Notizie 1-15 giugno 2016
Israele, a Herzliya bus anche durante lo shabbat
In una mossa che ha pochi precedenti, il comune di Herzliya - a pochi chilometri a nord di Tel Aviv - ha deciso di cominciare ad offrire servizi pubblici di bus durante lo shabbat (il riposo ebraico) e le feste. La cittadina sarà così la prima a maggioranza ebraica a garantire un trasporto pubblico.
Finora questo è stato assicurato in quei centri urbani, come ad esempio Haifa (nel nord del paese), che hanno larghe fette di popolazione non ebraica. Né Tel Aviv né, tanto meno, Gerusalemme prevedono attualmente possibilità di questo genere.
Il servizio a Herzliya - dal primo luglio e gratuito - sarà limitato alle strade principali, a quelle dirette alle spiagge, all'ospedale, al parco cittadino, ma senza percorrere i quartieri religiosi della città. La gratuità dei bus è stato l'escamotage che ha consentito di non violare le leggi - basate su uno status quo religioso - che proibiscono, durante lo shabbat, trasporti pubblici definiti "servizio per il quale il consumatore paga". Se il servizio è gratuito la legge - hanno spiegato i media - non è infranta.
(Corriere del Ticino, 15 giugno 2016)
L'Isis spiegato ad Obama. L'esempio israeliano
MILANO - Ci eravamo lasciati con l'opinione pubblica mondiale a caccia del famoso movente della strage di Orlando. Ovviamente ha stravinto a mani basse quello omofobo, a riprova che, se lasciata libera di scegliere, la folla preferisce sempre Barabba. Non avevano fatto in tempo, i nostri cari amici tolleranti ed arcobaleno, a spiegarci come Alfano e la Binetti fossero i mandanti morali della strage che ne è successa subito un'altra. A Parigi una coppia con un bambino di tre anni è stata brutalmente uccisa davanti al figlio. L'attentatore aveva dichiarato la propria fedeltà al Califfato ed ha filmato la mattanza.
A questo punto gli analisti rossi sono andati definitivamente in crisi e le notizie sono scivolate via dalla prima pagina. Si può, con un po' di impegno, far passare Orlando come la reazione di un presunto omofobo al bacio di due gay (ma questa versione sta crollando ora dopo ora, pare frequentasse quel locale ed avesse una app per incontri gay. Di sicuro aveva visto ben altro nella sua vita), ma Parigi? Parigi come lo gestiamo? Il ragazzo era nato in Francia. Ed ha usato un coltello. Quindi niente manfrina sulle armi e nessun pietismo per i nuovi arrivati.
In più ci sono delle odiose coincidenze. Questi atti non sono nuovi. Gerusalemme ci deve convivere da un paio d'anni, ormai. La chiamano l'intifada dei coltelli, ma è qualcosa di molto diverso. È l'ultima evoluzione del terrore, che si basa sulla rinuncia alla struttura, in nome della libertà e dell'imprevedibilità. Un tempo si cercavano i numeri e lo si faceva tramite un'organizzazione ferrea. Al Fatah, Settembre Nero. Erano associazioni con obiettivi propri, reti proprie, una diplomazia, dei fiancheggiatori. Erano gruppi di guerriglia, con un'impronta marcatamente militare. Anche gli obiettivi erano riconoscibili. I metodi erano brutali, ma l'ottica era quanto meno razionale. Salvo alcuni atti del tutto abnormi, si pensi a Monaco, gli altri erano mostruosi, ma con una logica.
L'evoluzione del terrorismo ha previsto il passaggio ad Al Qaida nel Mondo ed Hamas in Palestina. Al Qaida è un franchising. Gli obiettivi sono ancora politici, ma la struttura è multicentrica. Il centro fornisce impronta, consulenza e know how. La periferia obiettivi ed uomini. Gli obiettivi rimangono politici (liberare la penisola Araba dagli Usa, per esempio), la struttura diventa agile e resistente. Se salta una cellula il corpo resta intatto. La debolezza è che le cellule sono standard. Capita una, si può risalire al centro. È così che hanno preso Bin Laden. Morto il capo carismatico c'è stato un declino. Hamas, invece, ha cambiato la logica della guerra ad Israele, radicalizzando lo scontro, creando, nel frattempo una generazione perduta. Un'intera fetta di popolazione che vive di morte. Gli obiettivi erano politici, ma la religione ritornava centrale. Ed ad emergere era la figura ossessiva del martire. Veniva a mancare la rigidità e la pesantezza dell'esercito, sostituita da una più snella. Poi è arrivato il califfato.
Hamas è stato un buon termometro. L'Intifada dei coltelli, largamente ignorata ad Ovest perché, dopotutto, erano "solo" ebrei a morire e loro se la sono cercata (ovviamente chi scrive condanna questa posizione, ma tant'è e va riportata), non ci siamo accorti di un cambiamento epocale. L'Islam si sta individualizzando. È l'individuo che agisce. Non è la pedina. Non è il kamikaze drogato che viene usato come pedina. No. Non ci sono oscuri manovratori. Non ci sono organizzazioni. Ci sono predicatori di odio ed individui che colgono occasioni. Questo ha portato a morti casuali ed assurde. I motivi ormai sono di pura matrice religiosa. Imperscrutabili fuori dalle madrasse. L'Isis ha copiato. Piccole cellule. O, meglio ancora, singoli uomini carichi di odio e furore. Obiettivi che possono essere significativi, all'inizio. Ma presto sarà la vecchietta alla fermata dell'autobus. E l'unico, grande, movente di portare il terrore nei cuori dei miscredenti, a cui viene come unica via di fuga la conversione. Obama non l'ha capito. La sinistra non l'ha capito. Il mondo LGBT non l'ha capito. Il problema non sono loro. Loro non sono nemmeno un obiettivo in senso stretto. L'obiettivo è il caos. Ed il caos è quello che stanno ottenendo. Con il vantaggio insperato della rimozione del problema. Nessuno dei grandi media vuol vedere, quindi loro sono invisibili. E tutto perché non abbiamo voluto vedere quello che succedeva a Gerusalemme e prendere lezione da Israele. Avessimo visto la fierezza, la determinazione e la forza con cui si sono difesi nelle strade, nei kibbutz e nei territori avremmo imparato molto. Ma abbiamo preferito odiarli. E la punizione non è tardata ad arrivare.
(MilanoPost, 15 giugno 2016)
Israele apre alle imprese di costruzione estere
Il Governo israeliano ha lanciato la prima gara per la selezione di imprese estere da inserire in una banca dati per partecipare a futuri bandi per la costruzione di complessi residenziali.
Il Governo di Israele ha recentemente deciso di aprire il settore dell'edilizia abitativa alla competizione internazionale nel tentativo di sopperire alle gravi carenze di abitazioni a costi contenuti. A riferirlo è Confindustria.
Obiettivo dell'azione del governo israeliano è incrementare di oltre 1 milione le unità abitative residenziali nei prossimi dieci anni, di ridurre il prezzo delle case di almeno il 20% rispetto al valore attuale, di aumentare il livello tecnologico dei metodi di costruzione, utilizzando manodopera specializzata.
A tal fine è stata lanciata una prima gara per selezionare sei imprese estere che verranno inserite in una banca dati. Le aziende, così preselezionate, potranno partecipare a futuri bandi per la costruzione di complessi residenziali.
La data limite di presentazione delle domande di ammissione alla Banca dati è stata fissata al 15 luglio prossimo. Potranno essere inviate richieste di chiarimenti all'autorità competente (all'indirizzo di posta elettronica cfp@moch.gov.il) entro il 20 maggio.
Per informazioni, è a disposizione l'Ufficio Economico Commerciale dell'Ambasciata italiana a di Tel Aviv (sportellounico.telaviv@esteri.it).
(EdilOne, 15 giugno 2016)
Germania choc: un tedesco su dieci rivuole un führer
di Alberto Battaglia
La Germania ha superato la tentazione verso l'uomo forte? Niente affatto: secondo una ricerca dell'università di Lipsia rilanciata dallo Spiegel, un tedesco su dieci desidera un führer alla guida del Paese. La ricerca, intitolata "Il ceto medio disinibito" ("Die enthemmte Mitte"), suggerisce che a subire il fascino delle ideologie nazionaliste non sono solo persone ai margini della società, ma sono, al contrario, più comuni di quanto non si pensi. "Gli estremisti di destra hanno trovato nel AfD una nuova casa", ha detto Oliver Decker, uno degli autori della ricerca, puntando il dito contro il partito anti-euro tedesco; se si parla di "nazisti e estremisti di destra si pensa ai margini della società. Ma questo non è vero: l'ideologia del pensiero nazionalista è molto comune", aggiunge il ricercatore.
I dati, però, non si fermano qui; l'11% dei tedeschi ritiene che gli ebrei abbiano troppa influenza nel Paese; il 12% crede che i tedeschi siano destinati naturalmente a prevalere; un quarto della popolazione under-30 nei Laender dell'ex Germania Est si dichiara xenofobo; mentre oltre un terzo si sente in pericolo per la presenza di estranei. Insomma, ce n'è abbastanza per farsi qualche domanda, visto che, come tengono a sottolineare gli autori, è proprio quel ceto medio che solitamente salvaguarda l'ordine democratico a dare avvisaglie preoccupanti. Il sostegno della classe media spaventata dal timore socialista, del resto, fu tanto vitale per Adolf Hitler quanto per Benito Mussolini.
Dalle indagini emerge che il partito tedesco con le spinte più nazionaliste è proprio Afd: a desiderare un uomo forte al potere è il 18,1% degli elettori del partito anti-euro, contro il modesto 1,7 dei Cristiano democratici della cancelliera Angela Merkel. Scorrendo i vari quesiti il secondo "partito" con le tendenze più estremiste è, a sorpresa, quello dell'astensione. Per l'8,9% degli astensionisti, infatti, ci vuole un nuovo führer; secondi anche per antisemitismo (6,4%), dietro al solito elettorato di Afd (16,9%). Il dato più evidente, però, è quello sulla xenofobia: essa caratterizza il 52,6% degli elettori di Afd, mentre si ferma al 14,6 % degli elettori della Merkel e al 7,2% di quelli dei Verdi.
(Wall Street Italia, 15 giugno 2016)
Eventi alla Sinagoga di Firenze: "Museo sotto le stelle (di David)"
Apertura straordinaria del Museo Ebraico domani, giovedì 16 giugno, per la rassegna "Museo sotto le stelle (di David)" in cui si alternano visite, proiezioni, drink e incontri a cura di CoopCulture: l'iniziativa fa parte del festival "Balagan Cafè" organizzato dalla comunità ebraica fiorentina.
Il Museo aperto "in notturna" accoglierà il pubblico, oltre al consueto orario di apertura, dalle 19 alle 22.30, durante il quale sarà possibile visitare gli spazi museali e accedere gratuitamente al giardino della Sinagoga con possibilità di degustare un aperitivo in collaborazione con il ristorante ebraico "Ruth's". Ogni serata sarà dedicata all'incontro con un personaggio, a una storia o a un oggetto conservato in Museo con l'invito ad assaporare con lentezza spazi, colori e profumi di uno dei luoghi più suggestivi della città in un percorso nel mondo ebraico a cavallo tra passato e presente.
La serata di giovedì 16, in particolare, sarà dedicata al grande Bob Dylan che da poche settimane ha compiuto 75 anni, con una conversazione intitolata "Bob Dylan. Una storia ebraica americana": parole, note e immagini per rendere omaggio al grande artista americano e alle sue radici ebraiche. Il Museo inoltre si animerà con la proiezione del video bilingue (italiano e inglese) "Uguali e diversi. Storia di Firenze e degli ebrei" a cura di Laura Forti ed Enrico Fink, frutto di un progetto di "Frankestein - Progetti di vita digitale". Il film racconta la storia degli ebrei a Firenze e il loro rapporto con la città. Un gioco di immagini, foto d'epoca, animazioni, luci e musica che arricchirà la visita al Museo della Sinagoga.
Il costo dell'aperitivo, comprensivo del biglietto dingresso al Museo, è di 10 euro. Ingresso gratuito al giardino.
(gonews.it, 15 giugno 2016)
Momigliano, meditazioni sull'ebraismo
In una nuova edizione arricchita da un inedito i saggi del grande antichista
Arnaldo Momigliano fu uomo austero e curioso. Spaziò con talento e competenza nel mondo antico. I grandi storici del tardo Ottocento Droysen, Ehrenberg, Bickerman e, tra gli italiani, Gaetano De Sanctis gli fornirono la strumentazione di bordo per viaggiare tra mondo persiano e greco, romano ed ellenistico. Proveniva da una famiglia di ebrei piemontesi. Il nazismo gliene strappò una parte. Ricordare fu, per lui, un obbligo non solo storico ma civile. Chiunque voglia scendere nelle sfumate profondità del giudaismo legga le Pagine ebraiche di questo grande antichista, in grado di accostarsi a Spinoza già all'età di 11 anni. Splendidamente curato da Silvia Berti già nel 1987, che lo ripubblica ora con un inedito per le Edizioni di Storia e Letteratura (pagg. 368, euro 24 ), il libro restituisce il modo in cui la cultura ebraica ha interagito con il resto del mondo antico . Momigliano incrociò anche alcune leggendarie figure novecentesche dell'ebraismo: Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Gershom Scholem. Per le leggi razziali emigrò a Londra e poi in America. Insegnò all'università di Chicago. Conobbe Leo Strauss. Dell'amico apprezzò la maniera di accostarsi ai libri del passato. Essere interprete di testi. Come se i testi fossero parti di una vita remota da riportare al mondo. A. Gn.
(la Repubblica, 15 giugno 2016)
Sei ebrei tedeschi in Palestina, il "sogno" di Herzl costa caro
di Luigi Campagner
Al summit per la pace di Parigi (3 giugno 2016), promosso dalla Francia per favorire una ripresa del dialogo tra Israele e Autorità Palestinese, sono convenuti 25 paesi e alcuni organismi internazionali, ma al tavolo dei dialoganti i posti dei diretti interessati sono rimasti vuoti. La storia corre veloce: sono passati centovent'anni dai primi vagiti del sionismo di Theodor Herzl, il Mosè viennese: intellettuale e giornalista principale teorico, assieme Martin Buber, del sionismo moderno, che indicò nuovamente nella Palestina la Terra Promessa. Oggi sono in molti ad aver perso il filo di questa storia e a chiedersi come mai si sia arrivati all'attuale contrapposizione tra i due popoli.
Il recentissimo libro, colto e raffinato, di Claudia Sonino Tra Sogno e Realtà. Ebrei tedeschi in Palestina (1920-1948), pubblicato da Guerini e Associati, non nasce con l'ambizione di illuminare il complesso scenario della questione palestinese, né di buttarsi nell'agone politico divenuto nei decenni sempre più incandescente. La ricercatrice e docente di letteratura tedesca mantiene con polso fermo le pagine dedicate ad alcune eminenti figure di ebrei tedeschi, immigrati in Palestina nel periodo preso in considerazione, nel solco della ricerca scientifica senza mai deragliare in altri campi che non siano quelli scelti dalla sua passione per la letteratura e per la complessità umana che essa permette di accostare.
Le pagine ricche di inediti, di testimonianze, di lettere personali e documenti scovati con amore e tenacia dall'autrice, sono molto più che un semplice aiuto ad approcciare il tema del sionismo moderno e del problema, ad esso intrinsecamente connesso, del rapporto tra arabi ed ebrei in Palestina. La loro lettura costituisce un'esperienza di meditazione: ondivaga, altalenante, difficile e appassionante ad un tempo, come il rapporto dei protagonisti con il sogno sionista e con il suo tradursi in esperienza storica fino allo scoccare della nascita dello stato di Israele nel 1948.
Abilissima, l'autrice trasforma sotto gli occhi del lettore un saggio storico-letterario in un avvincente romanzo di sei brillanti documentatissimi e nel contempo stringati capitoli. Con la sua personale narrazione di figure del calibro dello scrittore Arnold Zweig, della poetessa Else Lasker-Schüler, del massimo esperto di cabala e mistica ebraica Gershom Sholem; e ancora del filosofo Hugo Bergmann, amico personale di Kafka, fondatore della Biblioteca dell'Università Ebraica e rettore della stessa, della giornalista e scrittrice Gabriele Tergit e del giurista e letterato Paul Mühsamil, la Sonino opera costantemente delle scelte in ordine alla scientificità del suo lavoro, senza che l'universalità dell'interesse per il lettore comune ne risulti intaccata. Alla scelta dei "personaggi" e a quella del periodo l'autrice procede sulla base di un precedente criterio linguistico che indica per tutti il tedesco come lingua madre. Sono personaggi di confine, caratterizzati da una "asimmetria del cuore" titolo di un precedente lavoro della Sonino combattuti "tra un non più e un non ancora".
(il sussidiario.net, 15 giugno 2016)
"Mio Duce ti scrivo", un social network quando c'era lui
Un documentario di Massimo Martella al Taormina Film Festival: la devozione incondizionata degli italiani al dittatore attraverso la corrispondenza privata. Mille al giorno. Le donne gli offrivano figli, gli uomini un naso sano al posto di quello ferito, una madre lo ringrazia per aver fatto del figlio morto in guerra "un eroe".
di Anna Maria Pasetti
Mio Duce, perdonami se oso darti del tu, ma quando io mi rivolgo a Dio non gli do né del voi né del lei, e tu per me sei un Dio, sei un essere sovrumano mandatoci da una potenza superiore per guidare la nostra bella Italia ai destini che le furono segnati". La "piccola donna fascista" che firmava la sua lettera d'amore a Benito Mussolini avrebbe donato la vita per lui. E nessuno l'avrebbe giudicata una mitomane esaltata, perché a sacrificarsi come lei sarebbero stati in centinaia di migliaia di italiani, incondizionatamente devoti.
La prova di fede al divino dittatore non appartiene (solo) al materiale propagandistico d'epoca ma è suggellata nero su bianco in cartoline e telegrammi che giungevano quotidianamente a Mussolini e che oggi costituiscono l'oggetto del documentario Mio Duce ti scrivo, prodotto da Istituto Luce Cinecittà e presentato ieri in prima mondiale al Taormina Film Fest. Il primo a sconvolgersi della "materia" che stava accumulandosi fra le mani è il regista del film, Massimo Martella, artefice di una ricerca iniziata dai libri contenenti una selezione dell'epistolario e terminata nei sotterranei dell'Archivio Nazionale di Stato, dove sono conservati alcuni tra gli originali. Solo nell'Archivio, i numeri del carteggio sono da capogiro: oltre cinque/seimila lettere contenute in tre enormi faldoni: "Mi sono trovato di fronte a uno sterminato, emozionante oceano di storie", dichiara l'autore che ha poi continuato la sua indagine ovunque si potesse rintracciare qualche manoscritto destinato a Mussolini.
Piccole storie che andavano facendo la Storia, almeno quella del Ventennio più traumatico dell'Italia del XX secolo: ecco in cosa si è avventurato Martella, e in quanto tale Mio Duce ti scrivo ha il pregio di assurgere a una rilettura di quel periodo dal punto di vista del popolo nel suo rapporto con il dittatore.
Il materiale è prezioso non solo nel risultato ma anche nel processo di ritrovamento e catalogazione di un epistolario tutt'altro che omogeneo, testimonianza pregiata almeno quanto i più accreditati libri di storia in uso nelle scuole.
Specchiando la classificazione delle lettere e la loro mutazione con l'incedere degli anni, il film avvia il racconto dalle "missive d'amore e devozione" per Mussolini, come molti dittatori carismatici assunto a divinità onnipotente e onnipresente. Lui è "il Dio degli italiani", quindi il suo potere è assoluto e il suo corpo è sacro. "Io sfido Dio", diceva un giovane Benito da novello capo del governo nel film Vincere di Marco Bellocchio: il meccanismo di trasmissione della consapevolezza dal proprio ego al popolo dura un istante e vale il culto totale. In quanto divino, Mussolini non solo è destinatario di fede e amore, ma anche di invocazioni. "Chi se non lui può provvedere a noi?" è la giustificazione di chi lo implora delle necessità che via via andavano crescendo con l'avvicinarsi/addentrarsi nella guerra.
Si stima che il Duce ricevesse almeno mille lettere al giorno di cui ne "gestiva" personalmente circa duecento. Il carteggio era diviso fra "ordinario" e "riservato" e aumentava di volume nei momenti celebrativi tanto per Mussolini (compleanni, anniversari...) quanto per il regime. Uomini, donne, bambini, letterati e analfabeti che dettavano i propri pensieri: le missive arrivavano da chiunque sentisse il bisogno di rivolgersi a Mussolini che percepiva tanto " irraggiungibile" quanto "vicinissimo", esattamente come il Dio da pregare in chiesa. C'è chi avrebbe offerto la propria "povera vita in cambio della figlia ammalata" (Anna Maria nel '36 colpita dalla polio, ndr), chi ha effettivamente messo "a disposizione il proprio naso" quando il Duce viene ferito da un "sicario imbelle", e chi gli promette un figlio all'anno per contribuire al trionfo del fascismo. Tante le donne che, specie durante la guerra, scrivevano a Mussolini trattandolo da amico intimo; persino una prostituta si apre a lui in confidenza lamentandosi del trattamento "bestiale" a cui era sottoposta dai clienti e una madre che, alla morte del flglio, lo ringrazia "per aver trasformato mio figlio in un eroe".
Balilla neI Ventennio, anche Andrea Camilleri ha scritto la sua letterina al Duce: aveva 10 anni e desiderava"fare la guerra e ammazzare tanti abissini". "Eravamo indottrinati a uccidere", dichiara oggi lo scrittore siciliano, cercando di spiegare ai più giovani la situaziosituazione di Ma a commuovere di più sono le disperate lettere degli ebrei all'indomani delle leggi razziali: "O Duce adorato, anche noi siamo italiani e fascisti, ti preghiamo salva anche noi!". Con l'aggravarsi del conflitto e la perdita di credibilità di Mussolini, le missive diminuirono e cambiarono drasticamente direzione, divenendo dure critiche verso il suo operato. "Non vi accorgete, o Duce, che le vite che ci avete detto di mettere al mondo vengono massacrate?". Il sogno celebrato da tanto inchiostro era infranto e, alla vigilia del luglio 1943, il divino era già diventato il traditore.
(il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2016)
Gaza, la recita dei bimbi di Hamas: prigionieri uccisi e bombe ai carri armati
Dei bambini che impugnano fucili, catturano e uccidono nemici, piazzano esplosivi sotto i carri armati. No, non è l'ennesimo video horror dell'Isis, e per fortuna stavolta quelle immagini sono solo frutto di una finzione: i fucili sono di cartone, i prigionieri sono altri bambini a cui non viene torto un capello. Ma ciò non vuol dire che lo spettacolo sia meno inquetante: perché a metterlo in scena sono bambini di sei anni di una scuola di Gaza, figli dei militanti di Hamas, impegnati non in un esercitazione, ma più "semplicemente" in una recita scolastica. E neanche a dirlo, come riporta anche il New York Post, i nemici contro cui combattono con tanta passione sono i soldati israeliani.
La scena inizia con il giuramento sul Corano, il bacio delle armi e la formula: "Impugnate le vostre armi, affilate i vostri coltelli", e poi continua con un assalto a un carro armato, con la cattura di un prigioniero e con la sua uccisione. A Gaza i bambini giocano così. Peccato che in tutto questo, di gioco non ci sia praticamente nulla.
(Il Messaggero, 14 giugno 2016)
Conversazioni in sinagoga: "Un sindacalista, dietologo, legislatore e teologo di nome Mosè"
Prende il via un ciclo di incontri per andare alla scoperta di storia e cultura dell'ebraismo, una civiltà che nei secoli ha segnato l'identità di Pesaro. Si parte con Maria Luisa Moscati per "uno sguardo inconsueto sul primo Maestro del popolo del Libro", il cui Decalogo stupisce ancora oggi per la sua modernità e la capacità di parlare all'uomo contemporaneo.
Da poco avviata la stagione estiva della sinagoga (visitabile insieme al Cimitero Ebraico), dal 16 giugno alle aperture del giovedì pomeriggio si affianca un ciclo di conversazioni dal taglio agile e divulgativo per conoscere meglio storia, cultura e protagonisti dell'ebraismo. Il primo appuntamento - alle 18 - è con Maria Luisa Moscati e la sua conversazione "Un sindacalista, dietologo, legislatore e teologo di nome Mosè", un incontro che getta uno sguardo inconsueto sul primo Maestro del popolo del Libro.
L'incontro è in programma pochi giorni dopo il 10 giugno, data in cui ricorre la festa ebraica di Shavuoth, sette settimane a partire dall'inizio della Pasqua: si festeggia il dono della Torah, data da D-o a Mosè alla presenza di tutto il popolo raccolto ai piedi del monte Sinai. Nella Torah, Halakhah (normativa) e Haggadah (narrativa) si fondono in un linguaggio severo, attento, dettagliato e spesso geniale. Mosè, secondo la tradizione ispirato da D-o, ci trasmette un Decalogo che stupisce per la sua modernità.
Infatti, a parte i primi due Comandamenti legati strettamente ad una visione teologica del mondo, la sua Legge è ancor oggi, dopo tremila e cinquecento anni, la base di tutto l'ordinamento sociale dei Paesi più civili e laici. Nulla è lasciato al caso: dall'attenzione per il mondo del lavoro al rispetto dei diritti della donna, dalle indicazioni per la scelta dei cibi alla concezione di un D-o che ricambia, raddoppiato, l'amore che l'uomo nutre per Lui. Né si può ignorare che la sua opera, così ricca di midrashim (racconti), è il Libro più letto e diffuso nel mondo, tradotto in tutte le lingue. Un best seller che oggi gli avrebbe certo meritato il Nobel per la letteratura.
Le conversazioni in sinagoga sono un'iniziativa promossa da: assessorato alla Bellezza/Comune di Pesaro, Sistema Museo, Delegazione di Pesaro e Urbino/FAI Fondo per l'Ambiente Italiano.
(Vivere Pesaro, 14 giugno 2016)
Il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha un "disturbo ossessivo-compulsivo verso Israele"
GERUSALEMME - L'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Eviatar Manor, ha detto che il Consiglio per i diritti umani dell'Onu (Unhcr) ha un "disturbo ossessivo-compulsivo nei confronti di Israele". La dichiarazione è stata fatta in occasione del secondo giorno dei lavori della 32ma sessione del Consiglio dei diritti umani che si sta svolgendo a Ginevra. Manor ha risposto all'affermazione fatta da Zeid Ra'ad al Hussein, Alto commissario dell'Unhcr. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem Post". Le Nazioni Unite hanno messo infatti in guardia Israele a seguito del continuo rifiuto del paese a consentire l'accesso in Cisgiordania e Gaza agli ispettori incaricati di verificare eventuali violazioni del diritto internazionale contro i palestinesi.
(Agenzia Nova, 14 giugno 2016)
Imbarazzo per la candidata Pd: la madre celebra i jihadisti su Fb
Spuntano foto e commenti a favore dei jihadisti di Hamas sul profilo della mamma di Sumaya Abdel Qader, la candidata Pd in lista con Beppe Sala. La situazione diventa imbarazzante.
di Giorgio Borghetti
L'alleanza alle amministrative milanesi di Beppe Sala con l'islamismo politico diventa sempre più imbarazzante. Non bastavano i legami già messi in evidenza tra la candidata Pd, Sumaya Abdel Qader, e la rete islamista vicina ai Fratelli Musulmani.
Non era sufficiente la candidatura di Sameh Meligy, legato all'Alleanza Islamica d'Italia (espressione dei Fratelli Musulmani), pronto a correre per la zona 4 di Milano e fotografato assieme a Beppe Sala. Candidatura che veniva ritirata dopo le polemiche scoppiate in seguito a una foto di Meligy assieme al predicatore legato ai Fratelli Musulmani kuwaitiani, Tareq al-Suwaidan, al quale è stato recentemente vietato l'ingresso in Italia poiché dal 2014 sulla blacklist dell'area Schengen e la cui enciclopedia illustrata sugli ebrei è ben più pericolosa del Mein Kampf.
Swaiden è noto per dichiarazioni come: "La Palestina non sarà liberata se non col jihad. Nulla può essere ottenuto se non attraverso il sangue. Gli ebrei incontreranno la loro fine per mano nostra". In un'altra esternazione, al-Swaiden faceva riferimento alla lapidazione per gli omosessuali, come documentato dal Memri.
Nonostante ciò, Meligy è stato fotografato in questi giorni assieme all'assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, e a Sumaya, durante i volantinaggi del Pd a favore di Beppe Sala. Può dunque valer la pena chiedersi cosa ci facesse.
Non erano poi sufficienti i gravi post pubblicati dal marito di Sumaya, Abdallah Kabakebbji, sostenitore di Hamas, nei confronti di Israele, definito un "errore storico", "una truffa" e con tanto di suggerimento "ctrl-alt- canc" per risolvere il problema.
La madre di Sumaya celebra i jihadisti di Hamas
Ora emerge che il profilo Facebook della mamma di Sumaya Abdel Qader, a nome "Zubayda Khalil", è piena di post e immagini dove inneggia alla "resistenza", a Hamas e alle brigate Ezzidin al-Qassam, braccio armato dell'organizzazione islamista. Decine e decine di foto sulla "resistenza islamista palestinese" (guarda la gallery), un vero e proprio chiodo fisso.
Nel profilo della Khalil compaiono uomini in mimetica, armati di mitra, lanciarazzi, incappucciati e con le immancabili fascette dei martiri legate in fronte.
In un altro post dove vengono ritratti tre "martiri", la Khalil invoca la vendetta divina contro le spie ignote che hanno portato alla loro morte. I tre personaggi sono niente meno che Raed al-Attar, Mohammed Abu Shamalah e Mohammed Barhoum, tre comandanti militari di Hamas. I tre erano ricercati sia da Israele che dall'Egitto; al- Attar era tra l'altro considerato uno degli organizzatori del sequestro di Gilad Shalit.
Non mancano poi le immagini dei leader storici di Hamas, Khaled Meshaal, Ismail Haniyeh e Raed Salah.
In un'immagine postata nel luglio 2014 viene elogiato il leader di Hamas, Khaled Meshaal, che appare in foto mentre sullo sfondo compaiono due jihadisti, le immagini di Gilad Shalit e Hadar Cohen (soldati sequestrati da Hamas) e le foto di bare israeliane.
In un altro post a favore della "resistenza" si vede Ismail Haniyeh mentre bacia la mano di un jihadista delle brigate Ezzedin al-Qassam.
Hamas, braccio palestinese dei Fratelli Musulmani, è responsabile di numerosi attacchi nei confronti di civili, israeliani ma anche palestinesi "non allineati". Nel 2014 l'Egitto aveva messo al bando Hamas, con l'accusa di supportare la campagna di sanguinosi attentati portata avanti dal gruppo Ansar Bayt al-Maqdis, iniziata subito dopo la deposizione di Mohamed Morsi.
In effetti sul profilo della Khalil non mancano neanche post celebrativi di Morsi e di Erdogan, entrambi legati all'area islamista dei Fratelli Musulmani.
Non manca poi la foto di famiglia con Sumaya, Abdallah e con Muhammad Abdel- Qader, marito della Khalil nonchè imam di Perugia, fotografato a un evento ufficiale mentre stringeva la mano a Mohamed Morsi.
(il Giornale, 14 giugno 2016)
Accordo Israele Eurocontrol
Israele ha aderito a Eurocontrol. L'organizzazione intergovernativa di cui fanno parte 41 Stati europei e limitrofi ha lo scopo di sviluppare e mantenere un efficiente sistema di controllo del traffico aereo appunto a livello europeo , affiancando in questo impegno comune le autorità nazionali dell'aviazione civile (in Italia l'ENAC), gli enti ed i soggetti fornitori dei servizi di controllo del traffico aereo (in Italia ENAV e l'Aeronautica Militare), gli utenti dello spazio aereo civile e militare, il settore industriale, le organizzazioni professionali e le competenti istituzioni europee.
La decisione di aderire a Eurocontrol si è dimostrata necessaria in seguito ad uno studio dell'organizzazione stessa, dove si mostra che il 90% dei voli da e per Israele attraversa lo spazio aereo europeo.
Questo accordo inoltre permetterà di migliorare le performance economiche e diminuire i ritardi.
(teleborsa.it, 14 giugno 2016)
Così il Califfo arruola i lupi solitari: "Siete dei nostri se uccidete infedeli"
La regola di Al Baghdadi: se un musulmano proclama la sua fede nello Stato islamico è automaticamente uno di noi. Non serve un ordine diretto per pianificare un attacco.
di Giordano Stabile
BEIRUT - Il massimo risultato con il minimo investimento. Lo Stato islamico punta sui lupi solitari per continuare a tenere sotto pressione l'Occidente, anche quando l'offensiva della coalizione guidata dagli Usa ha ridotto le sue capacità di manovra e bloccato «l'autostrada della jihad» che portava i suoi combattenti da Raqqa all'Europa attraverso la Turchia. Per trasformare un attacco nato da un'iniziativa personale in una «operazione dell'lsis» basta il giuramento di fedeltà al califfo Abu Bakr al Baghdadi. Al telefono con la polizia, nel caso di Omar Mateen in Florida. O su Facebook, come per la coppia killer di San Bernardino o l'islamista Amedy Coulibaly dell'assalto al minimarket kosher di Parigi. Non serve un ordine diretto, né finanziare l'attacco.
Ordine a tutti i musulmani
Questa capacità di sfruttare le azioni solitarie nasce però da un lavoro ideologico sistematico, che s'intreccia con la decisione di proclamare il Califfato. Già nel discorso inaugurale del 29 giugno 2014, il portavoce di Al-Baghdadi, Mohammed al Adnani, tracciava la via per tutti i musulmani. Con la proclamazione del Califfato avevano l'obbligo di giurare fedeltà, bay'ah, al Califfo. Il secondo obbligo era l'hijra, l'emigrazione nelle terre sotto il suo dominio, come combattenti o per contribuire alla sua costruzione. Il terzo dovere, nel caso non potessero emigrare, era colpire gli infedeli in Occidente.
Anche se il Califfato è stato sconfessato dalle autorità islamiche, a cominciare dall'università del Cairo Al-Azhar, la sua presa sulle comunità musulmane non integrate è forte, perché è il simbolo dell'lslam degli esordi, dei primi compagni del Profeta, i salaf al-salih, puri e vincenti. Di fronte alle contestazioni degli ulema ufficiali, Al-Adnani, in un messaggio del 22 settembre 2014, ha chiarito la legittimità delle azioni dei lupi solitari: «Se potete uccidere un infedele americano o europeo, o australiano o neozelandese, o di un Paese che partecipa alla coalizione contro lo Stato islamico ... uccidetelo ... in qualunque maniera potete farlo. Non chiedete nessun consiglio e non chiedete un parere religioso a nessuno. Uccidete l'infedele sia che sia militare o civile».
L'esultanza sul Web
Il primo a rispondere all'appello di Al-Adnani è stato Elton Simpson con l'attacco a Garland, in Texas, del 3 maggio 2015. Simpson, prima di sparare sui disegnatori satirici che avevano «dileggiato» Maometto, aveva fatto bay'ah su Twitter. I due killer di San Bernardino, Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik, si erano invece rivelati su Facebook. Senza i social network, i legami fra il Califfato e suoi potenziali seguaci in Occidente non potrebbero esistere. L'uso del Web per il giuramento di fedeltà va di pari passo con la rivendicazione dell'agenzia Aamaq su Telegram, l'esultanza su Twitter dei simpatizzanti, che pubblicano foto di zanne bianche con lo slogan: «L'Occidente ha i muscoli, noi abbiamo i lupi solitari».
Anche il tono dei «tifosi» si è subito adeguato al cambio di strategia delineato da Al-Adnani il 21 maggio. Non è più il momento del Califfato che «resiste e si espande». È il momento della ritirata nel deserto, dei pochi che combattono contro molti. Dei lupi solitari, che però non si devono sentire soli. Nell'agiografia del Califfo si sottolinea la presenza costante di Al-Baghdadi al fronte, in incognito. Al-Baghdadi «cerca il martirio». E come lui lo fanno i suoi luogotenenti, a partire dallo stesso Al-Adnani, ferito in Iraq a gennaio. Cosi gli attacchi dei lupi solitari si concludono quasi sempre con prese di ostaggi che costringono la polizia a eliminare il terrorista. È il «martirio», alla fine, a unire i credenti nella versione fanatica dell'Islam.
(La Stampa, 14 giugno 2016)
Un piccolo robot per una grande ispirazione
Il progetto SpaceIL ha già vinto un contratto per lanciare la sua navicella "low cost" sulla Luna.
Il prototipo del robot SpaceIL presentato lo scorso 31 dicembre nella residenza ufficiale del presidente d'Israele all'atto della firma dell'accordo per il suo lancio in una missione privata sulla Luna, su un vettore Falcon 9
Nel 2010, tre giovani imprenditori israeliani di Holon - Yariv Bash, Kfir Damari e Yonatan Winetraub - decisero di partecipare a un concorso indetto da Google per un robot "low cost" da mandare sulla Luna che fosse in grado di muoversi per almeno 500 metri e inviare foto ad alta definizione. In un mese raccolsero la quota necessaria per l'iscrizione (50.000 dollari) e presentarono una serie di complicati disegni....
(israele.net, 14 giugno 2016)
La pagella di Rouhani dopo tre anni
di Esmail Mohades
La paura di una nuova insurrezione, come quella in seguito alle elezioni del secondo mandato di Ahmadinejad nel giugno 2009, ha fatto sì che il 14 giugno 2013 uscisse dal cilindro delle urne della Repubblica islamica Hassan Rouhani, candidato non proprio gradito ad Ali Khamenei, il detentore del potere in Iran. In questi tre anni in Iran sono state impiccate almeno 2400 persone, vetta mai raggiunta negli ultimi 25 anni di regime. Sebbene le condanne a morte siano decise dal sistema giudiziario di un regime illiberale, Rouhani ha dato il suo beneplacito definendole "applicazione dei comandamenti di Dio e leggi del parlamento che appartiene al popolo". Chi conosce la psicologia degli uomini del regime teocratico al potere in Iran sa che la sfacciataggine gli è intrinseca. Ahmed Shaheed, relatore speciale dell'Onu per i diritti umani in Iran ha più volte dichiarato che la situazione dei diritti umani in Iran è peggiorata durante la presidenza di Rouhani. Il 20 e 29 maggio hanno fustigato dei ragazzi durante la festa di laurea e l'8 giugno i lavoratori in sciopero.
Le carceri iraniane ospitano convertiti ai cristianesimo, giornalisti e appartenenti alle minoranze etniche e religiose. Molti prigionieri politici malati di cancro in carcere stanno facendo lo sciopero della fame contro la loro drammatica situazione e quella dei loro compagni. Oltre 600mila persone vengono arrestate ogni anno in Iran e più di 220mila affollano le carceri disumane. Il "conservatore moderato" Motahari, vicepresidente del majlès e sostenitore del "moderato con adagio" Rouhani, in un dibattito recentemente ha bollato i Baha'i come un "prodotto del colonialismo" e per questo privi del diritto alla libertà di pensiero ed a "fare propaganda". In una Teheran di 15 milioni di abitanti non c'è una moschea per sunniti. In Siria si annoverano oltre 60mila pasdaran iraniani e i loro mercenari e la loro presenza in Iraq schiaccia la popolazione che si trova tra l'incudine dell'Isis e il martello degli uomini del regime teocratico iraniano ed i loro oltre 50 gruppi paramilitari. Anche se assente dai mass media, questa è una drammatica realtà.
Ah, "moderato" Rouhani! Mentre due terzi della popolazione iraniana ha meno di 35 anni il novantenne Ahmad Jannati, fido di Khamenei e principale censore nel Consiglio dei guardiani, il 24 maggio diventa il capo dell'Assemblea degli esperti. Tutto questo non scoraggerà certo i perseveranti analisti mediorientali di suscitare vacue speranze nel riformismo in Iran e che l'Iran di Rouhani porterà pace e stabilità in Medio Oriente. Questi analisti hanno giurato assoluta fedeltà alla strategia mediorientale di Barack Obama, peccato che oltre alla confusione non c'è altro. Null'altro ha danneggiato la lotta degli iraniani quanto un'illusione riformista fabbricata ad arte.
Dopo l'alzata di polvere dell'accordo nucleare del 14 luglio 2015, l'economia del Paese ha continuato nella stagnazione e ha perso del tutto la capacità di allacciare sane relazioni economiche. Il viceministro degli Interni del regime, Morteza Mir- Bagheri ha ammesso, lo scorso 12 aprile, che il tasso di disoccupazione in Iran viaggia tra il 40 e 60 per cento. Secondo i dati del regime, durante la presidenza di Rouhani oltre 15mila aziende industriali e manifatturiere sono state chiuse o sottodimensionate al 50 per cento delle loro capacità produttive, e il numero dei disoccupati è aumentato di un milione. La situazione sociale, oltre quella politica, è sul punto di esplodere e non a caso Ali Khamenei ha ricordato, il 17 maggio, che ulteriori misure repressive in tutto il Paese ora sono "una massima priorità".
La maggioranza dei due rami del Parlamento italiano ha firmato un documento di denuncia che è stato presentato il 9 giugno nella sala stampa della Camera sulla drammatica situazione dei diritti umani in Iran e sulle ingerenze del regime dei mullà in Iraq e in Siria. La maggioranza esorta il governo italiano e l'Unione europea ad adottare una politica adeguata nei confronti del regime iraniano.
Maryam Rajavi, presidente eletta del Consiglio nazionale della resistenza iraniana, in una messaggio ai parlamentari italiani, ha dichiarato: "Qualcuno in Europa e negli Stati Uniti pensava che dopo l'accordo sul nucleare ci potesse essere un'apertura in Iran. Qualcuno credeva che dopo la farsa delle elezioni del mese di marzo sarebbero arrivati i moderati e che la politica espansionistica del regime si sarebbe attenuata... Il sistema dei mullà è immerso nelle crisi, è debole e non ha alcuna possibilità di apertura nei confronti della popolazione iraniana. Perciò ha sempre più bisogno di continuare nella repressione, nell'esportazione del terrorismo e nel fomentare la guerra... Per queste crisi i mullà non hanno soluzioni. La dittatura, l'oppressione e l'ingerenza nelle guerre non potranno durare in eterno. Per questo, l'iniziativa del Parlamento italiano è molto importante perché indica la via d'uscita".
La leader della Resistenza iraniana ha auspicato che eliminando l'ostacolo che è il regime teocratico al potere in Iran, si possa rivitalizzare un solido rapporto tra due antiche nazioni, l'Italia e l'Iran.
(L'Opinione, 14 giugno 2016)
Tutti pazzi per la cucina kasher, nasce l' App con i prodotti certificati
Il moltiplicarsi di intolleranze e allergie spinge la dieta ebraica. Nel mondo la seguono 35 milioni di persone che la considerano una garanzia visto che traccia il prodotto in ogni sua fase di trasformazione. A fine giugno Il ministero dello Sviluppo Economico lancerà anche l'applicazione con l'elenco di tutti i prodotti in commercio.
di Silvia Luperini
Boom di kosher. O kasher, come si dice in Italia. Sono sempre più numerosi i consumatori che si affidano alla dieta ebraica. Non tanto per ragioni religiose quanto salutistiche. Tanto che il ministero dello Sviluppo Economico ha intuito le potenzialità di questo mercato in piena espansione e ha supportato il progetto dell'Unione delle comunità ebraiche italiane che ha creato un ente certificatore nazionale con il marchio K.it, dedicato a tutte le imprese del paese e utile per chi cerca sugli scaffali dei negozi un prodotto kasher. Da Barilla a Galbani, da Lazzaroni, Bonomelli, De Cecco a tanti altri, sono numerose le aziende che si sono fatte certificare, allargando le proprie potenzialità dentro, e ancora di più, fuori dai confini nazionali. Solo nei supermercati americani, il prodotto kosher si vende il 40 per cento di più rispetto a un prodotto non certificato dello stesso prezzo. Entro la fine di giugno, per permettere ai consumatori di orientarsi meglio nella piccola e grande distribuzione, uscirà anche una app a cura del Ministero dello Sviluppo Economico per tablet e smartphone dove verranno elencati tutti i prodotti kosher italiani in commercio con relativa certificazione.
Un business salutare
Secondo la società di consulenze Lubicom, circa 35 milioni di persone nel mondo acquistano prodotti kasher, per un giro d'affari che solo negli Stati Uniti ha sfiorato nel 2015 i 15 miliardi di dollari con una crescita del 15 per cento annuo. Anche il mercato del vino kasher non risente della crisi. Forse anche perché dà la certezza che il vino viene fatto effettivamente con gli acini d'uva e non, come è capitato in qualche truffa recente con acqua e zucchero fermentati. Secondo il sito Winenews.it nel giro d'affari da 28 milioni di dollari dominano i produttori di vino d'Italia, Francia, California e Israele.
(la Repubblica, 13 giugno 2016)
27 giugno - Incontro tra Israele e Corea del Sud per un accordo di libero scambio
SEUL - Entrambi i governi hanno evidenziato il potenziale dell'accordo per promuovere la cooperazione bilaterale anche nei prodotti manifatturieri, nei servizi, negli investimenti, nell'agricoltura e in altri settori. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano "Haaretz", gli scambi commerciali tra Corea del Sud ed Israele avrebbero raggiunto un valore di circa due miliardi di dollari nel 2015. Israele ha esportato verso la Corea del Sud 578 milioni di dollari in beni e servizi durante lo scorso anno. Un volta siglato, l'accordo di libero scambio tra i due paesi rimuoverebbe i dazi doganali, ma anche alcune barriere non doganali in base alle regole dell'Organizzazione mondiale del commercio. Entrambe le parti sperano che i negoziati possano essere conclusi rapidamente.
(Agenzia Nova, 13 giugno 2016)
Innovation Intesa San Paolo in Israele
Partnership con Bank Leumi e Camera Commercio Israel Italia
MILANO - L'Innovation Center di Intesa Sanpaolo prosegue nell'espansione del suo network internazionale siglando due partnership in Israele con Bank Leumi e con la Camera di Commercio Israel Italia. I due nuovi accordi, si legge in una nota, firmati in occasione di una missione a Tel Aviv, arrivano a distanza di pochi mesi da quello stretto con The Floor, il primo fintech hub internazionale nato nella città culla dell'innovazione del Paese.
"Siamo presenti nei principali hub innovativi del mondo e intendiamo costruire rapporti di collaborazione fecondi sia per le unità di business del Gruppo, sia per le nostre imprese clienti che sono alla ricerca continua di nuove soluzioni e opportunità di cambiamento", ha commentato Maurizio Montagnese, Chief Innovation Officer di Intesa Sanpaolo.
(ANSA, 13 giugno 2016)
Religioso iraniano: le donne senza velo causano la siccità con il loro stile di vita immorale
Il fiume è in secca? Per l'imam di Isfahan la colpa è delle donne vestite all'occidentale, che si fanno fotografare senza velo e condividono le immagini in rete.
Non è colpa della siccità se ad Isfahan la terra è arida e secca. Se il più grande fiume dell'Iran centrale è a corto di acqua la colpa è delle donne che non portano più il velo e vestono "come se fossero in Europa". Parola del religioso sciita Seyyed Youssef Tabatabi-nejad che, durante la preghiera del venerdì, punta il dito contro quelle ragazze dal modo di vestire "immorale" e accusa: a causare la crisi idrica del fiume Zayandeh-rud sono proprio le donne che, accanto a quelle sponde, amano fotografarsi senza hijab. E poi lo postano su Facebook.
"Il mio ufficio ha ricevuto foto di donne accanto al letto asciutto dello Zayandeh-rud vestite come se fossero in Europa. Sono questo genere di cose a prosciugare ulteriormente il fiume", ha dichiarato l'imam, che ha chiesto al Governo di intervenire subito affinché vengano processati tutti quei social network" che incoraggiano le donne iraniane al "vizio" e all'"indecenza".
Senza velo, sui social
A far imbestialire il religioso è la campagna lanciata sul web da My Stealthy freedom: un blog che, soprattutto attraverso i social network, invita le donne dell'Iran a farsi fotografare senza velo. Un gesto rivoluzionario in un paese in cui l'hijab è imposto dalla legge dello stato. Creata dalla giornalista iraniana esule in America Masih Alinejad, la pagina facebook consiglia alle ragazze un trucco per sfuggire alla polizia della moralità: tagliarsi i capelli, vestirsi da uomo o togliersi il velo. Per godersi finalmente un soffio di furtiva libertà e, magari, condividerlo in rete. Così ora la pagina ha oltre 800mila iscritti e la campagna è diventata virale.
Imam: un vizio da sradicare
Un'iniziativa che Tabatabi non ha gradito affatto: "Se vediamo un peccato è inutile solamente discuterne, ha dichiarato l'imam invocando addirittura l'intervento delle forze dell'ordine. "La polizia deve usare le sue forze ed eseguire operazioni per sradicare il vizio" ha aggiunto il religioso, che è membro dell'Assemblea degli Esperti, il concilio di 86 religiosi che nomina il Rahbar (Guida Suprema), la più alta carica istituzionale della Repubblica dell'Iran. Le altre condanne. Ma Tabatabi non è il primo ad essersi scagliato contro la presunta immoralità delle donne iraniane. A sostenere il legame tra lo stile di vita occidentale e i disastri naturali era stato qualche anno fa anche l'allora presidente Ahmadinedjad. Era il 2010 quando mise le donne in guardia dal rischio di un gravissimo sisma nel Paese. "Molte donne che non vestono con modestia - spiegò l'hojatoleslam Kazem Sedighi - portano i giovani fuori strada, corrompono la loro castità e diffondono l'adulterio nella società e ciò aumenta i terremoti".
Le donne rispondono
Oggi dalla rete arriva la risposta di My Stealthy freedom e delle sue attiviste: "Ora siamo accusate di un altro disastro naturale. Pare che chi governa l'Iran abbia deciso di gettare l'onta della propria incompetenza e della propria incapacità di governo sulle donne. Con le belle foto che abbiamo fatto, noi aggiungiamo qualcosa alla bellezza della natura, non causiamo disastri naturali. Quelli sono causati dalla nostra inabilità di gestire le limitate risorse dell'Iran".
(RaiNews, 13 giugno 2016)
Viaggio nell'Italia gastronomica con lo chef Michele Bozzetto
A lezione di cucina italiana con lo chef Michele Bozzetto: l'appuntamento è per il prossimo 20 giugno (14.30 - 17.30) presso lo Sheraton Hotel di Tel Aviv, organizzato dall'Istituto italiano di cultura in collaborazione con Sheraton Hotel e Ice (Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane) Tel Aviv, con il patrocinio dell'Ambasciata d'Italia in Israele. I partecipanti potranno imparare come preparare alcuni piatti tipici della cucina italiana, attraverso un viaggio nella gastronomia del Belpaese. L'Istituto italiano di cultura è presente in Israele a Tel Aviv e a Haifa, con una sezione distaccata: il suo compito è quello di promuovere la conoscenza, la diffusione e l'apprezzamento della cultura italiana nella società israeliana, con particolare attenzione allo studio e alla diffusione della lingua italiana. Ma anche la gastronomia è un ottimo biglietto da visita per il nostro Paese.
SCHEDA
L'Istituto italiano di cultura di Tel Aviv è stato fondato nel 1960. Fra il 1972 ed il 1983 ha avuto sede a Rehov Marmorek, in un elegante villino nei pressi del Teatro Habima e dell'Auditorium Mann. Nel 1983 si è trasferito a Rehov Dizengoff 205, nel cuore di quella parte storica di Tel Aviv nota come Città Bianca e ricca di edifici architettonici Bauhaus. Nel 2004 l'Istituto si è trasferito presso il Trade Tower Building, un moderno grattacielo nel quale si trovano anche l'Ambasciata d'Italia e, dal 2005, il nuovo Sportello Unico per il Commercio. La sede di Dizengoff ospita oggi il Centro d'insegnamento della lingua.
(9colonne, 13 giugno 2016)
Gli ebrei e gli indignati (a giorni alterni)
di Pierluigi Battista
Bene, e adesso, dopo la virtuosa e corale e giustificata indignazione per il Mein Kampf allegato al Giornale, si spera, ma soltanto si spera anche se le speranze sono molto sottili, che qualche flebile voce finora silenziosa, impacciata, timida, connivente si alzi per deprecare i leader occidentali che non hanno nulla da eccepire sul regime di Teheran, cioè il regime nostro seguitissimo partner commerciale in cui viene premiata nel mezzo di un concorso apposito la vignetta più ridanciana sull'Olocausto. Tutti quelli che hanno bollato come scandaloso l'allegato hitleriano ora potranno sapere anche che il vincitore del prestigioso concorso in cui vengono comicamente sbranati sei milioni di ebrei massacrati nella Shoah è un vignettista francese, un cialtrone che probabilmente avrà sghignazzato anche per il massacro dei suoi colleghi connazionali di Charlie Hebdo.
Bene, anzi male: ce li possiamo aspettare dagli indignati ad occasione un comunicatino di ripulsa, una noticina di deplorazione, uno spicchio di scandalo da parte di quelli che finora sono stati zitti, fra tanti di destra e di sinistra, perché nuovi amici dell'Iran?
Bene , anzi male. Adesso ci aspettiamo, appena chiusa la campagna elettorale a Milano, un frammento di dichiarazione, un post sui social network con tanti tanti cuoricini anche sul fatto che Hamas, che vorrebbe esplicitamente annientare lo Stato degli ebrei nel silente imbarazzo degli europei, ha vietato a Gaza la circolazione di un libro, non del Mein Kampf, lettura un tempo molto consigliata dal Gran Muftì di Geru salemme, bensì del Diario di Anna Frank. Che ci vuole: su coraggio, una dichiarazionicina almeno.
