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Notizie 16-30 giugno 2025


Emanuele Ottolenghi: “Israele non solo ha seriamente danneggiato il programma nucleare iraniano, ma ha reso al regime molto più difficile ricostruirlo”

di Francesco Paolo La Bionda

Il conflitto tra Israele e Iran, che ha visto lo Stato ebraico e gli Stati Uniti infliggere seri danni al programma nucleare del regime di Teheran, è un evento storico che sta già avendo profonde ripercussioni sulla geopolitica del Medio Oriente e non solo.
  Per approfondirne le implicazioni e analizzarne i dettagli, abbiamo intervistato Emanuele Ottolenghi, politologo e saggista italiano specializzato in Medio Oriente, terrorismo e antisemitismo. Laureato in Scienze Politiche presso l’Università di Bologna e con un dottorato in Teoria Politica all’Università Ebraica di Gerusalemme, Ottolenghi ha insegnato Storia d’Israele presso l’Oxford Centre for Hebrew and Jewish Studies e il Middle East Centre del St. Antony’s College, ha diretto il think tank Transatlantic Institute, è stato Senior Fellow presso la Foundation for Defense of Democracies (FDD), e ora lavora come senior advisor della società di elaborazione dati di rischio 240 Analytics. È autore di numerosi saggi e articoli su questioni mediorientali.

- Israele aveva previsto da anni la possibilità di colpire militarmente i siti del programma nucleare iraniano. Quali fattori lo hanno spinto ad agire a partire dal 13 giugno scorso?
   La relazione dell’AIEA dello scorso 12 giugno, in cui ha affermato che l’Iran non stesse rispettando gli obblighi di proliferazione nucleare, ha rivelato certamente al mondo la gravità della situazione e l’avanzamento del programma nucleare di Teheran. Gli israeliani però queste informazioni le avevano già, quindi non credo che il rapporto dell’agenzia sia stato un fattore determinante.
  È stata importante invece, a mio parere, la conclusione dei sessanta giorni che Trump aveva posto come ultimatum per concludere un negoziato tra Stati Uniti e Iran sulla questione. Israele ha quindi preso consapevolezza che si fosse aperta una finestra d’opportunità, inizialmente se non con il sostegno del presidente americano, almeno col suo tacito consenso. Credo che negli scorsi mesi ci sia stato un andirivieni di funzionari tra Gerusalemme e Washington, in cui gli israeliani hanno convinto i colleghi americani, grazie anche a informazioni d’intelligence condivise, che la finestra utile per intervenire si stesse chiudendo, visti i progressi del nucleare iraniano.
  Un altro fattore importante è stata la vulnerabilità dell’Iran a seguito sia dell’indebolimento di Hezbollah e Hamas, in Libano e Gaza, sia degli scontri diretti con Israele avvenuti lo scorso anno. Gerusalemme, infatti, non solo ha neutralizzato le due milizie proxy di Teheran, ma negli attacchi diretti avvenuti ad aprile e ottobre 2024 ha dimostrato di poter penetrare le difese aeree iraniane e le ha in parte neutralizzate, distruggendo i sistemi d’arma antiaerei russi S-300 posti a difesa di uno dei siti nucleari.

- Come si spiega la decisione del presidente statunitense Trump di intervenire militarmente in un secondo momento rispetto all’inizio dell’offensiva israeliana?
  Credo che Trump volesse evitare il rischio di una guerra prolungata che avrebbe potuto portare a una possibile escalation regionale e sapeva che l’intervento militare americano avrebbe potuto portare a una conclusione molto più rapida del conflitto. Gli israeliani avevano dichiarato di avere soluzioni proprie per eliminare i siti nucleari iraniani più inespugnabili come Fordow, ma avrebbero richiesto molto più tempo, prolungando il conflitto con tutte le sue incognite, e comportato molti più rischi.
  Ritengo inoltre che gli americani abbiano ricevuto le informazioni sulla base delle quali gli israeliani avevano deciso di attaccare e le abbiano fatte loro, concludendo che un loro intervento avrebbe potuto essere molto più risolutivo, evitando un trascinarsi del conflitto e il rischio che la partita non venisse davvero chiusa.
  È anche possibile che Trump, e questo non esclude gli altri fattori, di fronte al successo israeliano che si stava già profilando, abbia deciso di mandare un messaggio forte non solo all’Iran, ma anche alle altre potenze e agli altri paesi della regione. Ha messo in atto un’operazione militare magistralmente eseguita, con armamenti ineguagliabili, dimostrando che l’America resta a fianco dei propri alleati e mantiene la propria parola sulle questioni di sicurezza nazionale e sugli interessi globali che considera non negoziabili. Questo è un messaggio che trascende lo scontro tra Israele e Iran: è un messaggio alla Russia, alla Cina e anche agli alleati del Golfo, che nei quattro anni di presidenza Biden hanno dubitato della credibilità e dell’affidabilità del loro alleato a Washington.
  Questa spiegazione, secondo me, viene confermata anche dalle parole di Mark Rutte, il Segretario Generale della NATO, che al vertice dell’Aia ha ringraziato Trump per aver eliminato la minaccia iraniana, aggiungendo che oggi la NATO è più forte e il mondo più sicuro, un messaggio che è stato ascoltato in tutto il mondo. Anche dagli avversari dell’Occidente.

- Rispetto agli obiettivi che si era posto Israele, quanto è stato effettivamente danneggiato il programma nucleare iraniano e che possibilità ci sono che il conflitto riprenda?
  Non avremo una risposta chiara alla prima domanda finché non ci saranno valutazioni più precise e definitive dell’impatto delle operazioni militari israeliane. Ciò detto, molte delle polemiche di questi giorni, compresa quella sull’uranio arricchito del sito di Fordow, che non è ancora chiaro se sia stato spostato prima degli attacchi, si concentrano principalmente sul risultato dell’attacco americano, che è solo una parte, seppur non secondaria, della distruzione del programma nucleare iraniano. Gli israeliani, infatti, sono comunque riusciti a distruggere la maggior parte delle fabbriche dove venivano prodotte e assemblate le centrifughe di arricchimento, hanno distrutto i siti dove l’uranio veniva riconvertito in metallo, un passaggio indispensabile per assemblare un ordigno nucleare, hanno eliminato sia un grande numero di scienziati di alto rango sia l’archivio stesso del programma nucleare iraniano.
  L’Iran quindi, anche se fosse riuscito a salvare l’uranio arricchito, avrà una grossa difficoltà a rimpiazzare tutte quelle componenti, compresa l’esperienza e il sapere che erano conservati nelle teste degli scienziati, nei loro appunti e nei documenti accumulati in quarant’anni di programma nucleare. Nel peggiore dei casi, insomma, l’Iran potrebbe aver mantenuto una scorta di uranio arricchito e una piccola capacità di arricchimento; nel migliore, tutto è stato completamente degradato o distrutto.
  Quindi, anche se viene difficile poter stimare quanto il programma sia stato ritardato in termini di settimane, mesi o anni, valutazioni che peraltro tengono conto anche di altri fattori quali la volontà politica del regime, il danno è stato sicuramente significativo. Bisogna inoltre considerare che, come hanno detto esplicitamente sia gli Stati Uniti sia Israele, se emergessero indicazioni o segnali di una ripresa di queste attività nucleari, sarebbe molto plausibile una ripresa dei bombardamenti da parte americana e israeliana.
  Tornando sulla questione di Fordow, un’ultima considerazione: gli israeliani hanno potuto realizzare la propria operazione grazie a un minuzioso lavoro d’intelligence durato anni, che ha permesso loro di identificare e mappare non solo i siti nucleari nascosti, ma anche altri anelli della catena di montaggio che non erano necessariamente noti all’AIEA, non avendo materiali nucleari: centri di studio e di ricerca e fabbriche. Le informazioni di intelligence, poi, hanno permesso anche di eliminare le figure di spicco del regime e del programma nucleare con un livello di precisione stupefacente, al punto di sapere in quale stanza del loro appartamento stessero dormendo. Di fronte a tutto questo, sarebbe incredibile che gli israeliani si siano lasciati sfuggire 400 kg di uranio arricchito. Può darsi che gli iraniani li abbiano effettivamente rimossi, e può altrettanto darsi che americani e israeliani sappiano benissimo dove si trovino ora.
  In conclusione, non solo il programma nucleare iraniano ha subito danni ingenti, ma ora i rischi per ricostruirlo sono molto più grandi.

- Israele ha dichiarato che rovesciare il regime iraniano non era uno degli obiettivi dell’operazione, ma un possibile effetto collaterale sperato. Come il conflitto ha cambiato i rapporti di forza interni e come ha reagito il popolo in Iran?
  È ovviamente difficile sapere con precisione cosa accade in Iran, dove il regime ha sostanzialmente bloccato l’accesso a Internet per tutta la durata della campagna militare israeliana e represso duramente chi ha provato ad aggirare il blocco con soluzioni come Starlink. Il fatto stesso però che siano dovuti ricorrere a queste misure è un indice di una difficoltà interna. Inoltre, l’eliminazione di decine di gerarchi e scienziati e di centinaia di Guardiani della Rivoluzione, i famigerati pasdaran, in particolare con l’attacco sulla loro sede centrale a Teheran, hanno esposto la vulnerabilità del regime e gli creerà per questo problemi. Un segnale a riguardo arriva dall’immediata ondata di arresti e repressione messa in atto in Iran, che è stata giustificata come sempre con le accuse di spionaggio, ma che in realtà viene usata per incutere paura nella popolazione e stroncare il dissenso.
  Ci sarà sicuramente anche una resa dei conti tra esercito, pasdaran e religiosi. Ci saranno accuse di tradimento e recriminazioni. Queste divisioni possono generare risultati diversi: potrebbero portare a un colpo di stato interno, a una guerra intestina di una fazione contro l’altra, oppure a un riconsolidamento del regime. Se vogliamo possiamo fare un paragone con tre episodi della storia contemporanea, in cui tre dittature subirono forti contraccolpi dalla sconfitta militare, ma con esiti diversi. La guerra delle Falkland fece cadere dopo circa un anno la giunta argentina e la guerra del Kosovo decretò la fine di Milošević, mentre la guerra del Golfo provocò insurrezioni curde e sciite in Iraq, purtroppo non sostenute dalla coalizione alleata e perciò represse dall’allora regime di Baghdad. Saddam Hussein rimase in quel caso al potere, anche se in Kurdistan fu instaurata la no-fly zone che rese la regione di fatto indipendente.

- La rete di milizie proxy dell’Iran, come Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e i gruppi armati sciiti iracheni, ha fornito un sostegno quasi nullo a Teheran nel conflitto. Solo gli Houthi hanno lanciato alcuni missili verso Israele, con effetti nulli. Sicuramente sia i miliziani libanesi sia quelli yemeniti sono stati indeboliti dalle operazioni militari israeliane e alleate contro di loro dei mesi scorsi. Quali valutazioni li hanno portati a non entrare nel conflitto a fianco dell’Iran.
  Credo che il fattore più importante sia stata la dissuasione esercitata dalle operazioni israeliane contro Hamas ed Hezbollah dal 7 ottobre in avanti e da quelle americane contro gli Houthi tra marzo e aprile, che li hanno profondamente indeboliti sul piano militare e hanno generato una situazione in cui un nuovo loro intervento a sostegno di Teheran avrebbe avuto conseguenze per loro ancora più devastanti. Questo peraltro ora è successo anche con l’Iran: fino al 12 giugno scorso, infatti, un attacco diretto al regime degli ayatollah era considerato impensabile. Gli scambi di missili e droni tra Iran e Israele lo scorso anno, infatti, si sono svolti in un contesto diverso, dove la precedente presidenza statunitense ha limitato la reazione israeliana: Joe Biden disse testualmente a Netanyahu, che voleva proseguire lo scontro, di fermarsi e “prendere come una vittoria” il fatto che tutti i missili e droni iraniani fossero stati neutralizzati senza causare danni in Israele. Dopo quello che è successo nelle scorse settimane, Israele ora sa di avere non solo l’appoggio, ma anche la disponibilità a un intervento militare diretto, degli Stati Uniti in caso di una ricostruzione del programma militare iraniano.
  Poi certo, questo potenziale di deterrenza non vuole dire che la situazione non possa cambiare in futuro: l’Iran sta già cercando di riarmare Hezbollah. Ma almeno in questo momento, i danni subiti fin qui sia da Teheran sia dalle milizie della sua rete è tale da aver lasciato queste ultime molto vulnerabili, e per questo ritengo non abbiano preso parte al conflitto. Questo è un segno dell’errore strategico che il regime ha commesso: Hezbollah, in particolare, era la prima linea di difesa e di dissuasione contro un attacco israeliano all’Iran. Avendo speso questo asset prima di questo scontro, quando Israele ha attaccato, la strada per Teheran, metaforicamente, era senza ostacoli.

- I lanci di missili hanno provocato danni seri in Israele, sia materiali sia umani. Quanto questo fattore ha influito sulla decisione di Gerusalemme di aderire al cessate il fuoco proposto da Washington? E quanto questa vulnerabilità potrebbe dissuadere il popolo israeliano dall’appoggiare una ripresa eventuale delle ostilità?
  Ci sono stati diversi fattori, tra cui sicuramente l’assottigliamento dell’arsenale di missili intercettori e la pressione americana. Credo però che abbia pesato di più nella decisione del governo israeliano il raggiungimento dei principali obiettivi dell’offensiva, compresa la distruzione per mano americana dei siti nucleari più inespugnabili, tanto più che Israele aveva inizialmente preventivato perdite più pesanti e un successo più contenuto della sua campagna.
  Quindi è vero che i missili iraniani hanno sicuramente causato vittime, ma in misura minore di quanto si temesse e senza colpire nessun obiettivo strategico, pur causando distruzione in molte zone residenziali. Nel complesso non si sono rivelati un’arma di dissuasione efficace come si pensava. Se gli iraniani dovessero riuscire a ricostruire e avanzare nel loro programma missilistico, magari acquisendo tecnologia dell’estero per migliorarne precisione e gittata, allora il timore della popolazione israeliana diventerebbe più rilevante, e quindi penso che potremmo aspettarci in tal caso un’interruzione del cessate il fuoco con nuovi attacchi israeliani e possibilmente americani. Sicuramente, nei prossimi mesi vedremo un incremento delle attività clandestine da parte israeliana per sabotare la ricostruzione dell’arsenale balistico iraniano.

- A questo riguardo, per anni Israele e Iran hanno combattuto quella che è stata definita “una guerra nell’ombra”, con sabotaggi, spionaggio e azioni offensive mirate. Possiamo prevedere che il conflitto ora torni a riaccendersi su questo piano? L’Iran potrebbe attuare o commissionare attentati terroristici, come quello contro l’Asociación Mutual Israelita Argentina di Buenos Aires nel 1993?
  Assolutamente sì. Peraltro, in questi ultimi anni abbiamo visto un aumento dei casi in cui l’Iran ha assoldato organizzazioni criminali transnazionali per compire attentati terroristici sia contro i dissidenti all’estero sia contro obiettivi americani, israeliani ed ebraici. Gli iraniani hanno una rete occulta estesa in tutto il mondo, più forte in alcune regioni e meno in altre, ma che passa anche per le ambasciate iraniane e per la diaspora libanese sciita, almeno la parte che appoggia Hezbollah. Si alleano inoltre con movimenti, ONG e partiti politici in tutto il mondo che condividono la loro ideologia o l’odio per gli Stati Uniti e Israele. Quindi hanno sicuramente tutte le capacità per compiere questo tipo di azioni. Peraltro, essendo stata la Repubblica Islamica praticamente da subito sottoposta a sanzioni economiche, è diventata esperta nell’aggirare gli ostacoli legislativi e i controlli per procurarsi le tecnologie che gli servono, e ora penso raddoppieranno i loro sforzi in tal senso.
  Dall’altro lato, finché sopravvive il regime islamico in Iran non penso che gli israeliani desisteranno nelle loro operazioni clandestine, e la guerra per così dire “fredda” continuerà. Mentre ritengo stia recedendo la possibilità di un nuovo conflitto convenzionale tra i due paesi, diretto o attraverso la rete delle milizie filoiraniane.

- A livello internazionale, gli Stati Uniti hanno nettamente riconfermato il loro sostegno a Israele. L’Europa invece si è mostrata divisa sulla posizione da adottare rispetto al conflitto: ad esempio la Germania ha appoggiato pienamente l’operazione israeliana mentre la Francia è stata critica, rispecchiando anche le crescenti divisioni sul conflitto a Gaza. Come pensa evolveranno quindi i rapporti tra Israele e i paesi europei?
  Continueranno a essere caratterizzati da alti e bassi e con diverse modalità. Alla fine, nonostante i tentativi di presentarsi come un’entità con una politica estera unita, che le dia la possibilità di agire come un attore globale, l’Unione Europea è composta da stati sovrani che conservano con gelosia la loro prerogativa di condurre, almeno in parte, le proprie relazioni diplomatiche e i loro interessi, che sono diversi. Israele è sempre stato capace di giocare bene su questo piano, sfruttando i buoni rapporti con alcuni paesi dell’Europa centrale, che sono entrati nell’Unione più di recente, anche se ormai si parla di vent’anni fa, e che rimangono più sensibili alle ragioni di Gerusalemme su Gaza, ma anche sull’Iran, rispetto a Spagna o Francia.
  Il buon successo dell’operazione contro il nucleare iraniano rappresenta comunque un sollievo per tutti in Europa, ma non credo ci saranno grandi cambiamenti nella postura diplomatica dei diversi paesi che ne fanno parte nel corso dei prossimi mesi. Non vedo l’Europa capace di adottare una posizione univoca su nessuna di queste questioni: non ci riuscirà neanche sul mantenimento dell’accordo di associazione con Israele, che è osteggiato ad esempio dall’opposizione italiana e dal governo spagnolo, ma sostenuto dal governo italiano e da altri stati membri. Forse su Gaza si potrebbe arrivare a una posizione più condivisa, ma è una questione su cui alla fine avranno molto più impatto gli Stati Uniti e i paesi del Golfo.

(Bet Magazine Mosaico, 30 giugno 2025)

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L’ossessione di coscienza che genera odio per Netanyahu

Non si possono disconoscere oggi i suoi risultati, eppure il premier israeliano avrebbe fatto tutto per interesse personale. Ma quanto intriso di menzogna è talvolta il moralismo spicciolo di chi fa di ogni slancio un’ossessione? 

di Giuliano Ferrara

Che cosa ci dice di noi l’odio per Netanyahu? L’avversione politica si spiega da sola. Un uomo di stato israeliano di destra dispiace a chi coltiva un grande mito ideale e letterario, l’integrazione pacifica in medio oriente di ebrei e arabi musulmani, la convivenza multietnica, il dialogo nello sviluppo comune, l’accostamento di diversi diritti a una patria o focolare nazionale. La crescita senza fanatismi della società israeliana, capace di contaminare con la laicità e almeno un barlume di democrazia quella terra che disconosce l’una e l’altra, è in sé attraente, sembra l’unica vera garanzia di sicurezza per quel paese avventuroso venuto dalla eco ormai lontana ma inestinguibile dello sterminio degli ebrei d’Europa, e da molto altro. Tutte le idee di Amos Oz, peace now, sono finite in minoranza, e Oz sapeva che sarebbe andata a finire così. Ma questo non vuol dire che siano prive di fascino, che alla lunga quel terreno non si debba comunque riconquistare. Tenebra e amore avvinte, inseparabili, complementari.
   L’avversione ha basi reali, dopo decenni di occupazione militare e di colonizzazione, in una lotta senza esclusione di colpi per la gestione del potere, in una guerra spietata e tragica generata dal primo pogrom dopo la Shoah, nella totale scomparsa dell’amore e nella vittoria di tutte le tenebre.
   Detto questo, perché l’odio? Perché la calunnia? Da dove viene l’ossessione di coscienza che è la versione corrotta ideologicamente dell’obiezione di coscienza?
   Netanyahu ha vinto molte elezioni e dura da troppo tempo, forse. Ha fatto degli errori, ma ha lavorato con la legna e i materiali incendiari del suo paese e dei suoi vicini armati. Nemmeno il newyorchese liberal disconosce ora i suoi risultati: i colpi ad Hamas, la distruzione della testa e del corpo paramilitare di Hezbollah, la caduta di Assad, l’attacco al nucleare iraniano e al regime infame degli ayatollah, nato come cocco della gauche internazionale e subito rivelatosi come macchina di assassinio e potenziale sterminio antisemita, neanche gli ossessi di coscienza possono negare, per non parlare delle persone di buon senso e di buon cuore, che l’unico serio contributo a sicurezza e pacificazione sia venuto dalla scelta decisiva di rispondere al 7 ottobre maledetto con una guerra crudele ma necessaria. Eppure Netanyahu avrebbe fatto tutto ciò per salvarsi il culo in senso politicante, per sottrarsi a un processo, per il piacere della vendetta. Ma quanto intriso di menzogna è talvolta il moralismo spicciolo che muove le passioni di chi fa di ogni slancio un’ossessione?
   Netanyahu è un abilissimo manovratore dei rapporti di forza, costruisce sui fatti un’opinione nazionale patriottica e genera anche paura, visioni ristrette del futuro, mette la camicia di forza del realismo senza sconti alla situazione in cui si trova. Non è fatto per piacere. Ma i suoi odiatori, che hanno sparso il veleno capace di appestare una generazione di disinformati e di sprovveduti e fanatici nei campus e nelle organizzazioni umanitarie, quelli che lo vedono come il fucilatore degli affamati, l’uccisore di bambini, lo stragista degli innocenti, ora che una prospettiva meno fosca si è aperta grazie al controllo delle informazioni e dei cieli e all’immensa necessità di distruzione soddisfatta dal sacrificio di un paese e di un esercito, e dalla tormentosa sorte dei suoi nemici che hanno sacrificato un popolo come scudo di una banda terrorista, non dovrebbero fare ammenda e riflettere sine ira ac studio sulla quantità di balle dolose che hanno profuso prima di tutto a sé stessi?

Il Foglio, 30 giugno 2025)


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C'è qualcosa di diabolico nell'avversione a Netanyahu

In un commento dell'anno scorso scrivevo: "L’odio implacabile per Netanyahu, dentro e fuori Israele, ha qualcosa di arcano, proprio come l’odio per Israele, con cui in molte menti indissolubilmente si confonde. Da riflettere."
Riflessione conclusiva: se è azzardato dire che Netanyahu è ispirato da Dio nelle sue decisioni per Israele, è giustificato dire che l'opposizione a Netanyahu è ispirata dal Diavolo. Gli elementi a favore della diabolicità di questo odio sono gli stessi che spiegano il furore antisemita. Osservati con attenzione, sono gli stessi. E il Diavolo, quando opera, non sta a guardare se gli strumenti di cui si serve sono ebrei o gentili. M.C.

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L'enigma biblico dietro l'operazione militare di Israele

Israele ha scelto deliberatamente il nome “Popolo come un leone” per la sua operazione militare. Con questo nome si voleva inviare un messaggio preciso al popolo iraniano, che solo chi legge la Bibbia può comprendere.

di Nicolai Franz

L'attacco di Israele all'Iran ha tenuto il mondo con il fiato sospeso come nessun altro argomento nelle ultime due settimane. Dal punto di vista militare, l'operazione “Rising Lion” (“Popolo come un leone”) è stata, per quanto si sa, un grande successo. Non è ancora possibile prevedere se a lungo termine porterà alla pacificazione della regione o addirittura a un cambio di regime.
  Ma “popolo come un leone” era molto più di un attacco militare. Con il solo nome, Israele ha inviato diversi messaggi contemporaneamente. Si tratta della Bibbia, di un'amicizia millenaria e di un antico impero che potrebbe ritrovare nuova forza.
  Il 12 giugno 2025, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha infilato un biglietto nel Muro del Pianto. Come è stato reso noto, su di esso era scritto un versetto della Bibbia tratto da Numeri 23,24: “Ecco, il popolo si leverà come un leone giovane e si ergerà come un leone”.
  Il profeta Balaam rivolge queste parole al popolo d'Israele. Il re moabita Balak gli aveva ordinato di maledire gli Israeliti, ma Balaam fece il contrario. E incoraggiò il popolo benedicendolo.
  Il giorno dopo la visita al Muro del Pianto è iniziata l'operazione “Popolo come un leone”. Naturalmente il biglietto di Netanyahu non era una coincidenza, ma parte di una sofisticata campagna di pubbliche relazioni. Cosa voleva dire? Le risposte sono complesse e ambigue. Da un lato, la campagna sottolinea la forza di Israele: state attenti, siamo forti come un leone.
  In effetti, gli attacchi di Israele sono stati un grande successo militare. Ma Netanyahu ha anche sottolineato più volte di non avere alcun problema con il popolo iraniano. Al contrario: ha invitato gli iraniani a scendere in piazza contro il regime dei mullah, a “sollevarsi” come il popolo d'Israele nel quarto libro del Levitico. Il messaggio: non siete nostri nemici, ma nostri amici. Combattiamo insieme contro i mullah.

Ciro liberò Israele
  Dalla rivoluzione del 1979, l'obiettivo dello Stato iraniano è quello di cancellare Israele dalla mappa. Tuttavia, secondo gli osservatori, la maggior parte della popolazione iraniana non ha nulla contro Israele. Anche durante la guerra dei sei giorni, l'Iran ha sostenuto politicamente Israele. Ma il rapporto speciale tra i due popoli risale a migliaia di anni fa.
  I segnali inviati da Netanyahu al popolo iraniano sono culminati in un'intervista alla televisione israeliana: “Ciro liberò gli ebrei e oggi lo Stato ebraico potrebbe liberare i persiani”. In effetti, molto prima dell'avvento dell'Islam, il re persiano aveva liberato il popolo d'Israele dalla prigionia babilonese. Il popolo di Dio poté tornare in Israele e fu persino autorizzato a ricostruire il tempio.
  Ora è tempo che Israele ricambi il favore, almeno così vuole far capire Netanyahu. E poi c'è la vecchia bandiera della Persia. Per millenni un animale speciale ha simboleggiato l'impero persiano: il leone. Solo nel 1979 è stato bandito dalla bandiera nazionale nel corso della rivoluzione islamica. Accanto al leone: un sole nascente.
  Non c'è dubbio: con “popolo come un leone” Netanyahu voleva fare qualcosa di più che lanciare qualche missile sull'Iran. Voleva far rivivere un'amicizia secolare per distruggere il nemico giurato di Israele. Una cosa è chiara: questo nemico non è il popolo iraniano, ma i mullah che lo opprimono.

(Israelnetz, 30 giugno 2025)

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La settimana di Israele: vittoria totale

di Ugo Volli

Prima della guerra
  La notizia principale della settimana è quella che i media e i politici in Europa e anche in Italia si rifiutano ostinatamente di dare: Israele ha vinto, la guerra non è finita ma si avvia verso la conclusione. La vittoria di Israele risulta chiara semplicemente confrontando la situazione di questi giorni con quella subito precedente al 7 ottobre. Allora Hamas aveva decine di migliaia di uomini armati e ben disciplinati, almeno 20 o 30 mila missili, l’appoggio della popolazione di Gaza che amministrava, oltre che quello di altre organizzazioni terroristiche come la Jihad Islamica (direttamente iraniana) e le “brigate di Al Aqsa” (di Fatah), era arroccata in una rete di fortificazioni sotterranee di 800 km, seguiva un piano ben congegnato per prendere di sorpresa lo Stato ebraico onde assicurarsi l’insurrezione degli arabi israeliani e di Giudea e Samaria, contava sulla divisione politica e sociale profonda di Israele. Otteneva rifornimenti dal confine egiziano, era sostanzialmente appoggiato dall’Onu attraverso l’Unrwa e visto di buon occhio dalla sinistra mondiale. Era garantito, finanziato e armato dalla potenza regionale che puntava all’egemonia e allo status di grande potenza, l’Iran. Al Nord c’era Hezbollah, che aveva ancora più soldati e meglio armati di Hamas; i suoi missili erano 100 o 150 mila, molti di precisione. Aveva anch’essa i suoi tunnel e l’appoggio diretto dell’Iran, governava in sostanza il Libano e usava il corpo internazionale di Unifil come scudo. A Nordest c’era il regime siriano, indebolito dalla guerra civile, ma garantito da militari russi e di Hezbollah, comunque coi suoi missili, aerei e forze corazzate, ben disposto a fare da ponte fra Iran e Hezbollah. Dietro c’erano altri satelliti iraniani, gli Houti in Yemen, gli sciiti in Iraq. Tutte creature dell’Iran, con la sua grande popolazione, l’industria moderna, il petrolio, le alleanze con Russia e Cina, i missili balistici a lunga gittata, un progetto di armamento atomico che era ormai arrivato alla soglia della bomba: la testa del serpente.

La situazione attuale
  Oggi tutto questo non c’è più. Decimato Hamas, i suoi capi sul campo e all’estero eliminati, buona parte delle sue fortificazioni e quasi tutti i missili distrutti, i canali di rifornimento tagliati. Gli resta l’appoggio dell’Onu e della sinistra mondiale con i suoi media e le loro menzogne (quotidiane a prova della loro vergogna). Hezbollah ha perso le sue armi, i suoi comandanti, le sue installazioni, il dominio del Libano, quasi tutto il peso politico. La Siria è passata in mano a un gruppo anti-iraniano, che certamente è manipolato dalla Turchia, ma esprime volontà di far la pace con Israele (come molti in Libano) e non fa più da ponte per l’infiltrazione persiana sul Mediterraneo. Degli altri gruppi restano attivi gli Houti, pesantemente colpiti però da Israele e dagli Usa. Soprattutto l’Iran ha perso la sua invincibilità, non ha più difese aeree, gli restano pochi missili, ha visto il programma atomico annullato o molto ritardato (e sottoposto alla minaccia di nuovi bombardamenti se proverà a ricostituirlo). Non c’è stata l’insurrezione popolare che si sperava, ma certo Israele con 10 milioni di abitanti contro i quasi 90 dell’Iran e stando più di mille chilometri lontano non poteva imporlo. Ma i processi storici richiedono i loro tempi, bisogna vedere se i persiani saranno disposti a pagare il prezzo enorme necessario per cercare di far ripartire il progetto imperialista del regime.

Il merito di Netanyahu
  L’architetto di questa vittoria ha un nome, Benjamin Netanyahu. È lui che ha capito, contro l’opinione dell’amministrazione Biden, dell’Europa e della minoranza in Israele, che questa volta non sarebbe bastata un’operazione “per ristabilire la dissuasione”, ma ci voleva un cambio del paesaggio politico del Medio Oriente e dunque prima di tutto un’operazione di terra a Gaza. È lui che ha voluto andare fino in fondo, occupare il confine con l’Egitto e Rafah, contro gli strilli di mezzo mondo, i “don’t” di Biden, la resistenza del capo di stato maggiore e del direttore dei servizi segreti competenti (Shin Bet) che ha licenziato. È lui che ha insistito nella nuova mossa ora vincente e per questo demonizzata da Europa, Onu, stampa, di eliminare la distribuzione di soccorsi dell’Onu, collusa con Hamas, e di sostituirla con una cogestita con gli Usa. È lui che ha deciso, pure qui vincendo molte resistenze anche interne, il bombardamento di Nasrallah e l’uso dei carcapersone esplosivi per eliminare i capi di Hezbollah. È lui che ha speso le sue sofisticate abilità diplomatiche per ottenere l’assenso dell’amministrazione Biden prima e di quella Trump dopo per le sue scelte, senza mai forzare, aspettando pazientemente il momento giusto. È lui che ha deciso il bombardamento dell’Iran dopo aver coinvolto Trump (che la solita stampa diceva avesse rotto con lui). Ed è lui che in cambio del bombardamento di Fordow, punto decisivo della guerra con l’Iran, ha accettato il cessate il fuoco voluto dal presidente americano: altra prova di flessibilità e capacità diplomatica. La vittoria, perseguita con ostinazione per 21 terribili mesi, è sua. Nessuna sorpresa che la sinistra estrema ma anche moderata, politica ma anche mediatica, lo odii come mai aveva odiato nessun altro dei molto diffamati dirigenti israeliani.

Una dimensione storica
  La guerra che Israele ha vinto non è solo quella dei “dodici giorni” con l’Iran e neppure quella aperta con il pogrom criminale del 7 ottobre 2023 e i bombardamenti successivi (cui subito, il giorno dopo stesso, si unì Hezbollah, e che le carte di Sinwar mostrano pienamente concordata con l’Iran). È la guerra che da decenni organizza l’Iran, raccogliendo la bandiera del terrorismo dei Fatah e dell’Olp e l’eredità delle quattro guerre promosse dagli stati arabi (1948-49, ‘56, ‘67, ‘73). È la guerra dei cent’anni dei musulmani contro l’instaurazione di uno Stato ebraico in Terra di Israele, partita coi pogrom del 1921. Questa è una vittoria più grande e decisiva di tutte quelle passate. Mai Israele aveva combattuto contro tante forze e su tanti fronti, Soprattutto mai era arrivata alla radice dell’aggressione: dietro all’Egitto e alla Siria nelle guerre dopo la costituzione dello Stato c’era la potenza atomica dell’Urss, mentre oggi si è visto che Russia e Cina sono capaci di spendere parole e spedire rifornimenti all’Iran, ma non si sognano di minacciare Israele. Certo, il lavoro è incompleto, Khamenei ancora è il leader iraniano, ma Nasser rimase presidente dell’Egitto dopo aver perso la guerra dei Sei giorni, fino alla sua morte nel 1970 e così Hafez Assad dopo il 1973. I risultati politici successivi a quelle guerre si realizzarono solo dopo anni.

La conclusione e i dopoguerra
  Ora il punto è come concludere questa guerra e come non far svanire la vittoria con condizioni di pace fallimentari, come vorrebbe l’Europa, la sinistra mondiale e anche quella interna, proponendosi una nuova Oslo o un accordo atomico con l’Iran su stile Obama. Non è possibile pensare che Hamas resti in circolazione più di quanto potesse rimanere in piedi un partito nazista nella Germania dopo il ’45. Non può essere l’Onu o una sua creatura inetta e complice come Unrwa o Unifil ad amministrare la transizione. Non può essere assegnato un ruolo all’impotente, corrotta e anch’essa complice Autorità Palestinese, prossima del resto allo scontro interno quando il vecchio e malato Mahmud Abbas morirà o sarà costretto al ritiro. È una partita che si giocherà fra Israele, Usa (cioè Trump) e stati arabi moderati (innanzitutto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con una certa influenza dell’Egitto). Per vincerla Israele avrà ancora bisogno di Netanyahu. Chi si illude di metterlo fuori gioco in cambio alla fine della persecuzione giudiziaria di cui è oggetto (e che l’ha intricato vergognosamente anche nei momenti più difficili di questa guerra), non conosce la tempra del leader e comunque non svolge un buon servizio a Israele.

(Shalom, 29 giugno 2025)

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La risurrezione di Israele

di Johannes Pflaum

Vorrei iniziare questo argomento con due uomini che avevano lo stesso nome e vivevano nello stesso periodo: uno in Europa, l'altro oltreoceano, negli Stati Uniti. Entrambi erano cristiani devoti e convinti che prima del ritorno di Gesù sarebbe avvenuto il ritorno degli ebrei in Israele, allora ancora chiamata Palestina, e che Israele sarebbe risorto.
   Il primo è William Hechler, che operò in Europa. Visse dal 1845 al 1931 e nacque in India da un missionario anglicano. Hechler stesso divenne pastore anglicano e, sulla base delle profezie bibliche, era fermamente convinto della restaurazione di Israele prima del ritorno di Gesù.
   Come precettore alla corte del Granduca di Baden, ebbe accesso alla nobiltà tedesca. Divenne un caro amico di Theodor Herzl e lo incoraggiò nella sua causa sionista, poiché egli stesso credeva nella restaurazione di Israele. Grazie ai suoi contatti, Hechler cercò di spianare la strada a Herzl presso varie case reali europee. Riuscì così a portare la questione all'attenzione dell'imperatore Guglielmo II, che alla fine la sottopose al sultano di Costantinopoli. Tuttavia, il reggente turco, sotto il cui dominio si trovava allora la Palestina, non mostrò alcun interesse.
   Hechler rimase al fianco di Herzl fino alla sua morte, avvenuta nel 1904. Quando Herzl cominciò a impazientirsi, Hechler gli scrisse:

    «Rimani calmo, sereno. Lassù, al vertice di tutte le cose, troneggia Colui che governa tutto secondo la sua volontà, nonostante la malvagità degli uomini. Seguiamo Lui. Io sto facendo propaganda ovunque [...] Dio ti benedica».

