La settimana di Israele: il momento decisivo della guerra
di Ugo Volli
• Israele contro l’Iran L’attacco israeliano all’Iran è ovviamente l’evento più importante dell’ultimo periodo, anzi dell’intera guerra. Non occorre qui richiamarne i dettagli. Basti dire che dalla prima mattina di venerdì l’aeronautica israeliana e il Mossad hanno eliminato i vertici dell’esercito e delle guardie rivoluzionarie (la torva milizia degli ayatollah), hanno neutralizzato le difese antiaeree tanto da aver ottenuto la totale superiorità aerea anche sopra Teheran, hanno colpito tre aeroporti di grandi dimensioni, eliminato buona parte dei missili balistici su cui l’Iran contava per reagire, hanno iniziato il lungo e difficile lavoro di eliminazione della macchina produttiva dell’armamento nucleare iraniano, compito reso particolarmente lungo e difficile per il fatto che essa è dispersa in numerosi siti e ovunque protetta da profondi tunnel nelle montagne e sottoterra, soprattutto perché Israele non ha i bombardieri capace di portare bombe gigantesche B52 e B2 che oggi sono solo disponibili agli Usa. Insomma lo smantellamento del potere aggressivo del regime degli ayatollah da parte del solo Israele, senza aiuti stranieri diretti, è iniziato con straordinaria efficacia.
• L’Iran non riesce a rispondere La reazione iraniana è stata debole e poco efficace: immediatamente dopo l’attacco uno stormo di 100 droni, tutti abbattuti, poi alcune raffiche di 50-100 missili balistici l’una, che hanno fatto danni materiali, alcuni feriti e anche due o tre vittime, ma senza rilievo strategico. Si ritiene che all’Iran, dopo i primi bombardamenti israeliani restino circa 1500 missili, quanto basta per attacchi di questa intensità per una decina di giorni, ma è per loro sempre più difficile schierarli e lanciarli senza che l’aviazione israeliana li distrugga a terra. È probabile comunque che nelle prossime notti vi siano altri allarmi e altri lanci, di cui una piccola percentuale potrebbe colpire il territorio israeliano. I gruppi terroristici che l’Iran aveva costruito anche come antemurale e arma di rappresaglia sono tutti più o meno impossibilitati a intervenire: Hezbollah ha dichiarato che non parteciperà ai combattimenti, Hamas è pressato a Gaza, gli Houthi hanno sparato un missile e i gruppi sciiti dell’Iraq qualche drone, che non ha fatto danni.
• Gli schieramenti internazionali La ragione e il diritto di Israele sono chiari a tutte le persone minimamente lucide. A parte l’amministrazione Trump che sapeva dell’attacco, appoggia a parole e con rifornimenti e soprattutto non ostacola né ricatta Israele, in Europa Germania, Francia, Gran Bretagna (le ultime due pochissimo amiche di Israele) hanno dichiarato che l’atomica iraniana è inaccettabile e che lo Stato ebraico ha diritto all’autodifesa. I paesi arabi hanno fatto dichiarazioni rituali contro l’attacco, ma hanno dato una mano a Israele nel respingere i missili iraniani (Arabia Saudita e Giordania) o hanno bloccato i manifestanti arrivati per creare torbidi al confine di Gaza (Egitto). E tutti guardano in realtà con un sospiro di sollievo allo smantellamento dell’arsenale nucleare di un nemico aggressivo e imperialista. Solo chi è accecato dall’antisemitismo, dall’odio per l’Occidente o dallo schieramento pregiudiziale a favore dell’integralismo islamico (almeno a parole) come Russia, Cina e vari paesi autoritari del Sudamerica ma soprattutto la sinistra europea (Spagna, Norvegia) e in particolare quella italiana, ha condannato l’azione israeliana.
• Unanimità in Israele Il governo israeliano, che aveva evitato proprio giovedì una insidiosa mozione di scioglimento del parlamento presentata dall’opposizione, che rischiava di essere approvata dai charedim, ora gode dell’appoggio di tutto lo schieramento parlamentare. Una prova di più che questa non è affatto la “guerra di Netanyahu”, come dicono anche personaggi ignoranti o in malafede del sistema politico europeo che pure si presentano ipocritamente come amici di Israele. È la guerra di tutto il popolo di Israele, guidata in maniera molto competente e astuta da un governo democraticamente eletto, per eliminare la minaccia terroristica. Ora la guerra è arrivata alla “testa del serpente” e se questo attacco avrà successo, potrà portare come conseguenza anche la pace che nessuno più degli israeliani desidera.
• La strategia Israele aveva tre obiettivi principali nell’attacco, una volta stabilita la superiorità aerea: disabilitare completamente il programma nucleare; distruggere la potenza convenzionale; ottenere un cambio di regime a Teheran, facendo sì che gli iraniani si liberassero del regime clerico-fascista degli ayatollah e riprendessero la loro libertà, come ha auspicato anche Netanyahu in un messaggio alla nazione persiana. Il secondo obiettivo è in parte raggiunto, ma richiederà ancora molto lavoro per essere realizzato in maniera sufficiente, com’è accaduto con la Siria. Bisogna ricordare che l’Iran ha circa otto volte la popolazione di Israele e quasi ottanta volte la sua superficie: questa enorme differenza di dimensione rende molto più lungo e difficile il compito di trovare armi e truppe nascoste. Il lavoro sul primo punto è iniziato bene, con danni molto gravi all’impianto atomico di Natanz; ma ve ne sono molti altri ufficiali e segreti, molto ben protetti. Lo smantellamento di Fordow è per esempio appena iniziato. È probabile che in certi casi ci sarà bisogno di forze speciali sul terreno, perché le bombe aeree non possono penetrare oltre un certo spessore. Per entrambi questi compiti la pianificazione israeliana, che è molto lucida e scientifica, ha previsto “almeno due settimane di bombardamenti”. Netanyahu ha allargato ancora, dicendo che Israele lavorerà “per tutto il tempo che ci vuole”. Potrebbe anche accadere che gli ayatollah decidano di tentare di colpire gli Usa, che hanno parecchie basi alla loro portata. Ma questo naturalmente provocherebbe una reazione americana che avvicinerebbe la loro fine.
• In attesa della rivolta Il terzo tema naturalmente è quello decisivo. Ci sono segni di sfaldamento del potere degli ayatollah, voci di fughe all’estero e contraddizioni politiche. Ma non può essere Israele a produrre la rivolta degli iraniani. Si sa che ci sono gruppi giovanili urbani (soprattutto donne) che hanno già tanto eroicamente testimoniato il dissenso negli anni scorsi e potrebbero tornare in piazza. Ci sono gruppi importanti colonizzati dallo stato iraniano: arabi sunniti sulla riva del Golfo, azeri nel nord, beluci (molto ben organizzati) all’estremo oriente del paese. Se e quando li vedremo prendere l’iniziativa, forse l’ora del regime sarà suonata. Ci potrebbe essere anche un colpo di stato di militari che non vogliono vedere a pezzi il paese. A seconda delle reazioni cambieranno anche gli obiettivi dell’azione israeliana. In caso di rivolta l’aviazione potrà aiutare gli insorti bombardando i miliziani del regime; se non vi sarà questa reazione, Israele si troverà probabilmente a dover mettere alle strette il regime attaccando le sue risorse economiche, innanzitutto pozzi e raffinerie di petrolio, porti civili, impianti elettrici e di trasporto. Comunque non bisogna aspettarsi una soluzione rapida. Siamo al momento decisivo della guerra, ma sarà un momento che ci terrà in tensione a lungo.
Dai bunker ai cieli di Teheran. L’antica lotta per sopravvivere
di Fiamma Nirenstein
I bambini sono i più bravi: quando sei ancora semisvestito e scendi nel rifugio alle tre di notte, fanno due a due gli scalini polverosi e ripidi, scendono in una stanza buia dove al massimo c’è un materasso per terra, stanno tranquilli con gli occhi spalancati, non piagnucolano ne chiedono; se gli offri dell’acqua o un biscotto ti degnano di un cenno della testa, in genere negativo. Aspettano il bum: ecco, arriva, ne arrivano tre o quattro, i bambini chiedono senza mostrare ansia dove sono, se abbiamo colpito il missile, se è arrivato fin sul nostro terreno. La radio non dice tutto, per non indirizzare il nemico. Se dopo si comincia a fare qualche preparativo per uscire, i bambini ti ricordano di aspettare i dieci minuti secondo la regola e di guardare sul telefonino se il “pikud ha oref”, il fronte interno, ha confermato l’ordine. Alla tv schiere di giornalisti in genere impegnati nella politica interna uno contro l’altro, quasi tutti contro il Primo Ministro, adesso sono per un numero di ore impensabile impegnati a raccontare appassionatamente l’incredibile avventura di un piccolo Paese che ha dovuto affrontare la pletora dei dittatori più aggressivi del mondo per sopravvivere. Senza nessuna retorica, sono fieri dei piloti; sul teleschermo intanto appaiono anche i mozziconi degli edifici di Ramat Gan, e si ricordano i nomi di tre morti e venti feriti. A canale 12 il giornalista super di opposizione seduto accanto a un generale in divisa, spiega come in poche ore è stata ripulita la strada dai missili più fatali e pericolosi con un’acrobazia aerea da leggenda di duemila chilometri; ricorda la distruzione dell’impianto atomico da parte di Begin in Iraq e da parte di Olmert in Siria. Il coro di proteste internazionali che si levò contro queste operazioni indispensabili era guidato dagli USA, la parola d’ordine era la stessa: sopravviviamo. La gente di Israele sa una cosa che il mondo ormai ignora nei suoi più imi precordi: che sopravvivere viene per primo, e che bisogna farlo con maestria, mirando giusto. Si deve ricordare che cosa è l’Iran e che cosa ha deciso, e qui ogni massaia lo sa benissimo: il 7 di ottobre fu preparato con la sua intensa collaborazione strategica, e poi i suoi Hezbollah erano pronti a completare l’invasione dei macellai, e di fianco la Siria e l’Iraq stringevano, pronti a completare l’operazione storica della distruzione di Israele. E di lato, sempre la stessa mano, il vecchio ayatollah iraniano circondato dalle Guardie della rivoluzione accanite e fanatiche nella distribuzione accurata di compiti nella distruzione di Israele, nel genocidio pianificato del popolo ebraico. Soldi a palate, fabbriche di armi letali, geniali costruzioni cibernetiche, scienziati, arricchimento palese e nascosto di uranio, assassini allenati dal Sud America a Gaza solo nell’uccisione di ebrei. Alleanza con la Russia di Putin, strusciamento con la Cina. Adesso per Israele, alla vigilia della bomba atomica, ci voleva un miracolo di bravura, ma bisognava chiudere: così non si poteva andare avanti. Una volta Golda Meyer spiegò a Kissinger che l’arma segreta degli ebrei è che non hanno nessun altro posto dove andare. Di più: non hanno nessun altro posto che sia il loro. Ieri una signora anziana la cui casa è stata distrutta commentava “Mia nipote di tre anni e mezzo mi ha chiesto il perché fuori della porta del botto spaventoso, e io le ho detto che forse da qualche parte era caduto qualcosa. Siamo rimasti a dormire nel rifugio fino alla mattina, tranquilli, chiusi, e ora ecco, la casa è distrutta, e noi si vive”. La capacità di resistenza nell’affrontare anche questa guerra così funambolica e distruttiva contro gli ayatollah dopo due anni di Gaza, in cui i ragazzi e anche i padri di famiglia entrano e escono su un terreno in cui si rischia la morte, in cui Israele ha perso mille soldati, il lavoro, i figli, l’economia; la forza delle donne di reggere da sole famiglie con tanti bambini… è la componente che i nemici di Israele non sono capaci di prendere in considerazione. E’ il fantastico allenamento del popolo ebraico alla sopravvivenza persino nelle condizioni più estreme, la sua capacità di lavorare la terra mentre legge la Torah e fa la guerra anche dopo la Shoah. C’è addirittura qualche povero illuso che disegna nei suoi interventi l’idea di una politica suicida di Israele, di Netanyahu. Niente è più sbagliato: così ha errato l’Iran con Sinwar quando ha interpretato il conflitto politico interno israeliano come un segnale di via al 7 ottobre; mai avrebbe immaginato, Khamenei, che i cercapersone avrebbero suonato la fine del suo maggior proxy, Nasrallah. Immaginava invece che la mostruosa determinazione di Hamas a sacrificare tutta la sua gente costruendo sulla cialtroneria antisemita la leggenda “genocida” avrebbe creato un inghippo internazionale molto difficile per Israele: era vero. Pensava che i rapiti fossero una trappola sanguinante, geniale, Era vero anche questo. Ma se pensava con questo che il popolo ebraico avrebbe scelto di morire nelle sue tenaglie senza affrontare la radice del male, ha commesso lo sbaglio della sua vita. Ogni bambino prima dell’età scolastica sa già dire “am Israel hai”, il popolo d’Israele vive. E’ nella linfa genetica di un popolo che per sopravvivere ha dovuto imparare la strada dei miracoli. Non è la più facile, ma è quella che è stata già inaugurata e sperimentata nei secoli così tante volte, e che lo Stato d’Israele ha reso pane quotidiano superando senza tregua l’assedio di un odio ideologico e religioso senza remissione. Adesso, se si vede come Giordania, Siria, Arabia Saudita, Egitto, fermano nel cielo i missili iraniani, sembra aver trovato un suo punto.
Perché Dio ha creato il mondo? - 5Un approccio olistico alla rivelazione biblica.
di Marcello Cicchese
• Sofferenza d'amore Sul far della sera (Genesi 3:8), quando il sole volge al tramonto, l’Eterno Dio decise di andare a trovare Adamo ed Eva nella parte abitabile della terra (Proverbi 8:31), che era il giardino di Eden, creato appositamente per l’uomo affinché lo lavorasse e lo custodisse (Genesi 2:15). Non andava lì per sorvegliare gli abitanti del giardino, come fanno le guardie municipali che quando scende il buio si sparpagliano per le strade del comune a tener d’occhio quelli che hanno comportamenti sospetti. No, Dio andava lì per trovare la sua gioia tra i figli degli uomini (Proverbi 8:31) in un rapporto d’amore con le sue creature. Voleva godersi il suo riposo (Genesi 2:2), dopo il duro lavoro della creazione.
Ma non fu possibile. Quando i due si accorsero che stavano per ricevere una visita, non si fecero trovare in casa. Li raggiunse però la voce. Tremenda, quella voce. Faceva paura. Eppure Dio non voleva far paura. Al contrario, era lì per comunicare e ricevere gioia, come accade quando s’incontrano due che si amano. Forse si aspettava che gli corressero incontro, invece no. Non c’erano.
Fu lì che Dio provò la prima delle sue sofferenze d’amore dopo il compimento della creazione. La domanda “Adamo, dove sei?” non è indagatrice, ma accorata. Ne sottintende un’altra: “Adamo, perché non ci sei?” L’incontro nel giardino di Eden avrebbe dovuto significare il pieno avvolgimento della creatura in ciò che è l’essenza del Creatore: l’amore. E’ per questo che Dio aveva concesso ad Adamo spazio d’azione e autorità: affinché l’uomo potesse far giungere a Dio una risposta d’amore da una posizione di piena libertà e dignità.
Ma la risposta non arrivò. La gioia, quella particolare gioia in mezzo agli uomini che Dio aveva pregustato durante la creazione, non ci fu. Dio continuò ad essere nella sua essenza amore, ma la forma in cui questo si manifestò nel seguito fu necessariamente diversa: nell’amore di Dio per la creazione e le creature era entrata la sofferenza, in forma di delusione e gelosia. Delusione, perché Adamo aveva fatto un uso improprio della libertà ricevuta; gelosia, perché Adamo aveva stabilito un rapporto di fiducia con il serpente, invece che con Dio.
A questo punto qualcuno forse penserà che questo modo di leggere i racconti biblici è puramente soggettivo e fantasioso; e che si fa un uso illecito di antropomorfismi per descrivere una realtà divina che trascende infinitamente quella umana; e qualcun altro dirà, come il teologo protestante Karl Barth, che si può parlare di Dio soltanto come il “Totalmente Altro”, cioè come Colui che è totalmente al di là e al di sopra di ogni possibile rappresentazione umana. Diciamo subito che approcci di questo tipo sono decisamente da respingere: affrontare temi biblici con categorie intellettuali astratte è un modo “umano, troppo umano” di parlare di Dio. Invece del “Totalmente Altro”, si arriva a parlare di “qualcosa d'altro”, non del Dio che ha fatto i cieli e la terra e si rivela nei fatti della storia riportati nella Bibbia.
L’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio. Da questo consegue che la maggior parte delle espressioni con cui usiamo parlare di cose importanti del nostro essere umani, come amore, pace, libertà, giustizia e altre ancora, sono a ben vedere dei teomorfismi che esprimono modi di pensare, sentire e agire che appartengono originariamente a Dio e si sono trasferiti a noi nei nostri rapporti tra uomini.
Si può prendere ad esempio la gelosia, di cui si è parlato sopra. Il sentimento di gelosia che si prova nei rapporti d’amore fra uomini è la trasposizione di un sentimento che prova Dio nel suo rapporto d’amore con gli uomini. La gelosia è un carattere di Dio:
“Tu non adorerai altro dio, perché l'Eterno, che si chiama: ‘il Geloso’, è un Dio geloso” (Esodo 34:14). “Non ti prostrare davanti a tali cose e non le servire, perché io, l'Eterno, il tuo Dio, sono un Dio geloso che punisco l'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano” (Esodo 20:15). “Pensate che la Scrittura dichiari invano che lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi ci brama fino alla gelosia?” (Giacomo 4:5)
Dunque è del tutto accettabile, in un rapporto rispettoso con la Bibbia, immaginare che dopo il “peccato originale” l’amore di Dio abbia perso un po’ di quella “esuberante gioia” (Proverbi 8:30) che Dio aveva quando la creazione era “in corso d’opera”, e abbia assunto un aspetto di sofferenza in forma di gelosia.
Ma anche se è gelosia, sempre di amore si tratta. Dunque le decisioni prese da Dio dopo il fattaccio del frutto proibito (Genesi 3:14-24) non vanno intese come punizioni inferte da un giudice inflessibile ai trasgressori, ma come atti d’amore di un Dio che lascia il suo riposo per mettersi a lavorare intorno a un progetto di recupero di quel creato nella cui elaborazione e preparazione aveva infuso tanta sapienza, speranza e amore.
Tra le decisioni di Dio presentate nel capitolo 3 della Genesi, ne indichiamo due: 1) La terra fu maledetta; 2) Adamo ed Eva furono cacciati dal giardino di Eden.
La prima decisione indica che la morte corporale di Adamo ed Eva fu provocata dalla maledizione del materiale terreno con cui erano stati costruiti: “… tornerai nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai”.
Con la seconda decisione il Creatore chiude ogni possibilità di incontro ravvicinato tra Dio e l’uomo: il luogo adibito a questo scopo era stato fissato nel giardino di Eden, ed esso è stato irrevocabilmente sigillato. Si può dire che è come se un marito geloso, dopo aver accertato l’infedeltà della moglie, la cacci di casa e cambi la serratura della porta. Non si entra più. Forse in seguito si potrà ancora comunicare, ma per lettera, o per telefono, o per l’interposizione di un amico, ma sempre e soltanto a distanza.
Ma Dio è amore. E continua ad amare la sua creatura. Che fare? Dio riprende a pensare e ad agire. E dà il via al suo secondo progetto: quello redentivo. Ed è proprio di questo che parla l’intera Bibbia, dal quarto capitolo della Genesi in poi.
Essendo frutto dell’amore di Dio, anche il progetto di recupero doveva prevedere uno spazio di libertà dell’uomo. Ma essendo l’uomo una creatura, lo spazio di libertà a lui concessa può aprirsi soltanto in conseguenza di un suo SÌ di risposta alla parola rivoltagli dal Creatore. In momenti opportuni, Dio cercherà sempre qualcuno a cui rivolgere la parola adatta, nel desiderio di ricevere in risposta un SÌ, che a differenza del NO ricevuto da Adamo possa permettere la prosecuzione del programma.
Cerchiamo allora di seguire il Signore nel suo nuovo e decisivo lavoro d’amore.
• Anarchia Dopo il peccato di Adamo, si direbbe che il Signore abbia deciso di stare un po’ a vedere come sarebbero andate avanti le cose. Si propone di osservare quello che avrebbero fatto i discendenti di Adamo lasciati a loro stessi. Lascia che Caino uccida il fratello ed emette quella “ordinanza” che tanto piace ai pacifisti: “chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui” (Genesi 4:15). Lascia fare dunque: nessuna regola, ciascuno può agire secondo coscienza, cioè fare quello che vuole. Massima libertà? Così potrebbe pensare qualcuno, dimenticando però che dopo il peccato l’uomo non è affatto libero, ma è sottoposto al dominio di Satana, che ha pieno diritto su di lui dal momento che il primo uomo, da cui tutti gli altri discendono, ha creduto alla sua parola, non a quella di Dio. Così, sotto l’impulso di Satana e dei suoi angeli - che arrivarono perfino ad unirsi in legami carnali con le donne (Genesi 6:1-2) - la terra divenne un tale porcile da costituire, dopo la delusione d’amore di Adamo ed Eva, un altro momento di sofferenza per il Signore:
“E l'Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra, e che tutti i disegni del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo. E l'Eterno si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo. E l'Eterno disse: “Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti” (Genesi 6:5-7).
Dio dunque aveva deciso di distruggere tutto ciò che vive sulla faccia della terra, ma prima di dar corso al suo proposito cercò tra gli uomini qualcuno che, a differenza di Adamo, avrebbe creduto alla sua parola e l’avrebbe messa in pratica. E lo trovò in Noè, che come sta scritto “trovò grazia agli occhi dell’Eterno” (Genesi 6:8), e poté sopravvivere con la sua famiglia all’immane tragedia del diluvio.
All’uscita della famiglia di Noè dall’arca, avviene un momento bellissimo nella storia del rapporto d’amore tra Dio e l’uomo: un elemento importante per il proseguimento del progetto redentivo. E’ Noè che prende l’iniziativa:
E Noè costruì un altare all'Eterno; prese di ogni specie di animali puri e di ogni specie di uccelli puri, e offrì olocausti sull'altare (Genesi 8:20).
Questa costruzione di Noè è in assoluto il primo altare della storia eretto in adorazione a Dio. Non è l’esecuzione di un ordine dall’Alto: è la spontanea decisione di un uomo sopravvissuto al giudizio che in piena libertà esprime a Dio la sua riconoscenza per la salvezza ricevuta. E lo fa eseguendo, su quell’altare improvvisato, alcuni sacrifici che sapeva essere graditi a Dio. E’ un gesto d’amore, che costituisce per Dio il primo momento di quella gioia in mezzo agli uomini che Egli avrebbe voluto provare già nel giardino di Eden:
“E l'Eterno sentì un odore soave; e l'Eterno disse in cuor suo: “Io non maledirò più la terra a motivo dell'uomo, poiché i disegni del cuore dell'uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza; e non colpirò più ogni cosa vivente, come ho fatto. Finché la terra durerà, semina e raccolta, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte, non cesseranno mai” (Genesi 8:22-24).
Nella gioia per quel soave odore che gli arriva dal basso, Dio s’impegna in cuor suo a non colpire più la terra come aveva fatto prima, ma a conservarla “a tempo indeterminato”, cioè fino al compimento del suo progetto redentivo, che come ora sappiamo, ha come obiettivo la creazione di “un nuovo cielo e una nuova terra” (Apocalisse 21:1).
• Un patto che mette ordine Abbandonata l’idea di sbarazzarsi definitivamente della razza umana, Dio si muove ora nella direzione opposta: decide di coinvolgersi personalmente nella storia degli uomini. E stabilisce con Noè il primo patto Dio-uomo della storia dopo la caduta.
E’ un patto che conserva il creato e limita il male, senza tuttavia estirparlo. In un certo senso, si può dire che è il primo patto di “salvezza per grazia mediante la fede”: la grazia si manifesta nell’offerta di Dio all’uomo di una possibilità di salvare se stesso e il genere umano, e la fede nella decisione di Noè di credere alla promessa di Dio, anche se appariva inverosimile e ridicola ad occhi umani.
Ma dopo l’esperienza fatta con la concessione all’uomo della massima “libertà”, bisognava porre un limite alla malvagità umana, al fine di difendere la vita stessa della società. Dio allora cambia le regole di comportamento tra gli uomini e il loro rapporto con la natura. La parola “nessuno tocchi Caino", tanto cara ai pacifisti, è sostituita da “il sangue dell'uomo sarà sparso dall'uomo” (Genesi 9:6). Da quel momento infatti Dio dà all’uomo l’autorità di usare la forza punitiva anche mettendo a morte il colpevole. Per dirla in termini sintetici e attuali: introdusse la pena di morte. In questo modo si propone di difendere la società strutturata, non l’individuo nei suoi “inalienabili diritti umani”, come diremmo noi oggi.
All’uomo è ripetuto l’ordine di crescere, moltiplicarsi, spandersi sulla terra e riempirla (Genesi 9:1-7), ma non gli è chiesto di sottometterla. La caduta aveva fatto perdere all’uomo la sua autorità, passata ora nelle mani di Satana, che per questo motivo nella Bibbia è indicato come il principe di questo mondo (Giovanni 12:31).
• L’uomo cerca un suo “ordine” Dopo il patto con Noè, la popolazione sulla terra riprende a crescere, e a differenza di prima del diluvio, quando regnava anarchia, malvagità e disordine, gli uomini adesso vivono tutti insieme, parlano la stessa lingua e si capiscono. Ma invece di osservare l’ordine di Dio e spandersi sulla terra, si muovono “d’amore e d’accordo” verso oriente. Arrivati nella pianura di Scinear, li coglie la paura di tornare a disperdersi e perdere così quella meravigliosa unità mondiale che avevano raggiunto. E hanno un’idea. Un’idea che fino a quel momento era venuta solo a Caino: costruirsi una città (Genesi 4:17). Ma avrebbe dovuto essere una città speciale, unica, destinata a diventare il centro del mondo, con una torre alta, molto alta, tanto alta da arrivare fino al cielo. E con il cielo a portata di mano, il possesso della terra sarebbe stato garantito: chi mai avrebbe potuto disperderli sulla faccia della terra? Chi avrebbe tolto loro quel suolo e quella meravigliosa, produttiva unità? Le premesse sono più che promettenti. Gli uomini della pianura di Scinear hanno una tecnologia avanzata: usano bitume invece di calcina, mattoni cotti al sole invece di semplici pietre. E in più, non sono dei pelandroni, ma gente attiva, laboriosa, pronta ad impegnarsi. "Orsù - si dicono l'un l'altro - edifichiamoci una città e una torre di cui la cima giunga fino al cielo, e acquistiamoci fama, affinché non siamo più dispersi sulla faccia di tutta la terra" (Genesi 11:4). Da notare che gli uomini della pianura di Scinear non parlano mai di Dio, neppure per negarlo: ciò che a loro interessa è il progetto, l'opera delle loro mani. Che c’è di male? In fondo, loro vogliono lavorare per un affratellamento degli uomini intorno a un progetto comune. Se c'è un Dio, perché mai dovrebbe avere qualcosa da dire?
E invece Dio ha qualcosa da dire. Come un solerte operaio si mette anche Lui al lavoro e dice a Sé stesso: "Orsù, scendiamo". E sappiamo come va a finire: gli uomini non si capiscono più fra di loro, smettono di edificare la città e sono costretti a disperdersi sulla faccia della terra, proprio come Dio voleva.
Rimase però in loro quell’anelito globalista all’unità sociale universale che li aveva mossi all’inizio, e cercarono di soddisfarlo almeno in parte con la fondazione di quelle innovative sottosocietà che costituirono le “nazioni, nei loro diversi paesi, ciascuno secondo la propria lingua” (Genesi 10:5).
Ma di queste sottosocietà nazionali non si trova traccia nel progetto creativo originario di Dio.
Alle 21:00 ora locale del 13 giugno 2025, il cielo sopra l’Iran è diventato un campo di battaglia. Nel giro di pochi secondi, la notte è stata illuminata da esplosioni. Le difese aeree iraniane, colte di sorpresa, sono state abbattute una dopo l’altra. L’operazione, una delle più audaci e coordinate della storia militare e d’intelligence contemporanea, ha visto l’esercito israeliano colpire decine di obiettivi sensibili nel cuore del territorio iraniano. Teheran, fulcro del potere del regime, da Qeytarieh e Niavaran fino ai complessi militari di Shahid Chamran e Shahid Daqiqi, fu investita da un fuoco incrociato senza precedenti. Non si è trattato solo di un attacco militare: è stata una dimostrazione chirurgica di superiorità informativa e capacità operativa, in risposta a quelle che Israele ha definito “le infinite linee rosse superate dal regime iraniano”. L’operazione si è svolta simultaneamente in dodici province iraniane. Tra i bersagli figurano il reattore nucleare di Natanz, le strutture di acqua pesante di Arak, i depositi missilistici di Parchin, e basi militari a Hamedan, Borujerd, Tabriz, Kermanshah, Piranshahr e Qasr-e Shirin. Le prime valutazioni suggeriscono la distruzione completa di numerose installazioni strategiche e incendi diffusi nei pressi delle stesse.
• L’ombra del Mossad Secondo il Washington Post, agenti del Mossad erano operativi in Iran da mesi. Travestiti da operai o tecnici delle telecomunicazioni, avevano piazzato sistemi di puntamento laser e armi di precisione a ridosso di obiettivi militari strategici. Quando è scattato l’attacco, droni già nascosti all’interno del territorio iraniano si sono alzati in volo contemporaneamente, colpendo le difese aeree e mettendole fuori uso in pochi minuti. Contemporaneamente, caccia stealth F-35 israeliani sono decollati da basi in Azerbaigian e nel Golfo Persico, hanno violato lo spazio aereo iraniano e hanno colpito direttamente il cuore di Teheran. Quartieri come Niavaran, Qeytarieh, Mehrabad, Chitgar, Nobonyad, Ozgol e Shahrara si sono trasformati in zone di combattimento. Un missile di precisione ha colpito una torre a Kamraniyeh, dove – secondo fonti riservate – si stava tenendo una riunione d’emergenza tra le autorità di sicurezza. A Sattarkhan, il complesso Orchide ha tremato violentemente. A Sa’adat Abad, un’esplosione nel centro accademico di Meydan Ketab ha fatto saltare in aria migliaia di finestre. Tra i bersagli dell’attacco figurano anche figure chiave del programma nucleare e della leadership militare iraniana. Secondo fonti affidabili, tra i morti ci sarebbero: Hossein Salami, comandante delle Guardie della Rivoluzione (IRGC), Mohammad Bagheri, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Gholam Ali Rashid, comandante del quartier generale Khatam al Anbiya, Amir Ali Hajizadeh, comandante dell’aerospazio del IRGC, oltre a un alto consigliere strategico della Guida Suprema. Inoltre, è stata confermata l’eliminazione di Fereydoun Abbasi, uno degli scienziati chiave del programma nucleare, nonché di alti ufficiali dell’intelligence e della sicurezza militare.
• Diplomazia silenziosa, guerra esplicita L’attacco è avvenuto a pochi giorni dai negoziati cruciali previsti a Mascate, capitale dell’Oman. Molti analisti ritengono che Israele, consapevole delle divisioni all’interno dell’Occidente e della natura ambigua del recente rapporto dell’AIEA, abbia deciso di intervenire prima che la diplomazia offrisse al regime iraniano una nuova finestra di manovra. L’amministrazione Trump, alla guida degli Stati Uniti, ha dichiarato ufficialmente di non essere coinvolta nell’operazione, ma ha lanciato un severo monito all’Iran contro qualsiasi ritorsione verso obiettivi americani. Lo stesso Donald Trump ha scritto su X: “L’America costruisce le armi migliori. Israele ne ha molte. L’Iran deve scegliere il dialogo. In caso contrario, i prossimi attacchi saranno ancora più brutali.” Teheran, finora, ha risposto con un silenzio opaco. Le uniche dichiarazioni provengono dai comunicati del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, che promettono “vendetta al momento opportuno”. Un silenzio che potrebbe essere dettato tanto dallo shock, quanto dal tentativo di evitare un collasso dei colloqui di Mascate, che il ministro degli Esteri omanita ha confermato essere ancora in agenda.
• Cifre, lacrime e politica Secondo stime non ufficiali, almeno decine persone sono morte e centinaia sono rimaste ferite nella sola provincia di Teheran; molte erano civili. Edifici residenziali situati a meno di 200 metri da installazioni militari sono stati colpiti senza preavviso. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si riunirà oggi alle 15 (ora di New York) su richiesta dell’Iran. Tuttavia, difficilmente la riunione produrrà effetti concreti, data l’ambiguità della reazione occidentale: nessuna condanna ufficiale, ma un silenzio che suona come un tacito assenso. Nel frattempo, la politica interna israeliana subisce una svolta. Il governo Netanyahu, sotto pressione da parte dei partiti ultraortodossi per la riforma del servizio militare, ha sfruttato la tensione esterna per rinviare il voto parlamentare. Per i detrattori di Netanyahu, l’attacco rappresenta una fuga in avanti. Per lui, è stata l’occasione per riaffermare la propria leadership.
• È solo l’inizio? Le domande cruciali restano aperte. Il regime Islamico rallenterà il proprio programma nucleare? O, come già avvenuto in passato, reagirà con maggiore determinazione? Siamo all’alba di una guerra aperta tra Iran e Israele? Il tempo darà le risposte. Ma una cosa è certa: per la prima volta in quarant’anni, la Repubblica Islamica ha affrontato un attacco su vasta scala in pieno giorno, senza poterlo negare né nascondere. Nel mezzo, il popolo iraniano , intrappolato tra le sanzioni internazionali e la repressione interna, ha pagato ancora una volta il prezzo di decisioni prese altrove. Case, le strutture, sogni: tutto in fiamme. E forse proprio da questo dolore può nascere una nuova domanda: non è tempo di scrivere il destino in modo diverso? Forse sì. Forse la notte del 13 giugno non è stata solo una notte di fiamme. Forse è stata la notte in cui l’Iran ha guardato il proprio cielo, vulnerabile, e ha iniziato a chiedersi: perché rispondere al mondo solo con armi? Perché costruire tunnel sotterranei mentre le case restano indifese? Perché il silenzio della diplomazia è stato sostituito dal fragore dei missili. Alcune notti non svaniscono dalla memoria storica. Il 13 giugno 2025 è una di queste. Una notte in cui il cielo dell’Iran si è acceso, non per una festa, ma per una guerra. Una notte in cui la diplomazia si è spenta, e le armi hanno parlato. Una notte che potrebbe segnare l’inizio di un nuovo capitolo nella lunga e tormentata storia del Medio Oriente. Un capitolo in cui nulla sarà più come prima. Per un iraniano che ama la propria patria e sogna il ritorno della democrazia, questa è una notte di dolore e di speranza. Dolore profondo per un attacco che colpisce la nostra terra, il cuore della nostra identità. Speranza fragile, ma viva, che dopo quarantasei anni possa finalmente finire il lungo incubo della dittatura islamica. Eppure… quanto sarebbe stato più nobile, più degno, se questa tirannia fosse caduta sotto il peso del nostro stesso popolo, per mano di veri patrioti, figli di questa nazione, e non sotto i missili di una potenza straniera. Oggi è Israele a salvarci e domani? Chi sarà a “salvarci”da una nuova dittatura? La libertà non si regala: si conquista. E il destino dell’Iran dovrebbe essere scritto dal suo popolo, non dagli eserciti altrui.
Iran, l’analisi dello storico. Gli ayatollah tremano. A rischio la presa sul Paese
L’opposizione potrebbe riuscire ad approfittare del vuoto di potere. In Medio Oriente contano i rapporti di forza e le alleanze strategiche.
Israele ha vinto? In Medio Oriente contano i rapporti di forza. La competizione con l’Iran coinvolge le due maggiori potenze dell’area, al centro di alleanze con Russia e Turchia, Usa e Cina. Questa storia iniziò negli anni Ottanta; fino a quel momento erano alleati, lo Scià tentò una politica di liberalizzazione, a Tel Aviv dominavano i sionisti socialisti. L’alleanza saltò quando giunsero gli Ayatollah e crearono il primo regime islamico moderno. Dopo il crollo dell’Iraq di Saddam Hussein, tentarono un progetto imperiale sciita. Invece Tel Aviv, che aveva ottenuto la pace con i paesi arabi, era coinvolta in interminabili scontri con i palestinesi. Negli anni Novanta iniziò la sfida. Teheran fondò l’Asse della Resistenza, il Cerchio di fuoco di Quasem Soleimani per stritolare Israele con Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, i terroristi in Iraq e Yemen, l’alleanza con Assad a Damasco e Putin nel mondo. Israele aveva superiorità tecnologica, gli alleati Usa, ora i paesi arabi come amici (ma tutti ben poco disposti a usare le armi) ma il dramma palestinese di fronte; erano le sue armi nucleari a garantire i rapporti di forza. L’equilibrio reggeva, anche se l’eliminazione di Soleimani per ordine di Trump anticipò la svolta (ora è toccato al successore Esmail Qaani). Il 7 ottobre e la drammatica escalation successiva ruppero questo schema. Hamas e Hezbollah sono sconfitti; Assad è caduto; il Libano contiene i fondamentalisti; gli Houti sono in ritirata; l’Iraq sta a guardare. Ora Israele, con l’attacco in corso, vuole cambiare i rapporti di forza per sempre: eliminando la minaccia dell’atomica e dei missili balistici iraniani, stabilirà una definitiva superiorità militare; gestendo il consenso di paesi arabi (e Libano) e il silenzio dei turchi (ora in Siria), contenti della sconfitta dell’Iran, otterrà il decisivo rispetto per il più forte. Infine, se Israele può vincere, il rischio è totale per gli Ayatollah. Teheran è al vertice della produzione petrolifera e di gas, un attacco alle raffinerie ne determinerebbe il crollo. Soprattutto è un’autocrazia repressiva sul terreno di diritti, rappresentanza, libertà femminili: basa la sua legittimità sul controllo della forza interna ed esterna. Se li perde, l’opposizione potrebbe approfittarne, cambiando anche la storia della regione islamica.