Ci aspettiamo anche un residuo di indignazione, ma solo un residuo dopo l'improvviso risveglio della campagna elettorale, per quei Paesi islamici, sunniti o sciiti poco importa, le cui televisioni trasmettono, nell'indifferenza europea, intere serie tratte dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, uno dei testi fondamentali dell'antisemitismo più vomitevole.
Ci aspettiamo, ma questa è veramente un'attesa improntata al più sfrenato ottimismo, che gli indignati di oggi dicano una sola parola, una parolina soltanto, sulla raccomandazione rivolta agli ebrei francesi di non indossare la kippah. Ma non succederà. La campagna elettorale finirà. Calerà il silenzio. E gli ebrei, ancora una volta, saranno lasciati soli. Ancora una volta, come sempre.
(Corriere della Sera, 13 giugno 2016)
Come ebreo vorrei che fosse studiato a scuola
Lettera al Giornale
Gentile direttore,
studiare il male per evitare che ritorni, sostiene il Giornale.
Non solo concordo, ma lo propugno con voi. Il Mein Kampf (integrale, originale e in veste tipografica egualmente efficace) andrebbe illustrato e studiato nelle scuole.
Lo sostiene la Comunità Ebraica tedesca ed anch'io, che appartengo a quella di Bologna.
Ma dovrebbe essere quello originale, non quello che la censura fascista del '38 ha depurato di passi inaccettabili per la coscienza umana. Tutti i nazisti sono fascisti, cioè impediscono il dissenso con la violenza, scrive Erich Kuby, ma, aggiunge, non tutti i fascisti sono nazisti. Una prova: nel Mein Kampf, al capitolo XIV, pag. 382 dell'edizione del Giornale si legge che «missione del nazismo» è educare i tedeschi a combattere, ma il testo tedesco è diverso. La missione indicata è quella di educare i tedeschi ad uccidere. Chi? I russi e prima gli ebrei (i russi per ottenere lo spazio vitale, gli ebrei a scopo didattico, per cominciare, degli handicappati e degli zingari Hitler si è occupato dopo). Sta scritto (nel testo tedesco) che bisogna fare molto di più (vielmehr) di quanto ha fatto Alessandro Magno. Solo la spada (nur das Schwert) deve dare il terreno (Boden) all'alacre lavoro dell'aratro tedesco (der Arbeit des deutsches Pfluges). Ma l'aratro è solo un pezzo di ferro; è l'operatore che deve essere tedesco, di sangue puro (Blut). La spada per i russi, l'aratro e il suolo per i tedeschi. Nessuna commistione meticcia come quella di Alessandro Magno. «L'aratro che si fa spada»: questo è il comandamento del nuovo ordine nazista. La tecnica poi, alla spada sostituirà camere a gas e forni crematori. È un dettaglio che in italiano il traduttore fascista tralasci due parole - «molto di più» (vielmehr) e «solo» (nur) - e cosi sembri che i tedeschi debbano essere solo educati a combattere? Ma il Führer in tedesco scrive che i tedeschi devono essere educati ad uccidere!
Questo leit-motiv ripetuto per venti anni, dal 1925 al 1945, in migliaia di discorsi, in decine di milioni di copie di questo breviario del crimine che è il Mein Kampf ha prodotto i campi di sterminio, senza che ci fosse una sola legge istitutiva, un piano finanziario, un progetto esecutivo ecc. C'é stato soltanto l'alacre lavoro della volonterosa spada nazista.
Lucio Pardo
(il Giornale, 13 giugno 2016)
«Continuiamo ad essere gli eredi di Hitler, che ci piaccia o meno»
di Marcello Cicchese
Questa frase è il sottotitolo di un libro di Guido Knopp, uscito in tedesco circa vent'anni fa e tradotto in italiano circa dieci anni fa con il titolo "Hitler, un bilancio". E' un libro da consigliare, soprattutto a coloro oggi si indignano per una recente iniziativa giornalistica di pubblicare il ben noto libro di Hitler. Ben noto per quel che riguarda il titolo, molto meno noto per quel che riguarda il contenuto. L'autore è un tedesco nato dopo l'ultima guerra, quindi privo di responsabilità personale per i fatti della stessa, ma consapevole di doverci fare i conti insieme ai suoi connazionali. A loro quindi è rivolto il libro, nel quale riassume in modo diretto, chiaro e incisivo quello che si può chiamare "l'evento Hitler" in tutta la sua gravità, ma anche nell'impressionante "naturalezza" in cui si è svolto fino a poco prima che crollasse. Il bilancio che ne fa mira ad uno scopo: invitare i suoi connazionali a non continuare a scappare davanti a Hitler, ma ad avvicinarsi a lui, ad ammettere onestamente di essere in ogni caso i suoi eredi, a considerarlo parte ineliminabile del panorama storico tedesco, alla pari di uomini come Beethoven e Goethe. Tutto questo al fine di liberarsene, perché si può pensare di essere riusciti a scacciarlo dai propri pensieri, ma questo non risolve il problema.
Estratto da pag. 26:
«Scacciarlo non vuol dire liberarsene. Si possono piantare fiori sulle tombe ma la coscienza non si acquieta così facilmente.
Per liberarci da Hitler, dobbiamo accettarlo. Più ci allontaniamo da lui, più ce ne avviciniamo. Più la nostra voglia di dimenticare il ricordo traumatico di Hitler è forte, più ci inseguirà senza pietà. Per sfuggire al malvagio potere di quest'uomo dobbiamo confrontarci con lui. Se lo sopprimiamo, ci incalzerà; se ci avviciniamo, si allontanerà.
Non abbiate paura di Hitler. Quando gli saremo vicini, si farà scoprire. Quando sapremo perché era fatto così, saremo immuni dalla tentazione di invocare "l'uomo forte" in tempi di crisi.
Se possiamo affermare serenamente che Beethoven e Goethe erano tedeschi così come Hitler, saremo sulla buona strada. Noi, i nati dopo la guerra, non siamo responsabili per Hitler, ma siamo responsabili per la memoria, contro l'oblio, la rimozione e la negazione. Non c'è una colpa collettiva ma una responsabilità collettiva per Auschwitz e per Hitler.
Dobbiamo accettare entrambe le ferite, rispondere a questo dolore: sono una parte indelebile della nostra storia.
Chi lo riconosce, è un patriota.»
Non si sa quanti simili patrioti ci siano oggi in Germania, ma forse ce ne sono ancora meno in Italia. Quanti italiani sono disposti ad accettare la ferita e il dolore di un Benito Mussolini che fa parte indelebile della nostra storia come Dante Alighieri e Leonardo da Vinci? Mussolini ormai è lontano, appartiene a un altro mondo che conviene dimenticare, o ricordare soltanto per aumentare la distanza tra noi e lui. Ma Mussolini si è indistricabilmente unito a Hitler, e quindi allontanandoci in modo emotivo e disonesto da Hitler prendiamo una scorciatoia di fuga davanti al fantasma di un Mussolini che è parte ineliminabile, insieme a Hitler, della nostra stessa storia. E allora facciamo a gara a chi si allontana di più dal fantasma di Hitler, e prendiamo le misure per controllare chi ci sembra che si sia avvicinato troppo al fantasma, e se ci sembra che questo avvenga ci affrettiamo a dire che la nostra distanza dal fantasma è più grande della sua. Quindi noi siamo più buoni, più democratici.
Forse si è verificato proprio quello che dice Guido Knopp: il fantasma di Hitler si è sinistramente avvicinato a coloro che fanno mostra di esserne molto lontani e strumentalmente accusano altri di esserne troppo vicini.
(Notizie su Israele, 13 giugno 2016)
Ecco tutti i lupi solitari pronti a colpire l'Italia
Dossier. L' intelligence: 400 i potenziali jihadisti. Anche connazionali convertiti e figli di immigrati
di Francesca Musacchio
Si muovono in autonomia, sulla base di iniziative individuali. La vicinanza ad ambienti estremisti a volte è ben celata. Con l'avvento dell'Isis, inoltre, aderire ai dettami del fondamentalismo islamico utilizzando il web è ancora più facile e per certi versi meno compromettente. L'Antiterrorismo italiano, però, ha stimato che sul nostro territorio nazionale potrebbero nascondersi almeno 400 ipotetici «lupi solitari», potenziali assalitori e autori di attacchi imprevedibili. Un numero che nel giro di un anno sarebbe raddoppiato.
Una black-list stilata dalle forze di sicurezza che hanno individuato tutti quei soggetti «radicalizzati», che potrebbero compiere gesti solitari. Il fenomeno interessa tutta l'Italia, da nord a sud, anche quei luoghi in cui non sono presenti moschee e centri islamici che raccolgono i fedeli e che, in alcuni casi, diventano punti nevralgici per l'indottrinamento e il reclutamento. Di questa lista di «attenzionati» fanno parte convertiti italiani, immigrati di seconda generazione e anche i volontari della jihad che sono partiti o che potrebbero farlo, per andare a combattere in Siria e Iraq con i miliziani di Abu Bakr al- Baghdadi. Alcuni di questi sono stati anche destinatari di un decreto si espulsione. Il rischio emulazione, infatti, è altissimo. Dall'attentato di Ottawa, in Canada, è cresciuta l'attenzione su questi soggetti e sul mondo musulmano, che nel nostro Paese conta su una ventina di organizzazioni principali, centinaia di luoghi di culto, più di 100 moschee, 159 centri islamici e decine di scuole coraniche.
Uno studio del Centro internazionale antiterrorismo israeliano, ultimato con la collaborazione di Michele Groppi, che ha ampliato e aggiornato uno studio del 2011 presso l'ICT di Herzliya, sotto la supervisione del dottor Boaz Ganor e Stevie Weinberg, ha lanciato l'allarme sulla figura dei terroristi «homegrown», quelli che hanno tratto ispirazione e sostegno ideologico da Isis e Al Qaeda e oggi rappresentano una delle più insidiose minacce per l'Italia e per tutti i Paesi occidentali. Nel dossier, che analizza nel dettaglio lo sviluppo negli anni della comunità islamica italiana, tra processi di (mancata) integrazione e radicalizzazione di alcune realtà, il terrorista islamico «homegrown» è definito «una persona che gode dei diritti sociali e legali, vissuta a stretto contatto con i valori e le credenze culturali del paese che li ospita, e che mostra l'intento di fornire il supporto per commettere direttamente o indirettamente un attacco terroristico all'interno della nazione in cui vive». Questa definizione comprende quei musulmani che sono nati e cresciuti nelle società occidentali che, una volta sposata l'ideologia islamica radicale, si dedicano alla pianificazione e attuazione di attacchi contro i loro Paesi d'origine.
Negli ultimi due anni, le minacce rivolte all'Italia da parte dello Stato islamico e di Al Qaeda sono numerosissime. Basti ricordare la rivista dell'Isis, Dabiq, che ha pubblicato nella foto di copertina la foto di piazza San Pietro con la bandiera nera del Califfato issata sull'obelisco. E il Papa, secondo le intelligence mondiali, è uno degli obiettivi dei terroristi.
Il dossier elenca anche una serie di altri fattori di rischio presenti nel Belpaese: i contatti tra musulmani che vivono in Italia con Arabia Saudita, Iran e Fratelli Musulmani egiziani; la presenza di imam e individui radicali; una capillare estensione dei luoghi di culto non autorizzati e associazioni islamiche sparse su tutto il territorio nazionale. Oltre che un tasso di immigrazione che è andato crescendo in modo esponenziale negli ultimi anni e che spesso risulta fuori controllo. Una trama di interessi e presenze che, ormai, fa parte del tessuto sociale e dove l'Islam ha un potere sottovalutato. Lo studio israeliano, inoltre, dedica ampio spazio alla presenza dei musulmani in Italia ed evidenzia come «rispetto al 2011 sono cresciuti con un tasso pari al 5%, ovvero di 71.111 unità».
Lo studio prende in esame quegli elementi che compongono l'indice di radicalizzazione della comunità musulmana come, ad esempio, «contatti pericolosi o potenzialmente pericolosi con agenti ritenuti radicali e/ o violenti, organizzazioni sociali radicali, moschee e scuole coraniche radicali, leader sociali e religiosi radicali, organizzazioni impegnate in attività terroristiche, sostegno finanziario e logistico di attività terroristiche, attacchi terroristici o di tentativi di attacco terroristici sul suolo italiano, jihadisti italiani, arresti per reati di terrorismo, con rispettive sentenze ed espulsioni, e aggressioni e omicidi a sfondo culturale e religioso». Il rischio, dunque, arriva proprio da tutte queste realtà messe insieme, che spesso sono fuori controllo.
(Il Tempo, 13 giugno 2016)
L'eredità di tre sorelle israeliane e quella pace sfumata con gli arabi
Tre sorelle si ritrovano dopo anni di separazione: «La casa delle estati lontane» della regista Shirel Amitaì è una riflessione tutta al femminile sulla questione ebraica.
di Paolo Mereghetti
Riflessione tutta al femminile sull'ebraitudine e le sue tante facce, l'opera prima di Shirel Amitaì (nata in Israele ma cresciuta professionalmente in Francia dove ha collaborato a lungo con Rivette, co-sceneggiando Gare du Nord e Questione di punti di vista) è una bella commedia con qualche risvolto drammatico e più di una tentazione fantastica. Come a ribadire, fin dalla scelta di genere, che un tema complesso non può essere affrontato con un unico punto di vista. E infatti lo spettatore se lo ritroverà «diviso» tra le tre sorelle protagoniste di La casa delle estati lontane, ognuna portatrice e insieme traditrice di quello spirito fondativo con cui si trovano a fare i conti nel film.
Nelle primissime scene, infatti, tre sorelle si ritrovano dopo anni di separazione ad Atlit, piccola città costiera a sud di Haifa, nella casa ereditata dai genitori: Darel (Yaèl Abecassis), la maggiore, era emigrata in Canada, Cali (Géraldine Nakache) arriva da Parigi e Asia (Judith Chemla) da una qualche città israeliana dove era andata a studiare (nel film non esistono riferimenti precisi, nemmeno il cognome delle sorelle sappiamo, a togliere riconoscibilità e ad aumentarne il valore esemplare). La più grande è quella che sembra più legata alle radici di famiglia e ha molti dubbi sulla vendita della casa dove le tre sorelle avevano passato lontane vacanze; Cali ci vede soprattutto l'occasione per trovare quel denaro che le servirebbe per sistemarsi definitivamente a Parigi mentre la più piccola è tutta presa dalla filosofia ayurvedica e pensa solo al suo prossimo viaggio in India.
La casa è piena di problemi, nemmeno l'impianto della luce funziona bene, per non parlare del giardino che è diventato una specie di foresta mezza secca. Eppure proprio questi «difetti» sono quelli che cominciano a far breccia nel cuore delle tre ragazze. Il legame con la loro terra si intreccia con quello che nasce dai ricordi, dalle consuetudini dimenticate, dalla ritrovata sorellanza e finisce per conquistarle tutte. Tanto da far riapparire addirittura i fantasmi dei genitori, Mona (Arsinée Khanjian) prodiga di consigli e suggerimenti per affrontare le asperità della vita e Zack (Pippo Delbono) sempre impegnato ad aggiustare l'impianto elettrico, il televisore o il bollitore. E a questi due fantasmi se ne aggiunge forse un terzo, quello di un giovane ragazzo palestinese che di notte entra nel loro giardino a rubare olive o a recuperare qualche mobile buttato via, forse frutto della fantasia di Cali o forse solo inafferrabile perché abituato a non fidarsi di nessuno.
A entrare invece concretissimamente nelle loro vita è la storia politica di Israele, perché da piccoli segnali e frammentarie notizie capiamo che il film è ambientato nell'autunno del 1995, quando la speranza di una pace con gli arabi sembrava a portata di mano e invece naufragò drammaticamente la sera del 4 novembre per mano di un colono ebreo che uccise il primo ministro Yitzhak Rabin. E la scena in cui le tre sorelle conoscono la notizia, proprio mentre stanno andando in auto a Tel Aviv per manifestare a favore della pace e degli accordi di Oslo, sa ancora commuovere nella sua essenzialità ed efficacia.
Una scena che dà la svolta al film, perché cambia l'atteggiamento delle tre sorelle verso la vendita della casa e perché le costringe a pensare alla propria identità. «Quando sono a Parigi mi considerano ebrea, quando sono qui mi trattano come una francese» dice Cali (e ti sembra di sentir parlare la regista), riassumendo quel senso di lacerazione che si porta dentro e su cui il film vuol far riflettere. Prendendone anche le distanze, come quando scherza sull'eroismo della nonna che attraversò un'Europa deserta e desolata, almeno a dar retta alle sue descrizioni. Un'ironia benevola e mai cinica che dà la misura di tutto il film, costruito per accumulo di situazioni piuttosto che lungo una rigorosa linea narrativa, capace di improvvise svolte o sospensioni (il fascino della natura incolta, la storia dell'asino Rasputin, la presenza vera o presunta non importa del «visitatore» palestinese) ma soprattutto capace di far entrare in empatia lo spettatore con le tre sorelle e la loro voglia di vita.
(Corriere della Sera, 13 giugno 2016)
Israele, leader nel settore medico-tecnologico
Israele, leader nel settore medico-tecnologico. Quando si tratta del mercato medico-tecnologico (in gergo medtech), la storia parla sempre di Brasile, Russia, India e Cina, i cosiddetti paesi BRIC.
Ma quando si tratta di soluzioni sanitarie innovative, non si può ignorare il polo di innovazione globale che è diventato Israele.
Il numero di domande di brevetti originali nelle scienze della vita è aumentato di più di un terzo, nel periodo tra il 2008 e il 2013. I settori dominanti all'interno di tali domande sono state medicina (24%), biotecnologia (17%) e attrezzature mediche (13%).
Il governo israeliano ha giocato un ruolo molto importante nella promozione della ricerca e sviluppo nel campo delle scienze della vita. Secondo lo IATI Annual Report 2015, l'Office of the Chief Scientist at Israel's Ministry of Economy (Ufficio scientifico presso il Ministero dell'Economia israeliano) ha investito 100 milioni di dollari all'anno negli ultimi dieci anni in questo settore. La straordinarietà risiede nel fatto che si sta parlando di una nazione di soli 8 milioni di persone.
Le università locali preparano gli studenti alla ricerca e alle carriere nelle scienze della vita. Uno scienziato su tre si specializza in scienze della vita.
Le multinazionali hanno preso atto del talento dei centri di ricerca e sviluppo presenti nel paese e molte di esse ne hanno create di proprie.
Medtronic, azienda produttrice di dispositivi con base in Irlanda, considera Israele come una risorsa fondamentale per l'innovazione nel campo dei dispositivi medici e della tecnologia.
Judith Gal, country manager della società in Israele, commenta:
L'azienda è presente in Israele dal 1979 e ha continuamente ampliato le sue attività nel paese ed ha più di 700 dipendenti solo in Israele.
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Oltre a contributi pubblici, il finanziamento è disponibile da società di venture capital come Pontifax, che hanno investito in Check-Cap, la pillola per diagnosticare il cancro al colon.
Come negli Stati Uniti, l'industria della salute digitale sta emergendo in Israele.
Mentre la ricerca accademica, il sostegno del governo e la disponibilità di fondi hanno creato un ecosistema innovativo nel paese, anche il regime normativo ha dato il suo positivo contributo. In altri termini, il Ministero della Salute approva i prodotti che hanno le approvazioni straniere come i marchi CE e FDA.
(SiliconWadi, 13 giugno 2016)
Sempre più richiesta l'esperienza accumulata da Israele nella guerra legale contro il terrorismo
Dieci anni per la stesura di un disegno di legge anti-terrorismo adeguato ai tempi
C'è un campo in cui la domanda di know-how israeliano cresce in continuazione ed è la guerra al terrorismo.
La settimana scorsa, il vice procuratore generale israeliano Raz Nazari ha completato la stesura di un progetto di legge per combattere il terrorismo: un obiettivo decisamente complicato dal momento che i fatti non smettono di cambiare, le sfide e le esigenze non hanno mai cessato di modificarsi, e più e più volte Nazari ha dovuto mettere mano al suo progetto per aggiornare la formulazione e adattarla alla situazione attuale così come alla recente ondata di terrorismo. Per questo motivo il lavoro di redazione del testo ha preso un decennio e ha comportato centinaia di incontri con i funzionari della sicurezza, riesami legislativi e raffronti giuridici, e non meno di trenta riunioni della Commissione Legge, Giustizia e Costituzione della Knesset....
(israele.net, 13 giugno 2016)
Il duo Rosenthal & Klaine racconta la vita in Israele
di Antonio Garbisa
TORINO - Per l'anniversario del 2008 della formazione dello stato di Israele e della riunificazione di Gerusalemme, il duo di musica sperimentale Winter Family, composto dal 2004 dall'artista israeliana Ruth Rosenthal e dal musicista francese Xavier Klaine, incise a Gerusalemme il brano "Jerusalem Sindrome" per la radio France Culture. Da questo avvenimento i due decisero anche di sviluppare e approfondire l'argomento creando una performance di teatro documentario ad hoc.
Così è nato lo spettacolo "Jerusalem Cast Lead" che sarà di scena domani, alle 21.30, al Teatro Astra per il "Festival delle Colline Torinesi".
Un lavoro costruito tra il 2009 ed il 2010 attraverso la documentazione delle cerimonie commemorative nazionali nelle scuole, nei quartieri e in luoghi simbolici di Israele.
Domani Ruth Rosenthal ne sarà protagonista sul palco, guidando il pubblico in un viaggio nella società israeliana attraverso suoni, immagini e testi che celebreranno il dolore, la memoria e il coraggio.
Si tratta di simboli che permeano, ieri come oggi, la vita quotidiana degli israeliani che ne sono sopraffatti, quasi come vivessero sotto una vera e propria dittatura emotiva. "Jerusalem Cast Lead" è uno spettacolo volutamente semplificatorio che vuole smascherare le giustificazioni intellettuali finalizzate ad edulcorare una realtà che non lo merita, consentendo al pubblico di vivere da un lato una sorta di brivido sionista e dall'altro d'indagare gli strumenti di manipolazione sugli individui che possono condurre ad una totale cecità.
(Metro News, 12 giugno 2016)
Certe vignette sono peggio
A tu per tu con l'orrore. "Sono a disagio, però i pericoli sono ben altri"
di Fiamma Niresntein
Scrivo per testimoniare, sul mio giornale, il mio disagio, e intanto ringrazio il direttore che, come sempre, mi lascia esprimere senza infingimenti ciò che provo e penso. Guardo (...) (...) la copertina del Mein Kampf la striscia rossa, la svastica nera, e puzzano di morte. Non mi piace che il mio giornale esca porgendo un simile oggetto. Ai miei occhi esso contiene mille immagini, sono quelle delle baracche di Auschwitz, quelle dei bambini che mostrano il numero sul braccio e dei morti accatastati sui carri e nelle fosse. E come potrebbe essere diversamente? Per quanto si possa studiare quel libro, la sua pregnanza storica è fattuale, non culturale. Parla della mia stessa auspicata morte, se ci fossi stata, di quella del mio nonno polacco, di sua moglie, dei miei zii polacchi e italiani. La sua lettura è inequivoca: studiarlo vuol dire imbattersi nella ripetuta idea del necessario sterminio degli ebrei e nell'eccitazione con cui queste idee vennero accolte da un intero mondo, quello tedesco, compresi anche molti intellettuali, filosofi, scrittori, musicisti, il tutto unito a una politica di espansione territoriale per la ricerca dello «spazio vitale» tedesco. Non solo: il testo non è morto, viene scaricato a centinaia di migliaia di copie su internet, circola in abbondanza nel mondo arabo a fianco dei Protocolli dei Savi di Sion, che è un best seller fra i palestinesi. Golda Meir nel 1956 raccontò che se ne trovarono copie negli zaini dei soldati egiziani, e chi entra in una libreria araba è quasi sicuro di trovarlo. Sia chiaro che avrei preferito che il libro non accompagnasse il mio giornale, anche se spiegato bene dal direttore Sallusti, da un classico dell'interpretazione del nazismo - il testo di William Shirer - e dall'introduzione di Perfetti, storico antifascista di vaglio. Ma intendo ripetere quello che ho già più volte affermato, rifiutando la criminalizzazione giuridica dell'immondo negazionismo della Shoah: tutto deve essere detto, letto, raccontato, interpretato, e che sia guerra delle idee. Non c'è testo al mondo che debba essere cancellato per legge, nemmeno il più ripugnante, non c'è idea che debba essere chiusa dietro le sbarre, nemmeno la più fosca. Lo dice una persona sul cui petto sono stati applicati da un disegnatore satirico una Stella di David e un fascio e che la destra e la sinistra antisemita mettono sui loro siti come una dei leader della tentacolare cospirazione sionista internazionale.Vignetta di sinistra antisemita Inoltre, l'antisemitismo nazista genocida più attivo non è quello del rivoltante, noiosissimo, confuso, pallosissimo Mein Kampf (che vorrei sapere quanti, se non già fanatizzati, leggeranno oltre le prime due pagine), che sul New Yorker James Surowiecky descrive come un libruccio miserabile da cui Hitler esce come un opaco, amaro, invidioso, traumatizzato perdente. Il pericolo odierno lo si trova purtroppo in mille luride vignette in cui gli ebrei-sionisti sono un'unica entità malvagia, col naso, le unghie, i missili, la bocca grondanti di sangue di bambini sgozzati (posso citare una a una le immagini cui mi riferisco), e non ho sentito nessuno alzarsi in piedi a urlare che questo è inammissibile.
II rischio di un testo proibito, comunque, è che diventi un tabù universale, di fatto praticato nel segreto dello schermo del computer da masse clandestine che scaricano il Mein Kampf a centinaia di migliaia di copie. Se lo si lancia in aria ha più possibilità di essere impallinato dalla contesa delle idee; naturalmente dobbiamo essere pronti allo stesso esercizio critico con la Carta dell'Isis o col Libretto Rosso di Mao Tze Tung: nessuna comparazione numerica o morale dei danni, parlo di testi orribili.
(il Giornale, 12 giugno 2016)
"Non mi piace...; rifiutando la criminalizzazione giuridica dell'immondo negazionismo della Shoah ...; il pericolo odierno lo si trova purtroppo in mille luride vignette..." Questo si sarebbe dovuto dire e questo è stato detto da Fiamma Nirenstein. Grazie. Non è stato saggio invece dare lintonazione al coro del fintamente scandalizzato dell'anti-antisemitismo di sinistra. M.C.
La sinfonia dei mantra tibetani
In Italia con Omer Meir Wellber
di Pierfrancesco Pacoda
C'è un grande desidero di cambiamento, nella musica classica. Fuori dai confini, a volte polverosi dell'accademia, una nuova generazione di compositori e di direttori d'orchestra sperimenta, supera le partiture quasi obbligate e si avventura in territori ricchi di citazioni, frammenti inediti, fonti sonore molto diverse tra loro. In Italia lo fanno artisti come Ludovico Einaudi e Giovanni Sollima. Da Israele arriva la ricerca su una tradizione antichissima e di grande suggestione, quella dei mantra tibetani, che, per la prima volta, un direttore di grande fama, l'israeliano Omer Meir Wellber, rilegge e trasforma in sinfonia.
Un incontro ardito, sicuramente, ma di enorme fascino, quello messo in scena dalla Raanana Symphonette Orchestra, .40 virtuosi che hanno conquistato platee importanti come la Fenice dI Venezia e la Semperoper di Dresda, un coro tutto italiano e 2 date in estate, il 15 luglio a Stresa (Auditorium del Palazzo dei Congressi) e il 16 luglio a Magenta (Teatro Lirico)
La formazione eseguirà un repertorio inedito, che viene affrontato per la prima volta da un ensemble sinfonico. Si tratta di materiale che affonda le sue radici nella storia millenaria del buddismo tibetano.
I mantra e le preghiere tradizionali conservano inalterata la loro carica spirituale e misterica, capaci come sono di parlare di una filosofia antichissima che, attraverso questi concerti, viene reinterpretata secondo canoni sinfonici.
Ne esce così uno scambio tra mondi apparentemente lontani che, proprio attraverso la musica trovano il modo per dialogare e per conoscersi sempre meglio.
In un superamento delle barriere sociali, geografiche e religiose, attuato da un direttore d'orchestra che viene da una terra, Israele, dove il concerto di confine riguarda la possibile, difficile, convivenza di due popoli. I concerti sono sostenuti dalla Fondazione Lama Gangchen per una cultura della pace che ha creato al suo interno la Saraswati Ngalso Orchestra, un gruppo del quale fanno parte musicisti e cantanti di diversa provenienza etnica uniti dalla passione per i mantra tibetani, Da qui si è sviluppata la ricerca sul repertorio che è poi stato affidato al Maestro Omer Meir Wellber. I concerti sono a ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria.
(Affaritaliani.it, 12 giugno 2016)
Il governo di Atene riconoscerà presto lo Stato palestinese
RAMALLAH - Il governo greco riconoscerà presto ufficialmente lo Stato di Palestina: lo ha detto una delegazione del partito che guida l'esecutivo ellenico Syriza durante una visita a Ramallah, secondo quanto riferito da una nota del Consiglio legislativo palestinese. La delegazione greca ha incontrato dei parlamenti palestinesi e ha fatto questa promessa, pur non specificando le tempistiche entro cui avverrà il riconoscimento ufficiale. Secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa palestinese "Ma'an", la delegazione greca ha incontrato un gruppo di politici palestinesi del Fronte democratico per la liberazione della Palestina e dell'Iniziativa nazionale palestinese. "A causa di alcune circostanze particolari, il riconoscimento greca dello Stato palestinese è stato rinviato, ma arriverà presto", ha detto la delegazione greca.
Il parlamento greco ha approvato nel mese di dicembre una risoluzione per chiedere al governo di riconoscere lo Stato di Palestina, in una sessione speciale cui ha partecipato il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahmoud Abbas. Tutti i parlamentari greci hanno votato a favore della misura, secondo quanto riferito dal presidente dell'assemblea legislativa ellenica Nikos Voutsis. La risoluzione ha invitato il governo greco a "promuovere le opportune procedure per il riconoscimento di uno Stato palestinese e di ogni sforzo diplomatico per la ripresa dei colloqui di pace" nella regione.
Proprio durante la visita di Abbas ad Atene, il premier Alexis Tspiras aveva annunciato che la Grecia non avrebbe più utilizzato nei documenti ufficiali la locuzione "Autorità palestinese", ma piuttosto "Palestina". La visita di Abbas in Grecia ha segnalato il "rafforzamento" dei legami tradizionalmente storici tra i due paesi, aveva detto nell'occasione il premier. La Grecia "giudica il momento giusto" per il riconoscimento di uno Stato di Palestina, tenendo conto dei suoi "rapporti fraterni con il popolo arabo ei legami di cooperazione con Israele", aveva aggiunto Tspiras. Atene ha stretto legami più stretti con Israele negli ultimi anni, in particolare nel settore dell'energia, pur mantenendo i suoi tradizionalmente buoni rapporti con i palestinesi.
(Agenzia Nova, 12 giugno 2016)
Anna Frank, se la carta è più paziente degli uomini
La giovane ebrea, resa celebre dal suo diario, nacque il 12 giugno 1929
Una volta finita la guerra sarebbe voluta diventare una scrittrice o una giornalista, ma il sogno della piccola Anna Frank fu fatto a pezzi e poi sepolto nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Nata il 12 giugno 1929, aveva 15 anni quando morì. La sua breve vita fu affidata alle pagine del suo diario scritto nel periodo di clandestinità, in un alloggio segreto, dove Anna Frank, ebrea, si nascondeva insieme alla sua famiglia dal regime nazista. Quel diario, unico scampolo di vita, fu proprio un regalo di compleanno. La piccola Anna lo ricevette in dono il 12 giugno 1942 e da allora, come un fiume in piena, vi riversò il suo cuore e la sua mente, le sue angosce e le sue passioni, ignara che i suoi scritti, da segreti, fossero poi in un futuro non tanto lontano, letti da milioni di persone nel mondo.
«A me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente. La carta è più paziente degli uomini». Scriveva la 13enne Anna Frank. Nelle sue pagine i primi amori, l'insufficienza in algebra, il rapporto conflittuale con i genitori, la guerra, le persecuzioni, le speranze. «Non mi condannare, ma considera che anch'io talvolta posso sentirmi il cuore pieno». Si scusava addirittura la giovane Anna offrendoci uno spaccato dei suoi tempi: «Potrei passar delle ore a raccontarti le miserie portate dalla guerra, ma ciò mi rende ancor più triste. Non ci resta altro che aspettare tranquillamente, fin che si può, la fine di questa miseria. Aspettano gli ebrei e aspettano i cristiani, tutto il mondo aspetta, e molti aspettano la morte».
Un'adolescente cresciuta troppo in fretta Anna Frank. Le circostanze della vita e quelle quattro mura in cui si nascondeva l'avevano resa forte e matura, anche se probabilmente lei, travolta dalla crudeltà, non ne era consapevole. Le sue parole, che restano impresse nelle pagine del suo amato diario, il suo "amico", trasudano di saggezza e di buon senso. «Una cosa però l'ho imparata: per conoscere bene la gente bisogna averci litigato seriamente almeno una volta. Solo allora puoi giudicarne il carattere» annotava, dichiarandosi pronta a lottare, nonostante tutto. «È davvero meraviglioso che io non abbia lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare. Eppure me li tengo stretti perché, malgrado tutto, credo ancora che la gente sia veramente buona di cuore».
Se Anna Frank oggi fosse viva, sarebbe probabilmente una nonna. Un' ottantasettenne con mille cose da raccontare ai suoi nipoti. Direbbe loro di come aveva visto il mondo trasformarsi gradualmente in «una terra inospitale» di come aveva sentito avvicinarsi «il tuono che distruggerà anche noi» e delle sofferenze di milioni di persone. Una triste storia da continuare a tramandare senza mai, però, distogliere lo sguardo «dal cielo lassù»: «penso che tutto tornerà al suo posto, che anche questa crudeltà avrà fine e che ritorneranno la pace e la tranquillità».
(Pontile News, 12 giugno 2016)
Tante parole e pochi fatti: è lo stesso Iran di sempre
Un anno fa l'intesa sul programma nucleare. La svolta promessa da Rohani? Non si vede.
di Armando Sanguini
Nel suo ultimo intervento pubblico, l'ayatollah Khamenei, decisore finale dell'Iran, ha fatto ancora sfoggio di una narrazione dogmaticamente antica e di segno opposto alle aspettative che gran parte del mondo democratico aveva nutrito in merito al potenziale delle ricadute 'costruttive', per usare le parole di Rohani, che sarebbero potute derivare dall'accordo sul programma nucleare.
Sono tornati a risuonare espressioni quali 'il Grande Satana americano', i moniti a resistere ai modelli politici, culturali ed economici dell'Occidente; il rifiuto a cooperare sulle questioni regionali con i suoi maggiori nemici, Usa e Gran Bretagna in testa; il richiamo ai principi della rivoluzione islamica del '79.
Vi si è aggiunta l'accusa a Washington di non rispettare gli impegni assunti con l'accordo sul programma nucleare.
Pochi segnali incoraggianti
Si dirà che questa è retorica obbligata dall'esigenza di tenere a freno l'animosità dell'ancora poderosa area conservatrice del Paese; che dall'accordo sul nucleare è passato meno di un anno, troppo poco per aspettarsi segnali sostanzialmente innovativi da quel vertice politico-religioso a fronte del quale fermenta comunque un rilevante movimento riformista che trova nel presidente Rouhani un utile punto di riferimento.
Giusto, ma non è meno vero che in questo lasso di tempo poco di veramente incoraggiante è affiorato sul piano politico e in materia di diritti della persona, mentre è andata crescendo, questo sì, la corsa agli affari del mercato, dall'Occidente all'Oriente.
Nessuna maggioranza
Si dirà che non si deve sottovalutare il duplice fatto che le elezioni politiche hanno fatto emergere una crescita molto sensibile del fronte moderato e riformista e che essa è stata significativamente accompagnata da un'ancor più sensibile contrazione della componente religiosa di quel consesso.
Resta però che i riformisti e i moderati non hanno raggiunto la maggioranza (133 voti su un totale di 290 seggi) a fronte dei 125 dei conservatori, cosa che rende decisivi gli indipendenti, per cui saranno solo i fatti, cioè le votazioni, a far capire l'orientamento.
L'elezione dell'ultraconservatore Jannati
Resta che è stato confermato alla presidenza del parlamento il conservatore Ali Larijani (con 173 voti contro i 103 del riformista Mohammad Reza Aref); conservatore moderato, si dirà, si dirà anche che ha appoggiato l'accordo sul nucleare di luglio, ma è pur sempre un conservatore.
Resta soprattutto che l'ultraconservatore Ahmad Jannati - da sempre avversario dichiarato di Rohani e già leader del Consiglio dei guardiani che ha, tra l'altro, il potere di setacciare i candidati al parlamento - è stato eletto presidente dell'Assemblea degli esperti, l'organo religioso che nomina l'ayatollah supremo.
Jannati è molto avanti negli anni (ne ha 90), ma è ben magra soddisfazione.
Il sostegno ad Assad
Il giudizio critico si fa forse ancor più motivato se si sposta l'attenzione su un altro versante, quello militare, per il quale solleva interrogativi il fatto che pochi mesi dopo la firma dell'accordo sul nucleare, Teheran abbia dato spazio ai test sui missili balistici di medio e lungo raggio, difesi da Rohani e sanzionati da Washington.
E che dire in merito alla continuità della linea di condotta sul più nevralgico teatro regionale?
C'è continuità nel sostegno politico e militare assicurato a Bashar al Assad, nel cui contesto spicca il ruolo della Brigata al Quds (Guardie della Rivoluzione Iraniana) agli ordini del famoso comandante Qassem Soleiman, nonchè l'apporto di Hezbollah libanese plasticamente enfatizzato dal pubblico cordoglio manifestato in Iran per l'uccisione di Mustafa Badreddine, capo delle sue operazioni speciali.
Una continuità preoccupante
C'è continuità nel coinvolgimento delle milizie sciite iraniane in Iraq dove al proclamato bersaglio dell'Isis si accoppia il meno reclamizzato - ma non meno preso di mira - bersaglio delle tribù sunnite, che aggiunge veleno al già tormentato rapporto tra quelle due componenti.
Ne è una drammatica rappresentazione la dinamica di Falluja, città dove non si sono spenti i fari della memoria sulle terrificanti vicende del 2003 e 2004 di cui parecchi abitanti portano ancora i segni (fosforo bianco).
Un bilancio avaro di prospettive costruttive
Non solo. C'è continuità nella sostanziale mancanza di partecipazione attiva agli sforzi regionali e internazionali in atto per cercare di trovare uno sbocco alla guerra in Yemen.
Guerra civile è guerra per procura allo stesso tempo, che ha visto di fronte da un lato le milizie degli Houthi e quelle dell'ex presidente Saleh, sostenute da Teheran, e dall'altro quelle del deposto presidente Hadi, appoggiate da una coalizione araba a guida saudita, che ha già provocato oltre 6 mila morti, un numero impressionante di sfollati e una drammatica situazione umanitaria.
QUelle azioni di disturbo
C'è continuità nelle azioni "di disturbo", se non vogliamo definirle intenzionalmente destabilizzanti, che Teheran porta avanti nei Paesi dell'area dove vivono componenti sciite, a cominciare dal Bahrein per terminare in Arabia saudita.
Intendiamoci: con queste annotazioni non voglio certo sostenere che l'Arabia Saudita sia la parte che subisce, tutt'altro, giacchè le responsabilità di Riad e di Teheran sono proporzionali alle rispettive e contrapposte ambizioni, regionali e non solo.
Voglio però sostenere che in questo anno scarso non si sono evidenziati comportamenti riconducibili a quel ruolo costruttivo di cui Rohani si è fatto portabandiera. Ed è illusorio pensare che possa affiorare, fin tanto che non si riescano a identificare modi e mezzi per costruire un ponte di confronto dialogante e non belligerante tra i due grandi antagonisti della regione.
Russia e usa non aiutano
Non vi ha contribuito il Ramadan e la prospettiva del grande pellegrinaggio come ha evidenziato il fallimento del negoziato.
Non vi ha contribuito finora Mosca, impegnata a giocare una sua partita che certo non punta a riavvicinare Riad e Teheran, e ancor meno Washington, in evidente crisi di credibilità col contraddittorio e comunque confuso pentagramma su cui sta praticando la sua pax mediorientale.
Del resto, è proprio di questi giorni l'Indicazione dell'Iran come protagonista nella sponsorizzazione del terrorismo in Libano, Siria e Iraq contenuta nell'annuale rapporto del Dipartimento di Stato.
Ho l'impressione che, in rapporto a questo scenario, la bandiera di Rohani, che tanta aspettativa aveva suscitato, stia perdendo il vento in poppa dei primi mesi.
Il bilancio del primo anniversario dell'accordo sul programma nucleare, ormai imminente, sembra piuttosto avaro di prospettive costruttive.
(Lettera43, 12 giugno 2016)
Università Usa, chi finanzia gli anti-israeliani
Chi c'è dietro ai movimenti studenteschi che nelle università americane invocano il Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e sanzioni) contro Israele? Se lo è chiesto Jonathan Schanzer, presidente della Foundation for Defense of Democracies, che sulla questione è stato ascoltato a metà aprile dalla commissione Affari esteri del Congresso Usa. Schanzer, ex funzionario del Dipartimento del Tesoro ed esperto di terrorismo, ha analizzato in particolare le fonti di finanziamento della students for Justice in Palestine (Sjp), il cui obiettivo dichiarato è porre fine "all'occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe" da parte di Israele e "la promozione dei diritti dei rifugiati palestinesi di ritornare alle loro case". Un altro modo, rileva il Wall Street Journal, per dire di volere "la distruzione di Israele".
Secondo Schanzer dietro alla Sjp e altri gruppi simili attivi nelle università americane vi è l'organizzazione American Muslims for Palestine (AmpI, con sede a Palos Hills, nell'Illinois. ed è guidata da Hatem Bazian, docente a Berkley nonché tra i fondatori di Sjp. L'Amp, riporta il wall Street Journal, ha dichiarato di aver speso 100mila dollari nel 2014 per attività anti-israeliane nei campus statunitensi. La Foundation for Defense of Democracies ha scoperto che molti dei membri più importanti dell'Amp erano attivi in associazioni di beneficienza dalle attività controverse.
Tra queste, la più importante è la Holy Land Foundation For Relief and Development, basata in Texas e chiusa nel 2001 dal governo federale per aver finanziato per milioni di dollari il gruppo terroristico palestinese di Hamas. "Cinque funzionari di Holy Land - spiega il Wall Street Journal - alla fine sono stati condannati a pene detentive e altri due sono fuggiti dal paese". Ma non tutti gli affiliati alla Holy Land sono rientrati nell'indagine e alcuni di loro sono oggi tra i membri più importanti dell'American Muslims for palestine, tra cui Salah Sarsour, commerciante a Milwaukee. E il fratello di Sarsour, Jamil, secondo un report Fbi del 2001, nel 1998 ha confessato alle autorità israeliane che "alcuni membri dell'lslamic Center di Milwaukee, tra cui i suo fratelli Salah e Imad, erano coinvolti nella raccolta fondi portata avanti da Holy Land e diretta a finanziare Hamas".
Schanzer nella sua testimonianza ha sottolineato di non aver trovato prove dirette di attività illecite e che, in ogni caso, anche i cospiratori hanno dei diritti. Dall'altra parte è diritto dell'opinione pubblica, e non solo, sapere chi sono le persone che finanziano il Bds e quali sono i loro legami con gruppi palestinesi come i terroristi di Hamas.
(Pagine Ebraiche, giugno 2016)
Il messaggio di Rav Laras per Shavuot: "Vi dico la verità sull'ebraismo italiano"
Messaggio alle ebree e agli ebrei di italia per Shavuoth 5776
Sul monte Sinai avvenne dinanzi all'intero Popolo Ebraico l'evento grandioso del Mattàn Torah, del dono da parte di Dio della Torah a Israele. Da quel preciso momento, sempre rinnovantesi, l'esperienza singola di ogni ebreo e quella collettiva dell'intero Popolo hanno trovato senso e futuro nella Torah.
Libertà e comandamento si esaltano e si corrispondono appieno nel mondo della Torah, l'una è partecipe dell'altro. La Meghillath Ruth, che noi leggiamo e studiamo a Shavu'òth, ripropone tutto questo, legando destini personali ad attese universali, esaltando l'osservanza religiosa ed estendendone le prospettive e i significati. Sono pagine entusiasmanti, allusive, delicate e commoventi.
Il mondo della Torah parla il linguaggio della Halakhah e quello della Haggadah; quello della normativa, dettagliato, severo, preciso, attento, scrupoloso e geniale, e quello della riflessione esegetica, ossia dell'allusione intellettuale, dell'edificazione morale e religiosa, dell'intuizione mistica, della parabola.
La Halakhah è molto di più della casuistica rabbinica, e tuttavia la sua comprensione passa per la stretta via dello studio consumato di quest'ultima; la Haggadah e il suo mondo sono realtà molto più serie, delicate e difficili di molta cosiddetta "cultura ebraica", spesso tanto ciarliera quanto ignorante di sé. Resta il fatto che la prima è molto più complicata ed esigente e che il suo procedere, come il suo riflettere su se stessa, rappresentano il genio proprio dell'ebraismo.
Narrativa e normativa sono i caratteri identitari e fondativi che definiscono l'ebreo e l'ebrea. Una vita ebraica che non coltivi - o che peggio, volutamente, per ideologia o per indolenza, scelga di allontanare da sé - uno dei due aspetti è destinata inevitabilmente ad avvizzire. Spesso, se questo effetto non appare conclamato nella propria personale esistenza, puntualmente si verifica in quella dei figli o dei nipoti. Purtroppo ne abbiamo continuamente molti esempi: o un'osservanza rattristita e formalistica nel primo caso o, cosa drammaticamente più grave e diffusa, nel secondo caso, un lassismo autoindulgente, che si perde dietro a fumose utopie, prive di nerbo e di concretezza e che, infine, in una generazione o due, si smarrisce nell'assimilazione e nell'abbandono.
Halakhah e Haggadah insegnano che le mitzvòth devono essere osservate, e possibilmente osservate con gioia. Parimenti la Torah andrebbe studiata con gioia. Infine, la nostra Tradizione insegna che questo studio, faticoso e tutt'altro che semplice, procura gioia.
Halakhah e Haggadah sono un unico tizzone: la prima è la brace, la seconda è la fiamma. Esse esistono insieme. Può tuttavia accadere che la combustione si smorzi: può esistere e resistere a lungo la brace senza fiamme che danzino, ardano e guizzino; non possono però le fiamme perdurare un secondo senza le braci. Lo stesso si verifica nel mondo della Torah in relazione a Halakhah e Haggadah.
L'ebraismo si preoccupa in primo luogo di disciplinare le azioni e di tradursi costantemente in prassi. Il resto è commento. Un ebraismo senza azioni non è ebraismo. Una "cultura ebraica" senza questa vita "pratica" vissuta potrà forse talora essere "cultura", ma certamente si priva dell'aggettivo "ebraica".
La Torah è detta Torath Emet e Torath Haìm, ossia, rispettivamente, "insegnamento di verità" e "insegnamento di vita". Non è dunque peregrino dire la verità per la vita dell'ebraismo italiano, specie in vista del rinnovarsi delle dirigenze comunitarie dell'UCEI e specie a ridosso della Festa di Shavu'oth.
La situazione delle nostre Comunità in Italia è drammatica, e tutto ciò è reso ancora più drammatico dal rumore mediatico attorno a noi - da noi spesso persino sollevato e ricercato! - che ottunde le nostre percezioni e che ci distoglie dall'affrontare i problemi serissimi e angosciosi che nel futuro, a breve e medio termine (al massimo due o tre decenni), dovremo affrontare.
L'erosione continua e progressiva delle nostre Comunità, su cui molto si è tergiversato anche solo a rifletterci, sta andando incontro a fasi nuove, dato che i tempi della storia e degli usi e costumi dell'umanità stanno accelerando in maniera serrata. L'accelerazione degli usi e dei costumi generali, come pure l'instabilità e la continua mutevolezza culturale, sociale e politica occidentale, pone ipoteche serissime ulteriori sulle nostre piccole Comunità e sul loro destino, di per sé già provate in primo luogo da problemi interni ed endogeni.
Serve con urgenza e in primo luogo un progetto religioso - in senso ebraico -, ossia conseguentemente anche sociale e culturale, per l'ebraismo italiano: se non contribuiremo a cavalcare i processi culturali, li subiremo. Cioè, anche in relazione al mondo esterno, in una società liquida come la nostra, non è più l'epoca degli "ebrei di corte" e dei loro epigoni recenti, introdotti nei palazzi e nei salotti buoni, premurosi di accomodare le cose, di non dispiacere troppo e di ottenere garanzie a prezzi sopportabili. Non è più l'epoca, anche perché chi tra noi non è disposto a sottostare a questo logorio ha molta più facilità, rispetto anche a un passato non troppo distante da noi, di andare altrove, in primo luogo in Israele.
È auspicabile che gli eletti e i delegati al prossimo Congresso siano, per quanto possibile, da una parte o dall'altra, uomini e donne "nuove", che intavolino una partita diversa per un futuro diverso, e che vi sia uno scarto rispetto alle passate gestioni. Serve che queste persone meditino a lungo sull'infinita, gravosa responsabilità che avranno in mano per il futuro dell'ebraismo italiano. È auspicabile che queste persone, fatta salva l'onestà personale dei singoli, prima di pensare di offrire qualcosa all'ebraismo italiano, avvertano un ragionevole senso di inadeguatezza per la situazione presente e le ipoteche future, sì che "tremino loro i polsi". Servono cioè persone che misurino e calibrino loro stesse e che sappiano resistere alla tentazione, tanto più devastante quanto più inconscia, di "usare" le nostre istituzioni e la loro appartenenza al ns. Popolo per scopi estranei al servizio, spesso difficile e sofferto, alle ns. Comunità.
Nell'eterna diatriba post-emancipazione, tra laici e religiosi, tra assimilazionisti à la page e religiosi cupi e risentiti, ritornano, proiettate sui rabbini, due parole, usate come slogan e come pietre: "apertura" e "chiusura". Vengono così individuati i buoni e i cattivi, i colti e gli incolti, gli intelligenti e i fanatici, alimentando inevitabilmente due ideologie mortifere, entrambe, all'occorrenza, in attacco o in difensiva. Non si può più perdere tempo in queste piccinerie: semplicemente, non abbiamo più molto tempo e, sia le nostre Comunità sia il Rabbinato italiano, in larga misura si sono ampiamente dissolti.
Vi sono pochi rabbini italiani: molti di noi sono vecchi, pochissimi e insufficienti sono i giovani. Molte pecche possono essere imputate ai rabbini. Molti di noi non studiano da tempo e si vede, e mi riferisco a studi di Halakhah in primo luogo, ovviamente; alcuni hanno evidenti difficoltà e disagi relazionali; molti, totalmente disamorati a causa di decenni di permanenza in Comunità che li hanno concepiti e ridotti a meno "funzionari religiosi", pensano ormai al loro particulare. Altri hanno deciso di fare i "rabbini intellettuali", senza pagare dazio nella scarnificante vita religiosa a contatto con i problemi quotidiani dei singoli e della Comunità. Infine, alcuni passano per "buoni" perché ben disposti a convertire non ebrei all'ebraismo. In generale, vi è amarezza, stanchezza, solitudine e incomprensione. Le disfunzioni delle vite rabbiniche tuttavia corrispondono e sono conseguenti alle disfunzioni delle vite comunitarie; una cosa peggiora ed esaspera l'altra. Va ricordato, tuttavia, che il rabbino è un uomo, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, e non una collettività. E che spesso il rabbino, anche quello migliore ipotizzabile umanamente e religiosamente, è solo. E l'ebraismo, al contempo, è una "religione sociale"; ossia presuppone ed esiste unicamente in una "società ebraica", che voglia esser tale e che in tal modo voglia vivere.
Mi rendo perfettamente conto che la maggior parte di noi, sia laici sia religiosi, al contempo, sinceramente, crede di operare - ed opera - con le migliori intenzioni.
Andrebbe ricordato ai fautori ideologici dell'aperturismo senza frontiere - e andrebbero ben messi in guardia i nostri fratelli da queste sirene - che negli ultimi cinquant'anni - sino a ora - i vari Tribunali Rabbinici italiani hanno complessivamente convertito all'Ebraismo alcune migliaia di persone, in seno a una popolazione ebraica oscillante tra poche decine di migliaia di unità, con un rapporto tra ebrei convertiti (per lo più da matrimoni misti) e ebrei di nascita inedito. E tutto questo non è servito a fermare, o almeno a sufficientemente contrastare, il processo assimilatorio in seno alle famiglie ebraiche italiane. A chi obietta che senza le conversioni dei discendenti di matrimoni misti saremmo ancora di meno, obietto che ai Tribunali Rabbinici, dal migliore al peggiore, dal più paludato e istituzionale a quello più "garibaldino", quella che unicamente deve importare - e che pone il discrimine essenziale e imprescindibile - è la qualità religiosa della conversione, tutti gli altri criteri sono fallaci, inadeguati, estranei e disorientanti. Obietto, inoltre, che chi ha davvero "salvato" i numeri dell'ebraismo italiano, altrimenti ancor più spazzato via dalla Storia recente, è stato in primo luogo l'afflusso di migliaia di ebrei dai Paesi islamici negli scorsi decenni: Libia, Siria, Libano, Egitto e Iran, ebrei che spesso oggi abbandonano l'Italia alla volta di nuovi Paesi e di nuove storie personali e collettive. E anche su quest'ultimo punto dovremmo interrogarci e confrontarci. Infine, sulla qualità religiosa delle migliaia di conversioni fatte, sia i rabbini sia tutti i figli e le figlie di Israele in Italia dovrebbero molto interrogarsi, dato che, con il passare del tempo, la partecipazione alla vita comunitaria assieme all'osservanza delle mitzvòth da parte di molti dei figli e dei nipoti delle coppie miste ammessi in seno a Israele è purtroppo minima.