Quando le speranze di una patria ebraica rimasero deluse, pochi mesi prima della sua morte Hechler intuì che la rinascita di Israele sarebbe avvenuta attraverso una catastrofe. In una conversazione disse: «Una parte dell'ebraismo europeo dovrà essere sacrificata per la rinascita della vostra patria... »
   Sebbene alcune delle speculazioni di Hechler fossero irrealistiche, la sua chiara visione della restaurazione di Israele sulla base delle Sacre Scritture rimane indiscussa. Egli era anche in contatto con la Pilgrim Mission Chrischona ed era vicino al movimento di santificazione. Solo nel 2010 è stata riscoperta la sua tomba dimenticata a Londra.
   Con questo arriviamo a William Blackstone, vissuto dal 1841 al 1935. Era un uomo d'affari di successo e un devoto seguace di Gesù. Blackstone sostenne finanziariamente la fondazione del Moody Bible Institute e nel 1878 scrisse il libro «Jesus is Coming». Fondò anche la prima missione per l'evangelizzazione degli ebrei negli Stati Uniti.
   Nel 1890 organizzò una conferenza di cristiani ed ebrei sul passato, il presente e il futuro di Israele. Promosse un sionismo che doveva andare a beneficio sia degli ebrei che degli arabi. Blackstone fu anche cofondatore e primo decano della Biola University. La rivista Biola scrive di lui:

    «Venticinque anni dopo, il giudice della Corte Suprema Louis Brandeis definì Blackstone “il padre del sionismo” e gli chiese di presentare nuovamente al presidente Wilson la sua petizione del 1891, nota come “Blackstone Memorial”. Questa petizione era considerata la migliore espressione di compassione umanitaria nei confronti dei rifugiati ebrei perseguitati e del loro diritto umano a una patria nazionale sicura».

Quando iniziò il movimento sionista, Blackstone inviò a Theodor Herzl una Bibbia in cui aveva segnato tutti i passaggi profetici su Israele. Anche lui fu sepolto in una tomba semplice. Su di lui si legge nella Wikipedia inglese:

    «Senza gli sforzi profusi dal reverendo Blackstone nel corso della sua vita per promuovere il sostegno politico americano e la comprensione profetica del dispensazionalismo e del restaurazionismo negli Stati Uniti, il sostegno americano al sionismo e allo Stato di Israele avrebbe potuto essere molto diverso. Famoso durante la sua vita, cadde poi nell'oblio».

Entrambi i Williams credevano indipendentemente l'uno dall'altro nella realizzazione letterale della profezia biblica e nella riunione e risurrezione di Israele, e questo già prima che si tenesse il primo congresso sionista a Basilea nel 1897.
   Siamo così giunti al nostro vero argomento: la risurrezione e la salvezza di Israele. Ma esaminiamo prima il testo del profeta Ezechiele

Una situazione desolante
  In Ezechiele 6 e 36, il profeta riceve l'incarico di parlare alle montagne d'Israele. Il capitolo 6 parla del giudizio imminente, mentre il capitolo 36 della futura salvezza di Israele. Nel capitolo 37, Ezechiele viene condotto in spirito in una valle. Questa valle, piena di ossa di morti, offre uno spettacolo desolante. Ma torneremo su questo punto tra poco; prima facciamo un'osservazione sul contesto del testo.
   Come già detto, le montagne di Israele in Ezechiele 36 e la valle in Ezechiele 37 sono collegate alla restaurazione di Israele. Nei capitoli 38 e 39 viene poi menzionato Gog di Magog, che sarà colpito dal giudizio di Dio sui monti e nelle valli dell'Israele restaurato. I monti d'Israele e la valle sono inizialmente testimoni e teatro del giudizio di Dio sul suo popolo eletto. Ma dopo la risurrezione di Israele e in relazione alla sua salvezza, essi diventano luoghi di giudizio per i nemici del popolo di Dio.
   Ora consideriamo la grande pianura piena di ossa secche. Per un ebreo, un luogo simile, dove giacciono ossa di morti non sepolti, sarebbe associato all'impurità. Diversi interpreti sottolineano che queste ossa secche assomigliano a un campo di battaglia o ai resti di una battaglia persa. Ciò rende tangibile la situazione al tempo di Ezechiele: il regno meridionale di Giuda era stato distrutto e devastato dai Babilonesi. La morte e il terrore si erano diffusi, molte persone erano state deportate in Babilonia come prigionieri. Durante la lunga e faticosa marcia attraverso il deserto morirono numerosi israeliti. Ma non è tutto.
   Nel versetto 11 viene spiegato a Ezechiele che le ossa secche simboleggiano l'intera casa d'Israele, la cui speranza è completamente perduta. Non si tratta quindi solo di Giuda e del tempo di Ezechiele. Già oltre cento anni prima, il regno delle dieci tribù era stato deportato dagli Assiri. Anche se il ritorno dalla cattività babilonese portò nuova speranza a Giuda e Israele tornò ad esistere al tempo del Nuovo Testamento, sebbene sotto il dominio straniero romano, con la nuova dispersione nel 70 iniziò un lungo periodo di sofferenza per il popolo ebraico. Solo tra il 67 e il 70 d.C., durante l'assedio e la conquista di Gerusalemme da parte dei Romani, morirono oltre un milione di persone. A queste si aggiunsero numerose altre vittime nella guerra giudaico-romana.
   Quando l'imperatore Adriano represse la rivolta di Bar Kochba nel 135, furono uccisi ancora oltre mezzo milione di ebrei. Altre centinaia di migliaia morirono nelle repressioni che seguirono. Werner Keller scrisse al riguardo:

    «Erez Israel offriva uno spettacolo spettrale. Era completamente devastata e quasi deserta. L'odore di putrefazione della morte impestava l'aria. I cadaveri non potevano essere sepolti: la loro vista doveva servire da monito e deterrente. Tutti i villaggi e le località che avevano opposto resistenza erano ridotti in cenere. In Galilea, un tempo ricoperta di uliveti e vigneti, non c'era quasi più un ulivo o una vite. Dopo le enormi perdite della guerra ebraica, i pochi abitanti rimasti nel paese erano stati decimati in modo terribile. I ribelli catturati, tra cui donne e bambini, furono venduti al mercato della «Terebinto di Abramo» a Mamre e al mercato degli schiavi di Gaza. Molti furono deportati in Egitto. Per mesi, i commando romani continuarono a dare la caccia ai fuggitivi e ai dispersi che si nascondevano nelle valli e nelle caverne.»
Da quel momento in poi, un filo triste attraversa la storia del Medio Oriente e dell'Europa. Ovunque gli ebrei siano andati nel corso dei secoli, sono stati ripetutamente vittime di pogrom, persecuzioni e omicidi di massa. Non va dimenticato che la storia dell'Europa era già stata segnata da un crudele antigiudaismo molto prima del nazionalsocialismo. Anche in Nord Africa ci furono persecuzioni. Da non sottovalutare sono inoltre le persecuzioni degli ebrei da parte della Chiesa cattolica.
   Così, una scia di espulsioni e di esilio attraversa la storia dell'intera casa d'Israele. Più volte sono stati oppressi, perseguitati e cacciati. In questo contesto, il versetto 11 assume un significato ancora più profondo: «Le nostre ossa sono secche, la nostra speranza è perduta, è finita per noi».

Facciamo un salto al 5 gennaio 1895
  Quel giorno, sulla piazza d'armi dell'Accademia Militare di Parigi, un ufficiale francese fu solennemente spogliato dei suoi gradi e la sua spada fu spezzata con un gesto drammatico. La folla inferocita che si era radunata gridava slogan antisemiti. Il capitano ebreo Alfred Dreyfus era accusato di aver tradito piani segreti alla Germania. L'argomento: «Solo gli ebrei potevano commettere un tradimento così atroce». In un processo scandaloso fu condannato e deportato sull'Isola del Diavolo. Solo anni dopo fu possibile dimostrare la sua innocenza e Dreyfus fu riabilitato.
   Tra gli osservatori di questo processo scandaloso c'era un giovane corrispondente di un giornale viennese. Quest'uomo era egli stesso ebreo e l'ingiusta sentenza non gli dava pace. Cominciò a riflettere sul suo popolo, disperso in tutto il mondo. Non c'era una patria, uno Stato che rappresentasse e difendesse gli interessi degli ebrei. Così questo giornalista viennese, Theodor Herzl, scrisse il suo famoso opuscolo «Der Judenstaat» (Lo Stato ebraico) e divenne il fondatore del sionismo.
   Ma l'antigiudaismo in Europa continuò a divampare fino all'ascesa al potere del movimento nazionalsocialista in Germania. Hitler perseguiva l'obiettivo di sterminare tutti gli ebrei. In una diabolica distorsione della storia biblica della salvezza, era convinto che un nuovo paradiso sulla terra potesse sorgere solo dopo la sconfitta del nemico giurato, il popolo ebraico.
   La speranza suscitata dalle prime ondate di pionieri ebrei che tornavano in patria fu brutalmente spazzata via dalla Shoah, la catastrofe dell'Olocausto. Oltre sei milioni di ebrei furono uccisi in modo atroce. Allo stesso tempo, l'Impero britannico limitò drasticamente l'immigrazione degli ebrei in Palestina.
   Un aspetto poco conosciuto di questo periodo è illustrato nel libro dello storico israeliano Dan Diner, pubblicato nel 2022, «Ein anderer Krieg» (Un'altra guerra). In esso, egli esamina gli sviluppi della seconda guerra mondiale dal punto di vista degli ebrei in Israele, allora ancora chiamata Palestina.
   Diner chiarisce che la Wehrmacht tedesca stava preparando una morsa sulla Palestina di allora, da un lato attraverso il Nord Africa, dall'altro attraverso il Caucaso. Le truppe tedesche in Africa erano a soli 230 chilometri dal Cairo e nell'agosto 1942 la bandiera di guerra del Reich sventolava già sulla vetta più alta del Caucaso. Nessuno poteva sapere allora che la svolta a favore degli Alleati era imminente nelle battaglie di El Alamein e Stalingrado.
   All'epoca, i vertici della Haganah, l'esercito clandestino ebraico, discutevano se oltre 100.000 ebrei dovessero ritirarsi sul Monte Carmelo per opporre un'ultima eroica resistenza all'avanzata dei tedeschi, proprio come i difensori di Masada nel 70 d.C. Anche i combattenti clandestini dell'Irgun pensarono di radunare 1000 uomini nella città vecchia di Gerusalemme per opporre una resistenza accanita ai tedeschi per due mesi.
   Ogni speranza per tutta la casa d'Israele sembrava perduta.

Le parole potenti di Dio
  Di fronte all'enorme campo pieno di ossa di morti, il Signore pone una domanda a Ezechiele: Queste ossa possono tornare in vita? Il profeta viene chiamato «figlio dell'uomo», un appellativo che ricorre circa un centinaio di volte in questo libro. Esso evidenzia l'enorme differenza tra il Dio vivente e noi esseri umani, un fatto di cui oggi spesso non siamo più consapevoli.
   «Figlio dell'uomo, queste ossa possono tornare in vita?» (v. 3). A differenza di alcuni entusiasti che forse avrebbero esclamato: «Nessun problema, puoi farlo!» o «Ce la farò, se pregherò con forza!», Ezechiele risponde in modo diverso. Le sue parole dimostrano che è consapevole dell'immensa differenza tra lui, figlio dell'uomo, e l'onnipotente Dio d'Israele: «Signore, Signore, tu lo sai». Questa risposta è allo stesso tempo espressione di completa fiducia in Dio e di totale sottomissione al suo piano e alla sua volontà: non è un'esibizione entusiastica, ma un umile riconoscimento della signoria e della sovranità di Dio.
   Ezechiele riceve quindi l'incarico di profetizzare su queste ossa. In questa profezia riconosciamo diversi aspetti. Da un lato, si rivela la forza creatrice e potente della parola di Dio. Proprio come nel racconto della creazione, il Dio vivente parla e l'impossibile accade: le ossa disperse si ricompongono, crescono carne e tendini e infine Dio soffia il suo alito vitale. Qui si nota un chiaro parallelismo con la storia della creazione.
   Strettamente legato a questo tema è quello della risurrezione dei morti. Alcuni interpreti vedono in questo capitolo un riferimento dell'Antico Testamento alla risurrezione dei morti. In effetti ci sono alcuni parallelismi, ma se consideriamo il brano nel suo contesto complessivo, non si tratta della risurrezione generale dei morti, ma del miracolo della restaurazione di Israele e del popolo ebraico. Ciò è particolarmente evidente nei versetti 13 e 14. Il ritorno di Israele nella sua terra e il rinnovamento spirituale del popolo sono al centro dell'attenzione.
   Quando nel versetto 7 le ossa si avvicinano, ciò è accompagnato da un forte rumore e fragore, un altro segno dell'azione potente di Dio. Ciò potrebbe essere collegato all'opera dello Spirito di Dio. È interessante notare, tuttavia, che nella seconda profezia dei versetti 9-10, quando viene soffiato il soffio vitale, non si fa menzione di alcun fragore. La Bibbia Schlachter-2000 traduce in una nota a piè di pagina il tremore delle ossa nel versetto 7 addirittura con «Erdbeben» (terremoto). Ci si chiede quindi se qui non si alluda a un evento violento, addirittura sconvolgente, legato alla risurrezione dello Stato e del popolo di Israele.
   Alcuni interpreti vedono in Ezechiele 37 il compimento del ritorno dalla cattività babilonese. Potrebbe trattarsi di un adempimento anticipato, ma la domanda rimane: Tutto ciò che è scritto in questo capitolo è realmente accaduto allora?
   Il vento soffia da tutte e quattro le direzioni, mentre il ritorno dall'esilio babilonese avvenne principalmente da una sola direzione. Inoltre, nel versetto 10 si parla di un «esercito grandissimo», un'espressione che ricorda molto la promessa di Geremia 33:22:

    «Come l'esercito del cielo non può essere contato e la sabbia del mare non può essere misurata, così renderò numeroso il seme del mio servo Davide e i Leviti che mi servono».

Dopo il ritorno dalla cattività babilonese fino alla dispersione nel 70, Israele invece rimase piuttosto modesto rispetto alla sua grandezza precedente.
   Un altro punto importante si trova nel versetto 14: Dio stesso dice che metterà il suo Spirito nel suo popolo. Ciò è direttamente collegato al rinnovamento spirituale di Israele descritto nella seconda parte di Ezechiele 36. Sebbene il ritorno sotto Zorobabele, Esdra e Neemia possa essere descritto come un risveglio, all'epoca non ci fu un rinnovamento spirituale completo. Già i profeti Aggeo e Zaccaria dovettero predicare contro l'inerzia. Esdra e Neemia lottarono contro i mali spirituali e infine Malachia mise in evidenza la crescente superficialità e la conseguente apostasia all'interno del sacerdozio e del popolo. Pertanto, non è convincente considerare Ezechiele 37 come già adempiuto.
   Ho citato prima William Hechler e William Blackstone. Entrambi erano convinti, sulla base delle profezie bibliche, della rinascita di uno Stato ebraico. Si potrebbe essere tentati di giustificare questo con il nascente sionismo, ma la loro visione della storia della salvezza era già presente molto prima di questo movimento. Anche la prima grande ondata di ritorno in Israele, iniziata nel 1882, era ancora lontana quando essi espressero la loro convinzione.
   C'erano altri cristiani professanti che, sulla base della Bibbia, credevano nella restaurazione di Israele alla fine dei tempi, anche se all'epoca non c'era alcun segno storico che lo indicasse. Due altri esempi:
   Charles H. Spurgeon (1834-1892) può essere definito un teologo riformato. Mentre molte parti della teologia riformata, nonostante numerose intuizioni preziose, non vedevano un futuro profetico per la terra e il popolo di Israele, Spurgeon era convinto del significato letterale della profezia e credeva nell'adempimento delle promesse fatte a Israele.
   Il 9 maggio 1878 predicò sulla vite d'Israele e chiarì che credeva nella restaurazione di Israele come nazione. In un sermone del 16 giugno 1864, Spurgeon disse, riferendosi a Ezechiele 37,1-10:

    «Il significato letterale e il significato del passo scritturale (Ezechiele 37,1-10) mi appaiono chiari ed evidenti, un significato che non può essere spiritualizzato o ignorato, che dimostra chiaramente che sia le due che le dieci tribù di Israele saranno restaurate nella loro terra e che un re regnerà su di loro».

Anche nella sua ultima grande battaglia, la controversia sul downgrade (1887-1891), Spurgeon rimase fedele alla sua fede nel ritorno di Gesù e nella successiva instaurazione del Regno Millenario.
   Il pastore Karl-August Dächsel visse dal 1818 al 1901 e divenne famoso grazie alla sua serie di commenti in sette volumi «Dächsel's Bibelwerk» (L'opera biblica di Dächsel). Suo padre, anch'egli pastore protestante, non solo era il padrino della sorella di Friedrich Nietzsche, ma era anche sposato in seconde nozze con la sorellastra di Nietzsche. È sconvolgente pensare a quali testimoni di Cristo avesse intorno a sé il filosofo ateo Nietzsche.
   Poiché Karl-August Dächsel prendeva alla lettera le Sacre Scritture, era convinto della restaurazione di Israele e della sua salvezza. Ciò emerge chiaramente dalla sua interpretazione di Ezechiele 37. Ecco alcuni estratti dal suo commento:

    «Tutti gli interpreti concordano sul fatto che, secondo l'interpretazione inequivocabile di Ezechiele, questa visione non si riferisce alla risurrezione dei cadaveri, ma alla rinascita del popolo d'Israele, spiritualmente morto ma ancora vivente nel corpo; ciò è confermato in modo incontrovertibile dalle parole: “Queste ossa sono tutta la casa d'Israele...”».

E continua:

    «La rappresentazione della risurrezione delle ossa morte in due atti si spiega con il riferimento alla storia della creazione dell'uomo e serve, come in quel caso per la creazione dell'uomo, a descrivere in modo vivido la risurrezione creativa di Israele come opera del Dio onnipotente».

Come già accennato, alcuni interpreti considerano Ezechiele 37 come il compimento del ritorno dall'esilio babilonese. A questo proposito Dächsel scrive:

    «... questo adempimento è stato preparato e avviato dal ritorno di una parte del popolo dall'esilio babilonese sotto Zorobabele ed Esdra, nonché dalla ricostruzione dell'ordine distrutto, ma tutto ciò non era altro che un pegno per la futura piena restaurazione di Israele».

Più avanti, Dächsel spiega perché la salvezza definitiva di Israele avverrà solo quando sarà completo il numero dei credenti provenienti dalle nazioni.

Le due fasi del ripristino di Israele
  Come già accennato, la valle piena di ossa di morti acquista ancora più significato alla luce della storia di Israele dopo la dispersione del 70. A questo proposito cito lo storico, ebreo messianico e teologo luterano David Jaffin, uno dei miei insegnanti:

    «La mano di Dio mi toccò», si legge in Ezechiele 37, «e mi condusse in un campo e mi disse: Ezechiele, che cosa vedi? E io risposi: “Per quello che vedo, Signore, non vedo altro che ossa”. Questo è Auschwitz».

Egli sottolinea che la maggior parte dei teologi rifiuta il ritorno di Israele. Come già accennato, nelle ossa dei morti e nella disperazione che esse evocano vediamo la sanguinosa storia di Israele durante la diaspora. Ma proprio alla luce della Shoah questo testo tocca particolarmente nel profondo.
   Pensiamo alle terribili scoperte fatte dagli Alleati durante la liberazione dei campi di concentramento: montagne di cadaveri, sopravvissuti ridotti a scheletri, immagini e filmati difficili da sopportare. Pensiamo alle fosse comuni della Shoah, come i tumuli di Bergen-Belsen. Su ciascuno di questi tumuli è riportato il numero stimato delle vittime: centinaia, migliaia. Una realtà del genere sconvolge profondamente.
   Nei versetti 12-13 leggiamo:

    «Perciò profetizza e di' loro: Così dice il Signore Dio: Ecco, io aprirò le vostre tombe e farò uscire dalla vostra tomba il mio popolo, e vi ricondurrò nel paese di Israele; e voi riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e farò uscire dalla vostra tomba il mio popolo».

Israele uscirà da una situazione senza speranza. Se pensiamo all'intera storia della dispersione, ma anche ai campi di sterminio del nazionalsocialismo, vediamo che torneranno e diventeranno di nuovo un popolo.
   Se nel 1943 qualcuno avesse osato affermare che in cinque anni lo Stato di Israele sarebbe risorto dopo quasi duemila anni di dispersione, sarebbe stato dichiarato pazzo. Eppure, poco dopo questa terribile catastrofe del popolo ebraico, accadde l'inimmaginabile: attraverso il fragore mondiale della seconda guerra mondiale, attraverso il terremoto della Shoah, fu preparata la risurrezione di Israele.
   Nel nostro testo si possono distinguere due fasi della restaurazione di Israele. Dopo la prima profezia, le ossa si riuniscono, vengono ricoperte di carne e pelle - questo è descritto nei versetti 7-8 e 12-13. Segue poi la seconda fase nel versetto 9: Ezechiele deve profetizzare di nuovo. Lo spirito vitale di Dio entra nei corpi e li rende vivi. In questo contesto, il versetto 14 dice che il Signore metterà il suo spirito in loro. Questa seconda fase descrive la salvezza e il rinnovamento spirituale del residuo di Israele.
   Quando pensiamo di scoprire qualcosa nella Bibbia che nessuno ha mai visto prima, è pericoloso. Ma quando scopriamo qualcosa e poi ci rendiamo conto che altri servitori di Dio l'hanno vista allo stesso modo, è una conferma. Spurgeon era sempre felice quando, durante la preparazione delle sue prediche, trovava pensieri che poi trovava confermati nei commentari biblici. Già il testo con la sua doppia profezia dà un chiaro indizio delle due fasi. Questa distinzione si trova anche nell'opera biblica di Däxels. Egli scrive:

    «Come nella visione prima appare il lato inferiore (v. 7 s.), poi quello superiore (v. 9 s.), o più precisamente, viene rappresentata la separazione di questi due lati sotto forma di differenza temporale, così anche nell'interpretazione si distinguono chiaramente l'instaurazione politica (v. 12 s.) e quella spirituale (v. 14).»

Dächsel riconosce in questo testo la differenza tra la restaurazione politica e quella spirituale di Israele.

A. La prima fase della restaurazione di Israele
  Le ossa dei morti si riuniscono. Con il sionismo di Herzl, la speranza perduta di Israele riprese vigore. Nel 1897 si tenne a Basilea il primo congresso sionista. Fritz Grünzweig riporta quanto segue da un testimone oculare dell'epoca:

    «A questo congresso erano riuniti ebrei provenienti da tutta Europa: commercianti, banchieri e molti altri. Si discussero diverse possibilità per una patria ebraica, tra cui il Madagascar e l'Africa. Nel bel mezzo del dibattito, un vecchio rabbino gridò le parole del Salmo 137: ‘Se mi dimentico di te, Gerusalemme, la mia destra si paralizzi’. Allora quegli uomini esperti si alzarono, si abbracciarono in lacrime e dissero: “Venite, andiamo nella terra dei nostri padri...”».

Tra il 1882 e il 1903 ebbe luogo la prima Alija, la prima ondata di ritorno degli ebrei in Palestina. All'epoca arrivarono fino a 30.000 persone. Tra il 1904 e lo scoppio della prima guerra mondiale seguì la seconda Alija con diverse decine di migliaia di immigrati.
   Nel 1908 fu scoperto il primo giacimento di petrolio in Medio Oriente. Con la Dichiarazione Balfour del 1917 fu concesso agli ebrei il diritto a una patria nazionale in Palestina. Ciò portò a una nuova ondata di immigrazione tra il 1919 e il 1932. In questo periodo furono scoperti altri grandi giacimenti di petrolio in Medio Oriente, il che rafforzò l'interesse delle potenze coloniali per la regione. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale seguirono altre tre ondate di rimpatrio.
   Alla fine furono gli eventi della Shoah ad accelerare rapidamente il ritorno degli ebrei in Israele. Su navi in parte fatiscenti, migliaia di ebrei tornarono nella terra dei loro padri, molti di loro completamente emaciati, sopravvissuti ai campi di concentramento.
   L'antico campo di morte di Ezechiele cominciò a trasformarsi nuovamente in corpi viventi. Nel 1948 il mondo assistette alla risurrezione di Israele dalle ceneri della storia. Tuttavia, l'Israele spiritualmente rinnovato e salvato deve ancora venire.

B. La seconda fase della ricostruzione di Israele
  Oggi viviamo nella prima fase della ricostruzione. Israele sta diventando sempre più il centro dell'attenzione mondiale. Secondo Zaccaria 12-14, sarà alla fine la questione di Gerusalemme a provocare il ritorno di Gesù. Con il ritorno visibile di Gesù inizierà allora la seconda fase di cui parla Ezechiele.
   Sia Ezechiele 36 che Zaccaria 12 parlano del rinnovamento spirituale di Israele e della conseguente effusione dello Spirito. Questo deve ancora avvenire. Oggi vediamo davanti a noi il popolo eletto di Dio. È evidente che la prima parte di Ezechiele 37 si sta adempiendo. Tuttavia, la salvezza definitiva di Israele avverrà solo con il ritorno di Gesù. Allora si adempirà ciò che leggiamo nel versetto 14: Dio metterà il suo Spirito nel loro cuore.
   La credibilità della Parola di Dio si manifesta nella risurrezione e nel radunamento di Israele. Cosa avrebbe dato Ezechiele per poter vedere Dio iniziare ad adempiere le sue ultime promesse per Israele!
   Continuiamo quindi con coraggio – nella testimonianza per Cristo, nella costruzione della comunità e nell'obbedienza al mandato missionario – affinché presto si compia il numero dei gentili, Gesù ritorni e Israele sia salvato.
   Sono proprio gli eventi intorno a Israele a ricordarci quello che Gesù dice in Luca 21:28. Lo riassumo così: "In alto i cuori, il nostro Signore sta arrivando!"

(Nachrichten aus Israel, maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)



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Deri: «Dio ha abbandonato per un momento Israele il 7 ottobre, ma il massacro ha fermato una minaccia iraniana più grave»

Il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato “assolutamente” rafforzato nella sua fede, ha affermato il politico ultraortodosso Aryeh Deri.

di Akiva Van Koningsveld

Benjamin Netanyahu e il leader del partito Shas Aryeh Deri durante una riunione del partito Shas alla Knesset.
GERUSALEMME - Il leader del partito Shas Aryeh Deri ha dichiarato domenica che Dio ha abbandonato il popolo ebraico “per un brevissimo momento” durante il massacro guidato da Hamas il 7 ottobre 2023, ma che ciò ha portato al crollo dell'intero asse terroristico guidato dall'Iran.
“Per un brevissimo momento, il 7 ottobre, il Santo, benedetto sia Lui, ci ha abbandonato. Abbiamo subito un colpo terribile, dal quale non ci siamo ancora ripresi”, ha detto Deri in un'intervista alla rete televisiva israeliana Channel 14.
“Ci sono state così tante vittime, alcuni ostaggi sono ancora nelle mani del nemico, ma è stato salvato  il popolo israeliano, che Yahya Sinwar, quell'uomo malvagio e corrotto, aveva deciso di distruggere senza aspettare il consenso di tutti gli alleati”.
Anche se il leader ucciso di Hezbollah, Hassan Nasrallah, sosteneva esplicitamente l'obiettivo della distruzione dello Stato ebraico, il leader supremo iraniano Ayatollah Ali Khamenei avrebbe dato il consenso ad Hamas di guidare l'attacco del 7 ottobre senza la piena partecipazione del rappresentante libanese di Teheran.
“Vedo in questo ciò che il profeta Isaia ha detto nella sua profezia: ‘Per un piccolo istante ti ho abbandonato, ma con grande misericordia ti raccoglierò’”, ha detto il deputato ultraortodosso nell'ultima puntata del programma “The Patriots” del canale Channel 14.
“Improvvisamente abbiamo scoperto – e la nazione di Israele e il mondo intero hanno scoperto – cos'è l'Iran. Gli iraniani hanno perso tutti i loro rappresentanti e ora sono a mani nude”, ha affermato il politico ultraortodosso.
“Dio ha compiuto un altro grande miracolo: l'elezione di Trump”, ha continuato Deri, spiegando che “senza il 7 ottobre, senza Trump e senza il primo ministro Benjamin Netanyahu” la campagna in corso delle forze armate israeliane contro Teheran non sarebbe stata possibile.
Alla domanda del conduttore di “The Patriots”, Yinon Magal, se ritiene che Netanyahu sia diventato più forte nella sua fede alla luce della guerra su sette fronti contro lo Stato ebraico, Deri ha risposto: “Assolutamente sì”.
“Vede le cose in modo molto concreto. Il 7 ottobre ci trovavamo in una situazione umiliante e lui è stato testimone della grande bontà che Dio ci ha dimostrato”, ha detto Deri.
La mattina presto del 13 giugno, più di 200 aerei da combattimento israeliani hanno attaccato decine di obiettivi nemici, tra cui installazioni militari e nucleari, in un “primo attacco preventivo, preciso e combinato” contro il programma nucleare di Teheran.
Poche ore prima che l'esercito sferrasse i primi attacchi, Netanyahu, insieme al presidente argentino Javier Milei, ha visitato il Muro del Pianto a Gerusalemme.
Durante la sua visita, il primo ministro ha inserito nel muro un biglietto con un versetto tratto dal Libro dei Numeri (23:24): “Ecco, il popolo si leverà come un leone e si ergerà come un leoncello”, secondo quanto riferito dall'ufficio del primo ministro.
L'attacco aereo delle forze armate israeliane contro il programma nucleare della Repubblica Islamica è stato chiamato, secondo la profezia biblica, Operazione “Un popolo come un leone

(Israel Heute, 26 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Il dissidente Ashkan Rostami: “In Iran abbiamo più paura del cessate il fuoco che della guerra. Netanyahu? Ha dato un grande aiuto al popolo”

di Davide Cucciati

Ashkan Rostami è uno dei più autorevoli esponenti della diaspora iraniana in Europa: rappresenta all’estero il Partito Costituzionalista dell’Iran e da tempo prende parte al Consiglio di Transizione dell’Iran. La sua voce, spesso ospite di testate internazionali, offre un quadro lucido e spietato del dissenso iraniano. Oggi, con la paura che il regime rivolga la propria rabbia verso l’interno dopo il recente cessate il fuoco, Rostami avverte: “le persone in Iran sono più spaventate dal cessate il fuoco che dalla guerra”. Un punto di vista indispensabile per capire gli equilibri geopolitici e sociali attuali.

- Quando sei arrivato in Italia?
  Sono qui dall’agosto 2015. Prima ho vissuto per circa dieci mesi in Turchia, poi sono rientrato in Iran per un breve periodo. Alla fine, ho colto l’occasione per venire in Italia con un visto per motivi di studio. In Iran avevo studiato architettura, in Italia mi ero iscritto a informatica ma non ho terminato gli studi. Oggi lavoro e vivo a Parma.

- Eri già attivo politicamente in Iran?
  Sì. Ho partecipato alle proteste del 2009, ero parte del movimento studentesco e vicino al Movimento Verde. In quell’anno ho perso due amici: uno è morto durante le manifestazioni, l’altro è stato arrestato. Il suo corpo ci è stato restituito dopo tre mesi. Da allora non ho più smesso di oppormi al regime.

- Come è proseguita la tua attività in Italia?
  Dopo aver imparato l’italiano nei primi anni, ho fondato due gruppi: uno è il gruppo Ex musulmani in Italia, e l’altro è la Comunità iraniana di Parma. Ho cercato da subito di creare spazi di opposizione e consapevolezza, anche fuori dall’ambito politico ufficiale.

- Hai avuto anche un percorso nei partiti?
  Sì, ho militato in Europa, dove sono stato coordinatore a Parma per circa un anno. Avevo simpatia per alcune posizioni sui diritti civili ma sono rimasto molto deluso soprattutto sul tema dell’accordo nucleare con l’Iran. Anche lì c’era chi non capiva quanto fosse sbagliato dare legittimità al regime. Dopo +Europa sono passato ad Azione dove ho militato per un altro anno. Ma anche lì ho trovato la stessa incomprensione: non riuscivano a vedere che un accordo con il regime è un errore strategico, oltre che morale.

- Oggi dove ti collochi?
  Oggi penso che il partito più affidabile sia Fratelli d’Italia. Continuo a tenere molto ai diritti civili ma in questo momento credo sia giusto privilegiare il discorso geopolitico. La priorità è fermare il regime. Non si può essere neutrali su una questione così cruciale.

- Come giudichi la posizione italiana in generale?
  Nessun partito ha capito davvero la realtà iraniana. La destra pensa soprattutto agli affari, l’estrema destra ragiona ideologicamente e anche la sinistra è tutta ideologia. Nessuno ha davvero ascoltato la nostra voce, quella degli oppositori.

- Che idea hai del futuro politico dell’Iran?
  Sono monarchico, ma liberale. Sostengo l’idea di una monarchia costituzionale ma anche una repubblica parlamentare o presidenziale andrebbe bene. Se ci fosse un referendum oggi, penso che vincerebbe la monarchia. La parola “repubblica” è associata a troppe ferite. Detto questo, tra 15 o 20 anni penso che l’Iran sarà comunque una repubblica. Le nuove generazioni della monarchia sono nate fuori dal Paese e la famiglia reale è piccola. Le cose cambieranno.

- Com’è la situazione adesso in Iran?
  A Teheran ci sono più posti di controllo che persone. Un mio amico mi ha detto: “ci sono più blocchi che cittadini”. Il regime si vendica sulla popolazione, la tiene sotto controllo totale. Ma non è solo Teheran: anche Mashhad, che è la seconda città dell’Iran, sacra per gli sciiti, è scesa in piazza nel 2022 per fame. Anche Fordò e Qom, città religiose, oggi sono segnate dalla povertà.

- Ci sono segnali anche dalle province?
  Sì, assolutamente. Le proteste possono partire da lì. Non si può pensare che solo Teheran sia decisiva. Le città medie e grandi sono piene di tensione. La scintilla potrebbe essere, come molti pensano, la morte dell’Ayatollah.

Pensi che la guerra abbia indebolito il regime?
  Sì, molto. Ma ora c’è paura vera: il regime è stato indebolito e battuto dal suo nemico numero uno. Ora potrebbe vendicarsi sulla popolazione iraniana. Molti iraniani sono più spaventati dal cessate il fuoco che dalla guerra stessa.

- Come è percepito Netanyahu oggi?
  Netanyahu ha fatto quello che doveva fare per Israele nella guerra contro il regime. Ha dato una grande mano al popolo iraniano, anche se in modo indiretto. È vero che il regime per ora non è caduto, ma Netanyahu rimarrà nella storia. Ha colpito Hamas, Hezbollah e il cuore del sistema iraniano. Il Medio Oriente è già cambiato.

- Gli Stati Uniti? Come li vede la popolazione iraniana?
  C’è molta rabbia. Molti iraniani non vedono Israele come nemico ma vedono Trump come uno che ha bloccato la fine del regime. Lo considerano un bluff, anche sul cessate il fuoco. Forse tra un giorno Trump cambierà tutto e diventerà un eroe. Ma oggi, per tanti, è uno di quelli che ha salvato la Repubblica Islamica, come lo erano Obama, Biden e Jimmy Carter. Gli Stati Uniti, questi Stati Uniti, sono visti da tanti iraniani come complici.

- La Cina?
  Credo che la Cina abbia fatto forti pressioni per fermare tutto. Ha interesse a mantenere calma la situazione. Ma quello che hanno fatto ora è bloccare un cambiamento storico. La paura, dentro l’Iran, è altissima.

- Ti aspettavi un’insurrezione popolare?
  No, non si poteva pretendere che le persone scendessero subito in piazza. Oggi più che mai bisogna dare tempo all’opposizione per organizzarsi. Il regime è quasi distrutto ma è ancora feroce. Se gli si dà respiro, si riprenderà. Serve tempo, ma anche decisione.

