Notizie 16-31 gennaio 2022
Nuovo attacco israeliano in Siria: colpiti obiettivi di Hezbollah vicino Damasco
Un nuovo attacco israeliano è avvenuto in Siria nelle prime ore di questa mattina. Ad essere colpiti sono stati obiettivi di Hezbollah – depositi di missili e munizioni – nei pressi della capitale siriana Damasco.
Secondo quanto riportano i media di stato siriani la maggior parte dei missili israeliani sarebbe stato abbattuto, tuttavia secondo testimoni sul posto ci sarebbero state decine di esplosioni.
Sempre secondo l’Agenzia di stampa siriana SANA, ci sarebbero stati solo “piccoli danni materiali” ma altre fonti parlano di diverse vittime tra le fila di Hezbollah.
Questo è il primo attacco israeliano da quando la Russia ha annunciato la scorsa settimana che stava effettuando pattugliamenti congiunti con l’aviazione militare siriana dello spazio aereo lungo i confini della Siria, compresa l’area delle alture del Golan, segno evidente che i caccia russi non fermano gli attacchi israeliani contro obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria.
(Rights Reporter, 31 gennaio 2022)
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Herzog a Dubai: il simbolo del cambiamento del Medio Oriente
di Ugo Volli
Immaginiamo la visita di stato di un presidente italiano (o francese, o tedesco, non importa) in una capitale araba: viene ricevuto all’aeroporto da ministri e funzionari, lo trasportano alla residenza del capo dello stato, all’ingresso una banda militare suona l’inno del suo paese, la sua bandiera è esposta accanto a quella del posto. Tutto normale, accaduto mille volte. Ma poniamo ora che il presidente sia quello di Israele. Niente del genere è mai successo, neanche coi paesi con cui vi è un trattato di pace (Egitto, Giordania). Qualche incontro sì, ma clandestino, senza formalità, coi ministri incaricati di risolvere problemi concreti, in mezzo all’ostilità dell’opinione pubblica.
Così fino a ieri. Perché finalmente il momento è arrivato: Itshak Herzog, presidente dello stato di Israele, è arrivato all’aeroporto di Dubai, è stato accolto dall’erede al trono, portato alla reggia dell’emiro, è sfilato davanti al plotone d’onore, ha visto il Magen David azzurro della bandiera israeliana esposto accanto al vessillo degli Emirati Arabi Uniti, ha ascoltato la Hatikva, l’inno israeliano, che parla in versi commoventi della speranza e del futuro. Infine ha tenuto un lungo incontro di lavoro con i governanti del paese. Tutto normale, tutto eccezionale proprio perché normale: la realizzazione di un sogno coltivato da Theodor Hertzl, che 17 maggio 1901, incontrò il sultano turco Abdulhamid II, ma non certo da capo di stato, o di Chaim Weizmann, che incontrò più volte prima del Trattato di Versailles l’Emiro Faysal (figlio dello Sceriffo della Mecca e Re dell'Hegiaz cioè quella che oggi chiamiamo Arabia Saudita), nella speranza di arrivare a un accomodamento fra ebrei e arabi.
Questo incontro è importante perché non è politico, ma statale. Con gli Emirati, ma anche con il Bahrein e con il Marocco sono già avvenuti molte riunioni a livello di ministri, si sono firmati accordi, prese iniziative comuni, addirittura fatte manovre militari assieme. Ma questo è il coronamento simbolico. E non si tratta di un fatto isolato. A parte Marocco, Bahrein e Sudan, che hanno già firmato, le trattative con l’Arabia sono in uno stato avanzato, si parla di possibili accordi anche con altri stati islamici, dall’Indonesia al Pakistan, fino al Qatar. Perfino il rapporto con la Turchia, guidata da un islamista nostalgico dell’impero ottomano come Recep Tayyip Erdogan stanno, a quanto pare, migliorando. Lo stato delle relazioni fra Israele e il mondo islamico è oggi del tutto differente di quel che era 50, 20, anche solo 5 anni fa. Il merito va a Donald Trump, che ha lasciato l’eredità degli accordi di Abramo; a Bibi Netanyahu, che ha avuto la lucidità di barattare una dichiarazione di sovranità su parte di Giudea e Samaria che non sarebbe stata accettata da nessuno con il processo di normalizzazione patrocinato da Trump. E paradossalmente dell’Iran, che insistendo su una politica imperialista e guerrafondaia contro Israele ma anche contro tutti i suoi vicini arabi, ha spinto i suoi nemici a unirsi per difendersi dalla sua aggressione.
Purtroppo a rovinare la festa c’è l’indifferenza totale dell’Unione Europea, che è interessata alla pace solo quando significa indebolimento di Israele e la politica di Joe Biden, che cerca un accordo al ribasso con l’Iran, e però fa fatica a costruire un quadro minimamente decoroso per la resa che vorrebbe in Medio Oriente, come ha già fatto con l’Afghanistan. Ma gli accordi di Abramo sono difficili da annullare anche per chi non li vorrebbe proprio vedere, perché sono sostenuti da affinità economiche, complementarietà tecnologiche, da elementi culturali condivisi nella lunga tradizione sefardita che è una parte fondamentale dell’identità di Israele. Nel rapporto fra lo stato ebraico e gli Emirati si intravvede davvero uno sviluppo storico conveniente per tutti i popoli della regione, che mette in soffitta i vecchi rancori ancora coltivati dai palestinisti e da chi li appoggia, per proporre al posto del revanscismo uno sviluppo comune del Medio Oriente. E la cerimonia che si è svolta al palazzo di Dubai è davvero più che una promessa di un futuro migliore: il simbolo di una collaborazione che cambierà la regione.
(Shalom, 31 gennaio 2022)
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Palestinesi accusano Hamas per le misere condizioni di Gaza
Dopo 15 anni di dittatura, la campagna online “Hanno sequestrato Gaza” respinge il frusto espediente dei capi islamisti di cavarsela dando ogni colpa a Israele.
di Khaled Abu Toameh
Molti palestinesi hanno lanciato una campagna sui social network per protestare contro il governo di Hamas sulla striscia di Gaza, accusando il movimento islamista d’essere responsabile della povertà, della disoccupazione e delle dure condizioni economiche e umanitarie.
Hamas e i suoi sostenitori hanno reagito affermando che dietro alla nuova campagna ci sono l’Autorità Palestinese e Israele, e hanno lanciato contro-campagne online in cui accusano l’Autorità Palestinese di corruzione, collaborazionismo con Israele e per l’imposizione di sanzioni finanziarie ed economiche alla striscia di Gaza nel quadro del tentativo di istigare una rivolta contro Hamas.
La campagna anti-Hamas, intitolata “Hanno sequestrato Gaza” è partita sulla scorta di un rapporto della ong Euro-Med Human Rights Monitor, con sede a Ginevra, in cui si afferma che “circa un milione e mezzo della popolazione totale della striscia di Gaza di 2,3 milioni, è stato ridotto in povertà a causa del blocco israeliano e delle restrizioni imposte dal 2006” (l’anno delle elezioni vinte da Hamas, dopo il ritiro israeliano da Gaza del 2005). Parecchi attivisti palestinesi anti-Hamas respingono l’ennesimo tentativo di scaricare la colpa su Israele e chiamano direttamente in causa Hamas, additando la sua alleanza con l’Iran e con altri gruppi terroristici sostenuti dall’Iran in Medio Oriente.
“Chi dice che è l’occupazione [israeliana] la ragione della situazione a Gaza? – si chiede Hosam Elmadhon, residente nella striscia – E’ l’occupazione che impone le tasse? E’ l’occupazione che riscuote 30 milioni di dollari di tasse ogni mese su sigarette e tabacco?”. In un altro post, Elmadhon scrive: “Ho una domanda per i dirigenti di Gaza, che trafficano con l’assedio e la nostra sofferenza: com’è che l’assedio ha reso povero me e ha reso ricchi voi? Com’è che l’assedio che ha costretto molti giovani a emigrare, a voi consente di vivere in ville e hotel? Com’è che l’assedio fa morire di fame i nostri figli, ma permette ai vostri figli di vivere nella prosperità? Com’è che l’assedio ha tolto l’elettricità alla mia famiglia, ma permette di illuminare la vostra casa per 24 ore?”. “La politica fallimentare di Hamas – lamenta Khaled Noor, un altro utente dei social network palestinesi – ha fatto sì che metà del mondo ci odia e la simpatia per la nostra causa è diminuita. Hamas vuole condiscendere l’Iran, che distrugge città arabe” (un riferimento al coinvolgimento diretto e indiretto dell’Iran nelle guerre civili di Yemen, Siria e Iraq).
La precedente campagna online anti-Hamas, lanciata nel 2019 con il titolo “Vogliamo vivere!”, venne duramente repressa dalle forze di sicurezza di Hamas con l’aiuto dell’ala armata del movimento, le Brigate Izzadin al-Qassam. Centinaia di manifestanti palestinesi vennero aggrediti fisicamente o imprigionati, compresi attivisti politici e per i diritti umani che erano scesi in piazza per protestare contro il gruppo terroristico. La campagna era stata organizzata per protestare contro le tasse imposte da Hamas ai residenti della striscia di Gaza, e contro l’alto tasso di disoccupazione e povertà e l’alto costo della vita.
La nuova campagna online anti-Hamas giunge nel mezzo di continue tensioni tra Hamas e Fatah e del fallimento degli sforzi arabi per risolvere la controversia tra le due fazioni rivali. Di recente, i rappresentanti di Fatah e Hamas sono stati invitati dal presidente algerino Abdelmadjid Tebboune per intavolare colloqui di “riconciliazione”. Molti palestinesi, tuttavia, dicono di non aspettarsi una svolta dalle discussioni a causa dell’ampio divario tra le due parti e dei tanti tentativi falliti in precedenza.
“Ogni tweet scritto con l’hashtag ‘Hanno sequestrato Gaza’ è una storia di sofferenza che dura da 15 anni – scrive Rehab Adel su Twitter – Gaza ha provato ogni tipo di morte. Non è ora di provare il gusto della vita, almeno per una volta?”. Protesta Bassem Othman, ingegnere palestinese: “In tutto il resto del mondo vengono imposte tasse in cambio dei servizi che il cittadino riceve”. Sotto Hamas, “viene chiesto di pagare le tasse anche a quelli che sono disoccupati”.
“Il movimento islamico non è riuscito a gestire la crisi a Gaza – commenta il fotoreporter e attivista freelance Walid Mahmoud – Hamas non ha saputo offrire nessuna soluzione ai residenti di Gaza, e questo nessuna persona sana di mente lo può negare. Non dovrebbe essere concesso a quel residente il diritto di esprimersi e di parlare della sua esperienza sotto il dominio islamico?”
Bisan Issam, un altro residente di Gaza, twitta: “Quindici anni fa, due milioni di persone furono sequestrate nella striscia di Gaza dalla banda del Cambiamento e della Riforma [la lista elettorale di Hamas nel 2006]. Le vite e i sogni di un’intera generazione sono andati perduti, schiacciati dalla disperazione e dall’impossibilità di intraprendere. Ora sono disposti a rischiare la vita pur di sfuggire l’eterna morte di Gaza”.
(israele.net, 31 gennaio 2022)
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Siria, Hezbollah trasferisce le armi delle milizie pro-Iran al confine col Libano
di Francesco Bussoletti
Hezbollah sta trasferendo armi dall’Est all’Ovest della Siria, al confine con il Libano. Secondo fonti locali, negli ultimi giorni sono state avvistate colonne di camion appartenenti al gruppo terroristico sciita arrivare a Rif Dimashq. I convogli avrebbero caricato quanto previsto dai depositi delle milizie pro-Iran nell’area di Athar Al-Shalby (Mayadeen) e poi percorso l’autostrada Deir Ezzor-Damasco, proseguendo fino alla regione montuosa alla frontiera. I carichi, peraltro, non includevano solo armi leggere e munizioni, ma anche missili a corto e medio raggio. L’operazione con ogni probabilità ha l’obiettivo di proteggere gli “assetti” forniti in dotazione alle milizie pro-Iran dai continui raid aerei di Israele. L’area montuosa di confine tra Siria e Libano, infatti, è molto più sicura di Mayadeen. Ciò, in quanto i magazzini delle armi si possono nascondere meglio e per i caccia dello Stato Ebraico è meno facile individuarli.
(Difesa & Sicurezza, 31 gennaio 2022)
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La Germania costruirà i più grandi sottomarini per Israele dalla guerra
di Yuferev Sergey
Il 20 gennaio 2022, a Tel Aviv, il Ministero della Difesa israeliano ha firmato un accordo con l'associazione cantieristica tedesca ThyssenKrupp Marine Systems (TKMS) per progettare e costruire tre nuovi sottomarini non nucleari per la Marina israeliana. L'accordo è molto ingente in termini di denaro ed è stimato in 3,1 miliardi di euro, mentre il governo tedesco stanzierà una cifra significativa per cofinanziare parzialmente il progetto. Un'altra caratteristica interessante dell'accordo è che la società cantieristica tedesca costruirà i più avanzati sottomarini non nucleari per Israele. È probabile che i sottomarini ricevano un modulo VMPL (Vertical Multi-Purpose Lock) sviluppato dagli ingegneri TKMS, progettato per ospitare veicoli subacquei, lanciamissili verticali o una camera di compensazione per nuotatori da combattimento. Un altro punto interessante è il fatto che è probabile che i sottomarini di classe Dakar non nucleari per la Marina israeliana siano i più grandi sottomarini costruiti in Germania dopo la seconda guerra mondiale. Il loro spostamento subacqueo può superare le 2 tonnellate. Per fare un confronto: i più avanzati sottomarini diesel-elettrici tedeschi di tipo XXI, che hanno avuto un enorme impatto sull'intera costruzione navale dei sottomarini del dopoguerra, avevano un dislocamento subacqueo di circa 2 tonnellate.
• COSA SI SA DEL CONTRATTO CONCLUSO IN ISRAELE Meno di un secolo fa, la Germania e la società tedesca erano ossessionate dalle idee di antisemitismo, che si trasformò in una terribile tragedia per l'intera popolazione ebraica d'Europa, e oggi le compagnie di difesa tedesche sono i principali partner della marina israeliana. I legami stabiliti tra i paesi sono piuttosto forti e si sono ampliati solo negli ultimi anni. Oltre ai sottomarini, la Germania sta costruendo moderne corvette per Israele. Quattro corvette Sa'ar 2015 ordinate in Germania insieme a sottomarini dei tipi Dolphin e Dolphin 2, sono state costruite per la Marina israeliana in Germania. E ora gli ultimi sottomarini per gli israeliani flotta sarà fornito dalla società tedesca ThyssenKrupp Marine Systems, diventata un importante partner per Israele nella costruzione di navi da guerra di superficie e sottomarine. Il costo dell'accordo per la costruzione di tre sottomarini non nucleari del progetto Dakar è un record per Israele. Per 3,1 miliardi di euro, il Paese riceverà non solo tre dei più avanzati sottomarini non nucleari, ma anche una vasta gamma di attrezzature, equipaggiamenti e pezzi di ricambio correlati. Il contratto include anche la costruzione in Israele di un moderno complesso di addestramento per l'addestramento di sottomarini e un pacchetto completo di supporto logistico. La vendita di tre barche non nucleari dotate di una moderna centrale elettrica indipendente dall'aria prevede anche un accordo di compensazione tra i paesi per un importo di oltre 850 milioni di dollari. Questo accordo prevede l'obbligo della Germania di acquistare prodotti dall'industria israeliana, compresa l'industria della difesa. Nonostante l'acquisizione di tre nuovi sottomarini, la Marina israeliana non abbandona il concetto scelto alla fine del XX secolo, secondo il quale la flotta dovrebbe avere contemporaneamente sei grandi sottomarini non nucleari. Le nuove barche di classe Dakar sostituiranno i sottomarini di classe Dolphin della Marina israeliana, che saranno ritirati dalla flotta dopo trent'anni di servizio. A cavallo degli anni 2000, la Marina israeliana ha ricevuto tre sottomarini diesel dalla Germania, costruiti secondo un progetto speciale IKL800. I primi sottomarini diesel-elettrici di questo tipo furono designati Dolphin in Israele. Le barche sono state costruite in Germania presso il cantiere navale Nordseewerke Emden di Emden, chiuso nel 2010. Si prevede che rimarranno nella flotta fino all'inizio degli anni '2030. Nel 2006, Israele ha ordinato altri due sottomarini dalla Germania, questa volta su un progetto diverso. Si trattava di barche modificate con un dislocamento maggiore, dotate di una centrale elettrica indipendente dall'aria, che non era disponibile sulle prime barche di classe Dolphin. Il progetto è stato designato Dolphin 2. Le prime due barche sono entrate nella Marina israeliana nel 2014-2016. Nel 2011, Israele ha ordinato un'altra barca del progetto Dolphin 2. Era un progetto modernizzato, modificato su richiesta dell'esercito israeliano. La barca, che dovrebbe essere consegnata ai marinai israeliani entro il 2023, ha un dislocamento totale di 2 tonnellate. Questo sottomarino potrebbe già rivendicare il titolo di più grande sottomarino costruito in Germania dopo la seconda guerra mondiale.
• CARATTERISTICHE DEI SOTTOMARINI DEL TIPO DAKAR A giudicare dalle immagini pubblicate su Internet delle future barche di classe Dakar, potrebbero avere un dislocamento subacqueo ancora maggiore di tutti i sottomarini ordinati da Israele finora. E, forse, supereranno in questo parametro la terza imbarcazione del tipo Dolphin 2, che non è stata ancora introdotta nella flotta israeliana. Le nuove barche presero il nome Dakar in onore dell'omonimo sottomarino israeliano misteriosamente morto nel 1968. Il sottomarino fu acquistato dal Regno Unito ed affondò durante la traversata verso Israele il 25 gennaio 1968 in circostanze poco chiare. Il sottomarino è stato scoperto solo nel 1999. I nuovi sottomarini di classe Dakar saranno i più grandi della flotta israeliana. In termini di spostamento subacqueo, saranno paragonabili ai sottomarini diesel-elettrici russi di quarta generazione del Progetto 677 Lada. Allo stesso tempo, a differenza delle barche russe, i sottomarini israeliani riceveranno quasi sicuramente una centrale elettrica indipendente dall'aria di fabbricazione tedesca basata su celle a combustibile a idrogeno. Tale installazione viene utilizzata su tutte e tre le barche Dolphin 2 della marina israeliana e sulle moderne barche del progetto 212CD, che sono state ordinate dalle marine tedesche e norvegesi e saranno commissionate a cavallo degli anni '2030. Questa tecnologia consente al sottomarino di effettuare viaggi senza dover salire in superficie. È vero, la gamma di immersioni in questa modalità è seriamente limitata. A giudicare dai rendering presentati, i sottomarini israeliani di classe Dakar riceveranno linee dello scafo paragonabili alle nuove barche tedesche Project 212CD, che dovrebbero entrare anche nella flotta tedesca all'inizio degli anni '2030. Una caratteristica distintiva delle barche, a quanto pare, sarà uno speciale scafo a forma di diamante. Questa forma è stata scelta dagli ingegneri della ThyssenKrupp Marine Systems come parte dell'implementazione della tecnologia stealth. Allo stesso tempo, secondo render precedentemente pubblicati, che potrebbero essere preliminari, possiamo parlare della presenza di una cabina allungata su una barca di tipo Dakar, le cui dimensioni ci consentono di giudicare il posizionamento di varie attrezzature aggiuntive al suo interno. Una soluzione del genere, a quanto pare, può aumentare la lunghezza della barca fino a quattro metri. Gli esperti ritengono che la presenza di un taglio così allungato e forte possa essere dettata dalle specifiche dell'uso delle barche israeliane, che saranno coinvolte in operazioni speciali. In questo caso, lo spazio extra tornerà utile per ospitare i soldati delle forze speciali con tutta l'attrezzatura e l'equipaggiamento necessari. È anche possibile che gli israeliani avessero bisogno delle maggiori dimensioni della cabina per ospitare missili di maggiori dimensioni e potenza sulla barca. Probabilmente stiamo parlando di missili balistici. Ci sono stati esempi nella storia in cui silos missilistici sono stati posizionati in una recinzione di abbattimento allungata. Tale soluzione, in particolare, fu utilizzata sui primi sottomarini sovietici, dotati di missili balistici. Ad esempio, sulle barche del progetto 658M. Il trasferimento di tre nuovi sottomarini alla Marina israeliana dovrebbe avvenire all'inizio degli anni '2030, in precedenza era stato riferito che il primo sottomarino potrebbe essere pronto già nel 2027. Come parte della flotta israeliana, sostituiranno le barche della classe Dolphin, che si distinguono per un dislocamento molto più modesto e non dispongono di una centrale elettrica indipendente dall'aria.
(Top War, 31 gennaio 2022)
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Il lungo viaggio degli ebrei in Cina
Tra il 1938 e il 1940 una moltitudine di uomini e donne salpò per Shanghai sui transatlantici del Lloyd. Qui arriverà anche Klara Blum, grande mediatrice tra culture, all'inseguimento di un amore e di un sogno politico. Migliaia si imbarcarono a Trieste in fuga dal nazismo Qualcuno scelse di unirsi alla rivoluzione di Mao. di Claudio Magris
Fra il 1938 e il 1940, come racconta in un affascinante articolo sul «Piccolo» del 23 gennaio Elisa Coloni, quindicimila ebrei provenienti da vari Paesi e soprattutto da Vienna partirono da Trieste su un transatlantico del Lloyd Triestino per Shanghai, sfuggendo così alla minaccia della deportazione e della morte nei Lager. Questo salvataggio dalla Shoah è una gloria della marineria triestina, che aveva già avuto un ruolo nella migrazione di molti ebrei in Palestina. Da molti anni, peraltro, dalla Cina pure si partiva. instancabili lavoratori cinesi in fuga dalla povertà si spargevano nel mondo; un'infaticabile forza-lavoro pronta ad accettare le condizioni più dure, che provocava talora, per reazione, anche dei veri pogrom. Alcuni erano arrivati anche a Trieste, il cui cimitero contiene pure vecchie tombe di questi ignoti, sepolti spesso insieme, dopo una vita di fatiche, privazioni ed emarginazione. Da ragazzo, boyscout dell'Asci, ho passato, insieme ad alcuni amici, un paio di pomeriggi nel cimitero di Trieste a mettere a posto delle vecchie e scalcinate tombe di cinesi, togliendo erbacce che nascondevano i nomi. sistemando i sassi, eliminando la spazzatura. Era una B. A., la Buona Azione che lo scoutismo sollecitava e che ha creato tante battute e remenele. Ma credo non sia male dedicare rispetto e attenzione non solo ai vivi ma pure ai morti. L'umanità li comprende entrambi e del resto si ritrovano presto insieme. Gli ebrei rifugiatisi a Shanghai dovettero, credo, sentirsi di nuovo in pericolo quando, finita la Seconda guerra mondiale, in Cina riprese, assumendo proporzioni sempre più grandi, un'altra guerra, quella tra il Partito nazionalista e filo occidentale di Chiang Kai-shek e quello comunista guidato da. Mao, la cui vittoria finale, creando la Repubblica Popolare Cinese, avrebbe cambiato l'aspetto del mondo e i rapporti e gli scontri fra Oriente e Occidente. Non so se di questa guerra cinese tra comunismo e anticomunismo se ne intuissero allora le proporzioni e ll significato nella Storia del mondo. Ricordo, vagamente, la copertina di un giornale. Doveva essere «La Tribuna illustrata», la rivale della «Domenica del Corriere», che ogni tanto arrivava a casa - diversamente dalla presenza quotidiana del «Corriere», del «Piccolo» e della «Voce Repubblicana». Avevo accompagnato mia madre a comprare sigarette da un tabaccaio che vendeva anche giornali e mentre lei aspettava il suo turno guardavo quell'avventurosa copertina. C'erano una giungla folta e acquitrinosa e un uomo seminudo e giallastro dagli occhi a mandorla nascosto nel fogliame, che stava per gettare una bomba contro una specie di carro armato nel fango. Quelle imboscate nella lontana Manciuria non sembravano l'inizio di una Terza guerra mondiale - in realtà già in atto - che si giocava fra i popoli e i Paesi più diversi. Come un fiume che s'ingrossa e rompe gli argini, ricominciava sparpagliata in luoghi e in tempi diversi, una guerra di portata mondiale, che dava a poco a poco il senso di un'inarrestabile avanzata del comunismo la cui avanguardia era l'esercito maoista, sotto i cui colpi venerande e grandi città cadevano una dopo l'altra, armate nazionaliste si sfasciavano o passavano dall'altra parte. Questa Terza guerra mondiale sembrava, per alcuni anni, annunciare, come la tromba di un angelo dell'Apocalisse, la vittoria finale del comunismo, dalla guerra di Corea al Vietnam ad altri eventi epocali. A un certo punto pero la roulette ha cominciato a girare diversamente e le fiches hanno cambiato colore. Oggi Shanghai non è la città dove era arrivato il transatlantico triestino e nemmeno la Shanghai alla fine della Seconda guerra mondiale, quella di Hongkou e della Little Vienna dell'emigrazione ebraica che cominciava a sfoltirsi, ma è la vetrina di lusso del nuovo capitalismo creato dall'attuale potere comunista. Se gli ebrei sulla nave del Lloyd Triestino erano fuggiti in Cina dal nazismo, altri ebrei, soprattutto tedeschi o austro tedeschi, si erano recati in Cina per altre ragioni, ossia per costruire e difendere il comunismo, una storia che richiama quella di tanti cantierini monfalconesi sedotti dalla Jugoslavia di Tito e finiti a Goli Otok. L'articolo apparso sul «Piccolo» mi ha ricordato anche la singolare, intrepida e tumultuosa esistenza della scrittrice Klara Blum, ricostruita anni fa da Maddalena Longo per i suoi studi di dottorato. Klara Blum era nata nel 1904 a Cernowitz, in Bucovina, vecchio mosaico austriaco di polacchi, russi, romeni, ruteni, huzull e innumerevoli altri, in particolare di ebrei che parlano e scrivono in jiddisch. Un paesaggio plurimo, pieno di poeti, come il grande Paul Celan, la cui poesia penetra nelle tenebre della morte, della follia e degli orrori del secolo, che l'immaginarla Cernopol creata da Rezzori elude con l'ironia. Klara Blum trasforma in realtà viva e personale quella visione sovranazionale che è il senso della sua incredibile attività politica, una rivoluzionaria che combatte i nazionalismi ma difende le nazionalità quando sono negate e oppresse, anche da Stati, partiti. e ideologie per le quali si batte a fondo. Anima sempre in viaggio, dice che il posto in cui si sente a casa è la Judengasse, il quartiere ebraico di una città. Le esperienze nella Vienna socialista, in Palestina, a Mosca - infine in Cina - dalla socialdemocrazia al Partito comunista, nascono sempre dal confronto con problemi concreti, il lavoro delle donne, il rapporto fra libertà e disciplina di partito, la situazione economica, la letteratura. Nelle tempeste rivoluzionarie la passione amorosa ha spesso un ruolo particolare, i romanzi sulla rivoluzione sono percorsi da un vento da dottor Zivago. Le catastrofi non soffocano passioni e speranze, l'amore non si lascia schiacciare dalla ruota della Storia che gli passa sopra. È nel 1937 a Mosca che Klara conosce Zhu Xiangcheng, regista cinese, il grande amore della sua vita anche se passeranno insieme pochi giorni, poche ore. Quando Zhu sparisce, qualche settimana dopo il loro incontro, lei si convince che sia stato inviato in missione segreta in nome del comunismo e si mette a cercarlo, e lo farà per tutta la vita. L'ultimo mondo di Klara Blum è la Cina, dove arriva nel 1947 per trovare Zhu e per andare incontro all'esercito maoista vittorioso. «Cittadina cinese di origine ebraica» come dice di sé, o «scrittrice tedesco-cinese», come Lion Feuchtwanger la definisce parlando del suo Il pastore e la tessitrice, romanzo socialista modellato sulla celebre fiaba cinese che narra di due innamorati- chiave musicale per entrare in quel mondo sempre più suo -, Klara è soprattutto una grande mediatrice tra culture, che rielabora, e non soltanto traduce, temi poetici da tante lingue - dal tedesco e dallo yiddish al cinese, ma anche dall'ungherese, dal lituano, dal georgiano, dal russo, dall'ucraino, dal francese, dall'inglese. Fonda pure la germanistica in Cina ed è autrice di moltissime voci del dizionario tedesco-cinese ancora in circolazione. La sua vita è febbrile lavoro di Partito, ma anche versi pervasi di lieve incantevole poesia, una specie di lirica Tang nel Paese che voleva rappresentare il più radicale programma di rivoluzione mondiale. Klara Blum è vissuta per la liberazione degli oppressi e la dignità di ogni persona. Sembra che l'ultimo lontano incontro con Zhu, molti anni prima, sia durato pochi minuti in un'angosciosa situazione poliziesca. Klara morirà nel 1971. Pur nel disincanto della Rivoluzione culturale, sino alla fine Klara si rifiuta di prendere atto che Zhu sia morto, nel 1943, in un gulag. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse saputo della sua riabilitazione il 16 gennaio 1989.
(Corriere della Sera, 31 gennaio 2022)
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Il presidente israeliano Herzog arriva negli Emirati Arabi Uniti, sul tavolo l'accordo sul nucleare con l'Iran
I due paesi hanno allacciato relazioni dopo gli Accordi di Abramo. Il capo dello Stato ebraico sorvola l'Arabia Saudita. "Momento emozionante"
ABU DHABI - Il presidente israeliano Isaac Herzog è arrivato negli Emirati Arabi Uniti per una visita definita "storica", si tratta del primo viaggio di un capo dello Stato ebraico nel paese. Il suo ufficio ha sottolineato come al centro dei colloqui ci saranno le prossime mosse per rafforzare i legami tra Israele e il Golfo in un momento di tensione e mentre le potenze mondiali cercano di far tornare in vita l'accordo sul nucleare con l'Iran stretto sotto la presidenza Usa di Barack Obama e da cui l'Amministrazione Usa di Donald Trump aveva deciso l'uscita americana. Gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein nel 2020 hanno firmato gli "accordi di Abramo" con Israele, un'intesa fortemente volute dagli Usa. I due Stati del Golfo e lo Stato ebraico condividono forti timori verso l'Iran e i suoi alleati nell'area. Nel suo viaggio verso gli Emirati, Herzog ha sorvolato l'Arabia Saudita e ha definito il momento "veramente molto emozionante". Riad non ha rapporti diplomatici con Israele, ma le autorità israeliane hanno fatto più volte sapere di voler allacciare le relazioni con il paese che ospita i due luoghi più santi dell'Islam. Il primo ministro israeliano Naftali Bennett a dicembre aveva visitato gli Emirati Arabi. Ad accogliere Herzog all'aeroporto c'era il ministro degli Esteri Abdullah bin Zayed Al Nahyan. "Sono qui su personale invito del principe Mohammed bin Zayed - ha detto - gli sono grato per il suo coraggio e la sua leadership, per l'accordo di pace con Israele per aver inviato un segnale di pace per l'intera regione che è la sola alternativa per i popoli della regione". Il 18 gennaio Israele ha offerto apparati di sicurezza e di intelligence agli Emirati da utilizzare contro gli Houthi, il gruppo yemenita sostenuto dall'Iran contro cui la coalizione a guida saudita di cui gli Emirati fanno parte conduce una sanguinosa campagna militare. Il 17 gennaio gli Houthi hanno lanciato attacchi mortali con missili balistici e droni contro gli Emirati.
(la Repubblica, 30 gennaio 2022)
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Gaza: caccia serrata ad evaso, ‘detiene segreti di Hamas’
GAZA – I servizi di sicurezza di Hamas sono impegnati in varie zone della Striscia di Gaza in serrate ricerche di un evaso che secondo le autorità locali detiene segreti relativi alla sua ala militare e che potrebbe tentare di raggiungere il territorio israeliano. Si tratta, secondo un comunicato ufficiale, di Abdel Karim Abu Odeh. Questi, riferiscono i media, è stato in passato un esponente di rilievo dell’ala militare di Hamas ma è stato poi arrestato perché sospettato di aver inoltrato ad Israele informazioni sui tunnel militari di Gaza.
Dopo la fuga, la polizia di Hamas ha istituito numerosi posti di blocco e, per impedirgli di raggiungere Israele via mare, la sua foto segnaletica è stata distribuita anche ai pescatori di Gaza.
La scorsa notte un portavoce militare israeliano ha riferito che un giovane di Gaza si è infiltrato in Israele, ma non ne ha fornito la identità. A Gaza Hamas ha subito reagito sostenendo che questa informazione potrebbe essere un espediente di "guerra psicologica". Fonti locali aggiungono che anche stamane in alcune arterie di Gaza si notano posti di blocco della polizia.
(ANSA, 30 gennaio 2022)
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Intervista a Daniela Sarfatti: “L’importanza di fare Memoria”
di Ioel Roccas
In occasione della Giornata della Memoria, condividiamo la storia di Daniela Sarfatti e del suo impegno nelle scuole allo scopo di rendere edotte le nuove generazioni sugli anni del Nazifascismo con uno sguardo al futuro.
- Partirei dalle solite domande di prassi: Chi sei? Da dove vieni? Sono nata a Roma il 9 aprile 1944. Insegnante in pensione, testimone di memoria, scrittrice di brevi testi, di cui uno sulla mia famiglia intitolato Un piccolo grande uomo e un altro che è in uscita a breve.
- Cosa lega la tua storia alla Shoah? Anche se non ne ho vissuto sulla pelle gli orrori, la mia storia si lega alla Shoah. I miei genitori hanno attraversato un periodo tremendo di fuga, di nascondimenti, di false identità e alla fine l’arresto. Furono arrestati nel maggio 1944 per una delazione fatta dai vicini di casa; io avevo 40 giorni. I miei hanno avuto il privilegio di sopravvivere grazie anche all’aiuto di persone straordinarie che meriterebbero il posto di Giusti fra le Nazioni, di cui io ho il dovere di raccontare la storia finché ho fiato in corpo.
- Come la persecuzione ha influenzato la tua famiglia dopo la fine della guerra? I miei non me ne hanno parlato fino a tardissima età. Solo a 90 anni mio padre ha raccontato a mia figlia, Silvia Mosseri, il suo vissuto. Appena laureata, lei è andata con il suo computer, ha fatto parlare il nonno ed ha salvato una storia molto importante. I miei mi hanno sempre tutelato dagli orrori che hanno passato: essere reclusi, il terrore di essere deportati, essere torturati dai tedeschi. Mia madre non mi ha mai detto cosa le hanno fatto. Contrasse il tifo, perse il latte e rischiò di perdermi. Fui salvata dalle altre carcerate, che in quel momento erano migliori di quella società che ci aveva messo in prigione. Hanno attraversato una bufera che ha sconvolto le loro vite e che hanno voluto nasconderci con l’intento di tutelarci. La mia infanzia è stata molto felice, trascorsa tra ebrei come noi, forse per il desiderio di confortarsi l’un l’altro. Nel circolo ricreativo “Cuore e Concordia”, fondato da mio nonno Abramo Bino Cesana, ricordo: recite di bambini, adulti, commedie, lotterie di beneficenza (che mia madre Regina Cesana detta “Nonna Gigia” vinceva sempre) e balli, tra cui il valzer imparato da mio padre. Ho ricordi bellissimi di un’infanzia serena tra parenti e amici. Solo verso i 14 anni ho trovato un libro, L’ultimo dei giusti, che mio padre mi ha sottratto dalle mani dicendo che non ero ancora pronta per leggerlo. Da quel momento ho avviato il mio percorso di conoscenza sui fatti senza che loro raccontassero più di tanto. Avevo conosciuto delle persone al tempio, e non capivo quei numeri tatuati sul loro braccio. Poi a novant’anni nonno ha deciso di parlare, ed anche mia madre ha deciso di raccontarmi qualcosa della sua permanenza in prigione. Voglio sottolineare che ricordano di quel periodo solo in senso positivo. Di quel periodo atroce hanno salvato nei loro ricordi il senso di solidarietà, l’affetto, le premure delle carcerate per me neonata. Mio padre ricordava la condivisione del pacco di cibo e il barbiere che faceva la barba a tutti. Mi hanno trasmesso un messaggio estremamente positivo sulla vita, sottolineando come in tempi di male assoluto ci sono stati degli squarci di luce. Questi lampi sono rappresentati da tutte le persone che ci hanno aiutato con i documenti falsi e le cure mediche anche a rischio della loro vita, e non ultimo gli stessi compagni di cella di mia madre e di mio padre.
- Quando è maturata la consapevolezza di fare memoria e come ha reagito il mondo non ebraico a questa decisione? Allora la consapevolezza è maturata un po’ tardi. Questo impulso non è mai stato spontaneo, ma a scuola le colleghe erano interessate alla mia storia, mi invitavano a fare interventi nelle classi per parlare di ebraismo. Poi una volta, 15 anni fa, una collega che insegnava lettere mi chiese di venire in classe per parlare della mia storia. Andai a raccontare quello che ci era successo, e lei mi disse: “Lo sai che quello che racconti fa venire i brividi? Perché non lo scrivi?” Così ho scritto il mio primo libro, Un piccolo grande uomo; è la storia dei Sarfatti, il mio nucleo familiare. Poi Rossella (la collega) ha cominciato a dirlo in giro, e così ho iniziato a testimoniare. Come un piccolo sassolino che genera una valanga. Vuoi per dovere istituzionale, dal momento che nel gennaio di 22 anni fa è stata istituita la Giornata della Memoria e con essa l’obbligo per le scuole di parlarne, e vuoi anche per simpatia, stima e per passaparola, mi sono trovata a raccontare in scuole di ogni ordine e grado la storia della mia famiglia. Non solo nelle scuole, ma anche nelle chiese evangeliche e in prefetture. Più lo faccio, più capisco l’importanza di doverlo fare. Non so se esiste un modo giusto di fare memoria, però fare testimonianza coi ragazzi dà l’idea che se tiri una pietra in uno stagno, le onde che si creano potrebbero farne dei cittadini migliori. È l’unico modo ormai, dato che i testimoni di prima generazione se ne sono andati per ragioni anagrafiche, ed ora ci sono quelli di seconda generazione. Non ho nessuna fretta di andarmene (ride), spero di poter raccontare ancora per un po’. Forse è l’unico modo al di là della retorica. Questo è sentimento, passione, sofferenza e che passa quasi geneticamente da chi ha sofferto alle nuove generazioni. Come ha scritto Hannah Arendt, “se tu affidi una storia al mondo te ne separi anche dolorosamente, questa però in qualche modo continuerà a girare per sempre”. Questo è il compito che sento di avere, non solo di parlare ma di lasciare una traccia di quel che dico. Per noi ebrei la scrittura è alla base del mondo, ed è con la scrittura che Dio ha creato il mondo, ed è con la scrittura che si tramanda, “miDor leDor”, l’insegnamento ai giovani. Parla a tuo padre che te lo dirà, come scritto nel Deuteronomio, e parla ai tuoi vecchi che te lo diranno. Questo è il senso di fare memoria secondo me.
- Hai detto che vai nelle scuole a parlare. Chi ha dimostrato in questi anni maggiore interesse, maggiore empatia per gli eventi che racconti? Tutti a partire dai bambini. Se ti chiamano in una scuola vuol dire che gli insegnanti sono sensibili e preparano gli studenti agli incontri. C’è stata una volta che ho parlato ad una radio scolastica, e ho conservato le domande che hanno fatto. Ho fatto un incontro in una scuola elementare, ed è stato meraviglioso perché ogni bambino veniva con un fiore di carta, qualcuno con le caramelle dicendo: “professoressa ci scusi per quello che abbiamo fatto, questo è per lei”. C’è del buono in tutti quelli che mi ascoltano. Una volta il disinteresse degli insegnanti ha fatto nascere il disinteresse negli alunni, che chiacchieravano e si muovevano dimostrando un grande disinteresse; allora invece di fare discorsi inutili ho preso i ragazzi e gli ho detto: “Visto che siete un po’ agitati vi vorrei impegnare,” così sono venuti e gli ho fatto un gioco di ruolo. “Allora ragazzi, voi siete a scuola, arriva la polizia e dice che siete espulsi dalla scuola. Voi direte ‘a beh, che bello niente compiti da fare’, e no, non potete giocare la parco perché agli ebrei è proibito, e gli è proibito come ai cani l’accesso alle spiagge; il telefono e la radio erano proibite, Papà e mamma verranno licenziati e farete una vita molto grama, sarete affamati, ed un giorno ragazzi verrà qualcuno che vi dirà di seguirli, vi sbattono in un carro piombato e vi portano ad Auschwitz, Bergen Belsen, Mauthausen. Adesso voi siete appena arrivati, fate la selezione. Levatevi: occhiali, anelli, orecchini, scarpe, le stringhe delle scarpe, la felpa, il maglione. Adesso, immaginate di essere nudi, calatevi nel ruolo e quando passerete quella porta sarete già morti perché state entrando in una camera a gas.” Alcuni sono venuti da me dicendo che si erano sentiti e si sono scusati per la noncuranza dimostrata. Ho scoperto che mettere le persone nel gioco di ruolo da efficacia alla testimonianza, la rende sensoriale, e trasmette la sofferenza.
- Ci puoi raccontare un episodio piacevole durante queste testimonianze, e un monito che le nuove generazioni devo fare proprio? Momenti piacevoli ne ho avuti: i bambini delle elementari che ti lasciano dei pensieri, dei regali, e poi ho le foto con le scuole. Una volta gli ho raccontato la storia della stella gialla che avevano imposto in altri paesi, dicendogli che loro avrebbero dovuto essere le stelle del firmamento che illuminano il mondo. Dopo cinque giorni, mi hanno mandato una foto, dove ognuno di loro aveva la stella di David in mano, che affermavano di essere le nuove stelle del firmamento. Io mi sono messa a piangere quando l’ho vista. Le idee sono molto chiare, ho fatto un intervento al tribunale dei minori di Cagliari su dei ragazzi che avevano inneggiato su Facebook allo sterminio degli ebrei ed uno di loro aveva picchiato un ragazzo di colore mandandolo all’ospedale. Il tribunale di Cagliari aveva fatto fare loro un percorso educativo, e loro avevano capito. L’importante è insegnare, far toccare con mano, trasmettere la cultura delle diversità. Quello che cerco di far capire è che essere diversi è bello, che tu sia una minoranza o meno. Una volta chiesi in una scuola se gli sarebbe piaciuto mangiare per sempre pasta al burro oppure se gli piacerebbe mangiare un cous cous marocchino, una bistecca americana oppure un Fish and chips inglese. La diversità è bella. Preferite un’immagine in bianco e nero oppure la pubblicità di Benetton con tutti i bambini che si tengono per mano? Bisogna fin da ora imparare a capire che se viaggi, se conosci il mondo, sei curioso, capisci come sono le altre persone, allora vedrai che le diversità creano solo ricchezza, fanno crescere e ti fanno diventare un cittadino migliore. Viaggiate, studiate e soprattutto non siate mai indifferenti. Se vedete un compagno più piccolo picchiato intervenite, non siate indifferenti, aiutate chi è solo, non girate la testa dall’altra parte. L’indifferenza è l’anticamera della complicità nel fare del male.
(UGEI, 30 gennaio 2022)
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Israele e Turchia si parlano. Erdogan invita Herzog (e Putin) ad Ankara
Cosa porta Erdogan a cercare di avvicinare Turchia e Israele? Ankara vuole un ruolo di broker dialogante, e anche per questo inviata Putin per parlare di Ucraina.
di Emanuele Rossi
Israele e Turchia stanno negoziando i termini di una visita del presidente Isaac Herzog ad Ankara che potrebbe aver luogo nel prossimo futuro. Un meeting che diventerebbe estremamente importante per il futuro dei rapporti tra i due Paesi, attualmente congelati, e fondamentale per lo sviluppo delle relazioni nel Mediterraneo Allargato, dove entrambi muovono i propri interessi internazionali. Le relazioni israelo-turche hanno attraversato una serie di crisi negli ultimi dieci anni, più recentemente nel 2018 quando gli Stati Uniti hanno spostato la loro ambasciata a Gerusalemme e la Turchia ha espulso l’ambasciatore israeliano da Ankara. Da quando il presidente statunitense, Joe Biden, ha assunto l’incarico, il turco Recep Tayyip Erdoğan ha inviato segnali di voler iniziare una nuova pagina nel rapporto. Ankara in questi ultimi mesi è stata protagonista anche di forme di distensione pragmatica con Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Erdogan ha usato una telefonata di congratulazioni dopo l’insediamento di Herzog lo scorso luglio per iniziare ad impegnarsi direttamente con Israele. Da allora hanno parlato al telefono tre volte, compresa una all’inizio di questo mese. Sarebbe uscito in una di queste conversazioni l’invito nella capitale turca. A Gerusalemme sarebbero in corso discussioni per decidere una risposta rapida dopo che il presidente turco ha reso pubblico l’invito. In questi giorni il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha chiamato il suo omologo israeliano, Yair Lapid, per augurargli una rapida guarigione dal Covid. Questa è stata la prima telefonata tra i ministri degli Esteri israeliano e turco in 13 anni. L’agenzia di intelligence israeliana Shin Bet ha sottolineato nelle discussioni interne sulla Turchia che qualsiasi processo di normalizzazione deve includere la limitazione dell’attività di Hamas in Turchia, secondo i funzionari israeliani. Israele ha inviato messaggi nelle ultime settimane per rassicurare la Grecia e Cipro che il riavvicinamento con la loro rivale Turchia non sarebbe venuto a scapito delle partnership di Israele con loro. E intanto Ankara ha annunciato un accordo di carattere commerciale con Atene dopo una fase (durata almeno un paio d’anni) di confronto che ha sfiorato i toni militari nel Mediterraneo orientale. Il progetto del gasdotto EastMed che doveva essere costruito nell’area è un caso esemplare: anche se Washington non è mai stata coinvolta in questo progetti che collega Israele, Cipro e Grecia, l’amministrazione Trump lo ha sostenuto. Ora l’amministrazione Biden ha detto a Tel Aviv e Atene che Washington cessa di sostenere questa infrastruttura che doveva contrastare la posizione di Ankara nel Mediterraneo orientale e rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo I funzionari israeliani vedono le mosse di Erdogan per riparare le relazioni con Israele come un mezzo per migliorare i suoi rapporti con l’amministrazione Biden prima delle elezioni in Turchia e in mezzo a una crescente crisi economica. Allo stesso modo si possono inquadrare le varie distensioni con Abu Dhabi, Cairo e Atene. Intanto il presidente russo, Vladimir Putin, ha accolto l’invito di Erdogan a recarsi in Turchia per trovare una mediazione sull’Ucraina. Ankara cerca un ruolo in varie partite per acquisire centralità in ambiti di crisi e recuperare terreno perso agli occhi dell’amministrazione Biden come — interessato — broker internazionale. “Una psicologia di guerra nella regione ci sconvolge, come paese che ha legami con entrambe le parti”, ha spiegato il presidente Erdogan in una conferenza stampa ad Ankara “Il nostro desiderio è di riunire il più presto possibile il signor Putin e il signor [Volodymyr] Zelenskiy (il presidente ucraino, ndr)”. Il doppio invito non è scollegato: Israele teme che i dossier di suo interesse siano lasciati indietro dalla crisi tra Russia e Occidente, Erdogan vuole dimostrarsi come sponda e modello alternativo.
(Formiche.net, 30 gennaio 2022)
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Deep-Class-CTCs, una collaborazione tra Italia e Israele per la lotta contro il cancro
Il progetto di ricerca denominato Deep-Class-CTCs (Deep-learning classification of dynamically flowing circulating tumors cells imaged by quantitative phase microscopy) è tra i quattro progetti risultati vincitori della selezione nella sezione “Health & Artificial Intelligence” del Bando dell’Agreement on industrial, scientific and technological research and development cooperation between Italy and Israel, the Italian Ministry of Foreign Affairs and the Israeli Ministry of Science and Technology.
Il progetto godrà di un finanziamento per assicurare lo svolgimento delle attività di ricerca nel corso dei prossimi due anni.
Il gruppo di ricerca in Italia è costituto dai ricercatori Pietro Ferraro, Vittorio Bianco, Lisa Miccio e Pasquale Memmolo che svolgono le loro ricerche presso l’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti (Cnr-Isasi) di Pozzuoli (Napoli).
Sul lato israeliano il gruppo lavora presso l’Università di Tel Aviv guidato da Natan Shaked.
L’obiettivo del progetto è sviluppare classificatori basati su deep learning in grado di rilevare, analizzare e monitorare le cellule tumorali in campioni di sangue liquido impiegando tecnica di imaging olografica che ha tra le sue caratteristiche il significativo vantaggio di essere “label-free”. Attraverso l’analisi delle mappe di microscopia ottenute per ciascun cellula in movimento all’interno di canali microfluidici si ritiene di potere identificare le cellule tumorali circolanti durante il flusso.
Per costruire il set di dati unificato delle mappe delle cellule tumorali, che richiede l’implementazione di un sistema ottico-microfluidico e opportuni algoritmi di image processing, la campagna di misure sarà effettuata in parallelo in Italia e in Israele, dove entrambi i gruppi hanno accesso a diversi tipi di cellule cancerose e dispongono di sistemi di microscopia di tipo olografico.
Il successo di questo progetto potrebbe portare alla realizzazione di nuovi strumenti per il rilevamento e monitoraggio dei pazienti oncologici mediante esami del sangue di routine basati sull’approccio combinato tra Intelligenza Artificiale e Microscopia Olografica. Possibili ricadute si prevede possano portare a ridurre il numero di persone che sviluppano il cancro mediante diagnosi precoce, oltre a ridurre la spesa sanitaria per le patologie tumorali.
(adessonews, 30 gennaio 2022)
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Londra, aggrediti due ebrei ortodossi
A Londra, alla vigilia della Giornata internazionale della commemorazione in memoria delle vittime della Shoah, è avvenuto un grave episodio antisemita. Due ebrei ortodossi sono stati aggrediti da un uomo mentre chiudevano il loro negozio a Stamford Hill, periferia a nord-est della capitale britannica.
Il filmato della telecamera di sorveglianza mostra lo sconosciuto colpire brutalmente a pugni e a calci i due uomini.