Per converso è altrettanto vero che spesso in Comunità assimilate e debilitate sono proprio alcuni gherìm a garantire, promuovere e tenere in essere queste Kehillòth, religiosamente, socialmente e culturalmente. Anche questo testimonia, nel tempo, fattivamente, la qualità religiosa - in questo caso positiva - di una conversione.
Bisogna, per amore di verità e per amore dei nostri fratelli e sorelle, dire che le conversioni, specie nelle Piccole e Medie Comunità Italiane, indipendentemente dai Tribunali Rabbinici e dai rabbini, saranno sempre più difficilmente praticabili, perché si è dissolto il mondo ebraico in cui accogliere l'eventuale convertito, oppure tale mondo, ai minimi termini, risulta profondamente debilitato. Per la Halakhah, vi è Comunità là dove vi è un miniàn, ossia dove è possibile avere regolarmente funzioni religiose, celebrare degnamente Shabbat e le Feste, osservare appieno la kasheruth, studiare Torah. Quali tra le nostre Comunità garantiscono e ancor più sono in grado di garantire nel futuro tutto questo seriamente, in maniera vitale e creativa? Cosa facciamo noi tutti? Che politiche abbiamo in mente? Cosa si può ancora fare e cosa ormai non si può più fare? Con quali criteri, infine, distinguiamo tra ciò che è e sarà essenziale, su cui investire, e ciò che invece è contingente e addizionale, nel concentrare le nostre forze residue?
Parlando di Torah e parlando, quindi, di vita, è domanda religiosa essenziale e vitale quella che riguarda la nascita di bambini ebrei in Italia, con la creazione di coppie ebraiche.
Il Santo e Benedetto ci scuota, ci illumini e ci benedica con il dono della Sua Torah, capace di aiutarci a trasformare il deserto in terra fertile, le nostre sterilità e pochezze in estrose e carsiche forze positive, situazioni difficili in zemàn simchatenu, tempi di gioia!
Rav Prof. G. Laras, Av Beth Din
(Comunità Ebraica di Roma, 9 giugno 2016)
La storia di Bice, la scienziata ebrea che fece grande Novi
Per molti anni dovette vivere sotto falso nome a causa delle leggi razziali emanate dal Fascismo, ma era una delle menti più brillanti dell'epoca. A Novi trovò lavoro e rifugio alla Bioindustria di Giuseppe Caraccia. E contraccambiò scoprendo la formula di un farmaco che fece la fortuna dell'azienda
di Elio Defrani
NOVI LIGURE - Si parlerà anche di Bice Neppi oggi, sabato 11 giugno, alla galleria Pagetto Arte di via Girardengo 87 a Novi Ligure dove, a partire dalle 17.00, si terrà la presentazione del volume "I farmaci nella letteratura", di Giulia Bovone, giovane biologa tortonese.
Ma chi era Bice Neppi? In pochi conoscono il suo nome, eppure è una delle figure che ha fatto la fortuna della città di Novi durante il boom economico. Soprattutto, è stata una delle scienziate più importanti del suo tempo. In pochi conoscono il suo nome, dicevamo, anche perché per molti anni dovette lavorare sotto una falsa identità: Bice Neppi era ebrea e nell'Italia fascista la cosa migliore che potesse capitarle era perdere il posto da docente all'università. Cosa che puntualmente successe. Ai suoi fratelli andò peggio e non sopravvissero alla Shoah: uno di loro, medico, che visitava gratuitamente i profughi di passaggio a Milano, fu arrestato nel suo studio e scomparve nelle camere a gas.
Ma facciamo un passo indietro: Bice Neppi nasce a Ferrara nel 1880 e si dimostra ben presto una studentessa brillante. Dopo la laurea in chimica si trasferisce a Milano dove ottiene una cattedra al Politecnico e dove compie studi molto importanti che la portano alla direzione dell'Istituto Sieroterapico. In conseguenza delle leggi razziali del 1938, nel 1940 fu dichiarata decaduta dall'insegnamento "perché di razza ebraica" e contestualmente espulsa dall'Istituto sieroterapico, dove all'epoca era sul punto di scoprire un importante preparato antipernicioso. Secondo le memorie familiari, la sera in cui seppe dell'espulsione distrusse tutto il suo lavoro di ricerca, portando via con sé solo gli appunti.
Si rifugia a Novi Ligure, dove fu chiamata da Giuseppe Caraccia, titolare di una piccola casa farmaceutica, la BioIndustria di Novi Ligure e fu nominata direttrice di laboratorio. Qui poté mettere in atto la sua scoperta, anche se in forma anonima. L'estratto surrenalico Emazian B12 fu messo in commercio e divenne il prodotto più venduto della BioIndustria per trent'anni, trasformandola nella grande azienda che oggi tutti conosciamo.
E Bice? Alla fine della guerra le arrivò la proposta di reintegro. La lettera, firmata dal direttore del Politecnico di Milano, non poté nemmeno essere consegnata essendo ancora ignoto il recapito della studiosa. In ogni caso non accettò il reintegro: continuò a lavorare presso la BioIndustria e a seguire congressi internazionali di chimica in tutto il mondo, fino a tarda età. Morì nel 1968 all'età di 88 anni.
(AlessandriaNews, 11 giugno 2016)
La necessità del racconto e l'impossibilità di una riparazione. Il senso di essere nel mondo
di Annalena Benini
Noi, i viventi, dobbiamo essere giudicati per le nostre azioni, non per il passato dei nostri genitori o per il modo in cui morirono i nostri nonni, le nostre zie, i nostri cugini. Nella capacità di rivolta e nel discernimento sta l'essenza del nostro essere nel mondo.
Wlodek Goldkorn, "Il bambino nella neve" (Feltrinelli)
Eppure, malgrado tutti gli sforzi per non sentirsi vittime e per trasformare la memoria della Shoah in un modo di pensare al futuro, tirandola fuori da sé, provando a distaccarsene ("indago sul passato non per rendere giustizia ma, al contrario, per affacciarmi senza speranza su una voragine"), le storie famigliari, l'esilio dalla Polonia, le morti, il ricordo di Auschwitz, il cimitero ebraico di Varsavia rendono il passato così vivo da non potere davvero separarlo dalla vita dei giorni, e dal sentimento che si ha per questa vita. Wlodek Golkorn, ebreo polacco che dal 1968 ha lasciato la Polonia, prima per Israele e poi per l'Italia, per molti anni responsabile culturale dell'Espresso, amico di Marek Edelman (l'unico comandante sopravvissuto della rivolta del ghetto di Varsavia: pregava sempre Wlodek di non trasformarlo, scrivendo, in un eroe) ha scritto un libro molto bello sulla famiglia, sull'essere polacchi, sulla memoria, sui sentimenti, sul Male e su quello che succede a un uomo quando incontra se stesso e i suoi morti, e viaggia indietro nel tempo e torna nei posti che aveva lasciato cinquant'anni fa, e visita i campi di sterminio, "il cimitero della mia famiglia". "Esiste una bella parola ebraica, 'Tikkun', significa la riparazione del mondo. Ecco, io penso che dopo la Shoah non è possibile il Tikkun: il mondo rimane e rimarrà senza riparazione".
Questo è il punto di partenza, e di distacco, per un saggio narrativo che contiene molte vite e tutto il senso cercato, analizzato, impossibile da trovare, necessario da esprimere per andare avanti, dell'orrore visto da vicino, che non ha mai smesso di tornare, dopo la Shoah, nonostante la Shoah (il pogrom di Kielce è del luglio 1946: ebrei superstiti dei lagher e dei ghetti che vengono lapidati nelle case, buttati dalle finestre, fatti scendere dai treni e ammazzati perché si era sparsa la voce che "gli ebrei hanno sequestrato un bambino e l'hanno ammazzato per usare il suo sangue nelle azzime", e quel bambino cinquant'anni dopo è stato intervistato da due documentaristi polacchi e ha pianto: "Mi sento colpevole anche se so di non esserlo"). Wlodek Golkorn racconta di un amico ebreo, Bernard, un ragazzo irrequieto figlio di un militante comunista morto di stenti in Russia: Bernard in Polonia indossava il basco che aveva visto sul giornale nelle foto di Sartre e a metà degli anni Sessanta partì dalla Polonia, dal palazzo di Katowice, per Parigi, con un passaporto turistico, e decise di non tornare mai più. Wlodek andò a trovarlo negli anni Settanta, voleva sentire le storie del Maggio francese, ma Bernard non voleva parlarne e a casa sua erano spariti i libri. "E i libri? Dove sono i libri?". "Li ho buttati via. Mi hanno fatto male, troppo male".
Bernard aveva scelto il vuoto, perché le parole erano troppe e non riuscivano a raccontare l'essenziale, non riuscivano a dire la verità, l'enormità, la stupidità di quell'orrore. Le parole l'avevano deluso. Le persone sono state inghiottite anche dal vuoto, dopo, oppure, come zia Chaitele che per salvarsi aveva abbandonato il suo bambino, neonato, nella neve, ogni notte gridano e piangono. "Una volta, anziché tapparmi le orecchie, mi sono alzato. Sono andato in cucina. Chaitele era seduta al tavolo, la testa tra le mani. Piangeva. Era calva". La mattina dopo, appena Wlodek ragazzino si svegliò, gli disse: "Non devi raccontare a tuo padre quello che hai visto. Non voglio che soffra a causa mia, gli bastano i suoi morti". Che cosa rimane, oggi? L'impossibilità di una riparazione, la necessità assoluta del racconto.
(Il Foglio, 11 giugno 2016)
La Nazionale Giovanile Israeliana di pallavolo a Mondovì
di Gian Luca Pasini
Mondovì sempre più città del volley. Dopo la promozione della squadra femminile della Lpm in A2, ora la città diventa internazionale. La prossima settimana, da martedì 14 a giovedì 16 giugno, sarà ospite in città una doppia delegazione della Nazionale Giovanile Israeliana, maschile e femminile. Le squadre alloggeranno presso il Park Hotel di Mondovì e si alleneranno, quella maschile al PalaManera e la femminile al Palaitis, con orario 9,30/12 le mattine del 15 e 16 giugno. Sono previste inoltre alcune amichevoli: i ragazzi nati nel 2001 giocheranno mercoledì 15 alle ore 18 a Villanova Mondovì contro una selezione Fipav del Piemonte; il giorno successivo, con inizio alle ore 15, appuntamento al PalaManera dove i giovani israeliani affronteranno la squadra Under 17 del VBC Mondovì. In campo femminile, le giovani israeliane, classi 2002 e 2003, giocheranno al Palaitis contro al formazione Under 14 della LPM alle ore 18,30 del 15 giugno ed il giorno successivo alle 16,30.
(La Gazzetta dello Sport, 11 giugno 2016)
Mein Kampf in edicola."Un'operazione squallida"
Il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna dichiara:
"La distribuzione gratuita nelle edicole del Mein Kampf, domani accompagnato al quotidiano Il Giornale, rappresenta un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l'umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza. Bisogna dirlo con chiarezza: l'operazione del Giornale è indecente. E bisogna soprattutto che a dirlo sia chi è chiamato a vigilare e a intervenire sul comportamento deontologico dei giornalisti italiani".
(moked, 10 giugno 2016)
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Mein Kampf in edicola con il Giornale. La Comunità ebraica: "Operazione squallida e indecente"
Da sabato il "Mein Kampf" di Adolf Hitler sarà in edicola gratis con "Il Giornale". Il libro pubblicato nel 1925 dal futuro Fuehrer sarà in omaggio, nell'edizione critica curata dallo storico Francesco Perfetti, con la testata diretta da Alessandro Sallusti. Una scelta che ha provocato l'indignazione della comunità ebraica.
"Siamo rimasti sorpresi dalla decisione de 'Il Giornale' di allegare il Mein Kampf al loro quotidiano. Se ce lo avessero chiesto, avremmo consigliato loro di distribuire libri molto più adeguati per studiare e capire la Shoah" riferiscono all'ANSA fonti dell'ambasciata d'Israele a Roma.
"La distribuzione gratuita nelle edicole del Mein Kampf, domani accompagnato al quotidiano Il Giornale, rappresenta un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l'umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza", ha detto il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. "Bisogna dirlo con chiarezza: l'operazione del Giornale è indecente. E bisogna soprattutto che a dirlo sia chi è chiamato a vigilare e a intervenire sul comportamento deontologico dei giornalisti italiani".
"Per capire com'è potuto nascere il male assoluto, bisogna andare alla fonte e non aver paura di storicizzare le tragedie del Novecento. Non avrei problemi, per dire, a pubblicare anche il Libretto rosso di Mao...", ha detto all'Adnkronos il direttore de 'Il Giornale' Alessandro Sallusti a proposito della scelta di offrire in omaggio con l'acquisto del quotidiano, domani, il "Mein Kampf" di Adolf Hitler, come avvio della collana di otto volumi dedicata alla storia del Terzo Reich. "Lo studio del Novecento ha avuto come tabù proprio il nazismo, come se la storia fosse finita lì. Ma la prima regola - aggiunge - è conoscere ciò di cui parliamo e questo libro, che ha cambiato la storia dell'Europa e dell'Occidente, non a caso viene presentato nell'edizione critica curata da uno storico di vaglia come Francesco Perfetti".
(L'Huffington Post, 10 giugno 2016)
Le pubbliche lamentele e le riprovazioni delle autorità ebraiche per qualcosa di discutibile che è già avvenuto, con inviti più o meno espliciti a impedirne la prosecuzione, quasi mai ottengono il risultato sperato e quasi sempre ottengono invece un aumento del malumore contro gli ebrei. Purtroppo sembra che le autorità ebraiche vogliano continuare in una linea di sovraesposizione mediatica con inviti alla repressione di tipo giuridico-poliziesco, come nel caso della legge sul negazionismo. Non serve. Anzi, è controproducente. M.C.
Drusi, quegli arabi supersionisti
Un legame fortissimo, un vero e proprio patto di sangue, lega la comunità dei drusi
al destino e al futuro di Israele.
di Joelle Sara Habib
I drusi sono fin dal 1957 considerati in Israele come una comunità etnica distinta; di lingua araba, con costumi sociali che differiscono notevolmente da quelli musulmani o cristiani, e fede originariamente sviluppata a partire dall'Islam, sono però spesso non considerati da questi musulmani, e quindi, infedeli. Minoranza etnica e religiosa in ogni paese in cui vivono, si trovano principalmente in Siria, Libano e Israele, con piccole comunità in Giordania e Sud Asia, hanno spesso sperimentato la persecuzione, e sono noti per formare comunità molto unite e coese, ma allo stesso tempo integrate pienamente nella civiltà circostante.
Al momento della fondazione dello stato Israele, si trovavano nel paese circa 14.500 drusi, oggi sono circa 140.000, 1'1,7% della popolazione complessiva, e vivono principalmente in insediamenti nella Galilea e sul Monte Carmel. Il legame tra soldati ebrei e drusi, un'alleanza molto forte, in piedi fin dai tempi del mandato britannico, è comunemente conosciuto - ricorda Koftan Halabi, fondatore e direttore esecutivo della Druze Veteran association - con il termine di brit damin - patto di sangue", ed oggi migliaia di drusi israeliani appartengono a movimenti 'drusi sionisti'. "L'ambizione del popolo druso in Israele" - continua Halabi - "è quella di mantenere la propria cultura e le proprie tradizioni, integrandosi e passando attraverso il processo di 'israelizzazione' ". Gli inizi del rapporto tra drusi e la comunità ebraica in Israele risalgono agli anni Venti del secolo scorso, durante il mandato britannico. Il rafforzamento dei legami tra le due comunità, non solo ha portato a collaborazioni finanziarie e agricole, ma anche il supporto da parte della maggioranza della comunità drusa nel sogno sionista di creare uno stato ebraico in Israele. Durante i primi anni dopo la nascita di Israele, i drusi si arruolavano volontariamente nello Zahal, ma dal 1956 il primo ministro David Ben-Gurion rese il servizio militare obbligatorio anche per loro.
Soldati drusi hanno preso parte in ogni guerra che Israele ha dovuto combattere, in tutte le unità e ranghi, svolgono un ruolo importante nei vari settori delle agenzie di sicurezza, e il loro tasso di arruolamento, circa l'83% dei giovani, è addirittura più alto di quello degli ebrei. Tuttavia, sottolinea Halabi, usciti dall'esercito i giovani drusi hanno spesso problemi ad integrarsi completamente nella società, e l'intera comunità drusa è protagonista di diverse problematiche: rispetto alla popolazione ebraica il tasso di laureati e diplomati è più basso, quello dei disoccupati più alto, e lo stipendio medio nettamente più basso, come si può vedere dalle accurate statistiche sul loro sito.
Per questo la DVA, si legge sul sito, "funge da lobby per aumentare la consapevolezza riguardo l'enorme contributo che la comunità drusa porta alla società israeliana". Fu fondata nel 2009, a seguito della necessità di aiutare i giovani della comunità drusa, in particolare i veterani appena congedati, che "come membri attivi della società meritano l'opportunità di prosperare nel mondo accademico, degli affari e nel settore pubblico". Le loro sfide per integrarsi nella società israeliana, avere accesso a un'istruzione superiore di qualità e di entrare nella forza lavoro, secondo l'organizzazione, non potevano rimanere inascoltate. "La nostra visione" conclude Halabi "è quella di creare in Israele una gioventù drusa con motivazione, credenziali accademiche, e occupazioni adeguate, e di assistere nella creazione di una leadership drusa comunitaria, basata su quella formatasi durante il servizio nello Zahal".
(Shalom, giugno 2016)
Abu Mazen non ha condannato l'attentato a Tel Aviv
Il suo gelido comunicato non lo nomina nemmeno e lascia aperta la strada alla glorificazione dei terroristi che farà seguito, come tutte le altre volte.
Dall'inizio nell'ottobre scorso di quest'ultima ondata di attacchi terroristici anti-israeliani, l'Autorità Palestinese e Fatah, il movimento che fa capo ad Abu Mazen, hanno sistematicamente onorato e glorificato tutti i terroristi che hanno effettuato attentati in qualsiasi modo (armi bianche e armi da fuoco, contro civili e militari). A volte l'Autorità Palestinese non celebra immediatamente i terroristi per evitare la riprovazione internazionale. Ma appena cala l'attenzione dall'estero, i terroristi vengono osannati e acclamati, dalle scuole ai campi sportivi, dalle moschee ai mass-media e ai social network....
(israele.net, 10 giugno 2016)
Israele, dopo l'attentato vietato l'ingresso a tutti i palestinesi
di Mariagrazia Roversi
Dopo il tremendo attentato terroristico dell'altro giorno a Tel Aviv, compiuto da due ventenni palestinesi e che ha causato la morte di 4 persone fra le quali una bimba e il ferimento di altre, Israele ha deciso di vietare l'ingresso nel Paese a tutti i palestinesi.
Inizialmente il premier aveva semplicemente sospeso migliaia di permessi d'ingresso in via precauzionale, ma dopo che i familiari delle vittime si sono rivolti al governo chiedendo sicurezza e fine delle violenze, le autorità hanno deciso di fare qualcosa di più per fermare la strage della popolazione inerme.
L'esecutivo israeliano ha inizialmente revocato almeno 83mila permessi ai palestinesi, concessi per la visita ai parenti nel mese sacro dei musulmani, il Ramadan. Adesso invece ha deciso che fino a mezzanotte di domenica non sarà permesso l'ingresso di nessun palestinese in Israele. Un divieto assoluto e generalizzato, che permetterà solo alcune eccezioni: ad esempio, i casi medici e quelli umanitari.
Dopo il vile attentato, il premier israeliano Netanyahu ha detto "Non ho ascoltato - ha aggiunto - una condanna inequivocabile da parte dell'Autorità nazionale palestinese, ma invece ho sentito le grida di gioia da Gaza e da alcune parti della società palestinese".
Inoltre è stato fatto sapere che è stato catturato un terzo uomo che sarebbe collegato all'attentato.
(newsNotizie.it, 10 giugno 2016)
Hamas adesso cambia marcia e copia l'Isis
di Carlo Panella
L'attentato che ha fatto 4 vittime e 16 feriti in un viale di svago di Tel Aviv mercoledì notte è gravissimo per più ragioni. Non solo perché le vittime, tra i 32 e i 58 anni sono tutte civili. Non solo perché i palestinesi si sono messi a sparare ad alzo uomo in Harbaaa Street, nel Sarona Market, un viale fiancheggiato da locali, sempre frequentato da folle di famiglie, di donne e di bambini. Non solo perché le vittime sono state colpite a tradimento, in un momento di svago. Non solo perché è subito giunta la schifosa rivendicazione di Hamas, col leader Ismail Haniyeh che ha scritto suTwitter che gli autori dell'attentato sono «eroi». Non solo perché questo è il 191 vile attacco palestinese contro civili israeliani inermi dall'ottobre 2015, che porta a 36 le vittime (34 israeliani e 2 turisti) e a 339 i feriti. Ma anche perché le sue modalità indicano un salto di qualità tecnico nelle aggressioni assassine palestinesi. Infine, e soprattutto, perché è evidente che questa strage è il palese tentativo di Hamas di recuperare un prestigio ormai usurato dalla concorrenza dell'Isis sia a Gaza che in Cisgiordania.
Emerge una sensibile novità. Due settimane fa, Gilad Erdab, ministro della Public Security, intervistato da Libero, affermava che «gli assalitori di questa Intifada dei Coltelli non sono organizzati, sono il prodotto spontaneo di una incitazione all'assassinio degli ebrei che circola sulla Rete». Ma l'azione di Sarona Street non ha queste caratteristiche: è palesemente il frutto di una cellula organizzata, formata da terroristi freddi, professionali, per nulla votati al martirio, ben diversi dai fanatici che si gettano sulle loro vittime con un coltello alla ricerca della «bella morte».
Dunque, due militanti di una Hamas, che ha programmato a tavolino l'azione, spronata non solo dall'odio cieco contro gli ebrei (non contro gli israeliani, contro gli ebrei), ma anche dalla necessità di usurare la concorrenza che soffre da parte dell'Isis. Hamas, anche se appoggia miliziani legati all'Isis nel Sinai, subisce come contraccolpo il fatto che molti jhiadisti di Hamas lasciano le sue file e passano all'Isis - più crudele, più fanatica. Da qui, una gara sul terreno delle stragi.
(Libero, 10 giugno 2016)
A Tel Aviv volevano la strage. L'Isis si "avvicina" ad Hamas
Gli attentatori si travestono come a Parigi. Il movimento: "Una sorpresa di Ramadan".
di Fiamma Nirenstein
Tel Aviv la forte, la coraggiosa, la solare casa della Israele laica è stata colpita al cuore, ed è magnifico vedere come torna a vibrare di vita, di lavoro, di bambini che vanno a scuola dopo la strage.
Sarona è proprio davanti alla Kiria, piena di giovani soldati, ragazzi e ragazze, che portano con incurante antimilitarismo genetico persino quell'arma ciondoloni dalla spalla che pure sanno e devono usare così professionalmente; il ministero della Difesa sta proprio là, con tutte le sue antenne che protendono orecchie, stavolta inutili, verso l'Oriente. La cura messa nel definire il quartiere nuovo di zecca si vede nelle aiuole, nel decoro delle vetrine, nella ricchezza di menu dei caffè. Una volta sede di baracche-ufficio per lo più militari, oggi è lucido di ristoranti, bar, boutique, negozi di sport.
I due terroristi hanno approcciato la zona come i terroristi parigini al Bataclan, cercando la strage, niente kefia intorno al collo ma piuttosto un travestimento in piena regola, abito, giacca, camicia. Hanno ordinato al caffè un dolce, e poi hanno iniziato a sparare pallottole e odio contro chi sedeva ai tavolini vicini, contro chi vive, pensa, si veste, si diverte, crede diversamente. Così tra gli altri sono stati trucidati Ido Ben Ari, seduto al caffè Benedict con la moglie e due bambini, 42 anni, manager della Coca Cola; la moglie è all'ospedale sotto i ferri; il dottor Michael Feige, uno studioso importante, sociologo e antropologo dell'Università del Negev, che lascia moglie e due figli; Mila Mishaev di 32 anni, che manteneva la madre, il padre e tre sorelle lavorando nei Servizi sociali; Ilana Naveh di 39 anni, che lascia i suoi 4 bambini solo perché era andata a celebrare il compleanno di un'amica. Tragico bilancio finale, 4 i morti.
I palestinesi a Ramallah come a Gaza hanno celebrato in modo ripugnante l'eccidio, distribuendo caramelle, gridando la loro gioia per le strade e sui social networks. È andato fortissimo l'ashtag Ramadan operation, e Carlo bullet, dal nome del fucile, e anche «abbiamo rotto il digiuno (di Ramadan) uccidendoli». Salma al Jamal, una nota presentatrice palestinese di Al Jazeera ha scritto su Twitter: «L'operazione Ramadan è la migliore risposta alle sciocchezze sui processi di pace». Hamas ha promesso: «Questa è la prima sorpresa di Ramadan per Israele». L'Isis aveva proprio lanciato in questi giorni a tutti gli occidentali infedeli minacce di attentati, morte, sangue per il mese di Ramadan. E si sa inoltre che la scorsa settimana si è svolto a Gaza un vertice fra uomini dell'Isis provenienti dal Sinai e ufficiali di Hamas. Non è detto che questa sia stata la molla specifica dei terroristi, ma la zona di Hevron da cui essi provengono è la più legata a Hamas. E si sa che uno di loro, Chaled Mechamara, è un uomo di Hamas che ha studiato all'università in Giordania.
L'attacco di Tel Aviv non è di routine, gli esperti si interrogano sul che fare adesso, le misure sono già serie e ben gestite, duole doverne escogitare di nuove e più dure, e duole anche aver dovuto cancellare la misura per cui i palestinesi avevano avuto, in onore del Ramadan il permesso di visitare i parenti in Israele (sospesi 83mila permessi). Il fatto è che affrontare il terrorismo, che aveva per altro mostrato un momento di declino è stato sempre per Israele un momento di grande responsabilità accompagnata da moderazione, ma gestito in una solitudine che di fatto spinge avanti i terroristi e rinnova gli attacchi. Mentre Parigi e Istanbul possono almeno contare sulla solidarietà internazionale, Gerusalemme viene abbandonata da tutti. Come se davvero si potesse credere ancora che questi attentati hanno una matrice che non sia quella dell'intenzione a integrare Israele nell'Islam estremo distruggendolo. È più facile pensare ormai a una totale indifferenza o peggio verso il popolo ebraico quando subisce i consueti attacchi dal mondo arabo, visto con spirito di opportunismo e con interessi inconfessati. Altrimenti non si spiega perché addirittura la CNN ieri parli nei suoi titoli di «terroristi» mettendo la parola fra virgolette e quasi tutte le altre reti (fra cui la BBC) descrivano l'attacco come «sparatoria», shooting, e non terrorismo.
(il Giornale, 10 giugno 2016)
Israele e il terrorismo
Lettera dell'Ambasciatore israeliano Naor Gilon a Il Sole 24 Ore
Egregio Direttore,
ho letto con attenzione l'articolo pubblicato ieri sul suo quotidiano: «Attentato a Tel Aviv, 4 morti e 6 feriti» e l'analisi di Ugo Tramballi, «Il ritorno di una guerra mai finita». Innanzitutto vorrei fare una correzione al sottotitolo: «Israele. Torna l'allarme terrorismo nella capitale». È vero che Tel Aviv è il centro economico d'Israele ed un centro mondiale di pluralismo, innovazione, ma non è la Capitale dello Stato d'Israele, che è Gerusalemme. Per quanto riguarda l'analisi di Tramballi: siamo abituati ad essere criticati per la politica estera del governo israeliano, e ovviamente ogni persona può più o meno accettare questa politica, ma a parte questo vedo un'abitudine molto pericolosa ed irresponsabile di addossare costantemente la responsabilità del terrorismo sulle vittime, soprattutto quando si tratta del terrorismo palestinese verso Israele. Il massacro di Te lAviv non ha alcuna connessione con la nomina di Lieberman a Ministro della Difesa e non ha alcuna connessione con la politica estera d'Israele per le iniziative per i colloqui di pace con ipalestinesi. Di fatto si tratta di un brutale atto terroristico, compiuto da terroristi palestinesi che subiscono quotidianamente il lavaggio del cervello e l'incitamento alla violenza contro lo Stato d'Israele e il suo popolo. Incitamento che inizia dai libri di testo scolastici palestinesi e che continua con le trasmissioni tv, le radio ufficiali ed è presente costantemente anche sui social network Come risposta a quanto scritto da Tramballi, vorrei ricordare che gli attentati più sanguinosi in Israele sono stati compiuti proprio durante i colloqui di pace tra Israele e i palestinesi negli anni 90 e immediatamente dopo l'intenso dialogo tra Barak ed Arafat negli anni 2000. Il Premier Netanyahu sta costantemente ripetendo il suo appello al Presidente Abu Mazen ad avviare un dialogo diretto: la settimana scorsa Netanyahu ha nuovamente e pubblicamente dichiarato che lui è pronto ad aprire nuove trattative e che vede l'iniziativa araba per la pace un elemento positivo, che può aiutare entrambe le parti a promuovere un accordo bilaterale e regionale, ma sfortunatamente Abu Mazen si sta ancora rifiutando di intraprendere dei negoziati diretti. L'assassinio di persone innocenti in un bar a Tel Aviv è paragonabile a quello in Europa, è una minaccia contro i valori occidentali, contro il diritto di vivere, contro la libertà. Noi israeliani, ad esempio, non abbiamo mai pensato che gli attentati nei caffè, nei musei o negli stadi a Parigi o Bruxelles fossero una colpa dell'Europa o che fossero connessi alla politica estera della Francia o del Belgio. Per noi il terrorismo è terrorismo, non è mai giustificabile, senza se e senza ma.
Naor Gilon
Ambasciatore d'lsraele in Italia
(Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2016)
Minimizzare i morti d'Israele
Da Rep. al Monde, i media non chiamano "terrorismo" la strage di Tel Aviv. Al Arabiya meglio di Cnn.
di Giulio Meotti
ROMA - Mentre i leader di tutto il mondo condannavano l'uccisione di quattro israeliani al ristorante Max Brenner di Tel Aviv (Max Brenner è uno dei marchi israeliani di cioccolata presi di mira dal boicottaggio), i media italiani e stranieri sbagliavano ancora una volta i titoli. Fra le vittime della strage, oltre a un ex commando delle forze di sicurezza israeliane e a due donne, anche un professore della Ben Gurion University, il sociologo e antropologo Michael Feige. Il ministero della Difesa, ora sotto la guida di Avigdor Lieberman, ieri ha promesso che "la vita a Yatta non sarà più uguale" (è il nome del villaggio palestinese da cui provengono i due terroristi). "Catturati gli aggressori", ha titolato il sito di Repubblica, senza mai usare la parola "terroristi". Il Corriere della Sera li chiamava invece "killer". Dal Monde a Libération passando per il Nouvel Obs, tutta la stampa francese ha usato la parola "fusillade": sparatoria. La Cnn ha riportato dell'attentato mettendo fra virgolette la parola "terroristi". La Bbc ha usato l'espressione "Tel Aviv shooting", sparatoria, mentre le forze di sicurezza israeliane avevano già fermato i terroristi e non c'erano dubbi sulla matrice dell'attentato. Anche Sky News ha usato "Mass Shooting in Tel Aviv", mentre il Guardian ha scritto: "Three Dead in Tel Aviv Market Shooting". L'Independent ha fatto di peggio: "Tel Aviv shooting, three killed and six wounded in Israeli capital attack". Non solo non c'è la parola "terrorismo", ma Tel Aviv diventa "capitale" anziché Gerusalemme (l'Independent ha modificato il titolo dopo le proteste di Honest Reporting). Neppure il New York Times è riuscito a dire la verità e ha riferito dei terroristi come "Palestinian gunmen". La migliore è stata la disinibita Fox News, che ha titolato: "Terror in Israel". Era così difficile? Gli stessi media che hanno "sbagliato" i titoli, non hanno saputo o voluto mostrare le immagini dei palestinesi in festa a Gaza, a Hebron, a Tulkarem e alla Porta di Damasco a Gerusalemme, che hanno distribuito dolci ai passanti per celebrare l'attentato al ristorante di Tel Aviv.
I giornali e le televisioni di tutto il mondo non sembrano aver imparato niente da quando è scoppiata "l'Intifada dei coltelli". Per dirla con Simon Plosker, direttore di Honest Reporting, "nessun giornale in Europa ha riconosciuto chi sta attaccando chi". Vittima israeliana e terrorista palestinese sono sempre finiti sullo stesso piano. L'Independent anche allora era riuscito a strangolare la verità con uno sproposito di parole: "Ragazzo di sedici anni diventa la settima vittima palestinese delle forze di sicurezza dopo un accoltellamento a Gerusalemme". Neppure il Telegraph, giornale conservatore inglese, ieri riusciva a scandire "terrorista", così come a ottobre scrisse: "Forze di sicurezza israeliane uccidono altri quattro palestinesi". "Palestinese ucciso dopo inseguimento della polizia a Gerusalemme", era stato il capolavoro a ottobre di Msnbc. Ieri la rete americana ha riferito di un "mass shooting", neanche fosse successo nella scuola Columbine. Su Sky News, neppure la parola "palestinese" è emersa: "Polizia israeliana: gli attacchi di Gerusalemme fanno tre morti".
Il canale televisivo saudita al Arabiya è stato più onesto dei media occidentali, definendo "vittime" i morti israeliani. E Dahham al Enazi, membro dell'Associazione dei giornalisti sauditi, ha condannato così la strage: "L'uccisione di civili innocenti, come accaduto durante l'attacco di Tel Aviv, è terrorismo". Terrorismo, non sparatoria. Altrettanto più onesta, nella sua sinistra franchezza, la giornalista di al Jazeera, Salma al Jamal, che ieri ha detto: "L'Operazione Ramadan è la migliore risposta alle storie sul 'processo di pace'". Anche molti comitati di redazione dalle nostre parti la sottoscriverebbero.
(Il Foglio, 10 giugno 2016)
Politica, economia, cultura: i tre campi in cui si gioca l'amicizia tra Italia e Israele
A poche settimane dalla fine del suo mandato diplomatico, l'ambasciatore israeliano Naor Gilon concede in esclusiva un'intervista a Shalom: "lascio un pezzo del mio cuore".
a cura di Jonatan Della Rocca
L'ambasciatore dello Stato di Israele, Naor Gilon, sta terminando il suo mandato in Italia e ha concesso un 'intervista esclusiva al nostro giornale. In questi anni, sulla scia dei suoi predecessori, ha lasciato un 'impronta significativa nei rapporti tra i due Paesi. E non solo con le istituzioni italiane. Ha promosso relazioni a largo raggio, grazie a un'attività costante di partecipazione a eventi e iniziative, contribuendo a rafforzare nella popolazione la simpatia nei confronti di Israele - malgrado un antisemitismo diffuso nel resto di Europa in cui crescono a dismisura i movimenti estremisti e razzisti - e riuscendo a far conoscere la vitalità dello Stato ebraico in molti settori, spesso poco comunicata sui media. Ha mostrato un Paese che cambia in modo veloce e che offre opportunità e innovazione anche al mondo imprenditoriale italiano, che guarda con attenzione alle sfide che attendono le nuove generazioni. Abbiamo incontrato l'ambasciatore Gilon presso la sede diplomatica e ha risposto alle nostre domande in un ottimo italiano, rivelando ancora una volta il profondo amore che nutre per il Paese che lo ha ospitato questi ultimi quattro anni.
- Qual è lo stato dei rapporti tra Italia e Israele?
Sono ottimi, in tutti i campi: dallo scambio commerciale, alla ricerca e sviluppo, all'università. La bilancia commerciale va bene, considerando la congiuntura internazionale. Si aggira sui 4 miliardi di scambio, però il rapporto è misurato tre a uno: l'Italia esporta tre e Israele esporta uno. Qui si compra di meno, perché c'è crisi. E anche per il turismo vale la stessa proporzione: su tre turisti israeliani che vengono qui c'è ne è uno italiano che va in Israele. Come partner commerciale con Israele, l'Italia è il secondo o terzo in Europa, e tra i primi dieci dei Paesi del mondo.
- Nei confronti del governo di Gerusalemme, l'Italia sembra un'isola felice rispetto agli altri Paesi europei, o no?
In generale sì. Sebbene ci siano anche elementi meno filoisraeliani. Credo che rispetto ad altri Paesi la stampa italiana sia più obiettiva, parlo della stampa scritta. Per quanto riguarda la televisione, ci dobbiamo aspettare di più dalla Rai. Lì vivono delle realtà che sono ancorate al passato, quando, negli anni Settanta, l'approccio nei confronti di Israele era negativo. Va detto che il vero cambiamento l'ha compiuto Berlusconi e grazie a lui c'è stata una svolta nell'opinione pubblica italiana. Grazie anche a Renzi che è il leader del centrosinistra la posizione è cambiata anche in questo schieramento. Non voglio dimenticare anche l'azione di obiettività di Napolitano e Prodi.
- C'è stata continuità o ha avvertito delle differenze nei rapporti del governo Netanyahu, tra Monti, Letta e Renzi?
Posso dire che con tutti e tre sono stati e sono rapporti molto buoni. Voglio dire che i primi due, Monti e Letta, per le loro prime uscite fuori dall'Europa, hanno scelto di andare in Israele, e questo è significativo. Certo, tra Renzi e Netanyahu c'è un rapporto personale di amicizia. Anche perché Renzi ha proprio a cuore il legame verso Israele. E si vede che a ogni livello della compagine governativa italiana si è stabilito un ottimo rapporto con gli omologhi israeliani. Tra poco ci sarà un'altra visita del ministro dell'Istruzione, Giannini che segue l'attività di circa millecinquecento ricercatori italiani in Israele che cooperano in diversi campi. Oltre agli ottimi rapporti istituzionali, c'è molta attività congiunta nei diversi settori tra i due Paesi.
- Recentemente Israele ha aperto un ufficio nel quartiere generale della Nato a Bruxelles. Perché?
Sì, è stato fatto ora perché avevamo avuto dei problemi con la Turchia per l'apertura e avevamo bisogno di un consenso europeo, che ora c'è stato.
- L'immagine di Israele è uscita molto bene sui media con l'esposizione del padiglione all'Expo: un impegno che è stato ripagato?
E' andata benissimo. Al di là di ogni previsione. Il padiglione israeliano è stato il quarto o quinto più visto dell'intera esposizione dai visitatori. Addirittura più di quello dell'Italia. Ma questo è facile da spiegare: perché il tour nel nostro padiglione durava diciotto minuti. Per vedere quello italiano ci si impiegava ore soltanto per la fila. Abbiamo dato un messaggio fondamentale attraverso l'esposizione: siamo il numero uno al mondo nella tecnologia applicata all'acqua. È stata un'ottima opportunità per comunicare il nostro know-how.
- Nei mesi scorsi c'è stato un incontro importante del governo israeliano con i vertici dell'Eni per lo sfruttamento energetico, ci può spiegare di che cosa si tratta?
Israele, come sa, negli ultimi anni ha scoperto nelle proprie acque territoriali importanti riserve di gas. Più di quello che serve al nostro Paese, e abbiamo necessità di esportarlo. Anche l'Eni nella zona mediterranea ha trovato altro gas. La loro idea è quella di convertire in liquido e dall'Egitto condurlo in Europa attraverso dei tubi. Noi abbiamo già accordi con l'Egitto. E questa potrebbe essere una buona idea. Dato che tutto il processo non è terminato è ancora prematuro però firmare accordi. Voglio aggiungere che circa tre anni fa abbiamo firmato un accordo con Finmeccanica, con la controllata Alenia Aermacchi, per la fornitura di 30 addestratori M-346, per circa tre miliardi di dollari. Tra qualche settimana ci sarà un evento per celebrare la consegna degli ultimi caccia.
- Sul piano degli scambi culturali c'è una forte presenza israeliana in Italia, è soddisfatto?
Molto. A Venezia ogni anno siamo presenti alla Biennale da più di sessant'anni: un anno ci dedichiamo all'archeologia e un altro anno all'arte. Poi abbiamo la Triennale a Milano con cui partecipiamo con il design. Poi durante l'anno siamo sempre presenti nelle varie manifestazioni internazionali con il jazz, la danza, il cinema, le mostre al Vittoriano. Siamo quasi tutte le settimane impegnati in eventi a cui partecipano artisti ed esponenti del mondo culturale israeliano. Facciamo tanto. La promozione culturale è fondamentale per la conoscenza reciproca dei due Paesi. Abbiamo appositamente creato nel 2012 una Fondazione che prevede il lavoro congiunto delle due Ambasciate per organizzare eventi di rilevanza che hanno molto successo.
- Dopo la visita dell'on. Salvini, ci dovrebbe essere la visita dell'on. Di Maio nelle prossime settimane in Israele. Che rapporti ci sono con il Movimento Cinque Stelle?
La visita di Salvini è andata bene. Noi siamo aperti e disponibili a parlare con tutti. Basta che non siano fascisti, antisemiti, che non siano negazionisti e che non paragonino la Shoah alla politica contemporanea. In questa direzione siamo pronti ad ospitare Di Maio perché lui risponde bene a tutti i requisiti. Il dialogo è importante con tutti. Questo è l'approccio di Israele da sempre, di parlare, anche con i paesi arabi, a volte anche in modo indiretto. Parlare significa anche prevenire incidenti.
- Visti i rapporti ravvicinati dell'Italia con il mondo arabo, cosa può fare l'Italia per favorire il riconoscimento di Israele da parte dei Paesi che ne minacciano la distruzione come l'Iran?
L'atteggiamento iraniano non è cambiato, basta sentire Khamenei con le sue minacce e vedere i missili prova, che portano incisa la scritta di distruggere Israele. E meno pubblicizzato questo ruolo sui media perché siamo sulla scia dell'accordo.
Noi vediamo il dossier Iran in modo diverso dall'Italia e dall'Occidente. L'Iran, secondo noi, ha un ruolo fortemente destabilizzante del Medio Oriente, invece di esserne un attore che partecipi alla distensione.
La sua azione, in Libano, Siria, con Hamas, è sotto gli occhi di tutti. L'Italia pensa che l'Iran possa dare un contributo positivo. Noi possiamo dire al governo italiano di stare molto attenti e di mettere in agenda con gli interlocutori di Teheran nei colloqui diversi temi importanti: Israele, i diritti umani delle minoranze, dei gay, del negazionismo della Shoah. Insomma ci deve essere da parte dei Paesi occidentali quello che noi chiamiamo "un dialogo critico".
- In Europa vi sono numerose azioni di boicottaggio nei confronti di Israele, sia quello commerciale che quello scientifìco e universitario: in Italia com'è la situazione?
Non è molto forte in Italia, ma esiste. E però un atteggiamento importato dall'estero, dove l'attività anti-israeliana è molto forte. Ci sono pochi italiani coinvolti; quelli che partecipano provengono dall'estremismo politico e dal mondo musulmano. Quello commerciale qui in Italia è di poca valenza. E stata importante la dichiarazione del premier Renzi che ha ribadito che il boicottaggio nei confronti di Israele rappresenta boicottare se stessi, e la posizione del Ministro Giannini con la lettera dei trecento professori contro il boicottaggio. Noi in ambito universitario facciamo tanto. Tra poco accompagneremo il terzo gruppo di rettori accademici italiani per fare conoscere il Paese, per siglare accordi con le Università israeliane. Appena noi comunichiamo agli enti locali che è in procinto l'organizzazione di un evento anti israeliano i sindaci ci rispondono che non lo patrocineranno. Gli italiani sono contro il boicottaggio. Fanno rumore questi Bds, ma va ricordato che il loro fine non è cercare la pace ma fare un'azione ostile ad Israele.
- A novembre prossimo e poi a gennaio con l'insediamento, alla Casa Bianca siederà un altro Presidente. Cambierà qualcosa in Medio Oriente?
E' prematuro dire qualcosa ora. Io, in passato in missione diplomatica sono stato negli Usa e devo dire che i rapporti tra i due Paesi sono molto torti. Rimane il migliore alleato di Israele. E' vero che nei rapporti personali il rapporto che Netanyahu ha con Renzi non lo ha con Obama, Vero però che tutto l'apparato istituzionale americano è vicino allo Stato ebraico. Io sono ottimista che continueremo le ottime relazioni perché le basi sono solide.
- Signor Ambasciatore, lei per missione diplomatica è stato in molte parti del mondo. Qual è la peculiarità della Comunità ebraica nei confronti di Israele?
La comunità romana è molto sionista e molto vicina a Israele. Oui c'è una comunità piccola ma si vede che sono parte integrante del Paese. Quando domando a un non ebreo quanti siano gli ebrei qui, mi rispondono: un milione. Va detto che è una comunità sempre attiva. Anche in Italia non manca l'antisemitismo perché c'è quello nascosto, visto che quello pubblico non sarebbe politically correct. E così trasferiscono questo odio verso Israele.
- Quali ricordi porterà con sé di questa esperienza italiana?
E' un'esperienza unica vivere in questo meraviglioso Paese con una comunità ebraica forte. Grazie anche a tanti amici che promuovono l'amicizia tra Italia e Israele. La mia intenzione è continuare a lavorare tra i due Paesi perché lascio qui una parte del mio cuore.
(Shalom, giugno 2016)
Le incredibili avventure dei pirati ebrei dei Caraibi
Una storia poco nota: i mari delle Antille erano solcati da corsari ebrei. Le loro navi avevano nomi eloquenti come "Lo scudo di Abramo".
Chi visitando le isole dei Caraibi, potrebbe trovarsi di fronte a un fenomeno curioso: vecchie tombe di pirati con incise, sulle lapidi, stelle di David e scritte ebraiche. Come si spiega? Nel modo più semplice possibile: erano ebrei.
Non è molto noto (e, del resto, la questione è ancora dibattuta), ma la pirateria era praticata anche da diversi ebrei. Alcuni, poi, erano riusciti a distinguersi per le imprese compiute e i successi ottenuti. Erano spinti da desiderio di guadagno e avventura, ma anche dalle crescenti difficoltà che incontravano in Europa. Per capirsi, proprio mentre Cristoforo Colombo sbarcava in America (e ancora non sapeva dove fosse finito), re Ferdinando di Spagna aveva ordinato l'espulsione di tutti gli ebrei dal regno. Molti fuggirono a est, verso l'impero ottomano (che era molto più tollerante), altri tentarono la sorte nel nuovo mondo.
Qui, in poco tempo si inventano ogni tipo di lavoro. Diventano coltivatori di zucchero, mercanti, politici - nel 1800, per capirsi, il Parlamento della Giamaica, unico al mondo, non teneva sedute il sabato per rispettare il shabbat. Divennero anche pirati.
La storia, almeno per come la racconta nel suo libro Ed Kritzler, studioso ebreo americano che vive in Giamaica, comincia intorno al 1720. Le navi guidate da ebrei hanno nomi eloquenti, ad esempio "La regina Ester", "il profeta Samuele", "Magen Avraham" (cioè "lo scudo di Abramo"). Gli obiettivi principali sono velieri spagnoli e portoghesi. Kritzler ci vede una vendetta per la secolare persecuzione.
Molti ebrei, invece, preferivano tenere nascosta la loro appartenenza religiosa. Per questo, continua Kritzler, non è nota la loro presenza nella pirateria caraibica. Eppure c'è un caso, molto importante, che non ha avuto di questi scrupoli: è il capitano Moshe Cohen Hanarkis, (o Enriques, a seconda). Insieme alla Compagnia olandese delle Indie occidentali realizzò, nel 1628, uno dei colpi più grandi della storia della pirateria, derubando un'intera flotta di navi spagnole al largo di Cuba. Poi, forte di tutti i soldi arraffati, costituì la sua comunità di pirati su un'isoletta brasiliana.
(LINKIESTA, 7 giugno 2016)
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Ebraismo e comunità
Riflessioni di una giovane ebrea
di Carlotta Micaela Jarach
Cosa vuoi dire essere ebrei? Gli ebrei sono per eccellenza il popolo delle domande, quindi mi sembrava doveroso iniziare con una domanda. Da sempre nel mio piccolo ho cercato di indagare e di ritrovare il significato che ha per me questa eredità, conscia del fatto che non avrei mai potuto trovare una risposta definitiva, né per me, né per altri. Che cosa intendiamo noi con Comunità, che caratteristiche ha questa realtà di cui facciamo parte, o che invece ricerchiamo? Che significato ha conservarci nel corso del tempo? L'unica risposta che mi sono data si chiama "religione"; ma essa stessa racchiude in sé una domanda. Esiste una sola religione ebraica? Una religiosità condivisa? Oppure una sorta di relazione particolare con l'Eterno, relazione che si può definire ebraica, che fa quindi da collante tra tutti noi? Un tempo la religiosità c'era, ma ora? Ora la si chiama tradizione, la si chiama comunanza, per gli estranei magari tenacia. Ma non necessariamente la risposta è "religione". Se fosse "nazione"? Certo, sappiamo bene che Israele c'è ed esiste e resiste con la sua vita travagliata, ma anche prima del 1948 l'ebreo è sempre stato ebreo, ebreo nel mondo, nella diaspora, ebreo ricco di relazioni con i popoli più diversi. L'ebreo è ed era solo, non nel senso brutto del termine: era solo davanti al mondo, autonomo, e da questa sua autonomia derivava la sua grande forza. Viaggiando mi è capitato di incontrare le persone più diverse ed eterogenee: ma ecco che l'incontro con un ebreo era speciale, scattava qualcosa, qualcosa di strano, inusuale, come se quello sconosciuto non fosse in realtà così sconosciuto. Chiamiamola comunanza di sangue, di religione, di idee, ma quel qualcosa di (mi piace di più) "magico" non l'ho mai davvero capito. Ci sentiamo parte di qualcosa di grande di immenso di invincibile: ma poi dopo i nostri viaggi ritorniamo alla normalità, agli ebrei che conosciamo, alla nostra grande o piccola Comunità, e ci dimentichiamo tutto. Di quanto sia forte un popolo che tra mille diversità è comunque unico. Forse sbagliamo a monte, vedendo la Comunità sempre e solo come un ente, e non come ciò che realmente è: collettività. Forse dovremmo cambiare la nostra visione dell'ebraismo, inteso non come religione né come nazione, ma come tutto il resto, come collante in una collettività: non solo come passato (o passati), ma come avvenire, futuro. Dovremmo essere, come diceva Buber, illimitati nel tempo. E forse così riusciremo a dare delle parziali risposte ai nostri interrogativi; sempre finché non ci verrà in mente un'altra domanda.
(Hatikwa, Unione Giovani Ebrei d'Italia, giugno 2016)
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Leonardo-Finmeccanica consegna l'ultimo M-346 a Israele
di Elisabetta Rovis MF-DowJones
Nei giorni scorsi nello stabilimento di Leonardo-Finmeccanica di Vengono Superiore (Varese), l'amministratore delegato e direttore generale del groppo Mauro Moretti ha incontrato il generale Shmuel Tzuker, del ministero della Difesa israeliano, in occasione della consegna dell'ultimo dei 30 Aermacchi M-346 ordinati da Isaele nel 2012. Erano presenti anche l'ambasciatore israeliano in Italia Naor Gilon e il capo della divisione Velivoli di Leonardo-Finmeccanica Filippo Bagnato. La consegna del primo velivolo a Israele è stata effettuata nel 2014 e in meno di due anni tutti i 30 velivoli sono stati consegnati al cliente. Gli Aermacchi M-346 stanno dimostrando un'elevata efficienza operativa e hanno già effettualo oltre 10 mila voli per un totale di 7.500 ore. «E stato un momento importante, come ha sottolineato ieri il generale Tzuker, che ha espresso massima soddisfazione per la scelta del nostro velivolo», ha affermato Moretti. «L'Aermacchi M-346 si è affermato in tutte le principali competizioni internazionali e addestra già i piloti delle Forze Aeree italiana, israeliana e di Singapore, considerate tra le più esigenti al mondo. Il nostro addestratore è prossimo a fare il suo debutto in Polonia ed è candidato per la gara della U.S. Air Force per 350 velivoli». Tzuker ha ringraziato «Leonardo-Finmeccanica e i suoi dipendenti per l'eccellente risultato industriale e per il supporto fornito alla Forza Aerea Israeliana. I piloti israeliani sono grandi sostenitori delle capacità dell'M-346 perché i velivoli hanno superato le nostre migliori aspettative». Italia, Israele, Singapore e Polonia hanno ordinato in totale 68 Aermacchi M-346, il velivolo da addestramento più avanzato oggi disponibile sul mercato e concepito per addestrare i piloti destinati ai velivoli da difesa di ultima generazione.
(MF, 10 giugno 2016)
Negazionismo, la legge che fa litigare gli storici
Dire che la Shoah o un altro genocidio non è avvenuto è reato. Ma può un tribunale giudicare il passato?
di Simonetta Mori
Chi nega la Shoah pubblicamente può essere punito con il carcere. Il negazionismo è diventato reato. Dopo nove anni di discussioni, di svariati rinvii tra i due rami del Parlamento, di vibranti appelli firmati dagli storici contrari, la Camera ha definitivamente approvato la proposta di legge che punisce il negazionismo con una pena da due a sei anni di reclusione. Sotto il profilo giuridico, si tratta di una modifica apportata alla legge Mancino (legge 654 del 1975) che già puniva .la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale: la modifica consiste nell'inasprire la pena nel caso in cui la propaganda sia fondata sul negazionismo, che diventa cosi un'aggravante. Ma non è chiamata in causa solo la negazione della Shoah. Pene più aspre anche per chi diffonda ideologie razziste fondate sulla snegazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra. E qui toccherà ai tribunali dirimere questioni su cui la stessa comunità scientifica non ha mai trovato un accordo. Cosa distingue uno "sterminio" dal "quasi sterminio"? A che punto scatta la "nozione di genocidio"? Mi fa orrore pensare che questo tipo di discussioni possa finire in tribunale, ha dichiarato in passato Carlo Ginzburg nel contestare l'opportunità di una legge. E anche i giuristi si interrogano sull'opportunità del provvedimento quando la Corte di Strasburgo specie sui crimini diversi dall'Olocausto è sempre più favorevole alla libertà di espressione, contro i paletti posti dai diversi paesi. Tutta la storia del Novecento rischia di finire in tribunale, sostiene Marcello Flores, direttore dell'Istituto storico della Resistenza. «E secondo quali criteri i giudici decideranno cos'è un crimine contro l'umanità e cosa non lo è?