(Bet Magazine Mosaico, 26 giugno 2025)

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Israele, bombardato parte del Weizmann Institute: un colpo alla scienza mondiale

di David Di Segni*

Lo scorso 15 giugno, una parte del Weizmann Institute di Rehovot, in Israele, è stato bombardato da un missile balistico iraniano. Due importanti edifici hanno subito danni significativi e con essi anche lo sviluppo scientifico mondiale. Dottorati di ricerca, pubblicazioni accademiche, laboratori, test e provette: le aule del Weizmann hanno rappresentato l’eccellenza e il cuore pulsante dell’avanguardia accademica. Un luogo impegnato al servizio dell’umanità. “Lo considero la quintessenza della ricerca scientifica, pieno di studiosi che guardano alla natura con curiosità e ingenuità per scoprirne i segreti più profondi – ci racconta Gavriel Hannuna, giovane scienziato italiano del Weizmann – Ci ho lavorato un anno e mezzo. Quando ho visto le foto delle rovine sono rimasto incredulo. Impensabile che la struttura in cui si fa ricerca su cancro, diabete e altre malattie sia stata distrutta. Mi ha lasciato spiazzato e profondamente triste”.
Il danno culturale è ben più esteso di quello materiale, stimato intorno ai 300-500 milioni di dollari, perché porta via con sé un patrimonio collettivo di conoscenza che negli anni a venire avrebbe potuto salvare vite in tutto il globo. “Una professoressa, con cui tutt’ora collaboro, aveva scoperto sequenze fondamentali legate a un bersaglio molecolare chiave, potenzialmente utili per lo sviluppo di nuovi anticorpi terapeutici. Quelle informazioni esistevano solo in quei laboratori, ora è tutto andato perso”. L’attacco non ha però generato sconforto. Anzi, in un paese abituato a vivere ciclicamente drammi e gioie, ha rafforzato il desiderio di rimettersi a lavoro, di ricostruire. “Il Weizmann non è solo l’insieme dei laboratori, ma delle straordinarie persone che ogni giorno vi dedicano mente e cuore. La cosa più importante è che siano tutte vive. Possono anche distruggere gli edifici, ma non potranno mai spezzare lo spirito degli scienziati che lo animano. Gli israeliani sono persone che sanno come andare avanti con positività e hanno lo sguardo rivolto al futuro”.
Insieme a un’ampia squadra di ricercatori, Gavriel lavora in uno dei laboratori del professor Eran Segal, scienziato di fama internazionale e tra i più prolifici del Weizmann. “Il mio progetto si chiama 10K e coinvolge diecimila persone di età compresa fra i 40 e i 70, che vengono sottoposte a test clinici nel corso di 25 anni. Si tratta di uno studio longitudinale volto a comprendere lo sviluppo delle malattie per identificarne i segnali premonitori e prevenirle in anticipo. Io analizzo alcuni dei numerosi dati che abbiamo per costruire modelli di IA per predire l’insorgenza di diabete e malattie cardiovascolari”. Un lavoro ambizioso e senza precedenti, che ha recentemente esteso la collaborazione ad altri paesi, come gli Emirati Arabi Uniti, per comprendere meglio la diversità biologiche degli esseri umani. Il sapere Made in Israel viene dunque esportato a livello internazionale con lo scopo di migliorare la qualità della vita e donare speranza di cura a chi lotta ogni giorno contro la malattia. Sfide presenti e future, che alimentano la macchina del sapere. “Nel laboratorio di Sima Lev, dove ho lavorato per un anno, si fa ricerca su una forma molto aggressiva di cancro al seno, il triplo negativo, e in particolare su nuovi approcci terapeutici per portare alla morte delle cellule tumorali”.
L’attacco al Weizmann riporta indietro le lancette del tempo, danneggiando non solo Israele ma tutte le realtà che vi collaborano e che vedono nell’istituto un partner indispensabile. Fra queste anche l’Italia, che al suo interno vanta la presenza di un gran numero di ricercatori. Molte sono le collaborazioni con il Bambino Gesù, San Raffaele di Milano, Politecnico di Torino e specialmente con l’ospedale Regina Elena di Roma “con cui Sima Lev collabora da anni. In Italia usano una tecnica molto avanzata per studiare il cancro al seno: costruiscono organelli 3D, usando tessuto canceroso che viene preso dalle biopsie delle pazienti, per comprendere quali possano essere le migliori chemioterapie da utilizzare”.
Lo spirito resiliente d’Israele ricostruirà quei laboratori in cui scienziati da tutto il mondo lavorano per il bene comune. Perfino per il bene di chi, in Occidente, chiede l’interruzione dei rapporti accademici con Israele, senza rendersi conto di danneggiare sé stesso.
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* David Di Segni, 25 anni, giornalista pubblicista laureato in Scienze politiche e relazioni Internazionali. L'interesse per la politica estera mi spinge allo studio costante di conflitti internazionali e sicurezza globale.

(Il Riformista, 26 giugno 2025)

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Attacco al nucleare iraniano, le valutazioni sui risultati

di Luca Spizzichino

A pochi giorni dagli attacchi coordinati di Stati Uniti e Israele contro i principali siti nucleari iraniani, la valutazione dei risultati sembra essere ancora controversa. Il portavoce dell’IDF, il generale Effi Defrin, ha dichiarato mercoledì che Israele ha raggiunto “tutti gli obiettivi operativi” nella lotta contro l’Iran, affermando che il programma nucleare iraniano è stato “significativamente danneggiato e ritardato di anni”. Tuttavia, ha aggiunto che “è ancora troppo presto per valutare pienamente l’impatto dell’operazione”.
   Parole simili sono state pronunciate dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, intervenuto da L’Aia in occasione del vertice NATO. “C’è stato un’annientamento totale”, ha detto Trump ai giornalisti, sostenendo che i siti nucleari iraniani siano stati “completamente distrutti” e che Teheran sia stata riportata “indietro di decenni”.
   Le dichiarazioni ufficiali cozzano però con le prime analisi di intelligence, in particolare quella della Defense Intelligence Agency (DIA), che in un documento interno trapelato alla stampa americana, sostiene che gli attacchi abbiano sì causato danni, ma abbiano solo ritardato il programma nucleare iraniano di pochi mesi. Il documento contraddice in particolare le dichiarazioni pubbliche del Presidente Trump e del Segretario alla Difesa Pete Hegseth, secondo cui il programma sarebbe stato “completamente eliminato”. Le rivelazioni hanno scatenato una reazione furiosa da parte dell’amministrazione americana. Il portavoce della Casa Bianca ha confermato l’esistenza del documento, ma ha precisato che l’amministrazione “non ne condivide le conclusioni”. L’inviato speciale per il Medio Oriente, Steve Witkoff, ha definito la fuga di notizie “un atto traditore” e ha chiesto un’indagine per identificare i responsabili. Il Segretario di Stato Marco Rubio, anch’egli a L’Aia, ha difeso l’operazione parlando di “danni significativi e sostanziali” e sottolineando che “l’Iran oggi è molto più lontano dal dotarsi di un’arma nucleare rispetto a prima dell’intervento”.
   Nuove immagini satellitari diffuse da Maxar Technologies mostrano danni significativi ai siti nucleari di Natanz, Fordow e Isfahan, ma anche una realtà più complessa. A Fordow, struttura sotterranea altamente fortificata, si osservano crateri nei pressi degli accessi principali e la distruzione di edifici di supporto, ma la struttura sembra essere ancora operativa secondo fonti israeliane e statunitensi. A Isfahan, i tunnel di accesso sono stati colpiti direttamente. Tuttavia, Bloomberg riporta che gli Stati Uniti hanno evitato volutamente di colpire tre piccoli reattori di ricerca contenenti circa 900 grammi di uranio arricchito a livello militare. A Natanz, le immagini satellitari mostrano due crateri principali, già riempiti di terra.

(Shalom, 26 giugno 2025)

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La soluzione vera è solo la caduta del regime

È ancora prematuro determinare in che misura precisa gli attacchi israeliani con ausilio finale americano abbiano danneggiato il programma nucleare iraniano. Sulla centrale di Fordow bombardata pesantemente da sei aerei B-2 con 12 bombe bunker buster, i pareri sono discordanti. Secondo Trump, amante dell’iperbole, Fodrow sarebbe stata “obliterata”, secondo la CNN e il New York Times, notoriamente ostili a Trump, i danni non sarebbero stati molto significativi. Secondo Effie Defrin, portavoce dell’IDF, l’impatto effettivo dei danni inferti all’Iran, sia il comparto nucleare che a quello per la produzione dei missili balistici non può ancora essere determinato con precisione. Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Esmail Baghaei, tuttavia, ha confermato che gli impianti nucleari del Paese sono stati «gravemente danneggiati» dai raid americani del fine settimana.
   Saranno i prossimi giorni, le prossime settimane, che ci diranno quale è stato l’effettivo successo delle operazioni congiunte, Rising Lion e Midnight Hammer, ma nel frattempo, al netto del bilancio, una cosa si può dire con certezza, fino a quando il regime integralista di Teheran resterà al potere, il problema non sarà risolto. Pensare che a seguito di questo conflitto, Khamenei e accoliti si trasformeranno da lupi ad agnelli è scambiare la realtà per fantasia. Donald Trump è convinto che adesso l’Iran acconsentirà a un negoziato che offrirà garanzie sia a Israele che agli Stati Uniti, ma l’unica garanzia accettabile può essere solo quella della rinuncia totale dell’arricchimento dell’uranio oltre la soglia lecita per il suo uso civile, clamorosamente superata, e un freno alla produzione del comparto missilistico balistico. Non ci sono altre garanzie, poi, Khamenei e i suoi successori potranno invocare solo retoricamente la distruzione di Israele, ma, ed è un grosso ma, per offrire questo pegno il regime che controlla l’Iran da 46 anni dovrebbe rinunciare alle sue ambizioni regionali, all’impianto rivoluzionario e imperialista che costituisce la sua struttura ideologica, dovrebbe cioè accettare di farsi piccolo e sostanzialmente irrilevante, trasformandosi in un’altra cosa. Non è credibile.
   Per sopravvivere, il regime di Khamenei ha bisogno non solo di una salda presa interna ma di una forte proiezione di se stesso sul piano delle ambizioni e della rilevanza internazionale, e per farlo non può rinunciare al suo slancio rivoluzionario-millenaristico. Per questo motivo un eventuale negoziato con gli Stati Uniti può avere al momento esclusivamente un significato tattico, oltretutto in una posizione di oggettiva debolezza. Tra poco meno di tre anni, Trump non sarà più alla Casa Bianca e il suo successore potrebbe essere un presidente più allineato sulle posizioni morbide di Obama o di Biden.
   C’è solo un modo per risolvere il problema ed è quello di vedere la fine del regime, tutto il resto è solo un succedaneo.

(L'informale, 25 giugno 2025)

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Israele riapre i cieli per il turismo

di Maia Principe

Israele ha riaperto i suoi cieli per i viaggi aerei martedì sera, 24 giugno, dopo che il Comando del Fronte Interno ha revocato tutte le restrizioni sui raduni, mentre il fragile cessate il fuoco con l’Iran sembrava prendere piede. Lo riporta il Times of Israel.
Il principale aeroporto internazionale di Israele, il Ben Gurion, e altri aeroporti stanno tornando ad essere pienamente operativi dopo che lo spazio aereo del Paese era rimasto in gran parte chiuso durante gli ultimi 12 giorni di conflitto. Come parte di un’operazione guidata dal governo, negli ultimi giorni le compagnie aeree israeliane hanno iniziato a limitare i voli di rimpatrio per riportare indietro circa 100.000-150.000 israeliani bloccati all’estero e per aiutare quelli bloccati nel Paese a partire.
“Le restrizioni sul numero di voli in arrivo e in partenza e sul numero di passeggeri per ogni volo sono state abolite”, ha dichiarato l’Autorità aeroportuale israeliana. “Inoltre, sono state abolite le restrizioni all’arrivo di passeggeri e accompagnatori negli aeroporti”.
Martedì scorso, il ministro dei Trasporti Miri Regev ha dichiarato che le autorità dell’aviazione e le compagnie aeree israeliane si stavano preparando ad aumentare il numero di voli e ad estendere l’orario di funzionamento dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv per farlo funzionare a pieno regime, 24 ore al giorno.
El Al ha dichiarato che tutti i suoi voli in arrivo e in partenza saranno operati alla massima capacità di posti senza alcuna restrizione. I passeggeri di El Al i cui voli sono stati cancellati a causa del conflitto con l’Iran e della chiusura dello spazio aereo israeliano il 13 giugno potranno utilizzare il loro biglietto cancellato senza alcun addebito.
Inoltre, il vettore di bandiera sta lavorando per potenziare il suo programma di voli e aggiungere destinazioni nei prossimi giorni per aiutare a riportare in Israele decine di migliaia di passeggeri bloccati all’estero.
El Al potenzierà la frequenza dei voli da e per otto destinazioni in cui la maggior parte dei suoi passeggeri è bloccata: Larnaca, Atene, Roma, Parigi, Londra, New York, Los Angeles e Bangkok. Nei prossimi due giorni, inoltre, il vettore locale inizierà a operare voli aggiuntivi da e per Budapest, Bucarest, Amsterdam, Praga, Madrid, Milano, Varsavia e Sofia.
“L’assegnazione dei passeggeri sui voli in partenza e in arrivo sarà effettuata automaticamente da El Al, sulla base del modulo di registrazione compilato dai clienti i cui voli sono stati cancellati”, ha fatto sapere la compagnia aerea. “Una volta che tutti i nostri clienti saranno stati assegnati, i voli saranno aperti al pubblico per la prenotazione”.
Il piccolo vettore locale Arkia ha annunciato che riprenderà il suo regolare programma di voli previsto per la stagione estiva a partire da lunedì 1° luglio. Le destinazioni includono Rodi, Creta, Corfù, Atene, Parigi, Milano, Ginevra, Mykonos, Larnaca, Amsterdam, Barcellona, New York e Tivat. I biglietti possono essere acquistati sul sito web della compagnia e presso le agenzie di vendita autorizzate.
Parlando in una conferenza stampa prima che le restrizioni del Comando del Fronte Interno venissero rimosse, Regev ha affermato che dall’inizio dell’operazione di rimpatrio sicuro lanciata la scorsa settimana e fino a martedì, più di 100.000 israeliani bloccati saranno tornati a casa e circa 70.000 persone saranno partite.
Regev ha incoraggiato il pubblico israeliano a tornare a fare progetti per i mesi estivi, anche se non si prevede che la maggior parte delle compagnie aeree straniere riprenda le operazioni di volo verso Israele durante l’alta stagione, poiché hanno già dirottato gli aerei altrove.
Sebbene Israele sia stato un mercato redditizio per le compagnie aeree straniere e si preveda una domanda elevata, il loro ritorno graduale è destinato ad essere più lento, poiché i vettori hanno già dirottato gli aerei verso altre destinazioni e cercheranno maggiore stabilità e sicurezza prima di prendere in considerazione il ritorno.

(Bet Magazine Mosaico, 25 giugno 2025)

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La storia mai raccontata della guerra in Iran: come Israele ha fatto l'impensabile

Un'attenta pianificazione e una campagna magistrale con il sostegno degli Stati Uniti hanno ingannato Teheran sulla sua sicurezza.

di Itay Ilnai

All'inizio di gennaio, un funzionario israeliano ha incontrato il ministro degli Affari strategici Ron Dermer all'ottavo piano dell'ufficio del primo ministro a Gerusalemme. Una settimana dopo, lo stesso funzionario ha incontrato l'allora capo di stato maggiore delle forze armate israeliane, il tenente generale Herzi Halevi, al 14° piano dell'edificio dello Stato maggiore generale nel quartier generale militare di Kirya a Tel Aviv.
Da entrambi gli incontri il funzionario è uscito con una chiara consapevolezza: Israele aveva preso una decisione irreversibile: un attacco all'Iran era solo una questione di tempo.
Sei mesi dopo, la sinergia tra l'ottavo e il quattordicesimo piano – i piani alti della leadership politica e militare – ha permesso di sferrare un attacco preventivo venerdì 13 giugno. L'opzione militare contro l'Iran, sul tavolo da almeno un decennio, è stata attuata con tempismo perfetto e consenso politico.
Mentre le forze armate israeliane mettevano a punto i dettagli dell'imminente attacco all'Iran, i pianificatori capirono che dovevano ripetere la strategia libanese: un colpo concentrato e a sorpresa per sbilanciare il nemico, una sorta di “dottrina Dahieh 2.0”, ispirata al bombardamento sistematico della roccaforte di Hezbollah in Libano durante la seconda guerra del Libano nel 2006 e negli anni successivi.
“La differenza è che per Hezbollah ci sono voluti dieci giorni, per l'Iran ci siamo riusciti con il primo colpo in un'ora”, ha detto un funzionario informato.
I piani per uno scontro con l'Iran, che prevedevano un attacco alle sue strutture nucleari, erano in fase di elaborazione da anni all'interno dell'apparato della difesa e hanno caratterizzato la costruzione delle forze armate israeliane negli ultimi due decenni. Tuttavia, in tipico stile israeliano, questi piani sono stati abbandonati all'ultimo momento per far posto a una nuova strategia audace, creativa e rapidamente elaborata.
“In realtà, abbiamo iniziato a pianificare operativamente l'attacco nella sua forma attuale solo nell'ottobre 2024”, ha detto un funzionario che conosce bene i dettagli. “A quel punto ci siamo resi conto che le forze armate israeliane non dovevano prepararsi solo a un attacco mirato contro l'Iran, ma a un'intera campagna”.
Fino a poco tempo fa, anche alti funzionari della difesa consideravano l'idea di un attacco all'Iran irrealistica, un piano che sarebbe rimasto teorico. Ma tre mesi nell'autunno del 2024 hanno cambiato completamente questa visione.
Tre attacchi nel mese di settembre – l'Operazione Pagers, i raid aerei per neutralizzare i missili di Hezbollah e l'eliminazione della leadership del gruppo, tra cui Hassan Nasrallah – hanno indebolito notevolmente Hezbollah.
“Abbiamo sempre detto che Israele non ha confini con l'Iran, ma l'Iran ha un confine con Israele: Hezbollah, che sta alle frontiere ed è pronto a reagire con forza se attacchiamo”, ha detto un ex funzionario militare. “Una volta eliminato questo confine, è iniziato un nuovo gioco”.
In ottobre, l'aviazione israeliana ha condotto l'operazione Days of Repentance, che per la prima volta ha incluso attacchi su larga scala contro i sistemi di difesa aerea iraniani, stimolando l'appetito dei piloti per ulteriori azioni.
In novembre, la rielezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti ha rafforzato la posizione dei sostenitori di un attacco guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu. A dicembre, i vertici israeliani non discutevano più se l'attacco avrebbe avuto luogo, ma solo quando.

Il processo di convalida degli obiettivi
  All'inizio degli anni 2020, la direzione dei servizi segreti militari israeliani è stata riorganizzata, con risorse e personale dirottati verso l'Iran. “Quello che vedete ora è il risultato di anni di sforzi dei servizi segreti militari e dell'aviazione israeliana in Iran”, ha detto una fonte.
Il processo di convalida degli obiettivi per l'Iran, condotto dai servizi segreti militari israeliani e dall'IAF, si è concentrato su tre pilastri del programma nucleare: l'arsenale missilistico, gli impianti di arricchimento e il “gruppo di armi” (l'assemblaggio di testate nucleari su missili balistici). Di conseguenza, sono state raccolte sempre più informazioni sulle rampe di lancio, i magazzini e le fabbriche negli arsenali missilistici iraniani.
I sistemi missilistici e gli impianti di arricchimento presentavano ciascuno delle difficoltà specifiche, ma i servizi segreti hanno identificato il gruppo di armi come la sfida più grande.
Più i servizi segreti avanzavano, più diventava chiaro che erano gli scienziati stessi a rappresentare il collo di bottiglia. “Ci siamo resi conto che dovevamo concentrarci sul fattore umano”, ha detto la fonte.
Nel 2020, il fisico Mohsen Fakhrizadeh, capo del programma nucleare iraniano, è stato assassinato in un'operazione sofisticata sul suolo iraniano. “Una bella operazione”, ha detto qualcuno che ha familiarità con molte missioni di questo tipo.
Il successo dell'attacco contro Hezbollah nel settembre 2024, che ha destabilizzato il gruppo e ha praticamente deciso la campagna, ha ispirato i servizi segreti israeliani. Settimane dopo, le stesse persone che si occupavano dell'Iran hanno iniziato a discutere la possibilità di ripetere la strategia libanese in Iran.
“Eliminare l'intera leadership militare in un colpo solo”, ha detto una fonte dei servizi segreti.
A differenza dell'operazione contro gli scienziati, in cui l'elenco degli obiettivi da colpire è stato progressivamente ristretto nel corso del tempo, in questo caso i servizi segreti lo hanno ampliato. Quello che era iniziato come un piano per uccidere uno o due alti funzionari iraniani è stato poi esteso al comandante dell'aviazione delle Guardie Rivoluzionarie, al comandante in capo delle Guardie Rivoluzionarie, al capo di stato maggiore dell'esercito iraniano e al suo vice.
“Quando è nata l'idea, nessuno credeva che potesse essere realizzata contemporaneamente”, ha detto una fonte ben informata. Ma i servizi segreti hanno insistito e hanno formato una squadra speciale che ha lavorato 24 ore su 24. I risultati del team sono stati presentati al capo dei servizi segreti, il generale di divisione Shlomi Binder, e successivamente trasmessi all'aviazione militare (IAF).
Negli ultimi mesi, Binder, il comandante dell'IAF, il generale di divisione Tomer Bar, e il capo della direzione operativa, il generale di divisione Oded Basyuk, hanno tenuto numerose riunioni per coordinare l'operazione nei minimi dettagli. Con il passare del tempo, i tre generali e le loro squadre hanno acquisito la convinzione che l'ambizioso piano potesse avere successo.
A differenza degli scienziati, che sono stati attaccati nelle loro case, l'operazione dei generali era stata pianificata per una riunione congiunta dell'élite della sicurezza iraniana. Per garantire che si riunissero in un unico luogo, è stata condotta una sofisticata operazione di inganno, i cui dettagli rimarranno segreti per anni.
È degno di nota il fatto che le operazioni degli scienziati e dei generali fossero mature quasi contemporaneamente. La piccola squadra di tre generali israeliani, che era a conoscenza di entrambi i piani, li ha portati a termine nelle ultime settimane. Il primo colpo era pronto.
Oltre all'operazione “Decapitazione”, il piano di guerra di Israele comprendeva anche altri elementi. Ultimamente si discute molto della superiorità aerea. Anche questo argomento è stato affrontato solo di recente.
Mentre i piani per un attacco agli impianti di arricchimento avanzavano, era chiaro che l'IAF aveva bisogno di una via libera per raggiungere Natanz e Fordow. Il dipartimento iraniano del servizio segreto incaricato della ricerca e dell'analisi ha messo a disposizione ingenti risorse per mappare i sistemi di difesa aerea iraniani, che erano molto numerosi.
Una volta mappati i sistemi di difesa aerea iraniani, i servizi segreti e l'IAF sono giunti alla conclusione che potevano liberare non solo la strada verso gli impianti nucleari, ma anche verso Teheran e oltre. Il termine “supremazia aerea in Iran” ha iniziato a circolare sottovoce, per poi diventare oggetto di un'entusiastica discussione.

La messa in scena di una rottura tra Stati Uniti e Israele
  Dalla fine di maggio, due settimane prima dell'attacco, è iniziata un'operazione di “percezione” per far credere all'Iran che Israele non avrebbe attaccato a breve.
È stata orchestrata dall'ufficio del primo ministro e ha comportato la trasmissione di informazioni ai giornalisti israeliani, in particolare a quelli non legati a Netanyahu. Al centro dell'operazione c'erano i colloqui sul nucleare tra la Casa Bianca e Teheran, che davano l'impressione di una frattura tra gli Stati Uniti e Israele.
Sei mesi prima del 7 ottobre 2023, l'IAF ha formato una piccola squadra di personale di volo, composta principalmente da riservisti, per pianificare la strada verso la superiorità aerea. Il team ha ricevuto dall'unità segreta 8200 dei servizi segreti un elenco in continua crescita delle posizioni delle batterie di difesa aerea iraniane e importanti informazioni di intelligence.
Il team per la superiorità aerea ha presentato il piano al comandante dell'aeronautica militare, che era consapevole dei rischi ma disposto a sacrificare alcuni aerei per portare a termine la missione. “L'obiettivo era quello di non subire perdite, ma la politica del comandante dell'aeronautica militare consentiva alcune perdite purché il piano fosse portato avanti”, ha detto la fonte.
"Fortunatamente, abbiamo avuto un successo ben oltre le aspettative e non abbiamo perso un solo aereo. Credo che abbia funzionato perché il nemico non si aspettava un attacco del genere da parte di Israele. Non avevano abbastanza esperienza per essere preparati a quel momento.“
Gli scettici dei servizi segreti dubitavano della capacità dell'aeronautica militare di ottenere la superiorità aerea senza perdite. ”Quando abbiamo iniziato, sembrava impossibile“, ha detto un'altra fonte vicina all'operazione. ”La difesa aerea iraniana è sia di alta qualità che numerosa. Bisogna neutralizzarla rapidamente, altrimenti i piloti israeliani moriranno in Iran".
Alla fine, la missione è stata compiuta in sole 36 ore senza perdite. Durante la prima notte sono state distrutte 30 batterie di difesa aerea iraniane e un numero a due cifre di sistemi radar. “La più grande operazione di superiorità aerea della storia”, ha detto qualcuno che conosce i dettagli.
Il Mossad si è unito negli ultimi mesi e ha utilizzato droni controllati da agenti locali in Iran per attaccare altre batterie di difesa aerea.
Sebbene le operazioni contro scienziati e generali avrebbero potuto essere condotte anche senza la superiorità aerea, il controllo dell'aviazione militare sullo spazio aereo iraniano ha notevolmente facilitato gli attacchi a Natanz, alle postazioni missilistiche e ad altri impianti nucleari. Inoltre, ha consentito una caccia su vasta scala ai lanciatori di missili balistici, poiché lo smantellamento della difesa aerea iraniana ha permesso a un maggior numero di droni di operare senza ostacoli da Israele fino a Teheran.
“Ciò significa che è possibile distruggere munizioni su larga scala da Teheran, riducendo drasticamente i lanci di missili contro Israele”, ha affermato una fonte ben informata. “Invece di centinaia di missili il primo giorno, ne abbiamo visti solo poche decine. È stata una svolta decisiva che ha ridotto la pressione e lo stress per Israele”.

“I preparativi sono iniziati 20 anni fa”
  Un altro elemento che è stato accuratamente costruito nel corso del tempo è stata la difesa. “Senza difesa non si può attaccare”, ha affermato il generale di brigata (in pensione) Ran Kochav, ex comandante della difesa aerea e capo del programma missilistico Arrow. “I preparativi per una guerra con l'Iran sul fronte difensivo sono iniziati 20 anni fa. Quella era la minaccia di riferimento per la quale ci siamo addestrati, costruendo un sistema di difesa aerea multistrato e conducendo esercitazioni congiunte con il Comando Centrale degli Stati Uniti”.
Infatti, gli ufficiali dell'IAF confermano che la difesa aerea e la superiorità aerea sono due componenti che non avrebbero potuto essere raggiunte senza la piena collaborazione con Washington.
Questo ci porta all'ultimo componente del piano di guerra israeliano contro l'Iran, “gli americani”, come ha detto un funzionario che ha familiarità con il piano di guerra. “Il piano è stato elaborato senza di loro, ma senza il loro sostegno era impossibile attuarlo”.
Poco dopo l'insediamento di Trump nel gennaio 2025, Netanyahu ha ricevuto messaggi dal suo entourage che indicavano che non si sarebbe opposto con forza all'attuazione dell'“opzione militare” se i colloqui sul nucleare con Teheran fossero entrati in una fase di stallo. Secondo quanto riferito, Trump avrebbe revocato le restrizioni allo scambio di informazioni dei servizi segreti, compreso l'accesso ai satelliti e ai sistemi radar statunitensi.
Sebbene Trump non si fosse impegnato a partecipare all'attacco, diversi funzionari israeliani confermano che era “profondamente coinvolto nella cerchia ristretta”.
“Pieno coordinamento”, ha descritto uno di loro. Trump ha anche partecipato all'operazione di inganno nei giorni precedenti l'attacco a sorpresa.
Prima del 13 giugno, fonti vicine ai giornalisti israeliani hanno continuato a diffondere la versione secondo cui un accordo nucleare tra gli Stati Uniti e l'Iran era ormai concluso e che Trump era fermamente contrario a un attacco israeliano. “Queste informazioni sono state servite ai giornalisti su un piatto d'argento, a differenza di casi simili in passato”, ha detto un giornalista.
Un'indagine di Israel Hayom ha rivelato che alcune notizie fuorvianti diffuse ai media israeliani provenivano direttamente dai portavoce di Netanyahu. L'ufficio del primo ministro non ha smentito le citazioni tratte dalle conversazioni tra Trump e Netanyahu volte a inscenare una disputa tra gli Stati Uniti e Israele.
Un funzionario israeliano vicino all'ufficio ha dichiarato: “Israele ha sorpreso l'Iran con manovre psicologiche. L'obiettivo era quello di far credere alla leadership iraniana che non ci sarebbe stato alcun attacco o che, se anche ci fosse stato, non sarebbe stato imminente”, ha aggiunto.
(da Israel Hayom)

(Israel Heute, 25 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Agenti iraniani si spacciavano per giornalisti di i24NEWS per spiare alti ufficiali israeliani

di Luca Spizzichino

Israele ha sventato un tentativo di infiltrazione condotto da agenti iraniani che, secondo quanto rivelato da funzionari della sicurezza israeliana, avevano creato una falsa identità fingendosi una giornalista del canale televisivo i24NEWS con l’obiettivo di introdurre spyware nei telefoni cellulari di alti ufficiali dell’IDF.
   Usando lo pseudonimo di Emmanuel Zeitoun, l’operatore si presentava come giornalista e contattava ufficiali di alto rango tramite WhatsApp. Proponeva interviste o briefing con la stampa, sfruttando riferimenti a eventi recenti o a coperture mediatiche in corso per guadagnare credibilità. Nei messaggi, Zeitoun inviava un link, apparentemente legato alla logistica dell’intervista. In realtà, si trattava di un collegamento infetto da spyware, in grado di compromettere il dispositivo della vittima e di sottrarre informazioni sensibili. Il tentativo è stato scoperto quando uno degli ufficiali ha notato alcune anomalie nello scambio e ha deciso di segnalare l’episodio alla Direzione per la Sicurezza delle Informazioni dell’esercito. Le indagini hanno portato alla scoperta che “Emmanuel Zeitoun” era un’identità fittizia, parte di una più ampia campagna di spionaggio iraniana volta a raccogliere intelligence sulla leadership militare israeliana.
   “Si tratta dell’ennesimo esempio dei tentativi dell’Iran di penetrare le difese interne di Israele attraverso tecniche di social engineering e strumenti cibernetici,” hanno dichiarato le autorità. “Invitiamo tutto il personale a rimanere vigile, a segnalare contatti sospetti e a non aprire link non verificati, anche se sembrano provenire da fonti affidabili”.

(Shalom, 25 giugno 2025)

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A tutela di un'eredità millenaria. Come Israele e Iran hanno protetto il loro patrimonio culturale dalle bombe

di Adalgisa Marrocco

Nel conflitto che infiamma il Medio Oriente, un’eredità millenaria rischia di scomparire nel silenzio: è il patrimonio culturale di Iran e Israele, fatto di templi antichi, città storiche e collezioni museali. Mentre musei e istituzioni mettono in salvo le opere "mobili" più preziose, monumenti, paesaggi e siti archeologici restano esposti ai rischi della guerra.
“Il patrimonio artistico di Iran e Israele è straordinario e di portata globale”, spiega a HuffPost Enrico Ascalone, docente di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente Antico all’Università del Salento. “In Israele troviamo una concentrazione di beni legati alla storia delle religioni, con luoghi di valore simbolico universale come Gerusalemme, la città vecchia di Acri, la fortezza di Masada. In Iran, invece, si tratta di un’eredità che abbraccia un arco temporale amplissimo: dal Paleolitico fino all’epoca islamica. Entrambi sono pilastri della civiltà occidentale, in modi diversi ma complementari”.
Nei giorni successivi al bombardamento missilistico su Teheran, l’Organizzazione iraniana per il patrimonio culturale ha attivato i protocolli di emergenza, trasferendo le opere più importanti nei depositi sotterranei. La messa in sicurezza è stata completata in 48 ore. Del resto, la posta in gioco è altissima: soltanto il Museo Nazionale dell’Iran custodisce oltre 300.000 reperti, mentre il Museo d’Arte Contemporanea ospita capolavori di artisti come Warhol, Picasso, Monet, Van Gogh.
Anche le istituzioni israeliane si sono mosse per proteggere le loro collezioni. L’Israel Museum di Gerusalemme e il Museo d’Arte di Tel Aviv hanno chiuso i battenti, secondo le direttive della sicurezza nazionale. Entrambi resteranno chiusi a tempo indeterminato. “Ci siamo abituati”, ha commentato amaramente Suzanne Landau, direttrice dell’Israel Museum, confermando che anche le opere in prestito sono state messe al sicuro. Ma questi sforzi riguardano esclusivamente i beni mobili.
Il problema resta la vulnerabilità dei siti archeologici, dell’architettura storica, del paesaggio. “Solo in Iran ci sono 28 siti dichiarati patrimonio mondiale dell’Unesco. E poi ci sono Pasargade e Persepoli, capitali dell’impero achemenide, che rappresentano le radici stesse della cultura persiana e occidentale”, ricorda Ascalone. “E la città di Isfahan, con le sue moschee, le case storiche, la grande piazza, le architetture del Rinascimento iraniano: Byron la definì 'la città più bella del mondo'. Oggi le vibrazioni dei bombardamenti a distanza hanno già provocato crepe in edifici storici, tra cui moschee dell’XI secolo oggetto di scavi archeologici italiani. In Israele, in particolare a Gerusalemme, si concentrano percorsi religiosi e culturali che raccontano l’origine delle grandi religioni monoteiste e vanno tutelati”.
Tra i danni diretti già documentati, il professore segnala anche tre rilievi rupestri sasanidi di Taq-e Bostan, nella regione iraniana di Kermanshah, colpita dai raid. Le incisioni, databili tra il IV e il VI secolo d.C., raffigurano scene di incoronazione e iconografie reali, tra cui quella di Ardacher II nell’atto di calpestare la testa di Giuliano l’Apostata. Poco distante si trovano grotte paleolitiche e neolitiche, testimonianze ancora più antiche oggi minacciate. “Non ci sono solo i rischi immediati: le onde d’urto e le vibrazioni degli attacchi provocano lesioni lente ma progressive. I danni indiretti, come quelli registrati a Isfahan, sono spesso più difficili da monitorare e riparare”, evidenzia il docente.
Nel frattempo, riporta ArtNews, la Society for Iranian Archaeology ha chiesto all’Unesco, a Blue Shield e all’International Council on Monuments and Sites di monitorare la situazione. “Il patrimonio culturale non è solo appannaggio di una singola nazione, ma un lascito condiviso da tutta l’umanità”, si legge nel comunicato. “La sua distruzione rappresenta un grave attacco all’identità, alla memoria e alle basi della pace. Chiediamo un’azione internazionale immediata e coordinata per proteggere vite umane, tutelare il patrimonio culturale e difendere i valori del diritto internazionale e dell’umanità condivisa”.
Ma è proprio qui sta il nodo. “Le convenzioni internazionali esistono — ricorda Ascalone — ma vengono raramente rispettate. Il diritto internazionale, in tempo di guerra, è il grande assente. Lo stesso vale per le indicazioni dell’UniDroit e per la Convenzione Unesco del 1972: strumenti preziosi, oggi purtroppo depotenziati”.
Non si tratta solo di danni collaterali. “A volte colpire il patrimonio culturale è un atto deliberato, finalizzato a cancellare l’identità, la memoria e la coesione di un popolo. È accaduto con i Buddha di Bamiyan distrutti dai talebani, con le devastazioni dell’ISIS a Palmira, Ninive, Hatra, Mosul, Tikrit. Ma anche durante le guerre del Golfo, quando gli Stati Uniti hanno dimostrato scarsa attenzione verso siti come Ur, Babilonia, o il museo di Baghdad”, aggiunge il docente.
In un quadro tanto fragile, conclude Ascalone,”l’Italia ha un ruolo unico da giocare. Per storia, geografia e relazioni diplomatiche, è sempre stata un interlocutore privilegiato del Medio Oriente. Le missioni archeologiche italiane sono tuttora attive in Iran, e il Nucleo Tutela del nostro Arma dei Carabinieri è un modello riconosciuto a livello internazionale per la salvaguardia dei beni culturali. Se l’Europa non si espone, l’Italia deve farlo per difendere un patrimonio che appartiene a tutta l’umanità”. (L'HuffPost, 25 giugno 2025)

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Tel Aviv, l’università danneggiata «e il silenzio dei miei colleghi italiani»

«Ormai dal poco sonno non distinguo più il giorno dalla notte…». Prova a sorridere
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Tamar Herzig

Tamar Herzig, studiosa israeliana specializzata in storia del Rinascimento, docente alla Tel Aviv University. Un missile è caduto ad alcune centinaia di metri dal campus dell’ateneo, provocando danni ad alcune strutture per via delle onde d’urto causate dall’esplosione. C’è anche questo nel conto della rappresaglia di Teheran, che negli scorsi giorni aveva già colpito un’eccellenza del sapere israeliano: l’istituto Weizmann di Rehovot.
   Herzig è molto spesso in Italia, un paese che ha nel cuore e dove tiene regolarmente lezioni e conferenze. «Colpisce purtroppo il silenzio assordante di tanti colleghi italiani che ritenevo amici», sottolinea la studiosa, che vive nella città di Ra’anana a nord di Tel Aviv. «Qui per fortuna è successo poco rispetto a Tel Aviv. Ma le esplosioni che sentiamo in lontananza, in quell’area, fanno spavento: sono più forti, molto più intense, di qualunque scenario bellico precedente». La didattica in presenza è inevitabilmente sospesa dal giorno dell’inizio del conflitto aperto tra Israele e il regime degli ayatollah: «Si va avanti con zoom, nei limiti del possibile. Anche perché molti studenti non hanno una abitazione in cui stare e nei rifugi il wifi in genere non funziona. Mercoledì scorso stavo tenendo un seminario per dottorandi, ma prima che potessi concluderlo è suonato l’allarme. E non ho potuto fare altro che interromperlo, chiudere il tutto all’istante».
   Alla Tel Aviv University i danni sono nell’ordine di porte e finestre divelte, vetri in pezzi. Peggio è andata ai palazzi nelle vicinanze, «in molti casi distrutti e in particolare quelli più vecchi; per fortuna non ci sono al momento vittime, anche perché ormai la nostra preparazione alle emergenze è stata rodata da mesi di esperienza: 10-15 minuti prima dell’arrivo della minaccia, un sistema di messaggistica ci avvisa dei missili e abbiamo quindi il tempo per spostarci nei rifugi».  È un tempo difficile, un tempo di resilienza. L’ha ricordato anche il rettore della Tel Aviv University, Mark Shtaif, in un messaggio rivolto alla “comunità universitaria” nel suo insieme. E quindi a professori, studenti, personale dipendente. «È in momenti difficili come questo che la forza di una comunità viene testata», scrive Shtaif. «Sono fiducioso nel fatto che continueremo ad agire per la reciproca comprensione e solidarietà e in uno spirito di responsabilità condivisa». a.s.

