l'antisemitismo abbia necessariamente qualcosa che assomigli a una 'ragione' che lo motiva", anche perché secondo lo scrittore statunitense, "forse parte dell'antisemitismo è una forma di orribile perversione delle critiche nei confronti di Israele, ma anche in questo caso non presuppone l'esistenza di una qualche ragione".

(AGI, 30 dicembre 2019)


Ora si muove il Mossad, «Non è un caso isolato»

Dai servizi segreti israeliani l'allarme che riguarda tutto il mondo «E 'più di un rigurgito nazista, troppi episodi negli ultimi mesi»

Il precedente
Il 10 dicembre a New Jersey City assalto a un supermercato kosher. Uccise quattro persone
I gruppi terroristici
Negli Usa dal 2018 è attiva una banda paramilitare che incita alla guerra razziale

di Francesca Musacchio

Il Mossad, il potente servizio segreto israeliano, da tempo monitora il fenomeno in tutto il mondo. E ieri, dopo l'attacco nell'abitazione di un rabbino di Monsey a 30 chilometri a nord di New York, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha ribadito la disponibilità di Israele di cooperare «in ogni modo con le autorità locali per aiutare a sradicare questo fenomeno. Offriamo questo aiuto a ogni Paese», ha sottolineato.L'ondata di antisemitismo in Europa e nel mondo, infatti, diventa sempre più preoccupante. Gli episodi si susseguono e la comunità ebraica vive nel terrore. Fonti del Mossad lo definiscono «qualcosa in più di un rigurgito nazista. Troppi i casi che si sono verificati negli ultimi mesi per poter dire che si tratta di eventi isolati».
 
           Un gruppo di soldati israeliani canta le canzoni di Hanukkà in un treno
           di Gerusalemme. Poco dopo anche gli altri si uniscono a loro.
  Nonostante tutto, in Israele...  
   Il 10 dicembre, a New Jersey City, è stato assaltato un supermercato kosher. I due aggressori risultavano essere appartenenti al «Black hebrew israelite», una setta religiosa che non ha alcun legame con il giudaismo pur rivendicando, come etnia minoritaria, le «origini ebraiche pure e la discendenza diretta dai primi israeliti» i cui rappresentanti in Terra Santa sono ritenuti dei «falsi ebrei» da combattere. Un «nonsense» totale tollerato dalle leggi americane in nome della libertà di pensiero. Gli aggressori, prima di essere neutralizzati dalla polizia, hanno ucciso quattro persone.
   A novembre, invece, un uomo è stato accoltellato mentre camminava verso una sinagoga nella città di Monsey, teatro dell'attacco di ieri. La scorsa settimana, a New York City, la polizia ha dichiarato di aver ricevuto almeno sei segnalazioni (otto in tutto dal 13 dicembre) di attacchi probabilmente motivati da pregiudizi anti-ebraici. Episodi troppo vicini e preoccupanti al punto che il sindaco di New York, Bill de Blasio, lo scorso 27 dicembre ha fatto sapere di aver aumentato i controlli nei quartieri a più alta densità di cittadini di religione ebraica, predisponendo maggiore presenza di forze dell'ordine. E solo due mesi fa, a ottobre, in Germania Stephan Balliet, cittadino della Sassonia-Anhalt e attivista neo-nazista, ha attaccato la sinagoga nella città di Halle. Prima della sparatoria, tra le altre farneticazioni pronunciate, anche quella secondo cui «la radice di tutti i problemi sono gli ebrei».
   E proprio la sotto cultura neonazista, di gruppi più o meno organizzati, è una delle principali basi ideologiche delle violenze che stanno insanguinando non solo l'Europa e gli Stati Uniti. Proprio negli Usa, dal 2018, è attivo un gruppo paramilitare, in forte crescita quanto ad adesioni, denominato «La Base», il cui nome riporta all'organizzazione terroristica al Qaeda, nato con lo scopo di organizzare «nazionalisti bianchi zelanti» e costruire una solida rete di alleanze con gruppi paritetici prima dell'inevitabile, futura «guerra razziale». L'humus ideologico che muove il gruppo è appunto quello della supremazia della razza bianca e dell'odio viscerale contro gli ebrei e le altre minoranze etniche. La pericolosità dell'organizzazione neonazista, secondo l'Fbi, è data dalla rete capillare di cellule sparse dagli Stati Uniti al Sudafrica all'Australia e, ovviamente, in Europa. «La Base», dalla sua fondazione ha pubblicato informazioni sulla composizione di ordigni esplosivi e organizzato campi di addestramento dove si sono svolte esercitazioni con armi da fuoco. L'odio verso gli ebrei dilaga anche nel web e la relazione dell'Osservatorio antisemitismo in Italia, pubblicata nel 2018, offre un panorama della situazione attraverso «la raccolta dei segnali di ostilità antisemita» che «avviene attraverso il monitoraggio dei media, tramite l'Antenna Antisemitismo, una stazione di ascolto (via telefono e via web) di segnalazioni di episodi di ostilità e di intolleranza antisemita e tramite lo svolgimento di ricerche sociali e sul web». I dati «che vengono proposti anche su scala numerica - spiega l'Osservatorio - si riferiscono ai soli episodi che vengono segnalati da utenti esterni o raccolti dal monitoraggio sistematico ma per forza di cose incompleto che i ricercatori dell'Osservatorio riescono a identificare. I numeri prodotti con questa metodologia comprendono sia segnalazioni di post sul web, sia episodi di attacchi verbali o fisici nella realtà quotidiana, sia infine pubblicazioni a stampa di carattere antisemita. Negli ultimi tre anni si è registrata in questo contesto una crescita importante delle segnalazioni. La relazione del 2018 segnala il numero di 197 episodi di antisemitismo che in qualche forma sono stati resi pubblici».

(Il Tempo, 30 dicembre 2019)


La nuova arma ipersonica della Russia lancia missili fino a 25 volte la velocità del suono

di Alessio Marino

A ridosso del weekend, il governo della Russia ha annunciato di essersi dotato, per la prima volta, di armi ipersoniche in grado di lanciare missili fino a 25 volte la velocità del suono. Secondo quanto riportato, la nuova arma è progettata per eliminare le difese missilistiche balistiche statunitensi prima di un attacco nucleare più ampio.
Il presidente Vladimir Putin ha definito l'arma "praticamente invincibile", ed ha anche spiegato che l'Avangard rappresenta la risposta "adeguata ed asimmetrica" allo "scudo spaziale degli Stati Uniti".
I dati ufficiali diffusi dal Cremlino osservano che il missile sarebbe in grado di raggiungere la velocità di Mach 27, quindi 33mila chilometri all'ora, ma non è tutto: Putin ha anche affermato che si tratta di un'arma in grado di effettuare veloci virate e cambiare rapidamente l'altitudine, un aspetto da non sottovalutare e che lo rende praticamente impossibile da intercettare da parte dei "nemici".
Putin proprio prima di Natale si è vantato di aver reso la Russia il primo paese ad essere in grado di schierare le armi supersoniche. "Nessuna nazione le possiede, figuriamoci quelle di portata intercontinentale" aveva affermato il Presidente qualche giorno fa.
Avangard è un sistema che a differenza dei tradizionali missili balistici intercontinentali, usa il booster ICBM per raggiungere un'altitudine di appena 62 miglia. Una volta in quota esegue lo zoom verso l'obiettivo alla velocità di Mach 27. In apertura proponiamo un test effettuato nel 2018.
Alcune indiscrezioni emerse in passato riferivano che la Russia starebbe testando anche le armi ipersoniche laser.

(Everyeye Tech, 30 dicembre 2019)


Gaza - OK di Israele all'importazione di pneumatici

In seguito alla sospensione da parte di Hamas delle manifestazioni settimanali al confine di Gaza, Israele ha approvato ieri alcune facilitazioni a beneficio della popolazione della Striscia. Fra queste, la rimozione del divieto di importazione a Gaza di pneumatici, che spesso erano stati dati alle fiamme dai dimostranti palestinesi quando si ammassavano al confine.
Israele, aggiungono i media, ha anche autorizzato l'ingresso a Gaza di autobus, di battelli per pescatori e di fertilizzanti. In parallelo ha approvato la esportazione di fragole dalla Striscia. In Israele resta invece ancora in esame la opportunità di autorizzare l'ingresso di manovali di Gaza. Le facilitazioni approvate finora rientrano nel contesto degli sforzi, mediati dall'Egitto, di dar forma ad un accordo limitato fra Hamas ed Israele - esaminato ieri dal governo israeliano - per riportare la calma nella zona.

(ANSAmed, 30 dicembre 2019)


Attacchi americani contro basi iraniane in Iraq e Siria. 19 morti

di Sarah G. Frankl

Almeno cinque attacchi americani contro basi iraniane in Iraq e Siria sono avvenuti nel giro di poche ore dopo che un contractor americano era stato ucciso a seguito del lancio di una salva di missili contro la base K1 a Kirkuk attribuito alle milizie filo-iraniane.
  Droni e caccia americani hanno bombardato diverse basi di Kata'ib Hizbollah (KH), un gruppo militare appoggiato dall'Iran, nonché altre basi delle "Forze di mobilitazione popolare" (Hashed al-Shaabi), una coalizione filo-iraniana di cui KH fa parte.
  Negli attacchi, secondo un portavoce di Hashed al-Shaabi, sarebbero rimasti uccisi 19 miliziani filo-iraniani mentre moltissimi sarebbero rimasti feriti.
  In Siria gli americani avrebbero colpito la stessa base più volte bombardata anche dagli israeliani usata da Teheran come base logistica per uomini e armi.
  «In risposta ai ripetuti attacchi di Kata'ib Hizbollah (KH) alle basi irachene che ospitano forze della coalizione, le forze statunitensi hanno condotto attacchi difensivi di precisione contro cinque strutture del KH in Iraq e Siria», ha detto un portavoce del Pentagono.
  «KH ha un forte legame con la Forza Quds iraniana e ha ricevuto ripetutamente armi e altro sostegno dall'Iran che ha usato per attaccare forze della coalizione» ha detto il Pentagono, riferendosi al braccio esterno delle guardie rivoluzionarie iraniane.
  Il portavoce militare del primo ministro uscente iracheno, Abel Abdel Mahdi, ha condannato gli attacchi americani e ha denunciato «una violazione della sovranità irachena».
  Un'altra potente fazione filo-iraniana, Assaib Ahl al-Haq, i cui leader sono stati recentemente colpiti da sanzioni statunitensi, ha chiesto agli americani di ritirarsi dall'Iraq.
  «La presenza militare americana è diventata un peso per lo stato iracheno e una fonte di minaccia contro le nostre forze», ha detto in una nota. «È quindi imperativo per tutti noi fare di tutto per espellerli con tutti i mezzi legittimi».
  Questa è la prima volta (almeno ufficialmente) che gli Stati Uniti attaccano le milizie filo-iraniane in Iraq, una minaccia non solo per lo stato iracheno ma anche per Israele visto che secondo l'intelligence di Gerusalemme gli Ayatollah stanno rifornendo queste milizie con missili di precisione in grado di colpire Israele direttamente dall'Iraq.

 La risposta iraniana
  Questa mattina è arrivata la risposta iraniana agli attacchi statunitensi alle loro milizie in Iraq e in Siria. Quattro missili hanno colpito una base americana a nord di Baghdad senza però fare vittime.
  Lo scambio di attacchi segna una escalation tra Stati Uniti e Iran che potrebbe avere importanti risvolti anche nel breve periodo.

(Rights Reporters, 30 dicembre 2019)


Una questione centrale in Usa (ma non solo)

di Fiamma Nirenstein

E' ormai un bel pezzo che l'antisemitismo è divenuta una questione centrale nella politica americana, anche se nessuno ha voglia di accettarlo. Se ne parla ormai anche nella campagna presidenziale degli Usa, la patria delle etnie e delle religioni che si mescolano in nome del sogno americano, la Terra che lontano dall'Europa infestata dal nazismo ne organizzò a caro prezzo la liberazione e che ha accolto e prodotto la migliore cultura ebraica contemporanea. Non passa giorno senza episodi di feroce antisemitismo. E proprio New York, campione del melting pot mondiale, ha visto in pochi giorni ben quattro attacchi antisemiti sanguinari di cui l'ultimo sabato nella casa del rabbino Chaim Rottenberg. Moltissimi newyorkesi ripetono che l'antisemitismo non ha diritto di cittadinanza. Ma sarà vero? In realtà l'America ne è inondata. C'è una continua ripetizione di stilemi antisemiti ormai assimilati nella narrazione comune sugli ebrei, basati sulla lieta, leggera, disinformata assunzione che il popolo ebraico dato che sostiene Israele sia associato storicamente a ogni fenomeno di oppressione. Da qui, una licenza al pregiudizio e alla maldicenza pronti a trasformarsi in violenza.
   Persino Bernie Sanders, ebreo, uno dei candidati democratici, ha imperniato un suo discorso proprio su questo tema, sostenendo la necessità di criticare Israele come potere oppressivo nei confronti di donne, Lgbtq, immigrati e che il tradizionale aiuto a Israele deve essere spostato per esempio verso la deplorevole situazione palestinese. Gli fanno coro tre deputate, Ilhan Omar, Rashida Tlaib, Alexandria Ocasio-Cortez. Nessuna è responsabile di gesti antiebraici in forma diretta, ma ciascuna - come in passato Farrakhan, capo della Nation of Islam che teorizzava un nesso fra l'oppressione degli afroamericani e una supposta attitudine ebraica al dominio - cosparge la narrativa americana di illazioni sull'egoismo e la prepotenza ebraica.
   La velenosità dell'atmosfera si è incrudelita da quando Donald Trump ha dimostrato simpatia e affetto per Israele per nascondere l'antisemitismo di destra. Difficile davvero da dimostrare, dato anche che sua figlia Ivanka è ebrea come il marito Jared Kushner. D'altra parte esiste in America il suprematismo bianco noto per la sua aggressione ai neri, ma anche per l'odio antiebraico.
   Come si fa a combattere questa ondata di antisemitismo? Usa ed Europa hanno il dovere di chiederselo. È indispensabile la memoria della Shoah e la rilettura della stupida propaganda anti israeliana, che attraverso il Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni), si traveste da movimento legittimo per abbracciare alleanze con ideologie e movimenti terroristi. Si tratta di battere il famoso intersezionalismo. Israele e gli ebrei non c'entrano, sono il solito capro espiatorio dei sensi di colpa dell'Occidente.

(il Giornale, 30 dicembre 2019)


Sabbioneta e la luce dell'identità

 
Sinagoga di Sabbioneta - Accensione della Chanukkiah
Chanukkah ha portato luce in molte città italiane. Luoghi in cui abitualmente ci si ritrova, ma anche occasioni di incontro e condivisione in spazi dove non esiste una regolare vita ebraica.
Come quella che ha avuto per protagonista la sinagoga di Sabbioneta dove a distanza di molti anni dall'ultima funzione religiosa si è svolta una cerimonia di accensione della Chanukkiah insieme all'officiatura della preghiera di Arvit. Un'iniziativa realizzata dal cantore Angel Julio Harkatz Kaufman in collaborazione con la Pro Loco di Sabbioneta che gestisce il sito su incarico della Comunità ebraica di Mantova e con il supporto dell'amministrazione comunale.
"La nostra città ha sempre accolto tutte le religioni, in particolare quella ebraica che qui ha avuto una storia importante" ha sottolineato il sindaco Marco Pasquali. Nella sinagoga affollata persone giunte da molte città italiane, ma anche dall'estero.

(moked, 30 dicembre 2019)


L'America dell'antisemitismo: ogni giorno un'aggressione

Escalation dal 10 dicembre, quando morirono in sei

La settimana dell'Hanukkah si chiude drammaticamente per la comunità ebraica statunitense, che è stata vittima negli ultimi giorni e nelle ultime settimane di numerosi attacchi, in particolare negli stati adiacenti di New York e New Jersey.
   L'episodio più tragico in realtà risale a un paio di settimane prima dell'Hanukkah, al 10 dicembre, quando due afroamericani (il quarantasettenne David Nathaniel Anderson e la cinquantenne Francine Graham) hanno ucciso un poliziotto e tre persone che si trovavano in un negozio di alimentari kosher a Jersey City prima di essere a loro volta uccisi in una sparatoria con la polizia. I due, già sospettati dell' omicidio di un autista di Uber, avevano legami con un gruppo estremistico afroamericano, i Black Hebrew Israelites, una setta che incitamento all'odio contro gli ebrei e i bianchi.
   Nell'ultima settimana si sono verificati altri episodi di minore gravità ma impressionanti per la loro cadenza quasi periodica. Venerdì 27 una donna afroamericana è stata fermata dalla polizia dopo aver insultato, schiaffeggiato e minacciato tre giovani donne ortodosse nel quartiere di Crown Heights a Brooklyn e nello stesso giorno un quarantatreenne è stato fermato dopo aver lanciato insulti antisemiti e brandito una borsa contro una madre ebrea che passeggiava col figlio di tre anni. Lunedì 23 a Manhattan un ebreo di 65 anni è stato preso a calci e pugni da un ventottenne che urlava insulti antisemiti e due bambini ebrei sono stati aggrediti a Brooklyn il 24 dicembre. In alcuni di questi casi non ci sono stati arresti ma una violenta polemica è scoppiata sul fatto che due dei tre fermati per gli episodi più gravi siano stati rimessi quasi subito in libertà.
   In seguito a questo «presepe» di aggressioni, venerdì scorso la polizia di New York ha deciso di intensificare i pattugliamenti in tre quartieri di Brooklyn considerati particolarmente a rischio. Nel borough di New York a novembre scorso era stato pugnalato a pochi passi da una sinagoga dove si stava recando per le preghiere del mattino. In questo caso l'attentatore non è stato identificato malgrado le telecamere di sorveglianza della stessa sinagoga avevano ripreso le immagini di un autoveicolo che si fermava vicino all'uomo e le gesta dell'aggressione.
   Il proliferare degli attacchi antisemiti allarma il Centro Simon Wiesenthal («Quel che è troppo è troppo») e lo induce a chiedere al presidente americano Donald Trump di istituire una speciale task force in seno all'Fbi. «Gli ebrei - chiede il centro - non devono temere per la loro vita in America quando si recano nei luoghi di preghiera». Il centro Simon Wiesenthal esorta anche i leader afroamericani a condannare «l'ondata di recenti crimini avvenuti a New York e in New Jersey a opera di afroamericani». AnCu

(il Giornale, 30 dicembre 2019)


I biblisti riscrivono la storia di Sodoma

di Gianni Toffali

Colpo di scena: Sodoma, non fu distrutta da Dio per i peccati contronatura dei suoi abitanti, ma per mancanza di ospitalità! Nonostante la spacconata natalizia sembri uscita da un seminarista somaro in teologia e in vena di scherzi, non lo è! Il 16 dicembre la Pontificia commissione biblica, ha solennemente sentenziato che «La storia della città di Sodoma illustra un peccato che consiste nella mancanza di ospitalità, con ostilità e violenza verso lo straniero. Un comportamento giudicato molto grave e quindi meritevole di essere sanzionato con la massima severità».
   Gli autori del bizzarro testo hanno inoltre osservato che «in altri passi della Bibbia ebraica che si riferiscono alla colpa di Sodoma, non vi è alcuna allusione a una trasgressione sessuale praticata con persone dello stesso sesso». L'intento della Commissione è lapalissiano: sdoganare l'omosessualità, far uscire dal ghetto le lobby gay vaticane ed estromettere dai Vangeli l'apostolo fustigatore di sodomiti, San Paolo.
   Da Santa Marta, nessun commento. E come si suol dire: chi tace acconsente. Ora ci si aspetta che la Commissione s'inventi una giustificazione teologia e una modalità tecnica per mettere al mondo bambini con genitori dello stesso sesso. Sicuramente un gioco da ragazzi per i nouveaux théologiens dell'era bergogliana.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 30 dicembre 2019)



Gli europei dicono una cosa, ma i loro soldi dicono il contrario

Quale negoziato e quale pace, se intanto si finanziano ong votate allo scontro e compromesse col terrorismo?

L'impudenza dell'Europa contro Israele si è rivelata ancora una volta in tutta la sua ignominia.
Dopo il recente annuncio che la Corte Penale Internazionale sta indagando se vi siano gli estremi per mettere sotto processo Israele per crimini di guerra in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, l'Ufficio del Procuratore generale israeliano ha pubblicato una serie di contro-argomentazioni. Alcune sono di carattere tecnico: la Corte Penale Internazionale non ha autorità in materia perché Israele non è firmatario del Trattato che ha istituito la Corte stessa; Israele dispone di una magistratura forte e indipendente che gestisce tali questioni internamente; i palestinesi non hanno titolo perché non sono uno stato. Altre affrontavano la questione nel merito: gli insediamenti non sono di per sé illegali, e certamente non sono un "crimine di guerra", e la presenza di Israele in Cisgiordania non costituisce affatto un'occupazione "illegale"....

(israele.net, 30 dicembre 2019)


New York, più attacchi antisemiti nella Grande Mela e nelle altre città

La polizia parla di un preoccupante aumento della violenza soprattutto dove c'è una forte concentrazione di ebrei ultraortodossi. Negli Usa il 57% di episodi di intolleranza in più nel 2017.

di Monica Ricci Sargentini

L'attacco alla casa del rabbino di Monsey durante la festa di Chanukkah non è il primo episodio di violenza antisemita nello Stato di New York. E, purtroppo, potrebbe non essere l'ultimo. La polizia parla di un'impennata di aggressioni nella regione. In questi giorni nella Grande Mela gli agenti pattugliano senza sosta i quartieri di Brooklyn dove la comunità ebrea è largamente presente. Il sindaco Bill de Blasio ha promesso tolleranza zero verso gli aggressori: «L'odio non troverà spazio nella nostra città».

 Il clima d'odio
  Dal 13 dicembre ad oggi al dipartimento di polizia sono arrivare otto segnalazioni di possibili attacchi antisemiti. Il 10 dicembre tre persone sono state uccise in un mercato kosher nel New Jersey. Qualche giorno fa a Brooklyn una donna è stata attaccata da una passante che le ha gridato «la tua fine sta arrivando». Il mese scorso un ebreo ortodosso è stato pugnalato a pochi passi da una sinagoga locale mentre camminava per le preghiere del mattino. Le telecamere di sorveglianza della sinagoga hanno mostrato un veicolo che si fermava vicino all'uomo e poi l'aggressione. L'attentatore non è stato trovato.

 La contea di Rockland
  Nella contea di Rockland, dove si trova la casa del rabbino attaccata oggi, vivono più di 300mila persone. Il 31% della popolazione è ebrea e c'è la più alta concentrazione di ebrei ultraortodossi del Paese. Negli ultimi anni molte famiglie chassidiche hanno lasciato i quartieri di Queens e Brooklyn, diventati troppo costosi, per spostarsi in periferia. «La comunità è terrorizzata» ha detto Evan Bernstein, direttore regionale a New York dell'Anti-Defamation League (Adl) che si è recato nella casa del rabbino di Monsey dopo l'aggressione.

 I dati
  Negli Stati Uniti gli attacchi antisemiti sono aumentati del 57% nel 2017 secondo i dati forniti dall'Adl. Sempre più frequentemente vengono disegnate svastiche accanto alle sinagoghe, alle tombe o alle case dove vivono gli ebrei. A corredo del simbolo nazista si trovano messaggi inquietanti: «Hitler non si era sbagliato», «Uccidi gli ebrei», «No ebrei».

(Corriere della Sera, 29 dicembre 2019)


Territori palestinesi - Comico condannato a 18 mesi per insulto a sentimenti religiosi

Aadel al-Mashwakhi
Un comico palestinese è stato condannato a Gaza a 18 mesi di carcere da una corte militare di Hamas per aver girato un video che si prende gioco degli estremisti dello Stato Islamico, mettendo in scena la parodia di una esecuzione. Il 32enne Aadel al-Mashwakhi è stato riconosciuto colpevole "insulto ai sentimenti religiosi", "opposizione a politiche pubbliche" e "comportamento manchevole" da un tribunale di Rafah, nel sud della Striscia. Per ognuno di questi reati dovrà scontare sei mesi, ha riferito il sito Paltimes, vicino ad Hamas, il movimento islamico palestinese che controlla la Striscia di Gaza. Al-Mashwakhi è autore di un video postato a settembre su Youtube che mette in scena una finta esecuzione dello Stato Islamico. Affiancato da due uomini che brandiscono coltelli, il comico legge i capi d'accusa ad un condannato inginocchiato e bendato. "Taglieremo la testa a quest'uomo perché 10 anni fa ha rubato una bustina di pistacchi ad un'anziana e quattro anni fa ha nuotato in mare con pantaloncini corti 5 cm sopra il ginocchio, in contraddizione con l'Islam", scandisce il comico, autore di decine di video ironici.
Hamas ha preso nel 2007 il controllo della Striscia di Gaza, dove è stata imposta la legge islamica.

(ADUC, 29 dicembre 2019)



Perché l'attacco antisemita a New York non è una sorpresa

Il sangue versato a New York è solo l'ultimo episodio che segue una deriva iniziata ormai da anni nel silenzio generale. Il sindaco de Blasio lancia l'allarme: "Gli ebrei hanno paura di mostrare la loro fede"

di Francesco De Palo

L'attacco antisemita con un machete a New York è una sorpresa? Qualcuno, tra politica e media, sta pericolosamente sottovalutando questo vento che spira (forte) contro gli ebrei in varie parti del pianeta, finanche nel civile e democratico occidente? Secondo il rabbino Shmuel Gancz, capo del Centro ebraico Chabad di Suffern, tre vittime sono già state dimesse dall'ospedale, mentre altre due gravemente ferite sono ricoverate in prognosi riservata dimostrando la violenza inaudita che ha spinto l'assalitore. E il sindaco Bill de Blasio lancia l'allarme: "Gli ebrei hanno paura di mostrare la loro fede"

 Trend
  "Vorrei essere chiaro - ha twittato il governatore di New York, Andrew Cuomo - l'antisemitismo e il bigottismo di qualsiasi tipo sono ripugnanti per i nostri valori di inclusione e diversità". È la ragione per cui la mobilitazione negli Usa è totale. La NBC News ha riferito che i Guardian Angels, un gruppo privato e disarmato di prevenzione della criminalità, avrebbero iniziato a pattugliare il distretto di Brooklyn a New York City già da oggi, domenica. Ma potrebbe non essere sufficiente una azione di ronde, come osserva il portavoce del Consiglio comunale di New York, Corey Johnson, secondo cui molto altro deve essere fatto per proteggere le comunità ebraiche, con riferimento a iniziative sociali e culturali.
  Si tratta del secondo attacco lanciato a Monsey negli ultimi due mesi. Nel novembre scorso un uomo era sceso improvvisamente dalla propria auto macchina per pugnalare un rabbino mentre si recava in sinagoga. E nell'ultima settimana si sono verificati una serie di piccoli ma inquietanti episodi antisemiti che hanno provocato la reazione del sindaco di New York Bill de Blasio, pronto ad annunciare una maggiore presenza della polizia nei luoghi più sensibili, come Brooklyn, Borough Park, Crown Heights e Williamsburg.

 Spie di malessere
  Manifestazioni che sono in concreto spie di un pericoloso malessere, si sono verificate anche al di qua dell'oceano e a più riprese. Frasi inquietanti sono apparse lo scorso anno in una scuola turca come "un ebreo significa bugiardo", "un ebreo è un uomo che pugnala le persone alle spalle", "un ebreo è un vigliacco che uccide i deboli". Episodi che hanno suscitato la protesta ufficiale dell'Organizzazione Sionista Mondiale che ha lanciato l'allarme contro le reiterate manifestazioni contro lo Stato di Israele e il popolo ebraico anche "da parte di funzionari turchi, guidati dal presidente della Turchia", come detto dal vicepresidente Yaakov Hagoel, anche a capo del dipartimento per la lotta contro l'antisemitismo.
  Uno degli osservatori più attenti del settore, Svante E. Cornell, direttore per l'Asia dell'Asia-Caucaso Institute e Silk Road Studies Program presso l'American Foreign Policy Council, ha più volte osservato che lo slittamento della Turchia nella direzione dell'ideologia islamista più pura è reale e va oltre la personalità di Erdogan.

 Corbyn antisemita
  Non solo Erdogan, anche il candidato premier inglese Jeremy Corbyn, recentemente sconfitto da Boris Johnson, aveva più volte mescolato le proprie tesi politiche laburiste in antitesi al conservatorismo inglese con pillole di antisemitismo condite da foto provocatorie. Dopo essere stato raffigurato con un attivista noto per le sue tesi negazioniste, Corbyn nei mesi scorsi aveva preso parte a iniziative pro Olp in chiave anti Israele. Addirittura il premier israeliano Netanyahu in un tweet lo aveva condannato per aver reso omaggio ai militanti del commando di Settembre nero, responsabili della morte degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco.

(formiche, 29 dicembre 2019)


New York, rabbino aggredito con un machete: cinque feriti di cui due gravi. Arrestato un uomo

L'aggressione a Monsey mentre si festeggiava la festa Hanukkah. Cuomo: «È terrorismo interno». Netanyahu: «Collaboreremo con le autorità locali per combattere questo fenomeno»

 
La casa del rabbino dove è avvenuto l'assalto
 
L'uomo sospettato dell'attentato arrestato dalla polizia
NEW YORK. È stato arrestato dopo una breve fuga l'uomo che è entrato in casa di un rabbino, seminando il panico durante la festa per la settima giornata delle celebrazioni di Hannukah. Con il viso coperto in parte con una sciarpa e armato di machete ha ferito almeno cinque persone, tutti ebrei chassidisti, di cui due sono in condizioni gravi. Tra loro, ha riferito il co-fondatore dell'Orthodox Jewish Public Affairs Council, Yossi Gestetner, ci sarebbe anche un figlio del rabbino. L'attacco è avvenuto a Monsey, a circa 50 chilometri a nord di New York. L'uomo è riuscito a fuggire in auto ed è stato arrestato dopo quasi due ore ad Harlem. Non sono noti i motivi del suo gesto. Il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo ha ricordato che si tratta del «13o attacco antisemita a New York nelle ultime settimane», perciò, «chiamiamo le cose con il loro nome: questo è un atto di terrorismo domestico basato su intolleranza e ignoranza».
   Secondo quanto riferito da testimoni, l'aggressore, descritto come un uomo alto di colore, ha tentato di entrare nella sinagoga, ma le persone che si trovavano all'interno, allertate e spaventate dalle urla provenienti dalla casa del rabbino, hanno fatto in tempo a chiudere la porta. Al momento dell'attacco, avvenuto poco prima delle 22.00 (le 4.00 in Italia) nell'abitazione del rabbino c'erano circa 100 persone, riunite per la settima giornata delle celebrazioni della festa Hanukkah. «È entrato e ha iniziato subito ad attaccarci, non abbiamo avuto il tempo di reagire», ha raccontato al New York Times, Aron Kohn, 65 anni, uno dei testimoni oculari dell'aggressione.
   «Lo abbiamo visto estrarre un coltello da una custodia, era grande quanto una scopa», ha aggiunto. Subito è scoppiato il panico, con persone che tentavano di fuggire e che hanno reagito lanciando sedie e tavoli contro l'aggressore. L'allarme ha raggiunto una sinagoga adiacente, la Congregazione Netzach Yisroel, guidata dal rabbino Rottenberg, dove erano riuniti altri fedeli che si sono barricati all'interno. L'aggressore ha poi tentato di dirigersi verso la sinagoga, ma quando l'ha trovata chiusa si è allontanato. Uno dei feriti più gravi è un uomo affetto da una disabilità mentale, ha raccontato all'emittente israeliana Channel 13 un vicino, Jack Stein, citando un testimone oculare. Secondo questo racconto, l'aggressore si è precipitato in cucina dopo essere stato colpito da alcune sedie e ha accoltellato più volte il disabile, che era rimasto immobile, paralizzato dalla paura. Yossi Gestetner, co-fondatore dell'OJPAC (Orthodox Jewish Public Affairs Council) ha invece detto al New York Times che fra i feriti c'è uno dei figli del rabbino.
   L'episodio si inserisce in una serie di attacchi antisemitici che si sono verificati negli ultimi giorni a New York. «È l'ultimo di una serie di attacchi contro membri della comunità ebraica a New York in questa settimana», ha detto il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, citato dalla Cnn. «Vorrei essere chiaro: l'antisemitismo e il bigottismo di qualsiasi tipo sono ripugnanti per i nostri valori di inclusione e diversità, tolleranza zero verso tali atti di odio», ha avvertito Cuomo.
   Il presidente israeliano, Reuven Rivlin si è detto «scioccato e indignato». «Preghiamo per i feriti, ci auguriamo una pronta guarigione. L'aumento dell'antisemitismo non e' solo un problema degli ebrei o dello Stato di Israele. Dobbiamo lavorare insieme per affrontare questo male, che sta rialzando la testa ed e' una vera minaccia in tutto il mondo», ha affermato in una nota.
   Monsey si trova nella contea di Rockland, che comprende cinque città a nord-ovest di New York, per un totale di oltre 300.000 abitanti. Circa il 31 percento della popolazione e' ebrea e la contea ha una delle maggiori concentrazioni di ebrei ultraortodossi nel Paese.
   Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu ha condannato l'attacco antisemita vicino New York in apertura del consiglio dei ministri. «Israele condanna con fermezza tutte le azioni antisemite e il brutale assalto nella casa del rabbino a Monsey», «collaboreremo in qualsiasi modo con le autorità locali per contribuire a combattere questo fenomeno», «offriamo il nostro aiuto a tutte le nazioni del mondo», ha detto il premier, citato dai media israeliani.
   In seguito all'attacco in casa del rabbino di Monsey, il Centro Wiesenthal ha lanciato un appello al presidente americano Donald Trump affinché ordini all'Fbi di organizzare una "Task force" capace «di mettere fine ai ripetuti attacchi contro gli ebrei e le loro istituzioni». Ha anche rivolto un appello ai leader afro-americani perché prendano posizione «contro l'ondata di attacchi anti ebraici nell'area di New York».

(La Stampa, 29 dicembre 2019)


Macché antisemita, la destra tedesca è piena di ebrei

Un libro spiega come la politica migratoria di SPD e della sinistra radicale rappresenti un rischio per la comunità israelitica.

di Vito Punzi

La presa di posizione di 17 associazioni ebraiche presenti in Germania è di alcuni mesi fa: una "dichiarazione comune contro Alternative für Deutschland" (Alternativa per la Germania), il partito euroscettico fondato nel 2013 da Bernd Lucke, presente nel Parlamento Europeo con 11 rappresentanti e che alle ultime elezioni regionali tedesche ha ottenuto il 23,5% in Brandeburgo, il 27,5% in Sassonia e il 23,4% in Turingia, i tre importanti Lander tedesco-orientali ex Germania comunista. «AfD non è un partito per ebrei, non è un partito per democratici, è piuttosto un partito razzista e antisemita!» Una presa di posizione, questa di una parte dell'ebraismo tedesco, che con il suo essere "contro" finisce con l'usare toni davvero poco democratici. Una dichiarazione di paura, dunque. Paura per il crescente consenso ottenuto da AfD, ma soprattutto per la possibilità che all'interno della comunità ebraica tedesca (150.000 persone circa) cresca la simpatia per il progetto di Alternativa per la Germania. Risale infatti appena a un anno fa la costituzione di "Ebrei per la Germania", un gruppo insieme amico di Israele e della storia e della tradizione culturale tedesche.

 La storia
  Un dibattito interno alla comunità di origine ebraica che ha a che fare certo con l'attualità (la crescita della comunità islamica, anche grazie ai flussi migratori, e l'aumento degli episodi di antisemitismo da parte di musulmani), ma che inevitabilmente non può non richiamare alla mente la storia, grande e drammaticamente controversa, degli ebrei tedeschi. Una storia che fino a Hitler e al nazismo è stata di progressiva emancipazione, come in pochi altri luoghi in Europa.
  Un dibattito vivo e sempre meno confinato all'interno della comunità ebraico-tedesca. Ne è testimonianza il libro da poco uscito in Germania per l'editore Gerhard Hess, Was Juden zur AfD treibt: Neues Judentum und neuer Konservatismus. Jüdische Stimmen aus Deutschland (Ciò che spinge gli ebrei verso la AfD: nuovo ebraismo e nuovo conservatorismo. Voci ebree dalla Germania), curato da Vera Kosova, Wolfgang Fuhl e Artur Abramovych, tre membri di "Ebrei per la Germania". Tra i contributi da rimarcare quello dello stesso Fuhl che pur in poche pagine ricostruisce la storia del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, promotore della citata dichiarazione con l'AfD. C'è poco da meravigliarsi, sostiene Fuhl, visto che, fondato a Francoforte sul Meno il 19 luglio 1950, il Consiglio si è dimostrato sempre un organo di parte, affiancando nelle battaglie politiche la SPD, il partito socialdemocratico tedesco.
  Ollie Weksler invece, nato in Kazakistan, racconta i parallelismi tra l'antisemitismo e l'ostilità nei confronti di Israele presenti in quella che fu l'Unione Sovietica e in Germania, all'interno di istituzioni pubbliche governate dalla sinistra. Il tutto supportato dalla dominante opinione pubblica che non esita a definire "stampa e TV di corte con uniformi opinioni mainstream".
  Molto interessante anche il contributo di Emanuel Bernhard Krauskopf, nato a Bruxelles, figlio di un combattente Irgun (il gruppo paramilitare sionista), che racconta l'odio di sinistra e dell'islam nei confronti degli ebrei in Europa: «L'odio legato a Israele è puro odio per gli ebrei», ricorda. A Perpignan, nel 1969, conobbe una famiglia ebrea fuggita dall'Algeria ed era uno dei 150.000 ebrei fuggiti in Francia dopo l'indipendenza e ai quali il nuovo Stato non aveva concesso la cittadinanza. Con grande efficacia Krauskopf si occupa di alcuni dei termini di lotta usati dalla "coalizione d'odio di sinistra e islamica" contro gli ebrei e Israele, rileggendo anche la funzione avuta dall'ayatollah Ruhollah Khomeini a sostegno di quella "coalizione".

 Il grido d'allarme
  Molto duro l'intervento di Dimitri Schulz, nato in Kirghizistan, figlio di ebrei olandesi, che, partendo dalla Torah, ricorda l'assenza di una vera politica familiare tedesca, nonché il fallimento delle Chiese politicizzate di verde e di rosso, allontanatesi dalla carità e trasformatesi piuttosto in realtà finanziarie a supporto di alcuni partiti politici.
  Impossibile riassumere tutti gli interventi contenuti in questo libro dai pregi plurimi. Quello di invitare a guardare in faccia la realtà è certo il più importante. E la realtà, come ricorda Orit Arfa, nipote di un sopravvissuto all'Olocausto, nata a Los Angeles, ma dal 2016 residente a Berlino, dice che sì, è vero, tra gli elettori di AfD "sembra ve ne siano un po' troppi comprensivi nei confronti di Hitler. Purtroppo ci sono, ma non solo nell'AfD. Ce ne sono in tutti i partiti tedeschi, specialmente a sinistra, senza dimenticare l'ostilità istituzionalizzata verso Israele da parte del governo tedesco e dei media che controlla».
  Da ultimo, il grido d'allarme di Vera Kosova, presidente del raggruppamento di ebrei aderenti alla AfD: «La vita ebraica in Germania è di nuovo a rischio. E questo non è da meno dovuto alla catastrofica politica migratoria, di cui la SPD e la sinistra radicale sono ampiamente responsabili. Invece di riconoscere i veri pericoli per la vita ebraica e apportare le necessarie correzioni politiche, questo partito ora sta attaccando i membri ebrei dell' AfD, l'unico disposto a resistere all'antisemitismo importato. L'antisemitismo di sinistra è un argomento tabù in Germania. È giunto il momento di occuparsene».

(Libero, 29 dicembre 2019)


Comunità ebraiche italiane corresponsabili di Israele?

Due lettere di botta e risposta inviate a “Il Secolo XIX”, edizione di Genova

Ascoltando qualche giorno fa alla radio il ricordo di Piero Terracina, che univa alla memoria della Shoah la ricerca della giustizia, principio sottolineato anche dall'intervento di un sopravvissuto ad una strage nazifascista, vorrei chiedere ai dirigenti delle Comunità ebraiche italiane come fanno a non rendersi conto dei crimini che i diversi governi israeliani commettono, da anni, nei confronti dei Palestinesi. I bombardamenti di Gaza, gli assassinii extragiudiziali, gli arresti amministrativi, le torture, l'apartheid e la pulizia etnica? Come fanno a non vedere l'ingiustizia dell'oppressione dei governi israeliani, che si dicono rappresentanti di tutti gli ebrei, sul popolo palestinese? I dirigenti delle Comunità ebraiche sostengono la politica di questi governi qualunque cosa facciano, si oppongono al riconoscimento sia di uno Stato palestinese sia a uno Stato comune israelo-palestinese ed identificano l'antisionismo con l'antisemitismo. In questi giorni, il dottor Ilan Brauner, della Comunità ebraica di Treviso, ha denunciato lo chef Rubio per antisemitismo e incitamento all'odio, perché aveva definito "abominevoli" i cecchini israeliani che sparano su civili disarmati. Da marzo 2018 ad oggi, i cecchini israeliani hanno ucciso 305 palestinesi civili disarmati e, tra questi, 59 bambini, che manifestavano per la libertà e ferendone molti altri. Ma quello che ha detto Rubio lo scrivono da anni anche storici ebrei come Ilan Pappé, medici come Miko Peled, antropologi come Jeff Halper, giornalisti come Amira Hass e Gideon Levy, giuristi come Richard Falk e John Dugard, responsabili di Ong e tanti altri. In questi giorni, in Italia ed in Europa, si denuncia l'aumento dell'antisemitismo. E' innegabile che questo fenomeno sia in crescita ma, a tale proposito, vorrei fare due osservazioni. La prima è che le Comunità ebraiche sono corresponsabili di tale aumento quando si identificano con la politica dei governi israeliani, come ha già scritto anni fa l'intellettuale ebrea Judith Butler, la seconda è che i sondaggi sull'antisemitismo, spesso condotti da organizzazioni come la Anti-Defamation League che non distinguono tra antisionismo ed antisemitismo, proprio per questo non hanno alcun valore.
lreo Bono

(Il Secolo XIX, 18 dicembre 2019)


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La lettera del lettore Ireo Bono, pubblicata lo scorso 18 dicembre, contenente tristi offese alla memoria del sopravvissuto ai campi di sterminio nazista, Piero Terracina, è un chiaro invito ai dirigenti delle Comunità ebraiche italiane a prendere le distanze da Israele facendo leva sui temi cari alla propaganda palestinese. È sorprendente leggere con quale banalità venga attribuita la responsabilità dell'aumento degli attacchi verbali e fisici che sempre più in Europa si stanno intensificando contro i cittadini di religione ebraica alle stesse vittime di tale fenomeno, un vero cortocircuito mentale. Sfruttando una lunga serie di nomi di quelli che Theodor Lessing ha definito "ebrei che odiano se stessi", l'autore della lettera ha evocato accuse infondate nei confronti dell'unica democrazia del Medioriente, esposta fin dalla sua nascita a minacce esistenziali e al pregiudizio da parte delle organizzazioni internazionali dove i paesi arabi impongono decine di risoluzioni discriminanti attraverso maggioranze automatiche. Israele è da sempre impegnata nel garantire la sicurezza dei propri cittadini in risposta ai continui attacchi delle organizzazioni terroristiche di Hamas e Jihad Islamica da Gaza, rispettando il diritto internazionale e promuovendo la coesistenza pacifica con le popolazioni confinanti. Le precarie condizioni dei Gazawi sono il risultato dell'oppressione perpetrata dalle stesse leadership che controllano la Striscia, veri regimi mafiosi che sottraggono gli aiuti umanitari, tra cui anche i nostri, per finanziare le attività terroristiche come il lancio di missili, la costruzione di tunnel e l'organizzazione di deliberati tentativi di oltrepassare il confine con il chiaro intento di raggiungere le città israeliane e uccidere più civili possibile. Mentre prende di mira i cittadini israeliani, Hamas mette sotto giogo i propri civili, inclusi donne e bambini, utilizzandoli come scudi umani. L'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) ha stabilito che è antisemitismo: accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele che agli interessi dei propri paesi, negare al popolo ebreo il diritto all'autodeterminazione sostenendo che l'esistenza di uno Stato di Israele è un atteggiamento razzista, imporre a Israele un comportamento non previsto o non richiesto a qualsiasi altro paese democratico, paragonare la politica odierna di Israele a quella dei nazisti.
Bruno Gazzo
Presidente Italia-Israele Genova

(Il Secolo XIX, 29 dicembre 2019)



    Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

    --> Predicazione
 Salmo 90
Marcello Cicchese
31 dic 2017

 


A Tel Aviv hanno iniziato a circolare gli autobus durante lo "shabbat"

Cioè il giorno di festa per l'ebraismo: è la prima volta che succede dalla nascita dello stato di Israele, nel 1948

 
Uno dei primi autobus pubblici a girare di shabbat a Tel Aviv
Da circa un mese il comune di Tel Aviv ha iniziato una controversa sperimentazione per far circolare i mezzi pubblici anche di shabbat, il giorno ebraico che va da venerdì a sabato sera. È una decisione più rilevante di quello che sembra: sin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1948, in Israele i mezzi pubblici non hanno mai circolato durante lo shabbat, che è considerato sacro dagli ebrei ortodossi.
   Questioni del genere sono da sempre molto delicate in un paese dalla doppia natura, democratica e religiosa. Ancora oggi il rispetto del sabato di festa da parte degli apparati pubblici è così discusso che la sperimentazione è stata possibile soltanto grazie a una specie di cavillo: eppure è piaciuta parecchio, tanto che nelle scorse settimane è stata progressivamente ampliata.
   In Israele la stragrande maggioranza delle attività commerciali e dei servizi pubblici non è garantita durante lo shabbat, soprattutto nelle città dove la comunità religiosa è più ampia. È una delle concessioni che i partiti che rappresentavano le comunità religiose negoziarono con David Ben Gurion, il primo capo di governo del paese, in cambio della loro partecipazione alla vita democratica di Israele. Non esiste un unico accordo scritto che raccolga queste indicazioni, che però sono assai note e vengono chiamate col nome di status quo: fra le tante misure, ce n'è una che garantisce piena autonomia nell'educazione degli ebrei ultraortodossi, che infatti hanno scuole separate da quelle statali.
   Negli anni, con la progressiva secolarizzazione della società, l'assenza del trasporto pubblico è diventata una delle misure meno apprezzate dello status quo da parte della maggioranza laica dei cittadini israeliani: non solo crea disagi per gli spostamenti, ma danneggia soprattutto chi non può permettersi un'auto privata oppure un costoso viaggio in taxi, cioè i più poveri.
   Secondo un recente sondaggio citato dal Guardian, il 60 per cento degli israeliani sarebbe a favore dell'introduzione del trasporto pubblico durante lo shabbat (ipotesi a cui è contrario il 97 per cento degli intervistati ultraortodossi). Negli ultimi mesi la proposta è finita nel manifesto politico di Blu e Bianco, il partito centrista che alle ultime elezioni ha ottenuto la maggioranza dei seggi.
   Negli ultimi anni c'erano stati diversi tentativi di introdurre forme di trasporto pubblico anche durante lo shabbat, soprattutto nelle città più laiche e secolari come Tel Aviv, ma finora si erano limitate a sporadiche associazioni di cittadini che si offrivano passaggi a vicenda. A febbraio era stata inaugurata una linea pubblica nella piccola città periferica di Tiberiade, ma la sperimentazione del comune di Tel Aviv è stata la prima ad essere promossa da una grande città. Le modalità con cui è stata avviata, però, raccontano bene la delicatezza del tema.
Il comune ha deciso di iniziarla senza una grossa campagna promozionale - forse per timore di proteste e contestazioni organizzate - e soprattutto senza chiedere il permesso al governo nazionale, che quasi sicuramente l'avrebbe negato: l'attuale ministro dei Trasporti, Bezalel Smotrich, proviene infatti da uno dei partiti della destra religiosa che sostengono il governo di Benjamin Netanyahu. Una legge israeliana impone che il governo debba approvare qualsiasi nuova tratta a pagamento del trasporto pubblico: così il comune di Tel Aviv ha deciso di rendere il servizio gratuito per tutti.
Nel primo shabbat di sperimentazione, Tel Aviv ha garantito sei linee per minibus da 19 posti l'uno. Il servizio è stato studiato per offrire una corsa ogni mezz'ora e per collegare tra loro alcune delle periferie più popolate, come Ramat HaSharon, Givatayim e Kiryat Ono.
È stato un successo: secondo dati citati dal Times of Israel, gli autobus sono stati utilizzati da 10mila persone, e dopo le prime tre ore il comune ha dovuto impiegare ulteriori mezzi per fare fronte alla domanda. Nel weekend successivo, il quotidiano vicino alla sinistra israeliana Haaretz ha notato che alcuni minibus sono stati sostituiti con degli autobus veri e propri, e che alcune linee sono state potenziate per garantire tre o quattro corse all'ora, anziché soltanto due.
   Gli ultraortodossi hanno criticato molto duramente la decisione di Tel Aviv e all'inizio di dicembre hanno bloccato per protesta una strada di Bnei Brak, una cittadina di periferia a maggioranza religiosa dove passa una delle nuove linee. Durante la protesta la polizia israeliana ha arrestato 16 persone per disturbo della quiete pubblica.
   Il comune di Tel Aviv ha cercato di venire incontro, per quanto possibile, ad alcune esigenze degli ultraortodossi: la vicesindaca Meital Lehavi ha detto al Guardian che nei piani iniziali una delle nuove linee si doveva fermare esattamente davanti a una sinagoga: il percorso è stato successivamente modificato. «Non vogliamo che questa storia diventi il pretesto per litigare: dovremmo vivere e lasciare vivere, cosicché ognuno possa passare come vuole lo shabbat», ha detto Lehavi.
   Non si sa ancora se altre grandi città israeliane intendano seguire l'esempio di Tel Aviv: difficilmente però si vedrà un servizio del genere a Gerusalemme, dove ci sono diverse comunità di ultraortodossi e il sindaco è un ex collaboratore di Netanyahu.

(il Post, 28 dicembre 2019)



Israele si prepara a uno scontro limitato con l'Iran

L'IDF, la Difesa d'Israele, si sta preparando ad uno scontro limitato con l' Iran. Israele continua ad agire contro la presenza iraniana in Siria e in Iraq. Lo ha dichiarato al Jerusalem Post il Capo di stato maggiore israeliano, il Ten. Gen. Aviv Kochavi.
   "Continueremo ad agire e responsabilmente", ha detto Kochavi, aggiungendo che sarebbe stato meglio se Israele non fosse stato l'unico a impegnarsi nello sforzo di fermare l'Iran e rendendo noto che la Difesa israeliana sta effettuando operazioni per impedire al nemico di ottenere missili di precisione, anche se tali operazioni rischiano di provocare uno scontro.
   "Non permetteremo all'Iran di trincerarsi in Siria, o in Iraq", ha detto Kochavi, riconoscendo pubblicamente per la prima volta che la forza aerea israeliana sta attaccando obiettivi iraniani in Iraq. "L'Iraq - ha proseguito- sta vivendo una guerra civile. La Forza Quds (forza speciale del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica, ndt ) vi opera quotidianamente e l'Iraq è diventata una zona non governata. Le armi vengono contrabbandate dalla Forza Quds in Iraq ogni mese e questo non possiamo permetterlo".
   Secondo Kochavi, negli ultimi mesi c'è stato un cambio della qualità delle minacce nel tentativo di organizzare attacchi terroristici o missilistici contro Israele. L'Iran continua a produrre missili che possono raggiungere il territorio israeliano.
   Inoltre, le forze di Quds in Siria e Hezbollah hanno apparecchiature e missili antiaerei avanzati in grado di minacciare i jet israeliani, che tuttavia continuano a essere liberi di operare in tutto il Medio Oriente.
   Il capo della Difesa israeliana ha aggiunto, tra l'altro: "nella prossima guerra, che si tratti del nord o di Gaza, l'intensità della potenza di fuoco nemica sarà grande. Non può esserci guerra senza vittime e non posso non garantire una guerra breve. Avremo bisogno della resilienza nazionale".
   Il generale Kochavi ha avvertito che nel corso di una prossima guerra l'IDF colpirà intensamente le aree urbane appartenenti al nemico dopo aver avvertito i civili di andarsene. "È il nemico che l'ha scelto", ha detto. "Colpiremo duramente, compresa l'infrastruttura del paese che consente al gruppo terroristico di agire contro Israele. La responsabilità appartiene ai governi del Libano e della Siria e ad Hamas ".
   Il comandante della Difesa israeliana ha riconosciuto che un discorso a parte merita la Striscia di Gaza: "Riconosco un'opportunità unica a Gaza. Da parte di Hamas c'è una forte volontà di non provocare un'escalation ed è stata la Jihad islamica, sotto la guida dell'ormai morto comandante Bahaa Abu al-Ata, a essere responsabile della stragrande maggioranza degli attacchi contro Israele portati nel corso dell'anno scorso".
   Hamas, ha aggiunto il generale israeliano, vuole migliorare il benessere dei cittadini di Gaza e Israele sta "assistendo gli egiziani per facilitare il soccorso civile. Questa è la politica del governo israeliano e la sostengo". Ma la situazione è fragile- Kochavi ha concluso- e non si può dimenticare che Hamas non ha ancora restituito i corpi dei soldati israeliani caduti, Oron Shaul e Hadar Goldin:"Dobbiamo riportarli a casa".