Oggi non si tollera che Israele ci sia per difendersi
di Iuri Maria Prado
Non è chiaro a tutti ciò che sta succedendo. È chiaro a pochissimi. Come non fu chiaro a tutti quel che succedeva quel giorno del 1940. Come fu chiaro a pochissimi quel che succedeva quel giorno del 1940. Gli Stati Uniti oggi sono il “nuovo mondo” evocato da Churchill con il discorso delle lacrime, del sudore e del sangue. Gli Stati Uniti ancora fuori, ancora lontani, ancora non in armi contro la Germania nazista. E Israele oggi è l’Inghilterra, con la differenza che Israele non è un impero, non è l’Impero britannico. Israele è un minuscolo Paese di rifugiati; un minuscolo Paese di rifugiati con un esercito che fu messo insieme nel 1948 con il 25% di sopravvissuti dei campi di sterminio. Quasi tre ebrei su dieci che combatterono per l’esistenza dell’unico posto rimasto per gli ebrei erano sopravvissuti dei campi di sterminio. Erano gli ebrei che passarono dal campo di sterminio alla guerra contro i Paesi che avrebbero ucciso un altro milione di ebrei, gli ebrei dei Paesi arabi, anche loro destinati alla distruzione se non ci fosse stato Israele – appena nato – a salvarli. Perché nessuno avrebbe salvato quel milione di ebrei, come nessuno salvò i sei milioni di ebrei d’Europa. Ora questo Paese degli ebrei che hanno resistito alla storia della loro persecuzione, del loro sterminio, del loro genocidio; ora questo Paese di rifugiati, di figli e di nipoti di rifugiati, questo Paese dei superstiti del tempo in cui l’Europa e il resto del mondo chiudevano le porte in faccia agli ebrei rastrellati e ammassati per lo sterminio; ora questo Paese lasciato solo ancora una volta, unica casa per il popolo ebraico ancora una volta perseguitato; ora questo Paese non combatte perché vuole, ma perché deve. Combatte esattamente come combatteva nel 1948, ma contro forze ancora più diffuse e potenti. Perché l’Europa che fu della Shoah, il mondo ora dell’Onu, di Amnesty International, della Croce Rossa, di Medici Senza Frontiere, della Corte Internazionale di Giustizia, della Corte Penale Internazionale, l’Europa delle repubbliche democratiche fondate sull’antifascismo, e qui da noi gli antichi e i nuovi antisemiti travestiti da antisionisti, e tutti i giornali, e tutte le televisioni, e gli Ordini dei giornalisti, e i Comitati di redazione, ora tutto questo mondo sta a guardare mentre gli ebrei di Israele sanno – le ricordate queste parole? – sanno che devono vincere malgrado qualunque terrore, sanno che devono vincere per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c’è sopravvivenza. Ma c’è una differenza rispetto al tempo di quel discorso di Churchill. Hitler aveva meno alleati rispetto a quelli di cui godono i tanti che oggi vogliono uccidere gli ebrei o sono disposti ad accettare che gli ebrei siano uccisi. Israele allora non c’era, e se ci fosse stato gli ebrei non sarebbero stati distrutti. Oggi non si tollera che Israele ci sia per difendersi, perché l’ipotesi che gli ebrei siano un’altra volta distrutti non importa a nessuno, o comunque più o meno oscuramente, più o meno inconfessatamente, è un’ipotesi accettata da tutti. Questo sta succedendo oggi.
L’attacco israeliano in Iran della notte scorsa era atteso. Dopo il richiamo del giorno precedente da parte americana di evacuare il personale non strettamente necessario dell’ambasciata di Baghdad e i familiari del personale militare da diverse basi nel Golfo, nonostante Donald Trump avesse fatto presente che il round negoziale con l’Iran previsto domenica prossima in Oman, fosse ancora in calendario, si capiva che era solo questione di breve tempo per l’intervento militare.
Giovedì, il Consiglio di amministrazione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva formalmente stabilito che l’Iran non stava rispettando i suoi obblighi nucleari per la prima volta in venti anni. Secondo il rapporto, l’Iran ha accumulato 408,6 chilogrammi di uranio arricchito fino al 60 per cento. Un aumento di 133,8 chilogrammi – quasi il 50 per cento – dall’ultimo rapporto dell’agenzia di febbraio. Il materiale arricchito a questi livelli potrebbe essere portato al 90 per cento necessario per un’arma nucleare.
Gli attacchi israeliani hanno preso di mira i programmi iraniani di arricchimento nucleare, di armamento nucleare e di missili balistici.
Tra gli obiettivi colpiti ci sono il Complesso di arricchimento di Natanz nella provincia di Esfahan, un impianto di arricchimento sotterraneo, l’Organizzazione per le industrie aerospaziali in piazza Nobonyad a Teheran che coordina la produzione missilistica iraniana, il quartiere Lavizan, quartiere nordorientale di Teheran, presunto sito nucleare non dichiarato.
L’attacco ha anche decapitato lo Stato maggiore delle foze armate iraniane e il vertice dei Pasdaran, nonché diversi scienziati addetti al programma nucleare. Tra le vittime eccellenti, Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate della Repubblica Islamica dell’Iran, la più alta carica militare del Paese, Hossein Salami, Maggior Generale, comandante del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, Mohammad Ali Jafari, ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Mohammad Mehdi Tehranchi, fisico teorico iraniano, professore dell’Istituto di ricerca laser e plasma e il Dipartimento di Fisica dell’Università Shahid Beheshti, membro del consiglio di amministrazione e presidente dell’Università Islamica Azad, Fereydoon Abbasi, 67 anni, capo dell’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran, Ali Shamkhani, consigliere dell’ayatollah Ali Khamenei.
L’attacco di ieri notte è solo il primo di una serie di attacchi programmati, come ha chiarito Benjamin Netanyahu nel suo discorso subito dopo l’incursione, atti a rimuovere la minaccia esistenziale iraniana nei confronti dello Stato ebraico.
Israele non poteva più aspettare.
L’autodifesa di Israele dall’Iran su cui si gioca il destino del mondo
di Ugo Volli
• La tappa decisiva della guerra
Il massiccio e penetrante attacco israeliano all’Iran apre la fase decisiva della guerra che si è aperta il 7 ottobre 2023. Essa non è mai stata la guerra di Gaza, come scrivono i giornali, e neppure la guerra di Israele con Hamas, che in definitiva è solo un burattino, come Hezbollah, gli Houti e tutti gli altri terroristi in Medio Oriente. La guerra è sempre stata, da quando fu concepita una decina di anni fa, preparata, organizzata e finanziata dagli ayatollah: una guerra dell’Iran per distruggere Israele. Non si tratta di una supposizione o di un’affermazione propagandistica, ma di numerose, continue, quotidiane dichiarazioni dei dirigenti iraniani, di azioni pratiche, di manifestazioni di massa, di iniziative come il cartellone luminoso che in “Piazza Palestina” a Teheran, pretendeva di marcare il conto alla rovescia per la fine dell’entità sionista, dell’armamento delle forze armate iraniane, delle loro azioni. Vale la pena di chiarire che per il piano strategico degli ayatollah la distruzione di Israele e il genocidio dei suoi abitanti erano solo una tappa, ma quella decisiva, per conquistare il consenso di tutti i musulmani, rovesciare i regimi sunniti per loro eretici, prendere il potere sulla Mecca e guidare la conquista islamica di tutto il mondo secondo quanto prescritto da Maometto.
• Una guerra degli ayatollah, non del popolo iraniano
Israele da qualche tempo è arrivato ad accomodamenti più o meno formali con i vicini arabi che avevano cercato di distruggerlo con quattro guerre fra il 1948 e il 1973 (Egitto, Giordania, paesi del Golfo, in qualche modo Arabia e anche di recente durante questa guerra Siria e Libano). Non aspira ad altro che alla convivenza pacifica e sicura nella sua regione, come qualunque stato normale al mondo. Sa che da tempo il suo peggior nemico è il regime clerico-fascita iraniano. Non c’è odio fra Israele e popolo iraniano, anzi una tradizionale amicizia, che ha radici ai tempi dell’Impero persiano di Ciro (al British Museum è conservato il suo editto che consente la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, 25 secoli fa). Più di recente c’era un’alleanza di fatto con lo Scià Reza Palhavi; c’è sempre stata solidarietà con i tentativi dei giovani iraniani di liberarsi dalla dittatura). Netanyahu ha spesso rivolto al popolo iraniano messaggi di amicizia, ed è chiaro che i bombardamenti attuali non mirano a colpire la cittadinanza ma solo i dirigenti del regime. E non c’è conflitto territoriale: la distanza fra Israele e Iran è paragonabile a quella fra Roma e Stoccolma. La guerra è dovuta a una volontà ideologica e al disegno imperialistico degli ayatollah.
• Un attacco giustificato sul piano giuridico e morale
Israele ha dunque tutto il diritto di difendersi dall’Iran con le armi e nei tempi che ritiene opportuni. Non solo perché è stato il regime degli ayatollah a progettare, organizzare, armare, finanziare la guerra che contro lo Stato ebraico conducono da due anni i suoi satelliti, a partire da Hamas. E non solo perché già due volte nei mesi scorsi l’Iran ha direttamente bombardato Israele, ricevendo reazioni limitate per imposizione dell’amministrazione americana di Biden, Ma soprattutto perché l’Iran era sul punto di superare la soglia nucleare che rende uno stato atomico virtualmente inattaccabile. Ormai era pronto quasi tutto, c’era il combustibile (uranio arricchito) per 10 bombe nucleari e altro se ne stava approntando a tutta velocità; c’erano i missili capaci di portare la Bomba su Israele (e va aggiunto, anche sull’Europa); c’era la delicata e complessa componente di innesto per implosione necessaria per far esplodere la carica nucleare; c’erano stati forse degli esperimenti di esplosione sotterranea. Come ha dichiarato per la prima volta il consiglio dell’Agenzia Atomica, l’Iran stava violando le regole del trattato di non proliferazione nucleare ed era pronto a mettere in opera il proprio armamento atomico. Se l’avesse raggiunto, avrebbe avuto un’arma di distruzione di massa capace di distruggere il nucleo di un paese piccolissimo come Israele. L’Iran ha dichiarato più volte di essere disposto a farlo e ha fatto anche girare alcuni video dimostrativi.
• Il destino del mondo
Per questa ragione Israele non ha attaccato di sorpresa l’Iran, come scrivono i giornali, ma ha agito in autodifesa durante una guerra che l’Iran gli aveva dichiarato da tempo. L’amministrazione Trump, che pure non vuole essere coinvolta direttamente nell’attacco, ha capito perfettamente questo punto, non ha impedito a Israele di usare tutta la sua forza e gli ha dato appoggio logistico e informativo. Se l’azione di Israele avrà successo, si potrà aprire un nuovo periodo di pace in Medio Oriente. Il regime degli ayatollah potrà essere rovesciato o quantomeno fortemente depotenziato, tutto il terrorismo da esso finanziato e armato per forza si spegnerà, ci saranno le condizioni per estendere i patti di Abramo e la “Via del cotone”, rotta commerciale e spazio di innovazione fra India, Arabia ed Europa. Il grande disegno cinese di accerchiare l’Occidente e stabilire la propria egemonia con la Russia in Europa, con l’Iran in Medio Oriente e direttamente in Africa, subirà un arresto fondamentale. Ci saranno conseguenza anche sull’Ucraina, perché l’Iran è alleato di Mosca e importante suo fornitore d’armi. Insomma da quel che succede in queste ore in Medio Oriente dipende il destino del mondo e la pace anche in Europa.
Crisi del governo Netanyahu: lo scontro sulla leva degli haredim può portare allo scioglimento della Knesset
I partiti ultraortodossi Shas e Giudaismo Unito nella Torah (UTJ) si preparano a sostenere la proposta di legge per sciogliere la Knesset, la cui lettura preliminare è prevista per oggi, mercoledì 11 giugno 2025 alle 11, ora israeliana. Salvo un cambiamento significativo nella posizione del deputato del Likud Yuli Edelstein riguardo la legge sulla leva obbligatoria, il voto favorevole appare certo.
di Anna Balestrieri
A poche ore da un voto che potrebbe portare allo scioglimento della Knesset, la coalizione di governo israeliana è in piena crisi. Il nodo centrale resta la legge sulla coscrizione obbligatoria per gli uomini ultraortodossi, che i partiti haredi rifiutano con fermezza. Nonostante le pressioni per trovare un compromesso, le posizioni oscillano tra il tentativo di modificare il contenuto della legge a quello di evitare il voto decisivo sulla fine del governo.
• Crisi nella coalizione israeliana: Haredim pronti a votare per lo scioglimento della Knesset I partiti ultraortodossi Shas e Giudaismo Unito nella Torah (UTJ) si preparano a sostenere la proposta di legge per sciogliere la Knesset, la cui lettura preliminare è prevista per oggi, mercoledì 11 giugno 2025 alle 11, ora israeliana. Salvo un cambiamento significativo nella posizione del deputato del Likud Yuli Edelstein riguardo la legge sulla leva obbligatoria, il voto favorevole appare certo. Le tensioni nascono dalla sentenza dell’Alta Corte di Giustizia che ha revocato le esenzioni dal servizio militare per gli uomini haredi. Di conseguenza, l’esercito ha iniziato a inviare le convocazioni di coscrizione, provocando forti proteste da parte dei partiti religiosi, che chiedono al premier Netanyahu una legge che garantisca l’esenzione per gli studenti delle yeshivot.
• La proposta di Yuli Edelstein La proposta avanzata da Edelstein, che prevede sanzioni per chi non si presenta alla leva, è considerata inaccettabile dai leader haredim. I giornali legati ai partiti ultraortodossi riferiscono che senza un accordo immediato, il patto di coalizione con il Likud non potrà continuare. Secondo fonti interne, il leader di Shas Arye Dery sta tentando fino all’ultimo di evitare la rottura, ma all’interno di Agudat Israel la decisione sembra già presa. Un rinvio del voto, auspicato dalla coalizione, è visto con scetticismo dai partiti religiosi, stanchi di rimandi e trattative infruttuose. Anche se la mozione superasse il primo voto, resterebbero da affrontare altri tre passaggi parlamentari. Tuttavia, il clima è teso e la possibilità di nuove elezioni si fa sempre più concreta.
• La posizione dei partiti ultraortodossi I partiti ultraortodossi chiedono di eliminare o posticipare le sanzioni contro chi non si arruola, come la sospensione dei sussidi per gli asili nido e i tagli ai finanziamenti per le yeshivot. Ma il deputato del Likud Yuli Edelstein continua a opporsi a qualsiasi compromesso che non preveda obiettivi chiari di arruolamento e misure concrete per farli rispettare. La spaccatura non riguarda solo la coalizione: anche nel fronte haredi vi sono divisioni. I rabbini, sia ashkenaziti che sefarditi, vogliono rompere subito con il governo, mentre i parlamentari, in particolare il leader di Shas Arye Dery, cercano di evitare lo scioglimento della Knesset. Dery sta operando dietro le quinte per fermare il voto, consapevole che nuove elezioni potrebbero compromettere la sua influenza. Netanyahu, pur poco coinvolto nella questione della coscrizione, è molto attivo nel tentativo di impedire che la proposta di scioglimento arrivi al voto, temendo che possa innescare la fine anticipata della legislatura. Per convincere i partiti religiosi a temporeggiare, il premier ricorre anche alla retorica della minaccia iraniana e dell’instabilità regionale. Tre sono gli scenari possibili per oggi: il raggiungimento di un compromesso sulla legge di coscrizione; l’approvazione del disegno di legge per lo scioglimento, spinti dalle pressioni rabbiniche; oppure, il più probabile, un nuovo rinvio mascherato da “negoziati” per guadagnare tempo. Ma la tensione resta altissima, e l’equilibrio della coalizione sembra appeso a un filo.
«Papà ti voglio bene. Mi dispiace dirlo, ma ora aspetto solo il tuo funerale». Dopo 614 giorni di attesa, la famiglia Yakov potrà finalmente dare l’ultimo saluto a Yair, 59 anni, ucciso il 7 ottobre 2023 dai terroristi palestinesi nel kibbutz Nir Oz. Il suo corpo è stato portato a Gaza e per un anno e otto mesi i figli Or, Yagil e Shir hanno atteso di poter dare al padre una degna sepoltura. «Grazie alle Idf e allo Shin Bet per il recupero, spero che porteremo gli altri ostaggi a casa in un accordo che non metta in pericolo i soldati», ha commentato Yagil, ringraziando le forze di sicurezza per il recupero della salma del padre. Il corpo di Yair è stato recuperato a Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza, insieme alla salma di un altro ostaggio ancora non identificato, membro del kibbutz Nir Oz. L’operazione è il risultato di un lavoro di intelligence portato avanti per mesi, riferiscono i quotidiani locali. Entrambe le salme sono state trasferite in Israele e identificate presso l’Istituto di medicina legale di Abu Kabir. «Spero che la loro sepoltura possa offrire un momento di consolazione alle famiglie e alla comunità di Nir Oz», ha dichiarato il presidente israeliano Yitzhak Herzog. «Onoriamo il coraggio e l’impegno dei soldati e dell’intelligence che continuano a lottare per riportare tutti i nostri ostaggi a casa». Yair Yaakov, conosciuto da tutti come “Yaya”, era un uomo di kibbutz, di terra, di famiglia, ha raccontato la sorella Yarden. Lavorava nell’officina del kibbutz Alumim, amava la musica e la semplicità: il sole, una birra fresca con gli amici. La sua casa a Nir Oz era la sua fortezza, quella stessa casa fatta esplodere dai terroristi il 7 ottobre, l’unica del kibbutz a subire quel destino. “Oggi lì si trova un enorme cratere”, ha sottolineato Yarden. Quella mattina del 7 ottobre, mentre l’attacco al kibbutz Nir Oz infuriava, Yair ha cercato di mettere in salvo la sua compagna, Meirav Tal, chiudendosi con lei nel rifugio antimissile e opponendosi con tutte le forze all’irruzione dei terroristi. Dall’altra parte della porta, gli uomini di Hamas lanciavano granate e sparavano a ripetizione. Meirav ha lasciato una registrazione disperata alla famiglia: «Sono dentro casa, sparano contro il rifugio. Yaya sta tenendo la porta. Aiutatemi, ci hanno sparato, Yaya è ferito». È stata l’ultima testimonianza di quel momento. I terroristi sono riusciti a entrare facendo esplodere il muro del rifugio e hanno portato via entrambi. Intanto, in un’abitazione vicina, i figli di Yair, Or e Yagil, venivano rapiti dalla casa della madre. Anche loro sono stati portati a Gaza. Sono stati rilasciati a fine novembre 2023, dopo 51 giorni di prigionia, nell’ambito del primo accordo di cessate il fuoco. Meirav è stata liberata il giorno seguente. Ma Yair, fin da subito, risultava disperso. I famigliari hanno sperato e pregato per avere buone notizie, ha ricordato la sorella. Poi, a febbraio, è arrivata la notizia più temuta: Yair era stato ucciso il 7 ottobre, e il suo corpo era ancora detenuto a Gaza. Il 15 febbraio, dopo l’annuncio ufficiale della sua morte, Yagil, 13 anni, ha scritto un messaggio di addio al padre: «Papà, papà, eri tutto per me. Mi manchi, e non solo a me, ma a tutti. Quando sono venuti a darci la notizia, stavamo per andare a un concerto. Poi mamma è tornata indietro e non capivo il perché. Mi ha detto che stava arrivando l’ufficiale. A quel punto avevo già un brutto presentimento, ma speravo che non fossi tu, papà. Mi manchi tantissimo, non capisci quanto». Un messaggio concluso con una richiesta al padre: «Ti voglio bene più di ogni altra cosa. Veglia su di noi dal cielo, tu e il nonno».
Tensione alle stelle tra Stati Uniti, Iran e Israele
Muscat ospiterà nuovi colloqui nucleari mentre cresce l’allarme per un possibile attacco israeliano
di Anna Balestrieri
Nel fine settimana Muscat, capitale dell’Oman, ospiterà un nuovo e delicato round di colloqui tra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare della Repubblica Islamica. Lo ha confermato il ministro degli Esteri omanita Badr Albusaidi, annunciando che si tratterà della sesta tornata di negoziati, con un incontro previsto domenica tra l’inviato speciale USA Steve Witkoff e il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi. Il clima intorno al tavolo è tutt’altro che disteso. Secondo diverse fonti americane, Israele sarebbe pronto a lanciare un attacco preventivo contro le infrastrutture nucleari iraniane, nel timore che Washington e Teheran siano vicine a un’intesa che non risponderebbe alle preoccupazioni israeliane sull’arricchimento dell’uranio. Sebbene gli Stati Uniti non appoggino ufficialmente un’azione militare israeliana, la tensione è palpabile anche sul versante americano. NBC e CBS riportano che il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno autorizzato l’evacuazione di alcuni funzionari e delle loro famiglie dalla regione, temendo ritorsioni iraniane contro il personale statunitense in Iraq. Teheran, intanto, fa sapere attraverso fonti citate dal New York Times di essere pronta a reagire immediatamente in caso di attacco, con un piano simile a quello attuato nell’ottobre 2024, quando lanciò circa 200 missili balistici contro Israele. In quella occasione, la maggior parte dei missili fu intercettata, ma ci furono vittime e feriti. L’Iran ha inoltre avvertito che, in caso di raid israeliano, considererebbe gli Stati Uniti corresponsabili e colpirebbe anche obiettivi americani nella regione. Sul fronte diplomatico, Steve Witkoff, intervenuto in un evento a New York, ha ribadito con forza che l’Iran non deve mai ottenere la capacità di sviluppare armi nucleari. Ha definito la Repubblica Islamica una minaccia esistenziale non solo per Israele, ma per l’intero mondo libero, sottolineando l’importanza di un fronte internazionale compatto contro Teheran. In un momento di alta tensione, Muscat potrebbe rappresentare l’ultima occasione per evitare un’escalation militare. Ma il tempo stringe e le dichiarazioni pubbliche, da entrambe le parti, lasciano intendere che le possibilità di compromesso siano sempre più fragili.
Pierre-André Taguieff è uno dei più autorevoli intellettuali europei contemporanei nel campo della scienza politica e della storia delle idee. Appassionato fin da giovane di cultura ebraica, Taguieff si è affermato come uno dei più importanti studiosi di antisemitismo, razzismo e antirazzismo. Direttore di ricerca presso il CNRS (Centre national de la recherche scientifique), ha insegnato per molti anni all’Institut d’études politiques di Parigi. Ha accettato di rispondere alle domande de L’Informale.
- Prof. Taguieff, Sentiamo spesso dire «non sono antisemita, ma antisionista». Come possiamo definire l’antisionismo contemporaneo? Lei usa il termine «antisionismo radicale», cosa intende? La sua domanda merita una risposta articolata: è opportuno distinguere i quattro significati principali del termine «antisionismo» che, nelle controversie, spesso interferiscono e si sovrappongono. Elenchiamoli brevemente: 1) L’opposizione al progetto sionista così come è stato definito alla fine del XIX secolo, sulla scia del grande precursore Moses Hess (Roma e Gerusalemme. L’ultima questione delle nazionalità, 1862), da Leo Pinsker nel 1882 (Auto-emancipazione), poi da Theodor Herzl che, nel 1896, pubblica Der Judenstaat. Si tratta quindi del rifiuto dell’idea sionista, cioè del movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico; 2) la critica alla politica israeliana, una critica che può essere sistematica o meno. Nel primo caso, essa esprime la volontà di delegittimare lo Stato di Israele qualunque cosa faccia; nel secondo caso, si riduce a una critica politica di questa o quella decisione o azione, che può essere giustificata o meno; 3) La denuncia del «sionismo mondiale», che spesso assume una forma complottista e ricicla gli stereotipi associati alla figura mitica dell’«ebreo internazionale» o a quella dei «Saggi di Sion», dotati di un potere smisurato. Il mito antiebraico per eccellenza, quello della «cospirazione ebraica internazionale», si è trasformato in «cospirazione sionista mondiale»; 4) La negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele, nonché il progetto e la volontà di distruggere questo Stato-nazione ritenuto illegittimo per sostituirlo con uno Stato palestinese o uno Stato islamico. Questa è la caratteristica principale di ciò che io chiamo antisionismo radicale o assoluto. È nota la minacciosa profezia del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna, citata nel preambolo della Carta di Hamas, resa pubblica nell’agosto 1988, «Israele sorgerà e rimarrà in piedi finché l’Islam non lo eliminerà, come ha eliminato i suoi predecessori». La profezia viene regolarmente ripetuta dai predicatori musulmani che partecipano alla propaganda palestinese. È principalmente in riferimento a questo antisionismo islamista sterminatore che si può definire l’antisionismo radicale non solo come la principale figura contemporanea della giudeomisia, ma anche come una forma contemporanea di razzismo, particolarmente perversa e sottile, poiché si richiama all’antirazzismo e all’anticolonialismo. Se infatti il sionismo è una «forma di razzismo» associata a un’impresa coloniale e se Israele è uno «Stato razzista» o uno «Stato di apartheid», allora la distruzione di quest’ultimo è un obiettivo prioritario della lotta antirazzista. Per i nemici incondizionati dello Stato di Israele, il significato politico della parola «antisionismo» si è così ridotto all’accoppiamento di due posizioni di principio: l’antirazzismo e l’anticolonialismo. L’evidenza ideologica si è affermata: essere antirazzisti e anticolonialisti significa necessariamente essere antisionisti.
- Avrà notato anche lei, che l’odio verso Israele assume tratti religiosi. Da dove deriva questa avversione ossessiva? L’antisionismo sterminatore funziona anche e soprattutto come antisionismo redentore, svelando la dimensione teologico-religiosa, persino gnostica, attraverso la visione manichea che presuppone, del jihadismo antiebraico. Le sinistre rivoluzionarie, dette «radicali», che credono ancora che la violenza sia «l’arma dei poveri», proiettano sui jihadisti palestinesi, seguaci della presunta «religione dei deboli», le loro utopie e le loro aspettative messianiche di un grande cambiamento purificatore. E, di conseguenza, criminalizzano e demonizzano i «sionisti», fino a nazificarli trasformandoli in esecutori di un «genocidio». Questa operazione, diciamo la nazificazione dei «sionisti», era stata identificata e analizzata già alla fine degli anni ’60, dopo la guerra dei Sei Giorni, da due grandi autori, il filosofo Vladimir Jankélévitch e lo storico Léon Poliakov.
- Non solo politica quindi… No. Qui non siamo semplicemente nel campo politico, perché il progetto di distruggere Israele assume per i suoi promotori un significato apocalittico e redentore. Diciamo che credono di poter salvare il genere umano – qualunque sia la loro definizione di esso – eliminando il «cancro» che lo minaccia di morte. Ricorrono spesso alla metafora medica e patologizzante del «cancro» per giustificare l’operazione chirurgica che, secondo loro, salverebbe il genere umano. Vogliono così, senza saperlo, annullare quello che bisogna chiamare il «miracolo» della nascita di Israele. I nemici di Israele sognano una seconda Shoah, commessa questa volta in nome dei «diritti umani» e di un «antirazzismo» perverso, diventato il rifugio e l’alibi dei nuovi nemici degli ebrei. Dall’inizio degli anni ’70, le propagande anti-israeliane – in primo luogo quella arabo-musulmana e quella sovietica – infatti convergerono per rendere ideologicamente accettabile l’equazione «sionismo = razzismo», in linea con l’equazione «sionismo = colonialismo», lanciata all’epoca della decolonizzazione. Con l’ascesa al potere in Iran dell’ayatollah Ruhollah Khomeini – noto per il suo odio «teologico» verso gli ebrei –, la demonizzazione del sionismo e di Israele, estesa a quella degli ebrei designati come nemici dell’Islam, ha occupato un posto centrale nella propaganda islamista, che metteva in primo piano la questione palestinese e invocava il jihad contro gli ebrei. «Incarnazione del male», gli ebrei sono descritti da Khomeini come un «gruppo astuto e ingegnoso» che lotta per il «dominio ebraico» sui musulmani e «vede la distruzione dell’Islam come una tappa essenziale per il raggiungimento dei propri obiettivi». L’amalgama polemico tra «sionismo» e «imperialismo» è una costante della retorica «antisionista» diffusa dalla propaganda sovietica, poi ripresa dall’estrema sinistra, da una parte della sinistra e dai paesi arabi, nonché dall’Iran.
- Quale ruolo gioca la sinistra occidentale in questo apocalittismo politico? Come dicevo, l’antisionismo radicale può essere definito come uno pseudo-antirazzismo razzista, il cui obiettivo è la totale delegittimazione di Israele, preliminare alla sua distruzione. L’israelicidio è la verità della propaganda antisionista. Piuttosto che di antisemitismo, neoantisemitismo, antigiudaismo o giudeofobia, sarebbe meglio parlare in questo caso di «giudeomisia», come ho proposto, poiché non si tratta di paura (phóbos) ma di odio (mîsos), inoltre, l’opposizione tra «semiti» e «ariani» non è più attuale. Con l’antisionismo radicale, l’odio verso gli ebrei si è globalizzato ed è entrato in una nuova era. E questo proprio nel momento in cui l’odio verso l’Occidente, che potremmo chiamare «esperomisia» (Esperia, in greco «terra del tramonto»), sta per succedere all’esperofobia, la vecchia paura dell’Occidente imperialista e colonizzatore. Nel gioco delle passioni negative politicizzate, l’odio prevale sulla paura, un odio che sogna di far scomparire il suo oggetto. Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare all’indomani del processo di Norimberga, la storia dei progetti di «giudeocidio» non è finita. L’antisionismo radicale trae quindi gran parte del suo potere di seduzione dalla sua riuscita strumentalizzazione del neo-antirazzismo. Ma quest’ultimo si inscrive a sua volta nello spazio «neo-sinistrorso», in formazione dagli anni ’90. È in questo spazio politico-culturale di estrema sinistra che è stato intellettualizzato. Chiamo «neo-sinistroidi» i nuovi sinistroidi che, pur affermandosi classicamente come anticapitalisti e anti-imperialisti, si caratterizzano per la loro critica radicale al repubblicanesimo alla francese (ridotto a una forma di nazionalismo), dal loro rifiuto della laicità (che alimenterebbe e maschererebbe l’islamofobia), dai loro pregiudizi islamofili (l’Islam percepito come la «religione dei poveri» o degli «oppressi») o addirittura «islamismofilia» (l’islamismo esaltato come movimento di resistenza nato dalla rivolta delle vittime dell’islamofobia), dal loro antirazzismo razzista (che io chiamo «neo-antirazzismo») che consiste nell’accusare «i bianchi» di tutte le disgrazie dei popoli «non bianchi», al loro neo-femminismo misandrico (contro «l’eteropatriarcato») e intersezionale, fino al sostegno al postcolonialismo e al decolonialismo, modo per loro di rimanere marxisti, e a una gnosi ecologista incentrata su visioni apocalittiche accompagnate da una ricerca permanente dei colpevoli delle disgrazie del pianeta (il nemico davanti all’intera umanità), infine dal loro antisionismo radicale (il sionismo ridotto a colonialismo, imperialismo e razzismo), inseparabile dal loro odio per l’Occidente (denunciato come intrinsecamente sfruttatore, predatore e genocida).
- Assistiamo, dunque, al sovrapporsi e all’intrecciarsi di due forme di odio… Esatto. Ormai, l’odio per gli ebrei e l’odio per l’Occidente si intrecciano, al punto che si può affermare che giudeomisia fa rima con espersomisia come giudeofobia faceva rima con esperofobia. Essendo associati i due obiettivi principali, gli ebrei e gli occidentali; è in atto il passaggio dalla paura all’odio. L’odio verso l’Occidente giudaico-cristiano è oggi inseparabile dall’odio verso Israele e il «sionismo mondiale».
- Oggi, dunque, è possibile odiare gli ebrei in nome dei valori democratici e dei diritti umani. L’accettazione dell’odio antiebraico è stata accompagnata da un grande ribaltamento dei ruoli assegnati ai «sionisti» e ai loro nemici: questi ultimi, nella loro lotta finale contro «l’entità sionista», hanno potuto rivendicare l’antirazzismo, l’anticolonialismo e l’antifascismo, quindi valori riconosciuti come democratici o umanistici. La causa palestinese si è confusa con la causa antisionista per essere elevata a «causa universale». È in nome della morale universale, dei diritti umani e del diritto internazionale, che viene ora giustificato e celebrato il progetto di eliminare lo Stato di Israele. Contrariamente al genocidio nazista, compiuto in nome della difesa della «razza ariana» contro il «pericolo ebraico», l’israelicidio programmato dagli antisionisti radicali trova la sua legittimazione nell’imperativo primario della nuova morale umanitaria di ispirazione vittimistica: difendere e salvare dal «genocidio» questo popolo di vittime ereditarie che sarebbero «i palestinesi». La struttura che accoglie questo odio antiebraico accettabile è un democratismo iperbolico il cui motore è soprattutto passionale, definibile come un misto di empatia e compassione nei confronti delle presunte vittime dei «sionisti», a loro volta nazificati. Come si può osare difendere i «dominanti», gli «oppressori», i «razzisti» e i «colonialisti» contro i «dominati», gli «oppressi», i «razzializzati» e i «colonizzati»? I «sionisti» si sono trasformati in «fascisti», se non addirittura in «nazisti», che, dalla risposta militare israeliana al mega-pogrom del 7 ottobre 2023, sono accusati di commettere un «genocidio dei palestinesi». Da quando è diventata credibile e diffusa a livello mondiale, questa grande inversione vittimistica è sufficiente a rendere non solo accettabile, ma altamente desiderabile il progetto di un israelicidio. Si riconosce l’idea guida: con l’antisionismo «democratico» e «umanista» o «umanitario», le barriere imposte dal senso di colpa sono state gradualmente eliminate, lasciando campo libero all’odio omicida che si esprime comodamente in nome della giustizia, del rispetto dei diritti umani e della pace. Nel discorso antisionista globalizzato, il bersaglio ebraico è stato allo stesso tempo ridefinito: la denuncia del «sionismo mondiale», incarnazione della chimera nota come «lobby ebraica» universale, ha marginalizzato quella del sionismo come forma detestabile di nazionalismo avvolto dall’etnocentrismo e dalla xenofobia. Il «sionismo», così come è ora demonizzato, ha assunto la figura estremamente inquietante di un pan-sionismo o di un pan-giudaismo, ovvero di un imperialismo o di un suprematismo ebraico senza confini. Coloro che credono nell’esistenza di questa iperpotenza espansionista e spietata, tanto più dannosa in quanto invisibile ai comuni mortali, sono presi dal terrore. È così che l’odio totale genera una grande paura.
- Ancora una volta i Protocolli. Quale ruolo giocano ancora nel panorama attuale? Dopo la sconfitta della coalizione araba all’inizio di giugno 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni, si è assistito a un’intensificazione dell’uso politico dei Protocolli e dei testi complottisti da essi derivati. Era necessario spiegare la sconfitta delle armate arabe da parte del piccolo Stato di Israele senza mettere in dubbio il coraggio dei combattenti né la competenza dei loro capi. Il mito del grande «complotto sionista», che implicava l’intervento di una presunta superpotenza «sionista», permetteva di salvare l’onore dei «fieri arabi». I Protocolli furono quindi utilizzati nella lotta contro Israele e il «sionismo mondiale», espressione polemica che designava l’entità chimerica che, nella mitologia «antisionista», ha preso il posto del «giudaismo mondiale» o della «giudaicità internazionale» denunciati un tempo dagli ideologi cattolici o protestanti tradizionalisti e dai propagandisti nazisti, tutti seguaci della visione cospirazionista della Storia. Nel 1985, nell’Iran dell’ayatollah Khomeini, l’Organizzazione per la Propaganda Islamica pubblica a Teheran una ristampa dell’edizione libanese del novembre 1967, con lo stesso titolo: Protocolli dei Saggi di Sion. Testo completo conforme all’originale adottato dal Congresso sionista a Basilea (Svizzera) nel 1897. In tutti i testi che, ispirandosi ai Protocolli, denunciano la «cospirazione sionista mondiale», quest’ultima ha un obiettivo finale: il dominio del mondo da parte degli ebrei. In altre parole, «ebrei» e «sionisti» funzionano come sinonimi. La «cospirazione ebraica internazionale» e la «cospirazione sionista mondiale» hanno lo stesso riferimento.