(moked, 23 giugno 2025)

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Israele colpisce a Teheran l’orologio che segnava la fine dello Stato ebraico
Situato in piazza Palestina, segnava il countdown fino al 2040, data entro la quale secondo l’ayatollah il «regime sionista» sarebbe stato letteralmente cancellato dalla storia. La distruzione dell’orologio ha un enorme peso politico perché era l’emblema della guerra psicologica dell’Iran contro Stato ebraico.

di Nina Prenda

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L'orologio che segna quanto manca alla fine di Israele

In piazza Palestina, a Teheran, c’era una volta un orologio digitale. Il tempo che scandiva non era un orario normale: era un conto alla rovescia che indicava, secondo le previsioni della Repubblica Islamica, la fine dell’esistenza dello Stato di Israele.
Posizionato in un luogo già intriso di simbolismo politico, l’orologio è stato collocato in Piazza Palestina per diventare l’epicentro delle attività anti-Israele. Un promemoria della missione ideologica dell’Islam incarnato dalla Repubblica Islamica dell’Iran ma anche un monito al pubblico internazionale, oltre che nazionale. Infatti il messaggio del countdown era in tre lingue: in persiano, in arabo e in inglese.
Il conto alla rovescia dell’“orologio della Distruzione di Israele” – così veniva chiamato – segnava il countdown fino al 2040. Una data che non è stata scelta a caso ma è legata alla profezia del 2015 della Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei, secondo cui Israele avrebbe cessato di esistere entro quella data. Secondo la «profezia» della Guida suprema, entro il 2040 il «regime sionista» sarebbe stato letteralmente cancellato dalla storia. Quel display luminoso voluto nel 2017 era un monito permanente per rimarcare quotidianamente l’odio degli Ayatollah per il nemico ebraico.
L’orologio rappresentava uno dei simboli della propaganda e della guerra psicologica della dittatura islamica. Nella giornata di lunedì 23 giugno è stato fatto saltare in aria da un raid mirato dell’esercito israeliano. La sua distruzione ha un enorme peso politico perché “l’orologio della Distruzione di Israele” era l’emblema della guerra psicologica dell’Iran contro Stato ebraico.
Adesso che l’orologio è stato colpito, il contdown è finito e Israele sta vincendo la guerra contro la Repubblica Islamica – con il sostegno degli americani nella giornata di domenica 22 giugno sono stati colpiti i cuori del programma nucleare iraniano, tra cui Fordow – è il caso di dire per il regime degli Ayatollah: times is over.

(Bet Magazine Mosaico, 24 giugno 2025)

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L’attacco missilistico dell’Iran uccide una sopravvissuta alla Shoah

di Jacqueline Sermoneta

Una sopravvissuta alla Shoah è tra le vittime dell’attacco missilistico iraniano della scorsa settimana a Petah Tikva, in Israele. Si chiamava Yvette Shmilovitz, aveva 95 anni. A confermarlo le autorità israeliane, lo riporta Kan News.
   “A nome di tutti i cittadini, mando un forte abbraccio alla famiglia e la sostengo in questo momento difficile. – ha affermato il sindaco di Petah Tikva, Rami Greenberg – Chiniamo il capo e piangiamo l’uccisione di quattro residenti della città, vittime dell’attacco missilistico iraniano. Cittadini amati, il cui unico peccato era quello di voler vivere una vita pacifica e sicura”.
   Shmilovitz aveva partecipato al progetto “Good Hands” promosso dall’Autorità per i diritti dei sopravvissuti alla Shoah. L’organizzazione, riferendosi all’uccisione di Shmilovitz e di Bella Ashkenazi di Bat Yam, anche lei sopravvissuta alla Shoah, ha detto nel comunicato che “il percorso di vita delle persone che sono sopravvissute agli orrori della Shoah è stato interrotto in modo crudele, ma il loro messaggio di ricostruzione, di speranza e di resilienza continua a vivere tra noi, ed è così che le ricorderemo, come donne che hanno portato la luce”.
   L’attacco missilistico a Petah Tikva ha ucciso anche Daisy Yitzhaki e i coniugi Yaakov e Desi Bello. Un’indagine preliminare condotta dall’Home Front Command ha rivelato che il missile balistico ha colpito direttamente il muro tra due ‘safe room’ dell’edificio residenziale: un colpo diretto che non ha lasciato alcuna possibilità all’infrastruttura di proteggerli.
   Centinaia di residenti del quartiere colpito dal missile sono stati evacuati dalle loro case.

(Shalom, 24 giugno 2025)

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Giovane atleta non può salire sul podio per ricevere la medaglia d’oro, perché israeliano

di Nina Prenda

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Daniel Boaron, il giovane atleta israeliano di 16 anni

Daniel Boaron, giovane atleta israeliano di 16 anni, ha conquistato una medaglia d’oro al Grand Prix di Jiu-Jitsu di Roma. Nonostante l’eccellente risultato, non è stato permesso al vincitore di salire sul podio.
Le autorità italiane hanno parlato di “ragioni di sicurezza”, poiché la sua nazionalità avrebbe potuto suscitare “provocazioni”.
Nonostante l’esclusione, l’atleta ha reagito con determinazione rivendicando il proprio orgoglio di essere israeliano e in un’intervista post-gara ha affermato: “Sono orgoglioso di rappresentare il mio Paese e felice per il risultato. Grazie al popolo di Israele e ai soldati delle IDF che ci proteggono abbiamo mostrato al mondo cosa valiamo, anche quando cercano di metterci a tacere.” In un’intervista al Jewish News, Amir Boaron, il padre del ragazzo, ha raccontato che Daniel ha ricevuto la medaglia d’oro in privato. Dopo l’intervento delle autorità, “gli è stata consegnata la medaglia lontano dalla cerimonia e abbiamo scattato una foto” ha detto.
L’allenatore Nimrod Ryder ha affermato che l’avvertimento è arrivato poco prima dell’inizio della cerimonia: “La vita non è sempre come la pianifichi, è quello che succede. Daniel è arrivato primo, e tutti lo sanno. Eppure, è stato un peccato che non sia potuto salire su quel podio e mostrare al mondo cosa aveva realizzato”.
Nonostante l’accaduto, un folto gruppo di volontari della Comunità Ebraica di Roma ha voluto accogliere e festeggiare il giovane atleta per il risultato raggiunto. La Comunità ebraica si dimostra ancora una volta unita contro spiacevoli eventi, oramai diventati quotidiani per ebrei ed israeliani. Il dispiacere per un’ingiustizia subita non può cancellare l’importante traguardo, che Daniel ha saputo rivendicare con orgoglio e fierezza nel rappresentare lo Stato di Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 24 giugno 2025)

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Tregua violata, Trump furibondo

Resta fragile e incerta la tregua tra Israele e l’Iran. Poche ore dopo l’entrata in vigore dell’accordo, il regime di Teheran ha sparato due missili balistici contro Israele, intercettati dal sistema difensivo Iron Dome. Israel Katz, il ministro israeliano della Difesa, ha quindi comunicato di aver dato istruzioni di «rispondere con forza alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’Iran con attacchi intensi contro obiettivi del regime nel cuore di Teheran».
   Il nuovo scenario di crisi ha portato all’intervento di Washington. Entrambi i paesi hanno violato la tregua, ha accusato il presidente Usa Donald Trump, sollecitando sia Iran sia Israele a sospendere le operazioni. L’inquilino della Casa Bianca si è rivolto con inedita durezza anche nei confronti di Gerusalemme: «Israele. Non sganciate quelle bombe. Se lo fate, è una violazione grave. Riportate a casa i vostri piloti, subito!»
   Martedì mattina il governo israeliano aveva confermato il cessate il fuoco, sostenendo in una nota che «tutti gli obiettivi» dell’operazione Rising Lion erano stati raggiunti. Israele, si legge nel documento ufficiale, «ha rimosso una duplice minaccia esistenziale e immediata, sia sul piano nucleare sia su quello dei missili balistici», infliggendo gravi danni a strutture di governo degli ayatollah, eliminando centinaia di miliziani del Basij e “neutralizzando” molti scienziati coinvolti nel progetto nucleare. «Israele risponderà con fermezza a ogni violazione del cessate il fuoco», ha poi annunciato il suo governo, nell’invitare la cittadinanza «a continuare a osservare scrupolosamente le direttive del Comando del Fronte Interno e della Protezione Civile». Con l’operazione Rising Lion, si sottolinea ancora nella nota, Israele «ha conseguito risultati storici di portata straordinaria, collocandosi al fianco delle grandi potenze mondiali» e questo è da ritenersi «un successo straordinario per il popolo di Israele e per i suoi combattenti, che hanno eliminato due minacce esistenziali per il nostro paese, garantendo così il futuro di Israele». Poco prima del cessate il fuoco, un missile iraniano non intercettato dall’Iron Dome ha provocato quattro vittime e diversi feriti nella città di Beer Sheva, già duramente colpita negli scorsi giorni.

(moked, 24 giugno 2025)

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Raffica di missili dall’Iran: oltre 30 minuti di attacco su Israele

di Michelle Zarfati

Sirene antiaeree in funzione in Israele per il rilevamento di missili lanciati dall’Iran, come ha riferito l’IDF (Forze di Difesa Israeliane). Dapprima nell’area settentrionale, per poi estendersi poco dopo anche alle regioni centrali e meridionali del Paese, a cui ha fatto seguito un secondo lancio sul nord e sul sud. Secondo un comunicato ufficiale, numerosi missili sono stati individuati mentre puntavano verso il territorio israeliano: l’Aeronautica Militare ha prontamente avviato le operazioni d’intercettazione. Le autorità hanno ammonito che “la difesa non è ermetica”, invitando la popolazione a seguire le direttive del Comando della Frontiera Interna. Non sono stati riportati danni o feriti al momento.
   Nelle stesse ore, i droni israeliani hanno attaccato sei basi in Iran, abbattendo 15 velivoli da combattimento (F‑14, F‑5 e AH‑1) e un aereo per il rifornimento in volo, causando danni a piste, hangar sotterranei e altre infrastrutture. La missione ha mirato a ridurre la capacità di lancio aereo iraniana. Di notte, circa 20 caccia israeliani hanno sganciato oltre 30 bombe di precisione su obiettivi militari in Iran Occidentale e a Teheran. A Kermanshah sono stati colpiti siti di lancio missilistici e infrastrutture radar; sempre a Teheran è stato distrutto un lanciatore SAM (surface-to-air missile).
   Un’altra raffica ha interessato Kermanshah lunedì mattina, con oltre 15 aerei israeliani: obiettivo principale, ancora, siti di supporto missilistico. L’attacco a Teheran ha eliminato una batteria avanzata di difesa aerea – localizzata in un hangar sotterraneo – strategica per mantenere il controllo aereo nella fase finale dell’Operazione “Rising Lion”. Secondo fonti iraniane, 10 membri dei Guardiani della Rivoluzione sarebbero morti in un raid a Yazd domenica. Infine, è stato lanciato un missile balistico verso il centro di Israele: l’IDF dichiara di averlo intercettato e non risultano vittime o danni, secondo il servizio nazionale di emergenza Magen David Adom.

(Shalom, 23 giugno 2025)

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Gerusalemme, la preghiera di Netanyahu per Trump al Muro del Pianto

“Si è assunto il compito di scacciare il male”

GERUSALEMME – Immagini del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che prega al Muro del Pianto a Gerusalemme per “il successo della continuazione della guerra contro l’Iran” e per ringraziare il presidente degli Stati Uniti Donald Trump dopo gli attacchi statunitensi ai siti nucleari iraniani. “Possa Egli Dio benedire, custodire, proteggere e aiutare ed esaltare, ed elevare in alto il presidente degli Stati Uniti – ha detto il premier israeliano – perché si è assunto il compito di scacciare il male e le tenebre nel mondo”.

(askanews, 23 giugno 2025)

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La comunità ebraica in Iran mantiene un basso profilo durante la guerra

Molti ebrei sono fuggiti da Teheran durante il conflitto verso zone più tranquille a nord della città.

(JNS) - Dopo quasi due settimane di guerra tra Iran e Israele, attivisti ebrei iraniani-americani in contatto con amici e familiari ebrei in Iran riferiscono che la loro comunità è al sicuro, ma mantiene un profilo basso durante i raid militari israeliani e gli attacchi aerei statunitensi di domenica contro il regime di Teheran.
"Sebbene il regime (iraniano) abbia bloccato Internet e le linee telefoniche da alcuni giorni a causa della guerra, sono riuscito a parlare con alcune personalità ebraiche a Teheran che mi hanno detto di aver ordinato agli ebrei che vivono lì di lasciare la città e di recarsi in altre città iraniane come Shiraz, Isfahan e Yazd, dove sono più al sicuro e possono trovare alloggio presso i loro familiari o altri ebrei", ha riferito a JNS un attivista ebreo iraniano di Los Angeles.
I leader della comunità ebraico-iraniana americana si sono astenuti per decenni dal commentare pubblicamente il regime, per paura che ciò potesse portare a ritorsioni contro gli ebrei che ancora vivono in Iran.
Saeed Banayan, un uomo d'affari ebreo iraniano in pensione che vive a Los Angeles, ha detto che molti ebrei sono fuggiti da Teheran durante il conflitto verso zone più tranquille a nord della città.
“Ho parlato con un membro della mia famiglia che vive a Teheran alcuni giorni fa”, ha detto Banayan. “Mi ha detto che lei e suo marito sono fuggiti dalla città insieme a molti altri ebrei e ora si trovano in zone vicino al Mar Caspio, che sono più sicure e non hanno installazioni militari che potrebbero essere attaccate da Israele”.
Un attivista ebreo iraniano di Los Angeles, che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di ritorsioni da parte del regime iraniano contro i suoi familiari in Iran, ha riferito a JNS che la leadership ebraica ha chiuso tutte le sinagoghe e cancellato le funzioni sabbatiche durante il conflitto.
“I leader della comunità ebraica hanno consigliato agli ebrei di non apparire in pubblico con la kippah. Hanno cancellato le funzioni religiose ebraiche e hanno chiesto alla comunità di mantenere un basso profilo in pubblico per evitare possibili problemi con il regime o con i musulmani che odiano Israele”, ha detto l'attivista.
JNS ha ricevuto un'e-mail in lingua persiana proveniente dalla Shiraz Jewish Charity Association, in cui si chiedeva agli ebrei di Teheran di recarsi temporaneamente a Shiraz per motivi di sicurezza durante il conflitto.
“A causa della situazione di emergenza, la Shiraz Jewish Charity Association ha organizzato alloggi temporanei per i nostri parenti di Teheran che desiderano recarsi a Shiraz”, si legge nell'e-mail. “Chiediamo quindi ai nostri cari concittadini ebrei di Teheran di mettersi in contatto con noi. Vi daremo un caloroso benvenuto e provvederemo a fornire alloggi per voi e i vostri familiari”.
Dal 13 giugno, l'aviazione israeliana ha bombardato diverse installazioni militari e di ricerca nucleare nella capitale Teheran. Attualmente, la maggior parte della piccola comunità ebraica rimasta in Iran, stimata in 8.000 persone, vive a Teheran.
Attivisti ebrei iraniani nel sud della California hanno dichiarato di essere in contatto con amici e familiari ebrei fuggiti dall'Iran dallo scoppio del conflitto.
“Conosco diversi ebrei di Teheran che avevano i mezzi finanziari per lasciare l'Iran e sono andati a vivere temporaneamente a Dubai o in alcuni paesi europei per evitare lesioni o la morte”, ha detto Bijan Khalili, uno dei fondatori dell'organizzazione no profit iraniano-ebraica “No To Antisemitism” con sede a Los Angeles.
Khalili ha dichiarato a JNS che gli ebrei iraniani in Iran e in America stanno ancora aspettando una dichiarazione ufficiale sulla guerra in corso da parte del Dr. Homayoun Sameyah Najafabadi, attuale presidente dell'Associazione ebraica di Teheran, che è anche membro del parlamento iraniano controllato dal regime. Dall'inizio del conflitto, non ha rilasciato alcuna dichiarazione pubblica.
Tuttavia, in una lettera aperta dell'agenzia di stampa Tasnim News Agency, legata alla Guardia Rivoluzionaria Islamica, si afferma che Najafabadi avrebbe scritto che “il lancio quotidiano di migliaia di droni e missili sarebbe la risposta adeguata” all'operazione israeliana.
La scorsa settimana, Yehuda Gerami, Gran Rabbino dell'Iran e presidente del Comitato ebraico di Teheran, che rappresenta gli ebrei rimasti in Iran, ha rilasciato dichiarazioni in cui condannava gli attacchi di Israele al regime.
Attivisti ebrei iraniani-americani hanno affermato che gli ebrei in Iran vivono sotto costante pressione e sono costretti a rilasciare dichiarazioni a sostegno del regime iraniano, pena gravi conseguenze da parte dell'apparato di sicurezza del regime.
“Gli ebrei rimasti in Iran non hanno altra scelta che rilasciare dichiarazioni pubbliche che soddisfino il regime, perché non vogliono problemi con il governo”, ha detto a JNS Dara Abaei, capo del “Jewish Unity Network”, un'organizzazione ebraico-iraniana senza scopo di lucro con sede a Los Angeles.
Abaei ha detto di aver parlato con amici e familiari a Teheran dall'inizio del conflitto, i quali gli hanno riferito che la comunità ebraica è al sicuro, ma che la sua situazione è precaria come quella della maggior parte degli altri abitanti della città.
“A Teheran vivono circa 10 milioni di persone, la maggior parte delle quali è fuggita dalla città, compresi gli ebrei, perché la situazione è difficile per tutti in questo momento”, ha detto a JNS.
“Le banche sono chiuse, i negozi e le scuole sono chiusi, ci sono carenze di acqua ed elettricità ovunque e, a causa del recente sciopero dei camionisti che non trasportano merci in città, ci sono alcune carenze di generi alimentari”.
Abaei e altri attivisti ebrei iraniani-americani hanno affermato che tra alcuni ebrei che attualmente vivono in Iran c'è il timore di essere attaccati da folle islamiste radicali che li ritengono responsabili dei raid aerei israeliani nel Paese.
“Alcuni ebrei hanno sicuramente paura, poiché esiste la possibilità che vengano attaccati a causa dell'antisemitismo di alcuni gruppi radicali inferociti”, ha detto Abaei a JNS. “Pertanto, la comunità ebraica sta attualmente cercando di rimanere a casa e di non uscire troppo”.

(Israel Heute, 23 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Voglio una città con i colori della Palestina”

Il sindaco di La Courneuve distribuisce bandiere palestinesi ai suoi cittadini

Il sindaco di La Courneuve (Francia), Gilles Poux, ha lanciato un'iniziativa controversa offrendo bandiere palestinesi a tutti gli abitanti del suo comune. In un video diffuso la scorsa settimana sui social network ufficiali della città, il sindaco comunista chiede esplicitamente ai residenti di esporre questi simboli alle finestre. “Voglio una città dai colori della Palestina”, dichiara il sindaco in questo video, in cui denuncia le azioni di Israele nella Striscia di Gaza. 
Gilles Poux accusa lo Stato ebraico di condurre quello che definisce un “genocidio” contro la popolazione di Gaza, evocando le vittime civili e la situazione umanitaria nel territorio palestinese.
La distribuzione delle bandiere fa parte di una più ampia azione di protesta condotta dal sindaco. Qualche giorno prima aveva pubblicato un comunicato per protestare contro la partecipazione di aziende israeliane al Salone del Bourget, importante evento aeronautico che si svolge nel territorio del suo comune.
In questo messaggio, il sindaco di La Courneuve critica aspramente la presenza di aziende israeliane produttrici di armi al salone, che accusa di fornire armi al governo di Benjamin Netanyahu. “È intollerabile che gli organizzatori non abbiano preso l'unica decisione possibile: rifiutarsi di fare da vetrina alle armi al servizio di un'impresa genocida”, scrive, pur riconoscendo l'importanza economica dell'evento per il suo territorio.
Gilles Poux conclude il suo appello esortando a “proseguire la mobilitazione per il riconoscimento da parte della Francia dello Stato palestinese e per la fine del ‘genocidio’ degli abitanti di Gaza”, illustrando così il netto impegno politico di questo comune della Seine-Saint-Denis nel conflitto israelo-palestinese.

(i24, 23 giugno 2025)

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Israele: un simbolo che l'Iran non sopporta!

Da anni l'Iran minaccia apertamente di distruggere Israele, sia attraverso i discorsi degli ayatollah che finanziando il terrorismo in tutto il Medio Oriente. Ma molti ancora oggi si chiedono: perché? Perché un Paese che non confina nemmeno con Israele dichiara che la sua distruzione è un obiettivo strategico? Perché l'Iran vede Israele non solo come un nemico, ma anche come una minaccia alla propria identità?

di Aviel Schneider

Iraniani camminano su un'immagine della bandiera israeliana durante una manifestazione anti-Israele a Teheran, Iran, il 14 giugno 2025
GERUSALEMME - L’ossessione iraniana per la distruzione di Israele è un fenomeno complesso con radici religiose, ideologiche, politiche e storiche. La Repubblica Islamica dell'Iran si basa su una visione rivoluzionaria sciita guidata dagli ayatollah e dalla guida suprema. Questa ideologia si considera all'avanguardia di una “rivoluzione islamica mondiale” con la missione di portare la giustizia, secondo la sua definizione, in tutto il mondo islamico e oltre. Ai suoi occhi, Israele non è semplicemente una “entità occupante sionista”, ma un simbolo dell'incredulità su questa terra, del colonialismo occidentale in Medio Oriente e dell'influenza del “grande Satana”, gli Stati Uniti. In Iran, religione e politica sono indissolubilmente intrecciate, e quindi la distruzione di Israele appare come un passo religioso verso la promozione della redenzione islamica.
Il successo di Israele nei suoi 76 anni di esistenza scuote la narrativa ideologica che la rivoluzione islamista a Teheran cerca di raccontare, ovvero che l'Islam rivoluzionario è moralmente e politicamente superiore all'Occidente. Per il regime iraniano, lo Stato ebraico in Medio Oriente è un simbolo rischioso di tutto ciò che la rivoluzione islamica voleva effettivamente eliminare: uno Stato libero, forte, prospero, democratico ed ebraico. Israele ostacola la narrativa iraniana. La teologia sciita, specialmente nell'interpretazione iraniana, attende il ritorno dell'Imam Mahdi nascosto, che inaugurerà una giustizia islamica globale. In questa visione messianica, Israele, uno Stato ebraico indipendente nel cuore del mondo islamico, non ha posto. Al contrario, l'esistenza di Israele è interpretata come un ritardo o addirittura un impedimento all'ordine “divino”. La semplice esistenza di Israele è per gli ayatollah una provocazione teologica, una sorta di “blasfemia permanente” che, dal loro punto di vista, deve essere eliminata. Come una spina nel fianco!
Questo mi ricorda il Salmo 83, un'antica espressione del desiderio di annientare Israele per odio. :

    “Venite, distruggiamoli, affinché non siano più un popolo, affinché non sia più ricordato il nome di Israele!”

I nemici di Dio stringono alleanze contro Israele perché è una testimonianza della fedeltà di Dio, e questo non lo possono tollerare. L'odio verso Israele ha una radice spirituale: la volontà di cancellare la storia di Dio con questo popolo. Già la Bibbia parla più volte di Israele come di una «spina nell'occhio» o di una pietra d'inciampo per gli altri popoli, sia in senso letterale che figurato. Questo topos biblico ricorre in tutto l'Antico e il Nuovo Testamento e può essere interpretato sia in senso storico-politico che spirituale-teologico.
Fin dai suoi inizi, Israele era una spina nel fianco per i popoli di Canaan, e per questo Dio disse chiaramente di eliminare questo pericolo:

    «Ma se non scaccerete gli abitanti del paese, quelli che lascerete come superstiti saranno per voi come spine negli occhi e come spine nei fianchi; vi tormenteranno nel paese dove abiterete» (Numeri 33).

Chi non viene allontanato diventa una spina nella carne, simbolo di costante oppressione, ostilità e inquietudine. Israele è oppresso anche quando vive nella sua terra, perché la sua stessa esistenza provoca le culture circostanti. Come oggi i palestinesi.
Il profeta Zaccaria (12) avverte:

    «Ecco, io faccio di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutte le popolazioni che la circondano... E avverrà in quel giorno che io renderò Gerusalemme una pietra pesante per tutte le popolazioni; tutti quelli che la solleveranno, saranno feriti».

Israele è descritto come una pietra insostenibile che nessuno può toccare senza subire danni. Lo Stato ebraico è un «problema irrisolvibile» per i popoli, che li preoccupa, li opprime e allo stesso tempo li giudica. Chi lo attacca, ferisce se stesso. Come oggi l'Iran. Israele deve combattere questi pericoli: è ciò che Dio ha già ordinato al suo popolo nella Bibbia.
L'odio per Israele svolge una funzione di politica interna in Iran, come un demone che unisce. La società iraniana è profondamente divisa, l'economia è al collasso, il popolo è insoddisfatto: cosa resta per serrare i ranghi? Un nemico comune. Ed è proprio a questo che serve il «nemico sionista» nella propaganda dei mullah iraniani. Come in ogni sistema totalitario che teme il proprio popolo, anche il regime iraniano deve creare un nemico immaginario. Israele – piccolo, ebraico, occidentale – si adatta perfettamente a questo ruolo.
L'Iran non è il primo nemico musulmano di Israele, ma è un nemico speciale. Non solo per i suoi missili o i suoi eserciti proxy, ma perché la sua lotta è ideologica. L'Iran non vuole ridisegnare i confini, vuole cancellare Israele. Non vuole un cessate il fuoco, ma l'annientamento esistenziale dell'idea stessa di Israele. Nel pensiero sciita iraniano, Israele è visto come un errore della storia che non può esistere dal punto di vista teologico e ideologico. Per il regime di Teheran, Israele non sbaglia perché combatte: Israele deve essere combattuto perché esiste. Non è una guerra per la terra, è una guerra per il significato.
La Bibbia riconosce che Israele è spesso una spina nel fianco delle nazioni. Non perché agisca con malizia, ma perché la sua stessa esistenza, la sua storia e la sua elezione rappresentano una sfida per gli idoli, per i potenti, per l'orgoglio umano e per la “normale” comprensione della storia. Israele è una contraddizione nella storia mondiale, e proprio questo fa parte della sua vocazione. E questo il regime sciita dei mullah di Teheran non può tollerarlo.
Chi crede che si possa indurre il regime iraniano alla moderazione con concessioni o appagamenti, fraintende il carattere di questa ossessione iraniana. Un regime che nega fondamentalmente il diritto all'esistenza di Israele non può essere convinto con la diplomazia. Finché esisterà la Repubblica Islamica dell'Iran, la minaccia non scomparirà, cambierà solo maschera. Non è catastrofismo, ma sobria analisi.

(Israel Heute, 22 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 6

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

Si conclude la parte passiva del piano redentivo
  Passato il diluvio, concluso il patto di Dio con Noè, andato in fumo il tentativo globalista della torre di Babele e iniziata l’era delle nazioni, si conclude la parte “passiva” del piano redentivo di Dio, cioè quella puramente contenitiva del male.
   Ma prima di passare alla parte “attiva”, cioè introduttiva del bene sulla terra, conviene fare alcune osservazioni sull’operato di Dio fino a questo momento.
   Ci sono due azioni con cui Dio evita che l’uomo peggiori la situazione con il suo stolido agire:
   1. Impedisce che l’uomo mangi del frutto dell’albero della vita;
   2. Impedisce che l’uomo riesca a costruire la torre di Babele.
   Nel primo caso Dio impedisce che l’uomo entri in eterno nel regno di Satana e abbia fine il progetto originario della creazione.
   Nel secondo caso impedisce che in una creazione corrotta dal male l’uomo riesca a costituire sulla terra un governo unitario mondiale con cui sperare di ottenere, in splendida autonomia umana, quella “pace nel mondo” che oggi tanto si ricerca. Un simile governo, elaborato in aperta ribellione a Dio che aveva ordinato di disperdersi sulla faccia della terra, sarebbe diventato presto un prezioso strumento di Satana per sottomettersi il mondo. E anche in questo caso il Signore manifesta il suo amore per la creatura e la creazione facendo silenziosamente fallire questo piano. Ma di questo amore gli uomini di allora non si accorsero, come del resto accade anche oggi. L’amore di Dio non è chiassoso.

Il primo peccatore
   Da notare il comportamento di Dio con Caino, che è il primo peccatore al mondo, il primo omicida, il primo seguace di colui che “è stato omicida fin dal principio” (Giovanni 8:44). Nella Bibbia non è detto il motivo esplicito per cui Dio gradì l’offerta di Abele e non quella di Caino (Genesi 4:3-5). Non ci sta bene? Attenzione, perché corriamo il rischio di reagire come Caino, cioè essere irritati contro il Dio della Bibbia. Perché è lì che Dio si rivela. E per avere risposte convincenti dalla Bibbia occorre conoscerla in tutta la sua totalità (approccio olistico); chi ha fretta e non vuole leggere o ascoltare, eviti di chiedere. La Sacra Scrittura è un organismo vivo che non sopporta di essere squartato per estrarne un pezzo da esaminare al microscopio.
   Il peccato di Caino non sta in quello che ha fatto prima del giudizio che Dio ne ha dato, ma in quello che ha fatto dopo. Con la sua irritazione ha fatto capire a Dio di “non essere d’accordo” con Lui. E il Signore è stato molto paziente con questo autentico “figlio degli uomini” - generato per primo da una donna con il seme di un uomo -, e gli ha rivolto buone parole di esortazione e ammonimento. Ma queste hanno finito per aumentare la sua irritazione, al punto che non potendo colpire Dio si è scagliato contro chi ai suoi occhi lo rappresentava: Abele.
   Qui entra in gioco la terra:

    “L’Eterno disse: ‘Che hai fatto? la voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra’” (Genesi 4:10).

La terra era stata maledetta, e tuttavia l’uomo poteva ancora trarne il frutto, anche se con affanno (Genesi 3:17), ma il sangue di quell’uomo ucciso grida a Dio e la maledizione che aveva subito la terra raggiunge ora anche l’uccisore, che non riceverà più alcun frutto dalla terra bagnata da quel sangue. Conseguenza:

    Ora tu sarai maledetto, condannato a vagare lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano. Quando coltiverai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti, e tu sarai vagabondo e fuggiasco sulla terra” (Genesi 4:11-12).

La pena inflitta è davvero pesante.

    “E Caino disse all'Eterno: “Il mio castigo è troppo grande perché io lo possa sopportare.  Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo, e io sarò nascosto lontano dalla tua presenza, e sarò vagabondo e fuggiasco per la terra; e avverrà che chiunque mi troverà mi ucciderà” (Genesi 4:13-14).

Sì, sarà vagabondo, perché dovrà sempre cercare una terra che gli dia frutto, e “fuggiasco”, perché dovrà continuamente scappare davanti a chi vuole ucciderlo.
   Il Signore ascolta il lamento di Caino e stabilisce una protezione:

    “E l'Eterno gli disse: ‘Perciò, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte più di lui’. E l'Eterno mise un segno su Caino, affinché nessuno, trovandolo, l'uccidesse” (Genesi 4:15).

A Caino però il segno di Dio non basta. Non volendo continuare a fuggire davanti agli uomini, riprende a fuggire davanti a Dio. Per non passare tutta la vita da eterno migrante, fa una cosa non prevista dal “piano regolatore” di Dio per il terreno: fonda una città. Sarà tutta sua. Gli darà il nome di suo figlio (Enoc) e ne diventerà il primo cittadino. Non il segno di Dio, ma le mura costruite dai cittadini saranno una difesa contro chi volesse ucciderlo.
   E Dio “abbozza”. Permette al vagabondo e fuggiasco per la terra di diventare l’onorato abitante di una stabile città. Se questo non è amore…

Città e nazioni
  Si può tracciare un parallelo tra Caino e gli uomini della pianura di Scinear.
   Il primo non vuole più essere “vagabondo e fuggiasco per la terra”; i secondi non vogliono diventare dispersi sulla faccia di tutta la terra”.
   Dal primo nasce la città, e di conseguenza si forma una nuova sottosocietà costituita da cittadini; dai secondi nascono le nazioni, costituenti anch’esse delle nuove sottosocietà all’interno dell’universale società di tutti gli uomini.
   In entrambi i casi queste nuove costruzioni sociali, non previste nell’originario piano creativo, nascono come tentativi di umana autonomia rispetto a Dio. E in entrambi i casi Dio non le reprime, ma anzi al momento opportuno le userà come modelli di formazione sociale per costituire, nell’ordine storico da Lui voluto, quelle che saranno la sua nazione e la sua città.
   A questo punto si sarà capito che si tratta di Israele e Gerusalemme. Il progetto redentivo di Dio si va delineando in itinere.

Inizia la parte attiva del piano redentivo
  Prendiamo in considerazione questi due passi biblici:

  1. Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell'abisso, e lo Spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. E Dio disse: “Sia la luce!”, e la luce fu (Genesi 1:1-3).
  2. L'Eterno disse ad Abramo: ‘Vattene dal tuo paese e dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò: e io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione: benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra’ (Genesi 12:1-3).

Il primo passo sta all’inizio del programma creativo di Dio; il secondo sta all’inizio del programma redentivo di Dio.

Analogie tra i due casi.

  1. Chi muove tutto è Dio
  2. L’azione di Dio riguarda la terra;
  3. La terra esce da una situazione penosa;
  4. L’azione di Dio comincia con un’opera di separazione.

Spiegazione.
     a1) E Dio disse
      a2) L’Eterno disse
Tutto ciò che accade nella realtà dei fatti è effetto di una decisione di Dio che si esprime con una sua parola.
      b1) La terra era informe e vuota.
      b2) In te saranno benedette tutte le famiglie della terra.
In entrambi i programmi l’azione di Dio riguarda ciò che accade sulla terra, sia nella natura, sia nei rapporti umani.
      c1) La terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell'abisso.
      c2) L’Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra (Genesi 6:5).
All’inizio della creazione la terra era ciò che rimaneva dopo il cataclisma provocato dalla caduta angelica; al momento della chiamata di Abramo la terra abitata subiva le conseguenze fisiche e morali del cataclisma provocato dalla caduta umana, cioè dal peccato di Adamo ed Eva.
      d1) Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre (Genesi 1:4).
      d2) Io farò di te una grande nazione.
Il programma creativo di Dio comincia con successive separazioni; il programma redentivo comincia con il separare dalle nazioni, che sono conseguenza di peccato, una precisa nazione che Egli stesso decide di formare per il compimento del suo programma redentivo.

Tutto comincia con Abramo
   Abbiamo visto che dopo il peccato originale la malvagità degli uomini era talmente aumentata che in un primo tempo al Signore era venuta l’idea di sterminare tutto dalla faccia della terra, uomini e bestie. L’atteggiamento fiducioso di Noè gli fece cambiare idea e stabilì che la terra poteva continuare ad esserci, ma si doveva operare un totale rinnovamento della popolazione. E sappiamo come questo avvenne.
   Però, dopo che la terra ebbe cominciato a ripopolarsi con i discendenti della famiglia di Noè, la situazione morale degli uomini era sì un po’ migliorata, ma non che fosse proprio irreprensibile. Noè e famiglia, che dopo il diluvio apparivano come i progenitori della stirpe umana, potevano dare qualche pensiero a Dio in fatto di moralità… con il capostipite Noè che si ubriaca e si spoglia in mezzo alla tenda, e quei figli e nipoti che non promettevano nulla di buono. Poteva venire un dubbio: e se le cose tornassero allo stato antidiluviano, con gli uomini che si rotolano moralmente nel fango come prima, che si dovrà fare? L’idea di mandare un altro diluvio fu subito scartata dal Signore: l’aveva promesso (Genesi 8:21-22).
   È a questo punto che Dio mette gli occhi su Abramo. Lo chiama, gli dà un ordine, vi aggiunge una promessa, e lui parte. Incredibile: “Partì senza sapere dove andava” (Ebrei 11:8). Ma gli sarà pur stato detto che cosa andava a fare, là dove stava andando, osserverà qualcuno. Qual è il compito affidato ad Abramo per lo svolgimento della sua missione?
   Sul modello dei propugnatori di pace in stile papale, Dio avrebbe potuto fare ad Abramo un discorsetto di questo tipo: Abramo, tra gli uomini c’è molta cattiveria, ma tu hai dimostrato di essere diverso perché hai creduto alla mia parola e mi hai ubbidito.Ti mando allora nel mondo come predicatore di giustizia ed esempio di amore, affinché si possa giungere a quella pace universale a cui tutti gli uomini di buona volontà anelano.
   Oppure, in stile più evangelico, avrebbe potuto dirgli: Abramo, tutti gli uomini sono peccatori davanti a me e anche tu lo sei. Tu però hai creduto alla mia parola e hai ubbidito a quello che ti ho ordinato di fare, quindi io ti perdono e adesso ti mando nel mondo ad invitare tutti gli uomini a credere alla mia parola per ottenere così il perdono, come è avvenuto a te.
   Sono immagini caricaturali di come si potrebbe immaginare uno svolgimento diverso dei fatti, affinché si rifletta seriamente su come invece si sono realmente svolti. Ciò che sorprende allora è che Dio non dà ad Abramo alcun compito. Abramo deve soltanto lasciare i suoi parenti, partire, cominciare a camminare, e aspettare che gli arrivino strada facendo nuove comunicazioni.
   In quei primi tre versetti di Genesi 12 non è detto che cosa Abramo avrebbe dovuto fare dopo la sua partenza, ma soltanto quello che Dio farà. Ad Abramo, che secondo la Bibbia e la tradizione ebraica era una persona ricca e stimata in Caran, dove viveva con tutta la sua famiglia, il Signore fa un’offerta “commerciale” interessante: lascia tutto, luogo e famiglia, segui le mie istruzioni e Io ti darò molto di più.
   Non è importante indagare per ora che cosa in realtà Dio aveva promesso ad Abramo, perché di questo parla tutto il resto della Bibbia. Per ora è importante osservare il tipo di relazione che si stabilisce fra Dio e Abramo con il patto concluso. L’unica clausola che obbliga Abramo suona così:

    Vattene dal tuo paese e dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò.