(politicainsieme, 28 dicembre 2019)


Segnali di pace: Israele porta a Gaza un apparecchio che trasforma l'aria in acqua

 
Non solo missili. Malgrado le costanti e quotidiane tensioni con Hamas, Israele ha autorizzato l'introduzione a Gaza di un sofisticato apparecchio che consente di trasformare l'aria in acqua potabile.L'apparecchio che si chiama Genny ed è già stato sperimentato in varie parti del mondo - India, Vietnam, Sierra Leone, Colombia, Uzbekistan e Sudafrica - è stato incluso dalla rivista Time tra le 100 migliori invenzioni al mondo.
   Si tratta di un apparecchio della società WaterGen che sfrutta la umidità dell'aria. Regolando sbalzi di temperatura con un apposito "heat exchanger", questo macchinario è in grado di produrre quantità di acqua potabile. Il primo apparecchio del genere (che costa l'equivalente di 50 mila euro) è stato installato in un rione di Abassan, nel Sud della Striscia, ed è in grado di produrre 500-600 litri di acqua al giorno.
   Così prima raccoglie il vapore acqueo nell'aria, poi raffredda l'aria nel suo punto di rugiada. Successivamente, l'acqua passa attraverso un trattamento fisico, chimico e biologico, seguito da un processo di mineralizzazione, per mantenerne la pulizia, la sapidità e la qualità salutare.In sostanza, il "GENNY" non solo funziona come un deumidificatore, ma fornisce anche un'alternativa ecologica all'acqua in bottiglia. Come gli altri generatori d'acqua di Watergen, non ha bisogno di infrastrutture per funzionare se non per una fonte di elettricità.

(Il Messaggero, 28 dicembre 2019)


Grecia: diplomazia al lavoro per confermare il suo ruolo nel Mediterraneo orientale

ATENE - I primi mesi del 2020 saranno caratterizzati da intensa un'attività diplomatica per i rappresentanti del governo della Grecia. L'esecutivo ellenico, secondo quanto sottolinea oggi l'agenzia di stampa "Ana-Mpa", è infatti impegnato a riaffermare il ruolo del paese come pilastro di stabilità nel Mediterraneo orientale, a proporsi come hub energetico ed a "contenere" le provocazioni della Turchia. Il prossimo anno si aprirà con l'importante firma dell'accordo sul gasdotto EastMed, in programma ad Atene alla presenza oltre che del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis anche dell'omologo israeliano Benjamin Nethanyau e del presidente cipriota Nicos Anastasiades. Il 7 gennaio Mitsotakis ha poi in agenda un incontro alla Casa Bianca con il presidente statunitense Donald Trump: l'obiettivo essenziale sarebbe quello di cercare di ottenere l'attenzione di Washington sulle provocazioni turche nel Mediterraneo orientale e di chiarire "l'invalidità" del memorandum sui confini marittimi e sulla sicurezza firmato nelle scorse settimane tra Ankara e Tripoli. A seguire, nei giorni successivi, il premier ellenico ha in programma una visita a Parigi per un confronto con il presidente francese Emmanuel Macron.

(Agenzia Nova, 28 dicembre 2019)


Perché è necessario (e non più rinviabile) fermare Iran e Turchia

Se fino a ieri si parlava di una più che probabile guerra tra Israele e Iran, oggi non sarebbe saggio escludere nemmeno un conflitto armato tra Israele e Turchia. Possibile che nessuno in occidente lo veda?

di Adrian Niscemi

Se ci sono due paesi che con le loro ultime mosse geopolitiche rappresentano concretamente la prepotenza islamica questi sono Iran e Turchia.
Mentre l'occidente, compresi gli Stati Uniti, sembrano incapaci di reagire a tale prepotenza che si manifesta praticamente in ogni scenario di primaria importanza in Medio Oriente, l'unico ad opporsi concretamente a quello che Iran e Turchia stanno preparando è Israele, che però è lasciato solo ad affrontare rischi che invece dovrebbero riguardare tutti i paesi del bacino del Mediterraneo e quello mediorientale.

 La minaccia turca
  Questa mattina sul quotidiano israeliano Yediot Aharonot, è stata pubblicata una analisi molto interessante scritta da Shaul Chorev e dal Dr. Beni Shpeinner (che trovate qui nella versione digitale) nella quale si spiega con dovizia di particolari perché la Turchia dopo l'accordo con la Libia potrebbe bloccare l'accesso al mare per Israele, per la Grecia e per Cipro.
Non è una cosa da nulla, molte guerre sono scoppiate a causa dei contrasti per l'accesso a determinati tratti di mare e quello attualmente conteso (e fatto proprio dalla Turchia) contiene i più grandi giacimenti di gas scoperti negli ultimi decenni.
Per usare un termine tecnico si tratta di "zone economiche esclusive" e di grande importanza per Israele, Grecia e Cipro di cui però la Turchia rivendica il controllo (ma per ora non la proprietà che non potrebbe rivendicare).
Per capirci meglio, la Turchia intende impedire qualsiasi prospezione in un tratto di mare vastissimo che non avvenga dietro al suo assenso. Quello che è successo poco tempo fa ad una nave da ricerca israeliana allontanata dalla marina turca da acque di pertinenza cipriota, potrebbe quindi ripetersi anche in futuro e scatenare da parte israeliana (o greco/cipriota) una risposta non proprio "pacifica".
La Turchia di Erdogan sta portando avanti una politica estremamente aggressiva in Medio Oriente. In Siria si è appropriata del Kurdistan siriano, di fatto una invasione vera e propria. In Libia, per garantire l'accordo raggiunto con il Governo di Tripoli, invierà truppe e mezzi a sostegno di Fayez al Sarraj. Ormai è fuori dalla politica della NATO e presto acquisterà un secondo lotto di missili S-400 dalla Russia. Tiene l'Europa praticamente sotto perenne ricatto con milioni di profughi.
Ormai l'aggressività turca non è più nemmeno mascherata, è palese.

 La minaccia iraniana
  Non meno importante di quella turca è la minaccia iraniana. Più aggressivi dei turchi, gli iraniani hanno attaccato impunemente alcune petroliere, hanno attaccato (sempre impunemente) l'Arabia Saudita. Vogliono imporre il Premier in Iraq in modo da poterne controllare le mosse. Per farlo non esitano a usare le proprie milizie per sopprimere le proteste degli iracheni. La stessa cosa stanno facendo in Libano. Hanno ripreso pienamente il loro programma nucleare (ammesso che lo abbiano mai interrotto), e non c'è giorno che passi che non minacciano di distruggere Israele. Sono implicati nella guerra in Yemen e in quella in Siria. Da ieri vantano anche l'appoggio della Cina mentre quello della Russia ce l'hanno ormai da anni.
Naturalmente non basta un piccolo riassunto come quello sopra per descrivere bene quanto sia importante la minaccia iraniana, eppure nessuno sembra fare realmente qualcosa per fermare l'espansionismo aggressivo di Teheran. Neppure gli Stati Uniti.

 Cosa fa l'occidente e in particolare l'Europa?
  Di fronte a queste due minacce ormai palesi per tutti, l'occidente continua a rimanere inerte, soprattutto l'Europa che invece non solo avrebbe interesse a muoversi, ma è la prima ad essere minacciata dal prepotente espansionismo di Turchia e Iran, perché quando avranno finito in Medio Oriente e in Nord Africa, nel mirino ci sarà proprio l'Europa.
Eppure con l'Iran gli europei continuano a farci affari e a cercare di salvare l'insalvabile accordo sul nucleare. Con la Turchia chiudono tutti e due gli occhi e accettano passivamente anche un accordo assurdo come quello fatto con la Libia che permette ad Ankara di controllare mezzo Mediterraneo orientale. Addirittura c'è ancora chi vorrebbe la Turchia in Europa.
Ormai siamo in una condizione in cui, se ci fosse un governo europeo serio, sarebbe doveroso intervenire in ogni modo possibile per fermare queste due potenze islamiche che nel medio periodo rappresentano uno dei pericoli più seri per l'occidente.
Per non parlare poi degli Stati Uniti che con la loro immobilità stanno letteralmente regalando il Medio Oriente non solo a Iran e Turchia, ma soprattutto a Russia e Cina.
Molte volte si dice che la politica in Medio Oriente è difficile e incomprensibile, fatta di sotterfugi e di alleanze non dichiarate. Beh, lasciatemi dire che la politica mediorientale non è mai stata così chiara, così limpida. Ci sono due potenze islamiche estremamente aggressive che tentano di sottomettere gli altri stati e quando non possono farlo pacificamente (si fa per dire), minacciano di distruggerli.
Non è più il momento, né per l'Europa, né per gli Stati Uniti, di rimanere immobili di fronte a questa vera e propria escalation. Un ruolo importante lo deve svolgere sicuramente la politica, ma turchi e iraniani non possono essere convinti solo con la diplomazia, serve un deterrente militare, una minaccia aperta e non interpretabile, non piccole azioni dimostrative o minacce solo verbali.
Il problema è serio, molto più serio di quanto si pensi a Bruxelles o a Washington, perché se è vero che l'occidente rimane inerte non lo fa Israele che difenderà se stesso e i propri interessi nazionali (e vitali) con ogni mezzo possibile.
E se fino a ieri si parlava di una più che probabile guerra tra Israele e Iran, oggi non sarebbe saggio escludere nemmeno un conflitto armato tra Israele e Turchia. I giacimenti di gas del Mediterraneo sono la miccia perfetta e quello che sta facendo Erdogan, le sue provocazioni, sembrano proprio finalizzate ad arrivare ad uno scontro con Gerusalemme. Possibile che nessuno in occidente lo veda?

(Rights Reporters, 28 dicembre 2019)


Netanyahu trionfa alle primarie del Likud: scatta la sfida a Gantz

di Francesco Iannuzzi

La stella di Benjamin Netanyahu sembra non tramontare mai, almeno nel suo partito, il Likud. Sulle primarie per la leadership, le incriminazioni per corruzione, frode e abuso di ufficio non hanno pesato. «King Bibi», come viene chiamato, ha raccolto il 72,5% dei voti contro lo sfidante Gideon Saar che si è dovuto accontentare del 27,5%. Ai seggi sono andati quasi in 60mila, pari al 49% degli iscritti al partito.
  «Abbiamo sconfitto non solo il maltempo- ha esultato Netanyahu, rivolgendosi ai quadri del Likud - ma anche quanti già diffondono "Fake News" per sminuire la portata del voto. Quasi tutti i mezzi di comunicazione si erano mobilitati contro di me, ma non hanno avuto successo». Ancora una volta Netanyahu, che pure ha alle spalle 10 anni di governo, si è presentato come il rappresentante più genuino del «secondo Israele»: quello delle periferie, del disagio sociale, dell'indigenza economica. E proprio nelle periferie ha raccolto 1'80-90 per cento dei voti, battendo Saar, un ex ministro e avvocato di successo. Questi non ha ottenuto il risultato che sperava, ma ha posto un'ipoteca che potrebbe venirgli utile quando si profilasse il dopo-Netanyahu.
  Il messaggio implicito del premier era che nell'imminenza delle elezioni politiche del 2 marzo «il Likud è Netanyahu», Se i suoi rivali politici Benny Gantz (leader del partito centrista Blu-Bianco) e Avigdor Lieberman (Israel Beitenu) speravano di vedere con le primarie l'inizio di uno sgretolamento interno del Likud, ora devono rivedere le proprie analisi.

 Il rivale «Blu-Bianco»
  «Il Likud ha scelto un leader con tre incriminazioni - ha detto Gantz - che cerca di abbattere lo Stato di diritto e di ottenere per sé l'immunità piuttosto che occuparsi delle necessità dei cittadini». Netanyahu dal canto suo ha assicurato che otterrà il consenso degli Usa all'annessione della valle del Giordano e all'estensione della legge israeliana agli insediamenti in Cisgiordania. In prospettiva, ha aggiunto, potrebbero essere firmati accordi di pace con Paesi arabi. Netanyahu ritiene di aver fugato ormai tutti i dubbi. Dopo le elezioni del 9 aprile e dopo quelle del 17 settembre la sua presenza ingombrante aveva impedito a Blu-Bianco e a Israel Beitenu di formare un governo unitario, di alternanza, con il Likud. Alcuni analisti però avvertono: se al voto di marzo Blu-Bianco e Likud torneranno a essere alla pari, il «plonter» («nodo», in ebraico) si ripresenterà in tutta la sua gravità istituzionale.

(La Stampa, 28 dicembre 2019)


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Netanyahu ancora senza rivali. Plebiscito alle primarie Likud

Gli scandali non fermano la sua base. Ma al voto di marzo si rischia un altro stallo

di Davide Frattlnl

I likudnik sono rimasti fedeli, fino al culto della personalità, al capo. Benjamin Netanyahu è il loro leader da quindici anni e non hanno intenzione di spodestare il monarca incontrastato. Che nel 2007 ha raccolto il 73 per cento dei voti alle primarie interne, nel 2012 il 77, nel 2014 l'85, tre anni fa ha corso da solo senza avversari e, ieri ha raggiunto il 72,5. E riuscito a sconfiggere la tempesta impersonata da Gideon Sa'ar (è il significato in ebraico del cognome) e quella reale che ha imperversato su Israele: il vento e la pioggia non hanno impedito a 41792 suoi sostenitori di uscire di casa per infilare il suo nome nell'urna.
   A disertare non li hanno spinti neppure l'incriminazione per corruzione e il rischio legale che Netanyahu in attesa di processo non possa ricevere l'incarico per formare una coalizione di governo, dovesse vincere le prossime elezioni del 2 mano, le terze in meno di un anno. Ripetono quello che il premier in carica ha ripetuto in tutti questi mesi e anche ieri dopo la vittoria nel partito: le accuse sono «fake news», i media e alcuni politici congiurano con giornali e tv per mandarlo a casa.
   Sa'ar sperava di poter superare la soglia del 30 per cento, un numero simbolico per dimostrare che dentro al Likud sta crescendo la voglia di rinnovamento, di sostituire l'uomo che ha garantito alla destra di rimanere al potere senza interruzioni dal 2009. Da deeejay dilettante nei club di Tel Aviv ha imparato a mixare le posizioni progressiste (sì alle coppie gay) con l'ideologia nazionalista (no a un accordo con i palestinesi), la dolce vita libertaria della città sul Mediterraneo con il rispetto delle regole religiose di Gerusalemme.
   Più giovane di Netanyahu (53 anni contro 70) non rappresenta un cambiamento di linea, solo di stile. Un cambiamento che sarebbe stato sufficiente a districare Israele dallo stallo politico. I sondaggi per ora non indicano grandi variazioni nei risultati del 2 marzo: l'ex capo di Stato Maggiore Benny Gantz sembra guadagnare qualche seggio, non abbastanza per riuscire a mettere insieme la maggioranza. Gantz si è rifiutato - lo ha promesso nelle campagne elettorali una dietro l'altra - di accettare un'intesa di unità nazionale con Netanyahu. Ha dichiarato però di essere pronto allo stesso patto con chiunque altro guidi il Likud.
   Il calendario elettorale si intreccia a quello giudiziario. Bibi - come lo chiamano amici e nemici - entro la fine dell'anno deve rinunciare ai quattro ruoli da ministro che detiene oltre a quello di premier: la legge israeliana impone ai ministri incriminati di dimettersi, non al capo del governo. All'inizio del 2020 potrebbe chiedere ai deputati di votare la sua immunità, anche se in pubblico lo ha sempre escluso. Senza la protezione parlamentare è probabile che si ritrovi in tribunale durante la campagna elettorale e il voto del 2 marzo diventerà ancora una volta un referendum sul leader che è stato più a lungo al potere nella Storia del Paese.

(Corriere della Sera, 28 dicembre 2019)


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Il biografo di Bibi: "Ha incantato gli israeliani, ma ora le sue battaglie diventano più difficili"

di Francesca Caferri

«Il risultato delle primarie era scontato. Quello che non è affatto scontato è come questo potrà influire sulle elezioni del 2 marzo: Netanyahu cercherà di usare la vittoria nel partito per guadagnare quella spinta che i sondaggi al momento non gli danno. Ma potrebbe anche finire in un'altra maniera: molti elettori di destra, stanchi di lui e di un Likud che in tutto e per tutto si identifica in lui, potrebbero scegliere un altro partito». Editorialista del quotidiano liberale Haaretz, Anshel Pfeffer è l'autore di "Bibi. The turbolent life and times of Benjamin Netanyahu", pluricitata biografia del primo ministro più longevo dello Stato di Israele, best sellerin patria così come negli Stati Uniti. Un libro che porta il lettore dritto nella testa del premier e che per questo è diventato un must per chiunque segua questa regione del mondo.

- Pfeffer, che risultato è questo per Netanyahu?
  «Un risultato che potrebbe essere molto meno importante di quello che appare. Netanyahu ha vinto, come sapevamo sarebbe accaduto: ha detto che questo prova che la gente è con lui. Ma questo è quello che vuole far credere. La realtà è che un piccolo gruppo di persone, fedeli elettori del Likud, ha votato per lui. Non significa che gli israeliani siano con lui».

- E con chi sono gli israeliani?
  «Questo lo scopriremo il 2 marzo. Ma posso dirle che nel 2019 per due volte hanno dimostrato di non essere con Netanyahu. Almeno non come lo erano stati in passato».

- Però Il Likud ha dimostrato di non voler altro leader che non sia lui: I numeri sono schiaccianti ...
  «Certo. E proprio questo potrebbe essere il problema alle urne. Il Likud è Netanyahu e chi non ama il premier - un premier sotto inchiesta per corruzione, ricordiamolo -- anche se è di destra, oggi è più che mai costretto a prendere atto di questa realtà. Ciò detto, ci sono due fattori importanti da sottolineare: il primo è che il Likud non ha mai cacciato un leader in tutta la sua storia. Il secondo è che, piaccia o non piaccia, Netanyahu da primo ministro ha ottenuto risultati importanti: l'economia va bene e Israele ha sulla scena internazionale un ruolo di primo piano».

- Mi permetto di aggiungere un terzo fattore: l'assenza prolungata di rivali interni. Gideon Saar è il primo che osa sfidare Netanyahu da anni e lo ha fatto sapendo di perdere ...
  «L'eliminazione sistematica di ogni potenziale sfidante è una delle caratteristiche della carriera politica di Netanyahu. Il Likud è un grande partito e nei grandi partiti ci sono sempre correnti, rivali, sfide: non con lui. Netanyahu è riuscito a creare intorno a sé un culto della personalità e con questo ha incantato il partito prima e il Paese poi. Resta da vedere se funzionerà ancora».

- C'è un'altra caratteristica di Netanyahu che lei descrive bene nel libro e che abbiamo osservato in pieno in queste settimane: la sua capacità di fare campagna elettorale. Si è battuto come se fosse un'elezione generale: telefonate ai votanti, video promozionali. Ha promesso un servizio di babysitter ai genitori che fossero andati a votare ...
  «Ma questo è Netanyahu! Ogni battaglia è la sua ultima battaglia, quella decisiva, quella per la vita. È uno straordinario mobilitatore, un amante dei colpi di scena finali, uno che non si arrende mai. È un'altra delle sue caratteristiche chiave: e nelle settimane che vanno da qui al 2 marzo ne avremo l'ennesima dimostrazione».

(la Repubblica, 28 dicembre 2019)


Il presepe del Pd fa arrabbiare gli ebrei

Usata l'immagine di Banksy col muro di Gaza

di Antonio Rapisarda

In casa Pd anche la scelta del presepe può tramutarsi in un autogol, tanto da scatenare un incidente diplomatico con la comunità ebraica. Qui non c'entra il marxiano «oppio dei popoli» e la storica posizione del materialismo storico. Tutt'altro. Stavolta a creare l'ennesimo cortocircuito a sinistra è la forzatura ideologica con cui i dem hanno voluto leggere la Natività.
   Come? Con la versione di Banksy, dal nome dell'artista di strada anonimo celebre per le sue opere-provocazioni sparse in tutto il mondo. Che cosa ha pensato di fare il Pd del Lazio? Ha scelto di celebrare il Santo Natale pubblicando sulla propria pagina social l'ultima installazione dell'artista: un presepe di guerra firmato in Cisgiordania al Walled off Hotel, proprio nei pressi del muro di protezione fatto costruire da Israele. Si chiama "La cicatrice di Betlemme" e sotto il motto scelto dal Pd («Auguri per un Natale di solo amore, senza odio») ripropone un presepe sovrastato, invece che dalla stella cometa, da un muro grigio colpito da una granata. Un modo, come ha spiegato il direttore dell'Hotel, per suscitare «vergogna in tutti quelli che sostengono il muro e l'occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele».
   Peccato, però, che proprio in quelle ore e a poca distanza ancora un razzo sparato da Gaza in direzione di Tel Aviv scatenava l'allarme fra la popolazione civile. Anche per questo la reazione nei confronti della trovata del partito di Zingaretti è stata veemente. «Cari "amici" del Pd, nello stesso giorno in cui pubblicate l'immagine dell'ultima "opera" di Banksy, i vostri amici di Hamas stanno inviando missili sul sud di Israele». Parola di Carla Di Verdi, nipote di Settimia Spizzichino, unica ebrea romana tornata viva dal rastrellamento nazista al Ghetto di Roma nel '43. «Mettetevi una maschera in faccia - ha chiosato -, sempre che ne possediate ancora una».
   Polemico con la declinazione del suo stesso partito anche Emanuele Fiano, deputato dem di origini ebraiche: «Trovo inaccettabile che il Pd laziale abbia scelto per gli auguri questa immagine che fa coincidere la nascita del Cristo e quindi la sua storia seguente di predicazione e di passione e poi di morte con la vicenda palestinese». Il fatto che dopo le proteste il post sia stato rimosso è solo una parte della soluzione: «Non ho mai taciuto di fronte alle violenze non giustificate - ha continuato Fiano che rivendica il diritto alla pace per i due popoli -. Altrettanto non tacerò mai sulla violenza di missili lanciati sulla popolazione civile israeliana».
   La sinistra, dunque, è riuscita a inciampare distorcendo anche un simbolo come il presepe. «Usare solo una lettura di parte su quelle vicende sarà sempre un terribile e colpevole errore - questa la conclusione di Fiano -. Che lo faccia il Pd a me fa doppiamente male».

(Libero, 28 dicembre 2019)


Sovranità nazionale e imperialità globale

Ormai nel dibattito politico si usano le parole come pallottole da sparare contro gli avversari. Una di queste è “sovranista”, usata come educato alleggerimento del termine “fascista”, che resta di riserva come insulto in caso di necessità polemica. Ma sembra proprio che insistere sulla sovranità nazionale oggi non abbia possibilità di sbocchi, perché ormai è in corso un lento ma inarrestabile cambiamento di paradigmi giuridici e politici collegato al passaggio dal concetto di Nazione ad un altro più torbido e oscuro: quello di Impero. Questo tema è stato trattato da Michael Hardt e Antonio Negri (sì, il ben noto Toni Negri) in un libro, che ha ormai quasi vent’anni, dal titolo “Impero, il nuovo ordine della globalizzazione”. Ne riportiamo alcuni estratti dalla prefazione, proponendoci di ritornare su questo tema che, affrontato con presupposti generali diversi da quelli degli autori, si presta bene a far riflettere su quello a cui va incontro il mondo sulla base delle profezie bibliche. M.C.

L'Impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. Nel corso degli ultimi decenni, con la fine dei regimi coloniali e, ancora più rapidamente, in seguito al crollo dell'Unione Sovietica e delle barriere da essa opposte al mercato mondiale capitalistico, abbiamo assistito a un'irresistibile e irreversibile globalizzazione degli scambi economici e culturali. Assieme al mercato mondiale e ai circuiti globali della produzione sono emersi un nuovo ordine globale, una nuova logica e una nuova struttura di potere: in breve, una nuova forma di sovranità. Di fatto, l'Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo.
   Molti sostengono che la globalizzazione della produzione e degli scambi capitalistici comporta una maggiore autonomia delle relazioni economiche rispetto ai controlli politici e, quindi, che la sovranità politica sia in declino. Alcuni salutano questa nuova era come una liberazione dell'economia capitalistica dalle restrizioni e dai vincoli imposti dalle forze politiche; altri, invece, la deplorano poiché essa chiude i canali istituzionali attraverso i quali i lavoratori e i cittadini potevano influenzare o contestare la logica fredda del profitto capitalistico. È indubbiamente vero che, con l'avanzare della globalizzazione, la sovranità degli stati-nazione, benché ancora effettiva, ha subito un progressivo declino. I fattori primari della produzione e dello scambio - il denaro, la tecnologia, il lavoro e le merci - attraversano con crescente facilità i confini nazionali; lo stato-nazione ha cioè sempre meno potere per regolare questi flussi e per imporre la sua autorità sull'economia. Anche i più potenti tra gli stati-nazione non possono più essere considerati come le supreme autorità sovrane non solo all'esterno, ma neppure all'interno dei propri confini. Tuttavia, il declino della sovranità dello stato-nazione non significa che la sovranità, in quanto tale, sia in declino. Nel corso di queste trasformazioni, i controlli politici, le funzioni statuali e i meccanismi della regolazione hanno continuato a governare gli ambiti della produzione e degli scambi economici e sociali. La tesi di fondo che sosteniamo in questo libro è che la sovranità ha assunto una forma nuova, composta da una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un'unica logica di potere. Questa nuova forma di sovranità globale è ciò che chiamiamo Impero.
   Il declino della sovranità dello stato-nazione e la sua crescente incapacità di regolare gli scambi economici e culturali è infatti uno dei primi sintomi che segnalano l'avvento dell'Impero. La sovranità dello stato-nazione era la pietra angolare su cui, per tutto il corso dell'epoca moderna, le potenze europee avevano costruito i loro imperialismi. Ciò che intendiamo con «Impero», tuttavia, non ha nulla a che vedere con l'«imperialismo». I confini definiti dal moderno sistema degli stati-nazione sono stati fondamentali per il colonialismo europeo e per la sua espansione economica: le frontiere territoriali della nazione delimitavano il centro di ogni singola potenza, dal quale veniva esercitato il potere sui territori esterni attraverso un sistema di canali e di barriere che, alternativamente, facilitavano e bloccavano i flussi della produzione e della circolazione. L'imperialismo costituiva una vera e propria proiezione della sovranità degli stati-nazione europei al di là dei loro confini. Alla fine, quasi tutti i territori del globo furono spartiti e lottizzati e la carta del mondo fu codificata con i colori europei: rosso per il territorio britannico; blu per quello francese; verde per il portoghese e così via. In qualunque luogo la sovranità moderna mettesse radici, veniva edificato un Leviathan che dominava la società e imponeva confini territoriali gerarchici per proteggere la purezza della sua identità da tutto ciò che era estraneo.
   L'Impero emerge al crepuscolo della sovranità europea. Al contrario dell'imperialismo, l'Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l'intero spazio mondiale all'interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione. L'Impero amministra delle identità ibride, delle gerarchie flessibili e degli scambi plurali modulando reti di comando. I singoli colori nazionali della carta imperialista del mondo sono stati mescolati in un arcobaleno globale e imperiale.
   La trasformazione della moderna geografia imperialista del mondo e l'affermazione del mercato mondiale segnalano il passaggio all'interno del sistema capitalistico di produzione. Ma, soprattutto, le divisioni spaziali tra i tre «Mondi» (il Primo, il Secondo e il Terzo) si sono confuse, di modo che troviamo di continuo il Primo Mondo nel Terzo, il Terzo nel Primo e il Secondo quasi da nessuna parte. Il capitale sembra trovarsi di fronte a un mondo levigato, o meglio, a un mondo definito da nuovi e complessi regimi di differenziazione e omogeneizzazione, deterritorializzazione e riterritorializzazione. La costruzione degli itinerari e dei limiti di questi nuovi flussi globali è stata accompagnata da una trasformazione degli stessi processi produttivi e, cioè, da una riduzione del ruolo del lavoro industriale di fabbrica e da una crescente priorità attribuita al lavoro basato sulla comunicazione, sulla cooperazione e sull'affettività. Nella postmodernizzazione dell'economia globale, la creazione della ricchezza tende sempre più risolutamente verso ciò che definiamo produzione biopolitica - la produzione della vita sociale stessa - in cui l'elemento economico, quello politico e quello culturale si sovrappongono sistematicamente e si investono reciprocamente.
[...]
   Occorre sottolineare che noi non usiamo il termine «Impero» come una metafora che implica la definizione delle somiglianze tra l'attuale ordine mondiale e gli imperi di Roma, della Cina, quelli precolombiani ecc. - ma piuttosto come un concetto che esige un approccio essenzialmente teorico.
Il concetto di Impero è caratterizzato, soprattutto, dalla mancanza di confini: il potere dell'Impero non ha limiti. In primo luogo, allora, il concetto di Impero indica un regime che di fatto si estende all'intero pianeta, o che dirige l'intero mondo «civilizzato». Nessun confine territoriale limita il suo regno.
   In secondo luogo, il concetto di Impero non rimanda a un regime storicamente determinato che trae la propria origine da una conquista ma, piuttosto, a un ordine che, sospendendo la storia, cristallizza l'ordine attuale delle cose per l'eternità. Dal punto di vista dell'Impero questo è, a un tempo, il modo in cui le cose andranno per sempre e il modo in cui sono sempre state concepite. In altri termini, l'Impero non rappresenta il suo potere come un momento storicamente transitorio, bensì come un regime che non possiede limiti temporali e che, in tal senso, si trova al di fuori della storia o alla sua fine.
   In terzo luogo, il potere dell'Impero agisce su tutti i livelli dell'ordine sociale, penetrando nelle sue profondità. L'Impero non solo amministra un territorio e una popolazione, ma vuole creare il mondo reale in cui abita. Non si limita a regolare le interazioni umane, ma cerca di dominare direttamente la natura umana. L'oggetto del suo potere è la totalità della vita sociale; in tal modo, l'Impero costituisce la forma paradigmatica del biopotere. Infine, benché l'agire effettivo dell'Impero sia continuamente immerso nel sangue, il suo concetto è consacrato alla pace - una pace perpetua e universale fuori dalla storia.

(Notizie su Israele, 28 dicembre 2019)


Marcia del Ritorno, critiche e consensi dopo la sospensione

Gaza. Ha generato reazioni diverse la decisione di limitare la mobilitazione popolare contro il blocco israeliano cominciata il 30 marzo 2018. A Gaza da qualche ora Chef Rubio per il Freestyle Festival

di Michele Giorgio

Salah Abdel Ati
«No, non ha deciso solo Hamas, è una decisione presa in modo collegiale, da tutte le componenti promotrici della Marcia del Ritorno». L'avvocato dei diritti umani Salah Abdel Ati, uno degli organizzatori dell'"Alto Comitato per la Grande Marcia del Ritorno e la fine dell'assedio di Gaza", smentisce chi attribuisce al movimento islamico che controlla Gaza dal 2007 la sospensione della mobilitazione popolare palestinese più importante e imponente negli ultimi dieci anni. «Abbiamo valutato la situazione e concluso che in questa fase occorre un rallentamento a vantaggio della nostra popolazione» spiega Abdel Ati al manifesto «dopo una pausa le proteste (lungo le linee con Israele, ndr) riprenderanno ma saranno mensili, più settimanali. Poi, terminato il raduno che organizzeremo il prossimo 30 marzo (secondo anniversario della Grande Marcia del Ritorno, ndr), avvieremo altre iniziative contro l'assedio di Gaza». Per Abdel Ati «la Grande Marcia del Ritorno ha raggiunto diversi dei suoi obiettivi, a cominciare dall'attenzione internazionale rivolta alla condizione della popolazione di Gaza». Ma, aggiunge, «sappiamo che dovremo fare ancora tanto per mettere fine al blocco israeliano».
   Ieri i rappresentanti delle varie forze politiche e sociali che due anni fa hanno promosso la mobilitazione, rilasciavano spiegazioni simili a quella offerta da Salah Abdel Ati. Inclusi quelli del Jihad Islami che pure di recente non hanno mancato di sottolineare differenze rivelanti con la linea di Hamas nei confronti di Israele. Nelle strade di Gaza e soprattutto sui social però tanti palestinesi contestano la decisione di "rallentare" (a dir poco) la Grande Marcia del Ritorno senza che siano stati raggiunti gli obiettivi veri, più importanti, indicati il 30 marzo 2018, giorno della prima massiccia protesta popolare nei pressi delle linee di demarcazione con Israele. Si era parlato, tra le altre cose, di diritto al ritorno per i palestinesi di Gaza ai loro villaggi di origine (in territorio israeliano) e di resistenza popolare fino alla revoca totale del blocco che strangola Gaza. Ben poco è cambiato mentre almeno 220 palestinesi, in gran parte giovani, sono stati uccisi dai tiri dei cecchini dell'esercito israeliano e molte migliaia sono stati feriti, centinaia dei quali hanno subito amputazioni o porteranno disabilità permanenti. Indimenticabile è la strage di oltre 60 dimostranti colpiti a morte il 14 maggio del 2018, mentre a Gerusalemme gli Usa inauguravano l'apertura dell'ambasciata per il 70esimo anniversario della proclamazione dello Stato di Israele.
   Altri palestinesi di Gaza invece concordano la decisione presa e respingono l'idea che sia stata decisa la fine della mobilitazione. Tutti comunque sanno che dietro il passo annunciato dall'Alto Comitato della Grande Marcia del Ritorno, ci sono le trattative indirette in corso tra Hamas e Israele per una tregua di lunga durata. «Un funzionario di Hamas mi ha spiegato che non si poteva fare altrimenti - ci ha riferito ieri un noto giornalista di Gaza che ha chiesto di rimanere anonimo - il Qatar faceva pressioni per terminare la Marcia e Gaza ha bisogno dei soldi del Qatar mentre Israele vuole il ritorno della calma per continuare le trattative. Hamas perciò ha imposto la decisione all'Alto Comitato». Per l'analista Ghassan Khatib, docente all'Università di Bir Zeit «la Marcia ha mancato l'obiettivo della fine del blocco israeliano ed è stata usata da Hamas a scopo tattico, a seconda dell'andamento dei negoziati con Israele».
   Intanto a Gaza è giunto Gabriele Rubini, più noto come Chef Rubio. Abbandonata la televisione, lo chef italiano, aperto sostenitore della causa palestinese, sta collaborando al Festival annuale Gaza Freestyle diretto da Meri Calvelli, manager locale della ong Acs, assieme al Centro Italiano di Scambio Culturale Vittorio Arrigoni-VIK.

(il manifesto, 28 dicembre 2019)


Un sistema laser per abbattere i palloni incendiari lanciati da Gaza

di Francesco Iannuzzi

 
«Dubbed Light Blade», il nuovo sistema laser per intercettare le minacce incendiarie inviate dalla Striscia di Gaza
Israele corre ai ripari contro i continui attacchi di aquiloni e palloni incendiari lanciati dalla Striscia di Gaza che in poco più di un anno hanno distrutto ettari di terreni coltivabili e vegetazione.
La polizia israeliana ha presentato un nuovo sistema laser progettato per intercettare le minacce incendiarie spinte dal vento inviate dalla Striscia. Il sistema è già operativo anche se non è stato ancora dispiegato. «Dubbed Light Blade», Doppia lama di luce, è simile al sistema di difesa Iron Dome nella sua tecnologia. Gli attacchi hanno causato danni all'area meridionale di Israele per milioni di dollari negli ultimi mesi e gli esperti ambientali affermano che ci vorranno almeno 15 anni per riabilitare la vegetazione e la fauna selvatica che sono state distrutte.

 Un anno di progettazione
  «Light Blade» è stato sviluppato da tre ingegneri civili che collaborano con ricercatori dell'Università Ben-Gurion e con i rami tecnologici della polizia israeliana e dell'IDF, le forze di difesa israeliane. Il progetto, guidato dal commissario della polizia di frontiera Maj. Gen. Yaakov Shabtai, ha richiesto un anno di progettazione. In base ai dettagli disponibili, il laser è in grado di colpire obiettivi a una distanza di 2 chilometri di giorno o di notte.
Una volta che il sistema si fissa sul bersaglio, lancia un raggio laser e se il bersaglio è un pallone o un aquilone, lo incenerisce a mezz'aria. Se il bersaglio è un drone, il laser è in grado di bruciare parti del velivolo fino a quando non precipita. Shabtai sostiene che Light Blade «fornisce una risposta quasi definitiva a tutto ciò che riguarda palloncini e aquiloni e offre una soluzione sicura ed efficace anche alla minaccia dei droni».

 Le primarie del Likud
  E sempre ieri il premier Benjamin Netanyahu, impegnato nelle primarie del Likud, è stato costretto ad interrompere un comizio del Likud ad Ashkelon quando in città sono risuonate le sirene di allarme contro i razzi lanciati da Gaza. Il premier è stato allora scortato dalle guardie del corpo verso un'area protetta. Il razzo è stato intercettato dal sistema di difesa Iron Dome. Dopo pochi minuti Netanyahu è tornato sul palco. Che fare? - ha chiesto. - Loro non vogliono che noi vinciamo. Alla faccia loro, noi invece vinceremo». Anche nel settembre scorso Netanyahu era stato obbligato a interrompere un comizio, allora nella vicina città di Ashdod, in seguito un altro attacco di razzi da Gaza.

(La Stampa, 27 dicembre 2019)


Esercitazioni navali Russia-Cina-Iran. Non è un bel segnale

di Sadira Efseryan

Russia, Cina e Iran terranno a partire da oggi esercitazioni navali congiunte nell'Oceano Indiano e nel Mare dell'Oman. Lo hanno annunciato i rispettivi ministeri della difesa.
  La Cina invierà il cacciatorpediniere lanciamissili Xining, secondo quanto riferito dal portavoce del ministero, Wu Qian.
  Non sono invece note le unità russe e iraniane che parteciperanno alle esercitazioni navali congiunte.
  Da quanto si apprende le unità navali iraniane saranno quelle che fanno parte della flotta dei Guardiani della Rivoluzione Islamica e non della marina iraniana.

 Un brutto segnale in un momento di alta tensione
  Le esercitazioni navali congiunte tra Russia, Cina e Iran arrivano in un momento di forte tensione tra gli Stati Uniti e l'Iran dopo che Washington ha annunciato l'intenzione di voler creare una missione navale con i Paesi del Golfo per difendere le rotte del petrolio dopo che gli scorsi mesi l'Iran aveva attaccato alcune petroliere e bombardato le infrastrutture petrolifere saudite.
  Ma quello che più salta all'occhio è il segnale che Russia e Cina mandano al mondo con queste esercitazioni con l'Iran.
  Il portavoce del Ministero della Difesa cinese ha ammesso che Pechino «intende rafforzare la cooperazione militare con Teheran» e che questa esercitazioni sono solo un primo passo.
  Anche la scelta di includere nelle manovre navali il Mare d'Oman non sembra casuale. Il Mare d'Oman infatti è collegato direttamente allo Stretto di Hormuz attraverso il quale passa circa un quinto del petrolio mondiale e che a sua volta si collega al Golfo Arabo.
  Se Cina e Russia, come sembra, appoggiano le scelte iraniane (specie le più intrepide) sarà complicato anche per gli Stati Uniti garantire la sicurezza della navigazione nel Golfo Persico.
  Per la Cina (più che per la Russia) l'Iran è un partner commerciale di fondamentale importanza. Proprio la Cina, secondo la compagnia di intelligence Kpler, acquista circa l'80% del petrolio iraniano e probabilmente lo fa a prezzi stracciati. Se l'Iran non è collassato sotto sanzioni lo deve a Pechino. E si sa, per salvaguardare i propri interessi i cinesi non guardano in faccia niente e nessuno.

(Rights Reporters, 27 dicembre 2019)


Netanyahu vince alle primarie, ancora alla guida di Likud

Il premier israeliano ad interim, Benjamin Netanyahu, ha ottenuto la maggioranza alle primarie svoltesi, il 26 dicembre, all'interno del suo partito di destra, Likud.
   Netanyahu, alla guida del partito da circa 14 anni, ha dovuto affrontare l'ex ministro Gideon Saar, a capo dell'opposizione all'interno di Likud e considerato una valida alternativa per quei membri del partito che sostenevano un cambio di leadership. La vittoria è stata annunciata nella tarda serata del 26 dicembre e consentirà al premier ad interim di partecipare alle prossime elezioni anticipate del 2 marzo, in cui competerà nuovamente per la posizione di primo ministro. Per Netanyahu, si è trattato di un grande risultato che gli consentirà di guidare il suo partito verso un nuovo percorso elettorale.
   Dall'altro lato, Saar si è congratulato con Netanyahu per la vittoria raggiunta e si è detto pronto a sostenerlo alle prossime elezioni. Il rivale ha poi espresso il proprio apprezzamento verso la decisione di mettere in gioco la presidenza di Likud. 116.000 membri di Likud sono stati chiamati a votare alle primarie del proprio partito. Secondo i risultati pubblicati dal partito stesso, Netanyahu ha vinto con il 72% dei voti, pari a circa 42.000 voti, rispetto al 28% raggiunto dall'ex ministro dell'Istruzione e degli Interni, che ha ricevuto circa 16.000 voti. L'affluenza è stata del 49%.
   Le primarie sono state definite da molti un difficile test per il premier ad interim, al centro di diverse questioni. Netanyahu è coinvolto in un'indagine della Corte penale internazionale sui presunti crimini di guerra commessi da parte delle forze di Tel Aviv in Palestina, e, parallelamente, affronta in patria 3 processi separati, per accuse di corruzione, frode e abuso d'ufficio. A ciò si è aggiunta, nelle ultime settimane, l'opposizione interna di alcuni membri del suo partito che intendevano cacciarlo dopo i risultati inconcludenti ottenuti alle due elezioni nazionali di quest'anno.
   In un solo anno, il 2019, la popolazione israeliana è stata chiamata due volte a recarsi alle urne, il 9 aprile ed il 17 settembre. In entrambi i casi, non si è riusciti a dare vita a una maggioranza decisiva o un governo di coalizione per formare un esecutivo per Israele. Pertanto, gli elettori dovranno nuovamente votare il 2 marzo prossimo, per la terza elezione nazionale in 12 mesi. Precedentemente, è stato sottolineato che rimandare la formazione del governo ed indire ancora elezioni costerà caro alle casse dello Stato. In particolare, bisognerà attendere per l'adozione del bilancio per il 2020 e ciò significa attuare tagli alla spesa pubblica che influenzeranno la crescita del Paese.
   Netanyahu rimarrà in carica come primo ministro ad interim fino a quando non verrà formato un nuovo governo. Sebbene sia impegnato in un triplo processo giudiziario, il premier non sarà costretto a dimettersi fino a quando non sarà ufficialmente emessa una sentenza contro di lui. Si tratta del primo caso nella storia di Israele in cui un primo ministro è accusato di reati penali. La decisione potrebbe porre fine alla carriera di Netanyahu, il cui governo è considerato il più longevo del Paese.

(Sicurezza Internazionale, 27 dicembre 2019)


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Sfida a Netanyahu dopo 23 anni da segretario. Ora l'ex delfino Sa'ar vuole la guida del Likud

Bibi oltre il 70 per cento.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Per la prima volta nella sua storia di primo ministro, di leader indiscusso del Likud, Benyamin Netanyahu è stato sfidato ieri da un contendente alle primarie del suo partito laico conservatore, guidato dal '96. L'ha portato a vittorie fulminanti sempre circondato dall'amore senza se e senza ma dei suoi, la pancia e anche la testa di Israele, gente comune, soldati, intellettuali. Fieri di un capo che si staglia nel panorama mondiale come un leader che ha portato stabilità, ricchezza, sicurezza. Ma ora è scontro. Ieri nel 106 seggi sparsi per un Paese sommerso da una rarissima pioggia battente 116.048 aventi diritti al voto si sono trovati a dover scegliere fra il loro capo storico, premier da 11 anni, e Gideon Sa'ar, Un politico elegante e di bell'aspetto, avvocato di mestiere, figlio di un medico immigrato dall'Argentina e di una maestra, sposato per la seconda volta con Geula Even, una delle più importanti anchorwoman dalla tv israeliana, madre di due dei suoi quattro figli. Sa' ar è un conservatore, nato nella couche di Netanyahu, che già nel '99 l'ha fatto segretario del governo, avviandolo così sulla strada per cui poi ha servito come presidente della coalizione per i due governi Sharon e in seguito è stato, con Bibi, ministro della Cultura e poi degli Interni. Poi il bel politico rampante si è scansato, ha deciso di tornare a casa nel 2014 fino a ieri per riapparire sulla scena nel momento in cui sia possibile, e quindi teoricamente accettabile, mettere in discussione un grande capo su cui si sono accaniti una quantità di antagonismo e di guai, fra cui il maggiore è l'accusa plurima comminatagli dal procuratore della repubblica Manderblit di corruzione e tradimento della fiducia. Sa' ar ripete che così salva il Likud dalla dispersione, e anche il Paese. Alcuni lo accusano di opportunismo e tradimento. Ma molti accusano Netanyahu di non aver mai scelto in realtà accettato, un successore. E dalle primissime proiezioni sembra proprio che non sia ancora il momento di pensare ad un successore visto che Netanyahu avrebbe incassato il 71,52 per cento delle preferenze.
   Da Moshe Ya'alon, a Benny Begin, a Dan Meridor, i vari personaggi possibili sono svaniti all'orizzonte spesso in una nuvola scura di risentimento. Sa'ar, che è un abitante della laicissima Tel Aviv e un uomo di solide convinzioni conservatrici rivestite di modernità, ha sfidato Bibi consapevole di non potere battere un leader che nonostante e spesso proprio a causa della pretestuosa aggressività contro il suo operato e la sua personalità, conserva gran parte del consenso del popolo del Likud. A Tel Aviv Sa'ar potrebbe anche arrivare al 30%, alcuni leader locali gli hanno dichiarato rispetto e ammirazione, ma personaggi come Yuli Edelstein, presidente della Knesset, o il ministro degli Interni Gilad Erdan aspettando fino all'ultimo hanno poi sintomaticamente dichiarato di nuovo fedeltà al Grande Capo. E mentre si scambiano tweet molto aspri, fra i due si svolgono dinamiche che dimostrano che anche Sa'ar vuole ingraziarsi gli dei penati di casa: ha dichiarato che se diventasse primo ministro sosterrebbe la candidatura di Netanyahu a presidente della Repubblica. Ma mentre sul Paese soffia, persino nelle dichiarazioni del capo di Stato maggiore, un forte vento di guerra che mette in prima linea di nuovo la possibilità di uno scontro diretto con l'Iran (l'ultimo comizio di Netanyahu è stato sospeso per un lancio di un razzo da Gaza), chiaramente Bibi resta il leader più qualificato per le emergenze; ed è quindi del tutto logico che il premier gli abbia risposto sorridendo che è d'accordo col suo antagonista e proporrà di avere gli stessi poteri di un presidente americano. No, Sa'ar non intendeva questo.

(il Giornale, 27 dicembre 2019)



Sfregio a Roma, svastica sulla lapide della partigiana

La targa ricorda l'impegno di Tina Costa. La sindaca Raggi: vergogna, un gesto intollerabile

di Carlotta De Leo

La targa dedicata alla partigiana e sindacalista Tina Costa a Roma è stata imbrattata con una svastica nera. Un vero oltraggio alla memoria di una donna combattente, simbolo della Resistenza, giovane staffetta durante la Seconda guerra mondiale, membro dell'Anpi e iscritta a Rifondazione Comunista fino al giorno della sua scomparsa avvenuta il 20 marzo scorso.
Un gesto ancora più grave se si pensa che la targa, inaugurata appena 20 giorni fa in piazza Cinecittà (periferia sud est della Capitale), era già stata oltraggiata con una croce uncinata. Sarà ripulita di nuovo oggi dal VII Municipio che l'ha voluta e che ora chiede alla polizia municipale un maggior controllo della zona.
«Una vergogna, Roma condanna questi gesti intollerabili», dice la sindaca, Virginia Raggi. Concorde il giudizio di Nicola Zingaretti, segretario del Pd e governatore del Lazio, che parla di «un gesto oltraggioso contro una protagonista della nostra Repubblica. Nessuno può dimenticare l'incredibile tenacia di Tina e non saranno quattro idioti a infangarne la memoria».
La targa ricorda l'impegno politico e sociale della partigiana con una sua frase: «Starò in piazza fino a quando avrò l'ultimo respiro, perché so di essere dalla parte del giusto e che le mie idee sono condivise da tanti». Un motto che Costa ripeteva spesso quando raccontava in pubblico la sua storia: nata nel 1925 a Gemmano, in provincia di Rimini, in una famiglia profondamente antifascista, a sette anni si rifiutò di indossare la divisa di figlia della lupa provocando la reazione della sua maestra fascista. E di anni ne aveva appena 18 quando, sulla sua bicicletta, attraversava la Linea Gotica come staffetta per portare messaggi e cibo. Poi, in seguito a una delazione, fu arrestata con i suoi familiari, ma riuscì a fuggire sotto le bombe. «Ho combattuto per la libertà - ripeteva - e questa libertà non me la può togliere nessuno».

(Corriere della Sera, 27 dicembre 2019)


New York, scia di atti antisemiti in città: quattro casi in due giorni, la polizia indaga

Gli episodi di violenza in occasione della festività ebraica di Hannukkah

Quattro episodi che potrebbero anche non essere slegati l'uno dall'altro, e che hanno spinto la polizia di New York ad aprire un'indagine.
Al centro, una scia di atti antisemiti accaduti durante la festività ebraica di Hannukkah.
I quattro incidenti risalgono a lunedì e martedì.
Uno è avvenuto vicino alla stazione di Grand Central, dove un uomo di 65 anni è stato aggredito da un altro ragazzo di 28 anni, che gli ha urlato insulti antisemiti. Il 28enne è stato arrestato.
Un altro incidente è avvenuto a Brooklyn: un ragazzo di 25 anni è stato avvicinato e insultato da un gruppo di persone per essere ebreo.
Ci sono poi altri due episodi su cui gli agenti mantengono ancora riserbo, ma che presto dovranno essere chiariti.