Si chiude così una storia infinita cominciata nel 2007, quando l'allora ministro della Giustizia Mastella avanza una proposta di legge per uniformare l'Italia ad altri ordinamenti europei (tra gli altri Germania, Austria, Belgio, Francia e Spagna). Quasi unanime la contrarietà manifestata dagli storici italiani tanto da indurre Palazzo Chigi a frenare sul dispositivo: il negazionismo è un fenomeno preoccupante, sostennero gli studiosi, ma si combatte con strumenti culturali, non penali. Sei anni più tardi, nel 2013, il Pd ripropone l'opportunità della legge. L'iniziativa appare legata a una suggestione emotiva, la tempestosa sepoltura dell'aguzzino Priebke che coincide con il settantesimo anniversario della razzia del Ghetto. Ancora una volta, la quasi totalità degli storici denuncia i pericoli del provvedimento, tra gli altri la trasformazione dei processi in cassa di risonanza per tesi ignobili». La legge fu messa da parte ma non per molto. E anche tra gli studiosi non sono mancate voci favorevoli alla necessità di una iniziativa legislativa, che certo non risolve immediatamente il problema, ma può favorire una presa di coscienza da parte dei più giovani, ha sostenuto Anna Rossi-Dona. Ora l'ultima definitiva puntata, con l'approvazione della legge fortemente voluta dalla comunità ebraica. A festeggiare è soprattutto il presidente dell'Ucei Renzo Gattegna, che plaude a un fondamentale strumento nella lotta ai professionisti della menzogna. Soltanto il tempo potrà dire se è stata solo un'illusione.
(la Repubblica, 10 giugno 2016)
Strage a Tel Aviv per mano palestinese
Due cugini dalla Cisgiordania cenano in un centro commerciale e poi aprono il fuoco sulla folla. Uccisi quattro israeliani, cinque i feriti. Arrestati gli attentatori. Netanyahu convoca la sicurezza.
di Paolo Salom
Molti giovani, la Tel Aviv più trendy, tavolini all'aperto, le stelle che si intravedono dalle vetrate del popolare centro commerciale Sarona, un insieme di locali alla moda, negozi e ristoranti ben frequentati a un passo dal Kirya, il quartier generale del ministero della Difesa e di Tsahal, l'esercito di Israele. Intorno alle 21 e 30 (le 20 e 30 in Italia) l'aria di una calda serata estiva è stata improvvisamente attraversata da raffiche di colpi in sequenza. «Sparavano in tutte le direzioni - ha raccontato una ragazza -, mi sono buttata a terra, poi ho visto un terrorista avanzare nella mia direzione. Allora sono entrata in una farmacia e mi sono nascosta dietro il bancone».
Il fuggi fuggi è stato immediato. Ma nel giro di un minuto, i proiettili esplosi da armi modificate avevano già colpito dieci persone: tre moriranno al loro arrivo in ospedale, un'altra ha perso la vita poco dopo, altre sono in gravi condizioni. Gli sparatori, due palestinesi ventenni provenienti dal villaggio di Yatta, a sud di Hebron, venivano intanto catturati dagli agenti: uno, dopo essere stato colpito, è stato trasportato in ospedale.
I due terroristi erano vestiti elegantemente e hanno trascorso parte della serata seduti a un tavolino del ristorante Max Brenner, cenando come avventori qualsiasi. Improvvisamente si sono alzati e, nei pressi di un altro locale, il Benedict, hanno aperto il fuoco sui passanti e sui clienti dei bar intorno, provocando un'ondata di panico. Un civile armato, ripreso anche in un video, ha quindi inseguito i due, aprendo il fuoco mentre scappavano. Un terrorista è caduto ferito, l'altro ha continuato la fuga ma è stato bloccato a un chilometro di distanza e subito portato via dagli agenti dello Shin Bet - i servizi interni - per essere interrogato. Pare che i due assalitori siano cugini.
Il loro attacco ricorda, nelle modalità, quello di Nashat Milhem, un arabo israeliano che aveva aperto il fuoco il giorno di Capodanno nella centrale via Dizengoff, uccidendo due persone sedute ai tavolini di un locale e un taxista, anche lui arabo, che lo aveva trasportato, ignaro di quanto accaduto. Milhem era stato poi rintracciato e colpito a morte dagli agenti dell'antiterrorismo israeliano soltanto una settimana dopo, nel suo villaggio, Arara, nel nord di Israele.
Il sanguinoso attentato di ieri rompe un periodo di relativa calma seguita a settimane di ripetuti attacchi con armi bianche o con auto usate per investire i passanti. Al momento della sparatoria, il neoministro della Difesa Avigdor Lieberman era nel suo ufficio. Il premier Netanyahu ha subito convocato una riunione d'emergenza.
(Corriere della Sera, 9 giugno 2016)
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L'attacco richiama le azioni di Hamas. Ma c' è il timore di infiltrazioni dell'Isis
Israele segue da vicino il conflitto in Siria: si aprono spazi per un contagio
Il conflitto
Le tensioni interne risentono del conflitto che avviene a poche decine di chilometri
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Gli arresti
Aumentano le minacce, la polizia ha catturato diversi mujaheddin dello Stato Islamico
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di Guido Olimpio
Un nuovo lampo di violenza nella guerra senza confini che sconvolge il Medio Oriente. Spari e sangue in centro commerciale di Tel Aviv per un attacco che ricorda le operazioni dell'Isis ma è festeggiato da Hamas. E con il rischio che trovi presto degli imitatori di un modus operandi letale.
La mini-cellula è entrata in azione contro un target morbido, una tattica che non rappresenta il sigillo di una particolare fazione. Tante la usano copiando quanto visto da Bagdad a Parigi. Metodo devastante se si vuole spargere il terrore. Gli esperti sostengono che dopo i problemi incontrati da alcuni kamikaze nelle missioni in Europa molti capi militari vogliano privilegiare le armi da fuoco rispetto alle fasce esplosive. In quest'assalto è stata impiegata, secondo alcune ricostruzioni, una mitraglietta artigianale (che si è inceppata), nota come «Carlo» e simile a quella usata nell'agguato di Capodanno in Dizengoff Street, sempre aTeI Aviv, dove agì un singolo elemento, forse ispirato dall'ideologia dell'Isis.
Molta cura anche nella preparazione. I killer, per passare inosservati, si sono vestiti con giacca e cravatta, degli abiti scuri che qualcuno, inizialmente, ha scambiato per vestiti da ebreo ortodosso. Volevano guadagnare tempo, mescolarsi alla folla e quindi aprire il fuoco. Per uccidere e spingere Israele a reagire in una fase molto delicata.
Gerusalemme duella con Hamas e con altri estremisti. Tiri di mortaio, la rivolta dei coltelli, le imboscate, la continua attività underground, con i tunnel segreti costruiti in vista di missioni oltre la gabbia di Gaza. Lo Stato ebraico risponde con l'aviazione, unità speciali, mosse di agenti sotto copertura, la continua pressione che coinvolge migliaia di civili. La cornice spesso uguale di un confronto senza fine e interrotto da periodi di tregua che servono solo a preparare il nuovo round. Il campo di battaglia tocca anche la Cisgiordania e le sue cittadine, come Hebron, da dove venivano i due assalitori e una lunga tradizione di lotta.
Tensioni interne che risentono di quanto avviene a poche dozzine di chilometri. Israele segue il conflitto in Siria, ha rapporti con alcune brigate ribelli, osteggia la presenza degli iraniani (e sciiti) al fianco di Assad. Ogni tanto interviene con azioni mirate. L'ultima, affidata ai caccia, sarebbe avvenuta nel weekend, un raid per distruggere depositi di armi probabilmente destinate all'Hezbollah. Parte di quella lotta segreta che sarebbe la costata la vita settimane fa ad uno dei leader dell'apparato clandestino del movimento, Mustafa Badreddine, liquidato nei pressi di Damasco. Una fine attribuita dai suoi compagni ai ribelli ma per la quale è stato sospettato il coinvolgimento di Israele.
È inevitabile che in queste condizioni si aprano spazi per chiunque voglia allargare l'incendio. Dai militanti locali affiliati alle formazioni tradizionali alle nuove realtà del jihadismo salafita. Il Califfato cerca di contagiare l'arena palestinese usando la carta dell'oltranzismo e innescando anche attivisti privi di reale collegamento, però disposti ad agire. Inoltre è aumentato il volume delle minacce mentre la polizia ha catturato diversi mujaheddin dello Stato Islamico. Alcuni di loro, arrestati alla fine dell'anno, operavano in una regione famosa per altro: Nazareth.
(Corriere della Sera, 9 giugno 2016)
Idee e voglia di mettersi in gioco
Ecco come Israele è diventato il polo mondiale della tecnologia
di Jonathan Pacifici*
L'importante dirigente italiano, in giacca e cravatta in un caldo pomeriggio di luglio a Tel Aviv, mi lancia un'occhiata, poi fissa il nostro interlocutore, uno dei fondatori di una delle più promettenti start up israeliane e gli chiede: "Se voi siete capaci di fare ciò che sostenete, perché Google non se lo fa da sola?". "Veramente
", ribatte sorridendo nei suoi bermuda e sandali naot, "
Google viene da noi a chiedere come si fa". In questo episodio c'è forse tutta la ricetta dell'hi-tech israeliano: una ventata di gioventù, tanta innovazione ma soprattutto nessun senso di inferiorità. Nessun problema a sostenere - e dimostrare - che la propria mini azienda con i suoi venti dipendenti e uffici open space in un palazzo che dimostra tutti i suoi anni sul lungomare di Tel Aviv, possa saper fare qualcosa meglio del colosso di Mountain View.
Di società così, frutto dell'impegno di ragazzi sulla trentina, in Israele ce ne sono migliaia. Attraggono investimenti per circa quattro miliardi di dollari l'anno e sono il vero motore del miracolo economico israeliano. La storia è semplice: un paio di ragazzi escono da tre anni di servizio militare nelle unità informatiche dell'esercito e si iscrivono a Ingegneria informatica. Hanno l'idea nel cassetto e tanta voglia di mettersi in gioco. Il loro primo scoglio è trovare i fondi: busseranno a ogni porta di Rechov HaMenofim, l'indirizzo di quasi tutti i fondi di Venture Capital a Herzelya Pituach, parleranno con chiunque sia disposto a concedere loro dieci minuti. Se troveranno i soldi - e se dimostreranno di essere capaci - potranno forse anch'essi risultare uno degli exit stellari, con un'acquisizione da parte di un colosso americano o un IPO al Nasdaq, dove Israele ha più società quotate che l'Europa e l'Asia messe assieme.
E' questo oggi il sogno di ogni bambino israeliano: essere il prossimo Shai Agassi che a trent'anni e un giorno vende la propria società per oltre cento milioni di dollari al gigante tedesco Sap. Se questo è vero negli ultimi quindici anni, nell'ultimo paio d'anni il ritmo sta diventando incredibile. Viber, una start up israeliana che offre un'applicazione mobile capace di consentire chiamate gratuite su iPhone o Android, ha racimolato tre milioni di download nella prima settimana di vita. Dopo neanche sei mesi, ha venti milioni di utenti, più dell'operatore mobile medio europeo. Oggi conta circa duecento milioni di utenti, al punto che Viber risulta essere uno dei maggiori competitor di Skype, che Microsoft ha acquistato per 8.5 miliardi di dollari. Viber si è accontentata di poco meno di 1 miliardo di dollari. Questo fenomeno è oggi universalmente conosciuto come "Startup Nation", il titolo di un ottimo libro di Dan Senor e Saul Singer, che affrontano in modo sistematico le ragioni di un miracolo. Spiegano cioè come un paese di appena otto milioni di abitanti circondato da nemici sia il secondo polo mondiale della tecnologia. La loro analisi è del tutto condivisibile e verte su quello che è diventato il dna di un paese meritocratico dove i giovani vengono stimolati e soprattutto responsabilizzati. Senor e Singer descrivono attentamente l'ambiente, "l'ecosistema" che si è creato.
Questo ecosistema passa per tante piccole storie, che meriterebbero d'essere raccontate. Qualche tempo fa abbiamo ospitato per una presentazione una start up nella quale, per altro, non investiremo. Il fondatore è uno studente di matematica, un vero genio degli algoritmi, e il tema è l'ottimizzazione del processo di calcolo che è alla base della fruibilità di contenuti multimediali interattivi (i giochi, ad esempio) su piattaforme mobili; un grattacapo che vale miliardi di dollari secondo società come Facebook e Zynga. "Vedete", ci ha detto, "in un caso come questo all'Università ti insegnano a scrivere il miglior algoritmo possibile e io questo lo so fare, ma l'algoritmo risponde alla domanda, ed è la domanda a essere sbagliata". Noi ci guardiamo incuriositi, e lui ci spiega come nessuno abbia provato ad affrontare - matematicamente - il problema da tutt'altra angolazione. Ha riscritto la domanda e ha ottenuto risposte oltre ogni ipotesi. Ecco: questo è esattamente quello che fa il popolo ebraico da quattromila anni. Non cerca soltanto le risposte, ma soprattutto riscrive le domande, spronando così un pensiero non lineare che rompe i luoghi comuni e sposta continuamente la frontiera del sapere.
Questo atteggiamento è profondamente ebraico. Nel Talmud - prima ancora di affrontare le risposte - si discute, spesso per pagine intere, cercando di capire se la domanda posta è la domanda giusta. Chi la sta ponendo? Perché? E' veramente necessaria? E' in contraddizione con qualcos'altro che lo stesso Maestro ha detto altrove? E via discorrendo. Poi, forse, si torna anche alla domanda originaria, ma più forti di un percorso didattico intero nel quale si è capito come mai quella, e solo quella, era la domanda giusta da porre. O magari no.
* Jonathan Pacifici è venture capitalist italo-israeliano
(Il Foglio, 9 giugno 2016)
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Parashà della settimana: Nassò (Conta)
Numeri 4:21-7:89
- In questa parashà Moshè riceve l'ordine da D-o di contare (Nassò) i figli delle tre famiglie dei Leviti che sono quelle di Ghershon, di Keht e di Merari per il servizio nel Tabernacolo. Ghershon era il portatore fisico (trasporto dell'Arca dell'Alleanza) Keht ne rappresentava la parte spirituale e Merarì era il simbolo della loro unità.
Dopo questo censimento la Torah parla del lebbroso e della donna sotà (sospettata di adulterio) da condurre ambedue al sacerdote perché compiano un rito di purificazione. La lebbra già descritta nel Levitico in modo dettagliato, viene riportata dalla Torah in questo frangente della sotà perché i due episodi hanno in comune il peccato di ''maldicenza''. La lebbra, descritta nella parashà di Metsorà (Levitico 14.1) si manifesta con la presenza sulla pelle del corpo di proturberanze o di scaglie o di macchie. Allora il colpito/a dovrà essere condotto/a dal sacerdote che dichiarerà costoro impuri e ordinerà per loro un isolamento di sette giorni. Al termine di tale periodo, se la sintomatologia persiste il malato/a vengono condotti fuori dall'accampamento, dove resteranno fino alla loro completa guarigione.
Nel caso della donna ritenuta sotà costei può mettere fine a tali maldicenze sul suo conto di fronte al sacerdote nel Tempio del Signore, in presenza del marito che deve prendere le sue chiare responsabilità sull'importanza della famiglia nella società. Questa presentazione dei due sposi non si può fare senza il ''consenso'' della donna che trova l'occasione per riabilitare il suo buon nome mettendo fine alle lingue di maldicenza.
Altro argomento trattato in questa parashà è quello del voto del Nazireato.
Il Nazireo si impone un periodo limitato di astinenza fisica verso i piaceri del mondo come il divieto di bere il vino, il divieto di tagliare i capelli (il giudice Sansone era un Nazireo) e il divieto di avere contatto con un morto. Il Nazireo è un uomo che vuole avvicinarsi a D-o mediante un modo di vita ascetico seppure limitato nel tempo, allontanandosi dalla società, che è il vero banco di prova per raggiungere la santità.
Questo significa che il Nazireo non è un esempio da seguire e in una certa misura da considerare un incidente di percorso. Difatti alla fine della sua prova volontaria questi è obbligato a portare al Tempio un sacrificio di espiazione. In altri termini la Torah, nel rispetto della libertà, concede una specie di ''dispensa'' individuale, che deve restare tale senza acquistare i caratteri collettivi. La storia degli Esseni sta a dimostrare quanto asserito. Il giudaismo difatti si realizza nella storia degli uomini e non nel suo rifiuto.
Ultimo argomento della parashà è la ''Benedizione sacerdotale''.
E' obbligo dei sacerdoti (cohanim) benedire il popolo come scritto: "Così benedirete i figli d'Israele dicendo loro:
''Ti benedica il Signore e ti custodisca. Faccia risplendere il Signore la Sua faccia verso di te e ti doni la grazia. Rivolga il Signore la sua faccia su di te e ti conceda la pace'' (Numeri 6.24-25)
La prima parte della benedizione riguarda la protezione e la conservazione dei beni materiali a cui fa seguito la misericordia di D-o verso il Suo popolo, concedendo la pace. Quesa triplice benedizione è indispensabile per dare alla vita dell'uomo la sicurezza materiale e spirituale. F.C.
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- Come si reagirebbe oggi davanti a un precetto come questo: "Ordina ai figli d'Israele che mandino fuori dal campo ogni lebbroso e chiunque ha la gonorrea o è impuro per il contatto con un morto. Maschi o femmine che siano, li manderete fuori; li manderete fuori dal campo" (Numeri 5:2-3). Dov'è qui la misericordia, la compassione, la solidarietà con i sofferenti? Qualcuno coglierà l'occasione per dire che il Dio dell'Antico Testamento è duro e severo, mentre quello del Nuovo Testamento è buono e comprensivo. E' una tesi da respingere con decisione. Chi crede davvero che la Bibbia sia Parola di Dio, davanti a difficoltà di questo tipo si ricorda che il personaggio principale dei racconti biblici è Dio stesso. Allora s'incuriosisce di Lui, cerca di capirlo meglio, cerca di scoprire in Lui qualcosa che non aveva ancora capito. E se c'è sincerità alla fine il risultato è grandioso: si fa un'esperienza simile a quella di Giobbe, cioè si arriva a capire che prima non si era capito niente.
Una spiegazione comunque in questo caso c'è: "... li manderete fuori dal campo affinché non contaminino il campo dove io abito in mezzo a loro" (Numeri 5:3).
Ecco dunque il motivo dell'ordine: il fatto che Dio abita in mezzo ai figli d'Israele. Certo, Dio gradisce che ci sia solidarietà tra gli uomini e che vivano in pace e concordia fra di loro, ma sa anche che il problema principale non sta nei rapporti fra gli uomini, ma nel rapporto degli uomini con Lui. E sa che se non è Lui a intervenire nella concretezza del vivere degli uomini, non c'è speranza che arrivino da soli a risolvere in modo definitivo i loro problemi. L'umanità cerca continuamente di risolvere problemi, ma nel far questo non s'accorge di essere lei stessa il problema. Un problema con Dio e che solo Dio può risolvere. La Bibbia è il racconto dell'intervento storico di Dio per la salvezza dell'umanità, anzi di tutta la creazione: un intervento a tappe, come è avvenuto per la creazione, ma che al contrario di questa avrà un compimento glorioso già preannunciato.
Nel suo programma di redenzione Dio ha deciso di venire ad abitare con gli uomini. Ma Dio è santo e gli uomini sono discendenza di un progenitore a cui Dio aveva detto, riferendosi al frutto proibito: "Nel giorno che ne mangerai certamente morrai" (Genesi 2:17). Quindi la morte, ogni morte, indipendentemente dalla moralità con cui si è vissuta la vita, è sempre e per tutti l'esecuzione di una sentenza di condanna a morte pronunciata dal Creatore. Le malattie sono sintomi della morte che incombe, espressioni di male, come la stessa parola indica. Al popolo che Dio si è formato per dare corso al suo progetto di salvezza Egli ha ordinato che là dove ha deciso di abitare non ci siano segni di morte, come sono appunto certe gravi malattie. In questo modo Dio non allevia - è vero - il peso portato da chi subisce quella dolorosa realtà, ma nello stesso tempo esprime il suo netto rifiuto del male profondo rappresentato da quelle malattie. Ed è proprio questo divino rifiuto che dà speranza agli uomini, perché in quel rifiuto Dio vuol far capire che non sopporta il male, che intende e può guarirlo nella sua fondamentale essenza, e non soltanto nel suo aspetto appariscente e temporaneo.
Noi invece spesso risolviamo il problema del male cambiandogli il nome: invece di usare il termine "disabile", che esprime negativamente un male, parliamo di "diversamente abile" e trasformiamo il male in una varietà di bene. Ipocrisia e illusione. La stessa tecnica linguistica usiamo anche in campo morale: invece di dire "adulterio" parliamo di "avventura extraconiugale" e il peccato non c'è più. "Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene" (Isaia 5:20).
Ma, come abbiamo detto, attraverso il modo in cui tratta le malattie Dio avrebbe voluto manifestare a Israele la Sua volontà di distruggere il male, e non soltanto di respingerlo. Nella prima stesura del patto del Sinai c'erano condizioni per il popolo (comandamenti) e impegni per Dio (promesse). Tra gli impegni di Dio ce n'era uno che riguardava proprio la salute del corpo: "... io allontanerò la malattia di mezzo a te. Nel tuo paese non ci sarà donna che abortisca, né donna sterile" (Esodo 23:25-26). Dio dunque si era solennemente impegnato in un patto a non permettere che ci fossero né malati né donne sterili in mezzo al popolo; se questo non è avvenuto è soltanto perché il popolo, non Dio, ha rotto quel patto. Ed ecco allora che la semplice presenza di malati e donne sterili tra i figli d'Israele è un promemoria continuo della posizione di infedeltà ai patti in cui vive il popolo. Come dopo il peccato di Adamo ed Eva, così dopo la caduta nell'idolatria del vitello d'oro il Signore ha adattato il suo programma. Adesso però chiede che lebbrosi e gonorroici, che non avrebbero mai dovuto esserci e sono segni continui del peccato in cui vive il popolo, non contaminino con la loro presenza impura il campo in cui Dio, nella Sua grazia, ha deciso di "abitare in mezzo a loro". M.C.
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(Notizie su Israele, 9 giugno 2016)
Emigrare in Israele: perché in Africa si diventa ebrei
Che cosa è successo
In Nigeria, membri della tribù degli Igbo si dichiarano discendenti di antichi mercanti ebrei. In tutto il Paese sarebbero sorte 40 comunità ebraiche, e potrebbero esserci migliaia di ebrei «autoproclamati», come accade in altre parti d'Africa. Ma di rado Israele, le cui leggi sull'immigrazione religiosa sono strette, apre a queste realtà, come invece è accaduto un mese fa con gli Abayudaya dell'Uganda (cui è stato permesso di emigrare in Israele). La più grande comunità a partire dall'Africa per Israele, tra gli anni 80 e 90, è stata quella etiope. Assieme allo sbarco degli immigrati dall'ex Unione sovietica negli anni 90, l'arrivo degli etiopi ha trasformato la demografia e il volto d'Israele: oggi sono circa 138 mila, l'1,7 per cento della popolazione. L'integrazione, però, non è facile e la comunità lamenta discriminazioni. Le proteste sono cresciute dopo che nel maggio 2015 un video in cui due poliziotti picchiavano un soldato etiope ha fatto il giro del Paese.
Che cosa hanno scritto
Difficile che gli ebrei nigeriani siano riconosciuti da Israele, commenta il settimanale The Economist. Anche per la popolazione etiope in Israele, del resto, la vita non è facile. «Qualsiasi speranza la comunità etiope avesse nello Stato è stata spezzata dal razzismo e dalla brutalità della polizia» ha scritto sul sito + 972 l'attivista Avi Yalou. Il dibattito è trasversale: accanto alle riflessioni ospitate da un sito vicino alla sinistra come + 972, il conservatore Jerusalem Post scrive: «Benché il 70 per cento degli etiopi attualmente residenti in Israele sia nato nello Stato, il governo considera la comunità come nuovi immigrati. Ci sono sistemi speciali che separano gli etiopi dal resto della società».
Che cosa succederà. Il parere di Grace RodnitzkiDirettore Relazioni Internazionali
Ethiopian National Project
Gerusalemme
In termini numerici, l'immigrazione dall'Africa continua, ma con cifre basse, anche perché l'immigrazione religiosa in Israele segue regole ben precise e molto strette. E comunque non c'è integrazione tra la comunità etiope israeliana, per esempio, e il resto della popolazione. Lavoriamo a colmare questo divario, per permettere agli etiopi di arrivare all'università, di servire in quelle unità d'élite dell'esercito che potranno aprire loro maggiori opportunità sul mondo del lavoro. Dall'inizio del prossimo anno scolastico lavoreremo assieme al ministero dell'Istruzione a un programma educativo speciale per la comunità etiope.
(Panorama, 9 giugno 2016)
Israele si prepara a Eurosatory 2016, expo militare d'eccellenza
All'edizione parigina di quest'anno oltre 1300 espositori
NETANYA - Israele si prepara a Eurosatory 2016, l'evento che ogni due anni riunisce a Parigi i principali attori statali ed industriali attivi nel settore degli armamenti, uno dei principali punti di riferimento dell'industria internazionale degli equipaggiamenti professionali legati al settore militare e della difesa.
L'edizione di quest'anno prevede la partecipazione di oltre 1300 espositori tra cui anche alcune società di sicurezza israeliane, punta di lancia di un paese da sempre all'avanguardia nella tecnologia militare hi-tech.
La Elbit Systems è una società internazionale di alta tecnologia attiva in tutto il mondo, all'interno di un ampio ambito di programmi commerciali legati alla difesa e alla sicurezza nazionale.
"Per la Elbit, l'Europa è un mercato che sta ampliando il suo budget per rispondere a minacce di sicurezza e a problemi operativi", spiega Eran Grin, responsabile marketing internazionale della società. "L'ampia gamma del portafoglio di proposte dell'azienda consente di rispondere al meglio a qualsiasi esigenza".
Fiore all'occhiello della Elbit è il visore hi tech "Iron Vision" che permette al comandante, al conduttore e all'operatore in situazione di combattimento di valutare il quadro di riferimento in maniera completa, come se si trovasse in un veicolo trasparente, in totale sicurezza.
(askanews, 8 giugno 2016)
Shoah, il negazionismo diventa reato: fino a sei anni di carcere
Con 237 sì, 5 no e 102 astenuti è stato approvato definitivamente alla Camera, in terza lettura, il ddl sul negazionismo che configura un nuovo reato. Con l'introduzione del comma 3 bis all'art. 3 della legge 13 ottobre 1975 n. 654 (e successive modifiche) si dispone l'applicazione della pena "da due a sei anni se la propaganda, ovvero l'istigazione e l'incitamento commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah, o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale".
In sostanza, il negazionismo diventerà un'aggravante, aggiunta alla legge Mancino, rispetto ai reati di discriminazione razziale e di stampo xenofobo.
"Oggi, nell'aula della Camera, si è compiuto l'ultimo atto di uno straordinario impegno civico e culturale che ha visto protagoniste le massime istituzioni del nostro Paese" commenta il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna. Con il via libera al ddl sul negazionismo "l'Italia scrive infatti una pagina storica della sua recente vicenda parlamentare e dota il legislatore di un nuovo fondamentale strumento nella lotta ai professionisti della menzogna tutelando al tempo stesso, con chiarezza, principi irrinunciabili quali la libertà di opinione e di ricerca".
"Il ringraziamento - aggiunge il presidente dell'Ucei - va in particolare a tutti quei parlamentari che con inesauribile passione e impegno hanno fatto sì che questo risultato potesse essere raggiunto nei modi e nei tempi più adeguati".
(Adnkronos, 8 giugno 2016)
Perché è liberticida la legge sul negazionismo
Sopravvissuto al lager: «Perché ce l'ho fatta»
Incontro nella scuola di Noceto. Samuel Artale: «La mia famiglia sterminata». Ai ragazzi: «Chi ascolta un testimone, lo diventa».
Con la Kìppah sulla testa come richiamo alla presenza di un'autorità superiore nella vita quotidiana, un simbolo per sottolineare l'ufficialità e l'importanza del momento, l'ingegner Samuel Artale Von Belskoj Levy, ha iniziato la sua conferenza nell'aula magna della scuola di Noceto. E per minuti che sono sembrati eterni i ragazzi hanno vissuto l'esperienza del lager nazisti.
Ad ascoltarlo per oltre un'ora nel silenzio più assoluto gli studenti delle classi terze medie con i loro genitori, la preside, gli insegnanti e Paolo Papotti per l'Anpi. Samuel Artale è un sopravvissuto al campo di
Un brano della testimonianza di Artale
«Quando arrivammo ad Auschwitz fummo accolti da una grande confusione: grida, ordini in tedesco, lamenti. lo e mia sorella Miriam fummo spinti in un'altra direzione, mia madre fu trattenuta violentemente dai fucili dei soldati che le impedirono di rag- giungerci. La vidi per l'ultima volta, ferma con uno sguardo disperato. Aveva 43 anni. Non ne seppi più nulla. Anche papà, Miriam
e il nonno sparirono. Mi ritrovai solo, avevo sette anni. Ero confuso, stordito. Fui siste- mato in una baracca insieme ad adulti, non c'erano altri bambini. Ci sono rimasto un an- no e ho imparato a sopravvivere alla fame, alla paura che era parte della nostra vita, alla violenza immotivata, alla sofferenza. Sono stato bastonato perché avevo cercato di proteggermi dal freddo mettendomi sotto la maglia dei sacchi di carbone, ho imparato a usare un coltello per difendermi, ho impa- rato a nascondere i miei pochi averi dalle perquisizioni dei nazisti».
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sterminio di Auschwitz. Deportato da Rostock in Germania nel 1944 insieme a mamma, padre, sorella, nonno, zia fu l'unico a vedere i soldati dell'Armata russa che liberarono il campo nel gennaio del 1945. Aveva poco più di 8 anni. «li ho visti arrivare nella neve, vestiti di bianco e con gli sci ai piedi - ha ricordato - uno di loro mi ha dato una coperta, che ancora conservo».
Si è avvalso di una sequenza di diapositive per ripercorrere le fasi più significative dell'annientamento. Ha mostrato con precisione, alternando immagini di volti, corpi prosciugati, devastati dagli esperimenti deliranti di Mengele, luoghi di morte e di sofferenze atroci, la storia della Shoah e la sua storia individuale, in un rimando continuo dal generale, al personale, in una presentazione efficace, diretta, accuratamente preparata per non cedere alle trappole dell'emozione. «I nazisti strappavano i bambini dalle braccia delle madri e lo hanno fatto anche con me - le parole sono uscite implacabili - usavano i piccoli per ispezionare i cadaveri e hanno fatto anche di me un Sonderkommando; queste erano le baracche, una era la mia» . Una verità dura, ma che sarebbe pericoloso nascondere. «Il rischio che col passare del tempo nessuno creda che tutto ciò è esistito è alto - dice mostrando il ritratto di Ahmadinejad ex presidente dell'Iran - ho scritto tre volte a questo signore. Lo avrei voluto incontrare perché ripetesse davanti a me le sue tesi negazioniste. Non mi ha mai risposto».
Il suo racconto è proseguito, catturando l'attenzione pubblico: «Nel campo ho seguito il consiglio di un ebreo anziano che appena arrivato, mi disse di cercare di sopravvivere ad ogni costo. A guerra finita, fui affidato a una associazione ebraica che mi trasferì negli Stati Uniti, in un orfanotrofio a Miami. Lì mi sono laureato in ingegneria. Studiavo come un folle, mosso solo dall'odio. Volevo crescere, diventare forte e andare a caccia di nazisti. Fu solo quando incontrai mia moglie, che cominciai a pensare che la vita era stata a suo modo generosa con me consentendomi di incontrare l'amore».
Ai ragazzi che, dopo un primo momento di commozione, gli hanno rivolto tante domande ha lasciato alcuni importanti messaggi. «Lo studio è il più grande capitale, investite sulla conoscenza. Nessuno potrà mai togliervi quello che avete imparato», ha detto. Poi ha consegnato un compito, da portare avanti: «Chi ascolta un testimone diventa un testimone».
(Gazzetta di Parma, 8 giugno 2016)
Violare la crittografia è una questione di orecchio
Un team di ricercatori di Tel Aviv ha messo a punto un sistema per sniffare le chiavi crittografiche "ascoltando" il processore del computer. Bastano un cellulare e
un po' di tempo.
di Giancarlo Calzetta
Il livello di sicurezza dei sistemi di crittografia, di solito, viene valutato sulla base della lunghezza delle chiavi e la complessità degli algoritmi. Da oggi, forse, sarebbe meglio considerare anche elementi come la rumorosità del computer.
La questione è al centro di uno studio pubblicato da un gruppo di ricercatori dell'Università di Tel Aviv, che hanno approfondito le tecniche "alternative" per violare i sistemi crittografici.
La logica è quella di evitare il confronto diretto con la complessità dei sistemi crittografici, sfruttando invece eventuali vulnerabilità "laterali".
La più efficace, a quanto si legge nel documento, è proprio legata al suono. Nel corso della sua attività, infatti, ogni computer emette suoni ad alta frequenza prodotti dai flussi di corrente elettrica tra i diversi componenti.
Ebbene: questi suoni possono essere intercettati e interpretati per risalire ai calcoli che il processore sta elaborando, ricostruendo così la chiave crittografica. E cosa incredibile è che questo approccio funziona davvero.
Un lavoro indubbiamente difficile che, fino a oggi, richiedeva anche strumenti decisamente costosi. Oggi, però, sappiamo che questa peculiare forma di spionaggio informatico può essere implementata anche a basso costo.
I ricercatori che hanno portato a termine l'esperimento sono riusciti a decifrare una chiave RSA a 4096 bit utilizzando un microfono parabolico piazzato a circa 10 metri di distanza dal PC, ma anche a bucare altri tipi di crittografia con schemi e algoritmi diversi.
Per dimostrare che la tecnica può essere utilizzata anche con strumenti meno appariscenti, hanno ripetuto l'esperimento utilizzando il microfono di un telefono cellulare. In questo caso, però, il dispositivo è stato piazzato a 30 centimetri dal computer spiato.
L'operazione richiede più o meno un'ora e, almeno per il momento, non è lo strumento di hacking più efficace che si possa immaginare. Basta un rumore di fondo, ad esempio, per rendere tutto molto più difficile. La ricerca, però, apre nuove frontiere nel panorama della sicurezza e i ricercatori contano di approfondire il tema in futuro.
(Tom's Hardware, 8 giugno 2016)
L'efficacia del sabotaggio contro l'app antisemita
L'ossessione antiebraica cambia forma. Sabotiamola
di Pierluigi Battista
L' idiozia antisemita, sempre la stessa, rinnova però sempre le sue forme per manifestarsi. Il web, Internet, i social sono un moltiplicatore formidabile di minacce e informazioni. Allargano la platea degli energumeni che hanno voglia di scagliarsi contro gli ebrei, creano legami e canali di comunicazione tra quelli che coltivano l'ossessione antiebraica e che odiano Israele soltanto perché si chiama Israele. Adesso una nuova app, messa su da un gruppo di dementi, è stata concepita per individuare e indicare al pubblico ludibrio con nome e cognome i singoli ebrei da intimidire e forse colpire. Stava sullo store di Google Chrome, che si è affrettata a rimuoverla. Molti ebrei avevano deciso addirittura di sabotarlo mettendo tantissimi nomi per far saltare il meccanismo delatorio. Resta il fatto che un minuscolo gruppo di farabutti riesce con un niente e con un minimo sforzo a ottenere l'ascolto da un palcoscenico senza frontiere, senza controlli, senza confini. Una specie di globalizzazione tecnologica dell'idiozia antisemita.
L'odio per gli ebrei è un fertile terreno per incanalare frustrazioni, ignoranza, intolleranza. Ciò che si svolgeva nel chiuso ammuffito delle case in cui si covavano rancori e veleni oggi può trovare una diffusione istantanea e capillare. Gli oscuramenti tardivi non sono molto efficaci. Misure repressive risulterebbero inefficaci, oltreché velleitarie e di difficilissima applicazione. Resta probabilmente l'efficacia del sistematico sabotaggio dei sabotatori, la possibilità di scassare il gioco neutralizzandolo come hanno fatto gli ebrei fingendosi seguaci dell'app. Entrare nei loro meccanismi, distruggerne le potenzialità, fare uscire gli antisemiti dal loro guscio per annullare il loro discorso dell'odio, facendo saltare la macchina dell'odio, mettendo il sarcasmo dove si coltiva l'odio. Non facendogliene passare una.
(Corriere della Sera, 8 giugno 2016)
"Le culle vuote sono la fine dell'occidente". J'accuse di Lord Sacks
"E' come nell'antica Roma: autoindulgenza dei ricchi, crisi demografica, minoranze non integrate e un vuoto religioso".
di Giulio Meotti
ROMA - La cornice è quella del Templeton Prize del valore di un milione e mezzo di dollari (più del Nobel). Viene comminato dal 1972 a Buckingham Palace da Filippo di Edimburgo e dal principe Carlo a personalità religiose di spicco del nostro tempo, come Madre Teresa, il Dalai Lama e Alexander Solzenitsyn. Quest'anno lo ha vinto Jonathan Sacks, rabbino capo del Regno Unito per ventidue anni, leader ecumenico (nel 2011 ha dialogato con Papa Benedetto XVI), apologeta dell'ebraismo ortodosso, filosofo alla New York University e al King's College di Londra, autore del recente libro "Not in God's Name" e uno dei pochi leader religiosi ad aver imposto la propria voce a capi di stato e al pubblico laico (i suoi interventi alla Bbc sono popolarissimi). Sacks ha tenuto un j'accuse sull'Europa e l'occidente, ribadito poi in una intervista al Telegraph. "La caduta del tasso di natalità potrebbe significare la fine dell'occidente", ha detto Lord Sacks.
"Il futuro dell'occidente, l'unica forma che ha aperto la strada alla libertà negli ultimi quattro secoli, è a rischio. La civiltà occidentale è sull'orlo di un crollo come quella di Roma antica perché la generazione moderna non vuole la responsabilità di allevare i figli". La società europea così come la conosciamo "morirà" a causa della crisi demografica. Il "crollo" del tasso di natalità in tutta Europa ha portato a "livelli senza precedenti di immigrazione che ora sono l'unico modo in cui l'occidente può sostenere la sua popolazione". Sacks avverte però che l'immigrazione di massa non può funzionare proprio a causa del grande disagio culturale dell'occidente.
"Non c'è niente in cui integrare"
Il rabbino Sacks paragona questo crollo all'entropia, "la perdita di energia che ha sancito il declino e la caduta di ogni altro impero della storia. Lo storico contemporaneo dell'antica Grecia e dell'antica Roma hanno visto le loro civiltà iniziare il declino e la caduta con il crollo della natalità. Erano troppo concentrati a godersi il presente per fare i sacrifici necessari per costruire il futuro".
Sacks lega la crisi demografica a quella religiosa dell'occidente: "Senza memoria, non vi è identità. E senza identità, siamo solo polvere sulla superficie di infinito". Gli immigrati non saranno integrati in Europa, "perché quando una cultura perde la memoria perde l'identità e quando una cultura perde l'identità non c'è niente in cui integrare le persone". Il rabbino imputa la crisi dell'occidente anche al "crollo del matrimonio, che porta a problemi intrattabili di povertà infantile e depressione".
Per il rabbino Jonathan Sacks, "gli storici contemporanei non sono riusciti a trovare un solo esempio di una società che è diventata secolarizzata e ha mantenuto il suo tasso di natalità nei secoli successivi". Poi ironizza sull'ateismo: "La cosa strana è che le uniche persone che si rifiutano di riconoscere questa realtà sono i nuovi atei i quali adorano una figura in cielo con una lunga barba, Charles Darwin. E se Charles Darwin ci ha insegnato qualcosa è giudicare dal successo riproduttivo". Quando Sacks è andato a Cambridge alla fine degli anni Sessanta, il corso di filosofia si chiamava Scienze Morali, "significa che, proprio come le scienze naturali, la morale è oggettiva, reale, parte del mondo esterno. Scoprii presto, però, che quasi nessuno credeva più a questo. La morale non era altro che l'espressione delle emozioni". Avanza, intanto, quello che Sacks chiama con Julien Benda "le trahison des clercs, il tradimento intellettuale del nostro tempo. Nei campus in Gran Bretagna e in America c'è l'abbandono della libertà accademica in nome del diritto a non essere offeso".
Il rabbino Sacks è intervenuto anche sul medio oriente: "La gente si dimentica come la Gran Bretagna ha ottenuto la propria libertà: la guerra civile, il pensiero straordinario attraverso il XVII secolo con John Milton, Thomas Hobbes e John Locke". Diversa la "primavera araba". "La gente usa Google e Facebook, i tiranni vengono rovesciati e pensi, 'si preme un pulsante e Google farà il resto'. Sì, tiranni furono deposti ma ciò che è seguito non era la libertà, ma la terribile anarchia di un genere che conosciamo da Hobbes come 'solitaria, povera, sgradevole, brutale e breve'. Una precisa descrizione della vita in Siria o in Iraq. Si deve combattere per la libertà. Una società libera è una conquista morale".
Nel suo importante discorso per il Premio Templeton 2016, Sacks ha detto che avanza un "pensiero magico" che assume quattro forme: "L'estrema destra cerca un ritorno a un passato d'oro che non c'è mai stato. L'estrema sinistra cerca un futuro utopico che non ci sarà mai. Gli estremisti religiosi credono che si può portare la salvezza con il terrore. I secolaristi aggressivi credono che sbarazzandosi della religione ci sarà la pace. Sono fantasie e perseguendole si mettono in pericolo le fondamenta della libertà". Dai profeti di Israele al saggio islamico Ibn Khaldun, da Giambattista Vico a John Stuart Mill, tutti hanno capito che "le civiltà cominciano a morire quando perdono la passione morale che li ha portati a esistere. E' successo alla Grecia e a Roma e può accadere in occidente. I segni sicuri sono questi: tasso di natalità in calo, decadimento morale, disuguaglianze crescenti, perdita di fiducia nelle istituzioni sociali, auto-indulgenza da parte dei ricchi, disperazione da parte dei poveri, minoranze non integrate, incapacità di fare sacrifici per il bene del futuro, perdita della fede e nessuna nuova visione che ne prenda il posto". Sacks conclude così il j'accuse: "Un giorno i nostri discendenti si guarderanno indietro chiedendosi: come ha fatto l'occidente a perdere ciò che l'ha reso grande?".
(Il Foglio, 8 giugno 2016)
L'Isis che brucia le donne fa scempio della religiosità
di Fiamma Nirenstein
Avrebbe dovuto essere una di quelle notizie che inducono una reazione mondiale, magari anche una decisione definitiva, seria, persino dura ... E invece solo qualche titolo sui giornali, e nemmeno tanto in evidenza. Il titolo delle agenzie è laconico e perfettamente informativo: l'Isis chiude in una gabbia 19 donne yazide e le brucia vive. È accaduto nella zona di Mosul. Ah, pensa il lettore, che orrore: ormai però 19 è un numero come un altro fra tante stragi, torture, mostruosità quotidiane. Avrebbero potuto essere 190 vittime dei mostri, e avrebbero causato lo stesso corrugamento di sopracciglia, la stessa bocca serrata per un attimo solo. Ci siamo abituati.
Donne yazide? Certo, pensiamo rassegnati, l'Isis odia le donne: si sa bene ormai che pratica la schiavitù sessuale, che la ragazza che si ribella viene subito orrendamente punita, che la vendita delle donne è uno dei suoi proventi, che le ragazze che devono sollazzare i gloriosi combattenti della jihad sono spesso bambine anche di sette, otto anni; si sa persino che due bambine si sono suicidate dopo aver subito tanta violenza sessuale, che un' altra ha detto che è stata violata nello stesso giorno da un centinaio di persone. Persone? Animali che adesso hanno dato fuoco a delle creature innocenti, ma che c'è di strano ormai: una recente testimonianza di uno scampato, uno solo, racconta di avere assistito ai roghi di 187 persone, chissà quante altre migliaia sono state fatte fuori così di fronte ad altri testimoni... Tutta la vicenda è ormai parte di un copione assimilato dal pubblico inorridito e indifferente insieme.
Chi non ricorda il giovane pilota giordano Muad Kasasbeah che, in cattività dopo che il suo aereo è stato abbattuto su Raqqa, è stato bruciato vivo, in gabbia, con un'elaborata messinscena immortalata in un video. Per capire, occorre capire che l'Isis si muove secondo il suo disegno del mondo, non secondo un istinto pazzoide: è il modo del VII secolo, l'avvento guerriero dell'Islam. L'Isis spiegò perché aveva bruciato il pilota: c'è scritto nel Corano, se uno brucia il tuo raccolto (con l'aereo) tu devi rispondere col fuoco. La spiegazione sull'eccidio delle donne yazide la si può intuire tutta legata al genere, all'appartenenza e alla loro resistenza alla schiavitù. Gli Yazidi sono un popolo di etnia curda e di religione monoteista di antichissima origine zoroastriana: ovvero, odiosi all'Isis perché i curdi sono i loro più pericolosi nemici, e perché secondo loro sono misere denti che non si vogliono convertire, e quindi da uccidere.
L'invasione nell'agosto 2014 della loro zona di Sinjar al nord dell'Iraq costò a quei miseri una strage immensa, i fuggitivi furono fra i 300 e i 600mila, gli uomini furono trucidati sul posto, le donne trascinate via come schiave sessuali. Oltre tutto le donne curde, della medesima etnia, sono l'incubo dei guerrieri di daesh per la loro bravura invincibile. E comunque, sta fra i temi principali del programma daesh: «noi conquisteremo Roma, distruggeremo le vostre croci, faremo schiave le vostre donne» dice Abu Mohammed AI Adnani, il portavoce ufficiale. Le donne yazide sono state sistematicamente sottoposte ad una mostruosa teologia dello stupro, che autorizza il violentatore e anzi lo santifica. Le bambine non sono viste come tali e vengono sbranate dalla perversione travestita da religiosità.
(il Giornale, 8 giugno 2016)
Un monumento all'autorità ebraica
L'opera, realizzata dall'artista Daniel Schinasi, sarà inaugurata a Cecina giovedì 9 giugno in piazza Nilde Lotti. Il sindaco motiva la scelta.
CECINA La comunità ebraica sarà felice del monumento dedicato a quella che il sindaco di Cecina Samuele Lippi spiega essere "la massima autorità spirituale e morale ebraica del dopoguerra in Italia". L'opera, realizzata dall'artista Daniel Schinasi, sarà inaugurata domani alle 18 in piazza Nilde Lotti con i rappresentanti delle autorità civili e religiose e i familiari del rabbino Elio Toaff, scomparso un anno fa a Roma.
"La decisione di dedicare uno spazio urbano a Toaff - dichiara il sindaco Samuele Lippi - è coerente con l'impegno assunto da questa Amministrazione comunale in favore della memoria condivisa della nostra storia comunitaria. Dopo la ricostruzione dei pannelli della memoria, che testimoniano le vicende legate alla seconda guerra mondiale sul territorio cecinese e l'istallazione in Piazza Martiri delle Foibe di un monumento commemorativo, aggiungiamo un altro tassello al nostro mosaico permanente della memoria".
"A impreziosire questo gesto ci viene in aiuto un artista appartenente al mondo e alla cultura ebraica che sentiamo molto vicino, per lo spessore della sua attività artistica al nostro messaggio di pace" continua Lippi, riferendosi a Daniel Schinasi, che con la sua opera Il treno, testimone delle vicende umane, affrescato nella stazione ferroviaria circa 30 anni fa, aveva lasciato un segno permanente su Cecina.
"Con questa nuova opera, donata dal maestro alla cittadinanza di Cecina - prosegue Lippi - riteniamo di segnare ulteriormente il territorio con un nuovo invito alla memoria. Nel ringraziare il maestro Schinasi, intendiamo porgere un omaggio, oltre che a tutte le Comunità italiane, in particolare alla Comunità Ebraica di Livorno, di cui sia Daniel che Elio Toaff sono stati in maniera diversa efficaci rappresentanti".
"Vorrei ricordare come in certo modo tutti noi, tutti i nostri popoli, sono stati prima o poi esuli e nomadi e questo ci deve aiutare a riscoprire nella società l'importanza insostituibile e l'assoluta necessità di riscoprire la nostra storica e tradizionale cultura dell'accoglienza, della tolleranza e del rispetto reciproco".
"Questi concetti - ha concluso Lippi - sono perfettamente in linea con la figura e le scelte di Toaff. Un uomo unanimemente conosciuto come messaggero di pace e del dialogo fra religioni e culture. Lui che ha fatto la Resistenza e che ha vissuto l'umiliazione delle leggi razziali, è anche colui che insieme a Papa Giovanni XXIII ha ricostruito definitivamente i rapporti tra ebrei e cattolici, non a caso viene definito l'uomo del risorgimento ebraico italiano".
Giovedì quindi l'inaugurazione del monumento a cui parteciperanno le massime autorità cittadine civili e religiose e interverranno rappresentanti delle Comunità ebraiche insieme ai familiari del rabbino recentemente scomparso. Nel pomeriggio di ieri, martedì 7 giugno, sono iniziate le operazioni di collocazione definitiva del monumento nella piazza Iotti, a cui lo stesso artista Schinasi, tornato per l'occasione da Nizza, ha avuto modo di assistere.
(Qui News Cecina, 8 giugno 2016)
Un incubatore per start up rafforza le intese tra Poli e Technion di Haifa
di Fabrizio Assandri.
TORINO - Dopo le polemiche su Israele, il Politecnico rilancia. «Abbiamo un progetto per un incubatore di start up condiviso col Technion di Haifa», dice Marco Gilli, rientrato da Israele al seguito del ministro Giannini. Tra le motivazioni della trasferta, per il rettore c'era la necessità di ricucire con Haifa. Da mesi l'accordo siglato da Università e Poli con l'ateneo israeliano, per ricerche sui temi dell'acqua e della salute, è al centro di proteste e inviti al boicottaggio nel mondo accademico. Sotto accusa i legami del Technion con l'esercito. L'ambasciatore israeliano, preoccupato per la protesta, s'era rivolto a Gilli. Il rettore, che nel viaggio ha anche incontrato l'ex premier Simon Peres, ora annuncia che all'attuale collaborazione se ne aggiungerà un'altra, il sostegno alle start up. E potrebbero riaccendersi le polemiche tra chi ritiene gli atenei complici dell'oppressione dei palestinesi, chi accusa di antisemitismo i boicottatori, chi crede nella scienza «neutra».
«Non c'è confronto tra la rete di aziende e capitali a cui possiamo affacciarci noi e la loro, che guarda anche agli Usa: lì le start up non fanno a tempo a realizzare un prototipo che vengono comprate - dice Gilli - noi abbiamo una cosa che lì manca, l'industria manifatturiera». Le giovani imprese dovrebbero passare periodi di incubazione in entrambi i Paesi, «per il progetto dovrebbe esserci un finanziamento del ministero degli Esteri».
(La Stampa, 8 giugno 2016)
Le autorità israeliane non hanno cifre esatte sui palestinesi residenti in Cisgiordania
GERUSALEMME - Israele non dispone di cifre esatte in merito al numero di palestinesi che vivono in Cisgiordania: lo ha ammesso ieri, nel corso di una audizione alla Knesset (il parlamento israeliano), il capo dell'Amministrazione civile israeliana, il colonnello Eyal Ze'evi. Tuttavia come sottolinea la "Jerusalem Post", tali informazioni sono imprescindibili nell'ambito dei negoziati per il raggiungimento di una soluzione a due Stati alla questione israelo-palestinese. L'Amministrazione civile israeliana dipende dai dati elaborati dall'Ufficio di statistica palestinese, che ad aprile 2016 ha identificato 2,9 milioni di palestinesi come residenti in Cisgiordania, senza considerare però l'area di Gerusalemme est. La maggior parte degli arabi palestinesi vive nelle aree A e B della Cisgiordania, che si trovano sotto il controllo civile dell'Autorità palestinese. In passato i politici della destra israeliana hanno stimato che circa 300 mila palestinesi sono residenti nell'Area C della Cisgiordania, che è sotto il controllo civile delle Forze di difesa israeliane.
(Agenzia Nova, 8 giugno 2016)
In Germania l'antisemitismo fa perdere la faccia e anche i voti
Su questi temi, scatta la tolleranza zero
di Roberto Giardina
BERLINO - Il sospetto di nutrire sentimenti antisemiti è mortale per un politico tedesco, anche di estrema destra. Sono più i voti che si perdono di quelli che si guadagnano. Ciò non vuol dire che nella società tedesca non sia sempre latente l'antisemitismo, in forma più o meno larvata, o cosciente (si calcola la percentuale intorno al 20%). Soltanto che si è più prudenti che altrove in Europa, in Francia o in Polonia ad esempio, nell'esternare i propri pensieri. Il passato continua a pesare. L'Affi, l'Alternative für Deutschland, continua a guadagnare voti, alle ultime elezioni regionali, in tre Länder, lo scorso 13 marzo, è arrivata a superare i socialdemocratici. Populisti, ma i suoi leader sono molto abili nel dosare le dichiarazioni: criticano la politica delle frontiere aperte della Merkel, ma sostengono di non essere razzisti. E si sono distanziati dalle dichiarazioni di Alexander Gauland, secondo cui i tedeschi non vorrebbero come vicino di casa Jerome Boateng, difensore dela nazionale di calcio, di origine ganese ma nato a Berlino.
