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Notizie 16-31 luglio 2017


Valdesi di Calabria, storia di fede e di sangue

In fuga dalla Val Pellice, fondarono Guardia Piemontese, Dopo la strage del 1561 furono costretti a abiurare, ma conservano la lingua occitana i rapporti con la terra d'origine distante mille chilometri e otto secoli.

di Mimmo Gangemi

 
 
Il verde giovane e chiaro delle acacie e delle elci risale compatto i costoni, fino in cima, dove il monte si placa su un contorno ondulato e senza picchi e, qua e là, oppone al cielo ciuffi di alti pini dal grande ombrello, sentinelle immobili lassù, testimoni del tempo qui scorso più feroce che altrove.
  Per giungere a Guardia Piemontese, sull'Appennino Paolano, una breve strada tortuosa, su secchi tornanti, che dalla litoranea tirrenica s'arrampica verso le alture senza perdere di vista il mare.
  In quest'area compressa tra l'orizzonte di cresta e quello d'acqua, lungo fin dove sprofonda il mondo, i Valdesi giunsero nella seconda metà del XIII secolo. Provenivano dalla Val Pellice - in Piemonte, al confine con la Francia. Sfuggivano alle persecuzioni religiose seguite alla scomunica per eresia del movimento fondato da Valdo, in lieve anticipo su San Francesco nella predicazione del Vangelo in povertà. Fermarono le loro vite nelle lande montuose, seppure frettolose di scendere al mare, e incolte che il feudatario Spinelli aveva dato da coltivare, dietro un canone annuo, concedendo di creare comunità esenti dagli obblighi feudali.

 Pacifici e laboriosi
  Fondarono Guardia. Erano agricoltori, pastori, tessitori. Pacifici e laboriosi, praticavano in guardingo silenzio la fede contrastata con la pena di morte dalla Chiesa di Roma. Mantenevano i contatti con i luoghi d'origine attraverso i «barba», predicatori itineranti che si spacciavano per artigiani, commercianti. Parlavano e parlano in occitano, la lingua - guai a dirlo dialetto - che è fusione e variante degli idiomi del versante sabaudo e francese. Vissero in pace finché non aderirono alla riforma luterana e s'opposero alle proibizioni e agli obblighi imposti dal Sant'Uffizio.
  La ribelle Guardia - imprendibile, arroccata com'era attorno alla cinta muraria e al castello - fu espugnata con un inganno simile a quello di Troia: il feudatario Salvatore Spinelli, discendente del predecessore che aveva accolto l'esodo, vi giunse con cinquanta soldati di scorta ad altri cinquanta spacciati per prigionieri e chiese che aprissero le porte per rinchiuderli nelle carceri; i cento, la notte del 5 giugno 1561, introdussero il resto dell'esercito, spagnoli comandati da Caracciolo. E fu strage.
  Uomini, donne e bambini valdesi passati per le spade, cosparsi di resina e bruciati vivi, gettati dalla torre. I più, scannati al modo dei maiali, con il sangue libero di scorrere nelle strade in pendenza, fino al varco nella cinta che da allora prese il nome di «Porta del sangue». «Veniva il boia et li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti gli occhi e poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa et lo faceva inginocchiare e con un coltello gli tagliava la gola et lo lasciava così, poi pigliava quella benda così insanguinata, et col coltello insanguinato ritornava a pigliar l'altro, et faceva di simile».
  I centri valdesi sparsi intorno patirono uguale sorte. Alcuni cronisti dell'epoca stimarono duemila morti, altri si spinsero a seimila. Vittime e eventi terribili che la storia ha taciuto colpevole, a lungo, seppellendoli sotto la spessa polvere della vergogna, dell'indifferenza, del tempo capace d'oblio.
  I superstiti vennero costretti a abiurare la fede e abbracciare il cattolicesimo. Per rendere palese la condizione di ex valdesi e di convertiti, su cui si continuava a dubitare, le donne erano obbligate a indossare stabilmente il «penaglio», un copricapo realizzato con intrecci di corde e che portava alla caduta dei capelli, e un grembiule lungo e ampio sopra l'abito, fosse giornaliero o quello dello sposalizio, per appiattire ogni forma di femminilità; gli uomini dovevano portare il saio di San Benito, di colore giallo e con due croci rosse, una sul davanti, una dietro. In più, a ogni uscio degli abiuranti fu imposta una piccola finestrella apribile solo dall'esterno, per consentire i controlli a sorpresa da parte dei frati domenicani che, per stabilizzare la fedeltà a Roma, dopo la strage lì hanno edificato un grande convento di cui oggi rimane soltanto uno spezzone di muro.

 Il ricordo dei martiri
  I vestiti tradizionali, di uso quotidiano, sono scomparsi da poco, appena trapassate le ultime generazioni che non sapevano rinunciarci.
  Sopravvive tanto dell'antico esodo e della strage. Intatta la lingua, non si è mai smesso di parlare l'occitano, compare anche nelle targhe delle strade e delle piazze, accanto alla dicitura in italiano - piazza Marchese Spinelli / plaça Marqués Spinèli. Mantenuti i contatti con la valle d'origine, distante mille chilometri e otto secoli. Stabile il ricordo dei martiri. Il 5 giugno si celebra la giornata della memoria: sfila un corteo con il gonfalone per depositare una corona di alloro sulla «Roccia di Val di Pellice», il monumento, con un blocco di pietra portato dalla gemellata Torre Pellice, eretto nella piazza dove era il tempio valdese. E non dimenticano, sebbene ora siano cattolici - forse di quelli che torcono il muso, a ragione.
  È diversa la Guardia Piemontese di oggi da quella dei valligiani. È protesa verso il mare giù, rimasto uguale mentre intorno tutto è mutato, con i luccichii della modernità, il disordine e la fretta dell'uomo, la campagna che odora di cemento. Molti dei lontani discendenti dei montanari della Val di Pellice hanno però tradito le alture a favore della marina e l'antico borgo medievale si spopola e annaspa la vita.

(La Stampa, 31 luglio 2017)


Spianata delle moschee. Israele doveva mantenere gli scanner

Lettera al Giornale

Chi è stato a Gerusalemme ed è salito dal Muro del Pianto alla spianata delle Moschee, sa che tipo di controllo la cosiddetta Polizia Palestinese sottopone i visitatori non musulmani. Via tutti i simboli Cristiani e senza neppure tanta gentilezza. Ho avuto modo sulla spianata di avvicinare una coppia di giovani poliziotti israeliani chiedendo loro, meravigliato, cosa facessero armati sulla spianata. «Qui è Terra di Israele, signore». Due di questi ragazzi sono stati assassinati per questo. I palestinesi seri e pacifici, avrebbero dovuto accettare e fare loro la proposta degli scanner. Non lo hanno fatto perché non vogliono controlli.
Roberto Zanella
Verbania (Verbano Cusio Ossola)

(il Giornale, 31 luglio 2017)


Quando l'Isis verrà annientato, sarà l'Iran il vero vincitore della guerra in Siria

di Giampiero Venturi

In Siria le ultime notizie dal fronte concentrano l'attenzione sulla direttrice di Deir Ezzor. Le truppe siriane stringono sulle roccaforti ISIS a ridosso dell'Eufrate, mentre le forze arabo curde delle SDF, supportate dagli USA, cercano di chiudere su Raqqa e avanzare verso sud.
   Dai comandi della Asaysh (le forze di sicurezza curde, allineate alle Syrian Democratic Forces) emerge forte una preoccupazione: se Assad riprenderà il controllo della Siria sudorientale (Governatorato di Deir Ezzor e confine siro-iracheno) sarà l'Iran il vero vincitore strategico della guerra, come già paventato da Israele. La sconfitta dell'ISIS in sostanza sarà la fine di quella piattaforma politico-militare sunnita creata per arginare l'asse sciita tra il Mediterraneo e il Golfo Persico; il vuoto creato, sarebbe inevitabilmente riempito proprio da Teheran.
   Nei fatti, l'attuale peso sciita nelle istituzioni e negli apparati militari iracheni potrebbe permettere una continuità territoriale fra Libano (dove Hezbollah gode di un radicamento crescente sul territorio anche in virtù dei meriti conseguiti contro la jihad sunnita) e l'Iran, passando per una Siria ancora dominata dagli sciiti alawiti di Assad. Sul terreno, questa realtà, anche se non consolidata, già esiste. In considerazione del fatto che il maggiore alleato di Damasco (dopo la Russia) è Teheran, sponsor anche degli sciiti iracheni, s'intuisce il grande risultato strategico per l'Iran che riuscirebbe ad allargare in modo sensibile l'area d'influenza in una regione strategica, soprattutto con riguardo alle riserve energetiche: la provincia di Deir Ezzor è la più ricca di petrolio della Siria e non sono poche le voci in Occidente (e di riflesso nel mondo curdo) che auspicano una resistenza ad oltranza dell'ISIS, pur di evitare maggiori ingerenze iraniane nell'area.
   La valutazione assume maggior valore in considerazione del conflitto politico in corso nel Golfo, dove il Qatar, storicamente sunnita e membro del Consiglio di Cooperazione, sembra ammiccare a Teheran, dividendo il fronte petro-monarchico arabo e creando non poche preoccupazioni all'Arabia Saudita, deus ex machina della rivolta anti Assad e anti sciita in Siria. Le fibrillazioni di Israele in questo senso sono già note, con un picco toccato nel 2015 al tempo degli accordi sul nucleare, allorché la linea occidentale contro l'Iran risultò in concreto ammorbidita rispetto al trend tradizionale. Tel Aviv a questo proposito si muove in autonomia, sganciandosi anche dai piani degli Stati Uniti, apparsi perennemente in ritardo negli ultimi anni sulle valutazioni strategiche in Medio Oriente e non ancorati ad una strategia di lungo periodo costante.
   Israele sa benissimo che la Siria di Assad con un Iraq influenzato dall'Iran ha un peso specifico maggiore di una Siria confinante con un Iraq governato dai sunniti, come era al tempo di Saddam. È il motivo per cui lo Stato Ebraico fino alla Seconda Guerra del Golfo, non ha mai mostrato intenzioni reali di defenestrare Bashar Al Assad, meno minaccioso del padre e obiettivamente molto lontano dai cliché del tipico dittatore arabo. Quando cadde Saddam, colui cioè che osò lanciare gli Scud su Israele, per assurdo fu proprio Tel Aviv a non saltare di gioia. Due nemici in contrasto fra loro (la Siria baathista sciita e l'Iraq baathista sunnita) erano sempre preferibili ad una molteplicità di governi e organizzazioni direttamente collegate ad un solo grade demiurgo: l'Iran.
   Quando la guerra in Siria sarà finita, tra i protagonisti assoluti, molti attualmente risultano sul libro paga di Teheran. Su tutti: Hezbollah, che vanta un enorme credito a Damasco e un accresciuto know how militare; il cartello delle milizie sciite irachene (PMU) che si sono distinte contro il Califfato e tengono ora in pugno il governo di Baghdad. A questi si aggiunge proprio Assad, ad oggi unico vero vincitore militare della guerra contro il terrorismo islamista in Siria.
   Il Medio Oriente del futuro prossimo vedrà allora come protagonista l'Iran? Se le crepe nel mondo arabo sunnita sussisteranno, è indiscutibile che il ruolo di Teheran sia destinato a crescere. In questo senso le scelte dell'Egitto saranno decisive: l'ex nemico storico dell'Iran potrebbe continuare una politica di avvicinamento (nonostante il nodo Qatar) a Teheran, aumentando il disorientamento delle cancellerie occidentali.
   La grande incognita sarà dunque la reazione di Israele, in attesa di politiche USA coerenti e di un cenno dalla Russia, unica potenza in grado di poter garantire il contenimento dell'Iran entro i limiti accettabili per Tel Aviv.

(Difesa online, 31 luglio 2017)


Tensione fra Siria e Israele. E nel Golan arrivano i russi

 
Lo sviluppo della guerra in Siria mostra chiaramente che, sconfitto lo Stato Islamico, il problema fondamentale resta la definizione dei rapporti di forza nel Sud della Siria. È il confine meridionale del Paese, quello fra Siria e Israele, a essere il nodo da sciogliere per comprendere le dinamiche del prossimo futuro del Medio Oriente. E gli spostamenti delle truppe coinvolte nel conflitto dimostrano inequivocabilmente come tutto il consesso internazionale sia consapevole del ruolo fondamentale di quel confine. E non a caso una delle più importanti zone di de-escalation in Siria è proprio lì, nel crocevia naturale fra Damasco, Israele, Libano e Giordania. Un'area in cui l'esercito siriano e i suoi alleati di Hezbollah hanno assestato un duro colpo alle forze dei ribelli e dove Israele ha interesse affinché sia le forze libanesi che quelle siriane stiano lontane dal suo territorio.
  A destare maggiore preoccupazione in questo senso è una regione fondamentale nello scacchiere mediorientale e che è rimasta una ferita aperta tra Siria ed Israele: le alture del Golan. Siria e Israele non si scontrano per il possesso della regione dal 1974, dopo che le Nazioni Unite intervennero con la missione UNDOF per formare una fascia di protezione che evitasse scontri tra gli eserciti siriano e israeliano dopo la guerra dello Yom Kippur. Da decenni la zona è considerata de facto israeliana, anche se de iure, e secondo il dritto internazionale, essa appartiene alla Siria, che è l'unico Stato ad avere diritto alla sovranità su quel territorio. Israele non ha mai riconosciuto la legittimità della posizione siriana ed ha sempre considerato le alture come un'area di sua sovranità, nonostante la condanna dello stesso Consiglio di Sicurezza con la risoluzione 497.
  Con la guerra in Siria, le alture del Golan sono tornate d'importanza centrale nei rapporti fra gli Stati coinvolti nella guerra che da sei anni sconvolge il Paese. Israele teme l'avanzata dell'esercito di Damasco verso le alture, ma soprattutto è preoccupata dallo schieramento di forze di Hezbollah e iraniane insieme a quelle siriane, e che potrebbero rappresentare una minaccia molto seria per la posizione di Israele in quella regione. E a conferma della centralità delle alture del Golan nel futuro dei rapporti tra Siria e Israele, arrivano le parole del rappresentante per la Siria all'ONU, Bashar al-Yafari, che durante una riunione del Consiglio di Sicurezza sulla questione siriana, come riporta l'agenzia SANA, ha affermato che "le alture del Golan continueranno a far parte della Siria e torneranno alla patria" ed ha ricordato che "la Siria ha il diritto ad esercitare la sovranità sul Golan ed è un diritto non negoziabile." Le parole di al-Yafari arrivano in un momento molto delicato e dimostrano come vi sia assoluta necessità che sia risolta la questione prima che possa scatenarsi una guerra che coinvolga non solo i due Stati, ma anche le forze alleate: in particolare Hezbollah, che per Israele resta il pericolo maggiore, come confermato anche dalle ultime dichiarazioni provenienti da Washington, e che rappresenta in realtà il vero obiettivo dell'impegno israeliano nello stesso conflitto in Siria.
  Non a caso, proprio per comprendere la centralità del Golan nel futuro della Siria, Vladimir Putin ha imposto che quella zona di de-escalation nel sud della Siria fosse sotto il controllo delle truppe russe, consapevole che la Russia sia l'unico Stato in grado di bloccare le forze sciite e nello stesso tempo di fermare i tentativi d'infiltrazione da parte di Israele. Come riporta il sito d'intelligence israeliano DEBKAfile, le forze russe, composte di circa ottocento uomini, sarebbero già arrivate a otto chilometri dalle postazioni israeliane nel Golan, poco più a est della città di Quneitra. Secondo quanto riportato dal sito, che cita fonti militari israeliane, la maggioranza delle truppe russe presenti nell'area sarebbe di fede islamica, provenienti da Dagestan, Cecenia e Inguscezia. Israele ha protestato attivamente a Washington per il dispiegamento delle forze russe, che Israele considera un modo per tutelare Hezbollah e forze iraniane nel sud della Siria e per dare supporto politico alle strategie siriane riguardo alle stesse alture del Golan.
  E proprio per marcare la volontà del governo di Tel Aviv di non accettare alcuna modifica dello status-quo delle alture, il primo ministro Benjamin Netanyahu, il ministro della Difesa Avidor Lieberman e il Capo di Stato Maggiore, Gady Eisenkott, hanno visitato la base della Divisione Bashan nel Golan per una relazione sulla distribuzione delle forze russe a pochissimi chilometri dagli avamposti israeliani. La speranza per il futuro della regione è che la Russia, con le sue truppe a fare da cuscinetto, possa bloccare sul nascere una guerra che potrebbe incendiare non soltanto quel confine, ma propagarsi in tutto il Medio Oriente e investire Iran, Golfo Persico, Mediterraneo e forse anche gli stessi Stati Uniti. Con conseguenze difficilmente calcolabili.

(Gli Occhi della Guerra, 30 luglio 2017)


Milano - Ebreo accoltellato. «Nessuna pista. Caso chiuso»

Sono destinati a restare un mistero il movente e l'autore dell'accoltellamento del rabbino Nathan Graff, il 12 novembre 2015 in viale San Gimignano. Dopo oltre un anno e mezzo di indagini il pm Enrico Pavone ha deciso di chiedere l'archiviazione del fascicolo.
   «Sono stato aggredito in quanto ebreo, ma non credo che Milano sia una città antisemita», aveva detto dall'ospedale l'esponente della comunità ebraica milanese. E pochi giorni dopo l'aggressione davanti a un ristorante kosher era stato organizzato un corteo di solidarietà. Il movente terroristico o antisemita però era stato il primo ad essere escluso con ragionevole certezza dagli inquirenti. Tutte le altre piste sono state seguite, da quella professionale a quella personale, e il lavoro della Squadra mobile non si è mai fermato.
   La polizia aveva diffuso un identikit dell'uomo che quella sera si era avventato da dietro e con il volto coperto su Graff, colpendolo con sette coltellate. A terra erano state trovate alcune macchie di sangue che non appartenevano alla vittima. Il campione era quindi stato confrontato con l'unico indagato per lesioni, un uomo che vive nelle vicinanze, ma con esito negativo. Niente di utile alle ricerche era emerso dalle telecamere di sorveglianza né dalle testimonianze. Allo stesso modo il rabbino 42enne non aveva fornito ipotesi concrete su chi potesse essere il colpevole e su suoi eventuali nemici.
   Una volta evaporata la pista delle macchie di sangue quindi, e visto che in mano a chi ha indagato non è rimasto altro, la Procura non ha potuto che chiedere che il caso venga archiviato. Toccherà al gip decidere se accettare l'istanza del pm, cui comunque la parte lesa può opporsi, oppure ordinare ulteriori accertamenti. CBas

(il Giornale, 30 luglio 2017)


Carlo Cattaneo (1801-1869). Liberale in difesa degli ebrei

Prima che sulla iniquità etica, il padre del federalismo denuncia i danni delle discriminazioni per l'intera società.

di Gaetano Pecora

Gli inizi non furono fulminei. Aveva già percorso metà della propria strada e del suo nome nessuno (o quasi) ragionava. Poi... Poi capitò un fatto che gli mise in moto la macchina dei pensieri e che lo rivelò anche a se stesso. Cosa era successo? Era successo che l'atto di compra-vendita col quale nel 1835 i fratelli Wahl - ebrei naturalizzati francesi - avevano acquistato un podere in terra svizzera, e precisamente nel Cantone di Basilea, fu colpito d'invalidità dalla pronunzia del Gran Consiglio che così mandava ad effetto la norma proibente agli israeliti il possesso degli immobili. Tanto bastò. Fu come la scintilla in una dinamo. Carlo Cattaneo, che allora aveva trentasei anni, in quell'episodio, che s'ingranava di gusto con la sensibilità (feroce) del tempo e che faceva così aspra la condizione degli ebrei, proprio in quell'episodio lì trovò d'istinto il piglio che sarà suo, e che gli farà commentare l'accaduto con pensieri dove c'era già lui, lui completamente, come era allora e come poi sarebbe stato sempre. Lui, lui che stava sull'essenziale e non amava affatto cincischiare con le parole di nebbia (da dove spesso stillano gocciole di cattiva oratoria), poteva mai - lui, Cattaneo - querelarsi contro l'ingiuria patita dagli ebrei suonando nelle trombe degli eterni, immortali principi della Verità e della Giustizia? No, che non poteva. E infatti eccolo venir fuori con le Interdizioni israelitiche (ora riproposte da Castelvecchi con l'ottima introduzione di Gianmarco Pondrano Altavilla) dove, prima ancora che sulla iniquità etica, la sferza scende roteando sulla dannosità sociale delle discriminazioni anti-ebraiche che perciò si ritorcevano contro coloro stessi che quelle discriminazioni promuovevano e organizzavano in sistemi giuridici. A parte il pregiudizio immediatamente economico - l'agricoltura, per dire, aveva bisogno del capitale dei banchieri e dei commercianti; ma quale banchiere e quale commerciante vi avrebbe investito anche una sola moneta se poi proprio ad essi, in quanto ebrei, veniva proibita la proprietà fondiaria? - a parte dunque il danno economico, vi era anche un altro nocumento che le interdizioni si tiravano dietro: quando una società viene livellata su una misura unica, quando tutti sono cacciati a forza nello stampo di una norma ufficiale da cui gli incongrui, gli eterodossi e gli eretici sono spazzati via, allora precisamente quella società si perde l'occasione viva del progresso. Perché il progresso è scintilla che scocca dall'urto di pietre dure. Togliete l'urto, spegnete il conflitto, ed avrete fissato gli uomini nella più rugginosa delle immobilità. «La varietà è la vita, e l'impassibile unità è la morte». Così ieri Cattaneo. E così noi oggi che, sperimentati dalle vicende trascorse, una cosa - magari una cosa sola - dovremmo pur saperla: ed è che se il sistema liberale non è realtà scolorita, se parla ancora alla sensibilità degli uomini, è proprio perché ha ancora un principio da consegnare alla loro umanità. E in fondo in fondo, il principio è tutto qui: se vogliamo risparmiarci l'anchilosi mentale, bisogna organizzare le cose in modo da difendere non la verità di qualcuno contro l'errore di ogni altro, ma il diritto di tutti a perseguire ognuno la sua verità. Certo, i tutti non saranno mai veramente e completamente tutti perché arriva un momento che anche nel più generoso sistema liberale cade come una sbarra nera dove è scritto: "da qui non si passa". E quanto debba essere estesa questa zona vietata, nessuno può dire in anticipo mutandosi essa col mutare delle vicissitudini storiche. Ma intanto il principio esiste (il che ripara dall'accusa di nullismo scettico che gli viene rovesciato sul capo). E poi: la difficoltà stessa dell'applicazione, non depone già per la nobiltà dell'idea?

Carlo Cattaneo, Interdizioni israelitiche, introduzione e cura di Gianmarco Pondrano Altavilla, Castelvecchi, pagg. 133, € 19.

(Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2017)


Dal mensile evangelico "Il Cristiano" (1888-2017)

Continuiamo la pubblicazione di brevi notizie e commenti tratti dal mensile evangelico "Il Cristiano".