(Unione Sarda, 27 dicembre 2019)


L'ebraismo e le democrazie

Lettera di Noemi Di Segni al direttore del Corriere della Sera

Caro direttore, abbiamo letto e riletto la riflessione di Dacia Maraini
sul Corriere alla vigilia di Natale e l'ulteriore spiegazione che ha fornito sulle ragioni delle sue ragioni. Riflessione sui fermenti del movimento delle Sardine, i loro simboli e forme di comunicazione, speranze e ispirazioni ancestrali, e ricerca di un legame in tutto ciò con il Natale e l'ebraismo messo alle spalle. Non solo non è chiaro il nesso, ma dispiace che in poche righe e poche parole si è riaffermata una tesi antigiudaica, antiteologica e antistorica e che, proprio alla vigilia di Natale, le parole della divisione prevalgono su quelle che generano comunanza di visione.
   Le sue affermazioni denotano superficialità verso la cultura biblica e sul rapporto con il divino, superata da decenni di dialogo pur con tutte le difficoltà che tuttora persistono e sulle quali ci confrontiamo in varie sedi, ragionando sui libri di testo per le scuole e le parole delle liturgie. Nel dialogo non si parte dal presupposto del superamento di un male ma dall'assorbimento del bene.
   Peccato che una persona come Dacia Maraini - che esige nei suoi scritti rispetto e valori e li vorrebbe riconoscere alla pretesa teo/politica delle Sardine - non tenga conto che proprio la cultura della Bibbia ebraica millenaria sia alla base della nostra stessa cultura contemporanea di diritti sociali, sindacali, attenzione all'ecologia e di ogni conquista di libertà democratica.
Peccato che non tenga conto che il mondo ebraico è stato moto di coscienza civile e protagonista nella costruzione delle stesse democrazie evocate da molti ma vissute con coerenza da pochi.
   Peccato che concetti così faticosi come violenza, schiavitù, vendetta, donne siano appiattiti come sardine in una scatola chiusa consumata all'occorrenza da cui risorge il malanno antico e ben conservato dell'antisemitismo che avvelena le nostre esistenze.
Peccato che ogni analisi di saggisti e politici debba in qualche modo rifarsi a questioni ebraiche per spiegare fenomeni di ieri e di oggi.
   Credenti e non credenti sono chiamati a voler agire con un approccio senza giudizi ma con queste parole, al contrario, si radicano i pregiudizi antichi evidentemente mai fino in fondo affrontati. Il mondo prima e dopo Gesù - comunque lo si voglia raffigurare - ha continuato ad avere i suoi demoni umani e la superficialità colta li ha sempre assistiti. Attendo fiduciosa repliche degli esponenti della Chiesa.

Noemi Di Segni
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane


Se i parlamentari non conoscono i Dieci Comandamenti

di Ernesto Galli della Loggia

Uno spettacolo surreale e a suo modo agghiacciante: definirei così il video mandato in onda qualche giorno fa dalla trasmissione televisiva delle Iene in occasione del Natale. Non so quanti lettori l'abbiano vista: sugli schermi è passata una breve galleria di deputati e senatori — del cui nome è opportuno che non si perda la memoria : Dal Mas, Bucolo, Ciaburro, Modena (centro destra), Giacobbe del Pd, Vallone (ex, della Margherita), Giarrusso (5Stelle), Bonafede (5Stelle anche lui e ministro della Giustizia) — i quali, intervistati davanti ai palazzi del Parlamento su alcune nozione elementari di storia del Cristianesimo (tipo dov'è nato Gesù Cristo) si sono prodotti in una serie di silenzi imbarazzati e di sfondoni madornali (come collocare Betlemme «in Africa»). Ancora peggio: per mascherare la propria ignoranza gli interrogati cercavano di fare gli spiritosi, ciurlavano nel manico (per esempio alla domanda di cui sopra rispondere «in una stalla..»), si producevano in patetiche risatine di sufficienza o come marpioni cercavano di schivare l'intervistatrice senza darla troppo a vedere.
   Che cosa si può dire di fronte a uno spettacolo simile? Innanzi tutto questo, forse: che anche se siamo giustamente invitati ogni giorno a non cadere nella trappola dell'antipolitica, ci vergogniamo di essere rappresentati da personaggi di questa fatta gente. Che siamo parecchi italiani a trovare insopportabile che simili figuri siano incaricati di fare le leggi a cui poi noi siamo chiamati ad obbedire. In parecchi a considerare a dir poco ignobile un sistema elettorale che consente a un segretario di partito — a un Renzi, a un Di Maio, a un Salvini, a un Berlusconi qualsiasi — di scegliere a proprio arbitrio chi dovrà rappresentarci, scaraventandoci così tra i piedi simili incroci tra il semianalfabeta e il guitto da Commedia dell'arte unicamente perché questi promettono di obbedire senza fiatare ai loro voleri. Perché diamine gli italiani, mi chiedo, specie quelli che hanno letto un paio di libri, non dovrebbero disprezzare la politica e le sue istituzioni se per primi la disprezzano i partiti facendo arrivare in Parlamento e nelle istituzioni questa gente?
   Ma ciò detto viene anche da farsi un'altra domanda: e cioè, va bene che c'è stata la secolarizzazione, che oltre la metà degli italiani non si sposa più in chiesa, ma dove sta scritto che la secolarizzazione debba per forza significare non sapere dove si trova l'antica Giudea (chiamiamola pure Palestina), dove sta scritto che alla domanda «che cosa dicono i dieci comandamenti?» il secolarizzato debba farfugliare per tutta risposta un imbarazzato «non fornicare» e basta? Perché alla fine è questo ciò che più colpisce di quel video: l'assoluta mancanza di cultura religiosa che esso testimonia. Dirò meglio: l'assoluta mancanza di quelle conoscenze che ogni persona appena istruita sa essere parte irrinunciabile della cultura in generale. Ma non lo sanno evidentemente i parlamentari della Repubblica. Era questo la cosa più intollerabile di quel video: il tono stupidamente divertito e sforzatamente ironico della loro voce, il sorrisetto ebete e lo sguardo un po' sperduto del loro volto, lo stupore nel vedere che qualcuno potesse rivolgergli delle domande sulla nascita di Cristo anziché sul futuro di Matteo Renzi. Che qualcuno potesse addirittura supporre che essi fossero capaci di rispondere.

(Corriere della Sera, 27 dicembre 2019)


Israele è solo nella lotta contro l'Iran. «A volte la guerra è la soluzione»

di Sarah G. Frankl

 
Aviv Kohavi
Israele è solo nella lotta contro l'Iran. Lo ha affermato ieri il capo dell'IDF, Aviv Kohavi, durante una conferenza in memoria dell'ex capo dell'IDF Amnon Lipkin-Shahak presso il Centro interdisciplinare di Herzliya.
  «Sarebbe meglio se non fossimo i soli a rispondere loro militarmente», ha detto Kohavi in quella che è apparsa come una critica agli Stati Uniti e ai Paesi del Golfo che pure dichiarano di essere nemici dell'Iran.
  Poi il capo dell'IDF ha lanciato un cupo avvertimento alla popolazione israeliana sul fatto che quando la guerra con l'Iran arriverà (e arriverà) il primo ad essere colpito duramente sarà il fronte interno, cioè le maggiori città israeliane.
  «Deve essere noto e riconosciuto che nella prossima guerra - sia a nord che contro Hamas - il fuoco pesante sarà diretto contro il nostro fronte interno. Sto guardando le persone negli occhi e sto dicendo loro che ci sarà un forte fuoco. Dobbiamo riconoscere questo e dobbiamo prepararci per questo … Dobbiamo prepararci militarmente per questo; le gerarchie civili devono prepararsi per questo; e dobbiamo prepararci mentalmente» ha poi aggiunto il capo dell'IDF.
  Aviv Kohavi ha detto che l'IDF stava operando in tutta la regione - apertamente, di nascosto e clandestinamente - al fine di contrastare i piani dell'Iran e dei suoi delegati, anche a rischio di una guerra.
  «Nessuno auspica una guerra» ha aggiunto Kohavi. «La guerra è l'ultima risorsa. Ma a volte è anche la soluzione».
  Lo scorso novembre era stato l'ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Michael Oren, a disegnare uno scenario da incubo in caso di conflitto tra Israele e Iran.

 Missile contro comizio di Netanyahu. Immediata risposta israeliana
  Ieri sera mentre il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, teneva un comizio elettorale ad Ashkelon, nel sud del Paese, un missile è stato lanciato da Gaza contro la città israeliana. Il sistema Iron Dome ha abbattuto il missile prima che potesse colpire la città.
  Era successa la stessa cosa nel mese di settembre sempre in occasione di un comizio di Netanyahu. Dopo 15 minuti il Premier è comunque tornato sul palco lanciando un ammonimento ai terroristi. «La persona che ha sparato il razzo l'ultima volta non è più con noi. La persona che l'ha fatto questa volta dovrebbe iniziare a fare le valigie», ha detto Netanyahu riferendosi alla morte di Baha Abu al-Ata, un leader terrorista della Jihad Islamica palestinese che Israele crede abbia ordinato l'attacco missilistico di settembre.
  Immediata la risposta israeliana. Un portavoce dell'IDF ha detto che aerei da guerra ed elicotteri hanno colpito diversi obiettivi appartenenti al gruppo terroristico di Hamas, «compresi alcuni complessi militari del gruppo terroristico».


 Missile colpisce base iraniana in Siria. Cinque morti
  Intanto ieri sera un missile di cui non si conosce la provenienza (quasi certamente israeliano) ha colpito una base iraniana nei pressi della città di Abu Kamal, al confine tra Siria e Iraq, provocando la morte di almeno cinque miliziani iraniani. È la stessa base che da mesi l'IDF ha messo nel mirino e che ha attaccato in diverse occasioni.

(Rights Reporters, 26 dicembre 2019)


Una tempesta distrugge le tombe del cimitero ebraico a Beirut

Le tombe del cimitero ebraico gravemente danneggiate a causa di una frana, generata da un'ondata di maltempo che ha duramente colpito Beirut, in Libano

di Filomena Fotia

Le foto scattate oggi, 26 dicembre 2019, mostrano le tombe del cimitero ebraico gravemente danneggiate a causa di una frana, generata da un'ondata di maltempo che ha duramente colpito Beirut, in Libano.
L'area è stata colpita da un'alluvione, generata da piogge torrenziali: un muro di contenimento ha ceduto, danneggiando lo storico cimitero, risalente al 1820.

(Meteo Web, 26 dicembre 2019)


Israele, oggi le primarie nel Likud

Nelle immagini che vedete è il momento in cui il leader del Likud, il premier israeliano uscente Benjamin Netanyahu abbandona un incontro pubblico del partito ad Ashkelon, cittadina a una dozzina di chilometri da Gaza, spesso nel mirino dei razzi che partono dalla Striscia. L'ultimo è piovuto dal cielo, la sera di Natale, costringendo il premier a lasciare il palco insieme alla moglie Sara e a raggiungere un luogo sicuro. Il sistema antimissilistico Iron Dom è entrato in azione. Il razzo non ha causato danni alle persone o alle cose ma ha provocato scompiglio nelle primarie del Likud, al momento non c'è stata alcuna rivendicazione ufficiale da parte di nessun gruppo militare, è la seconda volta in pochi mesi, era già successo a settembre, che Netanyahu è costretto a lasciare un comizio a causa di razzi provenienti dall'enclave palestinese.
   L'altra volta ad essere colpita era stata Ashdod, proprio riferendosi a quell'episodio il premier ha detto: "chi ha sparato la volta scorsa non c'è più, riferendosi al leader militare della Jihad islamica Baha Abu al-Hata, ucciso da Israele nel novembre scorso. Chi ha cercato di mettersi in mostra oggi, ha avvertito poi, può cominciare a fare le valigie.
   La reazione di Israele a questo nuovo atto di aggressione non si è fatta attendere. L'aviazione ha colpito in serata, obiettivi militari nella striscia di Gaza. Per lo stato ebraico si tratta di un nuovo periodo di campagna elettorale, perché anche a seguito delle ultime recenti votazioni, le seconde in pochi mesi, non si è riusciti a formare una maggioranza. In particolare oggi oltre 100000 membri del Likud sono chiamati alle urne per decidere in vista delle elezioni politiche di marzo, se restare ancora sotto la guida di Netanyahu, oppure affidare adesso le redini del partito al suo sfidante, l'ex ministro dell'interno Gdeon Sa'ar. Nella sua campagna elettorale Sa'ar ha puntato sul fatto che quest'anno, per due volte, Netanyahu non è riuscito a formare un Governo a causa dello stallo nei rapporti di forza con il partito centrista blu bianco.

(Sky Video, 26 dicembre 2019)


Varsavia, la rinascita degli ebrei

Erano la più grande comunità in Europa: 3,5 milioni. Sterminati dai nazisti, costretti a essere invisibili nella Polonia comunista. Ora non si nascondono più. A Varsavia arrivano ogni anno centinaia di ebrei dall'Europa, dall'America, da Israele.

di Elisabetta Rosaspina

È quasi festa al dipartimento di genealogia dell'Istituto storico ebraico di Varsavia: dopo cinque anni di ricerche, la tomba di Zenek Rozenberg è stata appena ritrovata. Ad Haifa, nord di Israele. Sua figlia e suo nipote potranno forse andare a deporvi un sassolino. Anna Przybyszewska Drozd, alla guida del centro da vent'anni, si era subito appassionata alla vicenda: una storia d'amore iniziata prima della Seconda guerra mondiale a Radom, un centinaio di chilometri a sud di Varsavia. Protagonisti Zenek, un ricco ragazzo ebreo, e Gienia, una giovane cattolica. Entrambe le famiglie avevano posto il veto a quell'unione, ma la coppia non si era arresa e, quando i tedeschi avevano occupato la Polonia e imposto le leggi razziali, i genitori di Gienia la ricattarono: se non avesse sposato l'uomo che avevano scelto per lei, avrebbero denunciato Zenek.
«Il marito di Gienia si rivelò una persona straordinaria — racconta Anna, commossa —. Era innamorato ed era disposto ad aspettare il tempo necessario per essere ricambiato. La sua pazienza fu premiata. Nacque una figlia, ma Gienia non tagliò il filo che la univa a Zenek e corse in suo aiuto quando seppe che lui e la sua famiglia erano in pericolo. Al ritorno, era incinta. Il marito comprese, e accolse la seconda bambina, Londzia, come fosse sua».
  Alla fine della guerra, Zenek emigrò: Australia, Messico, Svezia. Senza mai dimenticare Gienia. Senza mai essere dimenticato da lei. Quasi certamente si rividero a metà degli anni 50, perché Londzia conserva il vago ricordo di un uomo misterioso cui era stata presentata dalla madre quando aveva appena 9 anni, in un negozio di Varsavia. Aveva percepito l'emozione di quell'unico incontro, apparentemente casuale. Crescendo, aveva intuito il loro segreto da rare allusioni della madre: «Se tu non fossi nata durante la guerra, avresti un altro cognome». Dopo la morte del padre legittimo decise dunque di cercare quello naturale.
 
Museo Polin, Varsavia
 
Il cimitero ebraico di Varsavia
 
L’ufficio ricerche genealogiche press. Vengono qui a cercare le origini delle loro famiglie
 
Anna Drozd nell’ufficio ricerche genealogiche del Jewish Historical Institute. «Spesso hanno solo un labile indizio: la nonna che seguiva strane regole in cucina»
 
Una ricostruzione del ghetto al museo. È così che lentamente si ricompone il puzzle disintegrato dall’Olocausto
 
Lauder Morasha School, Varsavia. Karolina Szykier-Koszucka. dirigente: «È la terza generazione, la mia, quella che ha cominciato a fare domande»
 
Una vecchia foto in mostra alla Jan Karski Society
 
Una vecchia foto alla Jan Karski Society
  Le tracce di Zenek però sembravano svanire tra le migliaia Rozenberg sparsi nel mondo. Gli anni sono passati, Gienia è morta e il figlio di Londzia è approdato qui, in questa stanza allestita con quattro computer e due scaffali ingombri di vecchi annuari, nel palazzo anni 20 che fu sede della Biblioteca ebraica di Varsavia, accanto alla Grande Sinagoga polverizzata dalle SS, a chiedere aiuto per ritrovare suo nonno. Adesso sta aspettando da Israele le foto di Zenek in età matura, per mostrarle a Londzia che, di lui, possiede solamente un'immagine infantile color seppia.
  Anna e i tre ricercatori che lavorano con lei non si sono mai arresi, sebbene siano sommersi da richieste: «Ogni anno si presentano qui 2.500 fra americani, europei, israeliani che sanno o sospettano di avere radici ebraiche in Polonia — informa Matan Shefi —. Magari dispongono soltanto di un labile indizio: la nonna osservava strane regole in cucina, poi identificate come kosher. Abbiamo scoperto che in realtà era rimasta orfana giovanissima e aveva imparato a cucinare per i fratellini da una vicina di casa ebrea». Ogni giorno si cerca un tassello dell'immenso puzzle disintegrato dall'Olocausto che si è abbattuto poco meno di 80 anni fa su una comunità di 3 milioni e mezzo di ebrei polacchi, la più numerosa d'Europa, lasciandone in vita cinquecentomila. Ogni giorno si tenta di ricomporre i ritratti delle famiglie disperse dagli esodi forzati del periodo comunista, nel 1956 e nel 1968, quando «sionista» era diventato sinonimo di «complottista».
  Sono di solito i nipoti degli ebrei scampati alla Shoah a rompere l'oblio e il silenzio con i quali la generazione vittima o testimone delle persecuzioni intendeva proteggere la seguente dall'orrore dei ricordi e dai pericoli di un rigurgito di antisemitismo. «È la terza generazione, la mia, nata negli anni 70, quella che ha cominciato a fare domande» conferma Karolina Szykier-Koszucka, responsabile dell'Educazione ebraica alla Lauder-Morasha School di Varsavia. Inaugurata nel '94, è stata la prima scuola ebraica a riaprire in Polonia dal dopoguerra. La frequentano circa duecento ragazzi, dall'asilo alle medie, e 60 insegnanti. «Qui prepariamo la quarta generazione, quella allevata fin dalla nascita nella cultura ebraica» aggiunge Karolina, figlia di un ebreo e di una cattolica, entrambi polacchi e di laiche vedute.
Il nonno paterno lasciò la famiglia e la Polonia dietro la Cortina di ferro, nel 1957, per raggiungere Israele, dove è morto nel '90, senza rivedere il figlio, nato nel '52, e senza conoscere la nipote, che ha scelto di praticare la sua stessa fede e di trasmetterla a sua figlia: «La nostra è una piccola scuola privata aperta a tutti, ebrei e non. Oltre alle materie del programma ministeriale, abbiamo lingua e storia ebraiche. La mensa è kosher, si celebrano tutte le feste ebraiche e il venerdì inizia lo shabbat. Così riannodiamo i fili con le nostre origini».
  Non tutti gli ebrei polacchi, o i polacchi di origine ebraica, ne hanno l'intenzione. Molti sono rimasti «Ebrei invisibili», come li definiscono Gabriele Eschenazi e Gabriele Nissim nel libro dedicato a «I sopravvissuti dell'Europa orientale dal comunismo a oggi» (Mondadori editore); e il conteggio dei residenti è approssimativo, con stime che oscillano tra 40 mila a poche migliaia. Soltanto 8000 sono iscritti alle organizzazioni ufficiali. «La maggioranza della comunità ebraica polacca non è religiosa» ha una spiegazione il rabbino 41enne Stas Wojciechowicz, la cui sinagoga, al quarto piano di un moderno palazzo d'uffici con vista sulla torre del Palazzo della Cultura e della Scienza, simbolo di Varsavia, è considerata liberal-progressista rispetto all'ortodossa Nozyk, l'unica della città scampata alle devastazioni, nel quartiere di Grzybow.
«I ragazzi, una trentina, vengono alla funzione del venerdì sera e poi vanno in discoteca — prosegue Wojciechowicz —; al sabato mattina abbiamo le famiglie, una sessantina di persone in tutto. Non usiamo la musica nelle celebrazioni, che sono tutte in ebraico». Conversioni? «Ne stiamo seguendo 10, forse 15, contando gli indecisi. Non tutti hanno origini ebraiche, ci sono anche le fidanzate polacche di israeliani che vivono a Varsavia per lavoro. I più giovani, nati nella Polonia già libera, parlano senza timori della loro identità ebraica. A volte dico loro di non essere così aperti, perché vivono in un paese dove gli ebrei sono ancora considerati stranieri». La kippah, avverte il rabbino, può attirare sguardi ostili per strada: «Nel 95% dei casi non succede nulla di grave, ma da quando è cambiato il governo, nel 2015, e il PiS (il partito di destra Diritto e Giustizia, n.d.r.) è arrivato al potere, ci sentiamo più insicuri. Attacchi e ingiurie hanno buone probabilità di restare impunite».
  Non ha dubbi che il «male» sia sempre in agguato Bogdan Bialek, presidente della Jan Karsky Society, fondata a Kielce, a due ore e mezza di treno da Varsavia, nella palazzina in cui fu perpetrato l'ultimo pogrom, nell'estate del 1946, quando la guerra era finita da un anno. Nella casa d'angolo di via Planty 7/9 avevano trovato rifugio 200 superstiti dei campi di sterminio. All'inizio di luglio un bimbo del quartiere scomparve per un paio di giorni e raccontò, al suo ritorno, di essere stato tenuto prigioniero nella cantina degli ebrei, per essere sottoposto a riti satanici.
«Era una leggenda corrente almeno da secoli, come dimostra questo dipinto che raffigura un processo settecentesco a un rabbino accusato di omicidi rituali di bambini cattolici» mostra un piccolo trittico Joanna Fikus, direttrice artistica del Museo Polin di Varsavia, dedicato alla storia degli ebrei polacchi, al centro dell'area un tempo occupata dal Ghetto, scomparso dopo essere stato raso al suolo nel 1944.
Ma a Kielce fu organizzata una spedizione punitiva, e via Planty 7/9 si trasformò in un mattatoio: morirono 42 inquilini e altri 80 furono feriti, prima che si scoprisse che, lì, nemmeno esisteva una cantina e che il bambino si era inventato tutto. Bogdan Bialek, cattolico, è il protagonista del film pluripremiato, «Bogdan's journey», che ricostruisce quel folle bagno di sangue e punta il dito contro i vicini delle vittime, contro poliziotti e soldati polacchi che, invece di impedirlo, parteciparono al massacro. Da oltre 18 anni Bialek si batte per tenere viva la memoria, con esposizioni fotografiche, documenti, testimonianze, «perché solo la consapevolezza può portare alla riconciliazione». L'anno scorso è stato aggredito, perché considerato un «traditore» da parte di concittadini convinti che fu la polizia segreta bolscevica a tramare contro gli ebrei di Kielce. Il bimbo di allora è morto nel 2001, a 64 anni, senza mai rivelare perché avesse raccontato quella bugia e se gli fosse stata suggerita da qualcuno.
  «Non si sa da chi sia stato ispirato, ci sono tante ipotesi al riguardo» lascia aperto il caso Mateusz Szpytma, presidente dell'Istituto per la Memoria Nazionale, l'ente statale incaricato, tra l'altro, di vigilare sul rispetto della controversa legge con cui, un anno fa, è diventato reato sostenere qualunque responsabilità storica polacca nello sterminio degli ebrei.
«La Polonia, a differenza di Francia, Ungheria, Cecoslovacchia e Italia, non ebbe mai un governo collaborazionista — ricorda Szpytma —. Sotto l'occupazione nazista ebrei e polacchi hanno ugualmente sofferto. I lager, come Auschwitz-Birkenau e Treblinka, non erano campi polacchi: erano organizzati dai tedeschi sul territorio occupato polacco. E durante il comunismo non sono stati solo gli ebrei a perdere i loro beni, tutti i polacchi sono stati espropriati». Per chiunque adombrasse complicità nelle deportazioni erano previsti originariamente tre anni di carcere, ma dopo le polemiche internazionali e le tensioni provocate dalla nuova legge con il governo israeliano, la pena è stata ridotta a una sanzione amministrativa.
  «Meglio così, certo. Ma la legge mantiene la sua funzione intimidatoria nei confronti di storici, insegnanti, intellettuali» eccepisce lo scrittore Konstanty Gebert, editorialista di Gazeta Wyborcza. È stato uno dei principali organizzatori dell'«Università Volante», l'istituto clandestino di istruzione durante il comunismo e membro del sindacato Solidarnosc. Per sintetizzare il travagliato Novecento degli ebrei polacchi, Gebert sceglie le parole del giornalista Leopold Unger: «I miei genitori sono nati e si sono sposati in Austria, hanno vissuto e procreato in Polonia, hanno sofferto in Unione Sovietica (durante la prima occupazione tra il 39 e il '41, ndr), sono stati uccisi in Germania e sono sepolti in Ucraina. Tutto questo senza mai muoversi dalla stessa casa, nella stessa strada della stessa città, Leopoli».

(Corriere della Sera, 26 dicembre 2019)


Un razzo interrompe il comizio di Netanyahu

Scortato dalle guardia del corpo verso un'area protetta

Benyamin Netanyahu è stato costretto ad interrompere mercoledì sera un comizio del Likud ad Ashkelon (a sud di Tel Aviv) quando in città sono risuonate le sirene di allarme per un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza. Il premier è stato allora scortato dalle guardie del corpo verso un'area protetta, ma dopo pochi minuti è tornato sul palco degli oratori. "Che fare? - ha chiesto. - Loro (i gruppi armati palestinesi, ndr) non vogliono che noi vinciamo. Alla loro faccia, noi invece vinceremo". Le sue parole, ha riferito la radio militare, sono state accolte dagli applausi del pubblico che ha scandito: "Forza Bibi". Anche nel settembre scorso Netanyahu era stato obbligato ad interrompere un comizio, allora nella vicina città di Ashdod, in seguito ad un altro attacco di razzi palestinesi sparati da Gaza.
   In seguito al lancio del razzo di mercoledì sera, l'aviazione israeliana ha colpito obiettivi militari nella Striscia di Gaza. Lo ha riferito la radio militare. Fonti palestinesi aggiungono che è stata centrata una postazione di Hamas nel Nord della Striscia. Un secondo attacco è avvenuto a Khan Yunes, a sud di Gaza.
   Netanyahu, riferendosi al lancio avvenuto in settembre, ha detto: "Colui il quale ha sparato la volta scorsa non c'è più". Si riferiva al leader militare della Jihad islamica Baha Abu al-Ata, ucciso da Israele a Gaza il novembre scorso. "Colui il quale ha cercato di mettersi in mostra oggi - ha avvertito - può cominciare a fare le valigie".

(ANSA, 25 dicembre 2019)



Netanyahu augura Buon Natale, “cristiani sono nostri migliori amici”

In occasione del Natale Benjamin Netanyahu fa gli auguri "a tutti gli amici cristiani in Israele e nel mondo", che il premier israeliano considera i "migliori amici" del suo Paese. In un video messaggio in inglese diffuso dal suo ufficio e rilanciato dai media locali, Netanyahu afferma: "Abbiamo in comune la stessa civiltà, quella giudaico-cristiana, che ha dato al mondo i valori della libertà, della libertà individuale, della santità della vita e della fede in un unico Dio". "Siamo orgogliosi delle nostre tradizioni, siamo orgogliosi dei nostri amici cristiani - aggiunge Netanyahu - Sappiamo di non avere amici migliori al mondo dei nostri amici cristiani, quindi grazie, grazie a tutti per essere al fianco di Israele, per essere al fianco della verità. Buon Natale!". Il video messaggio si conclude con l'augurio di "Buon Natale!" anche da parte della consorte di Netanyahu, Sara, che compare con lui nel video.

(Shalom, 25 dicembre 2019)


I cristiani diminuiscono in tutto il Medio Oriente (eccetto Israele)

Rischiano di scomparire anche dai territori dell'Autorità Palestinese

Benché quella cristiana sia la religione più diffusa al mondo con oltre 2,4 miliardi di aderenti, la popolazione cristiana del Medio Oriente, compresi i territori palestinesi, si trova più che mai in difficoltà.
Dieci anni fa, nel 2009, la popolazione cristiana della striscia di Gaza era stimata in circa 3.000 persone, secondo la Reuters. Alla vigilia del nuovo decennio il numero si è ridotto di due terzi, a circa 1.000 fedeli, la maggior parte dei quali greco-ortodossi. Stando a un rapporto del think tank Begin-Sadat Center for Strategic Studies, quest'anno i cristiani che vivono nei territori di Cisgiordania sotto Autorità Palestinese sono stati colpiti da almeno tre importanti incidenti: una folla violenta ha preso di mira il villaggio cristiano di Jifna, vicino a Ramallah, causando danni significativi alle proprietà e terrorizzando gli abitanti, mentre altri elementi ostili hanno fatto irruzione e vandalizzato una chiesa maronita a Betlemme e una chiesa anglicana vicino a Ramallah....

(israele.net, 25 dicembre 2019)


Maraini elogia le Sardine ma fa arrabbiare la comunità ebraica

La scrittrice toscana, 83 anni, in un articolo sul Corriere della Sera, ha accostato questa mobilitazione dei giovani alla 'rivoluzione' di Gesu'. Un riferimento biblico che non è piaciuto a molti.

Un elogio di Dacia Maraini al movimento delle sardine ha fatto esplodere una polemica con la comunità ebraica. La scrittrice toscana, 83 anni, in un articolo sul Corriere della Sera ha accostato questa mobilitazione dei giovani alla 'rivoluzione' di Gesù che riformò "la severa e vendicativa religione dei padri" dell'Antico testamento "introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra".
Un riferimento biblico che ha fatto infuriare Ruth Dureghello, presidente della Comunita' ebraica di Roma: "Ecco come si alimenta il pregiudizio antiebraico. Se questa è la strada - ha ammonito - qualcuno arriverà a parlare anche di rinchiudere di nuovo gli ebrei nei Ghetti".
Il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha denunciato "le menzogne di questa antica opposizione" tra Antico e Nuovo Testamento che "è rimasta però in mente e in bocca ai laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti".
"Bisogna diffidare di chi predica una bontà stucchevole condita di false informazioni", ha aggiunto. Per la presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), Noemi Di Segni, le parole di Dacia Maraini "disseminano pregiudizi antisemiti che sono stati da lungo tempo rigettati anche dalle ali piu' retrive dello stesso mondo cattolico".
"Non intendevo parlare della religione ebraica, ma solo riferirmi alla Chiesa cattolica che certamente è stata nella storia misogina e vendicativa", ha precisato in serata la scrittrice. "Mi dispiace di avere sollevato questo vespaio. Ma non ho scritto un saggio sulla Bibbia", ha precisato.
"Per quanto riguarda le Sardine e l'accostamento che a qualcuno è sembrata blasfemo, vorrei ricordare che per molti secoli Cristo veniva raffigurato con un pesce. Come scrive il dizionario Italiano: - Il pesce, essendo un animale che vive sott'acqua senza annegare, simboleggiava il Cristo che può entrare nella morte, pur restando vivo -. Con un grande affetto per il popolo di Israele e la sua religione".

(AGI, 25 dicembre 2019)

"... laici più o meno credenti ma quasi sempre ignoranti". Concisa definizione del Rabbino che si attaglia bene alla loquace scrittrice toscana.


Benvenuti in Israele, terra prolifica per le startup

di Daniel Mosseri

L'espressione startup nation? Superata. Non perché Israele abbia smesso di essere una fucina di imprese nate attorno a un'idea innovativa poi trasformata in un prodotto da lanciare sul mercato globale.
  Nel solo 2018 il numero di addetti del settore hi-tech è salito di altre 19.000 unità, secondo quanto riportato dalla Israel Innovation Authority (Iia). A dare il benservito al concetto di startup nation è stato uno che se ne intende: Aart de Geus è il ceo di Synopsys, colosso statunitense della produzione di chip. In un paio di interviste concesse ai media israeliani nel 2018, de Geus ha definito lo stato ebraico "una potenza tecnologica" e una "scale up nation", ritenendo il concetto di startup troppo legato all'idea di partenza per descrivere quello che sta succedendo in Israele. Parlando con Globes Israel, de Geus ha osservato che i cicli di eccellenza imprenditoriale attraversano di norma ogni cinque anni, mentre Israele è un paese che ha messo a segno quattro o cinque cicli consecutivi: "Questa è esperienza vera, non è più l'ora dei principianti".
  Gli ultimi dati diffusi dalla Iia gli danno ragione e Aharon Aharon, il ceo dell'autorità che sostiene il processo di modernizzazione dell'industria israeliana, non nasconde la sua soddisfazione: "La percentuale di lavoratori impiegati nel settore hi-tech è cresciuto dell'8% per un decennio". Sempre secondo la Iia, a metà del 2019 i dipendenti del settore - trasversale - dell'innovazione erano saliti a 307 mila.
  Israele ha 8,6 milioni di abitanti e fatte le debite proporzioni è come se in Italia oltre 21 milioni di persone dipendessero direttamente da settore hi-tech. La trasformazione dello stato ebraico da piccola potenza agricola, già esportatore di fiori, pompelmi e avocado, a motore dell'innovazione globale è avvenuta nel corso dell'ultimo quarto di secolo grazie a una combinazione di elementi che vale la pena di ricordare.

 La guerra
  La lunga serie di conflitti con i propri vicini e una minaccia terroristica senza fine hanno spinto gli strateghi israeliani a premere sul pedale della deterrenza, dotando il paese di sistema di difesa e di attacco all'avanguardia. Se dell'arma nucleare israeliana si parla poco in pubblico, molto più noto è l'Iron Dome, il sistema antimissilistico che intercetta gran parte dei missili ciclicamente esplosi da Gaza verso il sud di Israele. Meno noto, ma non per questo meno utile, è Watergen, un sistema per ricavare acqua potabile direttamente dall'aria usando motori di plastica a basso consumo energetico. In una zona di guerra, la possibilità di far giungere un camioncino che distribuisca acqua potabile estratta dall'aria può fare la differenza fra la vita e la morte. Come poi la storia del telegrafo insegna, è normale che molte invenzioni trovino applicazione fuori dall'ambito militare e oggi Watergen piazza con successo i suoi distributori di acqua a batteria solare là dove mancano una presa di corrente e un rubinetto (vedi alla voce grandi eventi o metropoli asiatiche dalla falda inquinata).

 La ricerca
  Israele ha centri universitari di eccellenza. Basti pensare, fra i tanti, al Technion di Haifa. Fondato nel 1912, l'Istituto Politecnico di Haifa già presieduto da Albert Einstein fa concorrenza ai più noti college statunitensi in settori come la fisica, le nanotecnologie, l'informatica e le intelligenze artificiali. Fra il 2004 e il 2013, l'Accademia reale svedese delle scienze ha assegnato quattro Premio Nobel per la chimica ad altrettanti ricercatori del Technion. A tenere alta la media di un paese all'avanguardia nello studio delle materie scientifiche, ha contribuito negli anni Novanta anche l'assorbimento in Israele di 1,6 milioni di ebrei russi e sovietici. Nessuno parlava l'ebraico: in compenso fra di loro c'erano migliaia di ingegneri e matematici formatisi nel solido sistema universitario dell'ex Urss.
  La combinazione di una lunga leva e di studi di alto livello sono dunque le architravi sui cui si basa lo sviluppo dell'innovazione in Israele. Ma ricerca e sperimentazione costano, il che richiede un massiccio afflusso di capitali a favore degli startupper israeliani. Se lo stato provvede a finanziare i college, i centri di ricerca, e le forze armate, le nuove aziende hanno bisogni di altri fondi per candidarsi a entrare nel mercato.

(Startmag Web magazine, 25 dicembre 2019)


L’Iran offre aiuto per far andar via i soldati americani dalla Siria

Il presidente siriano, Bashar al-Assad, ha ripetutamente denunciato la presenza illegale di truppe americane nel suo Paese.

L'Iran è pronto ad offrire il proprio supporto per far andar via i soldati americani illegalmente presenti sul territorio siriano, qualora il governo di Damasco dovesse richiederlo a Teheran.
A farlo sapere, in un'intervista, è il consigliere del leader supremo iraniano Ali Akbar Velajati, il quale ha definito il presidente Donald Trump "un ladro internazionale" accusando gli USA di rubare il petrolio siriano.
"Ci auspichiamo che nel prossimo futuro abbia un termine questo controllo illegale degli americani su diverse regioni siriane e che gli stessi abitanti della Siria rispondano mettendo fine a questo controllo [...] Siamo pronti a fornire tutto il nostro supporto per far andar via le truppe americane dalla Siria in caso di richiesta da parte delle autorità siriane e in base alle nostre possibilità", sono state le parole di Velajati.
 La presenza americana in Siria
  Precedentemente, il presidente Donald Trump, con l'Operazione turca "Fonte di Pace" nel Nord-Est della Siria ancora in corso, aveva dato l'ordine di ritirare la maggior parte degli effettivi dispiegati nella regione, trasferendoli nel vicino Iraq.
  Da allora, in Siria, è rimasto un contingente più ridotto di soldati, ufficialmente allo scopo di supportare le formazioni curde a proteggere i siti petroliferi.
  Il presidente siriano Bashar al-Assad ha denunciato ripetutamente "il furto di petrolio" perpetrato da parte di Washington, accusata dal leader siriano di rivenderlo poi alla Turchia.
  In un'intervista risalente al mese di novembre, lo stesso Trump aveva confermato la sua 'passione' per il greggio, confermando che le forze armate americane sarebbero rimaste in Siria proprio per impadronirsi delle fonti petrolifere.

(Sputnik Italia, 25 dicembre 2019)


Putin: "Hitler proponeva di mandare ebrei in Africa"

"E l’ambasciatore polacco gli voleva fare un monumento". Il Presidente russo ha espresso con parole durissime, che faranno senz'altro discutere, il disappunto provato per la risoluzione approvata lo scorso settembre dall'Europarlamento che ha di fatto equiparato l'URSS comunista alla Germania nazista e per l'atteggiamento della Polonia al riguardo.

"La Russia difenderà sempre la verità storica", queste le prole del Presidente russo rivolte, indirettamente ma chiaramente, al Parlamento Europeo che lo scorso settembre aveva di fatto equiparato il comunismo e l'Unione Sovietica al nazismo e il Terzo Reich. Si è poi voluto rivolgere alle autorità polacche, anche in questo caso indirettamente ma con altrettanta chiarezza, che avevano in seguito espresso la loro insistenza nell'equiparare e colpevolizzare in pari modo entrambe le potenze per la Seconda Guerra Mondiale.
"Una cosa che mi urta, ve lo devo dire sinceramente, è pensare a come abbiano affrontato la cosiddetta 'questione ebraica' Hitler e i rappresentanti ufficiali del Governo polacco a quei tempi. Hitler disse all'Ambasciatore polacco in Germania (Jozef Lipski), e poi anche al Ministro degli Esteri, di avere l'idea di deportare tutti gli ebrei in Africa. Immaginate nel '38 deportare interi popoli in Africa... a morire, allo sterminio. E cosa gli rispose l'Ambasciatore polacco? Cosa che è documentata dagli appunti del Ministro degli Esteri Beck, disse - Se lo fa gli facciamo un monumento grandioso a Varsavia. Bastardo, maiale antisemita, in altro modo non si può definire. Si schierò totalmente dalla parte del sentimento antisemita di Hitler e inoltre, per prendere in giro l'intero popolo ebraico promise di erigergli un monumento a Varsavia. Ed è proprio contro questa gente che ha combattuto l'Armata Rossa durante la Seconda Guerra Mondiale, per liberare l'Europa da tutto questo".

JOZEF LIPSKI
Ambasciatore polacco nella Germania nazista tra il 1934 e 1939, fu tra gli artefici del patto di non aggressione tedesco-polacco del 1934 che temporaneamente servì a contenere l'espansionismo tedesco in chiave antisovietica. Il patto, conosciuto anche come Patto Pilsudski - Hitler, fu per certi versi simmetrico ma contrario rispetto al patto Ribbentrop-Molotov. In caso di invasione nazista dell'Unione Sovietica alla Polonia sarebbe stata promessa anche una parte dell'Ucraina per la sua eventuale collaborazione. Nell'ottobre 1938 il ministro degli Esteri tedesco Ribbentrop propose il rinnovamento del trattato di non aggressione in cambio però della cessione della Città Libera di Danzica alla Germania e il permesso di costruire una strada extraterritoriale che collegasse l'enclave della Prussia Orientale alla Germania. La Polonia rifiutò e la Germania annullò il patto unilateralmente. Il resto è noto.
Lipski, che non nascose mai le sue simpatie nei confronti del nazismo, almeno fino a quando non ci fu l'invasione. Morì a Washington nel 1958.

(Sputnik Italia, 25 dicembre 2019)


Netanyahu e Steinitz il 2 gennaio ad Atene per la firma dell'accordo per il gasdotto East-Med

GERUSALEMME - Israele, Grecia e Cipro firmeranno l'accordo per il gasdotto East-Med il prossimo 2 gennaio ad Atene. Lo ha detto il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che si recherà in Grecia per la firma dell'accordo insieme al ministro dell'Energia, Yuval Steinitz. L'accordo "contribuirà alla sicurezza energetica dell'Europa e alla prosperità in Israele e nel Mediterraneo orientale", ha affermato Netanyahu. Il progetto mira a collegare Cipro, Grecia e Israele nella catena di approvvigionamento energetico dell'Europa e a ostacolare gli sforzi della Turchia di estendere il suo controllo nel Mediterraneo orientale, sottolinea il quotidiano "The Times of Israel". Il gasdotto sarà esteso circa 2.000 chilometri e consentirà il trasferimento di 12 miliardi di metri cubi all'anno dalle riserve di gas offshore di Israele e Cipro verso la Grecia, e poi in Italia e in altri paesi dell'Europa sud-orientale.

(Agenzia Nova, 24 dicembre 2019)


Israele, per la prima volta è diventato un esportatore di gas in Medio Oriente

Con la messa in attività del maxigiacimento di gas naturale Leviathan, Israele entra nel club dei Paesi esportatori e dà il via a una politica green di riconversione. Un primo accordo di export è stato siglato con l'Egitto. Ai primi di gennaio sarà firmata l'intesa con Grecia e Cipro per il gasdotto EastMed verso l'Europa. Entro fine anno operativa la connessione tra la costa e un maxi giacimento. Dal 2020 al via l'export di gas naturale israeliano a Egitto e Giordania.

di Roberto Bongiorni

 
La piattaforma estrattiva nel giacimento di gas naturale Leviathan al largo di Haifa
Ricorrendo alla sua tagliente ironia, Golda Meir, la prima (e sola) premier donna di Israele, amava ripetere questa storiella per evidenziare una delle grandi vulnerabilità del giovane Stato di Israele. «Mosè trascinò gli ebrei per 40 anni da un capo all'altro del deserto, per portarli nell'unico luogo di tutto il Medio Oriente in cui non c'è neppure una goccia di petrolio!».
   Non aveva tutti i torti. Il tallone d'Achille di Israele, Paese circondato da Paesi ostili ricchi di greggio, è sempre stato la dipendenza energetica. Che fosse gas, greggio o benzina, Gerusalemme ha sempre dovuto ingegnarsi per diversificare e mantenere gli approvvigionamenti.
   Oggi la situazione è opposta. Israele ha molto più gas naturale di quanto ne ha bisogno. Il Governo si trova ora davanti a un problema, sicuramente meno grave, ma non di facile soluzione: come e dove esportare tutta questa ricchezza? E come farlo in tempi ragionevoli e in termini redditizi?
   All'inizio del terzo millennio è avvenuto l'insperabile. Il sottosuolo di Israele non custodiva petrolio, ma le sue acque serbavano un'altra grande risorsa: il gas naturale. I primi ritrovamenti risalgono al 1999, da parte della compagnia texana Noble Energy. Ma la svolta è arrivata nel 2009, quando un consorzio guidato da Noble annunciò la scoperta di Tamar, giacimento da 300 miliardi di metri cubi di gas (bcm). Nelle vicinanze, a 125 km dalla città costiera di Haifa, un altro consorzio, in cui accanto a Noble compariva anche la compagnia israeliana Delek, scoprì nel 2010 Leviathan. Con riserve accertate per 620 miliardi di metri cubi Israele poteva vantarsi di possedere il più grande giacimento del Mediterraneo dopo quello egiziano di Zohr, scoperto dall'italiana Eni nel 2015.
   Secondo i dati forniti dal ministero dell'Energia, negli ultimi tre anni Israele ha prodotto 11 miliardi di metri cubi l'anno, volume praticamente pari ai suoi consumi.
   Entro dieci giorni, però, ci sarà un'altra grande svolta. Israele entrerà nel club dei Paesi esportatori di metano grazie a un accordo con l'Egitto. Il 16 dicembre infatti il ministro dell'Energia Yuval Steiniz ha firmato i permessi che consentono l'avvio delle operazioni. Il gas a disposizione è così tanto che questo piccolo Paese del Levante, esteso come la Lombardia e con meno di 9 milioni di abitanti, punta ora a divenire pioniere di una rivoluzione energetica: divenire nell'arco di 15 anni un "Paese verde", dove le auto a benzina e diesel saranno solo un ricordo, al pari del carbone. «Entro fine anno Leviathan sarà connesso alla nostra costa. E dal 2020 esporteremo 10 miliardi di metri cubi l'anno, di cui 7 andranno in Egitto, e tre in Giordania», spiega al Sole 24 Ore Udi Adiri, direttore generale del ministero israeliano dell'Energia.In verità, come precisa l'esperto dirigente, Israele stava già esportando piccole quantità di gas in Giordania da 18 mesi. Ma grazie ai nuovi volumi di metano Israele potrà rafforzare le relazioni diplomatiche con i due soli Paesi arabi che hanno firmato un accordo di pace (nel 1979) riconoscendolo.
   Tanta fortuna, tuttavia, non è arrivata in un momento favorevole. Mai come ora la concorrenza da parte dei big mondiali del gas è stata così agguerrita. In un periodo storico in cui i grandi produttori come Stati Uniti, Qatar, Russia e Australia stanno inondando i mercati con il loro gas, anche liquefatto, i prezzi ne hanno naturalmente risentito, al ribasso.
   Il direttore generale del Ministero dell'Energia ha tuttavia le idee chiare sulla strategia da seguire nei prossimi decenni. «Non vogliamo e non possiamo competere con i grandi player. In merito all'export di gas noi seguiamo questa strategia. Prima vengono i paesi vicini. Con i quali siamo più concorrenziali perché non abbiamo costi di spedizione via mare, liquefazione e rigassificazione. Poi intendiamo approcciare altri mercati. L'Europa resta la prima scelta, anche per la vicinanza. Infine vi è una terza opzione, interessante, da seguire nel lungo termine: esportare gas verso Oriente, per esempio in India, attraverso il Mar Rosso.
   Per raggiungere questi obiettivi saranno necessari grandi progetti infrastrutturali. Che sia il lungo e costoso gasdotto sottomarino (sarebbe il più profondo al mondo) che connette i giacimenti di Israele attraverso Cipro, arrivando poi in Grecia e in Italia (è il progetto più accreditato). Oppure, o in contemporanea (scenario però complesso), avviare la costruzione di impianti di liquefazione, a Cipro, in Egitto o nel Golfo di Aqaba. «Stiamo considerando tutte le opzioni.Nel vicino futuro credo che l'Europa sia interessata ad accrescere le sue fonti di approvvigionamenti di metano», sottolinea Adiri.
   In verità nessuno sa quanto gas c'è nelle acque di Israele. «Le ricerche e le proiezioni delle compagnie internazionali stimano approssimativamente il potenziale della nostra zona economica esclusiva in 3mila miliardi di metri cubi di gas. Giusto per avere un'idea, finora abbiamo scoperto meno di mille miliardi», conferma Adiri, che aggiunge: «Nel 2021 entrerà in produzione anche il giacimento di Karish-Tanin, che fornirà altri 7 miliardi di metri cubi l'anno. Se poi consideriamo che con le nuove tecnologie la produzione di Leviathan potrebbe anche raddoppiare, l'estrazione potrebbe arrivare a 40 bcm».
   Tanto, tantissimo gas. Che permetterà di portare avanti questa grande rivoluzione energetica. Gli obiettivi sono già delineati. Innanzitutto liberarsi del carbone fossile, fino a pochi anni fa largamente utilizzato in Israele per esser trasformato in elettricità. «Abbiamo terminato le procedure: entro il 2025 sarà eliminata la produzione di elettricità mediante carbone. Negli ultimi cinque anni l'abbiamo già ridotta del 50 per cento. Pensate, avremo elettricità pulita, solo da gas ed energie rinnovabili. Un obiettivo raggiungibile con la riconversione, già in corso, delle centrali a carbone. Manterremo solo una limitata capacità di produrre col carbone per le emergenze», spiega Adiri. La conversione della più grande centrale a carbone del Paese, nella città costiera di Hadera, sarà terminata in 3 anni e consentirà di abbattere l'uso del carbone di un altro 30% circa.Nelle città israeliane il cambiamento è tangibile. L'aria che si respira è un'altra, mentre le spiagge sono più pulite. Gerusalemme, che ha firmato l'accordo climatico di Parigi, è già molto vicino al raggiungimento del primo obiettivo: produrre entro il 2020 il 10% dell'elettricità con energie rinnovabili.
   Il passo successivo è ancor più ambizioso. Diventare un Paese dove circolano solo auto elettriche o veicoli pesanti, inclusi mezzi pubblici, a Cng (gas naturale compresso). «È un obiettivo raggiungile. Ci stiamo lavorando. Ma c'è molto lavoro ancora da fare, conclude il direttore del Ministero dell'Energia: «Siamo un piccolo Paese con l'elettricità a costi bassi. Possiamo farcela». I silenziosi camion per la raccolta di rifiuti e i bus a gas naturale compresso che hanno già cominciato a circolare per le strade del Paese suggeriscono che questa rivoluzione è davvero possibile.

(Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2019)


Israele fra gli ipocriti. Una corte politica

Gerusalemme all'Aia. Parla il generale Eiland: "L'occidente riconosce ai nostri soldati una moralità superiore. Sulla decisione di incriminare Israele c'è una bandiera nera".

di Giulio Meotti

ROMA - Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot ha pubblicato domenica immagini di atrocità in Iran, Siria, Turchia e altrove sotto al titolo: "E chiamano noi criminali di guerra". Il principale giornale dello stato ebraico accusa la Corte penale internazionale dell'Aia di "assurdità" e "ipocrisia". Di "terrorismo diplomatico" ha parlato l'ambasciatore di Israele all'Onu, Danny Danon, dopo che la procuratrice-capo della Corte ha dichiarato di avere "basi sufficienti" per un'indagine su presunti crimini di guerra israeliani nelle guerre a Gaza e negli insediamenti israeliani. E' la prima volta che la Corte si occupa di bombardamenti aerei e uccisioni di civili durante un conflitto. Scrive Amos Harel su Haaretz che "è un precedente preoccupante per gli altri eserciti occidentali". Il premier israeliano Netanyahu definisce la Corte "uno strumento politico nella guerra per delegittimare Israele. Chi accusano? L'Iran? La Turchia? La Siria? No, accusano Israele. Si tratta di una terrificante ipocrisia". Anche Benny Gantz, leader di Blu&Bianco, principale partito d'opposizione e in quanto ex capo di stato maggiore possibile imputato all'Aia, parla di "mossa politica senza base giuridica".
   "La Palestina non è uno stato e non ha giurisdizione", dice al Foglio David Kretzmer, professore emerito di Diritto internazionale all'Università ebraica di Gerusalemme. "Ma anche se la Corte decidesse che non c'è giurisdizione per procedere, è possibile che le informazioni raccolte dal procuratore siano usate nei paesi europei per arrestare ufficiali israeliani. C'è uno stigma, un danno morale, immediato per Israele". La paura più grande per Israele è che i suoi dirigenti siano ricercati in Europa. E' già successo. L'ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, era a Londra quando il governo di David Cameron fu costretto a garantirle immunità diplomatica per evitare che fosse trascinata in tribunale. Livni ha dovuto annullare poi un viaggio a Bruxelles a causa di una simile minaccia. Come ha scritto il New York Times, "esperti legali in Israele hanno consigliato i ministri con un background nella sicurezza e alti ufficiali dell'esercito a non visitare Gran Bretagna, Spagna, Belgio e Norvegia". Un giudice in Spagna ha emesso un mandato anche per Netanyahu per l'incursione sulla Flotilla. Il generale Doron Almog fu avvertito di un mandato d'arresto che lo spinse a tornare a Tel Aviv senza neppure scendere dall'aereo a Londra. Anche l'ex direttore dei servizi Avi Dichter ha dovuto rinunciare a una conferenza, mentre Aviv Kokhavi, attuale capo di stato maggiore, ha cancellato una conferenza in un'accademia militare britannica. "Israele è responsabile di molte meno perdite della Nato in Yugoslavia o in Afghanistan,
   senza contare l'Iraq", dice al Foglio Ben Dror Yemini, columnist del quotidiano israeliano Yedioth. "E per non parlare dei vicini di Israele. Quello che fa Israele va ben al di là degli standard della legalità internazionale in zone di guerra". Per Ben Dror Yemini, Israele è sotto inchiesta all'Aia soltanto per ragioni politiche. "E' una farsa. E' una tragedia. I giudici dell'Aia poi sono nominati da nazioni ostili a Israele. La decisione di darci la colpa ha una bandiera nera appesa su di essa".
   Di "decisione politica" parla al Foglio anche l'ex generale israeliano Giora Eiland, già comandante della brigata Givati, una delle "menti" dell'establishment di sicurezza israeliano, che fu a capo del National Security Council del governo di Ariel Sharon e il cui nome è comparso anche in una richiesta di arresto alla magistratura spagnola: "Quattro anni fa, un gruppo di generali, compresi alcuni dall'Italia e da altri paesi europei, disse che volevano paragonare Israele alle loro operazioni in corso in Afghanistan, Iraq, Mali, Colombia, per capire se eravamo migliori, peggiori o come gli altri", ci spiega Eiland. "Io facevo parte di questo gruppo e la prima cosa che dissi loro è che avevano bisogno di una metodologia. E misi giù 132 criteri per giudicare differenti operazioni. Se il nemico ha kalashnikov, pietre e missili rudimentali; se invece ha missili anticarro e missili a lunga gittata, quali misure militari adottare a seconda delle circostanze. E quei generali stranieri arrivarono alla conclusione che Israele ha più morale e più legalità di tutti gli eserciti dei paesi civili".
   Già durante la rivolta araba del 1936, l'allora milizia ebraica Haganah adottò una politica nota come Havlagah, "controllati", non diventare come gli altri. E' anche questa eredità israeliana a essere in gioco in una corta dell'Aia che avrebbe potuto rappresentare una forza del bene, ma che non solo si è dimostrata inefficace nel combattere il male, ma che si è lasciata usurpare da un programma politico che l'ha spinta a confondere il bene con il male. Trasformandosi in una corte dell'ingiustizia.