Protestano, affermano, perché si aiutano più i profughi dei tedeschi disagiati. Certamente, in gran parte i neonazisti votano per loro, ma non tutti i loro voti vengono dai neonazisti. Tanto che l'Npd, il partito storico dei nostalgici, che nel 1969 sfiorò l'ingresso al Bundestag con il 4,9% (lo sbarramento è al cinque), è quasi scomparso di scena. I militanti del movimento neonazi dovrebbero essere intorno al 20%. Ma ora arrivano puntuali le accuse di antisemitismo a uno dei suoi esponenti, come riporta la Frankfurter Allgemeine. I suoi compagni non hanno reagito, anche se il suo pensiero era noto da tempo. Ma le idee di Wolfgang Gideon, di professione medico, 69 anni, erano conosciute anche dagli avversari. Perché, a loro volta, non lo hanno denunciato? Lo scandalo arriva solo dopo il suo successo: Gideon è stato eletto deputato regionale a marzo nel Baden-Württemberg, Da giovane studente era marxista, ma abbandonò il partito comunista per distanziarsi dai suoi compagni marxisti. Nel 2013 ha trovato la sua patria politica nell'Affi.
«Non sapevo nulla», si difende il leader del partito, Jorg Meuthen. Impossibile, replica il quotidiano. Gedeon aveva fatto chiare dichiarazioni antisemite ai congressi dell'Affi a Kircheim nell'ottobre del 2014, e nel gennaio del 2015 a Karlsruhe. Comunque sarebbe bastato leggere i suoi saggi, come Der grüne Kommunismus und die Diktatur der Minderheiten, il comunismo verde e la dittatura delle minoranze, o Die Herausforderung Europas durch Zionismus e Islamismus, la sfida all'Europa di sionismo e islamismo. Il primo, per Gedeon, è un nemico interno, il secondo una minaccia dall'esterno.
Le accuse agli ebrei sono le solite, e antiche, sono una minaccia ai valori della civiltà occidentale, e così via, fino ai dubbi sulla Shoah. Josef Schuster, presidente della comunità ebraica in Germania, chiede all'Affi l'espulsione di Gedeon. Nel partito, qualcuno lo difende. «Non è un antisemita», dichiara il deputato Heinrich Fletchtner, «perché non chiede la persecuzione degli ebrei né di combattere lo stato di Israele». Ma, il leader dell'Affi, Jorg Meuthen si preoccupa: «L'antisemitismo non ha posto nel nostro movimento, controlleremo al più presto la fondatezza delle accuse». Forse ci si deve rallegrare che nella Germania di Frau Merkel, l'antisemitismo rischi di far perdere voti, e non credo che i libri del dottor Gedeon abbiano avuto una grande diffusione. Ma si è peccato quanto meno di distrazione fino a quando l'Affi non ha cominciato ad essere veramente pericoloso per i grandi partiti.
(ItaliaOggi, 8 giugno 2016)
Putin giudica positivo l'incontro con Netanyahu
Rilancio di rapporti bilaterali sul piano economico e geopolitico.
MOSCA, 7 giu 20:45 - Il presidente russo Vladimir Putin ha definito aperto e costruttivo l'incontro con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, avvenuto oggi a Mosca. Al termine dei colloqui, Putin ha dichiarato alla stampa che insieme a Netanyahu ha discusso di tutte le questioni inerenti alla cooperazione bilaterale, le questioni d'interesse internazionale e il rafforzamento dei legami economici. Putin ha sottolineato che negli ultimi 25 anni le relazioni tra i due paesi si sono sviluppate in modo dinamico e produttivo, formando una "solida base di fiducia e comprensione" su cui poggerà la futura cooperazione. Tra i temi affrontati la cooperazione nel settore economico, agricolo, energetico, la lotta al terrorismo e l'instabilità regionale, in particolare il conflitto israelo-palestinese e la guerra in Siria.
(Agenzia Nova, 7 giugno 2016)
Ebrei italiani verso il voto, il 19 si elegge il Consiglio Ucei
LAssemblea sceglierà il successore di Gattegna
di Patrizio Nissirio
ROMA - Gli ebrei italiani si avvicinano al voto, una scadenza importante nella quale verrà rinnovato il Consiglio dell'Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), il 'parlamento' dell'ebraismo italiano al quale spetta poi eleggere il nuovo presidente dell'Ucei, in sostituzione di Renzo Gattegna, che ha ricoperto quella carica per dieci anni. Il Consiglio, organo di indirizzo strategico e politico dell'Unione, si compone di 52 membri. Il mandato dura 4 anni ed è gratuito. Le diverse comunità eleggono ognuna un numero di consiglieri relativo al proprio peso numerico: 20 consiglieri per Roma, 10 per Milano, 19 consiglieri singoli in rappresentanza delle altre Comunità. A questi si uniscono 3 consiglieri in rappresentanza dell'Assemblea Rabbinica Italiana, che comporranno la Consulta Rabbinica.
Nelle comunità maggiori, la sfida tra le varie liste è aperta e il dibattito molto vivace. A Roma si sono presentate le liste "Menorah", "Benè Binah", "Kol Israel" e "Israele siamo noi", con posizioni che vanno dalla lacità più marcata al più attento rispetto dei precetti religiosi. Interessante il caso della 'trasversale' Benè Binah, nata come lista interamente al femminile, quattro anni fa, ma che ora candida anche rappresentanti uomini. A Milano le formazioni in campo sono "Wellcommunity per Israele", "Comunità aperta" e "Milano per l'Unione x L'Unione per Milano". Nelle comunità numericamente minori, la sfida è tra singoli candidati alla rappresentanza.
Molti i temi di confronto tra le varie 'anime' dell'ebraismo italiano, una comunità che tende a diminuire numericamente (causa trasferimenti all'estero, assimilazione, calo demografico), e che ruota attorno al binomio identità - ruolo nella società allargata. Quest'ultimo capitolo è particolarmente delicato: se da una parte si impone la necessità di dialogare con essa, dall'altro, per molti ebrei, il focus dovrebbe piuttosto essere centrato sull'interno della comunità ebraica.
D'altro canto, la questione dell'8 per mille, mostra, con le sue 87.000 firme a favore dell'ebraismo italiano (che conta meno di 30.000 persone), come ci sia interesse da parte dei non ebrei verso tradizioni, cultura, visione degli ebrei italiani.
Un'attenzione importante che per molti va alimentata. E d'altro canto, nel suo discorso conclusivo, Gattegna ha esortato ad abbandonare "le forme di chiusura e ripiegamento in se stessi, adottate nei secoli scorsi dai nostri antenati per autodifesa", che per il presidente, "appaiono superate, inutili e dannose in un mondo globale nel quale confini e barriere si sono fortemente affievoliti e non esistono più microcosmi impenetrabili e incontaminabili". Una posizione che non ha convinto l'assemblea dei Rabbini d'Italia che in un comunicato ha notato: "Lo schema e l'opposizione proposta dal presidente, tra chiusura e apertura, proprio alla luce della attualità e globalità è infondato, superato, banale e rischioso. Il confronto con il mondo non ebraico non è un obiettivo da ricercare così ansiosamente perché fa già parte della nostra realtà quotidiana, ci dobbiamo invece preoccupare di come fornire al pubblico delle Comunità ed ai giovani in particolare quelle esperienze di vita ebraica e quelle conoscenze di ebraismo che sono indispensabili, innanzitutto per l'esistenza stessa delle Comunità e in secondo luogo per affrontare con concretezza e consapevolezza il dialogo con l'esterno".
(ANSAmed, 7 giugno 2016)
Vi racconto la visita del ministro Stefania Giannini in Israele. Parla l'ambasciatore Talò
Conversazione di Formiche.net con Francesco Maria Talò, ambasciatore italiano a Tel-Aviv.
di Rossana Miranda
L'Italia risponde al tentativo di boicottaggio contro Israele con i fatti, non solo con le parole. In alternativa al movimento "Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS)", la ricerca italiana scommette attivamente sulla comunicazione tra i settori innovativi di entrambi i Paesi a favore dello sviluppo. Per stringere questi rapporti, Stefania Giannini, ministro dell'Istruzione, dell'università e della ricerca, ha visitato Israele dal 1o al 5 giugno.
In una conversazione con Formiche.net, l'ambasciatore italiano a Tel-Aviv, Francesco Maria Talò, spiega che la missione del viaggio di Giannini è riassunta nello slogan: "Italia e Israele: le nostre forti radici, il nostro grande futuro". A sottolineare la concretezza delle iniziative sviluppate in concomitanza con la Festa della Repubblica, contemporaneamente al ministro sono andati in Israele circa 50 accademici italiani che hanno incontrato i colleghi israeliani e anche una delegazione della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane.
L'entusiasmo del Ministro
"Confermato progetto italo-israeliano Shalom per satellite iperspettrale per osservare e analizzare proprietà fisiche e chimiche terra"; "Nuovi obiettivi concordati con Ministro Akunis: più giovani ricercatori in progetti bilaterali e cooperazione tra incubatori universitari"; "A #Beersheva con insegnanti e alunni della #scuola Hagar, modello d'insegnamento multiculturale in arabo e ebraico". Questi sono stati alcuni dei tweet pubblicati dal ministro Giannini durante il viaggio in Israele. Durante la permanenza, il ministro ha incontrato il responsabile dell'Istruzione israeliano, Naftali Bennett, l'ex presidente Shimon Peres, il presidente Reuven Rivlin e altri rappresentanti del governo e la cultura israeliana.
Legame culturale
"Penso che la visita del ministro Giannini in Israele sia andata molto bene. E' importante aver avuto tra noi un ministro con la sensibilità personale e istituzionale di Giannini. È un segno dell'approfondimento dei legami del passato e del futuro tra i due Paesi", dice Talò a Formiche.net. "Le radici - ha aggiunto l'ambasciatore - sono la base per costruire il futuro. Questo non è stato un semplice ricevimento diplomatico, ma una festa della Repubblica basata sulla comunicazione, che corrisponde in pieno al messaggio di ricchezza culturale".
Gli incontri
L'ambasciata italiana a Tel Aviv è stata il punto di convergenza di altri enti che hanno contribuito ad organizzare la visita: l'Agenzia Ice, l'Istituto Italiano di Cultura e la Camera di Commercio Israele-Italia. Durante la visita di Giannini si sono svolte 10 conferenze in contemporanea, nelle quali hanno partecipato 50 studiosi italiani che hanno concordato con un gran numero di colleghi israeliani (in tutto mille partecipanti) interessanti convergenze alla fine degli incontri.
Spinta all'innovazione
Il 2 giugno, al Centro Peres per la pace a Tel Aviv si è svolto il Convegno per i 15 anni dell'Accordo scientifico e industriale tra Italia e Israele. Inoltre, è stato anche presentato il premio Rita Levi Montalcini per la cooperazione scientifica tra Italia e Israele. Secondo l'ambasciatore Talò, tra i due Paesi "lo scambio è concreto. Israele è molto avanti dal punto di vista della ricerca e l'innovazione e l'Italia ha un'importante tradizione industriale e può essere il ponto con l'Unione europea".
Chi c'era alla Festa della Repubblica
Dopo quella americana, la Festa della Repubblica italiana è quella più sentita in Israele. Alla festa nella residenza dell'ambasciatore c'erano circa 1500 invitati. Erano presenti, tra altri, il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, l'ambasciatore americano, Daniel Shapiro, il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, l'ex ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, il capo del Partito Laburista e dell'opposizione, Michael Herzog, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni e il presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini.
La Festa della Taranta
Giannini ha consegnato al presidente di Israele Reuven Rivlin il primo volume con la traduzione del Talmud in italiano. Un'opera a cura del Rabbino capo di Roma, Riccardo Disegni e di Rav Adin Steinsaltz. Talò ricorda che il testo è simbolo delle radici e l'innovazione ed è una delle poche traduzioni che ci sono del Talmud: "L'opera, che ha circa 2000 anni di storia, è stata curata grazie ad un software che ha permesso il lavoro di gruppo di diversi esperti e traduttori. Un lavoro che è stato molto apprezzato in Israele".
Gli ospiti della festa hanno degustato pizze, gelati artigianali e spritz. Grazie alla Regione Puglia la Taranta è stata apprezzata dagli invitati; una festa che è arrivata al pubblico con presentazioni a in piazza coinvolgendo anche il Sindaco di Tel Aviv.
Tra ambiente e Cyber Security
Una festa che non ha pesato sull'ambiente, già che anche questo anno la Keren Kayemeth LeIsrael Italia Onlus (KKL) ha calcolato l'impatto per l'ecosistema ed è stato compensato: 120 alberi sono stati piantati. "Così, la festa è stata grande, bella, piena di luci, ma anche la natura si è presa la sua rivincita", racconta l'ambasciatore. Il prossimo appuntamento che coinvolgerà l'Italia e Israele sarà la visita del ministro dell'Agricoltura, Maurizio Martina, che incontrerà il 22 e il 23 giugno l'omologo Uri Ariel per inaugurare una foresta dedicata all'Expo 2015.
A giugno si terrà anche la Cyber Week. Il 20 giugno si terrà un evento nella residenza dell'ambasciatore e martedì 21 una tavola rotonda italo-israeliana.
(formiche.net, 7 giugno 2016)
Perché la Storia è importante: la "Guerra dei sei giorni" Articolo OTTIMO!
di David Harris (*)
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| Gerusalemme, 6 giugno 1967 |
C'è chi alza gli occhi al cielo appena sente nominare la Storia. Se poi si tratta del Medio Oriente, è un fuggi fuggi generale, per il pericolo di rimanere invischiati in un groviglio di diatribe e discussioni. Ma se non capiamo cosa è successo nel passato, è impossibile capire il presente - e il presente è di vitale importanza per la regione, e per il mondo.
La guerra dei Sei Giorni scoppiò 49 anni fa. Mentre alcune guerre vengono pian piano dimenticate, questa guerra è importante oggi come nel 1967. Molte questioni dell'epoca rimangono irrisolte. Politici, diplomatici e giornalisti sono alle prese ancora oggi con le conseguenze di quella guerra, ma raramente ne considerano il contesto, dovessero mai conoscerlo. Eppure alcuni elementi di vitale importanza sono completamente privi di significato senza il contesto.
Per iniziare, nel giugno 1967 non esisteva uno Stato di Palestina. Non esisteva allora e non era mai esistito. Fu proposto dalle Nazioni Unite nel 1947, e fu rifiutato dal mondo arabo perché avrebbe voluto dire la contemporanea creazione di uno Stato ebraico al suo fianco.
Secondo, la Cisgiordania e Gerusalemme Est erano in mani giordane. In violazione di accordi solenni, la Giordania vietò agli ebrei accesso ai siti di Gerusalemme Est a loro più sacri. Non solo, dissacrarono e distrussero molti di quei luoghi. La striscia di Gaza era sotto controllo egiziano, e gli abitanti sottoposti ad un duro regime militare, mentre Le alture del Golan, utilizzate abitualmente per bombardare dall'alto le comunità israeliane, appartenevano alla Siria.
Terzo, il mondo arabo avrebbe potuto in qualunque momento creare uno Stato palestinese in Cisgiordania, Gerusalemme Est e nella striscia di Gaza, ma non lo fecero. Non se ne parlava neanche. Ed i leader arabi, che dichiarano oggi il loro profondo attaccamento a Gerusalemme Est, non ci andavano praticamente mai. Era considerata una remota provincia araba.
Quarto, il confine del 1967 all'epoca del conflitto, di cui si parla tanto in questi giorni, non era altro che una linea di armistizio fissata nel 1949 - nota come Linea Verde - dopo che cinque eserciti arabi attaccarono il nascituro Stato di Israele nel 1948 allo scopo di annientarlo, non riuscendoci. Furono tracciate delle linee del cessate il fuoco, ma non erano affatto confini formali. Non potevano esserlo; il mondo arabo, anche nella sconfitta, rifiutava di ammettere il diritto all'esistenza di Israele.
Quinto, l'Olp, che era favorevole alla guerra, era stata creata nel 1964, tre anni prima dello scoppio del conflitto. È importante ricordarlo, perché fu creata proprio allo scopo di distruggere Israele. Difatti, nel 1964 gli unici "insediamenti" erano Israele stessa.
Sesto, nelle settimane precedenti la Guerra dei Sei Giorni, i leader egiziani e siriani dichiararono più volte che la guerra stava per scoppiare e che lo scopo era cancellare Israele dalla cartina geografica. Non c'erano dubbi. A ventidue anni dall'Olocausto, un altro nemico affermava la volontà si sterminare gli ebrei. È tutto documentato.
Ed è documentato anche il fatto che Israele, nei giorni prima della guerra, comunicò con la Giordania, tramite le Nazioni Unite e gli Stati Uniti, esortandola a rimanere al di fuori del conflitto imminente. Re Hussein di Giordania ignorò la richiesta israeliana, decidendo di legare il proprio destino alla Siria e all'Egitto. Le sue forze vennero sconfitte da Israele, e di conseguenza perdette il controllo della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Confessò in seguito che l'ingresso in guerra fu un grave errore.
Settimo, il presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser chiese il ritiro dall'area delle forze di pace dell'Onu, presenti nell'area dal decennio precedente allo scopo di prevenire conflitti. Le Nazioni Unite, vergognosamente e senza neanche la cortesia di consultare Israele, ubbidirono. In questo modo venne a mancare un cuscinetto tra lo schieramento degli eserciti arabi e le forze israeliane, in un Paese grande un cinquantesimo - il due per cento - dell'Egitto e largo appena 15 chilometri nel punto più largo.
Ottavo, l'Egitto bloccò il transito delle navi mercantili israeliane nel Mar Rosso, unico accesso marittimo di Israele per il commercio con l'Asia e l'Africa. Giustamente, Gerusalemme considerò questo gesto un atto di guerra. Gli Stati Uniti ed altri Paesi dissero di volersi unire per forzare il blocco, ma purtroppo alla fine non se ne fece niente.
Nono, la Francia, che era stata il fornitore principale di armi ad Israele, appena prima dello scoppio del conflitto di giugno annunciò il divieto di vendita di armamenti, mettendo Israele in una potenziale situazione di grave pericolo se la guerra si fosse protratta a lungo. Fu solo nell'anno successivo che si fecero avanti gli Stati Uniti a riempire il vuoto, fornendo armamenti vitali ad Israele.
E per finire, dopo aver vinto questa guerra per la propria esistenza, Israele sperò che i territori appena conquistati dall'Egitto, dalla Giordania e dalla Siria, potessero formare la base di un accordo di pace in cambio di terra. Misero in moto una trattativa informale. Ma il 1 settembre 1967 arrivò la risposta ufficiale da Khartoum, dove era in corso il Summit dei Paesi arabi. L'ormai famosa dichiarazione fu: "No alla pace, no al riconoscimento, no alle trattative con Israele".
A questi "no", ne sarebbero poi seguiti altri. Nel 2003, l'ambasciatore saudita presso gli Usa citato dal The New Yorker disse a proposito: "Mi si spezzò il cuore quando (il leader dell'Olp) Arafat non accettò l'offerta (di due stati, proposta da Israele con il supporto degli Usa nel 2001). Dal 1948, ogni volta che c'è un'offerta sul tavolo noi diciamo di no. Poi, quando diciamo di si, l'offerta non è più sul tavolo, e dobbiamo avere a che fare con un'offerta meno allettante. Non è forse giunta l'ora di dire finalmente sì?".
Oggi, alcuni stanno cercando di riscrivere la Storia. Vogliono far credere al mondo che c'era un tempo uno stato palestinese. Non c'era. Vogliono far credere al mondo che c'era un confine fissato tra quello Stato ed Israele, mentre c'era solo una linea di armistizio tra Israele e la Cisgiordania e Gerusalemme Est, entrambe sotto controllo giordano. Vogliono far credere al mondo che la Guerra del 1967 fu un atto bellicoso da parte di Israele. Fu invece un atto di autodifesa di fronte alle terrificanti minacce di annientamento dello Stato ebraico, oltre al blocco navale dello Stretto di Tiran, al ritiro avvenuto da un giorno all'altro delle forze di pace dell'Onu, ed allo schieramento delle truppe egiziane e siriane. Tutte le guerre hanno le loro conseguenze, e questa non fu un'eccezione. Ma gli aggressori non si sono presi le proprie responsabilità di fronte agli atti che hanno istigato. Vogliono far credere al mondo che gli insediamenti israeliani seguiti al 1967 sono l'ostacolo principale alla pace. E invece, la Guerra dei Sei Giorni è lì a dimostrare che il tema fondamentale è, ed è sempre stato, che i palestinesi e il mondo arabo devono decidere se vogliono accettare il diritto degli ebrei ad avere un proprio Stato. Se così è , allora qualunque, per quanto possa sembrare insormontabile, troverà soluzione. Se così non è, allora tutto può accadere. Vogliono anche far credere al mondo che il mondo arabo non ce l'ha con gli ebrei, ma solo con Israele, eppure hanno calpestato siti sacri al popolo ebraico, infischiandosene.
In altre parole, quando si tratta del conflitto arabo-israeliano, decidere di ignorare il passato come se questo fosse qualcosa di irritante, o addirittura di irrilevante, non serve a niente. Possiamo sperare in un futuro migliore? Sì, di certo. I trattati di pace siglati da Israele con l'Egitto nel 1979 e con la Giordania nel 1994 ne sono la riprova. Ma allo stesso tempo, le lezioni della Guerra dei Sei Giorni dimostrano quanto il percorso possa essere duro e tortuoso, e ci ricordano che la Storia è importante, davvero.
(*) Direttore esecutivo dell'American Jewish Committee
(L'Opinione, 7 giugno 2016)
Russia-Israele: importanti accordi verranno firmati durante visita di Netanyahu a Mosca
MOSCA - Il premier Netanyahu è giunto oggi a Mosca per dare il via ad una visita di due giorni in occasione dei 25 anni del ripristino dei rapporti bilaterali tra Russia e Israele. Quella iniziata oggi è la terza visita in pochi mesi da parte del capo del governo a Mosca, dove incontrerà il presidente russo Vladimir Putin. Alla vigilia del suo viaggio il premier israeliano ha dichiarato ai media che il riavvicinamento con la Russia contribuisce al rafforzamento della sicurezza nazionale e a prevenire scontri "inutili" ai confini settentrionali dello Stato ebraico, facendo riferimento alle tensioni nell'area tra il nord di Israele e il sud del Libano, controllato dalla milizia sciita di Hezbollah, sostenuta da Mosca. "La Russia è una potenza mondiale, e le nostre relazioni bilaterali sono sempre più strette", ha dichiarato Netanyahu. "Ho lavorato al riavvicinamento che oggi ci serve per la nostra sicurezza nazionale, per prevenire scontri inutili e pericolosi sul nostro confine settentrionale", ha precisato il premier.
(Agenzia Nova, 6 giugno 2016)
L'India adotta la tecnologia israeliana per l'agricoltura
Il Ministro indiano dell'Agricoltura Radha Mohan Singh ha recentemente comunicato che l'India utilizzerà la tecnologia israeliana per la conservazione dell'acqua ed altre tecnologia rurali per abbattere i costi di produzione e per aiutare la nazione a gestire meglio le sue risorse idriche.
La tecnologia agricola di Israele è nota in tutto il mondo. Israele, uno Stato dove la scarsità d'acqua è di grandi dimensioni, è emerso come uno dei principali produttori di frutta e verdura.
A tal proposito, l'omologo israeliano Uri Ariel ha detto che entrambi i paesi mostreranno al mondo come utilizzare l'acqua senza sprechi e ottenere più prodotti.
Siamo impegnati in accordi con l'India (nei settori dell'agricoltura e nella gestione delle risorse idriche). Sono felice che di vedere come entrambi i paesi si stiano avvicinando per sviluppare migliori pratiche agricole.
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Il Ministro dell'Haryana (uno stato dell'India settentrionale) Manohar Lal Khattar ha elogiato lo Stato di Israele per la sua tecnologia agricola. Infatti Khattar ha sottolineato come sia motivo di orgoglio che un certo numero di progetti siano stati eseguiti in Haryana in cooperazione con Israele.
La nuova tecnologia potrebbe aiutare l'intero stato.
(SiliconWadi, 6 giugno 2016)
Casale Monferrato - Mostra e concerto
CASALE-SINAGOGA E' stata una giornata dedicata decisamente alle arti quella che ha coinvolto la Comunità Ebraica di Casale Monferrato domenica 5 giugno. E' cominciata al mattino con l'inaugurazione della mostra "Un unico cielo" in Sala Carmi che raccoglie le opere di Carlo Pasini. Pasini è stato a lungo collaboratore di Aldo Mondino ed è un artista che ha preso molto della vena irriverente del proprio maestro. Lo abbiamo visto qualche anno va, sempre alla sala Carmi di vicolo Salomone Olper, cimentarsi con gli animali di una divertente arca di Noè, ora per questa mostra ha scelto un mezzo espressivo che aveva già sperimentato in parecchie occasioni: le puntine da disegno. E' fatto di migliaia di puntine il grande mandala tracciato sul pavimento che accoglie i visitatori rappresentando l'Uomo di Leonardo. Con una piccola provocatoria performance durante l'inaugurazione Pasini cancella con il piede, parte della cornice, quasi a volerlo liberare dalla sua gabbia geometrica. Sono enormi divertenti puntine conficcate nella pietra, anche le tre sedute dove l'artista si siede per presentare l'esposizione insieme a Daria Carmi e al curatore Carlo Pesce.
La sera alle 21 è invece la musica ad illuminare la Sinagoga. E' un evento eccezionale che raccoglie nella antica sala di preghiera alcuni dei più brillanti compositori, musicisti e critici subalpini: si festeggiano i 70 anni di Gilberto Bosco, insegnante per oltre trent'anni del corso di Composizione presso il Conservatorio di Torino e Teoria Musicale al DAMS di Torino. Per l'occasione un programma ricco di inediti affidato ad esecutori di eccezione.
Una serata che diventa una riflessione anche sulla musica contemporanea e sul suo ruolo, come sottolinea il musicologo Stefano Leoni, chiamato ad introdurre il programma. Le cinque opere che Bosco, presente tra il pubblico, offre per l'occasione testimoniano l'importanza di questo compositore che spesso gioca con temi romantici facendoli diventare piccoli, diafani divertimenti, impreziositi da abbellimenti quasi galanti, dove anche le dissonanze più dure si perdono in una tavolozza di timbri leggeri. Un omaggio a Mendelssohn per pianoforte, poi "Specchi", affidato alla chitarra di Andrea Monarda in prima assoluta. Seguono un bizzarro incrocio tra la fantasia e la passacaglia, sempre per chitarra, una deliziosa pagina di quaderno per pianoforte a quattro mani, infine un improvviso per clarinetto e pianoforte che evoca i più bei brani del '900 per questo strumento. Gli allievi di Bosco ricambiano portando tre regali, tutti da spacchettare ex novo.
Giulio Castagnoli, curatore anche della rassegna Suono e Segno in Sinagoga, riprende la propensione ai fraseggi sulle scale di Bosco con un "Alleluja" dove la maestosità delle omonime composizioni corali lascia il posto a una soave allegria celebrativa. Giuseppe Elos costruisce un Lied per clarinetto solo, mentre Alessandro Ruo Rui con "Dedica in A per G" costruisce una maestosa rapsodia per clarinetto e pianoforte in cui emerge tutto il virtuosismo di Sergio Delmastro, insegnante di clarinetto al conservatorio di Milano. I pianisti che si sono alternati per questa singolare festa sono stati Cecilia Novarino, Antonio Valentino e Claudio Voghera.
Alla fine lunghi applausi per tutti, una stampa di Luzzati per Bosco, e la promessa di ripetere questa festa a Torino. (a.a.)
ORARI MOSTRA - Domenica 10 - 12 /15 - 17. Gli altri giorni su appuntamento chiamando 0142 71807 Sabato chiuso. Domenica 12 giugno chiusura per festività. La mostra sarà visitabile fino a luglio.
(Il Monferrato, 6 giugno 2016)
Jovella, a luglio torna la fiera di Tel Aviv
Due giorni per la tredicesima edizione della fiera israeliana di gioielli e diamanti: oltre 100 espositori e due focus su design e vendita al dettaglio.
Si terrà il 4 e il 5 luglio a Tel Aviv la 13esima edizione di Jovella, expo internazionale di gioielli e diamanti che quest'anno torna alla sua location originale, il David Intercontinental Hotel, dopo essersi svolta, dal 2007, al Tel Aviv's Trade Fairs and Convention Center. L'evento leader del settore della gioielleria in Israele offre ai compratori nazionali ed esteri l'opportunità di esplorare le industrie di Israele, e di incontrare alcuni tra i designer e produttori più innovativi del Paese. La manifestazione è organizzata da Stier Group, in collaborazione con l'Israel Jewelry Manufacturers' Association, il Ministero israeliano dell'Economia, Israel Export and International Cooperation Institute e Israel Diamond Institute Group of Companies (IDI).
Oltre 100 espositori provenienti da Israele e da altri paesi metteranno in mostra diamanti sciolti, pietre preziose, gioielli in oro, gioielli in argento e gioielli fashion. Lo show sarà caratterizzato da una sezione speciale di giovani designer israeliani di gioielli, molti dei quali laureati presso le più importanti scuole di design di Israele. In passato Jovella ha attirato migliaia di visitatori professionali provenienti da Israele e all'estero, tra buyer, rivenditori, giornalisti e ospiti speciali.
Quest'anno la mostra ospiterà due conferenze tecniche: la Prima Conferenza per i designer di gioielli in Israele, organizzata in collaborazione con lo Shenkar College, si terrà il 4 luglio e sarà caratterizzata da sessioni tenute da esperti di design, tecnologia e marketing; la seconda Conferenza annuale per i rivenditori gioielli, organizzata con la Israel Jewelry Manufacturers Association, si terrà il 5 luglio, e comprenderà esperti di gemme e diamanti, progettisti e specialisti di vendita al dettaglio.
I gioielli israeliani sono conosciuti per il design fresco e alla moda, qualità eccellente e prezzi interessanti. Questi punti di forza hanno consentito al settore della gioielleria di fare notevoli passi avanti nei mercati internazionali: principale mercato di destinazione sono gli Stati Uniti, seguiti dall'Europa e dall'Estremo Oriente. Fette di mercato sono state conquistate anche in Russia, Inghilterra, Hong Kong, Canada, Belgio, Italia, Spagna, Francia, Giappone.
(Preziosa, 6 giugno 2016)
Botta e risposta in casa ebraica
Relazione conclusiva del Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna
Cari Consiglieri, cari amici,
siamo giunti al termine del mandato che è iniziato nel giugno del 2012 e questa è l'ultima riunione del Consiglio; siamo il primo Consiglio che ha sperimentato e collaudato gli effetti della riforma dello Statuto del 2010.
Su questa riforma, che ha creato il nostro piccolo Parlamento, ho ascoltato e ho letto le opinioni più disparate, sia positive che negative.
La mia valutazione è fortemente positiva perché ci ha dato la possibilità di vedere, per la prima volta, un ebraismo italiano unito e solidale, costantemente collegato e non solo nel corso degli incontri tra le ventuno Comunità in occasione dei Congressi.
Si compie tra pochi giorni il decimo anno della mia presidenza dell'Unione e voglio rendervi partecipi di alcune mie riflessioni e valutazioni di questi ultimi mesi, partendo da una breve introduzione di carattere personale.
Ho vissuto come un grande onore poter ricoprire per un periodo così lungo questa carica prestigiosa, significativa e coinvolgente per una persona come me che, per circa sessanta anni, ha lavorato per l'ebraismo e per le sue istituzioni, iniziando con le organizzazioni giovanili e proseguendo con il Consiglio della Comunità di Roma.
Ringrazio voi che avete onorato l'impegno assunto, voi che avete ricoperto attivamente, fino ad oggi, la carica alla quale siete stati eletti, per la possibilità che mi avete dato, accordandomi la vostra fiducia, di vivere questa esperienza entusiasmante, senza mai lasciarmi solo, ma condividendo tutte le responsabilità, anche e soprattutto nei momenti più difficili; rivolgo quindi un sentito ringraziamento a tutti voi Consiglieri, membri di Giunta e professionali, che ci avete affiancato.
Attraverso le riflessioni di questi ultimi mesi sono giunto anche alla conclusione che tutti conoscete, perché non ne ho mai fatto mistero, di non ripresentare la mia candidatura per le prossime elezioni del 19 giugno 2016.
Non sono né stanco né deluso, al contrario sono sereno e orgoglioso del lavoro svolto, ma sono certo che sia giunto il momento migliore per facilitare e assecondare un tranquillo e democratico ricambio al vertice dell'Unione e ritengo che abbia un preciso e positivo significato che il ricambio non avvenga sotto la pressione di fattori esterni, ma per una mia precisa scelta di chiudere una stagione della mia vita, favorendo un avvicendamento nella continuità e anteponendo così il bene dell'Unione e dell'ebraismo italiano a qualsiasi altra considerazione.
Nel redigere questa relazione conclusiva ho pensato che fosse utile una sintetica trattazione dei temi che considero attuali nel periodo storico che stiamo attraversando.
Tutte le Costituzioni degli Stati democratici sono ispirate e contengono il principio della laicità, inteso come netta separazione tra lo Stato e le Istituzioni e le organizzazioni confessionali.
In ogni caso una netta distinzione tra leggi civili e regole religiose, storicamente, si è sempre rivelata la più forte garanzia per il rispetto dei principi di libertà ed eguaglianza, soprattutto per le minoranze, in quanto nessuna ideologia o religione può essere privilegiata o sfavorita.
Viene spontaneo domandarci se queste concezioni della democrazia e della laicità siano ancora attuali di fronte alle grandi sfide che l'umanità si trova a fronteggiare e che derivano dalla coesistenza all'interno delle stesse entità nazionali e sovranazionali, di identità, etnie e religioni che si riconoscono in principi e valori tra loro contrastanti.
Se ogni comunità esistente all'interno dello stesso contesto sociale pretendesse di rimanere chiusa in sé stessa e tesa a realizzare al proprio interno una totale omogeneità di idee e di comportamenti, sarebbe inevitabile un progressivo irrigidimento delle posizioni e un'accentuazione dei contrasti e dei rischi di conflitto.
È necessario che nelle società contemporanee si proceda a un aggiornamento di questi principi; non sembra più sufficiente che gli Stati garantiscano la libertà e l'eguaglianza fra i cittadini, si sente la necessità che si fissino anche le regole e si garantisca la possibilità che tra le varie componenti si svolga un pacifico e produttivo scambio culturale.
Nel secolo scorso milioni di ebrei sono emigrati o fuggiti verso l'Europa occidentale, le Americhe ed Israele divenendo parte integrante e costitutiva di società nelle quali è certo indispensabile conservare la propria identità, ma anche uscire fisicamente e psicologicamente dai ghetti, imparare a convivere, comunicare, integrarsi in società libere e aperte nelle quali, in senso non retorico e non teorico, la varietà è vera ricchezza e le diverse ideologie, teologie e tradizioni convivono in pace, con pari dignità e reciproco rispetto.
L'ebraismo deve conservare le sue caratteristiche originarie di rifiuto di qualsiasi forma di idolatria e di conciliare rigore e flessibilità, lasciando, come il Talmud insegna, ampi spazi alla dissertazione filosofica, alla ricerca scientifica e alla libertà di interpretare e sviluppare il dibattito come valore positivo e irrinunciabile, rispettando le diverse correnti di pensiero, ma conservando sempre la capacità di riportare tutto all'unità.
Le forme di chiusura e ripiegamento in se stessi, adottate nei secoli scorsi dai nostri antenati per autodifesa, appaiono superate, inutili e dannose in un mondo globale nel quale confini e barriere si sono fortemente affievoliti e non esistono più microcosmi impenetrabili e incontaminabili.
Un futuro dell'ebraismo che sia degno dei suoi valori universali e delle sue gloriose e plurimillenarie tradizioni non potrà esistere senza l'uscita da qualsiasi forma di isolamento, uscita alla quale siamo insistentemente chiamati dalle società contemporanee e democratiche nelle quali viviamo e delle quali siamo parte integrante.
Sarebbe un'illusione antistorica, un errore fatale, la perdita di un'occasione unica, e forse irripetibile, se ci sottraessimo all'apertura e al confronto che, si badi bene, sono cose ben diverse, anzi opposte, all'assimilazione; sono infatti prove di fiducia in noi stessi e stimoli al rafforzamento della nostra cultura e della nostra identità per poter essere all'altezza di qualsiasi sfida o confronto e in tal modo sconfiggere, una volta per tutte, quell'insegnamento del disprezzo che non è ancora completamente debellato.
Per noi è opportuno e necessario uscire dai porti, solo apparentemente sicuri, staccarci dagli ormeggi fissi e statici e affrontare coraggiosamente il mare aperto guidati con prudenza e con saggezza dai nostri Maestri; navigare nel mare aperto può sempre comportare rischi e riservare sorprese, ma non esistono alternative se si vuole continuare a partecipare e contribuire, come protagonisti, all'evoluzione della civiltà contemporanea e al tempo stesso riscoprire continuamente la nostra forza interiore.
La nostra forza dovrà esprimersi, d'ora in avanti, indirizzando il nostro popolo fuori e lontano dai ruoli contraddittori che chi non ci ama tende da secoli ad attribuirci, di vittime, di sfruttatori, di arroganti e spietati usurpatori.
Noi ebrei, anche sulla base della nostra esperienza storica, dovremmo rifuggire da qualsiasi tentazione all'estremismo, alla faziosità, alla chiusura in noi stessi, all'isolamento culturale, al verbo unico, ai dogmi; dovremmo combattere il fascino insidioso della demagogia ideologica e verbale, sia teorica che pratica.
Estremismo e demagogia sono figli della paura e si nutrono di banali, arbitrarie e volgari semplificazioni, alterano le relazioni umane, inducono al pregiudizio e all'odio nei confronti del diverso, stimolano alla continua e perenne ricerca di nemici veri o immaginari, alla diffidenza verso gli amici, all'alterata visione di una realtà sempre e solo bianca o nera, senza sfumature.
L'estremismo del linguaggio, l'uso sconsiderato di provocazioni verbali, non toccano solo aspetti di pura forma perché producono effetti traumatici e danni reali e concreti, sviluppano la tendenza a demonizzare non solo gli avversari, ma spesso anche gli amici se chiedono uno spazio per il dialogo o una maggiore apertura.
Se un simile degrado si presentasse fra noi dovrebbe essere duramente contrastato ricordandoci che, secondo le Legge ebraica, nessuno ha il diritto di affermare di essere un'autorità suprema depositaria della verità e che nessuno è titolare del potere assoluto e indiscutibile di accogliere o di escludere chiunque.
Fondamentalismo e integralismo non sono termini equivalenti, anche se frequentemente vengono abbinati e confusi.
La differenza emerge chiaramente se si risale alla loro origine storica ed etimologica.
Nonostante le differenze, sia il fondamentalismo che l'integralismo, aspirano alla costruzione di società e di stati teocratici nei quali tutti i poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale siano ispirati e sottomessi a un solo potere religioso.
Appare ogni giorno più evidente quali siano le drammatiche conseguenze che derivano dal rifiuto dei principi di democrazia e di laicità dello Stato, i soli che possono assicurare parità di diritti e dignità fra maggioranze e minoranze, fra credenti e non credenti, fra cittadini e stranieri.
Non ho la pretesa di aver esaurito gli importanti argomenti che ho appena accennato ma il mio compito era oggi di sottoporvi una relazione che contenesse una sintesi delle linee guida che hanno ispirato la mia e la nostra azione negli ultimi quattro o dieci anni e che fossero, a mio giudizio, ancora validi e attuali per l'immediato futuro.
Grazie per l'attenzione e la pazienza con le quali mi avete ascoltato.
Renzo Gattegna
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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Osservazioni del Consiglio dell'Assembla rabbinica italiana
Nell'ultima riunione del Consiglio UCEI, il Presidente avv. Gattegna, al termine del suo mandato di dieci anni di presidenza, ha letto una relazione conclusiva. Desideriamo in primo luogo esprimere la nostra gratitudine per l'impegno disinteressato di tutti i Consiglieri e in particolare al presidente uscente, che non intende continuare la sua attività, per la sua lunga militanza disinteressata e appassionata a favore dell'ebraismo italiano. Il rispetto e la gratitudine sono fuori discussione ma questo non può cancellare opinioni e visioni anche molto diverse, valutazioni critiche di impostazioni e risultati che devono fare parte di un sano dibattito per il bene comune. È proprio quanto lo stesso presidente afferma nel suo invito al dialogo che deve essere condotto rifiutando estremismo, demagogia, provocazione e demonizzazione dell'avversario, regola che ovviamente deve valere per tutti.
Per questo spirito dialogico riteniamo che non possano essere passate sotto silenzio alcune affermazioni contenute nella relazione del presidente. Da questa sembra emergere, come punto centrale del messaggio, il rifiuto dell'isolamento contro "le forme di chiusura e ripiegamento in se stessi, adottate nei secoli scorsi dai nostri antenati per autodifesa" e che, a detta del presidente, "appaiono superate, inutili e dannose in un mondo globale nel quale confini e barriere si sono fortemente affievoliti e non esistono più microcosmi impenetrabili e incontaminabili". Desideriamo premettere che il giudizio espresso sulle strategie adottate in passato dai nostri Maestri per mantenere vivo e vitale l'ebraismo, preservando negli ebrei un'identità forte e una dignità tenace, ci pare approssimativo e fuorviante rispetto a quanto possiamo tuttora recepire del loro esempio e insegnamento. A parte questo punto preliminare, ciò che ci preoccupa nell'impostazione del messaggio del presidente uscente è prima di tutto la centralità di questo discorso, che sembra l'unico tema programmatico. La realtà critica dell'ebraismo italiano che si contrae demograficamente ogni giorno dovrebbe essere al centro di una relazione presidenziale e di qualsiasi progettazione comunitaria e dell'UCEI. Spostare l'attenzione al confronto con l'esterno pone delle serie domande. E non si dica che la preoccupazione per il nostro interno e il nostro futuro è ovvia e implicita. O peggio che "l'uscita dal l'isolamento ", quando poi questo isolamento è solo un mito, rappresenti la cura del problema.
A parte la centralità del tema nella relazione, c'è da commentare anche nel merito dell'argomento. Che non ha niente di nuovo. Certe cose le hanno dette già ai tempi dello statuto albertino o quando i bersaglieri sono entrati a Porta Pia. Con quali risultati per la nostra sopravvivenza e con quante illusioni e tragiche disillusioni si può discutere. Lo schema e l'opposizione proposta dal presidente, tra chiusura e apertura, proprio alla luce della attualità e globalità è infondato, superato, banale e rischioso. Il confronto con il mondo non ebraico non è un obiettivo da ricercare così ansiosamente perché fa già parte della nostra realtà quotidiana, ci dobbiamo invece preoccupare di come fornire al pubblico delle Comunità ed ai giovani in particolare quelle esperienze di vita ebraica e quelle conoscenze di ebraismo che sono indispensabili, innanzitutto per l'esistenza stessa delle Comunità e in secondo luogo per affrontare con concretezza e consapevolezza il dialogo con l'esterno.
Vorremmo quindi ricordare a tutti che cosa tiene viva una comunità ebraica. Non la tiene viva, al contrario di ciò che sembra pensare il presidente, un dibattito pseudo-filosofico che riguarda poche persone che non incide sulla vita comunitaria. Ciò che tiene viva una comunità è l'educazione ebraica, la scuola, il Talmud Torà, il Bet Midrash. L'educazione ebraica potrebbe far fare un salto di qualità anche al dibattito permettendo, per esempio, di parlare di tradizione ebraica avendo conoscenza del testo e delle fonti. Una comunità è viva se ci sono Battè Kenesset funzionanti, se ci si occupa di chi è in difficoltà, se si ha un'idea di quale sia un possibile futuro delle attività giovanili. Abbiamo l'impressione che di tutto questo ci si occupi troppo poco. Pensiamo, nel pieno rispetto delle differenti opinioni e identità e senza ignorare il rapporto con l'esterno, alle nostre vere priorità, alla necessità di educare e investire nelle nostre Comunità e nel nostro futuro. Speriamo che il nuovo Consiglio dell'UCEI ribalti finalmente la prospettiva.
Il Consiglio dell'Assembla rabbinica italiana
(Alfonso Arbib, Riccardo Di Segni, Alberto Funaro, Adolfo Locci, Giuseppe Momigliano)
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Replica del Presidente uscente
La relazione che ho presentato al Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane riunito il 15 maggio 2016 non è un programma elettorale, né un resoconto dettagliato del lavoro svolto nella qualità di Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ma un messaggio di saluto e di commiato alla vigilia della scadenza del mio mandato di presidente, iniziato nel 2006 e durato dieci anni.
Il documento da me redatto non contiene nulla di nuovo e non è rivolto contro nessuno; ha il carattere di una mia riflessione, aderente e coerente con tutto ciò che ho dichiarato e scritto negli anni trascorsi e con tutte le delibere adottate dal Consiglio e dalla Giunta a larga maggioranza, anche con il voto favorevole dei rabbini. Il fine che mi sono posto è stato, come sempre, quello di rafforzare l'identità e la cultura ebraica, oltre al prestigio delle Comunità ebraiche di fronte alle istituzioni del nostro Paese e ai nostri concittadini.
Con sorpresa e amarezza mi trovo a dover prendere atto che il mio messaggio di carattere generale finalizzato all'unità e alla concordia è stato letto e frainteso dal Consiglio dell'Assemblea Rabbinica Italiana, che ha così trasformato un'occasione di dibattito sereno e costruttivo in una polemica aperta, nella quale mi vengono attribuiti intenti, tesi, progetti e opinioni che non ho mai avuto, professato, espresso o posto in essere.
Parlare di apertura verso la società italiana non significa abbandonare o trascurare la propria identità e la propria cultura, né equivale a proporre di eliminare il perimetro che definisce l'ebraismo italiano, che si riconosce nella tradizione e nell'Halakhà, così come esplicitato nel nostro Statuto; anzi, è vero l'esatto contrario, perché l'apertura e il confronto con l'esterno si basano sul rafforzamento della nostra cultura e della nostra identità.
Rileggendo il testo del Consiglio dell'ARI ho potuto notare che in un primo momento viene testualmente riportato, con riferimento alla chiusura in autodifesa, il termine "antenati", presente nella mia relazione; tuttavia nel seguito viene usato quale sinonimo il termine "Maestri", distorcendo così il mio pensiero.
Come si può comprendere dalla lettura della relazione, inoltre, non ho mai pensato di giudicare, tanto meno negativamente, le strategie adottate in passato dai nostri antenati - verso i quali siamo tutti debitori - per mantenere vivo e vitale l'ebraismo.
In un altro passaggio della mia relazione non citato nel comunicato dell'ARI, infine, ho scritto che "occorre affrontare coraggiosamente il mare aperto, guidati con prudenza e con saggezza dai nostri Maestri".
Ma il comunicato del Consiglio dell'ARI, costituisce soprattutto un pericoloso precedente. Per il suo contenuto e per la scelta dei tempi e delle modalità di diffusione, esso costituisce, a mio avviso, un intervento imprudente e improprio, nella campagna elettorale che è in pieno svolgimento.
L'auspicio finale con il quale si conclude il comunicato, che "il nuovo Consiglio dell'UCEI ribalti finalmente la prospettiva" dei Consigli precedenti, rischia di minare l'immagine di una Rabanut indipendente, che costituisce un pilastro fondamentale per la nostra vita comunitaria.
Peccato che siano stati sottovalutati gli effetti dannosi derivanti dall'accentuazione di divisioni e di contrapposizioni nell'ambito dell'ebraismo italiano e che ciò venga fatto lanciando accuse prive di fondamento, come quella di dedicare attenzione all'apertura verso la società e di trascurare la cultura ebraica. L'infondatezza di questa affermazione è facilmente verificabile prendendo in esame i progetti, le realizzazioni e i bilanci dell'UCEI degli ultimi anni.
Ritengo molto pericoloso dare maggior valore alle promesse elettorali invece che ai fatti concreti portati avanti con coerenza, con continuità, con efficacia e correttezza per molti anni.
La correttezza economica, amministrativa e contabile, inoltre, non è un fattore di secondaria importanza, tanto più per un ente che deve gestire fondi provenienti dallo Stato italiano e da cittadini italiani tramite l'8 per mille. Al contrario sono un'esigenza precisa e irrinunciabile sul piano operativo e sul piano etico; ciò è apparso in grande evidenza a seguito di fatti e situazioni di criticità emerse nell'ambito delle Comunità e degli enti dalle stesse vigilati.
Negli ultimi anni sono stato attaccato violentemente e proditoriamente, anche tramite social network e in altre sedi dove non mi è possibile replicare, con messaggi volti a delegittimare gli organi dell'UCEI e con messaggi calunniosi contenenti falsità e ingiurie.
Sapere, ora, che chi ha cercato di delegittimare la rappresentanza dell'UCEI sta utilizzando il messaggio dell'ARI per la campagna elettorale, non fa che confermare la fondatezza delle mie preoccupazioni.
Auspico che i membri dell'ARI vogliano prenderne le distanze con chiarezza.
Spero che il nuovo Consiglio dell'UCEI che emergerà dalle elezioni del 19 giugno prossimo, non ribalti, ma prosegua nelle prospettive portate avanti negli ultimi mandati, che sono stati dedicati soprattutto all'educazione, alla cultura e alla larga ed efficace diffusione di entrambe nel rispetto di un'equa e corretta ripartizione delle risorse disponibili e delle regole previste dalle leggi, dall'Intesa e dallo Statuto.
Ritengo di concludere dieci anni di presidenza consegnando a chi mi succederà un'Unione più forte, più moderna, meglio organizzata, più rappresentativa di tutte le Comunità e più prestigiosa. Tutto ciò che abbiamo conquistato è il frutto di un durissimo lavoro svolto con senso di responsabilità dai Consiglieri, dai membri di Giunta e dai Rabbini, che colgo l'occasione per ringraziare sentitamente.
L'unico riconoscimento che pretendo per chi ha collaborato alla realizzazione di tutto ciò è il rispetto da parte di tutti.
Renzo Gattegna
Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(Fonte: moked, 6 giugno 2016)
Scomunicato il «gruppo» di Gallinaro
di Augusto Cinelli
«Le iniziative della sedicente organizzazione pseudo religiosa denominata"Chiesa cristiana universale della nuova Gerusalemme" sono in assoluta opposizione alla dottrina cattolica e pertanto nulla hanno a che fare con la grazia della fede e della salvezza affidate da Gesù Cristo alla Chiesa fondata sulla salda roccia dell'apostolo Pietro. Si invitano tutti i fedeli al dovere della vigilanza e del saggio discernimento per evitare ogni forma di coinvolgimento in tale movimento e si rammenta che i fedeli che aderiscono alla suddetta sedicente "chiesa" incorrono, a norma del canone 1364 del Codice di diritto canonico, nella scomunica latae sententiae per il delitto canonico di scisma».
È quanto afferma in un comunicato ufficiale la Curia vescovile della diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo nei confronti del gruppo denominato "Bambino Gesù di Gallinaro" o "Nuova Gerusalemme" che il 4 ottobre 2015, con atto notarile, si è costituito in organizzazione pseudo religiosa con il nome di "Chiesa cristiana universale della nuova Gerusalemme". Il comunicato, firmato dai vicari generali monsignor Antonio Lecce e monsignor Fortunato Tamburrini, è stato reso noto domenica scorsa e, per disposizione del vescovo Gerardo Antonazzo, letto in tutte le chiese della diocesi al fine di salvaguardare il bene superiore della Chiesa e dei singoli fedeli.
La Nota rimarca che il gruppo in questione «è impegnato a diffondere in diverse località dottrine falsamente religiose e insegnamenti biblici distorti ed estranei alla verità dei testi sacri».
Richiamando una Notificazione della Curia diocesana del 9 ottobre 2001, che prendeva le distanze da ogni approvazione del suddetto fenomeno religioso, si ribadisce che «la posizione dottrinale di tale gruppo è dichiaratamente contraria alla fede cattolica, in quanto obbliga i fedeli a non frequentare i sacramenti, a disapprovare gli insegnamenti e la stessa autorità del Papa, a non avere relazioni con i sacerdoti e le rispettive comunità parrocchiali, a trasgredire la disciplina ecclesiastica».
A tutto questo si è aggiunto «il gravissimo abuso» della costituzione in nuova organizzazione, palesemente scismatica, «sottoposto all'esame della Congregazione per la Dottrina della fede, competente in materia» che ha chiesto alla diocesi di intervenire affinché «tutti i fedeli siano informati sugli errori dottrinali di tale atto scismatico e sulle conseguenze disciplinari canoniche che ne derivano».
Allo scopo di sottolineare la natura medicinale della gravissima sanzione della scomunica, il vescovo Antonazzo, avvalendosi delle sue facoltà, ha concesso a tutti i sacerdoti in servizio pastorale nella diocesi la facoltà di rimettere in foro interno, all'atto della celebrazione del sacramento della penitenza, la censura della scomunica latae sententiae a coloro che intendano.
(Avvenire, 6 giugno 2016)
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Le eresie della Chiesa Universale Romana
di Marcello Cicchese
Nulla da dire sulla libertà dell'organizzazione religiosa cattolica di espellere dalle sue fila chi non ritiene in linea con le sue dottrine. E neppure si ha intenzione di difendere gli insegnamenti - che non si conoscono e certamente non si vogliono difendere - dell'organizzazione religiosa scomunicata.
Quello che da parte evangelica si può dire è che la motivazione addotta, cioè che il gruppo scomunicato «è impegnato a diffondere in diverse località dottrine falsamente religiose e insegnamenti biblici distorti ed estranei alla verità dei testi sacri», si può applicare parola per parola anche a quel grande gruppo religioso che ha il suo centro nello Stato del Vaticano.