GENNAIO 1929
Notizie sull'opera del Signore nella Palestina

Cari amici,
Avendo passato lo scorso inverno in Palestina, posso darvi alcune notizie interessanti, riguardanti questo paese.
   Salpammo da Napoli su un vapore americano, e giungemmo al porto di Haifa. Quando tutti i grandi lavori per la costruzione del nuovo molo saranno terminati, e quando l'approfondimento del bacino permetterà l'entrata di grandi navi, questo porto d'imbarcazione diventerà il più importante della Palestina. Una bella città moderna sta sorgendo sulle falde del Monte Carmel. L' opera del Signore in Haifa é assai incoraggiante. Vi sono dei convertiti fra i Palestinesi, fra gli Ebrei e fra i profughi Armeni. Circa venti persone erano riunite intorno alla Tavola del Signore alla domenica mattina al culto, ma l'adunanza d'evangelizzazione della sera riuscì più numerosa. L'Evangelo fu predicato in tre lingue: in Ebreo, in Armeno, e in Arabo. Durante la settimana andammo ad una adunanza tenuta in una casupola del quartiere Armeno. Era commovente vedere e sentire quei poveri e sofferenti profughi, cantare inni di lode al Signore, seduti in terra. Parecchi di essi sono credenti molto zelanti e sono stati battezzati nel torrente Chilson. Da Haifa ci dirigemmo in automobile verso il mare di Galilea; la bella strada che dovevamo seguire attraversava l'altipiano di Esdraelon, largo tratto di terra che fu campo di molte battaglie narrate nell'Antico Testamento, e che sarà nel futuro il luogo della grande battaglia di Armageddon. Dopo secoli di abbandono, è ora in parte coltivato; i coloni Ebrei hanno ivi edificate abitazioni, piantato alberi, seminato il grano.
   Lasciando l'altipiano, scendemmo nella valle per una ripida strada, e qui apparve Nazareth con le sue bianche casette annidate sulle falde della collina. Oh ! come i nostri cuori si commossero a quella vista! Dietro al villaggio altre colline si elevano in linee graziose sullo sfondo del cielo: su quelle colline camminò un giorno il nostro Signore ed in quei luoghi Egli visse dall'infanzia fino alla virilità!
   Ci fu detto che gli abitanti di Nazareth hanno dei modi graziosi e gentili, modi che non si riscontrano affatto negli altri luoghi della Palestina: si direbbe che la storia veramente santa del luogo abbia influito sul loro carattere; però sono poverissimi. Le donne fanno dei merletti fini e bianchi che offrono ai forestieri che passeggiano per le strette vie del villaggio.
   Ci fermammo in una strada e, rievocando la vita del Signore, ci domandammo: "Perchè mai passò Egli trent'anni della Sua vita in questo piccolo villaggio?"" Una donna, che ci stava davanti con i suoi merletti, disse lentamente : "Perchè Egli ci ha amati!". Questa risposta suonò dolce alle nostre orecchie ì; non fu infatti l'amore per noi che spinse il Signore a soffrire come "l'Uomo dei dolori?".
   Alla distanza di quattro chilometri da Nazaret si trova il villaggio di Cana di Galilea: guardando il piccolo sentiero pietroso che mette in comunicazione i due villaggi, ci sembrava di scorgere il Signore mentre andava alle nozze con i Suoi discepoli. Il piccolo villaggio è mal costruito
   e povero, ma neppure là manca un testimonio per Cristo. È il figlio dei proprietari di una casetta, convertito durante il suo soggiorno in Inghilterra. L' udimmo predicare l'Evangelo in Haifa.
   il sole stava per tramontare quando giungemmo alle rive del Mar di Galilea. Quanto è bello questo piccolo lago! Le sue acque calme ed azzurre sembrano parlare della pace e dell'amore del nostro Signore : sulla montagna di faccia Egli saziò le 5.000 persone, e su quelle acque Egli raggiunse i Suoi discepoli nella navicella travagliata dalle onde.
   Albergammo in un monastero abbandonato presso il lago. La sola persona che dimora là dentro è un "Padre incaricato di coltivare il podere con l'aiuto di alcuni lavoratori che gli sono molto affezionati. Presso il Mar di Galilea trascorremmo i giorni più belli del nostro soggiorno in Palestina. Ogni mattina, con il Nuovo Testamento in mano, andavamo alla vicina Betsaida; mèta delle nostre passeggiate fu anche Capernaum, presso le cui rive, a non molta distanza, si vedono le rovine della Sinagoga edificata dal Centurione Romano (Luca VI). Tutto l'edificio è ora una massa ingombrante di pietre e marmo, ma una società archeologica ha ora incominciato a ricostruire una parte della colonnata e l'estremità occidentale è già completata. La terra che copriva l'antico pavimento è stata rimossa, scoprendo lastre di marmo bianco. Mentre stavamo guardando, un vecchio monaco spagnuolo, guardiano di queste rovine, ci disse:
   "I piedi del nostro Signore avranno certamente camminato su queste lastre". "Sta bene - gli risposi - noi però siamo nati troppo tardi per vederlo qui, ma Egli ritornerà un giorno e allora Lo vedremo a faccia a faccia". "Si, signora - rispose il vecchio monaco - Egli ritornerà, quest'anno forse, o l'anno venturo". Non ci aspettavamo una risposta simile, che indicava, che anche costui, attendeva il ritorno del nostro Signore.
   Desiderando che la mia lettera non sia troppo lunga, non darò particolari della nostra visita a Damasco, della lunga corsa tra le nevi, attraverso le montagne del Libano, per arrivare alle grandiose rovine del tempio idolatrico di Baalbec, che si dice edificato da Salomone. Sulla costa marittima vedemmo Beirut, Tiro e Sidon, e finalmente, attraverso i monti, arrivammo a Gerusalemme. Quanto è magnifica la sua posizione!
   Vedendola, mi tornarono alla mente le parole del Salmo 125: "Come Gerusalemme è intorniata di monti, così il Signore è intorno al Suo popolo, da ora in eterno". Questa città è la più sacra del mondo per ogni credente, perchè là morì per noi il nostro Signore, e Gerusalemme ricostruita sarà eventualmente "la città del Gran Re" (Matt. V, 35; Salmo XL VIII,2).
   Per ora Gerusalemme è "edificata come una città che è ben congiunta insieme" (Salmo 122); le sue strette vie sono popolate da Arabi, Giudei, Europei, che parlano le loro lingue diverse. Questa gente cosmopolita, con le sue varie credenze religiose, ha costruito per superstizione grandi tempi in luoghi considerati santissimi. Sul Monte Moria, per esempio, che é la parte più alta della città, i Mussulmani hanno edificata la grande Moschea di Omar, conservando intatta, dentro il centro della Moschea, la nuda roccia che è la vetta della montagna, e che la tradizione considera come il luogo sacro dove Abrahamo offerse Isacco (Gen. XXII,2), venduto in seguito a Davide per edificarvi un altare. Salomone poi vi costruì il magnifico Tempio di Geova, conservando dentro il sacro recinto la roccia che doveva servire da altare per gli olocausti. Si vedono ancora, intagliati nella roccia, i canali che dovevano condurre il sangue nel condotto sottostante; la roccia è nel suo stato naturale, e giace nella semi-oscurità, circondata da un alto cancello, sotto il centro della Basilica Maomettana.
   In una galleria sotterranea della Moschea si trovano giacenti nel buio le pietraie dalle quali gli operai di Salomone traevano i blocchi di pietra per la costruzione del Tempio. Sono cave immense; la pietra è di una purezza meravigliosa, bianca come la neve; i pezzettini che io raccolsi per portar via, brillavano alla luce del sole. Che visione gloriosa doveva dare quel candido Tempio!
   In Gerusalemme fummo ospitati dai signori Shelley, cari credenti, che fanno della loro casa un centro per i figli di Dio. È qui appunto che un gruppo di credenti di varia nazionalità si raduna intorno alla Tavola del Signore alla Domenica mattina. Con questi cari signori visitammo i dintorni. Ci spingemmo sino a Betleem ed a Gerico, da dove vedemmo il Mar Morto.
   In vicinanza della città visitammo il Monte degli Ulivi, Getsemani e il Calvario; quest'ultimo mi interessava più di ogni altro luogo in Gerusalemme.
   In mezzo alla città vi è una strada lunga e stretta, la "Via Dolorosa" che conduce alla "Porta di Damasco", una delle porte della città. Giunti qui avemmo di faccia il Calvario e ricordammo le parole: "Gesù ha sofferto fuor della porta" (Ebrei XIII, 12). Questa collina rocciosa, alta circa 18 metri e larga 45 metri, ha due piccole cavità a forma di occhi ed una fessura rassomigliante ad una bocca. Per questa ragione venne chiamato " Luogo del Teschio " o Calvario. Qui il Signore fu crocifisso.
   Nè cappella, nè monumento sta ad indicare questo luogo sacro, ma quanta riverenza solenne esso ci suscita nel cuore quando pensiamo a Colui che vi soffrì e vi morì per noi.
   A nord del Calvario e più sotto vi è un giardino dove vecchi olivi e sentieri ombrosi danno un senso di riposo. È chiamato "il giardino della Risurrezione". È molto ben tenuto; una signora che abita una villa in quel luogo ne prende cura. Il giardino è proprietà Inglese. Qui vi troviamo un sepolcro: la roccia del Calvario termina con un altro dirupo alto 14 metri circa. Per una parte tagliata nella roccia, si entra nella tomba, lunga circa 9 metri. Senza dubbio questo fu il sepolcro di famiglia di un ricco, costruito in modo da contenere tre tombini, di cui uno solo è stato completamente terminato e incavato nel muro laterale. Non esiste nessun altro sepolcro sul monte del Calvario, e questo corrisponde esattamente alla descrizione dell' evangelo di Giovanni "Or nel luogo ove Egli fu crocifisso era un orto, e nell'orto un monumento nuovo, ove niuno era stato ancora posto (Giov. XIX, 41).
   Non posso esprimere con parole la profonda commozione che vinse i nostri cuori quando, entrati nel sepolcro guardammo quella tomba vuota! Quanto è meraviglioso pensare che il Signore della vita scese nella morte e nella tomba. Le parole: "Perchè Egli ci ha amati" mi ritornarono alla mente e con gratitudine mi inchinai in adorazione davanti a Colui "che mi ha amato e ha dato Sè stesso per me".
   Sono, cari amici,
   Vostra affezionatissima in Cristo E. D. G. O.

(Notizie su Israele, 30 luglio 2017)


Yeshivat Akotel

Nella Città vecchia di Gerusalemme una scuola che può ospitare fino a 500 studenti da tutto il mondo

 
Yeshivat Akotel
Situata nella Città Vecchia di Gerusalemme, di fronte al monte del Tempio, la Yeshivat Akotel è senz'altro uno dei luoghi più caratteristici nei quali poter studiare tutto quanto concerne l'ebraismo. Affacciata sul Muro occidentale, dove regolarmente tutti gli allievi si recano a fare tefillà ogni venerdì sera, è un istituto religioso e sionista, con la maggior parte degli studenti iscritti al programma israeliano Hesder, che combina diversi anni di studio con almeno quindici mesi di servizio militare. Fu fondata nella città vecchia poco dopo la guerra dei sei giorni dal Rav Aryeh Bina, che voleva cementarvi una presenza ebraica, a causa dell'instabilità della situazione politica del luogo in quel periodo.
   "La yeshiva fu fondata 3 mesi dopo la guerra dei Sei giorni, a Tishà beav. Cominciò in una piccola casa con 6 studenti e pian piano si ingrandì" racconta a Shalom Rav Tuvya Lifshitz, direttore didattico della scuola.
   L'istituto si trasferì quindi nella sua sede permanente all'inizio degli anni '80, dove è tuttora collocato. I 3125 metri d'estensione rendono il nuovo edificio il più grande del quartiere ebraico, e l'altezza di 32 metri sopra la piazza del Muro occidentale - con l'aggiunta della grande bandiera israeliana che sventola in cima al tetto - il punto più alto della Città Vecchia. Il Beit Midrash recentemente rinnovato può ospitare quasi 500 persone in qualsiasi momento: i dormitori sono progettati per ospitare 350 studenti e in aggiunta ci sono 14 appartamenti per famiglie e ospiti. "Provengono da tutto il mondo, e molti di loro studiano per arrivare alla semichà per la rabbanut. In tanti che qui si sono formati sono ora rabbini, morim e sblichim in giro per il globo" dice di questi Lifshitz.
   È infatti disponibile nella yeshivà un programma in lingua inglese e, dal 2006, uno analogo destinato agli studenti portoghesi e spagnoli che, oltre all'integrazione con gli israeliani, offre un ampio programma in Talmud, Tanakh, Machshava, Halacha e Mussar. Nella scuola molti sono anche i talmidim provenienti da Roma, i quali sottolinea il Rav "contribuiscono allo speciale legame tra la Yeshivat Akotel e Roma".
   Nei nostri templi si trovano infatti ben due librerie dedicate a studenti della scuola - al Bet Shmuel a Iochai Lifshitz e al tempio dei Parioli a Eviatan Turgeman.
   Costanti sono le collaborazioni tra la Yeshivà ed il collegio Rabbinico Italiano, ultima delle quali il seminario su "Yerushalaim a 50 anni dalla sua riunificazione" con diversi oratori provenienti dalla scuola. Dopo la lezione di Rav Riccardo Di Segni su "Yerushalaim nel Talmud e nel midrash", è stato infatti il turno della conferenza di Rav Lifshitz "Io mi rallegro quando mi si dice ... " (Tehillim 112: 1) un canto in onore di Yerushalaim nel giorno della sua festa"; e quella di Rav Ron Klopstock docente della Yeshiva, "Il canto sarà per voi come nella notte in cui si consacra la festa ... (Isaia 30:29); Lode e ringraziamento al S. a Yerushalaim all'epoca del re Chizkiayu e ai nostri tempi".

(Shalom, luglio 2017)


Paesi arabi e del Golfo: dialogo possibile solo se il Qatar ferma il finanziamento al terrorismo

MANAMA - I ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto riuniti oggi a Manama hanno ribadito la loro disponibilità ad avviare colloqui con il Qatar a condizione che vi sia dalla controparte la volontà di fermare i finanziamenti e il sostegno al terrorismo. Nella conferenza stampa congiunta organizzata al termine della riunione con al centro la lotta al terrorismo e la crisi con il Qatar, i ministri dei quattro paesi arabi e del Golfo hanno sottolineato tuttavia che al momento non vi sono ragioni per essere "ottimisti" su una risoluzione in tempi brevi della crisi con Doha a causa del comportamento della controparte. "I quattro paesi confermano che tutte le misure adottate fanno parte del dovere di sovranità e sono in linea con il diritto internazionale", ha dichiarato il ministro degli esteri del Bahrein Sheikh Khalid Bin Ahmad al Khalifa. Nella conferenza stampa congiunta, i ministri dei quattro paesi hanno confermato la loro risolutezza a pretendere il rispetto da parte del Qatar delle richieste inviate nelle scorse settimane che includono la chiusura dei rapporti con l'Iran e la chiusura dell'emittente televisiva pan-araba "al Jazeera".
  Nella riunione di oggi a Manama i quattro paesi boicottatori hanno confermato che il Qatar ha fornito in questi anni un rifugio sicuro per i terroristi, invitando nuovamente Doha a soddisfare le 13 richieste. Durante l'incontro i quattro paesi arabi e del Golfo hanno condannato anche la politicizzazione del pellegrinaggio dell'Hajj da parte di Doha. Parlando ai giornalisti, il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ha dichiarato che Riad non risparmierà alcun sforzo per rendere possibile la partecipazione dei pellegrini del Qatar ai riti dell'Hajj, che si terrà nel mese di settembre.
  Lo scorso 5 giugno i quattro paesi arabi hanno annunciato la rottura dei rapporti diplomatici con Doha, ritirando i propri ambasciatori. La mossa ha visto anche la chiusura dello spazio aereo, che per i paesi del Golfo ha implicato l'interdizione delle acque territoriali. Riad ha inoltre chiuso il proprio confine terrestre con il Qatar impedendo di fatto qualsiasi transito di merci. Alle misure hanno aderito finora tra gli altri anche Eritrea, Mauritania, Maldive, Senegal, il governo yemenita del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi e l'esecutivo libico non riconosciuto di Al Baida. Giordania, Gibuti, Ciad, Niger hanno declassato invece le proprie rappresentanze diplomatiche. Paesi come Iran e Turchia si sono schierati con il Qatar promettendo anche l'invio di derrate alimentari.
  Lo scorso 23 giugno le autorità del Kuwait, che svolgono un ruolo di mediazione, hanno consegnato al Qatar una lista di 13 richieste presentate dai paesi del Golfo per porre fine alla crisi. Tra le richieste avanzate dai paesi per la ripresa delle relazioni diplomatiche col Qatar, che dovevano essere soddisfatte da Doha entro 10 giorni (con scadenza il 3 luglio), vi erano la chiusura dell'emittente televisiva "al Jazeera" e la fine dei rapporti con l'Iran. Una terza richiesta riguardava la chiusura della base militare turca in Qatar e la fine della cooperazione tra Ankara e Doha. Le autorità del Qatar hanno annunciato che considerano "irragionevoli" e "ostili" alla sovranità nazionale le 13 richieste. La crisi che sta coinvolgendo il Qatar e gli altri paesi della regione potrebbe durare a lungo con gravi rischi, non solo sul piano diplomatico ed economico.

(Agenzia Nova, 30 luglio 2017)


Sfida intra islamica

Le violenze a Gerusalemme sono il frutto di odio anti ebraico e lotte nell'islam politico.

di Daniel Mosseri

BERLINO - Il dietrofront del governo israeliano sulla decisione (seguita all'attentato terroristico dello scorso 14 luglio) di installare metal detector per l'accesso al Monte del Tempio a Gerusalemme non è servita a riportare la calma nella città santa. Anche questo venerdì di preghiera islamica è stato segnato dalla tensione, con ampie proteste dei palestinesi contro le restrizioni imposte da Israele per l'accesso alla moschea di al Aqsa. Ricalcando in maniera mediatica la mappe medievali orbis terrae sviluppate a partire dall'antica città di David, da due settimane Gerusalemme è dunque tornata al centro del mondo. "Si tratta di una copertura del tutto esagerata rispetto all'entità dei fatti in corso". Per Kobi Michael, ricercatore senior dell'Inss (l'Institute for National Security Studies presso l'Università di Tel Aviv), l'attenzione dei media, "soprattutto di quelli occidentali", per le vicende gerosolomitane rivela che il Muro del pianto e le moschee non sono il vero oggetto del contendere ma "il riflesso di una campagna ben organizzata da parte dell'islam politico".
   Secondo Kobi, il primo artefice di questa campagna è "lo sceicco Raed Salah, capo del Movimento islamico", un chierico che da oltre vent'anni istiga all'odio anti ebraico, e fa della creazione del Califfato con capitale Gerusalemme il suo cavallo di battaglia, invitando alla jihad ora da un'università ora da un carcere israeliano al grido di "al Aqsa è in pericolo". Non è un caso che i tre attentatori che hanno ucciso due soldati israeliani il 14 luglio venissero da Umm el Fahem, località israeliana roccaforte di Salah. La sanguinosa provocazione iniziale, però, è stata accolta e fatta propria dai soliti noti: Hamas, l'Autorità palestinese e poi nella Turchia di Erdogan.
   Perché sette anni dopo l'inizio della primavera araba, spiega ancora Kobi, che è stato anche ex responsabile del desk palestinese del ministero degli Esteri israeliano, "il medio oriente va letto con occhi diversi: non sono più gli stati a contare ma i fronti in campo". Sul versante arabo e islamico i protagonisti regionali sono quattro: "l'Islam politico con Salah, Hamas, e la Turchia" (tutti espressione della Fratellanza musulmana); "gli sciiti radicali con l'Iran, la Siria e i loro alleati" (come Hezbollah in Libano e gli houthi in Yemen); "i jihadisti sunniti come l'Isis e al Qaida; e infine i paesi sunniti moderati" (come Marocco, Egitto, Arabia Saudita e monarchie del Golfo). E se nell'iconografia medievale Gerusalemme era il baricentro fra Europa, Asia e Africa, oggi la città santa è diventata l'oggetto del contendere fra i protagonisti islamici, accomunati solo dal comune nemico: Israele. "Gerusalemme - riprende Kobi - si presta benissimo all'abuso", diventando il fulcro, per esempio, del braccio di ferro fra Erdogan e la Giordania, il cui re si fregia del titolo di protettore dei luoghi santi cristiani e musulmani. Ieri Erdogan, presidente di turno dell'Organizzazione della cooperazione islamica (Oic), ha convocato una riunione dei ministri degli Esteri dell'organizzazione a Istanbul il 1 agosto per discutere di Gerusalemme. Per un motivo uguale e contrario, pochi giorni fa il re saudita Abdallah aveva definito l'installazione dei metal detector "un esercizio di routine".
   Scontro simile è quello che ha visto coinvolti Abdallah e Abu Mazen, il presidente palestinese. "Re Abdallah è furibondo con Abu Mazen", osserva Kobi, ricordando che il primo ha cercato di gettare acqua sul fuoco mentre il secondo sta cercando di cavalcare le proteste anti israeliane per togliere spazio a Hamas. "Abu Mazen non perde occasione per dimostrare di non essere un partner per la pace", dice Kobi aggiungendo però che la strada in rivolta si accorgerà presto di chi conta e chi no.
   In mezzo a questo braccio di ferro islamico a squadre, il governo israeliano sconta il repentino cambio di rotta sui metal detector. "Un errore e una prova di debolezza", dice Kobi.

(Il Foglio, 29 luglio 2017)


Smartphone alla guida, la polizia USA adotta il textalyzer

Un dispositivo messo a punto dall'azienda israeliana Celebrite

Sulle strade di New York presto sarà sperimentato il "textalyzer", un dispositivo elettronico che consentirà alla polizia di accertare se un autista coinvolto in un incidente fosse al telefono alla guida. Messo a punto dall'azienda israeliana Celebrite promette che non ci sarà nessun rischio per la privacy e tutelerà ogni info personale, comprese foto, messaggi, mail e perfino la cache.
La nuova attrezzatura high tech prende il nome dal "breathalyzer", come è conosciuta negli Usa la cosiddetta "prova del palloncino" per misurare il tasso dell'alcol nel sangue di chi guida. Il "textalyzer" servirà ad accertare se il guidatore era distratto dallo smartphone al momento dell'incidente. Nulla potrà sfuggire a questo innovativo dispositivo, compresi post su Facebook, tweet, telefonate, ricerche online, foto, WhatsApp, sms e quant'altro fornisce la tecnologia odierna. L'idea nasce dalla constatazione che nella sola città di New York dal 2011 al 2015 sono morte 12 persone per un uso irresponsabile del telefonino al volante.
"Siamo stati i primi ad adottare una legge sui caschi per motocicli, una cintura di sicurezza per i passeggeri anteriori e una legge sui telefoni cellulari", ha dichiarato Terri Egan, vice-commissario delegato del Dipartimento per i veicoli a motore di Stato. "Come comitato vogliamo assicurarci - ha concluso - di esaminare attentamente tutti gli impatti di 'textalyzer' per garantire al meglio la sicurezza pubblica e l'effettiva applicazione della legge nel rispetto della privacy".
Il governatore di New York, Andrew Cuomo, prima di metterlo all'opera vuole vederci chiaro. Per questo motivo ha costituito un comitato di studio per esaminare se il dispositivo possa sollevare questioni legate alla privacy, costituzionali o giuridiche. Ma l'impressione è che nei prossimi anni l'uso del textalyzer potrà essere adottato in diversi Paesi.

(Tutto Motori, 28 luglio 2017)


A Bayreuth, Wagner antisemita

La sua ouverture dei "Maestri Cantori" risuonava ad ogni evento a cui partecipasse Hitler. Le sue opere sono sempre messe all'indice in Israele

di Roberto Giardina

 
Barry Kosky
BERLINO - Anche a Bayreuth, come dire a casa sua, si sono accorti che Richard Wagner era antisemita. Il Festival si è aperto sotto la pioggia con I maestri cantori di Norimberga, l'unica opera in cui il compositore sembra voler sorridere, e mostra un certo senso dell'umorismo. Diciamo, quasi una commedia. Sigfrido venne arruolato di forza dal regime come primo eroe ariano, ma i Meistersinger era sorprendentemente l'opera preferita da Adolf Hitler. Il Führer l'amava più del ciclo nibelungico. L'ouverture dei Maestri Cantori durante il III Reich risuonava a ogni evento a cui partecipasse Hitler.
   Fu Ernst Hanfstangl, chiamato Putzi dagli amici, anche se era alto oltre un metro e 90, a affinare i gusti musicali di Adolf, già quando era un giovane esaltato e sconosciuto, e a insegnargli le buone maniere a tavola. Putzi, nato nel 1887, apparteneva a una delle famiglie più note di Monaco, il nonno aveva fatto fortuna con le riproduzioni d'arte, sua madre era americana, lui andò a studiare a Harvard, divenne amico del figlio del presidente Roosevelt, evitò di andare in guerra, e tornò in patria nel 1919. Conobbe Hitler ovviamente in birreria, e ne fu affascinato. Fu sempre lui a regalare al futuro Fuhrer una Bibbia di Lutero, e il monaco ribelle, si sa, era un feroce antisemita. Era un abile pianista, e un giorno Hitler gli chiese di suonare al pianoforte l'ouverture dei Maestri Cantori, e si mise a saltellare eccitato per la stanza dirigendolo come un direttore d'orchestra. E fu sempre Putzi, si racconta, a condurlo a Bayreuth. Tutti i Wagner si lasciarono sedurre da Hitler.
   Adesso bisogna citare la vecchia battuta di Woody Allen «quando ascolto Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia», e ricordare che le sue opere sono sempre all'indice in Israele. A me personalmente non piace, e questo non interessa nessuno, ma penso che si possa distinguere tra l'uomo e l'artista. Molti altri non sono d'accordo. Ora, il regista Barrie Kosky, australiano con radici ebraiche, ha messo in scena i Meistersinger, quasi come un'opera buffa, con una forte dose di tipico umorismo ebraico. «Quando mi fu proposto, dissi di no, poi ci ripensai, confessa, ma ho evitato di mettere in scena lager e croci uncinate».
L'opera si apre nel salotto di casa Wagner a Bayreuth, esattamente il 13 agosto del 1875, alle 12,45, il termometro segna 23 gradi. Il maestro torna dopo aver portato a spasso i suoi cagnolini, lo attende il suocero Liszt, l'amata Cosima, ed Hermann Levi, figlio di un rabbino. Wagner è antisemita ma gli affida la direzione del suo Parsifal. Quando un ebreo ha talento, lo sfrutta. Si prova i Maestri Cantori, e i Wagner, i suoi familiari, interpretano i personaggi dell'opera. Un'idea geniale del regista. Il padrone di casa diventa un tiranno antisemita, Levi con una maschera da ebreo come nelle caricature, ghigno e naso adunco, viene umiliato sul palcoscenico. E l'ultimo atto va in scena nella sala del processo ai criminali nazisti, a Norimberga. Un corto circuito della storia.
   Putzi divenne portavoce di Hitler per la stampa estera, cercò di fargli sposare la figlia dell'ambasciatore americano a Berlino, per giungere a un rapporto pacifico con gli Usa. Era uno snob, si faceva confezionare le camicie brune a Londra, era odiato dagli altri nazisti. Per scherzo minacciarono di paracadutarlo nella zona rossa durante la guerra di Spagna. Lui comprese e fuggì a Londra nel 1937. Durante la guerra divenne consigliere del presidente Roosevelt, come esperto di psicologia del nemico. Lui lo conosceva bene. Nelle sue memorie, sostenne di non essere un entusiasta della musica di Wagner. E di non essere antisemita. Non è sicuro che fosse la verità.