(Il Foglio, 24 dicembre 2019)


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Israele non commette crimini di guerra. Punto

Una semplice verità, che non bisogna stancarsi di ripetere

Israele non commette crimini di guerra. Questo è il messaggio, semplice e chiaro, che si deve inviare al mondo, dopo la raccomandazione fatta venerdì scorso della procuratrice-capo della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, di indagare Israele in merito a presunti crimini di guerra legati all'operazione anti-Hamas a Gaza del 2014, ad attività di insediamento in Cisgiordania e alla risposta data dalle Forze di Difesa israeliane ai violenti moti settimanali lungo la barriera di confine fra Gaza e Israele.
Ovviamente vi sono dei soldati israeliani che commettono crimini mentre sono in azione, come accade in tutti i paesi coinvolti in operazioni militari. E quando succede, i tribunali militari e civili israeliani si occupano dei casi e ne chiamano a rispondere le persone implicate....

(israele.net, 24 dicembre 2019)


Old Jaffa, il cuore etno-chic di Tel Aviv che piace tanto ai viaggiatori

 
Ci sono molte possibili ragioni per comprendere il successo del turismo israeliano di questi anni. Centinaia di eventi internazionali attirano americani ed europei, che da soli fanno il 43% dell'incoming, attratti dalla beach life e da una temperatura media che anche in pieno inverno resta sui 20 gradi. Come già annunciato dal ministro del turismo sui media internazionali, la stagione 2018 ha fatto registrare un incremento del 14%, stimato in oltre 4 milioni di presenze, mentre sono oltre 21.500 gli ingressi giornalieri dall'aeroporto internazionale Ben Gurion.
   Gli italiani sono solo il 4% dei visitatori in terra di Israele, ma potrebbero presto, grazie all'apertura del nuovo aeroporto Ramon di Eilat, scoprire le molte potenzialità di questo giovanissimo paese. L'Italia è comunque il 6o mercato internazionale, con un totale di 175.438 visitatori italiani da gennaio a metà dicembre e nel corso dell'anno ha registrato una crescita del +31,5% rispetto al 2018. Gli addetti ai lavori, che in questi giorni aspettano il pienone di Natale e Capodanno in Terra Santa, sono molto ottimisti.
   Definita una non stop city dalle campagne di comunicazione del brand Israel Land of Creation, Tel Aviv ha hotel che non chiudono mai durante l'anno, locali trendy e ristoranti che restano aperti anche tutta la notte perfino nei week end di shabbat, dal venerdì al sabato sera.
   La catena Atlas, che da quarant'anni ha creato oltre 16 boutique hotels nel paese da nord a sud, incarna lo spirito del nuovo turismo di qualità.
   "Il Market House Hotel nel cuore di Jaffa ha ricevuto l'anno scorso il premio TripAdvisor Traveller Choice - spiega il general manager Avi Cohen -. I nostri boutique hotel sono in tutto il paese, soltanto a Tel Aviv sono 16 le strutture storiche che abbiamo recuperato e rinnovato completamente, affidando ad un gruppo di architetti israeliani il design adatto a ricreare le atmosfere che riescono a trasmettere quella che noi chiamiamo la 'Jaffa soul'. Un grande sforzo per raccontare la nostra realtà, i movimenti di artisti e di fotografi che sono passati da queste stanze, lasciando le loro opere".
   Ultimo inaugurato della catena Atlas, il Fabric Hotel, per una clientela giovane, nella zona sud della città. "Nei nostri hotel - aggiunge Avi Cohen - si accoglie il turista facendolo sentire come a casa. Molti dettagli fanno del Market House Hotel a pochi minuti a piedi dalla collina di San Giorgio, la scelta ideale per entrare nello spirito multietnico di questo antichissimo borgo mediterraneo. La costruzione, risalente a circa 180 anni fa, ha una storia molto affascinante, nella lobby arredata con mobili di design in stile vintage, raffinata con richiami di inizio secolo in molti elementi d'arredo, dalle ceramiche, alle gigantografie dei personaggi del quartiere, quadri realizzati da artisti locali con elementi di riciclo. Si cammina sul pavimento di vetro che conserva i resti di una chiesa bizantina, questo fu di sicuro un mercato ai tempi della dominazione greco- ortodossa e poi ottomana, mentre nel 1948 divenne quartier generale del Mossad. Nove anni fa l'inizio dei restauri e poi nel 2014 l'apertura. Da allora il gradimento dei clienti cresce di continuo, offriamo una prima colazione con prodotti locali molto selezionati, tra il dolce ed i salato, con tipicità ebraiche e anche arabe e bulgare per la pasticceria, assortimento di formaggi e di pane locale appena sfornato, oltre ad una pregiata selezione di vini israeliani e di caffè tra i migliori del mondo".

(Travel Nostop, 24 dicembre 2019)



Aumentano i cristiani in Israele

Una minoranza in crescita dell'1,5%

I cristiani in Israele, pur restando una minoranza, sono in crescita (1,5%) seppur lenta e il loro successo nel campo dell'educazione è maggiore del resto della maggioranza ebraica. Lo mettono in risalto i dati dell'Ufficio centrale di statistica (Cbs) diffusi in occasione del Natale. Il numero dei cristiani (di tutte le confessioni) che vivono in Israele è di 177mila, circa il 2% del totale; di questi il 77,5% sono arabi israeliani, ovvero il 7,2% dell'intera popolazione araba del paese. La presenza cristiana è in prevalenza (70,6%) in Galilea e nelle città del nord di Israele. La maggiore concentrazione - e non poteva essere diversamente - è a Nazareth dove vivono circa 21,900 Cristiani, mentre i musulmani sono stimati in 55mila; seguono Haifa con 16,100, Gerusalemme con 12,700 e Shfaram 10,300. Il 70,9% degli studenti dei licei cristiani ottiene voti di ammissione all'università, poco più alti di quelli ebrei (70.6%), ma ancora più grande dei drusi (63.7r11) e dei musulmani (45.2% ).

(Il Messaggero, 24 dicembre 2019)


Così il Mossad divenne popstar

Da servizi segreti a serie tv. Impronunciabile fino al 2016, la "mano di dio" è diventata un brand. Obiettivo: vincere la guerra attraverso i media

di Fabio Scuto

GERUSALEMME - Fino agli anni Duemila, la parola Mossad - l'agenzia di spionaggio israeliano esterno -si doveva pronunciare sommessamente, a mezza bocca. Allora si diceva "Istituto", Ha Mossad le Modin Ale Takfidim Meyuchadim, significa, appunto, Istituto per l'intelligence e i servizi speciali - e tutti comunque capivano. Il nome e il volto del capo del Mossad erano segreti, sui giornali si poteva solo scrivere Mister M. Missioni frequenti, complesse e soprattutto audaci, hanno fatto dell'Istituto il più preparato e letale apparato di intelligence al mondo, il suo mantra è: "Attraverso l'inganno faremo la guerra".
   Un alone di mistero e intrigo avvolgeva il tutto, allora come oggi, anche se ogni israeliano sa perfettamente come entrare in contatto discretamente con il Mossad. A partire dal 2016, sotto la direzione del ramsad (direttore) Tamir Pardo (2011-2016), il Mossad si è aperto ai media e la sua vena di modernità è diventata ancor più solida. Da anni è presente online con sito web e Facebook, quando per esempio l'MI6 - il Servizio Segreto esterno di Sua maestà la Regina Elisabetta - ancora cercava personale con gli annunci su The Economist o su The Observer, Resta comunque sorprendente - anche in un Paese smaliziato come Israele - che in tempi recenti, il ramsad Yossi Cohen e i massimi esponenti del Mossad e diversi loro agenti, siano diventati ospiti d'onore nelle trasmissioni tv, negli spettacoli investigativi e nei documentari. Per non parlare delle fiction - serie e docufilm con il Mossad protagonista - che sono già state vendute a Netflix per essere trasmesse in tutto il mondo, da Mossad 101 (101 è il numero delle emergenze in Israele) a Red Sea diving Resort o Eli, la storia di Eli Cohen che si infiltrò nel regime siriano negli anni Sessanta.
   L'Accademia dell'Istituto è a nord di Tel Aviv- per motivi comprensibili non si può scrivere esattamente dove - un complesso di diversi edifici e antenne che da una torre svettano nel cielo, il cuore della comunicazione riservata. Il suo nickname è "il dito di dio", dove dio in Israele è sinonimo di Mossad.
   ''Dio ci ha dato una mano", diceva Meir Dagan (ramsad 2002-2011) quando i tecnici nucleari saltavano in aria sulle loro auto in Iran. Così convinse il premier Benjamin Netanyahu che si poteva rallentare il progresso nucleare degli ayatollah senza scatenare la terza guerra mondiale con un attacco aereo sugli impianti. Nel 2008 agenti del Mossad hanno ucciso a Damasco Imad Mughniyeh, comandante delle operazioni di Hezbollah. Nel 2010 la "cinematografica" eliminazione di Mahmoud al Mahbuh - armiere di Hamasin un grande hotel di Dubai con 26 agenti sul campo, dissolti poi nel nulla. Per portare avanti questa guerra il Mossad - che risponde solo al primo ministro - ha sempre bisogno di reclutare agenti, spesso cittadini di altri Paesi in grado di viaggiare senza attirare l'attenzione sono preziosi per l'Istituto. Mohammed Alzoalari - ingegnere esperto di droni e uomo di Hamas a Tunisi - nel 2016 è stato ucciso da due killer bosniaci che non sapevano di lavorare per il Mossad. Perché se negli ultimi anni è cresciuto il budget e il numero agenti, è stato allargato anche quello degli "agenti inconsapevoli" e l'uso di mercenari. I dettagli delle operazioni non possono essere svelati in tv ma gli uomini del Mossad che vanno negli studi dimostrano una rara capacità di raccontare senza violare segreti di Stato. Questi includono la lunga intervista con l'ex capo del Mossad Tamir Pardo, il programma sull'agenzia di Channel 13 e una serie di episodi dell'emittente pubblica Kan Zman Emet (Real Time), che ha tentato di dissipare la nebbia che circonda diverse cover operations.
   Poi c'è la mini-serie di documentari di Channel 8, Inside the Mossad, venduta a Netflix e incentrata su un agente e i suoi misfatti clandestini, il popolare programma di Channel l2 Kfulim (False Flag), una miscela familiare: false identità, belle donne e un'aura di mistero. L'ultimo arrivato è Le'einav Bilvad (Solo per i suoi occhi: la politica del Mossad), in onda in Israele quest'anno e il prossimo su Netflix. Questa serie di tre episodi accende i riflettori sulla tensione che c'è sempre stata tra i capi del Mossad e i premier.
   Il Mossad è il brand più conosciuto di Israele e allora perché non farne un argomento di prima serata, si sono chiesti i produttori israeliani.
È stato subito successo.

(il Fatto Quotidiano, 24 dicembre 2019)


Per elogiare le sardine, Dacia Maraini sul Corriere propala menzogne sull'ebraismo

di Ester Moscati

"Che c'azzecca?", verrebbe da dire, citando Di Pietro, leggendo lo sconclusionato, falso, vergognoso articolo di Dacia Maraini pubblicato sul Corriere della sera di oggi, 24 dicembre. Per sponsorizzare l'idealismo delle "sardine", cita Gesù, "Un giovane uomo che ha riformato la severa e vendicativa religione dei padri, introducendo per la prima volta nella cultura monoteista il concetto del perdono, del rispetto per le donne, il rifiuto della schiavitù e della guerra. (…) i principi del vecchio Testamento, il suo concetto di giustizia come vendetta (occhio per occhio, dente per dente), la sua profonda misoginia, l'intolleranza e la passione per la guerra". Una sequela di falsità, menzogne da catechismo preconciliare da terza elementare. Dacia Maraini non è nuova a queste tiritere antigiudaiche. Lo aveva fatto già nel 2016, quando il "Vecchio testamento" era già stato bersaglio dei suoi strali: "Da noi c'è stato Gesù Cristo che ha sconvolto e rovesciato le prescrizioni della Bibbia: le parole «amore» e «perdono» hanno sostituito il «dente per dente» e l'odio di religione".
   Già allora le si era risposto che «Ama per il prossimo tuo come per te stesso» è una espressione biblica (Levitico 19,18) che è da sempre considerata nell'ebraismo come l'essenza della Torah. Che la donna è stata creata da materia già infusa del soffio divino e non dall'argilla, e che il Talmud dice: "State molto attenti a far piangere una donna, che poi Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell'uomo, non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale… un po' più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere Amata". E la schiavitù? L'unico popolo antico che prevede il riposo dello schiavo, nel giorno del Sabato, il risarcimento per danni procurati allo schiavo, e la liberazione dopo sette anni.
   Niente, refrattaria come uno schiacciasassi, impermeabile al dubbio, Dacia Maraini reitera le sue accuse. Sembra particolarmente affezionata all'Occhio per occhio, dente per dente.
   Inutile spiegare alla scrittrice che la legge "occhio per occhio" non autorizzava né sanciva il diritto a farsi giustizia da soli. Tutt'altro. Permetteva ai giudici designati di infliggere pene giuste, commisurate al danno subito dalla vittima, non troppo dure, né troppo leggere, a chi aveva commesso un crimine. E non pene corporali, ma il risarcimento pecuniario.
   La legge serviva anche come deterrente. La Legge mosaica infatti dice: "Gli altri [quelli che vedevano come veniva applicata la giustizia di Dio] lo verranno a sapere e avranno paura, e non faranno mai più una cosa malvagia come questa in mezzo a te".
Insomma, dopo oltre cinquant'anni dal Concilio Vaticano II sembra davvero incredibile leggere sul Corriere un articolo così infarcito di ideologia cristiana della "sostituzione", di falsità, superficiali menzogne. Una vergogna, davvero. E quel Bambino, che disse, con buona pace della Maraini, "Non cambierò una yud (la più piccola lettera dell'alfabeto ebraico) della Legge di mio Padre" si vergognerebbe della scrittrice.

Il commento della Comunità di Milano
La lettura dell'articolo di Dacia Maraini ha indignato moltissime persone della Comunità ebraica di Milano. "Gli ebrei e i cristiani - ha detto il Presidente Milo Hasbani - festeggiano contemporaneamente Chanukkà e Natale e Dacia Maraini se ne esce oggi sul Corriere della sera con un articolo classicamente antisemita. Offende il popolo del Libro e non fa onore a quei cristiani che in questi anni hanno compiuto un cammino di verità e rispetto!"

(Bet Magazine Mosaico, 24 dicembre 2019)


E’ difficile raccogliere in poche righe una tale quantità di banali luoghi comuni come è riuscita a fare Dacia Maraini nell’articolo indicato. E’ la spocchia con cui certi intellettuali laici si “abbassano” a parlare con supponenza di cose “religiose” senza accorgersi di mettere semplicemente in mostra la loro sostanziale ignoranza. Rendiamo noto il contenuto dell’articolo in questione senza inserirlo fra gli articoli delle nostre pagine. Non ne vale la pena, neppure per contrastarlo. M.C.


Pizzarotti in Israele apre la strada al Made in ltaly

Nel Paese in lizza anche Sicim, Gualini e Rina. Il nodo dei concorrenti cinesi sovvenzionati dallo Stato.

di Fabiana Magrì

 
TEL AVIV - Dieci anni fa Israele non era ancora sulla mappa del business di Pizzarotti. Poi un invito, da parte dell'omologa israeliana Shapir, a partecipare al progetto della linea ferroviaria ad alta velocità tra Tel Aviv e Gerusalemme ha aperto un nuovo canale che oggi vale all'impresa di Parma contratti per centinaia di milioni di euro. Dieci anni dopo la Tav israeliana è stata completata e sabato sera partirà il primo treno che collegherà le due città in 34 minuti. I tunnel sotto le colline di Gerusalemme, nel tratto Sha'ar HaGai-Mevasseret Zion, sono espressione del know-how italiano di Pizzarotti.

 Commesse in serie
  E in Israele l'azienda di Parma continua a portare a casa una commessa dopo l'altra. Sono appena partiti i lavori, per 200 milioni di euro, sulla Road 16, il nuovo ingresso autostradale a Gerusalemme. Dopo i tre anni necessari alla costruzione di tunnel, svincoli, viadotti, sottopassaggi pedonali e impianti vari, Pizzarotti resterà concessionario del progetto per altri 22 anni. Contemporaneamente si sono conclusi i lavori per l'estensione verso Nord dell'autostrada Road 6, un lavoro da 600 milioni di euro per la progettazione e realizzazione di 20 km di autostrada a 3 corsie per doppio senso di marcia con, anche in questo caso, svincoli, gallerie, viadotti, impiantistica e sistemi di controllo del traffico e di pedaggio di tipo "Free Flow'', cioè senza caselli.
  Al fianco di Pizzarotti ci sono ancora gli israeliani di Shapir. «Non solo - commentano dall'Italia - abbiamo trovato un partner locale serio e competente ma entrambe le aziende condividono una storia d'imprenditorialità nata all'interno di un nucleo familiare».

 Partner locali
  Shapir Engineering, una delle più grandi società di costruzioni di Israele, è stata fondata nel 1968 dai quattro fratelli (Israel, Harel, Gile Chen) Shapiro. Ben prima, nel 1910, Gino Pizzarotti avviò un'impresa individuale che è cresciuta in famiglia fino a diventare nel 1961 società per azioni. Oggi Pizzarotti, con un fatturato annuo di 1,5 miliardi di euro, è la seconda azienda italiana dopo Salini nel settore costruzioni. Gli ordini e le concessioni sono per metà in Italia ma se l'impresa è diventata leader internazionale nella realizzazione di grandi infrastrutture è anche grazie alla sua presenza in più di 20 Paesi in tutto il mondo. Ed è proprio all'estero che, in termini di prospettiva, è principalmente proiettato il futuro dell'azienda di Parma, Medio Oriente compreso. «Lavoriamo da diversi anni in Israele- sottolinea il vicepresidente Michele Pizzarotti - e da sempre con grande soddisfazione. Si tratta di un Paese estremamente dinamico la cui macchina amministrativa, a supporto di chi fa impresa in un settore complesso come le infrastrutture, si è sempre dimostrata efficiente e competente. Continueremo a monitorare con interesse gli sviluppi del settore in Israele ma anche nelle aree più disagiate del Medio Oriente per cogliere nuove opportunità d'intervento e contribuire a una crescita sostenibile per le popolazioni locali».
  Si attendono allora nuove gare per progetti ferroviari a Haifa, per la metropolitana di Tel Aviv e per un nuovo lotto di tunnel a Gerusalemme. Dei sessanta dipendenti di Pizzarotti in Israele - ma presto se ne aggiungeranno altri venti, molti sono italiani, in particolare lo staff di governo per la costruzione di gallerie, che è l'expertise di Pizzarotti.

 Spazio per crescere
  Sono ancora poche le aziende italiane che si sono affacciate sul mercato israeliano, almeno nel settore infrastrutture. Sicim di Parma, Gualini di Bergamo (che ha realizzato le facciate per il nuovo aeroporto internazionale di Eilat nel deserto del Negev a pochi chilometri dalla costa del Mar Rosso) e D'Appolonia del gruppo Rina (che offre consulenza tecnica alla costruzione della metropolitana di Tel Aviv).
  «E la Cina il vero concorrente non bilanciato - spiega Pizzarotti - perché gli ingenti supporti finanziari statali e la grande quantità di manodopera li rendono competitivi a livelli non sostenibili, e non solo in Israele». Aziende cinesi hanno costruito in passato il tunnel sotto il Monte Carmelo e sotto la città di Haifa. E si sono da poco aggiudicati due lotti per la metropolitana di Tel Aviv. Oggi stanno acquisendo la tecnologia ferroviaria e sono pronti ad aggredire anche questo settore.

(La Stampa, 23 dicembre 2019)


Crimini di guerra: il castello di menzogne su Israele spiegato bene

Il castello di menzogne contro Israele sui presunti "crimini di guerra" smontato punto per punto

di Maurizia De Groot Vos

Quando venerdì scorso il Tribunale Penale Internazionale (ICC/TPI) ha annunciato l'avvio di una inchiesta per crimini di guerra contro Israele, sin da subito la stampa internazionale e ogni movimento antisemita della terra ha esultato.
   Amnesty International è arrivata a scrivere che «la decisione odierna del procuratore della Corte penale internazionale è un passo storico verso la giustizia dopo decenni di crimini di guerra e altri crimini di diritto internazionale commessi nei territori palestinesi occupati (da Israele n.d.r.)».
   In realtà il Tribunale Penale Internazionale non ha aperto alcuna inchiesta, non ancora, ma ha dichiarato di avere elementi per poterla aprire e ha delegato tre giudici della Corte (Péter Kovàcs, ungherese, Marc Perrin de Brichambaut, francese, e Reine Adélaìde Sophie Alapini-Gansou, del Benin) di valutare se il Tribunale Penale Internazionale ha giurisdizione per poterlo fare.
   Il problema della giurisdizione non è secondario. La Palestina non è uno Stato e anche se ha aderito allo Statuto di Roma tecnicamente non può rivolgersi al Tribunale Penale Internazionale per avanzare accuse contro un altro Stato come Israele che, per di più, non ha aderito al TPI e quindi nemmeno lo riconosce.
   Ma non è nemmeno questo il punto focale sulla giurisdizione del TPI su Israele. Il vero punto lo spiega bene un parere legale pubblicato dal Procuratore Generale di Israele, Avichai Mandelblit, il quale in 34 pagine spiega con dovizia di particolari perché il TPI non ha alcuna giurisdizione né su Israele né sulla cosiddetta "Palestina".
   Tra le altre cose il Procuratore Generale di Israele spiega che «anche nel caso in cui lo Statuto di Roma dovesse essere male interpretato in modo da consentire alle entità non sovrane di conferire giurisdizione alla Corte, gli accordi israelo-palestinesi esistenti chiariscono che i palestinesi non hanno giurisdizione penale né di diritto né di fatto sull'area C, Gerusalemme e sui cittadini israeliani - e quindi non possono validamente delegare tale giurisdizione alla Corte».
   In sostanza è proprio lo Statuto di Roma ha stabilire che l'assenza di uno Stato sovrano palestinese interdice la Corte ad esercitare giurisdizione su quei territori indicati nell'annuncio emesso dal Tribunale Penale Internazionale, che per altro sono soggetti ad accordi riconosciuti internazionalmente i quali indicano espressamente che qualsiasi contenzioso tra le parti deve essere risolto attraverso negoziati diretti.
   Le organizzazioni internazionali, tra le quali il Movimento BDS, Amnesty International e altre, affermano che l'adesione della cosiddetta "Palestina" allo Statuto di Roma nei fatti sarebbe un vero e proprio riconoscimento e che quindi i palestinesi hanno ogni Diritto a chiedere l'intervento del Tribunale Penale Internazionale.
   È un'altra bugia. Proprio lo Statuto di Roma prevede che la Corte abbia giurisdizione sul "territorio di…" ovvero su uno Stato riconosciuto e con confini ben definiti. La cosiddetta "Palestina" non soddisfa nessuno di questi requisiti.
   Il Procuratore Generale di Israele spiega ancora che «se il Tribunale Penale Internazionale conducesse una solida valutazione della documentazione legale e fattuale, la sua inevitabile conclusione dovrebbe essere che uno Stato sovrano palestinese non esiste e che quindi il presupposto per una sua giurisdizione su quei territori verrebbe a mancare ai sensi del Diritto Internazionale».
   C'è poi un altro punto importante da valutare. Sempre secondo lo Statuto di Roma la Corte Penale Internazionale può avviare un procedimento solo se il governo di un paese non riesce a indagare adeguatamente sulle accuse ad esso rivolete. Non è il caso di Israele, una democrazia perfettamente in grado di mettere sotto accusa e giudicare i propri militari e politici nel caso compiano qualsivoglia reato, compreso quello di crimini di guerra. Gli israeliani lo hanno già ampiamente dimostrato in passato.
   Fino a qui la "parte legale" che smonta il castello di menzogne messo in piedi da odiatori seriali e media in cerca di visibilità. Ora parliamo tranquillamente delle accuse rivolte a Israele.
   Secondo il Tribunale Penale Internazionale l'IDF avrebbe commesso crimini di guerra a Gaza e in Giudea e Samaria. Nel primo caso i militari israeliani sono accusati di aver "deliberatamente ucciso civili palestinesi", di "aver colpito ambulanze" e altre accuse, nel secondo caso invece l'accusa è quella di aver "deportato" la popolazione araba per costruire insediamenti il che, secondo il Diritto Internazionale, sarebbe un crimine di guerra in quanto Israele è considerato "potenza occupante".
   Ora, nel caso di Gaza l'accusa è inventata di sana pianta. L'esercito israeliano è riconosciuto dai più alti livelli militari mondiali come il più "eticamente corretto", quello cioè che più di tutti tra gli eserciti regolamentari mette in primo piano la salvezza dei civili. Ma la cosa diventa difficile da fare se i terroristi palestinesi usano i civili come scudi umani o se posizionano le loro basi sotto gli ospedali, se posizionano le batterie di missili in mezzo alle case o se, ancora, trasportano uomini armati e armi all'interno di ambulanze.
   L'uccisione accidentale di civili da parte israeliana è quindi la conseguenza di una deliberata strategia portata avanti in maniera conscia dai terroristi palestinesi e non di una deliberata decisione dei vertici militari o politici israeliani.
   Per quanto riguarda invece la "deportazione" di popolazione araba per costruire insediamenti è davvero una balla colossale. Nessun cittadino arabo è stato forzato a lasciare la propria terra per costruire insediamenti che invece sono costruiti in zone non abitate e spesso aride, non adatte nemmeno alla pastorizia. Se poi gli israeliani sono bravi nel trasformare il deserto in verdi oasi non è certo un crimine.
   Concludendo, si mettano il cuore in pace i giudici strumentalizzati e gli odiatori seriali. Nessuno può accusare Israele di crimini di guerra, sia dal lato del Diritto Internazionale che da quello dei fatti oggettivi. Basta solo informarsi un pochino in maniera oggettiva.

(Rights Reporters, 23 dicembre 2019)


Un istituto delle Nazioni Unite tiene vivo lo scontro con Israele

L'agenzia Onu per i palestinesi perpetua il conflitto arabo-israeliano. Anziché consentire l'integrazione dei palestinesi nei paesi dove risiedono, ne fa eterni profughi.

Scrive Yedioth Ahronoth (15/12)

                        Per rifugiati normali                                         Per rifugiati speciali (palestinesi)
L'Autorità palestinese e Hamas hanno festeggiato, venerdì scorso, e ne avevano ben donde. Quel giorno le Nazioni Unite hanno deciso di prorogare per altri tre anni il mandato dell'Unrwa, l'agenzia per profughi palestinesi". Così scrive Ben Dror Yemini.
   "La decisione non è passata con una maggioranza ristretta. Tutt'altro: ha ricevuto il sostegno praticamente unanime dell'Assemblea generale, con 169 paesi che hanno votato a favore, nove astenuti e solo due (Israele e Stati Uniti) contrari. Ma questo voto, ad un esame attento, appare più che altro una vittoria di Pirro.
   L'Unrwa venne creata settant'anni fa, nel dicembre del 1949, solo cinque giorni dopo la creazione dell'Alto commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr). Al momento della sua fondazione, in base alla sua stessa definizione di "profugo palestinese" l'Unrwa prese in carico 711.000 rifugiati. Oggi, a seguito di quella definizione e di alcune modifiche ad essa apportate per includere tutti i discendenti di quei rifugiati, i profughi palestinesi in carico all'Unrwa sono circa 5,5 milioni. Come mai c'era bisogno di un'agenzia apposita (distinta da quella che si occupa di tutti gli altri profughi del mondo)? Perché a quell'epoca la dirigenza araba voleva solo una cosa: sfruttare la condizione dei profughi come un'arma per combattere l'esistenza di Israele. E chi pagò e continua a pagare il prezzo per quella scelta? I profughi, naturalmente, la cui condizione è diventata una ferita eternamente aperta.
   Gli enormi budget che la comunità internazionale ha riversato per decenni all'Unrwa sarebbero bastati per dare a ogni famiglia di profughi una dimora più che dignitosa e fondare infrastrutture e imprese economiche che permettessero loro di ricostruirsi una vita, e di migliorarla generazione dopo generazione.
   Più di 60 milioni di persone dovettero fuggire o vennero cacciate dalle loro case durante la prima metà del XX secolo a causa dei conflitti, delle loro conseguenze e della fondazione di nuovi stati nazionali. Il trasferimento e lo scambio di popolazioni era purtroppo una consuetudine. Ci fu anche una "nakba ebraica" (nakba è il termine usato dai palestinesi per indicare la "catastrofe" del loro esodo a seguito alla nascita d'Israele nel 1948 e della guerra che dovette combattere per difendersi dall'aggressione degli stati arabi). Circa 850.000 ebrei se ne andarono o furono espulsi dai paesi arabi, mentre tutti i loro beni venivano confiscati. Nessuno di loro, men che meno i loro discendenti, sono oggi considerati profughi a titolo ufficiale. Solo ai profughi arabi palestinesi viene assegnato questo titolo. L'unica istituzione che diffonde e perpetua questa idea di un "diritto al ritorno palestinese" è l'Unrwa, un diritto che non compare in nessuna legge internazionale.
   Non ci sono 5,5 milioni di rifugiati palestinesi, è una bufala. Il Libano, ad esempio, afferma che complessivamente vi sono solo 475.000 profughi palestinesi. Un censimento condotto nel 2017 ha rilevato che, all'interno del Libano, si contano solo 174,00 profughi palestinesi, e tutti loro patiscono ciò che a buon diritto potrebbe essere descritto come un regime di apartheid (negazione della cittadinanza e segregazione civile e politica, ndr). La Giordania ha invece riconosciuto loro la cittadinanza, un fatto che di per sé dovrebbe cancellare lo status di "profugo". Ma continua a sussistere una definizione generale per la gran parte dei profughi al mondo, e una definizione speciale valida solo per i profughi arabi palestinesi.
   La soluzione alla questione dei profughi palestinesi dovrebbe essere la stessa prevista per tutti: riabilitazione e superamento dello status di profugo. Per farlo, non è necessario smantellare immediatamente l'Unrwa. Quello che occorre è un piano di tre-cinque anni che garantisca la cittadinanza ai palestinesi nei paesi dove vivono, e un budget destinato a promuovere la loro integrazione. Quelli di loro che resteranno veri profughi, quale che sia la loro effettiva quantità, saranno presi in carico direttamente dall'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati.
   Persino Facebook ha deciso di donare soldi all'Unrwa. Qualcuno dovrebbe spiegare a Mark Zuckerberg che nelle scuole dell'Unrwa si insegna l'antisemitismo, cioè che quei soldi vanno ad alimentare l'odio anziché il benessere.
   La decisione delle Nazioni Unite di prorogare per l'ennesima volta il mandato dell'Unrwa così com'è è una decisione a favore della conflittualità, volta soltanto a riverire la sofferenza e lo scontro. Non è questo il modo per risolvere le sofferenze dei profughi".

(Il Foglio, 23 dicembre 2019)


A Cagliari al via il Chanukkah ebraico. La prima candela illumina la fratellanza

di Gianmarco Cossu

 
 
 
A Cagliari al via la festa del Chanukkah e la comunità ebraica cittadina accende il primo lume del candelabro, in ricordo del miracolo degli otto giorni riportato nel testo sacro
  A Cagliari al via la festa del Chanukkah e nel giorno del solstizio di inverno la comunità ebraica cittadina accende il primo lume del candelabro a nove braccia, in ricordo del miracolo degli otto giorni riportato nel testo sacro. Una festività molto sentita, che i fedeli di Israele celebreranno con grande spirito di gioia e amicizia tra le mura dello storico quartiere di Castello, presso l'Associazione Chenàbura di via Lamarmora. Otto giorni, per l'appunto, a commemorare la fine dell'oppressione e l'inizio di un cammino di luce.

 Il Chanukkah, il miracolo degli otto giorni
  La storia racconta che, dopo la riconquista del Tempio di Gerusalemme dal tallone ellenico, nel II secolo a.C., la menorah, quella lampada a olio così caratteristica della religione, dovesse essere illuminata permanentemente con olio di oliva puro. Ma di questo se ne trovò solamente una quantità sufficiente per una giornata. Ecco allora che per miracolo quel poco olio durò ben otto giorni. Il tempo necessario per produrne altro. Dall'episodio deriva l'usanza dell'accensione del candelabro a nove braccia chanukkiyah. Una candela al dì, da sinistra verso destra, con quella centrale sempre accesa.

 Tra le mura di Castello il Chanukkah
  La comunità ebraica sarda e cagliaritana sceglie, ancora una volta, il quartiere di Castello come teatro di celebrazione di una delle sue feste più sentite. « È il quarto anno che lo facciamo qui - spiega Sergio Caschili dell'Associazione di via Lamarmora - e dopo 500 anni che non si festeggiava. Siamo stati al Bastione di Santa Croce e al Ghetto degli Ebrei, questo è il secondo anno di fila qui, nella vecchia Juderia».

 I bomboloni fritti, il "gusto" della festa
  Dolce tipico della festa è il sufganiyah, un bombolone fritto, alla crema o al cioccolato, che si gusta tutti insieme in lieta compagnia. Una gioia per il palato di tanti, di sicuro, ma non frutto della casualità, come spiega Caschili: «Il fritto dell'olio ricorda quello consacrato che ha tenuto accesa la luce del Tempio».

 Per gli ebrei la Sardegna terra ospitale
  Ma non sono solamente sardi gli ebrei presenti nella sede dell'associazione castellana per salutare il Chanukkah. Diversi, infatti, sono arrivati dallo stato di Israele, trovando in Sardegna un clima ospitale. «Questa è un'Isola felice - è il commento di Sergio Caschili - e a Cagliari non c'è mai stato alcun episodio razzista nei nostri confronti». È d'accordo anche Judy, che dal Medio Oriente è arrivata sino a qui, trovando una terra amichevole; o Sapir, 28 anni, sposata con un sardo e che ora vive in Ogliastra. E ancora, Costanza è rumena cristiana, ma sposata con un ebreo di Israele: «Spesso le persone sono prevenute e non vogliono conoscere altre culture - racconta, stella di Davide appesa al collo con orgoglio - ma spesso si scoprono tanti legami che non ci si immaginava prima».

 Chanukkah, lo spirito della condivisione e della fratellanza
  Ciò che rende ancora più bello e affascinante il Chanukkah è infatti lo spirito di fratellanza e condivisione. Nella piccola sede di via Lamarmora infatti sono invitati graditi tutti, anche i non ebrei «Il miracolo della candela rappresenta la salvezza del monoteismo - spiega - e di conseguenza di cristianesimo e islam. Oggi non ci sono ma più avanti non mancherà occasione di invitare i musulmani. Sono tanti infatti punti di contatto con loro».

(Vistanet.it, 23 dicembre 2019)


Gerusalemme, scoperta la strada di Gesù

Dopo anni di scavi gli archeologi israeliani hanno svelato il tracciato romano e rinvenuto reperti che confermano i Vangeli.

di Marco Perisse

Gli archeologi hanno ormai individuato la strada che Gesù percorreva oltre 2.000 anni fa a Gerusalemme per andare al Tempio e sono certi che fu costruita in quegli anni da Ponzio Pilato. Si tratta di un importante risultato scientifico la cui storia ha preso il via nel 2004, quando gli operai che riparavano una condotta idrica si imbatterono nella Piscina di Siloe. Gli scavi hanno negli anni rivelato la corrispondenza dei ritrovamenti archeologici con i riferimenti evangelici. Secondo il Vangelo di Giovanni 9,1-41, Gesù compì nella Piscina il suo secondo miracolo quando guarì il cieco nato. Da quell'iniziale e fortuito rinvenimento, appena fuori della Città Vecchia su quello che oggi è il Monte del Tempio, si sono susseguite altre scoperte a cominciare dalla scalinata che conduceva al Tempio e quindi la strada che Gesù percorse molte volte, secondo le Scritture, nella sua breve vita e l'ultima volta alla vigilia della Passione.
La Piscina - alimentata grazie al tunnel che trasportava l'acqua della sorgente di Gihon dentro la Gerusalemme di Davide - era il punto dove i pellegrini si purificavano prima di salire le scale anche se oggi, come in tutte le città di antica fondazione, le parti più antiche si trovano sottoterra dal momento che le stratificazioni successive le hanno coperte. Sistemato lo scavo dei gradini, dallo scorso luglio anche i turisti possono percorrere un tratto della scalinata su cui Gesù dovette salire nelle sue visite al Tempio come pure altri personaggi biblici. Con la scala, è venuto alla luce tramite una galleria il tracciato associato alla strada del Pellegrinaggio. Col completamento degli scavi un paio di mesi fa, è ormai svelata l'intera strada, lastricata come usavano i romani e lunga circa mezzo chilometro. Gli archeologi israeliani hanno analizzato il tracciato scavato integralmente dalla Piscina al Tempio, che lambisce le pendici del Monte degli Ulivi e i giardini Getsemani piegando poi verso l'ingresso del Tempio. È dunque molto probabile che sia la medesima percorsa da Gesù anche nella sua ultima Pasqua quando tutti gli evangelisti riferiscono dell'ingresso a Gerusalemme (episodio ripreso dalla liturgia cristiana nella Domenica delle Palme, un motivo ricorrente pure nelle iconografie artistiche) arrivando proprio dai Getsemani. In quella zona erano anche i caseggiati dove si svolse l'Ultima Cena.
   A conferma che la strada risale all'epoca di Gesù, il ritrovamento di monete sotto il basolato che riportano l'effigie di Ponzio Pilato, ovvero del governatore romano della Giudea nel periodo compreso circa tra il 17 e il 31 dopo Cristo, noto nei Vangeli per il ruolo di essersene lavato le mani della sorte di Gesù. Diversi storici erano convinti che fosse stato il re Erode, insediato dai romani, ad eseguire i progetti di risistemazione urbanistica dell'epoca. Ma il ritrovamento delle monete coniate attorno all'anno 31, coincidente con l'epoca della predicazione di Cristo, ha suggerito che fossero stati proprio i romani a costruire la strada poiché le più comuni a Gerusalemme furono coniate dieci anni dopo: non averle trovate significa l'opera fu completata prima del loro conio. Per arrivare al livello stradale dell'epoca di Gesù gli archeologi nel corso di anni di campagne di scavi hanno attraversato strati di macerie del Tempio di Gerusalemme che, come è noto, fu poi distrutto nel 70 d.C. dopo un lungo assedio dai legionari romani guidati da Tito Flavio Vespasiano, il futuro imperatore Tito, nel corso della prima guerra giudaica. Reperti rinvenuti nella stratificazione (parti di armi, macerie, legnami bruciati) testimoniano anche i drammatici eventi della distruzione del Tempio.

(GQ Italia, 23 dicembre 2019)


Il mondo ha bisogno di luce

CASALE MONFERRATO - Sarà stato il tempo primaverile, sarà stata la presentazione di ben 14 nuove opere d'arte, o forse la voglia di condividere un momento di speranza universale, ma mai i festeggiamenti di Chanukkah a Casale Monferrato hanno visto tanta partecipazione come quest'anno. Difficile stimare quante centinaia di persone sono effettivamente state ospiti della Comunità Ebraica di vicolo Salomone Olper, domenica 22 dicembre, per quella che è ormai una festa cittadina.
  Mons. Francesco Mancinelli, rettore di Crea, intervenuto in rappresentanza del Vescovo di Casale Gianni Sacchi, ricorda come circa 30 anni fa si ebbe l'idea insieme ad Adriana Ottolenghi di introdurre a Casale questo momento di preghiera condiviso, come si faceva già dagli anni 70 nel campo grande del Ghetto della sua natia Venezia.
  Addirittura la prima lampada della Chanukkah casalese venne eretta in piazza Mazzini. Da allora è stato un momento imprescindibile nelle festività della città e l'ecumenismo religioso si è allargato ai rappresentanti di tante fedi diverse. Poi la festa è diventata una straordinaria occasione di confronto con l'arte. La chanukkia la lampada ad otto braccia che si accende durante la festa è infatti la protagonista del "Museo dei lumi" una collezione unica al mondo di questi oggetti realizzati dai più grandi artisti internazionali e casalesi: oltre 250 pezzi ospitati a rotazione nei locali sotto il complesso museale di vicolo Salomone Olper o in giro per il mondo. Così ogni festa di Chanukkah a Casale diventa l'occasione per introdurre nuovi elementi della collezione
  Domenica a partire dalle ore 16,30 sono stati in molti a spiegare le peculiarità della Chanukkah Casalese a cominciare da Elio Carmi vicepresidente della Comunità che ha portato i saluti del presidente Giorgio Ottolengh (96 anni, ndr)i, ma anche Pietro Gabei presidente della Fondazione Arte, Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale - ONLUS a cui fa capo il museo dei lumi e poi ancora Roberto Messina che ha spiegato l'origine della festa e impartito le benedizioni del rito..
  Prima delle tante autorità civili e religiose però è stata la festa dell'arte: 14 le nuove opere in esposizione per altrettanti artisti ÆNO, Isabella Angelantoni Geiger, Dario Canova, Gea Casolaro con Luca Casolaro, Fabio Castelli, Stefania Dolce, Elena Caterina Doria, Frascella Studio, Carlo Ivaldi, Daniele Belisario Lesti, Gabriele Levy, Marcello Mastro, Alberto Raiteri, Chelita Riojas Zuckermann. Quasi tutti presenti, dalle 16.30 fino alle 17,30 sono stati chiamati in Sala Carmi ad illustrare i loro Chanukkiot. L'idea di una luce che si perpetua e moltiplica ha ispirato opere diversissime per materiali, tecniche e concetti. Perché tutti potessero ammirarle ci sono voluti almeno 4 turni di ingresso in sala.
  Tra gli ospiti anche l'Assessore alla Cultura della Regione Piemonte Vittoria Poggio che ha visitato Sinagoga e Museo "Ho visto opere straordinarie" commenta prima di accendere la "sua" lampada di Chanukkah. Sì perché uno dei momenti che caratterizza la festa a Casale è che le autorità civili e religiose sono chiamate ad accedere una delle tante lampade collocate nel cortile delle Api. Quest'anno un gesto semplice visto che siamo nel primo giorno della festa e quindi, oltre allo Shammash (la fiamma che accende tutte le altre), andava acceso solo uno degli 8 lumi del candelabro Però quest'anno sono in tanti a compiere il gesto, In rappresentanza del comune di Casale Monferrato il vicesindaco Emanuele Capra parla di "Una comunità vanto della città che ci permette di presentarci con orgoglio per il mondo". C'è anche il sindaco di Moncalvo Christian Orecchia che coglie l'occasione di annunciare che il giorno della memoria, il 27 gennaio, saranno posate di fronte alla Sinagoga (piazza Carlo Alberto, ndr) "le pietre di inciampo" in ricordo dei deportati della sua città. Ad accendere le lampade sono stati anche i rappresentanti delle forze dell'ordine: il Commissario di Pubblica Sicurezza di Casale Guido Francia in rappresentanza del Questore di Alessandria, il comandante dei Carabinieri di Casale Salvatore Puglisi, il maresciallo della Guardia di Finanza di Casale Gianluca Mercurio e il presidente dell'ANPI di Casale Gabriele Farello.

(Il Monferrato, 23 dicembre 2019)


Israele darà a cristiani di Gaza i permessi per Natale

Per andare a Gerusalemme e Betlemme, senza distinzione di età

Israele fornirà permessi ai cristiani di Gaza per recarsi a Natale a Gerusalemme e a Betlemme.
Lo ha annunciato stasera il generale Kamil Abu Rukun comandante del Cogat, il coordinamento di governo israeliano dei territori.
"I permessi in entrata per Gerusalemme e l'area della Cisgiordania - ha detto Rukun - saranno emessi in accordo con le misure di sicurezza e senza distinzione di età".
La decisione di stasera fa seguito agli appelli dei giorni scorsi delle autorità religiose cristiane affinché Israele concedesse i permessi.

(RaiNews, 22 dicembre 2019)


La Flotta Russa entra nelle acque dell'Iran

Proveniendo da mar arabico, la flotta russa è entrata ieri nelle acque dell'Iran, come ha informato il servizio stampa del comando navale russo.

Varie unità navali russe continuano la loro missione nel porto di Chabahar, in Iran.
La flotta russa del mar Baltico aveva abbandonato le sue basi il 1odi Ottobre salpando in direzione dell'Oceano Indiano. La flotta include la fregata lanciamissili Yaroslav Mudri, il rimorchiatore Victor Konetski e la nave petroliera Yelnia.
   Al principio di dicembre, il comandante della marina iraniana, Hossein Janzadi, aveva annunciato che il 27 di questo mese le unità navali iraniane parteciperanno ad esercitazioni congiunte nel nord dell'Oceano Indiano con la unità navali russe e con quelle della Cina. Le esercitazioni dureranno fino all'inizio del 2020.
   Nello stesso periodo le unità navali della NATO, con gli USA in testa, moltiplicano le loro esercitazioni navali, da un lato nelle acque vicine alla Russia e dall'altro Washington intensifica le sue attività di provocazione di fronte alla Cina nel mare cinese meridionale.
   Le esercitazioni congiunte fra Iran, Russia e Cina lanciano un messaggio molto chiaro agli USA ed a Israele, visto che questi paesi stanno minacciando l'Iran con sanzioni, strangolamento economico ed possibili azioni militari preventive.
   Il messaggio risulta evidente: l'Iran, in caso di aggressione, non sarà lasciato solo. D'altra parte già da tempo gli analisti militari avevano notato una forte intensificazione della cooperazione militare fra Russia e Iran a cui si era aggiunta la Repubblica Popolare Cinese che sta progettando grandi investimenti all'interno dell'Iran per la realizzazione della Belton Road Initiative.

(Confroinformazione, 22 dicembre 2019)


Natale di guerra nelle Ardenne

Accadde in Germania, la sera di Natale del 1944. Una straordinaria testimonianza.

di Fritz Vincken (1932-2001)

Fritz Vincken - 1940
La sera di Natale del 1944, nel mezzo della battaglia delle Ardenne, mia madre ed io ricevemmo una visita inattesa.
  Quando, in quella lontana sera, bussarono alla porta, mia madre ed io non potevamo immaginare quello che sarebbe avvenuto.
  A quel tempo avevo dodici anni e vivevo con mia madre in una piccola casa nelle Ardenne vicino al confine belga-tedesco. Prima della guerra mio padre aveva usato quella casetta per andare a caccia nei fine settimana.
  Poi, quando i bombardamenti su AAchen, la nostra città, divennero sempre più pesanti, ci fece trasferire lì. Quanto a lui, era stato richiamato per svolgere un servizio nella contraerea di Monschau, una cittadina di confine a sei chilometri di distanza da noi.

 Un posto sicuro?
  "Nei boschi starete al sicuro", mi aveva detto mio padre.
  "Prenditi cura della mamma. Ormai sei un uomo."
  Ma una settimana prima il generale von Runstedt aveva sferrato l'ultima, disperata controffensiva tedesca della guerra, e mentre andavo ad aprire la porta intorno a noi infuriava la battaglia delle Ardenne.
  Quando bussarono, la mamma spense subito le candele. Poi, precedendomi, andò ad aprire la porta. Davanti a lei si stagliarono, sullo sfondo spettrale degli alberi innevati, le figure di due uomini con gli elmetti.
  Uno di loro cominciò a parlare alla mamma in una lingua che non capivamo, indicando un terzo uomo disteso sulla neve. Lei comprese prima di me che si trattava di americani.
  Nemici!
  La mamma era in piedi, con una mano sulla mia spalla, e taceva, incapace di muoversi.
  Gli uomini erano armati e sarebbero potuti entrare con la forza; ma non si muovevano e si limitavano a chiedere con gli occhi.
  Il ferito sembrava più morto che vivo.
  "Entrate", disse infine mia madre. I soldati portarono il loro compagno in casa e lo misero sul mio letto.
  Nessuno di loro parlava tedesco.
  La mamma tentò con il francese, e in questa lingua riuscì in qualche modo a comunicare con uno di loro.
  Prima di occuparsi del ferito, la mamma mi disse:
  "Le dita di quei due sono tutte irrigidite. Levagli la giacca e gli stivali e porta in casa un secchio di neve."
  Poco dopo stavo massaggiando con la neve le dita dei loro piedi, illividite dal freddo.
  Venimmo a sapere che quello di grado inferiore, con i capelli neri, era Jim. Il suo amico, alto e slanciato, si chiamava Robin. Harry, il ferito, adesso dormiva sul mio letto con un viso bianco come la neve che era fuori.
  Avevano perso la loro unità e da tre giorni vagavano nei boschi, sperando di trovare gli americani e cercando di sfuggire ai tedeschi. Non erano rasati, e tuttavia, senza i loro pesanti cappotti, sembravano poco più che ragazzi. E come tali la mamma li trattava.

 Uniformi molto familiari
  "Va' a prendere Hermann" mi disse la mamma, "e porta anche delle patate".
  Questo significava un cambiamento decisivo nel nostro programma di Natale. Hermann era un grosso pollo, chiamato così con riferimento a Hermann Göring, che mia madre non aveva molto in simpatia. Da settimane lo stavamo ingrassando nella speranza che il papà venisse a casa per Natale. Quando, poche ore prima, era diventato chiaro che non sarebbe venuto, la mamma aveva pensato che Hermann poteva rimanere in vita ancora un paio di giorni, nel caso che il papà fosse arrivato per Capodanno. Ma adesso aveva di nuovo cambiato idea: Hermann doveva svolgere un compito urgente.
  Mentre Jim ed io aiutavamo in cucina, Robin si occupava di Harry, che aveva preso una pallottola alla coscia ed era quasi dissanguato. La mamma strappò un lenzuolo e ne fece delle strisce per fasciare la ferita.
  Ben presto l'invitante profumo di pollo arrosto riempì la stanza. Stavo apparecchiando la tavola, quando bussarono di nuovo alla porta.
  Aspettandomi di vedere qualche altro americano smarrito, aprii senza esitazione. Di fuori c'erano quattro uomini in uniforme.
  Le loro uniformi, dopo cinque anni di guerra, mi erano molto familiari: soldati tedeschi.
  I nostri!
  Ero come paralizzato dallo spavento. Nonostante la mia giovane età conoscevo bene la legge: "Chi ospita soldati nemici commette tradimento della Patria".
  Potevamo essere tutti fucilati!
  Anche la mamma aveva paura. Il suo viso era bianco, ma uscì fuori e disse tranquillamente: "Buon Natale!" I soldati risposero: "Buon Natale!"
  "Abbiamo perso la nostra unità e vorremmo aspettare fino allo spuntar del giorno" spiegò il loro capo, un sottufficiale. "Possiamo rimanere da voi?"
  "Naturalmente" rispose la mamma con la calma della disperazione. "Potete anche avere un buon pasto caldo e mangiare fino a che ce n'è".