- Come si spiega il successo di un falso così grossolano? È necessario sottolineare l’importanza dei miti antiebraici nella storia delle configurazioni antiebraiche. La mia tesi è la seguente: se il mito della cospirazione sionista mondiale è al centro dell’antisionismo radicale, è perché questo mito, apparso nel corso del XX secolo, si colloca all’incrocio di tutti gli altri miti antiebraici. Li attrae e li ingloba o li integra. Funziona nei loro confronti come una calamita e un operatore di sintesi di tutti i tipi di accuse mosse contro gli ebrei. Le passioni antiebraiche sono inseparabili dai racconti in cui gli ebrei sono demonizzati, patologizzati o criminalizzati, definiti da attributi essenzialmente negativi. Ora, «un mito è in un certo senso invulnerabile», perché «è impermeabile alle argomentazioni razionali e non può essere confutato dai sillogismi», come osservava Ernst Cassirer in Il mito dello Stato.
- I “Protocolli” sono transitati in terra islamica, producendo un mix esplosivo di odio religioso e cospirazionismo. Cosa può dire a riguardo? La tematica cospirativa antiebraica di origine europea è stata poi integrata e ritradotta nel discorso islamista, dando vita al mito del complotto sionista mondiale, elemento centrale della propaganda antisionista a partire dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Così, nel suo opuscolo La nostra lotta contro gli ebrei, pubblicato all’inizio degli anni Cinquanta e diventato un testo di riferimento per la maggior parte dei movimenti islamisti, il Fratello Musulmano Sayyid Qutb definisce gli ebrei come cospiratori, bugiardi e criminali, identificandoli come i più antichi e temibili nemici dell’Islam.
- Come si diventa odiatori degli ebrei? Si entra nell’antisemitismo attraverso uno dei miti antiebraici che, diventando oggetto di fede, spinge a credere in altri miti. Sono tante le porte d’accesso all’immaginario antiebraico, al credere giudeofobo, tanti i passaggi verso lo spazio della giudeofobia. Attraverso un meccanismo di conferma, le credenze antiebraiche, accumulandosi, si rafforzano a vicenda. Aprire una porta significa trovarsi nella condizione di aprirne altre. Certo, è raro osservare che un antisemita convinto enunci tutta la sequenza delle accuse trasformate in dogmi di fede. Così, ad esempio, presso antisemiti anticristiani come Eugen Dühring o Louis-Ferdinand Céline, non si trova l’accusa di deicidio. Più spesso, il soggetto antiebraico seleziona e gerarchizza, in base al contesto storico-sociale, alle proprie inclinazioni ideologiche e alle circostanze, i temi accusatori, attingendo liberamente e pragmaticamente al repertorio di stereotipi disponibili. I racconti antiebraici si presentano come combinazioni variabili di temi, credenze e rappresentazioni. Il soggetto astratto e ripugnante, il contro-tipo che tutti questi racconti accusatori contribuiscono a costruire, è «l’ebreo»: cioè il popolo ebraico essenzializzato, o più esattamente la sua rappresentazione, accompagnata da un insieme di tratti negativi. È per questo che si parla, seguendo Leo Pinsker e Raymond Aron, di «odio astratto», che, demonizzando una categoria di popolazione, impone una visione manichea del mondo. Si ricordi la tesi fondamentale di Sartre nelle Riflessioni sulla questione ebraica (1946): «L’antisemitismo è una concezione del mondo manichea e primitiva, in cui l’odio verso l’ebreo occupa il posto di grande mito esplicativo». Il contro-tipo, «l’ebreo», è così costruito da coloro che lo odiano e lo temono come il nemico satanico del genere umano e di Dio, il criminale per eccellenza, lo sfruttatore o truffatore per vocazione, il bugiardo per natura, il parassita e il cospiratore nato. I teorici rivoluzionari dell’ultimo terzo del XIX secolo arricchirono lo stock di queste accuse demonizzanti contro i «Semiti» o gli «Ebreo». Il blanquista e comunardo Gustave Tridon, nel suo libro postumo Del molochismo ebraico (1884), accusa gli ebrei di praticare un cannibalismo rituale – «Il tempio semitico è un lupanare che si bagna nel sangue» e la Pasqua ebraica, o Pesach, sarebbe stata all’origine «un banchetto di cannibali» – di essere privi di sentimento patriottico e di aver introdotto l’intolleranza nelle società umane – «L’intolleranza è l’eredità semitica al nostro mondo».
- Lei ha parlato di israelicidio, cosa intende? A partire dagli anni Cinquanta, si è assistito a una lenta reinvenzione di una visione antiebraica del mondo, all’invenzione di una giudeofobia post-nazista paradossale, poiché ricicla molte credenze e rappresentazioni dell’antisemitismo nazista, integrandole nella visione cosiddetta «antisionista». Questa nuova configurazione antiebraica appare dunque al contempo post-nazista e neo-nazista. La creazione dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948, nonostante il rifiuto arabo e musulmano che si è tradotto in una serie di conflitti armati, è stata denunciata come una «catastrofe» o un crimine dai nemici del progetto sionista. La ri-demonizzazione degli ebrei si è attuata attraverso la demonizzazione di Israele e del «sionismo» immaginato in modo complottista come «sionismo mondiale», cioè come manifestazione e mascheramento di un progetto ebraico di dominio universale. Parallelamente, mentre i palestinesi sono stati mitizzati come vittime, parte di un popolo martire, i «sionisti» sono stati criminalizzati dalle propagande antisioniste. Per gli ideologi islamo-palestinisti, l’israelicidio si iscrive in un programma di sterminio più ampio, nient’altro che un giudeocidio da compiersi in tutte le regioni del mondo. La lotta nazionalsocialista contro l’«ebraismo mondiale» è stata ritradotta nella retorica della propaganda islamista come lotta contro il «sionismo mondiale». L’«ebreo internazionale» si è trasformato in rappresentante del «sionismo mondiale» Ma, in questa prospettiva, tutti gli ebrei, israeliani o meno, dichiaratamente sionisti o meno, sono immaginati come membri di uno stesso gruppo transnazionale, concepito come una setta conquistatrice, la cui esistenza rappresenta una minaccia mortale per l’umanità e che, di conseguenza, va eliminata con ogni mezzo. L’antisionismo radicale o sterminatore rappresenta la più recente forma storica assunta dall’odio contro gli ebrei, che lo si chiami antigiudaismo, giudeofobia, antisemitismo o «giudeomisìa». Il suo obiettivo è legittimare la distruzione di Israele e realizzare una «pulizia etnica» antiebraica della «Palestina liberata», banalizzando l’assimilazione polemica di Israele a uno «Stato razzista» o di «apartheid», «colonialista», «criminale» e «genocidario», mentre «sionizza», cioè demonizza, tutti gli ebrei, considerati come nemici dell’umanità che devono quindi essere sterminati. L’antisionismo radicale è una macchina per l’eradicazione.
- Genocidio non è quello compiuto da Israele a Gaza, ma quelle desiderato dai suo nemici. La risposta militare di Israele al mega-pogrom del 7 ottobre 2023 come un’operazione di denazificazione della Striscia di Gaza. Ma il rovesciamento vittimario non ha tardato a emergere nei discorsi della propaganda antisionista. Gli ambienti di sinistra occidentali affiliati all’islamo-palestinismo, in particolare nel mondo accademico e culturale, hanno iniziato ad accusare Israele — vittima di un massacro d’ispirazione genocidaria e quindi in stato di legittima difesa — di compiere un «genocidio» nella Striscia di Gaza. In assenza di una volontà genocidaria che possa essere provata, l’accusa rientra nella propaganda di guerra, in cui ogni menzogna è ammessa. Il 29 dicembre 2023, ciò nonostante, il Sudafrica ha presentato alla Corte internazionale di giustizia (CIJ) dell’Aia un ricorso contro lo Stato di Israele per «atti genocidari commessi contro il popolo palestinese». La nazificazione del «sionismo» e di Israele è così ripartita con nuova forza. In conclusione possiamo dire che il genocidio è l’orizzonte dell’antisionismo, divenuto una visione del mondo strutturata dalla demonizzazione del nemico unico (l’ebreo-sionista) e da un programma di «purificazione» del genere umano, che implica la distruzione della «entità cancerogena» chiamata Israele.
Gli ultraortodossi non temono che i loro figli muoiano in guerra, temono che vivano come non-ultraortodossi
di Yehuda Dov
GERUSALEMME — Il Professor Yuval Elbashan è il preside del dipartimento di Giurisprudenza dell’Ono Academic College, ed è stato responsabile dell’integrazione di migliaia di ultraortodossi nel mondo accademico. Scrittore secolare e attivista sociale, Albashan ha ricevuto diversi premi per il suo lavoro nel rafforzamento della società israeliana. Nel seguente articolo, discute la possibilità dell’integrazione degli ultraortodossi nelle IDF e respinge l’assunzione che temano che i loro figli muoiano in combattimento. Non esiste compito nazionale più urgente o importante dell’integrazione degli ultraortodossi nelle IDF. È moralmente giusto ed è una necessità di sicurezza. Perché questo accada, non solo gli ultraortodossi devono cambiare, ma anche le IDF—e tutti noi. Questa è la verità. Scrivo questo basandomi su decenni di esperienza nell’integrare gli ultraortodossi nei sistemi legali e accademici di Israele. Mi ci è voluto molto tempo per riconciliare la dissonanza tra coloro che hanno scelto di vivere una vita di ardua osservanza religiosa per il bene della continua esistenza del popolo ebraico, e il loro rifiuto di prendere parte al dovere più sacro di tutti—senza il quale, a mio avviso, il popolo ebraico non sopravviverà. All’inizio, ho risolto questo conflitto semplicemente dubitando della sincerità degli ultraortodossi. Presumevo che “loro” non credessero veramente in “Questa è la Torah: un uomo che muore in una tenda” (Numeri 19:14)—ma piuttosto trovassero conforto nascondendosi in quella tenda per evitare di adempiere agli obblighi che si applicano a tutti noi. Col tempo, sono arrivato a comprendere il mio errore — che veramente non c’è conflitto. Gli ultraortodossi credono genuinamente che una vita non vissuta secondo il loro modo sia peggiore della morte. Ecco perché si rifiutano di mandare i loro figli nell’esercito — non perché temono che potrebbero morire in combattimento (come i nostri figli), ma perché temono che se sopravvivono, potrebbero vivere come i nostri figli — come non-ultraortodossi. E proprio come noi ci rifiuteremmo di mandare i nostri figli in battaglia senza un giubbotto protettivo per i loro corpi, loro si rifiutano di mandare i loro figli nell’esercito senza un “giubbotto ideologico” per proteggere le loro anime. Questo è esattamente il motivo per cui è stata istituita la “Brigata Hashmonaim“. Il Capo delle Risorse Umane delle IDF, Maggior Generale Yaniv Asor, è riuscito a ottenere l’approvazione tacita di molti rabbini impegnandosi che l’esercito garantirà che “un ultraortodosso che entra—esce come ultraortodosso“. Pertanto, non ci sono non-ultraortodossi nella brigata — né donne, né ebrei secolari, né ebrei nazional-religiosi. Nella fase iniziale, solo per necessità, sono inclusi comandanti nazional-religiosi, incaricati di addestrare la prima generazione di combattenti ultraortodossi — pur essendo obbligati a non portare l’ideologia di Rav Kook nella brigata. Simbolicamente e praticamente allo stesso modo, anche i telefoni utilizzati devono essere kosher. Il “giubbotto ideologico” è ulteriormente rafforzato attraverso il battaglione di riserva della brigata, composto da ex soldati di combattimento che ora conducono stili di vita ultraortodossi. Servono come modelli di riferimento e aiutano a mantenere le norme religiose. Questi sono solo alcuni esempi dei tremendi sforzi delle IDF, dando una reale possibilità al mainstream ultraortodosso di arruolarsi—non solo a coloro che l’hanno lasciato o ne sono stati espulsi (come in altre unità combattenti). Ma anche in questa fase iniziale, ci sono coloro che cercano di sabotare lo sforzo. Per esempio, quando è stato rivelato che alcune mogli di soldati sono state reclutate per sostenere le famiglie di altri combattenti, i puristi dell'”uguaglianza” hanno gridato di nuovo, chiedendo perché questo beneficio non fosse esteso a tutte le spose militari. Hanno ignorato il fatto che queste sono famiglie ultraortodosse, che in questa fase di integrazione mancano di sistemi di supporto civile e non possono essere aiutate da tipiche ufficiali del welfare femminili a causa di barriere culturali. Per loro, non importava. Il punto principale, dal loro punto di vista, era un’altra “prova” che gli ultraortodossi ottengono “qualcosa di diverso”, e basandosi su quello, è arrivata una rinnovata richiesta di cancellarlo — presumibilmente nel nome della “uguaglianza”. Non solleverei questo se non fosse per il fatto che questa è la stessa strategia usata da coloro che hanno cercato (e in larga misura sono riusciti) di uccidere l’idea dell’accademia ultraortodossa. Quell’iniziativa mirava a permettere agli uomini e alle donne ultraortodossi di ottenere un’educazione accademica in istituzioni separate e private adatte al loro modo di vita — così da poter poi unirsi alla forza lavoro generale. Piccoli ma altamente influenti e irresponsabili gruppi di interesse hanno imposto varie linee guida (come il divieto di giorni separati per genere nelle biblioteche universitarie in quelle istituzioni private), portando a un calo nella partecipazione accademica ultraortodossa. La maggior parte di coloro che rimangono non proviene dalla comunità ultraortodossa mainstream. Il prezzo è pagato non solo dagli uomini e dalle donne ultraortodossi, che sono costretti a rimanere in mercati del lavoro isolati con prospettive limitate—ma dalla società israeliana nel suo insieme, che ha bisogno di loro. Non dobbiamo permettere a queste forze di agire similmente quando si tratta del servizio militare. Gli ultraortodossi porteranno la barella del servizio militare solo quando quella barella sarà separata e su misura per le loro spalle. Se alle eccellenti persone della Caserma Hashmonaim sarà permesso di continuare il loro lavoro senza interferenze, potrebbe proprio accadere—e allora, anche se su barelle separate, tutti marceranno insieme come l'avanguardia davanti ai vostri fratelli, tutti i guerrieri” (Deuteronomio 3:18.)
(Vinnews.com, 8 giugno 2025)
In 10 tappe le storie della Roma che ha protetto gli ebrei durante il nazifascismo
Un percorso in dieci tappe, per raccontare la Roma che durante l’occupazione nazifascista non solo non ha denunciato ma con coraggio ha protetto ebrei e perseguitati politici. È il progetto avviato nei giorni scorsi, promosso dall’associazione “Best Practices Award. Mamma Roma e i suoi figli migliori”. «Un percorso che permetterà ai romani di conoscere storie poco note di coraggio e ospitalità che proponiamo nell’anno dell’80° della liberazione d’Italia e del Giubileo. Una scelta che vuole evidenziare il ruolo delle parrocchie romane in quegli anni», dichiarano Paolo Masini e Maria Grazia Lancellotti, promotori del progetto e, rispettivamente, presidente di Roma BPA e referente della rete di scuole “Memorie, una città, mille storie”. A raccontare queste storie infatti saranno proprio le case dei romani e le parrocchie, attraverso le voci narranti di tanti attori e attrici che si sono messi a disposizione del progetto. Tra questi Valerio Mastandrea, Elio Germano, Monica Guerritore, Neri Marcorè, Enzo Decaro, Massimo Wertmuller, Corrado Augias, Giovanni Scifoni, Angela Finocchiaro, Marco Paolini, Roberto Ciufoli, Andrea Calabretta. Ogni tappa sarà preceduta da interventi di storici, testimoni e protagonisti. L’ultima tappa è in programma per il 16 ottobre, anniversario del rastrellamento del Ghetto di Roma, con le proiezioni sul muro del Museo della Shoah alla Casina dei Vallati, nel quartiere che fu teatro del rastrellamento feroce degli ebrei romani. Sarà l’occasione per conoscere le storie di coraggio dei romani che hanno consentito a molti ebrei di salvarsi. Un luogo che «ha visto atrocità ma che vuole ora ricordare anche le azioni positive che ci sono state, che è la mission del progetto stesso», spiegano i promotori. In ogni appuntamento sarà raccontata una storia differente, legata al luogo in cui avviene l’evento: dal partigiano che nascose una famiglia di ebrei al Quarticciolo, ai coraggiosi parroci delle differenti chiese che diedero protezioni a studenti, renitenti alla leva e perseguitati,. Un percorso in cui vite differenti si intrecciano, per pochi giorni o a volte per molti mesi.
(ROMASette, 11 giugno 2025)
Molto coraggio, infinita pazienza e forte volontà comunicativa occorrono per provare a mantenere un filo di dialogo in una realtà tanto infame di progetto genocida e odio armato contro il popolo ebraico. Un filo che rischia di venire spezzato da un oceano di menzogne assassine, da una muraglia di falsità fabbricate da menti che superano la guerra psicologica di Goebbels.
Come fondatore e responsabile del Gruppo Sionista della Campania e collaboratore di periodici che difendono la causa di Israele e valorizzano lo splendore della cultura ebraica, sono un condannato a morte per quello che sono. Vivo in semiclandestinità, e per potermi riunire e pregare con gli ebrei in sinagoga devo avere la protezione di due soldati armati che si sono spostati dal portone del palazzo alla porta della Comunità. Mia figlia è molto preoccupata, mi dice di stare attento, ma comprende bene le ragioni ebraiche.
Ogni limite è stato superato, ogni residua inibizione è stata abbattuta. L’antisemitismo/antisionismo non si vergogna più, infuria e impazza con tracotanza, parola armata, atti di omicidio e genocidio, fiume tossico di demonizzazione e de-umanizzazione.
L’adunata plateale a Roma del 7 giugno è stata una dichiarazione di guerra agli ebrei e al loro Stato, diretta continuazione del famigerato discorso di Trieste di Mussolini sull’ “Ebraismo nemico mondiale”. Dal palco, comizi incendiari per uccidere gli ebrei con la parola, per favorire chi li uccide con le armi, arrostisce i bambini nei forni, stupra le donne come atti di guerra fino a spezzarne il bacino, strangola con le nude mani bambini rapiti e dopo ne sevizia i corpi, uccide una bambina autistica e sua nonna perché rallentano la marcia dei mostri infernali.
Gli organizzatori esibiscono il vessillo della sinistra, sono di sinistra, e sono diventati al cento per cento i rappresentanti osceni del fascismo antisemita di oggi. Dal momento che uno sciagurato ex presidente del Consiglio (per caso e per la necessità di avere un vice dei vice per dirimere le baruffe) ha dichiarato che il 7 ottobre 2023 è una “retorica”, l’intera piattaforma dell’adunata si smaschera da sé come antisemitismo genocida senza più remore. Anche i rappresentanti più moderati e concilianti delle comunità ebraiche hanno ovviamente definito tale raduno come antisemita.
L’intifada universale della caccia all’ebreo nel mondo e la potente videocrazia che si fa voce di Hamas, jihadisti e Iran hanno preparato le munizioni all’urlo del palco. È con il linguaggio martellante ossessivo di immagini falsificate, o direttamente false, che si è creato un conformismo ottuso di menti servili. Intanto, con il delirio del 7 giugno, l’intera auto-rappresentazione democratica e riformista della sinistra va in frantumi, ed evidenzia che la sinistra oggi ha preso il posto, per gravità antiebraica, della destra degli anni Trenta del Novecento. Viene liquidata la consapevolezza che il cuore strategico e ideologico del nazifascismo è stato la pianificazione e realizzazione della Shoah, a sua eterna infamia. Questo le consente di assolvere, giustificare o glorificare il nazislamismo antisemita di oggi.
La piattaforma del 7 giugno prepara il terreno per nuovi 7 ottobre, e per una tendenza a una nuova Shoah, che potrà essere più sadica e selvaggia della prima.
Vorrei credere che questa nera realtà turbi il tuo cuore e la tua mente, e possa essere occasione di una scintilla di riflessione e risveglio morale. Nel mondo, l’antisemitismo si espande e si estremizza: in Francia le famiglie ebree tolgono i figli dalla scuola pubblica e li mandano solo nelle scuole ebraiche (minacciate da attentati), i cimiteri ebraici sono ripetutamente profanati e molte sepolture vengono spostate in Israele (dove possono essere soggette ai missili terroristi). Nelle università americane ed europee si pratica la caccia all’ebreo, e molti studenti ebrei devono nascondere la loro identità. Giorno per giorno, uno stillicidio nefasto dell’odio e della cultura della morte sul piano mediatico: così la realtà del popolo ebraico, con i suoi bambini ammazzati e bruciati vivi, diventa il popolo che ammazza i bambini. L’urlo ossessivo impone cifre e mostruosità completamente false.
Le masse credono a Hamas.
Nella storia plurimillenaria dell’antisemitismo/antigiudaismo i bambini ebrei sono stati rapiti e convertiti con la forza, sfracellati sulla roccia dalle SS davanti alle madri, eliminati nelle camere a gas, stuprati davanti alle madri nel 7 ottobre, strangolati con le nude mani nei tunnel di Gaza. Proprio per occultare tale infinito orrore, la guerra ibrida dell’islamonazismo ha fabbricato la leggenda nera degli ebrei di Israele che ammazzano i bambini per uno scopo deliberato. Una leggenda che indurisce i cuori, chiude le menti, fanatizza gli idioti, strumentalizza i trogloditi della demenza digitale.
Se tu conoscessi la realtà degli eventi, la voce degli ebrei perseguitati e minacciati di sterminio, la crudeltà estrema della macchina di guerra della propaganda nazislamica, ti verrebbero dei forti dubbi, un senso scientifico della ricerca della verità e forse, lo spero, un sussulto di coscienza civile.
Il primato dell’etica, segno distintivo e costitutivo della grande civiltà ebraica che, insieme a quella greca classica, è matrice feconda dell’intera civiltà umana universale e del messaggio biblico dell’amore per la prossimità, vengono visti dai neonazisti dell’imperialismo islamico come segni di debolezza, e sfruttati nelle loro tattiche di guerra. Per questo hanno preso e torturato gli ostaggi, hanno costruito una macchina infernale di guerra e sterminio sotterranea, con l’uso cinico e spietato di schiavi e scudi umani, come carne da macello nella loro cultura della morte, nel loro totalitarismo di infinita disumanità. Da qui un intero mondo alla rovescia, fabbricato da mostri infernali che a definirli barbari significa nobilitarli; la mafia, con tutti i suoi crimini odiosi, è un’associazione di gentiluomini a confronto.
Più in basso di così non si poteva andare. Ma è accaduto, e si preparano nuovi abissi morali e fisici, di orrore e di morte.
Individua molto bene la terrificante svolta che sta avvenendo Iannis Roder, noto storico francese, responsabile della formazione presso il Mémorial de la Shoah e di programmi educativi sulla memoria dell’Olocausto, membro di una commissione istituita dal presidente Macron per contrastare la disinformazione e l’odio online.
Roder, su Le Point, ha sviluppato una riflessione chiarificatrice. Perché si è arrivati a demonizzare Israele come genocida, andando oltre le illegali sentenze della Corte penale internazionale sul Primo Ministro e Ministro della Difesa israeliani? La trasformazione della tragedia di Gaza in un genocidio consente di definire l’esercito israeliano come nazista, e fabbricare un nuovo Olocausto genera l’effetto di superare il periodo del senso di colpa verso gli ebrei. Si è creata una realtà malefica che incita a de-umanizzare gli ebrei senza dare l’impressione di essere antisemiti:
“Se l’Olocausto è superato da un Olocausto considerato non meno grave di quello legato alla Shoah, se Israele può essere vilipeso e accusato di uccidere i ‘nuovi ebrei’ proprio come l’antico Israele fu accusato di avere ucciso Gesù, si può tornare a essere antisemiti senza considerare più l’antisemitismo come un male assoluto da combattere, trovando anzi una via elegante per provare a rendere presentabile il nuovo antisemitismo”.
E ancora: “La sinistra dovrebbe sapere meglio della destra cosa significhi ridurre di nuovo ogni ebreo al gruppo a cui appartiene, cancellarlo in quanto individuo” (Edith Bruck, 26 gennaio 2024).
Nazificare Israele con l’accusa di genocidio vuol dire fare un passo decisivo per legittimare la sua scomparsa. Le nuove SS di Hamas vengono ribaltate dall’accusa a Israele. “Essere ebrei – disse Albert Einstein nel 1946 – ci ha insegnato che l’odio può diventare legge, e che il silenzio può diventare complicità.” La pulizia etnica effettiva, quella contro gli ebrei, viene legittimata, e Hamas, il nuovo Isis – viene salutato con i colori “romantici” di un nuovo Che Guevara. Stanno preparando sul piano ideologico una via tragica che conduce a una nuova Soluzione Finale.
Dal palco di Roma si è sentito dire: “Siamo dalla parte giusta della storia”. Ignorano la confutazione scientifica dello storicismo da parte dell’epistemologa di Karl Popper. Ma questo è troppo raffinato per quei cani da guardia e nuovi pretoriani di un regime antisemita, di un antisemitismo di regime. La frase vuol dire che l’antisemitismo di sinistra non è una scelta tattica ma strategica, di cambiamento paradigmatico, con l’autodistruzione dei margini e delle velleità riformiste. Demagogia scatenata, illimitata. Si sa, da Platone in poi, che la demagogia è la via naturale della tirannia.
Il senso complessivo dell’adunata è stato la distruzione di un residuo antifascismo filoebraico a favore di un aggressivo fascismo antiebraico.
Si tratta anche di un attacco ai valori costituzionali proclamati, perché si schierano con l’antisemitismo totalitario del nuovo nazifascismo. E poiché esercitano la dannazione di Israele e non manifestano per i bambini e i civili ucraini massacrati e rapiti dal barbaro regime criminale di Putin, ed evitano di prendere posizioni sul regime dell’Iran che pratica la guerra contro il suo popolo e arma il terrore antiebraico, questo vuol dire che la sinistra antisemita, come collocazione geopolitica, sta dalla parte dei totalitarismi e delle autocrazie, contro le democrazie.
Una nuova realtà che dovrebbe aprire la tua mente. Una certa, auspicabile possibilità di dialogo si può costruire solo a partire da uno sgomberare il campo dalle credenze ottuse nella voce di Hamas e soci. Con tale disintossicazione sarà possibile discutere e affrontare naturali divergenze di opinione e prospettiva. Invece, quando hai definito terroriste esplicite azioni antiterroriste dell’autodifesa israeliana, o quando hai postato foto di equiparazione tra vittime di Auschwitz e di Gaza nel tipico stile della propaganda hitleriana e islamica, non ci siamo proprio. Comprenderai che non sarà possibile un’amicizia in presenza di posizioni e atteggiamenti antisemiti. Thomas Mann scriveva che l’antisemitismo è il facile “socialismo degli imbecilli”, nel senso che il novanta e passa per cento della popolazione non è ebraica. Da qui la comodità di avere gli ebrei come capro espiatorio.
E ora affido la mia anima alla serenità, perseveranza, speranza. Quando di Shabbat o nei giorni di festa vado nella Sinagoga di Napoli, dopo aver superato la vigilanza di due soldati armati e del servizio di sicurezza della Comunità, sento ogni volta il valore immenso di una plurimillenaria civiltà spirituale. La preghiera (tefillah) come dialogo con Dio, la lettura della Torah nella sua infinita proliferazione di senso, il rinnovamento costante del Patto con Dio. Una bellezza carica di senso, una tradizione vivente, un continuo rinnovamento, una fedeltà illimitata, “un modello autocritico” (Jonathan Sacks), una vitalità perenne, la forza di una identità intangibile.
Osservo gli ebrei delle famiglie storiche, di lunga tradizione, e penso: costoro hanno resistito a persecuzioni di generazione in generazione, alla condanna del “deicidio” e oggi del “genocidio”, alla deportazione a Babilonia, alle leggi razziste, alla Shoah e al 7 ottobre, che hanno salutato l’alba del Risorgimento sionista, che amano Israele. E mi prende un senso di infinita ammirazione esistenziale. Quando poi cantiamo l’Hatikvah (fino alla liberazione dell’ultimo ostaggio) con fervore grande e spirito combattivo, si comprende che gli ebrei della diaspora e di Israele sono un solo popolo, che la vita ebraica è indistruttibile, che i mostri infernali falliranno, che l’esistenza-resistenza del nobile popolo ebraico appartiene alla sfera dell’eternità, alla legge morale di Dio.
Non so se potrai comprendere, mi rendo conto che è difficile farlo dall’esterno. Ma dovresti sapere che l’esistenza ebraica non è tanto una fede interiore, ma è un’azione etica.
I media siriani mostrano una minore ossessione per Israele
Sotto il nuovo regime, la stampa siriana ha cambiato atteggiamento nei confronti di Israele. È quanto emerge da uno studio condotto da un think tank israeliano.
GERUSALEMME / DAMASCO - Sotto il nuovo regime, la stampa siriana ha cambiato atteggiamento nei confronti di Israele. Lo dimostra uno studio dell'Istituto per (JPPI) di Gerusalemme. Lo studio giunge alla conclusione che il nuovo presidente ha notevolmente ridotto l'attenzione dei media statali sull'ostilità verso Israele. Al più tardi con l'incontro del presidente Ahmed al-Scharaa con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump a Riad, il leader siriano ha trovato il suo posto nella comunità internazionale. Per valutare l'orientamento del nuovo regime nei confronti di Israele, i ricercatori del JPPI hanno condotto un'analisi approfondita di centinaia di articoli di opinione e commenti pubblicati sui principali quotidiani statali siriani. I quotidiani “Al-Hurrija” (La libertà) e “Al-Thawra” (La rivolta) erano entrambi precedentemente associati al regime di Assad e ora fungono da piattaforme ufficiali del nuovo governo. I ricercatori hanno utilizzato strumenti basati sull'intelligenza artificiale per valutare il tono e il sentimento nei confronti di Israele in queste pubblicazioni. Hanno inoltre misurato il volume complessivo della copertura mediatica su Israele prima e dopo il cambio di regime, sulla base delle pubblicazioni dell'agenzia di stampa ufficiale siriana SANA, che continua a operare sotto il nuovo governo. Il confronto si è concentrato sui periodi compresi tra gennaio e maggio di quest'anno e gli stessi mesi dell'anno precedente.
• Il risultato più importante Sotto il nuovo presidente, la copertura mediatica su Israele è diminuita in modo significativo. Mentre sotto Bashar al-Assad Israele era presente in fino al 43% dei servizi della SANA, sotto Al-Sharaa questa percentuale è scesa al 7%. I ricercatori hanno anche analizzato il tono della copertura mediatica confrontando gli articoli di opinione dei due periodi. In “Al-Thawra”, nell'ultimo anno di Assad al potere, quasi il 25% degli articoli di opinione (147 su 595) riguardava Israele, con oltre il 95% classificato come “molto negativo”, un altro 4% come ‘negativo’ e solo lo 0,7% come “leggermente negativo”. Al contrario, sotto Al-Sharaa solo il 5% degli articoli di opinione riguardava Israele. Gli analisti del JPPI sottolineano che un recente studio sui media egiziani ha rilevato che il 30% degli articoli di opinione si concentrava su Israele, sei volte di più che in Siria sotto Al-Sharaa. Oltre al cambiamento in termini di volume, sembra esserci stato anche un leggero cambiamento nel tono. Nell'era Al-Sharaa di “Al-Thawra”, il 65% degli articoli era classificato come “molto negativo”, il 12% come ‘negativo’ e il 6% come “leggermente negativo”, mentre il 18% era classificato come “neutro” – quest'ultima categoria non esisteva l'anno precedente sotto Al-Assad.
• Nonostante l'ostilità dei media, Al-Sharaa sembra aperto alle relazioni con Israele Nel quotidiano filo-governativo “Al-Hurrija”, il tono nei confronti di Israele è rimasto prevalentemente negativo: negli articoli scritti e pubblicati dopo il cambio di regime, il 78% degli articoli era “molto negativo”, l'11% ‘negativo’ e l'11% “leggermente negativo”. Nonostante il notevole calo del volume dei servizi, il tono rimane profondamente ostile. Negli articoli “molto negativi”, Israele è descritto come un'entità coloniale e aggressiva che mira a conquistare la Siria, seminare il caos ed espandersi a spese delle nazioni della regione. Jaakov Katz, direttore del Glazer Information Center del JPPI, ha concluso: "Il nuovo governo siriano si sta avvicinando all'Occidente, come dimostrano il recente incontro di Al-Sharaa con il presidente Trump e la decisione degli Stati Uniti di revocare le sanzioni contro la Siria. Al-Sharaa ha lasciato intendere di essere aperto alle relazioni con Israele e le sue mosse per attenuare l'ostilità dei media nei confronti di Israele rafforzano questo messaggio attraverso una politica concreta". Katz valuta così i cambiamenti: “Il forte calo dell'attenzione dei media su Israele – e in una certa misura anche dell'ostilità – segna un notevole allontanamento dall'approccio dell'ex presidente Assad”.
(Israelnetz, 11 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Zaher Birawi, giornalista palestinese-britannico residente a Londra, è tornato sotto i riflettori internazionali dopo essere stato identificato come uno dei principali promotori della Freedom Flotilla Coalition, l’organizzazione che ha coordinato la recente missione dell’imbarcazione “Madleen” verso la Striscia di Gaza. La missione della Madleen, presentata dalla Freedom Flotilla Coalition come un gesto simbolico per rompere il blocco navale israeliano su Gaza, ha attirato l’attenzione mondiale anche per la presenza a bordo di figure note come Greta Thunberg e l’attore Liam Cunningham. Secondo fonti israeliane, l’operazione è stata definita una “provocazione mediatica”, mentre per Birawi rappresenta un atto di “solidarietà, sfida e determinazione a rompere l’assedio”. Il viaggio si è concluso con l’intervento dell’IDF in acque internazionali e l’arresto dei dodici attivisti a bordo. Gli attivisti della Madleen sono stati tutti rimpatriati. Ma chi è Zaher Birawi? Secondo quanto riportato dal Telegraph, Birawi si è definito “membro fondatore” della Freedom Flotilla Coalition, e ha partecipato personalmente alla cerimonia di partenza della Madleen da un porto siciliano, documentando l’evento in diretta. La sua presenza nel movimento propal non è nuova, ma ciò che lo rende una figura altamente controversa sono le accuse, provenienti da Israele e da ambienti politici britannici, che lo collegano direttamente ad Hamas. Israele ha ufficialmente designato Birawi come operatore di Hamas in Europa già nel 2013. È inoltre presidente dell’EuroPal Forum, ente con sede a Londra, che è stato incluso nella blacklist israeliana delle organizzazioni terroristiche nel 2021. Birawi, però, ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento in attività illecite. Nel 2023, l’onorevole Christian Wakeford, deputato laburista alla Camera dei Comuni, ha utilizzato la protezione parlamentare per accusare pubblicamente Birawi di essere un operatore di Hamas residente a Barnet, a nord di Londra. Wakeford ha ricordato che Birawi è iscritto come trustee della ONG Education Aid for Palestinians, registrata nel Regno Unito, e ha condotto a Londra un evento nel 2019 intitolato Understanding Hamas. “È un rischio per la sicurezza nazionale che operativi di Hamas vivano nel Regno Unito, soprattutto se qualcuno ha ottenuto la cittadinanza britannica attraverso documenti falsi” ha dichiarato Wakeford. Nonostante le accuse, Birawi non è mai stato condannato da alcuna autorità giudiziaria. Nel 2021 ha ottenuto un risarcimento da una banca dati finanziaria che, secondo lui, lo aveva erroneamente inserito in una lista legata al terrorismo. Birawi ha inoltre accusato Israele e alcune fonti giornalistiche di aver diffuso informazioni distorte e politicizzate a suo carico, e ha più volte dichiarato che la sua attività è orientata esclusivamente alla difesa dei diritti umani e alla solidarietà con la popolazione di Gaza. Tuttavia, una foto del 2012 lo ritrae con Ismail Haniyeh. Sebbene tale foto venga spesso citata per rafforzare le accuse di vicinanza al gruppo islamista, Birawi non ha mai confermato l’esistenza di un rapporto diretto con la leadership di Hamas.
(Shalom, 11 giugno 2025)
GERUSALEMME - Le accuse israeliane secondo cui Hamas utilizza gli ospedali della Striscia di Gaza come copertura per le sue operazioni terroristiche sono “fortemente esagerate”, ha sottolineato alla fine dello scorso anno il procuratore della Corte penale internazionale Andrew Cayley. Questa valutazione è stata condivisa da molti nella comunità internazionale. Nel fine settimana, le forze di difesa israeliane hanno fornito prove inconfutabili che Cayley e compagni avevano torto. Completamente torto. Il 13 maggio, l'esercito israeliano ha condotto un attacco mirato all'ingresso dell'ospedale europeo, colpendo una struttura sotterranea senza causare danni significativi all'ospedale stesso. L'obiettivo era il comandante militare di Hamas Mohammed Sinwar, fratello del leader di Hamas ucciso Yahya Sinwar. Per settimane l'esercito israeliano ha impedito ai palestinesi di entrare nel luogo. Nei giorni scorsi, le forze armate israeliane sono finalmente arrivate, hanno scavato il terreno e recuperato i corpi di Sinwar e dei suoi uomini. L'esercito ha scoperto un bunker di comando e controllo di Hamas sotto l'ospedale. Come si può vedere nel video seguente, il bunker si trova proprio sotto l'ingresso del pronto soccorso dell'ospedale. Ai sensi dell'articolo 21 della Prima Convenzione di Ginevra, la presenza di questo bunker militare di Hamas revoca lo status di protezione dell'ospedale. Il portavoce delle forze armate israeliane ha documentato dettagliatamente la struttura, nella speranza di zittire i critici di Israele. Sarà sufficiente per costringere finalmente critici come Andrew Cayley ad aspettare le prove prima di ripetere le menzogne di Hamas? Improbabile.