Nel versetto che segue di Genesi 12:4 si dice:

    E Abramo se ne andò, come l'Eterno gli aveva detto.

Dopo essere partito, Abramo arrivò nel paese che Dio aveva promesso di mostrargli:

    E l'Eterno disse ad Abramo, dopo che Lot si fu separato da lui: “Alza ora i tuoi occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente. Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua progenie, per sempre. E farò in modo che la tua progenie sia come la polvere della terra; in modo che, se alcuno può contare la polvere della terra, anche la tua progenie si potrà contare. Alzati, percorri il paese in tutta la sua lunghezza e in tutta la sua larghezza, poiché io te lo darò” (Genesi 13:14-18).

Dunque a questo punto Abramo ha mantenuto tutti gli impegni che si era assunto nel contratto: da questo momento spetta a Dio mantenere i suoi. Cioè: formare la grande nazione, rendere grande il suo nome, benedire lui e renderlo fonte di benedizione.
   Si noti che l'adempimento di questi impegni da parte di Dio non dipende da come si sarebbe comportato Abramo. Non è che Dio gli abbia detto: se sei bravo e ti comporti bene, io ti darò questo e quest’altro. Il Signore si è impegnato, di sua propria volontà, a spargere benedizione fra gli uomini, dunque a introdurre il bene sulla terra, in osservanza a un patto stabilito con un uomo che aveva avuto il solo “merito” davanti a Lui di credere alla Sua parola e di dimostrarlo coi fatti. Se questo non è amore…

(6. continua)
precedenti 

(Notizie su Israele, 22 giugno 2025)


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Israele uccide il comandante che armò Hamas

di Antonio Antipari

Un bersaglio di altissimo valore
  La notte del 20 giugno, in un’operazione ad altissima precisione condotta nella città iraniana di Qom, Israele ha eliminato Saeed Izadi, il comandante della Divisione Palestinese della Forza Quds, l’unità operativa esterna dei Guardiani della Rivoluzione islamica (IRGC).
Secondo il ministro della Difesa Israel Katz, Izadi era il principale architetto del trasferimento di fondi, tecnologia e armi sofisticate da Teheran verso la Striscia di Gaza, in particolare verso le brigate di Hamas, prima e dopo il massacro del 7 ottobre 2023. Per Tel Aviv, la sua figura rappresentava l’anello di congiunzione tra l’apparato militare iraniano e la rete delle milizie anti-israeliane attive a Gaza e in Libano.

L’operazione: intelligence, precisione e penetrazione
  L’attacco è stato portato a termine grazie a un’intensa attività d’intelligence, probabilmente condotta in sinergia tra l’Unità 8200 (l’intelligence elettronica israeliana) e il Mossad. Le modalità dell’eliminazione non sono state rese note ufficialmente, ma secondo fonti occidentali il raid potrebbe essere stato condotto con un missile stand-off a lungo raggio lanciato da velivoli al di fuori dello spazio aereo iraniano, oppure mediante l’utilizzo di droni stealth ad alta penetrazione come gli Eitan o unità Harop.
Izadi si trovava in un appartamento sicuro a Qom, considerata da Teheran una zona “off-limits” per operazioni nemiche. Il colpo, preciso e localizzato, fa pensare all’uso di un’arma a guida elettro-ottica (probabilmente Spike NLOS o munizionamento guidato israeliano), in grado di colpire selettivamente senza causare vittime collaterali.

Il significato strategico dell’eliminazione
  Saeed Izadi non era un semplice ufficiale: la Divisione Palestinese della Quds Force gestisce l’interfaccia con Hamas e Jihad Islamica, addestrando combattenti, coordinando il trasferimento di razzi avanzati, droni esplosivi e componenti per il programma missilistico. Secondo fonti militari israeliane, Izadi era dietro alla fornitura di missili a lungo raggio derivati dai Fateh-110 e di droni suicidi Shahed, già impiegati in passato sia da Hamas che dagli Houthi.
La sua eliminazione è un colpo all’infrastruttura logistica che collega l’Iran ai gruppi armati sunniti. Non a caso, Katz ha dichiarato: “Giustizia è stata fatta per gli assassinati e gli ostaggi. Il braccio di Israele raggiungerà tutti i suoi nemici”. Un messaggio chiarissimo per Teheran e per le sue proiezioni in Libano, Siria e Gaza.

Reazioni e rischio di escalation
  Nessuna conferma ufficiale da parte della Repubblica Islamica, ma nei giorni successivi l’Iran ha risposto lanciando una serie di missili balistici a corto raggio e droni da combattimento verso il territorio israeliano, causando 24 vittime civili, secondo dati diffusi da Israele. In parallelo, almeno 639 vittime sarebbero state registrate sul suolo iraniano in seguito a contrattacchi israeliani, tra cui un’ondata di bombardamenti contro siti sensibili, come centrali di comando e presunti impianti di arricchimento dell’uranio.

Una guerra sempre più senza confini
  Israele ha dimostrato di poter colpire in profondità, a oltre 1.500 chilometri di distanza, nel cuore del dispositivo militare iraniano, senza dover impiegare le sue risorse nucleari o attacchi convenzionali su larga scala. Ciò conferma il pieno controllo israeliano sulla guerra asimmetrica: tecnologie, intelligence e capacità chirurgica.
Questa operazione segue un’escalation che dura ormai da settimane, in cui Israele ha colpito diversi depositi missilistici e laboratori nucleari, dichiarando di aver ritardato il programma atomico iraniano di almeno 2-3 anni. Una chiara strategia di interdizione.
L’eliminazione di Saeed Izadi non è solo una vendetta simbolica, ma una dimostrazione di forza strategica e tecnologica da parte di Israele. In un momento in cui l’Iran cerca di alzare la posta con missili, proxy e nucleare, l’operazione su Qom rappresenta un messaggio inequivocabile: nessun luogo è al sicuro.

(PoliticoWeb, 21 giugno 2025)

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Guerra Israele-Iran: Beersheva dopo l’attacco, parla il parroco don Kaminski

di Daniele Rocchi

Secondo l’esercito israeliano (Idf), sarebbero circa 30 i missili balistici lanciati nella mattinata di ieri dall’Iran verso Israele. Un missile ha colpito l’ospedale Soroka a Beersheva, nel sud di Israele, altri invece le città di Holon e Ramat Gan nel centro del Paese dove si registrano tre feriti gravi. Il missile caduto a Beersheva ha provocato ingenti danni all’area della chirurgia oltre che a edifici residenziali vicini. Il ministro della Salute israeliano, Uriel Bosso, ha commentato l’attacco all’ospedale affermando che si è trattato di “un atto di terrorismo e del superamento di una linea rossa. Un crimine di guerra del regime iraniano, deliberatamente commesso contro civili innocenti e contro équipe mediche impegnate a salvare vite umane”. Fonti militari iraniane, a loro volta, hanno riferito all’agenzia stampa Irna che gli obiettivi dell’ultimo bombardamento su Israele erano “un quartier generale dell’intelligence delle Idf e una base vicino all’ospedale di Soroka”. Nella città, nota anche come la capitale del Negev, vive una piccola comunità cattolica di espressione ebraica, che fa capo al Patriarcato latino di Gerusalemme, formata da ebrei e arabi israeliani, nonché da immigrati provenienti da Russia, Romania, Polonia e India. È presente anche un gruppo regolare di studenti di medicina stranieri che studiano all’Università Ben Gurion. A guidare la comunità è il parroco di origini polacche Roman Kaminski che racconta così, al Sir, le ore dell’attacco.

- Padre Kaminski, com’è stata vissuta l’esplosione in città?
  Fino a ieri la nostra zona era rimasta tranquilla. Nonostante l’allerta dei mesi scorsi, non avevamo registrato impatti diretti. Proprio per questo una famiglia del centro di Israele aveva chiesto di venire a rifugiarsi in parrocchia: marito, moglie e un bimbo di tre anni. Poi, ieri mattina, la situazione è cambiata improvvisamente. Io ero fuori città, stavo accompagnando una signora polacca che tornava in patria con l’aiuto dell’ambasciata, passando per la Giordania. Il missile è caduto circa 40 minuti prima del mio rientro. Quando sono tornato, ho trovato la comunità molto scossa.

- Che cosa è stato colpito esattamente?
  Un razzo ha colpito l’area chirurgica dell’ospedale Soroka. Ma – grazie a Dio – quella sezione era stata evacuata il giorno prima. Possiamo dire che è stato un miracolo. I danni sono stati gravi, anche ad alcune abitazioni vicine, ma non ci sono state vittime. E nemmeno tra i nostri parrocchiani: ho telefonato a tutti, ho scritto a chi vive più vicino alle zone colpite, e stanno tutti bene.

- Ci sono stati altri attacchi in città?
  Nel pomeriggio sono caduti altri due razzi dentro Beersheva. Le autorità hanno detto che sono finiti in aree aperte, ma poi ho scoperto, parlando con i parrocchiani, che uno è caduto nel campo sportivo di una scuola e un altro in un parco. Erano missili meno potenti, per fortuna. A oggi non si registrano feriti in città. Ma resta la paura. Soprattutto per anziani e malati, che fanno più fatica a raggiungere i rifugi.

- Cosa significa sentirsi improvvisamente indifesi in un Paese noto per la sua sicurezza?
  È vero, Israele ha la fama di sapersi difendere. Ma trovarsi sotto attacco, senza difese immediate, genera una sensazione nuova. Per me è la prima volta in 26 anni che vivo qui. Ho sempre abitato in zone che non erano direttamente colpite. Ma gli israeliani sono abituati a tutto questo. Anche se non ‘suona bene’, è la verità. Io non lo ero, ma spiritualmente mi ero preparato. Sapevo che sarebbe potuto accadere.

- Cosa cambia rispetto ai razzi lanciati da Gaza o dallo Yemen?
  Questi sono missili balistici veri, con una potenza molto superiore. È un salto qualitativo. Ed è questo che impressiona di più. Ma, come sempre, la gente qui sa reagire. Le autorità ripetono continuamente di andare nei rifugi, e quasi tutti lo fanno. È ciò che salva la vita.

- Quale risposta state dando, come comunità cattolica?
  Quella della preghiera. Abbiamo ripreso il Rosario via Zoom e stiamo organizzando anche la messa online in ebraico, come durante il Covid. È un modo per restare uniti, per sostenersi spiritualmente. Anche padre Piotr Zelazko, il vicario patriarcale per le comunità cattoliche di espressione ebraica ha invitato a riprendere forme di preghiera a distanza, soprattutto per proteggere i più anziani. È importante non perdere il contatto con Dio e tra di noi.

- E voi sacerdoti, come state accompagnando le persone in queste ore?
  Con la preghiera e con la presenza. Oggi, ad esempio, ho accompagnato una signora anziana dal medico: non poteva tornare a casa da sola. Sono piccoli gesti, ma fanno la differenza. È il nostro modo per dire: non siete soli. Speriamo solo che tutto finisca presto. Intanto continuiamo a pregare. Anche da qui.

(AgenSIR, 21 giugno 2025)

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La guerra con l’Iran si avvicina al momento decisivo

di Ugo Volli

Gli obiettivi israeliani
  È appena passata una settimana dall’inizio dell’operazione di Israele contro l’Iran ed essa ha ormai un volto ben definito, anche se ogni giorno ha le sue sorprese. Israele attacca i comandanti militari, le caserme delle milizie del regime, le strutture del suo potere e della sua propaganda, innanzitutto le installazioni militari, i lanciamissili, i depositi di rifornimenti strategici, gli impianti nucleari e missilistici e i tecnici o scienziati che li progettano. Il suo è insomma un attacco militare pienamente legittimato dalle minacce iraniane, dalle notizie di uso militare dell’energia atomica giunta ormai alla soglia della bomba atomica per attestazione dell’agenzia dell’Onu che sovraintende a questo tema (l’AIEA), dagli attacchi diretti e attraverso satelliti partiti dall’Iran in questi due anni. In questa opera di interdizione, che vorrebbe anche favorire il successo della lunga lotta degli iraniani per riottenere la loro libertà conculcata dal sanguinario regime clerico-fascista degli ayatollah, Israele ha ottenuto successi imprevedibili, distruggendo una parte notevole dell’industria nucleare, eliminando molti fra i capi supremi delle milizie del regime, mettendo fuori combattimento la maggior parte dei missili e dei loro lanciatori. Se dei civili sono stati colpiti da parte israeliana, ciò è avvenuto senza che essi fossero l’obiettivo, solo perché gli obiettivi militari si nascondevano fra loro.

Le difficoltà
  Ma l’Iran è un paese molto vasto, ha una superficie oltre sei volte quella dell’Italia e una popolazione una volta e mezza superiore a quella italiana. Il regime ha disperso e nascosto i suoi armamenti, in particolare quelli atomici, e ha mille nascondigli e centri di potere dispersi nel territorio. È sostenuto da personale fanatico, educato a pensare che il martirio per l’Islam sia un ideale da cercare. Ha inoltre stabilito da quasi cinquant’anni un regime di terrore, con reti di spie, piccoli ras locali, carceri, torture e condanne a morte di cui l’Iran è di gran lunga il primo responsabile al mondo in proporzione alla popolazione. Il regime è insomma gravemente ferito, forse ferito a morte, ma ancora violentissimo e pericoloso.

La strategia iraniana
  Questo pericolo non riguarda in particolare l’apparato militare: i missili iraniani hanno colpito case di abitazione, villaggi arabi, complessi industriali civili, autobus in mezzo alla città, il grande ospedale Soroka di Beer Sheva (e tutti quelli che avevano protestato contro le passate azioni israeliane contro i centri di comando di Hamas nascosti sotto gli ospedali di Gaza su questo bombardamento diretto e immotivato di un centro ospedaliero sono stati zitti…). Nessuna base militare ha subito danni. Ciò dice molto sul carattere francamente terroristico della condotta di guerra dagli ayatollah. Anche gli ultimi proiettili sparati indicano questa strategia: si tratta di bombe a frammentazione, cioè di missili che non indirizzano il proprio carico utile (circa 400 kg di esplosivo) su un unico obiettivo, che potrebbero così distruggere protezioni pesanti come quelle delle basi militari e dei bunker aerei, ma lo suddivide in un centinaio di piccole bombe che si spargono largamente attorno al luogo di impatto e servono soprattutto a colpire persone.

L’urgenza
  C’è molta fretta da parte israeliana. Questa guerra così pericolosa è stata intrapresa all’ultimo momento prima che l’Iran ottenesse l’arma atomica. Vi sono dichiarazioni iraniane e indizi che fanno ritenere che questo tentativo sia ancora in corso in località segrete e protette, soprattutto nel sito di Fordow. Questo è il cuore del progetto nucleare dell’Iran, annidato sotto una montagna che lo rende assai difficilmente vulnerabile ai bombardamenti, soprattutto con le armi disponibili a Israele. Il punto focale della guerra oggi probabilmente è lì sotto quel monte scosceso e senza vegetazione duecento o trecento chilometri a sud di Teheran, oltre Qom. Per eliminarlo potrebbero probabilmente bastare le superbombe americane GPU 57, così pesanti che possono essere trasportate solo dai grandi bombardieri strategici B52 e B2, che sono a distanza di tiro nell’Oceano Indiano sull’isola Diego Garcia. Ma l’amministrazione Trump, che pure sta aiutando Israele con rifornimenti, informazioni preziose e l’abbattimento di alcuni dei proiettili iraniani, e che sta mobilitando un grande potere militare, con tre gruppi navali guidati da portaerei intorno all’Iran, esita a intervenire direttamente nel conflitto. Il presidente Trump si è dato ieri due settimane per decidere e Israele ha dichiarato che ha i piani per eliminare da solo Fordow, forse dei bombardamenti ripetuti o l’intervento assai rischioso di forze speciali sul terreno. Ma ancora l’azione non è iniziata.

I rischi di questa fase
  Nel frattempo Israele prosegue con l’opera sistematica di smantellamento dell’apparato militare del regime e l’Iran continua a tentare di intimidire Israele cercando di ottenere una strage della popolazione civile. Ha sparato finora circa 400 missili e un migliaio di droni (questi ultimi senza effetto), provocando danni materiali gravi ma solo qualche decina di vittime. Si tratta probabilmente di una quota intorno a un terzo di tutto l’arsenale missilistico rimasto all’Iran, che per sua natura non è rinnovabile, mentre Israele dispone sempre dei suoi aerei che possono ripartire dopo essere ritornati alla base ad essere stati revisionati e riforniti di nuove bombe. In tutta la guerra nessun aereo israeliano è stato finora mai abbattuto. In prospettiva vi è dunque un esaurimento delle capacità offensive dell’Iran, anche perché Israele dà la caccia a depositi di missili e soprattutto ai lanciatori, che sono molto meno dei proiettili Anche questo fatto produce un’urgenza della guerra e induce gli ayatollah a usare le proprie armi più potenti, finora le testate a frammentazione, i missili da crociera e i preziosi missili ipersonici, capaci di cercare sfuggire agli antimissili israeliani cambiando traiettoria. Ci potrebbero essere delle sorprese anche nel carico delle bombe trasportate da questi proiettili, includendo armi di distruzione di massa chimiche, biologiche e radioattive. Ma Israele è certamente preparato a contrastarle e ha la possibilità di reagire a queste armi estreme con minacce dissuasive, la prima delle quali è la possibilità di colpire il leader iraniano Khamenei, che a quanto pare si trova in un bunker ben individuato nella periferia di Teheran. Insomma la guerra prosegue, avvicinandosi alla sua stretta decisiva. Israele sta conducendola da solo e vincendola per conto di tutto il mondo libero.

(Shalom, 20 giugno 2025)

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Attacco necessario

di Niram Ferretti

A monte dell’attacco israeliano all’Iran cominciato venerdì scorso non c’è la convinzione di Benjamin Netanyahu, il quale ripete da circa un ventennio che l’Iran rappresenta per Israele una minaccia esistenziale, ma la certificazione dell’AIEA, la quale ha confermato che Teheran ha arricchito l’uranio di 400 chili al 60%, ben oltre la soglia del suo impegno ad uso civile, specificando inoltre che si tratta dell’unico Paese al mondo a farlo.
   L’Iran detiene anche un altro primato, è ancora l’unico Paese al mondo che dichiara programmaticamente la sua volontà di distruggere Israele. Però, e qui c’è un però che piace tanto agli indignati dell’uso preventivo bellico, soprattutto se è Israele a farlo, non c’è la prova che la bomba sia in procinto di essere fabbricata. Quindi? Quindi si tratta di un processo alle intenzioni, anzi peggio, si tratta di una vera e propria aggressione pretestuosa.
   Riassumiamo i dati, l’Iran, che dagli anni ’80 ha collezionato una serie di attentati terroristici da Beirut, al Kuwait, dall’Arabia Saudita all’Argentina, provocando centinaia di morti, soprattutto americani (gli Stati Uniti, come è noto, sono per il regime di Teheran, il Grande Satana), l’Iran che ha finanziato e appoggiato per anni organizzazioni jihadiste come Hezbollah e Hamas, l’Iran che ha fomentato i ribelli Houthi in Yemen, oltre alle fazioni sciite in Iraq, l’Iran che ha gioito per il 7 ottobre, e che ha orchestrato l’anello di fuoco intorno a Israele, bisogna venga dimostrato, dopo un arricchimento dell’uranio che, ribadiamolo, nessun altro Paese al mondo sta arricchendo a questo livello, che stia effettivamente preparando le bombe, anzi, meglio, bisogna venga dimostrato, dicevamo, che ne abbia già una pronta per essere lanciata, ma ancora meglio, che l’abbia già lanciata su Israele. Allora sì, forse sì, avrebbe diritto di attaccare l’Iran.
   Ma c’è dell’altro. Cosa se ne fa l’Iran di missili balistici la cui produzione è in forte crescita e hanno una gittata di duemila, tremila km, cioè che volendo possono arrivare fino a Parigi? È bene ricordarlo, Israele non sta solo colpendo i siti nucleari ma anche la filiera produttiva dei missili balistici, perché un Iran dotato di decine di migliaia di missili balistici, se gli fosse consentito averli, non avrebbe bisogno più delle testate nucleari per infliggere a Israele morte e distruzione a livello industriale.
   Che il regime fanatico e potenzialmente genocida di Teheran cada o meno come conseguenza dell’attacco israeliano, che gli Stati Uniti entrino direttamente nell’agone con propri operativi, è secondario rispetto all’obiettivo che si è dato Israele, impedire quello che i suoi molteplici odiatori vorrebbero accadesse, che l’Iran si trovi realmente nella condizione di causargli danni irreparabili.

(L'informale, 20 giugno 2025)

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La strada giusta per un cambio di regime in Iran

Come l'America e Israele possono creare le condizioni per il rovesciamento della Repubblica Islamica

di Eric Edelman, Reuel Marc Gerecht e Ray Takeyh

Ci sono molti modi per raggiungere un cambio di regime in Iran. Nel 2020, due di noi (Edelman e Takeyh) hanno scritto un saggio su Foreign Affairs in cui abbiamo delineato un modo per rovesciare la Repubblica Islamica.
All’epoca, pensavamo che l’uso della forza fosse fuori discussione e che le potenze esterne potessero solo erodere gradualmente le fonti di forza del regime.
L’attacco di Israele all’Iran di questo mese ha introdotto un elemento nuovo e instabile nel quadro generale, ma la logica di fondo rimane la stessa. In tutti i casi di cambiamento di regime, le condizioni indispensabili per il successo sono l’indebolimento del governo e l’audacia della popolazione.
Nell’ultima settimana, Israele ha fatto molto per soddisfare la prima condizione. Non solo ha messo fuori uso le principali strutture nucleari iraniane, ma ha anche praticamente decapitato la leadership militare dell’Iran.
Al momento della stesura di questo articolo, Israele ha attaccato 20 delle 31 province e ucciso decine di generali e scienziati. Ha in gran parte risparmiato le risorse economiche dell’Iran, anche se ha preso di mira gli impianti di produzione e distribuzione di petrolio e gas nazionali.
I critici hanno affermato che l’intento di questa operazione israeliana è il cambio di regime, ma sarebbe più corretto dire che il cambio di regime potrebbe emergere come un beneficio collaterale dell’offensiva israeliana.
Il leader supremo Ali Khamenei è stato completamente umiliato. Un tempo era il leader che ha contribuito a sconfiggere gli Stati Uniti in Iraq e ha circondato Israele con proxy letali. Ha sfidato la comunità internazionale e ampliato il programma nucleare iraniano, portando la teocrazia a un passo dalla bomba. Il suo successo all’estero ha rafforzato la sua autorità in patria.
Ma il crollo dell’«asse della resistenza» iraniano nel Levante e a Gaza e l’attuale pestaggio della Repubblica Islamica da parte di Israele sollevano inevitabilmente la questione se una tale inversione di tendenza possa sradicare la dittatura. Potrebbe, ma Israele dovrà fare molto di più per distruggere i poteri coercitivi dello Stato di polizia teocratico, e farlo senza azioni militari che uccidono un gran numero di civili, soprattutto donne e bambini.

Il regime in ginocchio
  In oltre quarant’anni al potere, la Repubblica Islamica ha dovuto affrontare diverse insurrezioni popolari. Ogni decennio, un’altra classe sociale ha abbandonato la coalizione rivoluzionaria.
Gli studenti e i liberali sono stati i primi ad andarsene, poco dopo la rivoluzione del 1979. Sono seguiti elementi della classe media durante il Movimento Verde del 2009 e, infine, alla fine degli anni 2010, i lavoratori poveri in nome dei quali era stata lanciata la rivolta.
Il regime ha sempre represso queste rivolte. Non hanno mai raggiunto una massa critica, poiché la maggior parte della popolazione riteneva che le Guardie Rivoluzionarie del regime, la milizia Basij, i teppisti di strada che aiutano le autorità e l’onnipresente ministero dell’intelligence fossero troppo crudeli e implacabili per essere sconfitti.
Una volta che le forze di sicurezza hanno iniziato a uccidere e torturare un numero sufficiente di manifestanti, le proteste, che nel 2017 e nel 2019 sono degenerate in insurrezioni, si sono esaurite.
Per gli stessi iraniani è stato un ciclo ricorrente profondamente frustrante, vissuto più recentemente nelle proteste del 2022 seguite alla morte di Mahsa Amini, una giovane donna che era stata arrestata dalla polizia religiosa.
Ora, dopo giorni di bombardamenti israeliani, sia il regime che l’opinione pubblica iraniana sembrano traumatizzati. Quando le cose si calmeranno, i conti saranno sicuramente regolati, forse anche all’interno dell’élite al potere, quando i detentori del potere nell’establishment della sicurezza, clericale e politico tireranno fuori i coltelli.
I membri delle Guardie Rivoluzionarie, ad esempio, potrebbero incolpare la leadership civile per il fallimento del Paese nello sviluppo dell’arma atomica che avrebbe scoraggiato un attacco israeliano.
L’ottantaseienne leader supremo potrebbe avere vita molto difficile con i membri più giovani delle Guardie, che sembravano volere una politica nucleare più aggressiva. Saranno sconvolti dal fatto che il tanto decantato programma atomico, costato miliardi di dollari, sia ora in rovina. (Il suo costo finanziario effettivo probabilmente ammonta a centinaia di miliardi, date le opportunità commerciali che l’Iran ha perso a causa delle sanzioni imposte dall’Occidente).
Sebbene Israele abbia ucciso molte persone molto importanti nel Paese, tutte le patologie della Repubblica Islamica sono ancora intatte. Rimane una teocrazia affogata nella corruzione.
Le istituzioni fondamentali, come i ministeri governativi, sono in uno stato avanzato di degrado e la disuguaglianza sociale, soprattutto a seguito dell’impennata dell’inflazione, si è aggravata.
Alcuni osservatori immaginano che l’attacco di Israele stimolerà un fervore nazionalista che contribuirebbe a isolare il regime. Ma i legami tra lo Stato e la società sono troppo recisi perché si possa arrivare a un simile risultato. Nelle manifestazioni passate, il popolo iraniano ha incolpato il proprio regime e non gli stranieri per la sua difficile situazione. Senza dubbio sorgerà un altro grande movimento di protesta. La domanda è: cosa faranno Israele e gli Stati Uniti per far pendere la bilancia a favore del movimento?

Una visita alla squadra dei picchiatori
  Sarà forte la tentazione di offrire un’ancora di salvezza al regime se accetterà di abbandonare il suo programma nucleare.
I “realisti” della sinistra e della destra americana sono profondamente a disagio con la promozione dei diritti umani e della democrazia all’estero. Non la considerano un’arma efficace per gli Stati Uniti.
Il regime ha sempre preferito che l’Occidente si concentrasse sulle sue ambizioni nucleari, piuttosto che sui suoi problemi interni. Molti americani e israeliani non sono stati molto interessati a sostenere i diritti umani dei musulmani.
Ma gli israeliani sembrano ora molto più consapevoli di come questa difesa, anche se applicata solo agli iraniani, rafforzi le possibilità che la Repubblica Islamica possa crollare.
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha descritto il regime come “debole” e ha esortato gli iraniani a ribellarsi, e il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana, sembrano entrambi disposti a considerare più seriamente la possibilità di sostenere gli iraniani dal basso.
Trump ha ora chiesto la “resa totale” della Repubblica Islamica, con cui intende l’abbandono da parte del regime delle attività di arricchimento e del programma nucleare.
È difficile immaginare che i leader iraniani accettino così facilmente; potrebbero invece concordare un processo diplomatico e fare concessioni sufficienti, come l’accettazione da parte dell’Iran di non arricchire l’uranio oltre un certo livello, per assicurarsi una tregua tanto necessaria. Una politica migliore, tuttavia, dovrebbe rinunciare al controllo degli armamenti come unico obiettivo.
Sebbene non vi siano grandi successi in termini di attuazione di un cambio di regime dall’alto, Israele può fare molto di più per accendere la miccia.
La campagna militare che si è concentrata sul disarmo dell’Iran deve ora concentrarsi sugli esecutori del regime. La leadership delle Guardie Rivoluzionarie è stata decimata, ma le sue numerose basi militari rimangono intatte e dovrebbero essere prese di mira.
La prima linea di difesa del regime in tempi di crisi interna è la sua squadra di picchiatori, i Basij, che è sotto il controllo delle Guardie. I Basij hanno commesso crimini enormi contro il popolo iraniano.
Le loro installazioni, comprese le strutture di polizia e le basi militari, dovrebbero essere inserite nella lista degli obiettivi. Lo stesso vale per il ministero dell’intelligence, con i suoi numerosi uffici in tutto il Paese. Tali bombardamenti non distruggeranno definitivamente queste forze, ma getteranno un dubbio nei vertici del regime sulla disponibilità e l’affidabilità dei suoi soldati e dei suoi inquisitori.
Israele dovrebbe anche ampliare la sua campagna per paralizzare l’economia iraniana. L’aviazione israeliana dovrebbe mettere fuori uso ulteriori infrastrutture petrolifere e del gas.
Il regime mantiene il suo potere in parte grazie alle sue reti clientelari. Incapace di far fronte ai propri obblighi finanziari nei confronti dei suoi sostenitori principali, le defezioni dalle sue file aumenterebbero probabilmente, forse in modo significativo. È importante, tuttavia, che tali attacchi siano chirurgici e limitino il più possibile le vittime civili.
La sfida più significativa di qualsiasi politica di cambio di regime è quella di rimanere concentrati sul compito da svolgere una volta terminati i fuochi d’artificio.
Una volta disarmato l’Iran, Israele e gli Stati Uniti potrebbero essere tentati di abbandonare il campo e guardare altrove. È proprio in quel momento che dovrebbero invece aumentare la pressione sul regime.
Gli Stati Uniti devono mantenere le sanzioni e controllare le vie di accesso dell’Iran al commercio globale. Il Mossad, che ha dimostrato un’enorme capacità di operare all’interno dell’Iran, dovrebbe intensificare le sue operazioni segrete, dato che la CIA non ha mai mostrato alcun interesse in questo senso, almeno dagli anni ’70.

La fine della strada
  Data la debolezza del governo iraniano dopo la conclusione dell’attuale offensiva israeliana, potrebbe non essere difficile mantenere la Repubblica islamica politicamente instabile. Una intensa campagna di propaganda americana attraverso i social media e altri canali dovrebbe continuare a mettere in evidenza il governo disastrato e corrotto dei mullah. L’élite iraniana nasconde ingenti somme di denaro all’estero. Come minimo, il Tesoro degli Stati Uniti dovrebbe rintracciare e rendere pubblici questi fondi.
E qualunque forza di opposizione emerga all’interno dell’Iran, gli Stati Uniti dovrebbero aiutarla con sostegno finanziario e assistenza tecnologica nella misura del possibile, purché non si tratti di forze politicamente estreme.
L’Iran appartiene agli iraniani. Sono loro gli unici che alla fine possono determinare la direzione del loro Paese. Sono scesi in piazza nel 1906, nel 1922 e nel 1979 e si può contare sul fatto che lo faranno di nuovo. Tutto ciò che gli Stati Uniti e Israele possono fare è indebolire il regime e accentuare le sue vulnerabilità.
La Repubblica Islamica non ha mai affrontato una crisi come quella scatenata dagli attacchi di questo mese. È una grande ironia che Israele, denigrato senza sosta dalla leadership iraniana come uno Stato coloniale selvaggio e illegittimo che mira a umiliare i musulmani di tutto il mondo, possa, forse, aver aperto la porta a un nuovo futuro per il popolo iraniano che soffre da troppo tempo.

(Rights Reporter, 20 giugno 2025)

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Oltre 400 chili di uranio arricchito al 60%, l’Iran può scatenare una guerra globale

Netanyahu ha seguito la dottrina del principio di Begin

di Luca Longo

Tutto il mondo si sta chiedendo perché proprio ora? Perché Israele ha deciso di scatenare un attacco preventivo sull’Iran proprio in questi giorni, mentre è impegnato in combattimento con tutti i suoi proxy, mentre gli ostaggi soffrono nelle prigioni di Hamas, mentre sono in corso trattative con gli Stati Uniti proprio con l’obiettivo di neutralizzare il programma nucleare degli Ayatollah?  
La risposta è molto semplice, ed era sotto gli occhi di tutti i governi dal 31 maggio. Quel giorno, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) ha diffuso il rapporto GOV/2025/24 – “Verification and monitoring in the Islamic Republic of Iran in light of United Nations Security Council resolution 2231 (2015)”; poi desecretato l’11 giugno. Qui, per la prima volta in 20 anni, l’agenzia ONU dimostra l’esistenza di un programma nucleare militare iraniano e prova scientificamente che l’Iran possiede 408,6 kg di Uranio arricchito al 60%. Quantità adatta – previa ulteriore raffinazione – per realizzare almeno dieci testate nucleari: più che sufficienti per vetrificare la terra di Israele e renderla completamente inabitabile da chiunque. Tutta Israele, “dal fiume al mare”, ma anche i territori circostanti, con buona pace dei vari luoghi sacri e delle ambizioni di conquista di tutti i suoi vicini di casa.

Dall’“Atoms for Peace” alla Guerra con l’Iraq
  La storia del nucleare iraniano affonda le radici negli anni Cinquanta. Nel 1957, sotto lo Scià Mohammad Reza Pahlavi, l’Iran avvia un programma di sviluppo dell’energia atomica civile con il sostegno diretto degli Stati Uniti, nell’ambito dell’iniziativa “Atoms for Peace” promossa dal presidente Dwight Eisenhower. Gli Stati Uniti forniscono a Teheran il primo reattore di ricerca e combustibile nucleare, mentre negli anni Settanta la Germania Ovest inizia la costruzione della centrale di Bushehr, sul Golfo Persico.
Questo scenario cambia radicalmente nel 1979, con la Rivoluzione islamica che porta al potere l’Ayatollah Khomeini. Il nuovo regime interrompe ogni collaborazione con l’Occidente. La guerra Iran-Iraq (1980–1988) compromette ulteriormente le infrastrutture nucleari e interrompe il programma. 
Ma questo venne ripreso negli anni Novanta con l’aiuto della Russia, che realizza il reattore di Bushehr, un VVER russo da un Gigawatt collegato alla rete elettrica nazionale nel 2011. Intanto, sotto sotto, l’Iran avvia, con Pakistan e Corea del Nord, un parallelo sviluppo atomico militare nascondendolo agli ispettori dell’IAEA. 
Nel 2002, gruppi di opposizione iraniani in esilio rivelano l’esistenza di due impianti nucleari segreti: il centro di arricchimento dell’uranio di Natanz (lo stesso colpito da Israele il 13 giugno) e il reattore ad acqua pesante di Arak. È la prova dell’esistenza di un programma iraniano per l’atomo militare: una brutta storia che attraversa i decenni successivi fino ai giorni nostri.

Sanzioni e accordi: dal JCPOA alla rottura
  A seguito della scoperta dei siti segreti, la comunità internazionale impone sanzioni economiche sempre più dure che colpiscono profondamente l’economia iraniana. Nel 2013, con l’elezione del presidente Hassan Rouhani, Teheran apre a una stagione diplomatica che culmina nel 2015 con la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). L’accordo, sottoscritto da Iran, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina, prevede una drastica riduzione (del 98%) delle riserve di uranio arricchito e lo smantellamento di migliaia di centrifughe in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni.
L’intesa sembra funzionare, ma nel 2018 la prima amministrazione Trump esce unilateralmente dall’accordo – ritenuto troppo permissivo – e reintroduce pesanti sanzioni. L’Iran risponde facendo carta straccia dei limiti imposti dal JCPOA: nel 2025, secondo le stime più recenti, le sue scorte di uranio arricchito superano di oltre 25 volte i limiti previsti dall’accordo del 2015.