Il Primo ministro Boris Johnson in un tweet ha commentato così l’accaduto: “Sono sconvolto da questo orribile filmato. Purtroppo, questo attacco ci ricorda che tale pregiudizio ancora esiste. Dobbiamo fare il possibile per sradicare l’antisemitismo dalla nostra società”.
Anche il ministro degli Interni Priti Patel ha twittato: “Alla vigilia del Giorno della Memoria, questa aggressione è un disgustoso promemoria del motivo per cui non dobbiamo mai permettere all'antisemitismo di radicarsi. Non tollereremo abusi nei confronti della nostra comunità ebraica”.
Gli Shomrim di Stamford Hill, volontari del corpo di sicurezza privato autogestito dai chassidim, hanno affermato che l'incidente è stato "senza dubbio" un attacco a stampo antisemita.
Le vittime ferite sono state portate all’ospedale per le cure. La polizia ha arrestato un uomo, di 18 anni, sospettato dell’aggressione, attualmente in custodia cautelare.
Questo attacco segue altri avvenuti a Stamford Hill, quartiere che ha la più alta concentrazione di ebrei ultraortodossi nel Regno Unito, dove lo scorso anno, si è registrato un preoccupante aumento di atti antisemiti.
(Shalom, 29 gennaio 2022)
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Il mio servo Giobbe (7)
di Marcello Cicchese
Riflessioni sul libro di Giobbe.
GENESI 11
- Or tutta la terra parlava la stessa lingua e usava le stesse parole.
- E avvenne che, essendo partiti dall'Oriente, gli uomini trovarono una pianura nel paese di Scinear, e quivi si stanziarono.
Seguendo la tesi fin qui esposta, si può dire che la storia di Giobbe si colloca nell'ambito dei due versetti sopra citati. Siamo in un tempo postdiluviale e preabramitico. Non ci sono ancora popoli e nazioni, dunque non c'è Israele e non ci sono precetti codificati da osservare. Il mondo però non è abbandonato a se stesso, come poteva sembrare prima del diluvio, e proprio la storia di Giobbe ne è la dimostrazione. Dio si fa sentire e interviene in vari modi fra gli uomini, e sa distinguere chi teme Dio e chi no, chi fugge il male e chi ci sguazza dentro.
CAPITOLO 1
- C'era nel paese di Uz un uomo che si chiamava Giobbe. Quest'uomo era integro e retto; temeva Dio e fuggiva il male.
- Gli erano nati sette figli e tre figlie;
- possedeva settemila pecore, tremila cammelli, cinquecento paia di bovi, cinquecento asine e una servitù molto numerosa. E quest'uomo era il più grande di tutti gli Orientali.
- I suoi figli solevano andare gli uni dagli altri e darsi un convito, ciascuno nel suo giorno: e mandavano a chiamare le loro tre sorelle perché venissero a mangiare e a bere con loro.
- E quando la serie dei giorni di convito era finita, Giobbe li faceva venire per purificarli; si levava di buon mattino, e offriva un olocausto per ciascun d'essi, perché diceva: 'Può darsi che i miei figli abbian peccato ed abbiano rinnegato Iddio in cuor loro'. E Giobbe faceva sempre così.
Tra tutti i cosiddetti Orientali, Dio individua Giobbe, uomo integro e retto, e lo assume al suo servizio. Cinque volte si ripete nel libro "Il mio servo Giobbe": com'è possibile ignorare questa evidente sottolineatura del testo biblico? Dio ha scelto Giobbe, come ha fatto con Noè, Abramo, Mosè. Come loro, l'ha scelto per inserirlo nel suo piano di "riconquista della terra". Perché a Dio interessa quello che avviene in ogni tempo sulla terra, in vista di quello che avverrà un giorno quando ci saranno "nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia" (2 Pietro 3:13). Dio incorona il suo servo Giobbe con la gloria di una sovrabbondante benedizione terrena, ben visibile e comprensibile da tutti gli uomini, in modo da servire come segno della presenza del governo di Dio in mezzo agli uomini e susciti in loro un timoroso rispetto. Dio benedice anche "l'opera delle sue mani" (1:10), ma poiché Giobbe è un servo di Dio, questo significa che ad essere benedetto è il suo servizio a Dio, non solo il suo generico comportamento di uomo morale. Nel vivere di Giobbe si vede Dio all'opera sulla terra in quel particolare periodo della storia. Si capisce allora il fastidio che ne prova Satana, che considera la terra una zona di sua esclusiva competenza e non tollera che su di essa si sia installato un regime a lui nemico. Questo regime si presenta al mondo nella forma di una vita di famiglia. Perché la figura e il servizio di Giobbe sono inseparabili dalla sua famiglia. Questa sottolineatura familiare appare superflua a chi punta l'attenzione sul tormento interiore dell'uomo sventurato colpito da un destino ingiusto e crudele, ma in una corretta lettura teocentrica il punto di primaria importanza non è il soffrire dell'uomo, ma l'agire di Dio. Trattandosi poi di preistoria israeliana, è proprio dalla posizione di Israele che si può osservare e tentare di capire Giobbe e la sua famiglia. Se la vicenda personale del protagonista, presa da sola, non sembra avere nulla a che fare con la storia d'Israele, qualche spunto di riflessione si può trovare invece proprio nella sua famiglia. Se Abramo ha dato origine a una nazione eletta, Giobbe, in un tempo in cui le nazioni ancora non c'erano, ha dato origine a una famiglia eletta. La famiglia allargata di Giobbe comprende le sette famiglie dei sette figli maschi. E il pensiero corre spontaneamente ai 12 figli di Giacobbe che danno origine a dodici tribù. La vita della famiglia allargata comprende un ciclo periodico di sette gioiosi conviti organizzati a turno dai sette figli. E questo fa pensare alle ricorrenti feste di Israele. Ci sono poi altri elementi che pur non avendo un corrispondente nella storia di Israele, portano a riflettere, perché non sembrano particolari di contorno. Ai gioiosi conviti Giobbe non è presente, ma vi sono sempre invitate le sue tre figlie femmine, che evidentemente vivono con lui, mantenendo così un collegamento d'affetto con la famiglia originaria del progenitore. Al termine dei sette conviti si vede il capostipite che raccoglie intorno a sé i sette figli e offre per ognuno di loro un olocausto di purificazione. Su questo religioso modo di vivere Dio dal cielo esprime il suo gradimento, mostrando così che la vita di questa famiglia è parte della Sua volontà sulla terra. Si tratta di preistoria, abbiamo detto, quindi non si devono cercare paragoni troppo stretti, ma il semplice fatto che prima ancora di Israele Dio abbia scelto e protetto la famiglia di Giobbe, fa riflettere. Dopo la descrizione della routine familiare di Giobbe, la scena si sposta dalla terra al cielo. E' Satana che s'innalza, passando da una sua perlustrazione terrestre ad un'assemblea celeste convocata dal Signore. Lo stile che qui usiamo è in forma ironica, ma quello che dice la Bibbia su questo punto è pura e semplice verità, che solo Dio conosce e può rivelare. La storia dunque ha inizio in cielo, perché è lì che Dio sceglie Giobbe; poi continua sulla terra, mantenendo però in ogni passaggio un implicito riferimento al cielo. Soltanto alla fine del percorso arriva dal cielo una parola decisiva che porta sulla terra nuova giustizia e rinnovo di benedizione. Una delle prime domande su quello che avviene in cielo riguarda Satana: chi è? Abbiamo già dato un accenno di risposta in questo studio, ma una risposta convincente può venire soltanto da una lettura attenta di tutta la Bibbia, fiduciosamente creduta come rivelazione di Dio in ogni sua parte. In modo sintetico e deliberatamente provocatorio si può dire che non è possibile capire il libro di Giobbe se non si capiscono i Vangeli. La difficoltà che trova la lettura ebraica a capire chi è Satana è legata alla difficoltà di capire chi è il Messia. Quel misterioso Avversario compare in modo solo episodico nella storia e preistoria israeliana, ma ricompare in modo esteso e decisivo nel punto più cruciale della storia d'Israele: la venuta del Messia. Ovviamente qui non si può neanche sfiorare un argomento di tale portata, ma si può dare qualche spunto di riflessione. Satana ottiene il permesso di mettere alla prova gli uomini quando vede che Dio sceglie qualcuno per il compimento del suo piano. Fa così nel momento iniziale della creazione, quando il serpente entra senza trovare alcun cartello di divieto nel giardino di Eden e tenta di provocare una rottura tra il Creatore e la creatura. E ci riesce. Fa la stessa cosa in un altro momento decisivo, quando ottiene la possibilità di esporre a una simile tentazione Colui che Dio aveva scelto per la restaurazione del Suo progetto originario:
"Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo" (Matteo 4:1).
Una certa somiglianza di metodo si potrebbe trovare anche tra il caso di Giobbe e quello di Pietro. Gesù avverte Pietro di una richiesta di Satana:
«Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano» (Luca 22:31)
Una cosa simile chiede Satana per Giobbe: chiede che sia messa alla prova la sua fedeltà come servo di Dio. E in entrambi i casi la richiesta viene esaudita. Ma è interessante vedere poi come prosegue la parola di Gesù:
«ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno; e tu, quando sarai convertito, fortifica i tuoi fratelli» (Luca 22:32).
La fede di Pietro non viene meno, e la stessa cosa avviene per Giobbe, perché in entrambi i casi l'assalto di Satana si svolge sotto l'occhio attento e amorevole di Dio. Amorevole? Sì, amorevole. Ma non è un po' strano? Sì, è molto strano, ma che ne sanno gli uomini di amore? Nulla, se Dio non lo rivela. Perché l'amore di Dio si può conoscere soltanto sperimentandolo di persona: "Dio ha tanto amato il mondo..." (Giovanni 3:16). E' anche interessante notare la somiglianza di finale delle due storie. Sia Giobbe che Pietro sono sorretti dalla mano di Dio e alla fine della prova si convertono. A Pietro poi Gesù ordina di fortificare i suoi fratelli, e a Giobbe Dio chiede di pregare per i suoi amici (42:8). Ai servitori che sono passati attraverso la prova Dio concede l'onore di continuare il loro servizio in altra forma . Questo insieme di considerazioni fa capire in quale direzione ci si deve muovere se si vuol cercare di comprendere questo libro: cioè nella Bibbia stessa, non in ciò che si offre all'attenzione come alta scienza o sublime poesia. Cercando in questa direzione, si pone anzitutto una domanda: perché Satana è così infastidito dalla persona di Giobbe? che cosa vuole ottenere? E' forse l'irritante santità di Giobbe che l'innervosisce? E' il desiderio di volerlo portare con sé all'inferno che lo spinge a tentare di farlo cadere? E' un tipo di spiegazione moralistico-spirituale abbastanza diffuso, in cui l'individuo è messo al centro. Ma spiega tutto questo la complessità della narrazione? L'ottica qui usata è invece di tipo storico, come i racconti dell'uscita di Israele dall'Egitto. Si trascura spesso che Dio è intervenuto in favore del suo popolo per liberarlo dalla schiavitù e condurlo in un'altra terra preparata per lui:
"Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei" (Esodo 4:8).
Nel paese in cui devono andare vivono però altri popoli che sono sotto il governo di Satana. Quella di Israele sarà dunque una guerra di "riconquista della terra" al fine di riportarla sotto il governo legittimo di Dio. Perché sta scritto:
"All'Eterno appartiene la terra e tutto quel che è in essa, il mondo e i suoi abitanti" (Salmo 24:1).
Ma nella Bibbia si può vedere quanto forte e tenace sia sempre stata la resistenza opposta da Satana ad ogni avanzamento dell'opera di Dio sulla terra, fino alla resistenza massima che ha messo in campo quando Dio ha deciso di scendere personalmente sulla terra nella persona del Messia. Si può dunque dire che il libro di Giobbe descrive un momento iniziale dell'opera di "riconquista della terra" da parte di Dio. In un tempo in cui Israele ancora non esisteva, Satana ha visto nella presenza sulla terra della famiglia "regale" di Giobbe agli ordini di Dio una pericolosa roccaforte del suo nemico. E ha deciso di intervenire. Di questo intervento satanico e delle sue conseguenze si dovrà parlare in seguito.
(7) continua
(Notizie su Israele, 30 gennaio 2022)
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Gaza: rara protesta online contro Hamas
Gli organizzatori accusano il partito islamista di aver “sequestrato” la Striscia. Condizioni di vita terribili nel territorio: manca l’acqua e quasi il 70% della forza lavoro è senza impiego. Con ogni probabilità Hamas non reagirà alla contestazione sul web, a meno che non si trasformi in manifestazioni di piazza.
GAZA – Centinaia di attivisti palestinesi hanno preso parte a una rara contestazione online di Hamas, l’organizzazione islamista che governa la Striscia dal 2007 a spese dell’Autorità nazionale palestinese controllata da Fatah.
L’iniziativa di protesta “Hanno sequestrato Gaza” è partita il 27 gennaio con un dibattito audio su Twitter. Gli organizzatori sono cinque abitanti della Striscia che hanno lasciato i territori palestinesi dopo aver preso parte alle manifestazioni di protesta “Vogliamo vivere” del 2019. Scoppiate soprattutto per l’alto costo del cibo e la mancanza di lavoro, le dimostrazioni pubbliche sono state soppresse da Hamas.
Le condizioni di vita a Gaza sono catastrofiche. Vi è scarsità di acqua, un sistema fognario inadeguato e continui blackout elettrici giornalieri. Quasi il 70% della forza lavoro è senza impiego, con picchi più alti per i laureati. La pandemia da Covid-19 e il breve conflitto di maggio con Israele hanno peggiorato la situazione economica nella Striscia.
Gli ideatori della protesta online accusano Hamas di avere miliardi di dollari investiti all’estero, mentre gli abitanti di Gaza muoiono di fame o sono costretti a emigrare. Analisti prevedono che il gruppo fondamentalista non reagirà alle critiche online, a meno che esse non si trasformino in manifestazioni di piazza come quelle del 2019.
(AsiaNews, 29 gennaio 2022)
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Si consolida la "cooperazione strategica" tra Grecia, Cipro e Israele
NICOSIA - Il cavo elettrico sottomarino tra Grecia, Cipro e Israele consolida la "cooperazione strategica" tra i tre Paesi e rappresenta un passo importante nel rafforzamento della sicurezza energetica nel Mediterraneo orientale. Lo ha dichiarato il ministro dell'Energia greco, Kostas Skrekas, commentando l'approvazione da parte della Commissione europea del finanziamento da 657 milioni di euro per sostenere il progetto e quindi l'interconnessione tra Cipro e la rete europea. Skrekas ha definito il progetto di "importanza storica" ed il finanziamento un "chiaro voto di fiducia" da parte dell'Ue per mettere fine all'isolamento energetico dell'isola di Cipro.
La ministra dell'Energia cipriota, Natasa Pilides, ha annunciato ieri che l'Unione europea ha previsto di stanziare 657 milioni di euro per la costruzione del cavo elettrico sottomarino EuroAsia, che dovrà collegare le reti di Israele, Cipro e Grecia. Secondo la ministra Pilides, si tratta del più grande investimento europeo a Cipro e servirà per connettere la rete elettrica del Paese all'isola greca di Creta. Il tratto in questione del cavo elettrico EuroAsia ha un costo stimato di 1,6 miliardi di euro. Pilides ha sottolineato l'importanza geopolitica del progetto, che garantirà sicurezza energetica all'isola del Mediterraneo orientale contribuendo anche alla transizione ecologica. I ministri dell'Energia di Cipro, Grecia e Israele hanno firmato un accordo su questo cavo elettrico lo scorso ottobre al fine di accelerare sui lavori tecnici e sulle approvazioni per lo studio di fattibilità.
La prima fase del cavo elettrico dovrebbe essere completata entro il 2025. L'importanza del collegamento elettrico EuroAsia è ancora maggiore dopo che nei giorni scorsi è emersa la probabile non fattibilità economica del gasdotto EastMed.
(Agenzia Nova, 29 gennaio 2022)
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Khalifa Haftar tra le braccia di Israele
Un aereo con a bordo il comandante libico Khalifa Haftar è atterrato all’aeroporto Ben Gurion nei Territori occupati palestinesi. A funzionari del Paese nordafricano è stato offerto di stabilire relazioni diplomatiche con il regime di Tel Aviv in cambio del sostegno israeliano. La rete televisiva russa RT Arabic ha riferito che la scorsa settimana è stato avvistato un jet Dassault Falcon 900 all’aeroporto di Tel Aviv. L’aereo si è fermato brevemente in Israele dopo un rapido scalo a Cipro. RT Arabic ha aggiunto che l’aereo ha lasciato l’aeroporto Ben Gurion dopo due ore. Il rapporto arriva sullo sfondo dei resoconti dei media secondo cui Abdulhamid Dbeibah, primo ministro ad interim del governo di unità nazionale libico con sede a Tripoli, la scorsa settimana ha incontrato funzionari israeliani, tra cui il capo dell’agenzia di intelligence del Mossad, David Barnea, nella capitale giordana di Amman per discutere della normalizzazione delle relazioni e della cooperazione in materia di sicurezza.
• Gli incontri segreti del figlio di Khalifa Haftar
Secondo quanto riferito, Saddam Haftar, il figlio di Khalifa Haftar, ha visitato Israele alla fine di dicembre dello scorso anno per un incontro segreto con funzionari israeliani in cui si è offerto di stabilire relazioni diplomatiche. Secondo un rapporto del quotidiano Haaretz, Haftar portava un messaggio di suo padre che richiedeva “assistenza militare e diplomatica” israeliana in cambio della promessa di stabilire un processo di normalizzazione tra Libia e Israele, simile ai cosiddetti Accordi di Abraham tra il Regime di Tel Aviv ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco. Lo scorso anno, in una rara intervista con un giornale israeliano, un alto funzionario libico del governo di Haftar ha chiesto sostegno a Israele. “Non siamo mai stati e non saremo mai nemici e speriamo che ci sosterrete. È solo la circostanza che ci ha separato fino a questo punto”, ha dichiarato a Makor Rishon, Abdul Salam al-Badri, vice primo ministro del governo affiliato ad Haftar. Israele non ha legami ufficiali con la Libia, Paese sulla carta sostenitore della causa palestinese, specialmente sotto Muammar Gheddafi. Si dice che i funzionari israeliani interferiscano costantemente negli affari interni della Libia. Sperano che Haftar, proprio come i governanti militari sudanesi, spiani la strada al loro dominio sulla nazione araba ricca di risorse.
(il Faro sul Mondo, 29 gennaio 2022)
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Due ebrei visionari venuti da Baghdad accesero per sempre le mille luci di Shanghai
Dal commercio dell'oppio all'elettricità, alla costruzione di lussuosi hotel frequentati dal jet set internazionale. La storia (dimenticata) dei Sassoon e dei Kadoorie, le dinastie che aprirono alla Cina la strada del capitalismo.
David Sassoon sbarcò nell'800 e non parlava né cinese né inglese
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Nel '40 si unirono per salvare 18 mila rifugiati in fuga dal nazismo
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di Mirella Serri
Chi furono i Sassoon e i Kadoorie? Nessuno oggi in Cina, paese che ha realizzato la simbiosi tra capitalismo e regime autoritario, ricorda queste due grandi famiglie ebree. Eppure queste dinastie di capitalisti, entrambe provenienti da Baghdad, hanno fatto crescere e formato tante generazioni di cinesi, incluse le più recenti, proprio quelle che oggi si cimentano con il capitalismo globale. Una storia dimenticata: a cancellare, alla fine della seconda guerra mondiale, la vicenda delle due famiglie - fatta di splendore e grandezza, di violenze, sfruttamento, tradimenti e sopraffazioni - ci pensarono i vincitori, gli esponenti del regime comunista che a partire da Mao Tse Tung depennarono dalla memoria collettiva luoghi, figure e anche edifici non compatibili con la loro ideologia. Adesso, a riportare alla luce la saga di questi imprenditori e commercianti, nel suggestivo excursus Gli ultimi re di Shanghai. La straordinaria storia di due dinastie ebree dalle guerre dell'oppio alla Cina dei nostri giorni, è Jonathan Kaufman, vincitore del premio Pulitzer, corrispondente per decenni dalla Cina del Boston Globe e del Wall Street Journal. La prima famiglia a sbarcare nell'Ottocento nel Celeste Impero fu quella dei Sassoon che con i commerci in tutto il Medio Oriente di oro, seta, spezie e lana, si iscrisse nella lista dei più abbienti di Baghdad. La fortuna iniziò quando il patriarca David Sassoon, pur non parlando né il cinese né l'inglese, insieme agli otto figli riuscì a controllare il mercato dell'oppio importandolo dall'India in Cina dove era un prodotto essenziale, l'unica medicina per lenire vari tipi di dolore. Si arricchì sostenendo l'occupazione inglese e a spese della dipendenza dalla droga di milioni di cinesi che i Sassoon, come gli inglesi del resto, guardavano dall'alto in basso - mentre a loro volta non erano ben visti, in quanto ebrei, nemmeno dai britannici. A dar prova di essere eccezionali «capitane d'industria» furono pure le componenti femminili della dinastia Sassoon, come Flora che alla morte del marito si mise alla testa dell'impero commerciale a Bombay e a Shanghai. Ebbe un grandissimo successo addirittura lavorando da casa perché all'epoca le donne in India non potevano neanche affacciarsi negli uffici di un'impresa. Rachel Sassoon fu eccezionalmente emancipata: femminista ante litteram, si batté contro l'antisemitismo e diventò la più potente giornalista d'Inghilterra, dirigendo l'Observer e il Sunday Times, ma, odiata dai parenti, morì in totale solitudine. Negli anni Trenta, quando l'Occidente era devastato dalla crisi del '29, le due famiglie, con la loro infaticabile attività, compirono un miracolo e riuscirono a riempire Shanghai di migliaia di turisti provenienti da tutto il mondo, affascinati dalla scoperta di una città sofisticata e cosmopolita che aveva il suo emblema nel Cathay Hotel dei Sassoon (ribattezzato dai comunisti Peace Hotel) il quale ospitava le celebrità di passaggio, come Charlie Chaplin e Wallis Simpson. L'impresa guidata da Lawrence Kadoorie (scomparve nel 1993) edificò a sua volta nel 1928 il leggendario Peninsula Hotel, una specie di paradiso in terra con il suo atrio elegante, i lussuosi tè pomeridiani e le stanze che venivano pagate a peso d'oro. A questo si aggiungeva la proprietà della più grande società elettrica della città, dei mezzi di trasporto, e una quota del tunnel che attraversava il porto. L'avventura più straordinaria i Sassoon e i Kadoorie la realizzarono collaborando: salvarono la vita ai correligionari in fuga dalla persecuzione nazista. Vietar Sassoon era pure lui un personaggio fuori dalla norma: miliardario, playboy che si dilettava di fotografia - soprattutto di donne nude -, forse bisessuale, con problemi di deambulazione per un incidente aereo durante la prima guerra mondiale, amava le serate nei suoi hotel di lusso con ostriche e champagne. Quando in Europa vennero emanate le leggi razziali, Vietar con Lawrence Kadoorie, aiutato da Charlie Chaplin, raccolse fondi, si dette da fare per procurare documenti e per ospitare, far lavorare e nutrire a Shanghai migliaia e migliaia di ebrei. I Sassoon e i Kadoorie riuscirono a imprimere un ritmo ai loro affari anche nei travagliati anni della guerra civile: si schierarono con l'ala destra del Kuomintang, guidata da Chiang Kai-shek, che costituì nel 1927 il governo a Nanchino e l'anno dopo riunificò la Repubblica di Cina. Trattarono con gli invasori giapponesi mentre i comunisti e i nazionalisti si riarmavano per respingere gli occupanti. Quando l'Armata rossa di Mao entrò a Shanghai sequestrando gli alberghi, i palazzi e le fabbriche dei Sassoon, Victor si rifugiò a Londra, alle Bahamas e a Dallas, in Texas. Lawrence spostò invece tutto l'impero familiare a Hong Kong . Nel corso degli anni Settanta entrò in sintonia commerciale ed economica con Deng Xiaoping. Proprio alla sua fervida e rinnovata attività si deve anche il boom delle esportazioni che nel XXI secolo farà della Cina «la più grande fabbrica del mondo». Ora che si sono aperti gli archivi ed è più libera la consultazione di documenti anche i giovani cinesi potranno conoscere le radici del loro successo economico e commerciale.
(La Stampa, 29 gennaio 2022)
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Guerra di religione in Francia: tra i musulmani dilaga l'antisemitismo
Sondaggio: quasi un ebreo su due nasconde l'appartenenza religiosa per paura di ritorsioni da parte di musulmani ed estrema destra.
di Alessandra Benignetti
Il 45 per cento degli ebrei francesi preferisce nascondere la propria appartenenza religiosa per evitare di essere aggredito o insultato. È il dato choc che emerge da un’indagine commissionata dall'American Jewish Commettee (Ajc) e dalla Fondation pour l'Innovation Politique all’istituto Ifop, pubblicata in esclusiva da Le Parisien. Nella settimana in cui si celebra la giornata della memoria, il quotidiano parigino lancia l’allarme sulla diffusione dell'antisemitismo nel Paese e sulle contraddizioni di una società che spesso ha paura di denunciare i crimini d’odio contro le persone di religione ebraica per non offendere altre confessioni. La ricerca, infatti, si focalizza su due gruppi di intervistati, cristiani e musulmani. Questi ultimi indicano come responsabili dell’odio contro gli ebrei i movimenti di estrema destra, mentre per i primi ad avere un ruolo sempre più importante nella diffusione dell’antisemitismo è l’avanzata dell’islam radicale. Nelle moschee francesi, infatti, i discorsi anti-ebraici sono sempre più frequenti. C’è chi non si fa troppi problemi a dichiararsi antisemita o antisionista, con riferimento al conflitto israelo-palestinese. E il 61 per cento dei musulmani praticanti pensano che gli ebrei siano "troppo potenti". Un’opinione, questa, scrive Ève Roger nell’editoriale pubblicato sul quotidiano parigino, condivisa dal 22 per cento dei francesi. Per il 48 per cento dei cittadini che vivono Oltralpe, inoltre, gli ebrei avrebbero "un rapporto particolare con il denaro". Sono "stereotipi veicolati dall'estrema destra", nota la giornalista, che però hanno presa anche tra i musulmani più ortodossi. Spesso, però, come nota Mauro Zanon su Libero, la sinistra francese fatica a denunciare il fenomeno per non passare per "islamofoba". Eppure non sono rari i casi di moschee chiuse a causa di sermoni che prendono di mira gli ebrei. L’ultimo caso risale al 12 gennaio scorso, a Cannes. Senza considerare l’attacco del gennaio del 2015 all’Hypercacher di Porte de Vincennes, quello del 2012 nella scuola ebraica di Tolosa, dove il 23enne franco-algerino Mohammed Merah ha ucciso quattro persone tra cui tre bambini, o l’omicidio della professoressa 65enne Sarah Halimi. La donna è stata uccisa nel 2017 da uno squilibrato, Kobili Traoré. Inizialmente era stata riconosciuta l’aggravante dell’antisemitismo perché l’uomo avrebbe gridato Allah è grande e "ho ucciso un demone", mentre si accaniva sulla vicina di casa. Secondo l’indagine dell’Ifop, in Francia il 68 per cento dei cittadini di religione ebraica ha subito umiliazioni, mentre il 20 per cento, uno su cinque, è stato vittima di violenza fisica. Succede specialmente quando l’appartenenza religiosa si manifesta con simboli evidenti, come la kippah o la stella di David. La maggior parte delle aggressioni avviene nelle aule scolastiche, dalle elementari all’università. È il 18 per cento dei genitori, infatti, a confessare che i propri figli sono stati aggrediti fisicamente almeno una volta, proprio perché ebrei. E l’antisemitismo è protagonista anche nelle manifestazioni anti-governative di queste settimane. Nelle proteste contro il green pass spuntano liste di nomi di personalità di origine ebraica (vera o presunta) accusati di essere i "responsabili della pandemia". "Gli storici hanno dato una chiave di lettura: - scrive Roger su Le Parisien – ogni volta che si presenta una crisi, quando dubbio e incertezza prevalgono, queste tesi nauseabonde riemergono dal fondo del complottismo". E così gli ebrei che "tirerebbero le fila grazie al loro potere occulto" su Big Pharma e sui vaccini, finiscono ancora una volta nel mirino.
(il Giornale, 29 gennaio 2022)
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Intervista esclusiva a Gianni Polgar, Testimone della Shoa
di Enzo Pagano e Marco Pagano.
Giovedì 27 Gennaio, in occasione del Giorno della Memoria, nel Cinema Teatro Manzoni, struttura gestita dalla nostra emittente RadioCassinoStereo, è andato in scena "13419 - La necessità del ritorno", uno spettacolo scritto ed interpretato da Roberto Attias e prodotto da Ettore Scola. Evento culturale incentrato sulla deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma.
E a proposito del famoso ‘rallestramento del ghetto di Roma’, RadioCassinoStereo ha intervistato uno dei Testimoni di questa terribile retata ad opera dei nazisti nel quartiere ebraico.
E’ Gianni Polgar, ebreo italiano nato a Fiume nel 1936 e residente a Roma dal 1939. Una chiacchierata lunga una vita, la sua, dove ci ha raccontato la persecuzione degli ebrei prima e dopo l'8 settembre 1943.
(RadioCassinoStereo, 27 gennaio 2022)
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"Rabin è il mio fantasma. E grazie all'arte spiego come cambiò la storia di Israele"
Il regista ha scritto un libro ricco di foto, documenti e testimonianze sull'assassinio del primo ministro. Un evento che dal 1995 è al centro dei suoi film e dei suoi pensieri
di Eleonora Barbieri
Documentari, film, un lavoro immenso d'archivio, e poi foto, interviste, testimonianze, viaggi, spettacoli teatrali, mostre, libri... Da oltre un quarto di secolo l'opera di Amos Gitai si muove intorno alla figura di Yitzhak Rabin, e ritorna al momento del suo assassinio, il 4 novembre del 1995, quando un colono ebreo estremista sparò al primo ministro, in Piazza dei Re d'Israele a Tel Aviv, dopo una manifestazione a sostegno degli accordi di pace di Oslo. Per quegli accordi con i palestinesi, l'anno prima della sua morte Rabin aveva ricevuto il Nobel per la pace. Pace che, da allora, è rimasta di nuovo lontana. Quel 4 novembre è stato un momento di rottura nella storia di Israele, il Paese di Rabin e di Gitai, il primo nato a Gerusalemme nel 1922, il secondo ad Haifa nel 1950, in mezzo trentatré anni, la fondazione dello Stato, la guerra, e molti legami, anche familiari, dato che la mamma del futuro primo ministro, Rosa, era amica della nonna materna del regista, Esther. Poche settimane dopo l'assassinio, Gitai inizia a girare The Arena of Murder, il primo film dedicato a Rabin; vent'anni dopo è la volta di Rabin, The Last Day (presentato alla Biennale di Venezia nel 2015), al quale seguono uno spettacolo, una mostra/installazione e, ora, anche un libro, Yitzhak Rabin. Cronache di un assassinio, pubblicato da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, che in questi giorni porta l'autore in Italia per due incontri, oggi a Milano (Triennale, ore 18,30, con Stefano Boeri) e lunedì a Bologna (Sala Borsa, ore 18). Il volume (pagg. 240, euro 30, traduzione di Raffaella Patriarca), oltre a essere una immersione nella storia di Israele e dello stesso Gitai, è arricchito da fotografie d'archivio, immagini della mostra, testimonianze dei protagonisti e interventi di storici, in quella fusione che caratterizza il lavoro del regista. Gitai parla al telefono da Parigi, dove vive da anni.
- Amos Gitai, come nasce questo libro? «L'idea è quella di conservare tracce di questo evento nella memoria, attraverso mezzi diversi: i documentari, alcuni girati quando Rabin era ancora vivo, le conversazioni con lui, i film di finzione, i pezzi teatrali e, infine, un libro, per tenere insieme proprio tutte queste tracce».
- Da più di venticinque anni il suo lavoro ruota intorno a Rabin. Perché? «Sì, è assolutamente centrale nel mio lavoro. Rabin è stato un uomo politico molto particolare, perché non era troppo un politico: ha cercato di seguire ciò in cui credeva, non soltanto di proporre una congettura sulla situazione, e questo è molto commovente».
- Che cosa la colpisce di Rabin? «Mi ha sempre impressionato il suo sforzo nel cercare di riconciliare il conflitto fra israeliani e palestinesi: un impegno enorme, del quale l'arte può conservare memoria».
- Perché la morte di Rabin è stata un evento così lacerante nella storia di Israele? «Ha segnato la fine di un'epoca in cui davvero abbiamo creduto di riuscire a realizzare una serie di impegni e accordi per risolvere questo conflitto senza fine. È stata una rottura brutale per la società israeliana e ancora viviamo all'interno di questa rottura, nella speranza che una riconciliazione sia possibile».
- Ha anche conosciuto Rabin. Che persona era? «Credo che originariamente volesse fare l'agronomo ma, per le circostanze legate alla creazione dello Stato di Israele, fu mandato nell'esercito. Però lui voleva coltivare la terra, essere un contadino e questa idea è rimasta sempre viva nella sua mente, perciò in lui si mescolavano due aspetti, quello utopico e quello pragmatico».
- E i suoi ideali quali erano? «Era molto concentrato sulla protezione e la sopravvivenza di Israele, da realizzare non solo grazie al potere militare, ma anche attraverso gli accordi».
- È vero che con Rabin ha un dialogo decennale, come Amleto col fantasma? «Sì. In questo dialogo cerco di capire la sua visione, la sua prospettiva e lui, in modo onesto, cerca di spiegarmi le ragioni per cui accettò di incontrare Arafat e i delegati palestinesi e cercò di trovare delle soluzioni e dei punti di incontro su tutti i problemi più importanti».
- Che rapporto c'è fra Storia e cinema? «La mia idea del cinema è che sia una attività civica, per fare sì che le cose vengano comprese, non dottrinariamente o didatticamente ma, appunto, attraverso l'arte. L'arte serve a fare cose che facciano pensare le persone».
- C'è un legame speciale con la memoria? «Credo che il cinema migliore sia quello che lavora sulla memoria, come quello dei grandi registi italiani... Sono molto orgoglioso di avere vinto il Premio Rossellini e il Premio Visconti, perché le loro opere sono legate alla memoria. Il cinema non è solo showbusiness bensì un modo per parlare del presente, con una idea del futuro».
- Anche in tutte le altre sue opere, come Field Diary sulla guerra in Libano, a cui ha partecipato ed è miracolosamente sopravvissuto, Kippur, Eden o Terra promessa, il suo Paese è centrale. Perché? «Perché lo amo e vorrei che fosse migliore».
- Lei ne è stato anche lontano per qualche anno, è stata una specie di «esilio»? «Non so se sia stato un esilio, ma ho dovuto prendermi un periodo di distanza quando i miei primi lavori non sono stati capiti...».
- Ora torna spesso? «Sì, torno spesso in Israele».
- Crede che la sua famiglia l'abbia influenzata in questo rapporto col suo Paese? «Sì. Credo di essere stato molto ispirato da mio padre, Munio Weinraub, che era un architetto del Bauhaus, e da mia madre, Efratia Margalit, una pensatrice, che ha scritto lettere meravigliose, pubblicate in Italia da Elisabetta Sgarbi quando era ancora a Bompiani».
- Lei stesso è architetto, come suo padre. Ha mai praticato? «All'inizio, per un po', poi mi sono dedicato al cinema».
- Nel libro paragona il clima di odio e pressione politica che portò all'assassinio di Rabin al clima in cui ci troviamo oggi per la pandemia. È così? «Credo che l'umanità viva in una situazione di grandissima ansia, ed è difficile, per le persone, avere a che fare con l'ignoto... Cercano di trovare un senso in ciò che non conoscono e questo genera atteggiamenti inopportuni, nelle persone e nei vari regimi».
- Torna attuale l'immagine del «dottore» di Camus, che cita parlando di Rabin: «In piena pandemia di peste/ il guaritore corre dei rischi/ e può pagarli con la propria vita». «Credo sia un buon paragone. Ho appena lavorato proprio su un testo di Camus, l'opera si intitola Exils Intérieurs e andrà in scena a Firenze in aprile, al Teatro della Pergola: è su delle persone che si trovano rinchiuse, in quel caso si tratta di un confino politico, non per il Coronavirus, ma è molto interessante come reagiscono alla situazione...».
- Nel libro si chiede anche come avrebbero reagito i fondatori di Israele all'assassinio di Rabin. Ha una risposta? «Credo che sarebbero preoccupati e che alcune delle risposte che Rabin aveva cercato di dare sarebbero state interessanti per loro».
- Pensa ci sia speranza? «Credo che sia giusto avere speranza, perché qual è l'alternativa, il nichilismo? Per me no, dobbiamo mantenere la speranza».
(il Giornale, 28 gennaio 2022)
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La sinistra piange gli ebrei poi sta sempre contro Israele
Doppio gioco sporco
di Vittorio Feltri
La Giornata della Memoria non è la festa del’l8 marzo e neppure la festa di San Valentino, robetta minima e priva di spessore. Essa viene celebrata ogni anno per ricordare una tragedia senza precedenti: lo sterminio di un popolo, programmato è compiuto da due regimi moralmente rivoltanti. Mi riferisco al nazismo e al fascismo i quali si misero nella testa, che non avevano, di uccidere in campi di concentramento dotati di forni crematori tutti gli ebrei accusati di essere il cancro dell'umanità.
Fascisti e nazisti non si limitarono a ideare il massacro dei cosiddetti giudei, magari fosse stato soltanto un proposito, infatti passarono dalla fetente teoria alla pratica. Cioè ammazzarono milioni di persone innocenti, raccattate nelle città sulla base di delazioni schifose, radunate in stazioni ferroviarie, stipate su treni bestiame e trasportate in Germania per essere uccise con una crudeltà che grida vendetta.
Tutte queste cose ormai sono note anche ai bambini delle elementari, ciononostante il sentimento antiebraico pur non essendo diffuso è ancora vivo in parte della popolazione più cinica e ignorante, come si evince dalle cronache dei giornali. Insomma c'è ancora gente talmente imbecille che ritiene i semiti carne da macello. Una vergogna a cui se ne aggiunge un'altra peggiore.
La sinistra politica italiana, tanto per esemplificare, considera la Giornata della Memoria come qualcosa di sacro, e fin qui siamo d'accordo, ci mancherebbe, ma ogni qual volta Israele entra in conflitto con i palestinesi, chissà perché si schiera dalla parte di questi ultimi, che giudica vittime dell'ebraismo. Tanto è vero che ai gestori della Palestina sia l'Europa che l'Italia forniscono finanziamenti in denaro, mentre agli israeliani riservano solo critiche feroci. Siamo di fronte non solo a una ambiguità ma anche a una contraddizione intollerabile.
Ricordate Arafat? Era il capo indiscusso dei nemici storici dei sionisti eppure veniva ospitato a Roma e perfino un uomo di qualità quale Craxi provvedeva a dargli dei soldi ed a appoggiarlo. Mentre qualsiasi reazione degli israeliti veniva condannata in modo polemico e addirittura violento. Oggi le cose non sono cambiate, a parole continuiamo a simpatizzare per gli ebrei, ma in pratica, non appena finita la giornata dclla memoria, rispunta il razzismo dì fatto contro un popolo che merita solamente solidarietà.
A noi di Libero questo andazzo non piace e vogliamo esprimere la nostra ammirazione per qualsiasi cittadino ebraico di qualsiasi estrazione. E deploriamo la sinistra che fa il doppio gioco, un gioco sporco peggiore di quello condotto dai fascisti quando approvarono le leggi razziali.
Libero, 28 gennaio 2022)
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Quegli onori di Israele al sacrificio dei carabinieri
L'Arma e gli ebrei salvati
di Rinaldo Frignani
ROMA «Se sarete in pericolo potete sempre rivolgervi a me, che farò di tutto per aiutarvi».
Il brigadiere dei carabinieri Giuseppe Ippoliti lo scrisse in un biglietto consegnato nel 1943 nelle mani del padre delle sorelle Edith e Trude Fischhof prima di essere trasferito dalla stazione dell'Anna di Casazza, in provincia di Bergamo, a quella di Chiesuola di Pontevico, nel bresciano.
Fra i due e i rispettivi parenti era nata una forte amicizia e anche la condivisione del drammatico destino della famiglia di ebrei austriaci, questi ultimi in internamento libero dal campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia (Cosenza). Con l'occupazione nazista del Nord Italia e l'arrivo dei battaglioni di Ss tutto cambiò all'improvviso. In peggio. E il brigadiere Ippoliti onorò subito quella promessa, nascondendo le sorelle prima a casa sua, fingendo che fossero cugine sfollate da un bombardamento a Viterbo, e poi presso una congregazione religiosa fino alla fine della guerra. Il sottufficiale, scomparso nel 197 4, è uno dei cinque carabinieri ai quali è stato concesso il titolo di Giusto tra le Nazioni: il riconoscimento dello Yad Vashem di Gerusalemme assegnato ai non ebrei che a rischio della propria vita e senza chiedere nulla in cambio hanno salvato anche un solo ebreo dalla Shoah. Ieri, nella Giornata della Memoria, sono state ripercorse le gesta di Ippoliti come anche quelle dei marescialli Giacomo Avenia, Osman Carugno, Carlo Ravera ed Enrico Sibona, comandanti di stazione in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna. Proprio l'ultimo, tradito da delatori pagati dai nazifascisti, fu lui stesso deportato in un lager per essersi rifiutato di arrestare due donne, ma riuscì a farcela.
Ostinazione nel fare la cosa giusta, a qualsiasi prezzo, come il capitano Massimo Tosti, non ancora Giusto, che al seguito del Decimo Battaglione del IV Corpo d'Armata nel sud della Francia occupato dalle truppe italiane, salvò oltre 4mila ebrei francesi fornendo loro appoggi, nascondigli e anche documenti falsi. L'Arma e la Shoah. Un binomio che ha accompagnato migliaia di ebrei soprattutto dopo l'8 settembre 1943, con il disfacimento dell'Italia, la Repubblica sociale al fianco dei nazisti al Nord, ma le stazioni dei carabinieri comunque funzionanti, anche se fra mille difficoltà e pericoli. Proprio nell'ottobre scorso, nel 78° anniversario della deportazione di oltre 2.500 carabinieri da Roma nei campi di concentramento, caduti in una trappola organizzata dalle Ss e dai fascisti proprio per impedire che potessero difendere gli ebrei del Ghetto, poi rastrellati meno di dieci giorni dopo, l'organizzazione ebraica per i diritti dell'uomo Benè Berith ha consegnato al comandante generale Teo Luzi il «Menorah d'oro» come riconoscimento per l'opera prestata dai militari dell'Anna per salvare gli ebrei dal nazismo. Il premio, assegnato anche ai tanti coraggiosi carabinieri rimasti anonimi, è ora esposto a Roma nel Museo storico dell'Arma, diretto dal generale di brigata Antonino Neosi.
(Corriere della Sera, 28 gennaio 2022)
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Bennet: "Gli ebrei non sono più un sacco da boxe. Risponderemo, e con forza"
"Quelli che continuano a cercare di uccidere ebrei è bene che sappiano una cosa: gli ebrei non sono più un sacco da boxe. Risponderemo, e con forza”.
Lo ha detto il premier israeliano Naftali Bennett parlando al corpo diplomatico straniero nel suo Paese in occasione del Giorno internazionale della Memoria.
“Il mondo deve imparare dagli orrori dell’Olocausto e fare – ha aggiunto – ciò che è necessario per impedire che l’umanità non soccomba mai più al diavolo che abbiamo visto”. Dopo aver sottolineato che la parola “mai più” porta “all’azione”, Bennett ha affrontato il tema Iran: “Una nazione che parla di annientare lo Stato ebraico – ha denunciato – non dovrebbe essere partner di niente”.
“Quando gli ebrei continuano a essere presi di mira per essere ebrei, sia come individui sia collettivamente come stato – ha continuato – l’indifferenza è accettazione silenziosa. Quando ascoltiamo gli appelli quotidiani del regime di Teheran ad annientare Israele e quando vediamo la sua progressione rapida verso le armi nucleari – ha concluso – l’indifferenza è accettazione complice”.
(Agenpress, 27 gennaio 2022)
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Addio Green pass, la storica decisione di Israele: l’annuncio ufficiale del governo
È stato uno dei primi Paesi al mondo a iniziare una vaccinazione di massa della popolazione, il primissimo a lanciare la campagna per la quarta dose mentre in tutto il mondo gli esperti predicano la calma. Ora, Israele ha deciso di tornare sui suoi passi, annunciando la volontà di cancellare il Green pass nel giro di pochi giorni. Una decisione che suona come l’ennesima sconfessione della politica adottata dal governo Draghi, che insiste invece sui ricatti alla popolazione non vaccinata.
A dare l’annuncio della scelta è stato il ministro delle Finanze di Stato israeliano Avigdor Liberman, che attraverso un tweet ha spiegato: “Non c’è più alcuna logica medica ed epidemiologica nel Green pass”. Una tesi sulla quale stavano tra l’altro insistendo da giorni altri esperti che affiancano il governo nelle scelte in materia sanitaria, convinti che fosse il momento di “ritornare a una vita normale” senza più pass vincolanti per avere accesso o meno a determinati servizi.
A convincere Israele a dire addio al certificato virtuale sono stati i numeri fatti registrare nelle ultime settimane, quando i contagi in ascesa hanno evidenziato come con la variante Omicron anche i vaccinati siano in grado di infettarsi e trasmettere il virus con la stessa frequenza dei non vaccinati. Liberman ha sottolineato come, a fronte di una scarsa utilità nella lotta alla pandemia, il Green pass sia uno strumento con “impatto diretto sull’economia, sul funzionamento dello Stato e un contributo significativo alla diffusione del panico tra i cittadini”.
l ministero della Salute israeliano guidato da Naftali Bennett aveva assunto posizioni simili: “Il pass può persino infondere un falso senso di sicurezza in coloro che lo utilizzano, perché porta le persone a usare meno precauzioni”. L’obbligo di certificato virtuale è in scadenza il prossimo 1 febbraio e non sarà con tutta probabilità, a questo punto, rinnovato. Israele, insomma, si prepara a lasciarsi alle spalle per sempre il Green pass, mentre il governo italiano finge, per l’ennesima volta, di non vedere.
(Il Paragone, 27 gennaio 2022)
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Giorno della Memoria, «L’antisemitismo di oggi fomentato dal fondamentalismo islamico»
di Milena Romeo
La Giornata della Memoria, oltre che riacutizzare sdegno e dolore per l’orrore dell’Olocausto è un’occasione per riflettere su vecchi e nuovi antisemitismi. Vogliamo farlo con lo studioso siciliano Massimo Longo Adorno, che non è ebreo né di religione ebraica, ma è uno storico di studi politici e militari che ha svolto attività di ricerca presso la cattedra di Storia contemporanea della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Messina, che attualmente insegna all’università tedesca di Kiel e che, nell’ambito dei suoi studi di storia europea del Novecento, si è occupato in particolare, di ebraismo. Il suo interesse scientifico ed etico è anche dettato da ragioni familiari, il nonno infatti, Tommaso Longo Adorno, ha sostenuto il movimento sionista revisionista, nella fazione di destra di V. Jabotinsky, che accompagnò la nascita dello Stato di Israele del ’48, dopo un lungo processo identitario nato alla fine dell’800 che precede la Shoah, ma che questa ha subito sicuramente un’accelerazione. L’antisemitismo ha avuto nel tempo facce e visioni ideologiche diverse, ma tutte convergenti verso l’eliminazione fisica, culturale e spirituale degli ebrei. Nel libro dedicato a M. Longo Adorno, firmato dal professore Luciano Armeli Iapichino, “L’uomo delle tartarughe”, si rimarca quanto lo Stato ebraico negli anni Trenta avesse due nemici: i nazisti tedeschi e i comunisti russi. I primi intenti a distruggere la fisicità degli ebrei, gli altri la spiritualità. Stalin sebben riconobbe lo stato di Israele , lo studioso ricorda, fu il primo dopo Hitler, a riprendere la persecuzioni degli ebrei nel ‘49.
- Professore, ci racconti meglio la genesi del suo interesse per il mondo ebraico... «Mio nonno, che era un ufficiale della milizia volontaria della sicurezza a Patti, sposò la causa di Israele, attraverso il movimento revisionista di Jabotinsky che si era formato intellettualmente in Italia, a questo venne concessa da Mussolini una base navale a Civitavecchia gestita da un ebreo amico di mio nonno. Dopo la morte del fondatore, a diventare leader del movimento fu Menachem Begin, futuro primo ministro d’Israele, stato in cui mio nonno si recò spesso e io almeno dieci volte; un Paese che sembra lontano e, che invece, è solo a tre ore di viaggio da Roma. Lì ho capito cosa significava stare in una terra in stato di assedio permanente e quanto gli ebrei avesse subito la tragedia della shoah: non si trovava una famiglia che non avesse avuto un parente morto!»
- Parliamo dell’Olocausto, del suo processo storico... «L’annientamento degli ebrei d’Europa nasce da un progetto che ha delle tappe precise. Nel Mein Kampf, Hitler dice che non vuole annientare gli ebrei ma che vuole una Germania libera da loro. Nel ’35 inizia una politica di discriminazione razziale e persecuzione, poi le incarcerazioni di massa, dunque le fucilazioni anomale perché non si trattava di rappresaglie, in due giorni potevano persino essere fucilate 40 mila persone e anche i soldati più duri non potevano reggere psicologicamente, di fronte a scatole craniche che rimbalzavano sulla divisa o a bambini sepolti vivi che gridavano e che venivano coperti con sabbia e benzina. Si passò alla decisione di sterminare i soggetti fragili con handicap mentali e sottoporli a gas, la Action T4. La Chiesa si oppose e, allorquando, il cardinale di Munster pronunciò un’omelia di fuoco contro queste voci, la gente si sollevò e l’idea di sterminio si orientò verso luoghi più decentrati, dove, in modo indisturbato, potere gasare non già disabili, che pur sempre erano di razza “ariana”, ma ebrei. Furono costruiti campi nell’Est europeo in insediamenti boschivi, e siccome la Russia era territorio di operazione, allora si pensò alla Polonia. Fu impiegato lo stesso personale del T4, per lo sterminio degli ebrei polacchi, con l’operazione Reinhard dal nome dello spietato comandante Heydrich ucciso dai Boemi, operazione che porterà allo sterminio di 3 milioni di ebrei polacchi, in quattro campi, in uno dei quali utilizzavano i camion invece delle camere a gas. Venivano caricate 100 persone e uccise nel tragitto con il gas dei motori di sommergibili, arrivati nella foresta i corpi venivano bruciati su grandi pire».