 In questa santa notte non si uccide!
  I soldati sorrisero, annusando con piacere il profumo che giungeva loro dalla porta semiaperta.
  "Ma" proseguì la mamma energicamente "abbiamo altri tre ospiti che forse voi non considerate proprio come amici."
  La sua voce era diventata improvvisamente severa come mai l'avevo sentita. "Oggi è la sera di Natale e qui non si spara."
  "Chi c'è là dentro?" chiese bruscamente il sottufficiale, "Americani?"
  La mamma li guardò in faccia uno per uno. Erano facce irrigidite dal freddo.
  "State bene a sentire" disse lentamente "voi potreste essere miei figli come quelli che sono là dentro. Uno di loro è ferito e sta lottando per la vita. I suoi due compagni sono smarriti, affamati e stanchi come voi. In questa notte", e alzò la voce rivolgendosi direttamente al sottufficiale, "in questa santa notte non si pensa ad uccidere!"
  Il sottufficiale la fissò. Per due o tre interminabili secondi regnò il silenzio.
  Poi la mamma pose fine all'incertezza. "Basta parlare!" disse, e batté le mani. "Posate le armi là, sulla cesta, e fate presto, se no quelli là dentro mangiano tutto".

 Un'atmosfera un po' tesa
  I quattro soldati posarono storditi le loro armi sulla cesta della legna in corridoio: due pistole, tre carabine, un MG leggero e due lanciarazzi anticarro. Nel frattempo la mamma si mise a parlare frettolosamente in francese con Jim.
  Questi disse qualcosa in inglese e vidi con meraviglia che anche gli americani consegnavano le loro armi alla mamma.
  Quando i tedeschi e gli americani si ritrovarono imbarazzati spalla a spalla nella piccola stanza, la mamma era completamente a suo agio. Sorridendo assegnò ad ognuno il suo posto.
  Avevamo solo tre sedie, ma il letto della mamma era grande. Lì mise a sedere due degli ultimi arrivati, vicino a Jim e a Robin.
  Poi riprese a cucinare, senza fare caso all'atmosfera tesa.
  Nel frattempo però Hermann non era diventato più grande, e adesso avevamo quattro persone in più a tavola.
  "Presto" mi sussurrò "vai a prendere ancora qualche patata e un po' di fiocchi d'avena . I ragazzi hanno fame, e quando lo stomaco brontola si diventa nervosi."

 Un nemico che ha bisogno di cure
  Mentre saccheggiavo la dispensa, udii Harry gemere.
  Tornando nella stanza vidi che un tedesco si era messo gli occhiali e si era chinato a guardare la ferita dell'americano.
  "Lei è un medico?" chiese la mamma. "No" rispose "ma fino a qualche mese fa studiavo medicina a Heidelberg."
  Poi spiegò all'americano, in un inglese che a me parve molto fluido, che la ferita di Harry a causa del freddo non si era infettata.
  "Ha soltanto perso molto sangue" disse alla mamma. "Adesso ha solo bisogno di riposo e di cibo sostanzioso."
  La tensione cominciava ad allentarsi. Adesso che sedevano vicini l'uno all'altro, i soldati apparivano giovani anche a me. Heinz e Willi, tutti e due di Colonia, avevano sedici anni.
  Il sottufficiale, con i suoi ventitré anni, era il più anziano. Tirò fuori dalla bisaccia una bottiglia di vino rosso e Heinz trovò una pagnotta di pane nero che la mamma tagliò a fette.
  Adesso potevamo metterci a tavola. Quanto al vino, però, la mamma ne mise da parte un po'. "Per i feriti", disse.

 Commozione durante la preghiera
  Poi la mamma disse la preghiera.
  Vidi che aveva le lacrime agli occhi quando pronunciò le tradizionali parole: "Komm, Herr Jesus, sei Du unser Gast..." ("Vieni, Signore Gesù, sii Tu nostro ospite...").
  E quando mi guardai intorno vidi che anche gli occhi di quei soldati stanchi della guerra erano umidi.
  Erano tornati bambini, gli uni dall'America, gli altri dalla Germania, e tutti lontani da casa.
  A mezzanotte la mamma si diresse verso la porta e ci invitò ad uscire per andare a vedere la stella di Betlemme. A parte Harry, che dormiva tranquillamente, eravamo tutti in piedi vicino a lei. E in quel momento di pace, mentre guardavamo Sirio, la stella più luminosa nel cielo, a tutti noi la guerra sembrò molto lontana, quasi dimenticata.

 Solidarietà tra nemici
  La nostra privata tregua d'armi continuò anche il giorno dopo.
  Nelle ultime ore della notte Harry si era svegliato, borbottando assonnato, e la mamma gli aveva somministrato un po' di brodo. Allo spuntar del giorno si poteva già vedere che aveva riacquistato un po' di forze.
  Frullando il nostro unico uovo insieme con il resto del vino e un po' di zucchero, la mamma gli preparò una bevanda rinforzante. Noi altri mangiammo dei fiocchi d'avena.
  Poi, con due bastoni e con la migliore tovaglia della mamma, si costruì una barella per Harry.
  Il sottufficiale tedesco mostrò agli americani, chinati sulla carta di Jim, come potevano tornare al loro battaglione.
  In questo stadio della guerra i tedeschi si mostrarono straordinariamente ben informati.
  Il sottufficiale mise il dito su un torrente.
  "Seguite questo" disse. "A Oberlauf troverete il 1o battaglione che adesso si sta ricostituendo".
  Il medico tradusse tutto in inglese.
  "Ma non possiamo passare da Monschau?" chiese Jim.
  "Per amor del cielo, no!" gridò il sottufficiale. "Monschau l'abbiamo ripresa noi."
  La mamma ridiede a tutti le loro armi. "Siate prudenti, ragazzi", disse. "Spero che un giorno potrete tornare tutti dove è giusto che andiate: a casa. Dio vi protegga tutti!"
  I tedeschi e gli americani si diedero la mano, e noi li seguimmo fino a che sparirono in direzioni opposte.
  Quando rientrai a casa vidi che la mamma aveva tirato fuori la vecchia Bibbia di famiglia.
  Guardai sopra le sue spalle.
  Il libro era aperto sul racconto di Natale dove si parla della nascita nella mangiatoia e dei magi che venivano da lontano per portare dei doni.
  Il suo dito scivolò sulle righe: "… e tornarono al loro paese per un'altra via."

(Da "Die Botschaft", dicembre 1999 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



    L'anima mia è attaccata alla polvere
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.
Dal Salmo 119      

    --> Predicazione
 L'anima mia è attaccata alla polvere
Marcello Cicchese
19 luglio 2018


 


I cristiani ancora in esilio perché aiutarono Israele

Crearono il Libero Stato e combatterono l'Olp. Ma dopo il ritiro israeliano divennero reietti

di Marco Valle

Il Libano è una nazione piccola e deliziosa ma tormentata. Vaso di coccio tra i vasi ferro, il Paese dei cedri da decenni rimane sospeso in una parentesi di «non guerra» e «non pace». L'equilibrio, sempre precario, tra comunità e fedi si regge su una serie di compromessi e tanta corruzione. Un buco nero che ha arricchito a dismisura un ceto politico rapace quanto inetto e ha finito per scatenare lo scorso ottobre la rabbia dei pazienti e molto disincantati beirutini provocando le dimissioni del primo ministro Saad Hariri. Si tratta di una protesta di popolo trasversale e multiconfessionale, del tutto inedita per un Paese uscito da una lunga guerra civile e tutt'oggi imperniato su una rigida spartizione dei poteri in base alle confessioni (il presidente deve essere cristiano, il premier sunnita, il capo del Parlamento sciita). Insomma, i massimi responsabili del collasso hanno ricostruito, loro malgrado, una traccia d'identità nazionale.
A fine novembre, per tentare di calmare le piazze il presidente della Camera Nahih Berri, ha proposto una vasta amnistia comprendente gli estremisti sunniti, i narcotrafficanti sciiti e (guarda caso) i «colletti bianchi» implicati nelle frodi fiscali e nel riciclaggio di denaro sporco. Insomma, una sorta di «liberi tutti» con una sola, significativa, eccezione: i reduci dell'Armée du Liban-Sud (ALS), la milizia cristiana fondata da Saad Haddad nel 1976. La questione è spinosa per tutti. Lo scorso 4 settembre è rientrato a Beirut, dopo un lungo esilio negli Stati Uniti, Amer Fakhoury, uno dei comandanti dell'ALS condannato a 15 anni per collaborazionismo con Israele. Appena atterrato l'uomo è stato arrestato e la sua pena è stata subitamente allungata di cinque anni per «crimini contro l'umanità» e a nulla è valso l'appello alla clemenza lanciato dai deputati cristiani della Courant patriotique libre - un cartello sostenuto dalle Forces Libanaise di Samir Geagea e dal Kataéb dei Gemayel - che nel 2011 avevano fatto approvare una legge (mai applicata per il veto di Hezbollah) che prevedeva processi equi per i miliziani che rientravano e assicurava garanzie alle loro famiglie.
   Resta così aperto il pluridecennale nodo dei circa 7500 cristiani libanesi che per vent'anni hanno combattuto sulla frontiera meridionale a fianco d'Israele, prima contro le formazioni palestinesi e poi contro Hezbollah. Costretti, dopo il ritiro di Tsahal nel 2000, ad abbandonare il Libano, gran parte di loro vive da allora nello Stato ebraico che ha concesso a questa piccola tribù di «soldati perduti» e ai loro familiari cittadinanza e passaporti; faticosamente integratisi nel contesto israeliano, gli antichi militari svolgono per lo più attività nella sicurezza privata o si sono riciclati come agricoltori e, con l'aiuto della chiesa maronita di Haifa, cercano di conservare la loro identità, le loro tradizioni senza rinunciare a una malinconica fierezza. Elias Noura, uno dei rappresentanti della comunità, continua a difendere le scelte del passato. «Nella nostra regione non vi sono "traditori". Noi siamo soltanto gente che ha imbracciato le armi per difendere i nostri villaggi. Poi, alla fine della guerra, i vincitori hanno potuto decidere chi era un traditore e chi no, chi poteva parlare e chi doveva tacere».
   Tutto iniziò nel 1975 con lo scoppio della guerra civile e lo smembramento dell'esercito libanese divisosi tra sunniti pro palestinesi (I' Armée du Liban arabe) e cristiani filo occidentali (I' Armée de libération libanaise ); al sud il maggiore greco-cattolico Saad Haddad e il suo battaglione si unirono ai loro correligionari con l'obiettivo di liberare le province meridionali dai fedayn palestinesi: considerati i rapporti di forza uno scontro impari e dall'esito scontato. Per sopravvivere Haddad, personaggio pragmatico e realista, si rivolse allora a Israele, il «nemico storico», che da subito non lesinò aiuti agli imprevisti quanto provvidenziali alleati. La vera svolta arrivò nella notte tra il 14 e il 15 marzo 1978 quando Gerusalemme lanciò un'invasione in piena regola che si fermò a quaranta chilometri sopra la frontiera, sulle rive del fiume Litani. Formata una «zona di sicurezza», gli israeliani ne affidarono il controllo proprio a Haddad che nell'aprile proclamò la creazione dello «Libero Stato del Libano», ribattezzando il suo piccolo esercito, rimpolpato da volontari drusi e sciiti, Armée du Liban-Sud. Nel giugno 1982 i miliziani parteciparono all'ennesima invasione israeliana contro l'OLP di Arafat e arrivarono sino alle porte di Beirut. Una vittoria brevissima. L'assassinio, il 14 settembre, di Bachir Gemayel, presidente della Repubblica e leader del Kataéb, infranse i sogni dei cristiani e privò i «sudisti» di un alleato di peso. Nel 1984, morto Haddad, il comando dell' ALS passò al generale Antoine Lahad; nel 2000 il nuovo ministro israeliano Ehud Barak decise di disimpegnarsi dal Libano meridionale: la fine della milizia e del «Libero Stato».
   Per evitare rappresaglie e vendette, Lahad e i suoi si rifugiarono in Israele e in Francia. Un esilio amaro e senza fine. Considerati in patria «traditori e collaborazionisti» e puntualmente esclusi da ogni possibile amnistia, i più si sono adattati alla loro nuova vita pur continuando, come Noura, a rivendicare il loro patriottismo: «Noi siamo come i curdi abbandonati dagli americani. Abbiamo difeso la nostra terra e avevamo una sola bandiera, la nostra. Israele alla fine ci ha venduto a Hezbollah per i suoi interessi, con il tacito accordo dell'Occidente. Abbiamo pagato il prezzo ma non siamo dei rinnegati».

(Giornale ControStorie, 22 dicembre 2019)


Nuovo accordo di collaborazione con l'Università di Tel Aviv

ROMA - Si aprono nuove opportunità di cooperazione tra le istituzioni israeliane e "Tor Vergata", sia in abito di formazione che di ricerca scientifica.
Il Rettore dell'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata", prof. Orazio Schillaci, ha incontrato S.E. Dror Eydar, Ambasciatore di Israele in Italia.
Nell'occasione è stato controfirmato un nuovo accordo di collaborazione con Tel Aviv University e si è discusso di tematiche scientifiche di comune interesse e di opportunità di cooperazione tra le istituzioni israeliane e "Tor Vergata", sia in abito di formazione (scambio studenti e sviluppo di programmi congiunti) che di ricerca scientifica, con particolare focus sull'intelligenza artificiale, medicina di base, archeologia ed arte, innovazione ed ecosistema.
Piena disponibilità da parte dell'Ambasciata per supportare il rafforzamento delle collaborazioni tra l'Ateneo di "Tor Vergata" e le Università israeliane.

(Tor Vergata, 21 dicembre 2019)



La Corte penale internazionale vuole processare Israele e chiude entrambi gli occhi su Hamas

di Mattia Roncalli

Ieri il procuratore dell'International Criminal Court Fatou Bensouda ha consegnato un documento di oltre 100 pagine con il quale chiede alla Pre-Trial Chamber l'autorizzazione ad aprire un procedimento internazionale per crimini di guerra contro Israele.
   I fatti contestati si riferiscono ovviamente al conflitto israelo-palestinese ed in particolare a tre circostanze: l'operazione "Protective Edge" condotta dall'IDF nella Striscia di Gaza nel 2014, il trasferimento di civili in Cisgiordania e gli avvenimenti legati alle Marce del Ritorno dal 2018 ad oggi lungo il confine con Gaza.
   Nel documento si riprendono le vicende storiche e non si manca di sottolineare più volte lo status di Israele come potenza occupante.
   Occupante non solo della Giudea e Samaria ma anche della Striscia di Gaza, nonostante il ritiro unilaterale del 2005. Questo perché "Israele manterrebbe un effettivo controllo marittimo, aereo e terreste e avrebbe imposto dal 2007 un embargo su tale territorio". Anche se è assolutamente legittimo che Israele voglia controllare accessi ed uscite da un territorio pieno di gente che vorrebbe compiere attentati contro i suoi cittadini. E peccato che anche l'altro confinante, l'Egitto, attui la medesima politica verso Gaza, in quanto non vuole avere a che fare con le organizzazioni terroristiche che dominano la Striscia.
   Formalmente la richiesta dell'apertura del procedimento contro Israele appare quanto meno bizzarra. Il procuratore utilizza la maggior parte del documento per giustificare la correttezza della richiesta, ovvero cercare di dimostrare l'esistenza dello Stato palestinese. Infatti un giudizio presso la ICC può svolgersi solo se almeno uno dei due interessati è stata parte del Trattato della Corte.
   Secondo i parametri del diritto internazionale la Palestina non sarebbe uno Stato, in quanto mancano i requisiti del territorio definito e di una sovranità effettiva sui determinati territori. Per lo Statuto della Corte invece sì, in quanto la Palestina è stato parte dal 2015. Lo stesso procuratore definisce moltissime volte i suddetti come Territori Palestinesi Occupati. Ma come, se sono occupati come fanno ad essere effettivamente amministrati da un Governo sovrano, verrebbe da chiedersi. Un controsenso evidente.
   Il merito della richiesta è ancora più imbarazzante. Una narrazione a senso unico dei crimini dello stato ebraico, senza mai guardare dall'altra parte della barricata. Una sola volta il procuratore sembra accorgersi e dichiara che "anche alcuni atti di Hamas e delle fazioni palestinesi potrebbero essere rilevanti". Potrebbero. Lanciare migliaia di razzi dal 2014 ad oggi contro cittadini del sud di Israele, beffandosi del criterio di distinzione tra civili e obiettivi militari, è derubricabile ad un "probabile crimine di guerra". Invece Israele, secondo l'Onu, dovrebbe lasciare i propri soldati al confine come bersagli mobili senza che essi possano rispondere al lancio di pietre, molotov e bombe. Non dovrebbe agire in risposta al lancio di razzi e forse, verrebbe da pensare, non dovrebbe nemmeno esistere.
   A questo atto sconsiderato della signora Bensouda hanno già risposto il primo ministro israeliano Netanyahu e il ministro degli esteri Katz definendo la richiesta come una mossa solamente politica volta ad attaccare lo Stato ebraico e mossa dall'unico desiderio di dichiarare come crimine di guerra l'esistenza degli ebrei nella loro terra d'origine. L'AG israeliano ha inoltre dichiarato che la Corte penale internazionale non ha nessuna giurisdizione in materia, per le medesime ragioni che ho descritto prima.
   "Israele non è uno stato parte della CPI. Siamo fermamente contrari a questa indagine ingiustificata che prende di mira ingiustamente Israele. Il percorso per una pace duratura è attraverso negoziati diretti", ha commentato il segretario di Stato Usa Mike Pompeo. E l'Unione europea? E l'Italia?

(Atlantico, 21 dicembre 2019



Gas: Leviathan inizierà a produrre il 23 dicembre

Il ministro dell'energia israeliano Yuval Steinitz ha firmato all'inizio di questa settimana i permessi necessari per l'esportazione di gas naturale da Israele all'Egitto.

Dovrebbe essere lunedì 23 dicembre il giorno di avvio di produzione del più grande giacimento di gas naturale d'Israele, il Leviathan. Ad annunciarlo è stato il ministero dell'energia israeliano dopo che un tribunale di Gerusalemme ha revocato un'ingiunzione di stop per problemi di emissioni.

 Ingiunzione di stop revocata
  Secondo quanto riportato da Reuters e dalla stessa azienda che si sta occupando dello sfruttamento del giacimento, la Delek Drilling, il tribunale distrettuale di Gerusalemme aveva concesso un divieto temporaneo di avvio dell'impianto sul campo Leviathan per problemi legati alle emissioni di gas. Questo ha sostanzialmente messo il progetto in stand-by, ma negli ultimi giorno lo stesso tribunale ha revocato l'ingiunzione, motivandola con "l'assenza dei necessari presupposti", ha riferito appunto la Delek Drilling, uno dei partner del progetto. La Corte ha comunque fissato un'ulteriore udienza affinché i firmatari della petizione possano portare prove a sostegno della pericolosità delle emissioni.

 Il ministero dell'energia ha dato il via libera
  Il ministero dell'Energia israeliano ha quindi annunciato l'avvio dello sfruttamento del giacimento gas già per lunedì, aggiungendo che ci saranno limitate emissioni di azoto e di azoto miscelato con il gas, e che il cambiamento nella qualità dell'aria non sarà percettibile.
Un funzionario di Noble Energy, l'altro operatore di Leviathan, aveva dichiarato a inizio di dicembre che il giacimento sarebbe entrato in produzione entro tre settimane e poco dopo sarebbero iniziate le esportazioni verso Egitto e Giordania.

 La scoperta del Leviathan
  Il Leviathan - scoperto nel 2010 - insieme ad altri giacimenti al largo di Israele nell'ultimo decennio come Tamar, Karish e Tanin, dovrebbe aiutare Israele a diventare indipendente dal punto di vista energetico. Israele inizierà presto ad esportare gas naturale verso l'Egitto. I due paesi, che quest'anno celebrano i 40 anni dalla firma del trattato di pace del 1979, hanno fatto significativi passi in avanti nelle loro industrie del gas negli ultimi anni e sono in competizione per diventare il prossimo polo energetico del Mediterraneo orientale.

 Steinitz ha firmato il via libera all'export di gas verso l'Egitto
  Il ministro dell'energia israeliano Yuval Steinitz ha firmato all'inizio di questa settimana i permessi necessari per l'esportazione di gas naturale da Israele all'Egitto. "Israele, per la prima volta nella sua storia, è diventato un esportatore di energia - questa è la più significativa cooperazione economica tra i due paesi da quando è stato firmato il trattato di pace", ha detto Steinitz.

(EnergiaOltre, 21 dicembre 2019)



La Turchia sta diventando il prossimo nemico d'Israele

Il regime Turco sta seguendo le orme di Teheran, considerando Israele un irriducibile nemico.

di Franco Leaf

La Turchia è diventata un membro attivo dell'asse anti-Israeliano guidato dall'Iran — pur mantenendo la sua indipendenza nelle operazioni contro lo Stato Ebraico, visto che ha esteso la collaborazione con Hamas [l'Iran è sciita, Hamas è sunnita].
Dopo essersi scagliato contro Israele (la scorsa settimana, in occasione di una conferenza dell'"Organizzazione per la Cooperazione Islamica"), accusata di "uccidere senza pietà ragazze, padri, madri, anziani, bambini e giovani innocenti per le strade della Palestina", il dittatore turco ha incontrato il leader di Hamas, Ishmail Haniyeh, ed altri funzionari apicali dell'organizzazione terroristica.
Haniyeh, assieme ad altri leader di Hamas (fra i quali l'arciterrorista Saleh al-Arouri, che ha sulla testa una taglia da 5 milioni di dollari), sta attualmente facendo un lungo tour che lo ha portato prima in Turchia e poi in Qatar, Malesia e Pakistan.
Lo scorso fine settimana Erdogan ha incontrato Haniyeh a Istanbul, promettendogli di continuare a "sostenere i nostri fratelli in Palestina".
Questo, nonostante nel 2015 avesse stretto un accordo con Israele, che lo impegnava a reprimere le attività terroristiche di Hamas organizzate sul suolo turco (e dirette contro lo Stato Ebraico).
Il quotidiano britannico The Telegraph ha ottenuto la trascrizione degli interrogatori della polizia israeliana, dove c'è scritto che: "alti agenti di Hamas stanno usando la più grande città della Turchia per dirigere operazioni terroristiche a Gerusalemme e nella Cisgiordania occupata, incluso un tentativo di omicidio effettuato all'inizio di quest'anno contro il Sindaco di Gerusalemme".
Il Telegraph si riferiva all'ex Sindaco di Gerusalemme e attuale Deputato del Likud Nir Barkat, che si era costruito una reputazione da "cacciatore di terroristi" durante il suo mandato di Sindaco.
Erdogan ignora le frequenti richieste d'Israele, volte ad impedire che Hamas usi la Turchia come base per attacchi terroristici contro lo Stato Ebraico.
Egli, infatti, consente al gruppo islamico-sunnita di mantenere una presenza permanente nel suo paese.
Secondo i servizi segreti Egiziani ed Israeliani una dozzina di alti funzionari di Hamas hanno trasferito i loro uffici in Turchia solo nello scorso anno.
Un arabo palestinese di Gaza, ha dichiarato al quotidiano britannico che: "molti leader di Hamas vanno ad Istanbul con le loro famiglie e i loro bambini. Perché i leader di Hamas lasciano Gaza, quando la gente che ci vive non ha né lavoro né servizi?".
In effetti, per coloro che ci restano la situazione è decisamente peggiore.
Nel giugno di quest'anno Suheib Yousef — figlio del leader spirituale di Hamas, Hassan Yousef, e fratello di Musab Yousef, che ha disertato e lavorato per il Servizio d'Intelligence Israeliano Shin Beth — ha denunciato le attività terroristiche di Hamas in Turchia, riferendo di una diffusa corruzione fra gli agenti di Hamas che vivono in quel Paese.
Il cosiddetto "ramo politico" di Hamas, in Turchia, è in realtà un'organizzazione sia d'Intelligence che militare sotto copertura della società civile — ha detto Suheib a Ohad Hemo dell'israeliano "TV Channel 12".
I due si sono incontrati nella Moschea di un paese asiatico, dopo che Suheib ha deciso di lasciare anche Hamas e la Turchia per cercare rifugio in Asia.
Erdogan si considera "patrono unico" degli arabi-palestinesi e Leader dei musulmani sunniti in Medio Oriente.
Negli ultimi mesi ha ripetutamente inveito contro Israele, paragonandola alla Germania nazista, mentre elaborava mosse aggressive che hanno finito per destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente, sollevando dubbi anche sull'adesione della Turchia alla NATO.
La scorsa settimana Erdogan ha firmato un "protocollo d'intesa" (MOU) con il Governo Libico sulle zone marittime del Mediterraneo Orientale, praticamente spartendosele in due.
La mossa ha aggravato le già alte tensioni nella regione e ha suscitato l'ira di Egitto, Israele, Grecia e Cipro.
Dopo aver concluso l'accordo con il Governo Libico — peraltro l'unico riconosciuto dalle Nazioni Unite — Erdogan ha chiarito che non avrebbe permesso ad Israele di costruire un gasdotto verso l'Europa, decisivo per le esportazioni di gas israeliano.
Dopo l'entrata in vigore del "protocollo d'intesa", il Governo Turco ha convocato un Funzionario dell'Ambasciata Israeliana al quale è stato detto che la costruzione del gasdotto richiedeva l'approvazione di Erdogan.
All'inizio di questa settimana una nave della marina turca ha attaccato una nave israeliana che conduceva ricerche su possibili giacimenti di gas nelle acque costiere di Cipro, costringendola a lasciare quella zona nonostante fosse operativa in tandem con le autorità cipriote.
La Turchia occupa illegalmente Cipro Settentrionale e non ha diritti economici nelle acque circostanti Cipro. Il Governo di Nicosia, inoltre, ha firmato un accordo di cooperazione con Israele per la ricerca di ulteriori giacimenti di gas vicino all'isola.
"I turchi stanno cercando di affermarsi come coloro che tirano le fila dello spettacolo, e questo è molto preoccupante" — ha detto anonimamente un Funzionario Israeliano al "TV Channel 12" di Israele.

(MITTDOLCINO.COM, 21 dicembre 2019)


L'ultima vergogna dell'Onu: indaga Israele perché si difende

Il tribunale che sta dalla parte dei terroristi. La corte penale dell'Aja apre un fascicolo per crimini di guerra su richiesta dei palestinesi. Netanyahu si infuria: una decisione priva di basi giuridiche.

di Maurizio Stefanini

La Corte Penale Internazionale dell' Aja ha aperto una inchiesta per "crimini di guerra" nei territori palestinesi. «Sono convinta che vi sia una base ragionevole per avviare un'indagine sulla situazione in Palestina ai sensi dell'articolo 53-1 dello Statuto. In sintesi, sono convinta che crimini di guerra sono stati o vengono commessi in Cisgiordania, in particolare a Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza», ha annunciato la procuratrice capo Fatou Bensouda.
  Immediata e dura la risposta del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, secondo cui questa «decisione senza basi e oltraggiosa» rappresenta «un giorno nero per la verità e la giustizia», che «ignora la storia e la verità quando sostiene che l'atto stesso che gli ebrei vivano nella loro patria ancestrale, la terra della Bibbia, sia un crimine di guerra». «Non rimarremo in silenzio», ha proseguito Netanyahu, ribadendo che «la Palestina non è mai stata uno Stato». Secondo lui «la Corte non ha giurisdizione in questo caso. La Corte ha giurisdizione solo sulle petizioni proposte da stati sovrani. Ma qui non c'è mai stato uno Stato palestinese». Insomma, il Procuratore avrebbe «cambiato la Corte in uno strumento politico per delegittimare lo Stato di Israele. Il Procuratore ha completamente ignorato gli argomenti legali che le abbiamo presentato».

 Partigiani islamici
  La decisione è stata invece accolta con soddisfazione dal ministro degli Esteri del governo dell'Anp come «un passo da lungo tempo atteso».
  Cognome arabo per via del matrimonio con un imprenditore di origine marocchina, Fatou Bensouda si chiama però per nascita Fatou Nyang. Comunque è musulmana, e figlia di un padre poligamo, che faceva l'autista e il manager di wrestling. Lei in Africa è un personaggio abbastanza noto. Laureata in Nigeria, prima gambiana esperta in diritto marittimo internazionale grazie a un master conseguito a Malta, ha lavorato con il Tribunale penale internazionale per il Ruanda, è stata indicata tra le 100 persone più influenti del mondo da Time, tra le 100 donne più importanti dalla Bbc, come quarta persona più influente della società civile africana da Jeune Afrique e anche come Africana dell'anno del 2014 dalla rivista togolese Africa Top Success.
  Però è anche un personaggio contestato. È stata infatti tra 1998 e 2000 ministro della Giustizia di Yahya Jammeh: personaggio che dopo essere andato al potere con un colpo di Stato si fece una fama di dittatore feroce e corrotto, dichiarò il Paese Repubblica Islamica e ci vollero 23 anni prima che fosse sloggiato da una spedizione militare di Paesi della regione, intervenuti in seguito a un'ondata di profughi seguita a un suo ennesimo broglio elettorale. E prima di andarsene, comunque, svuotò le casse dello Stato.

 Senza visto
  Gli Stati Uniti inoltre a aprile le hanno revocato il visto, dopo che lei aveva aperto un esame preliminare su eventuali crimini di guerra commessi dalle truppe statunitensi in Afghanistan. In effetti gli Usa non sono membri della Corte, e un figlio di Fatou è stato ucciso a colpi di arma da fuoco negli Usa nel gennaio del 2017, dopo essere stato incriminato per possesso di armi da fuoco con numeri di serie obliterate e per spaccio di cocaina.

(Libero, 21 dicembre 2019)


Così Israele vuole normalizzare i rapporti con il mondo arabo

di Laura Cianciarelli

L'esistenza dello Stato di Israele è una questione controversa e, ancora oggi, la maggioranza dei Paesi arabi in Nord Africa e Medio Oriente non ne riconosce la legittimità. Negli ultimi anni, tuttavia, qualcosa sta cambiando. Lo Stato ebraico ha infatti rivelato di intrattenere legami riservati con alcuni Paesi del mondo arabo.
  Attualmente, Israele sarebbe in contatto con sei Paesi arabi musulmani - verosimilmente Egitto, Giordania, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita -, con i quali starebbe cercando - secondo quanto dichiarato dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu - di "accelerare la normalizzazione dei rapporti".
  Dietro il processo di avvicinamento, la crescente instabilità regionale. Al generale senso di diffidenza, che contribuisce ad acuire le tensioni tra gli Stati mediorientali, si sono uniti il timore nei confronti dell'Iran, considerato un nemico comune, e la mancanza di una politica condivisa in materia di sicurezza. A spingere i Paesi del Golfo verso Israele, anche la politica di disimpegno adottata dagli Stati Uniti nella regione.
  Recentemente, anche da parte di Israele vi è stato un cambio di postura nei confronti degli Stati arabi. Finora, infatti, i leader israeliani hanno sempre visto nella pace con i palestinesi la chiave per instaurare un legame con il mondo arabo musulmano.Per Netanyahu, invece, l'unico modo per uscire dall'impasse è adottare la strategia inversa: costruire relazioni con i Paesi arabi per dare nuova linfa ai negoziati di pace con il popolo palestinese.

 Diplomazia economica
  Questo cambiamento passa anche dagli interessi economici. All'inizio di dicembre, Israele ha confermato la sua partecipazione all'Expo 2020 che si terrà a Dubai (ottobre 2020 - aprile 2021): un evento storico, se si considera che ufficialmente Israele ed Emirati Arabi Uniti non intrattengono relazioni diplomatiche.
  Negli ultimi anni, le due parti hanno intensificato i contatti, con incontri ai più alti livelli, nuove relazioni commerciali e competizioni sportive (ottobre 2018) fino ad arrivare al permesso di libera circolazione dei turisti israeliani a Dubai, in occasione dell'Expo.
  Sicuramente, un passo importante verso quella "normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi" evocata da Netanyahu, ma anche un primo tentativo di rendere pubbliche le relazioni tra le due parti, che ormai andrebbero ben oltre la questione della sicurezza regionale.

 Il gas naturale
  A legare a doppio filo Israele ai Paesi arabi, vi è anche l'esportazione di gas naturale. Grazie alla prossima entrata in attività (dicembre 2019) del giacimento di Leviathan - scoperto nel 2010 all'interno delle acque territoriali israeliane -, lo Stato ebraico avrà sufficienti risorse non solo per raggiungere l'indipendenza energetica, ma anche per trasformarsi in Paese esportatore di gas naturale.
  Egitto e Giordania - Paesi con i quali è in vigore un Trattato di pace - hanno già sottoscritto alcuni contratti per l'acquisizione di gas israeliano; accordi che potrebbero avere un effetto domino sulle strategie geopolitiche del Mediterraneo orientale.
  Pur esportando già il gas estratto dal giacimento di Tamar verso la Giordania, nel settembre 2016 lo Stato ebraico ha siglato con Amman un accordo del valore di 10 miliardi di dollari, che prevede la fornitura di circa 45 miliardi di metri cubi di gas per 15 anni, non appena il giacimento di Leviathan diverrà pienamente operativo.
  Proprio lunedì scorso (16 dicembre), il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, ha dato luce verde all'esportazione del gas proveniente dai giacimenti di Leviathan e Tamar in Egitto, concludendo "la più importante cooperazione economica tra i due Paesi dal Trattato di pace del 1979, secondo quanto dichiarato da Steinitz stesso.
  Nel febbraio 2018, Israele ha firmato un contratto da 15 miliardi di dollari con l'Egitto per la fornitura di 64 miliardi di metri cubi di gas in un decennio. Lo scorso ottobre, le due parti hanno concordato un incremento della fornitura fino a 85 miliardi di metri cubi di gas, che verranno esportati dai giacimenti di Tamar e Leviathan a partire dal 2020.
  Perfino l'Arabia Saudita sembrerebbe considerare l'ipotesi di acquistare gas naturale da Israele. Le due parti sarebbero in trattativa per costruire un nuovo gasdotto che potrebbe collegare il Regno saudita alla città israeliana di Eliat, sulle rive del mar Rosso. Sul tavolo anche la possibilità per Riad di allacciarsi all'oleodotto israeliano Eilat-Ashkelon, grazie al quale l'Arabia Saudita potrebbe esportare il petrolio in Europa e in altri mercati eludendo lo Stretto di Hormuz, al centro delle tensioni tra Stati Uniti e Iran.
  Non sembra trattarsi di una semplice convergenza di interessi, promossa da Israele e accettata di buon grado da alcuni Paesi arabi; quanto piuttosto di una operazione di diplomazia economica più sofisticata, con obiettivi regionali di medio-lungo periodo.

(Inside Over, 21 dicembre 2019)



L'Onu è illegale

 


Israele, la fabbrica delle serie tv

"Qui le storie sono globali appena nascono''. La tradizione letteraria dell'ebraismo è complice del fenomeno assieme alle condizioni geopolitiche: il conflitto è da sempre ingrediente fondamentale della drammaturgia. Nel Paese è più facile produrre e costa meno che altrove.

di Ariela Piatielli

TEL AVIV - Sulla lavagna della sala riunioni c'è scritto «Buongiorno. Guardiamo lontano», e attorno un collage di parole, con nomi di persone, e frecce che si rincorrono. Siamo a Tel Aviv, negli uffici di Keshet, il principale Media Group d'Israele, che nel produrre format si posiziona tra i primi 10 al mondo. Qui sono nate molte serie tv, da Hostages, When Heroes Fly, a Hatufim, poi diventata Homeland negli Stati Uniti e altrove. Mentre sullo schermo scorrono le immagini della versione di Hostages per l'India, per cui anche l'emittente Yes sta preparando il remake di Fauda, cerchiamo di capire il «miracolo» delle serie tv israeliane e il loro slancio internazionale.
  Sono passati 15 anni da quando lo sceneggiatore Hagai Levi ebbe l'idea di mettere in una stanza due sedie e due attori per In Treatment, trasmessa dall'emittente locale HOT e poi adattata in decine di Paesi, dando il via al successo globale della serie tv «made in Israel», «Nei miei progetti cerco di abbattere pregiudizi, e con In Treatment volevo sfatare alcuni miti sulla terapia psicoanalitica», ci spiega Levi, che quest'anno ha fatto per HBO Our Boys, una miniserie sulla storia del rapimento e l'uccisione di tre ragazzi israeliani e uno palestinese: «Quello che succede in Israele è sempre eccezionale. Ma il crimine di odio, come quello in Our Boys, succede ovunque: quindi la storia è universale», conclude Hagai.
  «Qui c'è gente che arriva da tutto il mondo, e l'obiettivo è produrre format che piacciano a tutti - spiega Kelly Wright che per Keshet è vice presidente alla distribuzione internazionale -. Il nostro pubblico è composto da varie identità culturali. Ciò fa sì che le serie siano di per sé già internazionali. Le storie sono globali appena nascono».
  Adesso negli Stati Uniti ci sono due grandi compagnie che vogliono riadattare When Heroes Fly: «Ebbi io l'idea di realizzarla - racconta Karni Ziv, ai vertici delle serie tv per l'emittente - , ho letto un libro, l'ho dato allo sceneggiatore Omri Givon, che è tornato da me dopo due settimane convinto di scriverla. La serie parla anche della guerra in Libano, ed Omri l'ha fatta da soldato, forse ha voluto scriverla anche per questo. Gli sceneggiatori israeliani hanno talento, scrivono storie personali, che hanno a che fare con loro stessi e con la società, ma noi qui facciamo televisione, quindi è importante che scrivano con una grammatica televisiva».

 Location di ogni tipo
  In questi giorni l'emittente HOT sta trasmettendo la nuovissima L 'Attaché, che inizia a Parigi durante l'attentato del Bataclan, basata sulla vera storia dello sceneggiatore e regista Eli Ben David, e negli United Studios di Herzliya si girano i nuovi episodi di Taagad, la storia di giovani soldati, in Israele andata in onda su Yes e di cui la Paramount ha già pronto un remake per gli Usa. «Israele è da molto tempo un'isola felice della serialità», commenta lo sceneggiatore Stefano Sardo, che ha scritto tra gli altri 1994 e l'adattamento di In Treatment per l'Italia. Lui è a Tel Aviv come mentore per un progetto di coproduzione Israele-Francia. «La grande tradizione letteraria dell'ebraismo è complice del fenomeno della serie israeliane-continua-, ma c'è anche il fatto che per le condizioni geopolitiche e socioculturali, è molto presente la dimensione del conflitto, ingrediente fondamentale della drammaturgia».
  Sulla strada per Gerusalemme, ci fermiamo a Beit Jimal, nota come la «Toscana d'Israele», dove si fa l'olio e si gira Palmach, una serie per ragazzi ambientata nel 1946: un gruppo di teenager ebrei lotta per la libertà, e si prepara nella Palestina del mandato britannico a dare filo da torcere agli inglesi; una storia di fantasia interpretata da ragazzini che si mescola a personaggi del calibro di Rabin, Begin e Shamir. «Ci sono ragioni oggettive alla base del successo nell'audiovisivo - dice Hila Pachter, vice presidente alle relazioni internazionali della Ananey Communications, che produce Palmach -. Produrre qui è più facile, e costa meno che altrove. In più da Nord a Sud il Paese offre location di ogni tipo, e il clima permette di girare tutto l'anno».
  Arrivati a Gerusalemme entriamo nella Ma'aleh School of Television, Film and Arts, ci studiano cinema i religiosi, gli ortodossi. Qui si è diplomato Ori Elon, che con Yehonatan Indursky ha creato e scritto Shtisel, la serie sugli ebrei ortodossi di Gerusalemme su piattaforma Netflix. Mentre una signora gli regala una rivista turca con in copertina il protagonista Michael Aloni, Elon ci spiega come sia possibile che un prodotto così radicato nella società israeliana possa aver conquistato un buon numero di spettatori internazionali: «Spesso è più facile vedere serie tv su cose che non conosci - dice - perché sei curioso e vuoi conoscere ciò che è diverso da te. Tutti qui sono stranieri, perché rutti sono diversi da te. Anche per questo Shtisel, in cui Gerusalemme è praticamente un personaggio, ha avuto successo»,
  In Israele ci sono circa venti scuole di cinema e tv, «un numero enorme in proporzione agli abitanti», commenta Laurence Herszberg, la direttrice di Series Mania, un prestigioso festival internazionale che si tiene in Francia e che per il terzo anno ha piazzato gli israeliani sul podio. «Oltre alla formazione, la ragione del successo di queste serie è la capacità del popolo ebraico di raccontare storie, - conclude - e il fatto che tutto quello che accade nel Paese è straordinario, quindi ogni evento diventa fonte di ispirazione».

(La Stampa, 21 dicembre 2019)



Gli ebrei e Napoli un legame iniziato duemila anni fa

Ritrovato un libro dello svizzero Munkàci pubblicato nel '39 che documenta una parte della storia di Napoli. Il primo insediamento all'Anticaglia nel I secolo dopo Cristo.

di Mario Avagliano

«Tu che vieni d'oltralpe a visitar l'Italia meridionale e Napoli, non limitarti al Museo Nazionale, a Pompei, ecc... le tracce del Ghetto di una volta sono ancora visibili. Il fuoco del Rinascimento giudaico, spento in Spagna, venne qui destato a nuova vita, qui venne stampato il primo libro in ebraico, qui visse e operò l'eminente personalità della vita spirituale ebraica, Don Jsak Abrabanel, qui la sua preziosa biblioteca divenne preda dei ladroni». Così scriveva nel 1939 Ernst Munkàcsi, ebreo svizzero, in un libro ormai introvabile, pubblicato a Zurigo da Die Liga col titolo, Der Jude von Neapel (L'Ebreo di Napoli), di cui una copia fa parte della straordinaria collezione sull'ebraismo dello svizzero-napoletano Gianfranco Moscati, scomparso l'anno scorso, che ha fatto tradurre l'originale testo in tedesco dalla professoressa Fanny Dessau Steindler.
   Il testo di Munkàcsi, curiosamente pubblicato nel 1939 (primo anno di applicazione in Italia delle famigerate leggi razziali) costituisce un documento storico e un vademecum ancora oggi eccezionale sulle testimonianze architettoniche ebraiche presenti a Napoli, oltre che un implicito invito, anche ai contemporanei, a valorizzarle. All'epoca del viaggio di Munkàcsi, la comunità ebraica a Napoli contava circa un migliaio di unità, che si ridussero a poco più di 500 dopo il secondo conflitto mondiale, fino alle attuali 160. La comunità ebraica di Napoli è tra le più antiche d'Italia. I primi insediamenti risalirebbero addirittura al I secolo d.C.. Un interessante lavoro di ricerca di Giancarlo Lacerenza, docente di lingua e letteratura ebraica all'Ilstituto Orientale di Napoli, dal titolo I quartieri ebraici di Napoli (Libreria Dante e Descartes, 2006), ha tracciato la storia della presenza in questa città degli ebrei, dislocati in particolare nel Vicus Iudaeorum all'Anticaglia, sull'altura di Monterone o di San Marcellino, e nelle zone di Forcella e di Portanova.
   A darci ulteriori elementi contribuisce la cronaca di viaggio di Munkàcsi: «Da ricerche laboriose nelle biblioteche — scrive lo svizzero — si ricava che nel X sec. nella vicinanza del monastero di San Marcellino vi vssero degli ebrei e si trovasse la loro casa di preghiera, cioè tra il Rettifilo e l'Università, nel Vico Duodecim Putea o Spoliamorte, che fu anche chiamato Vicus Iudeorum. Il vicoletto, esistente ancora oggi vicino a Donna Regina, quale vicolo Limoncello, proviene anch'esso da quell'epoca». In effetti il Vicus ludaeorum, nominato la prima volta in un documento del 1002, era un cardine dell'antica Neapolis. Esso collegava il decumano superiore alle mura settentrionali in prossimità di Porta San Gennaro. Lo studio di Lacerenza ipotizza che qui molto probabilmente sorgeva una sinagoga e potrebbero esservi stati ebrei già in età romana o tardoromana.
   Il racconto di Munkàcsi prosegue così: «Nel sec XII sappiamo già di tre insediamenti di ebrei. Oltre al Vicus Iudeorum essi abitavano accanto alla Chiesa S. Maria Portanova, nelle cui vicinanze un documento menziona nel 1165 una Schola Hebreorum. La piazza davanti si chiamava fino alla fine dell'epoca sveva Piazza Sinora, che potrebbe essere l'abbreviazione di sinagoga. Un altro documento menziona nel 1329 un Vico Sacannagiudei, che secondo alcuni potrebbe estere l'attuale vicolo Pace. Questo vicoletto si trova nelle immediate vicinanze della stazione, alla sinistra del Rettifilo, dietro il Duomo, nel cosiddetto quartiere Forcella». Verso la fine del XV secolo gli ebrei si trasferirono nelle vicinanze di S. Maria Portanova, insediandosi in quattro vicoli denominati «Giudecca Grande, Giudecca Piccola Vico Sinocia e Fondaco Giudeca». Inoltre «si costituì un altro quartiere ebraico vicino alla riva del mare che venne chiamato Giudichella del Porto».
   La scoperta che più appassiona Munkàcsi è però quella della Sinagoga che ospitò Jsak Abrabanel, il famoso pensatore, politico e filosofo, autore di importanti testi di commento alla Bibbia e padre di Leone Ebreo, desunta da una carta topografica del 1775 del principe Noja, conservata nell'Archivio di Stato della città. Alla fine del XV e al principio del XVI secolo il luogo di culto ebraico era locato nell'edificio che poi ospiterà la chiesa S. Caterina Spinacorona, in piazza Calam, non lontano dalla Giudecca di Portanova. Una individuazione che viene confermata anche dallo studio del professor Lacerenza.
   Nel 1939, nonostante i rimaneggiamenti di epoca barocca «per togliere i caratteri di sinagoga», le tracce dell'antica destinazione sono ancora presenti. L'emozione per Munkàcsi è forte. «Mi sedetti su una poltroncina di vimini e mi guardai attorno. Dunque questa era la sinagoga dei napoletani! Qui pregò Isacco Abrabanel! Qui si riunirono quella triste sera di autunno, prima di lasciare la loro patria e prender commiato dalla loro terra, in cui i loro padri avevano abitato dal tempo della distruzione del Santuario. E un quadro sorge dinanzi a me, quando nel VI sec. gli ebrei difesero la città contro le orde di Belisario e fecero scorrere sangue per il mantenimento del dominio dei Germani. Tutto questo non servì a nulla. Invano essi erano i primi abitanti, invano avevano sacrificato alla città i beni e il sangue; nell'anno 1541 dovettero lasciare con i loro beni la loro terra, divenuta loro matrigna».
   Parole scritte nel 1939, mentre in Italia e anche a Napoli il regime guidato da Mussolini iniziava a perseguitare gli ebrei. Parole che suonavano come un ammonimento a non ripetere gli errori della storia Un ammonimento che l'Italia fascista e dei Savoia avrebbe bellamente ignorato.

(Il Mattino, 21 dicembre 2019)


La nuova Rosa bianca

Ispirato dai fratelli Scholl, il "gruppo Belter" si schierò contro la Ddr. Tutti gli studenti pagarono un prezzo altissimo. Una storia sconosciuta.

di Giulio Meotti

Scuole e strade di tutta la Germania portano oggi i nomi dei fratelli Scholl, che il 22 febbraio 1943 furono giustiziati e il loro movimento, la "Rosa bianca", annientato. Nel carcere di Stadelheim a Monaco, Hans School, sua sorella Sophie e Christoph Probst furono condannati a morte e decapitati per "alto tradimento". Gli altri tre responsabili del gruppo, Willl Oraf, Alexander Schmorell e Kurt Huber, professore di Filosofia, vennero arrestati qualche mese dopo e giustiziati. Avevano distribuito volantini che incitavano alla resistenza contro il nazismo. Finita la guerra, in metà della Germania sorse un'altra dittatura e un'altra Rosa bianca si formò per protestare e pagò un prezzo altrettanto alto. Ma questa azione nella Ddr è pressoché sconosciuta.
"E' stata la schiavitù intellettuale dei due regimi totalitari a motivare la resistenza politica", ha scritto il rettore dell'Università di Lipsia, Franz Hauser. "Durante l'era nazionalsocialista, fu il gruppo Scholl a opporsi al sistema. I loro membri avrebbero pagato con la vita. Nella zona di occupazione sovietica e nella Ddr, molti studenti videro i fratelli Scholl come un modello di riferimento e si opposero attivamente al totalitarismo del Partito di Unità Socialista di Germania"…....