(ItaliaOggi, 29 luglio 2017)


Trentamila e rotti

di Rav Alberto Somekh

Rav Alberto Somekh
Nell'Ebraismo i concetti di "legge" e "etica" sono interdipendenti: noi dobbiamo imitare i tratti della Divinità. Come la Divinità si colloca al massimo della perfezione etica, così noi dobbiamo seguire il Suo esempio. Nello stesso capitolo 19 di Wayqrà la Torah ci invita ad amare "il prossimo tuo come te stesso" (v. 18), a "non stare inerte dinanzi al sangue del tuo prossimo" (v. 16) preoccupandoci della sua sicurezza e a non trascurare la giustizia: "Non aver riguardo per il misero e non trattare con sussiego il potente. Con equità giudica il tuo prossimo" (v. 15). Tanto il concetto legale che quello etico di giustizia derivano in ultima analisi dalla stessa fonte: "Come Egli è misericordioso, anche tu devi essere misericordioso. Come Egli persegue la giustizia, anche tu devi perseguire la giustizia" (Sotah 14a). Vi sono eventi dinanzi ai quali chi detiene una responsabilità politica, morale o religiosa sente di dover intervenire. Nella fattispecie il sottoscritto è stato anche parziale testimone: "Se non parla, ne porterà la trasgressione" (Wayqrà 5,1). Mi riferisco a quanto accaduto in una piazza centrale di Torino la sera del 3 giugno scorso. Era in corso la diretta di un importante evento calcistico: il panico suscitato da un falso allarme ha prodotto un morto e oltre millecinquecento feriti fra la numerosa folla. I fuggitivi, lasciando le scarpe sul terreno, si sono tagliati con i cocci delle bottiglie di birra precedentemente distribuite a dispetto dell'ordinanza di divieto. Per la cronaca: fra questi ultimi anche tre giovani israeliane. Quanti erano in tutto gli spettatori davanti al maxischermo? Trentamila e rotti. Nel vero senso della parola.
   Lo ammetto: sono tra coloro che ritengono che per ospitare eventi del genere ci sono gli stadi. Polemizzo apertamente con chi ribatte che le piazze sono a disposizione dei cittadini. Non a qualsiasi costo. Poche sere prima la lettura pubblica di brani dalle opere di Umberto Eco in una piazza attigua non aveva destato alcun problema. Superfluo rilevarlo. Non tutte le manifestazioni sono uguali. Rispettare i cittadini significa tener conto anche di quella signora ultrasessantenne che pur non avendo alcun interesse agonistico si trovava a transitare per i fatti suoi nel posto e nel momento sbagliato: essa è stata coinvolta suo malgrado, riportando serie ferite. Lo stadio è degli sportivi; la piazza è e deve essere di tutti. I Maestri del Talmud sentenziano che chamira sakkanta me-issura: "II pericolo richiede maggior rigore persino di una proibizione della Torah" (Chullin 10a). Due aspetti ulteriori hanno destato la mia perplessità, come cittadino a mia volta e persino come ebreo, avvezzo ormai a certi problemi. Anzitutto ho constatato l'assenza di qualsiasi dispositivo di sicurezza che filtrasse l'afflusso sulla piazza prima dell'inizio dello spettacolo. Mi si obietterà che introdurre anche dei semplici metal detector sarebbe stato impossibile, proprio perché la piazza è di tutti. Ragionando così non ci si avvede della contraddizione: chi si fa garante dell'accesso indiscriminato deve anche preoccuparsi della incolumità di ciascuno. Ma soprattutto si prende la responsabilità di esporre la folla al capriccio dei folli, come proprio la cronaca più recente in giro per il mondo testimonia. Ho il diritto di pretendere che la pubblica autorità si faccia carico della protezione di ogni singolo individuo. Se non ho questa garanzia, che fiducia posso ancora nutrire nelle istituzioni? Anche sotto questo aspetto gli stadi sono già strutturati per un accesso controllato e dispongono di vie d'uscita adeguate.
   Passeggiando nella zona poco prima che la partita avesse inizio ho ancora notato le vagonate di birra che arrivavano sotto gli occhi assenti delle forze dell'ordine, nonostante un'ordinanza ne avesse proibito la distribuzione. Le bevande alcoliche, si sa, infiammano gli animi. Ma qualche volta il contenitore può rivelarsi non meno pericoloso del contenuto. E così è stato. Senza i vetri delle bottiglie il bilancio dei feriti sarebbe stato assai più ridotto e il lavoro di recupero molto meno gravoso. Mi è sovvenuto il raffronto con quanto avviene negli aeroporti: non mi si venga più a raccontare che una mamma che sale sull'aereo con il biberon per il proprio bambino mette a repentaglio la sicurezza del volo!
   C'è peraltro un'affermazione singolare che ho sentito ripetere. "Occorre educare la folla a contenere le proprie reazioni", asserisce qualcuno. Non occorre aver letto i Promessi Sposi per rendersi conto che le emozioni del profanum volgus ben difficilmente si prestano a essere governate a priori. La paura fa parte del vivere umano. Nel nostro caso la folla ha reagito con piena consapevolezza del rischio che correva e quindi, per paradossale che sia, con maturità. Aggiungo che la cultura piemontese, tradizionalmente educata alla compostezza e alla solidarietà, ha evitato danni addirittura peggiori. Avrei trovato molto più preoccupante un atteggiamento statico e passivo: se il pubblico non si fosse mosso avrebbe dimostrato di non capire niente. Un ulteriore spunto di riflessione per i nostri amministratori.
   Non ho nulla contro il gioco del pallone. Nelle fonti rabbini che se ne parla già dal Medioevo (Tos. Betzah 12a; Resp. R. Moshe Provenzalo, Mantova, sec. XVI, Orach Chayim, Il. 53). Ben venga, nella misura in cui si tratta di una manifestazione di coesione e di civiltà. Ma non pensiamo che il "dio calcio" ci protegga da tutti i mali. Purtroppo abbiamo constatato che questo non è vero.

(Pagine Ebraiche, agosto 2017)


La Storia della St. Louis: la Nave di rifugiati Ebrei rifiutata dagli USA nel 1939

di Matteo Rubboli -

 
Due donne guardano da un oblò della nave durante il periodo in cui fu ormeggiata a Cuba
 
Il Capitano tratta lo sbarco di alcuni passeggeri con degli ufficiali Belgi
 
Due bambine all'oblò della nave, in attesa di conoscere il proprio destino:
 
Una foto sulla St. Louis. Quasi tutti i protagonisti morirono in un campo di concentramento nazista
In seguito alla "notte dei Cristalli" del Novembre del 1938, durante la quale moltissimi luoghi di culto ma anche negozi e case private di persone di religione ebraica vennero distrutti, fu chiaro che la vita in Germania era diventata impossibile per le vittime delle leggi razziali di Norimberga del 1935. Chi riuscì a scappare lo fece con mezzi propri, magari raggiungendo paesi vicini in cui le leggi razziali non erano state promulgate, quindi ad esempio non l'Italia dove erano in vigore dal Settembre del 1938. Il governo del Reich, spinto da pressioni internazionali, concesse il visto a tutti gli ebrei desiderosi di lasciare il paese.
  Fra i tanti, poco meno di migliaio tentarono di raggiungere l'America con una nave di nome St. Louis, che partì da Amburgo e attraccò a Cuba il 13 Maggio del 1939, con il suo carico di 936 rifugiati, persone che fuggivano a quella che sarà riconosciuta come la più terribile persecuzione razziale della storia. A Cuba si consumò un dramma unico, fatto di burocrazia e corruzione. Ai passeggeri vennero chiesti 500 dollari di visto da rifugiati, che la maggioranza di loro non possedeva.
  Il presidente del paese era allora un Federico Laredo Brò, che aveva promulgato poco tempo prima un decreto legge, il numero 55, che regolamentava il danaro richiesto ai rifugiati, appunto 500 dollari, rispetto a quello che non veniva chiesto ai turisti. Manuel Benitez era l'allora ministro dell'immigrazione, e decise di definire "turisti" gli ebrei a bordo, chiedendo una tangente di 150 dollari per lo sbarco, che soltanto 29 di essi riuscirono a pagare.
  Benitez riuscì a vendere i permessi soltanto sino a quando il decreto non venne aggiornato con il numero 937, che definiva la differenza fra turisti e rifugiati e obbligava al pagamento dei 500 dollari ai passeggeri della nave. La St. Louis fu quindi costretta a levare l'ancora in direzione della Florida, negli Stati Uniti.
  Il racconto di ciò che accadde non è certo, ma sicuri furono i risultati che si ottennero. Dagli Stati Uniti sembra che vennero effettuate numerose telefonate verso Cuba per convincere il presidente ad accettare gli immigrati. L'insuccesso della mediazione diplomatica obbligò gli Stati Uniti ad una decisione diretta:

 Accettare o rifiutare i rifugiati ebrei?
  La decisione fu quella di rifiutarli, sia perché non potevano esser considerati turisti, sia perché eccedevano le quote di immigrazione rispetto a quelle promulgate nel 1924. L'unica speranza di salvezza certa della nave era sfumata, ed al capitano Gustav Schröder, tedesco antinazista, non rimase che tentare ogni strada diplomatica per assicurare lo sbarco dei propri passeggeri.

 Dopo gli USA, il Canada
  Alla St. Louis non sarebbe stato difficile raggiungere il Canada, ma anche lì il primo ministro William Lyon Mackenzie King decise di non accettare il 900 passeggeri come rifugiati. Nel mentre la stampa internazionale diede notizia della nave, che sembrava non trovare un modo per far sbarcare i passeggeri, ma non organizzò una campagna mediatica a sostegno dei passeggeri che non riuscivano a trovare un rifugio sicuro.
  Al capitano Gustav Schröder, dopo aver ricevuto il rifiuto da altri paesi centro e sudamericani, non restò che dirigere la propria nave in Europa. Estremamente convinto a non riportare i propri passeggeri in Germania, dove sarebbero stati tutti perseguitati, decise che l'ultima carta sarebbe stata l'affondamento volontario della St. Louis lungo la costa dell'Inghilterra, costringendo gli inglesi ad accettare i profughi ebrei come rifugiati.
  Durante il viaggio di ritorno però, con anche l'intermediazione degli Stati Uniti (colpevoli di non aver accettato i passeggeri della nave), il capitano riuscì a trattare diverse quote di persone per ogni stato anti-nazista. Nel mese di Luglio la nave attraccò ad Anversa, in Belgio, e i passeggeri furono spediti in diverse nazioni limitrofe:
  • 288 furono accolti dall'Inghilterra, che li fece arrivare sbarcati da altri piroscafi
  • 224 trovarono rifugio in Francia
  • 214 in Belgio
  • 181 dai Paesi Bassi
In totale, 907, oltre le 29 che erano già sbarcate al sicuro a Cuba.

 Le persecuzioni in seguito alla conquista nazista
  Purtroppo non tutti i rifugiati raggiunsero un porto sicuro. Coloro che si stabilirono in Francia, in Belgio e nei Paesi Bassi furono in seguito rastrellati dai nazisti dopo la guerra lampo del Maggio del 1940. Avevano viaggiato mezzo mondo e avevano visto dall'oblò della nave il miraggio della libertà, ma furono costretti a tornare in luoghi che Hitler era riuscito a conquistare.
  Dei 936 passeggeri iniziali, in molti riuscirono a sfuggire l'odio nazista. In totale, secondo le stime dello "United States Holocaust Memorial Museum" di Washington, furono assassinati nei campi di concentramento 254 persone, fra cui molti bambini. Persone che si sarebbero salvate se Cuba, gli Stati Uniti o il Canada gli avessero aperto le porte. Costoro furono vittime dell'odio nazista ma anche del rifiuto di accoglienza da parte di molte altre nazioni
  Di particolare interesse è l'account Twitter St. Louis Manifest, che mostra le fotografie delle persone uccise dai nazisti, corredate dalle indicazioni biografiche e dal luogo della morte. Nei mesi scorsi ha ottenuto un grande riconoscimento internazionale, con migliaia di condivisioni.

(VanillaMagazine, 29 luglio 2017)


Lodo Moro. «Nelle carte il mandante di Bologna»

Parla Fioravanti. Ai microfoni di Radio Roma Capitale l'intervista all'ex Nar: «I documenti ancora segretati riscontrano il Lodo Moro e la pista palestinese».

Gli sos a ridosso della strage
C'è la prova che i nostri 007 temevano un attentato imminente
Il patto della morie
L'accordo con i terroristi arabi evidentemente è ancora vigente

In una intervista a Francesco Vergovich di Radio Roma Capitale, l'ex Nar Valerio Fioravanti, condannato per la strage di Bologna ( anche se in pochi ormai credono alla sua responsabilità per l'attentato del 2 agosto 1980) interviene sullo scoop del Tempo che ha riaperto clamorosamente la «pista palestinese». A proposito delle carte ancora top secret dopo quasi 40 anni presso i nostri servizi segreti, Fioravanti ha esordito dicendo che il direttore Chiocci ha avuto «il coraggio di raccontare, cosa rara nel nostro paese, di alcune carte secretate che sembra siano molto esplicite sul contesto dell'estate del 1980 (l'anno della strage, ndr).Queste carte sono negli archivi dei servizi segreti, sono consultabili da pochi mesi solo da parlamentari muniti di particolare autorizzazione e questi parlamentari hanno il divieto assoluto di parlarne divulgarle fotocopiarle. Chiocci è venuto a sapere di queste carte ne ha fatto un riassunto e in un'altra puntata oggi (ieri, ndr) ha chiesto ai parlamentari che lui ritiene le abbiano viste una conferma. Hanno trovato una cosa che è stata negata a lungo, una serie di fonogrammi dell'anti-terrorismo che si trovava a Beirut. I capi dell'allora terrorismo palestinese erano molto arrabbiati con l'Italia per motivi che Chiocci spiega bene», ovvero la violazione del «Lodo Moro». l'accordo fra terroristi e governo italiano a non compiere attentati in cambio del libero transito nel nostro Paese di armi e esplosivi. A ridosso dell'agosto 1980 «vennero mandati documenti dai vertici dei nostri servizi al governo che un attentato era in preparazione, che era imminente e che probabilmente era stato affidato non a un gruppo terroristico medio orientale ma a un gruppo di terroristi internazionali loro affiliato. E che guarda caso corrisponderebbe alla descrizione del gruppo di Carlos, uno dei nomi emersi circa dieci anni fa».
   Fioravanti osserva che queste carte «descrivono un movente» che al processo di Bologna ancora manca nonostante la promessa, contenuta nella sentenza, di cercarlo negli anni a venire. «Con un'inchiesta bis - afferma Fioravanti - i giudici dicevano che troveremo il resto del gruppo, troveremo gli esecutori, il movente e il mandante e anche il fornitore dell'esplosivo». Tutti «dettagli» mai più cercati e trovati. «Le carte che pubblica Il Tempo - continua - sembrano dare un mandante ben preciso, che dovrebbe essere Gheddafi all'epoca sponsor e protettore di un certo tipo di terrorismo. Danno anche un esecutore materiale che dovrebbe essere questo gruppo terroristico fondamentalmente tedesco ... Dovrebbe dare anche l'origine dell'esplosivo... insomma dà tutte le cose che mancavano nell'inchiesta bis, mancavano perché sono state cercate solo nell'ambiente neo fascista. E la cosa si va a ricongiungere dopo molti anni con una frase enigmatica di Cossiga che disse si tratta di un "incidente dei palestinesi". Il termine incidente nel linguaggio cossighiano poteva dire un po' di tutto». Quanto al ruolo degli 007 italiani alleati dei terroristi palestinesi impotenti difronte alla decisione di attuare una ritorsione contro l'Italia per l'arresto del palestinese Saleh, Fioravanti taglia corto: «Noi siamo abituati a dividere i servizi segreti in buoni e cattivi .. e invece in questo caso hanno nascosto qualcosa di importante .. e hanno collegato a dei depistaggi, in questo caso contro di me, per carità, va capito perché lo abbiano fatto. I motivi dati sembrano credibili in quegli anni l'Italia nel mediterraneo e nel medio oriente era ufficialmente alleata di Stati Uniti e Israele ... ». E a proposito del Lodo Moro, chiosa: «Il lodo, aggiornato e rivisto, è ancora in piedi. Il fatto che l'Italia abbia un accordo con i vecchi leader del terrorismo .. che ci forniscono informazioni per la nostra sicurezza anche oggi è sotto gli occhi di tutti. Lo sanno e ne parlano tutti gli analisti . Lo raccontano nei convegni, l'Italia ha un rapporto privilegiato con i terroristi degli anni '80 che nel frattempo sono passati a fare altro». Per questo, chiosa, «le carte vengono tenute nascoste». Fra. Far.

(Il Tempo, 29 luglio 2017)


Apertura straordinaria e visita guidata alla Sinagoga di Livorno

La Sinagoga di Livorno
In occasione di Effetto Venezia 2017 sabato 29 luglio alle ore 22.00 apertura straordinaria e visita guidata della moderna Sinagoga di Livorno. E' necessaria la prenotazione al 3208887044 o alla mail amarantaservice@tiscali.it (costo euro 5,00). La moderna Sinagoga di Livorno è un esempio di architettura religiosa moderna di grande valore. L'esterno drammatico contrasta con l'interno armonioso e conviviale. L'architetto romano Angelo Di Castro fa della moderna Sinagoga di Livorno un tempio di luce, mutevole a seconda delle stagioni e delle ore del giorno, ricco di simboli. Dal simbolo più drammatico della Shoà al simbolo dell'Esodo e quindi della Libertà evidente nella struttura della Sinagoga che ricorda la Tenda del deserto. Durante la visita guidata sarà illustrata la storia della Comunità ebraica di Livorno. Gli Ebrei sono presenti a Livorno sin dalle sue origini, chiamati dal Granduca Ferdinando dei Medici per contribuire al progetto politico economico culturale della città nuova. Sono imprenditori, mercanti, studiosi. Il rabbino Chayim Yossef David Azulay( Chidà) definisce la comunità ebraica livornese colta e raffinata rispetto alle altre comunità europee rozze e incolte. A Livorno si stampano libri in ebraico, vi è un'importante scuola rabbinica, vi sono rabbini di fama mondiale come Koriat o Benamozegh. A Livorno nasce una nuova lingua : il bagitto, lingua per comunicare ma anche per rappresentare perché usata anche da scrittori come Lopez e Bedarida. Questa importante presenza la possiamo riscontrare ancora oggi nel cibo, nel vernacolo, nella toponomastica.

(gonews.it, 28 luglio 2017)


Israele, trovata rara cisterna di epoca assira

Una struttura muraria con una cisterna di epoca assira, antica di 2.700 anni, è stata scoperta nel centro di Israele, nei pressi di Rosh Ha'ayin. Lo ha annunciato il 20 luglio scorso la IAA, Israel Antiquities Authority.
Secondo Gilad Itach, direttore degli scavi per IAA, l'antico serbatoio d'acqua svolgeva una funzione cruciale per la sopravvivenza degli abitanti della regione durante le stagioni secche prolungate. "Nell'antichità, la raccolta e lo stoccaggio di acqua piovana erano una necessità fondamentale - sottolinea Itach -. Con una pioggia annua misurabile in 500 millimetri, le precipitazioni invernali della zona potevano facilmente riempire l'immenso serbatoio" oggi ritrovato....

(Mosaico, 28 luglio 2017)


Scontri alla Spianata delle moschee. Gerusalemme in stato di allerta

In migliaia hanno accolto la chiamata dei leader religiosi alla preghiera ad al-Aqsa

di Rolla Scolari

 
Rolla Scolari
Le forze di sicurezza israeliane sono in stato di allerta, in anticipazione della preghiera islamica di oggi alla moschea di al-Aqsa. Da settimane le tensioni continuano a crescere attorno alla spianata delle moschee, quella zona della città vecchia di Gerusalemme che gli ebrei chiamano Monte del Tempio e i musulmani al-Haram al-Sharif, il Nobile Santuario.
   Nelle scorse ore, le autorità israeliane hanno rimosso controverse misure di sicurezza installate all'entrata della spianata, tra cui metal detector. Erano state introdotte dopo che il 14 luglio tre arabi-israeliani armati avevano ucciso lì due uomini della sicurezza israeliana. La presenza dei metal detector ha fatto infuriare leader religiosi e fedeli musulmani, che hanno iniziato un boicottaggio, pregando al di fuori dell'area. Dopo giorni di pressioni anche internazionali, Israele ha revocato le misure, e ieri i leader musulmani locali hanno incitato i fedeli a tornare a pregare in massa ad al-Aqsa. Migliaia di persone hanno accolto la chiamata. Ci sono stati scontri con la polizia israeliana, un centinaio di persone sono rimaste ferite. A preoccupare le autorità è soprattutto la preghiera di oggi: i movimenti politici rivali palestinesi, Fatah e Hamas, hanno mobilitato i loro sostenitori, chiedendo loro di recarsi a pregare ad al-Aqsa e a manifestare in Cisgiordania e Gaza, e il timore di nuovi violenti scontri è alto. Le tensioni legate ai luoghi sacri di Gerusalemme si sommano a quelle in arrivo dalla Giordania, Paese custode dei santuari islamici della città. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ieri ha visitato i parenti di tre israeliani uccisi da un palestinese in un insediamento della Cisgiordania la settimana scorsa. E per il giovane responsabile dell'attacco di Halamish lo stesso Netanyahu ha chiesto la pena di morte. Sempre ieri, il re giordano Abdullah II si è recato dalla famiglia del 16enne ucciso da una guardia dell'ambasciata israeliana pochi giorni fa. E ha utilizzato parole insolitamente forti, spiegando come tutti nel regno fossero infuriati per il comportamento «inaccettabile e provocatorio» del governo di Netanyahu. Secondo le autorità, la guardia israeliana ha sparato al 16enne dopo essere stato assalito con un cacciavite. A far «infuriare» la monarchia sarebbero state le lodi di Netanyahu alla guardia, al suo ritorno in Israele.
   Nelle tensioni di queste ore è entrato anche un altro scontro regionale, quello tra Paesi del Golfo e il Qatar: il canale satellitare al-Jazeera, emittente del piccolo emirato, ha promesso di fare causa a Netanyahu se questi andasse avanti con il suo progetto di chiudere la sede di Gerusalemme, accusandolo di sostenere l'embargo regionale contro il Qatar. Il premier ha minacciato la chiusura dell'ufficio dopo aver accusato l'emittente di incitare alla violenza con la sua copertura degli eventi di Gerusalemme.

(La Stampa, 28 luglio 2017)


Israele offre la pace: via i metal detector. E ora i musulmani tornano sulla Spianata

Il tentativo di calmare le acque. Oggi il test durante la preghiera islamica. Importante il ruolo di Giordania ed Egitto. Le telefonate con Trump del re saudita Salman

di Fiamma Nirenstein

 
GERUSALEMME - Sono già due giorni che i metal detector denunciati come un ennesimo tentativo da parte israeliana di controllare, sottomettere, forse distruggere la Moschea di AI Aqsa sono stati smantellati. Ma solo ieri Muhamad Hussein, il gran muftì, ha annunciato che il boicottaggio iniziato il 14 di luglio è finito e che si può tornare a pregare sulla Spianata. Anche Abu Mazen fa sapere che si può andare di nuovo nel luogo santo a genuflettersi di fronte a Allah. Molti musulmani, così, ieri pomeriggio si sono precipitati in cortei trionfanti alla Moschea, festeggiando quella che appare come una capitolazione di Israele di fronte al terrorismo islamico e alle pressioni esercitate da tutto il mondo. Data la passione per le congiure e le cospirazioni, c'è anche chi dice che è tutta una finta e che gli israeliani già si ingegnano di trovare altre strade di controllo: per esempio Al Jazeera ha detto che macchine da presa nascoste spiano e filmano coloro che vengono frugati e li mostrano nudi ai poliziotti israeliani. Una storiella come quella dei delfini-spia che adorna la mitologia anti israeliana.
   La verità è più complicata e più semplice, e ha una dimensione regionale strategica: due blocchi si sono mossi subito dopo l'attacco terrorista palestinese che il 14 luglio ha lasciato sul terreno due guardie israeliane uccise e poi i loro assassini, e che poi ha condotto all'orrido eccidio della famiglia Salomon sterminata a Halarnish. L'inizio è un classico del terrorismo islamico, che ha avuto seguito nel grande funerale d'onore che si è tenuto per i tre terroristi, lodati come shahid su tutta la stampa palestinese, di Hamas e di Fatah: si tratta dei tre giovani Iabarin che decidono di «salvare» Al Aqsa, di «morire per» AI Aqsa, in seguito all'incitamento senza limiti che disegna gli ebrei come oppressori. Se li abbia aiutati l'Isis o Hamas o abbiano avuto aiuti da fuori Israele, non fa niente. È la loro formazione stessa che porta al terrorismo. Tanto per non dimenticare, Abu Mazen per esempio parlò del fatto che gli ebrei «calpestano la spianata coi loro piedi sudici». Ma dopo il 14 Arafat chiamò la brigata terrorista dei «martiri di Al Aqsa», Quando nel luglio si presenta l'opportunità di un risveglio di massa, mondiale, contro Israele per le Moschee, si muovono due campi, quello che ha interesse allo scontro e quello che non lo vuole. Netanyahu agisce razionalmente quando affida alla polizia il compito di sorvegliare gli ingressi, ma deve poi rinunciarvi per ragioni strategiche sovrastanti: la complicazione giordana del giovane terrorista ucciso dal membro dell'ambasciata, stava per privarlo di un membro importante del club della pace, il re Abdullah. La soluzione della rinuncia ai metal detector porta al ripristino della normale gestione giordano-palestinese della Spianata.
   Nel frattempo si erano mossi per una guerra totale tutti gli amici dei Fratelli Musulmani: in testa, inopinatamente, Erdogan, sempre alla ricerca del perduto impero Ottomano, del ruolo di leader di tutti i musulmani: dalla Turchia ha minacciato, condannato, ribadito il suo invito all'islam a considerare come sua la questione di Gerusalemme; Hamas naturalmente ha visto una bella occasione di scontro totale e così il movimento islamista guidato dallo sceicco Raed Salah. Dietro, si intravede il Qatar, oggi in difficoltà per l'embargo dei Paesi sunniti. Abu Mazen si è unito a questa schiera, perché la sua forza è indebolita dalla perdita di fiducia del mondo arabo. Dall'altra parte però i giordani, gli egiziani, i sauditi hanno capito che un'insurrezione avrebbe favorito la parte a loro avversa, quella che costituisce il lasciapassare per l'Iran e gli Hezbollah in Medio Oriente. Il re Salman si è speso con telefonate a Trump perché premesse per togliere le istallazioni, e con un invito personale a Abbas al summit arabo di Ryiad. È andata? Difficile dirlo. Si saprà bene solo oggi durante la preghiera alle moschee, una parte del mondo islamico incita a continuare gli scontri e ieri si vedevano ancora drappelli per le strade. Netanyahu è stato contestato da destra per aver abbandonato il bastione della sovranità. Ma questa è la politica, sarebbe stato sciocco non mettere i metal detector, sciocco non toglierli.

(il Giornale, 28 luglio 2017)


“Ma questa è la politica, sarebbe stato sciocco non mettere i metal detector, sciocco non toglierli”, conclude l’autrice. Conclusione opinabile. Un altro finale avrebbe potuto essere: “Ma questa è la politica: tutti possono commettere errori. E’ stato sciocco mettere i metal detector, se dopo pochi giorni hanno dovuto essere tolti”. M.C.