(Israel Heute, 10 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Mohammed era a Netzarim il giorno della sparatoria. Ci racconta le bugie dei terroristi
di Micol Flammini
Mohammed viveva a Gaza City, ora è sfollato come tutti. Prima del 7 ottobre era uno studente, è riuscito a finire gli studi durante i primi mesi di guerra, ma non ha mai trovato un lavoro. Racconta di aver preso parte alle proteste contro Hamas. Appare subito una contraddizione nel ragazzo: non ha paura di andare in strada a urlare contro il regime, ma non vuole che il suo volto venga mostrato fuori dalla Striscia. Non ha paura del dissenso, teme piuttosto che si sappia di aver portato il suo dissenso fuori dai confini di Gaza.
Mohammed racconta che il cibo nella Striscia è un’arma: “Hamas sfrutta le famiglie più povere, quelle che non hanno modo di pagare gli aiuti”. Alcuni cittadini di Gaza hanno confermato che i terroristi si appropriano del cibo, delle medicine e del carburante che entrano con gli aiuti umanitari. Rivendono tutto, chi può paga e porta a casa i generi di prima necessità dentro a buste con la scritta “not for sale”, non in vendita. Invece Hamas li vende eccome e chi non può comprare viene incentivato a pagare con i propri figli: “Sfrutta la povertà per reclutare. Hamas dice: ‘Se vuoi del cibo dacci tuo figlio. Ti aprirai le porte del paradiso’”. Per questo, quando si è diffusa la notizia che dentro la Striscia sarebbero stati aperti dei nuovi punti per la distribuzione di aiuti umanitari, un’iniziativa gestita da Israele e dagli Stati Uniti, i civili hanno accolto la notizia con quel poco di speranza che la situazione concede. Subito è iniziata una campagna denigratoria molto forte contro l’associazione chiamata Gaza humanitarian foundation (Ghf). Alla cattiva fama dell’iniziativa ha contribuito l’opacità dei finanziamenti della fondazione che soltanto ora stanno emergendo. “Hamas non voleva che funzionasse. Ha iniziato una campagna mediatica di demolizione davvero forte”, dice Mohammed, tra gli abitanti di Gaza che hanno sperato potesse esserci un cambiamento. “La verità è che dall’inizio è parso chiaro che la Ghf non fosse organizzata a sufficienza. Sembrava che non si aspettasse tanta gente”. La Ghf aveva in programma di aprire in tutto otto centri per il ritiro degli aiuti. Finora è riuscita a farne funzionare quattro, ma ha dovuto più volte chiudere: “All’inizio non sapevamo neppure dove fossero questi punti di ritiro, non conoscevamo le regole di distribuzione”. Dopo alcuni giorni in cui i centri di raccolta della Ghf sono rimasti chiusi, questa settimana hanno riaperto e ieri ha dovuto chiudere di nuovo per degli spari tra la folla. Mohammed enuncia tutti i difetti che l’associazione dovrebbe migliorare: “Innanzitutto manca di organizzazione. Era chiaro che non si aspettasse tanta gente, ma i gazawi speravano in un meccanismo che tenesse fuori Hamas. Inoltre non c’è un sistema che regoli quanto può ricevere ogni famiglia. Chiunque si metta in fila ritira, finché c’è da ritirare. Ci sono famiglie che hanno mandato qualcuno a fare la fila più di una volta, e questo non va bene”. Mohammed racconta che invece alcune associazioni umanitarie dentro la Striscia chiamano quando c’è qualcosa da ritirare, hanno i dati delle famiglie. “Il fatto che chiunque si metta in fila possa ricevere è buono e la quantità di aiuti è molto generosa. Però la distribuzione con i nomi funziona meglio”. Alcune agenzie internazionali hanno accusato la Ghf di voler schedare i civili, secondo il racconto di Mohammed c’è una condivisione dei dati minore rispetto ad altri centri di distribuzione. “Non boccio la Ghf, ma deve funzionare al meglio. Se si toglie a Hamas la distribuzione degli aiuti, si priva il gruppo della capacità di reclutare nuovi ragazzi”. Secondo Mohammed, il gruppo non si aspettava che i gazawi si sarebbero messi in fila per riscuotere gli aiuti da un’organizzazione nuova: “Le lunghe code davanti ai punti di ritiro della Ghf sono state uno schiaffo in faccia a Hamas”.
Il primo giugno, Mohammed è andato a ritirare gli aiuti. Verso le 12 si trovava nella zona di Netzarim. Tra la folla in coda ha visto dei cadaveri. Quel giorno diverse testate hanno ripreso la notizia di colpi sparati dai soldati israeliani contro i civili. Secondo immagini e racconti dei gazawi, tra cui Mohammed, quella sparatoria non c’è stata: “Ho visto uomini con il fucile in mano che hanno iniziato a sparare. L’esercito israeliano è lontano dai punti di distribuzione, in cui invece sono gli americani a dover garantire la sicurezza. Hamas quel giorno ha cercato di far fallire la Ghf, provando a dimostrare che era pericoloso andare a ritirare il cibo in quel modo”. E pericoloso lo è davvero, estenuante anche. Per Mohammed però rimane un esperimento da implementare in fretta nell’interesse dei civili.
La modernità di Israele nell’agrifood preziosa per contrastare la desertificazione che verrà in Italia: romperci i rapporti fa male all’ambiente
Lo Stato ebraico è il futuro quando parliamo di agricoltura, ma le nostre regioni hanno fermato i negoziati. Il Paese è da sempre attento alle istanze green, conta 946 startup e la sua cooperazione è irrinunciabile.
Hanno fatto crescere agrumeti nel deserto. Hanno trasformato il mare in acqua dolce da bere. Hanno inventato il pomodoro Pachino! Ok, il “pollice verde” degli israeliani è noto. Ma andiamo oltre il luogo comune. Perché, nella condizione di emergenza climatica e alimentare in cui versa la popolazione mondiale, quello che nasce nelle startup specializzate nell’agrifood rigenerativo tra Tel Aviv e Haifa – discendenti dirette degli agronomi dei kibbutz – può rappresentare una soluzione sostenibile.
Sionismo e modernizzazione agricola vanno di pari passo. Il rumeno Aaron Aaronsohn viene ricordato sia perché fondatore del Nili, il gruppo patriottico ebraico che spia gli inglesi durante la prima guerra mondiale, sia come scopritore del grano selvatico; risultato fondamentale nello studio dell’origine genetica dell’agricoltura cerealicola. Il russo Menachem Ussishkin era un dirigente del Keren Kayemet LeYisrael (Kkl), la più antica organizzazione ecologica al mondo e, al tempo stesso, svolse un ruolo da protagonista nelle opere di bonifica delle terre della futura Israele, promuovendo le prime coltivazioni moderne.
Sono tanti i padri dell’agrifood avanzato che oggi ruota intorno agli hub delle università israeliane. Secondo l’Israel Innovation Authority, il Paese conta 946 startup. Di queste, 49 sono state avviate dal 2023, quindi in piena guerra. Tra loro, il 25% ha già ricevuto finanziamenti, pubblici e privati, per 15,36 milioni di dollari. Su un totale di 9,5 miliardi di dollari raccolti dal 2018 a oggi. Cinque le aree principali di attività: climate smart agriculture, energia pulita, nuove tecnologie alimentari, mobilità sostenibile e infrastrutture idriche eco-efficienti. Tutti settori utili a contrastare il cambiamento climatico.
Secondo il World Resources Institute, nel 2024, il processo di deforestazione è cresciuto tornando ai livelli del 2016. La desertificazione, unita alle operazioni di sfruttamento del suolo, quanto agli incendi di vaste dimensioni – vedi in California all’inizio di quest’anno – sono fenomeni che richiedono interventi strutturali. Piantumazione, ricostruzione dei bacini idrici e ripristino ecologico sono passaggi fondamentali per il recupero di un ecosistema. Ne è un modello quello realizzato dal Kkl per la foresta di Ben Shemen, andata a fuoco nel 2019 e oggi tornata a essere un polmone verde del Paese.
Il costante aumento demografico incide sulla sempre minore disponibilità alimentare, quanto anche sul crescente sfruttamento delle risorse naturali per la produzione di cibo. Israele è centro di ricerca dei novel food – carne coltivata, ma non solo – e sviluppo di soluzioni per ridurre l’uso sproporzionato e non necessario di antibiotici negli allevamenti. Progetti come Arventa Vet, finanziato anche da Horizon 2020 dell’Ue, hanno un impatto virtuoso sia sul benessere animale, sia sull’utilizzo e la lotta allo spreco di risorse naturali. Prima fra tutte l’acqua. Per il Paese infatti, come per l’intero Medio Oriente, il controllo dell’oro blu è la vera questione economica alla base di tutti i conflitti. I sistemi di irrigazione di precisione, per esempio N-Drip, permettono la razionalizzazione dell’utilizzo delle acque, fino a un risparmio del 70% delle risorse, quanto la riduzione del consumo energetico e di fertilizzanti.
Ed è proprio sulla questione acqua che Israele ha cooperato, finora con successo, con molti Paesi europei del Mediterraneo, Italia in prima fila. Il nostro territorio è vittima di un processo, lento ma in crescita, di desertificazione. È per questo che le Università di Torino e Firenze, ma anche la Regione Puglia si erano risolte a un ecosistema innovativo che sa – si parlava di luoghi comuni – come strappare terra fertile al deserto. La partnership degli atenei di Torino e Tel Aviv prevedeva lavori congiunti e lo scambio di ricercatori in campi quali sviluppo di tecnologie per il trattamento delle risorse idriche (acqua potabile, acque industriali e di scarico, desalinizzazione), ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche. Sappiamo come è andata a finire.
Conviene? È questa la domanda che bisogna porsi di fronte al boicottaggio degli enti pubblici europei nei confronti di Israele. Il mondo imprenditoriale non è ancora stato contagiato da queste serrate ideologiche. Conviene a Greta Thunberg, così come all’intero movimento dei verdi in Europa, rigettare le buone pratiche di una società le cui soluzioni per affrontare il cambiamento si stanno dimostrando efficaci, in favore di un matrimonio improbabile tra la causa palestinese e quella ambientale? Conviene all’Unione europea, dove il Green Deal è in ritirata, voltare le spalle a un Paese dove libertà d’impresa, finanziamenti a nove zeri e trasferimento tecnologico non restano un sogno, ma sono la realtà di tutti i giorni?
Il presidente argentino Milei a Gerusalemme: “Sosterrò sempre il popolo d’Israele”
di Michelle Zarfati
Il presidente argentino Javier Milei è atterrato in Israele lunedì sera e si è immediatamente diretto verso il Muro Occidentale a Gerusalemme, segnando l’inizio della sua seconda visita ufficiale nel Paese da quando è entrato in carica. Come per il suo viaggio precedente, Milei ha scelto di iniziare la sua visita dal Kotel, dove dovrebbe tornare giovedì sera per concludere il suo soggiorno con una cerimonia formale insieme al Primo ministro Benjamin Netanyahu.
Il presidente è stato accompagnato da una delegazione argentina di alto livello, tra cui il ministro degli Esteri Gerardo Werthein, il segretario generale Karina Milei, l’ambasciatore argentino in Israele, il rabbino Shimon Axel Wahnish e altri funzionari.
Milei è stato accolto sul sito da Rabbi Shmuel Rabinowitz, rabbino del Muro Occidentale e dei luoghi sacri di Gerusalemme e da Mordechai Eliav, direttore della Fondazione per il Patrimonio del Muro Occidentale. Entrambi hanno elogiato Milei per il suo fermo sostegno al popolo ebraico e allo Stato di Israele. Durante la visita, Milei ha recitato un salmo con il rabbino e ha offerto una preghiera speciale per il ritorno degli ostaggi ancora detenuti a Gaza.
“Vi ringrazio per la calorosa accoglienza – ha detto Milei durante la preghiera – Sosterrò sempre il popolo di Israele con tutto il mio cuore perché questa è la cosa giusta da fare anche per l’Occidente”. Il presidente argentino resterà nello Stato Ebraico per tre giorni. Il suo itinerario include un discorso alla Knesset e un annuncio formale di una nuova rotta di volo diretta tra Tel Aviv e Buenos Aires, la prima da quando il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann fu catturato in Argentina nel 1960. Ci si aspetta anche che ribadisca il suo impegno a spostare l’ambasciata argentina a Gerusalemme, una promessa che aveva già fatto durante la sua ultima visita. “Milei è un vero amico d’Israele, con il cuore e l’anima”, hanno detto i funzionari israeliani prima del suo arrivo ufficiale.
WASHINGTON – I politici e gli operatori dei media israeliani sottolineano spesso che ai sette fronti dell'attuale conflitto se ne aggiunge un ottavo, ovvero il mondo dell'opinione pubblica. Secondo uno studio pubblicato il 3 giugno dall'istituto di sondaggi americano Pew, Israele ottiene scarsi risultati in questo ambito.
Gli autori hanno intervistato persone in 24 paesi sulla loro posizione nei confronti di Israele. Secondo lo studio, in 20 paesi più della metà degli adulti ha un'opinione negativa dello Stato ebraico. Ciò vale in particolare per Australia, Grecia, Indonesia, Giappone, Paesi Bassi, Spagna, Svezia e Turchia: circa il 75% o più degli abitanti di questi paesi ha un'opinione negativa di Israele, in Turchia addirittura il 93%.
• La Germania nella media La media di tutti i paesi è pari al 62% di opinioni negative contro il 29% di opinioni positive. La Germania si colloca nella media con valori pari al 64% contro il 31%. Lo stesso vale per la Francia (63/28), il Regno Unito (61/30), l'Italia (66/29) e il Canada (60/33). In Europa, l'Ungheria è il paese con il minor grado di avversione nei confronti di Israele (53/36). L'Austria e la Svizzera non figurano tra i paesi oggetto dell'indagine.
Una visione prevalentemente positiva di Israele è quella degli abitanti della Nigeria (59% contro 32%), del Kenya (50/42) e dell'India (34/29). Gli Stati Uniti sono relativamente indecisi, con il 53% di opinioni negative e il 45% di opinioni positive, ma il Paese rientra nel gruppo con le maggiori differenze tra giovani (critici nei confronti di Israele) e anziani (favorevoli a Israele).
• Gli israeliani ritengono che il loro Paese sia poco rispettato In media, solo il 21% degli intervistati ritiene che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (Likud) stia facendo la cosa giusta in materia di politica mondiale. Il 69% non è d'accordo. La percentuale di critici di Netanyahu è particolarmente alta in Spagna (84% contro 11%), ma è superata dai turchi (94/2).
Gli esperti hanno anche chiesto agli israeliani come si sentono trattati. Il 58% ha risposto che il mondo non rispetta il loro Paese o lo rispetta troppo poco. Il dato non è cambiato rispetto all'anno precedente, ma la percentuale di chi ha risposto “per niente rispettato” è aumentata di 9 punti, passando dal 15% al 24%, rispetto a chi ha risposto “non particolarmente rispettato”.
Per lo studio sono state intervistate 28.333 persone tra l'8 gennaio e il 26 aprile. Nella maggior parte dei paesi, tuttavia, il sondaggio è iniziato solo dopo la fine della tregua, il 18 marzo.
«Una moschea, una sinagoga, una chiesa affiancate. Il futuro del Medio Oriente è questo. Negli Emirati Arabi Uniti sta succedendo». Loay Alshareef pronuncia parole di pace e speranza. E il pubblico del Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma lo applaude, conquistato dalla simpatia e dal calore del 42enne blogger saudita che da anni “combatte” online contro la delegittimazione di Israele nei paesi arabi e per creare ponti tra arabi ed ebrei. Battaglie spesso scomode. Anche rischiose? «Negli Emirati, dove vivo, no. C’è un forte senso di tolleranza ed è stato il primo stato islamico a inserire l’educazione alla Shoah nei programmi scolastici», racconta Alshareef. «Paradossalmente rischio in Europa, in Occidente».
Alshareef è ospite dell’Ucei in collaborazione con Il Pitigliani e risponde alle domande di Daniel Mosseri, il direttore di Pagine Ebraiche. Da giovane è stato un islamista radicale, sottolinea, cresciuto in un sistema educativo «in cui ci veniva insegnato che gli ebrei sono i nemici dell’Islam, che la cultura ebraica è una cultura della quale non fidarsi, che se un ebreo ci offre un bicchier d’acqua è perché vuole avvelenarci». Poi nel 2010 ha vissuto presso una famiglia ebraica a Parigi e la sua percezione è cambiata. Si è gradualmente interessato al mondo ebraico, ha superato con il tempo alcuni pregiudizi radicati e avviato «un percorso per superare alcune contraddizioni presenti nel Corano, dove sono espressi a volte concetti dispregiativi nei confronti degli ebrei così come dei cristiani, ma che sono da collocare nel loro contesto storico: è necessaria una transizione dalla lettura letterale del testo sacro a qualcosa di altro». Lui ci è riuscito, restando fedele alla sua religione, «e se ci sono riuscito io, considerando il modo in cui sono stato cresciuto e il fatto che fino all’età di 27 anni non ho mai incontrato un ebreo di persona, vuol dire che l’obiettivo è alla portata di tutti».
Servirà però uno sforzo educativo enorme, riconosce Alshareef. Il modello, sostiene, sono gli Emirati e tutti gli altri paesi che stanno cercando una via alternativa all’odio «attraverso gli accordi di Abramo: altri governi faranno quel passo al momento giusto, quando cioè la dolorosa guerra di Gaza sarà finita». E se è sacrosanto il diritto a una vita dignitosa per i palestinesi, per Alshareef prima di ogni considerazione su un loro possibile Stato indipendente è bene anteporre un ragionamento sulla leadership chiamata a rappresentarlo. Tale leadership dovrà per l’appunto «riconoscere Israele e volere una convivenza pacifica, perché abbiamo già visto a Gaza, da dove Israele è uscito nel 2005, cosa può essere uno Stato palestinese senza il rispetto di questi punti: Hamas va sconfitto». Dal pubblico è intervenuta la presidente Ucei Noemi Di Segni, dichiarando il proprio apprezzamento per le riflessioni e i messaggi del blogger arabo: «Il nostro sogno è che le tue parole arrivino alle persone con le quali dal 7 ottobre abbiamo provato a confrontarci, riscontrando spesso una sorta di blocco mentale: c’è un problema diffuso nel prendere atto della realtà».
Francia: un rabbino aggredito due volte in meno di una settimana da un ragazzo palestinese
Elie Lemmel, 63 anni, era seduto al tavolino di un bar a Neuilly-sur-Seine, sobborgo residenziale a ovest di Parigi, quando è stato colpito alla testa con una sedia da un giovane di origine palestinese residente in Germania. Lemmel era già stato aggredito la settimana scorsa a Deauville da tre uomini in stato di ebbrezza che lo avevano colpito.
di Nina Prenda
Un rabbino è stato aggredito per la seconda volta in meno di una settimana. Si chiama Elie Lemmel, ha 63 anni ed era seduto al tavolino di un bar a Neuilly-sur-Seine, sobborgo residenziale a ovest di Parigi, quando è stato colpito alla testa con una sedia da un giovane di origine palestinese residente in Germania. L’intervento di un cameriere, che ha assistito alla scena, ha evitato conseguenze più gravi e ha permesso di fermare l’aggressore, arrestato poco dopo. Secondo fonti di polizia, l’aggressore è un giovane di origine palestinese residente in Germania, beneficiario di una forma di protezione simile a quella concessa ai richiedenti asilo. Il rabbino Lemmel ha riportato una ferita alla testa, giudicata non grave. «Non oso immaginare cosa sarebbe potuto accadere a una persona più fragile o a un bambino», ha dichiarato ai giornalisti, tornando nel locale per ringraziare pubblicamente il cameriere. Lemmel era già stato aggredito la settimana scorsa a Deauville, nel Calvados, da tre uomini in stato di ebbrezza che lo avevano colpito. «Mi sono ritrovato a terra, ho immediatamente sentito il sangue scorrere», ha raccontato. Era frastornato e incerto su cosa fosse esattamente accaduto, inizialmente pensando che qualcosa fosse caduto da una finestra o dal tetto, prima di rendersi conto di essere stato aggredito. «Purtroppo, dato che porto la barba e la kippah, ho sospettato che probabilmente fosse quello il motivo, ed è davvero un peccato», ha aggiunto. Lemmel ha spiegato di essere abituato a «sguardi poco amichevoli, qualche parola spiacevole, persone che passano sputando per terra», ma di non essere mai stato aggredito fisicamente prima di questi due episodi. La procura di Nanterre ha comunicato di aver aperto un’indagine sull’aggressione di Neuilly per violenza aggravata dal fatto che sia stata commessa per motivi religiosi. Un uomo trattenuto per interrogatorio presso la stazione di polizia di Neuilly-sur-Seine è stato sottoposto a una valutazione psichiatrica che ha richiesto il suo ricovero, si legge nella nota. Secondo i documenti di identità in lingua tedesca trovati in suo possesso, l’uomo di 28 anni sarebbe nato nella città di Rafah, nella Striscia di Gaza. «Questo gesto ci disgusta», ha scritto su X l’ex Primo Ministro Gabriel Attal riguardo l’aggressione a Lemmel avvenuta venerdì. «L’antisemitismo, come tutte le forme di odio, è un veleno mortale per la nostra società». L’evento si aggiunge ai fatti della scorsa settimana, quando quattro istituzioni ebraiche sono state imbrattate con vernice verde a Parigi. «Aggredire una persona per la sua fede è una vergogna. L’aumento degli atti antireligiosi richiede la mobilitazione di tutti», ha dichiarato su X il Ministro dell’Interno Bruno Retailleau.
Israele conferma di avere ucciso Mohammed Sinwar, il capo di Hamas a Gaza
Grazie agli esami del dna è arrivata la conferma che uno dei corpi ritrovati nel tunnel sotto l'ospedale europeo a Khan Younis è del leader terrorista, eliminato a metà maggio in un raid israeliano. "Ecco dove sono finiti i fondi europei", dicono le Idf.
Le Idf e lo Shin Bet hanno confermato che il corpo estratto dalle forze israeliane in un tunnel nel sud di Gaza durante il fine settimana è quello del leader di Hamas Mohammed Sinwar. Secondo quanto riporta il Times of Israel – che poche ore prima aveva visitato il tunnel che si trova sotto l'ospedale europeo a Khan Younis, nel sud della Striscia, e che era utilizzato da Hamas come centro di comando – il corpo del comandante terrorista è stato prelevato sabato, diversi giorni dopo che le truppe avevano raggiunto l’ospedale. Sono stati recuperati anche diversi altri cadaveri, appartenenti ad altri membri di Hamas. L’esercito afferma che, in seguito a un processo di identificazione, è stato confermato che uno dei corpi appartiene a Sinwar, ucciso in un attacco israeliano il 13 maggio. Nell’attacco sono morti anche Muhammad Shabana, comandante della Brigata Rafah, e Mahdi Quara, comandante del Battaglione Khan Younis. Sempre nel tunnel, l’esercito dice di aver trovato diversi oggetti appartenenti a Sinwar e Shabana, tra cui le loro carte d’identità. Sono state trovate anche armi. Mohammed Sinwar era succeduto nella guida di Hamas nella Striscia al fratello Yahya, fra i principali ideatori della strage del 7 ottobre 2023, ucciso da Israele nell'ottobre 2024. Il tunnel profondo 8 metri dove si nascondevano i terroristi faceva parte di un'enorme rete sotterranea che collegava le brigate Rafah e Khan Younis di Hamas. Gli attacchi israeliani, che hanno sollevato enormi colonne di fumo e detriti in aria al momento dell'attacco, hanno preso di mira due sezioni del tunnel per intrappolare i comandanti nel mezzo, secondo l'esercito. Secondo le IDF, gli attacchi aerei hanno colpito alcune zone del tunnel all'esterno del complesso ospedaliero e l'ospedale ha continuato a funzionare anche dopo gli attacchi. Secondo l'esercito, gli attivisti di Hamas sono morti soffocati tra le macerie. "I terroristi che abbiamo eliminato sono importanti", ha detto un comandante dell'unità di ricognizione Golani, "ma non quanto le armi e i dati di intelligence che abbiamo portato via da qui. Abbiamo trovato una base militare sotto un ospedale, punto. Non c'è altro modo per dirlo. Abbiamo anche trovato informazioni sugli ostaggi". "Hamas usa gli ospedali in modo cinico", ha aggiunto il portavoce delle Idf Effie Defrin. "Ecco dove sono finiti i fondi europei". Al momento è in corso l'operazione Gideon's Chariots, un'ampia operazione di terra volta a prendere il controllo della maggior parte della Striscia e a sfollare la maggior parte dei civili di Gaza. Lo scopo dell'operazione di terra in corso "è quello di riportare indietro gli ostaggi e rovesciare il regime di Hamas", ha detto domenica Defrin.
Vi prego di dedicare qualche minuto per onorare l'eroe israeliano Chen Gross (33), caduto pochi giorni fa nella Striscia di Gaza.
Redazione di Israel Heute
Elogio funebre per il soldato caduto Chen Gross da parte del team Spector dell'unità di élite Maglan
Chen Gross ha prestato servizio nell'unità d'élite Maglan. In sua memoria, il suo amico e commilitone Michael Silem ha pronunciato oggi parole commoventi sulla sua tomba. Qui trovate la traduzione in italiano di questo discorso, scritto da un commilitone di un riservista caduto, che esprime lo stato d'animo attuale di molti combattenti israeliani. Se volete davvero capire cosa significa Israele, chi è la giovane generazione TikTok e perché amiamo così tanto i nostri combattenti, allora leggete questo discorso. Per favore!
Quando siamo partiti, ho visto nei titoli superficiali dei giornali – come per ogni caduto (come se in questo Paese ci fosse qualcosa di più importante) – che su di te c'era scritto: membro dell'unità di pronto intervento di Hinanit. E, onestamente, questo mi ha fatto arrabbiare. Non ho nulla contro l'unità di pronto intervento di Hinanit, ma, sul serio, avrebbero potuto scrivere ben altro su Chen Gross. Si sarebbe potuto scrivere: “Un uomo selvatico”. Tre parole. Brevi e concise. Si sarebbe potuto scrivere: “L'uomo con le mani più abili del mondo. Uno che sapeva riparare e costruire qualsiasi cosa. Auto, moto, trattori... basta che glielo portavi”. Niente ti ha mai scoraggiato. Si sarebbe potuto scrivere: “Il miglior soldato della migliore squadra dell'esercito”. Sì, esattamente. Niente chiacchiere, ma realtà vera e propria sul fronte di battaglia. Si sarebbe potuto anche dire: “Lascia circa 70 donne e innumerevoli ammiratrici. A quanto pare anche la tua calvizie faceva colpo”. Si sarebbe potuto dire: “Il miglior amico che si possa desiderare”. Niente ti ha mai scoraggiato. Se ti chiedevano: “Vieni con noi in gita?”, tu rispondevi: “Certo”. “Paracadutismo?” - Certo. “Allenamento?” - Certo. “Piantare alberi?” - Certo. Se qualcuno del gruppo chiedeva: “Chi vuole fare jogging prima del servizio di riserva?”, alle cinque del mattino ti seguivamo ansimando, con te in gilet, al tuo ritmo disumano. Il tuo motto era sempre: “Non sfidarmi”. E noi sapevamo che dicevi sul serio. Eri il cuore più grande che conoscessimo. I baffi più grandi. L'uomo degli uomini. Che uomo eri. Se le madri di Israele sapessero che uomo eri, un figlio su tre si chiamerebbe Chen Gross, nella speranza che il nome trasmettesse un briciolo di virilità al neonato. Solo due settimane fa, quando tutti sono tornati da Gaza per riposarsi, tu sei rimasto. Hai guidato un enorme escavatore che non avevi mai guidato prima, solo per lavorare ancora un giorno nella missione. Zohar, dell'unità, mi ha detto: “Mi vergogno dei miei baffi. Guarda Chen Gross, lui si merita i suoi baffi!”. E Dani, del team, ha detto: “Quanto può essere alfa una persona?!”. Odiavi le chiacchiere, le chiacchiere inutili ti facevano orrore. Nelle ultime settimane molti comandanti sono venuti a trovarci, probabilmente volevano sapere chi fosse questa banda di tipi strani di cui tutti parlano. E come sempre non hai voluto presentarti. Ti avrebbe solo infastidito. “Lasciatemi lavorare”, avresti sicuramente detto. E quanto eri arrabbiato... wow. Un altro titolo: l'uomo più irascibile che esista. Non c'era niente che rendesse più felice il gruppo che vederti esplodere, quasi fare a pezzi qualcuno, che fosse un ufficiale di alto rango o un semplice soldato, e poi la tua frase leggendaria: "Arrabbiato? Io? Ma non sono affatto arrabbiato. Non hai idea di come sono quando sono VERAMENTE arrabbiato“. E tutti noi avevamo un po' paura che avessi ragione. Ma, onestamente, non ti abbiamo mai visto davvero arrabbiato. Mi chiedevi sempre: ”Sto migliorando, vero?“ E io rispondevo ”sì", per paura. Ma sul serio, Chen, migliorare? Ma dai. Hai fatto tutto con il cuore. Mai a metà, nemmeno al 90%. Ed era proprio questo che ti rendeva così speciale: esigevi l'eccellenza e la perfezione da te stesso e da tutti quelli che ti circondavano. Credo che fosse proprio questo a unirci. Tu eri al 100%, io forse al 60 o 70. Se avessimo discusso, alla fine mi avresti dato il 70 per cortesia e poi avresti detto ai ragazzi alle mie spalle: “È al massimo un 40”. Circa due anni fa ho detto al team: “Prima o poi ci sarà una guerra in Libano. E noi, che manovriamo con le truppe regolari, crolleremo sulle salite ripide con i bagagli pesanti”. Ho inviato a tutti un programma di allenamento con un test sviluppato dall'ufficiale di fitness dello Stato Maggiore. DOVEVI fare questo test. Mi hai fatto impazzire. Dato che purtroppo ho un tapis roulant in palestra, hai fatto il test da me e mi hai costretto a partecipare. Io ho ottenuto un “sotto la media”, tu un “buono”, ma non il massimo, e questo ti ha fatto arrabbiare. Naturalmente hai presto raggiunto il punteggio massimo e hai continuato a trascinarmi agli allenamenti. Dopo aver superato il test, hai costruito un enorme attrezzo ginnico per fare il test con ancora più peso sulla schiena. Quando le persone in palestra mi chiedevano: “Che cos'è? Chi è quello?”, rispondevo: “Non ne ho idea, non l'ho mai visto prima”. E dentro di me scoppiavo di orgoglio. La nostra battuta era: “Se mi faccio male, Chen mi mette sulle spalle e mi porta in giro per tutto il Libano”. Facile. Ed è stato proprio così quando abbiamo guidato la nostra unità durante l'esercitazione in Libano e tu hai guidato la nostra squadra come se fosse una gita scolastica. Abbiamo scalato ripide salite, ansimando per non crollare, e tu ti sei inginocchiato con calma, con il fucile in posizione, in perfetta postura. Ancora una parola sulla nostra squadra, questa squadra speciale con questo comandante speciale. Ci ha fatto dire: «Vi voglio bene. Ho fatto tutto per proteggervi. Ci vediamo l'anno prossimo». La nostra squadra, composta da uomini provenienti da moshavim, insediamenti e città, ebrei e non ebrei, nuovi immigrati e sabra, come Abramo, che non chiede quando gli viene detto: “Vieni!”, ma risponde semplicemente: “Hineni - Eccomi”. Smettete di chiederci perché siamo ancora nella riserva. Non chiedeteci se torneremo. Non diteci che abbiamo “fatto la nostra parte” e che ora dovremmo lasciare il campo ad altri. E soprattutto: non parlate in nostra presenza di passaporti stranieri o di emigrazione – mostrate rispetto. Questo Paese è stato pagato con molto sangue. Chi non ha i polmoni pieni della polvere di Gaza, chi non ha il torcicollo per aver indossato per notti intere elmetto e visore notturno, che stia zitto. Se quello che volete dire non dà forza ai combattenti al fronte, allora è meglio che stiate zitti. Siate un po' come Chen Gross. Chen Gross non ha parlato molto. Ha semplicemente fatto ciò che doveva essere fatto. Ha capito la verità semplice e chiara, la verità che deriva da migliaia di anni di esperienza ebraica: “Se qualcuno viene per ucciderti, alzati subito e uccidilo per primo”. Questa è la verità che ti guarda da ogni casa minata, da ogni pozzo e da ogni tubo di combattimento a Gaza: vogliono ucciderci. Per troppi anni noi ebrei abbiamo represso questa frase. Sia a causa della lunga diaspora, sia per paura di ciò che avrebbe detto il cosiddetto “mondo civilizzato”. La nostra generazione ora dice: basta. Non lo permetteremo più. Chi dice di volerci uccidere, deve morire. Non ‘forse’. Non “più o meno”. Se rimandiamo, neghiamo, chiudiamo gli occhi, lo pagheremo caro. Quindi non chiedeteci “perché”. Se serve una ruota, quella ruota sono io. Evoi politici, di destra e di sinistra,voi giornalisti, opinionisti: state zitti. Venite ad ascoltare Irit e Adi (i suoi genitori). Non dite una parola. Ascoltate e basta. Perché l'educazione e i valori che hanno trasmesso ai loro figli sono più preziosi di tutto ciò che voi avete mai rappresentato. E a tutti quelli che si tirano indietro, a tutti quelli che stanno in disparte e si perdono in considerazioni morali, ai nostri fratelli ultraortodossi che hanno deciso di non prestare servizio: la storia vi giudicherà. Abbiamo passato così tanto come popolo. Voi sarete, nella migliore delle ipotesi, una nota a piè di pagina. E Chen Gross sarà ricordato come un combattente coraggioso, il sale della terra, che con il suo impegno e il rischio che ha corso ha effettivamente salvato molti soldati e civili. Non ti dimenticheremo mai. Team Spector. Noi continuiamo ad andare avanti.
(Israel Heute, 9 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
«Il compito di ogni sanitario è tutelare la vita umana, senza distinzioni ideologiche o geopolitiche. L’assenza di ogni riferimento alle vittime israeliane, ai feriti, agli ostaggi ancora detenuti, e la non distinzione tra civili gazawi e terroristi legati a Hamas, è inaccettabile».
Lo denuncia in un comunicato stampa l’Associazione Medica Ebraica, presieduta dal 2017 da Rosanna Supino, qualificando come «strumento divisivo, che alimenta odio e disinformazione» l’appello delle rete Sanitari per Gaza sottoscritta al momento da decine di migliaia di appartenenti ai vari ordini professionali (dai medici agli infermieri, dai chimici ai fisici). Il testo proposto all’attenzione dei professionisti del settore è «apparentemente animato da intenti etici», scrive l’Ame, ma assume in realtà «una connotazione politica fortemente ideologica, evidenziando una carenza di equilibrio e di profondità».
«L’intero appello si fonda su dati forniti da Hamas, senza verifica indipendente, né confronto con fonti pluralistiche», sottolinea ancora l’Ame. E «anche se riteniamo che ogni vita persa sia una tragedia, riteniamo anche che la serietà e la affidabilità delle cifre sia indispensabile in qualunque relazione sia essa scientifica o divulgativa». Anche perché, si aggiunge nella nota, nel denunciare la «devastazione deliberata delle strutture sanitarie», il gruppo Sanitari per Gaza «non parla dell’uso sistematico da parte di Hamas di infrastrutture civili, tra cui ospedali e scuole, per scopi militari, con la costruzione di tunnel sotterranei». Ragione per la quale «l’uso cinico dei civili come scudi umani, unito alla mancata restituzione degli ostaggi israeliani, solleva seri interrogativi su chi effettivamente stia sacrificando le vite innocenti». L’Ame si dichiara infine solidale «con quei palestinesi che, nonostante l’oppressione di Hamas, cercano giustizia e libertà con coraggio e dignità» e «proprio per questo, ogni appello che pretenda di fondarsi su principi etici deve essere guidato da rigore, onestà intellettuale e senso di responsabilità».