(Il Foglio, 21 dicembre 2019)


Omicidio Sarah Halimi: una sentenza intollerabile e per nulla casuale

di Ugo Volli

Sarah Halimi
Ci sono due forme o piuttosto stadi dell'antisemitismo, strettamente legate fra loro. La prima consiste in parole o opinioni: dire che gli ebrei hanno ucciso Gesù e magari anche Maometto e per questo meritano una condanna eterna, come spesso hanno sostenuto autorevoli teologi cristiani e musulmani, che sono nemici dell'umanità (Tacito), che sono quinte colonne interne allo stato (Il Faraone del libro dell'Esodo), che rispettano solo le loro leggi e non quelle dello stato (il gran visir persiano Haman, nel libro di Ester), che la loro religione è il denaro (Karl Marx), che sono dei relitti insensati di un popolo che dovrebbe essere scomparso da tempo (Voltaire e Kant), che il solo modo di integrarli è tagliare loro la testa, che dominano il mondo (i "Protocolli"), che sono una razza aliena (Hitler), che ammazzano i bambini (i gesuiti e oggi i palestinisti), che avvelenano i pozzi, impoveriscono le nazioni, opprimono gli altri popoli e bestemmiano le loro religioni, che non sono cittadini leali, che rubano le terre altrui, che non hanno diritto a un loro stato, che non sono davvero ebrei ma turchi o unni (Shlomo Sand), che mentono sulla loro storia e non hanno nessun rapporto reale con la loro patria, che esagerano la Shoah e ne hanno fatto un'industria (tutti temi del palestinismo) eccetera eccetera.
  In sostanza, secondo la proposta di Sharansky, le tre "D": demonizzazione, delegittimazione, doppio standard. Sono opinioni, che pretendono in quanto tali di essere libere, anche se - guarda un po' - si rivolgono solo contro un popolo, quello ebraico e contro il suo stato, Israele. Molti, non solo all'estrema destra, ma anche nella sinistra che si pretende moderata e in ambienti cattolici impegnati, rifiutano di comprendere che l'ostilità preconcetta e indiscriminata contro Israele, così diffusa nelle loro file, è insieme causata dall'antisemitismo e ne costituisce la forma attuale. Avercela con Israele, hanno pontificato editorialisti e perfino sentenziato dei giudici (per esempio in Germania) può anzi essere una giustificazione per l'ostilità contro gli ebrei e perfino ad attacchi contro le sinagoghe.
  Poi ci sono le azioni: perseguitare gli ebrei, espropriarli, costringerli a portare un segno di riconoscimento perché tutti possano maltrattarli, imprigionarli nei ghetti, impoverirli e umiliarli in ogni modo, ucciderli uno a uno o in massa come fecero i popoli europei e musulmani per comunità, in alcuni casi per gruppi nazionali (in Spagna nel 1492, in Polonia ne 1648 in Arabia ai tempi di Maometto) o a livello globale e industriale, che è il terribile primato dei nazisti. Oggi queste pratiche continuano, con attacchi terroristici che vengono qualche volta (per esempio in qualche caso negli Stati Uniti) dai neonazisti, ma in grande prevalenza dai musulmani, sia col terrorismo che colpisce Israele (sempre animato da un sottofondo religioso antisemita) e con quello che agisce in Europa, soprattutto in Francia, con casi come la scuola di Tolosa, il mercato kasher di Parigi, il museo ebraico di Bruxelles, ecc. Per fortuna, dopo i terribili episodi dell'attacco al Tempio di Roma (9 ottobre 1982) e degli attentati di Fiumicino (nel 1973 e nel 1985) in Italia non vi sono stati attacchi clamorosi di questo tipo.
  Ma altrove sì, e bisogna notare che vi è una tendenza molto forte a negarne il nesso con il primo tipo di antisemitismo, per evitare di riconoscere la pericolosità delle "opinioni" contro gli ebrei, soprattutto se vengono da immigrati musulmani e loro discendenti.
  L'antisemitismo tradizionale di destra, quello che cita i "Protocolli", quello che è stato associato di recente ai nomi di Lannutti e di Castrucci, viene facilmente condannato, quello invece che cita il Corano e si scherma di antisionismo viene ignorato, minimizzato se non condonato. Peggio, anche i crimini di sangue, gli omicidi, insomma l'antisemitismo pratico e operativo, viene ignorato: viene nascosto o negato il legame che sempre ha con l'antisemitismo delle "opinioni" e talvolta viene perdonato anche il crimine vero e proprio.
  E' la storia terribile di un caso, quello di Sarah Halimi, che ha appena concluso il suo percorso giudiziario, con uno scandaloso non luogo a procedere. La storia è stata raccontata più volte e la riassumo qui velocemente: il 4 aprile 2017 Sarah Halimi, ebrea francese di 65 anni, madre di tre figli, medico in pensione, fu picchiata a lungo con estrema violenza nel suo appartamento, poi gettata dalla finestra e così uccisa da un suo vicino che le era entrato in casa, Kobili Traoré , 27 anni, musulmano fanatizzato originario del Mali, che dopo l'omicidio urlò, secondo molte testimonianze non smentite, il grido "Allah u akbar" di tutti i terroristi musulmani (che in realtà è una rivendicazione di fede diffusissima nell'Islam) e rivendicò di aver ucciso "Satana". Non vi sono mai stati dubbi sulla dinamica dell'omicidio e neppure sulla sua natura antisemita, che del resto era stata provata anche da numerose minacce precedenti che l'assassino aveva fatto alla vittima. E' insomma un caso indubitabile di omicidio antisemita.
  Ma la giustizia francese, evidentemente riluttante a colpire questo crimine, ha trovato il modo di non condannare l'assassino, sostenendo che gli si doveva applicare l'infermità mentale, dato che aveva consumato dosi elevate di cannabis prima dell'assassinio. Che la droga sia un'attenuante, anzi un'esimente totale da un crimine efferato è un principio intollerabile. Come ha notato il Crif, organismo rappresentativo degli ebrei francesi, in molti casi come per esempio negli incidenti stradali, si tratta al contrario di un'aggravante. Non esiste nessuna legge che stabilisce che se qualcuno sceglie di drogarsi prima di una rapina o di un omicidio, questo debba renderlo irresponsabile. L'hanno deciso dei giudici (di primo grado a maggio scorso, d'appello pochi giorni fa) particolarmente sensibili alle "difficoltà" dell'assassino e indifferenti all'ingiustizia subita dalla sua vittima, "uccisa una seconda volta dalla giustizia", come ha commentato il figlio di Sarah Halimi. Da lontano, cercando di essere poco emotivi, si può solo dire che vi è una compromissione istituzionale profonda dello stato francese con l'antisemitismo, in perfetta continuità con il regime collaborazionista di Petain. Di questa sentenza gli ebrei europei devono chiedere conto non solo a giudici evidentemente non interessati a fare giustizia, ma allo stato francese e a tutta l'Europa politica, che ancora una volta non interviene a tutelare la vita dei propri ebrei, sprecando invece espressioni di inutile moralismo in occasioni rituali come la Giornata della Memoria.

(Progetto Dreyfus, 20 dicembre 2019)


A Noemi Di Segni la VII edizione del Premio "G. Filangieri"

La presidente U.C.E.I. ha ricevuto il prestigioso riconoscimento dal Rettore Alberto Capria. «Per i suoi costanti richiami alla necessità di istruzione ed educazione affiancata al doveroso rispetto di norme e leggi, anche non scritte, grazie al quale, ne siamo certi, il diritto vincerà sul delitto, la civiltà, la solidarietà e la democrazia sul triste clima di odio e violenza che, purtroppo, contraddistingue il nostro tempo».

di Francesco Marmorato

«Il segnalibro della storia sia sempre inserito nella pagina della Shoah». Il Rettore del Convitto "G. Filangieri" Alberto Capria, poco prima di consegnare il prestigioso premio, giunto alla settima edizione, alla presidente U.C.E.I. Noemi Di Segni, ha voluto ricordare nell'Aula Magna del Convitto le parole di Primo Levi, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti.
   All'evento sono intervenuti, tra gli altri, il procuratore di Vibo Valentia, Camillo Falvo, il Prefetto Francesco Zito, il sindaco della città Maria Limardo, l'ex Direttore USR Giuseppe Mirarchi, i ragazzi dl coordinamento regionale delle consulte degli studenti e l'assessore all'istruzione e alle politiche sociali di Vibo Valentia Franca Falduto. Alcuni alunni dell'Istituto hanno inoltre letto in un'Aula Magna gremita i principi fondamentali della Costituzione.
   Queste le motivazioni lette dal Rettore Capria: «Per i suoi costanti richiami alla necessità di istruzione ed educazione affiancata al doveroso rispetto di norme e leggi, anche non scritte, grazie al quale, ne siamo certi, il diritto vincerà sul delitto, la civiltà, la solidarietà e la democrazia sul triste clima di odio e violenza che, purtroppo, contraddistingue il nostro tempo».
   La presidente U.C.E.I. nel suo intervento ha voluto sottolineare che «l'ebraismo non è solo Shoah. È importante - ha spiegato - che voi abbiate modo di conoscere il racconto, la cultura, la storia ebraica anche per la parte luminosa che è l'ebraismo: le feste, il cibo, i matrimoni, l'allegria. E vorrei che non identificaste gli ebrei solo con la parola Shoah, perché il popolo ebraico è vivo oggi, è vissuto per secoli e millenni ed ha vissuto tante cose ed è importante che si conoscano anche questi lati di luce, allegri. È fondamentale conoscere la storia della Shoah, - ha concluso - ma non dobbiamo appiattire tutta l'esistenza ebraica solo sulla Shoah».

(Tropea e dintorni, 20 dicembre 2019)


Israele, rinnovabili avanti tutta

di Gian Marco Giura

Israele fa un altro passo in lavanti verso un maggiore utilizzo di energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili approvando l'attivazione commerciale della centrale di Ashalim, nel deserto del Negev, che diventa così il più grande impianto a energia solare della nazione.
   «La centrale è composta da 360 pannelli solari con una produzione di 121 Megawatt» scrive il sito Israele. net. «Il vasto impianto, che si estende su più di 125 ettari, è stato edificato dalla società di costruzioni e ingegneria civile Solel Boneh e dalla Belectric, una società internazionale specializzata in tecnologia fotovoltaica in tutto il mondo, con un investimento finora di circa 600 milioni di shekel (più di 152 milioni di euro)».
   La centrale punta a fornire energia solare pulita alla rete della Israel Electric Corporation garantendo elettricità a circa 60 mila abitazioni israeliane.
   Con quest'iniziativa Israele conferma l'attenzione che dà allo sviluppo delle energie rinnovabili che stanno diventano sempre più importanti rispetto a quelle tradizionali. Lo scorso aprile, infatti, è stato raggiunto il livello massimo di energia verde prodotta da Israel Electric Corporation: 1.326 MW, pari al 19,3% della produzione totale di energia. Il record precedente era stato registrato nel mese di febbraio, quando la capacità produttiva aveva raggiunto il 16,4% della produzione totale di energia (circa 1.295 MW). «Sono orgoglioso di guidare il ministero dell'Energia che insieme all'Authority per l'energia elettrica ha contribuito a promuovere l'uso dell'energia solare per creare la più alta produzione di elettricità registrata nell'ultimo decennio», ha dichiarato Yuval Steinitz a YnetNews.

(MF, 20 dicembre 2019)


Nel 2020 anche i palestinesi torneranno alle urne?

di Futura D'Aprile

 
Hamas - Fatah
Sono passati 13 anni dalle ultime elezioni nei territori palestinesi: le stesse che segnarono la vittoria nella Striscia di Gaza del movimento Hamas e la rottura dei rapporti tra quest'ultimo e Fatah, il principale partito dell'Autorità Nazionale Palestinese. Da quel fatidico 2006 tutti i tentativi di giungere a una riconciliazione tra le parti e a nuove elezioni sono falliti, ma la situazione potrebbe cambiare presto.

 Nuove elezioni
  A ottobre del 2019, Mahmoud Abbas, presidente dell'Anp e leader di Fatah, ha invitato il Comitato elettorale centrale a iniziare i preparativi per le elezioni e a novembre tutte le fazioni palestinesi hanno dato il loro assenso al ritorno alle urne. Anche Hamas ha accettato l'idea di nuove consultazioni elettorali, nonostante i rapporti con l'Autorità continuino ad essere tesi e ben sapendo quali sono i rischi che corre nel rimettersi al giudizio della popolazione di Gaza proprio nel 2020, anno in cui la Striscia sarà dichiarata "invivibile" secondo le previsioni dell'Onu. I segnali che provengono dal mondo politico circa nuove elezioni sembrano positivi, ma dai sondaggi condotti tra la popolazione palestinese emerge una visione ben diversa della realtà: solo il 38% dei palestinesi crede davvero che nel 2020 si tornerà al voto, segno di una più generale sfiducia nei confronti dell'Anp e della classe politica. Il deteriorarsi dei rapporti con i propri elettori e il desiderio di ricostruire la fiducia nel popolo palestinese sono infatti alcuni di motivi per cui sia Fatah che Hamas hanno accettato nuove elezioni, consapevoli che il risultato delle urne potrebbe non essere quello desiderato.

 Il nodo Gerusalemme est
  A metà dicembre il presidente Abbas è ritornato a parlare delle elezioni, asserendo che manca ormai poco all'annuncio della data in cui si terranno le consultazioni. Secondo il leader di Fatah, resta solo un ostacolo da superare: Gerusalemme est. La città è tuttora al centro della contesa tra l'Anp e lo Stato ebraico e la zona orientale, a maggioranza araba, è sotto il controllo di Israele dalla guerra del 1967. Per questo motivo, affinché anche in questa zona si possa procedere al voto,è necessario il consenso dell'autorità israeliana. Una concessione che per il momento non è stata ancora né data né negata, ma che difficilmente potrebbe arrivare. Dare la possibilità agli abitanti palestinesi di Gerusalemme di votare avrebbe infatti delle implicazioni notevoli: significherebbe riconoscere almeno in parte l'autorità palestinese in una zona di Gerusalemme, città considerata da Israele sua capitale in tutta la sua interezza, e voltare le spalle agli Stati Uniti. Il presidente Trump ha indirettamente avvallato le pretese israeliane sulla città sacra spostando l'ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, deteriorando ancora di più i rapporti con l'Anp e dimostrando ancora una volta il suo supporto nei confronti di Israele. Permettere invece ai palestinesi residenti nella città di votare vorrebbe quindi dire riconoscere che una parte del territorio non appartiene allo Stato ebraico e creare così una situazione che l'autorità palestinese potrebbe sfruttare in proprio favore se mai si dovesse tornare a discutere dello status di Gerusalemme. La possibilità di tenere o meno elezioni nella città sacra è quindi un punto molto delicato e in extremis potrebbe essere usato dagli stessi Fatah e Hamas per scaricare su Israele la responsabilità del mancato ritorno alle urne.
  Al di là di Gerusalemme, ci sono anche altri punti che devono essere risolti. Le due parti devono ancora giungere a un accordo sull'elezione del Consiglio nazionale palestinese, organo legislativo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), decidere chi supervisionerà il processo di voto e accordarsi per una nuova legge elettorale.

 Scontro tra Fatah e Hamas
  Le elezioni dovrebbero servire a ricucire la spaccatura venutasi a creare nel mondo palestinese a seguito del voto del 2006, che ha di fatto creato due diversi centri di potere: Gaza e Ramallah, rispettivamente nelle mani di Hamas e di Fatah. Obiettivo di quest'ultimo è riprendere il controllo su Gaza riducendo il potere di Hamas: dopo più di 10 anni il partito di Abbas non è riuscito a rimettere il riga il movimento che controlla la Striscia, né per via diplomatica né ricorrendo all'uso della forza. Ma non è detto che le urne rafforzeranno il potere di Fatah, anzi: il risultato delle elezioni potrebbe essere sfavorevole per Abbas, che si troverebbe a dover fare i conti con la presenza di Hamas anche all'interno del parlamento e non solo nella Striscia. Secondo un'analisi pubblicata da Haaretz, a Gaza Fatah non gode di grande supporto e Hamas intende approfittare di tale debolezza per riaffermare il suo potere ed espanderlo al di fuori dell'exclave. D'altro canto anche Hamas ha di che temere dal ritorno alle urne. Il movimento controlla la Striscia dal 2006, ma le condizioni di vita nella zona continuano a peggiorare e le poche manifestazioni della popolazione di cui si è avuto notizia e represse con forza dalle autorità sono un segnale importante dello scontento che serpeggia nell'exclave e che rischia di venir fuori anche durante le elezioni.

(Inside Over, 20 dicembre 2019)


Sinistra americana anti-israeliana: insulti a Netanyahu e politica filo-palestinese

di Maurizia De Groot Vos

Bernie Sanders
Bernie Sanders con Ilhan Omar, deputata statunitense musulmana, sostenitrice dell’anti-israeliano BDS
Sembrerebbe che la sinistra americana non abbia capito bene la lezione inglese. Sebbene le condizioni siano oggettivamente diverse, l'odio anti-israeliano che emerge ogni volta che parlano di politica in Medio Oriente è così evidente che anche chi non apprezza Donald Trump finisce comunque per preferirlo a qualsiasi candidato democratico.
   Il più accanito anti-israeliano è paradossalmente un ebreo, Bernie Sanders, che anche ieri parlando a Los Angeles durante un dibattito tra i candidati democratici alle primarie, ha attaccato duramente la politica israeliana e in particolare quella di Benjamin Netanyahu.
   «Israele ha - e lo dico come qualcuno che ha vissuto in Israele da bambino, orgogliosamente ebreo - il diritto di esistere, non solo per esistere ma per esistere in pace e sicurezza. Ma ciò che deve essere la politica estera degli Stati Uniti non è solo essere pro-Israele. Anche noi dobbiamo essere filo-palestinesi» ha detto Sanders dal palco democratico.
   Poi è passato agli insulti verso Netanyahu definendolo "un razzista". «Dobbiamo capire che proprio ora in Israele abbiamo una leadership sotto Netanyahu, che recentemente, come sapete, è stato incriminato per corruzione e che, a mio avviso, è un razzista» ha detto Sanders.
   Poi ha detto che la politica americana in Medio Oriente dovrebbe essere più equa e pensare anche a Gaza dove c'è una disoccupazione giovanile pari al 60/70% come se la colpa di questa situazione sia di Israele e non dei mafiosi di Hamas che tengono deliberatamente la popolazione al limite della povertà nonostante le decine di miliardi di dollari ricevuti come aiuti umanitari e spesi in armi o trasferiti sui conti miliardari dei loro capi.
   Bernie Sanders ha poi insistito ancora una volta sul fatto che gli Stati Uniti dovrebbero condizionare gli aiuti militari a Israele al fatto che Gerusalemme dovrebbe piegarsi alle richieste palestinesi sulla soluzione a due stati basata sui confini del 1967 e quindi evacuare gli insediamenti in Giudea e Samaria.
   Ma non è solo Sanders ad avanzare tali ipotesi. Altri due candidati democratici, Elizabeth Warren e Pete Buttigieg, hanno espresso gli stessi concetti pur con qualche distinguo e meno insulti al governo israeliano.
   Pete Buttigieg ha attaccato Trump definendo la sua politica in Medio Oriente come «incentrata a interferire efficacemente nella politica interna israeliana».
   Ad insistere sulla soluzione a due stati basata sui confini del 67 è stato anche l'ex vice-Presidente, Joe Biden, pure lui in corsa per sfidare Donald Trump.
   «Non c'è soluzione per Israele al di fuori della soluzione a due stati», ha detto Biden. «Dobbiamo esercitare costantemente pressioni sugli israeliani affinché si muovano verso una soluzione a due stati, a costo di usare gli aiuti per la sicurezza come arma di pressione».
   Alla fine sembra che tutti i candidati repubblicani alla presidenza abbiano una linea comune per quanto riguarda la politica americana in Medio Oriente, una politica palesemente filo-palestinese e quindi anti-israeliana.
   E così anche il più accanito oppositore di Donald Trump si trova nelle condizioni di non poter votare chi vorrebbe tornare alla politica filo-araba di Obama che tanti danni ha creato in Medio Oriente, danni di cui ancora ne stiamo pagando il prezzo.

(Rights Reporters, 20 dicembre 2019)


Il pregiudizio contro Israele e la pericolosa saldatura tra la sinistra occidentale e l'islamismo

di Dorian Gray

Sono in diversi ormai, tra i critici delle sardine, a commentare gli articoli pubblicati sul caso "Nibras e Suleiman Hijazi" con delle frasi definitive quali "ma smettetela di parlare di questi tizi inutili".
  Una critica da non sottovalutare, ma che purtroppo non va nella direzione giusta. Chi scrive ritiene che elettoralmente parlando, le "sardine" spostino pochino, perché fondamentalmente fanno già parte di un elettorato di sinistra, che al massimo aveva scelto l'astensionismo negli ultimi tempi. Detto questo, visto che di sinistra parliamo, il dibattito che si è scatenato dopo il caso Nibras non è solamente ascrivibile alla normale dialettica maggioranza-opposizione, riguarda una questione centrale per il progressismo italiano e internazionale.
  Il tema di cui parlo è il rapporto che, ormai da decenni, si è venuto a creare fra la sinistra occidentale e l'islamismo politico, prevalentemente sunnita, ma anche sciita. Un rapporto che, semplificando al massimo, ha iniziato a prendere forma dopo la guerra del 1967 quando, da Paese vittima, per l'ideologia progressista occidentale Israele diventa un Paese occupante. Un passaggio figlio della Guerra Fredda e dello schieramento definitivo dello Stato ebraico nel campo degli Stati Uniti. Spinti dall'URSS, i partiti e i movimenti comunisti dell'epoca iniziarono a dipingere Israele come il nemico, in una versione "laica" molto simile a quella che ha ancora oggi la Repubblica Islamica dell'Iran (ovvero gli Stati Uniti come il "Grande Satana" e Israele come il "Piccolo Satana"). Da questo pregiudizio, si badi bene, nasce ad esempio la risoluzione Onu 3379, che equiparava il sionismo ad una forma di razzismo (fortunatamente abolita anni dopo).
  Dopo la fine della Guerra Fredda, fortunatamente, abbiamo assistito ad una certa evoluzione nel mondo progressista, ma nonostante tutto, l'humus del pregiudizio verso Israele è rimasto, soprattutto alla sinistra di quei partiti progressisti - spesso ex comunisti - che, arrivati al potere, hanno dovuto fare i conti con la realtà, oltre l'ideologia e i preconcetti. Nonostante tutto, questo preconcetto è spesso rimasto e si è amplificato quando, nel mondo islamico, hanno capito che potevano sfruttare i codici e i valori occidentali, per fini politici a loro congeniali. Ovviamente, il primo obiettivo era quello di mantenere alta l'ostilità verso Israele, arma di distrazione di massa per eccellenza usata dai regimi arabi per evitare che l'attenzione mondiale venga spostata sulle loro drammatiche malefatte.
  Ecco allora che i diritti umani, dalla Conferenza di Durban del 2001, vengono sfruttati per promuovere il boicottaggio di Israele, accusato di essere praticamente la fonte di tutti i mali. Da quella conferenza prende forma il cosiddetto movimento BDS, le cui teste e i cui finanziatori vivono serenamente nel mondo arabo, che praticamente con la scusa dei diritti umani promuove direttamente e indirettamente la cancellazione dello Stato d'Israele.
  Lo scoppio delle Primavere arabe nel 2011 ha quindi dimostrato come la sinistra - talvolta anche istituzionale - non abbia compiuto una riflessione sostanziale sul rapporto con l'islamismo politico. Quando quelle proteste di piazza scoppiarono, guidate dai partiti legati alla Fratellanza Musulmana, la sinistra abbracciò acriticamente le proteste, guidata in primis dall'allora presidente americano Barack Obama, che decise dal giorno alla notte di abbandonare al loro destino una serie di alleati storici in Medio Oriente, con il fine ultimo di legittimare per la prima volta la Repubblica Islamica dell'Iran, Paese guidato da un regime teocratico sciita dal 1979. Come sono andate a finire le Primavere arabe, il governo Morsi e l'appeasement con l'Iran, è ormai storia e certamente non è una storia positiva.
  Riassumendo, siamo quindi arrivati al fenomeno sardine e al caso di Sulaiman Hijazi e di sua moglie Nibras. Nuovamente, il mondo progressista ci ricasca, legittimando l'Islam politico con la scusa dell'uso dei codici occidentali (in questo caso la Costituzione italiana) e di alcuni valori sociali comuni. Peccato che, nonostante le comunanze, ci sono tante differenze che da anni nessuno vuole vedere e da cui pochi hanno il coraggio di prendere le distanze (spesso anche per interessi elettorali, data la capacità delle associazioni dei Fratelli Musulmani in Europa di mobilitare elettorati ad hoc, sfruttando i musulmani diventati italiani o le seconde generazioni).
  Le "sardine" dovrebbero cogliere l'occasione di questo brutto inciampo per ritornare al problema sostanziale, ovvero il rapporto errato tra progressismo e Islam politico. Dietro le belle parole dei Fratelli Musulmani in Europa sui diritti delle minoranze, sulle libertà civili e quelle sociali, c'è una ideologia che non lascia spazio ad interpretazioni, promossa da personalità del passato come Sayyd Qutb o ideologhi del presente come Yusuf al-Qaradawi, che odiano l'Occidente e che vorrebbero una società guidata dalla Sharia, in cui le donne sono sottomesse agli uomini e in cui le minoranze riconosciute devono pagare una tassa per vivere liberamente. E non è un caso che lo stesso Hijazi ha fra i suoi mentori un religioso giordano di nome Riyadh al-Bustanji che, incredibilmente, viaggia liberamente in Italia dopo aver dichiarato di aver già mandato sua figlia a Gaza per imparare il martirio…
  Dunque, le sardine non dovrebbero prendere le distanze dai Fratelli Musulmani solo perché è sbagliato andare a braccetto con i sostenitori di Hamas, ma soprattutto per loro stesse. Se quello che promuovono è veramente uno Stato laico e rispettoso del prossimo, allora liberarsi dell'infiltrazione nociva dei Fratelli Musulmani deve rappresentare un loro fondamentale interesse, per tutelare i valori e le idee che pretendono di promuovere. Altrimenti, invece di "nuotare liberamente", le "sardine" finiranno per infilarsi in un mare pieno di squali…

(Atlantico, 20 dicembre 2019)



Gli inquietanti giochi di guerra di Erdogan

di Michael Sfaradi

 
Che nel bacino del Mediterraneo ci siano movimenti strani e tentativi di bullismo navale turco al di fuori di quelle che sono le regole internazionali, è ormai palese. Lo sanno gli addetti ai lavori, è noto alle cancellerie ma la gente comune ne sa poco o niente perché tenuta abilmente all'oscuro o nella nebbia di quelle notizie che vengono divulgate, in piccolo e una volta sola, solo per soddisfare il dovere di cronaca nel minimo sindacale.
  Ma non è tutto, queste notizie oltre alla nebbia vengono anche scollegate fra loro in modo da non dare la possibilità di collegarle e, di conseguenza, capirne la gravità e la portata. Questo modo di fare giornalismo può andare avanti per un po', ma quando si arriverà alla resa dei conti, e quel momento potrebbe purtroppo essere più vicino di quello che possiamo immaginare, ai più sembrerà uno scoppio improvviso mentre nella realtà si era sempre trattato, fin dall'inizio, di una bomba a orologeria con il timer impazzito che nessuno ha avuto il coraggio di disinnescare. Per capire la situazione nel suo insieme è necessario tenere presente alcune vicende che si sono susseguite negli ultimi mesi.
  Da quando Erdogan è salito al potere, la Turchia, che per anni era stata una delle nazioni cardine dell'Alleanza Atlantica, è diventata una scheggia impazzita. Il moderno sultano ha fatto di tutto per rompere con gli alleati storici, in primis con Israele che da alleato strategico è diventato nemico da abbattere, per proseguire con mosse politiche, come ad esempio dotarsi di sistemi antimissile russi, che andavano contro gli interessi della NATO di cui, al momento, ancora fa parte. Da quando poi sono stati scoperti i giacimenti di gas al largo delle coste israeliane e cipriote, la situazione si è molto scaldata e, a tratti, è diventata addirittura incandescente.
  Il 23 febbraio 2018 la nave per ricerche petrolifere dell'ENI "Saipem 12000" è stata costretta ad abbandonare l'area di mare a Sud Est di Cipro dopo essere stata bloccata e minacciata di speronamento dalla marina militare turca, tutta questo davanti agli occhi della fregata Zeffiro della Marina Militare italiana che era in zona e che, per evitare il peggio, si è limitata a seguire gli eventi. Stesso scenario si è riproposto il 18 novembre scorso quando la nave per ricerche oceanografiche israeliana Bat Galim è stata avvicinata da un'unità della marina militare turca che l'ha spinta ad abbandonare la zona economica esclusiva di Cipro. La Bat Galim, aveva a bordo ricercatori dell'Università Ben Gurion e un geologo di Limassol, che stavano facendo ricerche approvate da Nicosia nelle acque cipriote.
  Considerando che quelle acque non sono di competenza della flotta turca e tenendo presente sia il ruolo di Israele nella regione sia, e soprattutto, che non è quello israeliano un governo ben disposto a rimanere immobile davanti alle scorrettezze, quella decisa dal governo di Ankara è stata una mossa decisamente avventata le cui conseguenze potrebbero riempire i titoli dei giornali dei prossimi giorni. Recentemente aerei da guerra israeliani e greci hanno più volte sorvolato le navi turche, e questo non è un segnale tranquillizzante, ma a mettere ulteriore benzina sul fuoco c'è la notizia che il 18 dicembre alle 7.35 (ora locale), la nave Bat Galim è salpata dal porto di Haifa, in Israele, diretta nuovamente a Cipro e giungerà a Limassol, sulla costa meridionale dell'isola, nella mattina del 19 dicembre. Nei prossimi giorni riprenderà nuovamente il programma ricerche sui fondali coordinato con il governo cipriota.
  Questa volta però la Bat Galim non sarà sola, infatti da alcuni giorni la Marina Militare israeliana, insieme ad altre Unità navali alleate, sta eseguendo a largo di Cipro delle manovre militari. La Israel Navy è presente con diverse unità tra le quali anche alcune navi tipo Saar 4 e Saar 5, e due sommergibili della classe Dolphin. Inoltre, in un aeroporto cipriota, l'aeronautica militare israeliana ha trasferito diversi aerei fra i quali anche alcuni F-35A. Il messaggio è palesemente chiaro, Israele intende far rispettare la legge internazionale a chiunque, anche alla Turchia, e non permetterà che siano ostacolate le sue esportazioni di gas verso l'Europa, in particolare il passaggio del gasdotto, l'East-Med, che rappresenta una fondamentale rotta del gas per Israele, Cipro, Grecia e Italia.
  Non è un caso, infatti, che la fregata Federico Martinengo, una delle più moderne unità della Marina Militare italiana è arrivata a Cipro per alcune manovre nel Mediterraneo orientale. Si tratta di una mossa silenziosa ma importante che segue l'accordo tra Libia e Turchia sulle Zone Economiche Esclusive e, soprattutto, dopo le continue minacce di Recep Tayyip Erdogan. Anche l'italiana ENI ha un ruolo di fondamentale importanza in quello scacchiere. La sosta della Federico Martinengo nel porto di Larnaca è iniziata lo scorso venerdì 6 dicembre, poi, tra il 12 e il 14, sarà dato il via a una serie di manovre congiunte con altre nove marine militari alleate, probabilmente le stesse manovre navali a cui accennavo precedentemente.
  La partecipazione a questa serie di addestramenti congiunti, che altro non sono che una passerella di muscoli navali, serve a far capire che se dovesse essercene bisogno i governi interessati sono pronti a far valere i loro diritti sia di carattere strategico, che generale, nel bacino del Mediterraneo allargato. In particolare nel settore orientale dove ci sono i ricchi fondali nella zona cipriota, fondali da tempo finiti sotto gli occhi di Erdogan che vede quei giacimenti come parte delle risorse Turche.
  Intanto la Grecia, Cipro ed Egitto hanno dichiarato che il nuovo accordo fra Turchia e Libia è incompatibile con il diritto internazionale, la Grecia ha espulso l'ambasciatore libico e l'Unione Europea ha dichiarato che quegli accordi violano i diritti sovrani dei paesi terzi e non sono conformi al diritto del mare. Pertanto non possono produrre conseguenze giuridiche per i paesi terzi. Insomma ce n'è abbastanza per non stare tranquilli.

(Nicola Porro, 20 dicembre 2019)


E' Chanukkà, festa delle luci per gli ebrei

di Daniele Silva

Era il 200 a.C. quando i Seleucidi dominavano su Gerusalemme. Dopo una prima fase di relativa pace, salì al potere il re Antioco Epifane, che proibì agli ebrei di osservare i precetti religiosi, imponendo la conversione all'ellenismo e profanando l'antico tempio. Un gruppo di ebrei - i Maccabei, dal nome del loro capo Yehudà Hamakabi - si ribellarono, sconfiggendo gli invasori, e furono testimoni di un miracolo: il candelabro sacro del tempio, profanato dai greci, rimase acceso per otto giorni, nonostante l'olio fosse sufficiente per un giorno solo. Per ricordare il miracolo del candelabro e l'insperata vittoria militare, si celebra la festa di Chanukkà, o "festa delle luci", a partire dalla sera di domenica 22 dicembre e per gli otto giorni successivi, fino al 30 dicembre.
   Durante la festa si accendono le luci una per ogni sera - su un particolare candelabro a nove braccia, la "Chanukkià" -, per rivivere il miracolo. Numerose sono le usanze che accompagnano la festa, che come di consueto si celebra in compagnia di amici e parenti: ci si scambia regali, con particolare attenzione per i più piccoli, si mangiano frittelle ("Sufganiot" in ebraico) e altri dolci fritti, si gioca con le trottole ("Sevivon").

(Stampa Torino Sette, 20 dicembre 2019)


Ambasciatore Dermer: "La realtà è che gli ebrei sono sia un popolo che una fede"

Nessuno vuole impedire le critiche al governo israeliano, ma negare il diritto all'autodeterminazione degli ebrei significa applicare una discriminazione antisemita.

Durante un evento alla vigilia della festa di Hanukkà presso l'ambasciata d'Israele a Washington, l'ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Ron Dermer ha parlato dell'Ordine esecutivo firmato dal presidente Donald Trump contro l'antisemitismo nei campus universitari. "La scorsa settimana - ha detto Dermer - il presidente Trump ha utilizzato la sua autorità esecutiva per contrastare l'odio anti-ebraico nei campus universitari, che sono diventati l'epicentro del vergognoso tentativo di diffamare e demonizzare lo stato ebraico e dove molti ebrei non si sentono più al sicuro nell'esprimere la propria identità. Ho trovato interessante - ha proseguito l'ambasciatore - che, quando il presidente Trump ha preso questa decisione, è scoppiato un dibattito sui social network circa il fatto se gli ebrei siano un popolo o solo una fede religiosa. Da oltre un secolo gli anti-sionisti, sia ebrei che non ebrei, cercano di negare che gli ebrei sono un popolo. Gli ebrei anti-sionisti negano che gli ebrei sono un popolo per paura che i non ebrei li discriminino o perseguitino come appartenenti a una nazione separata. I non ebrei anti-sionisti negano che gli ebrei sono un popolo per negare al popolo ebraico il diritto all'autodeterminazione cui hanno titolo tutti i popoli. In ogni caso - ha concluso Dermer - a prescindere dalle diverse motivazioni e dalle sciocchezze che circolano sui social network, la realtà è che gli ebrei sono sia un popolo che una fede"...

(israele.net, 20 dicembre 2019)


La Brigata di Carta che salvò la cultura Yiddish

Nel 1941 i nazisti trasformarono Vilnius, allora popolata da 60mila ebrei, in un centro di smistamento di libri, documenti e opere d'arte ebraici proveniente da tutta l'Europa dell'Est. Affidarono il lavoro agli intellettuali della "Gerusalemme di Lituania", che dovevano separare le opere rare, da inviare all'istituto di ricerca nazista sugli ebrei a Francoforte, da quelle meno importanti, destinate alla distruzione. Gli eroi della "Brigata della carta", come venivano chiamati nel ghetto, riuscirono a nascondere e a salvare - almeno temporaneamente - migliaia di opere.
Grazie alla resistenza di Herman Kruk, militante del partito operaio ebraico, del linguista Zelig Kalmanovich, o ancora dei poeti Shmerke Kaczerginski e Avrom Sutzkever, questi tesori della cultura Yiddish sono oggi conservati nel nuovo YIVO (Istituto Scientifico Ebraico) di New York e alla Biblioteca nazionale di Lituania.
La regista belga Diane Perelsztejn ne ha ritracciato la storia in questo documentario di ARTE in italiano, che la redazione di Pagine Ebraiche ha potuto vedere in anteprima.

(moked, 19 dicembre 2019)


Intercettato razzo da Gaza

In risposta l'esercito colpisce una base di Hamas nella Striscia

Un razzo è stato lanciato ieri sera da Gaza verso il sud di Israele in particolare verso la città di Sderot, dove erano risuonate poco prima le sirene di allarme. Lo ha detto il portavoce militare aggiungendo che il razzo è stato intercettato dal sistema di difesa antimissili Iron Dome. In risposta al lancio del razzo, in nottata, l'esercito israeliano ha fatto sapere di aver colpito nel nord della Striscia un deposito di armi di Hamas. Questa mattina il Cogat, il Comitato di governo israeliano dei Territori Palestinesi, ha annunciato che dopo il lancio del razzo dalla Striscia è stata ridotta a 10 miglia nautiche la zona nautica consentita alla pesca al largo della costa di Gaza.

(ANSAmed, 19 dicembre 2019)


Una mozione per istituire "una Settimana della Memoria"

Lo scopo? «Ricordare tutti i genocidi e crimini contro l'umanità, e non concentrarsi unicamente sulla Shoah.

BELLINZONA - Istituire "una Settimana della Memoria (in sostituzione e/o in aggiunta alla giornata cantonale della Memoria) in ricordo delle vittime e dei popoli oppressi, discriminati o che hanno perso la vita in ragione del loro pensiero, della loro etnia, religione, razza, origine, del loro sesso o per altre ragioni discriminatorie inammissibili in uno Stato democratico moderno". A chiederlo, tramite una mozione interpartitica, sono Nadia Ghisolfi, Henrik Bang, Giovanni Berardi, Boris Bignasca, Gina La Mantia, Tamara Merlo, Roberta Passardi e Amanda Rückert.
Fino al 2013 - si ricorda nella mozione - esistevano due distinte giornate che fungevano a tale scopo: una Giornata cantonale della memoria il 21 marzo e quella internazionale dedicata alle vittime dell'Olocausto dell'ONU il 27 gennaio.
Nel 2013, il Cantone si è allineato a quanto avviene nel resto della Svizzera e nel resto del mondo, decretando il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz, la data ufficiale de "La giornata della memoria", per ricordare tutti i crimini contro l'umanità e ogni forma di discriminazione.
«Lo scopo all'origine dell'iniziativa parlamentare approvata nel 2005 (che istituiva la giornata cantonale) però è quello di ricordare tutti i genocidi e crimini contro l'umanità, e non concentrarsi unicamente sulla Shoah», viene sottolineato. «E' ottima cosa - conclude la mozione - che il Cantone abbia la sua Giornata cantonale in quanto è compito proprio dell'autorità mantenere vivo il ricordo di tutte le vittime del male, di cui oggi si parla però sempre meno. Per permettere al Cantone, come lo faceva in passato, di concentrarsi su tutti i temi, con la presente mozione si chiede di estendere la giornata della Memoria a una settimana della Memoria. In questo modo, la stessa potrebbe venire aperta il 27 gennaio, ricordando, in concomitanza con la giornata internazionale, le vittime dell'Olocausto, e permetterebbe in seguito di commemorare i genocidi, crimini contro l'umanità, soprusi e discriminazioni che sono continuati e continuano e non si sono fermati nel 1945».

(tio.ch, 19 dicembre 2019)


Perché concentrarsi solo sui genocidi e perché solo una settimana? Si potrebbe istituire il "Mese della Memoria" in ricordo di tutti i morti ammazzati in tutti i secoli passati e in tutti i continenti. Dopo il «negazionismo», ormai screditato e criminalizzato, sta emergendo una nuova forma “nobile” di svalutazione della Shoah: l’«inclusivismo”. M.C.



Esiste la nazione ebraica?

Il presidente Trump ha firmato recentemente un decreto esecutivo in cui definisce l’ebraismo una nazionalità e non solo una religione. Forse senza rendersene conto, sia pure per contingenti suoi motivi politici, ha riacceso l’attenzione su un rapporto fondamentale: quello tra ebraismo e nazionalità. Chi scrive sostiene da tempo che il concetto biblico primario che sta alla base del “fenomeno ebrei” è quello di nazione. Proprio per questo l’antisionismo è, in questo periodo della storia, l’espressione più netta e micidiale di antiebraismo. L’indignazione generale che oggi si solleva intorno all'«odio» che si esprime in forme di razzismo e generico antisemitismo appare sempre di più come un enorme polverone che confonde forme, sfuma contorni e inebetisce chi parla e chi ascolta. Perché si parla molto di ebrei, e sono tanti quelli che li vorrebbero difendere. Soprattutto attaccando altri. Forse ogni tanto varrebbe la pena di provare a fermarsi, documentarsi e riflettere. Ripresentiamo a questo scopo, come semplice stimolo e ausilio, alcuni paragrafi tratti dal libro "Dalla parte di Israele come discepoli di Cristo".

di Marcello Cicchese

Per secoli gli ebrei sono stati considerati un gruppo sociale accomunato da una religione superata e opposta a quella vera, con un passato storico negativo e un presente politico che costringeva le nazioni in cui si trovavano a porsi ogni volta il problema della loro presenza su una terra che non apparteneva a loro. Dal 70 al 1948 d.C. gli ebrei non hanno più avuto una terra, non sono più stati una nazione e la loro presenza è stata considerata un continuo intralcio storico, qualche volta tollerato con benevolenza e con risvolti anche positivi, ma nella maggior parte dei casi subito come una specie di maledizione. «Gli ebrei sono la nostra disgrazia», è la conclusione che in molti casi si traeva quando le cose andavano male e la gente trovava conforto in una spiegazione semplice che accomunava tutti, a parte gli ebrei.
   L'avvento dell'Illuminismo, con il conseguente declino dell'influenza della Chiesa sulle società europee, rese sempre meno plausibile la diversificazione degli uomini sulla base della religione. Non si abolì del tutto l'idea di Dio: generosamente gli si lasciò il diritto all'esistenza, ma gli si tolse il diritto di parola. Da quel momento Dio, non potendo più parlare, non poté più dire qual è la religione giusta e quale quella sbagliata: dovette accontentarsi di aver creato il mondo e di continuare a produrre esseri umani tutti uguali tra loro quanto ai diritti, anche se suddivisi in vari gruppi socialmente e politicamente organizzati chiamati "nazioni".
   Attenzione però: la suddivisione in gruppi nazionali non doveva avere niente a che fare con Dio, come ai tempi della "cuius regio, eius religio": il riferimento a Dio doveva restare un fatto individuale, un diritto intangibile della singola persona che non doveva interferire con la struttura politica della nazione. Anche gli ebrei, quindi, da quel momento furono considerati come tutti gli altri: furono "emancipati". Non poterono più essere esclusi per il fatto che si riferivano a Mosè e alla Torà invece che a Gesù Cristo, ma neppure dovevano pensare di avere diritto a un trattamento particolare. Si poteva essere ebrei, cristiani, atei o altro ancora, ma bisognava essere leali verso la nazione di cui si faceva parte. Così si pensava, almeno fino a un secolo fa.
   La maggior parte degli ebrei, anche se non tutti, accettò questa situazione. Dopo tanti secoli di emarginazione e limitazioni, l'idea di avere - come i non ebrei - libertà d'azione in una terra da poter considerare - insieme ai non ebrei - come loro patria, era troppo attraente.
   La cosa cominciò con Napoleone.
    "Napoleone, ormai Imperatore dei Francesi (dal maggio 1804) vuole avere il dominio e il controllo su tutti. Siccome le popolazioni dell'Alsazia e Lorena presentarono all'Imperatore le loro lagnanze attribuendo agli Ebrei la causa di tutte le loro sciagure,
       Napoleone volle esaminare il problema ebraico: nel 1806 esso fu discusso due volte al Consiglio di Stato; e in lui maturò l'idea di convocare il Sinedrio. Un Napoleone non poteva accontentarsi di una semplice Assemblea rappresentativa; doveva essere il Sinedrio, come nei tempi antichi, autorevole e venerando come l'antico Sinedrio, di cui doveva essere una copia precisa. Nel luglio del 1806 si riunì a Parigi l'Assemblea dei notabili ebrei composta da 112 deputati [...] Al Sinedrio fu presentata la seguente dichiarazione: "L'Ebreo considera il suo paese natale come sua patria, e ritiene suo dovere difenderla" . E tutti i delegati, in piedi, gridarono: "Fino alla morte!"
Quasi mezzo secolo dopo, non più in Francia ma in Germania, nel 1848, il rabbino di Magdeburgo scrisse sul giornale "Allgemeine Zeitung des Judentums", di cui era direttore, parole accorate in difesa della fratellanza ebraico- tedesca:
    "Smetteremo di considerare il nostro un caso speciale; è tutt'uno con la causa della patria: insieme i due vinceranno; insieme falliranno. Siamo tedeschi e non desideriamo essere altro! Abbiamo una patria tedesca e non ne desideriamo altre! Non siamo più israeliti se non nella nostra fede religiosa - in ogni altro rispetto apparteniamo davvero allo stato in cui viviamo".
Quanto all'Italia, la situazione era ancora più chiara:
    "In realtà, dal 1870 in poi, sino al fascismo e ancora dopo - per molti sino quasi alle persecuzioni razziali - la maggioranza degli ebrei italiani imboccò con estrema decisione e percorse a grandi passi la via dell'assimilazione, fondendosi organicamente con il resto degli italiani. Abbandonati i ghetti, abbandonate le tradizionali attività, andati a vivere tra gli «altri», entrati e rapidamente affermatisi nelle attività sino allora precluse - la burocrazia, l'insegnamento, la carriera militare, ecc. - e ovunque accolti senza resistenze e addirittura con simpatia, i più di questi ebrei si italianizzarono anche psicologicamente ed intellettualmente."
Vi erano dunque francesi di religione ebraica, tedeschi di religione ebraica, italiani di religione ebraica. L'elemento primario a cui si prometteva lealtà era la nazione, mentre la religione restava un fatto individuale che non serviva più a delineare i contorni netti di un gruppo sociale, ma anzi era spesso causa di contrasti supplementari in seno alla nazione. Si videro dunque, durante la prima guerra mondiale, ebrei francesi, tedeschi e italiani ammazzarsi in piena coscienza fra di loro in quanto appartenenti a nazioni diverse in lotta, a cui ciascuno aveva giurato fedeltà. Lealmente mantennero la promessa di essere prima francesi poi ebrei, prima tedeschi poi ebrei, prima italiani poi ebrei. Il risultato fu che si trovarono insieme come ebrei, presi a calci da tutti: francesi, tedeschi e italiani.
    La motivazione di fondo addotta dai persecutori fu la scoperta che l'ebraismo non è soltanto una religione che regola il rapporto del singolo con Dio, ma è prima di tutto un'appartenenza a una realtà sociale che, non essendosi potuta chiamare per molti secoli "nazione", è stata chiamata con i nomi di "razza", "stirpe", "tribù", "genìa", "internazionale ebraica" e altri titoli dalla risonanza più o meno sinistra. Nei momenti cruciali sorge quindi nei nazionalisti il sospetto - o torna utile sollevare strumentalmente l'accusa - che l'ebreo finga di essere fedele alla nazione a cui appartiene, mentre in realtà rivolge la sua fedeltà primariamente alla comunità dei suoi fratelli ebrei. Con conseguenze altamente dannose per la nazione.
   Può essere portato ad esempio proprio il caso degli ebrei italiani, che per molti anni hanno partecipato attivamente e in modo convinto prima al risorgimento e poi anche al fascismo. Quando il governo fascista decise di imboccare la strada della discriminazione razziale, cominciarono ad uscire sulla stampa articoli che non volevano presentarsi come manifestamente antisemiti, ma esponevano "perplessità" sulla fedeltà degli ebrei alla causa nazionale fascista. Il 12 settembre 1936, il giornale del gerarca Roberto Farinacci, «Il regime fascista», pubblicò un fondo dal titolo Una tremenda inquisitoria, in cui a un certo punto vengono nominati gli ebrei.
    "Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono una infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nelle scuole, non hanno svolto un'opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Dobbiamo confessare che hanno sempre pagato i loro tributi, obbedito alle leggi, compiuto anche in guerra il loro dovere.
    Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo, che può suscitare qualche sospetto. Perché non hanno detto mai una parola che valga a persuadere tutti gli italiani ch'essi compiono il loro dovere di cittadini per amore, non per timore o per utilità?
    Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo della internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?...
    Si sta generando la sensazione che fra poco tutta l'Europa sarà teatro di una guerra di religione. Non se ne accorgono essi?
    Siamo già sicuri che da più parti si griderà: noi siamo ebrei fascisti. Non basta. Bisognerà dare la prova matematica di essere prima fascisti, poi ebrei."
Ecco dunque l'accusa periodicamente ricorrente: la doppia nazionalità dell'ebreo, di cui la più importante non sarebbe la nazione in cui vive, ma l'internazionale ebraica o, adesso, lo Stato d'Israele.
   Quanto alla tenebrosa internazionale ebraica, ci si potrebbe chiedere come mai non si è sentito il bisogno di parlare, con altrettanto alone di mistero, di internazionale cattolica o internazionale islamica, anche in considerazione del fatto che i fedeli di ciascuna di queste due religioni superano il miliardo, mentre gli ebrei in tutto il mondo non superano i 16 milioni. Se si trovasse un libello in cui fosse scritto che il Vaticano sta coltivando il progetto di dominare il mondo attraverso la sua rete bancaria, la sua struttura gerarchica piramidale, i suoi ordini religiosi, le sue società più o meno segrete come la Compagnia di Gesù o l'Opus Dei, il suo accesso ai media internazionali con cui il Papa influenza tutti i giorni l'opinione pubblica, non sarebbe più verosimile dei "Protocolli dei savi anziani di Sion"? Sarebbe ragionevole pensarlo, ma sembra che quando si tocca il tema "ebrei" o "Israele" molti smarriscano gli usuali punti di riferimento logici e si avventurino in uno mondo fantasioso in cui non valgono più gli usuali principi di razionalità. Potrebbe essere un'anticipazione della profezia biblica in cui Dio dice, riferendosi agli ultimi tempi: «Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti» (Zaccaria 12:2). Potrebbe essere, ma non è detto. Però si direbbe proprio che per qualcuno una certa forma di stordimento sia già cominciata.