L’impasse dei negoziati e il ritorno alla tensione
  Nell’aprile 2025, con la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, riprendono i negoziati con Teheran, ma non producono risultati concreti. La Guida Suprema Ali Khamenei ha rifiutato l’ipotesi di interrompere completamente l’arricchimento dell’uranio, mantenendo una posizione inflessibile. 
Nonostante oltre vent’anni di sforzi diplomatici, il programma nucleare iraniano era, fino alla settimana scorsa, tra i più avanzati al mondo. Un percorso che ha trasformato l’Iran da partner dell’Occidente a rischio esistenziale non solo per Israele e per gli USA, ma per l’intero pianeta. La questione iraniana, ancora una volta, si conferma come uno dei principali focolai geopolitici del Medio Oriente e dell’intero sistema internazionale.

Il principio non negoziabile di Begin
  In questi giorni, la pavida comunità internazionale sta lavandosi la coscienza criticando aspramente Netanyahu. E lo critica mentre nasconde un sospiro di sollievo perché, anche stavolta, è Israele che fa il lavoro sporco per tutti. Ma questa volta non è colpa o merito di Bibi: il premier israeliano si è limitato a dare applicazione concreta al Principio di Begin
Per capire in cosa consiste, riavvolgiamo il nastro fino al 7 giugno 1981. Quel giorno, Menachem Begin ordinò l’Operazione Babilonia: un audace attacco aereo su Osirak, a pochi km da Baghdad, per annientare il reattore dove gli scienziati di Saddam Hussein stavano realizzando la bomba atomica irakena. Il premier si accollò la responsabilità completa della decisione, tenendo all’oscuro anche i suoi ministri fino a poche ore prima. E quando l’operazione ebbe un pieno e definitivo successo, ricevette – indovinate – la dura condanna dell’intera comunità internazionale, oltre a una lettera di congratulazioni firmata dall’intero parlamento israeliano, per la prima volta unito dai sostenitori del governo fino alle frange di opposizione più estreme. 
In una conferenza stampa poche ore dopo l’eliminazione della minaccia esistenziale, Menachem scandì che “Non permetteremo a nessun nemico di realizzare armi di distruzione di massa”…“e che questo attacco costituisca un precedente per ogni futuro governo in Israele. Ogni futuro premier, in simili circostanze, dovrà agire nello stesso modo”.
Le cronache ricordano che, poco dopo, ai giornalisti che gli elencavano le dure critiche giunte da tutto il mondo, rispose semplicemente: “Devo proprio essere un ragazzaccio”. E uscì.
Chimico industriale, Chimico teorico, Giornalista, Comunicatore scientifico con una grande passione per la storia e per la ricerca in campo energetico. Autore di 900 analisi, saggi, articoli di divulgazione e di circa 100 articoli scientifici, brevetti, conferenze, contributi a congressi, 2 libri.

(Il Riformista, 20 giugno 2025)

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Missile su Holon: “Un miracolo che non ci sia nessun ferito nella Grande Sinagoga”

Anche a Holon gli israeliani si stanno riprendendo dopo che ieri un missile iraniano ha colpito la Grande Sinagoga nel quartiere Shikun Vatikim, causando gravi danni alle vetrate e all’edificio, che ospita una yeshivà e una sala di studio. L’attacco è avvenuto alle 7:05 del mattino, nel breve intervallo tra la fine del primo servizio di preghiera e l’inizio del secondo, previsto per le 7:15. Proprio in quei minuti, quando non c’era nessuno all’interno, il missile ha colpito: “È stato un miracolo – nessuno si trovava in sinagoga, e nessuno è rimasto ferito” ha raccontato il rabbino Binyamin Hamra, a capo della yeshivà.
Il bombardamento ha provocato 38 feriti: 4 in condizioni gravi, 3 moderate e 31 lievi. Inoltre, 746 abitazioni nei dintorni sono state evacuate e 5 edifici dichiarati “rossi”, a rischio di crollo imminente. Nonostante lo shock e i danni – tra cui migliaia di frammenti di vetro – il rabbino Hamra ha lanciato un messaggio di speranza: “Da questo momento, tra le mille schegge e la devastazione, torneremo più forti. Ci sosterremo a vicenda e risorgeremo nella grande luce. Pregheremo perché il Signore rinvigorisca i nostri spiriti e ci dia la forza di rimanere fedeli alle nostre tradizioni”.

(Shalom, 20 giugno 2025)

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Negoziati con l’Iran, ma «con i terroristi non si tratta». Intervista a Rayhane Tabrizi

Missili e droni si inseguono tra i cieli di Iran e Israele, mentre l’Occidente lancia appelli al dialogo e prepara nuovi colloqui diplomatici. Ma a cosa serve trattare ancora, se il regime islamico resta al potere, armato, isolato, feroce?

di Sofia Tranchina

L’opposizione alla Repubblica Islamica riunisce da decenni migliaia di iraniani dentro e fuori dal Paese: attivisti, intellettuali, cittadini comuni. Li accomuna l’insofferenza per l’autorità violenta e misogina che li opprime dal 1979. Ma la forza dei numeri porta con sé anche divergenze profonde: tante voci, tante sensibilità.
Alcuni invocano una transizione interna, senza interferenze straniere: una riforma per volta, malgrado la lentezza. Tra questi gli attivisti Parisa Nazari e Shady Alizadeh, che hanno lanciato una petizione che chiede lo stop immediato dei raid israeliani: “il movimento non ha mai chiesto l’intervento militare di potenze straniere”, ricordano. Anche i premi Nobel Narges Mohammadi e Shirin Ebadi, insieme ad altri attivisti, hanno firmato una lettera aperta che chiede il cessate il fuoco immediato, ma anche un passo indietro sul nucleare e una transizione politica volontaria.
Altri ritengono che le circostanze richiedano misure drastiche, e sperano che l’intervento israeliano — pur tragico — offra loro l’occasione per la libertà agognata. Molti graffiti sui muri di Teheran riportano diverse formulazioni della frase: “Colpiscili, Israele. Gli iraniani sono dietro di te”.
Tra questi Rayhane Tabrizi, attivista iraniana in esilio che vive in Italia dal 2008, e da qui denuncia quotidianamente i crimini dei pasdaran (che i dissidenti esortano a inserire nella lista delle organizzazioni terroristiche), e dei loro alleati.
All’opposizione serviva «una leva esterna per accelerare la lotta contro il regime», spiega: senza essere accompagnati da «una qualche forma di collaborazione dall’esterno», non si riusciva a scalfire la crosta dura della teocrazia, armata e protetta dalla sua mostruosa macchina propagandistica. Non volevano un conflitto armato, ma ora che c’è, non vogliono che anni di sforzi e sacrifici vengano vanificati da una diplomazia miope.
I missili israeliani, per quanto ufficialmente mirati contro gli impianti nucleari e i centri nevralgici della Repubblica Islamica, stanno coinvolgendo la vita civile in modo disastroso: centinaia di vittime civili, edifici privati distrutti, vie e infrastrutture necessarie alla vita quotidiana danneggiate. Inoltre, Teheran sta usando il popolo “come scudo umano”, aggiunge Tabrizi: con il blocco totale di internet, le persone non ricevono più gli avvisi di evacuazione lanciati da Israele, «e questo permette al regime di usare ogni “martire” per la sua propaganda vittimista». Israele non deve cadere in questa trappola, mette in guardia.
Ma non si può tornare indietro. Il conflitto armato era «l’ultima risorsa», ma, «per quanto doloroso, ora bisogna andare fino in fondo», afferma con voce rotta Tabrizi, che ha ancora parenti e amici in Iran. «Anche se questo significa che molti innocenti pagheranno il prezzo più alto». E per quanto sognasse di vedere i vertici dei pasdaran processati da un tribunale internazionale, «ogni criminale in meno è un passo verso la libertà».
Una soluzione diplomatica potrebbe peggiorare le cose: «la richiesta di cessate il fuoco mossa da alcuni attivisti iraniani parte dal cuore, ma non è logica: se anche un solo esponente del regime dovesse sopravvivere e riuscisse a riorganizzarsi, l’Iran verrà trascinato in anni bui e brutali». Il rischio maggiore è che il regime, umiliato militarmente sullo scenario internazionale, reagisca con rinnovata violenza all’interno, scatenando un’ondata repressiva per annientare l’opposizione.
Per quarantasei anni la Repubblica Islamica ha inseguito il sogno di annientare lo Stato Ebraico: “sarà sradicato e distrutto, sparirà dal paesaggio, e la divina promessa di eliminarlo sarà compiuta”, ha ripetuto il governo. Ha istituzionalizzato l’odio con l’annuale cerimonia Quds Day, in cui si inneggia “Morte a Israele” nelle piazze e si brucia la bandiera di Israele. Ha investito miliardi in operazioni contro Israele, mentre la popolazione iraniana affondava nella povertà. Ha distrutto l’economia, isolato il Paese e trasformato il Medio Oriente in una scacchiera di guerra per procura: Hezbollah, Hamas, la Jihad islamica, gli Houthi, sono tutti sostenuti e armati da Teheran per combattere Israele, nemico ideologico.
E allora Tabrizi mette in guardia a «non cadere nella propaganda del regime», come hanno fatto alcuni compatrioti condividendo frettolosamente sui social la storia “Israele sta attaccando l’Iran senza nessuna provocazione”: «sono offuscati dal nazionalismo e dall’amore per la patria, ma quello che sta accadendo è la ovvia conseguenza di anni di provocazioni».
Eppure, non idealizza Israele a eroe di una favola geopolitica. Sa che nessuno Stato combatte per altruismo: Netanyahu non bombarda il regime islamico “per amore del popolo iraniano”. Ma oggi, gli interessi degli iraniani che vogliono liberarsi dall’oppressore, e di Israele che vuole neutralizzare chi minaccia la sua esistenza, convergono.
Ma «in Europa manca totalmente consapevolezza», commenta amareggiata. Proprio mentre Israele colpiva le sedi della TV di Stato iraniana — il cuore pulsante della propaganda —, la televisione pubblica italiana intervistava l’ambasciatore iraniano a Roma. «Nessuna domanda scomoda, nessun contraddittorio» si lamenta Tabrizi: è uno schiaffo alla lotta del popolo iraniano, che rischia tutto mentre l’Europa presta il microfono alla Repubblica Islamica e le fornisce l’opportunità di diffondere la sua propaganda. «Oltre al regime, ora dobbiamo combattere anche contro l’ignoranza degli italiani, complici delle bugie del regime?».
Intanto a Ginevra si apre un nuovo tavolo negoziale tra Germania, Francia, Regno Unito e l’Iran, con l’Unione Europea nel ruolo di mediatore. Tabrizi non nasconde la rabbia. Ogni tentativo di normalizzazione è una forma subdola di complicità e legittimizzazione, che rende intollerabile il dolore degli iraniani dopo questi giorni di paura e lutto: «Perché mettere a repentaglio la vita dei civili, se poi l’Occidente torna al tavolo con il regime da cui ci si doveva liberare? A che è servito, se Israele bombarda e l’Europa negozia?».
Ogni volta che un ministro europeo stringe la mano a un rappresentante della Repubblica Islamica, oltraggia il coraggio delle donne che hanno tolto il velo, dei ragazzi che sono stati torturati, degli esiliati che non possono tornare. Di chi come lei rischia ogni giorno: il sistema repressivo iraniano ha infatti perseguitato sistematicamente dissidenti anche all’estero, con omicidi, avvelenamenti, rapimenti. Si guardi a Habib Chaab, rapito in Turchia e impiccato in Iran, e Masih Alinejad, sopravvissuta a tentati omicidi a New York.
L’Iran è scosso dall’artiglieria pesante e l’Occidente si affretta a mediare, ma Tabrizi commenta tranchant: «non si tratta con i terroristi. Con l’ISIS avete negoziato?».
Il timore che vengano sacrificati gli ideali umanitari alla stabilità geopolitica è esacerbato da un altro fattore non indifferente: il petrolio. «L’Iran fa gola», si sa, perché ha una riserva energetica con un ricco mercato potenziale. E così «si chiudono gli occhi e si stringono le mani».
In questo gioco meschino, «L’Europa recita la parte della democrazia illuminata», inveisce l’attivista, «ma in realtà è una farsa. Si direbbe che non gliene importa nulla né della vita degli iraniani, né di quella degli israeliani, nonostante – come solo Merz ha riconosciuto – Israele stia “facendo il lavoro sporco del mondo intero”, anche a costo di generare un ulteriore odio antiebraico».
Rayhane Tabrizi non pretende chissà qual gesto salvifico, sa che ogni paese ha la sua lotta e i suoi interessi, ma chiede al mondo uno sforzo di onestà intellettuale: «il mio cuore piange. Ma voi non dovete dare ascolto al regime: date importanza alla voce degli iraniani». La canzone del popolo deve contare più delle menzogne del suo oppressore.

(Bet Magazine Mosaico, 20 giugno 2025)

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Verso una rivolta popolare in Iran? Rivelazioni su ciò che sta accadendo dietro le quinte

Una foto fornita dall'ufficio della guida suprema, l'ayatollah Ali Khamenei, il 17 dicembre 2024, mostra la guida suprema iraniana che saluta la folla prima di un discorso a Teheran.

di Céline Bukin

- Atlantico: Reza Pahlavi, erede dello Scià di Persia, ha lanciato per la prima volta un appello alla rivolta popolare. Se ci sarà una rivolta popolare, sarà relativamente strutturata o diffusa e prolungata?
  Emmanuel Razavi: Penso che il principe Reza Pahlavi ritenga che questa guerra abbia raggiunto un punto di non ritorno. Come altri leader dell'opposizione iraniana, in particolare tra i curdi con cui parlo regolarmente, o anche all'interno dei movimenti liberali, sa che i mullah sono animati da un'ideologia omicida e che Israele è ormai minacciato in modo esistenziale. Di conseguenza, tutti questi leader dell'opposizione ritengono che l'Iran sia a un punto di svolta della sua storia. È per questo che, sui canali di alcuni movimenti, da due giorni si parla di coalizioni e di rivolte. Detto questo, ho l'umiltà di dire che non so tutto, il che è una fortuna. Perché l'opposizione iraniana sa anche mantenere i segreti, mentre i suoi movimenti di resistenza sono tutti in allerta... Vorrei concludere con Reza Pahlavi, che ho intervistato su Paris Match l'anno scorso, e dirvi che, nonostante ciò che pensano alcuni, ha una visione politica e geopolitica a lungo termine di ciò che deve cambiare in Iran e evolversi in Medio Oriente. Come altri leader iraniani, è anche un uomo animato dalla democrazia e dalla laicità. Per quanto riguarda la strutturazione dei partiti democratici iraniani, sono sempre più organizzati e da tempo vedo che stanno cercando di formare una o più coalizioni, cosa non facile, dato che ciascuno dei loro leader ha la propria agenda. Ma in questo momento, mi sembra di capire che quasi tutti stiano gestendo l'emergenza. In parole povere, stanno cercando di riunire coloro che lo desiderano e di rovesciare il regime, per poi sedersi attorno a un tavolo e lavorare a ciò che diventerà l'Iran liberato dai mullah. Personalmente, credo che sia necessario dare fiducia a questi movimenti democratici di opposizione iraniani.

- Partendo dalle dichiarazioni di Trump, è ragionevole credere a una rivolta, quando permangono dubbi e molti temono di essere ridotti a carne da cannone e poi abbandonati dall'Occidente, come in altri conflitti passati?
  Emmanuel Razavi: È una buona domanda. Gli iraniani sono stati abbandonati per 46 anni dall'Occidente, che si è accordato con i mullah. Tuttavia, dalle conversazioni che ho avuto, mi sembra di capire che il sentimento che prevale in alcune città iraniane è la paura e il panico, soprattutto nelle zone bombardate. Ma c'è anche una profonda stanchezza e il desiderio che questa guerra finisca. Naturalmente, il regime ha ancora dei sostenitori tra le persone che lavorano per lui e che mantengono intere famiglie. Ma sono sempre meno. Inoltre, in Iran, come in ogni altra parte del mondo, le opinioni e le convinzioni sono molteplici. Aggiungo che lo sono tanto più che gli iraniani, molto istruiti, hanno una mentalità e una cultura politica raffinata e complessa. Ma la maggioranza degli iraniani non vuole più il regime.

- In che modo la situazione attuale differisce dalle rivolte precedenti (1999, 2009, 2017, 2022)? E soprattutto, perché questa volta il regime potrebbe non riuscire a disinnescare la crisi come in passato?
  Emmanuel Razavi: Questa volta non si parla di rivolta, ma di guerra, in un momento in cui il regime iraniano è indebolito militarmente e frammentato al suo interno a causa di numerose dissensioni politiche. In parole povere, in Iran si distinguono due grandi tendenze: i conservatori e i riformatori. I conservatori sono senza dubbio pronti, almeno in parte, ad andare fino in fondo. Con questo intendo dire che non si arrenderanno, tanto sono ideologizzati. I riformatori, invece, insieme ai Guardiani della Rivoluzione, controllano il business in Iran. Sono coinvolti nel traffico di droga su larga scala e nella vendita di armi. Pezeshkian, il presidente della Repubblica islamica, è un riformatore. Da quando è salito al potere ha fatto giustiziare centinaia di persone. Per molti di loro, i riformatori hanno le mani sporche di sangue. In Iran, pochi li vogliono. Penso quindi che questo sia un momento storico, in cui le opposizioni iraniane, guidate da persone istruite, hanno finalmente una speranza, a condizione che gli Stati Uniti e l'Europa le sostengano e non trovino una soluzione negoziata con i mullah, che significherebbe fare un passo indietro per saltare meglio.

- Come ha fatto finora il regime iraniano a sopravvivere ai movimenti di contestazione, e questi meccanismi sono ancora validi oggi?
  Emmanuel Razavi: È sopravvissuto grazie a una repressione terribile. Ma ha anche investito enormemente in strategie di influenza in Occidente. Ha speso miliardi in attività di lobbying per assicurarsi i servizi di ex diplomatici, ricercatori, influencer e giornalisti negli Stati Uniti e in Europa. Ha potuto contare anche sugli studenti iraniani residenti in Occidente che, temendo che il regime se la prendesse con le loro famiglie, hanno accettato di diffondere il suo linguaggio e la sua propaganda. Ma sempre più giornalisti in Francia, Italia, Inghilterra, Svizzera, Spagna e Stati Uniti stanno lavorando su queste strategie, collaborando e facendo conoscere ciò che sta accadendo.

- Robespierre diceva che i popoli non amano i missionari armati. In che misura gli iraniani, che sono molto nazionalisti, sono disposti ad accettare una rivoluzione importata dall'estero?
  Emmanuel Razavi: La ringrazio per questa domanda. Per rispondere, non c'è alcuna rivoluzione importata dall'estero in Iran, al momento in cui parliamo. C'è piuttosto una guerra, scatenata perché il regime iraniano, che è totalitario, minaccia di sradicare Israele. Gli iraniani sono un popolo di incredibile finezza, dotato di un grande senso politico. Vogliono solo che l'Occidente li aiuti a liberarsi dei mullah. Vogliono la pace, la libertà e relazioni pacifiche con Israele.

- Come percepiscono gli iraniani della diaspora, o quelli in Iran, i dibattiti che stanno attraversando i paesi occidentali sulla questione: bisogna o no aiutare a rovesciare il regime dei mullah? Cosa ne pensano?
  Emmanuel Razavi: Come vi ho detto, in Iran e nella diaspora c'è una pluralità di opinioni. Ma nel complesso, gli iraniani sono sconcertati nel vedere persone che non hanno alcuna legittimità per parlare dell'Iran, parlare a volte a loro nome. Credo che siano stanchi. Ma in questo momento sta succedendo qualcosa di molto particolare. Alcuni pensano che la fine del regime potrebbe arrivare presto. E che gli Stati Uniti debbano aiutarli. E credo che la loro stanchezza potrebbe smentire le previsioni di alcuni. Il futuro prossimo lo dirà.

(Atlantico, 20 giugno 2025)

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Un po’ di chiarezza sulla cornice giuridica dell’attacco israeliano all’Iran

di Luca Lovisolo

Sullo scontro fra Israele e Iran vanno consolidandosi narrazioni che tendono a confondere la percezione dei fatti. Le risposte ad alcuni quesiti ricorrenti, senza pretesa di completezza. Israele ha violato il diritto internazionale con una difesa preventiva contro l’Iran? Tre fatti contraddicono questa affermazione: 1) L’Iran determina e supporta l’azione di gruppi paramilitari (Hamas, Hezbollah, Houthi) che aggrediscono già materialmente Israele ed è perciò correo morale e materiale di tali aggressioni; 2) Israele attacca obiettivi militari o civili a uso militare: tali attacchi possono produrre vittime civili collaterali, spiacevoli ma ammesse; sarebbe invece censurabile l’attacco deliberato contro obiettivi civili senza finalità belliche; 3) Israele si tutela rispetto a una minaccia esistenziale, l’arma nucleare iraniana: in questo caso, la difesa preventiva è ammessa secondo la cosiddetta «formula Caroline» (1837). D’altra parte, la mancanza di questa eccezione al principio di materialità dell’offesa contraddirebbe la ratio stessa dell’istituto dell’autodifesa: in presenza di una minaccia esistenziale, si permetterebbe al minacciato di difendersi solo dopo essere stato annientato dall’aggressore.
Come per l’Iraq nel 2003, anche per l’Iran le prove potrebbero essere false? I due scenari non sono comparabili. Nel 2003 l’Iraq fu attaccato argomentando che possedesse armi di distruzione di massa, tesi poi dimostratasi falsa. Le prove apparvero subito deboli e gli USA faticarono molto a convincere i loro alleati e le Nazioni Unite della solidità delle loro accuse. Inoltre, il grado di minaccia globale dell’Iraq non era paragonabile a quello dell’Iran oggi, benché il regime iracheno fosse abominevole. Le prove dello sviluppo nucleare militare in Iran, al contrario, sono fornite dalle stesse Nazioni unite, attraverso l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, e poggiano su uno storico pluridecennale. Vi sono poi le osservazioni dei servizi segreti e di Stati della regione non amichevoli verso Israele, che tuttavia stanno cooperando con discrezione alle azioni dello Stato ebraico contro il programma nucleare iraniano, che è minaccia comune. Non è realistico che l’Iran possa realizzare subito una bomba atomica, come sostiene Benjamin Netanyahu, ma è accertato che è in grado di arricchire uranio a tale scopo in ormai pochissimo tempo e deve essere fermato tempestivamente, non solo nell’interesse di Israele.
L’Iran rispettava l’accordo del 2015 sul controllo del nucleare? La questione è mal posta. Rispettato o no, l’accordo non produceva la rinuncia definitiva dell’Iran all’armamento nucleare. I controlli non garantivano che lo sviluppo non potesse continuare in segreto e, rimuovendo le sanzioni, forniva all’Iran nuovi mezzi per proseguirlo. L’accordo, in astratto, era un apprezzabile atto politico di apertura verso la dirigenza iraniana, ma, comunque lo si giudichi, soffriva di una contraddizione strutturale: si fondava sulla convinzione che un approccio negoziale razionale, fondato sull’equilibrio di interessi, funzioni anche con regimi che non agiscono secondo la razionalità tipica del diritto positivo occidentale, ma sono guidati da dogmi religiosi o ideologici. Gli accordi con tali regimi non sono impossibili, ma devono essere garantiti da un’adeguata e vigile forza di dissuasione.
L’Iran non può volere l’arma nucleare? Nessuno Stato può decidere d’arbitrio di dotarsi di un’arma nucleare. Esistono accordi internazionali contro il proliferare di tali ordigni fatali. Ogni nuovo armamento o estensione degli arsenali esistenti che esca da tale quadro o è illecito o presuppone la denuncia o modifica dei trattati, con le conseguenze del caso. Pertanto, il possesso dell’arma nucleare non è un diritto nascente da un principio generale di equità («se ce l’ha Tizio ha diritto di averla anche Caio»): è regolato da norme che tutelano la sicurezza collettiva. Ciò vale vieppiù per Stati privi di meccanismi democratici di controllo. Vero che vi sono già Paesi poco affidabili dotati di arma nucleare, ma questo non è un buon motivo per accettare che se ne aggiunga un altro. L’Iran, infine, presenta un quadro più complesso e minaccioso, anche per le sue relazioni con gruppi terroristici e paramilitari.
E’ sempre bene ricordare che l’Iran costituisce già oggi una minaccia oltre la sua regione. Missili iraniani sono in grado di raggiungere il Sud Europa. Vi sono parti del dibattito pubblico europeo che perseverano nel dare delle vicende mediorientali letture irreali, persino protettive degli attori più violenti e minacciosi per tutti. I pericoli per l’Europa provenienti da quello scenario sono concreti, nonostante la scarsa percezione da parte delle opinioni pubbliche continentali.

(InOltre, 19 giugno 2025)

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Non cercare guai con Israele

Questo in sintesi il messaggio della nuova strategia israeliana post-7 ottobre

di Boaz Golany

"Don’t mess with Texas” (non andare in cerca di guai con il Texas) era uno slogan usato per promuovere una campagna contro l’immondizia abbandonata dai turisti sulle autostrade di quello stato. Indirettamente, descriveva anche la natura dei texani: in generale persone rispettose della legge, cordiali e amichevoli, ma se provate a entrare nelle loro proprietà senza permesso, scoprirete rapidamente che in Texas il cartello “vietato l’accesso” significa che è legale spararvi.
Dalla vittoria nella guerra del 1967 in poi, Israele aveva adottato una politica di auto-contenimento e moderazione nei confronti dei suoi vicini, dettata in primo luogo dal fatto che gli israeliani odiano la guerra e farebbero di tutto per evitarla.
Questo atteggiamento poggiava sull’illusoria convinzione che i nostri nemici fossero scoraggiati e dissuasi dalla nostra potenza militare, e che non avrebbero osato attaccarci in forze,
E così abbiamo chiuso gli occhi quando gli egiziani ammassavano forze militari e mettevano in atto manovre belliche, per poi essere presi totalmente di sorpresa quando scatenarono la guerra nel giorno di Kippur del 1973.
Per oltre un decennio abbiamo lasciato che l’OLP costruisse un vero esercito al nostro confine settentrionale con il Libano, finché – dopo continui attentati – nel 1982 abbiamo deciso di smantellarlo.
Poi, per oltre tre decenni abbiamo ripetuto lo stesso errore con Hezbollah. Anche nella guerra in Libano del 2006 ci siamo fermati prima d’aver eliminato quella minaccia, accentando invece la fittizia risoluzione Onu 1701 come una foglia di fico che ha permesso a Hezbollah di continuare a consolidare e irrobustire le sue forze fino diventare uno degli eserciti più forti e temibili del Medio Oriente.
Questa politica di auto-contenimento ha raggiunto il suo apice nel modo in cui abbiamo ignorato la minaccia di Hamas a Gaza. Col senno di poi, era tutto chiaro come il sole. Ma le nostre false convinzioni, unite a un’infondata presunzione, hanno spianato la strada al disastro del 7 ottobre.
Lo strazio insopportabile per la carneficina del 7 ottobre ha causato un profondo cambiamento nell’opinione pubblica e nel pensiero strategico di Israele.
Che si tratti di Gaza, del Libano o della Siria, Israele non è più disposto a tollerare la presenza, e men che meno l’incremento, di pericolose e sanguinarie forze ostili attorno a sé.
Su tutti e tre i fronti, le Forze di Difesa israeliane hanno istituito zone cuscinetto al di là dei confini, le hanno sgomberate da edifici e infrastrutture che potrebbero essere usati contro di noi e hanno adottato una tattica logica e pragmatica volta a neutralizzare i rischi appena si presentano, ben prima che abbiano la possibilità di colpirci.
Se la politica di moderazione e auto-contenimento è stata uccisa il 7 ottobre 2023, il suo definitivo funerale ufficiale ha avuto luogo il 13 giugno 2025. L’attacco preventivo contro l’Iran (i suoi missili balistici, il suo potenziale nucleare, le sue gerarchie guerrafondaie) invia un messaggio forte e chiaro a tutti i nemici di Israele: non venite a cercare guai con noi.
D’ora in poi, non tollereremo più che si accumulino minacce contro di noi: non importa se a ridosso dei nostri confini e quindi delle nostre città in Israele, o a migliaia di chilometri di distanza.
Se intendete farci del male e preparate i mezzi per farlo, verremo a cercarvi ed elimineremo la minaccia prima che possa essere attuata.
Il successo sull’orrendo regime in Iran e i suoi armamenti sembra ormai a portata di mano, e speriamo di arrivarci presto.
Una volta ottenuto, dovremo rimanere sempre vigili ed evitare di ricadere nella stessa trappola del moderato auto-contenimento in cui siamo caduti in passato.
Come i texani, continueremo a mostrare cordialità verso i nostri vicini, a rispettare le loro culture e religioni, ad aiutare nei momenti difficili (malattie, inondazioni, terremoti ecc.) e abbracceremo volentieri ogni offerta di collaborazione pacifica che porti vantaggi reciproci a tutte le parti interessate.
Ma, insieme a tutto questo, dovremo assicurarci che tutti intorno a noi vedano e capiscano bene il cartello: “Non cercare guai con Israele”.
(Da: Jerusalem Post, 19.6.25)

(israelnet.it, 20 giugno 2025)

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Missile iraniano colpisce l’ospedale Soroka

Il presidio, simbolo di coesistenza fra ebrei e arabi, in prima linea il 7 ottobre 2023.

Un neonato in terapia intensiva. Una madre al suo capezzale. Un medico che corre da un letto all’altro. Un anziano in una casa di cura.
  «Ecco alcuni degli obiettivi degli attacchi missilistici iraniani contro i civili israeliani questa mattina», ha affermato il presidente d’Israele Isaac Herzog. C’è sgomento nel paese per le conseguenze del missile sparato dal regime sull’ospedale Soroka di Beer Sheva, una delle principali strutture ospedaliere d’Israele, punto di riferimento per tutta l’area del Negev e già in prima linea nel portare soccorso alle vittime del 7 ottobre. Beer Sheva e Gaza distano poche decine di chilometri. Nel “sabato nero” dell’ottobre 2023 e nelle settimane successive i chirurghi, le infermiere, tutto il personale sanitario del Soroka, ebrei e arabi, e tra loro numerosi beduini, comunità storicamente radicata nel territorio, sono stati mobilitati senza riposo. E hanno affrontato l’emergenza innescata dai massacri di Hamas, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Iron Dome sanitario”. Oggi purtroppo il vero Iron Dome, il sistema antimissile in dotazione a Gerusalemme, non è stato in grado di intercettare l’ordigno sparato da Teheran.
  L’attacco iraniano al Soroka ha provocato ingenti danni alla struttura e varie decine di feriti, alcuni in modo grave. «Stamattina gli occhi del mondo intero dovrebbero essere puntati sull’ospedale Soroka di Beer Sheva per capire cosa significhi davvero un crimine di guerra», ha dichiarato il presidente dell’Associazione medica israeliana Zion Hagay. «Mentre Israele mira a obiettivi di sicurezza, gli iraniani sparano deliberatamente contro i centri abitati per danneggiare il maggior numero possibile di civili. È solo grazie alla preparazione dell’ospedale che è stato evitato un disastro molto più grave». Inaugurato nel 1959, il Soroka è una delle eccellenze del sistema sanitario israeliano. Ha circa 1200 posti letto. Nel 2004 a beneficiare dei suoi servizi fu tra gli altri Yahya Sinwar, futuro leader di Hamas e architetto del 7 ottobre, allora “ospite” delle carceri israeliane, al quale fu rimosso un tumore al cervello. Quando Sinwar fu scarcerato insieme a oltre mille terroristi di Hamas in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit, prigioniero per anni a Gaza, Sinwar promise a colui che gli aveva diagnosticato per tempo il male, il medico Yuval Bitton, allora responsabile della clinica dentale della prigione, che avrebbe fatto di tutto per ripagarlo. Il 7 ottobre Hamas ha ucciso un suo nipote nel kibbutz Nir Oz. a.s.

(moked, 19 giugno 2025)

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L’Islam sciita in attesa di una fatwa per la Jihad dal grande Ayatollah al-Sistani

di Sadira Efseryan

L’Alleanza Fatah filo-iraniana irachena, guidata da Hadi al-Amiri, ha dichiarato giovedì che si aspetta un decreto religioso (fatwa) per la jihad da parte del Grande Ayatollah Ali al-Sistani, la massima autorità sciita irachena, in risposta all’escalation delle azioni israeliane e statunitensi contro l’Iran.
Ali al-Fatlawi, un alto funzionario dell’alleanza, ha dichiarato che “l’assalto alla Repubblica Islamica, che difende i fondamenti dell’Islam, non si limita alla setta sciita, sebbene questa sia in prima linea nella difesa”. Egli ha affermato che “la debolezza della leadership islamica sunnita ha fatto apparire più dominanti le voci religiose sciite”.
Al-Fatlawi ha considerato un attacco al leader supremo iraniano Ayatollah Ali Khamenei equivalente a un attacco all’Islam stesso, paragonando la sua influenza a quella del Grande Ayatollah al-Sistani in Iraq.
Al-Sistani, con sede nella città santa di Najaf e noto per la sua moderazione in materia politica, ha rilasciato giovedì una rara dichiarazione in cui avverte che qualsiasi attacco contro la leadership religiosa o politica iraniana provocherebbe il caos nella regione. Il suo ufficio ha descritto la campagna militare israeliana in corso come una violazione dell’etica religiosa, del diritto internazionale e delle norme umanitarie.
Nella giurisprudenza islamica sciita, la jihad non si riferisce solo alla lotta armata in difesa della fede, ma anche alla resistenza morale e sociale in tempi di crisi. L’ultimo appello alla jihad di Al-Sistani risale al 2014, quando emanò una fatwa storica che esortava gli iracheni a prendere le armi contro l’ISIS. Quel decreto portò alla formazione e alla mobilitazione delle Forze di Mobilitazione Popolare (PMF), una rete di gruppi paramilitari per lo più filo-iraniani che ora esercitano un’influenza significativa sulla sicurezza e la politica irachena.

(Rights Reporter, 19 giugno 2025)

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Una lettera da Israele

di Stefano Piperno

Caro Stefano,
rispondo alla tua richiesta di notizie e soprattutto dell’atmosfera che sto vivendo dal primo dei tanti allarmi che ormai si susseguono quotidianamente.
Oggi sono particolarmente stanca, quando si ritorna a casa dal rifugio non si riesce più a dormire per l’adrenalina che scorre.
Ieri per 3 volte sono dovuta scendere.
La prima alle 8 di mattina, la seconda alle 22.
Tornata a casa, nemmeno il tempo di riprendermi e mettermi a letto, a mezzanotte in punto di nuovo!
Vivo qui da 50 anni con figli e nipoti (uno di leva) e purtroppo sono abituata agli allarmi, anche se, con una certa incoscienza, mai ero scesa nel rifugio perché, abitando al decimo piano, non c’era tempo sufficiente per mettersi al riparo.
Infatti le scorse volte, tra l’allarme e la deflagrazione intercorreva solo un minuto ed in alcuni casi anche meno.
Ora è diverso perché le autorità hanno deciso di inviare ad ognuno sul cellulare un avviso 10 minuti prima che le sirene diano l’allarme, per cui ora ho tempo sufficiente per scendere nel rifugio.
Ti descrivo la scena mentre in silenzio stiamo sottoterra in attesa dell’esplosione  di razzi e missili.
Siamo almeno 100 persone: bambini svegliati nel cuore della notte che proseguono il sonno nelle braccia protettive della mamma, vecchi zoppicanti con il bastone che ricordano la  sensazione già vissuta, che ritenevano essersi lasciati alle spalle per sempre, cani tenuti al guinzaglio che cercano di fuggire percependo chissà come l’imminente pericolo.
E poi ci sono io che vivo sola, seduta con una bottiglia d’acqua in grembo e la mia borsa stretta al petto con dentro la mia carta d’identità, perché,  qualora il palazzo fosse colpito e crollasse, se sotto le macerie trovassero il mio corpo, saprebbero dargli un nome.
Un saluto affettuoso, L.