Il gazawi smaschera i pro-Pal: “Hamas affama i civili di Gaza”
di Ilaria Myr
“Quello che Hamas sta facendo è mantenere la popolazione di Gaza nella fame, perché fare perdurare la sua sofferenza è la sola cosa che può tenerli al potere e mantenere viva la sua falsa narrativa. Ma la popolazione di Gaza è stufa di avere paura e sta ribellandosi contro Hamas, che non può fermarla”. È un attacco diretto quello che il gazawi Hamza Howidy, esule in Germania, fa nei confronti di Hamas e della sua strategia di affamare la popolazione della Striscia per mantenersi saldo al potere. Una condanna forte, senza mezzi termini, la sua, e tanto più importante quanto più si diffondono fake news sull’utilizzo della fame come arma da parte di Israele e la parola “carestia” è diventata ormai seconda soltanto a “genocidio” fra quelle utilizzate per condannare Israele contro Hamas. Quella di Howidy è una delle voci palestinesi dissidenti che, a rischio della propria vita, parla apertamente delle responsabilità del gruppo terroristico islamista che ha attaccato Israele il 7 ottobre 2023. “Questa settimana è stato istituito un nuovo gruppo di aiuto americano, che in sole 48 ore ha consegnato oltre 840mila pasti direttamente alla popolazione, tagliando completamente fuori Hamas – continua Howidy in un post su Instagram – Nel panico, Hamas ha creato falsi account sui social media fingendo di essere il gruppo di aiuti e ha postato messaggi falsi, dicendo che le distribuzioni erano cancellate, minacciando e manipolando le persone di non prendere il cibo. Ma quando hanno visto dei funzionari dell’organizzazione uscire da un magazzino ad Al Maghwani con sacchi di farina, in centinaia sono andati a prenderseli anche loro. Hamas ha rubato il cibo alla gente. Quindi la gente se l’è ripreso”. Come Ahmed Fouad AlKhatib, Hamza racconta sui social – e negli incontri organizzati nel mondo – i soprusi che la popolazione palestinese subisce da parte di Hamas da quando nel 2007 ha preso il potere. “Quando Hamas ha preso il potere con un colpo di Stato, vedevo persone buttate giù dai tetti dei palazzi e non capivo cosa stesse succedendo – ha raccontato ad aprile in un incontro al Senato – Abbiamo sopportato per 18 anni, finché, con un gruppo di amici, abbiamo fondato il movimento Vogliamo vivere (Bidna Naish). Da allora sono stato arrestato e torturato due volte”. Dopo aver lasciato Gaza un mese prima del 7 ottobre, Hamza ha ripreso il suo attivismo dall’esilio, con l’intento di far sapere al mondo che non tutto il popolo gazawi sostiene Hamas: “Anche prima del 7 ottobre, Gaza era in ebollizione – testimonia – Ovunque andassi (caffè, taxi, aule scolastiche) la gente sussurrava la stessa cosa. Non possiamo vivere così. Non sotto assedio. Non sotto Hamas. Ma invece di ascoltare, Hamas ha raddoppiato. Più tasse. Più corruzione. Più silenzio imposto dalla paura. La gente stava soffocando. La vita quotidiana è diventata un incubo e chi ha osato parlare ne ha pagato il prezzo. Ora ci chiamano traditori perché chiediamo un futuro?”. Per queste sue convinzioni, Hamza rischia la vita ogni giorno, condannando anche l’Occidente che non dà spazio alle voci come la sua, e che, con lo slogan “Globalizzare l’Intifada”, sta portando anche ad atti gravi, come l’uccisione di Sarah Lynn Milgram, “un’attivista per la pace che lavorava per una Ong palestinese-israeliana”, e Yaron Lishinsky: i due giovani diplomatici israeliani freddati davanti al Museo ebraico di Washington al grido di “Palestina libera”. La sua, come quella di altri che racconteremo su queste pagine, è una voce che va ascoltata. Ma purtroppo, oggi, quelli come lui e Ahmed vengono “silenziati” dal mondo, perché scomodi.
(Il Riformista, 8 giugno 2025)
La settimana di Israele. Prosegue la conquista di Gaza
di Ugo Volli
• La guerra immaginaria e quella reale Ci sono due guerre in corso in Medio Oriente, una reale e una virtuale o piuttosto propagandistica. La guerra reale è un’aggressione decisa dall’Iran, provocata da Hamas con la strage, gli stupri, i rapimenti e i missili del 7 ottobre 2023, si svolge su sette fronti, è una guerra difficile e dolorosa per tutti, per gli abitanti di Gaza e del Libano ma anche per Israele che venerdì ha perso di nuovo quattro ragazzi che facevano il servizio militare di riserva, uccisi da una casa imbottita di esplosivi. Nella guerra propagandistica un movimento reazionario, clericale, omofobo, antifemminista come Hamas è diventato la bandiera di tutti i progressisti, Israele fa la guerra solo per realizzare il genocidio di Gaza, dato che è “crudele” (così La Stampa) ma alla fine la Palestina sarà “libera dal fiume al mare” e i milioni di ebrei che vi abitano si dissolveranno, perché non potranno restare lì, né Hamas che è così buono si potrà macchiare della colpa di sterminarli.
• Il numero dei morti Della guerra propagandistica la parte del leone la fa il numero di morti a Gaza: “più di 50.000 morti, tra cui 15.000 bambini” secondo Elly Schlein (15 maggio); “quasi 54 mila persone fino al 21 maggio 2025, tra cui oltre 15 mila sono bambini, più di 8 mila donne, quasi 4 mila anziani e oltre 22 mila uomini” [il totale fa 49.000, non 54.000, o anche perché gli anziani saranno uomini o donne; ma l’aritmetica in queste cose è un'opinione] secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA); per Lancet a giugno del 2024 “il numero di morti a Gaza, contando anche le “morti indirette” [???], poteva aver raggiunto almeno le 186mila” persone; “oltre 48.000 vittime palestinesi” (dati aggiornati a marzo 2025) (Oxfam); “più di 50.000 bambini sono stati uccisi o feriti dall’ottobre” 2023 (Unicef); da ottobre 2023 sono quasi 60 mila i morti (Emergency). Anche se i numeri non tornano e compongono una sordida tombola, la fonte è sempre quella, il “Ministero della salute di Gaza”, che è semplicemente un organo della propaganda di Hamas. Peccato che a un’analisi più ravvicinata, come quella che ha svolto il ricercatore israeliano Ido Halbany tutti questi numeri non reggano affatto. L’elenco comunicato da Hamas fino a marzo 2025 contiene 50.021 deceduti, ma fra essi molti sono doppi o con dati errati o contraddittori. Dei 42.431 nomi di morti elencati in maniera formalmente valida, 28.424 sono uomini di cui 24.249 fra i 18 e i 55 anni, cioè in età militare; i minorenni (sotto i 18 anni, fra cui è probabile che ci siano comunque combattenti) sono 13.633 e 14.007 le femmine. Questi numeri comprendono anche i morti per malattia, incidente o per i razzi terroristi ricaduti su Gaza. Mostrano comunque che nel mondo reale naturalmente Israele cerca di eliminare non i bambini che sono innocui, bensì i terroristi combattenti e lo fa con notevole precisione, perché i maschi in età militare di cui si denuncia la morte sono 24 mila e donne e minori insieme totalizzano poco di più, 27 mila con gli anziani poco più di 30 mila. E un rapporto fra presunti combattenti e presunti civili di 1 a 1,2 : un dato da tener presente, soprattutto considerando che Hamas dichiara che gli abitanti di Gaza sono circa 2 milioni. Le vittime civili sarebbero dunque circa l’1,5 per cento.
• La situazione a Gaza L’Operazione “Carri di Gedeone” sta lentamente privando Hamas di sempre più risorse: nelle ultime settimane scorse, un rapito vivo (Edan Alexander) e i corpi di altri quattro sono stati riportati in Israele, senza pagare riscatti. L’ultimo è la salma del tailandese Nattapong Pint, sequestrato il 7 ottobre e ucciso nei primi mesi di prigionia. Ora nelle mani dei terroristi restano 55 rapiti, di cui fra i 20 e i 23 sono ancora vivi. Inoltre il nuovo meccanismo di distribuzione del cibo sta erodendo il controllo di Hamas sugli abitanti della Striscia di Gaza, anche quello esercitato con la mediazione delle organizzazioni internazionali. Sono nate milizie per difendere il cibo dalle ruberie di Hamas e Israele giustamente fornisce loro armi leggere, anche se naturalmente il loro curriculum è tutt’altro che specchiato. Infine, dall’inizio dell’operazione, Hamas ha perso il controllo su vaste aree della Striscia di Gaza che ora sono sotto il pieno controllo di Israele (Rafah, dove sembra che le forze israeliane abbiano recuperato ieri il cadavere del capo terrorista Muhammad Sinwar, parti di Khan Yunis, la Striscia di Gaza settentrionale, la parte orientale di Gaza City e la parte orientale della Striscia di Gaza centrale). In queste zone molti edifici, sospetti di essere usati dai terroristi come rifugio o sbocco di fortificazioni sotterranee, sono stati distrutti.
• Gli altri fronti Israele continua a sorvegliare attentamente il confine settentrionale e a reagire alle minacce. In particolare ha colpito una fabbrica di droni allestita da Hezbollah alla periferia meridionale di Beirut, segno del fatto che questo gruppo terroristico non vuole smettere le sue minacce terroristiche. Anche dalla Siria dono arrivati di nuovo due missili, cui le forze armate israeliane hanno risposto con bombardamenti sui lanciatori e su altre minacce potenziali. Sono arrivati di nuovo dei missili balistici dallo Yemen e anche in questo caso Israele ha reagito e lo farà di nuovo. Ma il punto nevralgico è sempre l’Iran, da cui queste minacce dipendono. Si è saputo in questi giorni di un ordine iraniano alla Cina per una quantità molto ingente di materiali chimici che miscelati producono combustibili per missili. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) ha rivelato che l’Iran non solo non collabora in maniera adeguata, ma ha messo in moto le sue centrifughe più avanzate per produrre l’esplosivo atomico. Alti funzionari iraniani hanno rivelato di averne accumulato già per dieci bombe. Israele è pronto per le azioni necessarie a distruggere questo programma; ma deve attendere il consenso e magari la partecipazione degli americani. Insomma la decisione è in mano a Trump, che mostra crescente impazienza per l’arroganza degli ayatollah, ma ancora non si è deciso. Speriamo che non lo faccia troppo tardi.
SALMO 128 3 La tua moglie sarà come una vigna fruttifera all'interno della tua casa.
SALMO 23 5 Tu prepari davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici.
2 SAMUELE 9 13 Mefiboset dimorava a Gerusalemme perché mangiava sempre alla mensa del re. Era zoppo da entrambi i piedi.
EZECHIELE 41 22 L'altare era di legno, alto tre cubiti, lungo due cubiti; aveva degli angoli; le sue pareti, per tutta la lunghezza, erano di legno. L'uomo mi disse: “Questa è la tavola che sta davanti all'Eterno.
EZECHIELE 44 16 Essi entreranno nel mio santuario, essi si accosteranno alla mia tavola per servirmi, e compiranno tutto il mio servizio.
MALACHIA 1 7 Voi offrite sul mio altare cibi contaminati, ma dite: 'In che modo ti abbiamo contaminato?'. Lo avete fatto dicendo: 'La mensa dell'Eterno è spregevole'. 8 Quando offrite una bestia cieca per sacrificarla, non è forse male? quando ne offrite una zoppa o malata, non è forse male? Presentala dunque al tuo governatore! Te ne sarà grato?
ISAIA 53 3 Disprezzato e abbandonato dagli uomini, uomo di dolore, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo nessuna stima.
1 CORINZI 10 21 Voi non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni.
GIOVANNI 6 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
MALACHIA 1 6 “'Un figlio onora suo padre e un servo il suo signore; se dunque io sono padre, dov'è l'onore che mi è dovuto? Se sono signore, dov'è il timore che mi spetta?' dice l'Eterno degli eserciti a voi, o sacerdoti, che disprezzate il mio nome, eppure dite: 'In che modo abbiamo disprezzato il tuo nome?'.
1 SAMUELE 1 3 E quest'uomo, ogni anno, saliva dalla sua città per andare ad adorare l'Eterno degli eserciti e a offrirgli dei sacrifici a Silo; e là c'erano i due figli di Eli, Ofni e Fineas, sacerdoti dell'Eterno. 10 Lei aveva l'anima piena di amarezza e pregò l'Eterno piangendo a dirotto. 11 Fece un voto, dicendo: “O Eterno degli eserciti! se hai riguardo all'afflizione della tua serva, e ti ricordi di me, e non dimentichi la tua serva, e dai alla tua serva un figlio maschio, io lo consacrerò all'Eterno per tutti i giorni della sua vita, e il rasoio non passerà sulla sua testa”.
GENESI 2 1 Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto l'esercito loro.
ESODO 7 4 E Faraone non vi darà ascolto; e io metterò la mia mano sull'Egitto, e farò uscire dal paese d'Egitto le mie schiere, il mio popolo, i figli d'Israele, mediante grandi giudizi.
ESODO 12 41 E al termine di quattrocentotrent'anni, proprio il giorno che finivano, tutte le schiere dell'Eterno uscirono dal paese d'Egitto.
1 SAMUELE 1 17 Allora Eli replicò: “Va' in pace, e l'Iddio d'Israele esaudisca la preghiera che gli hai rivolto!”.
MALACHIA 2 1 “Ora, questo ordine è per voi, o sacerdoti! 2 Se non date ascolto, se non prendete a cuore di dare gloria al mio nome”, dice l'Eterno degli eserciti, “io manderò su di voi la maledizione e maledirò le vostre benedizioni; sì, già le ho maledette perché non prendete la cosa a cuore. 6 La legge di verità era nella sua bocca, non si trovava perversità sulle sue labbra; camminava con me nella pace e nella rettitudine e ne allontanò molti dall'iniquità. 7 Poiché le labbra del sacerdote sono le custodi della scienza, e dalla sua bocca si ricerca la legge, perché egli è il messaggero dell'Eterno degli eserciti. 8 Voi invece vi siete sviati, avete fatto inciampare molti nella legge, avete violato il patto di Levi”, dice l'Eterno degli eserciti. 9 “Anche io vi rendo spregevoli e ripugnanti agli occhi di tutto il popolo, perché non osservate le mie vie e avete dei riguardi personali quando applicate la legge”.
MALACHIA 3 1 “Ecco, io vi mando il mio messaggero che preparerà la via davanti a me e subito il Signore, che voi cercate, l'Angelo del patto, che voi desiderate, entrerà nel suo tempio. Ecco egli viene”, dice l'Eterno degli eserciti; 2 “ma chi potrà sostenere il giorno della sua venuta? Chi potrà rimanere in piedi quando egli apparirà?”. Infatti egli è come il fuoco del fonditore, come la potassa dei lavandai. 3 Egli si siederà, come chi affina e purifica l'argento, e purificherà i figli di Levi, li raffinerà come si fa dell'oro e dell'argento; ed essi offriranno all'Eterno offerte con giustizia.
ROMANI 12 1 Io vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio, che è il vostro culto spirituale. 2 Non conformatevi a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza quale sia la volontà di Dio, la buona, gradita e perfetta volontà.
La manifestazione di oggi a Roma è un esercizio di perversione, una pericolosa china che porta in sé una ondata di violenza antisemita come sempre basata su menzogne che criminalizzano gli ebrei, il solito sistema inaugurato nei secoli: gli organizzatori e gli sventolatori di bandiere terroriste ne porteranno l'onta e la responsabilità della trasformazione in violenza. Felici quasi tutti i media, sulla carta, dagli schermi, sui social, aumenteranno le fanfare di un'ossessiva e conveniente legittimazione del niente cosmico, delle bugie siderali, dell'ignoranza e dall'opportunismo politico da cui la manifestazione nasce. Oggi ripeteranno felici in coro con gli oratori incapaci ormai di distinguere fra vero e falso, bene e male, i termini «genocidio» e «pulizia etnica», «occupazione», «razzismo», etc. Sono quelli che hanno detto che in 24 ore sarebbero morti 14mila bambini palestinesi, e poi non hanno smentito mai la cretinata; che hanno ripetuto senza vergogna che i soldati mirano alla testa dei bambini; che all'ospedale Al Ahli erano state uccise 500 persone; che i soldati hanno violentato e ucciso le donne palestinesi all'ospedale al Shifa; che sparano su chi va a prendere il cibo Milioni sono le menzogne, come quella che accusa Israele di affamare a scopo bellico: come si può pensarlo, dato che fino a marzo venivano introdotti 600 camion al giorno? Ma la fame è stata causata dal furto e utilizzo degli aiuti umanitari da parte di Hamas, e quindi il sistema ora è cambiato Orribile l'indifferenza sulle sofferenze dei rapiti, incredibile come i ragazzi e i padri di famiglia, gli eroi uccisi in guerra dalla parte d'Israele (di cui quattro ieri), siano considerati vittime di nessun conto, ignorati, mai nominati dalla stampa italiana. Fra i dimostranti, oggi, chi vorrà essere generoso dirà che non vuole la distruzione di Israele, ma condannerà a morte la politica di Netanyahu, di cui niente sa se non che è «di destra» e anche che è «vendicativo» e che deve accettare una tregua definitiva. Ma non gli importa che Israele insista per evitare semplicemente il prossimo 7 ottobre e altri assalti definitivi. Ogni giorno si insiste che «tanti ebrei criticano Netanyahu». E perché, non è sempre così nelle democrazie? Menomale. Peccato se poi quegli ebrei diventano complici del nemico. La manifestazione di oggi è parte della strana velenosa fioritura di un nuovo culto della morte nella società occidentale in crisi: vi si moltiplicano i perfetti ignoranti, le menti woke, le pretese islamiste. E i profittatori politici. Ma ci sono tanti che ricordano, le comunità agricole e la festa di giovani maciullati il 7 di ottobre, si sottraggono al rovesciamento di bene e male che ha buttato Israele dalla parte dei cattivi e ha adottato come eroi i terroristi che odiano la nostra civiltà, quelli che dicono noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita, uccisori di ebrei cristiani omosessuali e donne, macellai di bambini e famiglie. Molti sanno che in questa manifestazione si ripetono bugie, dal fatto che Israele sia un paese coloniale a che abbia sparato a chi andava a prendere da mangiare ai camion. La gente che rifiuta il culto della morte sa che cosa è Israele, sa che dalla scuola all'esercito si insegna la pace; vuole che sopravviva, combatta, batta il mostro e recuperi gli ostaggi. Un mare di odio armato con miliardi di fake news a pagamento dalla Fratellanza Musulmana, dell'Iran, del Qatar impone l'idea che sia in corso una strage senza precedenti, ma gli studi condotti sui dati forniti dai palestinesi ci dicono che il bilancio dei morti militari e civili è di uno a uno, il dato più positivo mai visto in una guerra; la grande maggioranza è formata da maschi dai 15 ai 70 anni, quindi combattenti, e non da donne e bambini; sanno che le gallerie, in cui mai si è permesso alla gente di rifugiarsi sboccano quasi sempre in ospedali, camere per bambini, moschee trasformati in retrovie terroriste. La gente è per Hamas uno strumento, l'ha detto più volte. La piazza di oggi è drogata di bugie, ma paradossalmente Israele è là per difendere anche il suo diritto a esprimersi. A Gaza, chi prova a dire una parola di protesta, viene fatto a pezzi.
L'attività dei centri di distribuzione rimane bloccata
RAFAH – Venerdì è stata una giornata di confusione per quanto riguarda l'attività dei centri di distribuzione nella Striscia di Gaza. La “Fondazione umanitaria di Gaza” (GHF) aveva inizialmente comunicato in mattinata che l'attività era stata nuovamente sospesa. Nel pomeriggio, tuttavia, ha poi dichiarato che due dei centri erano stati aperti, ma che erano stati nuovamente chiusi.
Nei giorni scorsi si erano verificati episodi di violenza nei centri, con alcuni civili uccisi mentre si recavano nei centri. In risposta, la GHF aveva chiuso i quattro centri mercoledì.
Giovedì pomeriggio la fondazione ha riaperto due dei centri a Rafah. Secondo le proprie dichiarazioni, ha distribuito quasi 25.000 pacchi alimentari, pari a circa 1,4 milioni di pasti. L'obiettivo è quello di distribuire 4,5 milioni di pasti al giorno. Nella Striscia di Gaza vivono circa 2 milioni di persone.
A causa delle vittime, i media internazionali hanno accusato l'esercito israeliano, citando l'organizzazione terroristica Hamas. Quest'ultimo ha risposto che i soldati avevano solo sparato colpi di avvertimento contro sospetti o civili che avevano lasciato le aree designate nei centri di distribuzione.
• Palestinesi: Hamas spara sui civili Mercoledì l'esercito ha anche pubblicato la registrazione di una telefonata tra un ufficiale di collegamento e un palestinese della Striscia di Gaza. Quest'ultimo ha affermato che i terroristi di Hamas hanno sparato sia ai soldati che ai civili. “Non vogliono che la gente riceva aiuti, vogliono ostacolare il piano affinché gli aiuti non arrivino a loro, in modo da poterli rubare. Vivono di aiuti”.
Per questo motivo, secondo lui, Hamas vuole che gli aiuti arrivino nella zona attraverso le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali. Vuole solo la rovina e sta prendendo in giro la popolazione. I terroristi sono “animali umani”. “Non hanno alcuna compassione per il loro stesso popolo”.
• Armi per le milizie Nel frattempo, Israele avrebbe iniziato ad armare bande nella Striscia di Gaza per rafforzare la lotta contro Hamas. Lo hanno confermato giovedì le forze di sicurezza dopo le dichiarazioni dell'oppositore Avidgor Lieberman (Israel Beiteinu).
Lieberman ha dichiarato alla televisione israeliana che il capo del governo Benjamin Netanyahu (Likud) ha autorizzato il trasferimento di armi al clan Abu Shabab senza coinvolgere il gabinetto di sicurezza. Si tratta di una milizia che si oppone al dominio di Hamas nella Striscia di Gaza.
L'ufficio del governo ha confermato i fatti. In accordo con i circoli di sicurezza, Israele sta utilizzando i clan nella lotta contro Hamas, ha affermato Netanyahu. Ha inoltre criticato Lieberman per aver reso pubblici i fatti, sostenendo che ciò giova solo a Hamas.
• Beduini in lotta contro Hamas Il leader della suddetta milizia è Jasser Abu Schabab. Il 32enne è un beduino nato a Rafah appartenente alla tribù dei Tarabini. Secondo le sue stesse dichiarazioni, ha creato la milizia con l'obiettivo di proteggere i civili da Hamas e dai “ladri di aiuti umanitari”.
All'inizio della guerra, i suoi uomini rubavano gli aiuti umanitari perché Hamas li saccheggiava e non li distribuiva. Da quando è stato istituito il nuovo sistema di distribuzione, l'obiettivo della milizia è proteggere gli aiuti umanitari.
• Avvertimento contro la divisione Il sostegno alla milizia incontra tuttavia riserve nella regione. L'ambasciatore di un Paese arabo ha avvertito in un'intervista al “Times of Israel” che ciò potrebbe approfondire la divisione tra i palestinesi. Il diplomatico ha parlato in forma anonima.
Nella sua critica ha paragonato la situazione al periodo precedente al 7 ottobre: Netanyahu avrebbe rafforzato Hamas per indebolire l'Autorità palestinese. Il sostegno ai clan dimostrerebbe che Netanyahu “dal 7 ottobre ha imparato poco”.
(Israelnetz, 7 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
GERUSALEMME - Non mi interessa molto la politica: non mi sono mai piaciute le strategie, i giochi, le rivalità e la mentalità da bulldozer che servono per guadagnare terreno politico. Ma apprezzo coloro che sono stati investiti da Dio (e dagli elettori) dell'autorità di agire nell'interesse pubblico. Negli ultimi anni ho notato un cambiamento nel clima politico: è degenerato in un sistema che ha perso il rispetto fondamentale per la gerarchia. L'opinione pubblica israeliana ha assistito a politici rispettabili (senza fare nomi) che usano la lingua come un'arma per distruggere i propri avversari nel modo più irrispettoso possibile. Nel farlo, si sono trasformati da leader autorevoli in bambini immaturi che litigano, si insultano e persino imprecano. Si comincia con il togliere i titoli agli altri politici e rivolgersi a loro solo con il nome di battesimo, aggiungere aggettivi inutili, attribuire colpe e tenere discorsi al limite della blasfemia per influenzare l'opinione pubblica e smontare l'avversario. Non importa quale canale si guardi, la destra e la sinistra stanno combattendo una guerra di parole, e queste parole si diffondono ad altri membri della Knesset, dirigenti, amministratori delegati, educatori, comandanti, soldati e cittadini comuni come me. Sono imbarazzata e mi vergogno che i miei politici, che pensavo avrebbero messo da parte il loro orgoglio per il bene del popolo, scelgano la via più ignobile nella disputa. Sono (quasi) altrettanto delusa quando gli elettori seguono l'esempio e demonizzano l'altra parte con le stesse parole. I responsabili non hanno alcun timore di Dio o almeno un minimo di rispetto umano per chi ricopre cariche più elevate della loro?
• L'unto del Signore Dopo che il profeta Samuele aveva unto Davide re d'Israele mentre Saul era ancora sul trono, Davide continuò a servire come pastore, musicista per il re Saul quando questi era tormentato da spiriti maligni, portatore d'armi di Saul (che ironia) e guerriero dopo aver sconfitto Golia. Resistette alla tentazione di incoronarsi re prematuramente, anche se vedeva che la sua popolarità tra il popolo gli avrebbe permesso di farlo facilmente. Poi arrivò la prova definitiva del suo carattere: Saul, il “comandante supremo”, temeva che Davide salisse al trono e cercò quindi di ucciderlo. Questo avrebbe potuto essere il pretesto perfetto per David per porre fine alla vita di Saul; ma per proteggere se stesso ed evitare uno scontro con il re, fuggì per non essere costretto a combattere contro re Saul. Molto nobile? Più di molti altri. Ma anche Davide, dopo essere stato spinto fino allo sfinimento, si trovò in un vicolo cieco o, in questo caso, in una caverna. Dopo esser fuggito per anni davanti al sanguinario Saul, la soluzione a tutti i problemi di Davide, era letteralmente a portata di mano. Saul dormiva nella caverna dove David e i suoi uomini si nascondevano; lì David, sospinto dai suoi uomini, tagliò un lembo del mantello di Saul. Anche se non lo uccise, fu preso dai rimorsi, rimproverò i suoi uomini e non permise loro di fare del male a Saul:
«Il Signore mi ha proibito di fare questo al mio signore, l'unto del Signore, e di alzare la mano su di lui, perché è l'unto del Signore» (1 Samuele 24).
Quando Davide si trova di fronte al re Saul con le parole: «Avrei potuto farlo, ma non l'ho fatto», si mostra ancora umile e chiama Saul «padre», umiliandosi rispetto a lui e lasciando il giudizio sulle azioni di Saul a Dio, che è il re di tutto. Anche dopo la morte di Saul sul campo di battaglia, Davide pianse e fece cordoglio per lui e onorò la sua discendenza. C'è un luogo e un tempo in cui l'opposizione richiede una reazione forte e violenta contro i propri nemici, ma non contro il proprio re.
Quando Golia e i Filistei si opposero a Israele, Davide riservò i suoi insulti e la sua aggressività più feroci per ottenere giustizia e vendetta contro questo gigante alto 2-3 metri. Qui Davide poté dare libero sfogo alla sua indomita natura guerriera contro chiunque si opponesse al Signore degli eserciti, senza compromettere il suo carattere: combatté il male e lo sconfisse. Ma non si può combattere il fratello con lo stesso spirito con cui combatte il male. Il nome di Davide divenne grande sulla terra perché sapeva governare la sua anima e conosceva la differenza. Ciò che separa i grandi dagli indegni (o immaturi) è la capacità di usare le parole con saggezza. Con le nostre parole persuadiamo, eleviamo, manipoliamo, respingiamo, correggiamo, incoraggiamo, abbassiamo, e chi controlla la propria lingua controlla la propria anima, e solo allora può controllare gli altri.
• Una dose di realtà Il modo in cui entreremo nella storia dipende in gran parte dal fatto che ci comportiamo: se con la dignità dei re o se non temiamo né uomini né Dio e la nostra lingua è lo strumento della nostra rovina. Ciò non significa che non ci sia modo di opporsi, protestare o rifiutare, ma senza lo Spirito di Dio che guida la lingua, un cambiamento è molto improbabile, poiché l'ira dell'uomo non produce frutti buoni o duraturi, mentre la giustizia di Dio (con la preghiera) porta al pentimento e al cambiamento. E ci sono altri leader biblici che si sono comportati con onore e con un carattere gradito a Dio in un ambiente corrotto o pagano:
Il profeta Daniele, quando portò cattive notizie ai re di Babilonia,
Giuseppe, quando interpretò i sogni del faraone dopo essere stato falsamente accusato,
Gesù, quando fu accusato davanti a Ponzio Pilato: rimase in silenzio perché sapeva che era Dio a averlo posto come suo sovrano, eppure confidava nel suo Padre celeste, il re supremo dell'universo.
Ma ora dobbiamo affrontare la questione in modo pratico: siamo esseri umani con emozioni, e i politici stanno dimostrando comportamenti pericolosi; la fiducia è svanita e il 7 ottobre dimostra quanto i leader abbiano fallito nel proteggere il loro popolo. Il dolore nella società israeliana è profondo: come reagire quando si crede che l'omicidio o il rapimento di una persona cara sia opera dei propri politici? Forse addirittura di quelli che si sono votati?
Non ho una soluzione per la rabbia e la delusione; non giustifico né prendo posizione: la corruzione deve essere combattuta e, se è implacabile e causa divisioni nel popolo, abbiamo il diritto di eliminarla in modo democratico. Ci irrita pensare che Dio avrebbe messo al potere un leader che disprezziamo, che ha debolezze, peccati e orgoglio, ma la realtà è che siamo stati noi, come popolo, a scegliere i re, non Dio attraverso i profeti, e ci siamo dati un Saul e molti “Saul” dopo di lui. Se leggiamo il libro dei Giudici, vediamo quanto sia raro che un re come Davide regni senza corruzione. Potremmo pensare che non sia giusto che regni la corruzione mentre noi restiamo seduti come spettatori impotenti con le mani legate dietro la schiena, ma non siamo legati: la preghiera e l'umiltà sono molto più efficaci della mancanza di rispetto. Qualunque terreno conquistiamo con la forza, sarà solo di breve durata, quindi la pazienza è la virtù dei re. La “politica senza lotta” di Davide nei confronti di Saul serviva a proteggere la sua futura posizione di re rispettabile di cui il popolo poteva fidarsi, che non aveva strappato la corona con la forza, ma se l'era guadagnata con l'onore che spetta a un nobile. Dio ha un modo per allontanare coloro di cui non è soddisfatto; il nostro compito è quello di sostenere i nostri politici con un approccio che funzioni davvero e resistere alla tentazione di rovesciare “l'unto di Dio”.
(Israel Heute, 6 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nel cuore del Negev occidentale, un tesoro nascosto da secoli ha finalmente visto la luce: un mosaico bizantino di 1.600 anni è stato esposto al pubblico per la prima volta, nel complesso del Consiglio Regionale di Merhavim. La scoperta, avvenuta circa 35 anni fa nei pressi del Kibbutz Urim, ai margini del sito archeologico di KhirbatBe’erShema, è ora al centro di un’iniziativa culturale che mira a restituire alla comunità un frammento prezioso della sua storia.
L’iniziativa fa parte del programma nazionale “Le antichità a casa tua”, promosso dall’Autorità israeliana per le antichità insieme al Ministero del Patrimonio. Dopo decenni di abbandono e deterioramento, l’opera è stata svelata al pubblico, restaurata e sistemata in una nuova area protetta e accessibile. “Negli anni successivi alla sua scoperta, le condizioni del mosaico si erano notevolmente degradate”, ha spiegato Ami Shahar, responsabile della conservazione. “Grazie a un lungo lavoro di restauro, oggi possiamo finalmente mostrarlo nella sua interezza”.
L’opera, considerata uno dei mosaici più belli mai rinvenuti in Israele, è composta da 55 medaglioni riccamente decorati. Le scene rappresentate spaziano dalla caccia agli animali esotici, dalla vita quotidiana a raffigurazioni mitologiche. Le tessere, in pietra policroma, vetro e ceramica, testimoniano l’abilità di un artista di altissimo livello. “È un’opera straordinaria del periodo bizantino,” ha raccontato l’archeologo Shaike Lender, che partecipò agli scavi originali. “La qualità dei dettagli è impressionante”.
Il mosaico decorava un grande monastero, parte di un insediamento fiorente grazie alla produzione vinicola. Gli scavi hanno restituito un torchio, magazzini e grandi giare per lo stoccaggio, a conferma della vocazione agricola e commerciale del sito. Il monastero si trovava lungo l’antico tracciato nabateo-romano delle spezie, tra Halutza e il porto di Gaza, un asse fondamentale per i commerci, ma anche una linea di confine tra il deserto e le zone abitate. Una posizione strategica che offriva riparo ai viaggiatori e proteggeva dagli attacchi delle tribù beduine.
Dopo la scoperta, il mosaico fu ricoperto per proteggerlo. Solo oggi, a distanza di decenni e grazie a un attento lavoro di recupero, è di nuovo visibile. Collocato in una nuova area recintata e sicura, è pronto ad accogliere i visitatori. “È una gioia poter finalmente condividere con il pubblico un’opera tanto spettacolare,” ha commentato Shahar.
L’inaugurazione ufficiale si è tenuta il 25 maggio e ha visto la partecipazione di studenti, residenti e autorità locali. Tra attività archeologiche, laboratori creativi e momenti di educazione ambientale, l’evento ha celebrato la riscoperta di un patrimonio e il valore della condivisione culturale. “È importante rivelare gemme storiche nella regione di Otef Gaza, affinché diventino attrazioni per i visitatori e aumentino l’afflusso in questa area vitale”, ha sottolineato Eli Escusido, direttore dell’Autorità per le antichità.
Il sito, ora trasformato in un giardino archeologico, sarà visitabile grazie a un percorso dotato di cartelli esplicativi e aree di sosta. Shay Hajaj, capo del Consiglio Regionale di Merhavim, spiega come “questo bellissimo mosaico sarà conservato qui e diventerà un punto di riferimento per visite e apprendimento”, chiarendo come un pezzo di storia antica sia stato restituito al presente per ispirare il futuro.
Dal 7 ottobre in Israele esistono due tipi di vita quotidiana. Quella vecchia, con il lavoro, lo studio, le faccende domestiche, gli appuntamenti, le bollette. E quella nuova, con le notizie sui soldati caduti, gli ostaggi, l'allarme missili e le storie personali che non si dimenticano facilmente. Entrambe coesistono. E noi continuiamo a vivere, in qualche modo. Il nostro figlio più piccolo studia in una scuola di musica. Canta, fa prove, registra. Mentre noi a casa seguiamo le notizie, lui è a lezione insieme alla nipote di Eli Sharabi, che è stato tenuto in ostaggio dall'Hamas per mesi. Il fratello di Eli, Yossi, è stato ucciso durante la prigionia. Qui la vicinanza agli eventi è ovunque. Non sono notizie lontane, riguardano le persone che incontri. A scuola, a casa, in treno. Nostra figlia va al lavoro e frequenta anche corsi di formazione continua. Fa il suo lavoro con coscienza e pensa ai prossimi passi della sua vita. Durante il suo tirocinio all'Accademia di Design aveva una collega che, insieme alla sorella, è stata uccisa alla festa Nova. E a volte ricorda la sua amica d'infanzia, il cui fratello minore era anche lui al festival. Lui non è tornato.
• Ricordi personali
Fa parte della vita quotidiana: ricordi personali che affiorano all'improvviso, silenziosi, senza grandi parole. E poi la vita continua. Come molti in Israele, anche i nostri tre figli hanno un legame personale con gli eventi del 7 ottobre. Questo dimostra quanto sia davvero grande la portata di questa catastrofe: quasi tutti conoscono qualcuno che è stato colpito. Uno dei vicini del nostro figlio maggiore era alla festa Nova, anche lui non è più tornato. Mio figlio vive con sua moglie e due cani a Tel Aviv. Lavora come programmatore e vive la sua vita quotidiana. Quando a Tel Aviv suonano le sirene, vanno nel bunker. I cani vengono con loro, sembrano essersi abituati. Ci vediamo nel fine settimana. A volte a casa loro, a volte a casa nostra a Modi'in. Mangiamo insieme, parliamo, ma per lo più non di politica. Ci concentriamo su ciò che sta accadendo. Viviamo la nostra vita privata all'interno di questa realtà che sembra impossibile. Continuo a lavorare per Israel Heute. La nostra redazione si riunisce ogni due settimane a Gerusalemme, per il resto lavoriamo ancora da casa. Leggo testi, scrivo articoli, redigo notizie, quasi sempre riguardanti la guerra, gli ostaggi, il governo, le proteste. E poi di nuovo cose di tutti i giorni: porto fuori la spazzatura, passo l'aspirapolvere, rispondo alle e-mail, aspetto la fattura dell'artigiano, mi arrabbio per l'aumento dei prezzi al supermercato. Ogni mattina accompagno prima nostro figlio alla stazione, poi nostra figlia, ovviamente in orari diversi. La sera li vado a riprendere. Ormai mi definisco il “taxi di famiglia”. Quando sono alla cassa del supermercato e osservo le persone, mi chiedo spesso come abbiano vissuto il 7 ottobre. Cosa sanno, cosa portano con sé? Forse hanno perso qualcuno. Forse qualcuno della loro famiglia sta ancora aspettando il ritorno di un ostaggio. Forse loro figlio è stato arruolato. Si va avanti con la vita quotidiana, ma questa sensazione è sempre presente. Ti accompagna, silenziosa ma costante.