Proponiamo la lettura di una "Lista di eresie della Chiesa Cattolica Romana".
Il documento curiale sopra citato afferma inoltre che «la posizione dottrinale di tale gruppo è dichiaratamente contraria alla fede cattolica, in quanto obbliga i fedeli a non frequentare i sacramenti, a disapprovare gli insegnamenti e la stessa autorità del Papa, a non avere relazioni con i sacerdoti e le rispettive comunità parrocchiali, a trasgredire la disciplina ecclesiastica». Si può dire allora che le stesse parole possono essere applicate a tutti i gruppi cristiani evangelici degni di questo nome. Perché allora il papa, per amore della verità e della sana dottrina, non fa in modo che «tutti i fedeli siano informati sugli errori dottrinali» dei cristiani non cattolici e messi in guardia contro di loro, ma è pronto ad abbracciare tutti i "fratelli separati" sostenendo che in sostanza abbiamo la stessa fede, e dobbiamo cercare l'unità e accoglierci gli uni gli altri? Perché quelli che stanno di fuori sono invitati e quelli che stanno di dentro sono minacciati? Il motivo è semplice: si blandiscono quelli di fuori per attirarli e si minacciano quelli di dentro per intimorirli. Lo scopo unico è sempre lo stesso: salvaguardare l'interesse dell'organizzazione ecclesiastica cattolica romana. Non è la verità il centro dellinteresse di quellorganizzazione religiosa, ma è lei stessa che si considera il centro della verità intorno al quale tutti devono girare: "fratelli separati", ebrei, islamici, religiosi di ogni tipo, laici e atei.
Ben venga dunque questa scomunica se serve non tanto a colpire una piccola setta che comunque avrebbe attirato poche persone, ma soprattutto a far capire meglio che cos'è la grande setta che si presenta come l'espressione autentica del cristianesimo.
Queste parole possono apparire frutto di una viscerale antipatia per un mondo religioso a cui non si appartiene più, ma sono invece doverose per chiunque si voglia presentare agli altri, a cominciare dagli ebrei, come cristiano evangelico assolutamente convinto della verità che è in Gesù Cristo come presentato nei Vangeli, e non come è stato deformato e strumentalizzato da un'organizzazione religiosa che per il fatto di essere molto grande non cessa di essere anche lei una setta.
(Notizie su Israele, 6 giugno 2016)
Il boicottaggio contro Israele funziona?
A guardare le cifre no, per ora: gli investimenti stranieri in società israeliane aumentano e l'economia va meglio che in Europa e Stati Uniti. Il fisico Stephen Hawking ha disertato una conferenza ospitata a Gerusalemme dal presidente di Israele, la cantante americana Lauryn Hill ha cancellato un concerto a Tel Aviv e un grande fondo pensionistico dei Paesi Bassi ha inserito cinque banche israeliane nella propria lista nera: questi esempi dimostrano come il movimento internazionale per isolare Israele stia guadagnando terreno. Esaminando i flussi di capitali stranieri nel paese, tuttavia, si nota la tendenza opposta: gli investimenti stranieri in asset israeliani crescono molto e l'anno scorso hanno registrato un record, raggiungendo 252,40 miliardi di euro, quasi il triplo rispetto al 2005, quando un gruppo di palestinesi fondò il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).
«In Israele non abbiamo un problema con gli investimenti stranieri, al contrario», ha detto Yoel Naveh, economista capo del ministero delle Finanze israeliano. Secondo società che gestiscono titoli finanziari, economisti e funzionari del governo, gli asset israeliani sarebbero un'alternativa invitante rispetto a quelle deludenti di altri paesi. L'economia israeliana sta rallentando, ma cresce comunque più velocemente di quella statunitense ed europea e offre un tasso d'interesse più alto. Molte persone, inoltre, respingono le idee che stanno alla base del boicottaggio di Israele, e cioè che gli investimenti nel settore dell'innovazione e in quello del gas naturale israeliani siano una violazione dei diritti dei palestinesi, e che i misfatti israeliani siano tali da giustificare un'azione di questo tipo.
Stando alla previsioni, quest'anno l'economia israeliana crescerà più di quella statunitense ed europea (del 2,8 per cento contro il 1,8). Nel 2015 le esportazioni israeliane nel settore tecnologico sono cresciute del 13 per cento rispetto all'anno precedente, superando l'equivalente di 20,9 miliardi di euro, secondo l'Istituto per le Esportazioni e la Cooperazione Internazionale israeliano. Negli ultimi dieci anni l'indice BlueStar Israel Global, che valuta le società israeliane quotate a livello internazionale, è raddoppiato, superando anche l'aumento del 21 per cento del MSCI ACWI, l'indice di riferimento per i mercati emergenti e sviluppati. Nonostante l'apprezzamento della valuta israeliana, lo shekel - segno della fiducia degli investitori stranieri - secondo i dati raccolti dal centro di ricerca IVC l'anno scorso le start-up israeliane hanno raccolto 3,31 miliardi di euro da investitori non israeliani, la cifra annuale più alta da dieci anni a questa parte. Gli investitori stranieri, da cui provengono almeno metà degli investimenti annuali totali nelle start-up israeliane, hanno speso altri 5,21 miliardi di euro per acquisire start-up nel paese. L'acquisto per 451 milioni di euro di Lumenis da parte di XIO Group, una società cinese specializzata in acquisizioni, è stato seguito da diverse fusioni e acquisizioni nel settore hi-tech israeliano, e dall'acquisto per 387 milioni di euro di ClickSoftware Technologies da parte di una società di private equity americana (le acquisizioni non sono considerate parte degli investimenti stranieri nelle start-up).
(Fonte: il Post, 6 giugno 2016)
Giornata di Gerusalemme, polizia in allerta
Anniversario della Guerra dei Sei giorni
Forte tensione si avverte oggi a Gerusalemme nell'anniversario della guerra dei sei giorni (1967) in cui Israele estese il proprio controllo al settore arabo della città (allora sotto regime giordano), e nella imminenza del digiuno islamico del Ramadan. Milleduecento agenti di polizia sono stati predisposti per impedire incidenti in quella che Israele definisce la 'Giornata di Gerusalemme'. Per festeggiare l'evento in serata migliaia di nazionalisti ebrei attraverseranno la città diretti nella Città vecchia, passando anche in quartieri fittamente abitati da palestinesi. L'itinerario della manifestazione e' stato esaminato oggi dalla Corte Suprema di Gerusalemme che ha chiesto alla polizia di far si' che alle 19.30 - quando cioè sarà imminente la proclamazione del Ramadan - tutti gli ebrei abbiano abbandonato i rioni palestinesi. Intanto leader religiosi musulmani hanno lanciato appelli ai fedeli affinchè presidino in la Spianata delle Moschee per prevenire ''provocazioni di coloni israeliani''.
(ANSA, 6 giugno 2016)
Oltremare - Concerti
di Daniela Fubini, Tel Aviv
In Israele è veramente facile sentirsi al centro di tutto, ombelico del mondo, occhio del ciclone. Siamo sempre in prima pagina, e sempre punto cardine dell'ordine mondiale, o almeno medio orientale, ma visto che il petrolio è qui in zona non si sa bene quale sia la differenza. Poi arriva l'estate. Non una semplice stagione, al di là della oggettiva stagionalità delle ondate di chamsin, delle tempeste di sabbia o di cavallette, degli scioperi dei bagnini, e degli arrivi in massa dei francesi. L'estate è il momento in cui ogni israeliano dovrebbe fare i conti con la triste realtà che Israele è con assoluta evidenza la periferia dell'Impero.
Altrimenti, verrebbero qui a sfidare ogni BDS estiva saltellando su palchi accaldati dei cantanti sotto i 65 anni, di cui qualcuno (siamo oltre otto milioni perbacco) si ricorda ancora più di un singolo ritornello. Con l'eccezione di Sir Elton John, va detto, e per gli italiani veri, di Ramazzotti che magari non è una celebrità globale, ma almeno ha uno stile riconoscibile, ultimamente attraccano al nostro isolotto gli sconosciuti e i tramontati. Di recente sono pubblicizzate come novelli Beatles oscure band come i Foreigner. Foreigner? Silenti all'appello della memoria, per quanto mi concerne. Pare arrivino anche i Simply Red, ma come Leonard Cohen qualche anno fa, non vale perchè il leader oltre ad essere "gingy" (rosso di capelli) è anche dei nostri. Qualcuno ha rispolverato i Deep Purple, che essendosi formati come band nel 1968 fanno diretta concorrenza a Matusalemme e ciò forse spiega perchè arrivino qui.
Si potrebbe avanzare la teoria che questi anziani musicisti vengano in Israele con un secondo fine. Non essendo la politica (quasi nessuno apre bocca su alcunché di politico, una volta atterrati), potrebbe essere invece qualcosa di molto più salvifico. No, non un giro di luoghi santi. Neanche ritiri cabalistici biancovestiti. Molto di più: cure mirate dei reumatismi nel deserto, o rivitalizzazione della pelle al Mar Morto. Ecco, questo sì supera ogni BDS. Temo faccia poco per la qualità della voce, ma non si può avere tutto.
(moked, 6 giugno 2016)
Imam reclutavano deboli di mente per la guerra santa
Arresti in Spagna
di Luigi Guelpa
Giovani disabili addestrati alla guerra santa. E l'estrema frontiera jihadista, quella che passa sopra l'ultimo brandello di umanità. Sabato il nucleo antiterrorismo spagnolo ha arrestato tre imam origina del Marocco, uno a Ceuta e gli altri due a Barcellona. Ufficialmente gestivano due scuole coraniche, ma in realtà approfittavano della presenza di oltre duecento allievi dai 5 ai 16 anni per far loro il lavaggio del cervello e convincerli a combattere la jihad.
Come rivelato dai magistrati di Barcellona, i tre imam facevano leva su ragazzini con disabilità mentale, «approfittando della loro fragilità per trasformarli in macchine da guerra». I reclutatori spiegavano agli allievi che non era necessario recarsi sui fronti di Siria o Iraq, ma che «si poteva glorificare Allah annientando il nemico in Spagna». Le segnalazioni di alcuni genitori, preoccupati dagli strani discorsi dei figli, hanno indotto gli inquirenti a nascondere telecamere nelle scuole e incastrare Youssef Touleb, Mostapha Touzani e Abdel Laddaben, gli ultimi due con trascorsi sul fronte di Aleppo con le milizie di Al Baghdadi.
Nel corso delle indagini è stata fermata a Barcellona anche una giovane algerina, Miriam El Hayadi, incaricata dagli uomini del Califfato di arruolare ragazzine tramite i social. Alle giovani veniva promesso un compenso di 800 euro al mese per raggiungere le terre dell'Isis e diventare fidanzate e mogli dei guerriglieri jihadisti.
I tentacoli dell'Isis colpiscono su tutti i fronti. Ieri un attacco armato in Kazakistan ha causato sei morti. È accaduto ad Akobe, città industriale a 100 chilometri dal confine con la Russia. Secondo la ricostruzione un commando di giovani tra i 24 e i 30 anni ha svaligiato un negozio di armi della città per poi attaccare una postazione militare. Negli scontri a fuoco sono rimaste uccise sei persone e ferite altre 11. La polizia kazaka ha confermato in serata che si è trattato di un attacco da parte di «seguaci di movimenti religiosi radicali vicini al Califfato».
(il Giornale, 6 giugno 2016)
Sarfatti e Raphael, donne ebree a Roma negli anni Trenta
ROMA - «Le donne ebree e gli Anni 30 a Roma» è il tema del convegno ispirato alla storia di Margherita Sarfatti e Antonietta Raphael, due importanti donne ebree durante l'epoca fascista, entrambe protagoniste dell'arte e della cultura italiana (e non solo) dell'epoca, benché su posizioni politiche diverse. Relatori del convegno in programma oggi alla Temple University, dalle 18 alle 20, lungotevere Arnaldo da Brescia 15 sono quattro donne che hanno studiato o hanno avuto legami personali con Margherita Sarfatti e Antonietta Raphael o con il periodo politico culturale degli anni Trenta. La professoressa Anna Foa, studiosa della storia ebraica moderna e autrice di numerosi libri, tra cui «Portico d'Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del '43» (Laterza), la storica dell'arte Rachele Ferrario, autrice della biografia di recente pubblicazione «Margherita Sarfatti. La regina dell'arte nell'Italia fasci sta» (Mondadori) approfondiranno l'arte, la politica e la difficile storia del periodo. Insieme a loro partecipano Giulia Mafai, costumista e figlia di Antonietta Raphael e Mario Mafai, e Magali Sarfatti Larson, sociologa e nipote di Margh erita Sarfatti, testimonieranno le loro esperienze personali.
(Corriere della Sera - Roma, 6 giugno 2016)
Pena di morte in Medioriente: a Gaza si usa, in Israele c'è chi la invoca
di Riccardo Noury
La mattina del 31 maggio, nella Striscia di Gaza, sono state eseguite le prime tre di 13 condanne a morte annunciate dall'amministrazione di Hamas. Le altre 10 dovrebbero aver luogo alla fine del mese sacro di Ramadan.
Per giustificare il ritorno della pena di morte il numero due di Hamas, Ismail Haniyeh, ha fatto ricorso a un argomento la cui fondatezza non è mai stata verificata e cui non crede quasi più nessuno neanche negli Stati Uniti: che, nei confronti del crimine, il boia abbia un effetto deterrente maggiore rispetto a quello di ogni altra pena. I tre uomini messi a morte la settimana scorsa erano colpevoli di omicidio.
Chi scrive ripudia per motivi di principio la pena di morte. Ma quando, come a Gaza e in molti altri luoghi in cui vi si ricorre, le esecuzioni avvengono al termine di processi sommari e con prove acquisite mediante la tortura, l'opposizione alla pena capitale dovrebbe essere ancora più netta.
Per il Centro al-Mezan per i diritti umani di Gaza, quella di Hamas non è nient'altro che "giustizia di strada". Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, che ha riscontrato irregolarità procedurali anche negli ultimi tre processi capitali, dal 2007 - quando Hamas ha assunto il potere - nella Striscia di Gaza sono state emesse 88 condanne a morte, 46 delle quali eseguite. Più della metà delle condanne sono state inflitte per "collaborazionismo" con l'esercito di Israele, le altre per omicidio. Ma nel febbraio di quest'anno è stato passato per le armi anche un comandante di Hamas per non meglio precisati reati "morali".
Teoricamente, ogni condanna a morte emessa a Gaza dovrebbe essere ratificata dal presidente palestinese Mahmoud Abbas, ma dati i rapporti tra Hamas e Fatah questa procedura non è mai stata rispettata. Ma Haniyeh non è il solo, da quelle parti, a credere che la pena di morte sia un buon deterrente. Lo pensa anche il nuovo ministro della Difesa israeliano, Avigdor Liberman.
Dal 2015 il suo partito, Yisrael Beitenu, invoca la pena di morte contro i terroristi processati dalle corti marziali (ossia, solo per i palestinesi). Nel luglio dell'anno scorso era stato il primo ministro Benjamin Netanyahu a premere perché venisse bocciata la proposta di legge presentata da Sharon Gal, all'epoca deputato di Yisrael Beitenu. I recenti negoziati per l'ingresso di Liberman al governo hanno spinto Netanyahu a cambiare idea. Se oggi Yisrael Beitenu ripresentasse la proposta di legge, il Likud non si opporrebbe.
In Israele la pena capitale è stata imposta ed eseguita una sola volta, nel 1962, quando fu messo a morte il criminale nazista Adolph Eichmann. Il paese ha abolito la pena di morte per i reati ordinari nel 1954 e, all'interno delle Nazioni Unite, vota regolarmente a favore della risoluzione sulla moratoria delle esecuzioni capitali.
La pena di morte resta in vigore nel codice militare per genocidio, omicidio di persone perseguitate commesso durante il regime nazista, atti di tradimento in base alla legge militare e alla legge penale commessi in tempo di ostilità, uso e porto illegale d'armi. Il codice militare prevede che una condanna a morte debba essere inflitta con l'unanimità dei tre giudici sia del processo di primo che di quello di secondo grado.
Nel corso dei negoziati con Netanyahu per entrare al governo, Liberman ha ottenuto l'assenso alla richiesta di modificare la procedura, in modo che la pena di morte sarebbe decisa con la maggioranza di due giudici. Difficile che alla Knesset possa passare la posizione di Liberman. All'interno della coalizione di governo c'è un partito esplicitamente contrario, Kulanu, del ministro delle Finanze Moshe Kashlon. Ma mai dire mai
Per questo, è stato molto opportuno che contro l'idea di Liberman abbia preso la parola l'ex procuratore generale Yehuda Weinstein: "Come deterrente non servirebbe a niente, dato che verrebbe applicata nei confronti di criminali che agiscono per motivi ideologici e che non hanno certo paura di morire. E oltretutto è immorale".
(il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2016)
La sceicca che parla di pace e finanzia le guerre
L'ex sovrana del Qatar dal Papa parla di rifugiati. Ma l'emirato sbarra le frontiere. Tramite le fondazioni foraggia ovunque l'islam fondamentalista.
di Gian Micalessin
Se la sfrontatezza ha un volto è quello soave ed elegante della sceicca del Qatar, Mozah Bint Nasser al Missned. Esibendo la più spudorata tra le facce di bronzo l'ex sovrana - madre dell'attuale emiro Tamim bin Hamad al Thani e seconda delle tre mogli dell'ex sovrano Hamad bin Khalifa al Thani - s'è presentata ieri da Papa Francesco esibendo un medaglione con l'ulivo della pace. Dietro quella preziosa icona di pace si nascondono però i quattro miliardi di dollari elargiti dall'emirato ad «Ahrar Al Sham» e alle altre formazioni algaidiste che dal 2011 seminano morte ed orrore in Siria. Per non parlare delle centinaia di milioni di dollari - in donazioni destinate allo Stato Islamico - transitate attraverso canali non istituzionali dell'emirato.
L'apice dell'ipocrisia arriva però quando la presidentessa della «Fondazione del Qatar per l'Educazione la Scienza e lo Sviluppo Comune» inizia a discettare di migranti sottolineando davanti a Papa Bergoglio la necessità di assistere i profughi e garantire un'istruzione ai loro figli. Parole sante se non fosse che il Qatar - fomentatore e finanziatore delle guerre a Muhammar Gheddafi e a Bashar Assad - si distingue - assieme ad Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein - per l'indiscusso rifiuto di accogliere migranti e rifugiati. Il massimo dello sforzo risale ai primi di gennaio del 2013 quando il marito della signora Mozah Bint Nasser al Missned, allora ancora al potere, fa sfoggio di munifica generosità accogliendo 42 siriani. Ma proprio per evitare pericolosi fraintendimenti i 42 privilegiati vengono salutati dall'emiro non come rifugiati, ma come ospiti personali. Ed infatti l'accoglienza si chiude lì. Da quel momento in Qatar non entra più un solo profugo in fuga dalla Siria o da qualche altro sfortunato angolo del pianeta. Ma questo non impedisce all'elegante signora Mozah di affermare davanti al Papa che «l'ulivo cresce sia nel mondo arabo sia in Occidente».
Peccato che, 48 ore prima, in un campo di lavoro dell'accogliente Qatar siano morti bruciati vivi 11 lavoratori stranieri ammassati in un campo di lavoro. Stranieri accolti come manodopera a basso costo, ma trattati alla stregua di schiavi come raccontano le numerose inchieste sulla costruzione delle infrastrutture per quella Coppa del Mondo di calcio del 2022 conquistata a colpi di mazzette e tangenti. Del resto c'è poco da stupirsi. L'eleganza e l'impudenza dell'affascinante signora Mozah, fasciata da un elegante vestito bianco e blu in perfetta pendant con il turbante blu che le copre testa e capelli, rappresentano al meglio il doppio volto del Qatar. Un Qatar abituato da una parte ad investire miliardi nei simboli del lusso, della moda e dell'opulenza occidentali e dall'altra a finanziare gli ideologhi e i manutengoli dell'islamismo più violento ed oscurantista. Così mentre la garbata sceicca allunga al Santo Padre un prezioso manoscritto arabo dei Vangeli definito «la grande prova della collaborazione delle religioni nel corso dei secoli» il suo Paese alimenta e finanzia progetti assai più opachi ed insondabile. Progetti che - a dispetto del messaggio di pace e concordia religiosa lanciato davanti al Pontefice - sembrano invece favorire la diffusione dell'Islam radicale nelle principali città italiane.
Progetti annunciati pubblicamente lo scorso gennaio quando Ibrahim Mohamed, tesoriere dell'Unione delle Comunità islamiche d'Italia (Ucoii), illustra i piani per un finanziamento da 25 milioni di euro destinati alla realizzazione di 33 nuovi centri islamici. Soldi arrivati dall'emirato della bella signora Mozah e destinati a sovvenzionare imam e luoghi di culto saldamente allineati alla Fratellanza Musulmana, ovvero a quella corrente dell'Islam fondamentalista appoggiata dal Qatar che predica la rigorosa ed indiscussa adesione alle leggi della sharia.
(il Giornale, 5 giugno 2016)
«A Tel Aviv ho trovato l'ispirazione per il mio Cosmo»
Sorride seduta sulle scale di casa, in un vestito leggero a pois colorati. Sarà il tema del bianco, saranno la levità del tessuto e dello sguardo, sarà lo sfondo minimal dove prevalgono i vuoti sui pieni. Ma si capisce già che in questo scatto rubato ci sta tutto un mondo, o meglio un cosmo, con l'idea di armonia che contiene. Olga Vanoncini il suo cosmo l'ha creato a Tel Aviv.
Un ossimoro - l'ordine e la grazia - in una città che ai più evoca scenari poco rassicuranti? No, perché come racconta Olga (e chi c'è stato può confermare) oggi la «collina della primavera» affacciata sul Mediterraneo, il principale centro economico di Israele, è molto altro: «Un ambiente cosmopolita, vivace, dinamico, aperto». Tanto che lei, ormai da quasi due anni, ha base qui, senza ripensamenti, anzi. Qui ha trovato l'humus (da non confondersi con l'hummus, la squisita salsa di ceci e sesamo, piatto tipico di queste parti) per i suoi nuovi progetti creativi, che si chiamano «Le Cosmos d'O», declinati in «Home e Objects». Prima di addentrarci nell'esplorazione di questa «second life», però, partiamo dall'inizio.
Classe 1978, cresciuta nel quartiere cittadino di Loreto, un diploma al liceo classico Paolo Sarpi e due lauree (una in Filosofia all'Università Statale di Milano, l'altra all'Accademia di Belle Arti alla Carrara), dopo diversi anni di insegnamento (docente di Fenomenologia delle arti contemporanee all'Accademia di Belle Arti Santa Giulia di Brescia, assistente allo Iulm di Milano e alla Iuav di Venezia), collaborazioni con gallerie d'arte e case editrici, nel settembre 2014 Olga decide di fare le valigie e trasferirsi. «Avevo voglia di fare un'esperienza di vita e professionale fuori dall'Italia, in un contesto internazionale. Mio marito Yonatan ha condiviso questa spinta al cambiamento e visto che lui è israeliano abbiamo scelto Tel Aviv», racconta.
(L'Eco di Bergamo, 5 giugno 2016)
Autorità israeliane ottengono informazioni importanti su rete di tunnel scavata da Hamas
GERUSALEMME - Le autorità israeliane affermano di aver ottenuto "informazioni di alto rilievo" sulla rete di tunnel del gruppo di Hamas nella Striscia di Gaza dopo aver arrestato un combattente di 17 anni. Durante un interrogatorio il giovane, arrestato mentre cercava di entrare in Israele superando il muro di filo spinato che lo divide dalla Striscia di Gaza, ha rivelato informazioni riguardo all'addestramento ricevuto dai miliziani di Hamas. Il giovane ha spiegato che gran parte dell'addestramento riguarda proprio l'attraversamento dei tunnel che vengono usati proprio per il "trasferimento sotterraneo" dei combattenti nell'area di Gaza. All'interno dei tunnel vi sono anche "spazi riservati" all'elite di Hamas.
(Agenzia Nova, 5 giugno 2016)
Una spia tra i fedelissimi di Saddam. Ecco come Israele distrusse l'Osirak
Il Mossad svela l'operazione Opera 35 anni dopo il raid sul reattore nucleare.
di Giordano Stabile
BEIRUT - Una spia all'interno del regime di Saddam Hussein guidò cacciabombardieri israeliani sul reattore nucleare di Osirak. E a studiare i piani di volo al limite dell'autonomia degli F-16 fu un pilota alla sua prima missione, «che non aveva mai sganciato una bomba in vita sua».
A 35 anni da quel 7 giugno 1981, reduci e agenti del Mossad hanno rivelato dettagli sconosciuti dell'operazione Opera. Un blitz al limite delle possibilità dei mezzi e degli uomini. L'obiettivo, e la data, vennero scelti con un «aiuto interno», ha confermato Gad Shimron, ex agente del Mossad.
Israele aveva individuato il programma iracheno per produrre plutonio, e la bomba atomica, nel 1976. Dopodiché aveva seguito, e sabotato, il reattore di Osirak, «passo per passo». «Non c'è bisogno di essere un esperto di intelligence per capire che se c'è un progetto in Iraq con decine di tecnici e scienziati stranieri - ha spiegato Shimron -, le agenzie interessate cercheranno di reclutarne qualcuno».
La messa in servizio della centrale era già stata ritardata di «due o tre anni». Soprattutto con un'operazione in Francia, nel porto di Seyne-sur-Mer, dove il primo nucleo del reattore, che stava per essere spedito via nave in Iraq, esplose in circostanze «inspiegabili».
La spia all'interno rivelò anche quando sarebbe cominciata la produzione di plutonio, sufficiente a costruire una bomba all'anno. Il ministro Menachem Begin decise di agire, «fosse l'ultima cosa che faccio da premier». L'operazione, in codice Ammunition Hill, fu però scoperta dal leader dell'opposizione, Shimon Peres. Begin la cancellò e la fece ripartire con un nome scelto a caso «dal computer»: Opera.
Il problema vero era che gli F-16 non avevano autonomia sufficiente per colpire a 15 km da Baghdad e tornare indietro. II comandante della pattuglia di otto caccia, Ze'ev Raz, ha confermato che il bersaglio era «oltre il limite dei jet. Abbiamo dovuto usare ogni sorta di trucchi». L'aviazione israeliana avrebbe avuto a disposizione gli aerei per il rifornimento in volo solo nell'82.
Il blitz non poteva aspettare. Fu deciso di agire una domenica, quando i tecnici stranieri erano via. Vennero aggiunti serbatoi supplementari, la rotta per coprire i 3000 km andata e ritorno fu curata nei minimi dettagli. I jet passarono sul Golfo di Aqaba. II re di Giordania Hussein li notò dal suo yacht ma non riuscì ad avvertire gli iracheni. Poi attraversarono il deserto giordano fingendo di essere caccia sauditi «fuori rotta».
Il piano di volo venne studiato da Dan Ramon, al battesimo del fuoco. Tutti lo prendevano in giro perché «non aveva mai sganciato una bomba». II governo e l'allora comandante dell'aeronautica, David Ivey, avevano messo in conto di perdere «uno o due» aerei: «Il problema non era colpire, era tornare vivi».
A Ramon fu affidata la posizione di coda al ritorno, la peggiore: «E' come un branco di antilopi che scappa da una tigre». Ma Ramon riuscì a colpire e a tornare in salvo. Nel 2003 sarà il primo israeliano ad andare nello spazio, ma nella tragica missione dello Shuttle Columbia, esploso in volo.
Gli F-16 furono anche facilitati, secondo fonti irachene mai confermate, dal fatto che gli uomini dell'antiaerea erano andati a farsi uno spuntino e avevano spento i radar. Il reattore non fu mai ricostruito, anche se Saddam lanciò un vasto programma sotterraneo per produrre uranio arricchito.
(La Stampa, 5 giugno 2016)
Gli iraniani non andranno a La Mecca, Teheran accusa i sauditi
di Omero Oleotti
Le relazioni tra Iran e Arabia Saudita sono peggiorate nel gennaio scorso, quando i due paesi hanno rotto le relazioni diplomatiche, dopo gli attacchi in Iran contro le sedi di rappresentanza saudite prese di mira dai manifestanti che protestavano contro l'esecuzione, avvenuta a Riyadh, del dignitario sciita Nimr al Nimr, leader della contestazione contro il regime saudita. Lo ha annunciato il ministro della Cultura e della Guida islamica di Teheran, Ali Jannati, all'agenzia Fars. Da allora gli attacchi sono proseguiti da una parte e dall'altra, su siti ufficiali e non ufficiali.
La settimana scorsa una delegazione iraniana in Arabia Saudita aveva cercato di trovare un accordo sul pellegrinaggio alla Mecca, ma inutilmente. "L'Organizzazione iraniana dell'Hajj sarà ritenuta responsabile davanti a Dio e al popolo iraniano per l'impossibilità di consentire ai cittadini si eseguire il pellegrinaggio di quest'anno", si legge nel comunicato. Circa 64 mila iraniani avevano partecipato all'Hajj dello scorso anno. Teheran afferma che la ragione "sono gli ostacoli posti dai sauditi". La firma dell'intesa sul nucleare militare ha portato come conseguenza l'abolizione delle sanzioni economiche all'Iran, e questo significa che Teheran può riprendere le esportazioni di petrolio (e gas) senza limiti. Il ministro degli Esteri di Riad ha detto in proposito che il suo governo "non impedisce a nessuno di compiere il pellegrinaggio". Dopo la decapitazione di un importante imam sciita da parte della monarchia del Golfo, fu assaltata l'ambasciata saudita a Teheran. Un funzionario di Teheran ha suggerito che era scaduto il tempo necessario per organizzare l'hajj del prossimo settembre, così il ministero saudita aveva accusato la controparte di sabotaggio oltre che di politicizzare una questione religiosa. L'eventuale decisione potrebbe arrecare peraltro danni economici non trascurabili al regno saudita per il mancato introito turistico, dovuto al mancato ingresso nel paese di almeno mezzo milione di iraniani.
(Rosa Rossa, 5 giugno 2016)
Bds distrugge futuro Stato palestinese
di Fred Maroun (*)
Dal quando Israele ha dichiarato la propria indipendenza, una delle principale tattiche usate dagli arabi è stata quella di sfruttare il tallone di Achille degli ebrei: la loro cultura altamente sviluppata, che rispetta e valorizza la vita e il sostegno offerto ai diritti umani. Essendo io di origine araba, conosco bene lo stereotipo arabo sull'Occidente e Israele, secondo il quale essi sono deboli perché si preoccupano della vita della loro popolazione e desiderano rispettare i diritti umani dei loro nemici. Nelle parole di Golda Meir: "Noi possiamo perdonare agli arabi il fatto che uccidono i nostri figli, ma non perdoneremo mai il fatto che costringono a uccidere i loro figli".
Fino ad oggi, il comportamento di Israele si è conformato a questo stereotipo arabo, come nel caso della tecnica detta "bussare sul tetto" utilizzata a Gaza, in base alla quale i soldati israeliani avvertono i residenti di evacuare gli edifici usati per scopi militari prima di colpirli, ma parlando con i sionisti pare che questo atteggiamento stia cambiando. Se è vero che gli ebrei daranno sempre valore alla vita, la loro determinazione a contenere le perdite dei nemici e rispettare i loro diritti umani a oltranza potrebbe venire meno e saranno i palestinesi a rischiare di farne le spese.
Durante la guerra d'Indipendenza, la parte araba assicurò che non un solo ebreo sarebbe rimasto a vivere nel lato arabo delle linee armistiziali del 1949, ma a un gran numero di arabi fu permesso dagli ebrei di restare nel lato israeliano. Oggi, questi arabi costituiscono il 20 per cento della popolazione israeliana. Il rispetto mostrato da Israele per i diritti umani degli arabi che vivono nello Stato ebraico è stato utilizzato dagli arabi contro Israele. L'idea della presenza di ebrei nei territori arabi è demonizzata e qualsiasi tentativo di "normalizzare" i rapporti con gli ebrei viene scoraggiato in modo aggressivo. Al contrario, gli arabi che vivono in Israele hanno sempre eletto parlamentari arabi, anche quelli antisionisti che appoggiano apertamente i terroristi palestinesi. Se Israele espellesse questi politici dalla Knesset - come una proposta di legge intende fare - sarebbe accusato dall'Occidente di essere antidemocratico, ma se non li espellesse verrebbe visto come debole dagli arabi.
Durante la "guerra dei sei giorni" del giugno 1967 - una guerra difensiva condotta contro gli eserciti arabi, tra cui quelli della Giordania e dell'Egitto - Israele si estese in vaste aree di terra araba, come la penisola del Sinai, la Cisgiordania e Gaza. Ma subito dopo propose di restituire quei territori in cambio del riconoscimento e della pace. Meno di tre mesi dopo, il primo settembre del 1967, la risposta arrivò nella forma dei famosi "tre no" della Conferenza di Khartoum: no alla pace con Israele, no al riconoscimento di Israele, no ai negoziati con Israele.
Israele avrebbe potuto rispettare le regole arabe ed espellere tutti gli arabi dei territori che ha occupato, ma non lo ha fatto. Proprio perché Israele ha rispettato i diritti umani degli arabi, e nonostante fosse contro il suo stesso interesse, lo Stato ebraico ha fornito ai palestinesi una piattaforma da cui cercare di distruggere Israele.
Oggi, il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) continua ad applicare ipocritamente la regola dei due pesi e due misure in un tentativo evidente di eliminare Israele. I suoi leader hanno dichiarato senza mezzi termini che non sono interessati a una soluzione dei due Stati. Vogliono uno Stato arabo al posto di Israele. Essi contano sul presupposto che prima o poi Israele sarà costretto ad annettere la Cisgiordania e dare la cittadinanza israeliana a tutti i suoi abitanti. Dopo questo, la distruzione di Israele come Stato ebraico sarebbe solo una questione di tempo.
La sensazione dominante da parte sionista è che la soluzione dei due Stati accettata dalla maggior parte degli ebrei sin dagli anni Quaranta come etica oggi non funziona affatto. La stragrande maggioranza dei sionisti dà la colpa di questo all'inesorabile rifiuto arabo di accettare una soluzione del genere e al fatto che nel momento in cui sono state avviate trattative in proposito, i palestinesi non abbiano mai pensato di formulare una contro-offerta ragionevole. Anche il presidente dell'Autorità palestinese Mahm?d Abb?s, presumibilmente il leader più moderato dei palestinesi, non ha mai accettato una soluzione a due Stati che non includesse un "diritto al ritorno" palestinese, che porterebbe a uno Stato completamente arabo accanto a uno Stato a maggioranza araba: un altro modo per tentare di distruggere lo Stato ebraico. Messo con le spalle al muro, Israele dovrà prima o poi scegliere se rinunciare allo Stato ebraico o abbassare i suoi standard di tutela dei diritti umani dei palestinesi. Sembra sempre più chiaro che gli israeliani non sceglieranno la prima opzione. Al loro posto, non lo farei neanche io. Un segnale in tal senso sono due proposte di legge volte rispettivamente a espellere le famiglie dei terroristi e i membri della Knesset che appoggiano apertamente i terroristi.
Alan Dershowitz, l'avvocato americano difensore dei diritti umani, ha ripetutamente avvertito che il movimento Bds sta vanificando la prospettiva di una soluzione dei due Stati, inducendo i leader palestinesi a credere che non hanno alcun bisogno di scendere a compromessi. Dershowitz non ha osato dire cosa accadrebbe se il Bds proseguisse sulla strada intrapresa. Ha però fatto una previsione generale e ovvia che si arriverebbe a "più guerre, più morti e più sofferenza".
Se questa tattica continuasse, Israele potrebbe spostarsi a destra del suo attuale primo ministro, Benjamin Netanyahu, ed eleggere un governo per il quale il rispetto dei diritti umani palestinesi è una priorità minore. Un governo del genere sarebbe molto meno riluttante di Netanyahu all'idea di espandere gli insediamenti in Cisgiordania e a rispondere brutalmente agli attacchi terroristici, rendendo così la vita dei palestinesi molto più difficile e danneggiando seriamente i sogni di uno Stato palestinese.
I sostenitori del Bds sembrano basarsi sulla convinzione che Israele non lo farebbe mai, ma si sbagliano per svariati motivi: gli ebrei di Israele non saranno disposti a suicidarsi. Finora, ogni volta che si sono rifiutati di adottare approcci contrari alla tutela dei diritti umani, queste decisioni non sono state fatali per Israele. La soluzione di uno Stato unico con diritti uguali per tutti sarebbe invece fatale per Israele e la maggior parte degli ebrei di Israele non l'approverà; Israele vede che nel resto del Medio Oriente è attuata impunemente una pulizia etnica - da quella degli ebrei a quella dei cristiani e tutti gli altri gruppi - e vede anche che l'Occidente non intraprende alcuna azione concreta per impedirlo; gli israeliani sanno che gli arabi maltrattano i palestinesi da quasi 70 anni, pertanto i paesi arabi non rischieranno di perdere altre guerre per il bene dei palestinesi, che in ogni caso disprezzano (sempre che gli arabi divisi siano comunque in grado di formare una possibile coalizione contro Israele); uno dei fattori che attualmente frenano l'ala destra di Israele è il rischio di perdere il sostegno dell'Occidente. Tuttavia, con la crescita del movimento Bds, Israele potrebbe pensare di aver perso in ogni caso l'appoggio occidentale e che non ci sia più niente da perdere.
Da quasi 70 anni gli arabi conducono un gioco molto pericoloso, contando sugli scrupoli degli ebrei per trasformare ogni sconfitta in una vittoria parziale. Nel corso della storia, coloro che perdono le guerre - in particolare le guerre che essi stessi hanno iniziato - sono costretti a vivere secondo le regole del vincitore. Ma gli arabi hanno sempre rifiutato di vivere secondo le regole degli israeliani così come hanno rifiutato costantemente una soluzione intermedia come quella dei due Stati, che sarebbe stata ragionevole per entrambe le parti. Si può solo sperare che i palestinesi, come l'Egitto e la Giordania, decideranno presto di vivere in pace con un vicino che ha dimostrato di trattarli molto meglio di come li trattano i loro stessi "fratelli arabi" - tutto sommato, non così male. Si può solo sperare che i leader palestinesi inizieranno a promuovere una cultura di pace anziché una cultura dell'odio.
(*) Gatestone Institute
(L'Opinione, 5 giugno 2016 - trad. Angelita La Spada)
Israele, patria di
Oscar
Israele ha dato a Hollywood molte delle sue più brillanti stelle. Ci focalizziamo su un attore entrato nella leggenda, un regista ecclettico, due attrici pluripremiate e due comici che non è facile scordare.
C'è Kirk Douglas, immortale in Spartacus che dopo un secolo (si fa per arrotondare) di cinema, dice di essere tornato sé stesso. Eppure rimane nell'immaginario collettivo come esponente del sogno americano, tra kolossal storici, sentimentali, sino ai western. Di famiglia originaria di ebrei bielorussi di Chavusy, classe '16, oggi ha 99 anni, portati teatralmente.
C'è Woody Allen il regista visionario, ma con grazia, che indaga con nonchalance la società, esplorando il mondo con leggerezza, non per niente considerato il più europeo dei registi d'oltreoceano. Di famiglia ebrea-austriaca-russa, dai nonni aschenaziti, ebrei orientali di lingua tedesca, ebraica e yiddish.
Di famiglia aschenazita è anche Scarlett Johannson, che per Woody Allen ha recitato in svariati film. Dolcemente seducente, si collima con la fantasia del creativo regista, sino a spingersi in ruoli da cinema puramente americano, come le eroine della Marvel. Pluripremiata dagli Young artist award ai Golden globe.
Eroina ebrea della Marvel è tuttavia anche Natalie Portman, nata a Gerusalemme e naturalizzata statunitense, ha anche recitato con Scarlett nel film storico "l'altra donna del re". In carriera sin dall'adolescenza, lascerà tuttavia una delle trilogie che l'aveva consacrata alla trasposizione cinematografica del fumetto, non recitando più nel nuovo terzo capitolo di Thor. l'attrice è anche attivista animalista.
Sceneggiatore, conduttore e attore, è l'ebreo statunitense Ben Stiller, indimenticabile per "Ti presento i miei" per le giovani coppie che pensano di convolare a nozze, e "una notte al museo" per i bambini aspiranti archeologi.
Concludiamo con Jack Black, pluripremiato ai Golden Globe, convertitosi all'ebraismo, e consacrato, tra i tanti, dall'esilarante "The school of Rock" che lo rende un insegnate
musicalmente sovversivo.
(TICINOlive, 4 giugno 2016)
A Lecce l'ambasciatore di Israele visita i luoghi della Giudecca
Zion Evrony, ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, ha voluto attraversare il cuore antico della città, camminando sulle tracce lasciate dalla comunità ebraica durante il Medioevo.
di Antonio Della Rocca
È approdato nei giorni corsi a Lecce, in forma non ufficiale, l'ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Zion Evrony. Ha voluto attraversare i luoghi della Giudecca, nel cuore antico della città, camminando sulle tracce lasciate dalla comunità ebraica durante il Medioevo. A prendersi cura di quelle antiche vestigia è stato Michelangelo Mazzotta che da tempo ha organizzato appositi tour in quello che fu il quartiere ebraico leccese. Sua e di Francesco De Giorgi è stata l'idea di valorizzare un itinerario museale ipogeo nelle fondamenta di Palazzo Taurino, di fonte al prorompente barocco della basilica di Santa Croce e di Palazzo dei Celestini. È lì, infatti, che doveva trovarsi la sinagoga. Ed è sempre lì che sono ancora ben conservati i segni che testimonierebbero la presenza ebraica in città, come le vasche per l'abluzione (mikvaot), dove avvenivano le immersioni rituali nell'acqua sorgiva purificatrice del fiume Idume che scorre nel sottosuolo leccese.
Altra impronta lasciata sulla nuda pietra dalla comunità ebraica, prima della sua cacciata che gli studiosi collocano nel 1541, all'epoca del regno di Carlo V, sembrerebbe l'alloggio della "Mezuzah", il foglio di pergamena contenente i primi due brani dello Shema, la preghiera della liturgia ebraica che afferma l'unicità divina, l'obbligo di studiare e di praticare la Torah (insegnamento) ai propri figli. I piccolo solco in cui, secondo alcuni studi, veniva inserita la "Mezuzah", si trova in uno stipite nell'atrio di Palazzo Taurino ed è uno degli elementi che più attraggono i turisti ebrei sempre più numerosi a Lecce e nel Salento. "È ipotizzabile che le vasche siano state utilizzate per l'abluzione, anche perché sappiamo che in quella zona si trovava la sinagoga, sulle cui rovine sarebbe stata in seguito edificata una chiesa", argomenta Fabrizio Lelli, professore di Lingua e Letteratura ebraica alla Facoltà di Lettere dell'Università del Salento e curatore del percorso museale di Palazzo Taurino. In questi ultimi giorni, nel sito si registra una forte affluenza di visitatori che, in alcuni casi, proseguono il tour in altre zone del Salento, come a Santa Maria al Bagno e a Gallipoli, dove si ha certezza che in passato vi sia stata la presenza degli ebrei.
La "Giudecca" è ancora oggi per i gallipolini un'area poco fuori l'isola del centro storico, nelle vicinanze della fontana ellenistica e del santuario del Canneto. "Il turismo ebraico in Puglia sta diventando sempre più significativo - osserva ancora Fabrizio Lelli - anche grazie all'apertura di nuove rotte aeree su Bari e Brindisi. Va ricordato che il Salento è uno dei primi luoghi in cui arrivarono gli ebrei direttamente dalla terra di Israele dopo la distruzione del secondo tempio di Gerusalemme, nel 70 dopo Cristo, quando avvenne una delle più antiche diaspore ebraiche occidentali".
(Corriere del Mezzogiorno, 4 giugno 2016)
Visitatori benvenuti
Il presidente della National Baptist Convention of America: "Ho imparato a non credere ai mass-media al 100%: è meglio che le persone vengano a vedere di persona".
La delegazione della National Baptist Convention of America in visita questa settimana alla Casa per Bambini di famiglie a rischio "Neveh Michael", della Fellowship of Christians and Jews, a Neve Pardes Hanna, presso Hadera.
La scorsa settimana è giunta in Israele, per una missione d'istruzione, una delegazione di 26 membri selezionati della Missionary Union della National Baptist Convention of America, una chiesa formata prevalentemente da afro-americani. La delegazione è stata organizzata sotto il patrocinio della International Fellowship of Christians and Jews allo scopo di contribuire ad approfondire i rapporti ebraico-cristiani e il legame fra leader neri e Israele.
I pellegrini della National Baptist Convention of America non sono che una piccola parte dei turisti cristiani, che costituiscono più del 50% dei visitatori che ogni anno arrivano in Israele. Nel 2013 hanno ricevuto il visto turistico per Israele più di 3,5 milioni di persone. In America, la sola National Baptist Convention conta circa 3,5 milioni di membri, distribuiti in più di 8.000 chiese: si tratta della terza maggiore denominazione afro-americana negli Stati Uniti dopo la National Baptist Convention USA Inc. e la Church of God in Christ....
(israele.net, 3 giugno 2016)
Google rimuove app utilizzata per individuare la gente di origine ebraica
Google ha rimosso un'applicazione antisemita di Chrome per browser che serviva ai neo-nazisti per individuare online persone di origine ebraica. Il rilevatore è stato rimosso giovedì da Chrome store, dove un motto criptico evidenzia "rileva totale coincidenze su chi è stato coinvolto in alcuni partiti politici, movimenti e media".Effettivamente l'applicazione poteva servire ad avvisare gli utenti coloro che appartengono al popolo ebraico e altri ritenuti "anti-bianchi" ma anche istituzioni e enti come l'organizzazione anti-estremismo Southern Poverty Law Center. Secondo chi ha fatto un'indagine sull'app odiosa, cognomi ebrei e i nomi completi di figure ebraiche come Michael Bloomberg sono individuati. Google ha detto che il rilevatore, prima che fosse cancellato ha avuto più di 2.400 utenti, ed è stato rimosso perché ha violato la politica del sito contro la xenofobia.Per Giovanni D'Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti", è incredibile dove arrivi l'odio e l'uso che si fa delle nuove tecnologie per aumentarlo. È necessario, quindi, che si continui l'opera di monitoraggio da parte dei gestori della rete e delle app affinché si blocchino sul nascere queste assurde manifestazioni d'intolleranza.
(politicamentecorretto.con, 4 giugno 2016)
Yvan Attal prova a ridere sulla nuova diaspora degli ebrei di Francia
In molti quartieri di Parigi, sia centrali che periferici, la comunità ebraica sta scomparendo. In molti se ne vanno infatti per l'aumento dei casi di minacce e aggressioni. La pellicola del cineasta francese, "Ils sont partout", affronta il problema con sarcasmo e leggerezza.
di Mauro Zanon
PARIGI - Il primo ministro francese, Manuel Valls, ha presentato in aprile un ambizioso piano di lotta contro il razzismo e l'antisemitismo, contenente quaranta misure incentrate sulla giustizia, l'istruzione e internet. L'iniziativa, promossa dall'unico membro dell'esecutivo socialista che cerca di scuotere la Francia dall'immobilismo, è una risposta all'esplosione degli episodi di odio antiebraico e alla tentazione dell'alyah, il ritorno in Israele, che nel 2015, secondo le cifre del Crif (Conseil répresentatif des institutions juives de France), ha registrato un aumento dell'11 per cento. Ma esistono anche altre armi per lottare contro l'antisemitismo, tra cui quella dell'ironia, che possono indubbiamente favorire le campagne di mobilitazione della République.
Yvan Attal, cineasta di nazionalità francese nato a Tel-Aviv da una famiglia di ebrei algerini sefarditi, lo sa bene. Per questo, nel suo nuovo film, "Ils sont partout", uscito mercoledì nelle sale francesi, ha deciso di impugnare l'arma della risata per fustigare i cliché antisemiti che imperano in Francia. Costruito come un film a sketch, Attal gioca con sarcasmo e leggerezza sui luoghi comuni legati agli ebrei, che "sono dappertutto", hanno il naso adunco, sono ricchi, hanno ucciso Gesù, fanno i martiri, sono comunitaristi, stimolando allo stesso tempo una profonda riflessione sull'identità ebraica e sul significato di essere ebrei in Francia al giorno d'oggi.
Il protagonista, Yvan, che nel film è interpretato dallo stesso Attal, si sente perseguitato da un antisemitismo crescente ed è abituato a sentirsi dare del "paranoico". Per questo motivo decide di rivolgersi a uno psicologo, per provare a dare una risposta alle sue innumerevoli interrogazioni, o "esagerazioni", come i suoi conoscenti le considerano. Gli appuntamenti di Yvan con lo psy diventano così il fil rouge che lega gli sketch che compongono il film, e ci restituiscono con humor il punto di vista di una persona che nella vita reale ha provato sulla sua pelle l'insistenza, e spesso la violenza, di questi cliché.
"Sono stato trattato da 'sporco ebreo' nel cortile della scuola", si ricorda Attal. Che per girare "Ils sont partout", oltre a Valérie Bonneton, Benoît Poolverde e Gilles Lellouche, si è avvalso del talento della sua compagna, Charlotte Gainsbourg (nel film interpreta il ruolo di Mathilde), che come lui è stata vittima di episodi di antisemitismo. "Quando mio padre è morto, mi ricordo di un volantino, che assomglia incredibilmente alla locandina del film, sul quale c'era la sua testa con dei payot e una kippah su una toilette dove c'era scritto 'sidagogue' (incrocio tra "sida", aids in francese, e sinagoga, ndr)", ricorda Charlotte Gainsbourg a proposito del celebre padre, Serge.
Nello sketch più esilarante del film, l'attore Dany Boom interpreta un ebreo povero che si lamenta di non essere ricco e di avere soltanto "i difetti degli ebrei". È l'esagerazione del cliché per frantumarlo con più efficacia, "una maniera", spiega Attal, "per denunciarlo, per ridere un po' delle cose, per rimettere il dibattito sul tavolo". Alla fine, il personaggio interpretato da Boom, vince al lotto. "È questa farsa che rende la cosa divertente", aggiunge il regista.
Meno divertenti sono invece le cifre che mostrano la diaspora della comunità ebraica da alcuni quartieri storici di Parigi e alcune periferie dove fino a dieci anni fa vivevano in armonia centinaia di ebrei. "Fino agli anni 2000-2005, la città era piacevole e calma, con 250-300 famiglie ebree e le sinagoghe piene durante lo Shabbat. Ora sono rimaste soltanto un centinaio di famiglie", racconta sconsolato Alain Benhamou, settantunanni, che ha deciso di abbandonare Bondy, periferia parigina, nell'estate del 2015, dopo aver trovato scritto sulla porta di casa "sporco ebreo". Come Benhamou, che ha lasciato la sua Bondy a causa dell'irrespirabile clima di insicurezza e di antisemitismo, sono molti altri gli ebrei "esiliati in casa propria". A Raincy, a pochi chilometri da Bondy, Rabbi Mosh Lewin condivide il pessimismo di Benhamour: "Ciò che mi affligge è che in alcune zone di Francia gli ebrei non possono più vivere in pace, e questo succede anche a cinque minuti da casa mia, dove i bambini sono costretti a nascondere le loro kippah". Anche Sarcelles, dove la popolazione ebraica è molto presente, le "situazioni di violenza estrema" contro gli ebrei sono all'ordine del giorno, come raccontato dal sindaco François Pupponi. In totale, nel 2015, sono 8.000 gli ebrei francesi ad essere tornati in Israele.
(Il Foglio, 4 giugno 2016)
Bibi e i generali
E' guerra fra Netanyahu e i militari d'Israele: gli idoli dei media, della sinistra e di Obama che da vent'anni provano a sconfiggerlo.
Per il premier, "l'élite dell'esercito è parte del blocco egemo- nico che lui ha sconfitto". L'affronto della nomina di Lieberman
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Nel '99 i generali appoggiarono Barak contro Netanyahu, reo di aver detto all'esercito di "cambiare disco" sugli accordi di Oslo
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Washington conside- ra i vertici della sicurezza come un governo alternativo a Netanyahu e "il guardiano dei valori democratici"
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Fino al 1967 i milita- ri erano i falchi. "Poi sono stati loro ad aver portato Israele nel sanguinoso cul-de-sac del processo di pace"
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di Giulio Meotti
Gli israeliani sono grandi soldati per necessità, non per militarismo. Sono pochi, circondati da nemici implacabili, basta un annuncio alla radio perché uomini e donne corrano al fronte, magari in autostop. L'ex capo di stato maggiore, l'archeologo Yigal Yadin, diceva che "in Israele un civile è un soldato con undici mesi di congedo". La linea che separa militari e civili è da sempre sottile. C'è chi ha definito Israele "la moderna Sparta", altri, meno benevoli, "la piccola Prussia mediorientale". Per la posizione geografica, Israele non può affrontare una guerra di posizione e di logoramento, deve vincere subito. Deve quindi avere un esercito che vigila sempre alle spalle della leadership politica. E' quindi motivo di allarme quanto ha scritto Ronen Bergman dalle colonne del New York Times, parlando di "guerra fra la destra israeliana (il governo, ndr) e i suoi soldati e spie moderati". Nella maggior parte dei paesi, la classe politica supervisiona l'establishment della difesa e la controlla nelle sue intemperanze. In Israele appare piuttosto il contrario. La settimana scorsa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha nominato ministro della Difesa Avigdor Lieberman, un civile, "l'ultimo atto della guerra tra Netanyahu e i leader militari e di intelligence", scrive Bergman.