NOSTALGIA DELLA NAZIONE EBRAICA

Le considerazioni fin qui fatte possono aiutare a rendersi conto che dalla fine dell'Ottocento la cosiddetta "questione ebraica" si è posta in una forma nuova perché ha cominciato a ruotare intorno al concetto di nazione. Da allora non è stato più possibile esaurire il problema rispondendo alla domanda su come trattare gli ebrei come individui, o come gruppo sociale di persone aventi certe proprietà comuni tra cui, in modo particolare ma non esclusivo, il credo religioso. L'emancipazione avrebbe dovuto risolvere il problema individuale: gli ebrei sono cittadini come tutti gli altri. La libertà religiosa avrebbe dovuto risolvere il problema comunitario: gli ebrei possono aggregarsi come vogliono per rendere culto al loro Dio nelle forme che ritengono più opportune. Ma naturalmente tutto questo avrebbe dovuto svolgersi nell'ambito di ciascuna nazione, perché gli ebrei - così si pensava, e così molti ancora pensano - costituiscono un gruppo religioso con particolari usanze comuni, ma non una nazione. Poiché la nazionalità di ciascuno di loro è data dal paese in cui vivono, ci si aspetta che le credenze religiose non intralcino la partecipazione al comune sentimento nazionale.
   Per molti ebrei occidentali, in particolare tedeschi e italiani, questo è avvenuto. Fino alla Grande Guerra il processo di assimilazione è andato avanti in modo spedito e la maggior parte degli ebrei era pienamente soddisfatta di aver trovato una patria in cui essere accolti, di potersi sentire a casa propria e, se necessario, di soffrire con gli altri per la difesa dei sacri confini.
   Le cose invece sono andate diversamente nell'Europa dell'est. Anche in quelle zone si era avviato, sia pure molto lentamente, un graduale processo di emancipazione degli ebrei. Leon Pinsker (1821-1891) fu uno dei primi esponenti del mondo ebraico russo che poté accedere agli studi universitari. Si laureò in medicina e in un primo tempo fu tra quelli che cercarono di favorire il processo di assimilazione. Si adoperò per la fondazione e la diffusione di periodici scritti appositamente in lingua russa al fine di favorire l'abbandono da parte degli ebrei dell'yiddish, la lingua del ghetto che impediva i rapporti con il resto della popolazione. Ma dopo il 1870 si susseguirono nell'impero zarista ondate di pogrom che indussero Pinsker a rivedere la sua posizione assimilazionistica e a pubblicare, nel 1882, un pamphlet in lingua tedesca, ormai diventato classico, dal titolo "Auto-emancipazione". Più che nelle proposte operative, il punto fondamentale di questo magistrale libretto sta nell'individuazione del motivo profondo che secondo l'autore sta alla base dell'antisemitismo moderno: l'assenza di una nazione ebraica e la mancanza negli ebrei di un adeguato sentimento di identità nazionale.
   Varrà la pena di fare lunghe citazioni di questa opera, che in alcuni casi contiene parole dal tono quasi profetico.
    "Come nei tempi passati, l'eterno problema che si chiama questione ebraica agita ancora oggi gli uomini. Esso rimane insoluto come la quadratura del cerchio, con la differenza che continua ad esser tuttora il più ardente problema fra i problemi del giorno. Ciò è dovuto al fatto che non si tratta soltanto di un problema teorico, ma di una questione che la vita reale stessa rinverdisce quotidianamente e di cui imperiosamente chiede la risoluzione.
    Il problema, come noi lo vediamo, consiste essenzialmente in questo: che gli ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono, un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da nessuna nazione. [...]
    Agli ebrei manca la maggior parte di quegli attributi che costituiscono i caratteri essenziali d'una nazione. Manca loro quella sostanziale vita nazionale che è inconcepibile senza una lingua comune, senza costumi comuni e senza un territorio comune. Il popolo ebraico non ha patria, per quanto ne abbia molte; non ha un punto di raccolta, non ha un centro di gravitazione, né un governo proprio, né un istituto rappresentativo. Gli ebrei sono dappertutto e nessun luogo è la loro casa. I popoli non hanno a che fare con la Nazione ebraica, ma sempre e soltanto con gli individui ebrei. Gli ebrei non sono una nazione, poiché manca loro quel preciso carattere nazionale distintivo che posseggono tutte le altre nazioni; carattere determinato unicamente dalla convivenza in un paese unico, sotto un medesimo governo."
Qualcuno potrebbe osservare che se i popoli si trovano ad avere a che fare "sempre e soltanto con gli individui ebrei e non con la nazione ebraica, può dipendere dal fatto che questa nazione non esiste, che non è mai esistita, o che se un giorno è esistita adesso è scomparsa e non si sente alcun bisogno di farla ricomparire. Pinsker non argomenta su questo punto, non interroga il passato per trarne una dimostrazione di esistenza, ma sviluppa il suo ragionamento dando per scontato che la nazione è esistita e continua ad esistere, ma che l'allontanamento dalla patria e la dispersione nel mondo hanno fatto perdere ai suoi cittadini il sentimento della propria nazionalità, inducendoli a reprimere l'originario patriottismo per favorire il loro inserimento in altre nazioni.
    "Tale carattere nazionale non poteva certo svilupparsi nella dispersione: pare anzi che gli ebrei abbiano piuttosto smarrito ogni memoria della loro patria antica. Grazie alla loro pronta adattabilità, hanno potuto facilmente acquistare i caratteri dei popoli estranei, verso cui il destino li aveva spinti. È accaduto anzi che essi si spogliassero non di rado della loro individualità originale, tradizionale, per piacere ai loro protettori. Essi acquistarono, o credettero di acquistare, certe tendenze cosmopolite che non piacevano agli altri come non soddisfacevano agli ebrei stessi.
    Per il desiderio di fondersi con gli altri popoli, gli ebrei rinunciarono volontariamente, fino a un certo punto, alla loro nazionalità. Ma non riuscirono mai ad ottenere che i loro concittadini li considerassero eguali agli altri abitanti nativi del paese.
    Ma ciò che più di tutto impedisce agli ebrei di tendere alla riconquista di una esistenza nazionale indipendente, è che essi non sentono il bisogno di questa esistenza. E non solo non lo sentono, ma negano persino all'ebreo il diritto di sentirlo."
Pinsker parla di "riconquista di un'esistenza nazionale indipendente", dando dunque per scontato che tale esistenza ci sia stata nel passato e affermando che adesso è arrivato il momento di riaverla. Questa riconquista dell'esistenza nazionale deve però essere ottenuta con le proprie forze e non per la benevolenza delle nazioni ospitanti, a cui l'assenza di una nazione ebraica non provoca alcuna nostalgia. E invece di attardarsi a piagnucolare o a imprecare contro la cattiveria degli altri, Pinsker lancia un appello critico ai suoi connazionali. Il suo libro infatti ha come sottotitolo: "Appello di un ebreo russo ai suoi fratelli". La mancanza di una patria - dichiara Pinsker - è come una malattia. L'autore non discute su che cosa l'abbia provocata, ma invita a ricercare attivamente le vie della guarigione. Per guarire però bisogna avere la consapevolezza di essere malati e desiderare ardentemente la guarigione.
    "Per un ammalato, non sentire il bisogno di mangiare e di bere, è un sintomo molto grave. Non sempre è possibile al medico evitargli tale pericolo. E se anche l'appetito ritorna, è sempre dubbio che il malato possa assimilare il nutrimento, ancorché lo desideri.
       Gli ebrei si trovano nella dolorosa condizione di un malato simile. Questo punto, che è il più importante di tutti, va energicamente sottolineato. Dobbiamo dimostrare che la cattiva sorte degli ebrei è dovuta anzitutto al fatto che manca loro il senso del bisogno dell'indipendenza nazionale; che questo desiderio deve esser in loro ridestato e ravvivato per tempo, se non vogliono essere esposti per sempre ad una esistenza disonorevole; in una parola, è necessario che essi diventino una nazione."
Va sottolineato che per Pinsker diventare nazione non significa far nascere la nazione, ma farla guarire. Non si tratta di un passaggio dall'inesistenza all'esistenza, ma dalla malattia alla sanità. E della malattia tutti sono responsabili, ebrei e non ebrei.
    "In questo fatto all'apparenza insignificante - cioè che gli ebrei non sono considerati dagli altri popoli come nazione a sé - sta in parte il segreto della loro situazione anormale e della loro miseria infinita. Il solo fatto di appartenere al popolo ebreo costituisce già di per sé una stigmate incancellabile, ripugnante per i non ebrei stessi. Questo fenomeno, nonostante la sua stranezza, ha la sua profonda base nella natura umana.
    Fra le nazioni viventi oggi sulla terra gli ebrei rimangono come i figli d'una nazione morta da tempo. Con la perdita della sua patria, il popolo ebraico ha perduto la sua indipendenza, ed è giunto ad un tale grado di disgregazione che è incompatibile con l'esistenza di un organismo integro e vivente. Lo Stato ebraico, crollato sotto il peso della dominazione romana, scomparve agli occhi delle nazioni. Ma il popolo ebraico, anche dopo che ebbe perduto la speranza di esistere nella forma fisica e positiva dello Stato, come un'entità politica, non poté con tutto ciò rassegnarsi alla distruzione totale; non cessò anche dopo di esistere spiritualmente come nazione. Il mondo vide, in questo popolo, lo spettro pauroso d'un morto che cammina fra i vivi.
Con un linguaggio che solo apparentemente è metaforico, Pinsker tocca qui un punto cruciale del problema ebraico presupponendo un dato di fatto che non molti sono disposti a riconoscere: la nazione ebraica costituisce un organismo unitario vivente e il suo popolo possiede una personalità corporativa.
   Non sono gli ebrei che costituiscono la nazione ebraica, ma è la nazione ebraica che genera i suoi figli; non sono gli ebrei che formano il popolo ebraico, ma è il popolo ebraico che iscrive gli ebrei tra i suoi membri. I figli della nazione possono essere degeneri, e i membri del popolo possono rivelarsi trasgressori, ma questo non altera né la posizione costitutiva della nazione, né la funzione statutaria del popolo.
    In una situazione di sana normalità una nazione è costituita da:
  1. cittadini (il popolo);
  2. patria (la terra);
  3. sovranità (lo stato).
La malattia della nazione ebraica sta nel fatto che ha perso la parte fisica della sua identità, cioè la terra, ma non ha perso, né poteva perdere, l'elemento vitale unitario, che indirettamente Pinsker denota come parte "spirituale". Senza terra e senza sovranità, la nazione è fisicamente morta, ma il suo spirito continua a vivere nel popolo, la cui immortale anima corporativa si manifesta nell'impossibilità di disgregarsi, di disperdere irreversibilmente le sue cellule nella molteplicità delle nazioni circostanti. Contro tutte le aspettative, il popolo continua a mantenere nei secoli la sua unità "spirituale", nel senso più ampio del termine. Ma è uno spirito senza corpo, e quindi è costretto ad aggirarsi per il mondo come un fantasma che incute terrore in chiunque lo incontra.
    "Questa apparizione spettrale, questa figura d'un morto errante, di un popolo senza unità organica, non legato ad una terra, non più vivo eppure vagante fra i vivi, questa figura strana, senza esempio nella storia dei popoli, diversa da tutte quelle che l'avevano preceduta o che l'avrebbero seguita, non poteva non produrre un'impressione strana e singolare sull'immaginazione dei popoli. E poiché la paura degli spettri è innata nell'uomo ed è in qualche modo giustificata nella vita psichica dell'umanità, non può destare meraviglia che quella paura si manifestasse così forte, alla vista di questa nazione ancora morta e pur viva insieme.
    La paura di questo spettro che rivestiva figura ebraica è stata tramandata e si è rafforzata nel corso delle generazioni e dei secoli. Essa porta al pregiudizio il quale, unito ad altri fattori che verranno esposti in seguito, ha condotto alla giudeofobia.
    Questa giudeofobia si radicò e naturalizzò fra tutti i popoli della terra con cui gli ebrei ebbero rapporti, insieme a tante altre idee inconsce e superstiziose, a tanti altri istinti ed idiosincrasie che dominano inconsapevolmente nei cuori umani. La giudeofobia è una forma di 'demonopatia': ma la differenza è che la paura dello spettro ebraico ha colto tutto il genere umano e non alcune razze soltanto; esso inoltre non è incorporeo, come gli altri spettri, ma è di carne e di sangue, e soffre le torture più atroci per le ferite inflittegli dalle folle terrorizzate che si immaginano di esser minacciate da lui.
    La giudeofobia è un morbo psichico. Essendo una malattia psichica, è ereditaria e poiché si trasmette già da due millenni, è incurabile.
Per Pinsker dunque l'antisemitismo, che con linguaggio medico chiama giudeofobia, è un male incurabile fino a che permane la situazione storica in cui è costretto a vivere il popolo ebraico. L'emancipazione degli ebrei concessa dai governi di alcune nazioni è stato il massimo raggiungibile fino a quel momento, ma non ha risolto il problema perché non ha modificato il sentimento dei popoli, per i quali chi non è figlio della terra su cui vive è sempre considerato uno straniero. Affinché cambino i sentimenti, devono cambiare le cose. E il cambiamento non può essere soltanto un modo migliore di trattare i singoli ebrei nelle diverse nazioni. Quello che deve cambiare è il fatto che il popolo ebraico non ha una sua terra su cui possa vivere dignitosamente come nazione sovrana.
    "La nostra sventura maggiore è che noi non siamo costituiti in nazione, ma che siamo semplicemente degli ebrei. Siamo un gregge disperso su tutta la faccia della terra, senza un pastore che ci protegga e ci raccolga. Nella migliore delle condizioni arriviamo al grado di quelle capre che, in Russia, si usa porre nelle stalle insieme con i cavalli di razza. E' il limite massimo della nostra ambizione.
    È vero che i nostri cari protettori hanno sempre fatto in modo che noi non avessimo mai un minuto di quiete e non potessimo riacquistare il rispetto di noi stessi. Abbiamo combattuto per secoli la dura ed ineguale lotta per l'esistenza nella nostra qualità di individui ebrei, e non nella veste di nazione ebraica. Ognuno per conto suo dovette, sprecare il suo ingegno e le sue energie per un po' di aria libera e per un pezzo di pane bagnato di lacrime. In questa lotta disperata non siamo stati vinti. Abbiamo resistito alla più gloriosa delle guerre di parte, contro tutti i popoli della terra, che, in un perfetto accordo, volevano sterminarci. Senonché questa lotta che combattemmo e che Dio sa fino a quando dovremo combattere ancora, non era fatta per conquistarci una patria ma per rendere possibile l'esistenza infelice a milioni di "Ebrei merciaiuoli ambulanti".
Pinsker sottolinea ancora una volta la distinzione tra piano individuale e piano nazionale. Rispetto al primo, gli ebrei hanno vinto la loro lotta per la sopravvivenza; rispetto al secondo, no.
    "Se tutti i popoli della terra non poterono impedire la nostra vita, essi riuscirono però a spegnere in noi il sentimento della nostra indipendenza nazionale. E così noi assistiamo con una indifferenza fatalistica, come se non si trattasse di noi, a questo spettacolo: che in molti paesi si negano agli ebrei quegli elementari diritti alla vita che non si negherebbero tanto facilmente neppure agli zulù. Nella dispersione abbiamo salvato, la nostra vita individuale abbiamo dimostrato la nostra forza di resistenza, ma abbiamo perduto il legame comune della coscienza nazionale. Nello sforzo di conservare la nostra esistenza materiale, fummo troppo spesso costretti, più di quanto non convenisse, a sacrificare la nostra dignità morale. Non ci siamo accorti che con questa tattica, indegna di noi ma che noi eravamo costretti ad adottare, ci abbassavamo sempre di più agli occhi dei nostri avversari e che essa ci esponeva sempre più all'umiliante disprezzo e alla proscrizione che diventavano ormai il triste retaggio secolare della nostra gente."
E continua con una constatazione realistica e amara che dovrebbe essere motivo di riflessione e vergogna per chi non appartiene a quel popolo:
    "Nel vasto mondo non c'era posto per noi. Per avere modo di posare il nostro capo stanco e trovare un po' di tranquillità, chiedemmo un luogo qualsiasi. E così, riducendo le nostre aspirazioni, abbiamo gradatamente abbassato anche la nostra dignità ai nostri occhi ed agli occhi altrui, fino a vederla scomparire del tutto.
    Siamo stati la palla da gioco che i popoli si sono fatti rimbalzare a vicenda l'uno contro l'altro. Questo gioco crudele era per noi divertente, sia che fossimo accolti o respinti ed è diventato sempre più piacevole quanto più elastica e molle è diventata la nostra dignità nazionale nelle mani dei popoli. In condizioni tali, come poteva esser possibile una vita nazionale specifica o uno sviluppo libero ed attivo della nostra energia nazionale o la rivelazione del nostro genio originale?"


EMANCIPAZIONE E ASSIMILAZIONE NON RISOLVONO IL PROBLEMA

I vantaggi ottenuti dagli ebrei a partire dalla fine del Settecento con i vari editti di emancipazione che li equiparavano agli altri cittadini fece pensare a molti di loro che la risoluzione del problema ebraico consistesse nel percorrere fino in fondo la via dell'assimilazione. Abbiamo già visto come, nei decenni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, molti ebrei di differenti nazioni europee erano fieri di poter essere cittadini a pieno titolo della nazione in cui vivevano, e in certi casi sembravano addirittura voler dimostrare di essere ancora più patrioti degli altri. La partecipazione convinta degli ebrei alla prima guerra mondiale, raccomandata dai dirigenti delle diverse comunità ebraiche come segno di fedeltà alla nazione, avrebbe dovuto sancire la definitiva omologazione degli ebrei facendo vedere chiaramente che per la loro patria erano pronti anche a morire. Si può citare, a conferma, la solenne frase con cui il giornale "Il Vessillo Israelitico" presentò l'entrata in guerra dell'Italia nel 1915:
    "L'Italia è in guerra e noi all'Italia daremo noi stessi interamente. Ogni sacrificio ci parrà dolce, ogni privazione un dovere. Daremo tutto noi - ebrei - alla patria nostra: daremo i figli, le sostanze nostre, le nostre vite. Tutto l'Italia ha diritto a pretendere da noi e tutto noi le daremo".
Quanto al sionismo, ben pochi in Italia lo vivevano come un desiderio di raggiungere la propria vera patria. A riprova di questo si può portare il fatto che tra il 1926 e il 1938 solamente 151 ebrei italiani sono emigrati in Palestina. Quelli che appoggiavano il sionismo dicevano di farlo per scopi filantropici, cioè per solidarietà verso gli ebrei che fuggivano dall'est o dalla Germania nazista a causa della persecuzione. Gli ebrei che invece avevano la possibilità di essere cittadini a pieno titolo di una nazione, come gli italiani, non desideravano un'altra patria, ma agivano spinti dall'obbligo morale di aiutare i loro correligionari meno fortunati ancora privi di una patria. Altri vi aggiungevano che il sionismo, come aspirazione a ritornare in Sion, poteva anche servire a risvegliare certi valori tradizionali dell'ebraismo che molti assimilati tendevano a dimenticare e trascurare, ma questo tuttavia non doveva né voleva sminuire l'attaccamento alla patria degli ebrei italiani. Questa forma di sionismo all'italiana è ben espressa da un intervento del sionista C.A. Viterbo in una riunione del consiglio dell'Unione delle Comunità Israelitiche del 9 gennaio 1935:
    "... il nostro sionismo è un'appendice della nostra ebraicità... noi cerchiamo di essere onesti, chiari, fuori dell'equivoco, ma non possiamo combattere coloro che hanno la stessa nostra tradizione di fede tramandata dai nostri maestri... è errato, fuori del mondo, negare l'italianità dei sionisti, italianità della quale da millenni essi sono permeati, italianità che essi non possono strappare a loro stessi perché il loro attaccamento alla Patria non è fedeltà, ma amore... Molti sionisti hanno combattuto nella grande guerra e molti sono camicie nere. Ma noi sionisti amiamo anche Israele. Il sionismo lo intendiamo non soltanto filantropico, ma anche fatto per noi stessi, perché dalla rinascita d'Israele rifluisce una vivificazione della lingua, della cultura, delle nostre più nobili tradizioni."
Tre anni dopo, quella patria a cui gli ebrei italiani si sentivano attaccati non per sola fedeltà ma per amore, emetteva le leggi razziali precedute da un "Manifesto degli scienziati razzisti". Al punto 9) di questo documento si legge:
    "Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani."
Più di cinquant'anni prima Pinsker aveva previsto una situazione del genere:
    "Siamo scesi così in basso che esultiamo di giubilo quando in Occidente una piccola parte del nostro popolo viene posta allo stesso grado dei non ebrei. Però se qualcuno ha bisogno che altri lo tenga in piedi, vuol dire che la sua posizione è poco solida. Se non si bada alla nostra origine e ci si tratta al pari degli altri abitanti nati nel paese, siamo riconoscenti al punto da rinnegare completamente il nostro essere. Per vivere meglio, per godere in pace un piatto di carne, cerchiamo di far credere a noi e agli altri che non siamo più ebrei, ma figli legittimi ed autentici della patria. Vana illusione! Voi potete dimostrare di essere veri patrioti finché volete; vi ricorderanno ad ogni occasione la vostra origine semitica. Questo fatale memento mori non vi impedirà tuttavia di godere una larga ospitalità, finché un bel giorno non sarete cacciati dal paese e finché la plebe scettica della vostra legittimità non vi ricorderà che voi non siete, dopo tutto, altro che nomadi e parassiti, non protetti da nessuna legge. [...]
    Non vogliamo neppure ricominciare una nuova vita quale nazione a sé, onde vivere come gli altri popoli, perché i patrioti fanatici che sono fra noi credono necessario sacrificare ogni diritto all'esistenza nazionale indipendente, allo scopo di dimostrare una cosa che non ha bisogno di prove, cioè che sono leali cittadini delle terre in cui abitano. Questi patrioti fanatici negano il loro originale carattere etnico per mostrarsi figli di un'altra nazione qualunque essa sia, umile o alta. Ma essi non ingannano nessuno. Non si accorgono quanto impegno mettono gli altri per liberarsi da questa compagnia ebraica."

IL CONCETTO BIBLICO DI NAZIONE EBRAICA

E' noto che alla domanda "chi è ebreo?" sono state date innumerevoli risposte. E' un interrogativo che oggi travaglia in modo particolare lo Stato d'Israele, perché dalla risposta a questa domanda può dipendere l'ottenimento della cittadinanza israeliana. Ma prima ancora di questa domanda se ne può porre un'altra, che in forma volutamente piatta e banale può suonare così: chi viene prima, gli ebrei o il popolo ebraico? Di solito si procede così: dal magma confuso e disperso su tutta la faccia della terra di individui che per qualche motivo si dicono o sono detti "ebrei" alcuni scelgono una qualche proprietà comune a una parte di loro e arrivano alla conclusione che il vero popolo ebraico è costituito da coloro che soddisfano quella certa proprietà. E' un processo di generazione dal basso che pone prima i singoli, poi la società. E' chiaro che la quantità di "popoli ebraici" che si possono generare con procedimenti induttivi di questo tipo è «come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare» (Genesi 32:12).
   Anche gli italiani sono diversi fra loro sotto moltissimi aspetti, e tuttavia l'elemento unitario del popolo italiano non è costituito da qualche proprietà etnica o morale comune a tutti, ma dall'appartenenza ad un'unica nazione, esistente da prima che tutti gli attuali italiani fossero venuti al mondo ed espressa formalmente da una precisa persona: il Presidente della Repubblica.
   Si può dunque dire che sul piano giuridico, che non è pura formalità ma è il piano reale su cui avvengono i rapporti fra gli uomini, esiste prima la nazione, poi il popolo, poi i cittadini.
   La stessa cosa è vera per gli ebrei: prima viene la nazione ebraica, poi il popolo ebraico, poi gli ebrei. Avere sottolineato questo aspetto trascurato della questione ebraica costituisce il valido contributo al sionismo dato da persone come Pinsker e altri dopo di lui.
   Qualcuno dirà che la sottolineatura del concetto di nazione può condurre a fenomeni di fascismo. come in Italia e in Germania. E' vero: può avvenire, anzi è già avvenuto. Ma questo non significa che l'impostazione nazionale sia sbagliata. Si dice solitamente che il sionismo è un movimento che emerge e si sviluppa nella scia del generale risveglio dei sentimenti nazionali di vari popoli. Sul piano della mera osservazione dei fatti, questo è vero, ma sul piano dell'interpretazione della storia fornita dalla Bibbia, è il sionismo che ha prodotto, come necessità anticipatoria, il risveglio dei vari nazionalismi; ed è l'avvicinarsi dell'inevitabile ricostituzione politica e territoriale della nazione ebraica che ha provocato la diabolica contraffazione costituita dal Terzo Reich. Tra tutti gli studi fatti sul nazismo, sarebbe interessante trovarne qualcuno che esamini a fondo quella sorta di teologia della sostituzione presente nella falsificazione messianica dell'ideologia nazista. Le motivazioni di certe forme di antisemitismo risulterebbero più chiare se si capisse che si tratta dell'odio che l'imitazione sofisticata ha per il prodotto originale. Come beffa aggiuntiva, dopo il definitivo crollo di quella immonda falsificazione del regno di Dio messianico costituita dal Terzo Reich, la forza diabolica dell'equiparazione è ricomparsa nella nuova forma di ripetute accuse alla politica israeliana, a cui si rinfaccia di usare forme e metodi del nazismo!
   Non si vuole qui sostenere che l'attuale Stato d'Israele rappresenta il regno di Dio sulla terra, ma che la sua presenza oggi sulla scena politica mondiale è espressione di una precisa volontà di Dio all'interno del suo sovrano progetto storico. Di conseguenza, l'odio contro questo Stato, il tentativo o anche il solo desiderio di distruggerlo, sia che venga da ebrei laici o superortodossi, sia che venga da gentili cristiani, musulmani o di qualsiasi altra religione, è di natura diabolica. Ciascuno è libero di usare i criteri che ritiene più validi per interpretare la storia dei popoli, ma quando si tratta di Israele, i criteri più validi, quelli che anche a posteriori si confermano essere i più idonei a spiegare i fatti avvenuti e quindi in una certa misura anche a prevedere quelli futuri, sono i criteri biblici. Voler tentare di capire la storia del popolo d'Israele prescindendo dal Dio d'Israele che si è rivelato nella Sacra Scrittura, è impresa vana, destinata fin dall'inizio al fallimento.

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(Notizie su Israele, 19 dicembre 2019)


 


Dove va la Turchia? Verso il Medioevo

di Francesco Greco

Sapevate che Erdogan si è fatto costruire una reggia favolosa, dove vive con la famiglia e i cortigiani? Che è così sospettoso e impaurito che i suoi cibi passano l'esame di ben 17 assaggiatori, prima di finire sulla sua mensa?
Cose da raiss da suk città vecchia, citazioni da sultano postdatato, da feroce Saladino (nel 2011 si beccò una copertina di "Time"), uno spregiudicato che sogna di restaurare l'impero ottomano sotto la bandiera dell'Islam, da guida del blocco sunnita.
Dove va la Turchia, "mina vagante del Mediterraneo"? Ce lo spiega con acutezza analitica e intenti divulgativi Marco Guidi in "Atatürk addio" (Come Erdogan ha cambiato la Turchia), il Mulino, Bologna 2018, pp. 156, euro 14,00 (collana "Contemporanea").
Sta facendo tutto da solo? Giammai. Il silenzio dell'Europa è grave e complice: realpolitik, i commerci prima di tutto. Così gli alleati migliori del sultano sono nelle cancellerie europee. Le stesse che invocano, a parole, una Turchia non solo nella Nato, ma anche nell'UE. Eppure la sua storia è profondamente intrecciata con la nostra, anche attraverso le repubbliche marinare (Genova e Venezia su tutte).
   Ma il dittatore (due interventi chirurgici per un cancro all'intestino) guarda più all'Asia, il Medio Oriente, i Balcani, che all'Europa. E il lavoro del padre della patria Atatürk, che meno di un secolo fa puntò alla sua laicizzazione, è ormai quasi formattato.
   Intanto il libero pensiero è perseguitato, le galere colme di nemici veri e potenziali. Giornali chiusi, giornalisti arrestati ("Se ne vanno quelli turchi, arrivano dal Medio Oriente", Carmela Giglio, GR1), burocrati e magistrati in odor di eresia nelle patrie galere. Stato di diritto estinto, plebiscito assicurato. Un lager di 80 milioni di persone alle porte dell'Europa.
   C'è un pensiero contro, un'opposizione? Guidi indica gli aleviti, i curdi, gli armeni, i cristiani, gli ebrei. In generale, gli appartenenti alla classe media svezzata nei valori della democrazia e della libertà, sbrigativamente definiti "occidentali".
   Che agibilità politica hanno tutti questi soggetti in campo, oltre a marce rituali che non scalfiscono il potere del satrapo (da sempre legato ai Fratelli Musulmani), che ormai ha un potere assoluto, che ha destrutturato ogni minimo riferimento, politico e culturale, al pensiero del padre e fondatore della patria moderna, ricacciando la Turchia in un delirante Medioevo?

(Giornale di Puglia, 19 dicembre 2019)


Israele: cresce il numero di turisti italiani

L'Italia 6o mercato internazionale, con un totale di 175.438 visitatori da gennaio a metà dicembre

Israele continua ad accogliere un numero sempre più alto di turisti italiani, come dichiara Avital Kotzer Adari, direttrice Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia, "l'Italia è il 6o mercato internazionale per Israele, con un totale di 175.438 visitatori da gennaio a metà dicembre. Nel corso dell'anno ha registrato una crescita del +31,5% rispetto al 2018. Sono numeri importanti che siamo fiduciosi possano continuare a crescere anche nel nuovo anno", ha affermato la direttrice.
Intanto, non mancano le occasioni di visita del Paese o le diverse motivazioni. "Si potrà approfittare delle temperature miti dell'inverno israeliano per andare di corsa alla scoperta di Tel Aviv, oppure muoversi a ritmo di jazz per le vie di Gerusalemme, mentre gli appassionati di danza potranno assistere agli spettacoli della Jerusalem International Dance Week. Per un tour fuori dalle grandi città, suggeriamo una visita al Timna Park, un luogo dalla storia millenaria famoso per le sue rocce scolpite dal vento. Più a Nord, in Galilea, ci si sta invece preparando al Natale con un festival di tre giorni. Inoltre, dal 22 al 30 dicembre si celebrerà Chanukkah, una delle feste più importanti per il popolo ebraico".

(Guida Viaggi, 19 dicembre 2019)


Basket - I tifosi AEK Atene hanno bruciato una bandiera israeliana

Ora la FIBA potrebbe punire pesantemente la squadra greca.

Ieri durante la partita tra AEK Atene e Hapoel Gerusalemme di Champions League i tifosi locali hanno bruciato una bandiera israeliana. La FIBA potrebbe punire pesantemente la squadra greca.
I circa 400 tifosi israeliani hanno filmato il tutto e ora lo hanno mandato alla FIBA, che ha aperto un iter disciplinare che potrebbe portare a sanzioni verso la squadra greca.
Questa la nota dell'Hapoel: "Abbiamo notificato alla BCL che non c'è spazio per questo tipo di gesti in un posto di sport. Stiamo lavorando con le autorità FIBA per risolvere questo problema. Vogliamo farlo anche per i circa 400 tifosi che hanno supportato la nostra squadra alla partita"
Per la cronaca AEK ha vinto 91-78 con un grande ultimo quarto. Video

(La Gazzetta dello Sport, 19 dicembre 2019)


La festa delle luci

I festeggiamenti di Chanukkah, la festa ebraica delle luci

I festeggiamenti di Chanukkah - la festa ebraica delle luci - quest'anno si protrarranno dalla sera di domenica 22 dicembre, alla sera di lunedì 30, per i consueti otto giorni.
   Durante questi giorni di festa in ogni casa ebraica vengono accese delle speciali luci, in ricordo del miracolo dell'olio. Le lampade, in questa occasione, vengono poste vicino la finestra, affinché possano essere viste dall'esterno e ricordino al mondo che non solo la vita dell'uomo è sacra, ma anche i suoi ideali. Il miracolo dell'olio viene raccontato nel primo e secondo libro dei Maccabei, testo apocrifo della Torà (Bibbia ebraica). I fatti storici, nel cui contesto si è verificato il miracolo, sono avvenuti dopo la morte di Alessandro Magno (IV secolo a.C.).
   Il regno a seguito della sua scomparsa si era smembrato in tanti reami. La Giudea era governata dal re Antioco IV, che perseguiva l'intento di omogenizzare le culture dei diversi popoli che abitavano le sue terre, imponendo loro norme civili e religiose originarie dal mondo greco. Ciò comportava l'accettazione, da parte di tutti i sudditi, della religione politeista, con il culto dell'affollato panteon delle divinità greche. Questa perdita della libertà religiosa non venne accettata in Giudea, dove da parte degli ebrei più osservanti si ebbe una violentissima reazione, che presto giunse ad una vera e propria rivolta militare. Tra il potente imperatore ed il piccolo popolo ebraico, rigorosamente fedele alla religione monoteista, scoppiò quindi un acceso conflitto.
   La storia, dopo si ripeterà con la invasione romana e con il rifiuto, da parte degli ebrei, della imposizione di una nuova religione di stato. Questo secondo rifiuto sarà fatale per il popolo ebraico e per la Giudea. In quanto comporterà, ancora una volta, la distruzione della città di Gerusalemme, del suo secondo Tempio e la dispersione della popolazione per il mondo o la sua riduzione in schiavitù. Ma anche Antioco IV, fu alquanto aggressivo. Infatti, per tentare di piegare il tenace rifiuto degli ebrei ad accettare la religione greca, impose la proibizione del culto da loro praticato, in ogni sua manifestazione. A tal fine impedì lo studio della Torà ed ordinò che a Gerusalemme venisse consumata una strage tra la popolazione rimasta fedele alla religione ebraica. Per realizzare questo suo piano di sopraffazione volle costruire una fortezza, poi rimasta presidiata da truppe siriache ed infine, in modo sacrilego, fece edificare un altare, dedicato a Giove, sul monte del Tempio.
   Il popolo spinto dalla fede nei propri ideali religiosi insorse in armi dando luogo, così alla prima guerra partigiana della storia. Tra i combattenti ebbe un ruolo decisivo Mattatià e i suoi cinque figli, a cui venne attribuito il nome di Maccabei, maccab vuol dire martello, in quanto la loro tattica di combattimento consisteva in martellanti e rapidi incursioni contro le truppe dell'invasore. Allorché gli insorti ebbero, finalmente, la vittoria, in un quadro geopolitico che andava sempre più complicandosi per Antioco IV, per via dell'ingresso sulla scena dei romani, gli ebrei riconquistarono Gerusalemme con il suo tempio. I nuovi vincitori si trovarono a dover rimediare alla profanazione che il luogo sacro per eccellenza aveva subito per mano degli invasori. La cerimonia di riconsacrazione prevedeva la riaccensione del grande lume del tempio, che con la sua perenne fiamma ardente testimoniava la costanza nella fede del popolo di Dio.
   Nei locali del tempio devastato dai soldati di Antioco IV, a seguito del saccheggio, anche l'olio sacro per accendere il lume era stato asportato ed era rimasta soltanto un'ampollina, che conteneva una quantità di olio sufficiente per alimentare la fiamma per un solo giorno, mentre la consacrazione di nuovo olio richiedeva almeno otto giorni. L'esigenza di riconsacrare il Tempio al più presto inducesse i sacerdoti ad utilizzare quell'olio, ritrovato, con la certezza si sarebbe consumato e la luce del lume si sarebbe spenta ben presto. Ma ecco che accadde il miracolo. L' olio non si consumava e la fiamma restò ininterrottamente accesa per otto giorni, il tempo necessario per la consacrazione del nuovo olio.
   Nei millenni che si sono susseguenti la celebrazione della ricorrenza è stata ripetuta ciascun anno, certamente, non per celebrare una vittoria militare, ma per ricordare che la fede ha avuto il sopravvento sulle imposizioni e sulle ostilità degli invasori pagani, che avrebbero voluto cancellare per sempre la religione ebraica.
   Channuhha, questo lascito plurisecolare, quest'anno più che mai, è il simbolo di una delle più importanti sfide dei nostri giorni, quella della convivenza, della cultura, della vittoria della luce sulle tenebre , del bene sul male. Una sfida sempre di grande attualità, in un mondo che ha ancora spinte razziste, discriminatorie e di odio antisemita.

(Quotidiano di Sicilia, 19 dicembre 2019)


"Israele falsifica i reperti archeologici scrivendoci sopra in ebraico"

Questa la fantasiosa tesi, necessaria alla narrativa palestinese, sostenuta da un "esperto" egiziano alla TV di Abu Mazen

Dirigenti ed esponenti dell'Autorità Palestinese distorcono costantemente la storia pur di sostenere che gli ebrei non hanno alcun legame storico con Gerusalemme né con l'intera area della Terra di Israele.
Per sostenere questa tesi di pura fantasia, i palestinesi devono anche inventarsi un modo per spiegare la quantità di prove ed evidenze documentali e archeologiche della storia ebraica nel paese, molte delle quali portano testimonianza dell'antica scrittura ebraica. Invece di riconoscere la realtà della storia ebraica e l'autenticità dei reperti ebraici, l'Autorità Palestinese afferma che Israele "ruba" reperti archeologici "palestinesi" e vi incide falsi testi in ebraico. Questa negazione è parte cruciale e necessaria della narrativa con la quale i palestinesi rivendicano una sorta di "proprietà esclusiva" sul paese in base a una fittizia "storia esclusivamente palestinese" lunga migliaia di anni....

(israele.net, 19 dicembre 2019)


Sa'ar lancia la sfida a Netanyahu per le primarie del Likud

Il mancato accordo con Gantz per un governo di unità nazionale e i guai legali hanno indebolito la leadership del premier israeliano

di Cecilia Scaldaferri

Gideon Sa'ar
Gideon Sa'ar ha lanciato ufficialmente la sfida a Benjamin Netanyahu in vista delle primarie del Likud del prossimo 26 dicembre. "Un voto per me assicurerà il dominio di Likud e la formazione di un nuovo governo guidato da noi; un voto per Netanyahu è un voto per il prossimo capo dell'opposizione", ha sottolineato l'ex ministro dell'Istruzione, rivolgendosi ai 500 attivisti che si sono riuniti all'evento di lancio della campagna a Or Yehuda, un sobborgo di Tel Aviv.
   Sostenuto dallo slogan "Solo Sa'ar puo'", il principale avversario del premier israeliano nel partito ha già incassato il sostegno di alcuni deputati del Likud, tra cui il potente presidente dell'organo esecutivo. Parlando ai sostenitori, Sa'ar ha riconosciuto il ruolo di Netanyahu, sottolineando che "ci ha portati al potere quattro volte, ma il futuro è già scritto, non ci sarà una quinta".
   Il ferreo controllo di Netanyahu sul partito è stato indebolito dall'incriminazione per corruzione, frode e abuso di fiducia in tre casi e dal non essere stato in grado di raggiungere un accordo con Blu e Bianco per un esecutivo di unità nazionale.
   Il partito di Benny Gantz ha più volte escluso la possibilità di sedere al governo con un incriminato, chiedendo a Netanyahu di fare un passo indietro fino a quando non avrà risolto le sue beghe giudiziarie. Una situazione di stallo politico dal quale Israele non riesce a liberarsi e che lo sta conducendo al terzo round di elezioni in 12 mesi (le prossime si terranno il 2 marzo 2020) dopo l'appuntamento alle urne di aprile e settembre.
   Secondo un recente sondaggio, il Likud con Sa'ar alla guida creerebbe un blocco più potente con gli alleati ultraortodossi e nazionalisti e avrebbe più facilità nel raggiungere un compromesso per un governo di unità nazionale. D'altra parte, la mossa di Sa'ar di candidarsi alla luce del sole per rimpiazzare Netanyahu è ardita per un partito fortemente legato al valore della fedeltà e che ha avuto solo quattro leader negli oltre 70 anni di storia.

(AGI, 18 dicembre 2019)


Esercitazioni delle forze israeliane contro Hezbollah

Al confine col Libano

Una vasta esercitazione che aveva come punto di partenza l'infiltrazione a sorpresa in territorio israeliano di unità di élite degli Hezbollah e l'occupazione di villaggi israeliani di frontiera è stata condotta dall'esercito al confine con il Libano. L'anno scorso Israele ha distrutto sei tunnel degli Hezbollah che penetravano in territorio israeliano. Secondo l'esercito, Hezbollah dispone nel Libano Sud di altri tunnel che però non hanno finora sconfinato in Israele.

(La Stampa, 18 dicembre 2019)


Israele studia il motore ad idrogeno. Una startup ha un sistema per riciclarlo

Per molti l'alimentazione con il più leggero degli elementi chimici può essere una realistica alternativa all'auto elettrica. Electriq Global e H2 Energy Now ci lavorano. La prima ha già pronta una sua bici a idrogeno.

di Fiammetta Martegani

 
Prototipo israeliano di bicicletta elettrica a motore idrogeno
Le sfide poste dal cambiamento climatico e dall'inquinamento ambientale hanno reso, negli ultimi anni, la ricerca in fonti di energia rinnovabili e a zero emissioni non solo un obiettivo necessario, ma anche una delle nuove frontiere nel mondo fin tech. In particolare, quando si parla di nuove tecnologie a base di idrogeno, il giro di affari su scala globale è di 359 miliardi di dollari, e sono molti i Paesi che ci stanno già investendo. A cominciare da Israele. Non sorprende che Paolo Scudieri, presidente di Anfia, l'Associazione nazionale filiera industria automobilistica, parlando delle nuove fonti di energia a idrogeno, abbia espressamente definito Israele «il partner ideale, con le sue startup all'avanguardia». I numeri della Startup Nation parlano chiaro: 6.300 nuove iniziative, 94 acceleratori, 200 incubatori e 440 compagnie di investimento. Tra queste spiccano, in particolare, due ambiziosi progetti.
   «Solitamente i sostituti della benzina sono due - spiega Baruch Halpert, Ceo di Electriq Global -: batterie al litio-ionio, che hanno comunque una vita limitata, o l'idrogeno compresso, che essendo altamente infiammabile e ad alto rischio di esplosione, ha costi a dir poco proibitivi in quanto a sicurezza». La soluzione proposta dalla sua innovativa startup, che ha sede ad Haifa, dove si trovano anche i laboratori, è dunque di riutilizzare l'idrogeno attraverso un catalizzatore che lo ricicla, o meglio, usando le parole di Halpert, lo "re-idrogenizza". Nello specifico, una capsula di boroidruro di potassio, entrando in contatto con l'acqua, produce energia a idrogeno che viene automaticamente riassorbito in modo da abbassare i costi di produzione e di stoccaggio. «È come una macchinetta Nespresso a capsule di boro idruro di potassio - spiega Roy Kerem, Direttore Sviluppo della compagnia - con la differenza che non c'è bisogno di aggiungere l'acqua ogni volta», il che permette di produrre idrogeno on-demand, per ogni tipi di veicolo, garantendo la più totale sicurezza, a prezzi competitivi, e implementando un ecosistema autonomo di circular energy.
   Il primo prototipo di bicicletta elettrica a motore idrogeno è già in circolazione. E noi l'abbiamo provata sul lungomare di Haifa, la città del Technion, dove si sono formati molti degli ingegneri, sia ebrei sia arabi, che vivono in città e lavorano in questa compagnia emergente, dove si va a lavoro su due ruote, senza inquinare e senza il problema della benzina o delle batterie. Se la tecnologia di Electriq Global è basata essenzialmente sul riciclaggio dell'idrogeno, H2 Energy Now si basa invece sulla capacità di isolarlo. «L'acqua è costituita da idrogeno e ossigeno: basta sapere come separarli e stoccarli, per rendere il mondo un posto migliore», spiega Sonya Davidson, Ceo e fondatrice di questa startup collocata a Beersheva, la cui Università Ben Gurion fa parte di una delle eccellenze che ha permesso a Israele, negli ultimi anni, di aggiudicarsi il secondo posto al mondo, dopo la Silicon Valley, per innovazione tecnologica. «La maggior fonte di ispirazione per il nostro prodotto è stata proprio un italiano: Guglielmo Marconi - racconta sorridendo Davidson, originaria degli Stati Uniti e in Israele dal 2007 - così mi sono immaginata di utilizzare le onde elettromagnetiche per separare l'idrogeno dall'ossigeno e immagazzinarlo in modo da poterlo utilizzare 24 ore al giorno, 365 giorni all'anno». Per far capire meglio il funzionamento di H2 Energy Now, Davidson - cinque diplomi accademici alle spalle - spiega che «è come mettere l'acqua in un forno a microonde, ma utilizzando frequenze diverse». L'esperimento ha funzionato, tanto da consentire a questa innovativa startup di conquistarsi, nel 2018, il premio Nasa iTech come «partner per l'esplorazione dello spazio e a beneficio dell'umanità». La vita, così come la conosciamo, è cominciata dall'acqua e forse, per preservarla, proprio dall'acqua sarà necessario ricominciare. Israele si sta portando avanti.

(Avvenire, 18 dicembre 2019)


Trapela il piano di pace Usa. ''Gerusalemme sarà condivisa''

Un'emittente libanese rivela i dettagli della bozza di intesa per la regione a cui lavora la Casa Bianca. Città Santa gestita da Israele, a Gaza e Cisgiordania Stato palestinese collegato da un'autostrada. L'accordo è stato diffuso in anticipo, israeliani prudenti sull'applicabilità.

di Rolla Scolari

Gerusalemme non sarebbe «divisa» bensì «condivisa» in un piano di pace tripartito tra Israele, Autorità nazionale palestinese e Hamas. È l' emittente libanese «al Mayadeen» a rivelare la bozza dell'«Accordo del secolo», il piano cui da anni lavora il genero del presidente, Jared Kushner, e di cui finora sono emersi pochi e confusi dettagli. Avrebbe dovuto essere presentato al termine del mese islamico del Ramadan, in estate. Poi, l'annuncio è stato posticipato dopo le elezioni in Israele e la formazione di un governo. Il governo non è però mai nato e Israele voterà a marzo per la terza volta in un anno.

 Le reazioni
  Mentre la stampa americana dubita da settimane sui destini del piano e uno dei suoi principali architetti, l'inviato per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, ha dato le dimissioni, i particolari dell'accordo sono stati divulgati da Beirut da un'emittente vicina a Hezbollah, partito al governo in Libano, ma anche milizia sciita sostenuta dall'Iran e principale rivale d'Israele.
  I dettagli sul possibile accordo sono stati ripresi con freddezza dalla stampa israeliana e la prudenza sullo stato di avanzamento della bozza è d'obbligo.
  Tuttavia i dettagli emersi riprendono in blocco in alcuni casi notizie degli ultimi mesi: la custodia dei luoghi sacri di Gerusalemme, per esempio, passerebbe all'Arabia Saudita, togliendo il compito alla Giordania. La Valle del Giordano resterebbe sotto sovranità israeliana, ed è da poco che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto sapere di avere, proprio su questo, l'appoggio americano.
  Nella bozza, uno Stato palestinese nascerebbe in Cisgiordania e Gaza. Lo Stato non includerebbe i blocchi di insediamenti israeliani oggi esistenti nei Territori palestinesi, che resterebbero sotto Israele. Gaza e Cisgiordania, geograficamente separate, sarebbero unite da un'autostrada costruita da una compagnia cinese a 30 metri di altezza dal suolo (israeliano).
  L'Egitto, che ha sempre negato questa eventualità, garantirebbe ai palestinesi di Gaza terra per la costruzione di un aeroporto e zone industriali non abitabili. Il blocco israeliano ed egiziano sulla Striscia sarebbe progressivamente allentato. Il gruppo islamico che controlla la Striscia, Hamas, che recentemente non ha mai accennato all'abbandono della lotta armata, deporrebbe le sue anni. Gli stipendi dei suoi (ex) miliziani sarebbero pagati dai Paesi arabi, gli stessi che però da anni sono sempre meno coinvolti dalla questione palestinese. Lo Stato palestinese sarebbe demilitarizzato e il compito di proteggerlo da minacce esterne ricadrebbe-sotto il pagamento di una somma da stabilire- all'esercito israeliano. Gerusalemme, la capitale contesa, sarebbe «condivisa». La municipalità resterebbe amministrata da Israele, lo Stato palestinese gestirebbe l'educazione dei residenti arabi, che avrebbero passaporto palestinese.
  Se Israele non accettasse il piano - finanziato con 30 miliardi di dollari in cinque anni al 20 per cento dagli Stati Uniti, al dieci dall'Europa e al 70 dagli Stati del Golfo - Washington interromperebbe gli aiuti economici all'alleato. Lo stesso varrebbe per la leadership palestinese. A un anno dalla firma sarebbero indette in Palestina elezioni democratiche. E nel giro di tre anni sarebbero liberati i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.

LE CONDIZIONI DELL'«ACCORDO DEL SECOLO»
I luoghi sacri
La custodia dei luoghi sacri di Gerusalemme all'Arabia Saudita, la municipalità sarebbe in capo a Israele, i palestinesi curerebbero l'educazione dei residenti arabi
Il nuovo Stato
Uno Stato palestinese nascerebbe in Cisgiordania e Gaza, non includerebbe gli insediamenti israeliani nei Territori, sarebbe unito da un'autostrada costruita dai cinesi
Armi e aiuti
Hamas dovrebbe deporre le armi. Se Israele non accettasse il piano perderebbe gli aiuti economici da Washington. Lo stesso varrebbe per la leadership palestinese

(La Stampa, 18 dicembre 2019)


Sardine in barile, disinformate o in malafede: la causa di Hamas è la distruzione di Israele

di Publius Valerius

Nibras Asfa
Abbiamo appreso da Open che Lorenzo Donnoli è la "sardina" che ha invitato sul palco a Roma Nibras Asfa, la cui presenza, come noto, sta facendo molto discutere, non solo perché Nibras si è presentata sul palco velatissima, ma anche e soprattutto per le posizioni politiche del marito, Sulaiman Hijazi, aperto sostenitore del gruppo terroristico palestinese Hamas.
   Nell'intervista ad Open e in un post pubblicato sul suo profilo Facebook, Donnoli difende a spada tratta la scelta di invitarli e sostiene che ciò per cui si battono Nibras e Sulaiman è la "causa del popolo palestinese contro l'occupazione di nuove terre che sta calpestando i diritti umani". Nel suo post su Facebook, esprime il suo amore per lo Stato di Israele, che intende difendere strenuamente perché, dice sempre Donnoli, "mi sento ebreo, mi sento israeliano".
   Ora, senza entrare nel merito dei cosiddetti territori occupati, su cui ci sarebbe tanto da dire - a cominciare dal fatto che, proprio a Hebron (città natale di Sulaiman Hijazi), gli ebrei rappresentano meno del 3 per cento della popolazione e non possono girare liberamente se non sotto scorta - gli argomenti usati da Donnoli indicano più che un generale preconcetto, la sua estrema ignoranza della questione di cui si sta parlando.
   Se avesse aperto un libro sul conflitto israelo-palestinese, avrebbe scoperto facilmente che, quando si parla di Hamas, la questione dell'occupazione e l'idea stessa di due Stati per due Popoli, non c'entra nulla. Hamas è una organizzazione islamista, apertamente votata alla jihad, che per Statuto (a proposito degli Statuti, tanto cari a Nibras…) non solo ha come obiettivo l'eliminazione dello Stato di Israele (che Donnoli dice di amare), ma anche quello di eliminare completamente gli ebrei dalla faccia della Terra.
   E badi bene: questa affermazione, caro Donnoli, non è una interpretazione personale, ma semplicemente quanto scritto nero su bianco nell'articolo 7 del suddetto Statuto di Hamas che, alla fine, riporta testualmente:
    "L'Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c'è un ebreo nascosto dietro di me - vieni e uccidilo; ma l'albero di Gharqad non lo dirà, perché è l'albero degli ebrei".
È proprio per questo che Hamas, pur essendo una organizzazione sunnita, non si fa problemi a ricevere armi e soldi da chiunque abbia come obiettivo dichiarato la distruzione dello Stato di Israele, in primis dall'Iran islamista sciita, un regime teocratico, misognino e terrorista.
   Questo è Hamas. Hamas non è purtroppo quanto scritto da Sulaiman Hijazi nel 2014, ovvero "un partito non di estremisti e preti come viene detto in Occidente ma di persone con alto livello di studi e intelligenza". No, caro Donnoli: i miliziani di Hamas hanno usato i loro "studi e intelligenza" non al servizio della pace e della convivenza nella regione, ma al servizio della jihad islamica, non solo contro gli ebrei, ma anche contro i cristiani della Striscia di Gaza, che da anni ormai hanno quasi totalmente abbandonato l'area per paura delle repressioni interne.
   Dunque, caro Donnoli, le critiche che Nibras e Sulaiman stanno ricevendo non sono il frutto di un "gomblotto" della destra, come lei ha lasciato intendere nel suo commento su Facebook. Sono semplicemente il risultato del piatto che il signor Sulaiman Hijazi si è cucinato da solo, con i suoi post pubblici su Facebook (profilo che ora ha reso privato…), capaci di attirare persino i like e i cuoricini di Francesco Giordano, già terrorista rosso mai pentito e apertamente sostenitore del gruppo terroristico palestinese Fronte Popolare di Liberazione della Palestina.
   Infine, visto che il movimento delle "sardine" predica l'europeismo, cogliamo l'occasione per farle presente che Hamas è un gruppo terroristico non solo per i "cattivoni" negli Stati Uniti e in Israele, ma anche per la stessa Unione europea…
   Concludendo, caro Donnoli, ci permettiamo di darle qualche suggerimento, al di là delle questioni politiche interne che possono unirci o dividerci: studi, si informi e non si faccia prendere in giro da chi usa la nostra bella Costituzione per difendere la libertà e i diritti civili solo quando fa comodo ad una fazione, per giunta portatrice di una ideologia criminale e anti-occidentale. Fino a quel momento, se può, resti fuori dalle questioni di politica estera. Sono troppo serie per lasciarle a Facebook… e alle Sardine, evidentemente.

(Atlantico, 18 dicembre 2019)


Hamas pianifica attentati in Israele con l'aiuto della Turchia

di Paola P. Goldberger

La Turchia sta permettendo ad Hamas di pianificare attentati in Israele dal suo territorio e in particolare dalla sede concessa da Erdogan ai terroristi palestinesi a Istanbul.
A rivelarlo sono fonti di intelligence israeliane ripresa anche dal The Telegraph il quale sostiene di essere entrato in possesso delle trascrizioni di alcuni interrogatori della polizia israeliana.
Tra questi attentati pianificati in Turchia ci sarebbe anche quello ordito all'inizio dell'anno contro il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat.
In realtà quella del The Telegraph è una "non notizia". L'intelligence israeliana è perfettamente al corrente che la Turchia sta aiutando Hamas a pianificare operazioni terroristiche in Israele e in Giudea e Samaria.
È per questo motivo che le relazioni tra Israele e Turchia, sebbene ufficialmente regolari, sono in realtà perennemente in tensione.
Sabato scorso il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha incontrato il dittatore turco, Recep Tayyip Erdogan, per discutere su come la Turchia può aiutare ulteriormente Hamas.
In quella occasione Erdogan ha ribadito l'aiuto della Turchia al gruppo terrorista palestinese. «Continueremo a sostenere i nostri fratelli in Palestina» ha detto il dittatore turco.
Erdogan si è poi lamentato del fatto che quasi tutto il mondo considera Hamas un gruppo terrorista, compresi molti paesi arabi, mentre invece secondo lui Hamas è un partito politico che rientra nella galassia della Fratellanza Musulmana.
«Israele è estremamente preoccupato per il fatto che la Turchia stia permettendo ai terroristi di Hamas di operare dal suo territorio, nel pianificare e impegnarsi in attacchi terroristici contro civili israeliani» ha detto il Ministero degli esteri israeliano in una nota successiva alla visita di Ismail Haniyeh in Turchia.