• La sera del seder Recentemente abbiamo festeggiato la Pasqua ebraica. Abbiamo trascorso la sera del Seder a casa con tutta la famiglia allargata. Per qualche ora è stato come se potessimo dimenticare la realtà là fuori. Abbiamo apparecchiato la tavola, acceso le candele, cantato i canti tradizionali. Abbiamo letto la Haggadah e raccontato, come ogni anno, della liberazione dalla schiavitù, dell'esodo dall'Egitto, del cammino verso la libertà. Ma questa volta era diverso. Mentre parlavamo della storica fuga, non potevo fare a meno di pensare agli ostaggi a Gaza. Sono ancora lì, nell'oscurità e nella paura. Per loro l'esodo non è ancora iniziato. E molti altri – uomini, donne, bambini – hanno perso la vita solo perché erano ebrei. Le parole della Haggadah, che di solito fanno parte di una tradizione festiva, hanno improvvisamente assunto un significato diverso. È stata una bella serata, ma una serata in cui tutto ciò che era successo era presente a tavola. Abbiamo mangiato, riso e cantato insieme, ma non è stato possibile ignorare l'altra realtà.
• L’atmosfera nel paese
Nelle ultime settimane sono aumentati anche gli allarmi missilistici, sempre a causa degli Houthi. Quando suona la sirena, ci riuniamo tutti nella stanza di nostro figlio. È il nostro rifugio. Dagli anni '90 in Israele è obbligatorio avere una stanza di questo tipo in ogni appartamento. Per noi è semplicemente la sua stanza, fino a quando non suona l'allarme missilistico. Ciò che mi preoccupa di più è l'atmosfera nel Paese. Dopo il 7 ottobre siamo stati uniti per un breve periodo. C'era un senso di coesione, di rispetto reciproco. Ma ora sono tornate le vecchie tensioni. Ci sono di nuovo manifestazioni. Si litiga, si accusano, si urla, come se nessuno avesse imparato nulla. Come se questa guerra non fosse stata una prova comune, ma solo una pausa nella vecchia disputa. Alcuni dicono che è un segno di normalità. Forse. Ma sembra sbagliato. Perché la guerra non è finita. Gli ostaggi non sono liberi. I soldati continuano a combattere. E noi litighiamo di nuovo come prima, come se nulla fosse successo. Eppure, in sottofondo, si percepisce che nulla è davvero normale. La vita dopo il 7 ottobre è cambiata. Ma è la nostra vita e deve andare avanti. Noi teniamo duro: alla nostra famiglia, alla musica, alle conversazioni, al lavoro, alle piccole cose che ci danno sostegno. E alla speranza che forse impareremo ancora qualcosa. E che un giorno riusciremo a ritrovare la nostra unità, nonostante tutto. E che presto tutti gli ostaggi torneranno a casa. Anche quelli che non sono più in vita. Che possano finalmente riposare in pace.
(Israel Heute, 6 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gli ultraortodossi insistono su una regolamentazione delle esenzioni dal servizio militare
GERUSALEMME – Da alcuni giorni il futuro del governo israeliano è incerto. Come già in precedenti crisi governative, il problema riguarda la regolamentazione del servizio militare degli ultraortodossi. I credenti osservanti lamentano che il governo stia ritardando il voto su una legge che prevede delle deroghe. Nel giugno 2024, la Corte Suprema aveva stabilito all'unanimità, con una decisione storica, che le deroghe per gli ultraortodossi non hanno alcun fondamento giuridico. La nuova legge dovrebbe servire a crearne uno. In risposta alla sentenza, a luglio l'esercito ha iniziato a reclutare con maggiore intensità gli ultraortodossi, ma con scarsi risultati. Ad aprile, su 19.000 cartoline di precetto, solo 232 uomini hanno iniziato il servizio militare. Attualmente in Israele vivono circa 80.000 ultraortodossi soggetti all'obbligo di leva.
• Il governo sotto pressione Secondo la volontà dei due partiti ultraortodossi, Ebraismo Unito della Torah e Shas, la Knesset avrebbe dovuto approvare la legge entro la fine della festa di Shavuot, il 3 giugno. I partiti avevano già fissato delle scadenze, ma poi le avevano lasciate scadere. Mercoledì, tuttavia, il Consiglio dei Saggi della Torah ha dato istruzioni al leader del partito Degel HaTora, Moshe Gafni, di uscire dalla coalizione. Degel HaTora forma insieme ad Agudat Israel l'alleanza politica Ebraismo Unito della Torah (UTJ), che è rappresentata con sette seggi alla Knesset. Secondo quanto riferito, anche Agudat Israel sta spingendo per la fine della coalizione. L'UTJ non può però far cadere il governo da solo, poiché quest'ultimo dispone di una maggioranza di 8 voti alla Knesset. Lo Shas, con 11 seggi il più forte dei due partiti ultraortodossi, vuole però attendere gli sviluppi dei prossimi giorni. I partiti dell'opposizione Yesh Atid, Israel Beiteinu e I Democratici vogliono proporre mercoledì prossimo lo scioglimento della Knesset. L'ordine del Consiglio dei Saggi della Torah è stato dato dopo un incontro tra i rappresentanti religiosi e il presidente della commissione difesa, Juli Edelstein, martedì sera. L'incontro sembra non aver soddisfatto i fedeli osservanti. Il politico del Likud ed ex presidente della Knesset chiede una maggiore partecipazione degli ultraortodossi al servizio militare e sanzioni per i renitenti. In caso contrario, la proposta di legge non sarà approvata dalla commissione.
• Opinioni contrastanti La questione del servizio militare per gli ultraortodossi è da molti anni oggetto di dibattito in Israele. Tuttavia, alla luce del massacro terroristico del 7 ottobre e della guerra di Gaza, essa assume un'urgenza ancora maggiore. In particolare, la chiamata alle armi dei riservisti grava sulle famiglie e sulle imprese. Partiti come Yesh Atid e Israel Beiteinu sostengono tradizionalmente che la difesa del Paese debba essere distribuita su tutte le spalle, quindi anche sugli ultraortodossi. Ciò è tanto più vero in quanto la percentuale di ultraortodossi in Israele è in forte crescita grazie alla natalità elevata. I credenti osservanti continuano a insistere su deroghe a favore dello studio della Torah. A dicembre, l'ex rabbino capo sefardita Yitzhak Yosef aveva suscitato scalpore affermando che era proibito arruolarsi nell'esercito. Egli aveva anche lamentato che alcuni ultraortodossi che lo avevano fatto avevano perso la fede.
• Pubblicata una registrazione segreta Il capo del governo Benjamin Netanyahu sembra tenere d'occhio questo aspetto. Mercoledì, l'emittente televisiva “Kanal 13” ha pubblicato la registrazione segreta di una conversazione tra lui e il rabbino Moshe Hirsch. Nella conversazione, avvenuta a marzo, Netanyahu ha affermato che unità dedicate agli ultraortodossi dovrebbero preservare la loro fede e il loro stile di vita. Netanyahu ha spiegato che l'esercito sta attualmente creando le condizioni per integrare gli ultraortodossi, “in modo che chi arriva come haredi possa ripartire come haredi”. Ha poi aggiunto: “Non vogliamo solo proteggere lo Stato di Israele, ma anche il mondo della Torah”. Netanyahu ha tuttavia messo in guardia dal procedere troppo in fretta con la legge, perché potrebbe fallire per motivi procedurali. Inoltre, l'esercito avrebbe bisogno di più tempo per prendere le misure necessarie. Durante il colloquio, Netanyahu ha anche affermato che l'ex ministro della Difesa Joav Gallant e l'ex capo dell'esercito Herzi Halevi si erano opposti a questi sforzi. Poiché entrambi non sono più in carica, la strada sarebbe libera per una regolamentazione legislativa. Il sito di notizie “Times of Israel” ha tuttavia sottolineato che sia Gallant che Halevi erano favorevoli a unità ultraortodosse e alla promozione dei credenti osservanti. Halevi, ad esempio, si era espresso a favore della creazione di una scuola talitica nella Valle del Giordano per i soldati ultraortodossi di stanza nell'est del Paese. Secondo diversi media, Netanyahu sta attualmente cercando di mediare tra le posizioni con una “maratona” di incontri. Vuole evitare la fine del governo nel bel mezzo della guerra. Le prossime elezioni regolari sono previste per ottobre 2026.
(Israelnetz, 5 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Milano si prepara ad accogliere un dibattito pubblico sul conflitto israelo-palestinese con la manifestazione “Due Popoli. Due Stati. Un destino”, in programma nel pomeriggio al Teatro Franco Parenti, promossa da Azione e Italia Viva. Un appuntamento, al quale però non parteciperà Walker Meghnagi, presidente della Comunità ebraica di Milano.
«Come ho detto, capisco le motivazioni dell’evento, ma non condivido alcune delle posizioni espresse», spiega Meghnagi a Pagine Ebraiche. «Non sarò in sala, ma incontrerò i promotori dell’iniziativa prima dell’inizio, per un confronto diretto. Niente dibattiti pubblici, ma un dialogo franco e costruttivo». Al tavolo saranno presenti esponenti di Azione, Italia Viva e del Partito democratico.
Il presidente degli ebrei milanesi sottolinea il valore del dialogo, anche con interlocutori critici: «Il mio ruolo istituzionale è quello di confrontarmi con tutte le forze politiche che lo desiderano, anche quando ne contesto le posizioni. Non condivido quanto è stato detto su Israele da alcuni dei partecipanti, ma penso sia fondamentale mantenere aperto un canale di comunicazione».
Rimane la forte preoccupazione rispetto a certa narrativa: «Si può criticare il governo di Benjamin Netanyahu, ma associare Israele al genocidio è non solo falso, ma estremamente pericoloso. Lo dimostra l’impennata dell’antisemitismo registrata a livello globale». Simili accuse, rileva Meghnagi, non si limitano a colpire lo stato di Israele, ma finiscono per ricadere sull’intero popolo ebraico, attribuendo una responsabilità collettiva per crimini non commessi. Una distorsione retorica, conclude, «che alimenta l’odio antisemita da riconoscere e contrastare con assoluta fermezza».
Esporre la bandiera palestinese dai balconi non significa preoccuparsi per la sorte dei bambini della Striscia, ma schierarsi con chi vuole distruggere Israele. È questo il gioco dei terroristi: usare le vittime civili per rinfocolare l'antisemitismo latente.
di Silvana De Mari
Lo scopo della strage del 7 ottobre era scatenare una dura reazione dello Stato ebraico, che avrebbe inesorabilmcnie causato morti tra la popolazione
Chi adesso sventola i vessilli pro Pal non ha invece battuto ciglio per l'uccisione di donne e fanciulli a opera dei miliziani islamici
Non date da mangiare al drago. Non buttate benzina sul fuoco. Qual è la definizione di orco? L'orco è colui che ha come scopo l'uccisione dei bambini; quando può li uccide con particolare ferocia, felice di causare dolore. Dopo averli uccisi festeggia. L'uccisione del bambino e il dolore sono lo scopo dell'orco. L'azione dell'orco non è un atto di guerra.
I bombardamenti di Dresda e Berlino, per citare i due più terribili, avevano lo scopo di causare una resa. I morti che hanno provocato erano il mezzo per ottenere un fine. Nei campi di sterminio la morte era il fine. Israele combatte dal 7 ottobre una guerra che non voleva e che è stata provocata. Gli zuzzerelloni di turno stanno scrivendo che il 7 ottobre non è mai esistito, ma che in realtà Israele se lo è cercato o se lo è fatto da solo, per il piacere di subire bombardamenti da Ovest, Gaza, Nord, Libano, Est, Iran e Sud Yemen, di avere l'economia distrutta e di mandare i propri soldati a morire. Scrivono che il 7 ottobre era la scusa per occupare Gaza. Israele aveva già Gaza: se ne sono andati nel 2005, nella speranza della pace, lasciando dietro di sé infrastrutture favolose, desalinizzatori, impianti di irrigazione, serre, che sono state poi distrutte in quanto «sioniste». Durante la presenza israeliana a Gaza sono stati costruiti scuole, ospedali, strade e la popolazione è raddoppiata grazie al benessere.
Coloro che hanno massacrato il 7 ottobre sono stati in tutto e per tutto orchi. Hanno bruciato, stuprato, deriso il dolore. Hanno ucciso bambini, sventrato donne incinte. Hanno rapito due fratellini, rispettivamente di 10 mesi e 4 anni, rapiti insieme alla loro mamma, per poi essere strangolati un mese dopo il loro rapimento. Qual è stato lo scopo del massacro del 7 ottobre? Scatenare la risposta israeliana, che era inevitabile. O forse no? Se tutto il mondo, Papa, vescovi, cardinali, parroci e frati, ogni singolo giornalista, ogni singolo blogger, ogni singolo attore, ogni singolo regista e soprattutto ogni personaggio politico da Vladimir Putin all'ultimo deputato 5 stelle, si fossero alzati in piedi compatti con le bandiere israeliane in mano, per esprimere la loro indignazione e la vicinanza al Paese ferito, forse Israele si sarebbe fermata. Se ogni singolo occidentale si fosse offerto come ostaggio in cambio dei due fratellini rapiti, forse Hamas sentendosi disapprovata avrebbe restituito gli ostaggi e Gaza sarebbe in piedi. Non è successo niente di tutto questo. Non solo le condoglianze sono state poche, svagate e sussurrate con poche parole di circostanza, ma al contrario, sono iniziate immediatamente le accuse di genocidio.
L'accusa di genocidio è una costante quando si parla di Israele. Mentre guerre atroci insanguinano il mondo nell'indifferenza generale, da sempre gli occhi sono puntati su Israele. Anche nel 1982 Israele è stato accusato di genocidio: come sempre non aveva cominciato la guerra, e come sempre era stato considerato irrilevante che si stesse difendendo. Israele aveva risposto al fuoco del Libano e come in tutte le risposte militari aveva causato morti civili. Lo scopo della guerra era far cessare gli attacchi dal Libano, ma ugualmente gli zuzzerelloni di turno hanno accusato Israele di genocidio, e hanno buttato una bara davanti alla sinagoga di Roma, accusando quindi tutti gli ebrei del mondo, inclusi quelli di Roma, dell'inevitabile risposta israeliana presentata come qualcosa di arbitrario e crudele. Poche settimane dopo la sceneggiata della bara, un'accusa a tutti gli ebrei di essere assassini, quella bara è stata riempita, con la morte di Stefano Taché, bimbo ebreo di 2 anni ucciso davanti alla moschea di Roma.
Per i palestinesi tutti gli ebrei sono colpevoli a prescindere, ma anche tutti i cittadini di un qualsiasi Stato che ha relazioni diplomatiche con Israele. Questa è la giustificazione del terrorismo internazionale. Non esiste un terrorismo tibetano, come non è esistito un terrorismo armeno. Gli ebrei reduci dai campi di sterminio non hanno fatto saltare bus scolastici a Berlino. Il terrorismo contro civili non nasce dal dolore di un popolo: nasce dalla cultura di morte in cui quel popolo è immerso.
Lo scopo del 7 ottobre era scatenare la reazione israeliana. La risposta israeliana inevitabilmente avrebbe causato morti civili, e quelle morti civili, soprattutto bambini, erano e sono la benzina fondamentale per far rinascere l'antisemitismo europeo, farlo zampillare così da rendere accettabile l'idea della distruzione di Israele, e rendere un inferno la vita di ogni ebreo nel mondo. Le vittime civili devono essere il più possibile, soprattutto donne e bambini. Lo hanno spiegato chiaramente i capi di Hamas. Questo è il motivo per cui ai civili è vietato l'ingresso nei 500 chilometri di tunnel che costituiscono una terrificante città della morte e della guerra sotto casa, ma che sono anche ottimi rifugi antiaerei.
Cosa dobbiamo fare per evitare questi morti?
Quello che adesso tutti stanno facendo, cioè parlarne, è il miglior sistema per aumentare questi morti. Il male sfrutta la parte migliore di noi, in questo caso la compassione per i bambini. Innumerevoli persone dai loro balconi o sulla loro pagina Facebook stanno esponendo la bandiera palestinese se pensando che esporre quella bandiera voglia dire: mi dispiace per i bambini palestinesi uccisi. Il fatto che quasi nessuno abbia esposto la bandiera israeliana il 7 ottobre vuol dire chiaramente che dei bambini israeliani non importa nulla o, peggio, che ritengono gli ebrei mentitori, cioè che si sono inventati la morte dei loro figli pur di poter uccidere. I significati della bandiera palestinese, soprattutto se esposta da gente che non ha esposto quelle israeliana il 7 ottobre, sono tre: voglio la distruzione dello Stato di Israele, articolo uno di Hamas; voglio lo sterminio di ogni ebreo nel mondo, articolo sette di Hamas; ho trovato lodevole l'assassinio di civili inermi israeliani.
Secondo alcuni la cosa da fare è esporre entrambe le bandiere, quella della Palestina e quella di Israele. In realtà anche questo è sbagliato perché vorrebbe comunque continuare a tenere l'attenzione sul conflitto del Medio Oriente, conflitto fortunatamente molto meno sanguinoso di altri, e questa azione è il motore di tutto. Qualcuno ricorda i morti causati da Putin in Cecenia? Avevano fatto l'attentato di Beslan, 300 bambini uccisi. Qualcuno ricorda il numero dei morti nella guerra in Iraq? Avevano le armi di distruzione di massa. No, forse non ce le avevano. Qualcuno ricorda accuse di genocidio?
La nostra attenzione, e la nostra compassione, è la benzina della distruzione del Medio Oriente e dell'assassinio dei suoi bambini. Nella sola giornata del 29 maggio, sono stati pubblicati ben 61 articoli sulla stampa nazionale dedicati a Gaza e dintorni: la parte stranamente divertente è che sono accompagnati dalle parole «per vincere l' indifferenza» o« per vincere il silenzio». Il silenzio? 61 articoli? È quindi evidente che l'indifferenza è quella delle nazioni che non hanno ancora fatto una coalizione per distruggere Israele.
Dato che la nostra compassione è diventata il motore del male dobbiamo trincerarci nell'indifferenza, o almeno dobbiamo manifestarla. Dobbiamo dichiarare ad alta voce che non ci importa, non ci è mai importato né mai ci importerà delle sofferenze dei palestinesi. E falso? A maggior ragione dobbiamo dichiararlo perché è l'unica maniera perché quel popolo possa uscire da quelle sofferenze. È inutile che ammazziate altri bambini israeliani perché i vostri possano essere esposti ai bombardamenti: non ci interessa.
(La Verità, 2 giugno 2025)
Mentre piovono bombe, si marcia per la pace: tra Gaza e Tel Aviv, dolore senza tregua
di Anna Balestrieri
Le tensioni in Israele continuano a crescere con nuovi sviluppi militari e proteste civili. In un’escalation inaspettata, gli Houthi yemeniti hanno rivendicato un attacco diretto contro il cuore delle infrastrutture civili israeliane, l’aeroporto Ben Gurion, mentre Gaza continua a contare le vittime di una guerra che sembra non conoscere tregua. Parallelamente, in Israele, cresce la mobilitazione contro il conflitto con una marcia simbolica da Tel Aviv fino al confine con la Striscia, tra richieste di pace e controversie sull’identificazione con le vittime.
• Attacco missilistico Houthi all’aeroporto Ben Gurion Secondo quanto riportato dall’emittente yemenita Al Masirah, le forze armate yemenite fedeli agli Houthi hanno lanciato un missile balistico ipersonico “Palestine-2” contro l’aeroporto Ben Gurion, nei pressi di Tel Aviv. Il portavoce militare Yahya Sariya ha dichiarato che “l’operazione ha avuto successo” e che l’attività dell’aeroporto è stata sospesa. L’azione avrebbe anche impedito, per il secondo giorno consecutivo, l’atterraggio di un aereo cargo militare statunitense in Israele. Il gesto viene presentato come “un sostegno al popolo palestinese oppresso”, con un significato strategico e simbolico che intensifica ulteriormente la regionalizzazione del conflitto in corso a Gaza.
• I morti dalle due parti A Gaza la conta dei morti continua drammaticamente a salire. Purtroppo gli unici dati a disposizione sono quelli del Ministero della Salute della Striscia, controllato da Hamas, impegnato ormai dall’inizio della guerra a diffondere informazioni false per danneggiare la reputazione di Israele. Da parte israeliana, durante la settimana si sono contati quattro caduti tra i soldatiche servono nell’esercito. Lunedì, tre soldati israeliani sono stati uccisi nel nord della Striscia di Gaza, nella zona di Jabalya, a causa dell’esplosione di un ordigno piazzato lungo la strada logistica che stavano percorrendo con un Humvee. Le vittime sono il sergente maggiore Lior Steinberg (20 anni, di Petah Tikva), il sergente maggiore Ofek Barhana (20 anni, di Yavne) e il sergente maggiore Omer Van Gelder (22 anni, di Ma’ale Adumim), parente di un altro soldato ucciso sei mesi fa in Libano. Altri due soldati sono rimasti feriti in modo moderato. Le forze IDF sono intervenute per evacuare i feriti, operando in un’area disseminata di esplosivi, senza scontri attivi durante l’operazione. I cinque militari stavano partecipando a un’operazione per distruggere infrastrutture terroristiche sotterranee e di superficie. Il capo di stato maggiore Eyal Zamir ha ordinato l’espansione dell’offensiva di terra a Gaza e la creazione di nuovi centri di distribuzione umanitaria. Secondo Zamir, Hamas ha perso il controllo dell’enclave. L’esercito israeliano ha annunciato che martedì è stato ucciso in combattimento nel nord della Striscia di Gaza il sergente maggiore della riserva Alon Farkas, di 27 anni. Nello stesso episodio, un altro soldato è rimasto gravemente ferito. Farkas, originario del Kibbutz Kabri nel nord di Israele, era studente di ingegneria all’Università Ben Gurion. Dall’inizio della guerra il 7 ottobre 2023, sono caduti 861 soldati israeliani. Dalla fine della tregua il 18 marzo 2025, sono stati uccisi 12 soldati e un ufficiale della polizia di frontiera a Gaza, oltre a due soldati morti in incidenti stradali operativi (uno a Gaza, l’altro sulle alture del Golan).
• Aiuti umanitari nel mirino: strade bloccate e nuove vittime L’esercito israeliano ha messo in guardia i residenti della Striscia dal recarsi verso i centri di distribuzione degli aiuti, dichiarando che le strade che vi conducono sono ora considerate “zone di combattimento”. Questo avvertimento segue la morte di almeno 27 palestinesi, colpiti ieri mentre aspettavano il cibo fornito dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti. La GHF ha sospeso temporaneamente la distribuzione per “lavori di aggiornamento, organizzazione e miglioramento dell’efficienza” e ha dichiarato di essere in trattativa con le Forze di Difesa Israeliane per rafforzare le misure di sicurezza intorno ai propri punti di distribuzione. Lo smistamento degli aiuti umanitari è stato oggetto di una serie di accuse infondate all’esercito israeliano.
• Bombardamenti israeliani contro obiettivi siriani A conferma della complessità e dell’espansione del conflitto, le Forze di Difesa Israeliane (Idf) hanno colpito stamattina obiettivi militari in Siria, nella zona meridionale del Paese, in risposta a un attacco missilistico lanciato ieri dalle alture del Golan. “Il regime siriano è responsabile di ciò che accade nel suo territorio”, ha dichiarato l’esercito israeliano in un comunicato, “e continuerà a sopportarne le conseguenze finché permetterà attività ostili contro Israele”.
• La protesta si muove: marcia per la pace da Tel Aviv a Gaza In mezzo a questo scenario bellico, una voce diversa si è alzata dalla società civile israeliana. Un gruppo di manifestanti anti-guerra ha dato il via a una marcia di tre giorni da Tel Aviv fino al confine con la Striscia di Gaza, chiedendo un accordo per il rilascio degli ostaggi ancora trattenuti da Hamas e la fine delle ostilità. Si tratta dell’ultima di una serie di marce di protesta organizzate negli ultimi anni da attivisti israeliani. In passato, marce simili avevano portato i manifestanti da Tel Aviv a Gerusalemme, culminando in sit-in di massa davanti alla Knesset. Nonostante i numeri iniziali siano modesti, gli organizzatori prevedono che la partecipazione crescerà sensibilmente nei prossimi giorni, soprattutto in prossimità del confine. Sono attesi anche diversi parenti degli ostaggi. Per venerdì è prevista una “White March” guidata da una vasta coalizione di organizzazioni di sinistra, coordinata dal movimento ‘Standing Together’. Tuttavia, la marcia non è stata accolta senza polemiche. Alcuni manifestanti sono stati contestati per aver esposto immagini di bambini palestinesi uccisi nei bombardamenti su Gaza, invece che ritratti degli ostaggi israeliani, come i fratellini Bibas, assassinati da Hamas. Il dibattito sull’identificazione delle vittime — e su chi abbia diritto di rappresentare il dolore — rimane così uno dei nodi più delicati in una società israeliana divisa, scossa e affaticata da mesi di guerra.
Al Jazeera detta l'agenda, i media riportano bufale Al Jazeera detta l'agenda, i media riportano bufale
di Ugo Volli
A inizio giugno si è diffusa nei media di tutto il mondo, a partire dalla BBC, la notizia lanciata dalla "Mezzaluna Rossa Palestinese", secondo cui l'Esercito israeliano aveva ucciso oltre 30 cittadini di Gaza presso uno dei nuovi centri di distribuzione di aiuti. Ma da dove viene questo numero? Da Hamas, come sempre. Parlando all'AFP, il portavoce di Hamas, Mahmud Bassal, aveva dichiarato: "Il numero dei martiri del massacro al centro di aiuti americano di Rafah è salito ad almeno 22, con oltre 120 feriti, inclusi bambini". Poi ha portato il numero a 31. Si è diffuso anche il solito filmato con immagini raccapriccianti. Peccato che non fosse vero niente, e la BBC è stata costretta ad ammettere di essersi accorta che il video era stato girato in un altro luogo e in tempo diverso, e soprattutto che i filmati dell'impresa americana dei soccorsi mostravano che non c'era stata nessuna sparatoria. Ma su tutti i giornali del mondo era apparsa in prima pagina la fake news sugli israeliani assassini, e le smentite erano state pubblicate tardi e solo nelle pagine interne.
Era sabato, invece, quando rom Fletcher, sottosegretario delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, aveva dichiarato alla solita BBC che "ci sono l4mila bambini che moriranno nelle prossime 48 ore se non riusciremo a raggiungerli". Poche ore dopo, l'Onu stessa è stata costretta a smentire: non c'è nessuna previsione di questo tipo. Anche qui, titoloni in tutto il mondo per la fake news e silenzio sulla smentita.
Veniamo in Italia, all’1 giugno. "Hamas apre alla tregua. Israele dice no", era il titolo in caratteri cubitali del quotidiano La Stampa. Repubblica, Domani e Avvenire titolavano in maniera simile. Esattamente il contrario della verità. Come ha chiarito lo stesso giorno proprio l'inviato americano Steve Witkoff, Israele aveva ufficialmente accettato la sua proposta e invece Hamas aveva risposto con una lettera riproponendo le sue vecchie condizioni. Il che costituiva chiaramente un rifiuto. Anche in questa occasione la fonte degli "autorevoli" quotidiani italiani era Hamas, magari attraverso quell'ufficio stampa del terrorismo che è Al Jazeera. Di qui arriva quotidianamente il numero di morti a Gaza (peraltro tutti qualificati come civili, per tre quarti donne e bambini, come se a Gaza non ci fosse una guerra e Israele non fosse lì per distruggere le truppe terroriste): cifre più volte smentite da indagini indipendenti ma sempre rilanciate dai media come verità assolute. Le smentite e le dichiarazioni israeliane sono sistematicamente ignorate dalla stampa, come se non ci fossero.
Quelle che ho elencato sono solo le ultime "gaffe" dei media internazionali e italiani. Ma si tratta di uno stillicidio quotidiano, iniziato almeno la sera del 17 ottobre 2023, quando ancora le operazioni terrestri non erano incominciate e tutta la stampa internazionale riportò la notizia di un bombardamento israeliano sull'AlAhli Arabi Baptist Hospital con almeno 500 vittime. Poi venne fuori che l'ospedale era intatto e l'esplosione era avvenuta in cortile, che i morti non erano 500 ma una ventina, soprattutto che non c'era stato nessun bombardamento israeliano ma la ricaduta di un missile difettoso sparato da Gaza contro Israele. Bisogna chiedersi il perché di questa soffocante campagna di stampa contro Israele, che fa dei media tradizionalmente più autorevoli (BBC, New York Times, Washington Post, o in Italia Repubblica, Stampa, Corriere) contenitori sistematici di fake news molto peggiori dei famigerati social. Non è naturalmente una congiura, è qualcosa di peggio: la sincera, diffusa convinzione che il compito dei media sia non informare in questo campo come in altri, ma educare il pubblico a pensare in modo giusto. Cioè a favore degli islamisti, contro l'Occidente e soprattutto contro Israele. Perché si consolidi una pace bisognerà che si de-radicalizzino non solo i palestinesi - che per lo più appoggiano i peggiori crimini terroristi - ma anche i giornalisti e gli accademici occidentali, che in grande maggioranza fanno lo stesso.
Hamas ha già vinto la sua guerra: delegittimare Israele e accreditarsi in Occidente, così ha ribaltato fatti e verità
di Rodolfo Belcastro
In tempi di guerra, ogni parola è un atto politico. Ogni immagine, ogni frame, ogni omissione contribuisce a modellare il campo simbolico e morale del conflitto. E nella guerra in corso tra Israele e Hamas, una battaglia si è già conclusa, ed è quella dell’informazione. Nonostante la sproporzione militare evidente tra le parti, Hamas ha saputo mettere in campo una strategia comunicativa tanto sofisticata quanto spietata, che ha piegato la narrazione globale a suo favore. Non ha sconfitto Israele sul terreno, ma lo ha sconfitto nel tribunale dell’opinione pubblica. Quello che osserviamo non è un effetto collaterale della guerra: è parte integrante della strategia di Hamas. Il gruppo terrorista islamista ha sempre saputo che la vera forza non risiede nelle armi – rudimentali o tecnologiche – ma nella capacità di indirizzare il giudizio morale delle masse globali. E per farlo si è dotato, negli anni, di una rete estesa di alleati informali e formali: Ong internazionali che operano nella Striscia senza reale autonomia; opinion maker occidentali pronti a legittimare ogni resistenza purché anti-israeliana; attivisti embedded con l’agenda del gruppo; e soprattutto la galassia dei social, dove i contenuti virali contano più della verifica e della responsabilità editoriale. Hamas ha così trasformato la sofferenza della popolazione palestinese – innegabile e drammatica – in un’arma comunicativa. Le immagini dei bambini feriti, delle madri in lacrime, delle macerie sono state rimosse dal contesto, decontestualizzate, a volte artefatte, e rilanciate con un’unica cornice: quella del colonialismo israeliano, della repressione sionista, dell’apartheid. Una narrazione potente, semplificata, a tratti mitologica, che ha avuto l’effetto di occultare la realtà: ovvero che il conflitto è stato riacceso da un attacco terroristico deliberato, pianificato da mesi, con lo scopo dichiarato di uccidere civili, rapire bambini, umiliare e provocare Israele e interrompere un processo di pacificazione dell’area mediorientale. Mentre gli Accordi di Abramo disegnavano infatti un nuovo scenario di cooperazione tra Israele e il mondo arabo, rompendo decenni di stallo diplomatico, Hamas ha risposto con la sola logica che conosce: la violenza. Eppure il Sabato Nero è già stato rimosso. Il dato più inquietante è che questa strategia ha funzionato anche grazie alla complicità di attori che si ritengono terzi o imparziali. Alcune Ong hanno rilanciato numeri e denunce provenienti da fonti controllate da Hamas senza alcuna verifica indipendente. Alcune testate giornalistiche – anche di grande prestigio – hanno rinunciato a contestualizzare, a confrontare le fonti, a interrogare le responsabilità. E nelle università, nei campus, nei talk show, si è affermata una forma di infantilismo morale che trasforma ogni espressione di vicinanza a Israele in una colpa, mentre si legittima ogni grido di odio e ogni ambiguità nei confronti del terrorismo. Si è creato un vasto movimento di consenso a cui hanno aderito – più o meno spontaneamente – personaggi pubblici, influencer, opinionisti. E siccome di consenso spesso la politica si nutre, in molti hanno cavalcato questo mainstream. La guerra dell’informazione non è un gioco. È uno dei fronti decisivi di questo conflitto. E chi oggi rilancia contenuti manipolati, narrazioni distorte, accuse infondate, contribuisce attivamente a una campagna di delegittimazione che mira non solo a Israele, ma al concetto stesso di democrazia liberale in Medio Oriente. Hamas non vuole solo distruggere lo Stato ebraico: vuole distruggere la sua legittimità, la sua narrazione, la sua ragione d’essere. La lucidità, in questo scenario, è un dovere morale. Non significa giustificare ogni azione militare, né chiudere gli occhi davanti alle vittime civili. Significa però comprendere che dietro le quinte di questo dramma umanitario c’è un’efficace e potente strategia di comunicazione che ha trasformato la verità in un campo di battaglia. E in quel campo, oggi, Hamas ha vinto. Non con i razzi. Ma con i post, i video virali, i silenzi complici e le mezze verità rilanciate da un sistema informativo troppo spesso prigioniero delle proprie ideologie. Per questo, oggi più che mai, servono voci capaci di resistere alla propaganda. Voci che rifiutino la semplificazione e rivendichino la complessità. Perché la pace, quella vera, non si costruisce sulla menzogna. E nemmeno sulla rimozione sistematica della realtà.
“Letters for life”, lettere per la vita, presenta una parte della corrispondenza privata del Rebbe Lubavitch, Rabbi Menachem M. Schneerson, attraverso l’approccio diretto e accessibile del giovane rabbino Levi Y. Shmotkin. È una lettura piacevole e profonda volta ad esplorare il benessere emotivo a partire dalle risposte che il Rebbe ha dato negli anni ai quesiti di ebrei di tutto il mondo che a lui si erano rivolti. Rebbe Schneerson è noto per aver rivestito un ruolo centrale nel mondo ebraico dopo la Shoah. È sopravvissuto ai pogrom russi e alle persecuzioni naziste prima di trasferirsi a New York. Quotidianamente nel suo ufficio e attraverso la corrispondenza rispondeva ai quesiti più diversi di interlocutori, di ogni età e livello di osservanza. Il testo è frutto di un lavoro di oltre cinque anni del rabbino Shmotkin che ha trovato nelle parole del Rebbe grande sollievo ed energia per affrontare un periodo difficile nella prima metà dei suoi vent’anni. Shmotkin ha cercato di presentare ai suoi lettori alcuni strumenti pratici per affrontare la vita con serenità e confidenza. Il rabbino, oggi ventisettenne, ha presentato il testo in oltre 60 città e ha da poco iniziato un tour europeo che ha visto tra le sue mete anche Roma. Qui il testo è stato presentato al Tempio Beth Eliyahu di Roma nell’ambito di una conversazione filosofica tra l’autore e Rav Zalmen. Shmotkin ha cercato di evidenziare alcuni temi e concetti ricorrenti che si possono rilevare nelle risposte del Rebbe suddividendoli in paragrafi finalizzati ad aiutare il lettore ad affrontare argomenti riconducibili alla sfera emotiva e psicologica attraverso le parole del Rebbe. E così, tra le pagine di Shmotkin si parla di come costruire buone abitudini, di come superare l’oscurità interiore, il malcontento, le preoccupazioni o ancora di come avere il coraggio di cambiare. Si tratta di temi che emergono nelle risposte del Rebbe rivolte ad interlocutori molto diversi tra loro. È il caso di una lettera indirizzata ad un adolescente vissuto negli anni Cinquanta o ad una donna che chiede consigli per migliorare il suo umore, o ancora ad una signora che stava maturando un forte senso di colpa per una vicenda di cui si riteneva colpevole. Nella conversazione con Rav Zalmen, Shmotkin ha parlato dell’importanza di essere presenti come esseri umani nelle relazioni interpersonali, della solitudine, del pericolo dell’autocommiserazione e della dipendenza che essa può provocare nelle persone. Secondo il rabbino Shmotkin, nella visione del Rebbe era fondamentale entrare in contatto con un livello più alto di noi stessi. «Spesso si ha la sensazione che la Torah sia un insieme di indicazioni pratiche, riti e divieti. Ciò può rendere l’atteggiamento verso le tradizioni un po’ distante e freddo. A volte, chi studia di più scopre una dimensione più spirituale, vasta e profonda, ma raramente si hanno gli strumenti per accedere all’insegnamenti psicologici, emotivi e comportamentali, offerti dalla stessa Torah. Linee guida, aiuti, consigli umani e pratici di cui abbiamo bisogno, soprattutto in periodi di incertezze, dipendenze e fragilità d’animo come questi anni» spiega Rav Zalmen secondo cui «il Rebbe ha sempre mostrato verso il prossimo, ebreo e non, un amore e un’empatia cristallini. Tale approccio si è poi tradotto in consigli e indicazioni pratiche basate sulla Torah che pochi maestri nelle generazioni hanno dimostrato di conoscere e di spiegare ad un pubblico più vasto». Rav Zalmen invita a leggere il lavoro di Shmotkin ritenendo che il messaggio del Rebbe «può aiutarci a renderci più consapevoli del fatto che anche i nostri problemi più intimi e personali trovano risposte e luce nelle nostre tradizioni e insegnamenti millenari. Tocca a noi trovare l’umiltà di ascoltarli».