Tutto inizia il 24 marzo: Elor Azaria, un sergente israeliano, a Hebron spara e uccide un terrorista palestinese che giaceva ferito a terra dopo che aveva accoltellato uno dei compagni del sergente. L'esercito condanna l'uccisione e mette a processo il militare. I politici di destra vanno a difesa di Azaria e Netanyahu telefona al padre del soldato per offrire il suo supporto. I generali israeliani leggono la telefonata come una sfida alla loro autorità. Il vice capo di stato maggiore, il generale Yair Golan, sceglie una delle date più sensibili del calendario di Israele, la giornata del ricordo della Shoah, per contrattaccare. E suggerisce una somiglianza fra l'Israele di oggi e la Germania del 1930. Netanyahu replica a muso duro che le parole del generale Golan, che chiederà poi scusa, "sminuiscono l'Olocausto". Il ministro della difesa Yaalon, un ex capo dell'esercito, si schiera a difesa del generale. Il primo ministro convoca Yaalon e lo sostituisce con Lieberman. Nei corridoi del potere israeliano si dice che Yaalon sia pronto a tentare di prendere le redini del Likud una volta tramontata la stella di Netanyahu. E certa stampa già si domanda: "Yaalon sarà il nuovo Ariel Sharon?".
Vecchia storia la guerra fra Bibi e i generali. Yoram Peri ci ha scritto un libro, "Generals in the cabinet room": "Nella visione di Netanyahu, l'élite dell'esercito è parte del blocco egemonico, che lui, da rappresentante del blocco controegemonico, vede come un nemico". Il maggior generale Oren Schachor ha detto che "Netanyahu e i suoi chiamano i generali 'servi della sinistra'".
L'immigrato moldavo Lieberman e l'ex ambaciatore in America Netanyahu hanno scalzato dal potere non soltanto la sinistra, ma anche la vecchia guardia del Likud. Quando Netanyahu ha vinto le primarie del partito nel 1992 ha ricompensato Lieberman mettendolo a capo dell'apparato. Adesso la nomina di Lieberman a ministro della Difesa è il tentativo di prendere d'assalto l'ultimo bastione della vecchia élite israeliana con cui Netanyahu litigò fin dagli anni Novanta: l'esercito era a favore degli accordi di Oslo, Bibi fermamente contrario. Avigdor Lieberman è quanto di più lontano dal linguaggio e dalla visione dei precedenti ministri della Difesa e dell'esercito. Hamas? "Dobbiamo fare come Putin in Cecenia". L'Iran? "Come la Germania nazista". Il processo di pace? "Parole senza senso".
A differenza dei generali, Lieberman non ama i giornalisti, non ammicca, non blandisce l'opinione pubblica. A chi gli parla della necessità di liberare mille terroristi, Lieberman risponde che andrebbero portati nel Mar Morto con degli autobus e lì affogati. Ha definito "un cadavere" il leader palestinese Abu Mazen, difeso invece dall'esercito. Ripete che la pace si dà in cambio di altra pace e non in cambio di terra perché è immorale. Nel periodo che precede le elezioni del 1999, un folto gruppo di generali in pensione si raccoglie intorno alla figura di Ehud Barak per orchestrare quello che passerà alla storia come il "putsch democratico" contro Netanyahu allora al suo primo mandato, reo di aver appena intimato ai generali di "cambiare disco" sui palestinesi (nei giorni scorsi Ehud Barak è riapparso in televisione, sfoggiando una inedita barba, per mettere in guardia Israele dal "fascismo" incalzante). Nel 1997 il principale contendente di Netanyahu alla guida del Likud era sempre un militare, Yitzhak Mordechai, e Bibi venne sfidato anche dal suo ex capo di stato maggiore, Amnon Lipkin-Shahak, che avrebbe poi regalato la vittoria a Barak fondando un partitino di centro che rubò voti a Netanyahu. Un altro ex capo di stato maggiore israeliano, Dan Halutz, ha aderito al partito di opposizione Kadima, mentre il generale Amram Mitzna è stato in lizza per la leadership laburista, dopo aver definito Netanyahu "pericoloso per Israele". Oggi sono di nuovo due ex generali, Gabi Ashkenazi e Benny Gantz, la carta segreta della sinistra per defenestrare politicamente Netanyahu. O per dirla con Haaretz: "L'ex generale è la miglior speranza per cacciare Netanyahu". C'è persino una legge, fatta apposta per i generali e voluta dalla sinistra, per ridurre da tre anni a sei mesi il periodo di congedo che un militare deve prendersi dall'esercito prima di scendere in politica. E mentre Netanyahu volava a Washington per denunciare l'accordo nucleare fra Stati Uniti e Iran, un gruppo chiamato "Comandanti per la sicurezza di Israele", composto da 180 generali in pensione ed ex funzionari, tra cui tre ex capi di Mossad, denunciava il primo ministro. "L'attuale politica costituisce una distruzione dell'alleanza con gli Stati Uniti", ripeteva il generale in pensione Amnon Reshef, eroe della Guerra del Kippur, che ha co-fondato il gruppo. "E' il peggior manager che abbia avuto", ha dichiarato di Netanyahu Meir Dagan, l'ex direttore del Mossad che nel febbraio di un anno fa ha apertamente fatto campagna elettorale contro il primo ministro: "Ho smesso di lavorare con lui perché ero semplicemente stufo".
Netanyahu si sta scontrando su molte questione di sicurezza con i propri generali, dalle proposte per migliorare le condizioni per i palestinesi in Cisgiordania (il primo ministro si oppone) alle accuse che il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas incita al terrorismo (lo Shin Bet dice che aiuta a combatterlo) alla proposta di Netanyahu di espellere le famiglie dei terroristi (i servizi segreti sono contrari). Sia lo Shin Bet sia il Mossad si opposero anche alla campagna militare contro Hamas a Gaza nel 2014.
Yuval Diskin, l'ex capo dei servizi di sicurezza (Shin Bet), è oggi uno dei più loquaci avversari di Netanyahu. Diskin ha detto che Netanyahu rappresenta una minaccia per il paese. Tra i capi dello Shin Bet e il primo ministro scorre cattivo sangue fin dall'assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995. Allora Carmi Gillon, che comandava i servizi durante l'attentato, dichiarò che la destra di Netanyahu era indirettamente responsabile dell'uccisione del premier laburista. L'ex capo del Mossad, Ephraim Halevy, avrebbe detto invece che gli ebrei ortodossi, alleati al governo di Netanyahu, costituiscono una minaccia ben più grande per Israele del programma nucleare iraniano. Il suo successore, Meir Dagan, ha poi orchestrato la più imponente campagna pubblica contro il proprio governo su come disarmare Teheran.
In un giorno imprecisato del 2010, Netanyahu, assieme al ministro della Difesa Ehud Barak, ordina all'esercito il livello "P+": prepararsi all'attacco alle centrali atomiche iraniane. I leak dall'ufficio di membri del governo avrebbero poi indicato che l'attacco venne sventato per l'opposizione dei capi della sicurezza, compreso Diskin. Barak ha confermato il rapporto alla televisione israeliana: "Al momento della verità, la risposta fu che non erano in grado", ha scandito Barak. L'esercito e i servizi non hanno mai perdonato a Netanyahu di averli fatti apparire come inetti. Ambienti vicini a Netanyahu dicono che Diskin è soltanto frustrato per non aver ottenuto la guida del Mossad. Nei cinquant'anni di vita dello stato ebraico ci sono stati 121 generali di brigata che sono divenuti ministri. E di oltre tredici capi di stato maggiore, almeno dieci sono entrati in politica. Il ministero della Difesa è sempre andato ai generali - come Moshe Dayan, Sharon, Shaul Mofaz, Yitzhak Mordechai - o a individui con un background nella sicurezza - come Shimon Peres, Moshe Arens, Benjamin Ben-Eliezer e Yitzhak Shamir. La nomina di Lieberman da parte di Netanyahu non ha precedenti (è completamente estraneo alla vita militare). Gli ultimi sei capi del servizio segreto sono inoltre tutti politicamente impegnati contro Netanyahu. A cominciare da Yaakov Peri, che ha servito lo Shin Bet dal 1988 al 1995 (oggi Peri milita nel partito di Yair Lapid). Nel 2003, in piena Intifada, molti di questi ex capi dei servizi segreti pubblicarono un appello sui quotidiani contro la "catastrofe" delle politica di Ariel Sharon. L'ex presidente e fondatore dell'aviazione, Ezer Weizmann, li accusò senza giri di parole di aver gettato disonore sul paese. Netanyahu non avrebbe saputo dirlo meglio. I generali avversi a Bibi non sono soltanto i beniamini dei media e della sinistra. Anche per l'Amministrazione Obama, che non ha mai fatto mistero di avere in odio Netanyahu, il vertice della sicurezza di Israele è un governo alternativo. Questa è la lezione che si ricava da un articolo pubblicato su Foreign Affairs da David Makovsky, un membro della squadra di negoziato del segretario di stato John Kerry durante il suo processo di pace fallito due anni fa. "Considerando il vuoto diplomatico nella politica israeliana", ha scritto Makovsky, "l'esercito israeliano ha lavorato per affermarsi come guardiano dei valori democratici e di stabilizzatore dell'arena israelo-palestinese". Bret Stephens, Premio Pulitzer del Wall Street Journal, difende invece Netanyahu dal nuovo putsch in fieri dei generali. "I leader militari e i funzionari della sicurezza sono alla sinistra del loro pubblico e della loro leadership civile" scrive Stephens. "E' l'establishment della sicurezza di Israele, guidato da ex ufficiali, come Yitzhak Rabin e Ehud Barak, che ha portato gli israeliani lungo il sanguinoso cul-de-sac chiamato 'processo di pace'. Se il loro parere non è più considerato come sacrosanto è un segno di maturità politica di Israele. Chi crede che Israele deve rimanere una democrazia non ha altra scelta che prendere le difese di Netanyahu".
C'è chi ricorda il clima del giugno del 1967, quando l'allora primo ministro Levi Eshkol aspettava il sostegno americano per quella che sarebbe diventata "la guerra dei Sei giorni", mentre eserciti arabi si ammassavano ai confini di Israele e gli alti papaveri dell'esercito dicevano che andare in guerra era meno pericoloso che non andare. Mentre il paese agonizzava in un'attesa snervante, l'allora maggiore generale Ariel Sharon cercò di persuadere il suo superiore Yitzhak Rabin di tentare un colpo di stato. Sharon in seguito avrebbe candidamente ricordato il discorso che voleva fare ai politici in carica: "Ascoltate, voi ministri, le vostre decisioni mettono in pericolo lo stato di Israele, e dal momento che la situazione ha raggiunto un punto critico, vi chiediamo gentilmente di andare nella stanza accanto e aspettare lì". Ma allora i ruoli erano invertiti: erano i politici le colombe e i generali erano i falchi; oggi, invece, i generali paiono dei pacifisti incalliti. Invertito anche il sentimento della popolazione: allora, i capi dell'esercito erano considerati cavalieri bianchi intoccabili; oggi sono visti con sospetto, tacciati di slealtà verso il loro primo ministro eletto e con mire politiche evidenti. Inoltre, la loro ricetta di ritiro unilaterale e di dialogo con la pistola alla testa è stata a dir poco disastrosa per Israele.
(Il Foglio, 4 giugno 2016)
Protervia omosessuale
Tel Aviv, capitale degli omosessuali: uno dei pochi titolo di "merito" che la libertina società occidentale era disposta ad assegnare a Israele. Tel Aviv però è stata anche designata e di fatto trattata come capitale di Israele. Dunque alla capitale morale dello Stato ebraico si sarebbe dovuto riconoscere un titolo di supremazia morale in fatto di tolleranza, anzi di superiore liberalità sessuale. Questo però stride contro il comune senso di disprezzo che si prova per lo stato ebraico. Sono stati allora gli stessi partecipanti all'ultima sfilata della protervia omosessuale a porvi rimedio. Come dice un comunicato d'agenzia, "Lesbiche, gay, bisessuali e transgender hanno accusato Israele di aver voluto ospitare la manifestazione solo per ripulire la propria immagine e offrirne una al mondo più liberale." Così, alle tradizionali accuse rivolte di solito a Israele adesso se ne aggiunge un'altra: quella di "Pink Washing", termine tecnico con cui si intende "una tecnica di comunicazione fondata sulla promozione dell'omosessualità da un'entita politica per tentare di modificare la sua immagine e la sua reputazione in senso progressista, tollerante e aperto".
Il sostegno alla protervia omosessuale dunque non porterà alcun bene a Israele, anzi al contrario, perché calpesta esplicitamente quella Torah considerata vanto e caratteristica del popolo ebraico, offende sfacciatamente quel Dio da cui Israele trae legittimità per abitare quella terra e non attrae simpatie tra chi ha già deciso che in ogni caso Israele deve essere sempre accusato, qualunque cosa faccia. M.C.
(Notizie su Israele, 4 giugno 2016)
Chi rilancerà il dialogo israelo-palestinese, Parigi o il Cairo?
di Paola Peduzzi
MILANO - Cinque ore di dibattito, 26 ministri degli Esteri, nessun rappresentante di Israele e dell'Autorità palestinese, la solennità che soltanto i palazzi del potere francese sanno trasmettere, un comunicato finale che esprime preoccupazione sul deteriorarsi dei rapporti diplomatici nella regione, chiede "un impegno genuino a ricostruire la fiducia" e ripropone la soluzione "due popoli due stati". Questa è la sintesi del vertice tenutosi ieri a Parigi per rilanciare il dialogo israelo-palestinese interrotto dal 2014. Il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, parlando con il Monde ha posizionato la conferenza di Parigi come l'appuntamento più importante dal vertice di Annapolis, che fu organizzato dall'allora presidente americano George W. Bush: nove anni fa. La Francia ha l'ambizione di riempire il vuoto americano nel mondo, ce l'ha sempre avuta e ancor più la sente urgente adesso che, sul fronte interno, vive una crisi politica di attesa sterile all'appuntamento delle presidenziali del prossimo anno: anche per questo è molto attiva nella gestione delle crisi internazionali, dalla lotta allo Stato islamico alla stabilizzazione della Libia al rilancio del dialogo israelo-palestinese di cui nessuno si occupava più da un bel pezzo, fa affari e accordi con l'Egitto, che è considerato ancora nella regione un mediatore affidabile anche da Israele, e investe su una relazione imprenditorial-militare con l'Iran, dopo essersi a lungo opposta a un accordo nucleare con Teheran dai compromessi elevati.
Sulla questione israelo-palestinese, la Francia parte dalla cosiddetta "iniziativa araba", che risale al 2002, su cui però Israele è freddo prediligendo invece un'iniziativa guidata dal presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, che faccia ripartire il negoziato diretto tra israeliani e palestinesi - principio ispiratore della gestione della questione fin dagli Accordi di Oslo. Stando a un retroscena pubblicato su Haaretz, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha chiamato giovedì sera il segretario di stato americano, John Kerry, chiedendogli di fare tutto il possibile per evitare un comunicato finale troppo duro nei confronti di Israele. Ma la telefonata non è servita a molto, e ieri Gerusalemme ha rifiutato l'esito del vertice. Il Washington Post, ironizzando sul fatto che tutt'a un tratto stanno riemergendo iniziative sulla questione israelo-palestinese, ha riportato le parole di Netanyahu, che teme "un uragano diplomatico" per la seconda metà dell'anno. Quando il premier francese, Manuel Valls, è andato in Israele un paio di settimane fa, si è sentito dire in conferenza stampa dal suo collega israeliano che "la pace non si raggiunge semplicemente attraverso conferenze internazionali in stile Onu". Per questo il governo di Gerusalemme preferisce coinvolgere il presidente egiziano al Sisi, visto che la collaborazione in termini di sicurezza non è mai stata tanto alta tra Egitto e Israele. I palestinesi sono d'accordo a seguire un'eventuale iniziativa egiziana, anche se, come scrive il Wall Street Journal, sui termini concreti le visioni divergono. Israele chiede a Sisi di fare pressioni sui paesi della regione per normalizzare le relazioni economiche e diplomatiche con Gerusalemme, mentre i palestinesi dicono che il ruolo di Sisi è quello di riaprire il negoziato diretto ma quanto all'accordo quadro "l'iniziativa francese è l'unica in città ora", ha detto un negoziatore palestinese.
Mentre i diplomatici americani lamentano l'assenza di Washington - lo stesso Kerry ha detto a Parigi: "Non sono qui per guidare il vertice" - la Francia tenta di imporre la propria leadership, con una minaccia velata: se non si riesce a fissare una data per i colloqui diretti israelo-palestinesi, allora Parigi dovrà perseguire la via unilaterale palestinese all'Onu. Sarebbe il primo grande paese europeo a farlo.
(Il Foglio, 4 giugno 2016)
Ricongiungimento familiare e terrorismo in Israele
di Antonio Albanese
GERUSALEMME - Un comitato congiunto della Knesset Affari esteri e Difesa e degli Affari interni e Comitati Ambiente ha raccomandato che il plenum dell'assemblea estenda di un altro anno le norme emergenziali sul ricongiungimento familiare in Israele.
La legge del 2003, riporta Jni.Media, approvata al culmine della seconda Intifada, limita la capacità dei residenti di Iran, Afghanistan, Libano, Libia, Sudan, Siria, Iraq, Pakistan, Yemen, Cisgiordania e Striscia di Gaza di ottenere automaticamente lo status legale di cittadino d'Israele automatico per i cittadini stranieri che sposano cittadini israeliani. La richiesta è stata oggetto di un braccio di ferro tra la Corte Suprema, che aveva proibito di rendere la prestazione permanente, e la Knesset, che aveva votato per estendere le regole temporanee di emergenza per ogni anno a partire dal 2004. In vista del relativo voto di quest'anno, il Comitato misto ha audito esperti e funzionari della sicurezza. Per lo Shin Bet, coloro che cercano il ricongiungimento con i familiari in Israele rappresentano un rischio per la sicurezza a causa della possibilità che si tratti di spie o di terroristi. Secondo lo Shin Bet, 104 cittadini o residenti legali ammessi in Israele grazie alle norme sul ricongiungimento hanno poi commesso crimini di terrorismo tra il 2001 e il 2016. Di questi 104 cittadini israeliani, 17 erano sposati, mentre 87 erano parenti di persone che avevano sposati cittadini israeliani. In questo quadro, magna par l'avevano avuta gli arabi: il 73% dei terroristi con cittadinanza israeliana che avevano commesso atti di terrorismo contro gli israeliani dallo scorso settembre erano beneficiari del ricongiungimento familiare. Dei 104 terroristi, entrati in Israele nel 2015, 30 erano stati coinvolti in attacchi terroristici negli ultimi nove mesi; il 13% del totale. La magistratura israeliana ha ricordato che più di 12.500 persone hanno presentato domanda di status giuridico secondo le norme e non si può generalizzare sulla questione. La presidenza del comitato congiunto si è detta sì molto preoccupata ma che occorreva anche prendere in considerazione la popolazione più anziana, le persone di età oltre i 60 anni, così come i minori di età compresa tra 14 a 18 anni, che non possono essere esclusi aprioristicamente. Per questo ha rimandando la discussione al plenum dell'assemblea raccomandandone l'estensione per un anno, ma chiedendo nel contempo riunioni supplementari su questi temi entro i prossimi sei mesi.
(agc, 4 giugno 2016)
I veri "musulmani moderati" sono linciati dai benpensanti di sinistra
Il libro contro Kamel Daoud, "martire in pelle di coniglio"
di Giulio Meotti
ROMA - Si è aperto ieri in Algeria il processo d'appello contro il salafita Abdelfatah Hamadach, riconosciuto colpevole in primo grado di aver minacciato di morte lo scrittore e giornalista Kamel Daoud, l'autore del romanzo "Il caso Meursault". Ma Daoud, oltre agli editti di questi predicatori islamici, deve affrontare una condanna più sinuosa e sottile. Quella della gauche francese. Non bastava l'appello sul Monde di venti accademici che hanno stilato una dichiarazione che accusa Daoud di una serie di crimini ideologici precisi: "cliché orientalisti", "essenzialismo", "psicologizzazione", "paternalismo colonialista", che corrispondono, nel loro insieme, a un'accusa di "razzismo" e "islamofobia". Adesso esce anche un libro, dal titolo "Kamel Daoud, la contre enquête", a firma di Ahmed Bensaada (Editions Frantz Fanon) e con la prefazione del giornalista francese di Mediapart, Jacques-Marie Bourget.
Un libro per mettere all'indice lo scrittore algerino, per dire che è una truffa, un razzista, un pupazzo nelle mani di abili propagandisti. Bourget attacca "questi intellettuali del Nord Africa, che, da un effetto pendolo degno di Foucault, fanno gli ausiliari dei pensatori neo-conservatori francesi" che hanno bisogno del "buon negro", "l'alibi nativo". Daoud viene addirittura definito "martire di una fatwa in pelle di coniglio", colpevole di ritrarre "tutti gli arabi e i musulmani nel mondo come frustrati, furfanti senza coraggio, esseri senza credenze, corrotti e acquistabili dal miglior offerente". Daoud "il Savonarola di Orano" che, "di fronte alla ingiustizia ignominiosa fatta ai palestinesi è dalla parte dei carnefici". Daoud strumento del "pensiero neocolonialista", al pari di Boualem Sansal, un altro romanziere algerino depennato dalla lista dei candidati al Goncourt perché ha scritto un romanzo "islamofobo". Daoud "l'utile idiota di una cricca di intellettuali del Flore" (il caffè parigino).
Una sorte che Daoud condivide con altri cinque-sei intellettuali islamici di Francia, considerati come traditori da parte dei fondamentalisti islamici, scrittori e giornalisti della cultura arabo-musulmana che denunciano la minaccia islamista e la violenza intrinseca del Corano. Sono soli contro tutti. Contro l'islamismo che usa i kalashnikov, ma anche contro un terrorismo intellettuale che li sottopone alle intimidazioni dei media. Come la giornalista Zineb El Rhazoui, rea di lavorare nella redazione di Charlie Hebdo.
Le minacce contro Nadia Remadna non arrivano da Raqqa, in Siria, ma dalla sua stessa città: Sevran, nella Seine-Saint-Denis. Come il franco-algerino Mohamed Sifaoui. Il Collettivo contro l'islamofobia in Francia rivendica la sua emarginazione del dibattito pubblico, mentre lo scienziato geopolitico Pascal Boniface contesta la legittimità della sua presenza sui televisori. In un libro, Boniface definisce addirittura Sifaoui un "falsario" al servizio dell'anti-islam in Francia. Stessa sorte per l'insegnante di Filosofia Sofiane Zitouni, che ha lasciato il suo lavoro presso una scuola francese dopo aver denunciato "l'insidioso islamismo" in un articolo su Libération e che ha appena scritto il libro "Confessions d'un fils de Marianne et de Mahomet". Un bugiardo, secondo la giustizia francese che ha dato ragione alle organizzazioni islamiche che lo avevano accusato di non avere prove a sostegno delle sue accuse all'istituto scolastico. Oggi Zitouni insegna in un liceo cattolico nel nord, a Valenciennes.
Ironia della sorte, tutti questi scrittori arabo-musulmani avevano scelto di scrivere e comporre in Francia perché la consideravano libera. Molti non hanno più neppure rimesso piede nei loro paesi, come Sifaoui in Algeria. Avevano in programma di trasferirsi nel paese di Voltaire. Sono atterrati invece nella Francia immaginata da Michel Houellebecq.
(Il Foglio, 4 giugno 2016)
Israele: la Conferenza di Parigi blocca la pace
Ministero degli Esteri: 'Si tratta di un'occasione perduta'
La Conferenza di Parigi allontana la pace fra israeliani e palestinesi. Lo afferma il ministero degli esteri israeliano. ''Si tratta di una occasione perduta. Invece di insistere con il presidente palestinese Abu Mazen affinché riprenda trattative dirette senza precondizioni - si legge in un comunicato - la comunità internazionale gli ha permesso di continuare a sfuggire. Nella Storia questa conferenza sarà ricordata per aver contribuito ad irrigidire le posizioni palestinesi''.
(ANSAmed, 3 giugno 2016)
"In Israele la minaccia di foreign fighters e Is è sotto controllo"
GERUSALEMME - Il giro di vite di Israele sui cittadini arabi che cercano di unirsi allo Stato islamico in Siria o in Iraq o di formare nuove cellule terroristiche nel paese ha contrastato efficacemente il radicamento del fenomeno, diversamente da quanto avvenuto nell'Occidente: lo ha dichiarato al bimestrale "Israel Defence" Eitan Ben-David, capo dell'Ufficio antiterrorismo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Circa il 18 per cento della popolazione di Israele è araba musulmana, e una quota significativa di questa minoranza di identifica con la lotta palestinese, anche se raramente ricorre alle armi contro la maggioranza ebraica, scrive la "Jerusalem Post". Tuttavia, la fuga di molti arabi israeliani verso le aree di Siria e Iraq controllate dall'Is, e i processi a cittadini israeliani che hanno proclamato la loro vicinanza al gruppo terroristico hanno spinto il presidente d'Israele, Reuven Rivlin, a denunciare pubblicamente lo scorso gennaio la "considerevole radicalizzazione" della minoranza araba d'Israele. Ben-David ha spiegato a "Israel Defence" che "più di qualche decina, ma non oltre 100" arabi israeliani si sono uniti ranghi dello Stato islamico. Il nostro paese non è come qualsiasi nazione europea, e nemmeno come gli Stati Uniti o alcune regioni della Cina o della Russia", dove il fenomeno è più esteso, ha detto il funzionario.
(Agenzia Nova, 3 giugno 2016)
Sostegno al terrorismo e retorica anti occidentale, questo è (ancora) l'Iran post deal
di Emanuele Rossi
L'Iran non collaborerà mai con gli Stati Uniti, "il Grande Satana", ha detto la Guida suprema Ali Khamenei oggi, 3 giugno, durante un discorso, ripreso da tutte le tv di stato, per commemorare l'anniversario della morte del fondatore della Rivoluzione, l'Ayatollah Ruhollah Khomeini.
Il report del Dipartimento di Stato
Una retorica anti occidentale continua. Giovedì a Washington è stato pubblicato lo State Department's annual survey of worldwide terrorism rapporto annuale, in cui si definisce l'Iran il principale dei paesi che finanziano il terrorismo nel mondo: "È rimasto il più importante stato sponsor del terrorismo [pure] nel 2015, fornendo una gamma di sostegno, anche finanziario, formazione e attrezzature, a gruppi in tutto il mondo". Hezbollah, Hamas, le tante milizie sciite irachene, siriane, afghane, colpevoli di innumerevoli attentati anni fa, che adesso nella pragmatica della guerra al Califfato sono state riqualificate a "quasi-alleate": è lunga la lista dei clienti di Teheran. Armi asimmetriche, proxy che la Repubblica islamica usa per diffondere la propria influenza nella regione mediorientale, in una lotta senza scrupoli contro l'opposizione ideologica e geopolitica dell'Arabia Saudita, il regno dei sunniti, nemici esistenziali. Ma l'Iran non è solo una sponda per i gruppi armati sciiti: ne è dimostrazione la storia dell'uccisione del leader dei talebani afghani, il mullah Mansour, colpito in taxi mentre tornava da una visita alla sua famiglia, messa al sicuro proprio in Iran. Il capo di uno dei gruppi integralisti più pericolosi del mondo si è mosso in modo indisturbato, sfruttando un passaporto pakistano per entrare e uscire dalla repubblica degli ayatollah, che nonostante le distanze ideologiche con le fazioni jihadiste sunnite in più di un'occasione ha fornito riparo ai loro leader (è successo anche con al Qaeda) in cambio di non belligeranza e supporto logistico, sfruttandone le azioni per colpire il nemico comune, l'Occidente - con cui Teheran firma accordi politici, economici, commerciali, e con cui condivide adesso i tavoli negoziali su vicende globali come la crisi siriana.
Il parlamento non cambia
Lunedì 30 maggio Ali Larijani è stato rieletto a stragrande maggioranza presidente del parlamento iraniano. Larijani, cinquantasettenne ormai anagraficamente ex rampollo di una potente famiglia di Najaf, già comandante dei Pasdaran e poi segretario del Supremo consiglio di sicurezza nazionale sotto il pugno duro di Mahmoud Ahmadinejad (gli anni della retorica atomica e delle sanzioni, in cui Larijani occupò anche il ruolo di capo negoziatore mentre il dialogo falliva volta su volta), è in carica come chairman parlamentare dal 2008: con il rinnovo della nomina ha tagliato fuori le mire riformiste (le posizioni rappresentate in summa dal presidente Hassan Rouhani), che dopo i buoni risultati elettorali di febbraio avevano puntato alla poltrona come riconoscimento politico. Magra consolazione, l'elezioni a vice-presidente del parlamento di Ali Motahhari, riformista spesso critico con il regime, al quale andranno poteri formali.
Il capo degli esperti
Larijani non è un conservatore dei più rigidi, per esempio ha gestito in modo elastico l'approvazione da parte della camera del deal nucleare chiuso il luglio scorso: la sua vittoria era attesa, anche perché l'unico sfidante, il riformista Mohammad Reza Aref, si è ritirato, inerme, dalla corsa il giorno stesso del voto. Il 24 maggio anche il Consiglio degli Esperti, l'organo politico teocratico che ha il potere di eleggere la nuova Guida suprema, ha votato il suo presidente: è l'ayatollah Ahmad Jannati, ottantanove anni, considerato uno degli hard-liner più vicini a Khamenei. Dirige già il Consiglio dei Guardiani, che tra le varie funzioni ha quella di vagliare i candidati alle elezioni parlamentari: risultato delle verifiche alle ultime elezioni, oltre tremila candidati di area riformista sono stati dichiarati non eleggibili e fatti fuori dalla tornata elettorale. Nell'occasione di quelle votazioni gli iraniani furono chiamati a decidere anche i rappresentanti del Consiglio degli Esperti, e Jannati riuscì a vincere soltanto l'ultimo dei seggi disponibili tra quelli di Teheran. Nonostante il suo nome non avesse incontrato il grosso del consenso degli elettori, e pare che dietro la sua elezione ci siano stati brogli per farlo rientrare, l'assemblea ha deciso lo stesso di eleggerlo come presidente.
Il falco dei falchi
"Comprendere le dinamiche interne al palazzo iraniano è lavoro complicato e carico di pregiudizi scrive Paola Peduzzi sul Foglio ma l'ayatollah Jannati semplifica parecchio il lavoro. Il Wall Street Journal ha messo in fila qualche frase celebre del nuovo leader del Consiglio degli Esperti, che deciderà il successore della Guida suprema Ali Khamenei: Jannati dice che gli americani sono "i più grandi sponsor del terrorismo internazionale", che gli ebrei "hanno sembianze umane ma in realtà hanno i modi dei maiali e dei predatori", che "la caduta di Israele è vicina". Sugli oppositori del regime, Jannati ha detto che "non c'è spazio alcuno per la misericordia", e infatti era a capo di quel Consiglio dei guardiani che legittimò i brogli delle elezioni del 2009 e la repressione di piazza. Il "falco dei falchi", come lo chiamano in molti, ha ottenuto il 57 per cento dei consensi degli Esperti - tra i quali ci sono anche il presidente Rohani e l'ex presidente Hassan Rafsanjani, che oggi viene annoverato tra i cosiddetti riformisti, relativamente parlando s'intende - ma la sorpresa è stata tutta e soltanto internazionale".
A Teheran la linea conservatrice ancora regge
Più passa il tempo e più Teheran resta quel che era, nonostante i riformisti a febbraio abbiano riportato un buon risultato elettore, e sebbene Barack Obama con il deal sul nucleare ne abbia sancito la riqualificazione diplomatica globale. Le due elezioni nell'arco di una settimana sono anche un avviso per una parte della più disattenta stampa internazionale, che ha celebrato la riqualificazione iraniana su un'onda emotiva dimenticando, per esempio, che visto le precarie condizioni di salute di Khamenei (e la sua anziana età) sarà proprio questo Consiglio degli esperti a eleggere il suo successore, ossia sarà il Consiglio diretto dal "falco dei falchi" a nominare la prossima Guida suprema del sistema statale teocratico iraniano. Il potere teocratico è reazionario, conservatore, fortemente ideologizzato sulla linea anti-occidentale, e ancora molto influente, nonostante molti imprenditori tengano d'occhio l'Iran con interesse. Risultati: l'Iran sposta sempre più la livella ideologica della guerra siriana, i suoi soldati e le milizie che muove sono il forte dell'esercito di Damasco, adesso più che mai, anche a causa del distacco di Mosca da questa linea integralista; proseguono i test missilistici (proprio il presidente Larijani si fece riprendere in visita a una base segreta sotterranea mesi fa) e la corsa agli armamenti, in questo caso anche con la sponda russa, che nella pragmatica del mercato dimentica il distacco che vuol far segnare in Siria e spedisce in Iran i potenti sistemi antiaerei S300; le vie commerciali che le sanzioni dovevano riaprire, facendo anche da snodo per un passaggio mercato/società, in realtà soffrono, perché chi fa impresa fatica a fidarsi e le banche non danno garanzie sugli ayatollah (argomento su cui è tornata oggi la retorica della Guida suprema: gli Stati Uniti stanno facendo i "bulli" e cercano di tagliare fuori il nostro paese dalle banche).
(formiche.net, 3 giugno 2016)
Giannini e Gattegna in Israele. Arabi ed ebrei, la convivenza si impara sui banchi di scuola
Prosegue ai più alti livelli la missione del ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Stefania Giannini, in Israele per celebrare i 15 anni dall'accordo di cooperazione scientifica con l'Italia e stabilire nuove collaborazioni in ambito scientifico e culturale. Come testimonia la folta delegazione di rettori italiani, la più nutrita di sempre, impegnata negli scorsi giorni in numerose iniziative e convegni insieme tra gli altri a Università di Tel Aviv, Idc di Herzlyia e Technion di Haifa....
(moked, 3 giugno 2016)
Isaac Herzog ha smarrito il contatto con la base e perso il radicato consenso
Israele, i balbettii del centrosinistra
di Alfredo Enrico De Girolamo Catassi
Gerusalemme, i negoziati con i palestinesi sono congelati da empo, i] piano proposto da Parigi è stato rigettato da Gerusalemme, che tuttavia in queste ore ha lasciato uno spiraglio d'azione alla diplomazia egiziana, coinvolgendo indirettamente ai tavolo anche la Lega Araba, nella prospettiva dl riportare la questione palestinese in un ambita regionale. Intanto la maggioranza di governo si allarga con l'ingresso di Ysrael Beitenu, assorbendo un'altra forza dl estrema destra. Nella attuale Knesset (il Parlamento israeliano) il premier Netanyahu può contare su 66 voti dei 120 seggi. E in vista dell'approvazione del prossimo bilancio si prepara ad evitare uno scoglio viscido. Mentre, sul fronte dell'opposizione il centrosinistra israeliano naviga tra malumori interni e la mancanza di una lurninosa leadership. Generali, slndacalisti, sindaci, giornalisti e avvocati si sono susseguiti alla guida della principale forza laburista del paese (HaAvoda) in questi quindici anni. Figure lanciate coraggiosamente a mani nude nell'arena politica per essere sbranati dal leone di turno. Parabole discendenti di leader provvisori. Una generazione dirigenziale decapitata asfaltata dal voto, al ritmo di «Avanti un altro». Ben Eliezer, il Falco della sinistre; Mitzna, il politico venuto dal kibbutz; Peres, lo statista senza popolo; Peretz, "il baffone", ll sindacalista che si è perso in guerra; Barak, la minestra riscaldata; Harish, lo sconosciuto; Yachimovich, la giornalista che sapeva di perdere; Herzog, Il secchione, il primo della classe. L'ultimo della lista, "inciampato" politicamente in una recente trattativa con lo stesso Primo Ministro. operazione fallita nel battere di un'ala di farfalla, come era prevedibile. Pesano sul leader laburista le dichiarazioni da lui stesso pronunciate pubblicamente In questi mesi «Mai con Bib». Per poi Inaspettatamente scegliere di sedersi al tavolo dei negoziati, forse nella speranza dI ottenere quel ruolo che molti, non solo in Israele, vorrebbero che ricoprisse: il vertice della diplomazia. Posizione chiave che tuttavia Netanyahu si è guardato bene dall'offrire all'avversario mentre lo accomodava nella sua tana fatale.
Alla fine per Herzog il tiro incrociato della stampa e le parole, non proprio gentili, di alcuni suoi colleghi di partita. Un partito che ha smarrito il contatto con la base e perso ll radicato consenso elettorale. Paradosso di uno spazio politico che ha letteralmente costruito le fondamenta democratiche dello stato ebraico e che con il passare del tempo non ha saputo risollevarsi da un lento e inesorabile declino. ll centrosinistra è così entrato in un limbo, una stagnazione, una asfissia tra il sogno di diventare un'alternativa concreta di governo e la realtà di restare a vita una minoranza silente, debole, ininfluente. In Israele oggi il potere è saldamente in mano al politico più longevo della sua storia, Benjamin Netanyahu. Fondatore di una nuova destra nazionalista: meno liberale e più settaria. L'uomo del grande freddo con la Casa Blanca. Diffidente per natura, in primis con i palestinesi. Erede dell'ideologia populista dl Begin Distante anni luce sia dalla visione di compromesso storico di Shamir che dal pragmatismo di Sharon. Mattatore delle campagne elettorali, politico di successo. Il Likud, il suo partito è con lul, il presidente della Repubblica Rivlin no. Netanyahu il falco, fautore di una linea di pensiero che guarda ai coloni e apre ai religiosi. E' alleato di Naftali Bennet, non solo per convenienza. Ha messo sul carro l'ultra nazionalista Lieberman, nominandolo alla Difesa, e ha fatto uscire dal governo una figura storica e autorevole del suo partito corne Moshe Ya'alon. Netanyau con noncuranza e tanti compromessi continua perl a sua strada. Ha puntellato una maggioranza scricchiolante, ma con quale rischio?
(l'Unità, 3 giugno 2016)
Dopo il il manifesto, anche lUnità scrive un articolo di elogio per Netanyahu. Naturalmente non volevano farlo, ma nel descrivere così bene il modo in cui ha saputo trattare con i suoi avversari esterni ed interni, e farli fuori, oggettivamente ne hanno sottolineato le capacità politiche, e indirettamente lincapacità dei suoi avversari. Una domanda agli ebrei di sinistra: ma se la sinistra in Israele è così divisa allinterno e così incapace di saper vincere i suoi avversari politici allinterno del paese, come si può pensare che sarebbero capaci di capire e vincere i loro avversari allesterno del paese? Per il bene di Israele, se veramente lo desiderano, non sarebbe il caso di tenersi stretto Netanyahu e augurarsi che possa continuare a governare fino a che qualcosa di meglio non venga fuori? M.C.
Se il summit sulla pace dimentica la guerra
di Fiamma Nirenstein
Negli anni, si sono viste una mezza dozzina di conferenze di pace. Eccone un'altra a Parigi, un «summit» apertosi ieri sera con una cena dei rappresentanti di 29 stati e oggi concentrata su questioni territoriali, politiche, economiche, militari... Chi più ne ha più ne metta. Nessuna delle conferenze, compresa quella di Annapolis indetta da Ehud Olmert e Abu Mazen, in cui Israele avrebbe dato anche la camicia pur di arrivare a un accordo, ha portato a risultati significativi, semmai dopo si è assistito a scoppi di terrorismo e a guerre con Hamas. Adesso, l'iniziativa francese porta a Parigi nuove previsione di freddo e maltempo e contiene sin dal suo primo inizio una bizzarria: i due protagonisti non sono invitati. Ovvero, Israele e i Palestinesi restano a casa mentre tutti gli altri non solo parlano della annosissima questione, ma hanno già dato un avvertimento: anche se non vi piace, dopo comunque si fa come abbiamo deciso noi. Figuriamoci.
Altra bizzarria: mentre Israele è decisamente contrario, Abu Mazen è contentissimo di questa scelta: se vi concentrate un attimo capirete subito perché. Basta guardarsi indietro nel tempo e ricordare che è ormai dal 2009 che Netanyahu ha invitato Abu Mazen a sedersi di nuovo al tavolo delle trattative, e ha ripetuto la proposta decine di volte, ma sta ancora aspettando. I palestinesi hanno svariate buone ragioni per non volere trattative dirette: dovrebbero accettare i propri interlocutori come rappresentati di quello che si ostinano a non riconoscere come Stato Ebraico; e in secondo luogo, perché sudare tanto nelle trattative quando hai un muro di difesa consistente come il consesso internazionale, che non penalizza la violenza terrorista, non riconosce come tale l'incitamento e l'antisemitismo, ritiene sostanzialmente un mito il problema di sicurezza che Israele pone essendo l'unica democrazia occidentale nel mezzo della foresta isla-mista?
Via via che ci si avvicinava al summit, anche i promotori si sono accorti che il fasto dell'Eliseo non basta, tanto che il volume è stato abbassato: il documento programmatico che doveva presentarlo è diventato un documento conclusivo da definirsi; i dibattiti si svolgeranno praticamente in mezza giornata; il segretario di stato americano Kerry (dopotutto gli Usa sono sempre il deus ex machina) è presente, ma si limita, come ha detto finora, ad «ascoltare ogni buona idea».
Intanto Netanyahu ha dichiarato che «la via per la pace non passa da conferenze internazionali che cercano di imporre accordi e rendono le richieste palestinesi più estreme allontanando quindi la pace» che va ottenuta attraverso negoziati diretti e senza precondizioni. «Questo è il modo in cui abbiamo raggiunto la pace con l'Egitto e la Giordania e così si deve fare coi Palestinesi - ha detto -. Se la Conferenza vuol fare qualcosa deve chiedere a Abu Mazen di affrontare negoziati diretti».
Accanto a questo, l'idea che corre, da quando il 17 di maggio al Sisi si è offerto come mediatore riproponendo la proposta saudita che mette un accordo coi palestinesi sulla stessa pagina di un nuovo rapporto coi maggiori paesi arabi. Cioè: un cappello di apertura dei paesi sunniti moderati, dato che gli interessi strategici sono simili (stop all'Isis, ma anche agli hezbollah, all'Iran) porterebbe a vere trattative coi palestinesi. Owero: la Francia è stata bravissima, sì; ma a mostrare che la strada verso la pace è tutt'altra rispetto a quella da lei proposta.
(il Giornale, 3 giugno 2016)
Shoah in Polonia, due volte vittime
L'ebreo Goldkorn, figlio di comunisti, torna nel Paese dove la sua famiglia fu perseguitata: dai neri e dai rossi.
di Anna Foa
Questo è uno di quei libri che ti prendono senza più lasciarti, che colpiscono ed emozionano, oltre che affascinare con la tersa scrittura. II bambino del titolo è il cuginetto neonato, abbandonato dalla madre nella neve per sfuggire ai nazisti. Ebreo, giornalista, scrittore, Wlodek Goldkorn è nato in Polonia e l'ha lasciata nel 1968, quando l'antisemitismo non concesse più spazio agli ebrei. Questo libro è il suo via o nelle radici polacche ed ebraiche, nella sua famiglia, nel comunismo e soprattutto nel grande buco nero della Shoah, sempre presente nelle pagine, sia pur con riserbo e discrezione, senza vittimismi.
I genitori di Wlodek erano ebrei comunisti che nel 1939, dopo l'invasione tedesca e rossa, si rifugiarono a Leopoli, allora occupata dai rossi, solo per essere poi inviati a lavorare, in condizioni terribili, nelle miniere ucraine. Sopravvissero e rientrarono in Polonia, nonostante l'antisemitismo diffuso e i pogrom come quello di Kielce del 1946, dove sull'accusa di avere assassinato un bambino cristiano 40 ebrei sopravvissuti alla Shoah furono massacrati dalla popolazione. Frano comunisti, però non restarono per costruire il socialismo, dice Wlodek, «ma perché volevano che la loro vita proseguisse nel paese del nulla, nel luogo delle tombe. L'unica vita che potesse assomigliare a una vita vera, l'unica forma di vita onesta e decente era in mezzo ai morti e ai fantasmi».
Dei trecentomila ebrei rimasti in Polonia nel dopoguerra, fra quelli sopravvissuti e quelli ritornati in Polonia dall'Urss, ben duecentomila se ne andarono dopo Kielce. Il padre di Wlodek restò: faceva il giornalista ed era attivista del Comitato ebraico centrale, che riuniva sionisti, bundisti, comunisti. Sognava di ricostruire la Polonia ebraica, e il suo strumento era la cultura yiddish. Ma l'ombra della memoria, del vuoto creato dalla Shoah, dei morti si allungava su di lui come sugli altri ebrei polacchi. Memorabile il racconto della visita ad Auschwitz nel 1964, come giornalista; là erano morti sua madre e suo padre. A Birkenau raccoglie da terra un libro di preghiere ebraiche che giace nel fango; pensa che sia appartenuto a sua madre nel percorso verso la camera a gas e cade svenuto. A 15 anni, nel 1967, Wlodek diviene, come tutti gli altri ebrei polacchi, un nemico della Polonia, una quinta colonna dell'imperialismo. Nel 1968 la famiglia parte per Israele. Qui Wlodek fa il servizio militare, però lascia il Paese dopo aver rifiutato di obbedire ad ordini che non condivide. Va prima a Francoforte, ma l'ombra del passato lo scaccia ancora. Infine l'Italia, dove resta. Solo nel 1987 tornerà a visitare la Polonia; ed è di oggi il viaggio di cui questo libro è il frutto, un ritorno alla Polonia e una visita attenta a tutti i campi di sterrino.
Goldkom non è una vittima, ci tiene a non esserlo. Le vittime, i sopravvissuti, sono i suoi famigliari. Ma è vittima del vuoto creato dai milioni di morti, dalla distruzione di un popolo, e poi della distruzione ad opera del comunismo delle speranze di chi non aveva ceduto e avrebbe voluto ricostruire. In questo vuoto si è però creato un padre d'adozione, Marek Edelmann, l'unico capo sopravvissuto della rivolta del ghetto di Varsavia, uno dei pochi che hanno scelto di non lasciare la Polonia. Con lui ha avuto densi colloqui, realizzato interviste e libri, discusso di ebrei, di morale, di Israele.
Quando lasciarono la Polonia, lui e i suoi avevano solo 5 dollari ciascuno ma tanti fiori dati dagli amici che poi li avrebbero seguiti. Erano fiori polacchi, il titolo del poema di un ebreo scritto durante la Shoah, «la confessione di un amore folle per tutto ciò che sa di polacco, forse di una malattia chiamata Polonia». Da questo male Goldkom non vuole guarire.
(Avvenire, 3 giugno 2016)
Netanyahu e l'iniziativa di pace araba "da aggiornare"
La sfida per Netanyahu, nella sua nuova apertura verso il piano arabo, non è convincere Liberman, ma la Lega Araba.
C'è chi ha visto la dichiarazione di Benjamin Netanyahu di lunedì sera, circa la sua disponibilità a negoziare sulla base dell'iniziativa di pace araba (saudita) del 2002, come una cosa del tutto insignificante perché già detta in passato. Altri invece, soprattutto negli ambienti più vicini al primo ministro, l'hanno vista come il preludio di un nuovo impulso verso la pace. La verità? Sta da qualche parte a metà strada.
E' vero che in passato Netanyahu aveva già aperto all'iniziativa di pace araba. Lo fece subito dopo il suo insediamento, nel 2009, quando disse, durante un ricevimento a casa dell'ambasciatore egiziano a Herzliya, che Israele "ha apprezzato gli sforzi degli stati arabi per avanzare un'iniziativa di pace, e se queste proposte non sono immodificabili, allora credo che il loro spirito possa creare un'atmosfera che renda possibile una pace complessiva". In quell'occasione Netanyahu sottolineò che lo spirito di riconciliazione presente nell'iniziativa araba costituisce un cambiamento importante rispetto allo spirito di Khartoum: un riferimento al summit dei capi di stato arabi, subito dopo la guerra dei sei giorni, che disse esplicitamente "no alla pace, no al riconoscimento, no ai negoziati con Israele"....
(israele.net, 3 giugno 2016)
Esami del sangue senza prelievo: da Israele arriva "MTX" featured flag in evidenza
Approda in Italia TensorTip MTX, un prodigio tecnologico creato dalla ricerca israeliana della CNOGA: in una scatoletta di 99,9 grammi è concentrato un laboratorio di analisi ematochimiche ed emodinamiche capace di restituire in tempo reale e senza prelievo di sangue 14 parametri fondamentali per valutare la condizione del paziente.
Giovedì 02 Giugno 2016 -
Approda in Italia TensorTip MTX, un prodigio tecnologico creato dalla ricerca israeliana della CNOGA: in una scatoletta di 99,9 grammi è concentrato un laboratorio di analisi ematochimiche ed emodinamiche capace di restituire in tempo reale e senza prelievo di sangue 14 parametri fondamentali per valutare la condizione del paziente: frequenza cardiaca (battiti al minuto), pressione arteriosa, saturazione di ossigeno, emoglobina, pH capillare, pressione parziale di O2, pressione parziale di CO2, Ossigeno ml/dL, Biossido di Carbonio mmol/L, pressione arteriosa media, portata cardiaca, gittata cardiaca, ematocrito, viscosità ematica, eritrociti oltre al flusso d'onda dal vivo della pressione ematica e il polso, mostrati sul display da 2,2 pollici.
E' sufficiente inserire un dito della mano sinistra all'interno del dispositivo e in pochi secondi si ottengono i valori dei parametri e il grafico dell'elettrocardiogramma. Collegando "MTX" a un computer, i dati possono essere trasmessi a un centro di monitoraggio remoto. Una delle prime applicazioni potrà infatti coinvolgere medici di base che, dall'ambulatorio, potranno chiedere una valutazione del paziente agli specialisti ospedalieri.
I valori dei parametri principali si ricavano dal polpastrello che viene "fotografato" con una micro camera agli infrarossi; i dati di emodinamica vengono invece calcolati attraverso complessi algoritmi. La misurazione deve essere svolta da personale sanitario appositamente formato e l'accuratezza dei dati vede un margine di errore inferiore al 10% nella quasi totalità dei parametri.
Il dispositivo non invasivo TensorTip MTX è il primo al mondo in grado di misurare la pressione arteriosa emodinamica senza il pompaggio d'aria. Il Prof. Sergio Pillon, Presidente dell'ONSET, Osservatorio Nazionale Sanità Elettronica e Telemedicina, e membro del panel consultivo di eHealth Ventures, ha affermato: "Queste nuove tecnologie consentono il monitoraggio di parametri che finora potevano essere monitorati soltanto con test invasivi, condotti esclusivamente presso laboratori specializzati e in ospedale. Le opportunità offerte dalla tecnologia CNOGA possono ridurre enormemente le visite al pronto soccorso e valorizzare la figura del medico. Nel giro di pochi secondi, il medico può salvare sul computer una dettagliata valutazione del paziente e, se necessario, trasmetterla allo specialista per una seconda opinione".
Il Prof. Pillon ha osservato inoltre: "L'analisi del flusso d'onda può fornire dati ancora più significativi, salvando parametri continui di pressione del sangue, saturazione ossigeno, portata cardiaca, gittata cardiaca e tutti gli altri parametri, per un'analisi offline ".
Il dispositivo è marchiato CE ed è registrato nel database del Ministero della Salute con codice CND Z1203020202 - REP DM NO. 1255142/R.
Il TensorTip Matrix sarà distribuito in Italia dalla Artech di Cavezzo (Modena), l'azienda rasa al suolo dal sisma emiliano del 2012, rinata con le proprie forze e oggi proiettata, attraverso la controllata al 100% Artech Virtual Clinic, verso il settore dei servizi evoluti nel campo della telemedicina.
(Gazzetta dell'Emilia & Dintorni, 2 giugno 2016)
Israele prepara il rilascio del noto avvocato palestinese Jarrar
GERUSALEMME - Israele si sta preparando a rilasciare il noto avvocato palestinese Khalida Jarrar, membro del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) arrestato lo scorso agosto e condannato a 15 mesi di carcere per aver incoraggiato attacchi contro lo stato ebraico e aver violato un divieto di viaggio. Lo riferisce la stampa locale citando fonti sia israeliane che palestinesi. Jarrar sarà liberato venerdì mattina al punto di controllo di Jubara, in Cisgiordania, in anticipo di un mese rispetto alla scadenza del periodo di detenzione deciso dalle autorità. Israele continua a considerare il Fplp un'organizzazione terroristica.
(Agenzia Nova, 2 giugno 2016)
E ora gli ebrei europei votano a destra
Dopo le elezioni in Austria. Il presidente della Conferenza dei rabbini: buona parte di noi sta con Hofer.
di Daniel Mosseri
«Mi sembra di capire che, probabilmente, una parte non insignificante della comunità ebraica qua ha votato per Hofer alla presidenza della Repubblica». Lo ha detto da Vienna il presidente della Conferenza dei rabbini d'Europa (Cer), Pinchas Goldschmidt, nella capitale austriaca proprio per una riunione della Cer. Goldschmidt ha fatto riferimento al recente ballottaggio in Austria fra il candidato dell'estrema destra (Fpö), Norbert Hofer, e quello dei Verdi, Alexander Van der Bellen. Nella scelta, gli oltre sei milioni di elettori si sono spaccati in due e Van der Bellen ha vinto su Hofer per una manciata di voti: 3lmila in più di quelli ricevuto dal suo avversario.
Secondo il religioso russo - Goldschmidt è rabbino capo a Mosca - parte dei 15 mila ebrei austriaci avrebbe dunque scelto per l'esponente del Partito della Libertà e per la sua campagna dai toni xenofobi. Informative analoghe Goldschmidt avrebbe ricevuto anche dalla Francia e dall'Olanda, dove gli gli ebrei locali starebbero manifestando simpatie crescenti per la leader del Front National, Marine Le Pen, e per il Partito della Libertà di Geert Wilders - formazione questa che non ha però alcun passato fascista. «Mi stupisce che un rabbino possa aver sostenuto una cosa del genere», ha commentato da Amsterdam Alexander Hammelburg, esponente della comunità ebraica e attivista a livello locale per i social-liberali di D66. L'ultima ricerca in materia e condotta per conto del settimanale Nieuw Israelietisch Weekblad risale al 2009: allora metà degli ebrei olandesi dichiarava di votare per la sinistra e l'altra meta per i conservatori moderati. Le simpatie per il partito di Wilders in seno alla comunità ebraica erano ferme al 2%. «E vero», aggiunge Hammelburg, «che anche in Olanda esistono ebrei che si sentono minacciati dagli islamici, ma da scienziato politico e da ebreo mi sento di dire che i numeri non sono molto cambiati. Tanto più che gran parte degli ebrei in Olanda rivede nelle discriminazioni di oggi contro i musulmani quelle del passato contro gli stessi ebrei». Quello che però più colpisce Hammelburg è la generalizzazione offerta dal rabbino, «quando gli ebrei sono persone che come tune le altre hanno una grande varietà di opinioni».