 La Turchia ospita anche terroristi ricercati
  Nell'ultimo anno almeno una dozzina di figure di alto livello di Hamas si sono trasferiti da Gaza a Istanbul.
Tra questi c'è Abdel Rahman Ghanimat, ex leader della "cellula Surif", una squadra di Hamas responsabile di una serie di attentati suicidi, tra cui un attacco del 1997 al Café Apropo di Tel Aviv che ha ucciso tre giovani donne.
Anche Kamal Awad, un finanziere di Hamas recentemente inserito nella black list dal Ministero del Tesoro americano, si è da poco trasferito a Istanbul.

 Una bomba a orologeria
  Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la Turchia è una bomba a orologeria, anzi, una bomba islamica a orologeria.
Appoggia apertamente Hamas, ha reclutato migliaia di ex membri di ISIS e Al Qaeda creando milizie islamiche che operano in Siria e stanno massacrando i curdi. Ha preso possesso con la forza di mezzo Mediterraneo orientale attraverso un accordo con la Libia che viola palesemente il Diritto Internazionale. Sta portando avanti una politica aggressiva in Africa. Cerca di infiltrarsi in Europa attraverso i Balcani usando le ONG islamiche.
Cos'altro serve per far capire al mondo l'estrema pericolosità della Turchia?

(Rights Reporters, 18 dicembre 2019)


L'eredità di Bruno Segre

L'avvocato, 101 anni, ha deciso di donare alla Città di Torino la sua collezione di francobolli dal 1861 a oggi. «Io amo Torino, un regalo per i miei concittadini».

Rarità
È la «Volta violetto» senza sovrastampa, acquistata a Vienna per 2.500 euro
Preziosi
La stima dei francobolli in base ai valori medi di mercato è di mezzo milione di euro

di Gabriele Guccione

 
Si scorge la storia d'Italia dietro la lente di ingrandimento con cui Bruno Segre, 101 anni, osserva meticolosamente i suoi francobolli: le dentellature pressoché perfette, l'assenza di difetti di stampa nella sovrapposizione dei colori, i bordi integri. E poi i volti degli uomini e delle donne, ma anche le immagini delle opere dell'ingegno italiano, degli avvenimenti storici e dei simboli che hanno fatto grande il Paese. Una storia, raccontata attraverso 158 anni di emissioni filateliche, che si appresta ora a passare dalle mani di uno degli ultimi testimoni torinesi del Novecento, protagonista di tante battaglie per la libertà, a quelle di tutta la comunità.
   «Io amo la mia città, e così ho deciso di regalare tutto questo ai miei concittadini», spiega con poche parole l'avvocato Segre, aprendo le porte del suo studio sommerso di libri e riviste in via della Consolata. Così, «per amore», e perché diventi patrimonio comune, la sua preziosa collezione traslocherà nelle sale dell'Archivio storico della città in via Barbaroux: 67 album che raccolgono tutti, o quasi tutti («Direi che è completa al 95 per cento»), i francobolli emessi dal 17 marzo 1861, dall'inizio del Regno d'Italia, fino al 2019. «C'è pure un "Volta violetto" senza sovrastampa: l'ho comprato a Vienna a un'asta per 2.500 euro», fa notare non senza un certo orgoglio l'avvocato Segre. Un esemplare raro risalente al 1927 che gli addetti ai lavori definiscono l'errore di stampa più celebre della filatelia del Regno d'Italia. Ma è solo un pezzo di una collezione talmente vasta che nemmeno chi l'ha messa assieme in quasi novant'anni ne conosce con esattezza i numeri. «Non ho mai contato tutti i miei francobolli - ammette l'avvocato -. Per accettare la donazione, il Comune mi ha chiesto di quantificarne il valore. La stima in base ai valori medi di mercato è di 500 mila euro».
   Quella per la filatelia è forse la meno civile tra le passioni di Segre, uno degli ultimi protagonisti viventi della storia di Torino nel Secolo breve, con le sue tante battaglie davanti alle quali non si è mai arreso, come recita il titolo della sua biografia. La laicità delle istituzioni, i diritti umani, gli ideali libertari e socialisti che lo hanno portato a militare in Giustizia e libertà durante la Resistenza e a battersi nel 1949 per l'obiezione di coscienza e negli anni Settanta a favore del divorzio, oltre all'impegno attraverso il mensile L'incontro. E, insieme a tutto questo, i francobolli. «Sin da quando avevo 12 anni e pochi soldi cominciai a comprare qualche francobollino - racconta l'avvocato -. La collezione è nata così, quasi per gioco: Bolaffi pubblicava sulle pagine della Gazzetta del Popolo una vignetta con tre francobolli, bisognava rispondere a una sorta di quiz, e chi indovinava riceveva la busta in omaggio. Negli anni, poi, la collezione si è ingrandita». I ricordi da collezionista, prima che da partigiano, ex prigioniero politico o militante per i diritti civili, si affastellano nella memoria. «Dalla grave crisi filatelica che seguì gli anni della Liberazione, con emissioni ridottissime, al macero dei francobolli invenduti voluto dai grandi commercianti di filatelia negli anni Sessanta; fino ai giorni nostri, tempi di un'altra crisi - constata con amarezza Segre - dovuta all'abbandono dell'uso del francobollo: quest'anno sono state fatte 72 emissioni, alcune parecchio brutte».
   I suoi preziosi francobolli ora sono diventati patrimonio della città (la donazione è stata accettata ieri dalla giunta comunale). Ma non sono l'unica eredità, in vita, dell'«avvocato partigiano» che non ha mai perso la voglia di lottare. E che, anzi, continua a intervenire nel tempo presente: «Le sardine? Guardo a loro molto favorevolmente, palesano l'insurrezione della parte sensibile del Paese alle invettive degli analfabeti della democrazia».

(Corriere Torino, 18 dicembre 2019)


Israele per la prima volta diventa esportatore di gas

Accordo storico con l'Egitto

Israele, per la prima volta nella sua storia, esporterà gas naturale e in particolare verso l'Egitto. Ieri il ministro dell'Energia Yuval Steinitz ha firmato i permessi che consentono l'avvio delle operazioni in due settimane con il trasferimento dei giacimenti Tamar e Leviathan. «L'approvazione - ha detto il ministro - è stata decisa dopo che si sono concluse tutte le procedure ufficiali sulla vicenda. Si tratta della più importante cooperazione economica tra i due Paesi dal Trattato di pace del 1979».
Il ministro ha sottolineato come Israele, con questa operazione, diventi per la prima volta nella sua storia un esportatore di energia. L'impatto sarà duplice: produrrà importanti royalties per lo Stato e contribuirà a ridurre l'inquinamento ambientale.
La decisione del governo israeliano di sfruttare le riserve di gas, frutto di esplorazioni e scoperte più recenti, sta però incontrando forti resistenze negli ambientalisti. Gli attivisti locali hanno accusato le autorità di essere troppo compiacenti nei confronti delle grandi imprese coinvolte nell'esplorazione e nell'estrazione di gas trascurando gli investimenti nelle energie rinnovabili.

(Il Sole 24 Ore, 17 dicembre 2019)


Antiche preferenze culinarie romane scoperte negli scavi di Ashkelon

Sono state recentemente scoperte ad Ashkelon, nel sud di Israele, delle vasche utilizzate duemila anni fa per produrre salsa di pesce (garum). Lo scavo, condotto in preparazione della creazione di un Eco-Sport Park, ha rivelato testimonianze dei gusti gastronomici romani e bizantini.
Allo scavo hanno partecipato giovani del kibbutz Yad Mordecai e alunni di una scuola della zona. Spiega l'archeologa Tali Erickson-Gini, della Israel Antiquities Authority: "Molto prima della pasta e della pizza, l'antica dieta romana si basava in gran parte sulla salsa di pesce.
Fonti storiche parlando della produzione della speciale salsa di pesce utilizzata come condimento di base per il cibo in epoca romana e bizantina in tutto il bacino del Mediterraneo, e riferiscono dei forti odori che accompagnavano la sua produzione tanto da richiedere che avvenisse a distanza dalle aree urbane. E infatti gli impianti sono stati scoperti a circa 2 km dall'antica Ashkelon. Si tratta di una scoperta rara nella nostra regione, e sono pochissime le installazioni di questo tipo trovate nel Mediterraneo orientale. Fonti antiche fanno anche riferimento alla produzione di garum ebraico".
Il sito, successivamente utilizzato da una comunità di monaci cristiani per la produzione di vino, venne abbandonato qualche tempo dopo la conquista islamica della regione nel VII secolo, per poi essere utilizzato da famiglie nomadi residenti in tende che smantellarono parte delle strutture per venderle come materiale da costruzione".

(israele.net, 17 dicembre 2019)


Le startup italiane in Israele per crescere

Grazie al supporto di Intesa Sanpaolo e alla nostra ambasciata a Tel Aviv, sette aziende neonate entrano nell'acceleratore di Eilat.

di Adriano Bascapè

Parte a gennaio il primo programma di accelerazione per startup italiane in Israele lanciato dall'ambasciata d'Italia in Israele e da Intesa Sanpaolo Innovation Center, la società del gruppo bancario presieduta da Maurizio Montagnese. Tramite un bando digara pubblicato a gennaio del 2019 sono state selezionate dieci startup, sette delle quali trascorreranno tre mesi presso l'Eilat Tech Center (Gruppo Arieli), tra i principali acceleratori di startup israeliani, con lo scopo di sviluppare nuove idee d'impresa in uno degli ecosistemi dell'innovazione più all'avanguardia a livello mondiale.
  Le domande di adesione al bando sono state complessivamente 40 e il Comitato di valutazione ha selezionato le migliori realtà attive in diversi settori, dall'health tech alla smart mobility, dalfood tech al clean tech. Il comitato composto dal chief scientist dell'ambasciata d'Italia in Israele, Stefano Ventura e da Dani Schaumann di Intesa Sanpaolo Innovation Center, ha coinvolto anche Danny Biran, ex vicepresiden - te della Israel Innovation Authority, Jeremie Kletzkine di Startup Nation Centrai e Dan Fishel di OurCrowd.

 Sistemi complementari
  «Grazie al programma di accelerazione, sette giovani startup italiane potranno per tre mesi sviluppare la loro idea d'impresa nell'eccezionale e dinamico ecosistema della "Startup Nation". Il programma è un nuovo strumento per sfruttare la complementarietà dei due sistemi economici: il nostro ecosistema manifatturiero d'eccellenza mondiale e quello israeliano vocato all'innovazione e al venture capital, un obiettivo condiviso anche dai ministri degli Esteri dei due Paesi in occasione del Rome Med Dialogue», ha sottolineato l'ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti.
  «Intesa Sanpaolo lnnovation Center da diversi anni collabora attivamente con Israele attraverso diverse iniziative con hub di innovazione, investitori e istituzioni, in collaborazione con l'ambasciata Italiana», spiega Guido de Vecchi, direttore generale di Intesa Sanpaolo Innovation Center, «questa iniziativa è una preziosa occasione per offrire a startup selezionate l'accesso ad una concreta opportunità di scale-up internazionale, in un percorso di valorizzazione dell'ecosistema italiano dell'innovazione».
  «Questa entusiasmante partnership», ha concluso Or Haviv, partner di Arieli Capitai, «offrirà alle startup italiane un'opportunità unica di connettersi con il cuore di una delle scene più high tech al mondo, quella israeliana. Il programma farà crescere le startup partecipanti, creando nuove società ad alto impatto tecnologico che trarranno il meglio da Italia e Israele».

 Capitali stranieri
  Il programma nasce nell'ambito delle attività previste dall'accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica e punta a sviluppare le startup italiane in quello che viene considerato il Paese più innovativo al mondo e rinomato per la sua forte capacità di attrarre capitali stranieri (circa il 47% contro una media europea del 9%): nel solo 2018 le startup israeliane hanno raccolto circa 6,1 miliardi di dollari.
  Il programma si svolgerà da gennaio a marzo del 2020 e prevede un soggiorno presso la città di Eilat, a sud di Israele, fornita di alloggi e spazi per il co-working. Sono previsti inoltre mentor e tutor che affronteranno temi validi per tutte le giovani imprese e temi specifici a seconda del settore di appartenenza delle singole startup. Numerosi gli incontri di networking con aziende israeliane di successo nei relativi settori. Come previsto dal bando l'Ambasciata d'Italia in Israele ha messo a disposizione un plafond di 100 mila euro che erogherà in favore delle startup selezionate con un contributo di 10.000 euro ciascuna, di cui 8.500 euro destinati al programma di accelerazione e 1.500 euro come rimborso spese.
  Intesa Sanpaolo Innovation Center ha svolto un ruolo centrale nel diffondere la conoscenza del bando nell' ecosistema delle giovani imprese in Italia e nell'analisi delle startup partecipanti. Inoltre, ha coinvolto due dei principali partner in Israele, OurCrowd e Startup Nation Central, all'interno del Comitato di valutazione e collaborato nella ricerca dell'acceleratore.

(Libero, 17 dicembre 2019)


Profanata la tomba di Heydrich, ex gerarca delle SS

di Letizia Tortello

 
La tomba era senza nome, né indicazioni di sorta, al cimitero degli Invalidi, a Berlino. Dunque, chi ha profanato il sepolcro dell'ufficiale delle SS, Reinhard Heydrich, è andato a colpo sicuro: sapeva dov'era e si è mosso con la complicità di qualcuno. Era una legge imposta dalle Forze alleate alla fine della Seconda Guerra mondiale, quella di non mettere indicazioni sulle tombe dei nazisti, per evitare che diventassero luogo di pellegrinaggio di nostalgici e simpatizzanti.
  La polizia della capitale tedesca sta cercando indizi che riconducano ai colpevoli, e si affretta a dichiarare che non sono state trafugate ossa, anche se la tomba è stata aperta. Il misfatto è stato scoperto da un impiegato dell'Invalidenfriedhof, nel centro della città, giovedì scorso. Un reato di questo tipo è classificato come «grave profanazione» e perseguito con pene severissime, secondo la legge tedesca. Ma non è la prima volta che la tomba di un nazista viene scoperchiata: era accaduto al cimitero St. Nikolai nel quartiere Prenzlauer Berg nel 2000, quando un gruppo di estrema sinistra entrò in quella che sosteneva fosse la tomba di Horst Wessel, membro dello Stofstrupp, la fanteria d'assalto nazista. Wessel fu assassinato nel 1930 e trasformato in martire. I profanatori dichiararono di aver gettato il cranio nel fiume Sprea a sfregio, ma la polizia smentì, affermando che la tomba era in realtà quella del padre di Wessel, e che non erano state rimosse ossa.

 Lo uccisero agenti cecoslovacchi
  Stessa dinamica per Heydrich, ma la tomba stavolta era quella giusta. Ufficiale di alto livello, l'ex gerarca fu ucciso dagli agenti cecoslovacchi nel 1942. Si impegnò in prima linea per organizzare l'Olocausto, guidò la Conferenza di Wannsee, nella villa su uno dei laghi di Berlino, gennaio del '42, in cui generali e burocrati del Reich vennero informati delle tappe organizzative per mettere in atto la soluzione finale. Fu soprannominato «il Macellaio», dal direttore del Reichssicherheitshauptamt, l'Ufficio generale per la Sicurezza del regime creato da Himmler, responsabile dello spionaggio in Germania e all'estero.
  Adolf Hitler chiamava Heydrich «l'uomo dal cuore di ferro». Nella primavera 1941 fu nominato dal Führer governatore del Protettorato di Boemia e Moravia, dove mise in atto persecuzioni e repressioni per annientare la resistenza anti-tedesca. Fino all'età di 38 anni, maggio del '42, quando agenti cecoslovacchi addestrati dagli inglesi attaccarono la sua limousine. Heydrick morì per le ferite riportate. Per rappresaglia, i nazisti distrussero il villaggio di Lidice, uccidendo uomini e ragazzi adolescenti e deportando donne e bambini nei campi di concentramento.

(La Stampa, 17 dicembre 2019)


Pregiudizi su Israele tra i banchi, i cortocircuiti della scuola italiana

In una scuola di una città italiana viene invitato un ospite per parlare del conflitto tra israeliani e palestinesi, un tema complesso che richiede preparazione, soprattutto se si parla a un pubblico di studenti. L'ospite presenta invece un resoconto distorto. proponendo una visione semplicistica del conflitto e addossandone tutte le responsabilità a una sola delle parti in causa: Israele. È veramente questa l'analisi che si vuole proporre a degli studenti? La testimonianza del docente Andrea Atzeni.

di Andrea Atzeni, insegnante

Un anno fa. In un prestigioso liceo proprio al centro della principale città dopo la capitale. Una circolare annuncia la conferenza dell'inviato in Medio Oriente di uno dei nostri quotidiani più diffusi. Lavoro qui solo da un paio di mesi e non so chi l'abbia invitato, perché e percome. Il suo nome non mi è del tutto nuovo. Tra l'altro è il medesimo, circostanza su cui egli stesso ha talvolta scherzato, del leggiunese eletto miglior giocatore italiano di sempre.
  Il titolo è suggestivo: "Gaza Brucia". È uno slogan persino usurato in certe recenti cronache. Sembra mancare il complemento oggetto. Gaza brucia i campi israeliani, magari? Visto che da mesi si susseguono le notizie dei disastrosi incendi causati da aquiloni e palloni incendiari. Gaza brucia copertoni al confine, anche? Ogni venerdì infatti i terroristi coperti dal fumo e mescolati nella folla esagitata cercano di sfondare le barriere per fare strage di cittadini israeliani. Gaza non brucia forse pure il carburante delle centinaia di missili che scaglia di continuo contro le città di Israele? E così e in modi simili non brucia anche buona parte del danaro che le arriva da ogni parte del mondo?
  Poiché mi trovo ad accompagnarci una classe, ho modo di seguire l'incontro. Nonostante il titolo, non si parla granché di Gaza: né della miserevole situazione in cui i suoi abitanti sono tenuti dalla corrottissima dittatura di Hamas, né delle feroci violenze con cui essa soffoca ogni minima manifestazione interna di dissidenza. L'argomento sembra essere piuttosto la storia di Israele con controcanto palestinese. Almeno una grossa parte degli studenti partecipanti non frequentano l'ultimo anno, dunque il loro programma di storia non contempla le vicende in questione: sarà il solito primato dell'attualità a prescindere da tutto? E poi, diciamoci la verità, fossero anche tutti studenti prossimi all'esame di Stato, che cosa saprebbero veramente sulla storia di Israele e del popolo ebraico? In ogni caso i contenuti lasciano piuttosto perplessi. Tanto per cominciare, la rievocazione giornalistica del sionismo non prende le mosse, a differenza di ogni testo scolastico sull'argomento, da Herzl con l'affare Dreyfus e il Congresso di Basilea, e neppure dalla morte di Alessandro II coi pogrom giù fino ai Protocolli, e neanche da Moses Hess o dall'Alleanza Israelitica, e men che mai dall'identità millenaria di un popolo e dal suo movimento di autodeterminazione nazionale. Si parte dagli albori del XIX secolo, quando alcuni rabbini americani avrebbero lanciato l'idea di un "ritorno nella terra promessa del popolo eletto", sollecitando una prima ondata di immigrazione e la formazione dei primi nuclei ebraici in Palestina. Quali le fonti, i nomi, le date, le cifre? Non è dato saperlo. Di certo questa retrodatazione rabbinica statunitense delle origini del sionismo piacerebbe a quanti demonizzano Israele come il prodotto di un'aggressione colonialista da parte di occidentali razzisti che si proclamano guidati da Dio. Tuttavia, rispetto ai conflitti di Israele con palestinesi, arabi vari e musulmani assortiti, il relatore mette subito le mani avanti dichiarando di non voler definire ragioni e torti, lasciando agli astanti l'onere di stabilire chi abbia ragione. A sentire quel che dice in seguito e come lo dice, si ricava un'impressione un po' meno lineare, anche se in cuor suo l'intenzione oggettivamente descrittiva è in certo senso del tutto sincera. E poi come si potrebbe mai porre in dubbio la buona fede? L'asserita equidistanza pare un suo modo d'intendere l'equanimità.
  Ora, posto che davvero lo si possa essere, neutrali e terzi, va osservato che la scuola (i programmi ministeriali, i manuali in adozione, le sue pratiche didattiche abituali) non sempre parte dallo stesso presupposto. Come se, per dire, nel riferire di un conflitto fosse sempre meglio tirarsene fuori, astenendosi da qualsiasi distinzione. Di solito anzi è ritenuto nel giusto chi, aggredito, si difende. Mentre il superamento in armi di un confine, lo sforzo di massacrare quanti più civili possibile, l'aggressione unilaterale finalizzata a cancellare un popolo e consimili gesta non sono ritenute di solito commendevoli. I libri di testo si dichiarano forse terzi tra Hitler e la Cecoslovacchia o la Polonia? Non sembrano indifferenti neppure rispetto all'Anschluss. Sappiamo però che alcuni riescono a vedere tutto alla rovescia. Colpisce poi l'evocazione del genocidio nazista come precondizione della nascita del focolare nazionale ebraico. Israele cioè esiste solo grazie alla Shoah? Per via dei subitanei rimorsi di chi non è riuscito a impedirla? Di certo questa posticipazione funesta dell'affermarsi del sionismo piacerebbe a quanti demonizzano Israele come il frutto avvelenato del senso di colpa europeo servito agli incolpevoli popoli arabi, condannati così a subire le stesse sofferenze patite poco prima dagli ebrei. E d'altra parte la vecchia storiella a seguire, sull'acqua rubata dagli ebrei ai palestinesi, ora riproposta a proposito di Gaza con tanto di percentuali insieme precise e reticenti, non ricorda forse la vecchissima leggenda medievale degli ebrei avvelenatori di pozzi? Ma, a volerla dire tutta, non si saprebbe neppure dove iniziare: ci sono le vaghezze sulle imperfezioni della democrazia israeliana e su Hamas "organizzazione religiosa", le ambiguità sulle minoranze ebraiche in Europa che porterebbero alla diffusione dell'antisemitismo, le insinuazioni su Ben Gurion e Jabotinsky, le indulgenze sulla cosiddetta Nakba e sulla pretesa dei profughi palestinesi per ius soli o per ius sanguinis al ritorno nelle terre che proclamano loro, le fantasie sull'assassinio di Rabin causa del fallimento delle trattative di pace, quelle sul pacifico Arafat stanco di guerra frenato da una telefonata minatoria, l'immancabile bantustanizzazione della Cisgiordania, i pacati giudizi sui sionisti guerrafondai con la bomba atomica e sulle inoffensive sassaiole dei palestinesi scavatori di tunnel, e via barcamenandosi senza né vittime né persecutori. Una sequela travolgente sconcertante e desolata. Anche a voler far chiarezza, da dove cominciare?
  Privo come sono di qualsiasi autorevolezza in materia, preferisco inoltrare i miei appunti sulla mattinata a un paio di esperti di sionismo e antisionismo per acquisire la loro opinione. Uno di loro, a proposito del relatore, finemente osserva: "Sembra che voglia fare un grande sforzo di obiettività, di moderazione, di equidistanza, di comprensione delle ragioni degli uni e degli altri ma in realtà non è affatto così. Si capisce a ogni riga che agli arabi e ai palestinesi fa lo sconto, sono le vittime, mentre contro Israele continuamente insinua cose false e ingiuste, Chi esce dopo aver ascoltato questa conferenza non dice: è vero, ci sono torti e ragioni. Dice: che bastardi questi israeliani! con la scusa della Shoah ... Penso che se io fossi stato presente, con molta calma avrei rintuzzato qua e là le falsità e le inesattezze. Soprattutto avrei sottolineato che la guerra dura da 70 anni perché il rifiuto della convivenza è arabo e palestinese". E, più in generale: "Il problema vero è che vengono proposti in termini equilibrati, non propagandistici, imparziali e obiettivi, discorsi che sono in realtà faziosi e orientati a presentare Israele in una luce falsa e distorta". Un altro mio interlocutore è più secco: "Il discorso è pieno di errori grossolani. A parte questi, l'interpretazione è tendenziosa e violentemente antisraeliana, veramente inaccettabile. Bisognerebbe sempre chiedere che di fronte a questo signore vi sia un'altra opinione, per smentire coi fatti le sue menzogne".
  Mesi dopo mi imbatto nella segnalazione di un articolo del giornalista in questione su una testata online. Mando anche ai loro collaboratori i miei appunti, chiedendo un parere. Due giorni dopo questi vengono pubblicati sulla loro pagina. Il commento introduttivo chiosa: "Nella conferenza presso il liceo sono molte le prese di posizione ostili e la lunga ricostruzione storica e omissiva e incompleta, e di conseguenza faziosa [ ... ] per esempio sminuisce completamente il terrorismo arabo palestinese, mentre focalizza l'attenzione quasi esclusivamente su Israele, colpevole secondo il canone degli odiatori". Poi un duro interrogativo: ''Ancora più grave è il fatto che un pubblico di studenti sia stato costretto ad ascoltarlo a lungo. E' legale la propaganda, senza contraddittorio, nelle scuole italiane?"
  Solo a fine anno scolastico la notizia di tale pubblicazione filtra in alcuni ambienti dell'istituto. Le scuole non amano la pubblicità e preferiscono curare direttamente i rapporti con l'esterno (infatti, nonostante le invadenti rappresentanze genitoriali e qualche occasionale scalpore giornalistico, al di fuori non si sa granché di quel che vi succede). I panni sporchi cercano di lavarli in famiglia, ammesso e non concesso che riconoscano le macchie e intendano davvero farle scomparire. Inoltre le ultime frasi citate devono suonare minacciose. In realtà non c'è stata alcuna costrizione e la domanda sulla legalità non è molto indovinata. Manco a farlo di proposito, proprio negli stessi giorni fa notizia la vicenda dell'insegnante di Palermo sospesa per non aver vigilato adeguatamente l'operato dei propri studenti, che durante una sua lezione si erano lanciati in una spericolata equiparazione del controverso decreto sicurezza con le leggi razziste di ottant'anni prima. Anche tale episodio fa emergere diverse questioni degne di riflessione mentre non si è certo provveduto ad affrontarle in modo adeguato.
  A scuola comunque del merito non si parla. Nessuno mette in dubbio la fedeltà della trascrizione, anzi mi si accusa di aver registrato tutto senza autorizzazione e di averlo pubblicato su un blog. Urge piuttosto rinfacciarmi la violazione, col mio subdolo comportamento, delle tacite consuetudini di buona creanza scolastica. Avrei potuto intervenire subito per porre domande, correggere, sottolineare eventuali lacune e sostenere un punto di vista diverso. Mentre così ho invece sdegnato il relatore, chi l'ha invitato e insieme la scuola tutta. Sebbene tardivamente, attanagliato dal senso di colpa, cerco di fare ammenda porgendo i miei dubbi direttamente al giornalista, con la massima riverenza possibile, tramite l'indirizzo della redazione. Non ricevo risposta alcuna. Forse troppo tardi, ormai. Che si sia davvero adontato pure lui?

(Pagine Ebraiche, dicembre 2019)


Schmidt, il cacciatore di opere rubate. ''Devono tornare al loro posto

Dopo l'operazione rientro del "Vaso di fiori", il direttore degli Uffizi e le mosse per recuperare gli altri pezzi spariti durante la guerra: "Ne mancano un'ottantina". Gli appelli della comunità ebraica e l'intelligence interforze al lavoro.

di Maria Cristina Carratù

 
"Vaso di fiori", il dipinto di Jan van Huysum
Dopo il recupero del Vaso di fiori, il dipinto dell'olandese Jan van Huysum sottratto dai nazisti nella seconda guerra mondiale e tornato agli Uffizi, lo scorso luglio, il direttore della Galleria Eike Schmidt rivela di non aver affatto abbandonato il ruolo di "detective" nelle complesse operazioni di recupero delle opere d'arte trafugate dai musei fiorentini durante l'ultimo conflitto. Furti rimasti impuniti per la difficoltà di ricostruire i passaggi di mano avvenuti, o per l'assoluta assenza di tracce. «La sfida» aveva già detto Schmidt presentando l'Huysum recuperato, «è ora quella di una moral suasion da fare anche attraverso i governi esteri, con un'interazione con le forze dell'ordine internazionali». Ma era sembrato soprattutto un appello lanciato ad altri, mentre ieri, a margine della inaugurazione della mostra sull'arte della calzatura a Palazzo Pitti, il direttore degli Uffizi ha detto di essere «al lavoro» in prima persona sul fronte del recupero, e di voler proseguire sulla strada inaugurata dal recupero del Vaso di fiori. «Sì, ci stiamo lavorando», ha detto, «non c'è ancora niente di concreto, ma ce ne stiamo occupando». Quante opere mancano all'appello dalle collezioni della Galleria? «I numeri sono noti», ha aggiunto il direttore, ricordando che «da Firenze ne manca ancora un'ottantina», anche se, ha detto, «non tutte della stessa importanza». Alcune decine, infatti, «sarebbero da deposito», in quanto non all'altezza di un'esposizione permanente. E non per questo, da trascurare: «In quanto rubate, vano ricondotte alla loro originaria destinazione». Anche se, essendo di secondo piano, non è detto che valga la pena, per ottenerle, di scomodare relazioni diplomatiche o esercitare pressioni sui governi, come nel caso del quadro di Huysum. E c'è poi una storia nella storia: la richiesta avanzata da alcuni esponenti della Comunità ebraica fiorentina, le cui famiglie sono state depredate dai nazifascisti di opere di loro proprietà, e che, incoraggiati dalla determinazione di Schmidt nella vicenda del Vaso di fiori gli hanno chiesto di aiutarli a cercare anche queste sulla base degli indizi in loro possesso. Un compito delicato, questo, come la ricerca delle opere trafugate, da con"intelligence" interforze (apparati della sicurezza e diplomatici, forze dell'ordine, eccetera), nel rispetto degli specifici ambiti di intervento di ogni soggetto. A queste condizioni, Schmidt lo ha promesso: «Sono pronto a dare una mano».

(la Repubblica - Firenze, 17 dicembre 2019)



Italiani internati nel Reich. L'assillo tardivo di Mussolini

In un saggio di Alfio Caruso (Neri Pozza) la preoccupazione per i soldati prigionieri di Hitler. Il console a Berlino Luciano Giretti era stimato da Goebbels ma salvò due ebrei.

di Aldo Cazzullo

«Morera mi raccomando: bisogna fare non il possibile, ma l'impossibile per salvare il fiore della nostra generazione, cioè gli internati. Occorre impedire che quei 700 mila ragazzi tornino a casa morti o malati com'è successo finora che sono rientrati tutti tubercolotici. Non dobbiamo rovinare il futuro del nostro Paese». Così parlò Mussolini al generale Umberto Morera, comandante la missione militare della Repubblica sociale a Berlino, il 20 luglio 1944. Il Duce e il suo seguito sono diretti a Rastenburg per quello che sarà l'ultimo incontro con Hitler. Il convoglio, sul quale viaggiano, è stato fermato allo snodo ferroviario di Goerlitz. Mussolini ovviamente ignora che Hitler è appena sfuggito all'attentato ordito dal colonnello von Stauffenberg. Approfitta, però, della sosta per convocare Morera e dargli quell'ordine sorprendente, diretto a salvare soprattutto gli internati militari in Germania, che più volte hanno detto no alle sue lusinghe, alle pressanti richieste - del Duce e dei tedeschi - di arruolarsi con l'esercito di Salò.
   L'inedito episodio è raccontato da Alfio Caruso in Salvate gli italiani. Mussolini contro Hitler, Berlino 1944 {Neri Pozza). A Caruso lo ha svelato il figlio di Morera, il novantaduenne avvocato Renzo, giunto a Berlino il 31 maggio 1944 con la madre e il fratello minore.
   Volontario a diciassette anni nel battaglione San Marco, Renzo diventa lo straordinario testimone dell'agonia di Berlino e del Terzo Reich. Il padre lo spedisce negli sperduti avamposti del Nord Europa occupati dai reparti italiani. La posizione geografica li ha obbligati, volenti o nolenti, a battersi con la Wehrmacht. Già prima della perentoria disposizione di Mussolini, l'assillo della missione militare è stato la salvaguardia dei connazionali esposti alle angherie dei nazisti. Anche l'ambasciata, guidata da Filippo Anfuso - per molti anni il collaboratore più stretto di Galeazzo Ciano - ha provato a frapporsi tra la crescente ostilità tedesca e le miserevoli condizioni dei nostri soldati.
   Caso mai, come scrive Caruso, meraviglia l'improvvisa angoscia del Duce per la salvaguardia degli italiani, dai quali quattro anni prima pretendeva un migliaio di morti pur di sedere al tavolo della pace. Mussolini è forse attento più alla propria reputazione futura che al benessere dei compatrioti. Ma nell'invito rivolto a Morera, ignorando che gli italiani di Berlino già si adoperavano in tal senso, ha anche pesato il desiderio - o meglio l'illusione - di confermare a se stesso che lui era davvero lo scudo degli italiani, e poteva sfidare, per interposta persona, uno dei diktat di Hitler. Il libro infatti narra l'avversione crescente di Mussolini per il Führer dopo tanti anni di vergognosa sottomissione, figlia del terrore quasi fisico dello stesso Duce e degli alti gerarchi.
   Emerge dal libro di Caruso la preziosa e sconosciuta opera del direttore del Sai (Servizio assistenza internati), Armando Foppiani, del tenente colonnello Viappiani, soprattutto del giovanissimo consigliere diplomatico Giangaleazzo Bettoni. E sua figlia Prisca racconta di quando il padre indossò la divisa da tenente delle SS e con la collaborazione di Foppiani strappò ai nazisti alcuni italiani condannati a morte. Un episodio rivelato a Prisca e ai suoi fratelli da Carlo Azeglio Ciampi, che nel 1939 a Lipsia aveva instaurato con Bettoni un'amicizia durata tutta la vita.
   In quei mesi disperati, ogni giorno si gioca a Berlino una rischiosissima partita nel nome della comune origine, al di là delle feroci contrapposizioni ideologiche. Il console Luciano Giretti, alla cui tavola spesso siede von Karajan invischiato in una relazione extraconiugale, è considerato da Goebbels uno dei pochissimi italiani dei quali fidarsi: invece per venti mesi nasconde in casa una coppia di coniugi ebrei polacchi condannati a morte e procura loro i passaporti per spedirli in Italia. Partono con uno dei treni ospedali allestiti da Foppiani e dal professore Giorgio Alberto Chiurco, direttore della Croce Rossa a Berlino, sui quali vengono caricati tanti che malati non sono.
   L'Armata Rossa stringe la morsa, Hitler trasforma la sua capitale in una piazzaforte militare sottoposta alla corte marziale. Il generale Morera prende allora la decisione di fornire falsi lasciapassare a chi se la sente di rischiare. Diplomatici e militari di Salò intraprendono una gara contro il tempo per concedere una chance di salvezza al maggior numero di compatrioti. Nello stesso tempo, Berlino si riempie di fascisti venuti da tutta Europa per immolarsi nella battaglia finale invocata dal Führer. Ma a fine marzo 1945 Mussolini ordina l'esodo: non un Italiano deve morire per Berlino. E il suo ultimo sgarbo a Hitler. Il 16 aprile Umberto e Renzo Morera sono nell'ultimo gruppetto, che parte verso il Brennero.

(Corriere della Sera, 17 dicembre 2019)


In Israele al via il primo programma di accelerazione per startup italiane

MILANO - Partirà a gennaio il primo programma di accelerazione per startup italiane in Israele lanciato dall'Ambasciata d'Italia in Israele e da Intesa Sanpaolo Innovation Center, la società del gruppo bancario presieduta da Maurizio Montagnese. Tramite un bando di gara pubblicato a gennaio 2019 sono state selezionate 10 startup, sette delle quali trascorreranno tre mesi presso l'Eilat Tech Center (Gruppo Arieli), tra i principali acceleratori di startup israeliani, con lo scopo di sviluppare nuove idee d'impresa in uno degli ecosistemi dell'innovazione più all'avanguardia a livello mondiale.
   Le domande di adesione al bando sono state complessivamente 40 e il Comitato di valutazione ha selezionato le migliori realtà attive in diversi settori, dall'health tech alla smart mobility, dal food tech al clean tech. Il comitato composto dal Chief Scientist dell'Ambasciata d'Italia in Israele, Stefano Ventura e da Dani Schaumann di Intesa Sanpaolo Innovation Center, ha coinvolto anche Danny Biran, ex Vice president della Israel Innovation Authority, Jeremie Kletzkine di Startup Nation Central e Dan Fishel di OurCrowd.
   "Grazie al programma di accelerazione, sette giovani startup italiane potranno per tre mesi sviluppare la loro idea d'impresa nell'eccezionale e dinamico ecosistema della Startup Nation", ha sottolineato l'Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti. "Il programma è un nuovo strumento per sfruttare la complementarietà dei due sistemi economici: il nostro ecosistema manifatturiero d'eccellenza mondiale e quello israeliano vocato all'innovazione e al venture capital, un obiettivo condiviso anche dai Ministri degli Esteri dei due Paesi in occasione del Rome Med Dialogue".

(askanews, 16 dicembre 2019)


Israele a Expo di Dubai, nuovo passo verso il mondo arabo

Ministro Katz: 'Cresce il nostro status tra Paesi della regione'

di Massimo Lomonaco

 
 
 
Expo Dubai 2020
Israele sarà presente con un proprio padiglione all'Expo 2020 di Dubai, negli Emirati. Un fatto storico visto che Israele non ha rapporti diplomatici con la Federazione che si affaccia sul Golfo Persico, con la quale, tuttavia, da tempo i rapporti si stanno intensificando. La partecipazione all'Expo - in programma da ottobre del prossimo anno fino ad aprile del 2021 - è quindi una tappa di quel percorso più generale da parte di Israele e del fronte arabo sunnita con in testa l'Arabia Saudita, che non dimentica certo la causa palestinese, per avviare relazioni anche come deterrenza riguardo all'Iran e ai suoi alleati nell'area. Non a caso a firmare il protocollo di partecipazione è stato, la settimana scorsa, il direttore generale del ministero degli esteri, Yuval Rotem, in una visita a Dubai. L'intesa è stata esaltata dal ministro degli Esteri Israel Katz come una "crescita dello status di Israele, non solo a livello internazionale, ma anche tra gli Stati chiave della regione". "Questa partecipazione - ha aggiunto Katz - offre ad Israele una straordinaria opportunità di mostrare le sue capacità e i risultati raggiunti nel campo della tecnologia accanto alla vivace cultura israeliana". In perfetta linea con quanto rivendicato dal premier Benyamin Netanyahu, che ad aprile scorso, quando si cominciò a parlare della possibile partecipazione all'Expo di Dubai, ne sottolineò l'importanza politica come ulteriore prova del "crescente rango" di Israele nell'area.
   A testimoniare il crescente scambio, è di ieri la notizia che una delegazione di alti esponenti israeliani del ministero della giustizia è ad Abu Dhabi per partecipare una conferenza internazionale sulla corruzione. Senza dimenticare che lo scorso anno l'inno israeliano fu suonato in una competizione internazionale ad Abu Dhabi quando un atleta israeliano vinse la medaglia d'oro di judo. Ed ora, secondo quanto ha segnalato di recente il quotidiano Yediot Ahronot, gli Emirati stanno pensando di consentire ai turisti israeliani di entrare liberamente nel Paese a partire dall'inizio dell'Expo (circa 25 milioni di visitatori stimati) nell'ottobre del prossimo anno.
   Cosa fino ad adesso non consentita. Infine - e non sembra proprio un caso - 'Gates of Tomorrow', il Padiglione israeliano (disegnato dall'architetto David Knafo, lo stesso che progettò quello all'Expo di Milano, insieme ad Avs) rassomiglierà, ha raccontato il sito Xnet, ad duna di sabbia accompagnata da grandi schermi sui quali saranno proiettati paesaggi di Israele e i risultati raggiunti dal Paese.

(ANSAmed, 16 dicembre 2019)


Gas a Cipro, Erdogan accende la miccia nel Mediterraneo?

L'incidente militare tra Turchia e Israele riapre la questione sulle conseguenze delle reiterate provocazioni di Ankara nel Mediterraneo orientale per la supremazia sul gas

di Francesco De Palo

Un incidente militare tra Turchia e Israele riapre la questione sulle conseguenze geopolitiche e strategiche delle reiterate provocazioni di Ankara nel Mediterraneo orientale. Il presidente turco Erdogan accende una miccia intrecciando i destini di Libia, Grecia, Israele e Cipro? E quali altre mosse si prefigurano all'orizzonte, dopo l'accordo stipulato con la Libia che investe anche la situazione alle porte di Tripoli?

 Scontro o intimidazione?
  Si apprende oggi che due settimane fa una nave da guerra turca ha "espulso" una nave da ricerca israeliana situata all'interno della Zee cipriota. La notizia è stata confermata dal ministero israeliano dell'energia. La nave Bat Galim del Servizio di ricerca oceanografica e lagunare aveva a bordo ricercatori dell'Università Ben-Gurion e un geologo cipriota che conduceva ricerche subacquee sul gasdotto EastMed per volere del governo israeliano. La nave turca ha inviato un messaggio intimando l'allontanamento della nave israeliana perché si trovava "all'interno della Zee turca", nonostante la nave stesse navigando su autorizzazione da parte delle autorità cipriote.

 Le provocazioni turche
  Appare evidente come in questo momento Ankara intenda contrastare in ogni modo la cooperazione trilaterale esistente tra Israele, Cipro e Grecia che si è compattata sul dossier energetico. Tel Aviv ritiene ormai strategica l'interlocuzione con Atene proprio perché fondata su interessi di lungo termine, come ribadito recentemente dall'ambasciatore israeliano ad Atene Yossi Amrani, annunciando altre partnership oltre il gas come quella nei settori della difesa. All'orizzonte la possibilità che il cosiddetto triumvirato del gas tra Atene, Nicosia e Tel Aviv si "allarghi" ad una sorta di alleanza di difesa, al fine di tutelare gli interessi nazionali dei tre player.
  "La tensione sta effettivamente aumentando e sta diventando più frequente - ha puntualizzato Amrani con riferimento alle provocazioni di Erdogan - Siamo pienamente consapevoli delle implicazioni di politiche specifiche per la sovranità e la sicurezza, ma anche della nostra capacità di sfruttare le risorse naturali. Il nostro messaggio è chiaro".

 Tensioni nel mediterraneo
  Rispetto a 12 mesi fa, le tensioni sul gas in questo fazzoletto di acque mediterranee stanno aumentando esponenzialmente, soprattutto a seguito dell'accordo tra Turchia e Libia per un corridoio di Zee tra Ankara e Tripoli. Sul punto, dopo la crisi diplomatica tra Libia e Atene dettata dal fatto che l'accordo siglato non tiene conto dell'isola di Creta, ecco un nuovo punto di frizione. L'ambasciata libica in Egitto ha chiuso i battenti a causa di "preoccupazioni per la sicurezza" come recita una nota apparsa sul profilo Facebook.
  L'ambasciata, che rappresenta il governo di unità nazionale (ECE) riconosciuto a livello internazionale, ha negato in una successiva dichiarazione che la sospensione della missione diplomatica fosse legata ai motivi di carattere interno (Haftar vs Serraj), citando generiche "violazioni" e tentativi di estorsione, senza fornire ulteriori dettagli. Lo stesso Serraj è stato ieri ospite del presidente turco (per la seconda volta in meno di un mese) senza che l'incontro fosse ufficialmente presente in agenda. Nonostante non siano trapelati elementi di merito, è verosimile che abbiano parlato del possibile invio di forze militari turche in Libia a sostegno del governo di Tripoli contro gli uomini di Haftar.

 I sospetti
  A dimostrazione dell'elevato stato di agitazione nell'Egeo e nel Mediterraneo orientale, un ulteriore momento di confronto ci sarà oggi a Ginevra tra il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias, per discutere di sicurezza regionale. Sullo sfondo le minacce di Erdogan non solo di sconfessare apertamente il Trattato di Losanna che nel 1923 stabilì i confini nell'Egeo (ma che Ankara contesta strumentalmente solo adesso per la scoperta del gas a Cipro), ma di impedire l'accesso degli Usa alla base turca di Incirlik, da cui il Pentagono ha da tempo avviato un progressivo disimpegno spostando uomini e mezzi in quattro basi elleniche.

(formiche, 16 dicembre 2019)


Montenegro acquisterà un sistema di armi israeliano per 35 milioni di dollari

PODGORICA - La compagnia israeliana Elbit system consegnerà al Montenegro un sistema di armi dal valore di 35 milioni di dollari, in base a un accordo firmato tra i due paesi domenica. Secondo quanto riferisce il sito di informazione "The Times of Israel", Elbit fornirà un sistema di controllo a distanza di armi che sarà integrato in veicoli leggeri tattici di produzione statunitense in dotazione alle forze armate montenegrine. L'accordo prevede la consegna del sistema e delle parti di ricambio, nonché una guida all'addestramento per l'esercito e il ministero della Difesa di Podgorica. L'accordo è stato firmato dal Direttorato per la cooperazione internazionale nel settore della Difesa israeliano (Sibat) e dal ministero montenegrino. Il direttore di Sibat, il brigadier generale Yaur Jykasm ha affermato che l'accordo "rispecchia il valore delle innovazioni israeliane nel settore della difesa, che si occupano di problemi che i nostri partner strategici e i nostri alleati possono affrontare".

(Agenzia Nova, 16 dicembre 2019)


Israele, una promozione a pieni voti

di Carlo Marroni

 
Un'economia dinamica in un contesto difficile, che può far peggiorare il "rating" del Paese, il merito di credito. È recente un rapporto dell'agenzia di rating Moody's sull'economia israeliana, dove si mettono in luce i punti di forza. Israele ha certamente un'economia resiliente, diversificata e competitiva. Resta la principale debolezza del credito, che è la suscettibilità del paese ai rischi geopolitici. Un giudizio che guarda certamente al lungo termine e non a fattori contingenti, come per esempio il recente riesplodere del conflitto con Gaza, con lancio di missili verso Tel Aviv anche a seguito dell'uccisione del leader della jiahd islamica nella Striscia. I punti di forza del credito israeliano (positivo per Al) comprendono la sua economia forte e competitiva, un'altissima forza istituzionale e le sue dinamiche fiscali favorevoli a lungo termine, ha scritto Moody's Investors Service nel suo rapporto annuale.
   Quindi, in questo quadro un po' a doppia facciata, Israele ha visto un sostanziale miglioramento dei fattori del debito pubblico negli ultimi dieci anni, ed è uno dei pochi paesi avanzati che ha un rapporto debito/Pil inferiore rispetto a prima della crisi finanziaria globale - l' attuale livello è stimabile nel 64%. Un fatto di per sé eccezionale.
   "La crescita economica di Israele (gli ultimi dati indicano una crescita del Pil sullo scorso anno del 3,3%, ndr) ha superato la maggior parte degli altri paesi industriali avanzati negli ultimi dieci anni, guidata da un settore delle esportazioni ad alta tecnologia fortemente competitivo e da una base economica diversificata che ora include le esportazioni di energia" ha affermato Evan Wohlmann, Vice Presidente di Moody's - Senior Credit Officer e autore del rapporto. "Lo sviluppo del giacimento di gas del Leviatano probabilmente rafforzerà ulteriormente la posizione di creditore netto di Israele". Il giacimento è stato scoperto nel 2010, e si tratta di una delle maggiori scoperte dell'ultimo decennio: dovrebbe contenere fino a 605 miliardi di metri cubi di gas naturale, equivalente - è stato stimato, a 65 anni di consumo interno. Le compagnie petrolifere che sono al lavoro hanno finora investito nel progetto 3,75 miliardi di dollari. Un fattore che resta di debolezza è legato alle infrastrutture, e in particolare alla linea ferroviaria ad alta velocità Tel Aviv-Gerusalemme, ancora inspiegabilmente non funzionante.
   Resta la principale debolezza creditizia del Paese: "La sua suscettibilità al rischio politico, in particolare rischi geopolitici persistenti con il potenziale di essere coinvolti in conflitti su piccola scala nella regione, nonché il rischio di un'escalation delle tensioni con i palestinesi". Detto questo, Israele - per Moody's - ha visto un miglioramento della sua situazione di sicurezza negli ultimi anni. Allo stesso tempo, l'attuale prolungata stagione elettorale - che resta ancora un'incognita - ha prolungato l'incertezza politica e l'inerzia delle riforme, "ritardando al contempo gli sforzi più completi per affrontare il crescente deficit di bilancio". Un'intensificazione degli sforzi di risanamento del bilancio a seguito della formazione del prossimo governo, quando ci sarà, che aiuta a preservare ampiamente i guadagni di riduzione del debito osservati nell'ultimo decennio "sarebbe positiva per il credito", inteso come rating vero e proprio. Il continuo sviluppo del giacimento di gas del Leviatano e una maggiore chiarezza sulle dimensioni e sui tempi potenziali dei benefici economici e fiscali sarebbero positivi per il credito. "Le prospettive potrebbero essere stabilizzate se gli sviluppi geopolitici compromettessero materialmente la stabilità economica di Israele o se il governo dimostrasse un impegno nei confronti della disciplina fiscale, incluso un basso onere del debito, se si volgesse" conclude l'agenzia di rating.

(Pagine Ebraiche, dicembre 2019)



Essere ebrei, una faccenda terribilmente complicata

di Elena Loewenthal

Non è facile essere ebreo: lo spiega Riccardo Calimani nel suo nuovo libro, appena pubblicato con questo titolo dalla Nave di Teseo (pp.167, € 12). E lo fa rivolgendosi soprattutto a chi ebreo non lo è, passando dalla mistica della Qabbalah all'umorismo, dal tabù dell'idolatria all'espulsione dalla Spagna, nel 1492.
   Il volume si presenta come un'agile guida ai fondamentali di un'identità religiosa, storica, culturale davvero difficile da cogliere: è ebreo chi è figlio di madre ebrea (grande privilegio, entro i confini di una società tanto per cambiare ad alto tasso di maschilismo), oppure chi si converte all'ebraismo (cosa che per lo più non è nota e desta immancabilmente un certo stupore: ma come, si può diventare ebrei? Sì, a patto di aver voglia di studiare). Se non che, al di là di questo assioma, tutto si complica in un insieme di comuni denominatori e apparentemente insormontabili differenze che si riconoscono nella varietà delle declinazioni. In parole povere, essere ebreo a Varsavia, a Cochin in India, a Sanaa in Yemen, a Roma o a Buenos Aires significa - e significava - cose molto diverse. E la stessa inafferrabilità si coglie ovviamente in una prospettiva diacronica.
   Calimani riesce a impostare il racconto dell'identità in modo scorrevole e comprensibile, addentrandosi nei suoi meandri: «Che cosa è un ebreo? È uno che quando gli racconti una storiella ebraica ti risponde che la sapeva già e te la ripete migliorandola. Non potrei quindi spiegare a un ebreo che cosa significa essere ebreo: non soltanto lo sa benissimo, o crede di saperlo, ma sarebbe capace di spiegarlo molto meglio di me. Dunque, ai lettori ebrei queste pagine non servono».
   Ma in realtà il libro è utile anche a chi questa identità ce l'ha. Come dice un'altra vecchia storiella, la prima cosa che un ebreo fa da naufrago su un'isola deserta è costruirsi due sinagoghe: una che frequenterà, l'altra dove non metterà piede manco morto. Perché al di là della difficoltà, come dice il titolo del libro, il punto è che essere ebrei è terribilmente complicato, costringe a un confronto continuo con la complessità della propria condizione - storica, religiosa, nazionale, culturale, linguistica e chi più ne ha più ne metta. Ma forse soprattutto con quel paradosso che è una Legge divina fondamento dell'identità, che però ti impone il principio della libertà come precondizione dell'osservanza (se non hai la facoltà di trasgredirla, rispettare la legge non è più un merito, violarla non è più una colpa). Forse tutto parte di lì, da quella contraddizione primigenia, che è anche, infondo, la cifra di ogni identità umana.

(La Stampa, 16 dicembre 2019)


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