Una vittoria palestinese sul Monte del Tempio

di Daniel Pipes

 
Fatah, il partito del presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, ha annunciato sabato scorso che la "campagna per Gerusalemme è di fatto iniziata e non si fermerà fino alla vittoria palestinese e alla liberazione dei luoghi sacri dall'occupazione israeliana". Fatah ha chiesto la rimozione dei metal detector e di altri dispositivi di sicurezza dall'ingresso al Monte del Tempio, dove si trova la Moschea di al-Aqsa. Il 14 luglio, due poliziotti sono stati uccisi da tre terroristi che avevano nascosto le loro armi all'interno della moschea.
   La dichiarazione di Fatah è illogica e ipocrita. Nei Paesi a maggioranza musulmana, molte moschee utilizzano la stessa tecnologia di sicurezza per proteggere i fedeli, i turisti e la polizia. Eppure, Abbas è riuscito a costringere il governo israeliano a rimuovere i metal detector. Lo ha fatto spostando l'attenzione dall'uccisione dei poliziotti e alimentando i timori di un conflitto religioso con enormi ripercussioni.
   La crisi del Monte del Tempio pone l'accento con eccezionale chiarezza su tre fattori che spiegano per quale motivo l'80 per cento dei palestinesi crede di poter eliminare lo Stato ebraico. Tali fattori sono: la dottrina islamica, gli aiuti internazionali e la riluttanza israeliana. L'Islam reca con sé l'aspettativa che ogni terra un tempo posta sotto il controllo musulmano debba inevitabilmente essere riconquistata. Questa idea è ricorrente. Si pensi al sogno di Osama bin Laden di resuscitare l'Andalusia (al-Andalus) e le speranze del presidente turco Recep Tayyip Erdogan di riacquistare influenza sui Balcani. I palestinesi manifestano ripetutamente la convinzione che lo Stato di Israele crollerà entro pochi decenni.
   Uno scontro riguardo al Monte del Tempio entusiasma le aspettative perché va ben oltre la popolazione locale accendendo gli animi di molti del miliardo e seicento milioni di musulmani presenti nel mondo. I leader musulmani più in vista e le più importanti istituzioni islamiche hanno appoggiato a stragrande maggioranza la presa di posizione di Fatah in merito ai dispositivi di sicurezza sul Monte del Tempio. Le voci islamiche fuori dal coro propalestinese sono rare. I palestinesi si rallegrano del loro ruolo, che è come la punta di un'enorme lancia.
   Le illusioni palestinesi potrebbero godere di un considerevole appoggio internazionale. L'Unesco, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura approva sistematicamente risoluzioni critiche nei confronti di Israele. La Columbia University ospita una cosa che si chiama Centro per gli studi palestinesi. Grandi aziende come Google e organi di informazione come la British Broadcasting Corp. fingono che esista un Paese chiamato Palestina. Gli aiuti stranieri hanno creato una pseudo-economia palestinese che nel 2016 ha registrato un fenomenale tasso di crescita del 4,1 per cento.
Nella crisi del Monte del Tempio, il governo americano, gli europei e pressoché tutti gli altri si sono schierati a favore della richiesta di rimozione dei metal detector, delle telecamere a tecnologia avanzata o di ogni altro dispositivo preposto a prevenire attacchi jihadisti. Il Quartetto sul Medio Oriente ha accolto positivamente "le assicurazioni del premier israeliano che lo status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme sarà mantenuto e rispettato". Con questo tipo di sostegno quasi unanime, i palestinesi possono facilmente immaginarsi più forti dello Stato ebraico.
   I servizi di sicurezza israeliani evitano di prendere provvedimenti che possano infastidire i palestinesi. Questo approccio soft non deriva da un ingenuo idealismo, ma da una visione assai negativa dei palestinesi, considerati come degli incorreggibili facinorosi. Di conseguenza, la polizia, le agenzie di intelligence e l'esercito concordano su tutto ciò che garantisca la calma, respingendo qualsiasi iniziativa che privi i palestinesi dei finanziamenti, che li punisca più severamente o violi le loro numerose prerogative.
   L'establishment della sicurezza di Israele sa che l'Autorità palestinese continuerà a incitare e ad approvare le uccisioni proprio come cerca di delegittimare e isolare lo Stato di Israele. Ma questi servizi di sicurezza preferiscono decisamente affrontare tali problemi anziché punire Abbas, ridurre la sua posizione e rischiare lo scoppio di un'altra intifada. Il crollo dell'Ap e la ripresa di un controllo diretto israeliano sono l'incubo dei servizi di sicurezza. Abbas lo sa e il fiasco di questa settimana dimostra che non ha paura di sfruttare i timori israeliani per perseguire il suo sogno di svilire e alla fine eliminare lo Stato ebraico.

(L'Opinione, 28 luglio 2017 - trad. Angelita La Spada)


N.B. Daniel Pipes parla sempre e soltanto di "Monte del Tempio", al contrario di Rolla Scolari e Fiamma Nirenstein che parlano sempre e soltanto di "Spianata delle moschee".


Israele-Giordania, è scontro sull'abbraccio di «Bibi» alla guardia

di Davide Frattini

GERUSALEMME - L'abbraccio dopo il ritorno a casa, i complimenti e le frasi ammiccanti («hai già prenotato la cena con la tua ragazza?»). Benjamin Netanyahu ha diffuso il video dell'incontro ufficiale con la guardia dell'ambasciata che ad Amman ha ucciso due giordani, uno di loro l'aveva ferito alla schiena con un cacciavite. L'accoglienza e la celebrazione sono inaccettabili per re Abdallah, che ha accusato il premier israeliano di aver inscenato uno «spettacolo politico» per guadagni elettorali: «Chiediamo un processo e giustizia in nome dei nostri morti». I giordani sono convinti che lo scontro a fuoco non sia stato la reazione della guardia a un attacco terroristico, come hanno raccontato gli israeliani: la sparatoria - sostengono - sarebbe avvenuta dopo una lite per il ritardo nella consegna, l'arabo era un artigiano arrivato negli alloggi dell'ambasciata per sistemare alcuni mobili, l'altra vittima il padrone di casa. «il comportamento del primo ministro - ha continuato il re - è provocatorio e infiamma gli estremisti in tutta l'area». La frattura diplomatica - commenta Ben Caspit, prima firma del quotidiano Maariv - «rischia di rovinare i rapporti con l'alleato più importante che abbiamo in Medio Oriente. Invece di farsi fotografare con la guardia, Netanyahu avrebbe dovuto aiutare il re a evitare di venire attaccato dai giordani che lo accusano di essersi dimostrato debole. E questo sta succedendo nel mezzo di una crisi regionale che Abdallah stava contribuendo a risolvere». Da due settimane i palestinesi protestano attorno alla Spianata delle Moschee - che gli ebrei venerano come Monte del Tempio - da quando la polizia aveva piazzato i metal detector e le telecamere davanti all'ingresso principale per i musulmani, misura decisa dopo un attentato, due poliziotti uccisi. I controlli elettronici sono stati rimossi e ieri i leader del Waqf, l'organismo religioso che amministra il terzo luogo più sacro dell'islam, hanno dichiarato che i fedeli potevano tornare a pregare nella moschea Al Aqsa: migliaia hanno premuto per entrare dalle porte nella Città Vecchia, la festa si è trasformata in scontri, quasi cento palestinesi feriti. In serata nuove violenze tra palestinesi e forze di sicurezza israeliane fuori dalla Porta dei Leoni, almeno otto feriti.
Anche per oggi la polizia e l'esercito restano in massima allerta, perché i «giorni della rabbia» non sembrano finiti.

(Corriere della Sera, 28 luglio 2017)


Villa Montesca 'centro di pace', israeliani e palestinesi fanno squadra

 
Villa Montesca
CITTA' DI CASTELLO - Israeliani e palestinesi insieme per discutere come conservare e salvaguardare i beni culturali dopo una emergenza su vasta scala. Villa Montesca si trasforma in un centro di pace dove popoli in lotta fra loro da decenni si uniscono in nome dell'arte e della bellezza. La struttura tifernate, infatti, ospiterà nella settimana di fine luglio un'importante iniziativa promossa dalla «Fondazione Hallgarten-Franchetti Villa Montesca», guidata da Angelo Capecci, e dal Dipartimento italiano della protezione civile, con la collaborazione dell'Unesco Iccrom, l'unica istituzione intergovernativa alla quale sia stato affidato il mandato di promuovere la conservazione di ogni tipo di patrimonio culturale.
  «Il corso - hanno spiegato dal Centro - prevede la presenza di venticinque partecipanti provenienti dalle cinque aree del Mediterraneo: Cipro, Israele, Italia, Giordania e Palestina, oltre a delegati da Francia e Spagna e intende fornire ai partecipanti il quadro conoscitivo e metodologico necessario per salvaguardare e recuperare i beni culturali mobili e immobili, gli elementi materiali e immateriali, in caso di emergenze causate da eventi estremi e nella fase post-emergenza». Il programma delineato dall'Iccrom guiderà i partecipanti attraverso una serie di apprendimenti strutturati e sessioni pratiche, basate su un quadro tecnico e teorico indirizzato alla salvaguardia del patrimonio culturale, ricavato dai precedenti progetti della Fondazione in materia di protezione civile e da una vasta esperienza sul campo. I partecipanti avranno l'opportunità di completare i moduli relativi alle varie fasi dell'emergenza fra cui: analisi della situazione; ricerche sul campo insieme alla sicurezza e stabilizzazione.
  Il progetto si concluderà con un esercizio di simulazione finale che si terrà al parco della Villa Montesca. «Durante il corso - hanno aggiunto - è prevista una discussione basata su esempi tratti dalla vita reale relativi alla salvaguardia del patrimonio culturale durante i recenti terremoti in Italia centrale. La conferenza sarà tenuta dal Ministro italiano dei Beni Culturali e dalla Protezione Civile dell'Umbria. L'esperienza di apprendimento sarà arricchita da visite guidate sul campo nei depositi temporanei che ospitano manufatti spostati da siti del patrimonio culturale, chiese e musei». Il corso si concluderà giovedì 3 agosto nella Sala del Consiglio comunale tifernate con la cerimonia di consegna dei diplomi, alla presenza del sindaco Luciano Bacchetta e dell'assessore Luciana Bassini.

(Valtiberina online, 28 luglio 2017)


L'odio per Israele è quello che l'occidente nutre per se stesso

di Niram Ferretti

Bisogna essere consapevoli di una cosa ed esserlo in modo netto, senza indecisioni o dubbi: l'odio per Israele è l'altra faccia dell'odio per l'Occidente e i suoi valori. Non è solo questo naturalmente. La motivazione principale di chi vorrebbe che lo stato ebraico non esistesse più è l'antisemitismo. Non c'è da meravigliarsi, per l'antisemita l'esistenza di uno stato che porta il nome della collettività ebraica e ha come bandiera la stella di Davide è un insulto permanente.
   Dietro la trasparente maschera antisionista appare il volto di sempre, il nemico di ieri, oggi, domani. Il fatto che ci siano tra le file antisioniste numerosi ebrei non significa nulla. L'odio tra fratelli è un topos classico e nella Bibbia ce ne sono vari esempi. Ma non tutti coloro che vorrebbero la scomparsa di Israele sono automaticamente antisemiti: per costoro Israele, come gli Stati Uniti, rappresenta un'aberrazione della storia.
   La saldatura ideologica tra antioccidentalismo, antiglobalismo e terzomondismo rappresenta oggi la più agguerrita macchina da guerra propagandistica contro Israele, che può contare su di un formidabile apparato massmediatico sparso in tutto il mondo. La critica all'Occidente come locus di tutti i mali è stata costante e crescente negli ultimi quarant'anni, prendendo l'abbrivio negli anni '60, i revolucionari anni della contestazione, della palingenesi scopereccia e psichedelica, condita dal ciarpame teorico dei guru dell'affrancamento dalla "repressione" capitalistico-borghese-familistica, da Sartre a Marcuse a Reich. E' allora che sotto l'effetto dell'ubriacatura del vino marxista si è iniziato a guardare a veri modelli di affrancamento esistenziale e culturale come l'Unione Sovietica, la Cina maoista, il sudest asiatico, il Vietnam e la Cambogia, e a Ho Chi Min e Pol Pot come a liberatori del pueblo dai gioghi colonialisti e imperialisti, senza mai dimenticare San Ernesto Che Guevara.
   Questa corrente ha continuato a scorrere senza sosta fino ai giorni nostri, trovando torme di assetati pronti ad abbeverarsi alle sue sorgenti inquinate. Non è un caso che tra i più perseveranti nemici di Israele ci sia Noam Chomsky, il linguista ebreo americano che si è formato in quegli anni, e che dopo avere abbandonato gli studi specialistici è diventato il Grande Inquisitore degli Stati Uniti, paragonati nei suoi scritti a qualcosa che non è molto lontano dalla Morte Nera di Guerre Stellari, un vero e proprio impero delle tenebre che ha solo seminato morte e distruzione. Come non è un caso che nel rifugio segreto di Osama Bin Laden vi fossero, tra le sue letture, anche alcuni dei suoi testi. E non potrebbe essere diversamente. La critica spietata all'Occidente, la sua demolizione morale ha trovato e trova nel fondamentalismo islamico, come prima di esso nel comunismo storico, un alleato prezioso. Leggere Chomsky o i proclami di Bin Laden suscita sconcerto, perché potrebbero essere firmati dall'uno o dall'altro indifferentemente. Prendiamo per esempio il testo conosciuto come "Letter to the American People" dell'ottobre 2002. In esso il capo di Al Qa'da scrive che gli Stati Uniti, "sono la peggiore civiltà che la storia dell'umanità abbia visto", posizione che Chomsky non potrebbe fare altro che sottoscrivere.
   Per Chomsky e i suoi epigoni ed epigonetti, l'11 settembre è la conseguenza inevitabile dell'imperialismo americano, di cui Israele è l'altra faccia in Medioriente. Israele, che come gli Stati Uniti lo erano per Bin Laden, è oggi per l'Iran, Hezbollah e Hamas, il principale stato canaglia da abbattere. Israele di nuovo dunque, e inevitabilmente.
   Un tempo non lontano la parte più cospicua dell'intellighenzia occidentale tifava per i regimi comunisti e preferiva alla "repressione" borghese patriarcale occidentale la schiavitù dei totalitarismi, oggi come sbocco al suo antioccidentalismo si ritrova tra le braccia di un nuovo fascismo, quello islamico. La conclusione è impressionante quanto inevitabile. Dopo il tramonto delle monarchie, alla democrazia, con tutte le sue disfunzioni e magagne, l'uomo non ha potuto contrapporre null'altro se non le dittature. Gli aedi della "libertà", gli antiglobalisti, i terzomondisti, i distruttori dell'Occidente sono solo i complici solerti dei terroristi e degli assassini, da cui si distinguono confusamente con proclami di rinnegamento della violenza, loro, di cui sarebbero immediatamente tra le vittime.

(L'informale, 28 luglio 2017)


Una domanda tuttavia si pone: com'è potuto accadere che l'Occidente, per molti decenni così fiero dei suoi valori, sia arrivato a odiare se stesso e a considerare quest'odio come il più grande dei suoi valori? Viene in mente il biblico Ecclesiaste, che dopo aver detto in cuor suo: "Andiamo! Io ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!" e aver tentato tutte le vie per ottenere tutti i piaceri che la vita può dare, alla fine arriva a dire: "Perciò io ho odiato la vita, perché tutto ciò che si fa sotto il sole m'è divenuto odioso, poiché tutto è vanità e un correr dietro al vento". M.C.


Netanyahu seccato: «Al Jazeera va chiuso. Incita alla violenza»

Incita alla violenza. Perciò va chiusa. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato che lavorerà per chiudere la sede di Gerusalemme dell'emittente Al-Jazeera, accusando la rete televisiva di incitare la violenza sulla spianata delle moschee, con reportage e video che darebbero l'idea «falsata» di quanto è accaduto e sta accadendo, mostrando soprattutto in azioni soldati israeliani contro inermi palestinesi, ma ignorando le aggressioni dei manifestanti palestinesi. «La rete Al-Jazeera continua a sobillare la violenza intorno al Monte del Tempio», ha scritto Netanyahu sulla sua pagina Facebook dopo l'escalation delle proteste e delle aggressioni. «Ho parlato più volte alle autorità giudiziarie per fare chiudere Al-Jazeera a Gerusalemme. Se ciò non potrà avvenire per un'interpretazione dei giudici, lavorerò per adottare la legislazione necessaria per espellere Al-Jazeera da Israele,» ha aggiunto il leader israeliano nel suo post.
La rete di Al Jazeera è già stata messa al bando da diversi Stati arabi, tra i quali Arabia Saudita ed Egitto, con la stessa accusa di incitare alla violenza e di appoggiare, più o meno apertamente, i gruppi terroristici islamici.

(Libero, 28 luglio 2017)


Strage di Bologna. Le carte sui palestinesi

I telex dei nostri 007 a Beirut rimasti nascosti per quasi 30 anni. Parlavano di ritorsione palestinese per la rottura del «Lodo Moro». La vendetta per l'arresto di Saleh dopo il sequestro dei missili a Ortona Nelle note (mai trasmesse ai magistrati) l'asse «Fplp» col Gruppo Carlos.

di Gian Marco Chiocci

E' giusto continuare a nascondere ai cittadini quanto accadde nel nostro paese nell'estate del 1980? A distanza di tanti anni, oggi che il regime di Gheddafi si è dissolto nel nulla e molti dei protagonisti politici italiani dell'epoca sono passati ad altra vita, sussistono esigenze di segretezza sul legame che legherebbe il terrorismo palestinese alla strage alla stazione di Bologna? Stando ai documenti del centro-Sismi di Beirut relativi al biennio '79-80 custoditi incredibilmente ancora sottochiave al Copasir verrebbe da dire di sì visto che la verità documentale stravolgerebbe completamente - e capovolgerebbe - la verità giudiziaria passata in giudicato. Verità giudiziaria, per quanto riguarda la pista palestinese, archiviata a Bologna dopo l'apertura di un'inchiesta a seguito di notizie rimaste coperte per più di vent'anni.
  Ma a 37 anni dal mistero dell'esplosione di Bologna escono dunque altre prove, clamorose, sulla «pista palestinese» opportunamente occultata dal nostro Stato e dai nostri servizi segreti per una indicibile ragion di Stato. Pista che si rifà alla ritorsione, più volte minacciata dai terroristi arabi, per la rottura del «Lodo Moro» (l'accordo fra i fedayn e l'Italia a non compiere attentati nel nostro Paese in cambio del transito indisturbato delle armi dei terroristi). Roba da far tremare i polsi.
  Seguiteci con attenzione e annotate i continui riferimenti alla città di Bologna. Tutto ha inizio nel novembre 1979 quando i carabinieri, a Ortona, in Abruzzo, sequestrano alcuni missili terra-aria «Strela» di fabbricazione sovietica. I militari arrestano i tre esponenti dell'autonomia operaia romana che quei razzi custodiscono all'interno dell'auto. Seguendo la traccia dei missili i magistrati abruzzesi arrestano a Bologna Abu Anzeh Saleh, rappresentante in Italia dell'organizzazione terroristica Fplp (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina). Questo Saleh viene «individuato» e descritto già nella commissione Mitrokhin che indagava sulle spie del Kgb in Italia. Saleh risulta essere il dirigente della rete logistica palestinese in Italia. In alcune interviste Saleh ha confermato il suo ruolo rivoluzionario negando qualsiasi ruolo dei palestinesi con la strage di Bologna (lo stesso ha fatto, lo scorso 26 giugno, in commissione Moro Nassam Abu Sharif, già braccio destro di Arafat, ricordando che Saleh fu la persona contattata dai Servizi italiani il giorno dopo il sequestro Moro per chiedere che l'Olp mediasse con le Brigate Rosse per ottenere la liberazione del leader democristiano). Insomma, un personaggio cruciale, nevralgico, questo Saleh.
  Sconosciuti sono i risvolti internazionali della vicenda raccontata nei documenti ancora top secret in parlamento che Il Tempo è oggi in grado di rivelare. Il palestinese Saleh era persona protetta dal Sismi in ottemperanza all'accordo segreto di cui sopra. Con le manette dei carabinieri all'arabo residente a Bologna, l'accordo segreto fra Italia e Palestinesi, il cosiddetto «lodo Moro» era da considerarsi violato. A parte il governo in carica e l'intelligence a Beirut nessuno poteva immaginare che quell'arresto a Ortona rappresentava l'inizio della fine. Dietro il transito di quei missili c'era Gheddafi, il partner intoccabile della disastrata economia italiana che proprio in quel periodo aveva stretto una pericolosa alleanza con l'Urss. In ossequio alla ragion di Stato e all'accordo, il ruolo della Libia nella vicenda fu tenuto accuratamente nascosto, così come non venne mai identificato il giovane extraparlamentare di Bologna che aveva accompagnato il palestinese Saleh a Ortona nelle ore successive al sequestro delle armi. Perché quel ragazzo bolognese scomparve nel nulla? E perché i fatti occultati riguardavano e riguarderanno anche in seguito sempre Bologna? Il Sismi diretto dal generale Santovito sapeva bene che, dopo l'arresto di Saleh, i vertici dell'Fplp chiesero a un loro militante di restare in Emilia per mantenere i contatti con un terrorista del famigerato gruppo Carlos, dal nome del super terrorista venezuelano che intorno a se aveva raggruppato la crema criminale del terrorismo arabo marxista-leninista. Chi era il basista in Emilia di Carlos "lo Sciacallo" e perché non è stato mai localizzato il suo covo? I vertici palestinesi - stando ai telex top secret del novembre 1979 - temevano che, a distanza di un anno dall'omicidio Moro, potesse emergere la prova delle collusioni dell'ala oltranzista dell' Olp con il terrorismo italiano. La dirigenza dell'Fplp era spaccata. La parte vicina ai paesi arabi filosovietici (Siria e Libia), indispettita dal voltafaccia italiano, respinse l'invito alla prudenza dell'ala «moderata» e più violenta e reclamò un'azione punitiva. Poco prima del Natale 1979, esattamente il 18 dicembre, l'Fplp minacciò una rappresaglia contro il nostro paese. Le nostre «antenne» del Sismi a Beirut, legatissime al Fplp come peraltro confermato lo scorso 2 luglio alla Stampa dall'allora responsabile dell'informazione Abu Sharif ( «io personalmente siglai l'accordo con l'Italia attraverso il colonnello del Sismi Giovannone a Beìrut») lanciarono drammatici Sos. Nelle carte si fa cenno a un interlocutore del Fplp ( ... ) che minacciava durissime rappresaglie qualora finisse per essere formalizzato il rifiuto dell'Italia all'impegno preso con il Lodo. Saleh in cella è il prezzo dello strappo letale, Roma è disposta a pagarlo? Stando sempre alle corte riservate lo 007 Giovannone, o chi per lui, da Beirut insiste a non giocare col fuoco. Da gennaio a marzo le minacce salgono di livello. Arriviamo al 14 aprile 1980. Habbash, leader del Fplp, spiffera agli agenti segreti italiani che l'ala moderata del Fronte fa sempre più fatica a frenare lo spirito di vendetta contro Roma che alligna nell'anima più irriducibile del suo gruppo. Anche l'idea di rivolgersi ad Arafat cade nel vuoto perché non sarebbe in grado - così riportano le note coperte dal sigillo del segreto - di prevenire un attentato affidato a «elementi estranei al Fplp», comunque coperti da una «etichetta sconosciuta». Ma chi sono questi «estranei»? Quale sarebbe questa sigla non conosciuta? I servizi italiani lo fanno capire di lì a poco allorché annotano la presenza del ricercatissimo «Carlos lo Sciacallo» proprio a Beirut accostandola alla possibilità che proprio a Lui e al suo gruppo internazionale venga affidato l'attentato in Italia. Dunque i documenti tuttora segreti riscontrerebbero le dichiarazioni rese anni e anni fa al giudice Mastelloni da tale Silvio Di Napoli, all'epoca dirigente del Sismi preposto alla ricezione die messaggi cifrati provenienti dal centro Sismi di Beirut.
  Quando il capo degli 007 a Beirut, Giovannone, informa il direttore Santovito che il Fplp, preso atto della condanna di Saleh, ha subito contattato Carlos, in Italia scatta l'allarme rosso. I servizi tricolori di Beirut ribadiscono ancora come la sanguinaria ritorsione può essere compiuta da «elementi non palestinesi» o «probabilmente europei» per non creare problemi al lavorio politico-diplomatico per l'imminente riconoscimento della casa madre della causa palestinese: l'Olp di Arafat.
  Sono giorni gonfi di tensione. A metà maggio scade l'ultimatum del Fronte. Il Sismi scrive al comando di Forte Braschi che la dirigenza del Fplp è pronta, dopo 7 anni di non belligeranza, a riprendere le ostilità contro il Paese non più amico, contro i suoi cittadini, contro
  gli interessi italiani nel mondo «con operazioni che potrebbero coinvolgere anche innocenti». La fonte del colonnello Giovannone confessa che è la Libia, ormai sponsor principale del Fplp, a premere. L'Italia, col sottosegretario Mazzola, è in bambola. Prende tempo con vane e finte promesse su Saleh. In un documento dove si ribadisce il ruolo istigatore di siriani e libici, la ritorsione del Fplp viene data per certa ed imminente. E' l'inizio della fine. Il Sismi in Libano scrive che non si può più fare affidamento sulla sospensione delle azioni terroristiche in Italia decisa nel '73. Secondo i documenti ancora coperti dal segreto, insomma, la nostra intelligence fa sapere della decisione del Fplp di vendicarsi a seguito del mancato accoglimento del sollecito per lo spostamento del processo di Saleh. Mancano due mesi alla strage alla stazione di Bologna.
  Luglio passa veloce, i contatti dei nostri servizi col Fplp si fanno via via più radi. Non c'è più feeling. Ogni canale viene interrotto. E' il silenzio. Spettrale. Inquietante. Prolungato. Sino alla mattina del 2 agosto quando una bomba devasta la sala d'aspetto della stazione di Bologna: 80 morti, 200 feriti. La più grave strage dal dopoguerra. E' stato Carlos? Sono stati i palestinesi? Tantissimi indizi portano a pensarlo ma nessuno di questi vedrà mai la luce per oltre trent'anni, i magistrati mai verranno messi a conoscenza di questi clamorosi carteggi all'indomani dello scoppio nella sala d'aspetto di Bologna. Fatto sta, per tornare a quel 1980, che l'estate successiva alla strage Saleh tornerà libero su decisione della Cassazione dopo le ennesime pressioni del Sismi sui magistrati abruzzesi.
  E non sembra poi un caso se fu proprio il capo dei servizi segreti dell'Olp, a cui gli oltranzisti del Fplp erano affiliati, a organizzare con l'avallo del Sismi uno scientifico depistaggio sulla strage di Bologna, e non è ovviamente un caso se la base del depistaggio fu proprio Beirut. Ma chi e come si prestò a sviare le indagini? La memoria giudiziaria ci riporta a Rita Porena, giornalista free lance, in seguito identificata come amica personale del capocentro Sismi a Beirut, collaboratrice remunerata, che riuscì a intervistare proprio a Beirut un leader dell'Olp il quale, poco dopo la strage di Bologna, disse che nei loro campi di addestramento (frequentati assiduamente da brigatisti rossi) erano stati individuati ed espulsi dei neofascisti che progettavano e organizzavano un gravissimo attentato in Italia. Fu quella di Beirut la prima «rivelazione» (falsa) sulla pista neofascista, pista orchestrata da quello Stefano Giovannone da tutti considerato, anche con una certa ammirazione, il migliore e più fedele custode del Lodo Moro anche dopo la morte del politico che diede il nome al lodo segreto.
  Mettetela come vi pare ma l'escalation delle minacce e degli ultimatum sovrapposti alla coincidenza temporale della strage di Bologna non danno scampo a una ipotesi alternativa, che invece - all'epoca - diventa l'unica da seguire: perché la strage - si è detto per anni - è per sua natura fascista. «Fascista» senza alcuna prova, indizio, risconto. Dunque, senza alcun plausibile motivo (o forse i motivi erano ben chiari a chi non voleva rendere noto il risultato prodotto da un accordo che ci avrebbe delegittimato per sempre come Paese sponsor dei terroristi nemici di Israele che insanguinavano l'Europa) le indagini vengono indirizzate sugli ambienti neofascisti. Nessuna spia, a poche ore dalla bomba e nemmeno nelle settimane e nei mesi ( e negli anni) a venire, si prenderà la briga di avvisare mai i magistrati di Bologna delle minacce palestinesi, dell'ingiustificata presenza a Bologna del gruppo Carlos, del ruolo delicatissimo di Saleh. Sulla scia dell'Olp anche il Sismi si attiverà per depistare l'inchiesta. Lo farà in mille modi, usando personaggi e storie diverse. Ma i documenti tuttora inaccessibili del Sismi, di cui Il Tempo ha scoperto l'esistenza, rivelano lo scenario di crisi conosciuto dalle nostre autorità e taciuto ai magistrati, e oggi consentono una lettura del depistaggio molto più grave e realistica anche perché solo dopo 20 anni, e per un caso fortuito (attraverso la ricerca dei consulenti della Mitrokhin) si è scoperta la presenza (sempre nascosta) a Bologna, il giorno della strage, di un certo Thomas Krarn, che i servizi della Stasi, gli 007 della Germania Est, indicavano come membro del già citato gruppo terroristico di Carlo lo Sciacallo. Per la cronaca Kram era entrato nell'inchiesta sulla «pista palestinese», poi archiviata a Bologna nel 2015.
  Oggi gli unici che si ostinano a negare l'importanza di quelle carte sembrerebbero quelli strenuamente contrari alla loro divulgazione. Curioso paradosso. Ma ai giudici bolognesi non può essere opposto alcun veto perché le indagini per il reato di strage non lo consentono. Basterebbe una semplice richiesta al Copasir per illuminare a giorno il buio della strage del 2 agosto. Il buon senso porta ad augurarsi che sia la procura di Bologna a chiedere di sua iniziativa il carteggio esplosivo. La politica, per una volta, raddrizzi la schiena e non speculi per interesse. Lo deve agli 80 morti e ai familiari delle vittime che vogliono davvero la verità. Molti, già da 37 anni, con il loro silenzio si sono fatti compici degli assassini. Molti altri si sono messi a posto la coscienza sostenendo di non saperne abbastanza. Ora Il Tempo gli sta fornendo i necessari riscontri. D'ora in poi, chi non agisce, è complice.
(I-continua)

(Il Tempo, 27 luglio 2017)


«Hamas uguale terrorismo». Chi lo dice a Grillo e D' Alema?