(Shalom, 5 giugno 2025)
Italia ebraica – I presidenti di Comunità: «Un errore sospendere i rapporti con Israele»
di Adam Smulevich
C’è preoccupazione tra i rappresentanti delle Comunità ebraiche italiane per la decisione di alcune amministrazioni regionali e cittadine di centrosinistra di sospendere i rapporti con il governo israeliano. Una mossa che, è opinione comune, non sarà di nessun aiuto alla pace, al dialogo e alla convivenza. Ma anzi causerà nuove incomprensioni e fratture.Il primo a muoversi in tal senso è stato venerdì scorso Michele Emiliano, il presidente della Regione Puglia. «Il suo atto ci ha lasciati perplessi», spiega Daniele Coppin, consigliere e portavoce della Comunità ebraica di Napoli, referente per tutto il Meridione. «E se da una parte non sembra avere effetti giuridici, trattandosi piuttosto di un invito, è l’aspetto simbolico con le sue conseguenze a essere problematico. Una interpretazione estensiva dello stesso, indipendentemente dalla volontà, rischia di essere discriminatoria verso i cittadini israeliani e per esteso gli ebrei». Dopo la Puglia, potrebbe essere il turno della Campania? Per Coppin, il governatore Vincenzo De Luca «è sempre stato molto sensibile al mondo ebraico, ma ultimamente sembra avere sposato una narrativa allineata alle posizioni propal; non abbiamo avuto nessun segnale che possa procedere nella stessa direzione, ma non lo si può escludere».
Dopo Emiliano l’istanza è stata fatta propria dal presidente dell’Emilia-Romagna Michele De Pascale e da Matteo Lepore, il sindaco di Bologna. «Interrompere i rapporti è un errore, non aiuta il dialogo ma anzi favorisce l’incomprensione», sottolinea il presidente della Comunità ebraica bolognese Daniele De Paz. «La guerra è arrivata a un punto insostenibile, ma servono piattaforme diverse per esprimersi da quelle attuali: certo non può essere la modalità “Palestina libera dal fiume al mare” di molte iniziative propal». Secondo De Paz, per “abbassare la temperatura”, almeno qui in Italia, servono alcuni azioni nette. Il presidente degli ebrei bolognesi ne parlerà nei prossimi giorni con lo stesso De Pascale e si è già confrontato nel merito con l’arcivescovo cittadino Matteo Zuppi. «La prima è chiedere a tutti di fermarsi, da Israele ai terroristi di Hamas», dichiara De Paz. «C’è poi l’esigenza di portare avanti una rappresentazione pubblica che stia sopra le parti e nasca dal dialogo. Non siamo in Medio Oriente, non possiamo permetterci di importare l’odio generato dal conflitto, ma cercare il più possibile di trovare delle formule di ascolto e confronto. Non è facile, ma dobbiamo provarci».
Fortunato Arbib, il presidente della Comunità ebraica di Ferrara, è sgomento. «Tra le competenze che spettano a un presidente di regione non mi pare ci sia quello di interrompere i rapporti con uno stato», riflette. «Purtroppo anche in politica non si presta sufficiente attenzione alle conseguenze di ciò che si dice e fa; c’è molta violenza verbale in in circolazione e il rischio, come vediamo da notizie dalle quali siamo sopraffatti, è che possa diventare violenza anche fisica». Secondo Arbib, nato e cresciuto a Tripoli, costretto alla fuga per i pogrom e le violenze nel paese arabo, «c’è un pericoloso accanimento contro Israele che non considera la storia che ci ha portati fino a oggi». Ed è, a suo dire, un accanimento «irresponsabile».
«Come al solito», sostiene Riccardo Joshua Moretti, il presidente della Comunità ebraica di Parma, «quando qualcuno scatena una provocazione c’è subito chi indipendentemente da tutto si mette in fila: questa situazione ne è una prova». Secondo Moretti, a monte «c’è un problema più ideologico che oggettivo: sono pensieri e azioni unilaterali, dello stesso genere che vediamo rappresentato in molte manifestazioni. Gaza è ormai la capitale ideologica di un pensiero e ne paghiamo le conseguenze anche come ebrei italiani».
È dello stesso avviso Nicoletta Uzzielli, la presidente della Comunità ebraica di Modena: «Stupisce che prima di procedere non si sia dato ascolto al nostro pensiero; il periodo storico è difficile e con atti del genere la situazione può solo complicarsi. Servirebbe una maggior predisposizione all’ascolto del mondo ebraico, con la sua varietà di vedute: sarebbe un esercizio utile, in un momento di forte crescita dell’odio».
Missili dai ribelli Houthi e dalla Siria: nuove minacce alla sicurezza israeliana
di Anna Balestrieri
La tensione lungo i confini israeliani continua ad aumentare, con attacchi missilistici provenienti sia dallo Yemen sia dalla Siria. Per il terzo giorno consecutivo, un missile balistico lanciato dai ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, è stato intercettato dalle difese aeree israeliane.
• La serie di attacchi L’allarme è scattato la sera del 3 giugno intorno alle 21:00 in ampie aree del Paese, tra cui Gerusalemme, il centro di Israele, diverse colonie in Cisgiordania e alcune zone del sud. Secondo quanto riferito dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF), non si registrano feriti né danni materiali. Il missile, che secondo i ribelli era diretto verso l’aeroporto Ben Gurion, ha causato l’interruzione temporanea del traffico aereo per circa 25 minuti. Frammenti dell’intercettazione sono stati rinvenuti nella città di Modiin.
• I missili dalla Siria Solo venti minuti prima, due razzi erano stati lanciati dalla Siria in direzione delle Alture del Golan, segnando il primo attacco da quel fronte in oltre un anno. In risposta, l’esercito israeliano ha colpito postazioni militari nel sud della Siria, attribuendo la responsabilità diretta al presidente siriano Ahmed al-Sharaa. “Il regime siriano è responsabile di quanto accade sul suo territorio e ne pagherà le conseguenze”, ha dichiarato l’IDF in un comunicato. Il ministro della Difesa Israel Katz ha annunciato che la risposta israeliana sarà “totale”. La Siria, da parte sua, ha negato ogni responsabilità, affermando di voler contenere l’operato di gruppi armati non statali e ha condannato i raid israeliani, denunciando gravi perdite umane e materiali. L’episodio rappresenta una nuova fase dell’instabilità regionale.
• L’escalation di aggressività degli Houthi Da marzo, quando Israele ha ripreso le operazioni militari contro Hamas nella Striscia di Gaza, gli Houthi hanno lanciato almeno 45 missili balistici e 10 droni contro Israele. Benché molti siano stati intercettati o siano caduti fuori bersaglio, un attacco a luglio 2024 aveva causato la morte di un civile a Tel Aviv e diversi feriti, portando Israele a colpire per la prima volta obiettivi in Yemen. Gli attacchi missilistici si sono intensificati anche in seguito ai raid israeliani dello scorso mese contro aeroporti e porti yemeniti sotto controllo Houthi, inclusi lo scalo di Sanaa e le infrastrutture portuali di Hodeida e Salif, in risposta all’attacco del gruppo terroristico all’aeroporto Ben Gurion. Il gruppo Houthi ha iniziato a colpire Israele e obiettivi marittimi nell’area nel novembre 2023, in risposta alla guerra scoppiata dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas. Una tregua siglata a gennaio 2025 aveva portato a una temporanea sospensione degli attacchi, ripresi con forza dopo la ripresa delle ostilità. Mentre la comunità internazionale segue con preoccupazione l’evolversi degli eventi, Israele si trova nuovamente a dover fronteggiare minacce su più fronti, con la prospettiva concreta di un conflitto prolungato a bassa intensità su ogni confine.
Quando lo studio della Torah diventa un cavallo di battaglia politico
L'escalation non è stata una sorpresa, ma la sua portata è storica. Per la prima volta dalla fondazione dello Stato di Israele, un capo di Stato maggiore in carica minaccia l'arresto di studenti ultraortodossi della yeshiva che si sottraggono al servizio militare obbligatorio. La reazione non si fa attendere.
GERUSALEMME - Decine di migliaia di riservisti vengono nuovamente chiamati alle armi, molti di loro per la seconda volta dall'inizio della guerra. Le tensioni nella società israeliana si acuiscono. Ma ci sono anche soldati ortodossi come Haim Treitel. Da un lato ci sono giovani uomini e donne che mettono da parte la famiglia, il lavoro e gli studi per difendere il loro Paese, spesso in condizioni difficilissime e per mesi. Dall'altro lato, un numero crescente di uomini ultraortodossi si sottrae al servizio militare per convinzione religiosa, con il sostegno dei propri leader politici e spirituali. Di fronte alla guerra in corso, una domanda scomoda si pone con nuova urgenza: per quanto tempo un Paese in stato di emergenza può mantenere una così fondamentale disuguaglianza tra i suoi cittadini?
• Ondata di arresti
Il capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha annunciato a maggio un'ondata di arresti contro gli ultraortodossi che non si presentano alla visita medica nonostante l'ordine di arruolamento. Le fazioni ultraortodosse in Parlamento hanno capito subito cosa questo comportasse. Per la prima volta dalla fondazione dello Stato di Israele, gli studenti della yeshiva, il cui studio della Torah è considerato lo scopo della loro vita, potrebbero essere sanzionati perché nessuna legge garantisce il loro status speciale. Attualmente sono stati inviati circa 20.000 ordini di arruolamento a giovani ultraortodossi. Il capo di Stato Maggiore ne prevede altri 60.000. Di conseguenza, ogni giovane ultraortodosso che ha raggiunto l'età di leva riceverà questa comunicazione. Tuttavia, la leadership spirituale degli ultraortodossi ha invitato a ignorarla. Il rabbino capo sefardita e leader spirituale del partito ortodosso Shas, Rabbi Yitzhak Yosef, ha addirittura detto: “Strappate i decreti di arruolamento, gettateli nel water e tirate lo sciacquone!”. In alcuni settori delle fazioni ultraortodosse in Parlamento c'è grande rabbia nei confronti del capo di Stato Maggiore. Alcuni lo accusano di comportarsi come un attore politico che vuole far cadere il governo, come è stato detto al ministro della Difesa Israel Katz. Ma si tratta di accuse infondate. Dal punto di vista del capo di Stato Maggiore, non è sostenibile richiamare nuovamente decine di migliaia di riservisti senza reclutare contemporaneamente nuovi gruppi per adempiere al servizio militare obbligatorio. Non da ultimo, anche la Corte Suprema lo ha ripetutamente richiesto. Agli ultraortodossi non importa se il capo di Stato maggiore ha ragione o meno. Ritengono di non poter sostenere un governo sotto il quale “gli studenti della yeshiva vengono arrestati e incarcerati solo perché studiano la Torah”. Hanno segnalato chiaramente a Netanyahu che se anche un solo studente della yeshiva verrà arrestato, lasceranno immediatamente il governo.
Per molti ultraortodossi, lo studio della Torah non è solo un percorso formativo personale, ma un servizio spirituale di importanza nazionale. Credono che lo studio intensivo della Torah offra protezione spirituale al popolo di Israele. Questo è importante almeno quanto la protezione fisica fornita dall'esercito. Ai loro occhi, uno studente della yeshiva difende il Paese in modo metafisico, attraverso l'osservanza dei comandamenti, la preghiera e lo studio assiduo. Paragonabili ai sacerdoti che non andavano in guerra, ma servivano solo nel santuario, gli studenti della Torah si considerano un'élite spirituale il cui compito è quello di influenzare il destino collettivo di Israele attraverso una grande vicinanza a Dio. L'ortodossia israeliana rifiuta lo Stato laico israeliano sotto molti aspetti. In particolare, l'ideale del “nuovo ebreo”, forte, combattivo e laico, è molto sgradito in questi ambienti. Il servizio militare rappresenta in questo senso uno stile di vita che essi considerano profano, sacrilego o addirittura pericoloso per la loro fede. L'esercito è visto come un luogo in cui i giovani uomini sono indotti ad adottare valori secolari. Lì sarebbero esposti a influenze non kosher, come ad esempio una promiscuità tra i sessi. Anche l'accettazione incondizionata di una nuova autorità è vista con occhio critico. Molti rabbini temono che il servizio militare possa mettere in pericolo spiritualmente gli studenti della yeshiva e persino allontanarli dalla fede. In molti casi, i rabbini non riconoscono affatto allo Stato di Israele l'identità corrispondente alla promessa messianica. Piuttosto, lo Stato è solo una struttura profana che viene tollerata solo finché protegge la vita ortodossa secondo la Torah. Uno Stato che non rispetta i comandamenti di Dio non può avanzare richieste religiose a chi teme Dio.
• Potere politico
I partiti ultraortodossi sfruttano il loro ruolo nelle mutevoli coalizioni di governo per rimuovere ripetutamente l'argomento del servizio militare obbligatorio dall'ordine del giorno. Il loro potere politico si basa in parte sul fatto che considerano lo studio della Torah una “linea rossa”: chiunque la tocchi mette in pericolo il governo. Nonostante tutte le minacce e le crisi degli ultimi mesi, gli ultraortodossi hanno sempre ceduto nei momenti decisivi e hanno sostenuto Netanyahu nell'approvazione del bilancio dello Stato e di altre leggi. Invece di agire, si sono limitati a proteste simboliche come l'assenza alle sedute plenarie. A porte chiuse hanno dichiarato: "Non c'è alternativa. Dopo le dimissioni non ci aspetta un governo più piacevole, anzi». Altri hanno affermato: «Chi vuole nuove elezioni a causa della legge sul servizio militare obbligatorio? È proprio quello che ci manca». Eppure tutti i partiti ultraortodossi sono d'accordo: se uno studente di yeshiva viene costretto a presentarsi alla visita di leva, il governo cade. Il leader del partito Shas, Arie Deri, ha recentemente chiarito in un'intervista: “Non appena un solo studente della yeshiva, sia nella sua yeshiva che a casa sua, verrà arrestato, per noi sarà una linea rossa. Non potremo più far parte di questo governo”. Deri ha sottolineato espressamente: “Non è una minaccia, non è una dichiarazione politica, è una posizione fondamentale e irrevocabile. Gli studenti della Torah sono la nostra anima”. Deri sa che alcuni sosterranno che il procuratore generale o la Corte Suprema vogliono rovesciare il governo Netanyahu arrestando ebrei ortodossi. Per questo ha ribadito la sua posizione: «Anche se il procuratore generale, il cui obiettivo è rovesciare la destra, spinge l'esercito e la polizia ad arrestare queste persone, non lo accetteremo in silenzio. Non appena ciò accadrà, rovesceremo il governo».
• Haim Treitel: la Torah nel cuore, il fucile in mano
La foto di copertina dell'ultimo numero della rivista Israel Heute è stata scattata da un giovane fotografo ortodosso di Gerusalemme. È stato lui a mettermi in contatto con il soldato: Haim Treitel, 20 anni. Già prima del 7 ottobre 2023, Haim aveva deciso di compiere un passo insolito per un ebreo ortodosso, arruolandosi volontario nell'esercito israeliano. L'ho chiamato, ma sono riuscito a raggiungerlo solo a tarda sera. Haim mi ha raccontato quanto fosse stata difficile questa decisione. A 17 anni, all'insaputa dei genitori, si era comprato uno smartphone. Da sempre era interessato alla politica e desiderava comprendere meglio il mondo. Quando gli ho chiesto cosa lo avesse spinto ad arruolarsi nell'esercito, mi ha risposto: “Mi hanno spinto molti pensieri, ma soprattutto volevo far parte del popolo israeliano. L'ebraismo ultraortodosso ha ben poco in comune con l'ebraismo della società israeliana. Tra i due mondi esiste una tensione insanabile”.
• La porta digitale sul mondo
La leadership spirituale degli Haredim non tollera gli smartphone nella loro comunità, così come non accetta l'esercito. Secondo i rabbini, entrambi seducono gli studenti della Torah. Ma è proprio la porta digitale sul mondo che ha aperto gli occhi a Haim. Ha capito in modo completamente nuovo cosa significa far parte del popolo di Israele, ovvero che si ha la responsabilità di proteggerlo. Come Haim, anche altri giovani trovano il coraggio di uscire dal ristretto mondo religioso. Haim ha sei fratelli. È l'unico della sua famiglia a prestare servizio nell'esercito israeliano. Suo fratello minore gli ha fatto capire che anche lui vuole diventare soldato. Gli ho raccontato che mia sorella è ultraortodossa e ha nove figli, ma nessuno di loro ha prestato servizio nell'esercito. Conosco bene questo conflitto e posso dire che tutti i tentativi di persuasione sono inutili. Si può essere convinti solo di propria iniziativa, come ha fatto Haim. “Mio padre è rimasto scioccato quando gli ho detto che volevo arruolarmi nell'esercito”, racconta Haim. “Ha cercato di dissuadermi in tutti i modi: ‘Prima sposati, poi vediamo’ o ‘Impara qualcosa che ti permetta di guadagnare bene’. Ma niente ha potuto fermarmi. Volevo diventare un combattente. Oggi presto servizio nella brigata Givati”. Alla domanda di suo padre se non avesse paura di morire, Haim ha risposto semplicemente: “No”. Alla fine suo padre gli ha dato la sua benedizione e da allora è sempre stato al suo fianco durante il giuramento e le altre cerimonie dell'unità, insieme ai suoi fratelli. Haim mi ha raccontato che più di sei mesi fa è stato ferito nella Striscia di Gaza, nella zona di Jabalia. Un cecchino palestinese lo ha colpito alla gamba. Oggi sta bene, ma ha ancora bisogno di fisioterapia.
• Un prezzo alto Quando Haim torna nel suo quartiere ortodosso durante il fine settimana, di solito non indossa l'uniforme, solo la sua arma. Non vuole provocare. “Spesso vengo insultato o urlato per strada, ma non mi dà più fastidio”. Molti dei suoi amici ortodossi, dice, vorrebbero arruolarsi nell'esercito, ma hanno paura. Gli studenti della Torah ammirano i giovani soldati che hanno la loro stessa età e sanno usare le armi. “Sono uomini, ma nel loro mondo tutto questo rimane astratto. In realtà vorrebbero farlo, ma alla fine prevale la paura”. Uno studente della Torah ha molto da perdere: la sua famiglia, il suo posto nella yeshiva, la possibilità di un matrimonio adeguato. «Quale famiglia ortodossa», chiede Haim, «vorrebbe dare la propria figlia a un soldato?» Il prezzo da pagare per un passo del genere è alto. Solo pochi sono disposti a pagarlo. La maggioranza della società ortodossa, dice Haim, non capisce la realtà del Paese. I loro rabbini vietano Internet e gli smartphone per proteggerli dal mondo esterno. Invece di affrontare onestamente la sfida, molti si limitano a ripetere scuse banali: “L'esercito non ci vuole” o “L'esercito vuole solo secolarizzarci”. Spinti da questa paura, gli ultraortodossi manifestano per strada, su ordine dei loro leader spirituali. “Meglio morire che servire”, scandiscono. Ma Haim contraddice con forza questo atteggiamento: "Il mondo in cui siamo cresciuti è sbagliato. Vogliamo una Torah con Derech Eretz – imparare la Torah, ma allo stesso tempo lavorare e servire nell'esercito“. ”Derech Eretz“, letteralmente ”la via del mondo", significa che lo studio della Torah non può essere separato dalla vita pratica, dal lavoro e dalla responsabilità sociale. Solo la Torah, senza impegno morale, professionale o civico, sarebbe incompleta. Abbiamo parlato fino a tarda notte. Haim è visibilmente orgoglioso di aver intrapreso questa strada. Questo lo rende parte di una piccola minoranza di studenti della Torah che si oppongono alla linea ufficiale dei loro rabbini. Seguiranno sempre più persone, dice, ma ci vorrà tempo. Perché non si tratta solo di una decisione tecnica, ma di una rivoluzione interiore, contro un intero sistema di valori.
(Israel Heute, 4 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nel libro “Testimoni di un secolo”, Ugo Intini parla di un incontro con Shimon Peres – con cui aveva intessuto un lungo rapporto di amicizia – e ricorda di avergli rivolto una domanda: “Sei sicuro che il senso di colpa per la Shoah possa consentire in eterno agli israeliani di fare ciò che agli altri non è consentito?”. E descrive la faccia del suo interlocutore, “avvolta di tristezza”. Io non concordo con l’autore, perché non mi pare che Israele abbia mai abusato del senso di colpa degli europei; tuttavia, prendendo come punto di riferimento la domanda, verrebbe da dire che dopo il 7 ottobre e gli eventi che hanno seguito quella tragica giornata è finita ogni possibilità per lo Stato ebraico di avvalersi del credito acquisito con 6 milioni di morti. Anzi, siamo arrivati al punto che Israele viene accusato di “genocidio” nei confronti dei palestinesi, come se le operazioni militari nella Striscia di Gaza saldassero il conto con la storia e – perché no? – anche con i regimi nazifascisti del secolo scorso, dal momento che lo Stato ebraico viene accusato di comportamenti analoghi inflitti alle “vittime civili innocenti” di Gaza e dintorni. E Benjamin Netanyahu, detto Bibi, diventa un nuovo Hitler.
Ormai gli ebrei non sono più nemmeno titolari del Giorno della memoria: il 27 gennaio, da quando si è riaperto il conflitto in Medio Oriente, è stato requisito dagli amici di Hamas, si inneggia alla Palestina libera dal fiume al mare, si sventolano i drappi palestinesi e si costringono gli ebrei a chiudersi in casa per non creare disordini, perché la loro presenza (si pensi al caso della Brigata ebraica) costituirebbe una provocazione. E i (presunti?) misfatti del premier e del suo governo ricadono su tutti i cittadini e le istituzioni di Israele, persino sugli ebrei della diaspora.
In Italia anche il governo e la maggioranza di centrodestra hanno saltato il fosso della condanna di Israele, consentendo alle opposizioni (che hanno toccato il fondo del disonore) di criticare sia il ritardo sia l’ambiguità con cui la maggioranza si è mossa. Perché non ci si salva l’anima dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ovvero intimando a Israele di fermarsi, ricordando, però, che tutto è nato dal pogrom del 7 ottobre, e denunciando le responsabilità di Hamas. Perché se è vera - e lo è - la seconda parte del discorso, non è sensata la prima. Perché mai Israele dovrebbe fermarsi se non ha ancora conseguito gli obiettivi dell'azione militare di risposta al massacro dei civili nei kibbutz? Non ha liberato tutti gli ostaggi e non ha vinto la guerra.
Netanyahu ha sicuramente delle gravi responsabilità. Contro il suo popolo prima di tutto. Al potere da molti anni, la sua amministrazione non si è accorta che a un tiro di schioppo dai confini Hamas lavorava alla costruzione di una città sotterranea: un’opera che richiede anni di lavoro, traffici di automezzi, movimentazione di materiali e di manodopera. Un Paese che vanta i Servizi segreti migliori al mondo non è stato in grado di rivolgere quell’attenzione ai lavori nel sottosuolo che in una qualsiasi città della provincia profonda è il passatempo degli umarell. Come ha potuto il governo non prevedere un attacco – il 7 ottobre – in cui erano mobilitati mezzi e uomini armati, che devono necessariamente prepararsi in anticipo richiamando inevitabilmente l’attenzione? E come ha potuto consentire una sorta di rave party, con migliaia di giovani, nel deserto senza adeguate misure di sorveglianza e difesa?
Anche nella fase della reazione il governo israeliano ha seguito due obiettivi tra loro incompatibili: la restituzione degli ostaggi e lo sradicamento di Hamas nella Striscia. Questa linea di condotta ha proceduto a fasi alterne: il perseguimento del secondo obiettivo era condizionato dalle occasioni di negoziato attinenti al primo; così il mercanteggiamento sugli ostaggi è divenuto una polizza vita per Hamas, mentre cresceva l’isolamento di Israele in Occidente.
L’establishment israeliano ha sottovalutato la campagna mediatica con cui era stato preso di mira, come se stentasse a rendersi conto di quanto accadeva nel mondo e di come nazioni civili e amiche potessero farsi ingannare da una sequela di menzogne. Ha capito solo tardi che era finito il “tempo dell’innocenza” e che era ricomparso in superficie il fiume carsico dell’antisemitismo. Per Israele – sempre più solo – è il momento di fare una scelta. Un popolo che piange 6 milioni di morti deve mettere in conto il sacrificio di qualche decina di ostaggi per portare a termine il solo obiettivo che può garantirgli un futuro: la sconfitta totale di Hamas.
“Dal fiume al mare”. La messa in discussione dell’esistenza dello Stato di Israele
di Stefano Piperno
Un nuovo elemento di riflessione si è presentato inopinatamente nel conflitto tra Israele e Hamas, spia del limite oltre il quale non era immaginabile si potesse arrivare.
L’avvitamento senza apparente sbocco della situazione ha introdotto il seguente elemento inaudito: in accordo con la tesi del movimento terroristico, la messa in discussione dell’esistenza stessa dello Stato di Israele da parte dell’opinione pubblica più radicale, la stessa che continua ad agitare il concetto di genocidio, rappresenta gli israeliani come neo-nazisti, ha rimosso la mattanza del 7 ottobre e la giustifica come atto di logica ritorsione alla ghettizzazione cui Israele avrebbe costretto gli abitanti di Gaza, sorvolando sulla determinazione con cui Sharon nel 2004 impose il ritiro dalla striscia mandando l’esercito a rimpatriare con la forza i coloni riottosi.
È tragicomica una simile proposizione, mai realizzatasi per vie legali e pacifiche, ma solo con mezzi bellici, per citare alcuni esempi: l’Impero Ottomano, la Polonia e la Jugoslavia., oltre ovviamente quello cui mira Putin con “l’operazione speciale” in Ucraina ai giorni nostri.
Spesso è avvenuto il contrario: cioè la creazione di Stati che non esistevano ad opera di potenze vincitrici, il Medio Oriente disegnato dagli Anglo-francesi dopo la Prima Guerra Mondiale ne è l’esempio più eclatante, seguito da molti Stati post-coloniali in tutti i continenti (emblematico il caso di India e Pakistan, costato una migrazione biblica e milioni di morti, per motivi etnico-religiosi non dissimili dal caso ebraico-mussulmano).
È evidente che uno Stato riconosciuto dal diritto internazionale e membro permanente dell’ONU, esiste “per se ipse”, quindi solo la vittoria militare di Hamas potrebbe cancellare Israele dalle carte geografiche.
Bisognerebbe dunque che qualcuno facesse presente ai sostenitori della inverosimile tesi queste circostanze che hanno solide basi storiche.
Gli antisionisti, non dall’invasione di Gaza, ma da sempre hanno ritenuto che la Shoah non giustificasse la trasformazione del “focolare ebraico” in Palestina, promesso dalla dichiarazione Balfour, in uno Stato che si insediasse in territorio arabo.
Le contrarietà di una parte non trascurabile dell’opinione pubblica internazionale verso la politica di Israele è via via cresciuta in occasione delle ripetute crisi e guerre che hanno coinvolto lo Stato ebraico, dopo un periodo di sostanziale appoggio che va dal ‘48 al ‘67.
Senza riassumere i vari tentativi di soluzione del problema, spesso saltati sul filo di lana, è bene ricordare che ci hanno rimesso la vita uomini come Rabin, Sadat e forse lo stesso Arafat, per dire quanto forte da ambo le parti sia l’opposizione all’ipotesi di convivenza sullo stesso territorio di due culture tanto dissimili, anche se la presenza di oltre 2 milioni di arabi cittadini israeliani con pienezza di diritti, dovrebbe far riflettere.
C’è chi continua a sostenere la soluzione dei due Stati secondo la risoluzione dell’ONU, chi si rifà alla tesi di Amos Oz che sosteneva la necessità di un vero e proprio divorzio consensuale con una rigida separazione tra ebrei e mussulmani, come in Irlanda del Nord tra cattolici e protestanti, chi in fine auspica l’annientamento di Hamas, ipotizzando una sudditanza coatta della popolazione di Gaza all’organizzazione terroristica, ipotesi tutta da verificare, perché suscitano più di un dubbio le manifestazioni di giubilo della popolazione dopo il 7 ottobre, la mancanza di opposizione al regime di Hamas e la perdita di ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese presieduta dall’anziano Abu Mazen.
Resta comunque il timore che storicamente situazioni simili si sono sempre risolte con delle guerre che hanno mostrato con chiarezza vincitori e vinti.
Molti sono i dubbi che sono suggeriti da un approccio freddo, razionale e realistico, che riguardano il perché un esercito tra i più forti del mondo, suffragato da armamenti preponderanti, dal monopolio dello spazio aereo, una intelligence tra le più considerate, dopo un anno e mezzo non sia riuscito a liberare gli ostaggi e disarmare i miliziani di Hamas.
Questo fornisce argomenti a chi insinua che Netanyahu prolunghi la guerra per biechi motivi personali, ma per quanto male si possa pensare di lui è da escludere che il numero di vittime tra la popolazione di Gaza e di giovani reclute israeliane sia un prezzo che sia disposto a pagare all’infinito.
Un altro dubbio riguarda il futuro di Gaza e dei suoi abitanti, infatti il governo Netanyahu ha accettato, dopo quasi un mese dal 7 ottobre, la sfida di Hamas, senza però avere un piano per il dopoguerra, con l’unica soluzione possibile dell’occupazione della striscia, assumendo il rischio di futuri attentati e rivolte, l’esatto contrario di quello cui aspira la stragrande maggioranza dei cittadini israeliani (secondo recenti sondaggi il 70%): sicurezza e pace.
Mentre tutto questo avviene sotto i nostri occhi sgomenti, politica e comunicazione, sono venute meno ai loro ruoli istituzionali, cavalcando senza ritegno le pulsioni di pancia di un pubblico privo di memoria storica e facile preda del chiacchiericcio inconsistente di chi ha scelto a priori carnefici e vittime e propone soluzioni diplomatiche cui nessuno seriamente attende.
Da rimarcare le perentorie prese di posizione dei politici europei, parole al vento per placare le ansie e l’indignazione dei cittadini.
La Storia è come un fiume con molte anse, spesso il suo corso torna indietro prima di arrivare al mare, stiamo vivendo una fase di arretramento e il mare è lì che aspetta.
Perché siamo dalla parte di Israele e ci mettiamo la faccia: non intendiamo tacere di fronte al dilagare dell’odio antisemita mascherato da antisionismo.
Questa non è solo una raccolta firme, non è l’ennesimo appello. Vuole essere un manifesto, nel senso proprio del termine: una dichiarazione esplicita di persone di ogni provenienza politica e culturale, di ogni fede e ispirazione, unite nell’intento di dare una voce alle ragioni di Israele. Perché lì è insita, profondamente, la ragion d’essere dell’Occidente e di quei valori di libertà e democrazia che oggi sono minacciati. E perché chi minaccia l’integrità e la sovranità dello Stato di Israele, per le ragioni che ne portarono alla costituzione, minaccia il diritto di ciascun ebreo nel mondo a vivere in sicurezza. «Per primi vennero gli ebrei…», sappiamo come è andata a finire.
• Il perché della raccolta firme Per questi motivi un gruppo di persone si è messo in moto, confrontandosi, consultandosi. E lungo quella strada, dalle preoccupazioni per le imminenti manifestazioni del 6 e 7 giugno, e per tutte le altre che si succederanno, e che inesorabilmente si riveleranno semplicemente espressioni dell’odio per Israele e dunque antiebraico, hanno voluto mettere nero su bianco il loro punto di vista. Netto. Con una iniziativa che doveva inizialmente maturare in tempi più diluiti, e che poi, nell’urgenza dell’agenda che corre, è diventata un’altra cosa: la raccolta di adesioni di chi, in tempi mai tanto difficili, mette nome e cognome, storia e vita al fianco di Israele. Senza paura. L’idea all’inizio sembrava ardita, nel clima che si respira; invece progressivamente è cresciuta, fino a diventare una valanga, mettendo insieme – a ieri pomeriggio – 620 sottoscrittori, ma le adesioni continuano a fioccare ora dopo ora. Personalità della politica, della cultura, dell’università, del mondo delle imprese e delle professioni. Commercianti, avvocati, giornalisti. Donne e uomini uniti dall’esigenza di dare voce – contro tutto e tutti – alla fiera e libera democrazia israeliana, con il Riformista che è diventato veicolo di questo piccolo grande sommovimento di coscienze.
Le adesioni sono arrivate, prima alla spicciolata, poi più spedite, mano a mano che la raccolta prendeva forma, con il coordinamento della chat WhatsApp animata da sette-persone-sette (Fiamma Nirenstein, Nicoletta Tiliacos, Niram Ferretti, Iuri Maria Prado, Bruno Spinazzola, Aldo Torchiaro, Claudio Velardi), che avevano deciso che era venuto il momento di darsi una mossa. E così sono arrivati Massimo De Angelis e Paolo Sorbi, cattolici pro Israele, le tante firme raccolte da Bruno Gazzo, Presidente della Federazione Associazioni Italia-Israele. E quelle portate dal gruppo Reim, da Udai – emergenza 7 ottobre, dall’Associazione Italia-Israele capitanata da Celeste Vichi. Dal bellissimo gruppo sardo Chenàbura – Sardos pro Israele. Dal gruppo Punto su Israele, ai giornalisti di Radio Radicale, al Gruppo Panem et circenses, all’Associazione Setteottobre.
Né fame né occupazione illegale a Gaza Imprecisioni e inesattezze di Mattarella
Il Presidente della Repubblica ha usato dichiarazioni discutibili per condannare la reazione militare di Israele l'ldf vuole sradicare Hamas dalla Striscia. E non c'è carestia: il cibo viene distribuito direttamente alle famiglie.
di Ugo Volli
Ha fatto molta impressione la presa di posizione del Capo dello Stato sul Medio Oriente, proclamata solennemente nell'incontro con il corpo diplomatico in occasione della festa nazionale. Il Presidente Mattarella ha ribadito la sua preoccupazione per la diffusione dell'antisemitismo, il fatto che la sicurezza di Israele sia "imprescindibile" e la condanna per il "sanguinario attacco di Hamas contro vittime israeliane inermi, con ostaggi odiosamente rapiti e ancora trattenuti, che vanno immediatamente liberati". Proprio come aveva già detto molte volte, anche un mese fa nel messaggio al Presidente Herzog per l'anniversario della proclamazione dello Stato di Israele. Già in quella dichiarazione Mattarella aveva anche espresso posizioni che si potevano leggere come critiche nei confronti delle azioni politiche di Israele. Ma queste esortazioni erano collocate nell'ambito di una "amicizia radicata nella ferma adesione ai valori democratici [...] un ricco partenariato, in ambito politico, culturale ed economico [che] continuerà costantemente a offrire nuove opportunità di collaborazione". Ora invece il linguaggio è diventato molto più duro, e discutibile: "Che venga ridotta alla fame un'intera popolazione, dai bambini agli anziani, è disumano. È inaccettabile il rifiuto di applicare le norme del diritto umanitario nei confronti dei cittadini di Gaza. S'impone subito il cessate il fuoco.
In qualunque caso è indispensabile che l'Esercito israeliano renda accessibili i territori della Striscia all'azione degli organismi internazionali, rendendo possibile la ripresa di piena assistenza umanitaria alle persone". E ancora: "I palestinesi hanno diritto al loro focolare entro confini certi ed è grave l'erosione dei territori attribuiti all'Autorità nazionale palestinese, così come è illegale l'occupazione di territori di un altro Paese, che non può essere presentata come misura di sicurezza: si rischia di inoltrarsi sul terreno della volontà di dominio della barbarie nella vita internazionale". Con tutto il rispetto per il Presidente, queste affermazioni sono inesatte e preoccupanti. A Gaza non c'è mai stata la fame e soprattutto non c'è ora, quando Israele ha organizzato con gli Stati Uniti una grande operazione di distribuzione di cibo direttamente alle famiglie, saltando la mediazione corrotta delle organizzazioni internazionali, che permettevano ad Hamas di speculare e trarre grandi profitti dai doni della comunità internazionale, accumulando ingenti scorte, che sono state rivelate in questi giorni. I diritti umanitari dei civili sono stati rispettati come non era mai accaduto in alcuna guerra. Quanto al tema della "erosione dei territori attribuiti all'Autorità nazionale palestinese", si tratta di una grave inesattezza. Gli insediamenti israeliani sono tutti collocati nell'area che gli Accordi di OsIo attribuiscono all'esclusiva amministrazione dello Stato di Israele, in attesa di una sistemazione definitiva. Se l'occupazione dei "territori di un altro Paese" è quella di Gaza, è chiaro che essa è necessaria per eliminare il terrorismo.
Ma come si può parlare di "un altro Paese" e allo stesso tempo di un "focolare" che dovrebbe costituirlo? E alludere a "disumanità", "barbarie" e "volontà di dominio" significa cadere nella trappola della propaganda di Hamas, e ignorare gli sforzi continui dell'Esercito israeliano per limitare i danni alla popolazione civile in una guerra durissima che Israele non ha voluto, e che ora deve combattere per sottrarre i propri cittadini alla barbarie vera: quella di Hamas.