- Lo sterminio fu totale? «Nei campi concepiti per lo sterminio sì, non si salvava nessuno, se non gli ebrei che servivano per compiti come lo scarico dei morti o le attività da barbiere, perché prima della camera a gas venivano tagliati i capelli e barba dei prigionieri, per fare scarpe imbottite per i soldati sul fronte russo e quelli dei sommergibili. Quando serviva più spazio per altri ebrei occidentali, si convertì il campo di Auschwitz che era campo degli oppositori politici, in lager; si creò Auschwitz due cioè Birkenau. Qua la sentenza di morte era inevitabile, al massimo rinviata di qualche mese».
- Il fenomeno dell’antisemitismo, mai sopito, quali nuovi rigurgiti presenta? «L’antisemitismo è oggi fomentato dal fondamentalismo e terrorismo di matrice islamica. Nell’Europa del secondo dopoguerra esistevano sacche di antisemitismo a destra come a sinistra, ma marginali, lo scoppio del conflitto arabo-israeliano con la sua componente musulmana diventata sempre più forte, dapprima ha dato energia all’antisemitismo di sinistra che esisteva già da Stalin e che, con la scelta pro arabi dell’Urss, divenne un mantra. Oggi con le migrazioni di grandi masse di musulmani in Europa, si è trasferito il pregiudizio da un posto ad un altro. Il nazismo è stato popolare in Asia e in Africa, i grandi rivali del nazismo erano gli imperi coloniali britannico e francese e, per il principio, “il nemico del mio nemico è il mio amico”, i movimenti arabi del mondo islamico furono attratti dai nazisti, non solo quello arabo-palestinese, ma altri complottarono con i tedeschi, come il Mufti di Gerusalemme (capo spirituale dei musulmani palestinesi) che diede a Hitler due divisioni di Waffen SS composte da musulmani bosniaci e insospettabili come Sadat, primo ministro egiziano, che era agente del servizio militare della Marina tedesca o Bourghiba, il presidente tunisino. Hitler stesso ha scritto che la più grande disgrazia dell’Europa fu la vittoria di Carlo Martello a Poitiers, perché, disse testualmente, “Se i musulmani avessero vinto, in Europa avremmo avuto una religione forte, guerriera come l’Islam e non questo fiacco figlio dell’ebraismo che è il cristianesimo”. D’altronde nella lista più popolare dei libri letti nei paesi arabi al primo posto c’è il Mein Kampf...».
(Gazzetta del Sud, 27 gennaio 2022)
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Gerusalemme: 20 centimetri di neve imbiancano la città
Chiuse scuole e asili nido
TEL AVIV - La notte scorsa Gerusalemme è stata imbiancata da 20 centimetri circa di neve portata dalla perturbazione 'Elpis' che ha colpito anche il nord e il centro di Israele.
Forze del Municipio hanno lavorato tutta la notte per liberare le strade cittadine dal manto nevoso: sono stati sparsi circa 150 tonnellate di sale.
Le scuole e gli asili nido - come era stato già deciso ieri - sono rimaste chiuse.
Imbiancati tutti i luoghi più famosi della città: dal Muro del Pianto, al Santo Sepolcro, alla Spianata delle Moschee, alle Mura della Città Vecchia.
(ANSA, 27 gennaio 2022)
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Insieme sulle spiagge della speranza: un’odissea dall’Italia alla Palestina
Il nostro Paese diventò “Porta di Sion” e tale lo ricordano ancora tanti israeliani di ieri e di oggi
di Elena Loewenthal
Qualche anno fa il presidente Mattarella fu in Israele per una visita ufficiale. Il momento di gran lunga più intenso e toccante di quelle giornate fu l’incontro con i «bambini» di Selvino. Seduti compostamente in cerchio, avevano tutti gli occhi lucidi, quei novantenni con il cuore e la testa pieni di ricordi, orfani sopravvissuti per miracolo alla Shoah e accolti a Sciesopoli, un’ex colonia fascista per la gioventù a Selvino che alla fine della guerra era diventato un centro di accoglienza per centinaia di bambini profughi dal cuore dell’Europa, in transito verso la terra d’Israele. Per quei bambini, così come per tanti altri sopravvissuti all’orrore della Soluzione Finale nazista, l’Italia fu nei primi anni del dopoguerra il luogo della salvezza, dove ritrovare l’umanità perduta. Perché la storia della Shoah che il Giorno della Memoria impone di non dimenticare, di trasmettere per educare, è fatta del buco nero dei forni crematori, delle fosse comuni, della caccia all’ebreo, di tutto l’orrore che ha riempito l’Europa in quegli anni. Ma è non meno giusto – e bello – ricordare anche ciò che di segno opposto quella storia ha visto, durante e subito dopo il 27 gennaio di 77 anni fa. All’indomani della fine della guerra, infatti, l’Italia divenne «Porta di Sion» e tale la ricordano ancora oggi tanti israeliani di allora e altri che all’epoca non erano ancora nati, con sorridente gratitudine. La fine della guerra non fu, infatti, un breve momento, una cesura e basta, bensì un lungo periodo di caos, incertezza, confusione. Per gran parte degli ebrei reduci dai campi di sterminio e originari dell’Europa dell’Est fu un periodo di terribile disorientamento, senza più un angolo di mondo dove poter tornare, ricominciare a vivere. Anche perché il governo mandatario britannico in Palestina, pur se in scadenza, aveva vietato l’immigrazione in Terra Promessa dei profughi ebrei dall’Europa. Liberi dai campi della morte, quei sopravvissuti parevano ancora incatenati al loro destino. Sinché non arrivarono in Italia, un po’ alla spicciolata e un po’ grazie alla rete di sostegno e organizzazione che dal 1945 si attivò ai margini della legalità per portare questa gente al di là del Mediterraneo, verso il nascente Stato d’Israele: soldati della Brigata ebraica palestinese che avevano combattuto con gli Alleati, militanti della Resistenza, uomini e donne d’azione e di ideali. Sono tante, queste storie: i bambini di Selvino, che nel 1948 andarono a popolare e costruire un kibbutz del paese, gli adulti e i piccini che vissero nel campo di raccolta di Grugliasco, vicino Torino, coloro che furono accolti con calore in Puglia, e molte altre ancora. Rosie Whitehouse, giornalista e studiosa inglese, ne racconta una particolarmente interessante e ancora pressoché sconosciuta, in un libro appena pubblicato in italiano, La spiaggia della Speranza. Dall’Italia alla Palestina: il lungo viaggio dei sopravvissuti alla Shoah (traduzione di Giuliana Mancuso con la consulenza di Marco Cavallarin, il Corbaccio, pp. 348, euro 20). In una notte d’estate del 1946, infatti, 1257 ebrei originari di 14 Paesi fra cui Germania, Bielorussia, Lituania, arrivarono su una spiaggia della riviera ligure, non lontano da Savona. Avevano tutti alle spalle un viaggio lungo e sfiancante attraverso l’Europa, dai campi di sterminio e raccolta, dalle foreste, dai ghetti, dalle marce della morte; ora si preparavano «ad affrontare la Royal Navy», imbarcandosi sulla Wedgewood, ex corvetta canadese che aveva dato la caccia ai sottomarini tedeschi e che era poi stata comprata da un’organizzazione ebraica di New York che in Europa operava clandestinamente. A guidare l’operazione era Ada Sereni. Si imbarcarono a Vado Ligure: il viaggio durò otto giorni, i passeggeri avevano l’ordine di restare sotto coperta, e l’arrivo al porto di Haifa fu alquanto tormentato. Appena sbarcati, furono trasportati nel centro di detenzione di Atlit: per loro, così come per tanti altri, tutto finì il 14 maggio del 1948 con la creazione dello Stato d’Israele e l’inizio di una storia nuova. Whitehouse ha fatto anni di ricerche e viaggi. Ha provato a rintracciare tutti i 1257 passeggeri, si è documentata minuziosamente, ha ascoltato Domenico Farro, pescatore ottantaquattrenne che si ricorda di quei profughi silenziosi. Grazie al suo libro, quella porta di Sion affacciata sul molo di Vado Ligure si apre narrando una vicenda tanto unica quanto esemplare: furono più di 70 mila gli ebrei sopravvissuti alla Shoah che passarono dall’Italia nel cammino di ritorno verso la vita, e tante le porte di Sion che si aprirono a La Spezia, Trieste, Bari, Napoli, grazie alla rete ebraica clandestina, ma grazie anche ai tanti italiani che diedero una mano, sfamarono, sorrisero a quella gente che aveva visto l’orrore. Nel Giorno della Memoria si ha da ricordare l’orrore dello sterminio nazista, del fascismo con le sue infami leggi razziali, di quello che fu l’Europa in quegli anni. Ma anche queste storie di salvezza e di bene meritano di essere parte del nostro presente e del nostro futuro. —
(La Stampa, 27 gennaio 2022)
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La nostra cittadina brucia
La segnalazione di questo articolo, che molto volentieri pubblichiamo, ci è stata data direttamente dall'autrice, che qui calorosamente ringraziamo.
di Angelica Edna Calò Livne
Nel 1936, dopo un pogrom che aveva avuto luogo nella città polacca di Przytyk, Mordecai Gebirtig, poeta ebreo polacco, nato a Cracovia (Polonia) nel 1877, scrisse “Undzer shtetl brent!”- La nostra cittadina brucia. Durante la guerra, la canzone divenne un simbolo nei ghetti di Cracovia, Varsavia, Vilna e in tanti campi di concentramento e ispirò molti giovani a ribellarsi contro i nazisti. Gebirtig venne ucciso nel giugno del 1942 durante un rastrellamento nel ghetto di Cracovia.
Oggi, “Undzer shtetl brent!” rimane una delle canzoni commemorative più eseguite a Yom HaShoah, in Israele, nei movimenti giovanili, nelle cerimonie.
Incendio, fratelli! Incendio!
la nostra cittadina brucia!
Venti malvagi, gonfi di rabbia e devastazione, sfacelo e distruzione;
Tutto, intorno a noi brucia!
E voi state lì, a guardare
con le braccia conserte
Mentre la nostra cittadina brucia!
Brucia, fratelli! La nostra città brucia!
Oh! Dio non voglia che il momento venga,
Che la nostra città, insieme a noi,
Sia ridotta in cenere e fumo,
Lasciando, quando il massacro sarà terminato
Solo mura carbonizzate e vuote!
La nostra salvezza è nelle vostre mani.
Afferrate i secchi, domate gli incendi!
Non state lì, fratelli, a guardare
con le braccia conserte e inutili.
Questo canto ci ha accompagnato nelle cerimonie dell’Hashomer Hazair, in Italia nel Giorno della Shoah e durante i nostri viaggi in Polonia nei campi e nei ghetti. Immaginavamo le fiamme, le grida e soprattutto vedevamo con la mente l’indifferenza negli occhi di chi sapeva, vedeva, sentiva l’odore dell’orrore e non denunciava, non si poneva domande o si dava risposte irreali per quietare la propria coscienza.
Qualche settimana fa gli allievi del Liceo Casiraghi di Cinisello Balsamo, con il quale, per merito dell’Associazione Italia – Israele di Milano, abbiamo creato un solido legame di amicizia attraverso le attività di Beresheet LaShalom, mi hanno chiamato affinché consigliassi loro un canto da eseguire il 27 Gennaio, nel giorno della Memoria, alla presenza di altri Licei del territorio. Dopo un breve laboratorio con i ragazzi, dove si è affrontato il discorso del coinvolgimento sociale, della presa di posizione, del rifiuto a far parte del gregge, anche a costo dell’isolamento e dell’allontanamento dal gruppo, ho tradotto ai ragazzi il canto. Sono ragazzi e ragazze attenti, con una docente, Maria Teresa Maglioni, che li guida e li rende sensibili e accorti. Il canto ha destato commozione ed empatia negli allievi che si sono messi immediatamente in moto, nonostante la pandemia, la distanza e le quarantene, per prepararsi a rappresentare il loro messaggio. Un messaggio sempre più importante che ogni giorno diviene più improrogabile: prendere posizione, opporsi alle ingiustizie e alle menzogne, lottare per chi non ha più forze e continuare ad interrogarsi sugli eventi nei quali siamo coinvolti. Proprio come i numerosi rappresentanti delle associazioni Italia- Israele, presenti in tutto il Paese, sempre pronti a replicare, ribattere e controbattere ai nemici d’Israele, con saggezza, preparazione e fedeltà. L’educazione a non tenere le braccia conserte e anche il cuore e l’intelletto e l’unica cosa che potrà salvare questa umanità confusa e in cerca di speranza.
(moked, 27 gennaio 2022)
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«Ho scelto la vita»
Da una sorella in fede, nostra fedele lettrice, ci è arrivato un altro contributo collegato al Giorno della Memoria. Pubblichiamo anche questo con grande piacere e gratitudine.
di Carmela Palma
Per l’amore che porto a Israele e a tutto
il popolo ebraico,
nel “Giorno della Memoria”
HO SCELTO LA VITA
Signore, tieni stretta la mia mano
e non mi lasciare,
la strada è lunga, interminabile,
uomini, donne e bambini
con gli occhi bassi e il cuore languente
mi pesano sulla mente e sulla pelle!
Prati in fiore,
sorrisi e abbracci, restano custoditi
nello scrigno della memoria…
Il passato non tornerà’,
c’è buio davanti a me e
tanta angoscia che mi sovrasta,
mi avvinghia, mi assale.
Ho lo sguardo fisso su di Te
e sento la mia mano stretta nella Tua…
Sei con me e tra breve sarò con Te.
Dopo l’orrore, il silenzio,
il silenzio del corpo muto e infranto,
la vita è andata via,
c’è l’eternità…
Ma Israele vive!!! “Io ho scelto la vita”
Carmela Palma
(Notizie su Israele, 27 gennaio 2022)
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Giorno della Memoria, voci dal quartiere ebraico
di Luca Clementi
Quale significato ha oggi il Giorno della Memoria? Siamo andati nel cuore del quartiere ebraico ad ascoltare alcune opinioni su questa ricorrenza, sulla conservazione della Memoria e sui recenti episodi di antisemitismo.
(Shalom, 27 gennaio 2022)
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San Marino - Mascherine e strumentazione medica da Israele
"È il simbolo dell’amicizia tra i nostri Paesi". L’ambasciatore Dror Eydar in visita sul Titano accolto dal segretario alla Sanità Ciavatta.
Migliaia dispositivi di protezione individuale e apparecchiature, ma anche strumentazione medica. Sono quelli che Israele ha donato a San Marino. Ieri la consegna da parte dell’ambasciatore di Israele Dror Eydar, che si trova in Repubblica per una serie di iniziative in occasione della Giornata della Memoria che si celebrerà oggi. Ad accogliere la delegazione d’Israele, il segretario di Stato alla Sanità, Roberto Ciavatta, funzionari delle segreteria di Stato agli Esteri e alla Sanità e il direttore generale Sergio Rabini e il direttore amministrativo Marcello Forcellini dell’Istituto per la sicurezza sociale.
"Questo è un ulteriore segno del legame di profonda amicizia tra i nostri due popoli. Allo Stato d’Israele siamo estremamente grati non solo per questa donazione – dice il Segretario Ciavatta – ma per tutte le collaborazioni che potranno essere messere in campo nell’immediato futuro".
"Questa donazione è un simbolo dell’amicizia tra i nostri Paesi. La collaborazione tra Israele e San Marino nel campo sanitario è molto intensa – ha detto l’ambasciatore Dror Eydar – e ci auguriamo che possa rafforzarsi ulteriormente, soprattutto nei settori della digitalizzazione dei servizi medici e della telemedicina".
(il Resto del Carlino, 27 gennaio 2022)
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lsrael, il matematico che osò sfidare la religione della tecnoscienza
Torna d'attualità il pensiero dell'intellettuale ebreo. Denunciò la violenza del pensiero progressista che ha trasformato la scienza in un culto, squalificando i dissenzienti come «oscurantisti» e «barbari»
Gli ex comunisti «si sentono i soli a essere capaci, onesti e intelligenti»
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Chi non aderisce ai dogmi di sinistra è collocato subito tra i reazionari»
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di Francesco Borgonovo
Alla vigilia del Giorno della Memoria, gli scaffali delle librerie si riempiono di volumi storici o di testimonianze sulla Shoah. Tra questi non è semplicissimo, purtroppo, rintracciare saggi - che pure restano fondamentali - come Il fascismo e la razza o Scienza e razza nell'Italia fascista. A dire il vero, non è affatto facile mettere le mani su tutti i libri firmati da Giorgio lsrael (1945-2015), uno degli studiosi più raffinati e coraggiosi di ogni tempo. Matematico, ordinario alla Sapienza e professore a Parigi, lsrael meriterebbe d'essere ricordato sempre, ma il suo pensiero torna di potente attualità oggi, in tempi di delirio pandemico. Già nei suoi lavori sul fascismo il grande intellettuale ebreo aveva mostrato quali aberrazioni potesse produrre una visione gelida e disumana della scienza, rilevando come presso numerosi esperti italiani di antropologia, demografia e altre discipline avessero trovato terreno fertile le teorie eugenetiche. E forse è stato proprio in virtù di questi approfondimenti - edotto di ciò che possono generare certe visioni del mondo meccanicistiche - che lsrael, per lungo tempo, ha combattuto contro lo scientismo. Cioè contro la degenerazione della scienza in ideologia: una malattia da cui ancora adesso siamo afflitti.
• LIBRI INTROVABILI Accademico puntuale e autore di centinaia di articoli specialistici, lsrael ha sempre mantenuto una notevole attività pubblicistica, collaborando con il Foglio, Libero, Tempi. Arrivò alle soglie della militanza culturale senza mai perdere il rigore dello scienziato, si espose in prima fila sui temi roventi della bioetica, della manipolazione del corpo, della genetica. E ne pagò le conseguenze, subendo attacchi anche feroci. Anche da questa militanza tutta particolare trassero linfa i libri che egli diede alle stampe nei primi anni Duemila, e che sembrano descrivere perfettamente la situazione in cui ci troviamo immersi in questi giorni. Si tratta di testi, dicevamo, che non è facile trovare nei negozi. Parliamo di La macchina vivente (Bollati Boringhieri, 2004), Liberarsi dei demoni (Marietti, 2006) e Chi sono i nemici della scienza? (Lindau, 2008). È in quest'ultimo, in particolare, che si trova una diagnosi straordinaria dei mali del nostro tempo. lsrael prendeva le mosse da un'acuta analisi della superiorità morale progressista. «È come se nella disintegrazione politica del comunismo una serie di elementi identitari si fossero propagati ovunque, per una sorta di metastasi», scriveva. «Fra questi, il principale è proprio il sentimento della diversità, della diversità dell'uomo di sinistra. Nell'Italia bipolare dell'ultimo quindicennio, questo è stato, ed è tuttora, il collante principale della sinistra: ritenersi diversi dagli altri, dalla gente "di destra", ritenersi come i soli capaci, onesti, intelligenti e interessati alle sorti del Paese più che al proprio tornaconto personale». Che ancora adesso, a oltre dieci anni di distanza, funzioni così non c'è nemmeno bisogno di dimostrarlo.
• CONTRO I «SELVAGGI» Ma è ancora più interessante osservare come prosegue il ragionamento. «Quel che è rimasto, in tutta la sinistra, è il sentimento che occorre chiudere le porte ai "barbari", ai "selvaggi", ai "reazionari", agli "antidemocratici". Per quanto la sinistra possa dilaniarsi nei suoi conflitti interni e nelle sue liti, essa conserva un comune collante rappresentato dalla necessità assoluta di far fronte all'altro - identificato nella destra, nella reazione, nel fascismo, nell'oscurantismo - e di occupare tutte le posizioni con persone che partecipino di quel minimo comun denominatore di convinzioni "progressiste"».
• LA CATTEDRALE SANITARIA E tra gli aspetti fondamentali di questo progressismo c'è, appunto, il culto della scienza. O, come spiegava Israel, la «nuova teologia sostitutiva: la fede nella scienza e nella tecnologia, nel progresso scientifico e tecnologico. "Nemici della scienza" sono tutti coloro che non credono ciecamente nella nuova religione e che osano avanzare una sia pur minima critica delle tendenze e delle realizzazioni pratiche della tecnoscienza contemporanea. Quando si tratta di letterati o di religiosi, la cosa più semplice è metterli all'indice come persone ignoranti oppure ostili alla ragione scientifica. Nel caso malaugurato in cui si tratti di scienziati, li si censura, sperando che nessuno si accorga della loro presenza e, se questo non è possibile, li si bolla come traditori e venduti». Pensateci bene: non è esattamente ciò che negli ultimi due anni è accaduto qui da noi? Nel 2008 (e già prima) Israel aveva intuito come sarebbe stata costruita la Cattedrale sanitaria che ora ci domina. Aveva capito che trattamento sarebbe stato riservato agli «eretici», che si trattasse di scienziati o meno.
• CHI SONO I VERI NEMICI E aveva già fatto notare come, nel mondo scientifico, non si andasse tanto per il sottile con i dissidenti. «Oggi, che i dogmi dello scientismo sono divenuti un elemento caratterizzante dell'essere "di sinistra" e "progressista", chiunque non vi aderisca è automaticamente collocato nella schiera della reazione, indipendentemente da quali siano le sue convinzioni e senza alcuna possibilità di far ascoltare la sua voce al di fuori di un contesto di contrapposizione frontale», scriveva. Lui stesso fu costretto a difendersi da critiche brutali e per lo più infondate. Intendiamoci: non abbiamo nessuna intenzione di tirare per la giacchetta un intellettuale di tale livello. Non gli mettiamo casacche, e non ci permettiamo di stabilire che cosa egli avrebbe o non avrebbe scritto oggi. Resta, in ogni caso, la precisione con cui lsrael seppe sviscerare e descrivere le evoluzioni culturali del progressismo, la determinazione con cui condannò lo scientismo nel tentativo di salvare la sua amata scienza. Sì, lsrael lo aveva capito e scritto: i veri nemici della scienza sono coloro che vogliono trasformarla in una religione.
(La Verità, 26 gennaio 2022)
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Ucraina: tutte le opzioni di Putin e gli errori di Biden
di Paola P. Goldberger
Sull’Ucraina Biden fa così seriamente con Putin che ha fatto mettere in stato di allerta 8.500 soldati. Si, capito bene: ottomilacinquecento soldati americani “forse” verranno dispiegati in Europa orientale per prevenire (o forse contrastare, non si sa) una invasione russa dell’Ucraina. 120.000 soldati russi armati fino ai denti da un lato e forse 8.500 soldati americani dall’altro. Sottolineo fortemente il “forse” perché checché ne dicano i media americani, ancora non è chiaro né cosa andranno a fare né se ci andranno in Europa Occidentale, termine geografico per altro assai generico quello usato dagli americani. Nel frattempo Putin si gode l’allarme provocato dalle sue minacce all’Ucraina, sebbene quasi mai pronunciate direttamente, e le opzioni che gli si aprono per destabilizzare in ogni caso l’ex repubblica sovietica. A parlarci delle opzioni che ha il Presidente russo è un esperto del calibro di Daniel Hoffman, ex funzionario della CIA ed editorialista per Fox news, il quale ci illustra le opzioni che Putin potrebbe mettere in campo. «Putin potrebbe bloccare il Mar Nero e il Mar di Azov», ha detto Hoffman in una intervista a Fox news. «Potrebbe attaccare l’Ucraina con tutte le sue forze mettendo in campo una vera e propria invasione. Oppure potrebbe usare i suoi Spetsnaz, i ragazzi delle forze speciali – che sono già all’interno dell’Ucraina – per rovesciare il governo Zelensky». Hoffman ha proseguito sottolineando che Putin potrebbe anche scegliere di infiammare la guerra in corso nel Donbas, «ma in questo momento, sta guadagnando molto dall’aver schierato quelle 120.000 truppe al confine con l’Ucraina», ha osservato Hoffman. «Questa non è una mossa perdente per lui. È una mossa vincente in questo momento». Hoffman ci spiega come per Putin l’Ucraina sia una minaccia esistenziale e quindi non considera le sanzioni come un ostacolo insuperabile per il suo desiderio di controllare Kiev, anche se proprio quelle sanzioni hanno provocato qualche danno economico alla Russia. L’ex funzionario della CIA considera “molto alta” la possibilità che Putin invada l’Ucraina, anche se non ha ancora deciso quale opzione mettere in campo. Hoffman critica il Presidente Biden per «non aver sottolineato abbastanza chiaramente che gli Stati Uniti sono con l’Ucraina» considerando insufficienti le forze e le azioni messe in campo dall’Amministrazione americana. L’ex funzionario della CIA non chiede di inviare militari in Ucraina ma chiede al Presidente Biden che metta in chiaro con Putin che l’America renderà terribilmente costosa una eventuale invasione russa dell’Ucraina. «Vorrei che il Presidente lo dicesse molto chiaramente» dice Hoffman specificando che fino ad ora non lo ha fatto. «Putin è un ex agente del KGB e in quanto tale è un freddo calcolatore» sostiene Hoffman. «Ha spostato 120.000 militari per vedere la reazione americana e della NATO e ora starà valutando quale opzione sia meglio mettere in campo». In conclusione, secondo Daniel Hoffman il Presidente russo,Vladimir Putin, ha diverse opzioni da mettere in campo per “attaccare” l’Ucraina e in questo momento starebbe decidendo quale di queste opzioni è la più valida. La reazione americana non è stata certamente di quelle che mettono paura, quindi una azione russa in Ucraina è altamente probabile. Su quale opterà Putin lo vedremo molto presto.
(Rights Reporter, 26 gennaio 2022)
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Che cosa significa la crisi ucraina per Israele
di Ugo Volli
In Italia la politica è distratta da un’occasione interna importante come l’elezione del Presidente della Repubblica, ma nel mondo l’attenzione degli osservatori politici si concentra su un tema del tutto diverso: la Russia invaderà l’Ucraina? E che accadrà in questo caso? Come reagiranno i paesi europei e gli Usa? Che conseguenze politiche ed economiche ci saranno per l’Europa? I segnali di guerra sono sempre più forti: evacuazione del personale delle ambasciate, rifornimenti militari di diversi paesi europei (Gran Bretagna, Polonia, paesi baltici) all’Ucraina, mobilitazione delle truppe russe ai confini dell’Ucraina e manovre aggressive, discorsi per nulla concilianti da parte di Putin, allarmi americani su un possibile tentativo russo di colpo di stato in Ucraina…
La crisi ucraina è però solo uno dei punti caldi del mondo in cui la Russia è coinvolta in un possibile confronto. Un altro è la Siria, dove i russi sono alleati dell’Iran e proteggono il regime di Assad, che sta cercando di riprendere il controllo del suo territorio dopo un decennio di guerra civile. È un gioco complesso: la Russia è fornitrice militare di Iran e Siria, ma la seconda è sotto la sua protezione condivisa non senza conflitti con l’Iran; la Russia vende armi non solo alla Siria, ma anche all’Iran e alla Turchia, che è avversaria di quest’ultima. I rapporti fra Russia e questi ultimi due stati non sono di alleanza vera e propria, ma di commercio militare sempre più importante e per l’Iran anche di protezione, per esempio nelle trattative sul nucleare.
In questo quadro agisce Israele, il cui obiettivo è quello di disinnescare la minaccia iraniana, sia impedendo che diventi nucleare (e si moltiplicano i preparativi resi pubblici per una difficile operazione di distruzione degli impianti in cui si sta costruendo l’arma atomica), sia bloccando l’importazione di armi avanzate e truppe che l’Iran sta tentando in Siria, fino ai confini di Israele, con frequenti attacchi a trasporti, magazzini, fabbriche militari iraniane in Siria. La Russia ha sostanzialmente accettato di restare fuori da questa “battaglia fra le guerre” di Israele contro l’Iran sul territorio siriano, anche se talvolta ha espresso condanna e insofferenza per le operazioni israeliane. Ora però c’è stato un annuncio che sembra implicare un cambio radicale di questa politica. La Russia ha infatti dichiarato di aver iniziato pattugliamenti comuni con l’aviazione siriana, il che significa che il lavoro degli aerei di Israele, che devono colpire le basi dell’Iran sul territorio siriano ma non vogliono certo trovarsi a combattere contro i russi, diventa molto più difficile. È una scelta di schieramento da parte russa? Il tentativo di imporre in maniera più assertiva il proprio potere di veto sui territori che Putin considera nella propria sfera di influenza? C’è un rapporto con l’Ucraina?
Israele si trova anche a dover decidere che cosa fare se partirà l’invasione russa in Ucraina. Si sa che sono stati predisposti dei piani di evacuazione della comunità ebraica di quel paese, se la situazione peggiorasse. Ma a parte questo, come comportarsi quando un governo amico, fra l’altro con un presidente ebreo, venisse assaltato? La politica tradizionale di Israele in questi casi è la neutralità. Ma se vi fosse una concentrazione militare nell’Europa orientale, non ci potrebbero essere contraccolpi in Medio Oriente? L’Iran o qualcuno dei movimenti terroristi che ne dipendono, come Hezbollah, Hamas, gli Houti dello Yemen, non potrebbero cercare di approfittare della confusione per colpire Israele? O al contrario, non potrebbe essere Israele ad approfittare della situazione per eliminare l’arsenale nucleare iraniano? È impossibile rispondere. Certamente bisogna guardare alla situazione internazionale con grande preoccupazione, perché essa potrebbe travolgere gli equilibri strategici attuali. Per l’Italia, i cui confini distano meno di mille chilometri dall’Ucraina e che dipende dalle forniture energetiche russe, ma anche per Israele, che incontrerà ormai gli aerei russi al confine del Golan.
(Shalom, 26 gennaio 2022)
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Israele: in caso di invasione Russa, si valuta l’evacuazione degli ebrei dall’Ucraina
Israele: in caso di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il governo e le organizzazioni ebraiche valutano la possibilità di evacuazione degli ebrei ucraini in base alla Legge del ritorno
di Marina Gersony
Mentre la crisi russo-ucraina tiene la comunità internazionale col fiato sospeso a causa della minaccia di un’invasione russa incombente, vertici del governo israeliano e diverse organizzazioni ebraiche stanno esaminando la possibilità di un’evacuazione di emergenza per un massimo di 75.000 ebrei ucraini, ritenuti idonei alla cittadinanza israeliana ai sensi della Legge del ritorno. Lo spiega bene un articolo su Haaretz in cui viene riportato l’incontro, svolto domenica 23 gennaio, tra alti funzionari governativi israeliani che hanno valutato la necessità di un programma di evacuazione nel caso la situazione dovesse evolvere al peggio. L’incontro ha visto la partecipazione di rappresentanti del Consiglio di Sicurezza Nazionale, dell’Ufficio del Primo Ministro, dei ministeri degli Affari esteri, della Difesa, dei Trasporti e della diaspora, nonché dell’Agenzia ebraica e Nativ, organizzazione di collegamento governativa israeliana che ha mantenuto i contatti con gli ebrei che vivevano nel blocco orientale durante la Guerra Fredda e ha incoraggiato l’Aliyah. Sebbene al momento non vi sia un aumento significativo del numero di ebrei ucraini che chiedono di immigrare in Israele, c’è tuttavia una forte preoccupazione che se dovesse scoppiare una guerra in Ucraina e le comunità ebraiche nel Paese fossero a rischio per il caos che ne deriverebbe, migliaia di ebrei potrebbero cercare rifugio in Israele. Le organizzazioni ebraiche valutano che attualmente ci siano circa 75.000 cittadini ucraini di origine ebraica nelle regioni orientali del Paese, sparsi nei dintorni e dentro le principali città come Odessa, Kharkiv e Dnipropetrovsk; cittadini che possono ottenere la cittadinanza israeliana ai sensi della Legge del ritorno. E anche nel caso molti di loro non fossero intenzionati a lasciare l’Ucraina o a trasferirsi in Israele, la situazione potrebbe comunque trasformarsi potenzialmente in una delle più significative evacuazioni di ebrei da un Paese dilaniato dalla guerra da oltre tre decenni. La storia degli ebrei in Ucraina è millenaria. Durante la loro presenza nel territorio svilupparono molte delle tradizioni teologiche e culturali moderne più significative, tra cui il chassidismo. Ci furono periodi floridi in cui gli ebrei erano inseriti a pieno titolo nel tessuto sociale partecipando alla vita politica, sociale, culturale ed economica del Paese. In particolare a Odessa, città storicamente cosmopolita nonché porto di un mondo ebraico vibrante e fucina di idee, commerci e rivoluzioni. Periodi fiorenti che si sono ciclicamente alternati a periodi bui e spaventosi, come quando gli ebrei, che prima della Seconda guerra mondiale rappresentavano poco meno di un terzo della popolazione urbana (la più grande minoranza nazionale in Ucraina), dovettero affrontare persecuzioni e discriminazioni antisemite. Una curiosità: gli ebrei ucraini sono costituiti da una serie di sottogruppi, inclusi ebrei ashkenaziti, ebrei di montagna, ebrei bukharan, caraiti della Crimea, ebrei krymchak ed ebrei georgiani. Le perdite civili totali durante la Seconda guerra mondiale e l’occupazione tedesca dell’Ucraina sono stimate in sette milioni, di cui oltre un milione di ebrei fucilati e uccisi dagli Einsatzgruppen e dai loro numerosi sodali ucraini locali nella parte occidentale dell’Ucraina. Il più famigerato massacro di ebrei documentato avvenne nel burrone di Babi Yar, compiuto tra il 29 e il 30 settembre 1941, in cui trovarono la morte 33.771 di Kiev. Nel 1959 l’Ucraina aveva 840.000 ebrei, una diminuzione di quasi il 70% rispetto al 1941 (entro gli attuali confini dell’Ucraina). La popolazione ebraica ucraina è diminuita in modo significativo durante la Guerra Fredda. Nel 1989 la popolazione ebraica ucraina era solo poco più della metà di quella di trent’anni prima (nel 1959). La maggior parte degli ebrei rimasti in Ucraina nel 1989 ha lasciato il Paese e si è trasferita all’estero, principalmente in Israele, durante e dopo il crollo del comunismo negli anni Novanta.
(Bet Magazine Mosaico, 26 gennaio 2022)
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Lapid: "Allargare gli accordi di Abramo a Indonesia e Arabia Saudita. Ma ci vuole tempo"
Il ministro degli Esteri israeliano alla radio militare. I due paesi hanno vincolato le relazioni diplomatiche alla questione palestinese.
GERUSALEMME - Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha detto di sperare che gli accordi di Abramo con i paesi arabi possano essere allargati e che Israele arrivi a stabilire relazioni diplomatiche con Arabia Saudita e Indonesia, ma ha anche aggiunto che per questo ci vorrà tempo. Lo ha riferito Al Arabiya.
L'Arabia Saudita, che è la sede dei due siti più sacri per i musulmani, e l'Indonesia, che è il paese con la più vasta popolazione di fede musulmana al mondo, hanno condizionato ogni eventuale normalizzazione dei rapporti con Israele alla questione palestinese, e in particolare alla soluzione per i territori occupati nella guerra del 1967.
(la Repubblica, 26 gennaio 2022)
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Cina e Israele celebrano 30 anni di relazioni diplomatiche
Xi Jinping sottolinea l’importanza della partnership nel campo dell’innovazione, il Presidente Herzog evidenzia il rafforzamento delle relazioni bilaterali. Limiti e potenzialità di un rapporto non semplice.
di Matteo Meloni
Il 2022 segna il trentennale delle relazioni diplomatiche tra Cina e Israele, un traguardo non scontato né tantomeno semplice tra le due nazioni, che cercano di trovare campi per la cooperazione in un quadro geopolitico complicato. Il ruolo chiave degli Stati Uniti per Israele, ça va sans dire, ostacola una serie di potenzialità per Pechino nello Stato ebraico, rendendo meno forte la sua presenza commerciale ma non ostacolandola del tutto. Basti pensare al Porto di Haifa, dove la Cina ha inaugurato a settembre un nuovo spazio dedicato agli scambi commerciali nel Mediterraneo, parte integrante — nell’ottica del Partito comunista cinese — della Belt and Road Initiative. L’area, gestita dal Shanghai International Port Group, è costata 1.7 miliardi di dollari, e permetterà l’attracco di grandi navi cargo. La concessione per la costruzione della nuova infrastruttura porterà risparmi ingenti allo Stato israeliano, allo stesso tempo incrementando l’export e il commercio, abbattendo i costi dei beni. Ma Washington, alleato storico di Tel Aviv, è preoccupato della crescente presenza cinese, proprio a partire da Haifa, località nella quale transita la Sesta Flotta della Marina statunitense. Le pressioni Usa non sono servite a fermare il progetto, anche se negli ultimi anni la voce della Casa Bianca è stata presa in considerazione relativamente ad altre infrastrutture. Come nel caso del desalinizzatore Soreq B: la cinese Hutchison Water si fece avanti per la sua realizzazione ma, in seguito alle proteste dell’allora Presidente Donald Trump, la multinazionale perse la concessione per la costruzione. L’ex inquilino della Casa Bianca era preoccupato per la vicinanza tra la struttura e la base aerea dell’aviazione israeliana di Palmachin, e al centro di ricerca nucleare di Soreq. Obiettivi potenzialmente sensibili, nell’ambito dello scontro tra Washington e Pechino. Ciononostante, Israele dimostra interesse alle relazioni con la Cina e le celebrazioni per i 30 anni di rapporti diplomatici sono state l’occasione per ribadire l’importanza del gigante asiatico per lo Stato ebraico. “I cinesi, come gli israeliani, non hanno paura delle nuove idee”, ha detto il Ministro degli Esteri Yair Lapid. “C’è una curiosità intrinseca nel carattere dei nostri due popoli. Dateci un'idea nuova e stimolante e ci riuniremo attorno a essa, ne discuteremo con entusiasmo ed esamineremo immediatamente la sua origine e come può essere migliorata”. Nel corso del quinto meeting del Comitato per la Cooperazione e l’Innovazione tra Cina e Israele, nato nel 2014 ma partito nel 2018, è stato siglato un nuovo accordo triennale che regola la cooperazione governativa fino al 2024, e una serie di Memorandum of Understanding tra i Ministeri della scienza e della cultura, oltre a uno specifico documento sulla carbon neutrality. Inoltre, sono stati sottoscritti accordi sulla proprietà intellettuale e sulla cooperazione per la medicina d’emergenza. Un comunicato del Ministero degli Esteri di Tel Aviv ricorda che i 30 anni di relazioni diplomatiche sono stati caratterizzati “dal continuo dialogo politico, strette relazioni economiche e commerciali, e diverse collaborazioni che legano i due popoli. Il volume degli scambi con la Cina — ricorda il Ministero degli Esteri — è aumentato in modo significativo in 30 anni di relazioni diplomatiche e oggi ammonta a circa 18 miliardi di dollari. La Cina è uno dei partner commerciali più importanti di Israele e si prevede che l'accordo di libero scambio contribuirà ad aumentarne il volume”.
(Eastwest, 26 gennaio 2022)
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Israele: Ocse, tasso di occupazione nel terzo trimestre del 2021 al 67 per cento
PARIGI - Nel terzo trimestre del 2021 il tasso di occupazione in Israele si è attestato al 67,0 per cento in aumento dell’1,2 per cento rispetto al dato del secondo trimestre 2021, pari al 65,8 per cento.
È quanto emerge dalle stime dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Sempre negli ultimi tre mesi del 2021, il dato era di 68,3 per cento tra gli uomini (contro il 67,3 per cento del secondo trimestre) e al 65,7 per cento tra le donne (contro il 64,2 per cento nel secondo trimestre 20201).
(Agenzia Nova, 25 gennaio 2022)
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Isteria Israele, niente green pass ma quarta dose di vaccino COVID per gli over 18 anni
In preda a un isteria senza precedenti, Israele si appresta a dare il via alla somministrazione della quarta dose di richiamo per tutti i cittadini dai 18 anni in su. Il gruppo di esperti che consiglia il Ministero della Salute sul coronavirus ha raccomandato oggi di offrire un quarto richiamo agli israeliani di età pari o superiore a 18 anni, a condizione che siano trascorsi cinque mesi da quando hanno ricevuto il terzo richiamo o siano guariti dalla malattia. Il gruppo ha citato dati che mostrano che una quarta dose di vaccino COVID-19 somministrata a persone di età superiore ai 60 anni in Israele li ha resi tre volte più resistenti a malattie gravi rispetto alle persone vaccinate tre volte nella stessa fascia di età. Questo numero si basa su un confronto con quelli nella stessa fascia di età che hanno ricevuto una terza dose almeno quattro mesi prima. Il ministero ha riferito che la sua analisi si basava su statistiche su circa 400.000 persone che avevano ricevuto un quarto richiamo e 600.000 che avevano ricevuto un terzo richiamo. Solo due giorni fa l’annuncio della rimozione dell’odiato Green Pass, a causa dell’ondata di Omicron che di fatto ha reso inutile la vaccinazione, contagiando vaccinati e non vaccinati allo stesso modo. Tra l’altro la scorsa settimana uno studio condotto presso lo Sheba Medical Center ha rilevato che mentre la quarta dose aumenta sostanzialmente i livelli di anticorpi, è solo parzialmente efficace nel prevenire l’infezione da omicron. Lo studio è stato condotto dal Prof. Gili Regev-Yochay, direttore dell’unità di prevenzione delle infezioni a Sheba, ed è stato condotto tra 270 operatori ospedalieri che hanno ricevuto la quarta dose e un gruppo di controllo di lavoratori che sono stati vaccinati solo tre volte.
Il Prof. Regev-Yochay, che non fa parte del comitato consultivo che ha preso la recente decisione, ha dichiarato che crede che la nuova raccomandazione sia sbagliata, dicendo che l’efficienza della quarta dose non è sufficiente a giustificarne la somministrazione a persone giovani e sane. “Non abbiamo giovani in gravi condizioni o su macchine ECMO” ha dichiarato”, quindi penso che offrire la quarta dose a queste persone sia sbagliato”.
(eVentiAvversinews.it, 25 gennaio 2022)
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Lettera a Draghi e Speranza: "Con omicron si ammalano anche i vaccinati, via il green pass"
A inviarla è stata la presidente del "Comitato per gli Immigrati e contro ogni forma di discriminazione" e dell'associazione "Liguria nel cuore", Aleksandra Matikj, che chiede di seguire il modello di Gran Bretagna e di Israele.
La presidente del "Comitato per gli Immigrati e contro ogni forma di discriminazione" e dell'associazione "Liguria nel cuore", Aleksandra Matikj, ha chiesto al governo Draghi e al ministro Speranza di cancellare il green pass in Italia.
"Ci siamo permessi - dichiara Matikj -, seguendo ovviamente l'odierno esempio di Israele e quello precedente del Regno Unito dove hanno annunciato l'annullamento del green pass, definendo che oramai con l'Omicron si ammalano anche i vaccinati e che non c'è più alcuna logica medica ed epidemiologica nel green pass, idea peraltro condivisa da molti esperti".
"Quello che invece andrebbe considerato - prosegue - è un impatto diretto sull'economia, sul funzionamento quotidiano del Paese e un contributo significativo alla diffusione del panico tra i cittadini: così hanno annunciato da Israele precisando che ora bisogna impegnarsi invece con tutte le parti per eliminare il green pass e preservare una routine di vita normale per tutti. Va dunque sottolineato come il virus, nonostante il vaccino o la guarigione, è salito alle stelle con la variante Omicron, e tale sistema dunque va cancellato in quanto blocca diversi ambiti tra cui soprattutto quello lavorativo. In Italia, come si legge, stanno già fallendo diverse attività commerciali, così come da protesta del Confcommercio che altresì ha invitato il governo Draghi a ripensare".
"Altresì, utilizzare le risorse come la polizia locale contro i piccoli commercianti multandoli nel caso di un eventuale green pass mancante di persone sane nei loro esercizi non ha altresì più alcun senso logico, anche per il fatto di distoglierli dal loro principale lavoro ossia quello di occuparsi dei possibili criminali. Quello che, anche secondo il nostro parere, andrebbe rigorosamente rispettato con tanto di controlli seri e multe salate è l'obbligo della mascherina Ffp2 sui mezzi pubblici e nei luoghi chiusi, rispettando inoltre la distanza interpersonale di almeno un metro", aggiunge la Matikj.
"Con la presente - continua - si intende inoltre invitare le parti ad eliminare ogni eventuale discriminazione intorno alle possibili esclusioni sociali, vale a dire a più livelli nella sfera dei pensionati, studenti, percettori del Reddito di cittadinanza, clienti di attività commerciali, fruitori del trasporto pubblico e/o privato, vedi ad esempio Flixbus, e pazienti beneficiari e non del servizio sanitario nazionale e delle Rsa".
È stata anche sollecitata una proposta dell'Associazione, appunto, Liguria nel cuore, già comunicata sia alla Regione Liguria, sia al ministro Speranza in merito alle ambulanze tradizionali da sostituire con quelle a pressione negativa perché questo tipo di mezzi, permettendo il ricambio completo dell'aria ogni due minuti, è utile per tutelare pazienti, militi e medici contro il covid-19 ma anche contro le malattie come ad esempio la meningite in quanto l'aria all'interno dell'abitacolo è continuamente sanificata.
(GenovaToday, 25 gennaio 2022)
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«Tu devi stare zitto perché sei un ebreo. Dodicenne preso a sputi da due ragazzine
E' successo in un parco pubblico di Venturina. L'adolescente era con un amico. Il padre: «Fatto gravissimo, ora denuncio tutti».
di Maila Papi
VENTURINA TERME (LI) - «Sei un ebreo di m ... ». È una coltellata al cuore. E' peggio di un pugno, di uno schiaffo. È una frase urlata da due ragazzine quindicenni a un ragazzo di dodici, ebreo, al parco dell'Altobelli di Venturina.
È accaduto domenica pomeriggio, alla vigilia della settimana durante la quale si celebra la Giornata della Memoria. A due passi da dove è avvenuto l'episodio, bambini delle elementari stanno studiando il "Diario" di Anna Frank.
Sono le 18. Il dodicenne esce di casa e si dirige al parco per incontrare un suo compagno di classe. Quando arriva, l'amico è in compagnia di altri ragazzi, fra questi due ragazze quindicenni che frequentano le superiori a Piombino.
Il dodicenne, che frequenta la seconda media Carducci a Venturina Terme, saluta il gruppo. A quel punto una ragazza gli dice di non parlare, perché la sua voce le dà noia. Il ragazzino le risponde di no e subito dopo accade ciò che sinceramente nessuno si sarebbe mai aspettato. «Le due iniziano a insultarlo, "ebreo di m., devi morire nel forno". Poi iniziano a sputargli contro, a dargli calci, botte sulla testa - ci racconta il padre del ragazzino ancora sconvolto - All'episodio grave si aggiunge un altro aspetto altrettanto grave, cioè il fatto che nessuno dei presenti abbia difeso mio figlio. Sono scioccato, così come lo è mio figlio. Non abbiamo dormito, non riesco a darmi una spiegazione a questo gesto. Non riesco nemmeno a parlarne, mi viene da piangere. Sinceramente non mi era mai accaduto niente di simile».
Il padre racconta di altri episodi, certo meno gravi, ma comunque da condannare, che erano accaduti anni fa quando il ragazzo frequentava la scuola elementare.
«Avevo trovato sui messaggi che si scambiavano con i ragazzi un disegno con una svastica e un paio di scarpe con scritto dal 39 al 42. In quell'occasione avevo informato i genitori, avevo fatto presente la gravità del gesto. Ma questa volta non mi fermo. Ho già parlato con la sindaca di Campiglia Alberta Ticciati, con la dirigente scolastica Maria Elena Frongillo, ho informato la Comunità ebraica di Firenze che informerà quella di Livorno. E oggi farò la denuncia alle forze dell'ordine. Non ci si può voltare da un'altra parte, questi episodi vanno condannati e denunciati. Non si può scherzare con una cosa così tragica. Forse anche i genitori devono comprendere cosa è stato fatto da queste due ragazzine».
(Nazione Toscana, 25 gennaio 2022)
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Israele si dota di nuovi sottomarini classe Dakar
Il 20 gennaio 2022 Israele ha firmato un accordo da 3 miliardi di euro con il costruttore navale tedesco ThyssenKrupp Marine Systems per l'acquisto di tre nuovi sottomarini classe Dakar. L’annuncio è stato riportato dal Ministro della Difesa israeliano Benny Gantz il quale ha precisato che la prima delle unità sarà consegnata entro nove anni e che parte del costo dei battelli sarà coperto dal governo tedesco, coerentemente con gli accordi presi dai due Paesi nel 2017.
Il costo dei sottomarini è di 1,2 miliardi di euro più elevato rispetto a quello inizialmente pattuito, e questo fa presumere che le negoziazioni abbiano portato allo sviluppo di un progetto via via sempre più elaborato e caratterizzato da nuove dotazioni. In base alle poche informazioni al momento disponibili, i nuovi sottomarini sembrerebbero essere leggermente più grandi rispetto al modello diesel-elettrico classe Dolphin-II attualmente in servizio con la Marina israeliana. La differenza principale tra i due sta nella vela, che in base all’illustrazione ufficiale pubblicata dal sito di ThyssenKrupp, nei nuovi sottomarini sembra essere più lunga.
Secondo alcune ipotesi, la vela più lunga servirebbe a contenere un sistema missilistico di lancio verticale (VLS) capace di lanciare sia missili da crociera che missili balistici, e ciò implicherebbe un considerevole salto di qualità per i battelli israeliani. I sottomarini attualmente in servizio, di classe Dolphin-I e Dolphin-II, sono già equipaggiati con missili da crociera, lanciati però attraverso i tubi lanciasiluri. Si suppone inoltre che, come nelle unità classe Dolphin-II, i sottomarini classe Dakar saranno muniti di impianto di propulsione indipendente dell’aria (AIP) basato su celle a combustibile.