Vogliono la distruzione di Israele. La Corte di giustizia Ue reinserisce il gruppo palestinese nella lista nera. Ma sono una sezione dei Fratelli musulmani; beniamini dei Cinquestelle.

di Carlo Panella

 
Pesante mazzata sul capo del Movimento 5 Stelle da parte della Corte di Giustizia dell'Unione europea che ha ieri ribadito che Hamas è un' organizzazione terroristica. La Corte ha rinviato la causa al tribunale Ue, che non avrebbe dovuto annullare, come ha fatto nel 2014 (per speciose motivazioni formali), il mantenimento del movimento islamista al potere a Gaza nell'elenco europeo delle organizzazioni terroristiche.
   Con questo alto pronunciamento viene così autorevolmente ridicolizzata, smentita, e resa più che sospetta, la posizione ufficiale dei 5 Stelle, espressa in modo formale dal loro «ministro degli Esteri» Manlio di Stefano, che si rifiuta di considerare Hamas un'organizzazione terroristica con una risibile motivazione: «La storia ci insegna che Hamas nasce come partito e che ha vinto le elezioni. Poi l'isolamento di Gaza ha cambiato le cose. L'isolamento non permette ad Hamas di democratizzarsi».
   Ragionamento simile a quello di Massimo D'Alema, allorché era ministro degli Esteri e tipico della scarsa conoscenza del mondo e della storia dell'ineffabile Di Stefano e del Movimento 5 Stelle tutto che dovrebbe consequenzialmente essere applicato anche ad Adolf Hitler e al suo partito Nsdap che il 5 marzo del 1933 vinse in Germania elezioni ben più libere e democratiche di quelle vinte da Hamas in Palestina il 25 gennaio del 2006.
   Con lo stesso contorto modo di ragionare si dovrebbe poi attribuire all'isolamento internazionale, a cui la Germania nazista fu sottoposta, la ragione della sua mancata democratizzazione.
   Ora però, la sentenza pone Di Stefano e i 5 Stelle, che prediligono le sentenze che fanno loro comodo, di fronte a un'implicazione netta e precisa: Hamas ha scelto come suo unico e solo modo di agire il terrorismo, l'uccisione vile e violenta degli avversari e per questo non è assolutamente passibile di democratizzazione. Il terrorismo non è democratizzabile: questo è un concetto così ovvio, semplice, lineare e inconfutabile che persino Di Stefano lo potrebbe afferrare. Ma pare non voglia.
   Se si riuscisse poi a far proseguire a Di Stefano e ai 5 Stelle un ragionamento un po' più complesso si dimostrerebbe poi coi fatti, con le date, che Gaza e Hamas ebbero «in regalo» da Ariel Sharon, allora premier di Israele, il controllo pieno e totale di Gaza, da cui furono ritirati nell'agosto del 2005 anche l'ultimo soldato e colono israeliano. Ma Hamas, invece di usare la Striscia per svilupparla economicamente e politicamente ( con tutto il mondo, Ue in testa, pronto a riversarvi miliardi di dollari), distrusse tutte le moderne strutture agricole «regalate» dagli israeliani e la trasformò in bunker e piattaforme per il lancio di missili contro Israele - che uccisero decine di civili - e di azioni terroristiche, a partire dal vile rapimento e orrenda detenzione del caporale israeliano Gilad Shalit. L'isolamento di Gaza - è sotto gli occhi di chi abbia un minimo di buona fede - è conseguenza del terrorismo di Hamas, della sua prassi di uccisione permanente degli israeliani, con tutti i mezzi, non viceversa.
   Ma in realtà questa infatuazione per Hamas ha una ragione non detta e gravissima, esiziale: la convinzione che la patria degli ebrei sia la centrale di un mondo di complotti e cospirazioni, che è poi tesi fondante dello Statuto di Hamas. Ricorda qualcosa?

(Libero, 27 luglio 2017)


"Sogno di Davide". Gli alpini donano settemila euro

Serviranno a coprire tutte le spese per uno dei prossimi viaggi della speranza in Israele, a Tel Aviv, sede dell'unico centro al mondo dove vengono praticate speciali sedute di terapia olistica.

di Francesca Cavedagna

CASSOLA - Gli alpini dell'Ana Montegrappa pagheranno un intero ciclo di terapie al piccolo Davide di Cassola, il bimbo di 2 anni affetto da un rara malattia genetica, che necessita di costose cure sperimentali. Lo avevano annunciato e come sempre hanno mantenuto la promessa. Con l'approvazione all'unanimità, votata durante l'ultimo consiglio del direttivo, verranno donati 7 mila euro alla associazione "Il Sogno di Davide", la onlus aperta dai genitori del piccolo, per raccogliere fondi da destinare alle sue cure. Il generoso sostegno delle penne nere bassanesi permetterà a mamma Elisa e papà Filippo di coprire tutte le spese per uno dei prossimi viaggi della speranza in Israele, a Tel Aviv, sede dell'unico centro al mondo dove vengono praticate speciali sedute di terapia olistica che in bimbi affetti dalla stessa malattia del piccolo Davide hanno già portato incredibili miglioramenti. «Gli alpini agiscono sempre in onore della memoria dei nostri Caduti. Sono nati dal dolore, e uno dei nostri principali obiettivi è quello di lenire quello degli altri - spiega il presidente Giuseppe Rugolo -.Quando abbiamo conosciuto la storia di Davide e capito l'estrema urgenza con la quale bisognava agire, nessuno di noi ha voluto tirarsi indietro. Abbiamo deciso di dare un segnale forte e incisivo, perché insieme abbiamo capito che dare contributi minori e sporadici alla famiglia sarebbe stato meno efficace. Poter pagare un intero ciclo di terapia per il piccolo, invece, anche se sarà un sacrificio, ci rende estremamente orgogliosi. Speriamo davvero che altre associazioni seguano il nostro esempio».
   Per questioni di bilancio la somma verrà donata alla famiglia all'inizio del prossimo anno, questo permetterà di coprire il ciclo di terapie che il piccolo Davide dovrà fare a gennaio. Mamma Elisa, ha il cuore pieno di gioia. «Non sappiamo davvero come ringraziare i nostri alpini, non avremmo mai sperato in un gesto di generosità così grande - racconta -, questa notizia ci dà un sollievo e una gioia così grande, davvero difficile da spiegare a parole. Posso dire solo grazie, grazie, grazie!». Nel frattempo il piccolo continua la sua battaglia contro la malattia genetica rara, scoperta nel 2011, che nel mondo conta solo 200 casi. La sindrome dal nome quasi impronunciabile, KCNQ2, porta al malfunzionamento del canale del potassio nel cervello, questo comporta un ritardo nello sviluppo psicomotorio e crisi epilettiche praticamente continue. Attualmente non esistono cure ufficiali, l'unica speranza di miglioramento sono le terapie praticate dai fisioterapisti israeliani, ma perché abbiano effetto, Davide deve sottoporsi ai trattamenti con costanza: una settimana ogni due mesi. Il piccolo partirà per Tel Aviv a settembre. «Siamo orgogliosi di dire che per la prima volta pagheremo le cure con i soldi raccolti dalla nostra onlus - conclude Elisa -, grazie all'incredibile generosità raccolta dalle donazioni ricevute da chi ha conosciuto la nostra storia».

(Il Giornale di Vicenza, 27 luglio 2017)


Gretel, la campionessa ebrea senza oro: fuori dai Giochi, sostituita da un uomo.

L'addio, aveva 103 anni. La sua storia è diventata un libro, un documentario e un film uscito nel 2009

di Riccardo Bruno

Gretel Bergmann
C'erano voluti 73 anni perché la Germania riconoscesse il suo talento negato. Solo nel 2009 era stato riabilitato il salto da un metro e sessanta che Margaret detta Gretel Bergmann aveva stabilito un mese prima dell'Olimpiade di Berlino. Gretel aveva tutto il diritto a partecipare ai Giochi e probabilmente avrebbe vinto l'oro, ma il regime nazista non poteva permettere che a trionfare fosse un'atleta ebrea. «Cara signorina Bergmann - le scrissero - ci dispiace comunicarle la sua esclusione. Lei non è stata abbastanza brava e non può dunque garantire risultati. Heil Hitler».
   Gretel Bergmann è morta martedì scorso, a 103 anni, nel Queens, a New York, dove si era trasferita nel 1937. Fuggita dalla Germania, dieci dollari in tasca per iniziare, i primi lavori come cameriera e massaggiatrice, fino a quando non dimostra il suo valore d'atleta vincendo i campionati americani, non soltanto di salto in alto ma anche di lancio del peso.
Gretel è un simbolo. La sua storia è diventata un libro, un documentario della Hbo e un film, Berlin 36, uscito nel 2009. Dieci anni prima le era stato intitolato lo stadio della città dov'era nata e dove aveva iniziato gareggiare, a Laupheim, nel Sud della Germania, vicino al confine svizzero. Lei accettò di prendere parte all'inaugurazione, rientrando per la prima volta nella sua ex patria, accompagnata da un interprete perché si era ripromessa di non parlare più tedesco. «Penso che sia importante ricordare, così ho deciso di tornare nei posti dove avevo giurato che non sarei più tornata». In un'intervista spiegò di non «odiare i tedeschi, anche se l'ho fatto in passato. Molti di loro stanno cercando di ricompensare gli errori d'un tempo, le nuove generazioni non possono essere ritenute responsabili di ciò che hanno fatto i vecchi».
   Gretel non fu solo esclusa per motivi razziali, ma usata e beffata. Un prodigio atletico sin da ragazzina, la famiglia le fa provare corsa, nuoto, tennis e sci. Le prime vittorie a 10 anni, a 17 il record di salto in alto ai campionati della Germania meridionale. Ma a 19 anni l'allenatore le comunica che non potrà più far parte del suo club. E il 1933. «C'erano cartelli con scritto: non è permesso entrare a cani o ebrei», ricordò Gretel. Le viene negato anche l'accesso al collegio per la ginnastica di Berlino. Il padre Edwin decide così di portarla in Inghilterra e iscriverla al Politecnico di Londra. Nel 1935 salta un metro e 55 e vince il campionato nazionale inglese.
   Gretel Bergmann inizia ad essere conosciuta come fuoriclasse di livello internazionale. Alla vigilia dei Giochi di Berlino, il Comitato olimpico preme sulla Germania perché non escluda gli atleti ebrei. Il governo nazista teme il boicottaggio, soprattutto statunitense, e invita Gretel a gareggiare. Lei è titubante, minacciano ritorsioni alla sua famiglia, alla fine si lascia convincere anche se non viene aggregata alla squadra ufficiale. A Stoccarda, un mese prima dell'apertura dell'Olimpiade, eguaglia il record nazionale, volando sopra un metro e sessanta. «C'erano bandiere con la svastica e saluti romani, la rabbia che avevo dentro era enorme. Era proprio in quelle situazioni che riuscivo a dare il meglio di me stessa. Saltai come non avevo mai fatto prima».
   I tedeschi aspettano che arrivi la squadra olimpica americana, poi il 16 luglio comunicano a Gretel che resterà a casa. Le offrono solo un paio di biglietti, posti in piedi, per assistere alla finale. Lei non risponde nemmeno. «Fu uno choc terribile. Ero la migliore». Al suo posto viene chiamata Dora Ratjen, ariana di Brema, che però arriva solo quarta. Due anni dopo si scoprirà che in realtà Dora si chiama Heinrich, un maschietto tradito dalla barba dopo l'ultimo primato del mondo e arrestato per frode (anche se sarebbe troppo facile liquidarla come una banale storia di truffa: Heinrich/Dora sin dalla nascita mostra caratteristiche sessuali non definite, probabilmente nemmeno i nazisti ne sono al corrente).
La carriera sportiva di Gretel si interrompe invece allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Si sposa con Bruno Lambert, un ex velocista di non eccelso valore conosciuto da ragazza, anche lui rifugiato negli Stati Uniti. Diviene fisioterapista, madre di due figli, nonna e bisnonna.
   Quando le chiedevano del suo passato lei amava ripetere: «Ero la più grande speranza ebraica».

(Corriere della Sera, 27 luglio 2017)


La scrofa di Wittenberg

Polemiche su un antico motivo antiebraico diffuso in area tedesca. Nel 2016 un'associazione guidata da un pastore protestante e da una comunità evangelica di suore ha organizzato un corteo di protesta di fronte alla chiesa chiedendo di togliere il bassorilievo E di esporlo nel museo della Shoah.

di Anna Foa

 
La "Judensau" di Wittenberg
Sulla facciata della chiesa Santa Maria di Wittenberg c'è un bassorilievo, datato 1305, che raffigura un antico motivo antiebraico diffuso nell'area tedesca nel Medioevo, quello della Judensau, la scrofa degli ebrei. Ecco come lo descrive nel 1543, nel suo Shem Hamphoras, Martin Lutero, che in quella chiesa predicò: «Qui a Wittenberg si può vedere, sulla nostra Chiesa, una scrofa scolpita in pietra. Sotto di lei, dei porcellini e degli ebrei che ne succhiano il latte. Dietro di lei, un rabbino che solleva la sua zampa destra, ne tira la coda con la sinistra, si piega e contempla con zelo il Talmud sotto la groppa dell'animale, come se vi leggesse qualcosa di straordinario: un riferimento evidente al luogo dove si trova il loro Shem Hamphoras (il nome di Dio)». Il testo che lo spiega è, come il motivo iconologico che descrive, al tempo stesso virulento e osceno.
   Si tratta del testo più violentemente antiebraico di Lutero, scritto contemporaneamente a Degli ebrei e delle loro menzogne un testo, che appartiene alla fase più tarda della vita del Riformatore, che gli ha fatto attribuire da molte parti l'etichetta di antisemita.
   Il motivo della Judensau è precedente alla Riforma protestante, la sua prima apparizione può essere fatta risalire al 1210 e si trova sul retro di un banco di legno del coro della cattedrale di Colonia. Fra Due e Cinquecento se ne ritrovano un'infinità di esemplari, in legno o pietra, nelle pareti, soprattutto esterne, di chiese tedesche, svizzere, francesi, belghe, del Nord Europa. Gli ebrei prendono il latte da una scrofa, loro che hanno in odio il maiale, e si nutrono dei suoi escrementi: questo il messaggio della Judensau.
   La Judensau appartiene a quell'insieme di accuse antiebraiche - scarsamente condivise dalla Chiesa ma formulate in linguaggio religioso e fatte proprie da tanta parte del clero - quali l'avvelenamento dei pozzi, il sacrilegio dell'ostia, l'omicidio rituale, il faetor Judaicus, l'alleanza con il diavolo, volte a colpire l'ebreo per la sua natura e non per le sue credenze.
   Uno scivolamento verso una concezione dell'ebreo come naturalmente diverso, privo di possibilità di cambiare e diventare, ricevendo eventualmente il battesimo, come i cristiani. Di qui, l'equiparazione di questo complesso di accuse all'antisemitismo, fenomeno molto più vicino a noi e formulato in un linguaggio diverso, prevalentemente in termini di razza, ma che identifica ugualmente nell'ebreo una radicale diversità a prescindere dalla sua fede religiosa.
   Non a caso, i due opuscoli di Lutero del 1543 furono più volte ripubblicati sotto il nazismo, dando fra l'altro materia alle feroci caricature antisemite dello «Sturmer». Un richiamo che faceva di Lutero, nell'immagine nazista, il precursore della politica antisemita di Hitler.
   Nel 2016 il bassorilievo di Wittenberg sale agli onori della cronaca: si forma un'associazione guidata da un pastore protestante e da una comunità evangelica di suore che manifesta di fronte alla chiesa, tutti i mercoledì, e che chiede di toglierlo e di esporlo nel museo della Shoah: «Dopo Auschwitz, possiamo conservare la scrofa degli ebrei?». Dall'altra parte, si sostiene che proprio la sua presenza consente di richiamare il secolare insegnamento del disprezzo della Chiesa nei confronti degli ebrei e si propone di affiancarvi un'iscrizione che lo spieghi e contestualizzi. Nella polemica si inserisce l'estrema destra chiedendo il mantenimento del bassorilievo come parte della storia tedesca: «Non sono sempre e solo i tedeschi a doversi pentire!» si proclama. Il consiglio municipale di Wittenberg ha allora deciso di mantenerlo, sia pur affiancandovi una targa commemorativa dei sei milioni di ebrei morti nella Shoah.
   La storia viene così un'altra volta appiattita: qui da Lutero si passa automaticamente ad Auschwitz. Ma non era quello che volevano affermare i nazisti? Le cose sono forse più complicate, e il passaggio non era così automatico. Ma è difficile spiegarlo a colpi di targhe e di iscrizioni. Forse, il posto di quel bassorilievo dovrebbe proprio essere in un museo, dove fosse possibile inserirlo nel suo contesto storico. Ma non, di nuovo, in quello della Shoah. Perché, per quanto violenta e oscena fosse l'immagine della scrofa degli ebrei, non ha creato Auschwitz, certo non allora, quando è stata immaginata nel medioevo tedesco. E nemmeno dopo, se non indirettamente, nell'uso strumentale e distorto che ne ha fatto il nazismo.

(L'Osservatore Romano, 27 luglio 2017)


Israele rimuove le ultime misure sicurezza dalla Spianata delle Moschee

di Alighiero Casassa

Dopo le proteste e gli scontri avvenuti a Gerusalemme la scorsa settimana, le autorità israeliane hanno rimosso altre apparecchiature di sicurezza dall'accesso alla Spianata delle Moschee. Il passo indietro fatto dal governo è evidente ed anche necessario dal momento che la situazione stava ormai precipitando in maniera pericolosa.
Le pressioni sul governo ebraico sono dunque state intense e gli stessi Stati Uniti si sono mostrati seccati per la decisione del governo di Netanyahu, una decisione unilaterale che dava l'impressione di volersi appropriare della gestione e del controllo di un luogo sacro e che poteva dunque porsi come un limite alla libertà di preghiera. "Vorrei lanciare un appello a tutti i miei concittadini e i musulmani del mondo intero, affinché tutti quelli che hanno i mezzi economici si rechino in visita a Gerusalemme alla moschea di al-Aqsa", ha detto Erdogan.
La crisi, che ha portato all'introduzione di metal detector, barriere metalliche e all'aumento delle forze militari, è iniziata il 14 luglio con l'uccisione di due poliziotti israeliani nella Città Vecchia di Gerusalemme.
La Spianata delle Moschee torna aperta a tutti i fedeli, indipendentemente dalla loro religione.

(Alghero News Groups, 27 luglio 2017)


Non si vince capitolando. La sconfitta dei metal detector

Non si vince capitolando e soprattutto cercando di fare credere che una capitolazione sia un atto di saggezza politica, di lungimiranza. La decisione del governo di Benjamin Netanyahu di rimuovere i metal detector dall'accesso della Porta dei Leoni al comprensorio del Monte del Tempio-Spianata delle Moschee a Gerusalemme dopo dieci giorni di proteste e violenze, culminate sabato scorso nel massacro della famiglia Solomon nell'insediamento di Halamish, è l'ultimo atto di una gestione politica della situazione che è stata, fin dal principio, approssimativa, irresoluta e confusa.

di Niram Ferretti

Subito dopo l'attentato del 14 luglio, costato la vita a due poliziotti israeliani, lo Shin Bet ed esponenti dell'apparato militare avevano sollevato le loro perplessità sull'opportunità di collocare i metal detectors come misura di sicurezza. Ritenevano che fossero poco efficaci, poco più che simboliche e che, soprattutto, avrebbero creato più problemi che altro, come si è puntualmente verificato.
   I fatti successivi, culminati nell'episodio di Amman, dove una guardia addetta alla sicurezza dell'ambasciata israeliana nella capitale giordana ha ucciso per legittima difesa due cittadini giordani, la montante pressione internazionale, quella americana in testa, hanno fatto il resto.E i metal detectors sono stati rimossi.
Un recente sondaggio condotto dall'emittente israeliana Canale Due ha messo in luce che il 77% degli israeliani ritiene che la decisione di rimuovere i dispositivi elettronici sia un segno di debolezza. Debolezza per altro subito percepita e incassata come una sorta di cambiale in bianco dal mondo arabo-musulmano. Ogni cedimento di Israele, ogni concessione data, per la mentalità araba viene interpretata non come un'azione distensiva o saggia, ma unicamente come una prova di vulnerabilità da sfruttare al massimo.
   Sono di ieri le dichiarazioni del Comitato Islamico di Gerusalemme e del Waqf islamico che amministra il comprensorio dove sorgono la Moschea della Rocca e quella di Al Aqsa di essere intenzionati nel proseguimento del boicottaggio al sito. I fedeli verranno invitati a rientrarvi per la preghiera solo dopo che verranno esaminate nei dettagli le nuove misure di sicurezza che Israele intende adottare. In altre parole, valutiamo noi cosa ci sta bene e cosa no e nel secondo caso dovrete adeguarvi salvo non vogliate che si ripeta la situazione precedente.
   Masaud Ganaim, esponente della Lista Araba Unita alla Knesset ha riassunto bene il sentimento diffuso da parte araba, "Si tratta di una vittoria da parte dei manifestanti e a vantaggio della lotta del popolo palestinese". Come dargli torto? E come non vedere che, progressivamente, dal 1967, anno in cui Israele decise di interdire la preghiera ebraica al Monte del Tempio e di darne la custodia amministrativa alla Giordania sconfitta, ad oggi, il comprensorio è diventato sempre di più cosa musulmana? Le delibere dell'UNESCO in virtù delle quali esso è riconosciuto unicamente tramite la sua definizione in arabo, Haram al sharif (il Nobile Santuario) lo certifica.
   C'era davvero bisogno di questa sceneggiata? Di questa esibizione cinematografica di forza apparente, plasticamente rappresentata da fotografie che hanno fatto il giro del mondo con poliziotti armati in piedi davanti ai metal detectors e la folla dei fedeli musulmani prostrati in preghiera davanti alle transenne di metallo, per poi smontare tutto l'apparato dopo solo dieci giorni?
   Niente è più corroborante e incitante per l'orgoglio arabo-musulmano e per le teste calde pronte ad entrare in azione in ogni momento, del potere evidenziare che alla fine, Israele è più debole di quanto non si pensi.

(L'Informale)


L'intifada dei palestinesi all'italiana: "I musulmani devono uccidere tutti gli ebrei"

E la costituente islamica: "Manifestiamo in tutta Italia"

di Alberto Giannoni

Tensioni e scontri sorti intorno alla gestione dei luoghi sacri (a musulmani ed ebrei) accendono gli animi degli «ultrà» più sfegatati. La pagina «Al Fatah Italia» ha pubblicato la foto di Omar Abed, il terrorista che ha compiuto una strage in una casa del villaggio di Halamish, nel giorno sacro di Shabbat. Il sito che si richiama all'organizzazione del leader palestinese Abu Mazen lo chiama «martire», sottolineando a titolo di merito che «il giovane ha accoltellato dei coloni sionisti». Delirante, come la ricostruzione che si fa della vicenda del Monte del tempio-Spianata delle moschee: «Le forze d'occupazione israeliana e i coloni, fuorilegge per la legalità internazionale e criminali per le azioni violente e impunite che commettono - si legge - continuano la loro aggressione armata contro il popolo palestinese». E delirante è l'incitamento all'odio che compare nella pagina «Siamo fieri di essere musulmani», in vari post che - nonostante le segnalazioni e le proteste - sono ancora ben visibili. Si parla di «soldati di Satana» e viene pubblicata una citazione «religiosa» (discutibile e fuori contesto): «L'ultima ora non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno». Intanto il leader della cosiddetta costituente islamica, Hamza Piccardo, lancia il suo appello: «Palestina chiama, manifestiamo in tutta Italia» scrive, sollecitando tutti a «chiedere subito le autorizzazioni».