(InOltre, 19 giugno 2025)

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Solitudine, fede e responsabilità

Perché oggi più che mai Israele ha bisogno dell'opera di sensibilizzazione di Dio.

di Anat Schneider

Persone cercano riparo in un rifugio antiaereo pubblico a Gerusalemme mentre le sirene avvertono dell'arrivo di missili lanciati dall'Iran, 19 giugno 2025
GERUSALEMME - Negli ultimi due anni ho riflettuto molto sull'opera di pubbliche relazioni di Israele nel mondo. E, onestamente, non è particolarmente lodevole. A volte ho persino l'impressione che non ci sia alcuna opera di sensibilizzazione su ciò che stiamo vivendo qui. Israele è solo. Questa solitudine non è un caso storico, ma una caratteristica intellettuale che attraversa tutta la storia di Israele. Anche oggi, dopo il 7 ottobre 2023, Israele sta vivendo una forma profonda di questa solitudine. Quando gli ebrei vengono attaccati, la compassione del mondo è spesso di breve durata. La solidarietà ha rapidamente lasciato il posto all'accusa, la compassione al freddo calcolo. In questo momento di solitudine globale, Israele ricorda la sua fonte più profonda: l'alleanza con Dio. Forse è proprio questa solitudine che, come nel caso di Mosè, non deve portare alla disperazione, ma alla vicinanza divina. Forse la voce debole di Israele nel mondo non è un segno di sconfitta, ma un appello a tutti gli uomini nello spirito di Dio a diventare parte della missione – non per Israele, ma con Israele: nella verità, nella fede e nella responsabilità.
Dopo il 7 ottobre 2023 e dopo la lunga e tragica storia del popolo ebraico in tutto il mondo, Israele è tornato nella sua terra. E non per caso. La dura realtà a cui era esposto il popolo ebraico lo ha riportato indietro. In nessun luogo al mondo siamo stati veramente accolti, né in Occidente né in Oriente, in nessun luogo. Ovunque siamo stati emarginati, respinti e, quando possibile, cacciati o uccisi. Gli ebrei non hanno mai conosciuto pace e sicurezza. Questo è un dato di fatto.
E ora, finalmente, dopo la Shoah, abbiamo uno Stato. Un luogo dove gli ebrei possono vivere liberi, con la loro religione, la loro fede. Vivere semplicemente, come persone normali in circostanze normali. Ma, come tutti vediamo, anche in questo unico Stato ebraico il popolo di Israele deve ancora giustificarsi. Continuiamo a lottare per qualcosa di ovvio: il nostro diritto all'esistenza. Dall'ottobre 2023 ho pensato per un attimo che forse ci sarebbe stato un risveglio nel mondo. Forse la nostra presenza nel nostro Paese sarebbe stata finalmente riconosciuta come legittima. Forse ci sarebbe stata una possibilità di un po' di pace. All'inizio della guerra c'erano effettivamente voci di sostegno. Avevo la sensazione che qualcosa stesse cambiando. Ma molto rapidamente la situazione è cambiata, trasformandosi in odio, incitamento all'odio, manifestazioni violente, minacce e persino omicidi di ebrei in tutto il mondo.
Quasi nessun Paese al mondo è stato risparmiato dalle esplosioni di antisemitismo. Il Sudafrica è andato particolarmente lontano e Israele si è ritrovato sul banco degli imputati all'Aia, accusato di crimini internazionali. Anche se la ferita è ancora fresca, la ruota della storia ha girato di nuovo contro di noi. Israele è tornato ad essere il “cattivo”, il fuorilegge. A tal punto che oggi i soldati dell'IDF devono temere di essere arrestati durante i viaggi all'estero, compresi i miei tre figli, mio genero e mia nuora. Nessuno di loro mostra più foto di sé stesso in divisa sui social network. È diventata una pratica comune nel Paese, per paura di essere arrestati all'estero.
Più sentivo che la nostra lotta era giusta, più le nostre voci si spegnevano nell'opinione pubblica mondiale. Il lavoro di sensibilizzazione di Israele si è ridotto al minimo, quasi impercettibile. Mi chiedevo: com'è possibile? Perché nessuno parla? Perché nessuno mostra la verità, la nostra innocenza? Ma niente. Il mondo continua a girare e gli ebrei sono di nuovo gli odiati.
Qualche settimana fa ho scritto della lettura biblica settimanale “Beha'alotecha”. Ho sottolineato la solitudine di Mosè e ho ricordato che anche altri leader biblici hanno vissuto una profonda solitudine. Ma più Mosè era solo, più sentiva la presenza di Dio. Questo non alleviava il dolore, ma lo legava più fortemente a Dio, che era la sua ancora e lo aiutava a compiere la sua missione: condurre il popolo d'Israele nella terra promessa.
La mia conclusione è questa: come Mosè allora, così è il popolo d'Israele oggi. Sì, siamo un popolo solitario. Anche se abbiamo amici, si tratta di alleanze temporanee, basate su interessi che possono cambiare in qualsiasi momento. E come Mosè nella sua solitudine cercava Dio con più forza, così anche Israele, più è solo, più cerca profondamente il legame con l'alto. È lì che trova la forza. E mi è venuto in mente un pensiero sul lavoro di pubbliche relazioni, quello che mi frustra tanto: forse Israele non ha più bisogno di PR da sé stesso. Forse Israele deve essere forte, intelligente, coraggioso e tecnologicamente superiore, ma allo stesso tempo deve intraprendere la sua missione insieme a Dio. Perché la vera forza di Israele è la sua fede in Dio.
Dio, a differenza del mondo, non ha interessi mutevoli. È completamente orientato al bene di Israele. Vuole essere parte di questo popolo. Vuole dimorare nei nostri cuori. Vuole essere unito a noi con amore e vicinanza. E se Dio è con noi, chi può essere contro di noi? Dio è la migliore pubblicità che Israele abbia mai avuto. È la nostra voce più forte nel mondo. E poiché siamo davvero pessimi nelle pubbliche relazioni, nel presentarci al mondo, ma forti nel difendere la nostra terra, forse voi, cari lettori, nostri veri amici, dovreste occuparvi delle pubbliche relazioni e della comunicazione: persone di spirito e di fede.
Noi vi forniamo i fatti e voi li diffondete. Uniamo le nostre forze. Ognuno fa ciò che sa fare meglio. E Dio ci aiuterà. Perché se Dio è con noi, e voi siete con noi, chi può fermarci?
«Sia benedetto il Signore, Dio di Israele, che solo fa meraviglie.
Sia benedetto il suo nome glorioso per sempre,
e tutta la terra sia piena della sua gloria.
Amen e amen» (Salmo 72).

(Israel Heute, 19 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Italiani e israeliani bloccati all’estero aspettano di fare ritorno a casa

di Nina Prenda

A causa dello spazio aereo bloccato nei cieli del Medio Oriente per la guerra in corso, sale la preoccupazione per gli italiani residenti all’estero che non riescono a tornare a casa. Si muovono le ambasciate italiane in Israele e in Iran per permettere il rimpatrio degli italiani bloccati nei due Paesi in guerra. Sono circa 20mila gli italiani che si trovano nello Stato ebraico e 500 quelli nella Repubblica Islamica in questi giorni di conflitto. I secondi hanno potuto lasciare la Nazione passando via terra per l’Azerbaigian e al momento si contano ventinove concittadini che sono stati rimpatriati. “Ringraziamo l’ambasciata e coloro che ci hanno aiutato ad uscire, siamo molto riconoscenti. Il viaggio è stato duro: si respira l’aria di guerra. Non solo per i bombardamenti ma per l’atmosfera pesante”, dichiarano gli italiani che stanno lasciando la Repubblica Islamica.
Le Ambasciate e i Consolati stanno fornendo assistenza ai connazionali che desiderano lasciare gli Stati, favorendo l’uso dei valichi terrestri in attesa della riapertura degli aeroporti. I primi connazionali che sono riusciti a lasciare i Paesi stanno tornando a casa.
“La situazione anche dei nostri concittadini è abbastanza complicata e cerchiamo di assisterli nel modo migliore”, ha dichiarato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nel suo intervento al Consiglio generale degli italiani all’estero. “La situazione attuale – ha spiegato – è veramente molto complicata. La mia priorità e del governo è quella della sicurezza di tutti i nostri connazionali che vivono in questo momento nelle aree di crisi”, ha aggiunto Tajani. Il ministro aveva spiegato nei giorni scorsi che “le nostre Ambasciate sono in contatto con tutti i connazionali che hanno chiesto informazioni per rientrare in Italia. Stanno tutti bene e stanno ricevendo uno ad uno ogni possibile assistenza, tenendo conto dell’interruzione del traffico areo nella regione”.
Nella stessa situazione, uguale e contraria, si trovano gli israeliani che hanno difficoltà nel fare ritorno nello Stato ebraico. Per aiutarli a trovare un alloggio si sono attivate anche le comunità ebraiche.
Per contattare quella di Milano scrivere a: segreteria.generale@com-ebraicamilano.it
Israele ha iniziato a riportare a casa i cittadini rimasti all’estero durante il conflitto con l’Iran: due voli provenienti da Cipro sono atterrati a Tel Aviv mercoledì mattina.
Lo spazio aereo di Israele è stato chiuso da quando il Paese ha lanciato una campagna di attacchi aerei contro l’Iran, venerdì 13 giugno. L’Iran ha risposto con centinaia di droni e missili, pertanto lo spazio aereo tra i due Paesi al momento è dominato solo da velivoli militari. Il ministero dei Trasporti israeliano afferma che circa 150mila israeliani sono attualmente fuori dal Paese e 50mila di questi hanno chiesto il rimpatrio immediato. La compagnia di bandiera israeliana El Al ha dichiarato che intende operare decine di voli per rimpatriare gli israeliani da varie capitali europee come Atene, Roma e Parigi. Il vettore più piccolo Arkia riporterà in patria i cittadini israeliani da Grecia, Cipro e Montenegro, mentre Israir sta operando voli per i turisti bloccati da Cipro, Grecia e Bulgaria.
I voli passeggeri, invece, non partono ancora da Israele, il che significa che decine di migliaia di turisti sono attualmente bloccati nel Paese, per questo sono al lavoro le ambasciate dei vari Paesi di provenienza.
Il conflitto ha costretto la maggior parte dei Paesi del Medio Oriente a chiudere il proprio spazio aereo. Decine di aeroporti hanno interrotto tutti i voli o ridotto significativamente le operazioni, lasciando decine di migliaia di passeggeri bloccati e altri impossibilitati a fuggire dal conflitto o a tornare a casa.

(Bet Magazine Mosaico, 19 giugno 2025)

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Primo Sar-El Summit a New York alla “Celebrate Israel Parade”

di Keren Dahan

Il 18 maggio  a New York City è stato semplicemente straordinario. In una giornata luminosa ed emozionante, abbiamo avuto l’immenso onore di marciare nella “Celebrate Israel Parade” sulla Fifth Avenue, una delle più grandi espressioni annuali di solidarietà con lo Stato di Israele. Quest’anno è stato particolarmente significativo. Dopo un anno e mezzo di guerra e incertezza, stare orgogliosamente nelle strade di Manhattan, sventolando bandiere, cantando canzoni e camminando accanto a oltre 250 appassionati volontari di Sar-El è stato profondamente commovente. Non è stata solo una parata, è stata una dichiarazione. Una dichiarazione di unità, di orgoglio, di perseveranza. E per noi, è stato qualcosa di ancora più personale: on stavamo solo marciando attraverso New York, stavamo marciando attraverso le città natali dei nostri stessi volontari. Venire da loro, essere accolti dalle loro famiglie e comunità, e celebrare la nostra missione condivisa fianco a fianco è stato un privilegio raro e indimenticabile. L’energia era elettrica. Lo striscione di Sar-El sventolava alto tra il mare di bandiere israeliane, e gli applausi della folla riecheggiavano tutto ciò in cui crediamo: servizio, forza e solidarietà con Israele.
Ma la magia non è finita. Quella stessa sera, ci siamo riuniti per un evento storico: il primo Sar-El Summit, ospitato presso l’elegante Harvard Club di New York City. Una serata di connessione, visione e celebrazione come mai prima d’ora. Durante la cena e la conversazione, circondati da amici vecchi e nuovi, abbiamo riflettuto su quanto siamo arrivati lontano e guardato avanti a ciò che ci aspetta. La serata ha visto le parole potenti di alcune delle voci più ispiratrici nel mondo sionista ed ebraico di oggi:

  • Yaakov Hagoel, Presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale,
  • Neriya Meir, Capo del Dipartimento di Attività Sionista nella Diaspora,
  • Col. (Res.) Zohar Vloski, Direttore Esecutivo Globale dell’Educazione Sionista per JNF-USA.
  • Il deputato Mike Lawler,
  • Il deputato Randy Fine,
  • Il legislatore Mazi Pilip,
  • Ospite musicale, Yonina!

e diversi dei nostri stessi volontari di Sar-El, provenienti da tutti gli Stati Uniti, Canada, Australia e Sud America, che sono saliti sul palco per condividere storie commoventi su cosa significa servire, guidare e portare avanti la torcia del sionismo. I discorsi sono stati commoventi, ma è stato lo spirito della sala a rubare la scena: un vero senso di comunità, scopo e slancio. Non è stata solo una riunione, è stata una pietra miliare.
Uno dei momenti più potenti della serata è stato il panel dei comandanti dell’IDF, guidato dal Brig. Gen. (Res.) Ronen Cohen, Presidente di Sar-El, insieme al Maggiore Yuval Holtzman e Yoni Tokayer. Hanno condiviso esperienze dirette e storie commoventi dalle prime linee della guerra a Gaza, offrendo una visione personale e cruda delle sfide, del coraggio e della resilienza dei nostri soldati. È stata un’opportunità rara e profondamente significativa per ascoltare direttamente coloro che hanno vissuto la missione che sosteniamo.
Durante la serata, abbiamo tenuto discussioni a tavola rotonda dove volontari, ex allievi e partner si sono riuniti per fare brainstorming sul futuro di Sar-El. Le idee emerse sono audaci, diverse e piene di potenziale:

  • Sviluppare programmi interattivi di Shabbat per i volontari, sia durante che dopo il loro servizio
  • Creare opportunità per incontri e riunioni regionali nelle città di tutto il mondo
  • Lanciare programmi mirati per demografie più giovani per garantire che ogni generazione trovi il suo posto in Sar-El
  • Costruire piattaforme online e comunità digitali per una connessione e un coinvolgimento continuo
  • Espandere la nostra presenza sui social media e il racconto di storie per ispirare altri a unirsi
  • Esplorare nuove collaborazioni, partnership e strategie di finanziamento per crescere la nostra portata e impatto

Ogni suggerimento rifletteva la passione e l’intuizione di persone che conoscono Sar-El non come un’organizzazione, ma come un movimento vivo e pulsante. Queste non sono solo idee, sono semi per il futuro, e stiamo già lavorando su come portarle alla vita.
 
Aiutateci a mantenere lo slancio
   Questi momenti indimenticabili ci hanno ricordato quanto sia forte e unita la nostra famiglia globale di Sar-El. Ma per mantenere viva e in crescita questa missione, abbiamo bisogno del tuo supporto. La tua donazione ci aiuta a espandere i programmi, sostenere i soldati dell’IDF, connetterci con più volontari in tutto il mondo e dare vita a iniziative potenti come il Sar-El Summit. Ogni contributo, grande o piccolo, ha un impatto reale. Continuiamo a costruire insieme. Mostriamoci—per Israele, per i nostri soldati, per l’un l’altro.
Quello che abbiamo vissuto a New York è stato più di una parata o un summit—è stato un promemoria che Sar-El non è confinato a un luogo o a un programma. Vive ovunque siano i nostri volontari. Prosperano nella passione che porti, nelle storie che condividi e nell’amore che porti per Israele—che tu sia in una base nel Negev o sulla Fifth Avenue a Manhattan.
A tutti coloro che hanno marciato, che si sono uniti a noi al Summit, che hanno aiutato a pianificare, promuovere, parlare o semplicemente si sono presentati con il cuore aperto: grazie. Voi siete la ragione per cui Sar-El continua a crescere, ispirare e guidare.
Insieme, stiamo costruendo qualcosa di duraturo. E non vediamo l’ora di vedere dove ci porterà questo viaggio.
Con gratitudine e orgoglio,
Keren Dahan CEO

(Bet Magazine Mosaico, 18 giugno 2025)

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Israele, Iran e il leone nascente: la forza dei simboli

di Fabio Aversa 

In Medio Oriente, anche un nome può arrivare a diventare un’arma strategica. Lo dimostra “Rising Lion” – Leone nascente – l’operazione di guerra lanciata qualche giorno fa da Israele contro l’Iran. Il nome richiama un versetto biblico, ma al tempo stesso porta un messaggio politico ben preciso: non si tratta solo di contrastare, giustamente, il folle programma nucleare iraniano, ma anche di riaprire una ferita simbolica nel cuore del regime degli ayatollah.
   Il nome “Rising Lion” trae origine da un versetto del Libro dei Numeri, che simboleggia la determinazione e la forza del popolo d’Israele:
“Ecco, un popolo si alza come leonessa e si drizza come leone; non si coricherà finché non abbia divorato la preda e bevuto il sangue delle vittime” (Numeri 23:24).
   Si tratta di una delle profezie pronunciate da Balaam, indovino e stregone pagano, che il re moabita Balak aveva convocato per maledire il popolo ebraico in marcia verso la Terra Promessa. Ma Dio interviene nei sogni di Balaam, prima impedendogli il viaggio, poi consentendolo ma guidandone le parole. Alla fine, Balaam si trova a benedire Israele, anziché maledirlo, con tre oracoli che ne celebrano la forza e la missione divina.
   Quel versetto è ormai da secoli interpretato come allegoria della tenacia israelita, con il leone e la leonessa simboli di una volontà che non si arrende finché non ha raggiunto l’obiettivo.
   Ed è proprio a questo immaginario che si collega la scelta del nome dell’operazione da parte di Benjamin Netanyahu. Ma non solo. Il “leone” è anche un riferimento sottile al simbolo monarchico presente sulla bandiera dell’Iran pre-rivoluzionario, abolito nel 1979 con l’ascesa al potere della Repubblica Islamica. Il messaggio, in questo caso, è tanto simbolico quanto strategico: colpire Teheran significa anche evocare un’epoca in cui l’Iran era un alleato dell’Occidente e laico, non un regime teocratico.
   “Non siamo contro il popolo iraniano, ma contro il regime degli ayatollah”, ha dichiarato, e non è la prima volta, Netanyahu, lasciando trasparire una potenza evocativa dal suo messaggio. E in questo senso, il leone che si alza rappresenta anche un’esortazione al popolo iraniano a risollevarsi e a riprendersi la propria identità.
   Durante le dinastie Qajar e Pahlavi, infatti, il leone era emblema nazionale iraniano, presente sulla bandiera, sulle monete, sugli edifici ufficiali. Dopo la rivoluzione khomeinista, fu eliminato perché ritenuto simbolo di un passato corrotto e sostituito con l’attuale calligrafia stilizzata della parola “Allah”.
   Che si tratti di un’operazione militare, di guerra cognitiva o di strategia diplomatica, “Rising Lion” ci sta mostrando come il conflitto tra Israele e Iran si giochi anche sul terreno dei simboli.
   Indipendentemente da come si concluderà questa fase dello scontro, il segnale lanciato da Tel Aviv è forte e chiaro: non si tratta più solo di deterrenza nucleare e sopravvivenza, ma di sfida aperta all’architettura ideologica del regime iraniano. In un Medio Oriente già molto fragile, è una mossa che potrebbe riscrivere l’equilibrio di potere nell’intera regione.

(InOltre, 18 giugno 2025)

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Il crepuscolo delle nazioni: Israele, la Francia e la cancellazione delle identità

Israele non è soltanto al centro di un conflitto territoriale: incarna una frontiera delle civiltà tra due visioni del mondo. Dietro il conflitto israelo-palestinese si profila uno scontro più ampio, tra il globalismo – che dissolve le identità – e il radicamento – che difende le nazioni, le memorie, le singolarità. Questo combattimento, troppo spesso mascherato, riguarda tanto l’Europa quanto il Medio Oriente.

di Charles Rojzman

Bisogna dirlo senza giri di parole, senza quell’artificio delle anime tiepide che vogliono ancora credere a compromessi: Hamas non vuole la soluzione dei due Stati. Non la vuole, non la può volere, perché il suo orizzonte non è quello delle nazioni, nemmeno quello dei popoli, ma quello di un universo sottomesso alla sola legge di Allah. Al limite estremo, la accetterebbe come un inganno, una dilazione, una pausa strategica: una tappa prima di cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, prima di dissolvere questa anomalia che è Israele nel grande bagno di un Medio Oriente musulmano da tutta l’eternità. Per lui, per l’islamismo, Israele non potrebbe essere una nazione sovrana, per di più ebraica, ma tutt’al più un territorio, uno spazio, una porzione di terra dove gli ebrei vivrebbero come dhimmi, sotto il giogo discreto ma implacabile della sharia, tollerati come si tollera l’ombra del passato sulle rovine del presente.

Società affaticate
  Quello che si gioca qui, e che non si vuole vedere – perché la cecità, oggi, è il lusso supremo delle società affaticate –, è che questa logica non è circoscritta al conflitto israelo-palestinese. Lavora anche, sotterraneamente, l’Europa, la Francia, queste vecchie nazioni che si accaniscono a negare la propria carne, la propria memoria, il proprio essere. Per l’estrema sinistra, per la sinistra che si lascia trascinare da essa in una vertigine di cui non comprende né l’origine né il prezzo, come per l’islamismo, le nazioni sono finzioni da dissolvere, impedimenti all’avvento di un ordine superiore: quello della umma per gli uni, quello del mercato planetario per gli altri, quello dell’umanità universale per i terzi. Ed è per questo che si comprende anche perché queste correnti così diverse in apparenza – islamisti, capitalisti, rivoluzionari – si ritrovano paradossalmente a difendere, in un modo o nell’altro, un’immigrazione di massa, soprattutto proveniente da paesi a maggioranza musulmana: perché questo flusso umano, affogando le identità storiche sotto un’ondata demografica, contribuisce potentemente a dissolvere i riferimenti, a cancellare le singolarità nazionali, a rendere i popoli più malleabili, più astratti, più intercambiabili.
   Così, quello che si vuole cancellare non è soltanto lo Stato ebraico; è l’idea stessa di Stato-nazione. Hamas non vuole uno Stato ebraico, vuole bene, forse, uno Stato d’Israele svuotato della sua sostanza ebraica, come l’islamismo può ben tollerare una Repubblica francese a condizione che non sia più la Francia dei francesi, ma uno spazio astratto, aperto, disponibile per il dispiegamento dell’islam. Perché per l’islamismo, come per gli ideologi della globalizzazione, la nazione non ha senso: quello che conta è l’unità del mondo, l’unificazione sotto una legge, sia essa mercantile o divina, ma sempre ostile alle singolarità storiche, alle eredità, ai confini.
   E non si vede – e forse è questa la tragedia del nostro tempo, questa incapacità di percepire le linee profonde che strutturano gli eventi – che la Francia e Israele sono, in verità, confrontati allo stesso pericolo: quello della loro cancellazione. Cancellazione sotto la spinta islamista, che sogna un mondo dove le altre religioni sarebbero sottomesse; cancellazione sotto la spinta della mercificazione, che sogna un mondo dove tutto sarebbe intercambiabile, mercificabile, dissolto nei flussi; cancellazione sotto la spinta di una sinistra ancora ossessionata dai relitti del comunismo, che sogna un mondo dove gli uomini sarebbero ridotti alla loro semplice umanità astratta, senza storia, senza memoria, senza identità.

• È il tuo destino
  In questa congiunzione inaspettata – islamismo, mercato, ideologia universalista – si gioca una battaglia che non è soltanto politica, ma metafisica: quella dell’esistenza delle nazioni. Essere una nazione significa dire no all’uniformità, no alla dissoluzione, no alla riduzione degli esseri umani a semplici unità di desiderio o di fede. Significa affermare una differenza, una singolarità, una memoria incarnata in luoghi, lingue, riti, morti. Israele, come la Francia, come l’Europa, si trova al crocevia: o persiste nell’esistere come nazione, al prezzo di un combattimento doloroso, solitario, quasi disperato; oppure consente a scomparire, a fondersi nel grande magma planetario, a non essere più che uno spazio senza spessore, senza memoria, senza volto.
   Questo combattimento, lo si conduce spesso senza saperlo, o credendo che si tratti soltanto di coabitazione, di giustizia sociale, di redistribuzione economica. Ma si tratta, in verità, di un combattimento ontologico: si tratta di sapere se vogliamo continuare a esistere come popoli, come nazioni, o se accettiamo di non essere più che individui senza legami, sottomessi alle leggi dell’economia, dell’ideologia, o della religione totalitaria.
   Ecco perché la Francia e Israele sono legati da un destino comune, che nessuno vuole vedere. Ecco perché bisogna parlare, scrivere, nominare, contro il flusso amnesico del mondo contemporaneo. Ecco perché bisogna, forse, ritrovare questa malinconia tragica che fu sempre propria delle civiltà invecchianti ma lucide.
   C’è, in questa faccenda, un’immensa stanchezza. Stanchezza delle nazioni, che non sanno più portare il peso della loro storia; stanchezza degli uomini, che non credono più alla loro singolarità; stanchezza delle élite, che sognano di cancellare le asperità per fondersi in un’umanità senza spessore. La Francia è come questa vecchia dimora che si abbandona ai venti, alla pioggia, all’edera, e di cui si contempla la lenta decrepitezza con una fascinazione morbosa, senza trovare in sé l’energia di ripararla. Israele, dal canto suo, conosce un’altra realtà: una parte delle sue élite sogna talvolta l’abbandono, ma il cuore del paese resiste ancora — portato da una gioventù ardente, patriottica, pronta a difendere la sua sopravvivenza. Se certe zone d’Israele cominciano a somigliare all’esaurimento francese, il resto del paese, lui, rimane in stato di allerta, teso, in piedi, di fronte alla minaccia.

Triplo rifiuto
  Perché riparare significa sempre ricordare. Riparare significa dire: siamo esistiti, abbiamo un passato, abbiamo morti, guerre, lacrime, canti. Riparare significa rifiutare l’oblio in cui ci spinge l’epoca. Ma l’epoca non vuole più questo passato. Non lo vuole più perché disturba, imbarazza, limita. Il passato, per l’ideologia mercantile, è un peso morto; per l’ideologia islamista, è un’impurità; per l’ideologia di sinistra, è una colpa. E in questo triplo rifiuto, c’è una forma di alleanza, una coalizione inaspettata ma temibile.
   Israele, in quanto Stato ebraico, incarna lo scandalo del particolare: un’identità storica, religiosa, culturale, irriducibile all’universalismo astratto. La Francia, malgrado tutti i suoi tradimenti, tutte le sue abdicazioni, rimane, agli occhi del mondo, una vecchia nazione forgiata da secoli di guerre, di letteratura, di cattolicesimo, di rivoluzioni, di fedeltà a se stessa. Ora, sono precisamente queste singolarità che bisogna abbattere.
   Perché il mondo che viene – il mondo che vogliono gli islamisti, i mercanti, gli ideologi – è un mondo senza nazioni. Un mondo di flussi: flussi di capitali, flussi di merci, flussi di credenti, flussi di esseri umani ridotti alla loro funzione economica o religiosa. Quello che si chiama, spesso senza comprenderlo, il globalismo, non è che un nome cortese per designare questa guerra sotterranea contro i radicamenti. E l’islamismo, in questo senso, non è il nemico del mercato; ne è l’alleato paradossale. Perché entrambi vogliono cancellare le frontiere, entrambi vogliono un mondo unificato, entrambi vogliono abolire l’idea stessa di nazione.
   Ecco perché è vano opporre ingenuamente l’uno all’altro. Ecco perché è illusorio credere che si potrà risolvere il conflitto israelo-palestinese, o la questione dell’immigrazione in Europa, con semplici aggiustamenti politici, con compromessi, con accordi tecnici. Perché si tratta di un combattimento più profondo: quello della sopravvivenza delle identità.
   Ed è qui che arriva il più tragico: è possibile che questo combattimento sia già perduto. Non con la forza delle armi, ma per la stanchezza interiore. Perché le nazioni non sono innanzitutto abbattute dall’esterno; muoiono dall’interno, per esaurimento, per disgusto di sé, per incapacità di trasmettersi, di desiderarsi ancora. Guardate la Francia: non insegna più la sua storia; non osa più dire quello che è; si scusa di esistere. Guardate Israele: vacilla tra il bisogno di difendersi e la colpevolezza di farlo, tra la volontà di sopravvivere e l’ossessione di essere giudicato.
   Si dice talvolta: bisogna difendere l’Occidente. Ma l’Occidente esiste ancora? È altro che un ricordo, che un miraggio, che una parola vuota? Si dice: bisogna salvare le nazioni. Ma le nazioni vogliono ancora essere salvate? Hanno ancora in loro il desiderio di durare, questa ostinazione, questo sangue, questa fedeltà, questa malinconia attiva che fu un tempo la loro forza? Oppure hanno già acconsentito, in silenzio, a dissolversi, a cancellarsi, a diventare spazi neutri, luoghi senza memoria, zone franche per il commercio e per la fede?
   Non lo so. O piuttosto, lo so fin troppo bene: ci sono momenti in cui le civiltà, come gli uomini, scelgono la morte senza dirlo. Si afflosciano dolcemente, con una stanchezza infinita, con questa nostalgia senza oggetto che precede la caduta. Forse è questo che stiamo vivendo. Forse è questo, il cuore pulsante del nostro tempo: il crepuscolo delle nazioni.
(Causer.fr – 5 giugno 2025)

(Kolòt - Morashà, 18 giugno 2025)
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Articolo ottimo. Nell'800 gli ebrei non avendo nazione erano visti come corruttori delle nazioni con il loro universalismo morale, adesso che ne hanno una sono visti come corruttori nazionalisti della pace universale in un mondo globalizzato. Per questo l'Occidente laico è nemico di Israele non meno dell'Oriente religioso. Lo è soltanto in modo diverso, meno doloroso ma più insidioso. M.C.

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Trump abbandona il G7: gli Usa pronti a intervenire a fianco di Israele?

di Ugo Volli

• Il vertice interrotto
     Ha suscitato grande suspense in tutto il mondo la decisione di Donald Trump di abbandonare in anticipo di vertice del G7 in Canada, cioè di gran lunga la più importante riunione annuale dei leader del campo occidentale (o di ciò che a questo punto ne resta). Il presidente americano aveva già rifiutato di firmare una dichiarazione sottoscritta dagli altri sei capi di stato e di governo che chiedeva in termini generici un cessate il fuoco fra Israele e Iran, anche se dichiarava che agli ayatollah non doveva essere concesso di arricchire l’uranio e di costruire armi atomiche. L’abbandono della riunione però non è stato polemico, ma dettato dall’urgenza. E quando il presidente francese Macron ha suggerito che la ragione della partenza del suo collega americano fosse una trattativa di tregua, Trump ha risposto con un tweet sarcastico fino all’insulto: “Macron, amante della pubblicità, ha erroneamente affermato che ho lasciato il vertice per concordare un cessate il fuoco tra Israele e Iran. Sbagliato! Non ha idea del perché me ne sia andato, ed è qualcosa di molto più grande di un cessate il fuoco. Emmanuel si sbaglia sempre!”.

• Un prossimo intervento?
     Naturalmente nessun sa qual è la cosa molto più grande. Ma vi sono degli indizi. A Trump era stato chiesto prima se crede che Israele possa eliminare la minaccia nucleare iraniana senza l’aiuto degli Stati Uniti, e lui ha risposto: “La domanda non è rilevante. Qualcosa sta per accadere”. E l’ambasciatore americano in Libano ha detto che questo qualcosa “farà sembrare superata la vicenda dei cercapersona” (quando cioè Israele eliminò la dirigenza di Hezbollah con degli ordigni contenuti nei loro dispositivi elettronici). Sul piano dei fatti quel che sappiamo è che Trump ha ordinato alla portaerei più potente della flotta, la Nimitz, di accorrere velocemente dal Pacifico orientale dove si trovava e ha fatto accumulare in Europa un gruppo molto importante di aerei cisterna, necessari per consentire attacchi aerei a lunga distanza. A Diego Garcia, la base britannica nell’Oceano Indiano a distanza di volo dall’Iran, vi sono ancora molti grandi bombardieri. Vi sono anche indiscrezioni da Washington che dicono che l’intervento americano sia previsto in pochissimo tempo.

• Ultimatum
     Lo scenario più probabile è dunque che Trump abbia fatto pervenire agli iraniani un ultimatum (tutt’altra cosa dalla “ripresa delle trattative” ipotizzata dai soliti Qatar e Oman) in cui esige per chiedere a Israele di cessare il fuoco l’abbandono completo del programma nucleare e in sostanza il disarmo, che probabilmente porterebbe a un cambio di regime. Nel caso esso non fosse accolto, la minaccia è che gli Usa si unirebbero all’attacco israeliano. Ormai la strada per Teheran è spianata, come ha dichiarato il primo ministro Netanyahu, le prospettive di un contrattacco iraniano alle basi americane nel Golfo Persico sono poco realistiche, visto che il 40% dei lanciamissili sono stati già distrutti e anche i bombardamenti iraniani su Israele sono sempre meno massicci, anche se continuano a essere frequenti e pericolosi. Dunque l’intervento americano non sarebbe difficile e permetterebbe a Trump di intestarsi almeno parte della vittoria e di intervenire così a pieno titolo nel processo successivo di ristrutturazione del Medio Oriente che sarà lungo e complesso. Accumulerebbe così anche titoli per chiedere a Israele scelte non facili sulla sistemazione postbellica.

• La necessità dei superbombardieri
     L’intervento americano è certamente gradito a Israele, che sta prevalendo con le sue sole forze, ma si trova di fronte ancora l’ostacolo di un certo numero di basi atomiche iraniane (la più nota è Fordow) annidate a grande profondità nelle montagne, che probabilmente non possono essere distrutte dagli aerei israeliani perché essi non sono in grado di usare le bombe potentissime e pesantissime che solo i grandi bombardieri strategici americani possono trasportare. Senza di essi, sarebbe necessario che gli iraniani stessi distruggessero quelle basi (ma ci vorrebbe una rivoluzione che ancora non è iniziata) o servirebbe da parte di Israele un’azione di terra particolarmente difficile e pericolosa.

• Altri scenari
     Vi sono anche altre ipotesi, meno positive. È possibile che gli Usa abbiano segnali per un intervento a fianco dell’Iran di potenze nucleari come Cina, Russia o Pakistan – ma questo è stato ripetutamente escluso dallo stesso Trump. O è possibile che ci siano degli indizi di un estremo tentativo iraniano di montare una bomba atomica, che richiederebbe di essere immediatamente stroncato dall’intervento americano. Ma anche questa ipotesi non sembra realistica, dopo i bombardamenti di questi giorni. O potrebbe esservi l’ipotesi della preparazione di un colpo di stato a Teheran, garantito dagli Usa, di cui però non ci sono indizi.

• Una pace possibile
     Dunque lo scenario più probabile è che, forse già molto presto, i bombardieri americani si uniscano a quelli israeliani nel distruggere totalmente l’apparato atomico e missilistico e in genere l’armamento dell’Iran e obbligarlo alla resa e magari eliminare del tutto la dittatura clerico-fascista che l’ha oppresso per quarant’anni. Ciò porterebbe a una rapida fine della guerra non solo su questo fronte, ma anche in tutto il Medio Oriente. Senza più la testa, l’intera piovra da Gaza allo Yemen al Libano non avrebbe più la capacità di combattere. Si potrebbe pensare allora a come rendere stabile e proficua la pace. Questa campagna è un momento decisivo non solo per Israele e il Medio Oriente, ma per l’equilibrio politico complessivo del pianeta. La vittoria di Israele che si profila può essere una premessa per un mondo più pacifico, giusto e prospero, in cui l’aggressione non paghi.

(Shalom, 17 giugno 2025)

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“Le azioni di Israele in Iran favoriscono le relazioni con l'Arabia Saudita”

Una fonte araba ha dichiarato martedì a i24NEWS che l'azione israeliana in Iran sta facendo progredire notevolmente un accordo per l'instaurazione di relazioni con l'Arabia Saudita, anche se ciò richiederà tempo. Secondo questa fonte, i sauditi esprimono grande soddisfazione per gli sviluppi sulla scena iraniana e stanno anche cercando una formula sulla questione palestinese che consentirebbe di portare avanti la normalizzazione.

Una svolta attesa dopo Gaza
  Tuttavia, secondo la fonte, una svolta è attesa solo al termine dei combattimenti nella Striscia di Gaza. Alla vigilia dell'azione israeliana in Iran, la leadership iraniana aveva organizzato un incontro con le fazioni palestinesi, libanesi e irachene a Teheran. L'organizzazione terroristica Hamas era assente, ma hanno partecipato rappresentanti del Fronte Popolare e della Jihad Islamica.
   L'obiettivo dell'incontro era quello di garantire la mobilitazione di tutte le fazioni e milizie per procura in caso di attacco israeliano, ma è fallito a causa dell'assenza di Hamas e dello stato di emergenza dichiarato a Teheran.

Israele blocca la diplomazia araba
  In questo contesto, ricordiamo che il mese scorso Israele ha impedito l'ingresso a Ramallah ai ministri degli Esteri arabi, prima di una conferenza a sostegno dell'Autorità palestinese. Tra i ministri a cui è stato vietato l'ingresso figuravano il ministro degli Esteri saudita Fayçal ben Farhan e il ministro degli Esteri qatariota Mohammed al-Thani. Queste personalità avrebbero dovuto incontrare il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas. A seguito di questo divieto, la conferenza, che avrebbe dovuto essere una grande manifestazione di sostegno, non ha avuto luogo.

Messaggio diretto dell'Arabia Saudita all'Iran
  Per quanto riguarda la questione iraniana, alla fine del mese scorso il ministro della Difesa saudita Khalid bin Salman ha inviato un messaggio chiaro e diretto agli alti funzionari iraniani, secondo cui sarebbe vantaggioso per loro prendere sul serio la proposta del presidente americano Donald Trump sui negoziati sul nucleare, poiché ciò costituisce un modo per evitare un attacco israeliano.