Un fatto è certo: stretti fra l'estremismo islamico e l'avanzata dell'ultradestra, gli ebrei europei si domandano quanto sicura sia l'Europa al giorno d'oggi. E l'emigrazione ebraica dal Vecchio continente verso Israele è in netta ripresa. «Ebrei che votano FN? Sono una parte così minoritaria che all'interno della comunità non c'è neppure un dibattito vero e proprio", risponde da Parigi l'imprenditore Bernard Zard. «E poi il rabbino conoscerà il detto "due ebrei hanno tre opinioni". Goldschmidt ha preso un granchio? Forse ha voluto lanciare un monito: «Quando il Signore ha distribuito l'intelligenza non tutti si sono messi in fila», ha detto il rabbino, mettendo in guardia i correligionari dalle sirene della propaganda.
(Libero, 2 giugno 2016)
Ministro Giannini: sbagliato il movimento di boicottaggio a Israele
Ministro in Israele per la Festa del 2 giugno
Il boicottaggio di Israele "è sbagliato nel principio e nella pratica". Lo ha detto il ministro dell'educazione Stefania Giannini nel corso della Conferenza per celebrare i 15 anni dell'Accordo di cooperazione scientifica tra Italia e Israele che si è svolta oggi al Centro Peres per la pace a Tel Aviv. Il ministro - che si trova in visita in Israele dove stasera parteciperà alla Festa del 2 giugno nella Residenza dell'ambasciatore italiano Francesco Talò - ha poi incontrato, insieme al presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Ucei Renzo Gattegna, l'ex capo dello stato Shimon Peres con il quale si è detta d'accordo "per un futuro pacifico e di sviluppo. Puntiamo - ha spiegato in un tweet - sulla capacità dei giovani di sognare e innovare". A Peres Giannini ha consegnato una copia del Talmud tradotto di recente in italiano.
Giannini - che resterà in Israele fino a domenica ed ha guidato una folta delegazione di accademici e scienziati italiani per 10 conferenze congiunte con i colleghi israeliani - ha anche visto questa mattina il ministro dell'educazione Naftali Bennet con il quale ha scambiato "esperienze sulle rispettive riforme" di settore.
(ANSAmed, 2 giugno 2016)
L'anno prossimo a Gerusalemme
Quella minaccia mortale per fondamentalisti e dittatori: Israele. Quando Panella si batteva per lo Stato ebraico. Il sogno: dare il passaporto europeo agli israeliani.
La sicurezza d'Israele è la sicurezza di 300 milioni di europei
I confini di Israele possono essere i confini degli Stati Uniti d'Europa (e del Mediterraneo). I cittadini d'Israele possono essere i cittadini degli Stati Uniti d'Europa, della Comunità Europea. La difesa, la sicurezza d'Israele possono coincidere con quelle di altri trecento milioni di persone, ed essere integrate nel sistema difensivo che gli Stati Uniti d'Europa possono darsi e si stanno in varie forme dando. In questo scenario la pace può essere trattata e affermata; i territori occupati possono strategicamente essere lasciati. Ma solo in questo scenario. Ogni altra soluzione non può essere che fallace e precaria (. .. ) Il sionismo, con i suoi immensi valori, è stato concepito mentre nel mondo le lotte per la creazione degli stati nazionali divenivano cultura di un'intera generazione intellettuale (. .. ) Essere democratici significa comprendere che i nemici di Israele non temono tanto le sue armi, quanto i suoi ideali e quelli di democrazia politica e sociale. Questi ideali sono i nemici più temuti da tutti gli altri regimi del medio oriente, senza eccezione, perché sono i soli che possono rendere liberi i cittadini, gli abitanti
(18 ottobre 1988)
Palestinesi degni di menzione solo quando ricevono le pallottole israeliane
Mai come in questo momento in cui il processo di pace è gravemente indebolito, se non definitivamente interrotto, non deve e non può mancare ad Israele una pregiudiziale solidarietà civile e democratica nel mondo intero, pena la distruzione, interna ed esterna, della sola democrazia esistente, malgrado mezzo secolo di guerra e di aggressione, nel medio oriente. Uccidere o suicidarsi non può e non deve essere o apparire come la sola alternativa praticabile. La tragedia di tante vittime palestinesi, che fa in questi giorni concorrenza nei massmedia anche occidentali, specie italiani, all'ormai insopportabile imposizione della propaganda confessionale cattolico-romana, continua l'atroce tradizione che fa delle donne e degli uomini arabi esseri umani degni di menzione solamente se e quando incontrano ingiustizie, e pallottole israeliane
(8 ottobre 2000)
Che cosa possa accadere nel territorio detto "Palestina", non lo so
La difesa di Israele va proclamata, va fatta. Forse ho toni un po' alla Bruno Zevi, ma mi piace usarli oggi, nelle ore dell'anniversario della sua morte. Cosa accadrebbe qualche mese dopo la pace nello stato palestinese? Come farebbe Arafat a gestire la nuova situazione? Come sarà governato il nuovo stato? C'è un luogo in cui circoli l'abc della democrazia? Vi è un luogo in cui l'idea della liberazione nazionale non sia religiosa o nazionalistica? Il problema della democrazia in medio oriente, dei diritti umani e civili, della liberazione del lavoro, della libertà dal bisogno sono temi che non pone quasi nessuno tra le popolazioni palestinesi. lo so cosa può accadere in Israele un anno dopo la pace. Cosa possa accadere nel territorio detto Palestina, invece, non lo so
(8 gennaio 2001)
La sinistra appoggia i nemici di Israele
La sinistra ancora paga la politica comunista: per loro Israele, essendo alleata con gli Stati Uniti, è da ostacolare, mentre si devono appoggiare i suoi nemici. E al contempo a destra molti hanno paura di venir definiti antisemiti e mascherano i propri sentimenti con la più accettabile etichetta antisionista
(15 giugno 2001)
La libertà degli arabi israeliani
In tutto il medio oriente, nel territorio israeliano che ne rappresenta lo 0,2 per cento, vi sono gli unici arabi-palestinesi che godono di diritti civili, pur se in difficili condizioni. Quindi siamo fieri di dire: noi siamo tutti ebrei, siamo tutti di Israele
(11 maggio 2002)
Dare agli israeliani un passaporto europeo
Bisogna assicurare allo stato di Israele le caratteristiche di regione di frontiera dell'Unione europea, della democrazia e dello stato di diritto. Occorre al più presto che i cittadini israeliani abbiano tutti anch'essi un passaporto europeo
(17 giugno 2002)
Israele, metastasi di democrazia e civiltà
La realtà è che Israele rappresenta una minaccia mortale per i regimi fondamentalisti e dittatoriali. Israele è divenuta una metastasi di democrazia e di civiltà in medio oriente e per questo vogliono che sia distrutta. A chi chiede la pace va risposto che non può esserci pace senza giustizia, senza libertà per le donne e gli uomini, anzitutto palestinesi, arabi, medio-orientali. E' a costoro, infatti, che va assicurato il diritto e i diritti, giustizia, libertà, progresso sociale e tutto questo, nella regione araba dominata da sanguinose dittature, può essere garantito solo da Israele, testa di ponte della democrazia
(18 giugno 2002)
La gara araba per cancellare Israele
Non è più semplicemente questione di antisemitismo e antisionismo ma è una lotta disperata, sottolineo disperata, che parte da tutte le capitali di questo medio oriente volta a eliminare in ogni modo quella metastasi della civiltà e della democrazia che rappresenta nel loro corpo lo stato di Israele
(19 giugno 2002)
Quei diciannove israeliani assassinati
Le grandi organizzazioni rivoluzionarie palestinesi e dintorni hanno potuto gloriarsi di aver assassinato diciannove cittadini di Gerusalemme, aggiungendo questo nuovo fregio alloro cammino volto a conservare nel medio mriente un sistema di potere ferocemente totalitario e autoritario, fondamentalista e antipopolare
(20 giugno 2002)
Il coraggio di Ariel Sharon
C'è da chiedersi quale mai leader di quale stato europeo quale che sia, forse a eccezione di quello della Gran Bretagna, avrebbe avuto e ha la forza, l'intelligenza, la moralità politica e civile che Ariel Sharon ha mostrato ieri, con il suo pubblico intervento con il quale ha letteralmente sfidato l'opinione pubblica israeliana a dare altro nome di quello di "occupazione" alla presenza pubblica israeliana su territori che in questi decenni Israele ha ritenuto di dover direttamente amministrare per un'elementare diritto-dovere di autodifesa e di difesa dei più elementari diritti umani e politici anche degli arabi nel frattempo denominati e divenuti palestinesi. (
28 maggio 2003)
La "pace" dell'Europa vigliacca
Ancora una volta, come per la tragedia ex jugoslava, un'Europa, vigliacca e gollisti camente divisa in patrie nazionalistico-burocratiche, è la principale responsabile della prevista e inevitabile tragedia, che ora coinvolge direttamente palestinesi, libanesi e israeliani. La politica "europea", che già fu causa prima della tragedia jugoslava dopo la morte di Tito, pretendendo che continuasse ad essere "neutrale", non europea e democratica; che nei confronti di Israele ha puntato tutto sulla "pace", piuttosto che sulla democrazia, la libertà e il progresso sociale, per tutta quella parte del Medio Oriente, che corrisponde anche alla quarantennale scelta filo-occidentale e sempre più democratica della Turchia, un paese letteralmente stremato, che ha compiuto negli ultimi dieci anni progressi senza confronti, e di cui si accentuano oggi le difficoltà invece di condividerne l'ultimo tratto di strada di compimento democratico. Questa Europa non ha più nulla a che vedere con quella di Schumann, Adenauer e De Gasperi e, soprattutto di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni. L'anno prossimo l'Europa a Gerusalemme, Gerusalemme Europa.
(14 luglio 2006)
(Il Foglio, 2 giugno 2016)
La "colpa" del Figaro
Il giornale francese svela la banlieue islamizzata di Saint-Denis. Seguono minacce, appelli, picchetti, denunce.
di Giulio Meotti
ROMA - La culla della storia di Francia è diventata "Molenbeek-sur-Seine". Iniziava così l'inchiesta del Figaro, che paragona la banlieue di Saint-Denis, a poche fermate di metropolitana dagli Champs Elysées, al sobborgo di Bruxelles usato come base del jihadismo. Sullo sfondo della copertina del quotidiano francese, una foto della Basilica di Saint-Denis, dove riposano i re di Francia compreso Carlo Martello che ha fermato l'invasione musulmana nel 732, con due giovani donne velate. "Il simbolo è forte per questo manipolo di pazzi di Allah". Qui gli imam insegnano che "le donne sono libere di rifiutare di stringere la mano agli uomini per preservare la loro modestia". L'Università di Paris VIII-Saint-Denis è piena di ragazze con il velo. Proliferano i negozi di abbigliamento islamico, ristoranti islamici, librerie halal. Il Figaro adesso viene linciato per aver fatto il proprio lavoro. Appelli, minacce legali, aggressioni dentro alla redazione del quotidiano del gruppo Dassault. "Dopo la nostra inchiesta sull'espansione del salafismo a Saint-Denis, insulti, minacce e intimidazioni sono aumentati, sui social e nei media", comunica la direzione del Figaro. "Dieci individui sono entrati nei locali del Figaro per fare pressione sul nostro personale".
Libération ha lanciato una petizione firmata anche da giornalisti di Mediapart e l'Humanité, in cui si accusano i giornalisti del Figaro di "luoghi comuni, fantasie e amalgami" per l'inchiesta sull'islamizzazione di Saint-Denis. Sos Racisme accusa il quotidiano di "stigmatizzazione". Minacce sono rivolte alla giornalista autrice dell'inchiesta, Nadjet Cherigui, la reporter di origini arabe che si è infiltrata nella banlieue parigina. "Noi che viviamo, lavoriamo ogni giorno a Saint-Denis, rifiutiamo questa stigmatizzazione", recita l'appello su Libération. "Saint-Denis è una città della diversità, in cui è possibile il dibattito, dove si incrociano i mondi, in cui la vita culturale abbonda. Saint-Denis è una città-laboratorio che costruisce la Francia di domani". Alcuni giorni dopo nella piazza della Basilica di Saint-Denis è indetta una manifestazione in risposta al Figaro. C'è chi propone picchetti davanti agli uffici del giornale e un gemellaggio con il comune belga di Molenbeek. Sul Figaro interviene a difesa dell'articolo su Saint-Denis il giornalista algerino Mohamed Sifaoui: "Gli islamisti e i loro alleati sono esperti in calunnia, menzogna e demonizzazione. Nadjet Cherigui è una giornalista onesta. Saint-Denis è halalizzata. E le anime belle possono stare tranquille, il problema non è dovuto al fatto che non vi è halal, ma al fatto che c'è solo halal". Alla fine anche il sindaco, Didier Paillard, che aveva minacciato querela, ha dovuto ammettere la verità: "La giornalista ha fatto il suo lavoro". Anche lo scrittore di estrema sinistra Didier Daeninckx, nato a Saint-Denis, su France Inter si schiera con il Figaro: "E' una realtà che è stata enormemente negata".
(Il Foglio, 2 giugno 2016)
Nella Gerusalemme d'Africa i musulmani proteggono gli ebrei
La sfida all'estremismo islamico di un Paese che non vuole soccombere dopo le stragi.
di Enrico Fierro e Rosaria Talarico
Antica come gli ulivi e le palme che punteggiano l'isola di Djerba: la Ghriba (in arabo, la straniera) è un'antichissima sinagoga tunisina, conosciuta come la Gerusalemme d'Africa. Secondo la leggenda, proprio dai resti del tempio di Salomone arrivò una delle pietre con cui fu costruita.
Tutti gli anni è meta di un pellegrinaggio (hillula, festa in aramaico) degli ebrei che arrivano sull'isola tunisina 33 giorni dopo la Pasqua per celebrare LagBa'omer. Una tradizione secolare nel cuore del Maghreb, una sfida aperta al terrorismo che vuole isolare la Tunisia. Nel villaggio di Rara Seghira, il miracolo: musulmani che proteggono ebrei.Una cornice di sicurezza formidabile. Due ali di poliziotti armati e con giubbotti antiproiettile, mezzi corazzati, un blindato pieno di forze speciali incappucciate, elicotteri. I tiratori scelti sono sui tetti bianchi del caravanserraglio di fronte alla sinagoga che un tempo ospitava i pellegrini (molti ormai preferiscono alloggiare nei lussuosi hotel sulla costa).
La Ghriba è femmina, una bellissima donna venuta da chissà dove, che morì bruciata nella sua capanna, ma il cui corpo fu trovato integro. Un miracolo che da millenni alimenta la leggenda. Proprio nel luogo dell'incendio oggi sorge la parte più sacra della sinagoga dove si entra a piedi scalzi e a capo coperto e dove vengono accese le candele e deposte le uova su cui viene scritto il nome di una giovane donna che aspira al matrimonio, o che desidera un figlio.C'è chi chiede una grazia per una persona cara. Le donne sono tantissime, solo loro possono spingere la Menara una sorta di carretto dove è montato il grande candelabro a sette braccia coperto da foulard, veli e stoffe su cui sono scritti i voti. Marcò, ebreo franco-tunisino che dall'alto della Menara incitale fedeli che rispondono con lo youyou, il tipico verso berbero fatto agitando la lingua in segno di felicità. "Noi li amiamo e loro ci amano, habibi!" urla Marcò.
Olfa è di Djerba, ma vive a Tunisi dove insegna corporate finance all'università ed è la prima volta che partecipa alla Ghriba: "È magico". Monette invece viene da Parigi: "Dopo l'attentato (nel 2012 qui morirono oltre 20 persone) c'erano solo 10 pellegrini". Sono tutti nati in Tunisia (la presenza ebraica risale a duemila anni fa), andati via dopo la creazione dello Stato di Israele. Quelli rimasti sono 1.500 e vivono a Tunisi, Sfax, Sousse e Nabeul. Il giudaismo di Djerba è considerato il più fedele alla tradizione.
Roger Bismuth ha 90 anni è il presidente della comunità ebraica e dice sorridendo che è in Tunisia da prima dei berberi. "Non sono mai voluto andare via" racconta, "è il mio paese. Intervistate gli altri per sapere perché sono partiti. Il mondo è pericoloso, non solo la Tunisia, Parigi sta peggio di noi". Nella conferenza sul dialogo interreligioso organizzata proprio nei giorni del pellegrinaggio da Habib Mellakh, rettore di Manouba la facoltà di lettere di Tunisi e autore di un libro in cui denuncia le violenze subite dagli integralisti, racconta con entusiasmo l'idea di fondare un museo della civiltà ebraica a Tunisi. "Per ora è un sogno nato in ambito accademico, ma che ha già l'appoggio delle autorità tunisine". Anche Sydney Assor, capo della comunità ebraicamarocchina a Londra, è molto critico con Netanyahu: "È un capo dello Stato, non degli ebrei. Non è il papa". Poi aggiunge: "In Tunisia la coesistenza è una realtà. Quello che inquieta è la politica inglese sui viaggi". Tra la folla del caravanserraglio compare anche Abdel Al Fattah Mourou, fondatore di Ennahda, partito politico di ispirazione islamista che significa Rinascita e vicepresidente del parlamento.
Accolto come uno di loro da tutti gli ebrei mentre cammina tra un banchetto che vende brick (la tipica sfoglia tunisina con l'uovo) e le bancarelle di altra mercanzia: "Sono cittadino tunisino, mi hanno invitato perché non ci sono differenze. Ennahda è un partito civile, non religioso. Sono stato picchiato dai salafiti ma mantengo la mia linea. Sono qui per testimoniare la mia vicinanza". Ennahda, è la seconda speranza della Tunisia che non vuole arrendersi all'Isis e alla sua ideologia. Il decimo congresso del partito islamista ha sancito la netta separazione tra fede e politica. Ma la svolta di Rached Ghannouchi non ha convinto tutti. Gli osservatori più critici non credono alla possibilità che un partito islamista possa secolarizzarsi. E ricordano una delle regole dell'islam più radicale, l'occultamento, la legge della Taqiya: "In difesa degli interessi la menzogna diventa lecita". Critiche,dubbi esperanze. La Tunisia, dopo gli attentati al Bardo, l'assalto alla spiaggia di Sousse e le infiltrazioni dei miliziani dell'Is, vuole mostrare il suo volto pacifico e sicuro. L'economia è in crisi, con un tasso di crescita inchiodato all'l %, dopo gli attentati il turismo è crollato del 63%, e il tasso di disoccupazione giovanile supera il SO%. Tra la folla di ebrei e musulmani tre ministri. Selma Ellouni Rekik è la responsabile del Turismo. "Siamo un Paese sicuro, la porta dell'Africa verso l'Europa. Siamo terra di accoglienza e di tolleranza, abbiamo una grande tradizione di convivenza tra ottomani, fenici, arabi ed ebrei. Ce la faremo se l'Europa ci sarà al fianco".
(il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2016)
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Parashà della settimana: Bamidbar (Nel deserto)
Numeri 1:1-4:20
- Il quarto libro della Torah di Moshè inizia con la parashà di Bamidbar che significa ''Nel deserto" termine questo tradotto dalla Vulgata con ''Numeri'' in riferimento al censimento delle tribù di Israele dopo il peccato del vitello d'oro. Dalla Tradizione questo quarto libro è detto anche dei ''comandanti'' (picudim) perché inizia con il censimento degli uomini validi cioè ''soldati'' chiamati al servizio di D-o.
Il libro dei Numeri è noto anche come il libro delle "Rivolte'' del popolo ebraico, avvenute durante la sua permanenza nel deserto del Sinài, in particolare quella degli''Esploratori'' (Num. 13.1) e quella di Corach (Num. 16.1) che spiegheremo in seguito.
Il nome stesso della parashà rivela i veri motivi della rivolta. Il ''deserto'' difatti può essere considerato come "un esilio'' del popolo, dove il popolo perde la sua identità, trovandosi fuori dalla sua Terra. In esilio Israele si trova nel deserto delle Nazioni, perde la sua natura di popolo e si rivolta non solo contro D-o ma anche contro se stesso.
Il termine "midbar'' significa però anche "colui che parla" dal verbo ebraico daber. Quale è il legame allora tra il deserto e colui che parla? D-o Benedetto ha parlato nel deserto del Sinài dove è stata data la Torah al popolo d'Israele. Ma attenzione! Il deserto è terra di nessuno, non esistono confini naturali e pertanto questo sta a significare che la Torah è patrimonio di tutti gli uomini, anche se Israele ne è il Custode. Analizziamo ora i diversi contenuti della parashà.
I figli d'Israele sono divisi per tribù e disposti intorno al Tabernacolo secondo i quattro punti cardinali. Nella parte Est sono accampate le tribù di Giuda, Issachar e Zevulun. Ad Ovest le tribù di Efraim Menachè e Binjamin. Nel lato Sud quelle di Ruben, Simeone e Gad. Nel lato Nord sono disposte le tribù di Dan Acher e Naftalì.
Questa topografia non è a caso, ma ha un significato. La tribù di Giuda che rappresenta la monarchia è alla testa del popolo e detiene il potere temporale al servizio della Legge. Re Davide difatti è un suo discendente. Issachar studia e insegna la Torah ed è considerato la guida spirituale del re. Zevulun suo fratello è un ricco commerciante che gli permette con il suo aiuto di dedicarsi allo studio.
Ad ovest vi sono i due figli di Giuseppe e Beniamino fratello di questi. Secondo la Tradizione ad ovest del Tabernacolo risiede la presenza di D-o (Shehinà). Difatti nel territorio di queste tre tribù per lungo tempo è stato tenuto il Santuario (Shilò).
A sud Ruben, Simeone e Gad rappresentano la falange nazionale intrepida e protettrice (Ruben ha salvato Giuseppe dalla morte), mentre al nord Dan, Ascher e Naftalì personificano la lotta intelligente cioè la forza intellettule e culturale del popolo ebraico.
Il ruolo dei sacerdoti-leviti che non posseggono un territorio, è quello di stare al centro dell'accampamento e servire D-o nel Tabernacolo, vicino all'Arca dell'Alleanza. Il loro compito è quello di unificare tutti questi valori sopra descritti, avvicinando Israele all'osservanza della Legge, che forgia l'essere umano a camminare sulla strada della pace e dell'amore per il prossimo.
I dodici capi tribù menzionati hanno una caratteristica rimarcabile che è quella di contenere nel loro significato, con vari epiteti, il Nome di D-o. Ad esempio ''D-o è la mia ricompensa" oppure ''D-o è mio padre" oppure "D-o è il mio giudice'' ecc... dimostrazione questa di un rapporto continuo di fedeltà verso la Legge rivelata.
Il profeta Osea (2.22) a riguardo così si esprime: "Sarò legato a Te per sempre
sarò legato a Te con fedeltà''. Questi versetti vengono pronunciati ogni giorno nelle sinagoghe dai fedeli durante la tefillà (preghiera) del mattino, per non dimenticare.
Allo stesso modo D.o Benedetto non dimentica l'uomo e si fa conoscere a questo mediante un'Alleanza indissolubile necessaria per impiantare nella nostra società i principi di giustizia e di uguaglianza, per realizzare il Suo regno su questo mondo. F.C.
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- Il patto originario di Dio con il popolo al Sinai è stato infranto fin dall'inizio. Dopo un momento di tremendo furore Dio si fa convincere dall'interecessione di Mosè e rinuncia al proposito di distruggere il popolo. Dopo un altro momento di esitazione abbandona anche l'idea di lasciarlo partire verso la Terra promessa senza di Lui. Dimorerà in mezzo a loro durante il viaggio, come era suo desiderio fin dall'inizio, ma la convivenza si presenta subito problematica. Per non distruggere il popolo con la sua sola presenza, come aveva in un primo tempo minacciato, prima di iniziare il viaggio il Signore deve dare regole precise e fare avvertimenti minacciosi.
Si comincia con il censimento di tutte le tribù, che però è di tipo particolare, perché si contano soltanto gli uomini da vent'anni in su "che possono andare alla guerra". In pratica, si contano i soldati. Il programma quindi non si presenta del tutto pacifico: bisogna prepararsi alla guerra. Invece di "guerra" si potrebbe dire "difesa", come un po' ipocritamente diciamo noi oggi, ma non sarebbe convincente: bisognava andare a conquistare una terra occupata da altri. Dunque era guerra.
Sorge allora una domanda: come mai per far uscire il popolo dalla schiavitù Dio non gli ha chiesto di usare una violenza rivoluzionaria al seguito di un Mosè in formato Che Guevara, e sostenuto dalla fede in un Dio che appoggia la giusta causa? e perché invece per entrare nella libertà del possesso di una propria terra Dio invita il popolo a prepararsi a fare guerre, in qualche caso anche feroci, con stragi di donne e bambini? La risposta non è semplice, ma la domanda deve essere posta per evitare che fatti biblici di rilievo possano essere usati strumentalmente come bandiere di ideologie religiose o laiche che di biblico in realtà non hanno niente. L'ideologia della liberazione nelle sue varie forme, anche ebraica (pesach edulcorato), anche cristiana (teologia della liberazione), anche laica (l'interminabile serie di liberazioni di proletari, negri, donne, terzo mondo, omosessuali, ecc. ) è centrale, anzi ormai quasi unica nel panorama della cultura occidentale.
Ma in questo racconto biblico, come in tutti gli altri, l'accento non è posto su quello che gli uomini devono fare per poter stare bene fra di loro, ma su quello che Dio vuole che gli uomini facciano affinché Egli possa venire a stare come Signore in mezzo a loro.
Ed ecco allora le istruzioni sui leviti. Ma a che servono i leviti, visto che non vanno in guerra? E' la domanda che i laici israeliani rivolgono oggi agli ebrei ortodossi. Certo, se Dio non c'è, o se per motivi suoi ha deciso di non intervenire nei fatti nostri, bisogna proprio dire che questi religiosi non servono a niente.
I leviti però servivano, e come! Dopo il fallimento del genere umano dovuto alla caduta dei nostri progenitori, Dio ha maledetto la terra e quindi l'ha allontanata da Sé. Ma ha preparato anche un piano di redenzione che gli consenta un giorno di poter dimorare in mezzo agli uomini, come era sua intenzione fin dal principio. Che cos'era infatti il giardino di Eden se non un santuario in cui Dio voleva incontrare gli uomini? Dopo aver mangiato il frutto proibito Adamo ed Eva "udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza (ebr. "faccia", פנים) dell'Eterno Iddio, fra gli alberi del giardino" (Genesi 3:8). Antromorfismo infantile? No, rivelazione di un Dio che si rende riconoscibile agli uomini e diventa concretamente presente in mezzo a loro. Dopo il peccato però la presenza di Dio mette paura, e gli uomini vengono cacciati dall'Eden, cioè dalla presenza di Dio.
Il Signore naturalmente ha continuato a governare il mondo anche dopo la caduta dell'uomo, ma da lontano. Ha parlato ad alcuni uomini da lui scelti, ha fatto promesse, ha dato ordini, si è formato un popolo, l'ha liberato dalla schiavitù, ma fino alla chiamata di Mosè si può dire che Dio abbia agito a distanza, mantenendo lontana la sua presenza dalla terra maledetta.
Il primo avvicinamento concreto di Dio alla terra, potremmo dire il primo "atterraggio" di Dio, si è avuto proprio sul monte Sinai, nel fatto del roveto ardente. A Mosè che voleva avvicinarsi, Dio disse: "Non ti avvicinare qui; togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è terra santa» (Esodo 3:5). Per la prima volta nella Bibbia si parla qui di "terra santa", e pochissime altre volte avverrà ancora in seguito. Un piccolo lembo di terra era stato santificato dalla presenza di Dio, e proprio per questo Mosè non doveva avvicinarsi.
Con il patto del Sinai Dio ha mandato avanti il suo progetto di inserimento a tappe nel mondo degli uomini ordinando al suo popolo di costruire un luogo di incontro: il tabernacolo. Ma come può un Dio puro e santo incontrare concretamente, anche per pochi istanti, l'uomo impuro e peccatore? Nessuno può rispondere a questa domanda, se non Dio stesso. Ed ecco allora le precise regole poste dal Signore: soltanto i Leviti, guidati dal sacerdoti della casa di Aaronne, potevano avere accesso al santuario, e secondo regole ben definite che loro per primi dovevano rispettare. Le penalità in caso di infrazione erano poche, ma chiare. Anzi era una sola: la morte. "L'estraneo che gli si avvicinerà [al tabernacolo] sarà messo a morte" (1:51); "lo straniero che s'accosterà all'altare sarà messo a morte" (3:10). Particolarmente a rischio erano proprio i Leviti, tra cui in particolare i figli di Kehat: "Badate che la tribù delle famiglie dei Kehatiti non venga sterminata fra i Leviti; ma fate questo per loro, affinché vivano e non muoiano quando si accosteranno al luogo santissimo... e non entrino a guardare anche per un istante le cose sante, affinché non muoiano" (4:18-20).
Il Signore si era lasciato convincere da Mosè a dimorare in mezzo al popolo con la sua presenza nel santuario, ma per un popolo che in seguito si mostrerà sempre "di collo duro", quanto rischiosa e drammatica dovrà rivelarsi questa vicinanza!
L'elezione però resta, e il finale glorioso è già fissato. Per convincersene bisogna conoscere tutto quello che Dio ha lasciato scritto in proposito. E credervi. M.C.
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(Notizie su Israele, 2 giugno 2016)
Israele, carburanti in aumento del 2,7 per cento
GERUSALEMME - Il prezzo del carburante in Israele è aumentato del 2,7 per cento a partire dalla mezzanotte del 30 maggio. Il costo di un litro di benzina senza piombo raggiunge 6,01 shekel (circa 1,40 euro). Lo ha stabilito il ministero dell'Energia, in linea con l'aumento del prezzo del petrolio. Il provvedimento riflette la crescita del 7,5 per cento del prezzo del carburante negoziato in Europa combinata all'aumento del valore del dollaro di 2,1 per cento. Il prezzo del petrolio ha raggiunto quasi i 50 dollari al barile la scorsa settimana, la cifra più alta registrata negli ultimi sette mesi.
(Agenzia Nova, 1 giugno 2016)
Hezbollah a Roma e la Siria brucia
di Domenico Letizia
Il 3 giugno a Roma si terrà la "Festa della Liberazione del Sud Libano" organizzata da alcune associazioni vicine alla resistenza palestinese, alla "lotta allo Stato di Israele" e alla Siria di Assad. Sembrerebbe certa la presenza anche di Ibrahim Farhat, direttore della tivù di Hezbollah, al-Manar. L'arrivo di Farhat è uno scandalo per l'Italia: Hezbollah è infatti un gruppo terrorista che occupa il Libano e attualmente è in prima fila nel sostegno alle repressioni del dittatore Bashar al-Assad in Siria. Al- Manar, come organo ufficiale di Hezbollah, è quindi la voce della propaganda del Partito di Dio. Una voce odiosa che, quotidianamente, giustifica i peggiori massacri contro la popolazione siriana. L'Italia, com'è noto, ha interrotto da anni le relazioni diplomatiche con Assad. Non solo: Hezbollah è ufficialmente classificato come organizzazione terrorista, non solo in Occidente, ma ormai anche in quasi tutti i Paesi arabi. Enrico Vandini, presidente della Onlus "We Are" è stato tra i primi a denunciare la presenza Ibrahim Farhat durante l'evento previsto per il 3 giugno. Con lui, tentiamo di capire meglio il rapporto tra Libano, Siria, Iran e terrorismo.
- Può spiegarci con precisione il rapporto di Farhat e di Hezbollah nel conflitto siriano?
Hezbollah è intervenuta da subito insieme all'Iran nel conflitto siriano dando man forte al regime di Assad a mettere in atto quella che Onu ha definito "la più grande catastrofe umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale". Esistono in Siria cittadine controllate da Hezbollah dove ai residenti è impedito di uscire liberamente. Hezbollah ha combattuto al fianco delle milizie di Assad in massacri perpetrati spesso nei confronti di civili indifesi, mercati cittadini e, ancora peggio, strutture sanitarie e la loro televisione ha sempre giustificato questi massacri sui quali invece sarebbe ora di fare luce e di condannare i responsabili a livello internazionale.
- La televisione di Hezbollah, al-Manar, giustifica i peggiori massacri contro la popolazione siriana. Cosa possiamo e dobbiamo chiedere alle istituzioni italiane in attesa del 3 giugno?
Hezbollah è considerata, più che giustamente, un'organizzazione terroristica e il fatto stesso che il direttore della loro televisione arrivi in Italia mi pare più che preoccupante. Le istituzioni italiane dovrebbero perlomeno chiedere conto del loro intervento in Siria per rispetto a chi ha perso tutto in quei massacri indiscriminati; a tutto il popolo siriano sarebbe dovuto un intervento netto e deciso nei confronti di questa organizzazione e di tutti i Paesi che si considerano democratici e ai quali i diritti umani stanno a cuore.
- Come possiamo permettere che Hezbollah arrivi a Roma indisturbato? Quale dovrebbe essere la reazione delle istituzioni di uno Stato democratico come l'Italia?
Fosse per me il suo arrivo non sarebbe neppure possibile, ma le istituzioni hanno dimostrato anche in un passato recente di avere più a cuore gli accordi economici che i diritti umani. Nelle visite di Stato degli ultimi tempi tra Iran e Italia mai, dico mai, ho sentito chiedere conto ai rappresentanti iraniani del loro coinvolgimento in Siria e tantomeno della drammatica situazione dei diritti umani nel loro Paese. Evidentemente in tanti hanno deciso di dare priorità agli affari economici mettendo i diritti umani in secondo piano; personalmente credo che questo atteggiamento sia terribilmente sbagliato. In Italia vivono tanti siriani che si sono trasferiti a causa della situazione del loro Paese da 30/40 anni e oggi sono cittadini italiani a tutti gli effetti. Credo che qualcuno dovrebbe chiedere loro scusa per questo atteggiamento a dir poco vergognoso.
Tra qualche settimana si terrà ad Oslo il "Sesto Congresso mondiale contro la pena di morte", evento organizzato per favorire il coordinamento di numerose Organizzazioni non governative e ottenere in alcuni Stati l'abolizione della pena capitale o progressi significativi (quali moratoria o riduzione dei reati punibili con la morte). Si prevede la partecipazione di circa 1.500 persone da oltre ottanta Paesi, fra le quali attivisti di 138 Ong o istituzioni aderenti alla Coalizione mondiale contro la pena di morte (inclusi, dall'Italia, Nessuno tocchi Caino e Comunità di Sant'Egidio), ministri, avvocati, Premi Nobel, ex condannati a morte riconosciuti innocenti, artisti. L'evento è coordinato da Antonio Stango, segretario del Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani. Durante il congresso si terrà una tavola rotonda su pena di morte e terrorismo e inoltre è prevista la presenza del ministro della Giustizia del Libano.
- Cosa vorrebbe chiedere agli organizzatori del Congresso e che passi si potrebbero compiere per la stabilizzazione della Siria e del Libano?
Vorrei chiedere a nome mio, e dei tanti amici siriani che la si smettesse con la vergognosa consuetudine di continuare a considerare Assad come il male minore. Se qualcuno non lo ha ancora chiaro dico che non si possono giustificare in nessuna maniera dittature sanguinarie per motivazioni che non ho nessuno scrupolo a definire risibili e offensive. Assad è un dittatore sanguinario, ha distrutto una terra e un popolo e questo deve essere il punto di partenza indiscutibile di ogni discussione sulla Siria. Contrastare la pena di morte e ignorare quello che sta succedendo in Siria da 5 anni nel silenzio correo di tutto il mondo occidentale e delle sue massime istituzioni mi pare a dir poco paradossale.
- L'informazione occidentale sembra tesa a fare di Hezbollah e Assad come i campioni nella lotta allo Stato islamico. Cosa sta avvenendo realmente in Siria e in questi territori?
Sullo stato dell'informazione occidentale e in particolare di quella italiana sulla questione avrei da dire le peggio cose, ma mi rendo conto che non sia questa la sede. Quello che lei afferma è senz'altro vero e credo che di fronte a questo teorema assurdo chi in questi anni lavorando nell'informazione ha fatto crescere questo teorema dovrebbe a dir poco vergognarsi. Se poi questo è quello che emerge dall'informazione delle televisioni di Stato si capisce quanto sia drammatica la situazione. Detto questo, quello che sta accadendo in Siria è tragicamente chiaro a tutti coloro che si informano e che lavorano sul campo. Il regime di Assad con la complicità di Iran, Russia ed Hezbollah sta sterminando il suo popolo e costringendo milioni di siriani a fuggire dal proprio Paese. I continui bombardamenti su civili e strutture ospedaliere non possono certo essere considerati guerra ad Isis come non può essere considerata guerra all'Isis la pagliacciata di Palmira che è stata prima conquistata e poi abbandonata dallo Stato islamico senza che nessuno, ripeto nessuno, abbia fatto nulla. Alla faccia dei satelliti e delle cosiddette bombe intelligenti, Isis ha raggiunto Palmira con le proprie truppe attraversando chilometri di deserto senza che nessuno li abbia fermati. Lo stesso ha fatto quando ha deciso di abbandonarla: se questa la si vuole definire guerra all'Isis lo si faccia rivolgendosi a chi non sa neppure dove si trovi la Siria.
- Sono in molti a denunciare il rapporto tra Iran, Assad e Libano nel conflitto siriano. Può illustrarci meglio cosa pensa di tale rapporto?
Come già detto, questo rapporto è criminale e assassino: tra Stati e organizzazioni alle quali dei diritti umani o meglio ancora delle vite umane e della libertà individuale nulla importa. La cosa inaccettabile è che con costoro c'è chi continua a stringere accordi economici, sorvolando beatamente su quanto sta accadendo.
- L'ex ministro della Giustizia del Libano, Ashraf Rifi, dimessosi qualche settimana fa, ha accusato la forza politica Hezbollah di stabilizzare il governo e di ricevere finanziamenti dall'Iran. Tale stato dei fatti rende l'affermazione dello Stato di Diritto, come progettato dal Partito Radicale, estremamente difficile finché i rapporti tra Iran e Libano non saranno realmente trasparenti e non in violazione delle Convenzioni Internazionali. Come possono muoversi le Onlus e le Ong in tale contesto?
L'Iran finanzia Hezbollah per combattere al fianco delle truppe del regime di Assad. Quello che manca a tutti i Paesi è la trasparenza e l'amore per la verità. Ogni Paese occidentale ha i propri Servizi segreti e mi viene da sorridere a pensare che qualcuno possa affermare che questi rapporti non siano trasparenti. Non lo sono solo per chi, in maniera ipocrita, preferisce fare finta di non vedere quello che invece è sotto gli occhi di tutti. Devo dire io ai Paesi europei che Hezbollah controlla tante cittadine in Siria? Non bastano le migliaia e migliaia di interviste che ogni nazione fa ai cittadini siriani per concedere loro lo status di profugo? Basterebbe che venissero rese note quelle dichiarazioni per capire esattamente cosa sta accadendo in Siria da cinque anni a questa parte. Dicevo che mi viene da sorridere ma non è così: vengo assalito da rabbia e vergogna per quanto sta accadendo e purtroppo credo che le Onlus e le Ong poco possano fare per contrastare questa ipocrisia. Riempire una sala per parlare di Siria è già estremamente difficile. Evidentemente l'utente medio crede solo a quello che sente in televisione e visto che di Siria nessuno parla il problema non sembra esistere.
(L'Opinione, 1 giugno 2016)
Una campagna per Gerusalemme
"Cogli l'attimo, vivi Gerusalemme ora!" è il claim della nuova campagna pubblicitaria diffusa alla radio e nei cinema. La città è al centro anche di un roadshow che tocca dieci città del nord Italia.
«Gerusalemme ha una storia millenaria, e ai turisti offre un'ampia scelta di proposte - spiega Serena Valle, rappresentante in Italia di Jerusalem Development Authorithy - Dai musei agli spettacoli, dai set per le strade della città nuova agli eventi di richiamo mondiale, come la celebre maratona, ai percorsi green. Ed è perfetta anche per le famiglie con bambini».
Inoltre è una meta ideale per un city break, con un'offerta adeguata, e recentemente rinnovata, di hotel a 4 e 5 stelle, «perfetti per intercettare anche il segmento Mice».
Tra le iniziative per lanciare la destinazione, Jerusalem Development Authorithy, in collaborazione con la compagnia di bandiera El Al e la Jerusalem Hotel Association, propone un soggiorno di 4 giorni/3 notti, comprensivo di volo e hotel, con una tariffa da 399 euro tutto incluso.
Il pacchetto, distribuito da Passengers Viaggi, Miano Tour Operator, I.O.T., I Viaggi del Turchese, Boscolo, Go Asia, Naar e Gattinoni Travel Experience, è acquistabile in agenzia
di viaggi, e per il momento è valido per le partenze fino al 30 giugno; il prezzo è per persona, con sistemazione in camera doppia.
(L'Agenzia di Viaggi, 1 giugno 2016)
Israele intercetta una spedizione per posta di droni a Gaza
GERUSALEMME - Le organizzazioni terroristiche stanno tentando di introdurre droni e armi nella Striscia di Gaza per posta. Le forze di sicurezza israeliane, riferisce la "Jerusalem Post", hanno sequestrato al valico di Erez 10 droni motorizzati inviati a Gaza in pacchi postali. Le autorità israeliane hanno sequestrato anche un trasmettitore e ricevitore utilizzati per trasmettere i segnali video con segnale di 5,8 GHz, non autorizzato in Israele e dalle autorità palestinesi. Nel corso delle ultime settimane, membri delle organizzazioni terroristiche a Gaza sono state catturati mentre tentavano di inviare armi e droni disassemblati per posta.
(Agenzia Nova, 1 giugno 2016)
L'Egitto riapre il valico di Rafah
Ma solo per pochi giorni
Le autorita' egiziane hanno riaperto oggi il valico di Rafah con la Striscia di Gaza, ma solo per quattro giorni. Lo riferiscono fonti locali secondo cui il primo torpedone ha lasciato la Striscia nella tarda mattinata. L'agenzia di stampa Maan rileva che all'inizio del mese l'Egitto aveva riaperto quel valico per appena due giorni durante i quali e' stato attraversato da alcune centinaia di passeggeri, mentre altri 30 mila palestinesi - iscrittisi per entrare in Egitto - sono stati respinti. La riapertura attuale di Rafah anticipa di alcuni giorni l'inizio del Ramadan, il digiuno tradizionale musulmano.
(ANSA, 1 giugno 2016)
Nuovo sistema di sutura israeliano approvato in Europa
Nuovo sistema di sutura israeliano approvato in Europa. LifeSeal, la soluzione sigillante dedicata ai pazienti sottoposti a chirurgia gastrointestinale è stato recentemente approvato per l'utilizzo nell'Unione Europea.
Il sigillante, sviluppato dall'israeliana LifeBond, consentirà ai medici di 32 paesi di utilizzare questo nuovo tipo di colla che impedisce le perdite.
Queste le parole di Ittai Harel, CEO di LifeBond:
LifeSeal offre agli ospedali un innovativo strumento chirurgico di alta qualità che sia integra facilmente nella pratica chirurgica standard. Gli studi clinici dimostrano che l'utilizzo di questo strumento è assolutamente positivo per i pazienti.
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In generale, i pazienti sottoposti a chirurgia gastrointestinale si vedono applicare suture molto invasive come punti, graffette o colle. In questi casi può verificarsi un aumento del rischio di infezioni.
Per risolvere questo problema, LifeBond ha sviluppato una piattaforma tecnologica adesiva che si trasforma rapidamente in un gel flessibile e resistente, che aderisce perfettamente ai tessuti del corpo.
Secondo l'azienda il sigillante è molto più forte e più duraturo rispetto agli altri strumenti presenti sul mercato e utilizza solo ingredienti naturali invece di sostanze chimiche, per cui è tollerato molto più facilmente dai pazienti.
(SiliconWadi, 1 giugno 2016)
Conferenza anti-BDS all'Onu. Italia, parte la petizione per metterlo fuorilegge
Si è svolta ieri a New York presso l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite l'annunciata conferenza contro il Movimento BDS organizzata dall'Ambasciatore israeliano all'Onu, Danny Danon. Oltre 2.000 persone hanno partecipato al primo vero evento organizzato per combattere questa nuova forma di antisemitismo.
L'evento, denominato "Building Bridges, Not Boycotts" ha visto la partecipazione di studenti, delegati delle varie organizzazioni ebraiche, politici di tutto il mondo, rappresentanti diplomatici e diverse organizzazioni importanti quali il World Jewish Congress, la Anti-Defamation League, la Zionist Organization of America, StandWithUs, B'nai B'rith International e ancora una decina di organizzazioni....
(Right Reporters, 1 giugno 2016)
"No, il denaro viene da Israele"
Quegli studiosi inglesi che rifiutano premi di 300 mila dollari ma intascano assegni dagli sceicchi.
di Giulio Meotti
L'israeliana Dan David Foundation ogni anno assegna un premio da un milione di dollari a scienziati, scrittori, musicisti, pensatori, politici. La studiosa inglese Catherine Hall, femminista nota per le ricerche sull'impero inglese, quest'anno doveva condividere il prestigioso premio israeliano con altre due studiose, la francese Arlette Farge e l'australiana Inga Clendinnen. Il premio porta il nome del filantropo Dan David, è amministrato dalla Tel Aviv University ed è stato comminato all'ex vicepresidente americano Al Gore, all'ex premier inglese Tony Blair, alla città di Istanbul, alla Biblioteca Warburg di Londra, a talenti teatrali come Tom Stoppard e Peter Brook, a romanzieri come Margaret Atwood e Amitav Ghosh, a musulmani come Goenawan Mohamad. Docente di Storia allo University College London, Catherine Hall invece ha rifiutato il premio, assieme ai 300 mila dollari, perché è denaro israeliano e lei aderisce al movimento di boicottaggio dello stato ebraico. In una dichiarazione rilasciata al "Comitato britannico per le università della Palestina", Hall ha detto di aver preso la decisione di rifiutare il premio e boicottare la cerimonia "dopo molte discussioni con coloro che sono profondamente coinvolti con la politica di Israele e Palestina". La fondazione, che aveva selezionato la professoressa inglese "per il lavoro su storia sociale, sesso, razza e schiavitù", ha fatto sapere che Hall aveva accettato il premio con entusiasmo, salvo poi chiedere di cancellare il proprio nome. A conferma che dietro la decisione di Hall c'è il movimento per il boicottaggio accademico di Israele è arrivata la dichiarazione di Richard Seaford, professore emerito di Studi classici all'Università di Exeter, il quale ha detto che "le misure repressive del governo israeliano hanno ormai irrimediabilmente offuscato i premi scintillanti di Israele". E' lo stesso Seaford che si è rifiutato di scrivere per le riviste accademiche israeliane. "Professor Seaford, sono la direttrice di Scripta Classica Israelica" gli scrisse Daniela Dueck dell'Università israeliana Bar Ilan. "Vorremmo includere nel nostro volume una recensione del libro
Sarebbe interessato?" Questa la risposta di Seaford: "Non posso accettare perché ho aderito al boicottaggio accademico di Israele".
Da allora, il boicottaggio d'Israele ha fatto tanta strada, fino a convincere una celebre studiosa d'impero britannico a rifiutare 300 mila dollari. Non è la prima volta che femministe di fama come Catherine Hall boicottano Israele. La National Women's Studies Association ha votato il boicottaggio delle colleghe israeliane. E' forse proprio questa ubriacatura intellettuale antisraeliana ad averle rese cieche e mute di fronte alle autentiche violazioni commesse sul corpo delle donne? A cominciare dal mondo islamico. Ma quello ha da tempo investito nelle loro cattedre in Europa ed è bene non innervosire i generosi sceicchi. In Gran Bretagna, "centri di studi islamici" sono stati istituiti nelle principali università. Un rapporto di Anthony Glees, direttore del Brunel University's Centre for Intelligence and Security Studies, stima che i soli regnanti sauditi hanno versato 233 milioni di sterline in queste università inglesi. Compreso lo University College London di Catherine Hall, che ha anche un campus in Qatar e ha di recente accettato un finanziamento da Abu Dhabi. Sarà per questo che i baroni inglesi che boicottano gli ebrei israeliani non sollevano mai il velo sui soprusi nella mezzaluna?
(Il Foglio, 1 giugno 2016)
Se uno non capisce che questa è patologia antisemita è perché lui stesso ne soffre. M.C.
Negoziato faccia a faccia o diktat dall'esterno?
Accettando l'iniziativa di Parigi, i palestinesi sperano ancora una volta di ottenere uno stato senza dover accettare i compromessi necessari.
I rappresentanti di più di venti paesi saranno convocati a Parigi, il 3 giugno, per una sorta di pre-conferenza internazionale incaricata di pianificare una successiva conferenza internazionale di pace per l'autunno che a sua volta dovrebbe portare al riavvio delle trattative per risolvere il conflitto israelo-palestinese. I rappresentanti israeliani e palestinesi non sono invitati a questo primo incontro di Parigi, né è chiaro come saranno condotti i colloqui di pace in autunno.
Israele si oppone ufficialmente a questa iniziativa francese perché rifiuta il concetto di organizzare colloqui su come organizzare colloqui, proponendo piuttosto la convocazione immediata di negoziati diretti tra le parti interessate. Israele ritiene che questo approccio di gruppo ad opera di soggetti non interessati è destinato a fallire perché i palestinesi lo sfrutterebbero come un'ennesima scusa per evitare quei negoziati diretti su una soluzione a due stati ai quali si sottraggono con successo ormai da anni....
(israele.net, 1 giugno 2016)
Da Israele la startup per spiare qualsiasi smartphone
Ability è la startup israeliana che permette, tramite un sistema chiamato ULIN, di monitorare chiamate e messaggi di qualsiasi cellulare dovunque si trovi.
Con circa 20 milioni di dollari e un numero di cellulare potrete monitorare ogni messaggio o chiamata fatta o ricevuta, in qualsiasi parte del mondo.
Fantascienza? No, è la startup israeliana Ability che ha sviluppato un sistema dal nome ULIN (Unlimited Interception System ) in grado di spiare qualsiasi cellulare, dovunque sia nel mondo e a qualunque distanza.
Presentato lo scorso novembre, ULIN può venire a costare dai 20 milioni di dollari in sù, dipende da quante persone si vogliono sorvegliare.
Ma ciò che rende questo sistema migliore di tutti gli altri sistemi di sorveglianza è la semplicità con la quale spiare le conversazioni o i messaggi. Tutto quello che serve è il numero di telefono o la IMSI(International Mobile Subscriber Identity).
Secondo un documento ottenuto da Forbes,
"Ulin permette l'intercettazione delle chiamate vocali, messaggi SMS e le informazioni relative alle chiamate dei telefoni / UMTS / LTE GSM, senza la necessità di essere vicino al telefono intercettato e senza il consenso di operatori di rete mobile".
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Quest'ultima parte è possibile soltanto grazie al fatto che ULIN sfrutta una debolezza nel 'resident SS7', il sistema di segnalazione no 7 che rappresenta una parte fondamentale dell'infrastruttura di rete condivisa a livello mondiale. SS7 aiuta a instradare le chiamate tra i diversi operatori. I fornitori di servizi utilizzano spesso SS7 per supportare le comunicazioni nelle zone dove la rete normale del cliente non è disponibile, ad esempio quando l'utente si trova all'estero.
Anatoly Hurgin, CEO di Ability ha annunciato in un'intervista a Forbes che presto espanderanno il loro mercato negli States, dove sono sicuri di poter vendere ULIN niente di meno che al Governo americano.
(key4biz.it, 1 giugno 2016)
Non servono gli appelli, giustiziati tre palestinesi
Gli appelli dei centri per i diritti umani non sono serviti a nulla. Ieri all'alba a Gaza sono stati giustiziati 3 dei 13 palestinesi condannati per omicidio e reati comuni di cui era stata annunciata l'esecuzione in tempi stretti dal premier di Hamas Ismail Haniyeh. Le esecuzioni sono avvenute nei pressi della sede centrale della polizia - non in pubblico come era stato annunciato - alla presenza delle famiglie delle vittime che si sono rifiutate di perdonare e, quindi, di salvare la vita ai tre condannati: Mohammed Othman, Yousef Abu Shamla e Ahmad Sharab. Due sono stati impiccati, il terzo è stato fucilato. II governo di Hamas afferma di voler dare una risposta all'aumento della criminalità. II procuratore generale di Gaza ha precisato che i tre avevano compiuto crimini "terrificanti" e che la pena capitale costituirà un deterrente. Hamas ha scelto di ignorare il ruolo della presidenza dell'Anp che, secondo la legge palestinese alla quale il movimento islamico sostiene di far riferimento, deve ratificare le condanne a morte. Chi a Gaza si oppone alla pena di morte afferma che Hamas non deve giustiziare i condannati ma affrontare le cause sociali ed economiche, frutto del blocco israelo-egiziano, che hanno portato alla crescita del criminalità nella Striscia.
(il manifesto, 1 giugno 2016)
«... Hamas non deve giustiziare i condannati ma affrontare le cause sociali ed economiche, frutto del blocco israelo-egiziano...». Forse Hamas dovrebbe affrontare prima le cause terroristiche che hanno portato al blocco israelo-egiziano, ma naturalmente questo Hamas non lo farà, sia perché lui stesso è la causa del terrorismo e sia perché i commentatori occidentali come quelli del manifesto non glielo chiedono. M.C.
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