Nel 1922, Walther Rathenau, ebreo, industriale, inventore, sociologo, ministro degli Esteri tedesco, venne ucciso da un gruppo terrorista. Il suo assassinio venne scrupolosamente preparato dalla stampa dell’estrema destra antisemita. Una vera e propria campagna d’odio che armò le mani dei Freikorps che passarono all’azione. Alcuni anni dopo, nel 1936, lo statista francese Léon Blum, ebreo e socialista, subì un violentissimo pestaggio da parte di alcuni militanti dell’Action Française e dei Camelots du Roi, due organizzazioni reazionarie. L’aggressione, anche in questo caso, era stata preceduta da una martellante campagna antisemita contro «l’ebreo Blum».
Adesso, in seguito al recente omicidio politico di Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, funzionari presso l’ambasciata israeliana a Washington DC, un gruppo di anziani ebrei di Boulder, in Colorado, è stato preso di mira da un grave atto di terrorismo filopalestinese. Mohamed Sabry Soliman, 45 anni, ha lanciato delle molotov contro un gruppo di ebrei, perlopiù anziani, che manifestavano per richiamare l’attenzione sugli ostaggi israeliani ancora prigionieri a Gaza.
Le vittime sono sei, hanno un’età compresa tra 67 e 88 anni, e sono state trasportate d’urgenza in ospedale con gravi ustioni. La polizia è intervenuta e ha ammanettato Soliman, in stato di agitazione e con ancora in mano degli ordigni incendiari. Durante l’aggressione, è stato sentito gridare «Palestina libera».
È ormai chiaro che la caccia agli ebrei e ai sostenitori di Israele è aperta. Si tratta del risultato diretto della campagna diffamatoria in corso promossa dai media mainstream, da leader politici soprattutto di sinistra, dall’élite accademica, che dall’ottobre 2023, non fanno che demonizzare lo Stato d’Israele, accusandolo di «genocidio» e «crimini contro l’umanità». Una vera e propria istigazione a delinquere, che fabbricando crimini inesistenti («genocidio dei palestinesi») ne realizza di concreti.
Perché a Gaza è in atto una guerra tragica e terribile ma non un genocidio
di Gustavo Micheletti
Il termine “genocidio” porta con sé un peso storico e giuridico che richiede una definizione precisa per evitare fraintendimenti. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite del 1948, «per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.». La definizione di “genocidio” è riconosciuta a livello internazionale ed è utilizzata in ambito giuridico, come base per i procedimenti nei tribunali internazionali. La premessa chiave affinché si possa procedere con un’imputazione di “genocidio” è l’intenzione di distruggere un gruppo specifico. Quest’intenzione non può essere evinta dal numero dei civili morti o da altri effetti devastanti e strazianti che sono spesso connessi con una guerra, perché altrimenti ognuna potrebbe essere considerata un genocidio. Ciò che rende un atto o una strategia bellica un “genocidio” non è solo la gravità delle azioni, ma l’intenzione deliberata di eliminare un gruppo specifico in quanto tale: non quello di sconfiggerlo in un conflitto, ma quello di sterminarlo al là dei vantaggi che ciò potrebbe procurare per uscirne vincitori. Questa intenzione è il cuore della sua definizione, che ne distingue il significato da quello di altre espressioni che ricorrono spesso per definire alcuni momenti o aspetti di tanti conflitti, come per esempio “crimini di guerra o contro l’umanità”, “massacri” o “devastazioni”. Ma se per qualificare un atto come “genocidio” deve essere provato che l’intento specifico o prioritario era distruggere un gruppo protetto (nazionale, etnico, razziale o religioso), quando tali distruzioni sono gli effetti, anche devastanti, di una strategia bellica l’uso di questo termine risulta inappropriato. Ad esempio, un’invasione per motivi territoriali o economici non è automaticamente genocidio, a meno che l’obiettivo primario non sia proprio quello di eliminare un gruppo specifico. In ogni guerra, naturalmente, possono verificarsi singole azioni che rientrano nella definizione di “genocidio”, come ad esempio dei massacri mirati, ma gli attacchi militari a obiettivi strategici che comportano massicce perdite civili non soddisfano di per sé il criterio dell’intenzione genocida, che invece, per esempio, si verificò in Ruanda nel 1994, quando in un contesto di conflitto ci fu il chiaro intento di sterminare i Tutsi. Dunque, quando l’intenzione principale delle azioni belliche è legata a obiettivi militari, politici o di rappresaglia, piuttosto che a un piano deliberato di sterminare un gruppo nazionale, etnico o religioso, non si può parlare di “genocidio”, che è una cosa diversa da una “strage” e o da un “massacro”. Stragi e massacri sono stati compiuti da tutti paesi belligeranti durante ogni conflitto. Durante il secondo conflitto mondiale gli Alleati condussero massicci bombardamenti sulle città tedesche di Dresda e di Amburgo causando centinaia di migliaia di morti civili. Queste azioni furono devastanti, ma erano considerate parte della strategia militare per indebolire la Germania nazista, non un tentativo di distruggere i tedeschi come gruppo etnico. I bombardamenti e le successive occupazioni alleate non avevano l’obiettivo di eliminare i tedeschi come popolo, ma di sconfiggere il regime nazista e porre fine alla guerra. Alcuni atti specifici, come le uccisioni di massa o le condizioni di vita imposte durante una guerra, potrebbero teoricamente rientrare nella definizione di “genocidio”, come per esempio l’affamare una popolazione o il creare condizioni di vita distruttive, ma sempre se non hanno una funzione militare o tattica imposta dalle circostanze belliche per il conseguimento di una vittoria militare. Per esempio, le azioni sovietiche e alleate erano motivate da obiettivi militari, politici o di rappresaglia, non da un piano sistematico di sterminio etnico. Mentre l’Olocausto perpetrato dai nazisti contro gli ebrei aveva un intento genocida chiaro, con politiche sistematiche atte a sterminarli, le azioni contro i tedeschi, pur brutali e forse non sempre strettamente necessarie per la vittoria finale, non mostrano un’analoga pianificazione per distruggere il gruppo etnico in sé. L’impressione che si possa legittimamente parlare di “genocidio” per descrivere la situazione che si è creata a Gaza dipende probabilmente dall’elevato numero di morti tra i civili e delle morti indirette connesse con la tipologia particolare del conflitto. Ma se volessimo arbitrariamente adottare un criterio quantitativo per stabilire se si può essere legittimati a usare questo termine per descrivere quanto sta accadendo, scopriremmo che tale uso sarebbe stato appropriato anche in altri casi in cui invece non è stato ritenuto altrettanto legittimo. Sebbene infatti quello a Gaza sia un conflitto che si svolge in un’area densamente popolata, dove un esercito regolare deve affrontare dei combattenti addestrati a compiere azioni di tipo terroristico, le pur elevate percentuali di morti tra i civili che ne sono conseguite non si discostano molto da quelle che hanno caratterizzato altre guerre non meno gravide di conseguenze tragiche durante l’ultimo secolo. In linea generale, le guerre del XX secolo e dell’inizio del XXI secolo hanno visto un aumento significativo della percentuale di civili tra le vittime rispetto ai conflitti precedenti, dove i militari costituivano una chiara maggioranza. Questo cambiamento è dovuto a diversi fattori, come l’uso di bombardamenti aerei e di armi pesanti in aree urbane, come “genocidi” e carestie indotte dalla guerra, o la difficoltà di distinguere i combattenti dai non combattenti. La prima Guerra Mondiale (1914-1918) provocò circa 16-20 milioni di morti tra militari e civili. La percentuale di questi ultimi è stimata intorno al 15-20% del totale. La maggior parte dei morti erano militari, ma i civili soffrirono per carestie, malattie, come per esempio l’’influenza “spagnola”, e trasferimenti forzati. In Italia, ad esempio, si stimano circa mezzo milione di morti civili in più rispetto alla media a causa di malattie e crisi alimentari. La carestia e le malattie, come la malaria e la tubercolosi, contribuirono significativamente ad accrescere il numero delle morti dei civili, ma la percentuale rimaneva inferiore rispetto a quella dei militari. La Seconda guerra mondiale (1939-1945) provocò tra i 70 e gli 85 milioni di morti, pari a circa il 3% della popolazione mondiale dell’epoca (2,3 miliardi). I civili rappresentavano circa il 60-70% delle vittime totali, con 50-55 milioni di morti civili rispetto a 21-25 milioni di militari. Le cause principali includevano bombardamenti strategici, “genocidi” come l’olocausto, crimini di guerra, carestie, come ad esempio la carestia del Bengala, con i suoi 2,1 milioni di morti, o malattie più o meno direttamente connesse con la guerra. La proporzione di civili tra le vittime è poi aumentata ulteriormente, raggiungendo in media l’85% nei conflitti più significativi. Nella Guerra in Vietnam (1955-1975) i civili rappresentano circa il 50-70% delle vittime totali (1-3 milioni di morti complessivi), soprattutto a causa di bombardamenti e operazioni in aree densamente popolate. Durante la guerra nella ex Jugoslavia (1991-1995) ci furono circa 250.000 morti, di cui i due terzi (circa 66%) erano civili. In Ruanda, dove si può parlare di “genocidio”, nel 1994 ci furono circa 500.000-1.000.000 di morti, prevalentemente civili Tutsi, che furono circa il 90% delle vittime. Secondo il progetto Costs of War della Brown University, nella guerra in Afghanistan (2001-2021) i civili morti (circa 46.000) rappresentavano il 50-60% delle vittime totali, con molte morti indirette dovute a fame e malattie. Emergency ritiene che nei conflitti moderni i civili costituiscano circa il 90% delle vittime. Questo sarebbe dovuto all’uso di armi pesanti in aree urbane, al collasso delle infrastrutture sanitarie e alla mancanza di accesso a cibo e acqua. Secondo il Segretariato della Dichiarazione di Ginevra (2008), in molti conflitti contemporanei il rapporto tra morti indirette (per fame, malattie, ecc.) e morti dirette è di circa 4:1. Questo significa che per ogni morte causata direttamente dai combattimenti, quattro sono dovute a conseguenze indirette, specialmente in contesti di povertà preesistente. Il conflitto in corso a Gaza, che è iniziato, almeno per quanto riguarda la devastante fase attuale, con l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023, ha indubbiamente causato un numero elevato di vittime tra i civili. Secondo il Ministero della Sanità della Striscia di Gaza e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), al 4 dicembre 2024 si contavano 44.580 morti e 105.739 feriti. Inoltre, si stimavano oltre 10.000 dispersi sotto le macerie, portando il totale delle vittime probabili a circa 47000 o più. Si tratta tuttavia di dati controversi a causa della difficoltà di distinguere i combattenti dai non combattenti. Alcune fonti internazionali, come per esempio l’ONU o The Guardian, Ha’aretz, indicano che la percentuale di civili tra le vittime a Gaza è superiore a quella di tutti i conflitti mondiali del XX secolo. Secondo quanto viene suggerito dai rapporti di organizzazioni umanitarie le vittime civili sono almeno il 70-80% della cifra complessiva, con una proporzione particolarmente alta di donne e bambini (circa 50% delle vittime totali). Ma secondo altre stime a Gaza sarebbero morti (all’ottobre 2024) circa 1,2 civili per ogni combattente di Hamas, una cifra significativamente più bassa rispetto ad altri conflitti urbani, come per esempio quelli in Iraq (4,2:1). La distruzione delle infrastrutture sanitarie, il blocco di cibo e acqua e lo sfollamento di gran parte della popolazione di Gaza, che complessivamente ammonta a circa 2 milioni di persone, ha sicuramente aumentato le morti indirette e secondo alcune previsioni nei prossimi anni queste potrebbero raggiungere le 500.000 unità, ma la percentuale di civili morti a Gaza (stimata mediamente tra il 70-80%, con alcune fonti che suggeriscono cifre più alte) rimane tuttavia in linea con i conflitti moderni. Se ad esempio è significativamente più alta rispetto alla Prima Guerra Mondiale (15-20%) e alla Seconda Guerra Mondiale (60-70%), è più bassa rispetto ai conflitti verificatisi in Siria, in Iraq e in Afghanistan, dove i civili rappresentano il 70-90% delle vittime. La proporzione di civili morti a Gaza sembra nel complesso superare di poco la media di tutti i conflitti degli ultimi cento anni, con una differenza tutto sommato modesta se si tiene conto che l’esercito israeliano deve combattere contro terroristi mimetizzati tra gli stessi civili, vestiti come loro, dislocati spesso in scuole e ospedali o in reticoli di tunnel cui è impossibile accedere senza correre il rischio elevato d’incorrere in imboscate. Si tratta di difficoltà simili a quelle che in genere vengono affrontate da corpi speciali di polizia quando devono contrastare l’azione di qualche gruppo terrorista, che solitamente è formato al massimo da alcune decine di persone. In genere, gli eserciti regolari non sono chiamati ad affrontare questo tipo di difficoltà, che comportano un sacrificio di civili mediamente superiore a quello di qualsiasi guerra tradizionale, ma in alcune aree del mondo queste situazioni si sono verificate negli ultimi decenni sempre più spesso e sempre con grandi perdite tra i civili. Sebbene il conflitto a Gaza si distingua per la velocità con cui si provocano tali perdite (circa 44.580 morti in 14 mesi, ovvero oltre 3.000 al mese), questo ritmo è paragonabile ai momenti più intensi di conflitti come la guerra in Siria o l’invasione dell’Iraq, pur costituendo un unicum per la concentrazione in un’area geografica così ristretta (la Striscia di Gaza ha solo 365 km²). Nonostante una maggiore precisione degli attacchi rispetto ad altri conflitti, questa circostanza rende infatti più probabile l’uccisione di civili, sia in virtù dell’uso di armi pesanti in un’area densamente popolata sia perché vengono usati sistematicamente come scudi umani e non è facile distinguerli dai guerriglieri di Hamas. Riassumendo, quindi, nel corso dell’ultimo secolo, la proporzione di civili tra le vittime di guerra è aumentata costantemente, passando dal 15-20% nella Prima Guerra Mondiale, al 60-70% nella Seconda Guerra Mondiale, fino all’85-90% nei conflitti moderni. La guerra in corso a Gaza si allinea a questa tendenza, con una proporzione di civili stimata tra il 70-80% (o più, secondo alcune fonti), ma si distingue per l’intensità e la rapidità delle morti in un’area densamente popolata. Il numero di vittime (circa 44.580 morti al dicembre 2024, di cui oltre 30.000 civili) e le proiezioni di morti indirette (fino a 500.000 nei prossimi anni) rendono il conflitto devastante, ma non più di quanto lo sono stati altri negli ultimi decenni. Se la guerra, per sua natura, è una macchina di distruzione che non risparmia nessuno, nell’ultimo secolo città e villaggi si sono sempre più trasformati in teatri di morte e disperazione. Questa tendenza sembra ormai consolidata e il caso di Gaza non sembra fare eccezione, anche se le difficoltà nel verificare le informazioni, in gran parte fornite dal Ministero della Sanità controllato da Hamas, un’organizzazione nota per la sua incessante attività di disinformazione, rendono particolarmente difficile ogni valutazione che si proponga di essere obiettiva. Le cifre fornite da Hamas, che controlla le istituzioni sanitarie di Gaza, sono spesso accettate da organizzazioni internazionali come l’OMS per mancanza di alternative, ma la loro accuratezza è messa in discussione da analisti indipendenti. La propaganda di Hamas, che include la diffusione di informazioni non verificate per amplificare la percezione della sofferenza della popolazione, complica ulteriormente il quadro. Nonostante ciò, il numero assoluto di vittime e la distruzione delle infrastrutture non lasciano dubbi sulla portata distruttiva della guerra in corso, pur confermando che essa è simile ad altre che si sono verificate negli ultimi decenni e per le quali non ci sono state reiterate accuse di “genocidio”. Il conflitto a Gaza si inserisce quindi in una tendenza secolare che vede i civili pagare il prezzo più alto delle guerre moderne. Se la Prima Guerra Mondiale segnò l’inizio di questa transizione e la Seconda Guerra Mondiale la consolidò, i conflitti del XXI secolo, inclusa Gaza, rappresentano l’apice di una violenza che colpisce indiscriminatamente. La combinazione di un alto numero di morti in un breve periodo, la presenza di cause indirette e le difficoltà nel verificare i dati rende Gaza un caso estremo, ma non isolato, nel panorama delle guerre contemporanee. Nonostante questo sconfortante scenario, a Gaza non si può tuttavia parlare di “genocidio”, perché l’intento del governo israeliano non è quello di eliminare la sua popolazione – obiettivo questo che sarebbe, oltre che scellerato e criminale, anche insulso e controproducente – ma quello di eliminare tutto il gruppo dirigente di Hamas privandolo di quel controllo totale sulla Striscia che ha avuto fino a pochi mesi fa. Per conseguire un simile obiettivo si rende necessaria una strategia militare complessa e irta di difficoltà, che corre anche il rischio di rivelarsi politicamente svantaggiosa, in quanto sta mettendo in discussione molte relazioni internazionali d’Israele con paesi tradizionalmente amici e con l’opinione pubblica occidentale. La necessità di adottare una strategia militare complessa e non priva di tragiche implicazioni sembra oggi essere ignorata anche da chi sembra proporsi di fornire una versione obiettiva dei fatti denunciando ogni crimine internazionale. Amnesty International, per esempio, dopo aver analizzato il modello generale della condotta dello Stato di Israele a Gaza, ritiene che si configuri un intento genocida. Nonostante l’obiettivo militare dichiarato da Israele di sconfiggere Hamas e liberare gli ostaggi, secondo Amnesty il diritto internazionale indica “che uno Stato può agire con intento genocida perseguendo allo stesso tempo altri obiettivi. Anche se Israele perseguiva obiettivi militari, la totalità delle prove indica che l’unica deduzione ragionevole che si può trarre dal modello di condotta di Israele a Gaza è che stava anche cercando di distruggere la popolazione palestinese a Gaza in quanto tale, il che significa che la sua offensiva militare e le relative azioni e omissioni a Gaza sono state condotte con intento genocida”. E qui Amnesty international, evocando il diritto internazionale, assume le due premesse su cui si fonda la sua grave accusa in modo arbitrario e illegittimo. Le due premesse sono le seguenti: 1) “il diritto internazionale indica che uno Stato può agire con intento genocida perseguendo allo stesso tempo altri obiettivi”; 2) “la totalità delle prove indica che l’unica deduzione ragionevole che si può trarre dal modello di condotta di Israele a Gaza è che stava anche cercando di distruggere la popolazione palestinese a Gaza in quanto tale, il che significa che la sua offensiva militare e le relative azioni e omissioni a Gaza sono state condotte con intento genocida”. Per quanto concerne il punto (1), è vero che uno Stato può agire con intento genocida perseguendo al tempo stesso altri obiettivi, ma non quando i comportamenti indiziati di costituire genocidi sono ritenuti necessari o funzionali alla propria strategia militare di autodifesa. Per quanto concerne invece il punto (2), non esiste affatto una “totalità” di prove coerenti tra loro nell’attribuire ad Israele simili responsabilità. Esistendo prove contrastanti, non si può infatti sostenere che la loro “totalità” supporti la tesi genocidaria, a meno che non ci si riferisca solo alle prove fornite o ammesse da Hamas. Ma al punto (2) c’è anche un altro aspetto da considerare, là dove si sostiene che Israele sta “anche cercando di distruggere la popolazione palestinese a Gaza in quanto tale”. Per fare quest’affermazione così grave, bisognerebbe prima dimostrare che Israele disponga di altre strategie alternative sia per liberare gli ostaggi senza cedere a ricatti che favorirebbero la posizione di chi lo vuole distruggere, sia per eliminare coloro che hanno attuato il massacro del 7/10, che può ragionevolmente considerare come nemici da sconfiggere. In assenza della prova dell’esistenza di un’altra strategia non meno efficace nel perseguire i suoi legittimi obiettivi, non si può affatto dimostrare che l’offensiva militare israeliana a Gaza sia stata condotta “con intento genocida”. Si può avere quindi l’impressione che Amnesty international tenda dedurre in modo arbitrario e strumentale l’esistenza di un’intenzione genocidaria: omettendo d’indicare quali potevano essere le azioni militari alternative per conseguire gli obiettivi che Israele legittimamente si prefiggeva, come privare Hamas del pieno controllo su Gaza, Amnesty dimostra di adottare argomentazioni capziose e parziali. Senza tenere in minima considerazione il grave danno politico che Israele sta ricavando dall’adozione di una strategia che, se non fosse stata strettamente necessaria, nessun capo di governo dotato di un minimo di buon senso si sarebbe mai sognato di adottare, sembra essersi agevolmente dimenticata che l’eccidio del 7/10 e l’uso sistematico di civili come scudi umani costituiscono la causa principale della presente situazione e che entrambi questi fatti sono frutto di una precisa scelta strategica programmata per anni da Hamas. Come hanno infatti più volte dichiarato suoi autorevoli esponenti lo spargimento di sangue palestinese era necessario per provocare prima l’isolamento internazionale di Israele e poi la sua definitiva sconfitta, con relativa cancellazione dalle carte geografiche. Oggi, in una certa misura, questa cinica strategia criminale di Hamas si sta rivelando vincente: Israele è di fatto, dopo circa un anno e mezzo dal 7/10/23, più isolato e più debole sotto il profilo delle relazioni internazionali; ma se riuscisse nell’intento di sottrarre ad Hamas il pieno controllo della Striscia di Gaza il successivo processo di pace che potrebbe seguirne, concludendosi con la nascita di uno Stato palestinese che riconosca finalmente ad Israele il diritto di esistere, sarebbe virtualmente in grado di porre fine a una guerra che dura da quasi ottant’anni, con un futuro risparmio di vittime innocenti e di tragedie che sarebbe complesso calcolare esattamente, ma che risulterebbe nel corso degli anni assai superiore alle vittime che potrebbero esserci se Hamas restasse nella piena disponibilità di Gaza. Ovviamente, si tratta di un percorso complesso e ricco di difficoltà, ma una volta conseguito l’obiettivo di liberare Gaza da Hamas due nuovi governi, sia in Israele sia presso l’ANP, potrebbero essere in condizione di portarlo avanti con qualche probabilità di successo. Piuttosto che auspicare un simile processo di pace, coloro che oggi manifestano per le strade e le piazze del mondo occidentale sventolando le bandiere palestinesi preferiscono spesso agitare lo slogan “dal fiume al mare”, ribadendo così di auspicare la fine dello Stato d’Israele. Costoro rivelano in questo modo, pur spacciandosi per difensori della causa palestinese, di voler appoggiare la strategia di Hamas, ovvero di un’organizzazione antisemita e terrorista, premiando l’azione criminale del 7/10, e con questa finalità arrivano persino a usare in modo improprio, cinico e strumentale il termine “genocidio”. In realtà, se la pace è ancora possibile, ad essa si potrà arrivare solo quando l’Autorità Nazionale Palestinese, dopo la fine del potere di Hamas a Gaza e memore delle reali responsabilità di questa tragedia, sceglierà di percorrere l’unica strada in grado di condurvi: riallacciare un dialogo con un nuovo governo israeliano per arrivare a un trattato tra due Stati che si riconoscano reciprocamente il diritto di esistere; o almeno questo è quanto si potrà ragionevolmente sperare dopo che Israele non sarà più costretto a convivere con un’organizzazione politica in grado di militarizzare un intero popolo e un intero territorio confinante e che ha per statuto il primario obiettivo dichiarato di provocare la sua distruzione.
Hamas non comanda più ma si tiene gli ostaggi. Israele demolisce i tunnel"
di David Zebuloni
Mentre le piazze d'Italia e d'Europa si riempiono di manifestanti che gridano a vanvera Free Palestine, in Medio Oriente si discute davvero il destino della Striscia di Gaza e, con grande sorpresa (ma anche ostinata negazione) dei pacifinti, gli unici coinvolti in causa che dimostrano di non desiderare la liberazione dell’idealizzata Palestina, sono proprio i vertici di Hamas.
Che tuttavia starebbero perdendo il controllo militare poiché «ladri e bande stanno sequestrando i camion degli aiuti, saccheggiando le case e terrorizzando i residenti», spiegano fonti informate all’emittente panaraba satellitare di proprietà saudita Al Arabiya. Crollata «gran parte del sistema governativo», Hamas starebbe quindi disperatamente tentando di arruolare i capi dei clan di Gaza per continuare i combattimenti e riprendere il potere all'interno della Striscia, ma senza grande successo.
Di pari passo, anche le sue capacità militari vengono smantellate. Ieri le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno localizzato e demolito un tunnel, attribuito ad Hamas, lungo 700 metri a una profondità di circa 30 metri, nell’area di Khan Younis, nel sud di Gaza. Inoltre, nella stessa area, sono stati individuati e colpiti con un drone tre terroristi che stavano tentando di piazzare ordigni esplosivi, mentre altre decine di jihadisti sono stati uccisi e sono andate distrutte più di 100 infrastrutture utilizzate dai gruppi islamisti.
Dopo la recente eliminazione dell’erede del capo terrorista di Hamas Yahya Sinwar, suo fratello minore Mohammad, l’esercito israeliano e l’agenzia di sicurezza interna Shin Bet hanno annunciato di aver eliminato a Gaza anche Khalil Abd al Nasser Muhammad Khatib, considerato il comandante di un’unità del battaglione Al Mawasi del movimento islamista, responsabile della morte di 21 militari israeliani uccisi in un attacco nel sud della Striscia il 22 gennaio 2024.
È la risposta concreta al rifiuto dell’organizzazione terroristica ai mediatori americani. Benché Israele avesse accettato le condizioni della Casa Bianca per una tregua, Hamas si è rifiutato di collaborare, rinunciando ancora una volta alla possibilità di risparmiare il suo popolo dalle sorti di una guerra infinita.
«La risposta di Hamas è totalmente inaccettabile, e ci porta solo indietro», ha dichiarato l’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, in un post condiviso sulla rete sociale X. «Hamas dovrebbe accettare la proposta che abbiamo presentato come una base per colloqui che possono prendere il via subito, dalla prossima settimana: è l’unico modo per concordare un cessate il fuoco di 60 giorni», ha poi aggiunto Witkoff.
Bassem Naim, esponente di alto livello del gruppo islamista, ha dichiarato a questo proposito: «Non abbiamo respinto la proposta di Witkoff. Abbiamo concordato con Witkoff una proposta, che considero accettabile come proposta di negoziazione, e siamo arrivati alla risposta dell’altra parte, che non era d'accordo con nessuno dei punti che avevamo concordato».
In risposta, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha detto di aver ordinato all'esercito di proseguire la lotta contro Hamas a prescindere da qualsiasi negoziato.
«Insomma», ha dichiarato Katz, «o Hamas rilascia gli ostaggi, o verrà distrutto».
Da parte sua, Israele considera la risposta dei terroristi alla proposta della Casa Bianca come un «rifiuto di fatto», ovvero come un’imposizione a non collaborare e rifiutare ogni soluzione al conflitto, peraltro, da loro generato e perpetrato.
Come parte dell’accordo firmato Witkoff, dieci ostaggi israeliani vivi detenuti a Gaza sarebbero rilasciati, e altri 18 corpi di ostaggi morti consegnati alle loro famiglie in cambio di un numero concordato di prigionieri palestinesi. Secondo quanto riferito dalla rete di propaganda palestinese Al Jazeera, quindi con il necessario beneficio del dubbio, l'accordo in questione prevede il rilascio degli ostaggi israeliani in tre fasi durante il periodo di cessate il fuoco di 60 giorni.
L’altra minaccia da affrontare proviene dallo Yemen.
Ieri è stato intercettato un missile balistico lanciato dal movimento yemenita filo-iraniano Houthi che aveva fatto attivare le sirene d'allarme nel centro del Paese, nell'area di Gerusalemme e in Cisgiordania.
La settimana di Israele: la mossa vincente di Gaza
di Ugo Volli
• Il fronte nord
Non bisogna farsi travolgere dal disfattismo e dall’ondata d’odio che la propaganda antisemita diffonde nel mondo: Israele sta vincendo. Alcune notizie poco considerate o addirittura occultate dai media lo fanno vedere chiaramente. Incominciamo dal fronte settentrionale. In Libano sta accadendo una cosa inconcepibile anche solo un anno fa: esponenti governativi parlano in televisione della necessità di normalizzare i rapporti con Israele, ma soprattutto le forze armate libanesi stanno attivamente lavorando per distruggere basi militari e depositi di armi di Hezbollah nella zona di confine e lo fanno guidati dalle informazioni di intelligence che provengono da Israele. Vi è cioè una collaborazione fra servizi di informazione israeliani e forze armate del Libano per spiantare i resti di Hezbollah. Nel frattempo continuano incursioni aeree israeliane sulle basi terroriste più arretrate, verso il confine con la Siria, sui capi che provano a riannodare le fila del terrorismo e sui rifornimenti provenienti dall’Iran. Qualcosa di analogo avviene in Siria. Non vi sono più notizie di tentativi di strage ai danni dei drusi, che si sono messi sotto la protezione di Israele; voci insistenti parlano di colloqui diretti in corso fra Israele e il nuovo regime siriano, fortemente volute da Trump. Ma allo stesso tempo Israele agisce militarmente contro basi e installazioni che ritiene possano presentare un pericolo: l’ha fatto per esempio venerdì lungo la costa di Latakia. abbastanza vicino al confine turco.
• Giudea e Samaria
Continua paziente e scrupolosa anche l’azione antiterrorismo nei territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Ogni tanto ci sono delle esplosioni di violenza, degli attentati anche particolarmente odiosi come quello che ha ucciso due settimane fa la trentenne incinta di nove mesi Tzeela Gez mentre veniva accompagnata dal marito in ospedale per partorire, e che ha fatto morire dopo dieci giorni di agonia anche il suo bebé. Ma in generale nei Territori non si è sviluppata quella sollevazione su cui contavano i terroristi e la calma si è mantenuta anche fra gli arabi israeliani. Il merito va innanzitutto alle forze che sorvegliano le località a rischio e reprimono velocemente ogni atto terroristico. Ma vi è di più: per Israele si tratta di un grande successo politico oltre che militare, perché testimonia il fatto che, nonostante tutta la propaganda, la grande maggioranza della popolazione araba nei territori preferisce vivere una vita normale, usando una condizione socio-economica assai migliore degli abitanti dei paesi vicini, piuttosto che darsi alla guerriglia.
• Gaza
Ma la mossa decisiva di questo periodo è avvenuta a Gaza. Non si tratta del procedere lento e sistematico dell’operazione “Carri di Gedeone”, che mira al controllo di tutto il territorio della striscia per spiantarvi Hamas, distruggere tutte le fortificazioni sotterranee in cui si nasconde e liberare i rapiti. Un po’ per i soliti freni internazionali e di nuovo anche americani nonostante le frequenti dichiarazioni filo-israeliane di Trump; un po’ per la difficoltà operativa di agire in un ambiente urbano cercando di non danneggiare i civili ma di non essere colpiti dai terroristi mescolati fra loro e asserragliati nelle costruzioni; un po’ perché come dicono gli ufficiali israeliani le guerre sono due, una alla superficie e una sotterranea: per tutte queste ragioni l’azione della fanteria procede con prudenza e dunque non può essere veloce.
• I centri di distribuzione
La mossa vincente è invece civile, sono i quattro centri di distribuzione degli aiuti alimentari impiantati, difesi e riforniti e a quanto pare anche pagati da Israele ma gestiti da una società americana, che distribuiscono ormai almeno un milione di pasti giorno direttamente, senza che i rifornimenti passino per le organizzazioni internazionali collegate all’Onu o per Hamas (spesso le due cose coincidono), ma venendo invece consegnati alle famiglie e davvero gratis, senza le grandi tangenti che prelevava Hamas e quelle minori ma significative, degli operatori internazionali, senza accumuli speculativi, insomma in maniera giusta e ragionevole. Gli antisemiti della stampa e della politica internazionale hanno voluto presentare questa operazione di soccorso come una macchina repressiva, una parte del “genocidio”, addirittura qualcuno ha scritto commentando una foto che mostrava le transenne costruite per ordinare la coda di migliaia di percipienti che si tratterebbe addirittura dell’“immagine attuale di Auschwitz”. Tanto può l’odio e il fanatismo. Hamas naturalmente ha cercato in tutti i modi di impedire il funzionamento dei centri con assalti fisici e fake news. Ma i gazawi accorrono ed esprimono gratitudine all’America e a Israele. Si è costituita perfino per la prima volta una milizia per difendere i soccorsi dai taglieggiamenti di Hamas.
• Perché è importante
Dal 2007 e anche per tutta la guerra Hamas ha agito a Gaza come Stato di fatto: ha gestito ospedali, anagrafe, tribunali, ordine pubblico, e anche i rifornimenti alimentari, sempre non nell’interesse dei suoi amministrati ma di se stesso e della sua “lotta”. Le incursioni israeliane di questi mesi non hanno scardinato il meccanismo statuale di Hamas. Durante la guerra sono naturalmente diventati cruciali i soccorsi di cibo, che sono sempre stati molto abbondanti. Ma Hamas li sequestrava tutti, li accumulava per dare ai media internazionali il pretesto anti-israeliano di una fame diffusa, e anche per far crescere il prezzo degli alimenti, anche se i soccorsi erano gratuiti, e poi li vendeva come e quando riteneva opportuno. Ciò era una fonte essenziale del capitale con cui pagare le armi e gli stipendi dei terroristi e anche un mezzo di ricatto per tutti i suoi sudditi. Ora la nuova distribuzione scardina questo meccanismo, toglie ai terroristi il principale sostegno economico e ne mina anche il carattere di governo, tanto che la gente ha iniziato ad assaltare i ben forniti magazzini suoi e degli enti dell’Onu (che spesso, ripetiamolo, sono la stessa cosa). Se questi centri di rifornimenti si stabilizzeranno e non saranno eliminati con la violenza o con qualche clausola di un accordo di tregua, in breve il potere di Hamas su Gaza sarà seriamente compromesso, aprendo forse la strada a una pace vera.
«Che Gee-ro d’Italia», scandisce Sylvan Adams. Il patron della Israel Premier Tech non nasconde la soddisfazione per il risultato della sua squadra al Giro d’Italia che si concluderà nel pomeriggio con la “passerella” dell’ultima frazione romana (si passerà anche davanti al Tempio Maggiore). La sola squadra professionistica israeliana di ciclismo non era mai arrivata così in alto in graduatoria nella principale corsa a tappe d’Italia. Merito del quarto posto conquistato del suo capitano e uomo di classifica Derek Gee alle spalle di Simon Yates, Isaac Del Toro e Richard Carapaz. Quarto posto con vista podio, per il quale ha lottato anche ieri fino all’ultima salita.
«È un canadese come me, ecco perché», sorride Adams. «Scherzi a parte, lui e il team hanno fatto qualcosa di grande», spiega l’altleta incontrando a Roma, a poche ore dal via della tappa conclusiva, il ministro per lo Sport e i Giovani Andrea Abodi, la presidente Ucei Noemi Di Segni, il presidente della Comunità ebraica romana Victor Fadlun e una delegazione dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia guidata dal suo vicepresidente Ioel Roccas. Con loro c’erano anche Ron Baron, fondatore e comproprietario della IPT, e il ceo della stessa Ido Shavit.
Canadese di nascita, naturalizzato israeliano, Adams ha espresso al ministro l’orgoglio di «portare il nome di Israele sulla maglia, lungo le strade del Giro, come avviene ormai da otto anni consecutivi». Non è stata un’edizione semplice per via delle violenze non solo verbali di alcuni attivisti propal, che in alcuni casi sono arrivati a mettere in pericolo l’incolumità degli atleti. Come a Napoli, dove un vero e proprio agguato “on the road” ha rischiato di provocare una caduta di gruppo. «Tappa dopo tappa, abbiamo incontrato gli stessi volti dietro questa protesta. Il segno evidente che c’è un’organizzazione alle spalle che ne finanzia le attività», ha accusato Adams. I valori dello sport hanno in ogni caso trionfato, anche stavolta.
«Lo sport è una delle chiavi che costruiscono futuro e condivisione», ha rimarcato Adams che ha raccolto la convinta adesione di Abodi, con il quale si è confrontato sul riemergere dell’antisemitismo, sulla sfida di difendere i valori occidentali dai suoi molti nemici, sulla necessità di contrastare le istanze per il boicottaggio di squadre e atleti israeliani che si fanno largo anche sulla scena europea. Il ministro ha annunciato l’intenzione di opporsi in modo netto a tali campagne. Adams ha puntato il dito contro il governo del Qatar, sponsor del terrorismo e costante elemento di destabilizzazione. L’imprenditore ha poi invitato il ministro in Israele e ricordato come la squadra ha mosso i primi passi nel mondo del ciclismo ad alto livello, proprio in Italia. Tutto è iniziato nel maggio del 2018, con la storica partenza del Giro da Gerusalemme. L’Israel Premier Tech si chiamava allora Israel Cycling Academy e partecipava con una wild card. Oggi è tra le squadre di élite del panorama ciclistico, 16esima forza del ranking mondiale. a.s.