Se l’ipotesi della presenza del sistema VLS e dei missili balistici nei nuovi sottomarini israeliani fosse confermata, si tratterebbe della prima Marina nel Mediterraneo con sottomarini a propulsione convenzionale dotati di AIP in grado di lanciare missili balistici, seconda nel mondo soltanto alla Corea del Sud con le sue unità classe KSS-III.
Nonostante in passato il governo israeliano abbia puntato perlopiù all’irrobustimento delle forze aeree e di terra, oggi l’attenzione si è estesa anche verso il potenziamento della sua Marina. L’acquisizione dei nuovi sottomarini contribuirà alla superiorità di Israele come attore di sicurezza nella regione, e lo porrà in vantaggio strategico rispetto ai suoi competitor, in particolare Iran e Turchia. Infine, nonostante Israele né ammetta né neghi di possedere armi nucleari, si potrebbe avanzare l’ipotesi che i sottomarini israeliani avranno, grazie al sistema VLS, la capacità di lanciare missili balistici armati di testata nucleare, e se ciò fosse vero, contribuirebbero enormemente al potere deterrente del Paese.
(Centro Studi Internazionali, 25 gennaio 2022)
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La Resistenza ebraica davanti all'abominio della Shoah
di Daniele Susini
Dieci anni fa quando ho cominciato a studiare il tema della Resistenza ebraica, pensavo di affrontare un tema interessante, importante, ma mano a mano che approfondivo l'argomento mi sono accorto di avvicinarmi a qualcosa di ancor più significativo di quello che mi aspettavo, un modo inedito di concepire e rappresentare la Shoah. La resistenza degli ebrei durante la shoah per certi aspetti è un tema eretico, perché va contro il paradigma vittimale a cui ancora oggi sottoponiamo gli ebrei e che ci permette di autoassolverci dalle responsabilità che abbiamo nei confronti di quest'evento. Tale modello è arrivato a noi quasi indenne grazie a quello che è stato definito come il «mito della passività ebraica».
• L'ERRORE DI BANALIZZARE Prima di discutere il tema resistenziale è necessario premettere un aspetto che a mio avviso ci aiuta a meglio calibrare le successive riflessioni. La Shoah è un evento centrale nella storia dell'uomo, sia perché la coscienza politico-valoriale di buona parte del mondo si fonda su quel fenomeno sia e forse ancor più perché il genocidio degli ebrei d'Europa è diventato il metro di misura di qualsiasi altro accadimento contemporaneo sul tema della libertà e dei diritti. Forse attualmente solo il cambiamento climatico e il covid sono altrettanto al centro della discussione mondiale. Un tema così importante, così utilizzato nel dibattito pubblico, nella politica, nella cultura e nella società in generale è purtroppo invece banalizzato e stereotipato. Questo accade prevalentemente per due motivi, uno esogeno e l'altro endogeno. Il primo deriva dall'uso strunentale che la politica e i media fanno di questo evento, che piegano e distorcono a seconda della necessità del momento. Il secondo è determinato dal fatto che la Shoah è realmente un crimine molto complesso da concettualizzare, da conoscere in tutte le sue derivazioni e in ultimo da accettare umanamente. Tale situazione porta a semplificare o addirittura addolcire la sua tragicità estrema per renderla più sopportabile. Tutto questo determina la situazione attuale, una condizione che depotenzia questo fondamentale strumento di formazione della coscienza civile, uno svilimento che accade perché solo pochi ne parlano con reale cognizione di causa I recenti accadimenti legati al Covid-19 non sono che l'ultima tragica deriva di questo uso sconsiderato e incompetente della Shoah.
• RILEGGERE IL PARADIGMA
Lo studio della Resistenza ebraica ci obbliga a due azioni fondamentali: la prima a considerare gli ebrei ancora in vita e con la volontà di restarlo, anziché avviati sulla via dell'assassinio dopo indicibili sofferenze; conseguentemente la seconda operazione sarà quella di ampliare la cronologia con cui solitamente viene osservato l'evento, ovvero le più drammatiche fasi finali riguardanti i campi di sterminio. Questo è il modo migliore per abbandonare lo sguardo che ci ha dato Adolf Hitler e con cui ancora oggi noi guardiamo gli ebrei. Gli ebrei hanno resistito al nazismo come hanno potuto, se mettiamo in atto le due precedenti azioni riusciamo a focalizzare molto meglio l'evento e le vittime stesse, che non risultano più essere indistinte nelle loro reazioni, e ci possiamo rendere conto che in ogni luogo gli ebrei hanno compiuto atti di resistenza contro il destino, che tra infiniti inganni si stava realizzando verso di loro. Riusciremmo anche a capire come e perché gli ebrei hanno subìto la più feroce aggressione della storia nei confronti di un singolo popolo, una subdola trappola creata dai nazisti senza che essi potessero, o quasi rendersene conto. Uno dei luoghi di questa persecuzione, ma anche della resistenza, sono stati i ghetti nazisti, fase spesso meno considerata della shoah, perché erroneamente creduta un momento di transizione tra il concentramento e lo sterminio. I ghetti hanno avuto l'importante ruolo di fiaccare e confondere gli animi delle grandi comunità ebraiche dell'est. Come già anticipato, in quei luoghi, talvolta anche prima che nelle foreste bielorusse, lituane e polacche, è nata la Resistenza ebraica, in forme diverse e plurali Si è giunti a questa considerazione qualche decennio dopo la fine delle guerra. solo quando si è consolidata la consapevolezza che la Shoah fosse un crimine «senza precedenti» anche paragonato agli altri genocidi della storia. In base a questa nuova visione i parametri con cui veniva valutata la shoah dovevano essere rivisti così anche l'aspetto resistenziale. È stato soprattutto il grande storico israeliano Yehuda Bauer a rileggere il paradigma di cosa è stata la Resistenza ebraica e chi sono stati i resistenti ebrei Per Bauer il concetto di Resistenza, in una condizione come quella della shoah che prevedeva non solo la morte di ogni singolo ebreo ma anche la cancellazione di ogni forma di religione e di cultura ebraica, non poteva essere relegato negli angusti confini della Resistenza annata. ma doveva dunque comprendere un più variegato e dinamico spettro di comportamenti civili o spirituali
• RESISTENZA SPIRITUALE
Egli introduce il concetto di Amidah, che indica la preghiera recitata più volte al giorno stando in posizione eretta, un pilastro della religione ebraica. Bauer utilizza questo concetto per sottolineare l'aspetto di dignità in condizioni estreme e quindi considerare «resistenza» tutte le azioni, di singoli o collettive, che in qualche modo contrastarono o ritardarono la distruzione del popolo ebraico o che temporaneamente ne migliorarono la qualità della vita o comunque ne evitarono un peggioramento. Un'altra formula utilizzata per definire questo tipo di opposizione non militare è infatti quello di «resistenza spirituale», ovvero il tentativo di vivere una vita che mantenga la propria dignità e umanità e i propri valori fondamentali al di là dalla brutalità e della disumanizzazione del nazismo. Come conferma il filosofo tedesco-israeliano Emil Fackenheim: «Il mantenimento da parte delle vittime di un briciolo di umanità non è solo la base della Resistenza, ma è già parte di essa. In una tale vita non c'è bisogno di essere santificati, si è già santi». Un'altra forma di resistenza analizzata da Bauer, e mutuata direttamente dall'ebraismo, è la kiddush ha hayyim, ovvero la «santificazione della vita», nel senso che ogni atto che «santifica (e protegge) la vita» in un contesto di «morte diffusa ed estrema» è un atto di resistenza. Tale assunto è stato promosso da vari rabbini già durante la shoah, in particolare dal rabbino ortodosso di Varsavia Yitzhak Nissenbaum. il quale fornisce una lettura in chiave storica oltre che etico-religiosa, di questo concetto: «Questo è il tempo per il kiddush ha-hayyim, la santificazione della vita, e non per il kiddush ha-shem, la santità del martirio», scriveva Nissenbaum dalla Varsavia in fiamme per la rivolta degli ebrei. «In precedenza, il nemico dell'ebreo cercava la sua anima e l'ebreo santificò il suo corpo nel martirio; ora l'oppressore richiede il corpo dell'ebreo, e l'ebreo è quindi costretto a difenderlo, a preservare la sua vita». Bauer fa rientrare nelle forme di resistenza anche i gesti di solidarietà tra ebrei, come pure le attività socio-assistenziali finalizzate a contrastare inedia e abbandono, le attività politiche e culturali per migliorare la qualità della vita dei prigionieri, le politiche religiose ed educative per non perdere la propria identità, il contrabbando per avere maggiori quantità di cibo, finanche l'autoaiuto attuato per sfuggire alla morte. Con questa rinnovata concezione di resistenza prende corpo una nuova figura di resistente, non più solo esclusivamente il coraggioso combattente partigiano, ma ogni ebreo che sotto qualsiasi forma ha combattuto contro il piano di distruzione messo in atto dai nazisti. Quindi i genitori e figli che si sono sostenuti a vicenda, il personale scolastico e sanitario che ha proseguito nell'esercizio della propria professione, tutti coloro che hanno continuato a testimoniare quello che stava accadendo, i rabbini che hanno perseverato nella professione dell'ebraismo e gli artisti che non hanno cessato di creare. Questi sono stati i resistenti ebraici che hanno permesso in ogni luogo di portare avanti la vita e la cultura ebraica, anche in quel fatale momento.
Daniele Susini è direttore del museo Linea gotica orientale di Montescudo Monte Colombo (Rn).
(Domani, 25 gennaio 2022)
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Israele cancella il green pass: con Omicron si ammalano anche i vaccinati
Israele cancella il green pass entro fine gennaio. La notizia era già stata diffusa dall'autorevole quotidiano Jerusalem post che la settimana scorsa il pensiero del Ministro delle Finanze dello Stato di Israele, Avigdor Liberman. Tramite un tweet spiegava che non c'era più alcuna "logica medica ed epidemiologica nel green pass", idea peraltro condivisa da "molti esperti".
"Quello che c’è, invece, è un impatto diretto sull’economia, sul funzionamento quotidiano (del Paese) e un contributo significativo alla diffusione del panico tra i cittadini", aveva precisato il ministro, il quale aveva già annunciato di essere impegnato "con tutte le parti per eliminare il green pass e preservare una routine di vita normale per tutti". Il numero di persone che contrae il virus nonostante il vaccino o la guarigione è salito alle stelle con la variante Omicron, e tale sistema dunque va cancellato. Israele ancora una volta traccia la strada ai tempi della pandemia?
(Il Tempo, 24 gennaio 2022)
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Negli Emirati i libri di testo scolastici si allontanano dalla propaganda contro Israele
di Francesco Paolo La Bionda
A un anno e mezzo dalla normalizzazione dei rapporti tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele nell’ambito degli Accordi di Abramo, i libri di testo del paese arabo per l’istruzione primaria e secondaria riflettono lo spirito del trattato e generalmente evitano la propaganda contro lo Stato ebraico e contro gli ebrei. È quanto emerge dal report “When Peace Goes to School: The Emirati Curriculum” dell’organizzazione israeliana IMPACT-se. La ricerca ha rilevato come i testi promuovano uno spirito di tolleranza e di relazioni positive con ebrei e cristiani sulla base dei principi della teologia islamica, dato che il presidente di IMPACT-se Marcus Sheff lo ha definito “di gran lunga il più pacifico e tollerante curriculum di un paese a maggioranza araba o musulmana che abbiamo mai recensito in oltre un quarto di secolo di ricerche”. I libri di testo, secondo il documento israeliano, propongono un approccio realistico alla pace e alla sicurezza, insegnano il patriottismo e l’anti-radicalismo, l’impegno a difendere il paese e alla cooperazione con gli alleati, enfatizzando come priorità la risoluzione dei conflitti. Il vasto programma di studi islamici sottolinea la tolleranza, la coesistenza e le relazioni amichevoli con tutte le etnie e le religioni.
• Nonostante i progressi, Israele manca ancora dalle mappe Il report ha rilevato come tuttavia lo stato di Israele non compaia in nessuna mappa del Medio Oriente a parte una, venendo o classificato come Palestina o venendone tracciati i confini ma senza un nome riportato. Non ci sono inoltre menzioni della storia ebraica nella regione o all’Olocausto. Ciononostante, gli Accordi di Abramo sono trattati a più riprese, descritti come “utili alla causa araba e islamica, derivati dall’impegno dell’Islam nel contenere l’estremismo e nel promuovere un’atmosfera globale di pace e cooperazione”. Il radicalismo religioso è fortemente scoraggiato come “minaccia principale” alla prosperità e la causa palestinese non è più rappresentata come la chiave per risolvere tutti i problemi della regione. Alcuni passaggi sulla questione sono stati riscritti in anni recenti, secondo i ricercatori. In un libro di scienze sociali del penultimo anno, una citazione del fondatore dello Stato, lo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, è stata rivista per rimuovere una critica all’idea che i palestinesi debbano riconoscere lo Stato ebraico. In un altro testo, una tabella originariamente chiamata “Le macchinazioni dei nemici per ostacolare l’azione araba comune” è stata cambiata per parlare solo di “principali sfide” e per togliere un riferimento a “l’entità sionista sulla terra di Palestina”.
• Le critiche a Iran e ideologia ottomana Nonostante i testi emiratini supportino una risoluzione pacifica delle tensioni del paese con l’Iran, lo descrivono come un’aggressiva potenza regionale che ha rovinato Iraq e Libano e che ora intende farlo anche con lo Yemen. La Turchia, altro rivale degli Emirati e dei loro alleati, non è direttamente criticata, ma il suo predecessore, l’Impero Ottomano, è descritto invece come una rapace potenza colonialista, al pari di Francia e Inghilterra, che ha sfruttato le ricchezze e le terre degli arabi.
(Bet Magazine Mosaico, 24 gennaio 2022)
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Accuse di corruzione – Il governo israeliano indaga su un caso sottomarino
di Rufino Dellucci
- A causa del sospetto di corruzione, lo stato in Israele indagherà su un precedente acquisto di sottomarini e altre navi da guerra dalla Germania.
- Il caso riguardava acquisti per un valore di 2 miliardi di dollari (circa 1,8 miliardi di franchi svizzeri) negli anni dal 2009 al 2016.
- Il governo israeliano ha accettato di aprire un’indagine.
Si dice che gli stretti collaboratori dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu siano coinvolti nello scandalo delle tangenti. Sono attualmente in corso azioni legali contro molti di loro. Anche Netanyahu è stato interrogato sulla questione, ma non è stato considerato un sospetto. Tuttavia, è stato accusato di aver spinto per accordi sottomarini contro la volontà dell’esercito e del ministero della Difesa. Inoltre, la commissione d’inchiesta sta ora esaminando le circostanze in cui Israele ha accettato di vendere sottomarini tedeschi all’Egitto.
• “Ruota ogni pietra” Il ministro della Difesa Benny Gantz e il ministro degli Esteri Jair Lapid hanno portato avanti la formazione della commissione d’inchiesta. “Il caso del sottomarino è il caso di corruzione della difesa più grave nella storia di Israele e dobbiamo voltare ogni pietra nella nostra ricerca della verità”, ha detto Lapid poco più di una settimana fa. Giovedì, Israele e Germania hanno finalmente concordato un accordo multimiliardario per l’acquisto di tre nuovi sottomarini di classe “Dakar”. Le prime barche da sviluppare presso il cantiere navale Kiel ThyssenKrupp Marine Systems (TKMS) saranno consegnate entro nove anni. Il primo ministro Naftali Bennett ha confermato che il nuovo accordo è stato concordato in modo pulito. “La nostra unica bussola è la sicurezza di Israele”, ha detto Bennett, che si è astenuto dal voto. I piani erano sospesi da anni a causa di accuse di corruzione.
• Tre miliardi per i sottomarini di Kiel Secondo il ministero della Difesa israeliano, il costo dell’operazione è di circa tre miliardi di euro, parte dei quali a carico del governo tedesco. In totale, Israele ha già sei sottomarini di Kiel. I tre nuovi sottomarini sostituiranno gradualmente i vecchi modelli. Le consegne in Israele sono considerate controverse perché, secondo gli esperti, potrebbero teoricamente essere equipaggiate con armi nucleari. “Creatore. Amante dei social media hipster. Appassionato di web. Appassionato fanatico dell’alcol.”
(SapereFood, 24 gennaio 2022)
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«Ebraismo, viaggio interiore alla ricerca di un credo libero»
In uscita domani per Piemme la riflessione di Emanuele Fiano sulla fede e la responsabilità individuale.
IN COPERTINA
Ben Gurion che fa yoga a testa in giù su una spiaggia: «C'è sempre un altro punto di vista»
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LA VICENDA PATERNA
«Mi ha segnato: la Shoah è il punto zero della responsabilità verso l'altro»
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di Gian Guido Vecchi
«Siamo stati educati a sentire il battito del cuore delle parole. A riflettere con attenzione, fin da bambini, su ogni lettera. La Torah è quel testo infinito che io, con i miei limiti, continuo a studiare. Nessuno ti chiede una professione di fede per leggerlo, interpretarlo o discuterlo». Emanuele Fiano, già presidente della comunità ebraica di Milano, deputato del Pd, pubblica Ebreo (in libreria da domani per Piemme) come la seconda parte di un dittico. Il padre Nedo fu uno dei testimoni più alti della Shoah. Deportato con l'intera famiglia a Birkenau, di undici persone tornò solo lui. A Nedo, l'anno scorso, Emanuele ha dedicato Il profumo di mio padre. E ora torna con un libro che ha in copertina una foto di Ben Gurion impegnato a fare yoga a testa in giù su una spiaggia in Israele, «c'è sempre un altro punto di vista».
- L'esperienza da ragazzo in un kibbuz, l'educazione, l'impegno politico ... È una sorta di autoanalisi? «È insieme un'autoanalisi e un bilancio. La mia famiglia mi ha trasmesso quel patrimonio immenso che c'è nell'ebraismo e ha segnato la mia vita. Vi ho ritrovato i fondamenti della mia etica, dell'essere nel mondo come responsabilità verso gli altri».
- «Lech Lechà», dice Dio ad Abramo: «vattene», ovvero «vai a te stesso». Potrebbe essere l'esergo del libro ... «Sì, la dimensione del viaggio interiore, l'insegnamento che si debba anzitutto guardare dentro di sé per capire dove si va, penso sia il filo conduttore del libro. Come esergo, cito una riflessione di David Bidussa nella quale, a proposito del Talmud, spiega che l'ebraismo è il margine bianco che sta intorno al testo: la discussione continua. E una frase di Edmond Jabès che reclama la forza della domanda rispetto alla risposta. Nel mio viaggio non c'è una riposta sulla fede, ma c'è la sacralità dell'interrogazione».
- La parola «ebreo» compare nella Genesi come aggettivo che definisce Abramo, «ivri»: da «avar», passare, e quindi «colui che era passato» ... «Se penso al Novecento europeo dell'ebraismo, vedo una minoranza che ha saputo andare oltre: Einstein e la fisica, Schönberg e la musica, Freud e lo studio della psiche ... Venire da altrove, andare oltre, mantenere l'identità senza entrare in conflitto. Abramo ha compiuto una rottura culturale decisiva: la rivoluzione monoteistica».
- E perché, da ebreo laico, la considera decisiva? «È come se Dio dicesse: guardati dentro, decidi tu il tuo destino. Non siamo burattini nelle sue mani. Ad Adamo chiede: dove sei?, e ovviamente lo sa. Come quando dice a Caino: cosa hai fatto? E Caino risponde: sono forse il guardiano di mio fratello? L'insegnamento che ne traggo è che siamo responsabili delle nostre azioni. La storia di mio padre mi ha segnato perché la Shoah è il punto zero della responsabilità verso l'altro».
- Mosè non riceve i Comandamenti, ma le «Parole» ... «Il limite è offerto al libero arbitrio, la morale si nutre di scelte. In questi anni di pandemia è passata l'idea di una libertà senza limiti, slegata da ogni responsabilità. Ma non si dà libertà senza norme».
- Evoca anche l'Angelus Novus di Benjamin, sospinto in avanti con il viso rivolto alla catastrofe del passato ... «Però va avanti. Zygmunt Bauman ci mette in guardia dal pericolo della "retrotopia", il desiderio di un passato mitico che si immagina migliore. C'è un aspetto messianico dell'ebraismo, di spinta al futuro, che è significativo anche per il pensiero laico».
- Ha scritto: «Non basta essere ebrei». Che intende? «Che non dobbiamo vivere solo tra noi ma essere sensibili a ogni discriminazione, perché sappiamo cosa significa essere stati schiavi. Il viaggio è verso se stessi e gli altri»
- Ha infine capito che significa essere ebreo? «Anche se magari agli occhi di un "ortopratico" non lo sono, io credo di avere vissuto da ebreo. E per questo mi considero molto fortunato».
(Corriere della Sera, 24 gennaio 2022)
«Io credo di avere vissuto da ebreo», dice Fiano. E' difficile trovare un ebreo che non dica la stessa cosa. Il fatto che così tanti, anche diversissimi fra loro, indichino uno stesso punto di riferimento, fa posare lo sguardo non sui molti diti indicatori, ma sull'oggetto indicato. Che deve pur esserci, se così tanti sono quelli che l'additano. L'oggetto nascosto è quello da ricercare. Osservare troppo da vicino il dito può non servire a niente. M.C.
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Shoah, Sami Modiano ai ragazzi: «Siete voi il nostro vero baluardo»
91 anni, sopravvissuto ad Auschwitz, oggi incontra online gli studenti. «Testimonio in nome di coloro che non ce l'hanno fatta».
di Francesca Nunberg
Oggi per lui è un giorno importante, parlerà con gli studenti ma si rammarica perché «questo Covid non mi dà la possibilità di abbracciarli di persona, come un tempo» (e sarebbe comunque difficile perché hanno aderito oltre 40 mila ragazzi di circa 2000 classi da tutta Italia). Da quando ha cominciato a parlare Sami Modiano, 91 anni, deportato a 14 da Rodi ad Auschwitz-Birkenau dove ha perso il padre e la sorella, testimone tra i più lucidi dell'orrore della Shoah, non si è fermato più.
• LA SELEZIONE
«lo sono un sopravvissuto che si era chiuso nel suo silenzio - racconta al telefono dalla sua casa di Ostia - Pensavo che non mi avrebbero creduto, che un dolore così grande fosse indicibile. Con me sono state deportate duemila persone, tutta la comunità ebraica sefardita di Rodi. Ma quando stavamo lì, alla selezione, Mengele non ci chiedeva se eravamo sefarditi o askenaziti, avevamo tutti solo la colpa di essere ebrei... Ma poi ci sono stati Primo Levi, Piero Terracina (per me come un fratello), Shlomo Venezia, il governo italiano ha fatto una legge perché la Shoah venisse ricordata anche nelle scuole, tutti insistevano e alla fine ho accettato di parlare».
Nel 2005 Sami Modiano ha accompagnato trecento studenti nel suo primo Viaggio della memoria ad Auschwitz, a cui poi ne sono seguiti tantissimi altri: «Erano passati 60 anni ma ricordavo ogni cosa perfettamente, vedendo quei posti mi sono tornate davanti agli occhi quelle scene atroci, mi è venuta una crisi di pianto e quando mi sono girato ho visto che anche i ragazzi erano in lacrime. Lì ho capito che dovevo rompere il mio silenzio.
Quando uno esce dai campi di sterminio si chiede perché, ti senti in colpa, come se fossi un privilegiato. Avrei potuto essere come mia sorella Lucia, che aveva ceduto dopo un mese, come mio padre Giacobbe, dopo un mese e mezzo, o come qualsiasi altro internato, non ammazzavano solo gli ebrei, ma tutti quelli che ritenevano diversi, gli omosessuali, i disabili, i rom, i politici. Dovevo parlare in nome di tutte le persone che avevo visto morire, davanti a quel grande cimitero ho giurato che non mi sarei più fermato».
Così oggi Sami continua, racconta di quando nel '38 il maestro in terza elementare gli disse che sarebbe stato espulso da scuola, il padre gli spiegò le leggi razziali mentre lui pensava «di aver fatto qualcosa di male», parla del viaggio senza fine verso il lager, un mese tra nave e treni piombati, dei lavori forzati, dell'addio ai familiari («ho ringraziato Dio per aver risparmiato a mia madre tutto questo, se ne era andata per malattia tre anni prima»), la marcia forzata da Birkenau verso Auschwitz imposta dai tedeschi ai pochi superstiti.
• I NEGAZIONISTI
Durante quella marcia Sami si accasciò a terra, ma due compagni lo sollevarono e lo portarono alla meta, buttandolo su un cumulo di cadaveri. Il giorno dopo arrivarono i sovietici, era il 27 gennaio del 1945. E il 27, apertura dei cancelli di Auschwitz, è il Giorno della memoria: «Se ho ancora paura? No, sono ottimista - risponde - ricordo le ultime parole di rnio padre "Tieni duro, ce la devi fare". Non porto rancore, non porto odio, ma bisogna sempre combattere, anche in Italia, ci sono ancora quelli che negano l'evidenza e la verità. E i ragazzi sono la speranza, solo loro potranno fare in modo che queste cose non succedano più». Dalle 10 l'incontro con le scuole si può seguire in diretta sul canale youtube della Fondazione Museo della Shoah di Roma.
(Il Messaggero, 24 gennaio 2022)
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Esistere e continuare ad esistere - Una voce ebraica nella Roma del dopoguerra
di Claudio Procaccia
In occasione del Giorno della Memoria del 2022 s’intende presentare il numero speciale de La Voce della Comunità Israelitica di Roma del 16 ottobre 1953 (7 hesvan 5716), pubblicato in occasione del decennale della prima deportazione degli ebrei da Roma.
In quella occasione furono riportati anche due contributi importanti dell’allora Rabbino capo di Roma Elio Toaff e del suo predecessore, David Prato, scomparso due anni prima.
Il primo sottolineava, tra le altro, l’importanza di connettere anche i fenomeni più drammatici della storia del popolo ebraico al Disegno divino e invitava a non perdere la volontà di combattere per la giustizia e di utilizzare ogni tragedia per riprendere il cammino della ricerca dell’osservanza delle mitzvoth (i precetti ebraici).
Nel suo intervento, scritto a distanza di due anni dalla deportazione degli ebrei della capitale e dall'eccidio delle Fosse Ardeatine, Prato sosteneva, tra le molte affermazioni di grande rilievo, l’importanza della Memoria come insegnamento fondamentale per la formazione delle future generazioni. Vista con gli occhi odierni sembra un’affermazione scontata, quasi banale. Tuttavia, all’epoca, soprattutto dopo l’amnistia del 22 giugno 1946, vi era una forte volontà generale di dimenticare, di ricominciare senza fare i conti con il recente passato. Ed è per questo che tale monito risultava in controtendenza e molto avanti con i tempi....
(Shalom, 24 gennaio 2022)
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Israele, uno dei paesi più vaccinati al mondo, stabilisce un nuovo record di casi di Covid-19
Il Ministero della Salute israeliano ha annunciato questa settimana che oltre 72.000 persone sono risultate positive al virus del PCC (Partito Comunista Cinese) , il più grande aumento di infezioni dall’inizio della pandemia, scrive The Epoch Times. Il totale dei casi attivi nel paese è salito a quasi 400.000 persone, di cui 533 sono attualmente ricoverate in ospedale in condizioni critiche, secondo una dichiarazione del 19 gennaio pubblicata dal ministero della salute del paese. Il primo ministro israeliano Naftali Bennett – fa sapere The Epoch Times – ha avvertito questo mese che i casi di virus del PCC dovrebbero aumentare rapidamente a causa della diffusione della variante Omicron , presentando dati del governo che indicano che si prevede che da due a quattro milioni di israeliani saranno infettati da COVID-19 durante l’attuale focolaio. Israele, che ha uno dei tassi di vaccinazione Covid-19 più alti al mondo con già quasi la metà dei suoi cittadini che ha ricevuto tre vaccinazioni, è in testa al mondo per nuovi casi giornalieri pro capite, secondo i dati del 20 gennaio. Eran Segal, un biologo del Weizmann Institute of Science, ha verificato questi dati, spiegando che dopo aver confrontato i numeri della media mobile di sette giorni di ciascun paese, Israele è in cima, secondo il Times of Israel, riporta Epoch. Il ministero della salute israeliano ha annunciato la scorsa settimana di aver iniziato a somministrare un secondo richiamo al gruppo di persone più vulnerabili e già 500.000 persone hanno ricevuto la quarta dose. In totale, quasi il 73% degli israeliani ha ricevuto almeno una dose mentre circa il 66% è completamente vaccinato, secondo i dati del governo. Israele è stato tra i primi paesi a lanciare vaccini un anno fa e ha iniziato a offrire ampiamente terze dosi la scorsa estate, così su The Epoch Times. A quanto pare, più si vaccinano e più si ammalano.
(La PekoraNera, 23 gennaio 2022)
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Leader di Shas si dimette in seguito a patteggiamento per frode fiscale
GERUSALEMME - Il leader del partito israeliano di destra Shas, Aryeh Deri, ha presentato le proprie dimissioni alla Knesset, il parlamento monocamerale di Israele, come previsto dal patteggiamento raggiunto con la Procura in seguito alle accuse di evasione fiscale. Lo ha riferito il quotidiano “Times of Israel”.
Aryeh Deri, ex ministro dell'Interno e leader del partito ultra-ortodosso Shas, è stato accusato di evasione fiscale lo scorso anno e grazie al patteggiamento ha potuto evitare il carcere. In base a tale accordo, Deri ha ammesso di aver commesso alcune violazioni tributarie e si è impegnato a pagare una multa di 180 mila shekel (50 mila euro) e a lasciare il suo incarico di membro della Knesset.
Mentre il leader di Shas ha annunciato le sua dimissioni, l'ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta negoziando un patteggiamento per porre fine al suo processo per corruzione. Netanyahu, che dopo 12 anni consecutivi al potere non è riuscito a formare una maggioranza per formare un governo lo scorso giugno ed è ora leader dell'opposizione, si è dichiarato non colpevole di accuse di corruzione, violazione della fiducia e frode in tre casi per i quali è stato incriminato nel 2019.
Al momento i colloqui si sarebbero bloccati sulla richiesta di Netanyahu di evitare di essere interdetto dai pubblici uffici. Netanyahu sta discutendo un accordo con il procuratore generale Avichai Mandelblit in base al quale si sarebbe dichiarato colpevole di una riduzione delle accuse e avrebbe commutato la pena detentiva in servizio alla comunità.
(Agenzia Nova, 23 gennaio 2022)
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L’allontanamento dalla politica di Bibi dovrebbe preoccupare il governo israeliano?
I rumors di un possibile patteggiamento per Netanyahu si susseguono da giorni; molti hanno iniziato a dubitare della stabilità dell’attuale coalizione di governo a fronte della sua possibile uscita dalla scena politica. Ma i timori sono davvero fondati?
di Muriel Di Dio
In Israele non si parla d’altro che di “patteggiamento”, tutti i fari sono puntati su Bibi Netanyahu e sulla possibilità di raggiungere un accordo con l’accusa in cambio di una parziale confessione. Persino gli strettissimi dell’ex leader di governo non sanno cosa consigliargli.
Per quanto un anno fa Netanyahu accusasse lo stato e le forze di polizia di aver tramato un colpo di stato contro di lui, e nessuna fonte ufficiale abbia effettivamente confermato alcuna concretizzazione di accordo con l’accusa, il patteggiamento rimane una via tutt’altro che impercorribile.
Se Bibi stia tatticamente rimanendo in silenzio e cercando di ingraziarsi il Procuratore Generale uscente Avichai Mandelblit, o se l’intenzione di confessare il minimo crimine non gli sia mai passata per la testa è un mistero, certo è che le ripercussioni di una trattativa con lo stato potrebbero essere determinanti.
Non è importante concentrarsi su quali accuse Bibi preferirebbe confessare, né tantomeno passare dettagliatamente in rassegna le relative pene, bensì menzionare, che il Procuratore Generale, pare aver subordinato l’inizio della discussione formale di patteggiamento all’abbandono della vita politica di Netanyahu per almeno 7 anni.
Secondo la Corte Suprema, la “turpitudine morale” è un grave difetto morale che caratterizza la persona che ha commesso un crimine nelle circostanze specifiche della sua commissione. La legge limita l’idoneità di una persona a ricoprire una posizione pubblica se ha commesso un crimine che porta con sé la turpitudine morale.
Se Netanyahu venisse trovato dunque, colpevole di reati di turpitudine morale e condannato a una pena detentiva superiore a tre mesi, la Knesset sarebbe obbligata a squalificarlo dalla carica pubblica e a espellerlo dalla sua stessa formazione. Inoltre, se condannato a più della pena minima, non potrebbe candidarsi alla Knesset per sette ulteriori anni e di riflesso, più formare per lo stesso periodo un nuovo governo.
L’uscita di scena del leader del Likud ha impensierito non pochi analisti che si interessano di politica israeliana, questo principalmente perché la motivazione fondamentale (e forse unica) che ha convinto i vari partiti a dare vita all’attuale colazione di governo – guidata dal duo Bennet-Lapid – è stata fin da principio la cacciata di Bibi dal Palazzo Chigi israeliano.
Malgrado le rassicurazioni di Bennet e Lieberman e la sovra-ostentazione di stabilità e sicurezza, appare chiaro che i membri della coalizione, soprattutto se appartenenti a partiti di minoranza o di “sinistra” hanno appreso la notizia senza troppo entusiasmo.
L’eventuale abbandono della politica per 7 anni di Netanyahu avrebbe un maggiore impatto non solo sul Likud, ma anche sulla coalizione stessa.
In un primo scenario, alcuni legislatori di destra, membri della coalizione, si potrebbero unire agli sforzi dell’opposizione per sciogliere la Knesset e far ritorno alla vecchia base per poi riappacificarsi con il Likud e gli ultraortodossi e mettere fine all’attuale governo, spingendo verso nuove elezioni.
In un secondo scenario, un nuovo governo potrebbe formarsi dall’interno dell’attuale Knesset ed essere affidato a qualcuno di nuovo. La legislazione israeliana infatti lo permette.
Ma siamo così certi che un’eventuale uscita di scena di Bibi possa intimorire così tanto la restante classe politica e avere conseguenze così esplosive?
Se effettivamente segni di indebolimento sono stati ravvisati è bene ricordare che per quanto “strana” e di comodo, questa coalizione al potere ha già ampiamente superato le aspettative iniziali, e secondo opinione di molti è divenuta un’ambigua ma efficace rappresentante in grado di interrompere, almeno temporaneamente, la polarizzazione e l’”incancrenimento” del dibattito politico israeliano.
La forza di una coalizione così diversificata pare essere risieduta nei mesi nell’ampio spettro di opinioni e gruppi che rappresenta e nella forza dell’insieme piuttosto che del singolo membro. Inoltre, proprio a causa dell’impossibilità di trattare questioni diplomatiche più profonde per evidenti divergenze, è stato possibile concentrarsi su situazioni meno complesse ma altrettanto importanti, che hanno dato un segno al popolo che le istituzioni non si sono fermate e che le elezioni anticipate non sono l’unico modo per tentare di stabilizzare il paese.
Rappresentare il maggior elettorato possibile, approvare il bilancio a lungo ritardato e presentare un piano di sviluppo di alto profilo per il Golan – mantenendo essenzialmente per le questioni più ostiche un atteggiamento centrista – è stata una mossa finora vincente.
Il più preoccupato di un eventuale abbandono di Bibi rimarrà certamente Mansour Abbas (Ra’am), che ha potuto per la prima volta portare un partito islamista al governo certamente solo grazie al tentativo di cacciare Netanyahu e che a conti fatti non ha saputo avvicinarsi particolarmente ai palestinesi né progredire nell’assunzione di un’istanza più decisa nei confronti dei potenziali nuovi sostenitori.
Bennet infine, pur senza sottovalutare la minaccia di eventuali spillover causati dal procedimento per corruzione contro Netanyahu, sta cercando di concentrare le sue energie nella costruzione di un nuovo ruolo per Israele in Medio Oriente, mostrando il suo sostengo a Egitto, Giordania, EAU e non solo e mostrandosi aperto a futuri e nuovi scambi con i suoi vicini arabi.
I timori nei confronti dell’esito del maxi-procedimento Netanyahu non sono infondati, ma è bene ricordare che nessuno dei partiti presenti in governo possiede una maggioranza schiacciante che gli permetta di dettare nuove regole, e che i membri della coalizione, freschi di fallimenti e ripetute elezioni non paiono propensi a ricominciare immediatamente la lotta all’ultimo dibattito.
Ampliare la base su cui costruire terreno comune che vada oltre alla persecuzione giudiziaria di Netanyahu dovrebbe rimanere una priorità di questa coalizione, ma il delicato processo di assestamento avviato da qualche mese non dovrebbe essere bruscamente interrotto né sottostimato.
(IARI – Istituto Analisi Relazioni Internazionali, 22 gennaio 2022)
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Se i pasdaran adescano le israeliane su Facebook
di Fabiana Magrì
Un'auto accosta nei pressi della Tayelet, la passeggiata lungo il mare di Tel Aviv. Una donna sui 40 anni scende dal mezzo, al cui volante c'è il marito, per scattare furtivamente fotografie della sede dell'Ambasciata degli Stati Uniti. Un'altra donna, quasi sessantenne, convince il figlio a fare domanda per entrare nell'intelligence militare. Poi filma la cerimonia di arruolamento. Entrambe devono inviare immagini e video a un contatto via whatsapp. Si chiama Rambod Namdar e si è presentato loro come un giovane ebreo di Teheran, dall'aria simpatica e affidabile. Almeno a giudicare dalle foto del profilo Facebook da cui ha chiesto l'amicizia alle donne israeliane, di origini iraniane.
Non è il trailer della seconda stagione di Teheran, ma un'operazione, in piedi da anni, condotta dai servizi segreti e dalla polizia di Israele. Le indagini hanno portato in superficie una rete di spionaggio imbastita da agenti delle Guardie Rivoluzionarie, le cui maglie si intrecciavano con quelle larghissime dei social media. Le piattaforme online erano i luoghi virtuali dove donne israeliane venivano adescate e arruolate come complici più o
meno consapevoli.
Abbondano i dettagli nel rapporto divulgato ai media, locali e internazionali, con lo scopo non secondario dimettere in guardia i cittadini israeliani e invitarli ad alzare il livello di allerta quando ricevono richieste insolite attraverso canali online. Una raccomandazione ribadita dal premier Naftali Bennett, in un messaggio di congratulazioni per il successo dell'operazione congiunta di Shin Bete lahav 433, l'unità della polizia specializzata in criminalità internazionale, che ha evidenziato un punto debole da non sottovalutare.
Le tracce virtuali seminate dal profilo fake di Namdar hanno permesso agli agenti di risalire ai complici in Israele, quattro donne e un uomo, e sottoporli a un'ampia sorveglianza. Raccolte prove sufficienti, li hanno incriminarli e interrogati per valutare l'entità del danno e smantellare l'organizzazione segreta. Alcuni dei fermati hanno confessato di nutrire sospetti sul fatto che dietro Namdar potesse nascondersi un agente dell'intelligence iraniana. Ma secondo lo Shin Bet, nessuno di loro ha mai avuto accesso a materiale segreto che potesse seriamente compromettere la sicurezza nazionale.
(Specchio, 23 gennaio 2022)
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L'autoreferenzialità dell'autorità palestinese
di Celeste Vichi
Sono di pochi giorni fa le dichiarazioni rilasciate dal ministro degli esteri dell’Autorità palestinese Riyad Malki al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con le quali, riproponendo le solite menzogne dell’occupazione e dello stato di “apartheid”, ha richiamato la comunità internazionale a costringere Israele a ritirarsi nei confini precedenti al 1967 e salvare la soluzione di “due popoli in due stati”.
Relegata sempre di più all’irrilevanza internazionale dopo gli Accordi di Abramo, dopo aver rifiutato nel 2000 la più grande e generosa offerta di pace e dopo il ritiro da Gaza nel 2005 da parte di Israele, adesso la leadership palestinese cerca con questa proposta di rilanciare disperatamente una visibilità ormai crepuscolare.
E’ un fatto che la soluzione dei due popoli in due stati è già ampiamente superata dalla realtà. I più grandi paesi arabi sunniti, delineando la contrapposizione tra mondo sciita e sunnita, stanchi del ricatto palestinese, hanno compreso che lo Stato Ebraico non è un ostacolo alla pace, ma casomai un’occasione di sviluppo in tutta l’area e prova ne sono le partnership commerciali, culturali, di ricerca avviate con EAU, Bahrein, Marocco, Sudan e probabilmente presto anche l’Indonesia.
I nuovi equilibri sono ormai un dato di fatto, con buona pace del ministro Malki.
Il “desiderio di pace” non può non essere decontestualizzato dal fatto che il popolo palestinese è ostaggio di un regime di terrore e di gruppi di potere la cui finalità non è solamente cancellare lo Stato di Israele, ma l’eliminazione fisica dei suoi cittadini. Rientrare sui confini del ‘67 vorrebbe dire rendere assolutamente indifendibile lo Stato di Israele. Le alture del Golan, un tempo sede delle artiglierie siriane che bombardavano le pianure israeliane, sarebbero certamente oggi utilizzate dagli Hezbollah finanziati dall’Iran. Questi gruppi di potere vivono, dunque, del conflitto e per il conflitto, e la loro stessa esistenza è legata ad alimentare le tensioni con lo Stato ebraico. Lo dimostra il fatto che lo scorso maggio sono stati lanciati sui civili israeliani inermi oltre 2.900 razzi che, se non fosse per i 450 ricaduti sullo stesso territorio palestinese e le 1150 intercettazioni Iron Dome, avrebbero provocato una carneficina. L’autore di questa aggressione ha un nome preciso, e non è il popolo palestinese, ma un’associazione terroristica riconosciuta a livello internazionale e dall’Unione Europea, e rispetto alla quale lo Stato di Israele ha avuto tutto il diritto di difendere i propri cittadini e di continuare a farlo.
(Shalom, 22 gennaio 2022)
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Kuwait: giovane tennista boicotta la competizione per la presenza di un avversario israeliano
Gli attivisti dei social media hanno espresso il proprio apprezzamento per la scelta di un giovane tennista kuwaitiano di ritirarsi da una competizione internazionale per non dover affrontare un avversario israeliano.
Mohammad al-Awadi si è ritirato dal J4 Dubai Tournament 2022 in corso negli Emirati Arabi Uniti dal 17 al 22 gennaio 2022, ha riferito la rete satellitare in lingua araba Al-Alam.
Gli attivisti dei social media hanno lodato la mossa descrivendola come un rifiuto della normalizzazione dei legami dei paesi islamici con gli occupanti sionisti della Palestina.
Yusuf al-Sanad, membro dell'Unione degli studenti del Golfo Persico, ha scritto su Twitter che l'atleta kuwaitiano ha annunciato il suo ritiro dalla competizione in solidarietà con il popolo palestinese e in segno di rifiuto del terrorismo del regime sionista.
Osama al-Shaheen, un membro del parlamento del Kuwait, ha twittato: "Saluti e ringraziamenti all'eroe kuwaitiano Mohammad al-Awadi per il suo rifiuto di normalizzare le relazioni con i sionisti".
La Youths for Al-Quds Society ha scritto sulla sua pagina Instagram che la normalizzazione con il regime israeliano è un atto di tradimento e che la mossa del tennista kuwaitiano è degna di lode.
(IQNA, Agenzia Internazionale del Sacro Corano, 22 gennaio 2022)
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Il mio servo Giobbe (6)
di Marcello Cicchese
Riflessioni sul libro di Giobbe.
Il libro di Giobbe è unico tra i libri della Bibbia. E’ scritto in ebraico e appartiene indubbiamente al patrimonio di Israele, eppure non contiene alcun nome, alcun riferimento alla realtà di Israele, né storico né geografico. Non compaiono i patriarchi, non compare Mosè e, soprattutto, non compare nessun riferimento diretto o indiretto alla Torà. Ma allora, che ci sta a fare questo libro nelle librerie dei rabbini? A questa domanda potranno rispondere loro, se vogliono, mentre nell’ampio mondo della cultura il libro è visto come un frutto geniale dell’immaginazione umana. A questa fantasia ciascuno può dare il colore che preferisce: religioso o laico, filosofico o pedagogico, serioso o scherzoso, l'importante è che il viaggio interpretativo si muova su una linea che parte dalla terra e ritorna alla terra, proprio come un aeroplano. E’ la lettura antropocentrica della Bibbia. Ce ne sono di molti tipi. La parte di viaggio che si svolge nell’aria delle idee universali può toccare diverse punte, ma partenza e arrivo sono sempre gli stessi. La lettura teocentrica sostiene invece che il corretto viaggio interpretativo debba svolgersi dal cielo alla terra. Nel nostro caso, il libro dev’essere visto come rivelazione di un intervento di Dio nella storia degli uomini. Cercare di capire il libro significa tentare di interpretare la natura e il motivo di questo intervento inserendolo nella totalità della rivelazione di Dio come esposta nella Bibbia. E’ quello che ci proponiamo di continuare a fare. L’interpretazione che ne verrà fuori non pretende di essere l’unica o la migliore, ma le altre interpretazioni con cui vale la pena di mettersi a confronto sono soltanto quelle che si muovono sulla stessa linea biblico-teocentrica. Dedicarsi a letture filosofico-romanzate del libro di Giobbe, inteso come geniale poema frutto dell’arte umana, è solo un’irritante perdita di tempo. Il Don Chisciotte della Mancia di Miguel De Cervantes può essere ammirato come geniale produzione dell’immaginazione umana, la Divina Commedia di Dante Alighieri invece no. La realtà distorta e romanzata inquina la realtà dei fatti e contamina la figura dell’immaginazione. Se il libro che stiamo considerando è storia rivelata da Dio, allora Giobbe fa parte della storia con maggiore certezza di Giulio Cesare e Napoleone. Nel libro non compare mai Israele, dunque i fatti ivi descritti devono appartenere alla sua preistoria, e precisamente ai circa cinquecento anni che vanno dalla fine del diluvio alla chiamata di Abramo. Il Signore avrà voluto consegnare al suo popolo, attraverso l’ispirazione di un suo servitore rimasto sconosciuto, la rivelazione di una vicenda che era importante fosse conosciuta da Israele, e al tempo dovuto in tutto il mondo. In questa linea, una corretta interpretazione deve escludere che il libro sia mozzato di testa e coda, come fanno molti, e che sia sviscerato dall’organismo vivo in cui si trova inserito, cioè la Bibbia. Esaminando l’Antico Testamento, si trova che Giobbe viene citato esplicitamente soltanto nel libro di Ezechiele, al capitolo 14:
- La parola dell'Eterno mi fu ancora rivolta in questi termini:
- 'Figlio d'uomo, se un paese peccasse contro di me commettendo qualche prevaricazione, e io stendessi la mia mano contro di lui, e gli spezzassi il sostegno del pane, e gli mandassi contro la fame, e ne sterminassi uomini e bestie,
- e in mezzo ad esso si trovassero questi tre uomini: Noè, Daniele e Giobbe, questi non salverebbero che le loro persone, per la loro giustizia, dice il Signore, l'Eterno.
- Se io facessi passare per quel paese delle male bestie che lo spopolassero, sì ch'esso rimanesse un deserto dove nessuno passasse più a motivo di quelle bestie,
- se in mezzo ad esso si trovassero quei tre uomini, com'è vero ch'io vivo, dice il Signore, l'Eterno, essi non salverebbero né figli né figlie; essi soltanto sarebbero salvati, ma il paese rimarrebbe desolato.
- O se io facessi venire la spada contro quel paese, e dicessi: - Passi la spada per il paese! - in modo che ne sterminasse uomini e bestie,
- se in mezzo ad esso si trovassero quei tre uomini, com'è vero ch'io vivo, dice il Signore, l'Eterno, essi non salverebbero né figli né figlie, ma essi soltanto sarebbero salvati.
- O se contro quel paese mandassi la peste, e riversassi su d'esso il mio furore fino al sangue, per sterminare uomini e bestie,
- se in mezzo ad esso si trovassero Noè, Daniele e Giobbe, com'è vero ch'io vivo, dice il Signore, l'Eterno, essi non salverebbero né figli né figlie; non salverebbero che le loro persone, per la loro giustizia.
- Poiché così parla il Signore, l'Eterno: Non altrimenti avverrà quando manderò contro Gerusalemme i miei quattro tremendi giudizi: la spada, la fame, le male bestie e la peste, per sterminarne uomini e bestie.
- Ma ecco, ne scamperà un residuo, dei figli e delle figlie, che saranno portati fuori, che giungeranno a voi, e di cui vedrete la condotta e le azioni; e allora vi consolerete del male che io faccio venire su Gerusalemme, di tutto quello che faccio venire su di lei.
- Essi vi consoleranno quando vedrete la loro condotta e le loro azioni, e riconoscerete che, non senza ragione, io faccio quello che faccio contro di lei, dice il Signore, l'Eterno'.
Dovendo annunciare al profeta Ezechiele il tremendo giudizio che sarebbe presto caduto su Gerusalemme, il Signore comunica al profeta che soltanto un piccolo residuo scamperà. L'esempio portato sta a significare che i profughi in Babilonia a cui Ezechiele si rivolge non devono sperare che la presenza di qualche giusto in Gerusalemme possa assicurare la salvezza dell'intera città: i giusti ci saranno, ma saranno pochi e soltanto loro scamperanno. Fa riflettere allora che come esempio di giusti Dio non abbia scelto alcun grande personaggio della storia d'Israele. Noè precede la formazione della nazione e Daniele rappresenta la fine di un certo modo di essere nazione del passato e ne annuncia profeticamente uno nuovo che si realizzerà nel futuro. Giobbe, che non ha avuto alcun rapporto con Israele, si trova nel mezzo, in una zona temporale tra Noè ed Abramo, quando gli uomini sembravano in un certo senso abbandonati a se stessi, con l'unica indicazione di moltiplicarsi e disperdersi sulla faccia della terra. E' un periodo su cui la Bibbia dice poco, ma teologi e biblisti non dicono quasi nulla. Forse potrebbe essere proprio la figura di Giobbe a darci qualche indicazione. Nel Nuovo Testamento Giobbe è citato una sola volta, nella lettera di Giacomo, capitolo 4:
- Prendete, fratelli, per esempio di sofferenza e di pazienza i profeti che han parlato nel nome del Signore.
- Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sofferto con costanza. Avete udito parlare della costanza di Giobbe, e avete veduto la fine riserbatagli dal Signore, perché il Signore è pieno di compassione e misericordioso.
Giobbe è nominato insieme ai profeti, dunque come qualcuno a cui Dio ha dato un incarico nel compimento del suo progetto storico, e in quanto tale anche lui ha dovuto soffrire, e lo ha fatto con costanza. Questo sta a significare, ancora una volta, che non è la generica sofferenza umana del personaggio a dover essere oggetto di attenzione, ma il motivo per cui in quel particolare momento della storia ha dovuto percorrere un così tremendo cammino di tribolazione. E prendere atto che lo ha sopportato con costanza. Tornando all'Antico Testamento, nella preistoria israeliana c'è un personaggio ben noto, ma anche abbastanza misterioso. Si trova al capitolo 14 della Genesi:
- Melchisedec, re di Salem, fece portare del pane e del vino. Egli era sacerdote del Dio altissimo.
- Ed egli benedisse Abramo, dicendo: «Benedetto sia Abramo dal Dio altissimo, padrone dei cieli e della terra!
- Benedetto sia il Dio altissimo, che t'ha dato in mano i tuoi nemici!» E Abramo gli diede la decima di ogni cosa.
Questo personaggio compare ancora nel Salmo 110 e poi nel Nuovo Testamento, dove viene presentato nella Lettera agli Ebrei come figura emblematica del Messia Gesù. Qui vogliamo soltanto far notare che per Abramo è stato naturale riconoscere in Melchisedec un sacerdote a cui dare "la decima di ogni cosa". Dunque nella Bibbia si parla di sacerdoti e decime anche prima di Abramo e prima ancora delle leggi mosaiche sul sacerdozio. E si parla anche di altare, olocausti, animali puri e impuri:
Noè edificò un altare all'Eterno; prese d'ogni specie d'animali puri e d'ogni specie d'uccelli puri, e offrì olocausti sull'altare (Genesi 8:20).
Questo fa pensare che nel tempo tra Noè ed Abramo era presente una vita religiosa, indubbiamente soggetta a forme di idolatria satanica ma in mezzo alla quale Dio ha compiuto i suoi interventi di parola e azione, sia al fine di contenere il male, che prima di Noè aveva raggiunto dimensioni insopportabili, sia per mandare avanti, nei tempi storici e nei modi dovuti, il piano di redenzione che si era proposto. Un piano a cui si potrebbe dare il nome di "riconquista della terra" per sottolineare la forma "politica" dell'agire di Dio, cioè il suo modo concreto di agire nella storia degli uomini interagendo con loro mediante persone e in forme da lui scelte. In questa chiave di lettura, Giobbe appare come un interlocutore scelto da Dio per mandare avanti il suo progetto in un periodo intermedio che va da Noè, strumento di non distruzione totale dell'originaria creazione degenerata, ad Abramo, strumento di ricostruzione di un nuovo mondo che sia il compimento dell'intenzione originaria di Dio. Si propone dunque, detto con una formula sintetica, una "lettura noachica" del libro di Giobbe, cioè un modo di vedere quella storia nel quadro di una "dispensazione" in cui non valgono soltanto norme dettate dalla coscienza personale, ma anche disposizioni fatte arrivare da Dio alla società in diversi modi. L'ebraismo tradizionale sostiene che le leggi di Mosè sono state date in dono a Israele, mentre al resto dell'umanità sarebbero stati lasciati i "sette precetti noachidi", cioè provenienti da Noè, che qui non elenchiamo. Ci sarebbe dunque una "legge di Mosè" per soli ebrei e una "legge di Noè" per tutti. Senza discutere la validità di questa impostazione ebraica, qui si vuol dire che è proprio dal libro di Giobbe che si può desumere qualcosa sul modo in cui Dio ha fatto arrivare agli uomini le sue indicazioni morali nel tempo che va da Noè ad Abramo. Le dispute di Giobbe con i suoi amici sarebbero quindi da vedere come un appassionato dibattito su come si devono interpretare le norme morali date da Dio. Ci si può chiedere infatti: che tipo di etica è quella su cui si basano i personaggi del libro? Da dove proviene? Da quale catalogo di norme? A quali fatti storici si riferisce, per trarne stimoli di condotta? In quei colloqui si trovano risonanze sparse un po' in tutta la Bibbia, a conferma che essa ha un unico Autore, ma se il libro di Giobbe parla di fatti che precedono Abramo, allora più che dare istruzioni su come gli uomini oggi si devono comportare davanti a Dio, il libro mostra come Dio ha operato in quel periodo nel suo interagire con gli uomini. Le controversie tra Giobbe e i suoi amici si svolgerebbero dunque in un tempo in cui tra gli uomini era già presente una certa conoscenza di Dio e di ciò che Egli vuole. Di questo discutono con passione Giobbe e i suoi amici, senza riuscire a trovare una sintesi che soddisfi tutte le parti. E per un tempo insopportabilmente lungo, Dio tace. Lascia che gli uomini discutano fra di loro, senza disturbarli. Dio comincia a intervenire in incognito quando fa parlare il giovane Elihu. Il quale come prima cosa "s'accese d'ira" contro i tre amici, perché pur essendo anziani ed esperti non erano stati capaci di rispondere in modo adeguato a Giobbe. Allora ci prova lui. E bisogna dire che ci riesce, perché è uno strumento che Dio sceglie per venire in soccorso del suo servo Giobbe che sta pericolosamente sbandando. Perché Dio ama il suo servo. E non vuole che Giobbe, dopo avergli fatto vincere la sfida con Satana, vada a finire tra le grinfie del nemico perché "moltiplica le sue parole contro Dio" (34:37). Nel suo rimprovero a Giobbe, Elihu ci fa capire che anche in quel tempo Dio non aveva lasciato gli uomini senza segni della sua presenza e indicazioni della sua volontà. Dal capitolo 33:
- Dio parla, una volta, e anche due, ma l’uomo non ci bada;
- parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
- allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
- per distogliere l’uomo dal suo modo d’agire e tenere lontano da lui la superbia;
- per salvargli l’anima dalla fossa, la vita dalla freccia mortale.
E più avanti, nel capitolo 36:
- Se gli uomini sono stretti da catene, se sono presi nei legami dell’afflizione,
- Dio fa loro conoscere la loro condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
- egli apre così i loro orecchi ai suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
Di questo tipo potrebbero essere state le "norme noachide" che valevano prima di Abramo. In questa chiave si potrebbero rileggere tutti gli interventi di Giobbe e dei i suoi amici, e accorgersi che tutti e quattro dicono cose anche molto sensate, che noi stessi oggi ripeteremmo in certe occasioni. Loro però non erano in grado, né una parte né l'altra, di metterle in giusta relazione con il fatto enorme e inaspettato del crollo totale di un colosso come Giobbe. E noi, sappiamo farlo?
(6) continua
(Notizie su Israele, 23 gennaio 2022)
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Insulti iraniani: «Sauditi ebrei»
Alto ufficiale di Teheran dice che i re d'Arabia hanno origini giudaiche.
di Daniel Mosseri
Altro che Custode delle due Sacre Moschee, re Salman bin Abdulaziz Al Saud, sovrano assoluto d'Arabia Saudita, non è un principe dell'islam ma un discendente degli ebrei che hanno abitato la Penisola arabica a partire dal II secolo d.C. e scomparsi 500 anni dopo con l'avvento dell'islam. La scoperta non fa seguito a una ricerca storica o genealogica ma è il frutto di un'intuizione del generale iraniano Alireza Tangsiri dei Guardiani della rivoluzione.
L'alto ufficiale del braccio militare più federale alla Guida suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, ha parlato delle origini degli Al-Saud giorni fa sulla persiana Bushehr TV. «Non possiamo sopportare di vedere l'ingiustizia in un Paese musulmano che è perpetrata dai sionisti e dal seme degli ebrei», ha dichiarato il generale. «Questi sono gli stessi ebrei i cui cuori non si sono mai allineati con l'islam, e nemmeno con il Profeta ai suoi tempi». Tangsiri ha quindi ricordato le battaglie di 1400 anni fa tra i musulmani e gli ebrei nella regione ma anche il «rancore verso l'imam Hussein a Karbala».
Nella città mesopotamica la tribù di Hussein, considerato il terzo imam dello sciismo, fu trucidata dal clan degli omayyadi. «Questo rancore esiste ancora», ha proseguito il campione del fronte sciita dicendo finalmente una cosa vera: Teheran guida gli sciiti e Riad i sunniti, combattendo una guerra per procura in tutta la regione, a cominciare dallo Yemen dove sostengono i fronti opposti.
Da cui la conclusione apertamente antisemita: «Il clan Saud è davvero musulmano? Sono gli stessi ebrei che erano in Arabia allora».
Libero, 22 gennaio 2022)
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Scienziato israeliano esperto di vaccini: Chiudere le scuole è stato il più grande errore durante la pandemia
In un'intervista con Unherd, il professor Cyrille Cohen, capo del dipartimento di immunologia alla Bar Ilan University di Israele e membro del comitato consultivo per i vaccini COVID per il governo israeliano, ha ammesso che la chiusura delle scuole è stato uno dei più grandi errori fatti.
Il mese scorso Israele ha lanciato la quarta dose anti COVID, nonostante i rapporti secondo cui una quarta dose potrebbe effettivamente danneggiare il sistema immunitario e i dati che dimostrano che dosi maggiori rendono le persone più suscettibili a contrarre il virus. Diverse settimane dall’inizio della campagna di vaccinazione con il richiamo, Israele sta assistendo a un aumento dei casi di Omicron tra segnalazioni che suggeriscono che anche gli israeliani vaccinati quattro volte stanno prendendo il virus. In un’intervista con Unherd, il professor Cyrille Cohen, capo del dipartimento di immunologia alla Bar Ilan University di Israele e membro del comitato consultivo per i vaccini COVID per il governo israeliano, ha parlato del sistema dei passaporti vaccinali di Israele, dei problemi di efficacia del vaccino anti COVID e degli errori che, a suo dire, hanno fatto gli scienziati del governo durante la pandemia. Cohen, indicato da Unherd come una delle “massime autorità” israeliane sui vaccini anti COVID, ha spiegato come i vaccinati e i non vaccinati “virtualmente” trasmettano il virus allo stesso tasso, e che per questo il Green Pass, il passaporto vaccinale israeliano, non è rilevante.
“Non credo che abbia senso mantenere il Green Pass”, ha detto Cohen.
Ha anche ammesso che l’obiettivo della politica del Green Pass di Israele non era tanto di prevenire l’infezione e la malattia, quanto di costringere la gente a vaccinarsi. Ha detto Cohen:
“Il Green Pass non è necessario. E non è un segreto, ma non serve necessariamente per prevenire la trasmissione. Serve anche per incoraggiare la gente a vaccinarsi. E non voglio entrare negli aspetti politici del Green Pass, ma questa è una realtà”.
Cohen ha detto che chiudere le scuole è stato uno dei più grandi errori fatti dal suo governo durante la pandemia. “Non avremmo mai dovuto toccare l’istruzione… questo avrà ripercussioni in futuro”, ha detto. Si ipotizza che Israele continui ad aggiungere richiami senza dati a sostegno perché Israele è un “laboratorio” per i vaccini anti COVID, in particolare per quelli Pfizer. Pfizer ha un contratto esclusivo (con molte sezioni secretate) con Israele, il che ha portato alcuni a suggerire che ci sia un incentivo finanziario o contrattuale per continuare ad aggiungere booster al programma vaccinale COVID. Il dottor Robert Malone, uno dei primi sviluppatori della tecnologia dei vaccini mRNA, ha fatto eco a questo durante un’intervista con il podcaster americano Joe Rogan:
“In questi giorni il nome del paese è in realtà ‘Pfizreal’. Non è più Israele. Il governo ha un accordo finanziario con Pfizer e hanno solo il vaccino Pfizer”.
L’anno scorso, un dirigente della Pfizer ha definito Israele come “una sorta di laboratorio” per i vaccini anti COVID.
(Defender, 22 gennaio 2022)
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Che cos'è il "Lodo Moro" e quali furono i rapporti tra Italia e terrorismo palestinese
Circa 30mila documenti da archivi italiani ed europei per confermare l'esistenza del cosiddetto "Lodo Moro" e smontare una ad una le leggende proliferategli attorno. Il poderoso lavoro della professoressa Lomellini.
di Gianluca Zanella
“La storia della Repubblica italiana è intessuta di varie leggende. Una di queste è il Lodo Moro”. Questo l’incipit del libro Il Lodo Moro: terrorismo e ragion di Stato 1969 – 1986, pubblicato da Laterza e firmato dalla professoressa universitaria e ricercatrice Valentine Lomellini. Un incipit decisamente adeguato, se si pensa all’alone di mistero che da sempre aleggia attorno a uno dei temi maggiormente dibattuti da chiunque si occupi – per lavoro o per passione – di storia contemporanea. Un accordo sottobanco a opera dei servizi segreti effettuato su mandato di Aldo Moro per arginare il dilagante terrorismo arabo-palestinese in Italia; un patto con il diavolo; una leggenda, per l’appunto. In effetti, l’interpretazione di cosa sia stato – dando per buona la sua esistenza – il cosiddetto Lodo Moro varia sensibilmente a seconda dei punti di vista, che possono essere di volta in volta condizionati da opinioni personali, studi effettuati, tendenze politiche e chi più ne ha, più ne metta. Con questo libro, la professoressa Lomellini tenta un’operazione quanto mai coraggiosa nell’epoca dell’informazione a portata di tutti, soprattutto di chi l’informazione la vorrebbe piegata ai propri bisogni contingenti: tenta (e ci riesce) di spiegare cosa sia stato il Lodo Moro non secondo la sua personale opinione, ma carte alla mano, dopo un lavoro durato sei anni e la consultazione di circa 30mila pagine di documenti andati a scovare in più di venti archivi tra Italia ed Europa. Ne esce un lavoro storico rigoroso, uno spaccato nitido degli anni della strategia della tensione, delle stragi, del terrorismo politico. Anni in cui l’Italia venne in qualche modo “risparmiata” dal terrorismo mediorientale, fatta eccezione per alcuni sanguinosi attentati che hanno lasciato a terra circa sessanta morti (Fiumicino, 17 dicembre 1973; sinagoga di Roma, 9 ottobre 1982; Fiumicino, 27 dicembre 1985; Achille Lauro, 8-10 ottobre 1985; Fiumicino, 27 dicembre 1985). Un libro, questo, che chiarisce anche – e forse soprattutto – l’origine di un nome per certi aspetti fuorviante. È leggendo queste pagine che in effetti si scopre come il "Lodo Moro" non sia in realtà ascrivibile solamente allo statista pugliese ucciso il 9 maggio 1978, ma a una pluralità di soggetti. In occasione dell’uscita nelle librerie, abbiamo intervistato l’autrice.
- Professoressa Lomellini, come nasce questo libro? È una bella domanda. In realtà nasce quasi per caso. Ho lavorato per anni a una ricostruzione comparata delle politiche di Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania rispetto al terrorismo arabo-palestinese dalla strage di Monaco alla strage di Lockerbie. Portando avanti questo studio ho potuto visionare una serie di documenti che mi orientavano a rivalutare, o meglio, ripensare la questione del Lodo e la presunta eccezionalità del “caso” italiano. Da qui, soprattutto da un documento del 23 ottobre 1973 che riguarda la trattativa tra Italia e Olp rispetto ad alcuni terroristi in quel momento carcerati nel nostro Paese, ho iniziato a interrogarmi sul tema e a chiedermi perché il Lodo Moro si chiami in questo modo, quando in realtà tutti i documenti – sia negli archivi italiani, sia all’estero – indicavano che il Lodo non era un “Lodo Moro”, ma il risultato di un lavoro diplomatico portato avanti da diverse persone.
- Nel corso di queste ricerche ha trovato qualcosa che non si aspettava di trovare? Ci sono diverse novità in questo libro. Abitualmente il lodo è stato presentato come una sorta di accordo stretto in sordina; è stato chiamato anche “Lodo d’intelligence”. In realtà con questo lavoro ricostruisco intanto l’esistenza effettiva del Lodo e, in secondo luogo, il fatto che non si è trattato di una devianza delle politiche dello Stato, ma che è stato una vera e propria politica dello Stato. Dimostro che la sua paternità non è di Aldo Moro, ma corale - sono coinvolti in queste vicende, tanto per fare alcuni nomi, Mariano Rumor, Giulio Andreotti, Bettino Craxi – e dimostro che gli interlocutori non sono quelli che fino ad oggi si è pensato che fossero. Si è sempre parlato di un accordo stretto tra l’Italia e la resistenza palestinese, ma in realtà l’accordo è tra Italia, resistenza palestinese, ma – soprattutto dal 1973 in avanti – con una serie di Stati “sponsor” del terrorismo internazionale: Libia, Iraq e Siria.
- Perché allora questo accordo viene attribuito al solo Aldo Moro? L’accordo viene definito “Lodo Moro” in una serie di passaggi. La definizione si sviluppa tra gli anni Ottanta e Novanta, quando comincia a emergere l’idea generica che fosse esistito un accordo tra Italia e resistenza palestinese in generale. Questo soprattutto a seguito di una serie di articoli pubblicati dal settimanale Panorama. Il momento in cui però nasce l’espressione che dà il titolo al libro è a metà degli anni Duemila, quando il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, prima in una lettera a Vincenzo Fragalà, membro della commissione Stragi e deputato di An, e poi in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera nel 2008, parla del “Lodo Moro” e ne parla per spiegare quelle che secondo lui sarebbero state le vere ragioni della strage di Bologna.
- Dunque si tratta fondamentalmente di un equivoco? Come molti altri quando si affronta questo argomento. Tanto per fare un esempio: il Lodo non si è mai concretizzato nel mancato arresto di guerriglieri sul suolo italiano, non c’è una sorta di “divieto” di arresto o di impunità dei terroristi. I guerriglieri vengono sempre arrestati e poi, grazie all’intervento degli Interni, degli Esteri e alla collaborazione di alcuni magistrati e addirittura – nel 1976 – dell’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che dà la grazia ad alcuni terroristi libici, vengono liberati. Dunque il Lodo si concretizza in un processo agevolato, ma mai nella prevenzione dell’arresto. È una politica che si sviluppa ad altissimo livello e una delle tesi di questo volume è che ci sia una grossa strumentalizzazione della figura di Moro. Nel libro riporto un documento dell’autunno 1971 in cui un organismo interno al Ministero degli Interni retto da Franco Restivo, nel governo Rumor, sostiene che Moro finanzi Al-Fatah. Questo è un indice della forte strumentalizzazione che è stata fatta nella lettura dell’apertura da parte di Aldo Moro rispetto alla politica mediterranea e alla questione israelo-palestinese. E se consideriamo che in quel momento Moro era ministro degli Esteri, ci accorgiamo di quanto fosse grave e inquietante che circolassero certe informazioni date per attendibili.
- Si aspetta delle critiche? Mi piace confrontarmi con temi complessi, che hanno l’obiettivo di poter far riflettere su nodi complicati della nostra storia nazionale. Dunque sì, mi attendo critiche da ambo le parti. Ma significherebbe che ho fatto bene il mio lavoro.
(il Giornale, 22 gennaio 2022)
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Agli ebrei di Kreskol nessuno ha detto che c’è stata la Shoah
In un remoto shtetl polacco non si sa nulla della guerra, ma una donna scompare e bisogna andare a cercarla.
di Elena Loewenthal
Agli ebrei di Kreskol nessuno ha detto che c’è stata la Shoah
Lo shtetl, la «piccola città» ebraica sparpagliata per l’Europa dell’est e annientata dall’orrore nazista, è un luogo tanto reale quanto immaginario. E tale era anche al tempo della sua grande letteratura, un’epica ironica e malinconica che deve tanto a scrittori quali Mendele Mocher Sefarim o Yaakov Leib Peretz ma altrettanto alla lingua in cui si esprimeva – lo yiddish– e a un corpus di narrazioni popolari vecchio come il mondo o quasi.Così come lo shtetl, anche lo yiddish e tutto il mondo che gli apparteneva sono spariti, finiti in fumo.
Questa distruzione ha lasciato dietro di sé tanto vuoto quanta nostalgia. Ci si torna a quel mondo, con il desiderio di ricrearlo, se non nella realtà certo nella fantasia. In quel che ci è stato raccontato e in quel che si prova a immaginare. L’hanno fatto in tanti, a incominciare da Isaac B. Singer, e lo fa ora nel suo romanzo di esordio Max Gross, giornalista americano che ha lavorato per il Forward e il New York Post, con il suo Lo shtetl perduto, pubblicato ora in italiano da e/o nella brillante traduzione di Silvia Montis.
Gross è nato nel 1978, dunque appartiene alla seconda generazione dopo la Shoah, per la quale tutto si riverbera nella voce ormai fragile dei nonni, in un’eco lontana. Per raccontare la storia che racconta, per riempirla di dolcezza e ironia, di vita e cose, ha giocato molto di fantasia. E lo ha fatto bene, producendo un romanzo che non ha la pretesa di essere autentico ma che trasforma la piccola città di Kreskol – il cuore della storia – in un luogo abitato non solo dai protagonisti ma anche da tutti i lettori che abbiano voglia di immergersi in queste pagine con lo spirito giusto, senza puzza sotto il naso né pretese di una impossibile autenticità.
La storia è più o meno questa, secondo un modello certo non inventato su due piedi ma comunque sempre efficace. Un po’ come quella del soldato giapponese trovato nella giungla quarant’anni dopo la fine della guerra, che però non sapeva che era finita. Kreskol è un’amena piccola cittadina ebraica della Polonia orientale circondata da boschi fitti e invalicabili, che vive da secoli ignara di quel che succede oltre quei boschi. Siamo ormai nel dopoguerra, con tutto ciò che ha portato con sé e soprattutto con quel che la guerra e lo sterminio nazista si sono portati via. Ma gli abitanti di Kreskol non sanno nulla di tutto ciò, continuano a vivere nello stesso modo come se nulla fosse successo. E per loro, infatti, nulla è successo se non fosse che una bella mattina Pesha Lindauer, una giovane donna piuttosto volitiva che ha appena preteso il divorzio dal marito per ragioni che nessuno a parte lei sa, sparisce nel nulla. Non resta altro da fare che mandarla a cercare. E chi meglio del povero Yankel, un ragazzotto dal destino avverso e minime pretese, potrebbe fungere all’uopo e diventare l’ardito esploratore del mondo che sta al di là dei boschi, per ritrovare Pesha e riportarla a casa? Comincia così l’avventura del nostro eroe, un po’ Don Chisciotte un po’ scemo del villaggio, alla scoperta del grande mondo – cominciando da Smolskie, che se per il mondo intero è una piccola città anch’essa, solo un po’ meno piccola di Kreskol, per lui è un universo ignoto dove succedono cose incredibili come la bibita che ha dentro cose che saltano sulla lingua (una lattina di Coca Cola, ma chi ha mai visto una bevanda frizzante, a Kreskol?).
E se è vero che Yankel sembra talvolta più uscito da Chelm – lo shtetl fatto tutto di scemi del villaggio, topos letterario e sede di un vastissimo repertorio di storielle ebraiche – lo è non meno il fatto che fra prigione, polizia, manicomio e lettino dello psicanalista, Yankel finisce per cavarsela niente affatto male. E innescare tutta una serie di eventi che portano, per così dire, al centro del mondo proprio la sua Kreskol, la piccola città dove nessuno sa nulla della guerra, delle persecuzioni, dei campi di sterminio.
Lo shtetl perduto è un romanzo divertente, intelligente, ben scritto. Che sa però anche portare al cuore di quella storia, della storia cui tutti apparteniamo perché sta purtroppo al cuore dell’Europa, ponendoci di fronte all’atroce assurdità di quanto è successo attraverso gli occhi di Yankel: « “Ma come possono essere morti tutti?”, ribatté Yankel. “Dovevano essere centinaia di migliaia”. “Ce n’erano milioni’, disse Fishbein. “Ma ora non più”. “Che mi dice degli ebrei di Cracovia?”. “Uccisi”. “Varsavia?”. “Uccisi”. “Byalistok?”. “Uccisi anche loro. Non ci sono più ebrei in nessuna di queste città. Solo poche centinaia”. “Su, andiamo!”, disse Yankel con un cenno della mano. “Mi prende in giro”». Di fronte a quel passato tremendamente vero, sì, siamo tutti increduli come lui. E dobbiamo continuare a restare sgomenti, dalla storia e dalla nostra incredulità.
(La Stampa, 22 gennaio 2022)
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Il patteggiamento giudiziario di Netanyahu che potrebbe far cadere il governo
di Ugo Volli
La politica interna israeliana negli ultimi anni è come una serie tv: ripetitiva, riempita dagli stessi personaggi e da situazioni molto simile, ma piena di colpi di scena, di rovesciamenti delle relazioni, di nuovi inizi e soluzioni definitive che durano pochissimo. Per ricordare solo alcune tappe, in meno di due anni ci sono state quattro elezioni, il distacco dalla destra prima di Lieberman, poi di Saar e Bennett, l’invenzione e poi la rottura dei bianco-azzurri, il governo di unità fra Netanyahu e Gantz miseramente fallito, il nuovo incredibile governo di sinistra-destra-centro sionisti-antisionisti che dopo sei mesi dalla sua nascita già traballa paurosamente… Non vi è nulla di strano in queste giravolte, la democrazia si distingue dalla dittature perché governi e maggioranze possono cambiare, i potenti perdono prima o poi i loro ruoli, le varie parti sociali sono legittimate a perseguire le loro convinzioni e i loro interessi - tutte cose che sappiamo benissimo anche in Italia. Come ha spiegato Churchill, è un pessimo sistema, pieno di difetti - solo che tutti gli altri sono molto peggio.
Adesso la scena politica israeliana si prepara a un nuovo colpo di scena annunciato ma non ancora definito, che riguarda l’ex primo ministro e ora capo dell’opposizione, Benjamin Netanyahu. Come si sa, la sua caduta dal governo è stata favorita da una serie di inchieste per corruzione e “abuso di fiducia” perseguite con grande determinazione dal procuratore generale Avichai Manderblit. Arrivate al dibattimento, le accuse hanno mostrato notevoli debolezze. Vi sono stati testimoni chiave dell’accusa che hanno in sostanza spiegato di essere stati obbligati dalla polizia con metodi pochissimo ortodossi a fare dichiarazioni contro Netanyahu, sono emerse carte che la pubblica accusa ha nascosto alla difesa contro la legge, resta il dubbio che si possa definire corruzione un discorso fra un politico e un editore su come migliorare la copertura stampa del governo, semplici sondaggi politici mai arrivati alla fase della trattativa pratica e in cui non è mai entrato in gioco il denaro.
Dunque l’accusa rischia di perdere il processo, ma Netanyahu rischia anche lui, perché è oggetto di una gigantesca campagna ostile politica e di stampa, che ha coinvolto profondamente il sistema legale. Se perdesse la causa, non dovrebbe mettere in conto solo un insuccesso professionale e politico, ma il carcere, la rovina. Bisogna aggiungere che con febbraio arriva al termine il mandato di Manderblit, che rischia di andare in pensione senza risultati; ma anche Netanyahu sa che dopo di lui dovrà fare i conti con un procuratore provvisorio ancora più accanito perché ha ragioni personali di odio nei suoi confronti. Insomma, sembra che i tempi siano maturi per un accordo, quel “patteggiamento giudiziario” che è un tipico istituto della giustizia americana e in certi casi si usa anche in Italia: accusa e difesa si mettono d’accordo sulla definizione del reato e sulla pena, sottopongono l’accordo ai giudici che in genere lo approvano ponendo fine al processo. E’ dunque in corso una trattativa, per il momento informale, che può funzionare con bluff, indurimenti, aperture, interruzioni come per una compravendita. Questo è ciò che secondo la stampa israeliana sta accadendo fra i legali di Netanyahu (che a quanto pare spingono per il patteggiamento, mentre la famiglia vorrebbe continuare la battaglia giudiziaria fino alla fine) e la procura. E’ chiaro che Netanyahu non ha interesse a patteggiare un periodo in prigione, dove vorrebbero vederlo i suoi nemici. Manderblit vuole togliergli l’agibilità politica, ha dichiarato spesso che lo considera “un pericolo per la democrazia”. Il minimo dunque che pretenderà sono le dimissioni dal ruolo di leader dell’opposizione, capo del Likud, deputato. Ma per quanto tempo varrà questa interdizione? Che succede se Netanyahu, ancora molto amato dalla sua base, si ripresenta candidato alla presidenza del Likud e poi al ruolo di premier? Il procuratore generale, dice la stampa, vorrebbe fargli accettare una qualifica di “indegnità” che per legge comporta l’impossibilità di svolgere incarichi pubblici per sette anni, fino a quando Netanyahu ne avrà ottanta. La posta in gioco oggi sembra questa.
Accetterà Netanyahu di subire questa sconfitta e l’umiliazione conseguente? O sceglierà di combattere fino in fondo e attendere il rischio della sentenza? Non si sa. Quel che è chiaro è che se patteggiasse e uscisse dalla scena politica, si produrrebbe un terremoto nella politica israeliana. Bennett, Saar, Lieberman, si considerano ancora ideologicamente a destra e soprattutto lo è il loro elettorato. Si sono uniti alla sinistra solo per odio verso Netanyahu, con l’obiettivo esplicito di abbatterlo. Se egli non fosse più il leader del Likud, perché non riunirsi ai vecchi compagni di partito, a cui li lega tutto? Perché restare con l’estrema sinistra di Meretz, con gli arabi antisionisti di Ra’am, con la sinistra di Avodà e di Yesh Atid? Esiste alla Knesset e soprattutto nel paese una comoda maggioranza parlamentare di destra. Forse Bennett resisterebbe un po’ visto che con soli sei deputati fa il primo ministro e non potrebbe più aspirare a una carica del genere senza fare la copertura a destra di un governo che in sostanza è di sinistra. Ma la pressione dell’elettorato sarebbe troppo forte e dovrebbe cedere anche lui. Insomma si arriverebbe a un nuovo governo già in questa legislatura, qualcuno dice “prima di Pesach” cioè entro poche settimane. O alla peggio si andrebbe presto a nuove elezioni. Questo dice la logica. Ma la politica israeliana è come una fiction piena di colpi di scena- E magari ne potrebbe arrivare un altro.
(Shalom, 20 gennaio 2022)
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Il laboratorio Israele tra mea culpa e isterismi
Lentamente si diffonde la lettera che il prof . Ehud Qimron ha scritto il 6 gennaio al Ministro della Salute israeliano. Adesso viene ripresa anche dal quotidiano di informazione socio-economica "Conquiste del Lavoro". Riportiamo tre interventi del suo Caporedattore. NsI
di Raffaella Vitulano
Era il gennaio 2021, ormai un anno fa, quando l'allora primo ministro Benjamin Netanyahu promise al popolo che se si fosse presentato subito ai centri di vaccinazione, Israele sarebbe stato il primo paese a vedere la fine della pandemia, guidando il mondo e agendo da modello globale per gestire il Covid. Ma non è andata così. Mentre il Paese ha iniziato ad aprirsi e la vita ha iniziato a tornare gradualmente a una parvenza di normalità, Israele, come gran parte del mondo, è stato duramente colpito dalla variante Omicron.
Lo ammette, in Beyond the Headlines (Emirati arabi) di questa settimana, il conduttore James Haines Young dando uno sguardo alla situazione del Covid in Israele, un tempo leader mondiale per le vaccinazioni e ora terra di crescenti ricoveri con una raffica di nuovi casi più di sei volte il picco giornaliero precedente. L'aumento degli anticorpi prodotti da una quarta dose di vaccino contro il Covid-19 non è sufficiente a prevenire le infezioni dalla variante Omicron, conferma una ricerca preliminare presso un ospedale israeliano.
I risultati mettono inoltre in discussione la pratica di somministrare dosi di richiamo quando gran parte del mondo si trova ad affrontare una carenza di vaccini. Il primo ministro Naftali Bennett cerca di calmare gli israeliani preoccupati invitando le persone ad assumersi la responsabilità personale di proteggere se stesse, i propri figli e i genitori:"Non c'è posto per il panico. Non c'è posto per isterismi. Lo supereremo insieme", raccomandando alle persone di provare a utilizzare i test antigenici domestici, meno accurati ma che alleggeriscono il carico sui centri di test. La politica sulla pandemia è cambiata radicalmente negli ultimi mesi, causando confusione nell'opinione pubblica sulle politiche aeroportuali, i test, le quarantene e se e come mandare i bambini a scuola.
In un nuovo sondaggio dell'lsrael Democracy Institute, il 54% degli israeliani afferma che la pandemia ha causato loro di cambiare la loro routine quotidiana. Del campione, il 45% ha risposto di aver ripensato alla propria vita, come la propria carriera o gli studi, mentre il 50% ha risposto di no. Tra la popolazione araba, il 71% nella fascia di età 35-44anni ha ripensato alla propria vita a causa della pandemia di Covid. Coloro che avevano segnalato un cambiamento di routine a causa del Covid erano più propensi a rispondere di aver ripensato alla propria vita. Il sondaggio ha anche posto domande sui sentimenti personali sullo stato economico e sui sentimenti verso la sicurezza del lavoro. Tra gli ebrei, il 39% definisce la propria situazione economica come buona, poco meno del 43% come media e solo il 17% come non buona. Tuttavia, tra gli intervistati arabi, solo il 24% definisce buona la propria situazione economica, mentre il 38% la definisce non buona.
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Il professar Qimron scrive una lettera aperta al ministero della Salute: "Abbiamo fallito".
Il professor Ehud Qimron, capo del Dipartimento di Microbiologia e Immunologia dell'Università di Tel Aviv e uno dei principali immunologi israeliani, ha scritto una lettera aperta al Ministero della Salute criticando aspramente la gestione israeliana - e quindi per certi versi globale - della pandemia di coronavirus. Già il professor Qimron nell'agosto 2020 aveva rilasciato un'intervista al quotidiano israeliano Yediot Ahronot dicendo che "la storia giudicherà la follia".
Quimron taglia corto: è tempo di ammettere il fallimento. Nel suo testo, si legge che "alla fine, la verità sarà sempre rivelata e la verità sulla politica del coronavirus sta cominciando a essere rivelata. ... Con due anni di ritardo, ti rendi finalmente conto che un virus respiratorio non può essere sconfitto e che qualsiasi tentativo del genere è destinato a fallire. Non lo ammetti, perché negli ultimi due anni non hai ammesso quasi nessun errore, ma in retrospettiva è chiaro che hai fallito miseramente in quasi tutte le tue azioni, e anche i media stanno già facendo fatica a coprire la tua vergogna .... Hai rifiutato di ammettere che l'infezione arriva a ondate che svaniscono da sole, nonostante anni di osservazioni e conoscenze scientifiche" e "falsa propaganda".
E ancora, "hai rifiutato di ammettere che i test di massa sono inefficaci", "hai rifiutato di ammettere che la guarigione è più protettiva di un vaccino", "hai rifiutato di ammettere che i vaccinati sono contagiosi", "hai rifiutato di adottare la 'Dichiarazione di Barrington', firmata da più di 60.000 scienziati e professionisti medici, o altri programmi di buon senso. Hai scelto di ridicolizzarli, calunniarli, distorcerli e screditarli". "I medici evitano di collegare gli effetti collaterali al vaccino, per non essere perseguitati come hai fatto con alcuni dei loro colleghi". Invece, "hai scelto di pubblicare articoli non obiettivi insieme ai dirigenti senior di Pfizer sull'efficacia e la sicurezza dei vaccini. Tuttavia, dall'alto della tua arroganza, hai anche ignorato il fatto che alla fine la verità verrà rivelata. E comincia a rivelarsi".
E ancora: "Hai distrutto l'educazione dei nostri figli e il loro futuro", "hai danneggiato i mezzi di sussistenza, l'economia, i diritti umani, la salute mentale e fisica"; "hai bollato, senza alcuna base scientifica, le persone che hanno scelto di non vaccinarsi come nemici del pubblico e come propagatori di malattie", "promuovi, in un modo senza precedenti, una politica draconiana di discriminazione, negazione dei diritti e selezione delle persone, compresi i bambini, per la loro scelta medica. Una selezione priva di qualsiasi giustificazione epidemiologica".
"Questa emergenza deve finire!".
• La tensione è alta nel paese.
In un editoriale su Haaretz, Ido Efrati dal canto suo si chiede:
"I grandi investimenti in infrastrutture, manodopera e attrezzature stanno davvero aiutando a ridurre il carico sugli ospedali e si sono tradotti in salvare vite umane? Le risorse saranno destinate alla protezione e alla diagnosi delle popolazioni immuno-compromesse e a garantire operazioni efficaci all'interno del sistema sanitario? Questo è un approccio che richiede di affrontare la malattia e non la pandemia. Vale anche la pena chiedersi se sia un po' ingenuo chiedere al pubblico israeliano di fare uno sforzo personale per prevenire la diffusione, chiedendo a chi non si sente bene di restare a casa, soprattutto senza un meccanismo di compensazione per dipendenti e datori di lavoro".
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GreenPass, a breve sarà modificato o abolito nel paese
Scienziati del paese hanno dichiarato al New York Times che vaccini aggiuntivi potrebbero causare più danni che benefici:
"Troppe iniezioni potrebbero causare una sorta di affaticamento del sistema immunitario". Il professor Hagai Levine, epidemiologo e presidente dell'Associazione israeliana dei medici di salute pubblica, ha confermato al New York Times che non ci sono prove scientifiche pubblicate che sia necessaria una quarta dose.
Israele dovrebbe inoltre eliminare a breve il suo sistema Green Pass, stando a quanto dichiarato dal ministro delle Finanze Avigdor Liberman al The Jerusalem Post: "Non c'è alcuna logica medica ed epidemiologica nel Green Pass, come molti esperti concordano. Ma c'è un danno diretto all'economia, al funzionamento quotidiano e inoltre crea significativamente panico tra la popolazione".
Il direttore generale del ministero della Salute, prof. Nachman Ash, sostiene che il sistema del pass verde dovrebbe essere mantenuto in vigore. Tuttavia, ha recentemente riconosciuto che a un certo punto potrebbe essere necessario riesaminare la questione.
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Dibattito vivace anche in Danimarca "Autorità e politici devono essere onesti"
Non solo Israele. Dibattito vivace anche in Danimarca. Un giornale danese si è scusato pubblicamente per aver riportato le narrazioni del governo sulla pandemia di Covid-19 senza metterle in discussione.
"Abbiamo fallito", si legge in un titolo dell'Ekstra Bladet, il tabloid più antico di Danimarca, che ammette che "per quasi due anni, noi - la stampa e la popolazione siamo stati quasi ipnoticamente preoccupati dai dati quotidiani delle autorità sul coronavirus". "Non siamo stati abbastanza vigili a chiedere chiarimenti quando le autorità ci hanno detto cosa significasse effettivamente che le persone sono ricoverate in ospedale con il coronavirus e non a causa del coronavirus. Fa differenza, perché i numeri ufficiali dei ricoveri hanno dimostrato di essere del 27% superiori alla cifra effettiva. Lo sappiamo solo ora". "Sono in primo luogo politici e autorità ad avere la responsabilità di informare la popolazione in modo corretto, accurato e onesto. I loro messaggi in questa crisi storica lasciano molto a desiderare. E quando mentono, la popolazione perde fiducia in loro".
(Conquiste del Lavoro, 21 gennaio 2022)
In Italia i politici non sono onesti nel dare informazioni che sanno essere non vere; i giornalisti non sono onesti nel diffonderle senza accertarsi se sono vere; i lettori non sono onesti quando si bevono tutto quello che vedono scritto cercando soltanto quello che conviene a loro senza chiedersi se è vero no. Non tutti naturalmente, ma molti. M.C.
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80 anni fa la Conferenza di Wannsee: quando lo sterminio diventò burocrazia
di Daniele Toscano
Il 20 gennaio del 1942, 80 anni fa, giorno della Conferenza di Wannsee, è identificato come una data simbolo nella pianificazione della Shoah. La realtà di quelle due ore scarse di incontro ci consegna un quadro in parte diverso, ma non per questo meno crudo e spietato.
L’obiettivo della “soluzione finale” della questione ebraica era già nei piani del regime nazista e i prodromi erano emersi già nei mesi precedenti. Questo episodio mantiene comunque un valore nell’evidenziare la specificità e la scientificità con cui si svolse lo sterminio degli ebrei.
La Conferenza di Wannsee si tenne in riva all’omonimo lago, una zona elegante di Berlino, in un edificio adibito a luogo di vacanza per i membri delle SS. La riunione era stata convocata da Heinrich Himmler e fu presieduta da Reinhard Heydrich, capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza nazionale, della polizia e dei servizi segreti. I presenti erano sedici: tredici alte personalità della burocrazia e dell’esecutivo dello Stato nazista, Heydrich, il responsabile per la questione ebraica Adolf Eichmann e una stenografa rimasta ignota.
L’incontro era considerato ufficialmente “una colazione di lavoro”, tanto che anche il verbale della seduta era intitolato ufficialmente “Colloquio dei segretari di Stato”. Non fu l’occasione in cui venne stabilito il genocidio: rappresentò piuttosto il momento in cui i diversi funzionari furono ufficialmente informati dei propri ruoli e in cui si ipotizzarono tempi e modi.
Come confermato da Eichmann vent’anni più tardi, regnava un’atmosfera di allegria, che strideva fortemente con i biechi propositi alla base della riunione. Non vi furono né discussioni né obiezioni. Nel libro “L’Olocausto”, lo storico tedesco Wolfgang Benz nota come nel verbale il destino di undici milioni di ebrei europei fosse annunciato in modo inequivocabile: si prevedeva un avviamento in campi di lavoro nell’Europa orientale, con naturali decimazioni in gran parte del contingente. Il processo di sterminio era già in corso: si evince, ad esempio, nell’ottobre ’41, con l’invio di un alto funzionario del Ministero degli Esteri a Belgrado per appurare se il problema degli ebrei non potesse essere “risolto in loco”.
Tra gli scopi della Conferenza di Wannsee vi era dunque il chiarimento che la soluzione finale fosse di competenza esclusiva del Reichsfuhrer delle SS Himmler e dello stesso Heydrich: si dovevano evitare perdite di tempo ed eventuali diatribe sul tema.
Bisognava poi chiarire il metodo, visti i costi e le difficoltà della fucilazione: sul modello di quanto già attuato nei mesi precedenti, si optò per l’uccisione con il gas che avrebbe contrassegnato i campi di sterminio nei mesi a venire.
Venne poi affrontato l’atteggiamento da prendere nei confronti dei figli di matrimonio misto e dei loro discendenti, ai quali si decise di estendere l’applicazione delle leggi di Norimberga, con la distinzione tra chi avesse “sangue misto di primo grado” (considerati ebrei) e “sangue misto di secondo grado”, ritenuti di sangue tedesco.
Pertanto, la Conferenza di Wannsee si può ricondurre a un lavoro di burocrazia, con alti funzionari dello Stato messi al corrente dell’intenzione di assassinare almeno 11 milioni di persone.
L’idea dello sterminio era già presente prima; per una piena attuazione sarebbero stati invece necessari ancora alcuni passi, tanto che, come ha rilevato lo storico David Bidussa in un recente articolo sul Sole24Ore, alla fine di questi preparativi (nella primavera 1942) l’80% degli ebrei che perderanno la vita durante la Shoah era ancora in vita.
(Shalom, 21 gennaio 2022)
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Shira Haas è un fenomeno
Così il New York Times ha definito l’attrice dopo le sue prove in Shtisel e Unorthodox. Che qui si racconta tra vita privata ("Ho avuto un cancro, e questa esperienza mi ha reso chi sono, una persona matura per la mia età, come mi dicono spesso"), lavoro (la prima parte l’ha ottenuta grazie a un social network) e molto altro. L’abbiamo fotografata per le strade e sulla spiaggia di Tel Aviv, cuore giovane di uno dei Paesi più giovani del mondo: "La nostra creatività? È il frutto di una società complessa. E del saper prendere il giusto tempo per fare le cose" spiega lei.
di Anna Momigliano
Shira Haas ha 26 anni, ma ne dimostra meno, è uno scricciolo dal viso di bambina, una bellezza ottocentesca molto lontana dal cliché della diva. È una delle attrici israeliane più famose al mondo, ha già ricevuto una candidatura agli Emmy e un’altra ai Golden Globe, ha vinto il premio di migliore attrice internazionale all’ultimo Tribeca Film Festival e ben due Ophir, gli oscar israeliani. In un Paese che, per quanto piccolo, ha sfornato stelle del calibro di Natalie Portman e Gal Gadot, è lei l’astro nascente. E, in un Paese giovane, in cui un quarto della popolazione ha meno di quattordici anni, Haas è il volto della nuova guardia – la rivista Time l’ha inserita nella sua lista 100 Next, che ogni anno segnala “cento leader emergenti che stanno cambiando il futuro”. L’intervista con D, fatta al telefono in piena ondata di variante omicron, inizia in inglese, ma a un certo punto lei chiede di passare all’ebraico. Parla da Tel Aviv, dove vive: «In questo momento è tutto diverso ed è tutto virtuale. Israele è casa mia, ma nel profondo mi sento una nomade. Quando passerà la pandemia, mi piacerebbe viaggiare di più ed esplorare l’opzione di vivere da un’altra parte». Non ti sembra un’ingiustizia che, proprio mentre stai vivendo il tuo momento, sia tutto più fermo? «Avere tutti questi riconoscimenti è molto bello, ma rischia di travolgerti. In un certo senso la pandemia mi ha protetta, mi ha dato i tempi e gli spazi per processare le cose». In effetti, è successo tutto molto in fretta. La sua è una carriera iniziata per caso e decollata d’un tratto con due parti recitate in stato di grazia. La prima nella serie Shtisel (2013), ambientata a Gerusalemme tra una famiglia di ebrei ultra-ortodossi (anche se loro preferirebbero il termine haredìm, “pii”), dove interpretava l’adolescente Ruchami. Sofisticato romanzo corale in due lingue, ebraico e yiddish, Shtisel non sembrava destinata al grande pubblico, specie all’estero, e invece è diventata un successo internazionale, e a scoppio ritardato, per giunta: Netflix ha iniziato a distribuirla, senza fanfara, nel 2018, e attorno alla serie si è lentamente costruita una comunità di fan in tutto il mondo, esplosa ai tempi della pandemia. Poi, nel 2020, è arrivato il ruolo da protagonista in Unorthodox, la mini-serie liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Deborah Feldman, che racconta la fuga di una giovane ebrea ultra-ortodossa dalla sua comunità di New York. Unorthodox ha stregato il pubblico e, forse ancora di più, la critica, colpita dall’interpretazione delicata e insieme potente dell’attrice protagonista. “Haas è un fenomeno”, scrisse il New York Times, notando che, quando il suo personaggio canta, “riesce a farti sentire la sinfonia, muta, dentro la sua testa”. Il suo ultimo ruolo è in Asia, un film incentrato sul rapporto madre-figlia. Haas è nata a Tel Aviv, in una famiglia di ashkenaziti, la comunità ebraica della Mitteleuropea e dell’Europa orientale sterminata durante la Seconda guerra mondiale. Due dei suoi nonni sono sopravvissuti all’Olocausto. Però è cresciuta a Hod HaSharon una piccola città nel centro di Israele, «un posto molto tranquillo, pieno di frutteti», lo descrive. Un’infanzia tranquilla, ma segnata da una malattia: «Ho avuto dei problemi di salute, un cancro, e questa esperienza mi ha reso chi sono, una persona matura per la mia età, come mi dicono spesso». Poi si schermisce: «Della malattia parlo apertamente, ma non vorrei soffermarmici troppo, se per te va bene». Tra le persone che le sono state vicine, in quegli anni, proprio la nonna scampata alla Shoah. Quando è mancata, lo scorso autunno, Haas ha scritto un post su Instagram: «È stata al mio fianco innumerevoli giorni e notti quando ero malata. Il mio simbolo dell’infanzia, un simbolo di vita». E ancora: «Una vera sopravvissuta, che ha perso quasi tutta la famiglia nell’Olocausto e ha avuto la più bella delle vendette: l’amore». L’incontro con la recitazione è arrivato alle superiori, quando Haas frequentava la scuola delle Arti performative Thelma Yellin. La prima parte l’ha ottenuta grazie a un social network: «Quando avevo 15 anni, Esther King, una direttrice del casting, mi ha contattato su Facebook chiedendomi se volessi fare un’audizione per un film israeliano che si chiamava Princess. Cercai il suo nome su Google, per controllare che esistesse veramente, che non fosse uno scherzo». Ottenuta la parte, «fu amore a prima vista, mi resi conto che era quello che volevo fare. Hai presente Il leone, la strega e l’armadio, dove c’è un guardaroba che è un portale su un mondo fatato? Ecco, per me fu proprio come aprire l’armadio di Narnia». Da lì a poco, il ruolo in Shtisel: «Ero così giovane quando la prima stagione è uscita in Israele, è passato così tanto tempo!». Il successo internazionale della serie ha stupito lei per prima: «Già a quei tempi ci credevamo tantissimo, perché era scritta meravigliosamente, eravamo mishpuche (una famiglia, in yiddish, nda), però nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe immaginato che una storia così specifica, ambientata in un Paese così specifico, e in due lingue, avrebbe fatto innamorare così tanti fan nel mondo. Però, se ci penso, quando si fa qualcosa di buono e autentico si possono toccare molti cuori, indipendentemente dalla lingua o dal genere. Shtisel fu una sorpresa, ma oggi è sempre più comune che delle serie internazionali abbiano successo. Credo il mondo stia diventando più aperto». Qualcuno lo chiama “effetto Netflix”: nell’era dello streaming, capita sempre più spesso che serie da altri Paesi diventino fenomeni globali, intaccando l’egemonia statunitense. Però Israele è un caso particolare, una nazione con meno di dieci milioni di abitanti che da tempo esporta serie di qualità: successi americani come Homeland e In Treatment sono adattamenti di prodotti israeliani (Hatufim e BeTipul), poi ci sono stati i casi di Fauda, e Our Boys. Provo a chiederle cosa lo rende un terreno tanto fertile: «È un Paese pieno di creatività. Una spiegazione è che la nostra è una realtà particolarmente ricca di complessità, il genere di complessità che si vede poco in tv. Poi, questa è una mia teoria, forse dipende anche dal fatto che qui le persone si prendono molto tempo per fare le cose. La scrittura di Shtisel, per dire, ha richiesto quattro anni. La sceneggiatura di Asia, il mio ultimo film, cinque». Se scrivere bene è (anche) una questione di tempo, di cura, un cesellare, recitare invece richiede un altro tipo di impegno, più emotivo. Haas la chiama «una professione di empatia», perché ruota attorno a «capire l’altro e le sue motivazioni». La vede (anche) come uno strumento di crescita personale: «Se riesci a farlo da una posizione genuina, autentica, questo ti rende più maturo, nel recitare e nella vita». Dice che l’empatia è qualcosa che stiamo perdendo, e di cui c’è bisogno ora più che mai: «Non il semplice identificarsi nell’altro, capire che, se una cosa è successa a lui, allora potrebbe succedere anche a me, ma qualcosa di più intimo». Perché pensi sia così importante? «Negli ultimi anni sono riuscita a dare un nome a quello che sentivo già da prima, e che avevo imparato dalla mia famiglia. Un paio anni fa, poi, mi sono imbattuta per la prima volta in Brené Brown (l’autrice e studiosa americana nota soprattutto per i suoi lavori sulla vulnerabilità, nda), che ha lavorato molto su questa parola, empatia**. In un video, parlava della differenza tra empatia e simpatia, tra l’essere veramente presenti per una persona anziché dare consigli: può sembrare un’ovvietà, ma ho cominciato a unire i puntini. Poi sono arrivati alcuni ruoli che mi hanno insegnato molto, come quello del film Asia, dove la protagonista lotta contro una malattia, come ho fatto io da bambina, e lì l’empatia ha giocato un ruolo importante. E ho letto Elisabeth Kübler-Ross (celebre psichiatra svizzera, che ha coniato l’idea di cinque fasi dell’elaborazione del lutto, nda), che si è occupata anche lei di empatia e di vicinanza alla morte. Tutti questi pezzettini – un insieme di tante cose, le esperienze che ho fatto, le persone che ho incontrato, l’essermi imbattuta in Brené Brown, i ruoli che ho recitato – sono diventati parte del mio viaggio». Quando ci salutiamo, mi viene da pensare che, se hai 26 anni, il tuo viaggio è appena iniziato, ma, a volte, può già essere un viaggio lungo.