(il Giornale, 26 luglio 2017)


Erdogan contro Israele

Il presidente turco chiama i musulmani a "proteggere" Gerusalemme

 
"Vorrei lanciare un appello a tutti i miei concittadini e i musulmani del mondo intero, affinché tutti quelli che hanno mezzi economici sufficienti si rechino in visita a Gerusalemme alla moschea di al Aqsa'', ha detto ieri il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan. ''Venite a proteggere tutti insieme Gerusalemme''. Il richiamo di Erdogan non è nuovo - già lo scorso maggio aveva chiamato tutti i musulmani ad andare a Gerusalemme ''per impedirne la giudeizzazione'' -, ma arriva in un momento in cui la tensione è massima a causa degli scontri e dei morti intorno al Monte del Tempio, assumendo così un tono più inquietante. In Turchia si verificano di continuo episodi antisemiti, giovedì scorso è stata assaltata, con pietre e bastoni, la sinagoga Neve Shalom a Istanbul. Il presidente turco ha condannato gli attacchi contro le sinagoghe, ma ha subito dopo attaccato lui stesso Israele chiamando all'adunata dei musulmani su Gerusalemme. L'appello è destinato a risuonare molto forte: venerdì scorso, per il ''giorno della rabbia'' indetto dai palestinesi per protestare contro l'introduzione dei metal detector a protezione dei siti religiosi, ci sono state proteste e manifestazioni in tutto il mondo musulmano, e in Giordania la crisi è precipitata con l'assalto all'ambasciata israeliana. Ora i metal detector sono stati rimossi - al loro posto ci saranno delle telecamere - ma si sa che l'odio contro Israele si nutre di pretesti e non si placa quando questi pretesti vengono a cadere. Erdogan gioca una sua partita politica precisa: cerca un nemico esterno da agitare davanti alle folle per mobilitare il suo pubblico. Anche se il referendum presidenziale di aprile è vinto, il governo agisce ancora come se fosse in campagna elettorale e deve tenere il piede premuto sul pedale dell'islamismo e del nazionalismo - unici veri collanti di una coalizione incerta. Il presidente turco cerca soprattutto un nuovo credito presso il mondo musulmano in un momento in cui questo è diviso (anche) dalla questione del Qatar: l'antisemitismo è uno strumento di leadership semplice e popolare, ancorché pericoloso. Ieri sono ricominciati i colloqui tra Ankara e Bruxelles, ma le aspettative sono misere, e la Turchia sembra scivolare sempre più lontano dall'orbita occidentale, e il conto, come spesso è accaduto in passato, lo pagherà Israele.

(Il Foglio, 26 luglio 2017)


*


Erdogan sogna un'invasione musulmana a Gerusalemme

"Venite a proteggere tutti insieme la mosche di al Aqsa". Perché il presidente turco minaccia di far deragliare le relazioni con Israele dopo tanta fatica per riconciliare le parti.

di Enrico Cicchetti

Non si può mai essere sicuri di quello che passa per la mente di Recep Tayyip Erdogan quando sbotta contro Israele. Ma ci sono alcuni capisaldi che ritornano con insistenza. "Vorrei lanciare un appello a tutti i miei concittadini e i musulmani del mondo intero, affinché tutti quelli che hanno i mezzi economici si rechino in visita a Gerusalemme alla moschea di al Aqsa", ha detto ieri il presidente della Turchia entrando così duramente nella questione degli scontri intorno al Monte del Tempio, che hanno causato morti e violenze. "Venite a proteggere tutti insieme Gerusalemme".
   L'8 maggio scorso, in un forum a Istanbul per promuovere lo sviluppo economico in Palestina, il presidente turco ha criticato Israele per le pratiche "razziste e discriminatorie" nei confronti dei palestinesi. Erdogan ha aggiunto che "l'unica soluzione" è "l'istituzione di uno stato palestinese totalmente sovrano e indipendente secondo i confini del 1967". E anche allora ha invitato i musulmani del mondo a recarsi a Gerusalemme per impedirne "la giudeizzazione".
   Da poco più di un anno i rapporti tra Ankara e Tel Aviv erano tornati a distendersi, dopo il violento scontro seguito al raid israeliano contro la "Gaza Freedom Flotilla" del 31 maggio 2010 nel quale morirono nove attivisti turchi. Nella spedizione faceva parte anche una delegazione del partito della Grande unità (Bbp), fuoriuscito dall'Mhp, formazione ultranazionalista che oggi appoggia Erodgan e al quale il presidente deve in buona parte la risicata vittoria al referendum costituzionale del 15 aprile scorso. Erano dell'ala giovanile del Bbp i ragazzi che si fecero fotografare mentre, davanti a un fast food, puntavano una pistola alla testa di un Babbo Natale e anche quelli che giovedì scorso hanno assaltato, con pietre e bastoni, la sinagoga Neve Shalom a Istanbul. "Se ci togliete la libertà di culto laggiù, noi ve la togliamo qui", recitava il volantino letto dal leader del gruppo, Kursat Mican. Il presidente turco ha stigmatizzato gli attacchi contro le sinagoghe: "E' un errore rispondere ad un'ingiustizia con un'altra", ha detto, ma pochi giorni dopo lui stesso si è lanciato contro Israele, con la chiamata all'adunata musulmana su Gerusalemme.
   Ma perché Erdogan minaccia di far deragliare le relazioni turco-israeliane dopo che ha impiegato così tanto tempo e fatica per conciliare le due parti nel giugno 2016? Si possono immaginare almeno due scenari. L'improvviso cambio di tono verso Israele potrebbe essere ad uso interno e servire a mobilitare il pubblico attorno alla questione palestinese. Anche se il referendum presidenziale è finito, il governo agisce ancora come se fosse in campagna elettorale e deve tenere il piede premuto sul pedale dell'islamismo e del nazionalismo - unici veri collanti di una coalizione incerta. Le tensioni crescenti, sia sul fronte israeliano che su quello europeo, con le sfuriate contro la Germania, potrebbero essere una strategia per mobilitare il sostegno nazionale. Altri analisti invece sostengono che la Turchia voglia mantenere e ampliare il suo ruolo nelle dinamiche mediorientali nel momento in cui la guerra civile in Siria si avvicina a una soluzione.
   Quando domenica scorsa Erdogan ha attaccato Israele per aver messo in piedi misure di sicurezza straordinarie a Gerusalemme, ha invitato Tel Aviv a osservare i "valori fondamentali dei diritti umani". Qualcuno avrebbe dovuto ricordare che dopo il fallito golpe dello scorso anno la Turchia ha deciso di sospendere la propria adesione alla Convenzione europea sui diritti umani. Che la repressione contro i partiti di opposizione, contro il giornalismo indipendente, contro gli studiosi e le minoranze non avviene in Israele. Ma è all'ordine del giorno tra i confini anatolici. Sarebbe stato opportuno tirare fuori i rapporti delle Nazioni Unite che hanno denunciato la morte di circa duemila persone nella regione sudorientale della Turchia da luglio 2015 a dicembre 2016 e le gravi violazioni di diritti umani nel corso delle operazioni governative di sicurezza nella zona. Nei documenti si fa riferimento anche a 500 mila sfollati soprattutto di etnia curda. Colpa di Israele?

(Il Foglio, 25 luglio 2017)


Israele controlla la Spianata, ira degli arabi

Telecamere al posto dei metal detector. La tensione a Gerusalemme resta, alta.

Alla Spianata che porta alla Moschea di Al Aqsa sono spariti i metal detector, ma il governo israeliano non rinuncia alle operazioni di sicurezza nel luogo sacro dell'Islam e decide di aggiungere nuove telecamere a circuito chiuso investendo 28 milioni di dollari. Ci sono volute quasi cinque ore di riunione lunedì notte per trovare una strategia comune tra i componenti del gabinetto di sicurezza israeliano. Ha prevalso alla fine la linea di Netanyahu, che vuole mantenere il massimo controllo della Spianata dopo l'attacco del 14 luglio scorso che aveva provocato la morte di due poliziotti. Israele fa un passo avanti e un altro indietro e il ministro della sicurezza interna Ghilad Erdan conferma che «gli scanner saranno sostituiti con mezzi tecnologicamente avanzati che permetteranno di condurre ispezioni accurate. Inoltre le telecamere non violano in alcun modo la privacy dei fedeli». La rimozione dei metal detector è arrivata in seguito alla telefonata chiarificatrice tra lo stesso premier israeliano e il re giordano Abadallah dopo l'assalto di domenica sera all'ambasciata israeliana di Amman. Un giovane di origini palestinesi aveva accoltellato una guardia israeliana, che aveva reagito uccidendo l'aggressore e un altro giordano. La tensione già alta tra Israele e Giordania era salita alle stelle, con la richiesta di Amman di interrogare la guardia e la risposta di Tel Aviv che invocava l'immunità diplomatica garantita dalla convenzione di Vienna. Nel corso del colloquio telefonico Netanyahu ha assicurato la rimozione dei metal detector, ottenendo dal monarca giordano il ritorno in Israele della guardia.
   La notizia del rafforzamento delle telecamere però non ha fatto piacere ai responsabili islamici della Spianata che si oppongono a qualsiasi tipo di controllo israeliano sugli ingressi al luogo santo. Al momento i fedeli continuano a non entrare, seguendo l'invito
dei leader religiosi ad astenersi alle visite. Ikrema Sabri, capo del Comitato supremo islamico, ha riferito ai media che «continuerà il braccio di ferro fino a quando tutto non tornerà alla normalità. Non è sufficiente aver rimosso i metal detector, devono sparire le telecamere. Senza rispetto per la religione la strada del dialogo è impraticabile».
   Una strada sempre più in salita, anche per la recente presa di posizione di Erdogan che ha invitato tutti i musulmani a visitare e proteggere Gerusalemme. Parlando in parlamento, il presidente turco ha lanciato un vero e proprio appello alla «umma», l'unità dei credenti: «Chiedo una mobilitazione ai miei fratelli musulmani di tutto il mondo, e invito coloro che hanno i mezzi a fare una visita a Gerusalemme e alla moschea di Al Aqsa». Parole che non incoraggiano certo le possibili strategie perpetrate dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. L'inviato in Medio Oriente del Palazzo di vetro Nickolay Mladenov si è detto disponibile a incontrare le parti prima di venerdì, «per evitare che nella giornata santa dell'Islam possano avvenire nuovi incidenti». Sulla stessa lunghezza d'onda è apparsa l'ex ministra degli esteri israeliana Tsipi Livni, che nel corso di un'intervista ha invocato «un intervento diplomatico degli Stati Uniti per evitare un degrado molto grave della situazione». Qualcosa in tal senso è già stato fatto dall'ambasciatore americano a Tel Aviv, David Melech Friedman, che ha favorito il colloquio tra Netanyahu e re Abdallah. Friedman avrebbe in agenda anche un incontro con il collega russo Alexander Shein.

(il Giornale, 26 luglio 2017)


Le avventure di un testo ebraico salvatosi per miracolo dai nazisti

Dalla Spagna del '200 a Roma, trovò rifugio alla Vallicelliana. Ora è stato restaurato con altri venticinque preziosi volumi.

di Ariela Piattelli

 
Una pagina del Meghillot e Aftarot, il manoscritto ebraico del 1202 appena restaurato
ROMA - Si è salvato per miracolo. Ha scampato le censure, i roghi, i sequestri e persino le razzie naziste. Ha rivisto la luce all'Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, fresco di restauro, un manoscritto del 1202, che contiene «Meghillot e Aftaroth» (Agiografi e Profeti), ma anche la storia delle peripezie di cui fu protagonista e che lo portarono dalla Provenza medievale alla Roma del '500. È uno dei 25 preziosi volumi che si sono salvati dalle mani dei nazisti, che dalla biblioteca della comunità romana ne trafugarono 7000. Oggi non conosciamo il loro destino.
   «Prima della Seconda Guerra Mondiale la comunità ebraica di Roma aveva una delle biblioteche ebraiche più importanti al mondo - spiega Silvia Haia Antonucci, responsabile dell'Archivio Storico -. I nazisti, che avevano un ufficio preposto alla caccia ai libri ebraici, che poi sarebbero finiti nel macabro "museo delle razze scomparse", prendono i volumi, tra cui manoscritti, codici antichi, preziosi libri di studio, tra il settembre e il dicembre del '43. Sul loro destino ci sono varie ipotesi, l'unica certezza che abbiamo dalle fonti dell'epoca è che sono partiti con destinazione Francoforte. Questo straordinario codice restaurato, si è salvato perché, assieme ad altri volumi, è stato portato prima della razzia alla Biblioteca Vallicelliana, dove è rimasto sino alla fine della guerra». Altri, pochi, manoscritti si sono salvati perché gli ebrei ci studiavano, e dunque passavano dalle sinagoghe alle case. E proprio lo studio li ha mantenuti in vita durante i secoli.
   Del manoscritto sappiamo molto, perché era uso scrivere sui libri la presa di possesso e di responsabilità. Sul codice pergamenico riscoperto, di 142 pagine con legatura in legno e in cuoio, è riportato che è stato scritto da Yosef (figlio) di Shemuel da Barcellona, per incarico di Avraham Gattegno ad Arles, località della Provenza, nell'anno 1202. «Nel 1200 il passaggio di persone dalla Catalogna e alla Provenza era enorme, i rabbini si muovevano continuamente - spiega Gabriella Yael Franzone, coordinatrice del dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma -. Questo straordinario manoscritto ci racconta la storia della circolazione delle idee. È compilato da ebrei spagnoli, "sefarditi" in Provenza, nella zona in cui si parlava la lingua d'oc, e dove fiorisce il misticismo ebraico». Lo Zohar, il testo fondamentale della mistica ebraica, viene compilato proprio in quest'area nel Medioevo, dove nasce la poesia moderna.
   «Era il periodo in cui gli ebrei non erano perseguitati - continua la studiosa-, il fervore culturale generava la circolazione delle idee. Lì, in quell'epoca, convivevano i mistici ebrei, cristiani e musulmani, in una situazione di grande rispetto reciproco e di comunicazione. I rabbini che si spostavano erano protagonisti della trasmissione della cultura. Gli ebrei dell'epoca medievale rappresentavano una cerniera fondamentale nella trasmissione della cultura e delle scoperte scientifiche tra mondo islamico e cristiano. Non è un caso che l'espulsione degli arabi e degli ebrei dalla Penisola Iberica concorse fortemente al declino della Spagna».
   E proprio in quel periodo, attorno al 1500 il volume, arrivò a Roma. «Con la cacciata dalla Spagna, gli ebrei si disseminano in quasi tutta l'Europa, tra le Fiandre, a Istanbul all'Ungheria, alla Polonia e all'Italia. Sappiamo che portarono con sé libri preziosi dai testamenti dell'epoca. Questo manoscritto fu portato a Roma dagli ebrei sefarditi che andranno a costituire una parte importante e soprattutto colta della comunità ebraica capitolina». Con il restauro, grazie al quale si è rivelata la storia del volume, si è scoperto che c'è un altro manoscritto in archivio, un prezioso «Chumash» (che contiene i cinque libri della Torà), oltre 15 chili di sapienza, scritto dallo stessa persona e protagonista della stessa avventura. «Sono due codici che si completano, facevano parte della stessa raccolta. Abbiamo ricucito una parte importante della nostra storia - dice Claudio Procaccia, direttore Dipartimento beni e attività culturali della comunità -. Questi volumi, che migrarono per percorsi pericolosi, ci restituiscono l'immagine di comunità ebraiche vivaci e culturalmente ricche. Le persone preferivano salvare i libri che i propri beni, pur di mantenere in vita la propria identità».

(La Stampa, 26 luglio 2017)


Dal mensile evangelico "Il Cristiano" (1888-2017)

Continuiamo la pubblicazione di brevi notizie e commenti tratti dal mensile evangelico "Il Cristiano".

NOVEMBRE 1901
Il fratello Israel Isaia Aschkenasi in compagnia del fratello Anderson in questi ultimi giorni ha visitato le città di Venezia, Bologna, Firenze, Livorno, Pisa e Genova, per tenere delle Conferenze sulla Questione di Sion. Ovunque le radunanze riuscirono numerose, specialmente pel concorso di ebrei venuti a udire il loro connazionalista. Al termine di ogni Conferenza il fratello Aschkenasi è stato consolato dalla cordialità mostratagli dagli israeliti e dai suoi fratelli in Gesù Cristo. Consolanti pure riuscirono per lui quei momenti, in cui molti ebrei desiderarono parlare con lui della parola del Signore. In ogni città furono visitati dai nostri due cari fratelli i Ghetti e Sinagoghe.
Voglia Iddio ricondurre sano e salvo alla sua dimora in Londra l'amato nostro fratello Aschkenasi.


GENNAIO 1929
ISRAELE E GLI EVENTI ODIERNI
(Da una lettera particolare)

Cari fratelli,
Gli avvenimenti precipitano, le profezie stanno per compiersi, il Signore Gesù ritornerà presto e noi vedremo le grandi cose promesse nell' ultimo capitolo dell'Apocalisse. Dobbiamo sentirci come dei privilegiati di vivere l'epoca grave e solenne che attraversiamo e di vedere le cose che noi vediamo.

* * *
La Palestina, terra materna degli Ebrei, è pronta a raccogliere i figliuoli d'Israele dispersi fra le genti. Le parole dei profeti stanno per divenire delle gloriose realtà. Gerusalemme, che fu sempre il simbolo dell'unità, speranza, fede e conforto d'Israele, tosto ritornerà in possesso del popolo eletto. Qualche mese fa, a Salonicco, in presenza degli eserciti delle Nazioni alleate, la musica militare italiana suonò l'inno nazionale ebraico, ciò che diede occasione all'israelita Giuseppe Huziel di pronunziare un solenne discorso, mettendo in rilievo le profonde aspirazioni nazionall dei figli d'Israele dispersi fra tutte le nazioni.
   In questi tempi il grande movimento Sionista entra nel pensiero dei popoli e nel concerto delle nazioni. La risurrezione d'Israele, prossima o lontana, entra pure nei piani di Dio. Ciò che Gesù chiama i "tempi dei gentili", o tempi delle nazioni (Luca XXI, 24), stanno per compiersi. Israele risorgerà dalle sue ruine e porgerà l'orecchio alla voce dei suoi profeti, ed il cui rimanente fedele piegherà le ginocchia davanti a COLUI che fu crocifisso, rna che Iddio ha sovranamente innalzato e gli ha donato un Nome che è Sopra ogni nome (Filipp. II, 7-11): Gesù Cristo, "Beata Speranza" della Chiesa, il Quale tosto apparirà dal cielo in gloria, "a salute di coloro che Lo aspettano" (Ebrei IX, 28). Sì, vieni, Signor Gesù. - Amen! M. V .
Nizza, li 4 Novembre 1918

(Notizie su Israele, 26 luglio 2017)


La Corte di Giustizia Ue: Hamas resta nella black list delle organizzazioni terroristiche

La lista nera europea delle organizzazioni terroristiche è nata dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001

di Daniele Vice

Hamas resta nella black list delle organizzazioni terroristiche. E' quanto ha dichiarato la Corte di giustizia dell'Unione europea dando così ragione agli Stati membri dell'Unione e bocciando il Tribunale che nel settembre del 2016 aveva annullato le decisioni contro Hamas per un vizio di forma. Per questo motivo la Corte Ue ha dichiarato che resteranno in vigore anche le sanzioni e le restrizioni a carico di Hamas.

 La causa torna al Tribunale Ue
  Dopo la sentenza, i giudici del Lussemburgo hanno deciso di rinviare la causa al Tribunale europeo che, alla luce della sentenza di oggi che non riconosce nessun vizio di forma, dovrà rivedere la sua decisione. La Corte, inoltre ha sottolineato che i giudici non avrebbero "dovuto annullare il mantenimento del movimento islamista al potere nella Striscia di Gaza nell'elenco europeo delle organizzazioni terroristiche".

 La black list europea
  La lista nera europea delle organizzazioni terroristiche è nata dopo gli attentati alle Torri Gemelle di New York dell'11 settembre 2001. Nell'ambito delle politiche per la lotta al terrorismo, il Consiglio ha deciso, infatti, di adottare particolari misure che prevedono, tra le altre sanzioni, il congelamento dei beni di persone, gruppi e di altre entità, se sospettati di un coinvolgimento in atti terroristici e la loro iscrizione in un elenco che il Consiglio decreta e aggiorna a intervalli di tempo regolari.

(In Terris, 26 luglio 2017)


Gli ebrei italiani di Libia: una comunità senza volto, da Mussolini a Scalfaro

di Davide Simone

 
In un precedente contributo avevamo parlato del pogrom di Tripoli, ovvero lo sterminio di 140 ebrei libici per mano della comunità arabo-musulmana locale tra il 5 e il 7 novembre del 1945. Il massacro di Tripoli si andava ad inserire in quella politica di persecuzione ai danni dell'elemento ebraico dell'ex colonia italiana e che che ebbe come esito finale la diaspora di decine di migliaia di ebrei dal Paese africano1.
   Se una fetta consistente di queste persone si diresse verso il neonato Stato di Israele, furono però molti gli ebrei-libici con documenti italo-libici a richiedere la cittadinanza italiana, subito dopo la fine della guerra ma specialmente dopo la presa del potere di Gheddafi.
   Nonostante una legge del 1919 ed una del 1927 (più restrittiva) concedessero agli italo-libici uno status privilegiato rispetto agli altri sudditi coloniali, e questo in base ad un presunto grado di civiltà superiore2, il percorso per la piena naturalizzazione fu tuttavia estremante tortuoso.
   Nel caso degli ebrei, inoltre, bisognava dimostrare di non avere la cittadinanza israeliana (concessa in virtù della Legge del Ritorno), presentando una documentazione in più rispetto a quella dei musulmani, richiesta che rendeva quasi impossibile la prosecuzione dell'iter di attribuzione della cittadinanza. Risultato di tale impasse era l'apolidia. Nel 1959 e nel 19673 sembrò che qualcosa potesse cambiare, grazie a due sentenze della giustizia del nostro Paese in cui, facendo riferimento all'art.19 del Trattato di Pace che considerava italiani sentenza distinzioni tutti i sudditi residenti nelle colonie, anche i giudici considerarono italiani "optimo iure" i richiedenti. Quello che mancò fu ad ogni modo, sempre e comunque, una normativa organica a riguardo; chi desiderava diventare italiano doveva quindi appellarsi ai tribunali per vedere riconosciute le sue ragioni.
Solo molti anni dopo, nel 1987-1988, l'Italia risolse la questione, attraverso due circolari emanate dall'allora ministro dell' Interno Oscar Luigi Scalfaro. Esse prevedevano, per gli ebrei-libici, la possibilità di mostrare con un normale atto notorio la propria residenza in italia, così da riconoscere "in via amministrativa, il possesso della cittadinanza italiana a quei soggetti i quali, già titolari dello status di italo-libici, non abbiano acquistato la cittadinanza libica o altra cittadinanza". Dato che Gerusalemme non concedeva, per ragioni di sicurezza, la lista dei suoi cittadini, Roma si impegnava inoltre a verificare direttamente se avessero beneficiato o meno della "legge del ritorno".
   Come ha osservato la storica Valeria Deplano, si trattava di "un iter lento, e anche complesso, che ancora negli anni Duemila non mancò di sollevare alcune polemiche in Parlamento, ma che nella maggior parte dei casi ha portato alla conclusione positiva delle istanze di cittadinanza".


 1 Gli ebrei si stabilirono nell'attuale Libia già a partire dalla distruzione del primo Tempio di Gerusalemme, nel 586 a.C.
 2 Ciò era determinato, secondo le autorità del tempo, dal colore più chiaro della pelle dei libici e dalla loro maggiore vicinanza geografica allo Stivale.
 3 Sentenze riferite al caso dell'italo-libico Kemali Rashid (quella del 1959) e di un italo-libico ebreo (quella del 1967) che si erano appellati alla giustizia ordinaria per l'ottenimento della cittadinanza: Solo in pochi casi le sentenze erano favorevoli ai richiedenti.

(L’Informale, 25 luglio 2017)


Israele toglie i metal detector dalla Spianata

di Davide Frattlnl

Anche vent'anni fa il primo ministro era Benjamin Netanyahu, al suo primo mandato. In Giordania regnava invece re Hussein. Allora bloccati ad Amman erano due agenti del Mossad, arrestati dopo aver tentato di assassinare Khaled Meshal, il leader di Hamas, con una tossina: per riportare a casa gli 007 il primo ministro israeliano fu costretto a inviare l'antidoto. Oggi il contravveleno per scongiurare la frattura con la Giordania è stato rimuovere i metal detector piazzati dodici giorni fa davanti all'ingresso principale per i musulmani verso la Spianata delle Moschee. La dinastia hashemita è garante del terzo luogo più sacro dell'Islam ed era già sotto pressione prima che domenica sera una guardia dell'ambasciata israeliana uccidesse due muratori arabi, uno di loro l'aveva pugnalato con un cacciavite. I giordani avevano chiesto di interrogare l'uomo della sicurezza. Alla fine - dopo una telefonata tra Netanyahu e il re - gli hanno permesso di lasciare il Paese. L'accordo di pace firmato nel 1994 è importante per tutti e due, la guerra in Siria e l'offensiva iraniana nella regione preoccupano. Poche ore dopo il premier ha riunito ancora una volta il consiglio di sicurezza e ha deciso di sostituire i metal detector con telecamere per il riconoscimento facciale. I palestinesi e il Wafq, l'organismo religioso che amministra la Spianata, hanno proclamato di non voler accettare soluzioni imposte, da quasi due settimane pregano per strada perché si rifiutano di passare attraverso i varchi elettronici, installati dopo l'attentato in cui sono stati ammazzati due poliziotti. Presentare la rimozione dei metal detector come il risultato della mediazione di re Abdallah potrebbe adesso risolvere la crisi.