Una riconfigurazione geopolitica in corso
  Questi sviluppi illustrano la ricomposizione geopolitica in corso in Medio Oriente, dove l'indebolimento dell'Iran potrebbe aprire la strada a una normalizzazione israelo-saudita. Riyadh sembra percepire le azioni militari israeliane contro l'Iran come un'opportunità per indebolire il suo rivale regionale, pur mantenendo le sue condizioni sulla questione palestinese.
   La diplomazia saudita gioca su più tavoli: da un lato, si rallegra di vedere l'Iran indebolito, dall'altro continua a chiedere progressi sulla questione palestinese come prerequisito per qualsiasi normalizzazione con Israele. Questo approccio pragmatico riflette la strategia di Riyadh di massimizzare i propri guadagni geopolitici in un contesto regionale in evoluzione.

(Israelnetz, 17 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Iran – Ucciso neo capo di stato maggiore Shadmani

Ha avuto breve durata il mandato del neo capo di stato maggiore iraniano Ali Shadmani. Nominato dal regime degli ayatollah appena quattro giorni fa, nelle prime ore dell’offensiva israeliana contro siti nucleari e obiettivi strategici della Repubblica islamica, è stato ucciso nel corso dell’ultima ondata di attacchi. Lo rendono noto le Forze di difesa israeliane, che già avevano eliminato il suo predecessore Alam Ali Rashid all’inizio dell’operazione Rising Lion. «Stamattina abbiamo ricevuto la notizia che le nostre forze hanno eliminato il capo di stato maggiore iraniano. Non sappiamo ancora chi lo sostituirà. Consiglio a chiunque riceva l’offerta di valutare attentamente la propria candidatura: se la risposta è positiva, si raccomanda la massima cautela», ha commentato il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar.
   Poche ore prima, parlando con l’emittente ABC, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva dichiarato che l’uccisione della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, cambierebbe il corso degli eventi e porrebbe fine al conflitto. «Abbiamo avuto mezzo secolo di conflitti diffusi da questo regime che terrorizza tutti in Medio Oriente e sta diffondendo terrorismo, sovversione e sabotaggio ovunque», ha affermato Bibi nell’intervista. «La “guerra infinita” è ciò che l’Iran vuole, e ci sta portando sull’orlo di una guerra nucleare. In realtà, ciò che Israele sta facendo è impedirlo, porre fine a questa aggressione, e possiamo farlo solo opponendoci alle forze del male».

(moked, 17 giugno 2025)

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“Non abbiamo visto tutto”: i più pericolosi missili non ancora utilizzati dal regime iraniano

“L’Iran sta ora operando secondo un’economia di armamenti – spiega Moran Elaluf, esperta di Iran e di Medio Oriente, in un’intervista a Makor Rishon -. Il regime comprende che il conflitto potrebbe durare giorni o settimane, quindi non ha fretta di utilizzare tutte le munizioni a disposizione – ne conserva una parte per fasi successive della guerra”.

di David Zebuloni

Tel Aviv, Bat Yam, Haifa, Rishon LeZion, Ramat Gan, Petah Tikva – nonostante l’impressionante successo dell’IDF nell’intercettare i migliaia di missili lanciati dall’Iran, nell’ultima settimana diverse città israeliane hanno subito gravi danni e dolorosi lutti. Questa nuova equazione di guerra solleva alcune inquietanti domande: quali sono le reali capacità del regime degli Ayatollah? Cosa comprende il suo arsenale? E ancora, l’Iran ha forse a disposizione missili più avanzati che ancora non ha usato?
“Come linea guida, il regime ha già dichiarato l’intenzione di intensificare e aggravare le proprie risposte, il che significa che non abbiamo ancora visto l’intero arsenale in suo possesso”, spiega Moran Elaluf, esperta di Iran e di Medio Oriente, in un’intervista a Makor Rishon. “Finora, abbiamo assistito a raffiche relativamente limitate, nonostante il regime parli di 1.000 o perfino 2.000 missili lanciati. Perché questa incongruenza numerica? Probabilmente a causa della disconnessione tra la leadership politica e quella militare, oltre a uno shock iniziale che ancora attanaglia il paese”.
E non è tutto. “L’Iran sta ora operando secondo un’economia di armamenti”, aggiunge la ricercatrice. “Il regime comprende che il conflitto potrebbe durare giorni o settimane, quindi non ha fretta di utilizzare tutte le munizioni a disposizione – ne conserva una parte per fasi successive della guerra”. Per quanto riguarda invece la quantità di munizioni detenute dal regime, Elaluf si mostra più cauta. “Le stime parlano di diverse migliaia di missili, ma non vi è certezza assoluta”, sottolinea.
“Alcuni ritengono che il regime disponga di circa 2.000 missili balistici, ma secondo me il numero reale è più alto“, sottolinea poi. “Anche se non vediamo ancora l’intera portata del suo arsenale, non significa che non esista. Israele deve considerare non solo ciò che conosce, ma anche ciò che ignora. Si tratta di un regime che agisce in modo clandestino, spesso nascondendo in profondità nel terreno componenti ed equipaggiamenti. È quindi plausibile che possieda più di quanto dichiara ufficialmente. Ad esempio, un arsenale significativo di droni armati”.
Come prova della tesi da lei sostenuta, Elaluf cita le dichiarazioni del regime durante i colloqui con gli Stati Uniti, in cui si è affermata più e più volte l’intenzione esplicita di nascondere un’importante dose di uranio arricchito. “Se il regime riesce a nascondere l’uranio arricchito, può sicuramente occultare anche componenti legate al programma balistico”, spiega. “Dopotutto, il programma missilistico balistico è un moltiplicatore di potenza per il progetto nucleare, poiché le bombe atomiche devono essere montate su missili balistici”.
Secondo un rapporto pubblicato dall’Istituto David, l’Iran dispone di diversi missili significativi:

  • Shahab-3: un missile balistico a medio raggio, capace di colpire a circa 1.350 km, con una testata di 700–1.200 kg.
  • Ghadr: un missile balistico con gittata tra 1.800–2.000 km.
  • Emad: un missile balistico a propellente liquido con raggio d’azione di circa 2.500 km.
  • Fateh-1: un missile a corto raggio, monostadio, con testata convenzionale da circa 500 kg.
  • Haj Qasem: un missile da crociera antinave con raggio superiore a 1.000 km.
  • Sejjil: un missile balistico a due stadi a propellente solido con raggio di circa 2.300 km.
  • Kheibar Shekan: un missile balistico ipersonico avanzato.

“Sì, il regime possiede anche missili ipersonici: i più avanzati oggi in circolazione”, afferma Elaluf. “Missili estremamente difficili da rilevare e tracciare, perché il loro volo non è lineare ma a zig-zag, con una velocità variabile che rende difficile l’intercettazione. L’IDF ha a disposizione il sistema Arrow 3 che fornisce una copertura nello spazio profondo, ma la minaccia resta significativa”.
Attualmente, l’Iran produce autonomamente la maggior parte dei missili in questione, ma fa anche affidamento su diversi paesi alleati che le forniscono le tecnologie necessarie per sviluppare armi avanzati. “Sappiamo oggi che il regime ha legami molto stretti con la Corea del Nord e la Cina nel campo nucleare e missilistico”, osserva Elaluf. “Di fatto, ogni tecnologia in mano a questi due paesi finisce prima o poi anche nelle mani dell’Iran”.
Inoltre, il programma nucleare iraniano si basa su un’infrastruttura logistica distribuita in tutto il Paese. “Ci sono siti per la conversione dell’uranio in gas, e altri per la produzione di plutonio”, rivela Elaluf. “L’Iran eccelle nell’occultamento e nella disinformazione. Pertanto, Israele deve migliorare le proprie capacità di intelligence. Finora gli attacchi dell’IDF sono stati di alta qualità, ma si tratta solo dell’inizio – colpire tutti i siti nucleari, a causa della loro dispersione e mimetizzazione, è una sfida complessa”.
Secondo la ricercatrice, i missili più pericolosi nell’arsenale iraniano sono proprio quelli balistici, basati su tecnologia nordcoreana e cinese. “Sono capaci di trasportare testate nucleari, anche se il loro montaggio non è affatto semplice”, spiega. “È un’operazione molto complessa che richiede competenze avanzate. Il Professor Fereydoon Abbasi, ex capo dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran, recentemente eliminato in un attacco aereo, aveva dichiarato che l’Iran non solo ha la capacità di produrre una bomba atomica, ma anche di montarla su un missile entro poche ore”.
Lo stesso Professor Abbasi ha inoltre dichiarato che l’Iran è in grado di lanciare una “bomba sporca” – un ordigno con elementi radioattivi, ma non classificato ufficialmente come arma nucleare secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. “È proprio questa la strategia adottata dall’Iran negli anni: evitare l’accusa diretta”, spiega Elaluf. “Non usare un’arma nucleare convenzionale, ma una bomba sporca che non rientra nei criteri formali, pur potendo causare danni enormi”.
La conclusione è semplice: se l’Iran continuerà a sentirsi messa spalle al muro, potrebbe decidere di impiegare armi più avanzate. “Tutto dipende dagli sviluppi e dal fatto che gli Stati Uniti si uniscano direttamente alla guerra”, osserva la ricercatrice. “Di fatto, se Israele alzerà il livello, anche l’Iran lo farà. Nella cultura iraniana, perdere è in primis una questione di onore. Già nel 2015, Khamenei scriveva nel suo libro che aspirava a stabilire un’egemonia mediorientale al posto di quella occidentale. Il progetto nucleare è lo strumento per trasformare l’Iran in una potenza regionale. Il primo passo, però, è sradicare quella spina nel fianco del Medio Oriente chiamato lo Stato di Israele”.

(Bet Magazine Mosaico, 17 giugno 2025)

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L’Iran e i finanziamenti a Hamas, Hezbollah e ai ribelli Houthi

Ottolenghi: “Il rischio terrorismo riguarda anche il suolo europeo”

di Aldo Torchiaro

Incontriamo Emanuele Ottolenghi, uno dei maggiori esperti di finanza, terrorismo e reti criminali internazionali. Autore di La Bomba Iraniana (Lindau) e I Pasdaran (FDD) è Senior Advisor di 240 Analytics, impresa di elaborazione dati sul rischio terrorismo e il suo finanziamento.

- Professor Ottolenghi, partiamo dal cuore del suo lavoro: in che modo l’Iran finanzia i suoi principali proxy nella regione – Hamas, Hezbollah e i ribelli Houthi – e quali sono i principali canali di trasferimento del denaro?
  
«Principalmente con trasferimenti di denaro contante, utilizzo del sistema bancario locale, e piattaforme di pagamento elettroniche al di fuori del sistema bancario tradizionale. Poi ci sono aiuti diretti – fornitura di armi e altri mezzi materiali – che comunque costituiscono un trasferimento di valore. Inoltre ci sono mezzi di finanziamento aggiuntivi, provenienti dall’estero, che avvengono tramite ONG, imprese controllate da gregari nella diaspora. Infine c’è il finanziamento che deriva dal riciclaggio del denaro sporco derivante da traffici illeciti, sempre attraverso canali formali e informali assortiti. Per i grandi volumi, il riciclaggio si appoggia a imprese di facciata che trasferiscono valore attraverso commercio di beni di consumo. Le transazioni finanziarie di appoggio passano da più canali – inclusi i circuiti bancari internazionali oltre che i sistemi di pagamento elettronici, le reti di Hawala tradizionali, e le criptovalute».

- Nelle sue ricerche lei mette in luce l’utilizzo sempre più diffuso di strumenti non convenzionali per eludere i controlli. Le criptovalute, in particolare, giocano un ruolo crescente nei finanziamenti alle organizzazioni terroristiche?
  «Esatto. Ci sono già state azioni sanzionatorie da parte delle autorità americane contro reti vincolate al regime iraniano e ai suoi gregari di Hezbollah che utilizzavano criptovalute. Sono strumenti non regolamentati e non particolarmente monitorati. E’ facile coprire le tracce dei loro movimenti. Quindi sono uno strumento attraente per attività finanziarie illecite. Esiste un rischio – la forte fluttuazione dei loro valori – ma con l’aumentare del peso delle criptovalute nella finanza mondiale diventerà uno strumento sempre più frequente anche per chi non rispetta la legge».

- Può darmi una stima attendibile delle armi che l’Iran ha fornito a Hamas, Hezbollah e agli Houthi nell’ultimo decennio?
  «L’arsenale missilistico e di droni di Hezbollah e degli Houthi non esisterebbe senza l’aiuto iraniano. Dall’Iran arriva l’intelligence per identificare e colpire le navi che transitano all’imbocco del Mar Rosso. A Hamas, Houthi, e Hezbollah l’Iran ha fornito addestramento oltre che il know how per costruire tunnel e sviluppare una strategia di combattimento asimmetrico. Gli armamenti seguivano rotte diverse – attraverso Iraq e Siria via terra o cielo per Hezbollah, per esempio – o con navi mercantili che deviavano il loro corso, passato il canale di Suez, per consegnare armamenti via porti siriani. La caduta del regime di Assad in Siria ha stravolto queste rotte lasciando i gregari mediterranei di Teheran in seria difficoltà».

- Dalle sue indagini emergono connessioni sorprendenti tra gruppi terroristici e organizzazioni criminali tradizionali. C’è un coinvolgimento documentato della criminalità organizzata italiana, come ‘Ndrangheta o Camorra, nel riciclaggio di denaro o nel traffico di armi legati all’Iran e ai suoi proxy?
  «Certamente. Hezbollah deriva parte del suo finanziamento dai servizi intermediari che offre alla criminalità organizzata per riciclare il loro denaro sporco. Fonte principale di questi proventi è il traffico di cocaina dall’America Latina e fino a poco tempo fa anche quello del Captagon proveniente dalla Siria. Tra gli assidui clienti di queste mercanzie si incontra tutta la criminalità organizzata europea, compresa la nostra. Non c’è dubbio che Hezbollah giochi un ruolo in questi traffici e ci sono inchieste giudiziarie documentate degli ultimi vent’anni a dimostrarlo».

- Che tipo di relazione strategica lega l’Iran alla Russia sul fronte energetico e militare? In particolare, quali legami ha Teheran con gli oligarchi del gas e del petrolio russi, e come questi rapporti si traducono in vantaggi per le rispettive reti di influenza globale?
  «Si tratta di un’alleanza strategica che in primo luogo permette ai due paesi di aiutarsi a vicenda nell’evadere sanzioni internazionali. I russi dipendono da forniture militari iraniane – compresi i droni usati per terrorizzare la popolazione civile in Ucraina – e gli iraniani dipendono dai russi – per esempio per i loro sistemi antiaerei. Ma la cosa più importante dal punto di vista strategico è che sono due paesi con ambizioni egemoniche e imperiali nei confronti dei loro vicini e che ambiscono a diminuire l’influenza occidentale e sconvolgere l’ordine internazionale a loro beneficio. Da qui sorge un allineamento strategico che va ben oltre il commercio e la cooperazione in ambito militare ed energetico».

- La Cina continua ad acquistare enormi quantità di petrolio iraniano. In che modo questo flusso commerciale permette all’Iran di finanziare indirettamente i gruppi armati affiliati?
  «Senza la vendita del petrolio l’Iran farebbe molta fatica a continuare a sostenere le sue avventure imperiali nella regione, comprese le ingenti spese per sostenere e approvvigionare i suoi gregari. Ciò lo rende molto vulnerabile in questo momento: se Israele colpisse alcuni nodi strategici dell’industria petrolifera iraniana come il terminale dell’isola di Khartoum potrebbe metterne in ginocchio l’intera economia».

- Guardando alle prospettive future: quali rischi corre l’Europa se non riesce a contrastare con efficacia i canali finanziari e logistici che tengono in piedi la rete iraniana del terrore?
  «Intanto c’è il rischio terrorismo sul suolo europeo. Non sarebbe la prima volta e il nostro atteggiamento arrendevole, che gli iraniani hanno sempre saputo manipolare, per esempio con il rapimento di nostri connazionali poi cinicamente usato come pedina di scambio. Poi ci sono i canali di finanziamento che non solo finanziano il terrorismo ma arricchiscono i criminali e alimentano i fenomeni di degrado e rischio legati alla criminalità organizzata. Il problema principale per noi europei è che continuiamo a trattare il problema della criminalità organizzata e del finanziamento al terrorismo come due fenomeni separati. Questo lo si vede anche dal punto di vista degli strumenti investigativi: spesso gli inquirenti non perseguono la pista terrorismo nelle inchieste di mafia perché non hanno gli strumenti di analisi per vedere e capire quel legame».

- Quali strumenti – investigativi, normativi, diplomatici – sarebbero oggi più urgenti da attivare?
  «Occorre una maggior integrazione di dati e analisi tra forze dell’ordine e intelligence. Occorre anche fare maggior uso di strumenti come le sanzioni che gli americani usano da anni con discreto successo. Il settore privato, principalmente quello finanziario, deve potenziare i suoi strumenti di autotutela contro fenomeni di finanza illecita. Il pericolo qui è che il nostro settore finanziario, commerciale, e immobiliare diventi sempre più preda di schemi illeciti. E naturalmente non va dimenticato che questi flussi finanziari vanno poi ad alimentare conflitti destabilizzanti che nuocciono ai nostri interessi».

(Il Riformista, 17 giugno 2025)

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Israele: almeno nove morti e centinaia di feriti nell’attacco iraniano di questa notte

di Luca Spizzichino

È di almeno nove morti e oltre 280 feriti il bilancio dell’attacco missilistico lanciato da Teheran contro Israele alle prime luci dell’alba di lunedì. Decine di missili sono stati sparati dall’Iran verso obiettivi civili in diverse città israeliane, tra cui Tel Aviv, Petah Tikva, Bnei Brak e Haifa.
   L’attacco, iniziato poco prima delle 4:00 del mattino, ha preso di mira diverse città israeliane. A Petah Tikva, un missile ha colpito un grattacielo residenziale, uccidendo quattro persone. Tra le vittime, tre anziani — due donne e un uomo, tutti nella settantina — sono morti nonostante si fossero rifugiati in una stanza sicura (mamad), che è stata colpita direttamente dal missile balistico iraniano.
   “Abbiamo trovato i corpi sotto un cumulo di detriti, nonostante si fossero messi al sicuro”, ha riferito il paramedico MDA Alon Weiss. Poco dopo, i soccorritori hanno estratto senza vita un uomo di 80 anni dai resti di un altro edificio colpito a Bnei Brak, dove è stata danneggiata anche una scuola.
   A Haifa, tre persone inizialmente date per disperse sono state trovate morte sotto le macerie in un quartiere residenziale colpito da un altro missile. A Tel Aviv, due edifici hanno subito impatti diretti, causando oltre 100 feriti, tra cui un bambino di 10 anni in gravi condizioni e un neonato che è stato subito soccorso dagli amici della madre e preso in carico dai paramedici. Una delle esplosioni è avvenuta vicino alla sede dell’ambasciata statunitense. L’ambasciatore americano Mike Huckabee ha confermato che “non ci sono feriti tra il personale USA, ma ci sono stati danni lievi all’edificio a causa dell’onda d’urto.”
   In seguito all’attacco, il Comando del Fronte Interno ha rilasciato aggiornamenti per la popolazione in tutto il Paese, invitando a rimanere in prossimità dei rifugi e a evitare assembramenti. In molte aree, da Gerusalemme al Litorale, dal Gush Dan alla Valle del Giordano, l’allerta resta alta. Le autorità militari hanno inoltre esortato i cittadini a non condividere immagini o video degli impatti per evitare di fornire informazioni utili al nemico.
   L’IDF ha risposto con attacchi aerei su obiettivi strategici in Iran, tra cui siti missilistici e strutture dei Guardiani della Rivoluzione a Teheran. I media iraniani hanno riportato l’attivazione della difesa aerea nei pressi di siti sensibili come Isfahan, Qom e Parchin. Secondo fonti iraniane, anche l’impianto sotterraneo di arricchimento dell’uranio di Fordow sarebbe stato preso di mira.

(Shalom, 16 giugno 2025)

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Era ora

Dopo il primo attacco contro obiettivi in Iran nella notte di venerdì, gli esperti militari sono rimasti impressionati. Sabato, lo storico militare John Spencer ha dichiarato che sarà necessario riscrivere i libri di testo, poiché Israele sta scrivendo la storia militare.
   Il britannico ha elencato i punti salienti: 20 comandanti di alto rango eliminati, tra cui il capo dell'esercito, nove scienziati nucleari di spicco uccisi, la difesa aerea paralizzata, le rampe di lancio dei missili colpite per limitare la controffensiva e gli impianti nucleari protetti colpiti. “Mai visto prima”, ha affermato Spencer.

Preparazione e astuzia
  Israele aveva preparato con grande maestria il colpo contro l'Iran per anni. Il Mossad aveva segretamente installato dei droni vicino a Teheran. Nella notte dell'attacco iniziale sono stati attivati e hanno distrutto le rampe per i missili destinati ad attaccare Israele. Già in ottobre Israele aveva distrutto parte della difesa aerea in seguito al grande attacco iraniano.
   Inoltre, i vertici militari iraniani si erano lasciati cullare: dato che nel fine settimana era previsto il sesto round di negoziati sul nucleare, nessuno a Teheran si aspettava un attacco. I generali uccisi dormivano nelle loro case private invece che nei rifugi.
   L'offensiva di autodifesa è stata tuttavia possibile solo grazie ai recenti sviluppi nella regione: Israele ha indebolito in modo decisivo le cellule terroristiche dell'Iran ai confini del Paese (Hamas, Hezbollah) e nello Yemen (Houthi). In precedenza si temeva che questi gruppi terroristici avrebbero reagito con rappresaglie in caso di attacco all'Iran.

Attacco al centro del terrorismo
  Nella notte tra giovedì e venerdì è stato sferrato un attacco al centro del terrorismo, e questo è un bene. La distruzione di Israele fa parte della “ragion di Stato” della Repubblica Islamica. Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, il Paese ha ormai arricchito uranio per nove bombe atomiche. Secondo le informazioni israeliane, scienziati nucleari hanno condotto con successo esperimenti sulla progettazione di armi atomiche; inoltre, Teheran progettava di fornire armi nucleari a gruppi terroristici.
   L'attacco non è quindi arrivato un giorno troppo presto. Un'arma atomica nelle mani del regime di Teheran sarebbe già abbastanza terribile; nelle mani di gruppi terroristici che agiscono liberamente sarebbe apocalittico. Già all'inizio del suo mandato nel 2009, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva sottolineato che il terrorismo nucleare era “la minaccia più immediata ed estrema per la sicurezza mondiale”: “Un terrorista con un'arma nucleare può scatenare una distruzione massiccia”.

Logoramento
  Ma non è necessario ricorrere al peggiore dei casi per comprendere l'attacco israeliano. Il leader iraniano, l'ayatollah Ali Khamenei, ha descritto il suo punto di vista nel libro “Palestina”, pubblicato nel 2011: per sradicare il ‘cancro’ di Israele è necessaria una “lunga fase di guerra a bassa intensità”, ovvero una guerra di logoramento. La vita degli ebrei in Israele deve essere resa così insopportabile da costringerli ad andarsene.
   Questo tipo di guerra è stato ampiamente osservato negli ultimi anni. Israele ha dovuto affrontare continui attacchi missilistici e altri attacchi terroristici da parte di gruppi terroristici controllati dall'Iran, che nessuna altra nazione tollererebbe. Anche se dal 2011 è in funzione il sistema di difesa missilistica Iron Dome per ridurre al minimo i danni, la vita è comunque rimasta sotto costante minaccia, come nel caso degli attacchi missilistici di Hamas nel maggio 2021.
   Con una bomba atomica, l'Iran agirebbe con maggiore sfrontatezza. Teheran era già riuscita a rafforzare la sua politica anti-israeliana e a sostenere gruppi terroristici come Hamas con i fondi provenienti dall'accordo nucleare del 2015. Il massacro terroristico del 7 ottobre è stato reso possibile anche da questi finanziamenti. Tra i maggiori sostenitori dell'accordo sul nucleare c'era la Germania della cancelliera Angela Merkel, della “Unione Cristiano-Democratica” (CDU).

Negoziati come specchietto per le allodole
  A proposito dell'accordo sul nucleare, alcuni criticano  Israele dicendo che avrebbe dovuto puntare sui negoziati in corso. Ma i colloqui di questo tipo sono sempre stati solo fumo negli occhi. Da decenni l'Iran gioca al gatto e al topo con la comunità internazionale. Già nel 2006 l'AIEA era ormai allo stremo delle forze, tanto da sottoporre la questione al Consiglio di sicurezza dell'ONU. Nel 2003 aveva affermato in un rapporto secondo cui l'Iran svolge attività nucleari segrete da 18 anni.
   Il nuovo rapporto, che denuncia violazioni negli ultimi 20 anni, è quindi solo l'ultimo capitolo di un vecchio dramma, con la differenza che nel frattempo l'Iran ha compiuto notevoli progressi nel suo programma nucleare. Chiunque abbia un briciolo di buon senso sa che Teheran sta abusando dei negoziati per guadagnare tempo al fine di costruire la bomba atomica. Nessuno può chiedere a Israele di aspettare pazientemente.
   La minaccia non riguarda solo Israele, ma l'intero ordine liberale. L'esportazione della rivoluzione fa parte della ragion di Stato dell'Iran. Israele è in prima linea nella lotta tra civiltà e barbarie e sta compiendo grandi sacrifici: nei primi giorni di guerra, numerosi civili sono stati uccisi in Israele dai missili iraniani.
   Nonostante tutte le battute d'arresto, l'apertura dell'offensiva rimane un successo. Tuttavia, l'esito di questa operazione non è affatto chiaro. Per considerare il risultato un successo per Israele, sarebbe necessario almeno un colpo decisivo contro gli impianti nucleari e contro la minaccia proveniente da Teheran.
   Meglio ancora sarebbe un disinnesco duraturo del conflitto, ovvero la caduta del regime. Se il popolo iraniano dovesse cogliere l'attimo e sollevarsi contro il regime, i leader occidentali dovrebbero dimostrare coraggio e schierarsi dalla parte di questo popolo.

(Israelnetz, 16 giugno 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L'Iran conta le ore che mancano alla “distruzione di Israele”

L'Iran non fa mistero di voler distruggere Israele. Ad aprile (2018), il governo di Teheran intende organizzare per la prima volta un festival che segnerà simbolicamente il tempo che manca alla distruzione dello Stato ebraico.

TEHERAN – L'Iran vuole organizzare un festival per celebrare la distruzione di Israele. Martedì l'evento è stato presentato in una conferenza stampa a Teheran. Il festival, chiamato “Festival della clessidra”, sarà dedicato alla “prossima distruzione” di Israele attraverso l'arte e i media. Lo ha annunciato l'ex vice ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian.
   Il “vicino collasso” di Israele sarebbe basato su un piano segreto. Esso esisterebbe dal 2015. All'epoca, la guida spirituale Ayatollah Khamenei aveva annunciato che dal 2040 Israele non esisterà più. Amir-Abdollahian, che è anche segretario generale della “Conferenza internazionale per il sostegno alla Intifada palestinese”, ha affermato di non poter rivelare i dettagli del piano per la distruzione di Israele.
   Il segretario generale del festival, Mahdi Komi, ha dichiarato che “gli organizzatori collaboreranno con 2.400 organizzazioni non governative anti-israeliane in Europa, Nord America, America Latina e Asia orientale”. In questo modo il festival sarà pubblicizzato in tutto il mondo.

Collaborazione mondiale con organizzazioni anti-israeliane
  Il festival inizierà il 21 aprile. Secondo il quotidiano online “Times of Israel”, sul sito web dedicato all'evento si legge: “Il Festival Internazionale della Clessidra è stato fondato con l'obiettivo di raccogliere e presentare produzioni antisioniste di sostenitori della giustizia, monoteisti e musulmani di tutto il mondo, al fine di denunciare le misure brutali e contrarie ai diritti umani del regime di occupazione sionista e dei suoi sostenitori”.
   Gli interessati sono invitati a inviare contributi su temi quali “il regime sionista assassino di bambini”, “Israele, un cancro” o “Israele, un regime artificiale, razzista e colonialista”. Questi possono essere, ad esempio, film d'animazione, app per smartphone, poster o giochi online.
   I contributi inviati saranno valutati. Il vincitore di ogni categoria riceverà 1.800 dollari. Il vincitore assoluto riceverà 2.700 dollari.

(Israelnetz, 2 marzo 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L'Iran minaccia nuovamente di distruggere Israele

Il leader iraniano, l'Ayatollah Khamenei, parla ancora una volta apertamente della distruzione di Israele. I suoi ultimi tweet hanno richiamato l'attenzione dei politici occidentali. Nel frattempo, Israele e l'Iran sono impegnati in scontri virtuali.

di Ulrich W. Sahm

GERUSALEMME / TEHERAN – I leader politici iraniani continuano a esprimere il loro desiderio di distruggere Israele e di “cancellarlo dalla mappa”. Con vignette e festival a tema ribadiscono la loro intenzione. Questa politica apertamente dichiarata dall'Iran è uno dei motivi dei ripetuti avvertimenti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alle Nazioni Unite e a quasi tutti gli ospiti politici stranieri.
  L'esempio più recente sono le dichiarazioni su Twitter del leader iraniano Ayatollah Ali Khamenei questa settimana. Mercoledì ha parlato della “distruzione del regime sionista”. In occasione dell'odierna Giornata anti-israeliana di Al-Quds – che in Israele coincide con la Giornata di Gerusalemme – ha pubblicato una serie di 25 tweet. In essi ha scritto tra l'altro: “Il regime sionista è mortale, un cancro e un danno per la regione. Sarà senza dubbio sradicato e distrutto”.

Israele: nessuno dovrebbe metterci alla prova
  Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto le dichiarazioni venerdì sera. Chi minaccia Israele di distruzione si espone proprio a questo pericolo, ha scritto Netanyahu su Twitter. Il ministro della Difesa israeliano ed ex capo dell'esercito Benny Gantz vede nella minaccia iraniana un “segno di debolezza”. Ha inoltre dichiarato: “Come persona che conosce bene la questione iraniana e che ha preparato le capacità operative dell'esercito israeliano, non consiglierei a nessuno di metterci alla prova”.
  Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha paragonato le dichiarazioni di Khamenei all'appello di Adolf Hitler al genocidio. “Questa depravazione dovrebbe smentire qualsiasi idea che l'Iran appartenga alla comunità delle nazioni. Siamo al fianco della Germania e di Israele contro questa forma di odio più antica e malvagia e diciamo ‘Mai più’”.

UE: la sicurezza di Israele è di fondamentale importanza
  Altri politici occidentali avevano già reagito al tweet di mercoledì. Il capo della diplomazia dell'UE Josep Borrell ha dichiarato di condannare “con la massima fermezza” l'invito a ‘combattere’ Israele. “La sicurezza di Israele è della massima importanza e l'UE sarà al fianco di Israele”. Il ministro della Difesa tedesco Annegret Kramp-Karrenbauer (CDU) ha scritto: “Quando Khamenei invita a ‘eliminare’ Israele, mette a repentaglio la pace e la sicurezza di tutti noi. La sicurezza di Israele non è negoziabile per noi”.
  L'ambasciatore israeliano in Germania, Jeremy Issacharoff, ha tuttavia criticato Borrell. Le sue dichiarazioni non sono state sufficienti, poiché si è parlato solo di “combattere” Israele. “Khamenei non solo ha messo in discussione il diritto all'esistenza di Israele, ma ha anche scritto espressamente di ‘eliminare’ il regime sionista. Il significato di questa affermazione non è riconoscibile nella reazione dell'UE, che dovrebbe essere più che semplici parole”.
  Il portavoce per la politica estera del gruppo parlamentare FDP, Bijan Djir-Sarai, ha chiesto una “nuova strategia per l'Iran” alla luce delle dichiarazioni di Khamenei. Rivolgendosi al ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas (SPD), ha posto la domanda: “Per quanto tempo ancora si intende tollerare la politica aggressiva del regime dei mullah?”.

Attacchi informatici ai siti web
  Ma non si tratta solo di scontri verbali. Ultimamente si sono intensificati i cyberattacchi reciproci tra Israele e Iran. Secondo esperti israeliani, dietro un attacco su vasta scala contro le infrastrutture idriche israeliane ci sarebbe l'Iran. A quanto pare, l'attacco è stato individuato in tempo e respinto con successo. Non sono stati riportati danni.
  Poco dopo, il 9 maggio, secondo un articolo del Washington Post, Israele avrebbe sferrato un massiccio attacco contro i porti iraniani. Anche in questo caso non si sarebbero registrati danni degni di nota. I militari israeliani hanno confermato in modo velato l'attacco, affermando che i danni sono stati “deliberatamente e pianificatamente” ridotti al minimo.

Fantasticherie di distruzione sui media
  Nel frattempo, diverse aziende hanno segnalato alla radio israeliana che il loro sito web era stato hackerato dall'Iran. Le autorità ufficiali non sono state in grado di aiutarle.
  Uno dei siti hackerati appartiene all'organizzazione israeliana “Regavim”, che difende i diritti dei coloni. Il sito è stato ripristinato, ma è rimasto inaccessibile per ore. Al suo posto, su uno sfondo nero, era scritto in ebraico e in inglese: “Il conto alla rovescia per la distruzione di Israele è iniziato molto tempo fa”. Un link rimandava a un filmato con riprese aeree di Tel Aviv e Haifa. Si sentono poi delle esplosioni, mentre i grattacieli appena mostrati sono in fiamme e infine crollano.
  Filmati simili, per lo più brevi sequenze, erano già stati inviati anni fa a destinatari israeliani. Una volta era visibile un mosaico con la scritta “Olocausto”, mentre aerei nemici si avvicinavano e sganciavano bombe atomiche su Tel Aviv. Il messaggio era che gli ebrei di Israele dovevano prepararsi a un secondo Olocausto.

(Israelnetz, 22 maggio 2020 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele: l'Iran ha ingannato l'Agenzia per l'energia atomica

Secondo il governo israeliano, a metà degli anni 2000 l'Iran avrebbe sottratto documenti segreti all'Agenzia per l'energia atomica e li avrebbe utilizzati per i propri scopi. L'Iran respinge queste accuse come false.

GERUSALEMME (inn) – Secondo il governo israeliano, l'Iran avrebbe spiato e ingannato l'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA). Martedì il primo ministro Naftali Bennett (Jamina) ha presentato dei documenti risalenti al periodo tra il 2004 e il 2006 che proverebbero tale accusa. I documenti provengono dall'archivio segreto sull'energia nucleare dell'Iran, che Israele ha sequestrato nel 2018 durante un'operazione dei servizi segreti esteri Mossad.
   Bennett ha dichiarato che l'Iran avrebbe rubato documenti segreti all'AIEA. Grazie a questi documenti, il regime avrebbe potuto scoprire quali prove l'agenzia sperava di trovare sul programma nucleare. Sulla base di queste informazioni, Teheran avrebbe falsificato rapporti e nascosto prove per eludere le indagini dell'AIEA.

“Grave violazione della sicurezza interna”
  Il “Wall Street Journal” ha pubblicato già il 25 maggio un articolo dal contenuto simile. Il quotidiano americano ha fatto riferimento agli stessi documenti che avrebbe ricevuto da “un servizio segreto mediorientale”.
   L'esperto di armi nucleari David Albright ha valutato nell'articolo gli eventi descritti come “una grave violazione della sicurezza interna dell'AIEA”. Il presidente e fondatore dell'Istituto per la Scienza e la Sicurezza Internazionale ha inoltre dichiarato: “L'Iran ha così potuto fabbricare risposte che ammettono ciò che l'AIEA già sa, rivelare informazioni che avrebbe comunque scoperto e allo stesso tempo nascondere meglio ciò che l'AIEA ancora non sa”.

Iran: “I sionisti diffondono menzogne”
  Il giorno dopo la pubblicazione dell'articolo, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian è intervenuto al Forum economico mondiale di Davos. Alle accuse (nel video al minuto 26:30) ha risposto: “Purtroppo i sionisti diffondono molte menzogne”. Israele avrebbe affermato già molti anni fa che l'Iran era sul punto di costruire una bomba atomica. Tuttavia, la costruzione di una tale bomba non sarebbe nemmeno in linea con i valori iraniani.
   Bennett ha affrontato la questione nel suo video di martedì e ha contraddetto questa affermazione: è l'Iran che mente. “L'Iran sta mentendo ancora una volta al mondo. E il mondo deve assicurarsi che non la passi liscia”.
   Nel frattempo, non ci sono progressi nei negoziati sul nucleare. L'inviato speciale americano per l'Iran, Rob Malley, ha recentemente definito “scarse” le possibilità di un ritorno all'accordo sul nucleare. Solo lunedì l'AIEA ha riferito che l'Iran dispone di una quantità di uranio arricchito sufficiente per costruire una bomba atomica. Martedì l'aviazione israeliana ha simulato attacchi contro obiettivi lontani, che gli osservatori interpretano come esercitazioni in vista di un attacco contro gli impianti nucleari iraniani.

(Israelnetz, 1 giugno 2022)

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