(la Repubblica, 21 gennaio 2022)
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Il Giorno della memoria non è solo Auschwitz: come ripensare l'ebraismo
Un bilancio a venti anni dall'istituzione della ricorrenza
di Giovanni Belardelli
Anche quest'anno, il 27 gennaio, celebreremo il Giorno della Memoria, benché forse un po' oscurato nell'attenzione collettiva dalle contemporanee votazioni per il presidente della Repubblica. Dovremmo tuttavia cominciare a riflettere, a più di vent'anni dall'istituzione di questa giornata, sul suo significato ma anche sui suoi limiti. La questione è delicata ed è bene dunque essere chiari. Anzitutto, non c'è alcun dubbio che di una iniziativa del genere ci fosse bisogno per rompere una dura e antica crosta di indifferenza. L'Italia democratica, infatti, per molti anni non si è troppo curata di ricordare in modo adeguato lo sterminio degli ebrei e nemmeno la parte avuta dal nostro paese nella persecuzione. La guerra era terminata da pochi mesi e una figura di rilievo come Cesare Merzagora addirittura invitava gli ex perseguitati che rientravano nel paese a "non lamentarsi troppo" e a prendere atto che l'Italia era cambiata: "Essi devono abituarsi a star seduti attorno al tavolo non sopra e neanche sotto, come un po' è loro abitudine". Liliana Segre ha raccontato di recente che da giovane, appena arrivata a Milano dopo Auschwitz, si sentì dire dalla professoressa di greco, davanti a tutta la classe, che la sua deportazione era "un'esperienza interessante". Ne fu così sconvolta che per anni non ne parlò più. Ma a quell'epoca era un po' tutta l'opinione pubblica che non prestava attenzione al tema, anche per la difficoltà e l'imbarazzo a ricordare il clima di silenziosa accettazione che aveva accompagnato nel 1938 il varo della legislazione antiebraica. Quando nel 1960 la storia post 1919 venne finalmente inserita nei programmi scolastici, della Shoah e delle leggi razziali i manuali di storia parlavano poco o nulla. E a non parlarne non erano solo autori più o meno "nostalgici". Nel 1970 anche uno storico di sinistra come Rosario Villari dedicava alle leggi razziali solo una riga del suo testo per le superiori. Questa insensibilità o comunque scarsa attenzione verso lo sterminio antiebraico è stata studiata negli ultimi anni da vari storici. E qui la si richiama a riprova che qualcosa andava appunto fatto per costringerci tutti a prendere in carico un pezzo della nostra storia, europea e italiana, come quello rappresentato dalle varie forme della persecuzione antiebraica. Ma è anche vero che il giorno della memoria, istituito nel 2000, è diventato spesso occasione per cerimonie e rievocazioni ogni anno più o meno uguali, che non è affatto detto aumentino la consapevolezza e la conoscenza dei caratteri della persecuzione antiebraica. E' anzi probabile che nelle scuole una parte dei ragazzi e delle ragazze vivano quella giornata come un rituale più o meno ufficiale e ripetitivo. Certo gli insegnanti dovrebbero prepararli adeguatamente, ma c'è il rischio che a volte si limitino a far leggere Primo Levi o il diario di Anna Frank. Del resto è la stessa persistenza di pregiudizi antisemiti che sembra confermare la limitata influenza del Giorno della memoria. Il Rapporto Italia dell'Eurispes ha indagato nel 2004 e nel 2020 l'atteggiamento degli italiani riguardo alla Shoah. Dal confronto fra le due indagini si ricava, per citare un unico dato, che se nel 2004 solo il 2,7 per cento degli intervistati pensava che lo sterminio degli ebrei non c'era mai stato, nel 2020 questa percentuale risultava salita al 15,6 per cento. Non si possono trarre da un dato del genere conclusioni definitive; ma certo un aumento di questo tipo lascia ipotizzare uno scarso impatto del Giorno della memoria sull'opinione pubblica. Emergono qui anche i limiti di un rapporto con il passato e le sue tragedie basato sulla "religione della memoria", come molti l'hanno definita, che da una parte rischia di sconfinare nella ripetitività e, dall'altra, si fonda su un veicolo- il racconto del testimone dal forte impatto emotivo che però, come avviene spesso per le forti emozioni, non è di per sé sufficiente a far sedimentare una maggiore consapevolezza di ciò che viene rievocato. C'è anche un'altra ragione che dovrebbe indurre a guardare in modo diverso al il Giorno della memoria. Nel suo libro di ricordi Vivere ancora (che ho scoperto grazie a un articolo di Guido Vitiello su questo giornale) Ruth Kluger, austriaca deportata giovanissima ad Auschwitz, ha scritto: "Eppure Auschwitz viene attribuita come una sorta di luogo d'origine a chiunque le sia sopravvissuto. La parola Auschwitz ha oggi un'aura, seppure negativa, e determina largamente quel che si pensa di una persona quando si sa che è stata là [. .. ] ma io non sono originaria di Auschwitz, sono originaria di Vienna. Vienna è impossibile sfilarla di dosso, la si sente dal linguaggio; invece Auschwitz è stata estranea al mio essere come la luna. Vienna è una parte della struttura del mio cervello ed emana da me, mentre Auschwitz è il luogo più sbagliato in cui io sia mai stata [...]". Sono affermazioni da meditare, che implicitamente ci mettono in guardia contro il rischio di ricordare gli ebrei soltanto come vittime, quasi avessimo dimenticato lo straordinario contributo dell'ebraismo alla civiltà europea. E allora, nel il Giorno della memoria dovremo certo ricordare i milioni di perseguitati, i morti e i sopravvissuti (e potremmo mai non farlo noi gentili, condannati a sentirci responsabili anche se non eravamo nati?). Ma un modo di ricordare meno ripetitivo e scontato sarebbe quello di occuparci anche, ogni 27 gennaio, degli ebrei come non-vittime, parlando dunque - agli studenti in classe o nelle celebrazioni pubbliche - un anno di Freud e un altro di Einstein, un anno di Giorgio Bassani o di Hannah Arendt, un altro ancora degli ebrei che, fuggiti dall'Europa, hanno fondato lo stato di Israele.
Il Foglio, 20 gennaio 2022)
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La Conferenza di Wannsee
La miseria di quella umanità di nazisti che anticipò la soluzione finale
Fu lo spartiacque fra le intenzioni e la messa in atto della macchina dello sterminio
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Di quella vicenda tutta l'Europa di ieri di oggi e di domani è testimone
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di Elena Loewenthal
Gli ebrei saranno avviati all'Est sotto direzione competente e con metodi adeguati, per eseguirvi dei lavori stradali. Saranno trasportati in colonne, separando le donne dagli uomini. Senza dubbio durante il percorso molti deportati morranno di stenti ... Per raggiungere una soluzione definitiva, rastrelleremo l'Europa da un capo all'altro. Gli ebrei saranno chiusi nei ghetti e più tardi trasferiti all'Est».
Così il generale Reinhard Heydrich sintetizza la «road map» che dà l'avvio alla «Endlösung», quella «soluzione finale» che nel giro di pochi e indicibili mesi trasforma l'Europa in un campo di cenere e morte. Era il 20 gennaio di 80 anni fa e malgrado il rigore invernale il paesaggio del Großen Wannsee che circonda la villa in cui si tiene la conferenza ha una sua sinistra dolcezza. Sono in tanti, quel giorno: direttori di ministeri del Reich, rappresentanti de partito nazista, dei servizi segreti e della cancelleria. C'è anche Adolf Eichmann, che rivendica con orgoglio il desiderio di occuparsene lui, della «soluzione finale», e Heydrich ribadisce che non è un'impresa da poco, perché bisogna «sbarazzarsi definitivamente di 11 milioni di ebrei».
A 80 anni esatti di distanza, quella storia e quel giorno ci paiono al tempo stesso tremendamente vicini, ma anche parte di un mondo parallelo a quello viviamo, di una realtà inammissibile. La Conferenza di Wannsee fu un evento cruciale, un momento che segna lo spartiacque storico fra le intenzioni e la messa in atto della macchina dello sterminio su scala globale. E il verbale di quell'incontro, redatto con analitico puntiglio, nella sua arida determinazione è certamente uno dei documenti più scioccanti di quella storia ma anche di tutta la Storia umana. A quel momento fa da contrappasso il processo di Norimberga, che dal novembre del 1945 all'ottobre dell'anno successivo condannò una ventina di criminali nazisti e che, come il processo a Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961, si trovò di fronte al compito più arduo che qualunque giustizia abbia mai dovuto affrontare, perché quel delitto di massa, quella cieca volontà di annientamento sfuggono a qualunque canone di giudizio, di colpa, di responsabilità. È troppo, troppo assurdo, troppo insensato.
Ma la conferenza di Wannsee è tutto fuorché un episodio, per quanto abnorme. «Il regime hitleriano e i suoi delitti non sono il frutto di un caso. Hitler non salì al potere grazie a un concorso fortuito di circostanze: la storia dell'umanità, del resto, non è mai regolata dal caso», scrive Gideon Hausner, procuratore generale al processo Eichmann, nella sua relazione introduttiva, che è il primo tentativo di costruire una cronaca dello sterminio e resta ancor oggi uno straordinario strumento per interpretare quel capitolo di storia (è pubblicata in italiano da Einaudi con un saggio di Alessandro Galante Garrone e l'introduzione di Simon Levis Sullam). La Notte dei Cristalli nel 1933, le Leggi razziali di Norimberga del 1935, quelle non certo da meno emanate dal nostro regime fascista nel 1938. E le eliminazioni mirate, prove generali dello sterminio di massa, che si susseguono in Germania negli anni precedenti: l'orrore nazista non fu un episodio, ma un lungo processo storico in cui la conferenza di Wannsee rappresenta un nodo drastico sia perché dopo quel 20 gennaio la macchina nazista diventa un complesso, articolato e straordinariamente funzionante sistema di distruzione, sia perché nelle parole dette e registrate dai verbali si coglie tutta la terribile miseria di quella umanità di nazisti. Che quando dovrà provare a difendersi, dopo la guerra, non farà che usare la litania del non aver potuto fare a meno di ubbidire: «Eseguire ordini contrari ai principi della coscienza e della morale, calpestando le leggi fondamentali che costituiscono le basi della società umana non può, né giuridicamente né moralmente, costituire una attenuante», spiega Hausner davanti al volto impassibile di Adolf Eichmann.
Tre anni e una settimana dopo quella giornata sul lago alla periferia di Berlino, gli Alleati aprivano i cancelli di Auschwitz e si trovavano di fronte l'orrore di cui era piena l'Europa e che l'Europa deve continuare a riconoscere come parte di sé, per quanto scomoda e intollerabile. Perché la Shoah è la negazione della storia ebraica - proprio questo grida «Endlösung», «soluzione finale» - mentre afferma che tutto questo è successo qui, nel cuore della nostra civiltà, in nome di un progresso. Per questo il Giorno della Memoria non è, non deve essere, un atto di omaggio agli ebrei assassinati, negati alla storia, ma la presa di coscienza che tutto questo è accaduto qui, in questo Continente attraversato per mesi da treni merci che viaggiavano pieni in una direzione e vuoti nell'altra, fitto di fosse comuni nascoste fra i boschi dell'Europa dell'Est. Di quella storia, tutta l'Europa di ieri, di oggi e di domani è testimone.
(La Stampa, 20 gennaio 2022)
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Cosa accadde a Spinoza? Calimani narra i retroscena
Il 27 luglio 1656, a 24 anni, Baruch Spinoza viene scomunicato, espulso e maledetto dai capi della Santa Assemblea del Talmud Torah. Cos'era successo? E cosa nasconde questo pesantissimo provvedimento? Lo racconta lo scrittore veneziano Riccardo Callmani nel nuovo libro Baruch Spinoza. Il marrano ebreo di Amsterdam (Bollati Boringhieri). Dopo aver narrato la Vienna ebraica tra Otto e Novecento, Calimani si concentra sulla figura intellettuale di Baruch Spinoza e sulla città che ne ha ospitato la parabola intellettuale. Spinoza subisce il più severo decreto di espulsione mai pronunciato dalla Santa Assemblea a nome della comunità ebraica della città.
Ma quale fu la sua colpa? Cattive opinioni? Orrende eresie? Abominevoli idee? Una risposta non c'è. Forse il giovane Spinoza aveva toccato un nervo scoperto di natura politica e gli ebrei di Amsterdam erano molto sensibili al clima di accese tensioni politiche di contrasti teologici che dominavano la vita in Olanda.
Riccardo Calimani nel libro indaga il contesto storico e sociale e l'esuberanza intellettuale dell'epoca. Calimani, ingegnere e filosofo della scienza, scrittore, è stato presidente del Meis, Museo nazionale dell'ebraismo italiano e della Shoah di Ferrara.
(Corriere del Veneto, 20 gennaio 2022)
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Covid: nuovo record in Israele, quasi 72 mila positivi
Salgono anche i malati gravi, oltre 500
TEL AVIV - Nuovo salto in avanti dei contagi in Israele, quasi 72mila, un record giornaliero.
Lo ha detto alla Radio Militare Nachman Ash, direttore generale del ministero della sanità.
In salita anche i casi gravi che ora - secondo i dati del ministero - sono 533 contro i 498 di ieri.
I casi attivi di Covid sono 393mila e da inizio pandemia sono stati più di 2 milioni gli israeliani che si sono infettati.
Oltre 146mila minori in età scolare sono fuori dal sistema educativo a causa dell'infezione e altri 142mila sono in quarantena a causa dell'esposizione al virus.
Circa 8.900 operatori sanitari sono inattivi o perché infettatisi o in quarantena: di questi, 1.209 sono medici e 2.540 infermiere.
(ANSA, 19 gennaio 2022)
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Israele, Emirati Arabi e gli Accordi di Abramo. Una nuova storia su cui investire
Sarà necessario avviare nuove forme di dialogo e cooperazione tra le società civili arabo-israeliane riscoprendo insieme il patrimonio storico di relazioni umane e convivenza interreligiosa che il Mediterraneo ha saputo regalarci in passato. L’intervento di Khalid Chaouki, direttore Indiplomacy.it.
di Khalid Chaouki
Israele ha espresso la sua vicinanza agli Emirati Arabi offrendo la sua disponibilità a stare al fianco di Abu Dhabi contro le minacce provenienti dai gruppi armati Houthi, di chiaro collegamento con l’Iran. Una notizia che non deve passare inosservata, ma è un chiaro indicatore di un nuovo paradigma non solo nelle relazioni tra i due Paesi, ma di un nuovo posizionamento di Israele nel panorama mediorientale e arabo in generale.
Sembra ormai un lontano ricordo quando la parola araba “Tatbi’i”, ossia normalizzazione dei rapporti con Israele, era sinonimo di alto tradimento e manifestazioni di piazza nelle maggiori capitali arabe. Reazioni spesso violente, che sottintendano la negazione dell’esistenza stessa dello Stato di Israele e della non accettazione di una soluzione di convivenza pacifica in Terra Santa tra palestinesi e israeliani. Oggi, il paradigma è completamente capovolto.
Dopo l’avvio degli Accordi di Abramo che hanno coinvolto in primis gli Emirati Arabi, Israele e Stati Uniti, sono stati fatti numerosi passi anche da parte di altri Paesi arabi verso la normalizzazione delle relazioni non solo politiche, ma sottoscrivendo accordi economici, militari e culturali. Un’accelerazione senza precedenti che sta segnando un cambio epocale in seno alle opinioni pubbliche nel mondo arabo, in quanto Israele inizia ad essere percepita come alleato e non più come nemico.
Ricordo ancora quando nelle riunioni con i colleghi parlamentari israeliani si auspicava, chissà quando, la possibilità di condividere con il resto dei parlamentari arabi programmi di sviluppo condivisi per contrastare i pregiudizi e ritrovare i numerosi valori comuni. Sono passati pochi anni, e la storia ci consegna oggi una pagina nuova che può riservare ampi capitoli di cooperazione non solo tra i governi, ma soprattutto tra le istituzioni intermedie come i comuni, le università, le imprese e le associazioni.
Molto probabilmente questa accelerazione positiva nelle relazioni tra Paesi arabi e Israele è dovuto in primis ad una evidente profonda ricerca da parte di tutti di superare il conflitto eterno israelo-palestinese mettendo al centro l’interesse delle società arabe a investire nel proprio sviluppo e crescita di opportunità, ovviamente traendo beneficio dall’enorme capitale tecnologico e scientifico su cui Israele ha saputo investire per lunghi anni. Un interesse ricambiato dagli israeliani desiderosi di concepirsi finalmente parte integrante della regione, in pace con tutti i vicini con cui finalmente cooperare in una chiara ottica di interessi reciproci politici ed economici.
Oggi dal Marocco agli Emirati Arabi si guarda al Paese ebraico quale partner decisivo nel campo delle soluzioni più avanzate nel settore dell’agricoltura, desalinizzazione, energie rinnovabili e hi-tech.
Che tutto questo fermento nelle rinnovate relazioni arabo-israeliane porti ad un’auspicata soluzione politica con la nascita di uno Stato palestinese non è scontato, ma rimane l’effetto positivo che questa nuova pagina di cooperazione sta avendo sulle stesse leadership palestinesi sempre più consapevoli della necessità di mettere da parte le rivendicazioni violente in nome di un percorso di dialogo pragmatico con gli israeliani. Un dibattito che deve trovare una sua sintesi nella rappresentanza tra le leadership palestinesi tra Gaza e Ramallah.
In questo quadro, sarà tuttavia necessario avviare nuove forme di dialogo e cooperazione tra le società civili arabo-israeliane riscoprendo insieme il patrimonio storico di relazioni umane e convivenza interreligiosa che il Mediterraneo ha saputo regalarci in passato.
A questo riguardo sarà fondamentale far conoscere alle nuove generazioni arabe e israeliane quanto le storie che li hanno uniti siano molte di più delle pagine tragiche che si dovranno superare in nome di un futuro comune.
(Formiche.net, 19 gennaio 2022)
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La nuova tesi sul notaio che tradì Anna Frank non convince gli esperti olandesi
Le conclusioni «offrono informazioni che meritano approfondimento, ma nessuna base per l'accusa centrale»
NEW YORK - È stato davvero un ebreo di Amsterdam a tradire Anna Frank? Storici olandesi gettano dubbi sulle conclusioni dell'inchiesta coordinata da un ex agente dell'Fbi secondo cui il ricco notaio Arnold van den Bergh avrebbe indirizzato la polizia nella soffitta di Prinsengracht dove la famiglia Frank si nascose per due anni per sfuggire ai campi di sterminio. L'indagine dell'ex agente dell'Fbi Vincent Pankoke e di un 'dream team' di investigatori e ricercatori d'archivio, pubblicata ieri nel libro "The Betrayal of Anne Frank" di Rosemary Sullivan in vista della Giornata della Memoria il 27 gennaio, ha ricevuto nelle ultime ore una vasta copertura in tutto il mondo. Oggi però nei Paesi Bassi numerosi esperti hanno espresso dubbi sulle conclusioni: «Offrono informazioni che meritano approfondimento, ma nessuna base per l'accusa centrale», ha detto Ronald Leopold, il direttore della casa-museo di Anna Frank che presenterà le scoperte del gruppo di Pankoke come «una delle tante teorie» considerate nel corso degli anni. Molti hanno poi contestato il peso dato nel corso dell'inchiesta al Jewish Council di Amsterdam, un comitato di collaborazionisti di cui van den Bergh era stato tra i fondatori e che, secondo gli investigatori, avrebbe tenuto liste dei nascondigli degli ebrei come quello dove si erano chiusi i Frank. «Accusano senza dare vere prove», ha detto Laurien Vastenhout, una ricercatrice del NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies: «Ancora una volta abbiamo una narrativa in cui sono gli ebrei a essere i colpevoli».
(tio.ch, 19 gennaio 2022)
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«Ormai viviamo nel culto delle regole. Che funzionino o meno non conta più»
Il professore di Filosofia della scienza all'università dell'Insubria: «La burocrazia si trasforma in ideologia e desiderio di controllare la realtà. Mentre sta passando l'idea che gli scienziati non possano fare errori». Intervista a Paolo Musso.
di Francesco Borgonovo
Paolo Musso è professore di Filosofia della scienza all'università dell'Insubria e autore di uno splendido libro intitolato La scienza e l'idea di ragione (Mimesis), da cui ha tratto alcuni concetti espressi in un articolo appena pubblicato sul sito della Fondazione Hume di Luca Ricolfi. Uno scritto che contiene alcune analisi fondamentali sulla gestione della pandemia.
- Il suo articolo prende le mosse da una domanda importante: perché così tanti, nella gestione della pandemia, hanno agito in modo così assurdo? «Non ho una risposta esauriente, perché i fattori sono tanti: la tendenza dell'uomo all'autoinganno, la difficoltà di ammettere i propri errori, il fatto contingente di esserci trovati con un governo abbastanza squinternato ... Ma, al di là di questo, c'è a mio parere una questione culturale importante, che sto studiando già da tempo». - Quale? «Nella nostra cultura non c'è una sola idea di modernità, ma due, fra loro opposte. Una, nata con Galileo, sta alla base della scienza e dice che ragione ed esperienza devono collaborare. L'altra, nata con Cartesio, sta alla base della filosofia moderna e parte da una negazione aprioristica del valore dell'esperienza. Questa seconda visione si è diffusa sempre più negli ultimi decenni, causando uno scollamento fra ragione ed esperienza».
- Provo a semplificare. Lo scollamento di cui lei parla si traduce nella tendenza a stabilire regole, categorie preconcette in cui ci si rinchiude. E l'esperienza, ovvero il confronto con la realtà, non basta a scalfirle, neanche se non funzionano. Proprio quello che sta succedendo con la gestione della pandemia. «Sì. Il rifiuto del valore dell'esperienza nasce da un sospetto nei confronti della realtà, che viene percepita come qualcosa di cui non possiamo fidarci. Da qui il desiderio di controllarla anziché di conoscerla. È così che sono nate le ideologie totalitarie. Oggi siamo in un'era di relativismo, ma rimane sempre l'idea che alla fine a contare davvero siano sempre le regole».
- Insomma, tendiamo a rinchiuderci in una prigione burocratica fatta di norme con cui pretendiamo di imbrigliare la realtà. «La burocrazia alla lunga diviene ideologia. Anzi, in un certo senso ne è l'essenza ultima. Infatti, se il cuore dell'ideologia è la mania del controllo attraverso le regole, la burocrazia è mania di controllo allo stato puro. Non importa se le regole funzionino o no, l'importante è che ci siano, perché la loro funzione principale è quella di rassicurarci. Così diventa difficile metterle in discussione, perché sarebbe psicologicamente destabilizzante».
- Qui entra in gioco un tema che si è rivelato centrale nell’approccio alla pandemia, ovvero l'idea del «rischio zero». Invece di affrontare la possibilità del rischio ci ingabbiamo dentro regole che magari non funzionano, ma ci fanno sentire rassicurati. «Questo atteggiamento è diventato comune solo negli ultimi decenni, ma ha radici antiche. La mania del controllo nasce dalla paura di rischiare. Non si vuole più correre rischi, neanche minimi. Ma è una pretesa irrealizzabile, perché la vita è di per sé un rischio. La cosa più rischiosa è nascere, perché chi nasce prima o poi muore. Non è una battuta: pensiamo alla denatalità. Ci sono varie cause, ma la principale è che si pensa: come si fa a far nascere un bambino in questo mondo così terribile? Eppure viviamo nell'epoca più sicura che si sia mai vista in tutta la storia umana. In sostanza, pretendiamo un livello di sicurezza irragionevole».
- Sempre per evitare rischi tendiamo ad affidarci sempre più alle macchine, all'intelligenza artificiale. «Sì, rifiutiamo il giudizio umano e tendiamo a stabilire standard uguali per tutti. Il giudizio personale è visto come qualcosa di pericoloso in sé, perché comporta dei rischi. Ma i giudizi troppo standardizzati sono inadeguati alla complessità del reale».
- Forse questa è anche la ragione per cui si tende a giustificare «scientificamente» le scelte politiche... E facciamo passare questa idea di infallibilità degli scienziati, quasi che fossero moralmente superiori «Intanto dobbiamo considerare che gli scienziati sono esseri umani e quindi spesso, quando cominciano a diventare famosi, perdono un po' la testa e assumono il ruolo di guru. Ma c'è anche una idea sbagliata di scienza. La forza della scienza non deriva dalla superiorità morale di chi la pratica, ma dall'efficacia del suo metodo, che prevede espressamente che si possa sbagliare».
- Eppure gli errori, anche i più evidenti, non vengono mai ammessi. «E stato sbagliatissimo adottare un linguaggio "di guerra". E non solo un linguaggio, perché ci sono state iniziative, soprattutto del governo Conte, veramente molto discutibili, con venature autoritarie inquietanti. Ma è proprio l'idea in sé che è sbagliata. In guerra un esercito molto unito e motivato può vincere anche con una cattiva strategia, ma nelle questioni scientifiche non è così. L'unico modo per aver successo è comprendere come funziona ciò con cui abbiamo a che fare. E questo richiede la discussione critica, non il pensiero unico».
- Anche in questo frangente entra in gioco la paura? «Certo, la paura di accettare che non controlliamo tutto. Preferiamo illuderci di avere il controllo attraverso il proliferare delle regole, anche se non è vero. Altri Stati (di cui non si parla mai) hanno adottato un approccio più pragmatico, seguendo le indicazioni della realtà, e le cose sono andate molto meglio. La Nuova Zelanda alla fine del 2021 aveva appena dieci morti per milione di abitanti, mentre l'Italia ne aveva 2.300, cioè 230 volte di più. In un mondo normale andremmo a chiedergli come hanno fatto, invece continuiamo a dire che siamo noi quelli da prendere a modello».
- Possiamo dire, citando Jünger, che siamo in un'epoca di mobilitazione totale. Ma tante persone partecipano volentieri… «Nel mio articolo ho ripreso una storia citata da Václav Havel. Nella Cecoslovacchia comunista un ortolano metteva in vetrina in mezzo alle verdure un cartello con su scritto "Proletari di di tutto il mondo unitevi". Ovviamente l'ortolano non voleva veramente ottenere il risultato che i proletari di tutto il mondo si unissero: quello che voleva era far vedere a tutti di essere un buon cittadino, esibendo pubblicamente la sua entusiastica adesione al sistema. Questo sta succedendo anche da noi».
- Per quale motivo, secondo lei? «Ci sono persone, per dirla con Hannah Arendt, che hanno rinunciato a pensare in proprio e accettano le idee prevalenti, magari per una possibilità di carriera. Ma ci sono anche altri che accettano ciò che sta accadendo più per rassegnazione che per convinzione. E penso che siano tanti».
- Non hanno avuto molta visibilità, però. «I telegiornali sono andati avanti per due anni facendo parlare solamente chi era favorevole al governo o, fra gli oppositori, solo quelli che avevano idee palesemente assurde e si ridicolizzavano da soli. Le critiche più sensate, le posizioni intermedie, non hanno mai avuto molto spazio, il che è inquietante. Intendiamoci: non credo che ci sia dietro un complotto. Ma c'è una certa tendenza, condivisa un po' a tutti i livelli, che spinge ad andare spontaneamente in questa direzione».
- E la versione aggiornata del totalitarismo di cui parlava Václav Havel? «Sì, è un rischio che Havel aveva già segnalato 40 anni fa nel libro Il potere dei senza potere, che consiglio a tutti di leggere perché sembra scritto oggi. Apre un diverso sguardo sul mondo. Lui aveva detto che quello che stava succedendo nel blocco comunista sarebbe potuto succedere anche da noi, in modi diversi che avrebbero mantenuto tutte le forme esteriori della democrazia. Ciò, paradossalmente, avrebbe reso più difficile riconoscere la natura intollerante e autoritaria del sistema».
- Come lei nota, Havel insisteva molto sulla collaborazione delle persone al regime. « Lui lo chiamava autototalitarismo. Spiegava che nei Paesi comunisti tutti - pur con gradazioni diverse - erano in parte tiranni e in parte vittime, di sé stessi e degli altri. I più mostravano un'adesione che magari non sempre era sincera, ma contribuiva a tenere in piedi tutto il sistema, che altrimenti non sarebbe durato. Infatti, quando il blocco sovietico ha iniziato a creparsi è crollato in tempi rapidissimi. È la storia del re nudo: bisogna che qualcuno cominci a dirlo e se la gente apre gli occhi poi il cambiamento può essere molto veloce».
- Questo autototalitarismo dipende sempre dal timore del rischio? «Sì, al fondo c'è sempre la paura: si preferisce un sistema oppressivo, ma che dia l'illusione di proteggerci. Ecco il vero cambiamento che ci serve: dobbiamo vedere la realtà non come nemica, ma come alleata. E per questo che oggi più che mai è importante difendere la cultura umanistica, perché in questo senso la filosofia e la letteratura aiutano molto».
- Oggi sembra che pensare sia una perdita di tempo: siamo in emergenza, non possiamo ragionare ... «E una tendenza sbagliatissima. Si tende a misurare l'utilità sempre sul breve periodo. Quella del pensiero critico invece richiede tempi più lunghi, ma è un'utilità enorme, perché la disabitudine a riflettere ci porta in un circolo vizioso. La paura ci spinge a pretendere subito la soluzione, senza la pazienza di fare i passi necessari, ma così non la troviamo, il che aumenta il panico e via di seguito. Dobbiamo invertire la tendenza e ricominciare a calibrare il nostro pensiero sulla realtà. Altrimenti continueremo ad andare tutti nella direzione sbagliata».
(La Verità, 19 gennaio 2022)
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Israele valuta di abbandonare il green pass: non ha logica sanitaria
di Raffaele De Luca
In Israele si sta valutando di cancellare il sistema relativo al Green Pass: il ministro delle Finanze, Avigdor Liberman, nelle scorse ore ha infatti comunicato tramite un tweet che non vi sia alcuna «logica medica ed epidemiologica nel Green Pass» e che ciò sia condiviso da «molti esperti». «Quello che c’è, invece, è un impatto diretto sull’economia, sul funzionamento quotidiano (del Paese) e un contributo significativo alla diffusione del panico tra i cittadini», ha precisato il ministro, il quale ha altresì aggiunto di star lavorando «con tutte le parti per eliminare il green pass e preservare una routine di vita normale per tutti». La notizia è stata riportata anche dal quotidiano israeliano Jerusalem Post, il quale non solo ricorda che tali dichiarazioni sono arrivate in seguito alle affermazioni fatte da Liberman insieme al primo ministro Naftali Bennett e al ministro della Salute Nitzan Horowitz – i quali hanno fatto sapere che più di 25 milioni di test antigenici da fare a casa sarebbero stati distribuiti gratuitamente agli israeliani nei prossimi giorni – ma anche che il sistema attuale relativo al Green Pass prevede che solo le persone vaccinate, guarite o testate il giorno precedente – o 72 ore in determinati casi – possono accedere a determinate attività e luoghi e, in alcuni casi, al loro posto di lavoro. Tuttavia il numero individui che contraggono il virus nonostante siano vaccinati o guariti è salito alle stelle con la variante Omicron, e tale sistema dunque potrebbe essere cancellato. Ad ogni modo, la sua eventuale abolizione non può essere ancora data per certa: alcuni funzionari ed esperti sanitari tra cui il direttore generale del ministero della Salute Nachman Ash – sottolinea il Jerusalem Post – sostengono infatti che la vaccinazione e la guarigione offrano ancora un certo grado di protezione e che dunque il sistema relativo al Green Pass dovrebbe essere mantenuto in vigore. Nonostante ciò, però, questi ultimi hanno anche riconosciuto che ad un certo punto potrebbe essere necessario riesaminare la questione. Detto ciò, il ministero della Salute non ha rilasciato dati aggiornati completi sull’andamento della pandemia in Israele dalla scorsa domenica a causa di problemi tecnici, ma ad ogni modo come si può facilmente constatare in Israele nell’ultimo periodo vi sono stati decine di migliaia di casi al giorno. Ad ammettere il diffondersi del contagio è stato lo stesso Ash, il quale ha affermato che «il gran numero di casi verificati e di isolamenti è molto gravoso per l’economia». Proprio per questo sono state adottate «diverse precauzioni che, per quanto implementate, ridurranno i rischi, come l’introduzione di un test necessario per uscire dalla quarantena», del quale fino ad ora non c’era bisogno dato che «il settimo giorno, le persone potevano semplicemente uscire». Insomma, come affermato dal ministro della Salute Nitzan Horowitz il governo si sta impegnando a «fornire tutti gli strumenti per salvaguardare la salute di ogni persona in Israele, oltre a preservare l’economia, l’istruzione e la vita»: in tal senso, stando a quanto dichiarato dal ministro delle Finanze, non è detto che ciò non possa determinare l’abbandono dell’attuale sistema del green pass.
(L'Indipendente, 19 gennaio 2022)
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Covid, svolta vicina in Israele: “stop al sistema del Green Pass, crea panico e danneggia l’economia”
Con un tweet il ministro delle finanze israeliano ha confermato di aver chiesto la cessazione del sistema basato sul Green pass: con la diffusione della variante Omicron il Paese ha registrato un nuovo picco record di contagi, ma l’ingresso negli ospedali inizia a frenare rispetto al numero di positivi.
di Rocco Fabio Musolino
Il ministro delle finanze israeliano Avigdor Liberman ha chiesto la cessazione del sistema basato sul Green pass, in quanto non riveste carattere sanitario, ma genera soltanto una percezione sbagliata della pandemia e danneggia l’economia. “Non c’è logica medica ed epidemiologica – spiega il Ministro tramite il proprio profilo Twitter ufficiale – , e molti esperti concordano. Si tratta di un danno diretto per l’economia, il funzionamento quotidiano e inoltre un contributo significativo al panico nella popolazione. Collaboro con tutti gli esponenti per eliminare il lasciapassare verde e mantenere così una normale routine di vita per ognuno di noi”. Nel frattempo lo stesso Ministro ha confermato l’acquisto di 25 milioni di test antigenici rapidi da consegnare gratuitamente ai cittadini residenti in Israele.
Nonostante l’utilizzo del Green pass, infatti, come accaduto in Italia, il Paese del Medio Oriente ha registrato un record di 65.259 nuovi casi di Covid-19. Secondo lo schema della Certificazione Verde, solo le persone vaccinate, guarite o testate il giorno precedente – o 72 ore in casi specifici – possono accedere in Israele a determinate attività e luoghi e, in alcuni casi, al loro posto di lavoro. Con l’ascesa però della variante Omicron , il numero di infezioni rivoluzionarie e reinfezioni (individui che contraggono il virus nonostante siano vaccinati o guariti) è salito alle stelle, ogni ragionamento va riformulato e il Governo sta guardando verso la convivenza col virus.
Funzionari ed esperti sanitari, tra cui il direttore generale del ministero della Salute Nachman Ash, hanno però ricordato che l’inoculazione dei vaccini e la guarigione offrono ancora un certo grado di protezione molto evidente in alcune fasce di popolazione, quindi il Green Pass dovrebbe essere mantenuto in vigore. Tuttavia, gli scienziati hanno anche riconosciuto che a un certo punto potrebbe essere necessario riesaminare la questione, proprio alla luce della nuova mutazione del virus che appare molto più diffusiva ma meno pericolosa. Se il Green Pass dovesse essere abolito, rappresenterebbe uno dei cambiamenti più drastici nel modo in cui Israele ha affrontato la pandemia. “Credo che il picco si verificherà in un’altra settimana circa”, ha detto Ash ieri. “Tuttavia, stiamo anche vedendo che il numero dei ricoveri è ancora in aumento, ma l’aumento sta rallentando”, in quanto la variante Delta viene sostituita dalla più predominante Omicron.
A partire da martedì, il ministero della Salute non ha rilasciato dati aggiornati completi sull’andamento della pandemia in Israele da domenica notte “a causa di problemi tecnici”. Ci sono stati 65.259 nuovi casi lunedì e 62.210 domenica, ha affermato. Il precedente numero più alto, registrato mercoledì scorso, era stato 48.095. I pazienti in condizioni gravi erano 498, di cui 100 su ventilatori e 13, i casi più critici, su macchine per l’ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO). Martedì scorso i pazienti in gravi condizioni erano 219.
(StrettoWeb, 19 gennaio 2022)
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Israele-Turchia, segnali di disgelo
Segnali di disgelo tra la Turchia e Israele dopo oltre un decennio di tensioni. Un disgelo che potrebbe portare nuovamente alla luce un progetto energetico importante, quello del gasdotto che dal Mediterraneo Orientale dovrebbe portare il gas in Europa attraverso la Turchia.
A dare questi segnali è stato lo stesso presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel corso di una conferenza stampa ad Ankara al termine di un incontro con il presidente della Serbia Aleksandar Vucic. Erdogan ha inoltre confermato di avere contatti con il presidente israeliano lsaac Herzog ché potrebbero sfociare in una visita in Turchia.
Sul fronte del gasdotto il capo di Stato turco ha ammesso che anche «il premier israeliano Naftali Bennet sta inviando messaggi a vari livelli».
I segnali di disgelo giungono in un momento particolarmente critico per l'economia turca, alle prese con un'inflazione a due cifre.
(Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2022)
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Accordi di Abramo: sono di Trump. Quindi vengono nascosti da tutti
Anche se hanno sciolto i rapporti fra Israele e il mondo arabo
di Andrea Molle
Degli Accordi di Abramo non parla mai nessuno, li si tiene nascosti quasi come se ne si debba vergognare, benché siano il passo più grande e forse l'unico veramente importante nel faticoso percorso di normalizzazione del Medio Oriente. La ragione di questo assurdo silenzio è piuttosto semplice da capire.
L’apertura dei rapporti diplomatici tra il mondo arabo e Israele, avvenuta durante la presidenza Trump (l'uomo cattivo per eccellenza!), rompe con gli schemi cari agli interessi di diversi paesi e soggetti politici. Si tratta di schemi che hanno risolto ben poco negli ultimi 74 anni, ma che hanno avuto il merito di offrire decenni di rendita politica legata a una visione propagandisticamente appagante dove gli arabi, che con Arafat cominciarono ad autodefinirsi come palestinesi appropriandosi di un'identità culturale già usata per secoli dagli ebrei sotto diversi domini stranieri, erano sempre e comunque le vittime a cui tutto era concesso, e in cui l'intero mondo islamico era tenuto in scacco dalla narrazione messianica di uno scontato, ma scomodo, fronte anti-ebraico.
Con la sua consueta mancanza di tatto e completa noncuranza dello status quo, che altrove non ha certo contribuito alla sua immagine di fine statista, Trump ha rotto l'amato giocattolo e ha permesso a paesi come il Bahrain e il Marocco, per citarne alcuni, di riallacciare i rapporti con Tel Aviv. Ma l'importanza degli accordi non si limita alla politica, al mondo degli affari o al turismo. Essa si estende sempre di più e con conseguenze ancora più grandiose alla cultura e al dialogo interreligioso, permettendo finalmente di iniziare un percorso di guarigione tanto agognato tra il mondo ebraico e quello mussulmano.
Quando il Re del Marocco, accogliendo a braccia aperte il rilancio delle relazioni con Israele, ipotizza ingenti investimenti nella preservazione del patrimonio ebraico sefardita del paese; quando finalmente si levano le voci di Imam che ammettono, senza mezzi termini, che il Monte del Tempio è luogo sacro dell'ebraismo e che Gerusalemme è innanzitutto la capitale di Israele il cui rapporto di alleanza con Allah non può essere messo in discussione da nessuno, non si può che ben sperare. Ma non lasciamoci ingannare dai progressi fatti.
La strada è ancora lunga e insidiosa laddove in molti vogliono preservare, per interesse o semplice ignoranza, il conflitto, noncuranti di quanti innocenti finiranno per pagarne il prezzo. Accettare il silenzio sugli Accordi di Abramo ci rende tutti complici.
(ItaliaOggi, 19 gennaio 2022)
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Può un attentato contro una sinagoga non essere antisemita?
di Ugo Volli
Questa volta è finita bene. Il sequestro degli ostaggi alla sinagoga “Beth Israel” di Colleyville, in Texas, non ha prodotto vittime innocenti: dei quattro sequestrati uno è stato liberato durante le undici ore di assedio e tre sono riusciti a fuggire in mezzo all’azione della polizia, in cui è stato ucciso solo l’attentatore. Non sempre finisce così: negli Usa, che per tanti decenni erano apparsi come la terra più libera per gli ebrei, ormai gli attacchi alle sinagoghe sono numerosi e spesso mortali. Difficile dimenticare, per esempio, la strage del 2018 alla sinagoga Etz Haim di Pittsburgh, in cui un terrorista ha ucciso 11 fedeli in preghiera. La presa di ostaggi a Colleyville è l'ultimo di una serie di attacchi e incidenti antisemiti in Texas e negli Stati Uniti. Da ottobre a dicembre, ci sono stati almeno 10 incidenti antisemiti nello stato, principalmente nel Texas centrale. Lo scorso autunno, per esempio c’è stato un incendio che ha causato gravi danni a una sinagoga di Austin. Ciò è avvenuto subito dopo che alcuni studenti hanno vandalizzato una scuola superiore di Austin con svastiche. Più o meno nello stesso periodo, una dozzina di persone ha esposto uno striscione contro gli ebrei su un cavalcavia autostradale ad Austin. Volantini antisemiti sono stati recentemente sparsi anche in varie città e quartieri della contea di Hays, nel sud del Texas. In tutti gli Usa, soprattutto nelle università ma anche in luoghi simbolici come il Dipartimento di Stato sono state trovate svastiche, volantini contro gli ebrei e Israele; nel frattempo nelle università vi sono stati licenziamenti di professori perché ebrei e sostenitori di Israele, decisioni di boicottaggio, autorizzazione di corsi in cui si fa propaganda per il BDS e si giustifica il terrorismo palestinese .
Paradossalmente, della campagna contro gli ebrei fa parte la negazione del carattere antisemita di questi incidenti, in particolare quando essi sono motivati da odio per Israele e per l’America da parte di soggetti islamici. Così secondo quel che hanno affermato spesso le autorità accademiche, non sarebbe antisemita sciogliere un gruppo studentesco o licenziare un docente che offrono appoggio a Israele o disinvestire selettivamente i fondi universitari dalle imprese che lavorano con Israele. Così però è accaduto anche a Colleyville. Subito dopo i fatti, gli agenti dell’FBI hanno dichiarato che l’attentato secondo loro non aveva motivazioni antisemite, come ha raccontato con sconcerto uno dei più importanti giornali dell’ebraismo americano, la rivista Tablet. La ragione è che l’attentatore, Malik Faisal Akram, definito britannico da tutta la stampa e nei comunicati ufficiali in quanto portatore di un passaporto inglese, ma proveniente dal Pakistan, chiedeva come condizione per rilasciare gli ostaggi la liberazione di una terrorista, Aafia Siddiqui, neuroscienziata pachistana nota come "Lady Al-Qaeda", colpevole di avere organizzato attentati contro i militari americani.
Il fatto è però che dal punto di vista islamista la lotta contro gli Usa, l’Occidente, Israele e gli ebrei sono parti della stessa battaglia e, guarda caso, Malik Faisal Akram non aveva sequestrato i fedeli per esempio nelle due chiese cristiane che si trovano sulla stessa strada della sinagoga, né avventori di negozi e fast food lì intorno. Durante il sequestro il terrorista aveva cercato di trattare non con autorità locali ma con un rabbino di New York, cui ha fatto due telefonate. Insomma l’obiettivo della sua azione poteva essere diverso dall’assalto diretto agli ebrei, che pure ha commesso, ma le modalità mostrano un odio specifico, di cui non è possibile negare il carattere antisemita. Va anche detto che la campagna per la liberazione di "Lady Al-Qaeda", prima di questo sequestro, ha coinvolto molti dei gruppi estremisti di sinistra che fanno campagna contro Israele e anche gli ebrei, considerati dal mondo “woke” parte dell’”1 per cento bianco” che opprime indifferentemente neri, palestinesi, omosessuali, insomma tutte le minoranze. E’ un atteggiamento che purtroppo si sta diffondendo anche fra le autorità. La negazione diffusa del carattere antisemita delle campagne contro Israele e gli ebrei, o, come si preferisce dire, “i sionisti”, dunque la loro “correttezza politica” è oggi fra i problemi più pressanti che l’ebraismo americano deve imparare a riconoscere.
(Shalom, 19 gennaio 2022)
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Bennett: L’unico accordo con l’Iran accettabile per Israele è quello che esclude lo sviluppo di armi nucleari
Il primo ministro israeliano mette in guardia dal revocare le sanzioni contro Teheran: “Significherebbe avere terrorismo con gli steroidi”.
Il norvegese Borge Brende, presidente del World Economic Forum intervista il primo ministro israeliano Naftali Bennet durante l’incontro online Davos 2022
Un accordo con l’Iran accettabile per Israele è solo quello che non consenta alla Repubblica Islamica di arricchire l’uranio ad alti livelli.
Lo ha affermato martedì il primo ministro israeliano Naftali Bennett intervenendo in videoconferenza al World Economic Forum di Davos. “Concretamente – ha detto Bennett a chi gli chiedeva quale tipo di accordo tra le potenze mondiali e l’Iran verrebbe approvato da Israele – l’Iran deve rinunciare al suo programma per armi nucleari. Perché mai si dovrebbe legittimare il diritto dell’Iran di arricchire l’uranio a un livello altissimo? Ora lo stanno arricchendo al 60%, in quei loro enormi impianti. Perché lo stanno facendo? Uranio arricchito al 60% non serve a nient’altro che un’arma nucleare”....
(israele.net, 19 gennaio 2022)
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Festival delle Memorie e le irricevibili dichiarazioni di Vittorio Sgarbi
di Walker Meghnagi
Il Presidente della Comunità Ebraica di Milano Walker Meghnagi esprime il proprio sdegno e indignazione riguardo all’iniziativa del Festival delle Memorie in programma al Teatro Comunale di Ferrara in occasione del Giorno della Memoria, ritenendo che questa manifestazione diluisca la specificità della Shoah nel contesto di altri genocidi.
Ogni genocidio merita rispetto e riflessione, non un Festival il cui termine è già di per sé molto discutibile. Si tratta di un’operazione che inevitabilmente apre le porte a quella memoria fluida e indistinta incorrendo nella banalizzazione della Shoah.
È altresì grave, che durante la conferenza stampa della sua presentazione, ad avvalorare questo rischio, il Parlamentare Vittorio Sgarbi abbia accusato lo Stato Ebraico di compiere un genocidio nei confronti dei palestinesi, incorrendo in questo modo in uno degli esempi di definizione IHRA di antisemitismo.
Doppiamente grave, poiché quest’accusa è avvenuta nello stesso contesto in cui si vorrebbe ricordare il genocidio ebraico per mano nazista, istituendo di fatto un parallelo insostenibile tra nazisti ed ebrei e che va rigettato immediatamente.
La Comunità Ebraica di Milano si unisce al Meis e al Centro Wiesenthal di Parigi che sono intervenuti per esprimere una condanna nei confronti di queste inaccettabili affermazioni, poiché l’esercizio della Memoria passa attraverso la riflessione, la conoscenza della specificità della Shoah e non da facili accostamenti, soprattutto in un momento in cui il negazionismo e l’antisemitismo si stanno riaffacciando con prepotenza nella nostra società.
(Bet Magazine Mosaico, 18 gennaio 2022)
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Principio di legalità cancellato
Se lo stato, invece di dare la disciplina normativa di un fenomeno, interviene grazie all’emergenza su quel fenomeno ogni quindici giorni e ogni mese, quel fenomeno non risponde più a un principio di legalità, perché il principio di legalità consiste nel fatto che lo stato dà la legge e i cittadini confidano su quella legge e sulla sua stabilità.