(Corriere della Sera, 25 luglio 2017)


In Medio Oriente non basta la buona volontà

Il diritto di Israele a difendersi e le responsabilità di chi vuole incertezza

Si moltiplicano gli appelli perché nella crisi che si è creata dopo l'assassinio perpetrato da terroristi di Hamas di tre israeliani sulla spianata delle moschee prevalgano, come ha detto il Pontefice, "i propositi di riconciliazione e di pace". Belle parole ed eccellenti propositi, che però trascurano di identificare l'origine della tensione, che risiede in un disegno di distruzione del controllo israeliano di Gerusalemme, da ottenere con metodi violenti. Il pretesto religioso è stato utilizzato in Turchia (che formalmente ha un'alleanza militare con Israele) per promuovere agitazioni "popolari". In Giordania c'è stato un attentato nell'ambasciata israeliana, e questo si inscrive nel disegno di ridurre l'influenza della Giordania (e di quel che resta dell'Autorità nazionale palestinese) sostituendola con quella di Hamas, il cui obiettivo è "la fine dell'occupazione israeliana di Gerusalemme". E' evidente che la questione di chi debba controllare i metal detector è sproporzionata alla dimensione della posta in gioco. Si tratta di capire se i palestinesi, e in particolare le fazioni radicalizzate, hanno il diritto di uccidere, se è giustificata "l'ira" nei confronti di chi cerca di arrestare la spirale di violenza. Solo un riconoscimento del diritto (e persino del dovere) di Israele di garantire l'ordine può essere una base minima per avviare colloqui che stemperino la tensione. Si tratta della questione stessa dell'esistenza dello stato ebraico, non dei suoi confini o del suo orientamento politico.
   Se a uno stato non si riconosce il diritto di proteggere i suoi cittadini da attentati omicidi, si negano le basi della sua legittimità. Le migliaia di persone che hanno seguito i funerali delle vittime dell'attentato hanno diritto alla compassione e al cordoglio di una comunità internazionale che invece sembra decisa a voltarsi dall'altra parte. E' giusto che il governo israeliano cerchi di delimitare e circoscrivere gli effetti di quello che non è stato solo un episodio, ma è parte di un piano di ampia portata, però la cautela necessaria non può trascendere nel cedimento alla pretesa terroristica di impunità per gli assassini. Il carattere ondivago dell'azione americana, le ambiguità connesse all'intervento della Russia e della Turchia in Siria, in generale l'incertezza delle prospettive nel medio oriente, indeboliscono obiettivamente la posizione israeliana. I nemici di Israele approfittano di questa situazione per dare un colpo al cuore dello stato ebraico, alla sua legittimità e alla sua esistenza. Il diritto a pregare nella moschea di al Aqsa viene esteso a quello di entrarci armati e di perpetrare orrendi crimini, per poi denunciare come anti islamica e non semplicemente anti terroristica ogni reazione che punti a fermare la spirale di violenza. In questa situazione chiedere soltanto "buona volontà" senza indicare le responsabilità di chi ha coscientemente innestato la spirale di violenza appare se non ipocrita almeno insufficiente.

(Il Foglio, 25 luglio 2017)


Chiedere soltanto "buona volontà" senza indicare le responsabilità di chi ha coscientemente innestato la spirale di violenza non è soltanto insufficiente, è ipocrita. E il papa lo è per professione. M.C.


Arezzo - «Viva Maria» avrà la sua piazza (ma il nome no)

La protesta delle comunità ebraiche sul Corriere Fiorentino del 9 maggio

di Chiara Calcagno

AREZZO - Approvato l'atto per titolare un luogo significativo della città al «Viva Maria». Ma nella targa sarà scritto «Insorgenza aretina anti giacobina del 6 maggio 1799». Un compromesso non facile, arrivato dopo lunghe discussioni e accesi dibattiti che hanno spaccato la città di Arezzo e il consiglio comunale e hanno portato la comunità ebraica, lo scorso 8 maggio, a scrivere una lettera di profondo sdegno al sindaco Alessandro Ghinelli per contestare la proposta avanzata dal consigliere della Lega Nord, Egiziano Andreani. «L'amministrazione cittadina aretina potrebbe essere responsabile di un atto che riteniamo gravissimo e vi chiediamo di fermare questa ed ogni simile iniziativa. Il nostro futuro in questo Paese è possibile solo se si mantiene vivo e chiaro il ricordo della reale storia e si agisce con conseguente coerenza», diceva la nota. L'insurrezione della comunità aretina contro i francesi del 1799, infatti, propagandosi poi in altre parti della Toscana e del centro Italia, portò all'uccisione di 13 ebrei senesi con un rogo in Piazza del Campo.
   «Voglio ricordare - ha commentato Andreani - che nei fatti avvenuti a Siena, a oggi, non risultano storicamente responsabilità dell'esercito aretino».
   Ma la forte presa di posizione del presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, e di Dario Bedarida, presidente della Comunità ebraica di Firenze, aveva fatto slittare la proposta che, per mesi è rimasta congelata. Fino alla soluzione presentata ieri e approvata a larga maggioranza, con 19 voti favorevoli, 1 astenuto e soltanto 2 contrari.
   Il luogo, per ragioni di toponomastica, sarà individuato all'interno della Fortezza medicea, nella parte alta della città. Potrebbe essere il bastione in parte crollato per effetto di una mina francese oppure uno spazio vicino alla precedente piazzetta del Viva Maria. «Le radici storiche di un popolo vanno preservate - ha spiegato Andreani - devono essere studiate e conosciute per intero, senza omissioni e apologismi. Auspico che Arezzo e tutte le sue istituzioni favoriscano Io studio, l'approfondimento e la conoscenza degli eventi legati all'insorgenza del "Viva Maria", partendo dalla conoscenza dei fatti storici».
   Apprezzamenti per il lavoro di mediazione sono arrivati anche dal consigliere di centro sinistra Francesco Romizi: «Non si può però parlare di insorgenza anti-napoleonica - ha precisato - perché nel maggio 1799 Napoleone era in Egitto e non aveva compiuto il colpo di Stato del 18 brumaio che lo portò effettivamente al potere. Per cui la dicitura anti-francese sarebbe storicamente più corretta».

(Corriere Fiorentino, 25 luglio 2017)


Dai volantini del mufti Amin al Husseini agli "umilianti" metal detector

E' almeno del 1929 che la moschea al-Aqsa viene sfruttata per alimentare odio e violenza contro ebrei e Israele

Tutto si inquadra nell'ampia e insistita campagna musulmana volta a cancellare qualsiasi connessione ebraica con il Monte del Tempio. Parlando della posizione di Yasser Arafat a proposito dei Luoghi Santi durante le (fallite) trattative di pace a Camp David nel luglio 2000, Dennis Ross, inviato Usa per il Medio Oriente durante la presidenza di Bill Clinton, disse a Fox News un anno dopo: "L'unica idea nuova sollevata da Arafat a Camp David era che il Tempio non è mai esistito a Gerusalemme, e che si trovava a Nablus: stava negando il nucleo della storia e della fede ebraica". Quella negazione continua ancora oggi....

(israele.net, 24 luglio 2017)


Tutti contro Israele? Intervista a rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano

di Vanessa Tomassini

Rav Alfonso Arbib
Prima la sfida dell'Unesco, che lo scorso 7 luglio ha definito Hebron con la sua Tomba dei Patriarchi, in Cisgiordania, 'sito palestinese' Patrimonio dell'Umanità. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu l'aveva definita una "decisione delirante", promettendo che Israele avrebbe continuato a custodire la Tomba dei Patriarchi per assicurare la libertà religiosa di tutti, anche perché la storia non può essere cambiata. Poi il venerdì di preghiera musulmano nella Città Vecchia di Gerusalemme, trasformato in un venerdì di sangue con l'attentato di tre israeliani arabi che hanno preso di sorpresa tre agenti di polizia, uccidendone due e mandandone un terzo in ospedale gravemente ferito. Da qui la decisione di Netanyahu di chiudere il sito e la conseguente sassaiola di protesta da parte dei palestinesi nella Spianata delle Moschee. Ma la scia di sangue non finisce qui: una famiglia sterminata dai terroristi di Hamas a Gerusalemme durante i festeggiamenti di quest'ultimo Shabbat in casa propria e poi l'attentato all'ambasciata di Amman di Israele in Giordania, dove un operaio giordano ha ucciso, pugnalandola, una guardia di sicurezza israeliana.
A tutto questo deve sommarsi una minaccia ancora più seria: Hezbollah. Il cosiddetto Partito di Dio, nato nel giugno del 1982 sotto la guida di Hassan Nasrallah, dispone di decine di migliaia di razzi a varia gittata capaci di raggiungere il territorio israeliano, non solo dal Libano, ma anche dalla Siria. Questa mattina la bandiera gialla del gruppo terrorista, che in Libano è anche un partito politico, è stata issata di fronte l'Ambasciata di Israele a Londra. Rendendo così, giorno dopo giorno, la minaccia sempre più reale e vicina.
Nonostante Israele, con i suoi sistemi radar antimissilistici e i suoi equipaggiamenti, non avrà di certo problemi seppur con qualche difficoltà iniziale a fronteggiare il nemico libanese, Hezbollah ha imparato da Hamas ad utilizzare scudi umani. Una mossa da parte di Netanyahu provocherebbe decine di migliaia di morti tra i civili libanesi, morti che non sarebbero sicuramente ben visti dall'opinione pubblica internazionale che sempre più parla di "boicottaggio" dello Stato di Israele. Cercando di far luce sui problemi e le possibili soluzioni della questione israeliana, abbiamo incontrato il rabbino capo di Milano, Rav Alfonso Arbib, che ci ha ricevuti nel suo ufficio situato nella splendida cornice della Sinagoga centrale di via Guastalla, presidiata da camionette dell'esercito e forze dell'ordine. Il rabbino ha preferito non toccare i temi politici, ma abbiamo cercato di fare insieme un'analisi degli attuali guai di Israele.

- L'UNESCO ha dichiarato Hebron e la Tomba dei Patriarchi patrimonio dell'umanità di appartenenza palestinese. Cosa rappresentano rispettivamente questi luoghi per gli arabi e per gli ebrei?
  "Preferisco dirle cosa rappresentano per gli ebrei. Hebron, probabilmente, è il più antico luogo di residenza ebraica, è la città dei Patriarchi, è stata la città di Abramo ed è sempre stato un centro fondamentale: un punto di discioglimento. Secondo l'interpretazione dei Maestri, la parola Hebron deriva dal verbo ‘לאחד’ che significa unire: la città che unisce cielo e terra. La Tomba dei Patriarchi, secondo un passo di Isaia, rappresenta l'entrata verso il Paradiso, il punto di passaggio tra questo mondo e l'aldilà. Hebron è un centro spirituale, lo è sempre stato, sia nei tempi antichi che in quelli moderni. Una cosa che si dimentica di dire, parlando di Hebron, è che quest'area è stata da sempre abitata dalla popolazione ebraica e alla fine degli anni '20 c'è stato un massacro con lo sterminio di tutta la popolazione ebraica locale. Hebron rappresenta un legame con l'antico, con l'origine dell'ebraismo, ma anche un legame con il moderno, che è molto forte e molto sentito. Dal punto di vista ebraico fa molto male sentir parlare di tutto questo come "colonia", come se la storia fosse scomparsa. Non voglio entrare nella questione politica, ma si tratta del cuore della tradizione ebraica, di elementi essenziali, dell'origine, dei sentimenti, di tutto. Questo fa molto male".

- Perché questa decisione dell'UNESCO?
  
"Sinceramente, mi sembra in parte scandalosa e dall'altra ridicola. Questa decisione nega la storia, nega l'evidenza e non so in che modo lo si possa fare. Dal punto di vista dei musulmani la questione è un po' più complicata: almeno secondo l'idea comune dell'Islam c'è un legame coi Patriarchi che in qualche modo rappresentano l'Islam. Sicuramente un legame c'è, tuttavia negare quanto sia fondamentale e viscerale per l'ebraismo, significa negare l'evidenza".

- Dopo l'attentato a Gerusalemme Vecchia, Netanyahu ha chiuso il sito con dei metal detector, lasciando fuori i Palestinesi a pregare. Possiamo leggere il successivo attacco all'ambasciata israeliana di Amman in Giordania come una reazione di Hamas?
  
"Io non credo che ci sia l'intenzione da parte degli israeliani di escludere i musulmani da questi luoghi. Credo che sia stata una misura di sicurezza presa in quel momento per fronteggiare la situazione. Né ad Israele, né a nessun ebreo verrebbe in mente di impedire ai musulmani di pregare e di avere questo luogo di culto fondamentale. Nessun governo israeliano ha intenzione di fare una cosa del genere. È folle pensarlo, ed ancora più folle farlo. Ho sempre il dubbio per quanto riguarda Hamas che si tratti di reazioni o strumentalizzazioni. È un leitmotiv di ogni estate la recrudescenza di atti di terrorismo o anche peggio".

- Sempre in questo quadro, durante l'ultimo Shabbat alcuni palestinesi sono entrati in casa di ebrei a Gerusalemme massacrando un'intera famiglia. Secondo lei quest'incubo un giorno finirà?
  
"Spero proprio che questo incubo finisca. Pensare che qualcuno possa entrare in casa propria mentre stai festeggiando lo Shabbat, insieme alla tua famiglia, ricorda i momenti peggiori della storia ebraica: le persecuzioni ucraine e russe. Fa pensare che non si possa vivere serenamente nella propria casa: è un atto terribile e vigliacco. Credo che la reazione del resto del mondo, delle organizzazioni internazionali sia davvero troppo timida".

- Gli ebrei sono stati accusati di razzismo per via della cinta di sicurezza, ma è vero che ci sono alcune zone in territorio israeliano dove dei cartelli vietano l'ingresso agli ebrei?
  
"È vero, questo è vero: in alcune parti gli ebrei non possono entrare, sia per via di cartelli che lo vietano, sia perché in alcune aree i rischi sono talmente alti che non è consigliabile. Al contrario non mi risultano divieti o limitazioni per i musulmani da parte degli israeliani ebrei. La chiave di lettura di tipo razzista è fuorviante, è importante capire che Israele vive in una situazione di attentato alla sicurezza esistenziale continua, da sempre. Credo che il mondo occidentale non se ne renda conto. Io ero in Israele alcuni anni fa, proprio quando si discuteva se fare il muro o meno, la discussione era estremamente bipartisan. C'era gente di sinistra che considerava necessaria la realizzazione del muro, gente di destra che sosteneva che non si dovesse fare, perché il muro rappresenta un confine e non era ben visto. Il motivo di costruzione del muro di sicurezza era esclusivamente per protezione in quanto prima del suo innalzamento vi erano attentati continui in Israele. Il muro ha ridotto gli attacchi del 90%, se non ricordo male. Questa è l'unica motivazione, nessun motivo discriminatorio, ma un tentativo di salvaguardare la vita delle persone".

- La diplomazia israeliana è stata sempre di auto-difesa, permettendo ai palestinesi di inventare storie e creare una propaganda, che in parte è riuscita a convincere l'opinione pubblica globale. Sempre più spesso sentiamo parlare di boicottaggio. Forse la stessa scelta dell'UNESCO è dipesa da queste menzogne. Vista la minaccia di migliaia di missili nelle mani Hezbollah, con basi in Siria e Libano, crede che sia necessaria una strategia diplomatica da parte di Israele che informi il mondo su chi è e cosa fa Hezbollah? Un eventuale attacco preventivo da parte di Israele, senza queste premesse, non rischierebbe di aumentare maggiormente l'immagine del "cattivo" già spesso attribuita allo Stato di Israele?
  
"Non mi sento di dare consigli agli israeliani su come fare propaganda, e neanche come guidare la propria politica estera: decideranno loro. Quello che posso dire è che ho l'impressione che il fattore educativo sia stato trascurato e sottovalutato. Nel mondo arabo, anche in quello non così ostile ad Israele, c'è un sistema che educa molto spesso all'odio. È qualcosa di cui non si parla mai, non ci si rende conto che questo può formare generazioni di persone, futuri cittadini formate dall'idea dell'odio. Credo che la battaglia, non tanto propagandistica, quanto quella educazionale sia fondamentale. Credo che sia necessario trasmettere qualcos'altro, dobbiamo far capire che il mondo è più complicato di come viene spesso rappresentato, che le situazioni sono diverse. Abbiamo il dovere di farlo, che funzioni o meno. Non so se ormai la situazione è degenerata, perché vi è già stata questa penetrazione di idee di propaganda anti-israeliana, credo tuttavia che sia nostro dovere farlo, indipendentemente dai risultati".

- E crede che questi messaggi possano essere recepiti?
  
"Francamente non lo so, nessuno lo sa. Si dice che una goccia dopo l'altra scolpisce una pietra. Credo che sia ora di iniziare a versare qualche goccia".

- Papa Francesco nell'omelia della domenica ha invitato al dialogo. Secondo lei, dopo i recenti fatti, dialogare è ancora possibile?
  
"Io credo che sia ovviamente difficile, ma nello stesso tempo inevitabile. Io non credo che si possa perdere la speranza del dialogo. Sarebbe terribile, perdere la possibilità del confronto significherebbe vivere in un mondo molto brutto. Dobbiamo provarci, non so con quali modalità e con quale successo, ma nessuno di noi può continuare a vivere così, in un conflitto eterno".

- Lo scorso mese è stato celebrato il cinquantenario della Guerra dei Sei Giorni. Una delle cause più scottanti del conflitto israeliano-palestinese è la liberazione, o meno, di alcuni territori "occupati". C'è in questo momento in Israele un dibattito serio su questa possibilità? O crede che si stia passando da un conflitto territoriale a una guerra di religione?
  
"Sì, il dibattito in Israele c'è da sempre. Credo che il dilemma prosegua dal giugno del 1967. Il problema è che non è solamente territoriale, basti pensare alla pace con l'Egitto. Il conflitto è molto complicato: è sicuramente religioso, ma non solo. Ci sono una serie di questioni che si intrecciano, che implicano passioni, pensieri ed idee".

- Quale clima si respira all'interno della Comunità ebraica di Milano?
  
"In questo momento c'è un clima di forte preoccupazione per quanto avviene in Israele. Siamo in allerta da diverso tempo, non solo da adesso. Siamo protetti e dobbiamo ringraziare chi ci protegge: la polizia, i carabinieri, l'esercito. La minaccia effettivamente c'è, ma come in Israele si vive in assoluta tranquillità, anche se il campanellino d'allarme c'è sempre. Grazie a Dio fino ad oggi l'Italia è stata risparmiata dagli attentatori, ma non si può mai dire l'ultima parola".

- Che scenari immagina nel breve e nel medio termine per Israele?
  
"Il pericolo è fondamentalmente quello iraniano e collegato ad esso quello degli Hezbollah. Spero che rimanga dormiente."

- Crede che l'occidente possa fare qualcosa? Soprattutto il vostro maggiore alleato, Donald Trump, non dovrebbe alzare un po' la voce?
  
"Credo che l'occidente debba esercitare un'influenza differente, debba uscire fuori dallo schema "buoni/cattivi", che spesso viene usato per questa questione. È necessario capire le posizioni, senza necessariamente dover dare ragione all'uno o all'altro. Bisogna prendere atto della realtà per quella che è, ascoltare le motivazioni di tutti e cercare di proporre soluzioni pragmatiche. L'occidente deve lasciare questa realtà, per certi versi, immaginaria e compiere un grande sforzo per combattere l'odio, da qualunque parte esso provenga".

(Notizie Geopolitiche, 24 luglio 2017)


Il Likud verso il voto contro l'istituzione di uno Stato palestinese

GERUSALEMME - Il Likud, partito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha fissato per martedì prossimo la votazione di un documento che ribadisce l'opposizione della formazione politica alla creazione di uno Stato arabo palestinese, e sollecita invece l'esplorazione di "alternative" alla cosiddetta "soluzione a due Stati". Il quotidiano "Jerusalem Post" ricorda la posizione ambivalente di Netanyahu sulla questione: nel 2002 su proprio l'attuale premier a promuovere una simile risoluzione contraria ad uno Stato palestinese, bocciata per l'opposizione del primo ministro e segretario di partito di allora, Ariel Sharon. Nel 2009, invece, Sharon appoggiò pubblicamente la soluzione a due Stati durante un discorso tenuto presso l'Università di Bar-Ilan. Ad avanzare una proposta simile a quella del 2002 è stato Shevah Stern, responsabile della sede regionale di partito di Mateh Binyamin, in risposta all'uccisione di tre cittadini israeliani in Cisgiodania, lo scorso fine settimana. Per Netanyahu, impegnato a discutere il riavvio dei negoziati israelo-palestinesi col presidente Usa Donald Trump, e alle prese con lo scandalo dell'acquisto dei sottomarini dalla Germania, l'iniziativa costituisce un grave grattacapo. "Non sto cercando di creare problemi al primo ministro", ha dichiarato a questo proposito Stern. "Non vogliamo agire contro il primo ministro, ma vogliamo esercitare un'influenza su di lui e su altri ministri affinché seguano la linea del Likud, che è contrario a uno Stato palestinese".

(Agenzia Nova, 24 luglio 2017)


Nuovo arresto per il deputato al-Razaq

di Gianluca Vivacqua

Trent'anni di conflitto israelo-palestinese, tre immagini simbolo. Prima intifada (1987-93): la rivolta dei balilla palestinesi (beh, magari molti di essi erano anche un po' più cresciuti del Perasso di pre-risorgimentale memoria). Seconda intifada (2000-05): i kamikaze cisgiordani, emulatori del mito dei maestri di al-Qaeda. Terza (probabile) Intifada, a partire dal mese in corso, nonostante se ne parli praticamente dal 2008: gli assaltatori della Spianata delle Moschee con le armi fabbricate artigianalmente.
   Tra una rivolta e l'altra, mentre a morire in prima linea c'erano quasi sempre combattenti giovani e non professionisti (la Guardia Nazionale Palestinese, porzione minoritaria dell'Esercito di Liberazione Palestinese controllato dalla Siria, dal 1994 ha più che altro compiti di forza di sicurezza), una generazione di leader politici si temprava, nell'ombra, accumulando un arresto dopo l'altro. Parliamo nello specifico della leadership di Hamas, il movimento para-terroristico nato proprio nel corso della Prima Intifada. Quei capi, alcuni dei quali tutt'altro che esordienti, non hanno assolutamente perso il gusto delle cure fortificanti dietro le sbarre ebraiche.
   Risale al 22 luglio la notizia secondo cui in un blitz israeliano in Cisgiordania tra i 25 leader e funzionari arrestati di Hamas ci sarebbe anche un deputato, Omar Abd al-Razaq, che è appunto una vecchia conoscenza delle davidiche galere. Anche se la notizia non ha trovato ancora una conferma definitiva da parte dell'esercito, nulla ci impedisce di provare a tracciare una breve "fedina penale" del parlamentare palestinese. al-Razak, come detto, non è nuovo alle manette dello Stato israeliano: fu già arrestato una volta, infatti, nel 2006, e rilasciato due anni dopo. Cenni più particolareggiati su quel rilascio si possono ancora trovare su Internet, precisamente in un articolo online del Jerusalem Post datato 6 agosto 2008. Nel pezzo si legge che al-Razaq venne liberato nell'ambito di un accordo segreto tra Hamas e il governo di Olmert finalizzato ad uno scambio di prigionieri, insieme ad altri due esponenti dello stesso movimento, Muna Mansour, deputato (nel testo originale è legislator, variante di deputy), e Issa al-Jabari, ministro per la Decentralizzazione. Anche al-Razaq a quei tempi era ministro: il dicastero che dirigeva era quello, cruciale, delle Finanze. A differenza di quest'ultimo, al-Jabari venne nuovamente tratto in arresto dalle forze israeliane all'inizio dello scorso anno, ad Hebron, insieme ad un membro del Consiglio legislativo (nome del Parlamento palestinese), Hatem Qafisha. Per al-Razaq, invece, non c'erano state altre disavventure con il braccio violento della legge israeliana, almeno fino al blitz di ieri, scattato, com'è facilmente comprensibile, nell'ambito delle misure straordinarie adottate in conseguenza dell'attentato del 14 luglio. Dopo essere stato rilasciato egli non ebbe più incarichi ministeriali (quando cadde la prima volta in mano israeliana, comunque, non era titolare del dicastero economico che da qualche mese) e tornò ad essere un semplice eletto dal popolo. C'è da notare infine che tra gli arrestati del 22 luglio ci sono anche altre persone che, proprio come l'ex ministro, avevano già beneficiato di un rilascio sulla base di uno scambio di prigionieri: le nostre fonti, però, non ci danno modo di sapere con esattezza a quale epoca risalgano l'arresto e la carcerazione di queste altre persone.

(Notizie Geopolitiche, 24 luglio 2017)


Siccità, la proposta che arriva da Israele per irrigare il mais con una tecnica innovativa

L'irrigazione goccia a goccia, la stessa usata in Israele nel deserto, potrebbe essere la soluzione per irrigare il mais evitando gli sprechi in questo periodo di grande siccità

di Manuela Di Vietri

Per risparmi dell'acqua fino al 60% la soluzione potrebbe essere irrigare il mais con la stessa tecnica impiegata da Israele nel deserto, cioè goccia a goccia, così da ridurre al minimo lo spreco di acqua. A cogliere la sfida le cooperative cerealicole di Confcooperative Fedagri Piemonte, il Consorzio Ceralicolo Capac e il Consorzio Irriguo Angiono Foglietti, che dopo aver sperimentato la tecnica da un paio di anni su un campo di 30 ettari, ora progettano di estenderla nella prossima primavera a 300 ettari, su un'area a cavallo delle province di Torino e Vercelli. "I cereali, da sempre, sono tra le coltivazioni che necessitano di più irrigazione in un periodo breve ma fondamentale, come quello estivo Se poi si pensa che il sistema utilizzato attualmente risale al 1500, si comprende quanto bisogno ci sia di innovazione - spiega all'Adnkronos Michele Bechis, responsabile settore cerealicolo di Fedagri Piemonte - per questo si è pensato di adottare anche in Piemonte la tecnologia che hanno inventato gli israeliani per bagnare il deserto. In pratica anziché buttare l'acqua nel campo, a scorrimento, la si convoglia attraverso i filari del mais attraverso 'ali gocciolanti', manichette di plastica con forellini ogni 40 centimetri, che rilasciano gocce d'acqua a basta pressione, a una atmosfera di pressione, meno di quella per intenderci che esce da rubinetto di casa. "Quest'acqua, quindi, gocciola piano piano e bagna il mais senza sprecare acqua, anzi, con un risparmio accertato fino al 60%", aggiunge Bechis. "Il bilancio di questi due anni di sperimentazione - aggiunge ancora Bechis - è stato molto positivo perché abbiamo ottenuto tre obiettivi, risparmio di acqua, ottima produzione e mais molto sano sotto il profilo sanitario perché potendo dosare l'acqua riusciamo a dare acqua alla pianta quando ne ha bisogno, evitando così di 'stressarla', con la conseguenza che la pianta si ammala di meno".