Giuliano Scarselli
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Stato di eccezione ed eclissi della legge
Questo articolo è la trascrizione di un intervento di Giorgio Agamben al convegno di intellettuali italiani no green pass tenutosi a Torino l'11 novembre 2021. Ne hanno parlato i giornali e anche diversi intellettuali, molti dei quali non hanno fatto mancare stroncature e derisioni, come ormai è stile comune di chi segue la narrazione ufficiale governativa in fatto di vaccino e certificazione coatta. Non si prendono in seria considerazione gli argomenti e si preferisce colpire le persone. Si fa così perché le tesi ufficiali fanno acqua da tutte le parti, e per evitare che questo venga alla luce troppo chiaramente si fa in modo ... di parlare d'altro. Cioè dei renitenti alla leva vaccinale. L'ordine sublimato che si diffonde dall'alto è questo: non cercate di difendere vaccino e certificato del governo, ma parlate male di quelli che vi si oppongono. Calunniate, calunniate, "il en resterà toujours quelque chose". NOTA. La trascrizione è stata leggermente adattata alla forma scritta del discorso. I titoli dei paragrafi e il risalto in colore sono di redazione. In allegato la registrazione.
di Giorgio Agamben
Vorrei fissare alcuni punti per cercare di definire la trasformazione surrettizia, ma non per questo meno radicale, che sta avvenendo nell'ordinamento giuridico politico in cui viviamo. Quasi venti anni fa avevo constatato che lo stato di eccezione stava diventando la forma normale di governo. Vorrei aggiungere qualche considerazione alla luce della prassi governamentale della cosiddetta emergenza sanitaria.
• ILLEGALITÀ NORMALIZZATA Lo stato di eccezione è uno spazio di sospensione della legge, quindi uno spazio anomico che si pretende però incluso nell'ordinamento giuridico. Avevo definito questa situazione come una separazione della forza di legge dalla legge in senso formale. Lo stato di eccezione definisce una condizione della legge in cui da una parte la legge teoricamente vige, ma non ha forza, non si applica, e dall'altra provvedimenti e misure che non hanno valore di legge ne acquistano la forza. Si potrebbe dire che, al limite, la posta in gioco nello stato di eccezione è una forza di legge fluttuante senza legge. Comunque si definisca questa situazione, sia che la si consideri come interna allo stato deciso nell'ordinamento giuridico o come esterna ad esso, in ogni caso essa si traduce in una sorta di eclissi della legge, in cui la legge permane ma non emana più la sua luce. Se poi, come avviene oggi, lo stato di eccezione diventa la regola, l’eclissi della legge è tanto più visibile e dà luogo ad un’abolizione di quel principio fondamentale del nostro diritto che è la certezza della legge. Una legge che può essere in ogni momento sospesa e separata dalla sua forza è una legge incerta. E una legge incerta non è più una legge. Giuliano Scarselli ha definito molto bene questa situazione:
“Se lo stato, invece di dare disciplina normativa di un fenomeno, interviene grazie all’emergenza su quel fenomeno ogni quindici giorni e ogni mese, quel fenomeno non risponde più a un principio di legalità, perché il principio di legalità consiste nel fatto che lo stato dà la legge e i cittadini confidano su quella legge e sulla sua stabilità”.
Viene meno dunque quella che si chiama la “certezza del diritto”. Se lo stato altera la normativa in ogni momento, e soprattutto dà l’idea o addirittura afferma che quel fenomeno può essere sempre oggetto di nuovi interventi e modificazioni, a quel punto quel fenomeno non può più dirsi regolato dalla legge perché di fatto è invece rimesso all'arbitrio del potere pubblico che si attribuisce il diritto di cambiare le regole in ogni momento. Ecco questa è la cancellazione della certezza del diritto ed è il primo fatto che vorrei sottoporre alla vostra attenzione perché esso implica una mutazione radicale del nostro rapporto con l’ordine giuridico e anche dello stesso nostro modo di vivere perché si tratta di vivere in uno stato di illegalità normalizzata.
• SOVRANITÀ E STATO DUALE Il secondo punto riguarda la sovranità. La sovranità è definita dalla decisione sull'eccezione. “Sovrano è colui che il potere di decidere sullo stato d'eccezione”. Stato di eccezione e stato normale non possono coincidere; il sovrano che si tiene insieme fuori e dentro l'ordine giuridico garantisce con la sua decisione, necessariamente puntuale, la loro possibile convivenza. Ma quando l'eccezione diventa la regola, il sovrano e la decisione perdono il loro luogo e il semplice esercizio del potere occupa il posto che essi hanno lasciato vuoto. Se la legittimità del sovrano si fondava sulla decisione sull'eccezione, il sovrano agisce ora senza alcuna legittimità, e l'emergenza che aveva condotto un’eclissi della legge produce anche un’eclissi e un singolare sfumare nella figura del sovrano che lascia sempre più il campo, come vediamo oggi con chiarezza, all'azione di forze esterne all’ordine giuridico. Attraverso la nozione di stato duale alcuni autori hanno cercato di spiegare lo stato nazista, che eticamente è uno stato in cui lo stato di eccezione non è mai stato revocato. Lo stato duale è uno stato in cui allo stato normativo si affianca uno stato discrezionale, uno stato delle misure eccezionali, e il governo degli uomini e delle cose è opera della loro ambigua collaborazione. Una frase di Fraenkel è significativa in questa prospettiva: "Per la sua salvezza il capitalismo tedesco necessitava non di uno spazio unitario, ma di un doppio stato, arbitrario nella dimensione politica, più razionale in quella economica". Io credo che è nella discendenza di questo stato duale che si deve situare un fenomeno, la cui importanza non potrebbe essere sottovalutata, che riguarda il mutamento della figura stessa dello stato che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Intendo riferirmi a quello che i politologi americani chiamano “The administratif state”, lo stato amministrativo. Si tratta di un modello di stato in cui la governance, l'esercizio del governo, eccede la tradizionale ripartizione dei poteri legislativo, esecutivo, giudiziario, e agenzie non previste nella costituzione esercitano in nome dell'amministrazione e in modo discrezionale funzioni e poteri che spettavano ai tre soggetti costituzionali. Si tratta di una sorta di leviatano amministrativo che si suppone girare nell'interesse della collettività anche trasgredendo il dettato della legge e della costituzione, allo scopo - si dice - di assicurare e guidare non la libera scelta dei cittadini, ma quella che si chiama la "navigabilità”, cioè in realtà la governabilità delle loro scelte.
• STRUTTURA DUALE E GOVERNANCE NAZISTA E' quanto oggi mi sembra stia avvenendo in maniera fin troppo evidente quando vediamo che il potere decisionale viene esercitato da commissioni e soggetti, i medici, gli economisti, gli esperti del tutto esterne al potere costituzionale. Assistiamo qui a trasformazioni informali del testo costituzionale. E attraverso queste procedure fattuali, la costituzione viene alterata in modo ben più sostanziale di quanto avvenga attraverso il potere di revisione previsto dai costituenti, fino a diventare, come diceva un discepolo di Marx, soltanto un papierstück, un pezzo di carta. Ma il fatto davvero significativo è che queste trasformazioni si modellino sulla struttura duale della governance nazista: un fatto grave che sta avvenendo ed è connesso allo stato duale. Quindi è il concetto stesso di governo, cioè di una politica intesa come arte del governo, che occorre mettere in questione. Credo che una riflessione critica sul concetto di governo sia necessaria.
• LIBERTA' AUTORIZZATE Vorrei definire due caratteri essenziali di questa nuova figura dello stato amministrativo. Primo il paradigma delle libertà autorizzate di cui il green pass è l’esempio perfetto. Nel diritto amministrativo l'autorizzazione è un atto che non attribuisce nuovi diritti ma permette l'esercizio di diritti già esistenti. Così oggi vediamo che libertà che sembravano andare da sé come il diritto di uscire di casa per passeggiare o quello di prendere un treno per spostarsi da una città all'altra hanno bisogno per essere esercitate di una autorizzazione. La parola autorizzazione viene dal latino auctor. Nel diritto romano auctor è colui che interviene a integrare l'atto di qualcuno che non ha la capacità di produrre atti in sé validi. Per esempio un minore, o un pazzo. Nel regime delle libertà autorizzate ciò significa che i cittadini sono incapaci di esercitare in modo pienamente valido le loro libertà o i loro diritti e hanno bisogno per farlo di un'autorizzazione. Si tratta in fondo di uno stato di minorità generalizzato che i cittadini devono subire ogni volta esibendo il loro green pass che scambiano invece per una garanzia di libertà. I cittadini invece di accorgersi che sono stati ridotti in stato di minorità scambiano il loro green pass come una garanzia di libertà; senza pensare che così com'è stata accordata, l'autorizzazione potrà essere revocata quando l'auctor lo giudicherà opportuno. Ma al di là dell’esempio contingente, è il concetto stesso di libertà che sta mutando da cima a fondo. E la prima conseguenza è una depoliticizzazione della cittadinanza. Se la democrazia era nata ad Atene nel quinto secolo attraverso una politicizzazione della cittadinanza, la fine delle democrazie occidentali coincide con un’assoluta depoliticizzazione dei cittadini.
• IL CONCETTO DI SUBORDINAZIONE Un secondo carattere del leviatano amministrativo è l’estensione particolare del concetto di subordinazione. La subordinazione è una categoria giuridica che gli studiosi di diritto amministrativo non sempre riescono a definire con chiarezza e precisione, ma che riguarda essenzialmente il rapporto gerarchico all’interno degli organi dell'amministrazione statale. Un soggetto è subordinato ad un altro quando questo è legittimato a impartirgli unilateralmente dei comandi e a determinare così il suo modo di agire. Quello che sta avvenendo nell’emergenza sanitaria è che tutti i cittadini che sono stati privati della loro attiva partecipazione alla vita politica diventano però occasionalmente parti subordinate dell’ordine burocratico e partecipano in questo senso all’esercizio di funzioni di controllo che competono solitamente ai membri della pubblica amministrazione. Così come l’esercizio delle libertà dei cittadini ha bisogno ora di un’autorizzazione, così ciascuno deve esercitare all’occasione la funzione subordinata di controllo delle autorizzazioni degli altri.
• ONTOLOGIA DEL CONTROLLO Filosofi e politologi sanno da tempo che le nostre società sono passate dal modello delle società di disciplina a quello delle società di controllo. Il termine controllo è relativamente recente e come tale non figura nel grande dizionario Tommaseo e Bellini. Vi appare invece la voce “controllare” che il Tommaseo considera una voce straniera che suggerisce tradurre alla lettera come “contro ruolo” e a cui fa corrispondere l'italiano riscontro e il verbo riscontrare. L’osservazione è molto pertinente perché il termine controllo deriva dal francese Contre Role che è un registro che fa da riscontro a un altro. Si ha controllo ogni volta che si fa corrispondere un dato a un altro per verificarne l'esattezza, la validità o anche semplicemente la pura e semplice esistenza. A me sembra che il controllo capillare e generalizzato che si sta instaurando nelle nostre società post democratiche, anche se può essere ed è certamente usato per degli scopi particolari poco edificanti, nella sua essenza non sia un mezzo, ma piuttosto un fine, anzi il fine ultimo della vita sociale. La società tende al riscontro universale, al contro ruolo generale di ogni cosa con un’altra. Vi è cioè una ontologia del controllo. Essere significa essere controllati.
• CONTROLLO UNIVERSALE COME FINE DELLO STATO MODERNO Che in questo modo il controllo giri su se stesso ed il riscontro tenda a sostituirsi all’atto di cui fornisce il contro ruolo, che esso prenda in questo modo il posto della vita togliendole lo spazio di cui essa ha bisogno per vivere, è certamente possibile, anzi credo che è questo che sta avvenendo oggi sotto i nostri occhi. E’ stato detto che lo stato moderno vive di presupposti che non può garantire. E’ possibile che un controllo assoluto e autoreferenziale sia la forma in cui questa assenza di garanzie ha raggiunto la sua massa critica, e che lo stato moderno sia giunto alla fine della sua storia e che è questa fine che noi stiamo vivendo. In questo senso il controllo universale corrisponderebbe parodicamente al sapere assoluto della filosofia hegeliana. Essa nel paradigma di una religione ormai sottomessa e allineata, l’ultimo giorno coincideva col giudizio universale, nella sua secolarizzazione informatica la nuovissima dies che viene continuamente aggiornata è quella del controllo universale coi suoi dannati e i suoi eletti, i suoi sommersi e i suoi soldati.
Registrazione
(Notizie su Israele, 18 gennaio 2022)
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I nostri figli stanno pagando le colpe dei politici
Lettera a La Verità
Sono una mamma di 49 anni che ha due figli, una di 20 e uno di quasi 15. Vorrei solo descrivere il mio stato d'animo. Non per me, io ormai la mia vita l'ho fatta, bensì per i miei figli e forse anche per quei pochi o tanti, non so, che non si sono piegati all'obbligo del green pass. Vedere i ragazzi privati dei loro diritti allo studio, del lavoro, di essere liberi di circolare e di fare sport è demoralizzante.
Vedere i propri figli privati di tutto, quella di 20 per sua scelta, il piccolo per scelta nostra, è veramente triste. Sentirsi dire da tuo figlio: «Mamma, non posso entrare con i miei amici a fare colazione al bar» intanto che aspettano di andare a scuola con le lacrime agli occhi è una ferita al cuore immensa. Mia figlia ha 20 anni non può vivere il periodo dell'università e i momenti di aggregazione con gli amici: a volte è forte e decisa nella sua scelta e a volte fragile con gli occhi pieni di lacrime perché si sente sola e sempre a casa. La cosa che più mi dà fastidio è che non solo in questi due anni, ma anche già da prima, il popolo italiano non è mai stato ascoltato ed è stato sempre preso in giro. Chi è al governo non pensa al bene del Paese, è vergognoso avere una sanità che fa acqua da tutte le parti, le scuole ridotte a volte senza la carta igienica e le persone che muoiono sotto un ponte per colpa di gente superficiale e menefreghista. Anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno dei figli. .. auguro a loro di non vederli mai soffrire per colpa di imposizioni che non dipendono dalle normali regole della vita, ma da un governo vile e assente verso il suo popolo. La ringrazio per tutto quello che sta facendo ... una voce fuori dal coro e un giornalismo corretto e pulito. Scusi questo mio sfogo ... grazie. Una mamma e una donna fiera di essere italiana.
Marcella Barrera
(La Verità, 18 gennaio 2022)
E il governo provoca tutto questo per conservarci in salute?
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«Cosa ci dice Israele? Dopo secoli la caccia è finita»
Le grandissime difficoltà della sinistra a capire la questione ebraica. Il ritorno continuo dell'antisemitismo. Si affida tutto agli ebrei come individui, niente come nazione. È da qui che nasce l'antisionismo». Intervista a David Meghnagi.
di Umberto De Giovannangeli
Più che una intervista, è un affascinante viaggio storico, culturale, psicologico, politico, nell'ebraismo. Un viaggio che investe i rapporti tra la sinistra e la diaspora ebraica, la sinistra e Israele. Un viaggio che Il Riformista fa con David Meghnagi, già Vicepresidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei) e delegato per l'Italia presso la Conferenza dell'Osce contro l'antisemitismo. Tra i suoi libri, ricordiamo Ricomporre l'infranto. L'esperienza dei sopravvissuti alla Shoah (Marsilio, 2005); Le sfide di Israele. Lo Stato ponte tra Occidente e Oriente (Marsilio, 2010); Il padre e la legge. Freud e l'ebraismo (Marsilio, 2010); Libia ebraica. Memoria e identità, testi e immagini (Feltrinelli, 2020).
- La sinistra, Israele, il mondo ebraico. Un rapporto complicato, in alcuni momenti storici drammatico. In questo contesto, cosa rappresenta Israele? Israele è il prodotto della storia ebraica. Una storia millenaria. Lo Stato d'Israele è il risultato di un movimento di liberazione di esseri umani da una oppressione che è andata avanti nel corso dei millenni sia nel mondo cristiano, in modo atroce in alcuni momenti, sia nel mondo islamico, in altri. E poi la tragedia del '900. Uno dei grandi errori che ha fatto la sinistra, alla fine dell'800, è stato quello di non comprendere le aspirazioni nazionali ebraiche che si fanno movimento, a partire dall'est e dal cuore dell'Europa, soprattutto dopo l'affaire Dreyfus. Ciò che continua a non essere compreso pienamente è il processo dialettico che riguarda il rapporto tra il mondo ebraico e Israele. Buona parte del popolo ebraico, più del 50%, vive oggi in Israele, perché ormai è questa la geografia dell'ebraismo. Una geografia che è profondamente cambiata dopo la Seconda guerra mondiale, nel senso che Israele prima non esisteva, in quell'area, nell'800, vivevano poche decine di migliaia di persone. Con l'avvento del nazismo in Germania e del fascismo in Italia e con la Seconda guerra mondiale, i grandi polmoni dell'ebraismo sono spariti, distrutti, sterminati. L'ebraismo dell'Europa occidentale è largamente sparito. Esiste l'ebraismo americano come contraltare a quello israeliano. Con la geografia è cambiato completamente anche il dibattito politico e culturale sui rapporti tra ebraismo e Israele. Dibattito falsato da una percezione che risale ad una epoca diversa, quella di fìne '800 in cui c'erano 18 milioni di ebrei nel mondo, di essi ne sono scomparsi 6 milioni nell'immane tragedia della Shoah. Gli ebrei che vivono in altri paesi che non siano Israele, a quei paesi appartengono, dal punto di vista della cittadinanza, della cultura. Oggi viviamo un'epoca in cui le pluri-appartenenze sono riconosciute, declinate, ma curiosamente vengono messe in discussione ogni qualvolta si parla di ebrei.
- Una "strana" peculiarità ... Di cui faremmo volentieri a meno. Nessuno si pone una domanda di fronte alla pluri-appartenenza, per esempio, di un immigrato proveniente dai Balcani o dal mondo arabo o altro, che ha una doppia cittadinanza. Mentre nei confronti dell'ebreo, proprio per una storia di lungo periodo legata all'antisemitismo, questo meccanismo scatta sempre e c'è l'accusa, implicita, di una doppia appartenenza. In realtà, gli ebrei italiani sono italiani, hanno un profondo legame con Israele. Un legame differenziato, alcuni sono identificati di più, altri di meno. Fatto sta che agli occhi di gran parte dell'ebraismo, oggi, l'esistenza di Israele sta a significare simbolicamente una cosa ..
- Quale, professor Meghnagi? Che la stagione della caccia è finita. Questo è ciò che Israele dice al mondo oggi. Ma il messaggio ancora più profondo è che l'esistenza di Israele oggi costituisce un arricchimento del mondo intero.
- Perché? Perché è una realtà culturale nuova che è emersa. Una realtà che nel Medio Oriente ha realizzato uno Stato democratico, con tutte le contraddizioni che ci sono in quell'area lì. E ha restituito ossa a un ebraismo che altrimenti sarebbe precipitato in un lutto senza fine. Se Israele fosse stato annientato, cancellato dai paesi arabi con la guerra del '48-'49, secondo me la melanconia e il lutto sarebbero penetrati profondamente nell'anima ebraica, perché gli ebrei erano usciti dallo sterminio, non dimentichiamolo mai. La distruzione di Israele avrebbe causato un lutto senza fine. - Il Presidente emerito Giorgio Napolitano ebbe a dire che l'antisionismo è forma moderna dell'antisemitismo. È ancora così? Purtroppo sì. Napolitano fece per la prima volta quell'affermazione in un dibattito che io avevo contribuito a realizzare. Io ho lavorato a lungo con Napolitano, con Fassino, pur non appartenendo al loro partito. Da senza tessera, ho lavorato negli anni '80 per gettare un ponte per la sinistra italiana e quella israeliana. Quando misi in piedi il Comitato accademico europeo contro l'antisemitismo, intorno al 2000, il Presidente Napolitano ribadì in pubblico questa espressione, che aveva affermato anche durante un dibattito in cui ero presente e partecipe. Esordì dicendo che sionismo non è una brutta parola. Purtroppo, però, l'antisionismo e l'antisemitismo permane ancora oggi e per tanti motivi ...
- Quali quelli più pervasivi? Anzitutto va detto che dal punto di vista etimologico si tratta di due fenomeni profondamente diversi. Nel senso che l'antisionismo di fine '800 è presente anche all'interno del mondo ebraico. Nel senso che ci sono settori dell'ebraismo religioso che sono stati profondamente ostili al sionismo. Si pensi che nel 1935 addirittura si tenne un convegno che definiva il sionismo come un pericolo per il giudaismo, all'interno di settori dell'ortodossia, così come all'interno della sinistra marxista ebraica ma anche del Bund (l'Unione generale dei lavoratori ebrei di Russia, Polonia e Lituania, ndr) che proponeva nell'Est Europa l'emancipazione culturale e non politica all'interno di un atteggiamento di ostilità verso una opzione di tipo nazionale. Ma è un dibattito vecchio, legato alla fine dell'800, alle scelte che dividevano il mondo ebraico rispetto al futuro ed anche ad una incapacità della sinistra nel suo insieme, un fenomeno questo di lungo periodo, di accettare l'idea che gli ebrei potessero declinare una loro identità nazionale distinta.
- Perché questa negazione? Per il semplice motivo che nella cultura dell'universalismo politico della sinistra confluiva tutta una tradizione che nella peggiore delle ipotesi guardava all'ebraismo in senso negativo, si pensi alla polemica di Marx con Bauer. Marx contesta Bauer ma fa suoi i pregiudizi antiebraici anche se li storicizza. Nella migliore delle ipotesi, c'è una svalutazione dell'ebraismo come tale e tutto viene ridotto al diritto degli ebrei all'emancipazione sul piano individuale. Basti pensare, ad esempio, al dibattito nell'Assemblea nazionale francese in cui si affida tutto agli ebrei come individui, niente come nazione. Questo fa parte della declinazione dell'emancipazione, così è stata vista dagli Stati nazionali europei tra il '700 e la fine dell'800. La prospettiva cambia un po' in paesi come la Gran Bretagna e anche negli Stati Uniti dove c'è una concezione dei rapporti interreligiosi diversa e dove c'è un fenomeno evangelico che all'epoca si affermava nei settori della sinistra e non in quelli della destra come avviene oggi, per esempio negli Usa, che guardava con simpatia al ritorno degli ebrei nella Terra promessa come premessa del ritorno di Cristo in terra. Una visione religiosa profondamente diversa da quella cattolica. Nella peggiore delle ipotesi, l'ebraismo come tale veniva demonizzato. Così il cerchio si chiudeva: la destra demonizzava l'ebraismo come tale e la sinistra accettava il diritto degli ebrei all'emancipazione ma non il diritto a declinare la propria identità nazionale. E questo anche perché nei movimenti escatologici e rivoluzionari la prospettiva era del superamento dell'identità nazionale per costruire il socialismo mondiale e associare l'"uomo nuovo". Questo era il mito dominante nei movimenti rivoluzionari. E siccome gli ebrei apparivano come coloro i quali si erano distanziati di più dall'identità nazionale perché non avevano uno Stato da millenni, loro dovevano sacrificarsi per primi. Basta leggere Kautsky nel suo scritto del 1914 intitolato Rasse und judentum. Uno scritto molto interessante perché utilizza la parola "razza" e lui era il massimo esponente del Partito socialdemocratico tedesco e della socialdemocrazia europea. In quel libro, Kautsky affermava, come aveva fatto anche Lenin, che gli ebrei erano un fattore rivoluzionario nella società ma l'ebraismo era un fattore reazionario.
Questa dialettica all'interno del dibattito della sinistra europea si è conservata successivamente come traccia anamnestica. Non dimentichiamo che i primi movimenti socialisti, parlo dei Falastini o di Proudhon, erano antisemiti in maniera esplicita ed aperta. L'odio di Proudhon per gli ebrei era forse superato solo da quello verso le donne. Anche Fourier era antisemita. Il fatto che a un certo momento la sinistra diventi consapevole del pericolo rappresentato dall'antisemitismo è determinato da un lungo processo e da una aspra battaglia all'interno del movimento operaio. E questo avviene soprattutto con l'affaire Dreyfus. All'inizio i socialisti guardano alla vicenda di Dreyfus come uno scontro interno alla borghesia ma piano piano si rendono conto che in pericolo è la democrazia, le conquiste della Repubblica. La sinistra combatte l'antisemitismo non perché ama gli ebrei o non perché riconosce il loro diritto ad una identità nazionale distinta ma semplicemente perché emerge questa consapevolezza. Basta vedere il dibattito nel partito socialdemocratico russo fino al '17. Nel 1903, quando si fondò il Partito, si riuniscono delegati menscevichi e bolscevichi, che ancora non si chiamavano tali, e gli esponenti del Bund. Ebbene, la prima cosa che fanno è di cacciare via quelli del Bund. E il Bund non era sionista, ma rivendicava il diritto degli ebrei all'autonomia culturale, dopo peraltro i pogrom che c'erano stati a Kishinev. I pogrom che si erano scatenati a partire dal 1880-81 hanno portato all'emigrazione di massa di oltre 1 milione di ebrei dai paesi dell'Est Europa. Dopo l'espulsione del Bund, Plekhanov, il grande leader e filosofo della socialdemocrazia russa e del Partito bolscevico, accusa il Bund di essere dei "sionisti col mal di mare". È molto interessante questa affermazione, perché la dice lunga sulla percezione che si aveva. Dopo aver cacciato via il Bund, menscevichi e bolscevichi si scontrano tra di loro per l'organizzazione del partito. Anche lì, da una scissione si passa ad un'altra. Il seme dell'intolleranza sta alla radice della percezione del problema. Le faccio un altro esempio significativo. Facendo parte di un impero multinazionale come era l'impero austroungarico, i marxisti ungarici, che erano tra i più avanzati su questo piano, elaborarono una idea dell'autonomia delle nazionalità all'interno dell'impero austroungarico, diversa, ad esempio, da quella del marxismo russo e del marxismo tedesco. Guarda caso, però, proprio agli ebrei veniva negato il diritto all'autonomia nazionale e culturale. È interessante, perché era l'unica nazionalità dell'impero austroungarico che non aveva un diritto nello specifico, in una realtà imperiale in cui vivevano oltre 5milioni di ebrei dell'Est Europa, che erano una vera e propria nazionalità, con una lingua, con una cultura elaborata nel corso dei secoli, non solo religiosa ma anche laica. In quel periodo c'è stata una grande letteratura yiddish, a quei tempi sconosciuta ma che oggi noi conosciamo. Una letteratura splendida, ma sparita nel corso del tempo.
- E dopo cosa avviene, professor Meghnagi? Avviene che con la Guerra fredda l'Urss fa una scelta di segno opposto. Una scelta di realpolitik, geopolitica. L'Unione Sovietica voleva affrettare il crollo dell'impero britannico e il modo migliore per penetrare in quella regione era di accelerare il processo di abbandono del Regno Unito di quelle zone lì. Ecco allora che i sovietici permettono ai partigiani ebrei che avevano combattuto in Cecoslovacchia, in Polonia etc., di emigrare verso Israele, adottando una politica diversa nei confronti deli ebrei che vivono in Unione Sovietica.
- Il nostro "viaggio" arriva ai giorni nostri. Le chiedo: che rapporto la sinistra dovrebbe avere oggi con Israele? Il processo è triplice, non duplice. Da una parte, avere sempre la consapevolezza che ebrei e Israele non sono lo stesso termine, che si tratta di realtà legate alla pluri-appartenenza, per cui gli ebrei italiani sono cittadini italiani e non possono essere giudicati per le loro posizioni verso Israele, così come nessuno si sognerebbe di criticare un italiano per le sue posizioni sui conflitti in Sudamerica o in altre parti del mondo. Si può dissentire sul piano ideologico o culturale ma questo non porterebbe mai a individuare un sottogruppo come un qualcosa percepito come estraneo all'appartenenza culturale e nazionale più ampia. Perché lì siamo di fronte ad una forma chiara ed esplicita di antisemitismo, comunque mascherato o declinato. Dall'altra parte, per la sinistra italiana ed europea si tratta di accettare la realtà di Israele....
- E qual è questa realtà? Quella di un paese, una nazione, con le sue contraddizioni che però non può essere giudicata secondo parametri che non si applicherebbero mai per giudicare uno Stato. Nel senso che la politica è il regno di Edipo, e non il regno di Abramo. Il regno della guerra. E la politica è alta politica quando invece nel conflitto tra umani all'interno di un paese riesce a creare delle regole che permettano di gestire il conflitto. E sul piano internazionale, vale lo stesso discorso: come creare delle regole delle regole. E lo sviluppo del diritto internazionale finalizzato a questo anche se purtroppo viene spesso utilizzato strumentalmente. La politica ha questa, o per meglio dire, avrebbe questa finalità: regolare i conflitti per evitare le guerre, per scongiurare passi senza ritorno. Due guerre mondiali purtroppo non sono state sufficienti, ma avrebbero dovuto far capire, soprattutto con le tecnologie attuali, che i conflitti vanno gestiti, regolati, evitando la loro polarizzazione. Il vero problema di tutta la sinistra, ma per altri versi il discorso vale anche per le forze di centro o di destra, è che nei confronti di Israele non si possono adottare due pesi e due misure. Non puoi giudicare la politica di uno Stato su basi puramente etiche e sulla pretesa di principi etici assoluti come non lo faresti con altri. Le faccio un esempio: il movimento di boicottaggio delle Università israeliane. È una delle cose più scellerate pensate e messe in pratica. Persone magari in buona fede che partecipano senza rendersene conto ad una forma di antisemitismo. Se io domani non potrò cooperare con i colleghi israeliani, dopo domani sarò accusato per il solo fatto di mantenere dei rapporti. Le stesse persone non si sognerebbero mai di operare nello stesso modo nei confronti della Cina, dell'Iran e di altri paesi che hanno ben altre responsabilità sul piano internazionale. Tutto questo è molto sospetto. Quello che auspico, e per cui mi batto, non è tanto dare indicazioni sulle cose da fare, ma di avere una maggiore consapevolezza, di curare di più il linguaggio, di rivisitare la storia. Io partecipai al primo viaggio internazionale del Pds, che fu in Israele. E io lo commentai, in un intervento pubblico, come la riscoperta da parte della sinistra del valore dello Statuto albertino. Ho voluto collegarlo alla storia dell'emancipazione degli ebrei in Italia. Per vent'anni e oltre quella che era la forma maggioritaria della sinistra italiana, non i socialisti che hanno avuto una deriva successivamente ma che sono stati invece importanti nei rapporti con Israele, scoprì un paese che non conosceva per niente. Mi trovai, in quell'occasione, durante un incontro con degli scrittori israeliani, a interloquire con persone che nel sentire la parola Bank Leumi, una delle principali banche israeliane, pensavano che si stesse parlando della West Bank ... C'erano giornalisti della Terza rete della Rai che non avevano mai fatto visita allo Yad Vashem. E vivevano lì da anni, come corrispondenti. Questo per significare che la "scoperta" di Israele da parte della sinistra italiana non può ancora dirsi pienamente compiuta.
(Il Riformista, 18 gennaio 2022)
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Allarme da Israele: la quarta dose non ferma Omicron
di Andrea Boeris
Neanche una quarta dose del vaccino anti-Covid sembra sufficiente a prevenire le infezioni causate da Omicron. A sostenere questa clamorosa e preoccupante tesi sono i risultati di uno studio preliminare israeliano, condotto dallo Sheba Medical Center, su 150 membri del personale sanitario che sono stati sottoposti a un secondo booster con Pfizer o Moderna. La quarta dose ha aumentato fino a cinque volte il livello degli anti-corpi neutralizzanti rispetto al terzo vaccino, ma probabilmente non è sufficiente per prevenire le infezioni da Omicron. I vaccini hanno portato a un aumento di anticorpi a un livello «un po' più alto rispetto a quello che avevamo dopo la terza dose», ha affermato la dottoressa Gili Regev-Yochay, direttrice dell'Unità di epidemiologia delle malattie infettive dell'ospedale Sheba di Tel Aviv, «ma non abbastanza alto contro Omicron». La ricercatrice ha sottolineato che «le persone vengono infettate, forse in numero leggermente inferiore rispetto agli individui nel gruppo di controllo, ma non in modo così significativo». Secondo Regev-Yochay "sembra ormai chiaro che il livello di anticorpi necessari per essere protetti da Omicron è probabilmente troppo alto da raggiungere per questo vaccino, anche se rimane un buon vaccino».
(MF, 18 gennaio 2022)
Vaccinatevi, vaccinatevi! Prima o poi qualcosa si capirà. E se si capirà che alla fine fa più male che bene, non si potrà tornare indietro. M.C.
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Cala il nero sulla censura e il museo chiude l'opera controversa che ha spaccato Israele
Al Ramat Gan Museum, nel distretto di Tel Aviv, ritirato un quadro che il sindaco ritiene "razzista".
di Giulia Zonca
Una bandiera nera per segnare la fine di una mostra, un traguardo a lutto per un progetto crollato dentro il Ramat Gan, museo appena fuori Tel Aviv, dedicato all'arte israeliana contemporanea. La censura ha aperto una crepa che ha demolito «The Institution», esposizione aperta il 23 dicembre per raccontare i legami tra l'arte e i luoghi in cui si esprime e appena chiusa definitivamente, dopo tre settimane da incubo. Il giorno dell'inaugurazione è arrivata la scomunica del sindaco contrario, anzi scandalizzato, dall'opera «Jerusalem» di David Reeb. Il quadro, datato 1997, è diviso in quattro rettangoli: in due c'è un uomo ultra ortodosso che prega al muro del pianto e negli altri due delle scritte in ebraico: «Gerusalemme d'oro», «Gerusalemme di merda». L'artista ha spiegato più volte che non si tratta di un giudizio o di un insulto, ma dei sentimenti controversi che scatena la città santa, «del bisogno di riflettere su quanto nel corso del tempo la religione sia stata strumentalizzata». Da lì, come sempre con l'arte, valgono plurime interpretazioni, ma la politica israeliana non ha alcuna intenzione di alimentare il dibattito e vuole solo eliminare l'immagine controversa, come minimo toglierla da una mostra molto attesa per la riapertura trionfale di un museo considerato, come da titolo, una istituzione. Volevano capire se un'opera è più incisiva dentro stanze dedicate o fuori, in un contesto vivo, in un ambiente che non sia asettico. Hanno realizzato che pure dentro un museo istituzionale è assai difficile farla respirare, proteggerla, darle spazio e libertà. Se era un esperimento, ha dato delle risposte. Il museo ha cercato di prendere tempo e ha spostato «Jerusalem» per placare il sindaco e pure diversi investitori, ma gli altri artisti hanno iniziato a coprire i lavori. Lenzuola scure sopra le tele appese e scatoloni enormi a nascondere le sculture, un pezzo dopo l'altro sottratto alla vista. Ogni ora nuove defezioni fino a che la censura è diventata un caso e l'ufficio del sindaco ha richiamato il museo: niente più teli neri. Censura sì, ma bianca, lontano dagli occhi e dalla polemica che invece, ovvio, ha fatto il suo corso e ci ha messo poco a diffondersi. Diverse gallerie israeliane hanno esposto drappi neri e postato la foto sui social. Il quadro che rischiava di diventare un caso nazionale si è trasformato in pasticcio globale e il museo ha ceduto. Giù le serrande, basta. A definire la disfatta un laconico messaggio appeso alla porta e pubblicato sul sito ufficiale: «Purtroppo non siamo riusciti a trovare una mediazione tra la richiesta degli artisti e le esigenze del museo», dove esigenze sta per elegante e vago sinonimo di fondi, in gran parte municipali. Non possono avere l'amministrazione contro per stare aperti e possono solo chiudere senza più artisti. «The Institution» è andata molto oltre le ambizioni, è diventata un gioco di potere, un argomento di dibattito pubblico, un fenomeno mediatico e un fallimento. La controversia è finita in un tribunale che ha sancito l'evidenza: «Le cariche cittadine non possono decidere il contenuto di una mostra, però tocca al museo stabilire che cosa ha senso esporre». Non c'è altro da decidere. La direzione del museo ha proposto di mettere «Jerusalem» in luogo riparato, con un'avvertenza da leggere prima di arrivarci davanti. Opzione respinta da entrambe le parti: dal comune e dall'autore. Reeb, che ha 69 anni, è noto come «l'artista dei Territori», questo non è il suo primo scontro con la politica. Nel 1983 il Pavillion Helena Rubinstein ha ricevuto pressioni per togliere un lavoro che mescolava i colori delle bandiere di Israele e della Palestina. Meno clamore, il fastidio è rimasto sotto traccia in anni in cui era impensabile evocare il dialogo tra due Paesi che non si riconoscono. «Jerusalem of gold», una delle due scritte sul quadro, è anche una canzone, uscita dopo la guerra dei Sei giorni e rimasta in circolo come eco di una conquista. Per Reeb il quadro parla proprio di quanto sia semplice attribuire significati opposti allo stesso concetto o alla stessa immagine: «Mi si accusa di razzismo, ma gli ortodossi sono in maggioranza qui, non sono ghettizzati, lo sono gli stranieri e palestinesi». Le tensioni si agitano nel quadro che non ha un'unica interpretazione «io mostro solo la realtà in cui viviamo. Il problema non è "Jerusalem" e non sono le letture che la gente può farci, è la censura». Per evitare accuse il sindaco Shama-Hacohen, ambasciatore all'Unesco, ha detto che numerosi visitatori del museo gli hanno scritto di essere «scappati terrorizzati», lui si sarebbe limitato a rispettare «la sensibilità popolare», ma il nero ha coperto tutto e quello tinge, resta. Via la polemica, ma via anche gli artisti che pur di non stare al gioco si sono portati via il pallone e l'istituzione, «The lnstitution» ora non ha più voce.
(La Stampa, 18 gennaio 2022)
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L'epopea della Brigata ebraica
Fu l'unica unità combattente che ebbe tra le sue fila ebrei della Palestina e affrontò i nazifascisti in Italia Il suo mito è stato a lungo legato al sionismo, ma oggi può rendere internazionale il senso del 25 aprile.
di Giovanni De Luna
Vennero a combattere in Italia. Erano ebrei e arrivavano dalla Palestina governata dagli inglesi. Con loro, nella VIII Armata britannica, c'erano reparti di canadesi, indiani, gurkha del Nepal, Maori della Nuova Zelanda che si aggiungevano a polacchi, brasiliani, marocchini, che affollavano l'esercito internazionale schierato dagli alleati. Vennero e vinsero, ci aiutarono a battere i nazisti e, insieme ai partigiani, sconfissero il fascismo di Salò. La Brigata ebraica (Jewish Brigade lnfantry Group), forte di circa 5 mila uomini, fu schierata sul fronte, in Romagna, nella zona a nord di Ravenna, affiancata da reparti polacchi e italiani (i partigiani garibaldini, agli ordini di Arrigo Boldrini, "Bulow'', e i soldati dei Gruppi di Combattimento Folgore e Cremona dell'esercito appena ricostruito dalle macerie dell'8 settembre 1943), contribuendo allo sfondamento della linea gotica, nell'aprile del 1945, e alla liberazione di tutta l'Italia settentrionale. Fu l'unica unità combattente che vide tra le sue fila ebrei di Palestina, l'unica a essere addestrata e armata per affrontare nazisti e fascisti e lo fece in Italia e solo in Italia. Le sue gesta sono ora raccontate in un eccellente libro di Gianluca Fantoni, Storia della Brigata ebraica (Einaudi), che ripercorre le vicende che ne segnarono la partecipazione prima alla guerra (la Brigata operò in Italia dal novembre 1944 al luglio 1945) poi, dall'agosto 1945 al giugno 1946, all'opera di pacificazione nell'Europa sconvolta dal trauma bellico. Dopo la fine della guerra, la formazione fu dislocata inizialmente a Tarvisio, in Friuli Venezia Giulia, poi mandata in Belgio, attraversando la Germania sconfitta in un'esperienza dal forte impatto emotivo che fece registrare anche il primo contatto diretto con la tragedia della Shoah e l'incontro con i sopravvissuti. I combattimenti erano finiti ma c'era ancora molto da fare: vendicarsi degli aguzzini, per esempio, con una scelta che portò all'uccisione di circa 1500 ex nazisti (anche se si tratta di una cifra molto incerta); aiutare i profughi che arrivavano dall'Europa dell'Est, molti dei quali intendevano trasferirsi in Palestina; reperire armi per gli indipendentisti dell'Haganah che in patria combattevano sia gli arabi che gli inglesi. Erano soldati provenienti da 54 paesi diversi (sic!), di tutte le età, professioni ed estrazione sociale, artisti, scienziati, agricoltori, medici, ingegneri: di alcuni il libro di Fantoni racconta un percorso esistenziale sospeso tra la dimessa normalità della vita quotidiana, prima e dopo l'arruolamento, e la potenza simbolica assunta dalla loro esperienza nel momento in cui fu scelta dallo Stato di Israele come parte integrante del proprio mito di fondazione, affiancata a quella dei resistenti del ghetto di Varsavia e degli altri ebrei che impugnarono le armi contro il nazismo. E questo ci riporta al nostro presente, quando quel mito è stato scaraventato nella grande arena dell'uso pubblico della storia, prima di tutto in Israele. Fino al processo contro Eichmann (1961), la memoria della Brigata ebraica fu utilizzata soprattutto per marcare la differenza tra gli ebrei della Palestina e gli altri, quelli della diaspora: i primi avevano saputo «combattere e morire bene», gli altri erano andati al macello quasi con rassegnazione. Il passo successivo fu l'inevitabile annessione di quella memoria ai miti del sionismo, raccontando ancora la diaspora come una storia di «infelicità e sradicamento» alla quale porre fine abbracciando il programma sionista e trasferendosi in Palestina. Da ultimo, il nesso strettissimo tra Brigata ebraica e sionismo è stato ancora ribadito nella polemica esplosa contro i new historians israeliani che, utilizzando ricerche e documenti inediti, avevano messo in discussione molte delle «tradizioni inventate» per legittimare lo Stato di Israele come l'unico, inevitabile sbocco dell'ebraismo. Gran parte di questa «memoria inquieta» è transitata anche nel dibattito che si è scatenato in Italia a partire dalla presenza della bandiera israeliana alle manifestazioni del 25 aprile. Ammettere nei cortei quella bandiera, che oggi rappresenta uno Stato e che allora fu l'insegna della Brigata, potrebbe essere una scelta da estendere anche agli altri paesi che lottarono per la nostra libertà, rendendo così meno nazionale e più internazionale quella festa. Pure il significato simbolico della stella di David non può essere ignorato. La Shoah fu un evento unico, irripetibile, straordinario. Dopo la Seconda guerra mondiale l'antifascismo è vissuto nel segno di «mai più quell'orrore». Accettare quella bandiera vuol dire, allora, renderne esplicito il significato più profondo. Dovrebbe essere scontato ma non è così. Troppi nodi si sono aggrovigliati su quella memoria, a partire dagli strascichi del conflitto medio orientale e dalla divisione tra filopalestinesi e filoisraeliani, per non parlare del modo in cui la destra italiana ha cercato di rifarsi una verginità proprio attraverso il pieno consenso alla politica dello stato di Israele. Contro queste esplicite strumentalizzazioni, Fantoni propone un antidoto: più storia, meno memoria, indicando nella ricerca la possibilità di sfatare miti identitari, raffreddare le passioni, trovare un linguaggio comune con cui confrontarsi ricordandoci che dei 5 mila soldati della Brigata ebraica, mille non erano ebrei e che senza il loro arruolamento la Brigata non avrebbe mai raggiunto l'organico indispensabile per essere operativa. Non a caso, il suo libro si conclude citando un'esperienza cancellata dalla memoria, quella dei soldati del 51° Middle east Commando, una unità mista di arabi ed ebrei, tutti provenienti dalla Palestina, che combatterono in armi i fascisti italiani in Africa Orientale, già nel 1940, molto prima che la Brigata ebraica venisse schierata.
(La Stampa, 18 gennaio 2022)
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Una storica dichiarazione del Presidente del Consiglio italiano
«Gli ospedali sono in sofferenza per l’impatto che ha il virus sulla popolazione non vaccinata. Molti dei problemi che abbiamo adesso sono dovuti alla popolazione non vaccinata che occupa i due terzi dei posti letto nelle terapie intensive».
Mario Draghi, 10 gennaio 2022
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Questa è una dichiarazione del capo del governo italiano che un giorno forse sarà citata dagli storici per spiegare quello che è successo in questo tempo in Italia.
"Die Juden sind unser Unglück" (gli ebrei sono la nostra rovina).
Heinrich von Treitschke,15 novembre 1879
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Questa è una famosa dichiarazione dello storico prussiano antisemita Heinrich von Treitschke. Può avere qualcosa in comune con la storica dichiarazione del nostro Presidente del Consiglio? Sì e no. No, se si pensa al paragone tra gli ebrei europei degli anni '30 e i novax italiani di oggi. C'è qualche analogia, ma le differenze sono enormi e di tanti tipi. Sì, se si pensa al paragone tra l'uso che fece il governo nazista della dichiarazione di Treitschke e il testo diffuso dal premier italiano con la sua pubblica dichiarazione. L'avevamo ipotizzato: forse arriveremo a una dichiarazione governativa del tipo: i novax sono la nostra rovina. Ci siamo arrivati. La dichiarazione di Draghi è stata dimostrata falsa nei contenuti, come altre sue solenni dichiarazioni precedenti. Ma questo non ha alcuna importanza per il potere, perché la fatica di dimostrare la verità di una dichiarazione governativa oggi è del tutto superflua. Il suo valore sta nella sua efficacia, cioè nel risultato che ottiene. Se funziona, cioè se i cittadini volenti o nolenti si adeguano, è vera. Se qualcuno si oppone, bisogna cercare in lui quello che non funziona e proporsi di riportarlo al più presto al corretto buon funzionamento. Con le buone o con le cattive. E' il trionfo della Realpolitik. Indipendentemente dalla veridicità della formulazione draghiana, il fatto che un capo di governo, invece di rendere conto ai cittadini del suo operato e giustificarsi davanti a loro, scelga in modo pubblico di indicare una parte della popolazione come la causa principale dei mali della nazione, è di una gravità enorme. Chi pensa di mettersi al riparo uscendo il più presto possibile dalla parte di popolazione presa di mira in questo momento, è un illuso. Perché i confini e la dimensione della parte destinata ad essere colpita sono soggetti a variazione nel tempo, secondo la valutazione che ne darà il potere. Durante il nazismo, davanti al non piccolo problema tecnico di distinguere ebrei da mezzi ebrei o coniugati con non-ebrei o altre difficoltà amministrative di questo genere, alla fine Hermann Göring parlò chiaro: "Lo decido io, chi sono gli ebrei". Così, davanti alle difficoltà sempre più grandi di capire quante dosi di vaccino devi avere in curriculum per poter prendere l'aereo o il caffè al bar, o da quale età è assolutamente obbligatorio vaccinarsi, o se tre tamponi fatti in serie possono valere come un solo vaccino temporaneo, alla fine ti sentirai dire dal potere: "Lo decido io, chi sono i vaccinati e i non vaccinati". E ti sarà consegnato un documento in cui dovrai firmare che sei stato tu a deciderlo. Con tutte le conseguenze. M.C.
(Notizie su Israele, 17 gennaio 2022)
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Israele: l’assalto dei beduini del Negev al rimboschimento del deserto
di Ugo Volli
Chiamatela, se volete, guerriglia ecologica. O conflitto per la terra. Fatto sta che negli ultimi anni, più ancora che in passato, il conflitto fra Israele e i suoi nemici interni riguarda la terra, gli alberi, la vita agricola del territorio. L’ultimo episodio, che è ancora in corso e mette a rischio la vita del governo, riguarda il Negev, l’area desertica che copre tutto il Sud di Israele, dai monti della Giudea fino a Eilat. Seguendo una vocazione già affermata da Ben Gurion, lo stato ebraico ha fatto grandi sforzi per rendere accogliente questo grande triangolo di deserto roccioso, bellissimo ma infruttifero. Vi ha costruito dei kibbutz, ha realizzato delle coltivazioni nelle valli, fra cui molti vigneti e perfino degli impianti di acquacultura. Ha soprattutto impiantato dai boschi, secondo una procedura già sperimentata al nord: prima una generazione di conifere resistenti al caldo e alla mancanza d’acqua e capaci di spaccare la roccia, poi dopo qualche decennio una seconda generazione di alberi che possono dare frutti, costituire un suolo fertile e preparare un futuro agricolo. Molti di questi boschi sono finanziati dalla diaspora, coi bossoli e le donazioni del Keren Kajemet LeIsrael. In effetti il KKL è l’ente pubblico che realizza questo rimboschimento, così straordinario che si vede dalle foto satellitari: nella regione le terre di Israele appaiono verdi su uno sfondo di nuda roccia ocra. È forse il più bello fra i tanti miracoli di Israele.
Ma questo lavoro di riscatto ecologico non piace ai nemici dello stato ebraico. Perché è il segno concreto del rinnovamento portato dagli ebrei e perché una legge antica dice che la terra è di chi la coltiva. E anche perché i boschi sono l’inizio o la protezione dell’agricoltura, mentre le tribù beduine praticano una pastorizia povera ma estesa, che sfrutta le poche erbe prodotte dal deserto quando il cielo concede un po’ d’acqua e non vuole campi o boschi, con i loro recinti, a limitare il vagabondaggio delle greggi. I palloni incendiari lanciati da Gaza, che è al confine del deserto, mirano proprio a distruggere i boschi e i campi del Sud di Israele. Lo stesso fanno spesso incendi appiccati a mano, un vero e proprio terrorismo ecologico che negli ultimi anni si è molto diffuso. Ma adesso contro le piantagioni d’alberi che il KKL realizza soprattutto in questa stagione si è scatenata la violenza delle tribù beduine della regione. Da una decina di giorni intorno alle zone di impianto degli alberi avvengono gravi incidenti ed è dovuto intervenire anche l’esercito, arrestando decine di persone.
Ed è qui che entra in campo la politica. Il governo attuale di Israele ha una maggioranza di solo un voto (61 deputati su 120). La sua sopravvivenza dipende dunque da ogni sua singola componente, in particolare dal partito arabo Ra’am, legato alla Fratellanza Musulmana, che usa spregiudicatamente il suo potere di interdizione. Dopo aver ottenuto che anche le costruzioni illegali, come quelle dei villaggi beduini debbano essere collegate alla rete elettrica nazionale (un’autorizzazione di fatto degli abusi), Ra’am ha ora preteso che cessino i lavori di rimboschimento, arrivando anche ad astenersi dai lavori parlamentari, mettendo così in minoranza il governo. Ha subito ottenuto una sospensione del rimboschimento: una rinuncia almeno provvisoria a una delle tradizioni sioniste più significative, che è espressa anche sul piano religioso nella festa del “Capodanno degli alberi” che quest’anno cade il 17 gennaio.
Nell’attesa di vedere che cosa accadrà dei boschetti del KKL, bisogna sapere che in altre zone del paese, in particolare in Giudea e Samaria, è in atto una manovra opposta. Sono i palestinisti qui a piantare degli alberi (in questo caso direttamente degli ulivi) in zone contese, come accanto al villaggio di Efrat, nel Gush Etzion qualche chilometro a sud di Gerusalemme, per affermare la loro proprietà su terre dello stato su cui è progettata un’espansione dell’insediamento ebraico. Lo stesso accade in altri luoghi. La presa di proprietà del maggior numero possibile di terreni nell’area C di Giudea e Samaria (quella che gli accordi di Oslo assegnano al completo controllo israeliano) è una strategia ufficialmente decisa dall’Autorità Palestinese e sostenuta finanziariamente dall’Unione Europea. Qui non è mai stata annullata una legge turca che permette una rapida acquisizione di terre statali occupate o coltivate per qualche anno. E le terre private o privatizzate dagli arabi sono difese da sentenza della Corte Suprema di Israele, che ne impediscono l’esproprio.
L’attacco dei beduini al rimboschimento del KKL si svolge ben all’interno della linea verde, in territori che Israele controlla dal 1948; quello determinato dal tentativo di impadronirsi della proprietà con piantagioni e costruzioni abusive riguarda invece terre al di là della linea verde che lo Stato ebraico controlla dal 1967. La posta in gioco, in entrambi i casi, è il controllo della terra e la possibilità di espansione economica e demografica. Insomma anche questi casi di guerriglia agricola sono parte del conflitto generale per il controllo del territorio. È la vecchia guerra, condotta con altri mezzi: le naghe e le giovani piante non al posto delle armi ma al loro fianco.
(Shalom, 17 gennaio 2022)
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Israele - La mafia araba: usura e record di omicidi
di Fabio Scuto
Il 2021 si è chiuso con un record di omicidi e un'ondata di violenza che ha investito tutta la comunità araba israeliana, gli assassinii sono stati 128, decine i rapimenti a scopo di estorsione in un crescendo mai visto in Israele.
I funzionari israeliani hanno accusato dell'ondata di violenze le famiglie criminali arabe che hanno accumulato potere e armi negli ultimi due decenni. Il primo ministro Naftali Bennett ha specificamente puntato il dito contro i gruppi criminali arabi che hanno "sviluppato uno Stato nello Stato". La coalizione di governo di Bennett, la prima da decenni a includere un partito arabo, ha approvato misure per combattere la violenza migliorando le condizioni socio-economiche tra i cittadini arabi che da tempo lamentano disparità di trattamento rispetto agli ebrei israeliani. Ma tali interventi, che stanno ancora decollando, non hanno impedito al 2021 di diventare l'anno più mortale mai registrato per omicidi con vittime arabe (128), erano state 113 nel 2020, 96 nel 2019 e 67 nel 2018. La stragrande maggioranza delle vittime sono uomini e Lod è una delle aree più colpite da queste violenze. Secondo il criminologo Walid Haddad, già consulente del ministero dell'Interno, sono cinque le principali famiglie criminali arabe il cui potere è aumentato dal 2003. Quell'anno un fallito attentato al boss mafioso ebreo Zeev Rosenstein uccise 3 innocenti a Tel Aviv, spingendo l'allora premier Ariel Sharon a ordinare la repressione della criminalità organizzata a guida ebraica, con l'aiuto dell'FBI americano. Una volta indebolita la mafia ebraica - racconta Haddad - le gang arabe che erano state "subappaltatrici degli ebrei, hanno riempito il vuoto di potere". "Hanno deciso di basare le loro attività nelle comunità arabe perché sapevano che alla polizia non importava cosa succedeva lì, spiega il criminologo, le forze di sicurezza israeliane hanno dato la priorità alla violenza nazionalista palestinese rispetto alla criminalità legata alla mafia. Parte di queste violenze è causata dalla crescita dell'usura: i mafiosi arabi offrono denaro veloce ai cittadini arabi discriminati dalle principali banche israeliane.
(il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2022)
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Netanyahu verso il patteggiamento nel processo per corruzione
L’ex premier e attuale capo dell’opposizione potrebbe accettare l’interdizione dai pubblici uffici in cambio della caduta delle accuse di corruzione, aprendo la strada alla formazione di un nuovo governo.
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME – Il prossimo terremoto politico in Israele potrebbe arrivare dalle aule dei tribunali. Benjamin Netanyahu, ex primo ministro e attualmente capo dell’opposizione, nonché del primo partito alla Knesset, con 30 parlamentari su 120, nei prossimi giorni potrebbe accettare un patteggiamento per i casi giudiziari che lo vedono imputato, lasciare la politica e indirettamente innescare una crisi di governo a pochi mesi dalla sua formazione. Netanyahu è stato il primo premier in carica a essere ufficialmente incriminato per corruzione, a partire dal gennaio 2000 (d’altronde, Israele vanta un altro ex primo ministro che per corruzione ha passato diversi anni in carcere, Ehud Olmert che però si dimise prima che le accuse fossero formalizzate). Attualmente Bibi è imputato in tre processi, due dei quali incentrati su un qui pro quo per ottenere copertura mediatica favorevole. In quello che è noto come il Caso 4000 – considerato il più grave - l’ex primo ministro è accusato di aver favorito gli interessi del potente proprietario del colosso delle comunicazioni Beseq Shaul Elovitch in cambio di un cambio di rotta sul suo conto del sito di informazione Walla. Nel Caso 2000 invece, Netanyahu avrebbe negoziato un accordo – mai concretizzatosi - con Arnon Mozes, editore di Yediot Ahronot (il più venduto quotidiano israeliano) per indebolire la concorrenza del free press Yisrael Hayom – finanziato dal miliardario americano e sostenitore di Bibi Sheldon Adelson, scomparso un anno fa, sempre finalizzato ad articoli più positivi. Il Caso 1000 infine vede il leader del Likud difendersi dall’accusa di aver ricevuto doni costosi e altri benefici da diversi miliardari in cambio di favori nei loro confronti. Il possibile patteggiamento prevedrebbe la caduta delle accuse più gravi – in particolare quella per corruzione – con Netanyahu che invece si dichiarerebbe colpevole di frode e abuso di potere. Non andrebbe in prigione, ma riceverebbe alcuni mesi di servizi sociali. A rappresentare però una vera e propria rivoluzione politica sarebbe l’ammissione, da parte di quello che è stato premier più longevo della storia di Israele, di essere colpevole di “turpitudine morale” che gli costerebbe l’interdizione dai pubblici uffici per sette anni. Una pausa forzata da cui a 72 anni, anche un leader di razza come lui farebbe fatica a riprendersi. I tempi per negoziare l’accordo non sono lunghi. L’incarico dell’attuale procuratore generale di Israele Avichai Mandelblit termina il primo febbraio dopo sei anni, e ancora non è chiaro chi sarà il suo successore e quale potrà essere la sua posizione in merito a un eventuale patteggiamento. Mentre Netanyahu si consulta con familiari e consiglieri per decidere il da farsi, alleati e oppositori fremono. Negli ultimi anni, la figura di Bibi ha rappresentato il cuore dello scontro politico in Israele. La sua indisponibilità a farsi da parte ha spaccato la destra tra coloro – la maggioranza – che gli sono rimasti fedeli a tutti i costi, anche a fronte di processi e accuse, e coloro che invece non hanno accettato di sostenere un leader in tribunale. Nel corso di quattro elezioni in due anni, questa divisione ha impedito la formazione di un governo di destra che poteva contare su una solida maggioranza elettorale, aprendo la via all’attuale coalizione, che conta sul sostegno tre partiti di destra – Yemina, che esprime il premier Naftali Bennett, Nuova Speranza e Yisrael Beytenu – accanto a formazioni centriste e di sinistra, nonché a un partito arabo. E tuttavia, se Bibi lasciasse la politica, aprendo la via a un nuovo leader per il Likud, gli equilibri potrebbero cambiare, con la possibilità di dare vita a un gruppo meno eterogeneo. Se questo dovesse accadere, sono in molti, analisti e parlamentari, a scommettere che la maggioranza si sfalderebbe subito. “Tutti i vari esperti, con i loro grafici e scenari, possono stare tranquilli,” ha dichiarato Bennett aprendo l’ultimo Consiglio dei ministri, commentando le voci sul possibile accordo di patteggiamento. “Il governo di Israele sta lavorando e continuerà a lavorare in modo silenzioso ed efficace, giorno dopo giorno, per i cittadini di Israele".
(la Repubblica, 17 gennaio 2022)
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Ecco il nome di chi ha tradito Anne Frank
Il libro di Rosemary Sullivan in uscita giovedì (HarperCollins) ripercorre un'indagine di anni. E svela che è stato il notaio ebreo Arnold van den Bergh a indicare ai nazisti l'indirizzo dove si trovavano la giovane, la famiglia e altri perseguitati.
di Frediano Sessi
Il 4 agosto 1944, verso le 10.30 una macchina della polizia tedesca si fermò ad Amsterdam davanti all'edificio della Prinsengracht 263, sede della società Opekta Pectacon. In quella casa, in un alloggio all'ultimo piano sul retro, si nascondevano da due anni e trenta giorni otto ebrei: la famiglia Frank, la famiglia Van Pels e il dentista dottor Pfeffer. Comandava l'operazione il sergente maggiore SS Karl Josef Silberbauer, austriaco, con al seguito poliziotti olandesi in abiti civili. Racconta il signor Victor Kugler ( chiamato Kraler nel Diario di Anne Frank): «La polizia volle vedere i magazzini sul lato della strada, e io aprii le porte. Pensai, se non vogliono vedere altro, va ancora bene. Ma dopo( ... ) il sergente maggiore uscì nel corridoio e mi ordinò di seguirlo. All'improvviso, mi ordinò di scostare lo scaffale dal muro e di aprire la porta sul retro». Questo, in breve uno dei racconti più accreditati del momento dell'arresto. Anne e Margot Frank, il padre Otto e la madre Edith, i loro amici Herman van Pels, con la moglie Auguste e il figlio Peter, il dottor Friedrich Pfeffer, dopo un breve periodo trascorso nel campo di transito olandese di Westerbork, il 3 settembre vennero deportati ad Auschwitz-Birkenau. Al momento della liberazione, soltanto Otto Frank fece ritorno a casa. L'attesa di notizie della moglie e delle figlie lo fece stare in ansia, finché quasi due mesi dopo venne a sapere con certezza che erano morte. Allora, Miep Gies, l'amica e collaboratrice, che negli anni della loro vita clandestina li aveva aiutati e protetti, decise di consegnare a Otto gli scritti di Anne ritrovati nell'alloggio segreto. Otto, dopo averli letti, decise che tutti dovevano conoscere il Diario della figlia e, mentre si apprestò a curare il testo per la pubblicazione, cominciò anche a chiedersi chi fossero coloro che li avevano traditi e denunciati alla polizia tedesca. Nel luglio del 1947, quando ancora la magistratura olandese e le diverse commissioni giudiziarie erano impegnate a scovare e perseguire i criminali di guerra e i collaboratori dei nazisti, il Pra (Politieke Recherche Afdeling, Dipartimento investigativo politico della polizia) avviò una prima indagine per scoprire i colpevoli della delazione. Johannes Kleiman, uno dei collaboratori più stretti di Otto Frank, dichiarò che gli uomini della polizia tedesca erano a conoscenza anche della posizione del nascondiglio e di come vi si poteva accedere. Questa del Pra fu la prima indagine che, alla fine arrivò a mettere sotto accusa il magazziniere della ditta, signor Willem Van Maaren. Nell'aprile del 1948, l'uomo venne assolto dall'accusa, perché «gli indizi a suo carico risultavano molto vaghi» (Pra, Amsterdam). Negli anni Cinquanta, quando il Diario di Anne Frank divenne un successo mondiale e la giovane ragazza fu considerata da tutti il simbolo dello sterminio nazista degli ebrei, Otto si dedicò a proteggere il libro della figlia dagli attacchi dei negazionisti che, sulla scorta delle dichiarazioni del francese Robert Faurisson, mettevano in dubbio la sua autenticità. Fece in modo che la memoria di Anne e della sua famiglia fosse preservata nel tempo, mediante la conservazione dell'alloggio in cui avevano vissuto nascosti tutti insieme, che divenne una Fondazione con lo scopo di promuovere la cultura della tolleranza e della pace e la lotta contro il razzismo e l'antisemitismo. Dimenticò, forse volutamente, quel suo sospetto espresso nel 1948 che a tradirli fossero stati degli ebrei. Da quando il primo imputato venne assolto, le indagini per scoprire i delatori, portate avanti da ricercatori e storici si susseguirono, senza mai giungere a una risposta che non fosse una mera ipotesi indiziaria. Il libro scritto dalla poetessa e biografa canadese Rosemary Sullivan, Chi ha tradito Anne Frank (HarperCollins) ci consegna oggi una risposta definitiva e al tempo inquietante alla domanda. Sullivan da voce a un'indagine unica nella storia, per il numero di ricercatori e investigatori coinvolti e per le tecniche utilizzate, che hanno consentito di costituire e organizzare gli archivi dei dati raccolti con un programma di intelligenza artificiale, mai utilizzato per una ricerca di questo tipo. I responsabili di questa equipe - composta ~ da Thijs Bayens, cineasta olandese; Pieter van Twisk, storico e giornalista; e Vince Pankoke ex agente dell'Fbi - con l'aiuto di decine di ricercatori, archivisti, analisti forensi, storici, criminologi e tecnici informatici hanno passato al setaccio migliaia di documenti, in gran parte inediti, rintracciato e intervistato i discendenti di tutte le persone che conoscevano i Frank e che hanno avuto rapporti anche solo commerciali con la ditta di Otto, dando vita a un modello di indagine che si richiama ai cold case, e che li ha tenuti impegnati per cinque anni, dal 2016. Dopo avere ricostruito, spesso con nuove scoperte, tutte le ipotesi accusatorie che si sono succedute negli anni e che Rosemary Sullivan descrive nella prima parte del libro, nel 2019 la squadra coordinata da Vince Pankoke arrivò alla conclusione che soltanto quattro piste di ricerca potevano essere davvero percorribili. Il caso di Ans van Dijk, donna che aveva tradito circa duecento persone e che lavorava nel quartiere Jordaan, nelle vicinanze dell'alloggio segreto. La storia della sorella di Bep Voskuijl, una delle segretarie di Otto Frank, simpatizzante nazista. La vicenda del fruttivendolo Hendrik Van Hoeve, che forniva una grande quantità di merce, destinata agli impiegati della ditta Opekta, che faceva ipotizzare la presenza di molte altre persone nascoste nel palazzo: quando venne fermato dalla Gestapo poteva essere stato costretto a fornire informazioni, così come Richard e Ruth Weisz, da mesi nascosti nella casa del fruttivendolo, che una volta arrestati, nel giugno del 1944, ottennero un miglioramento della loro posizione penale. Valutato che anche queste quattro piste non erano sostenute da prove sufficienti, tra tutti gli indagati rimaneva solo il notaio ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, Amold van den Bergh. Sposato con tre figlie, era stato membro della commissione del Consiglio ebraico che, su ordine dei nazisti, doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione. Ricco e rispettato, nato nel 1886, era riuscito a farsi inserire nella lista del tedesco Hans Georg Calmeyer che, ufficialmente, dichiarò la sua non appartenenza alla razza ebraica. Per questo, nonostante il decreto nazista che obbligava i notai ebrei olandesi a cedere la loro attività, Amold van den Bergh poté svolgere il suo lavoro fino al gennaio del 1943, fino a quando un collega ariano, destinato a occupare il suo studio, J. W. A. Schepers, lo denunciò alle SS e gli fece perdere i suoi privilegi. Nel gennaio del 1944, Amold van den Bergh venne informato dall'ufficio di Calmeyer che da quel momento lui e la sua famiglia erano passibili di arresto. Dopo essere riuscito a mettere in salvo le figlie grazie ai suoi conoscenti che militavano nella Resistenza, come moneta di scambio per salvare se stesso e la moglie, offrì alla polizia tedesca un certo numero di indirizzi di ebrei nascosti, senza sapere che al numero 263 di Prinsengracht c'erano i Frank. Ebrei venduti ai nazisti da un ebreo, una scoperta sconcertante, ma ormai da anni studiata e approfondita dagli storici dell'Olocausto e dai sopravvissuti, tra i quali Primo Levi. Nell'elaborare il concetto di «zona grigia», a partire da un libro di uno storico olandese, Jacob Presser, che ha raccontato la lotta per la vita degli ebrei prigionieri dei nazisti, Levi scrive: «E ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario esso le degrada, le sporca, le assimila a sé». Nel libro di Rosemary Sullivan, scritto come un romanzo, oltre alla conclusione scioccante, si coglie la pietas che la scrittrice rivolge al colpevole, contagiato dal male, e si comprende bene come ciò renda ancor più colpevoli i tedeschi. L'autrice, nel proporre al mondo la scoperta della verità, non si sofferma a esprimere un giudizio morale, perché sa che la condizione di offeso non esclude la colpa e se anche questa è obiettivamente grave, come ci ricorda Levi, non c'è tribunale umano «a cui delegarne la misura». Il libro, curato in modo eccellente, con un buon apparato di note e bibliografico, fornisce elementi importanti a comprendere anche il contesto storico in cui ebbe luogo questo dramma.
(Corriere della Sera, 17 gennaio 2022)
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Britannico, 44 anni, ecco chi è Malik Faisal Akram, l'attentatore della sinagoga in Texas
NEW YORK - Era un cittadino britannico di 44 anni, Malik Faisal Akram, forse con problemi mentali, l'uomo che sabato ha tenuto in ostaggio quattro persone, compreso un rabbino, nella sinagoga di Colleyville, città a trenta chilometri da Fort Worth, Texas. I quattro ostaggi sono usciti illesi. Akram è morto. L'Fbi ha identificato ieri il nome della persona che aveva fatto irruzione, sabato mattina alle 11, nella sinagoga della Congregation Beth Israel, durante una funzione trasmessa in streaming. L'uomo aveva lanciato urla, minacciato di farsi esplodere, chiesto di poter vedere la "sorella", Aafia Siddiqui, rinchiusa in un carcere in Texas e condannata nel 2010 a 86 anni per una serie di reati, tra cui la tentata uccisione di soldati americani in Afghanistan. Alle 5 il terrorista aveva lasciato libera una persona. Alle 9,30 gli altri tre erano in salvo. Alle 9,40 è stato dichiarato cessato l'allarme. In tutto, dal momento dell'irruzione in sinagoga, erano passate undici ore. "Il sospetto è morto", si è limitata a dichiarare l'Fbi, senza aggiungere dettagli. Il rabbino, Charlie Cytron-Walker, considerato un sostenitore del dialogo tra religioni, ha commentato su Facebook: "Sono grato che ce l'abbiamo fatta tutti. Sono grato di essere vivo". Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha definito l'episodio "atto di terrore", ma ha ammesso di non avere ancora "informazioni sufficienti". Akram risulterebbe un isolato, con problemi mentali e nessun legame con la donna in carcere. Durante la diretta streaming lo hanno sentito urlare frasi sconnesse, in cui lanciava minacce, ma diceva anche di non essere un criminale. Non è chiaro come i tre ostaggi rimasti siano riusciti a lasciare la sinagoga sani e salvi. La comunità musulmana di Blackburn, in Inghilterra, da cui veniva Akram, ha chiesto su Facebook rispetto per il dolore della famiglia. Il fratello di Akram, Gulbar, ha detto che la famiglia è "devastata". "Ci piacerebbe con il tutto il cuore scusarci con le vittime coinvolte in questo sfortunato incidente". Il fratello ha spiegato che Akram "soffriva di problemi mentali". "Siamo convinti - ha dichiarato - che non avrebbe fatto del male agli ostaggi". Secondo Gulbar, i tre ostaggi sono stati liberati direttamente dal fratello - e non dalla polizia e dall'Fbi - e fatti uscire dal retro della sinagoga. "Pochi minuti dopo - ha aggiunto - ci sono stati gli spari e lui è stato colpito e ucciso". E intanto, nell'ambito delle indagini, due adolescenti sono stati arrestati a Manchester, in Inghilterra. La polizia inglese non ha fornito i nomi degli arrestati né ha precisato di cosa siano accusati, limitandosi a dire che sono in custodia per interrogatori. La portavoce dell'Fbi a Dallas, Katie Chaumont, ha rimandato le domande in merito alla polizia di Manchester.
(la Repubblica, 17 gennaio 2022)
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Austria e Israele: più comprimono le libertà, più i casi aumentano
di Francesco Capo
Il governo austriaco avrebbe dovuto introdurre l’obbligo di vaccinazione anticovid a febbraio 2022, ma la situazione politica nel paese risulta decisamente instabile. Si sono susseguiti 3 cancellieri negli ultimi 5 mesi e il partito Fpo si sta battendo dall’inizio contro l’obbligo di vaccinazione. Proprio ieri si è tenuta una imponente manifestazione a Vienna alla quale hanno partecipato più di 100 mila persone. Il governo israeliano è stato uno dei primi ad introdurre il pass Covid, strumento privo di alcuno scopo sanitario, come i dati hanno ampiamente dimostrato. Austria e Israele, insieme all’Italia e all’Australia, sono tra i Paesi del cosiddetto mondo occidentale che più stanno comprimendo le libertà e i diritti dei loro cittadini. E non è l’unico primato che si contendono. C’è infatti anche quello che le vede tra le nazioni al mondo dove i casi Covid sono in maggiore aumento. Prendiamo la curva dell’Austria (fonte: Google): a partire da fine dicembre i casi giornalieri sono aumentati in misura esponenziale, da 1717 del 26 dicembre a 16749 del 15 gennaio: plastica evidenza che i vaccini non sono in grado di proteggere da nuovi varianti e possibile conferma di quanto molti virologi, come il premio Nobel Luc Montagnier, avevano dichiarato ad inizio dell’emergenza, cioè che la vaccinazione di massa avrebbe selezionato essa stessa nuove varianti del virus. In Israele lo scenario è identico. Da 1351 casi Covid del 24 dicembre si è passati ad oltre 54mila del 15 gennaio. Si tratta in entrambi i Paesi di numeri che non si erano registrati nemmeno durante nella prima ondata. Secondo i dati ufficiali in Israele risulta vaccinato con doppia dose circa il 65% della popolazione, oltre il 53% ha ricevuto anche la terza e sono in corso anche le quarte somministrazioni. In Austria i vaccinati con doppia dose rappresentano il 74,6% della popolazione totale, mentre hanno ricevuto la terza iniezione il 45,9%. Come abbiamo più volte detto su Byoblu, rimane un mistero l’Africa. In tantissimi Stati, in particolar modo dell’area sub-sahariana, la percentuale di popolazione vaccinata è bassissima e il Covid non esiste e non rappresenta un problema. L’Austria e Israele, ma anche l’Italia, dimostrano che le limitazione di libertà e diritti fondamentali sono scelte politiche che non hanno portato ad alcun beneficio dal punto di vista sanitario.
(byoblu, 16 gennaio 2022)
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"E' ora di ammettere il fallimento"
Adesso cominciano ad essere diversi i giornali che riportano la lettera-denuncia del professor Ehud Qimron al Ministro della Sanità israeliano, ma naturalmente non i giornaloni di GEDI e simili. La lettera è comparsa la prima volta su Haaretz il 6 gennaio scorso, noi l'abbiamo riportata il 10 gennaio. Nella stessa data è stata riportata in inglese anche sul sito di Alliance For Human Research Protection. Ne riportiamo il link insieme a una domanda ai sivax battaglieri: è onesto far finta di niente?
Israeli Professor Ehud Qimron to Ministry of Health: “It’s Time to Admit Failure”
(Notizie su Israele, 16 gennaio 2022)
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Texas: liberati tutti gli ostaggi della sinagoga. Morto il sequestratore
Dopo più di dieci ore da incubo, gli ostaggi della sinagoga Beth Israel nella città di Colleyville in Texas sono stati liberati con un blitz delle forze dell’ordine. Il sequestratore armato è morto durante l’operazione.
Gli agenti dell’Fbi, che hanno presidiato e condotto l’operazione assieme al corpo speciale SWAT, hanno negoziato con il sequestratore per ore. La zona era stata chiusa ai residenti, e la polizia aveva chiesto, con un tweet, di non avvicinarsi all’area. Dopo lunghe ore di attesa, si sono sentiti forti rumori e spari che provenivano dalla sinagoga, e subito dopo è giunta la notizia della liberazione degli ostaggi, che il governatore del Texas ha condiviso su Twitter.
La vicenda è iniziata durante la celebrazione dello Shabbat, quando nel live streaming sull'account Facebook della sinagoga l’uomo armato ha fatto irruzione, e avrebbe parlato al telefono dicendo ripetutamente “sto per morire non piangete per me”, prima che la diretta fosse interrotta.
"Se qualcuno cercherà di entrare nell'edificio, vi dico che moriranno tutti", ha detto il sequestratore secondo quanto riportato dai media. "Fatemi parlare con mia sorella", ha aggiunto l'uomo che diceva di essere il fratello di Aafia Siddiqui, “Lady Al Qaeda”, pachistana, considerata una terrorista, che sta scontando 86 anni in carcere.
All’inizio l’uomo ha preso in ostaggio 4 persone, tra cui il rabbino. Poi un ostaggio è stato rilasciato. Ancora non è chiaro quante e quali armi avesse con sé. Nell’operazione sono stati coinvolti più di 200 agenti, inclusa una squadra speciale Fbi arrivata in aereo dalla Virginia.
Dopo l’operazione e l’avvenuta liberazione degli ostaggi, il presidente Joe Biden ha ringraziato le forze dell'ordine: "Sapremo di più nei prossimi giorni delle motivazioni del sequestratore, ma voglio essere chiaro con chiunque intende diffondere odio: ci opporremo all'antisemitismo e all'estremismo", ha detto Biden aggiungendo: “Questo è ciò che siamo e stasera gli uomini e le donne delle forze dell'ordine ci hanno reso tutti orgogliosi".
Un rapporto 2020 dell'FBI ha rivelato che i crimini di odio antisemita costituiscono il 57% di tutti i crimini religiosi, ed è di gran lunga la percentuale più alta di qualsiasi gruppo negli Stati Uniti.
L'ambasciatore israeliano all'ONU Gilad Erdan ha affermato che i leader statunitensi devono prendere posizione contro l'antisemitismo. “Questo orribile incidente ci ricorda che i leader statunitensi devono agire oggi. Se non si intraprende un'azione seria contro l'antisemitismo potrebbe essere un disastro", ha detto Erdan.
(Shalom, 16 gennaio 2022)
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Patteggiamento Netanyahu,i contatti si infittiscono
TEL AVIV - Il mondo politico israeliano è entrato in fermento mentre si profila in termini più concreti la possibilità di un patteggiamento da parte dell'ex premier Benyamin Netanyahu nel processo a suo carico per corruzione, frode e abuso di potere. L'influente ex presidente della Corte Suprema, giudice Aharon Barak, si è espresso col procuratore generale Avichai Mandelblit in favore di questa soluzione, ma a condizione che la condotta dell'ex premier sia bollata come "disonorevole". La cosa, viene affermato, lo escluderebbe dalla politica attiva per sette anni. Diversi opinionisti stimano che quel patteggiamento, se confermato, potrebbe innescare lotte al vertice del Likud, il partito di Netanyahu che guida la opposizione nazionalista in parlamento. Il premier Naftali Bennett ha già replicato di non temere comunque ripercussioni a suo danno, e ha espresso la certezza che la sua coalizione di governo "continuerà a lavorare, per il bene dei cittadini di Israele".
(ANSAmed, 16 gennaio 2022)
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L’albero di Sara - il racconto di Tu-BiShvat in chiave moderna
Un nonno che racconta una storia ad una nipotina curiosa, agile e abile, e sempre piena di domande. Comincia così, con una delicata illustrazione di un granello di sabbia in un'ampolla trasparente, la vicenda di un bosco. Si tratta però di un bosco speciale nato al posto di un deserto che ora non c'è più, ne è rimasto infatti solo il granello di sabbia custodito nell'ampolla. “L’albero di Sara” di Giulia Bottaro e Fabio Santomauro - edito qualche tempo fa da Giuntina (15 euro) - racconta infatti la storia di un bosco piantato un albero alla volta per contrastare l'avanzare del deserto. Un libro magico e delicato destinato ai più piccoli. Un racconto che coniuga la più stingente attualità con la tradizione ebraica. Anche oggi i deserti avanzano: “Il deserto era un paesaggio mozzafiato, misterioso e bellissimo – spiega il nonno alla sua nipotina Sara dai magici capelli blu – Ma anche molto pericoloso: si stava espandendo in lungo e in largo. A nord: su, su, fino a solleticare la testa delle montagne più alte. A sud: giù, giù, fino a solleticare le pinne dei pinguini più bassi. A ovest stava inseguendo il calar del sole. A est aveva raggiunto le montagne. Fu all'alba che conobbi tua nonna”. Una nonna, che si chiamava ovviamente Sara anche lei, e che “mi ha regalato l'idea più bella e ricca di speranza che si potesse immaginare a quel tempo: piantare un albero in quel deserto dilagante”. Un tempo lontano, come in ogni storia che si rispetti, ma che descrive anche il mondo contemporaneo dove i deserti avanzano inesorabili. Ma la vicenda raccontata dal nonno di Sara non è volta solo al passato ma guarda con attenzione anche al presente. I disegni dai tratti delicati e dai colori lievi accompagnano e illustrano il racconto.
Così il nonno e la nonna piantano alberi in ogni occasione: per il loro matrimonio, per la nascita della mamma di Sara. Ma non era ancora la foresta che volevano. Continuarono così, caparbiamente, a piantare alberi: quello della bisnonna Ariela “grintosa e testarda come sempre”, quello di Anna “circondato da api che si ubriacano e banchettano con il polline dei fiori per farne il miele”. Alberi e ancora alberi, per le nascite, per persone che non c'erano più, per i matrimoni. Con gli alberi sono tornate le scimmie e i pappagalli. Allora, solo allora, i nonni capiscono che i loro alberi erano davvero diventati una foresta. La stessa dove la piccola Sara, gioca, si arrampica, suona una minuscola chitarra. Un libro che racconta una storia moderna e che ne declina il significato ebraico: “Così – prosegue infatti il nonno – abbiamo pensato di festeggiare il 'Capo d'anno degli alberi' tra risa, chiacchiere allegre e armonia. Tutti riuniti abbiamo mangiato tanti frutti: fichi, uva, olive, datteri e semi succosi delle melagrane... ma questo lo sai – sorride il nonno rivolgendosi a Sara – perché è sempre stata la tua festa preferita”. Così il racconto di Tu-BiShvat viene declinato nella modernità. Eppure la storia non finisce con la descrizione della nascita della foresta ma con un invito alla responsabilità: nel folto del bosco infatti c'è l'albero di nonna Sara: “Lo riconosci dai cerchi sul tronco. Si chiamano 'occhi'. Da giovane ne aveva due, durante la vecchiaia sono diventati quattro e ora ne è così piena che non smette mai di guardare. È la guardiana della foresta: controlla che non torni il deserto”. Perché seme dopo seme, albero dopo albero, la foresta deve comunque essere custodita ma, per fortuna e grazie alla perseveranza dei nonni, quando Sara si arrampica sull'albero più alto vede solo cime verdi a perdita d'occhio. E suona, con la sua minuscola chitarra, una canzone composta sempre da Giulia Bottaro e animata da Fabio Santomauro scaricabile scansionando il codice QR sull'ultima pagina del libro.
(Shalom, 16 gennaio 2022)
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Israele: l'influenza aviaria ora è sotto controllo
Ha causato la morte di 8.000 gru e di ingenti quantità di pollame.
TEL AVIV - Dopo quasi un mese di sforzi, la influenza aviaria è adesso "sotto controllo": lo ha reso noto il ministero dell'agricoltura israeliano. Ha causato la morte di 8.000 gru nel lago di Hula (alta Galilea) e ha reso necessaria la eliminazione di 600 mila galline e di 360 mila tacchini distribuiti in una ventina di zone di allevamento, per lo più nel nord di Israele. Il ministero della agricoltura ha aggiunto che sta facendo preparativi adeguati "per affrontare la ondata migratoria" che sorvolerà il territorio israeliano a partire da marzo. Intere zone vengono "ripulite, disinfettate e monitorate". Secondo il ministero ogni anno si verificano in Israele casi di influenza aviaria "ma quest'anno - ha precisato - essa si è sviluppata in maniera eccezionale e ha incluso la variante H5N1 che risulta pericolosa anche per gli esseri umani".
(ANSAmed, 16 gennaio 2022)
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Anche Haftar in Israele. Pellegrinaggio libico in vista del (non) voto
di Ferruccio Michelin
Altra visita libica in Israele. La corsa elettorale (o per il prossimo governo) passa anche dalla normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico. E il signore della Cirenaica avrebbe promesso un riconoscimento simile a quello degli Accordi di Abramo in cambio di assistenza militare e diplomatica.
Per la seconda volta in tre mesi, il capo miliziano dell’Est libico Khalifa Haftar ha cercato contatti con Israele per sostenere la sua candidatura alle presidenziali. E per la seconda volta nell’ultima settimana escono informazioni su questo genere di tentativi dalla Libia: giovedì era toccato al primo ministro ad interim, Abdelhamid Dabaiba, finire sulle pagine dei giornali per voci di un suo incontro con il direttore del Mossad in Giordania. Dabaiba ha smentito: “Questo non è successo e non succederà in futuro, la nostra posizione è ferma e chiara sulla causa palestinese”. Il jet privato di Haftar è atterrato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv (arrivato da Cipro), stessa visita fatta dal figlio Saddam a novembre, quando cercava l’appoggio israeliano per le elezioni che dovevano essere celebrate il 24 dicembre. Saltato per ragioni organizzative (nonostante fosse stato programmato dall’Onu ad inizio 2021) il voto è rinviato al 24 gennaio. Con ogni probabilità verrà rinviato ancora, ma tutti cercano di impegnarsi per ottenere supporto internazionale anche in vista di un possibile nuovo governo. Non è chiaro chi ci fosse dentro all’ormai noto Dassault Falcon 900 haftariano rimasto per due ore a Tel Aviv, né con chi è stato l’incontro. Il signore della guerra della Cirenaica è sostenuto da Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, ed è a capo del sedicente Esercito Nazionale Libico che ha lanciato la campagna militare nell’aprile 2019 per rovesciare il precedente governo onusiano. Ora, dopo il cessate il fuoco dell’autunno 2020, si è candidato alle presidenziali che l’Onu ha costruito — affidando il percorso al governo temporaneo di Dabaiba, ormai decaduto (a questo si lega il possibile nuovo governo) — per provare a stabilizzare il paese. Haftar ha incontrato in passato membri dell’intelligence israeliana: chiedeva aiuti militari che non sono mai arrivati (ma adesso armi israeliane potrebbero prendere la strada emiratina, dovessero servire). La Libia e Israele attualmente non hanno relazioni diplomatiche, ma, secondo Haaretz, Haftar ha promesso che lancerà un processo di riconoscimento simile a quello effettuato da Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco l’anno scorso — i cosiddetti Accordi di Abramo guidati dagli Stati Uniti — in cambio di “assistenza militare e diplomatica” da Israele.
(Formiche.net, 16 gennaio 2022)
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Maltempo in Israele, allagamenti e danni nella regione di Samaria
di Francesco Ladisa
Una ondata di maltempo, con freddo e precipitazioni abbondanti, sta colpendo in questo week-end Israele.
Piogge torrenziali hanno causato estesi allagamenti, in particolar modo nella regione di Samaria. Qui i vigili del fuoco sono intervenuti per soccorrere alcune persone rimaste intrappolate dall’acqua alta nelle loro automobili.
Le temperature, a causa dell’arrivo di aria più fredda, sono scese sensibilmente portandosi sotto la media.
(InMeteo, 16 gennaio 2022)
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Il mio servo Giobbe (5)
di Marcello Cicchese
Riflessioni sul libro di Giobbe.
CAPITOLO 31
- Io avevo stretto un patto con gli occhi miei;
come dunque avrei fissati gli sguardi sopra una vergine?
- Che parte mi avrebbe assegnata Dio dall'alto
e quale eredità m'avrebbe data l'Onnipotente dai luoghi eccelsi?
- La sventura non è forse per il perverso
e le sciagure per quelli che fanno il male?
- Dio non vede forse le mie vie?
Non conta tutti i miei passi?
- Se ho camminato insieme alla menzogna,
se il piede mio s'è affrettato dietro alla frode
- (Dio mi pesi con bilancia giusta
e riconoscerà la mia integrità),
- se i miei passi sono usciti dalla retta via,
se il mio cuore è andato dietro ai miei occhi,
se qualche sozzura mi si è attaccata alle mani,
- ch'io semini e un altro mangi,
e quel che è cresciuto nei miei campi sia sradicato!
- Se il mio cuore s'è lasciato sedurre per amor d'una donna,
se ho spiato la porta del mio prossimo,
- che mia moglie giri la macina ad un altro,
e che altri abusino di lei!
- Poiché quella è una scelleratezza,
un misfatto punito dai giudici,
- un fuoco che consuma fino a perdizione,
e che avrebbe distrutto fin dalle radici ogni mia fortuna.
- Se ho disconosciuto il diritto del mio servo e della mia serva,
quando erano in lite con me,
- che farei quando Dio s'alzasse per giudicarmi,
e che risponderei quando mi esaminasse?
- Chi fece me nel grembo di mia madre non fece anche lui?
non ci ha formati nel grembo materno uno stesso Dio?
- Se ho rifiutato ai poveri quel che desideravano,
se ho fatto languire gli occhi della vedova,
- se ho mangiato da solo il mio pezzo di pane
senza che l'orfano ne mangiasse la sua parte,
- io che fin da giovane l'ho allevato come un padre,
io che fin dal grembo di mia madre sono stato guida alla vedova,
- se ho visto uno soffrire per mancanza di vesti
o il povero senza una coperta,
- se non m'hanno benedetto i suoi fianchi,
ed egli non s'è riscaldato con la lana dei miei agnelli,
- se ho alzato la mano contro l'orfano
perché mi sapevo sostenuto alla porta...
- che la mia spalla si stacchi dalla sua giuntura,
il mio braccio si spezzi e cada!
- E invero mi spaventava il castigo di Dio,
ed ero trattenuto dalla maestà di lui.
- Se ho riposto la mia fiducia nell'oro,
se all'oro fino ho detto: 'Tu sei la mia speranza',
- se mi son rallegrato che le mie ricchezze fossero grandi
e la mia mano avesse molto accumulato,
- se, contemplando il sole che risplendeva
e la luna che procedeva lucente nel suo corso,
- il mio cuore, in segreto, s'è lasciato sedurre
e la mia bocca ha posato un bacio sulla mano
- (misfatto anche questo punito dai giudici,
perché avrei difatti rinnegato l'Iddio che è di sopra),
- se mi son rallegrato della sciagura del mio nemico
ed ho esultato quando gli ha incòlto sventura
- (io, che non ho permesso alle mie labbra di peccare
chiedendo la sua morte con imprecazione),
- se la gente della mia tenda non ha detto:
'Chi è che non si sia saziato della carne delle sue bestie?'
- (lo straniero non passava la notte fuori;
le mie porte erano aperte al viandante),
- se, come fanno gli uomini, ho coperto i miei falli
celando nel petto la mia iniquità,
- perché avevo paura della folla
e dello sprezzo delle famiglie
al punto da starmene quieto e non uscir di casa...
- Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma!
l'Onnipotente mi risponda!
Scriva l'avversario mio la sua querela,
- ed io la porterò attaccata alla mia spalla,
me la cingerò come un diadema!
- Gli renderò conto di tutti i miei passi,
a lui m'avvicinerò come un principe!
- Se la mia terra mi grida contro,
se tutti i suoi solchi piangono,
- se ne ho mangiato il frutto senza pagarla,
se ho fatto sospirare chi la coltivava,
- che invece di grano mi nascano spine,
invece d'orzo mi crescano zizzanie!
Qui finiscono le parole di Giobbe.
L'ultimo intervento di Giobbe, nei capitoli 29, 30, 31 non è una replica agli amici, perché l'ultimo dei suoi interlocutori, Tsofar di Naaman, aveva del tutto rinunciato a parlare, probabilmente perché ormai del tutto convinto che ogni tentativo di far cambiare opinione a Giobbe sarebbe stato inutile. Questi tre capitoli costituiscono quindi il discorso conclusivo di Giobbe, in cui ricorda nel capitolo 29 quello che era stato nel passato e nel capitolo 30 quello che è ora nel presente; e infine, nel capitolo 31, mette a confronto il suo passato con le indicazioni e i comandamenti ricevuti da Dio. Fa questo perché lo spaventoso male che gli sta arrivando addosso non può che essere interpretato, agli occhi di tutti ma anche ai suoi se fosse capitato ad un altro, come un severo giudizio di Dio sul suo operato. Si sente pesato, insieme alle sue opere, su un'implacabile bilancia di giustizia, e da questa pesata sarebbe derivata la terribile sentenza di condanna che ora sta subendo. Giobbe capisce il sistema di giudizio, ed è d'accordo, perché l'ha usato anche lui in tanti casi; ma adesso, nel suo caso, i conti non gli tornano. Adesso mette in dubbio la correttezza della bilancia e fa sentire la sua rivendicazione:
"Dio mi pesi con bilancia giusta e riconoscerà la mia integrità" (31:6).
E' un parlare ardito, certamente, perché porta a chiedersi: ma Dio, che bilancia ha? Si pone dunque il problema della giustizia. Giobbe non capisce. Lui è stato servo di Dio, ha amministrato la giustizia sugli uomini per conto Suo e davanti ai reclami di chi era colpito da castigo sapeva spiegare il perché di quel castigo, ma adesso che è colpito lui, non sa spiegare il perché. Allora sono gli amici che glielo spiegano, ma lui non è convinto. Lui vorrebbe avere spiegazioni direttamente dal Capo in persona :
"Ma io vorrei parlare con l'Onnipotente, avrei caro di ragionar con Dio" (13:3)
Ma Dio tace. Ed è un silenzio che pesa. Giobbe continua allora il suo esame di coscienza, ma non trova nulla. A noi sembra strano che non trovi nulla, perché amiamo dire che nessuno è perfetto. Se Giobbe pensa di esserlo, forse proprio per questo non è perfetto. Pensiamo. Quello di Giobbe però non è l'esame di coscienza di un uomo qualsiasi, perché Dio lo ha scelto come suo servo. Non è questione di generica moralità: Giobbe avverte su di sé la tremenda accusa di essere stato un "malvagio servitore". E non l'accetta, si ribella: non è vero! Ed effettivamente è così! Non è vero. Dio stesso l'aveva attestato di fronte a Satana. Con questo non si vuol dire che Giobbe era senza alcun peccato, ma che non aveva trasgredito nessuno degli ordini ricevuti da Dio nell'esercizio della sua funzione. La cosa dunque si chiarisce proprio se si considera Giobbe come un servo di Dio in quel particolare momento della storia della salvezza, e non come un generico esemplare umano a cui si applicano norme etiche universali valevoli per tutti gli uomini in tutti i tempi e in ogni luogo. La stessa cosa si può dire di Noè, che avendo eseguito con fede e costanza l'ordine ricevuto da Dio, poteva essere definito da Lui giusto, anche se poi si sbronzò e si denudò in mezzo alla sua tenda. Molti dei peccati che Giobbe nega di aver commesso non sono da considerare trasgressioni di generali obblighi morali:
"Se ho disconosciuto il diritto del mio servo e della mia serva, quando erano in lite con me" (31:13); "Se ho rifiutato ai poveri quello che desideravano, se ho fatto languire gli occhi della vedova, se ho mangiato da solo il mio pezzo di pane senza che l’orfano ne mangiasse la sua parte" (31:16-17); "Se ho visto uno perire per mancanza di vesti o il povero senza una coperta" (31:19).
Le ipotetiche omissioni sopra elencate appaiono essere precise inadempienze a doveri che competono ad un'autorità con obblighi di servizio, più che generiche trasgressioni di un codice morale applicabile a tutti. E' per questo che anche ai suoi occhi simili mancanze appaiono gravissime, tanto da spingerlo a dire:
"Che farei quando Dio si alzasse per giudicarmi, e che risponderei quando mi esaminasse?" (31:14);
per poi concludere:
"E invero mi spaventava il castigo di Dio, ed ero trattenuto dalla maestà di lui" (31:23).
La questione di Giobbe si presenta dunque come un reale problema di rapporto tra Dio e un suo preciso servitore, non come un sofferto rapporto tra uomo e cose espresso in un linguaggio immaginoso che ricorre ad un ignoto dio rappresentato in una varietà di modi secondo i gusti. E' una questione come quella di Giona. Anche in quel caso è in gioco un disaccordo tra Dio e un suo servitore. E anche in quel caso è fuorviante parlare di disubbidienza, peccato, ribellione, sulla scia di un moralismo universalistico dal basso che purtroppo qualche volta assume le forme di un superspiritualismo religioso verso l'alto. Dio agisce nella concretezza dei fatti. Giona è in disaccordo con Dio perché vuole perdonare i pagani; Giobbe è in disaccordo con Dio perché vuole castigare lui. Ed entrambi non capiscono perché; in entrambi i casi Dio alla fine ha un atteggiamento estremamente morbido verso i due "ribelli"; in entrambi i casi la storia appare tronca: manca qualcosa, resta un interrogativo. Nel caso di Giona, Dio non dice come tratta il fuggiasco dopo la sua risposta impudente; nel caso di Giobbe, Dio non proclama chi è il vincitore nella sfida tra Satana e Lui. A tutto questo si può aggiungere che in entrambi i casi si tratta di una storia di sofferenza e amore tra le due parti in gioco. Ma di questo si potrà parlare in seguito. Concentriamoci allora sul finale della requisitoria di Giobbe contro Dio. Giobbe non è un ribelle, non è un contestatore ideologico del sistema giuridico di Dio; lui lo approva, lo ha sempre approvato, ma adesso che viene messo personalmente in colpa, proprio lui che ne era un autorevole esecutore, non capisce più. Tutto sembra accusarlo, ma lui dice con onestà: “Sento di non essere quel colpevole che sembro" (9:35). Vuole conoscere il preciso motivo per cui è punito, pretende di conoscerlo, lo chiede implorando a Dio, ma non ottiene risposta. Dio tace. Alla fine Giobbe decide di giocare la sua ultima carta. Fino a quel momento aveva resistito al consiglio di sua moglie che gli aveva detto: "Ma lascia stare Dio e muori" (2:9). No, lui si era sempre rifiutato di staccarsi interiormente da Dio; ma adesso, se dopo quella sua ultima mossa Dio avesse continuato a tacere, avrebbe deciso di seguire il consiglio di sua moglie. "Basta, non insisterò più - si sarebbe detto - allontanerò da me definitivamente il pensiero di Dio e cercherò soltanto di morire nel modo meno doloroso possibile". Giobbe allora fa un elenco, che poi mette per iscritto, di ipotetiche trasgressioni di cui avrebbe potuto essere accusato, in forma di ripetuti se. "Se il mio cuore s'è lasciato sedurre... Se ho disconosciuto il diritto del mio servo... Se ho rifiutato ai poveri quel che desideravano..." e così via. Giobbe stesso quindi elenca le ipotetiche accuse che Dio avrebbe potuto muovergli, e implicitamente gli rivolge una domanda: di questo tu mi accusi? Avanti, dillo. Vorrebbe avere una risposta, ma tutto tace. "Oh, avessi pure chi m’ascoltasse!..." (31:35), esclama sconsolato. Ma poiché sembra che non l’ascolti nessuno, prende il suo scritto, lo firma e lo presenta a Dio (31:35):
"Ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda"
E se ci sono altre cose di cui Dio lo vuole accusare, allora
"Scriva l'avversario mio la sua querela".
Se l'Onnipotente non vuole parlare, allora scriva, come ho fatto io, dice Giobbe. E conclude la sua provocazione dichiarando con fierezza:
"Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!” (31:37).
Ancora una volta è un parlare ardito, quasi insolente. Ma perché Dio non lo fulmina subito? Ecco una domanda a cui è difficile rispondere. Una domanda su Dio, in primo luogo, non su Giobbe. Anche qui si può fare un paragone con l'insolenza di Giona che alla domanda di Dio: "Fai bene a irritarti così?" risponde secco: "Sì, faccio bene a irritarmi, fino alla morte" (Giona 4:9). E in entrambi i casi Dio "abbozza". Perché? In questo caso Giobbe si è spinto davvero molto avanti. La questione in gioco è la giustizia. Nella contesa sembra che Dio gli abbia gettato la palla tra le mani, aspettando di vedere che cosa ne farà. Dopo tanto combattere e tormentarsi, Giobbe ha deciso di rigettare la palla dall'altra parte. Sente di essere pesato, trovato mancante, secondo la bilancia della giustizia di Dio; ma per lui quella bilancia non è giusta. Con il suo documento Giobbe chiede formalmente a Dio di rispondergli per iscritto, con un preciso testo d'accusa che gli dia la possibilità di difendersi. Che farà Dio con quella palla in mano? A Giobbe la sua richiesta appare profondamente giusta; quindi, se Dio continuerà a tacere, vorrà dire che dalla parte ingiusta ci sta Lui. Giobbe smetterà di cercarlo e seguirà il consiglio di sua moglie. Qui finiscono le parole di Giobbe (31:40). E Dio continua a tacere.
(5) continua
(Notizie su Israele, 16 gennaio 2022)
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