(Meteo Web, 24 luglio 2017)


Cittadino israeliano accoltellato da un palestinese vicino a Tel Aviv

GERUSALEMME - Un cittadino israeliano è stato pugnalato questa mattina da un palestinese proveniente dalla Cisgiordania nei pressi di una stazione degli autobus nella città di Petah Tikva a circa 10 chilometri ad est di Tel Aviv. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Yediot Ahronot", secondo cui l'aggressore, un palestinese di 21 anni originario della città di Ar'ara, è stato arrestato dalla polizia israeliana. I media israeliani sostengono che il giovane palestinese avrebbe giustificato l'attacco per le restrizioni imposte dalle autorità dello Stato di Israele alla Spianata delle moschee (Monte del Tempio per gli ebrei)
Sarebbe stato meglio dire:
Monte del Tempio (Spianata delle moschee per i musulmani)
che dalla scorsa settimana hanno causato una nuova ondata di proteste e violenze nel paese.

(Agenzia Nova, 24 luglio 2017)


Assalto all'ambasciata d'Israele. Un ufficiale ferito a coltellate

Blitz dell'esercito in Cisgiordania: arrestati 29 membri di Hamas. Restano i metal detector a Gerusalemme.

di Ariel David

La sede dell'ambasciata d'Israele ad Amman
Mentre resta alta la tensione per l'installazione dei metal detector presso gli ingressi della Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ad Amman, in Giordania, l'ambasciata d'Israele è stata teatro di una sparatoria. Secondo i media arabi, due giordani, forse addetti alle pulizie per «Al Jazeera», sono stati uccisi dopo aver gravemente ferito con un coltello un ufficiale della sicurezza israeliana in un edificio residenziale del compound.
   Nella capitale giordana venerdì c'era stata una manifestazione di protesta contro la stretta sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Ieri, il governo israeliano ha deciso di non spostare i metal detector che hanno suscitato l'ira del mondo islamico, mentre le forze di sicurezza installavano nuove telecamere presso la Porta dei Leoni, uno degli accessi alla città vecchia di Gerusalemme utilizzati dai fedeli musulmani per raggiungere la spianata.
   Il presidente palestinese Abu Mazen, che aveva già sospeso i rapporti con le autorità israeliane, ha annunciato di aver congelato anche la cooperazione sulla sicurezza. Si tratta di una decisione senza precedenti, mai presa da Abu Mazen in oltre un decennio alla guida dell'Autorità Nazionale Palestinese: interrompe quei contatti che negli ultimi anni sono stati fondamentali per prevenire molti attentati.
   L'esercito ha mobilitato migliaia di soldati in Cisgiordania dove nella notte tra sabato e domenica le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato 29 membri di Hamas, tra cui un deputato del parlamento palestinese e diversi esponenti di spicco dell'organizzazione. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno dello Stato ebraico, ha definito le retate uno «sforzo preventivo» a seguito dell'attentato di venerdì in cui un ventenne palestinese ha accoltellato a morte tre membri di una famiglia israeliana nell'insediamento di Halamish. È ripreso anche il lancio di missili dalla Striscia di Gaza, roccaforte di Hamas: un razzo ha colpito il territorio israeliano senza causare vittime.
   Proseguono gli scontri a Gerusalemme e in Cisgiordania tra manifestanti e forze dell'ordine che venerdì avevano causato la morte di tre palestinesi. Secondo la Mezzaluna Rossa, nella notte di sabato, un manifestante palestinese sarebbe stato ucciso dai soldati israeliani nel villaggio di Al-Eizariya. Secondo l'esercito, sarebbe morto per l'esplosione di un ordigno artigianale che stava preparando in casa.
   La crescente tensione rischia ora di innescare un'ondata di violenza simile a quella scatenata nell'ottobre 2015 che fu seguita da mesi di attentati palestinesi contro civili e soldati israeliani, spesso effettuati con coltelli, automobili e armi improvvisate.
   Le autorità religiose musulmane e i leader dei Paesi arabi considerano l'installazione dei metal detector una violazione dello status quo e un tentativo israeliano di prendere il controllo della spianata, considerata sacra da ebrei e musulmani. Israele ritiene essenziali le nuove misure di sicurezza dopo l'attentato del 14 luglio, in cui un commando di tre palestinesi ha aperto il fuoco su un gruppo di poliziotti israeliani all'ingresso della spianata, uccidendone due.

(La Stampa, 24 luglio 2017)


Iran pronto a inviare "personale" a sostegno dei palestinesi

In Iran sono pronti a sostenere l'intifada palestinese anche con l'invio di non ben specificato "personale" in Giudea e Samaria e a Gaza. Lo ha detto ieri Hossein Amir Abdollahian, segretario Generale di una organizzazione a sostegno della intifada che fa capo al parlamento iraniano.
L'annuncio è arrivato dopo l'incontro tra Hossein Amir Abdollahian e il rappresentante di Hamas in Iran, Khaled al-Qaddumi....

(Right Reporters, 24 luglio 2017)


Eichmann la non banalità del male

Scaltro, ansioso di emergere, camaleontico genio del bluff. Il libro di una filosofa tedesca sugli anni della latitanza ribalta l'immagine data dalla Arendt.

di Elena Loewenthal

 
La Shoah è oggi un capitolo di storia comune: magari negato, male interpretato o strumentalizzato, ma certamente non ignorato. Per quanto possa sembrare strano, non è sempre stato così: per molti anni dopo la fine della guerra di Shoah non si parlava e men che meno se ne parlava in Israele. Era una ferita troppo aperta, la memoria di quel passato così recente bruciava troppo e per riprendere a vivere non restava che provare a precipitarlo giù, in fondo alla coscienza, relegarlo agli incubi che urlavano la notte. Senza contare quel sentimento tanto assurdo quanto vero che era la vergogna dei sopravvissuti: vergogna perché si erano salvati, vergogna perché erano andati come pecore al macello.
  Furono il processo Eichmann e prima ancora la sua strepitosa cattura in Argentina dopo anni di ricerche e pedinamenti a cambiare tutto, tra il 1960 e il 1961. Primo processo mediatico della storia - molte sedute venivano trasmesse in Israele -, fece udire al mondo per la prima volta la viva voce dei sopravvissuti, dei testimoni. A tratti, durante le deposizioni e il dibattimento, la macchina da presa o l'obiettivo fotografico inquadravano una figuretta grigia, meschina, dall'aria sottomessa: quell'imputato accusato dell'uccisione di sei milioni di persone che forse - solo forse - non aveva mai ammazzato nessuno con le sue stesse mani. Quell'imputato che ispirò a Hannah Arendt, filosofa nei panni della reporter, il suo libro più famoso, La banalità del male: siamo tutti fatti un po' così, a immagine e somiglianza di quell'omuncolo capace di tanto obbrobrio. Lui non è tanto più colpevole di noi.

 Come un giallo
  La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme di un'altra filosofa tedesca, Betti Stangneth, che esce in italiano nella puntuale traduzione di Antonella Salzano per la Luiss University Press, prende le mosse di qui ma va in una direzione ben diversa. E lo fa con oltre 600 pagine di analisi tanto minuziosa quanto avvincente, che si legge come un giallo ma che ti precipita nei meandri delle evidenze storiche, seguendo passo a passo quell'uomo dalla fine della guerra sino alla cattura.
  Ne emerge una figura tutta diversa da quella che ha ispirato Arendt e tanto dibattito storico e filosofico. Né un supereroe e nemmeno una nullità, non il genio del male e nemmeno l'impiegato capace solo di obbedire agli ordini superiori. Stangneth affonda nella documentazione, che certo non manca, anzi si domanda come mai questa mole immensa di dati non sia ancora stata affrontata a dovere: Eichmann ha infatti lasciato nelle Carie argentine una grande quantità di appunti che seguono passo a passo il suo cammino nella clandestinità, in una sequenza di diverse identità degne di Zelig, perché «gli pesa l'anonimato». E poi ci sono le cosiddette «Interviste di Sassen» raccolte nel 1957 da un giornalista olandese ex nazista residente a Buenos Aires.
  Dopo la guerra Eichmann diventa prima un solitario allevatore di polli di nome Ricardo Klement e poi un non troppo fortunato amministratore di aziende (tedesche) in Sud America sotto il nome di Otto Heninger. Conduce una vita ritirata solo per intervalli più brevi possibili, perché, a dispetto dell'aria dimessa che si costruisce per il processo, è un uomo ansioso di emergere, soprattutto molto scaltro. Camaleontico. Che aveva fatto carriera nei ranghi nazisti grazie a una straordinaria capacità di autocostruzione. Ad esempio in merito alla presunta competenza in fatto di «cose ebraiche». Circolava persino la voce che fosse nato a Sarona, un sobborgo di Te! Aviv fondato dai Templari moderni, contadini tedeschi messianici che nell'800 si erano insediati nella Terra Santa ad attendere la seconda venuta del Cristo, e coltivavano la terra, allevavano bestiame, facevano il vino.

 Una rete di connivenze
  Proprio a Sarona, del resto, venne fondata la prima sezione del partito nazista fuori dalla Germania (e i profughi ebrei tedeschi ci andavano a comprare il gelato fatto con il latte fresco ... ). In sostanza, Eichmann sa poco o nulla di ebraismo ed ebrei, eppure si accredita come esperto e viene incaricato del loro sterminio.
  Nel costruirsi e ricostruirsi più di una vita dopo la guerra, il responsabile della Soluzione Finale conta non solo sul suo talento nel bluffare ma anche sulla complicità di ex colleghi e semplici nostalgici del nazismo. Stangneth spiega che non esisteva nessuna fantomatica Odessa, l'organizzazione preposta al salvataggio dei nazisti dopo la guerra, ma certo esisteva una rete capillare di connivenze che si costruiva all'occasione, come quando Eichmann si imbarcò da Genova alla volta dell'Argentina, nel 1950, grazie all'aiuto di qualche talpa nelle file della Chiesa.
  Dieci anni esatti più tardi, alla fine del 1960, Zvi Aharoni si mette in viaggio alla volta del Sud America per predisporre il rapimento del criminale nazista più ricercato. Per uno strano caso della storia, in quelle settimane si stava costruendo una missione assai delicata: il primo incontro di Adenauer e Ben Gurion, «nell'ottica delle relazioni successive tra Israele e la Germania». Dopo il Natale 1959 si era registrata in Germania una inquietante ondata di azioni antisemite: svastiche sulle sinagoghe, cimiteri ebraici devastati. Un anno dopo s'iniziò il processo Eichmann, che urlò al mondo quel che era successo.

(La Stampa, 24 luglio 2017)

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La memoria non è un assoluto ma una costruzione temporanea

Che fare quando scompariranno i testimoni della Seconda guerra mondiale e della Shoah?

di Alberto Corsani

Si riapre la discussione sul caso Eichmann: il gerarca nazista, organizzatore scrupoloso della macchina infernale che portò alla morte un numero enorme di ebrei, destinandoli a questo o quel campo di sterminio. Sfuggito al processo di Norimberga, fu poi catturato dal servizi israeliani e processato e messo a morte in Israele. Il suo processo fu seguito dalla filosofa Hannah Arendt, che ne ricavò una serie di corrispondenze per la rivista The New Yorker, da cui scaturì il libro La banalità del male (in Italia ed. Feltrinelli): la tesi principale era che uno dei principali autori del genocidio e di quelli che furono riconosciuti come crimini verso l'umanità fosse soprattutto un operatore osservante dell'ideologia, un burocrate. Non era, questa, certo un'assoluzione morale, anzi il concetto era terrificante, ma aveva il merito di non considerare i capi nazisti come dei «mostri» quasi metafisici e fuori della storia. La macchina nazista si giovava proprio del grande numero di funzionari obbedienti ed efficienti: non dei geni del male, ma dei meccanismi che ubbidivano agli ordini (e li davano ai sottoposti), con indifferenza per le conseguenze. Ma il testo di Hannah Arendt risale al 1961-62: e da allora le sue categoria interpretative vengono messe al vaglio di più recenti acquisizioni di documenti (in ultimo, in uscita anche in Italia, il testo di Betti Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme).
   Non bisogna stupirsene, e non credo che gli studi ulteriori sconfessino Arendt, caso mai aggiungono dettagli e nuove riflessioni, se possibile orrore a orrore. Il lavoro di scavo sulle peggiori tragedie della storia umana, infatti, non sono dati e acquisiti per sempre. Il passaggio della testimonianza è ineludibile, ma è solo il «primo momento». Un lungo momento: la testimonianza di Primo Levi è durata fino alla sua morte, incessantemente nei suoi libri ma anche in interviste, interventi pubblici e soprattutto nelle scuole. Eppure lo scrittore torinese sentì il bisogno, quattro decenni dopo Se questo è un uomo (1947), di ritornare sui medesimi argomenti, approfondendone l'interpretazione e pubblicando I sommersi e i salvati (1986). La testimonianza, per quando valorizzata da una grande capacità di scrittura, aveva il pregio del carattere diretto; l'interpretazione, come per i testi biblici, è infinita e ogni nuova acquisizione si somma alle precedenti.
   La questione è importante, perché ormai quella generazione di testimoni sta scomparendo. Se fu Levi stesso a rielaborare le proprie testimonianze, il passare degli anni lo renderà prima o poi impossibile. Solleva il problema l'agenzia stampa Protestinfo, che ne parla nella sua edizione del 14 luglio: «La memoria vivente dei testimoni - scrivono Laurence Villoz e Guillaume Henchoz - sta per cancellarsi per lasciare spazio a un'altra memoria, culturale e istituzionale, sostenuta da associazioni e pubblici poteri». Ma con quali conseguenze? Risponde lo storico Dominique Dirlewenger: «Se avete assistito a una testimonianza diretta, vi rendete conto che il migliore dei film non potrà mai riprodurla. Quando un sopravvissuto rimbocca la manica per mostrare il numero che gli è stato tatuato sul braccio dalle Ss, il passato si fa vivo come incarnandosi». Ma il problema è più complesso: Nadine Fink, formatrice di insegnanti in Didattica della storia e in Educazione alla cittadinanza, avverte: «La presenza umana può essere anche un freno alla comprensione. L'emozione può prevalere. Ciò a cui bisogna puntare è un saggio dosaggio fra empatia e comprensione».
   Ora, dopo che fra gli anni '80 e '90 ha fatto la sua lugubre comparsa il negazionismo, proprio la presenza dei testimoni è stato il miglior antidoto contro le tesi di chi nega la Shoah. A sua volta, chi avesse sentito la testimonianza era impegnato a riprodurla, sottolinea ancora Dirlewenger: bisognerà allora proseguire con questa sorta di «catena» di testimonianze? Per Charles, Heimberg, storico e docente di Scienze dell'educazione, «La dimensione della testimonianza non sparirà con la morte dell'ultimo dei superstiti. Abbiamo accumulato molti documenti sulla loro memoria: film e libri rendono perpetui i loro racconti. Il problema è la scomparsa di queste persone in quanto "traghettatori". Questo ci fa ricordare che la memoria è una costruzione temporanea».
   A livello scolastico si sta lavorando, nella Svizzera Romanda, ma di fatto anche in molti altri Paesi, a una sorta di testimonianza per la seconda generazione, realizzando per esempio testimonianze filmate dei sopravvissuti alla Shoah. Peraltro una settimana dopo, sempre Protestinfo, a firma degli stessi autori, affronta una questione collegata, che è quella dei «memoriali» e delle commemorazioni che si svolgono al loro interno, interpellando Brigitte Sion, studiosa della memoria della Shoah, che avverte: «C'è spesso l'idea che un memoriale sia solo un monumento: può essere una costruzione, sì, ma anche un canto, una preghiera, un testo, una data o un festival. Conta più la funzione che la sua essenza e non si tratta sempre di commemorare una tragedia, può trattarsi di un giorno felice come di una vittoria o del conseguimento dell'indipendenza». Il problema è che questi luoghi diventano anche mete turistiche e a volte i visitatori non sono preparati, come i turisti cinesi che arrivano ora in gran numero a Auschwitz. Bisogna quindi lavorare al di là del luogo stesso, per renderlo comprensibile a generazioni diverse di diverse provenienze, evitando possibilmente che a predominare sia l'attitudine del turismo mordi-e-fuggi e dei visitatori in cerca di gadget invece che di approfondimento e riflessione...

(Riforma.it, 24 luglio 2017)


Abbiamo pubblicato due articoli su Eichmann come documentazione e stimolo per una riflessione, ma il tema della memoria resta aperto. La forma in cui si ricorda il passato è creata dal soggetto con la stessa autonoma fantasia creativa con cui l'artista crea un monumento alla memoria. La stessa partecipazione personale ai fatti (i sopravvissuti) non è una garanzia che il soggetto abbia capito quello che gli è successo e sappia renderlo in modo veritiero agli altri. In qualche caso anzi può essere fuorviante. M.C.


La bomba sporca inseguita dall'Isis

Per tre anni a Mosul i jihadisti hanno cercato il materiale per costruire un ordigno radioattivo. Era lì, ma non l'hanno usato.

di Guido Olimpio

Nascondiglio
I miliziani cercavano il cobalto-60 negli ospedali, invece era nascosto all'università
Deteriorata
La sostanza pericolosa aveva perso potenza col tempo. Ma poteva scatenare il panico

Lo Stato Islamico aveva le componenti necessarie per produrre una bomba sporca, ordigno in grado di sprigionare pericolose radiazioni. Ma non ha sfruttato il vantaggio: forse per incapacità o timore di essere contaminato.
   È quanto rivela il Washington Post con un'inchiesta sulla presenza di macchinari medici contenenti cobalto-60 nei depositi dell'ateneo di Mosul, occupato dai mujaheddin e trasformato in centro di ricerche militari. La sostanza in apparenza non è stata usata e oggi, con la riconquista della città irachena, è in condizioni di sicurezza.
   L'articolo scritto dal premio Pulitzer Joby Warrick insieme a Loveday Morris ricorda un elemento ricorrente: ogni stagione del terrore è segnata dal tentativo degli estremisti di avere armi di distruzione di massa. Vere o rudimentali, comunque sufficienti a incutere angoscia quanto timore.
   La setta giapponese Aum Shimrikyo vi riuscì a metà degli anni 90, mettendo a punto il nervino poi usato nel metrò di Tokyo. Successo non da poco per un gruppo ridotto. Erano tipi meticolosi e pericolosi, con una determinazione tutta giapponese. A seguire Al Qaeda, con le operazioni affidate ad Abu Khabab al Masri, un egiziano che aveva ricevuto l'ordine di sviluppare pozioni, gas e chissà cosa nel rifugio di Derunta, Afghanistan. Di quell'esperienza sono rimasti i racconti dei pastori della zona svegliati, nel cuore della notte, da misteriose esplosioni, i video di cuccioli di cane asfissiati in una teca trasparente e un manuale. Molte ambizioni e pochi risultati, con l'inventore cattivo eliminato da un raid nel 2008. Insomma i jihadisti ci provavano, erano decisi nell'inseguire l'obiettivo, probabilmente si sono arresi davanti a ostacoli più grandi della loro volontà. Cosa che potrebbe essere avvenuta anche con i fedeli di al Baghdadi che pure avrebbero realizzato ordigni chimici sia pure di bassa qualità.
   I timori - come ricostruisce il Washington Post - sono iniziati dopo l'ingresso dei guerriglieri a Mosul nell'estate 2014 e la successiva cattura dei laboratori dell'università.
Si sapeva che l'Isis aveva messo un team di tecnici a lavorare negli impianti al fine di realizzare nuovi esplosivi e altro, tutto parte di un «braccio industriale» per produrre in proprio. Nel 2015 l'Institute for Science and International Security di Washington ha condotto la sua indagine sulla tecnologia in città suscettibili di impieghi militari. E in base a documenti ottenuti attraverso canali riservati l'istituto ha stabilito la presenza di almeno due macchine con cobalto-60. Una conclusione che li ha spinti a informare l'intelligence Usa. E la notizia è finita anche alla redazione del Washington Post, il quale - cedendo a una richiesta del governo americano - non ha pubblicato lo scoop. Successivamente, con la collaborazione delle autorità di Bagdad, si sarebbe accertato che i due apparati sono rimasti sempre nello stesso posto, in un dipartimento nella parte orientale di Mosul. Quindi - stando alla versione ufficiale - nessuno li ha toccati. Oppure non li hanno neppure trovati.
   Gli esperti ritengono che probabilmente, con il tempo, la qualità della sostanza si sia degradata e che un eventuale uso non avrebbe provocato molte vittime. Però sarebbe stato comunque utile per condurre un'azione spettacolare, di grande impatto sul piano psicologico e propagandistico. Tutto ciò non è avvenuto in quanto gli islamisti non sono stati in grado di usare il loro bottino, comprendente anche piccole quantità di uranio impoverito. Perché? Le risposte sono solo delle ipotesi: a) Paura delle possibili radiazioni una volta violati i «gusci». b) Priorità alternative e ostacoli tecnici, anche se alcuni dirigenti già nel 2014 avevano dichiarato la volontà di arrivare a strumenti di guerra non convenzionali. c) Non si sono accorti di averli.
Scampato il pericolo, ripulito l'ateneo dai combattenti, rimane la preoccupazione. L'Is - o ciò che verrà dopo - continuerà a coltivare l'idea di andare oltre l'autobomba e il kalashnikov.
   Pensate cosa potrebbe essere un kamikaze dotato di una carica non convenzionale attivata in una stazione. Anche se poi basta un camion lanciato sulla folla per compiere un massacro: costo minimo, impatto massimo.

(Corriere della Sera, 24 luglio 2017)


Notizie da Gerusalemme, ancora morti: in piazza e... in casa

di Paola Farina

 
Gli orfani di Elad
 
Palestinese che ha ucciso gli israeliani
 
Agente druso ucciso con la figlia di tre settimane
Quando il 14 luglio ho sentito il nome dei poliziotti assassinati alla Spianata della Moschea, nella città vecchia di Gerusalemme, capitale di Israele, ho capito che le vittime non erano due ebrei (questo non ha soffocato la mia rabbia e il mio dolore da persona civile), ma due cittadini israeliani drusi che prestavano servizio e fedeltà alla multietnicità e multi religiosità di Israele (per quanto ne dicano gli oppositori dello Stato Ebraico di Israele). Hail Sitawi, 30 anni, originario del villaggio di Majar, e Camil Shanan, 22 anni, del villaggio di Horfesh, entrambi situati in Galilea sono stati assassinati a Gerusalemme dall'ennesima barbarie di matrice islamista.
   Due valorosi drusi al servizio di quanti vivono, o si recano in Israele, uno dei quali padre di una bimba di tre settimane, hanno donato al mondo la loro vita, colpevoli solo di essere due agenti in servizio. I drusi combattono a fianco di Israele da oltre 40 anni con l'unità drusa Gdud Herev, il battaglione della spada. Ed è un druso Rassan Alia il comandante della Golani, una delle brigate d'élite interamente di ebrei israeliani, perché l'integrazione è soprattutto dividere ideali e pensieri comuni.
   Bene ha fatto Bibi Netanyahu (è ora che ritorni a mostrare quegli attributi per i quali è stato eletto) ad adottare misure super ristrettive nell'area, arrivando a proibire le preghiere del venerdì (la settimana scorsa, non accadeva dal 1969) e non mi colpisce l'ipocrita condanna di Abu Mazen all'attentato, che dal "primo attentato" (per così dire) a partire dal 6 luglio 1989 sull'autobus 405 non mi pare abbia mai condannato gli autori di tanti atti feroci... Certo, gli conviene condannare quest'attentato, a ridosso di un luogo di culto musulmano. La condanna non è dettata da sentimenti umani, ma da opportunismo politico, per timore che altri paesi democratici nel mondo ne seguano l'esempio proibendo le preghiere del venerdì in caso di attentati.
   Gli scontri tra ieri e oggi e che continuano nella zona tra centinaia di arabo-israeliani, palestinesi e polizia in modo particolare nei quartieri di At-Tur, Silwan e Salman, sono nati solo perché i metal detector istallati nella zona non sono piaciuti ad Abu Mazel e a tutti gli "angeli della pace", mentre noi accettiamo i metal detector negli aeroporti che sono gli stessi, senza per questo scendere in rivolta...
   I titoli dicono che tre coloni israeliani sono stati uccisi ieri sera. No signori, tre israeliani di religione ebraica sono stati assassinati per mano palestinese ieri sera, loro sono morti, mentre l'assassino, sorridente (foto) riceve le cure in uno dei migliori ospedali israeliani. Sì, è vero, sono morti anche dei palestinesi ed il numero si allarga. Ma gli ebrei israeliani erano a tavola, in famiglia. Elad ha capito che stava succedendo qualcosa di grave ed ha mandato moglie e cinque figli in una stanza accanto, ma né lui, né la sorella Haia, né il padre Yosef hanno potuto vincere sul coltello assassino... I palestinesi che sono morti erano in piazza e uno di loro è morto sulla sua stessa bomba che teneva in mano.
   I media continuano a parlare di una possibile terza intifada in arrivo ma non si sono nemmeno accorti che la terza intifada è iniziata nel 2015... questa strana intifada che l'occhio occidentale si rifiuta di vedere, mentre il "politicamente corretto" continua a promuovere ipotetici incontri per discutere di un'ipotetica pace. Si continua a dar peso alle inique quanto ignoranti attestazioni dell'Unesco e a chiamarci "occupanti", ma, come disse Herbert Pagani, «Israele è l'unico paese i cui "invasori", quando scavano il suolo della terra occupata, ritrovano le tombe dei loro antenati!».
   Tanto domani mattina si riunirà l'O.N.U. condannerà di sicuro Israele, perché degli orfani dei coloni non gliene può fregar di meno... Il mondo ha due misure diverse per misurare il dolore delle vedove palestinesi e di quelle ebree israeliane e ha due classi di qualificazione, la Top Business per gli orfani palestinesi e la Under Economy per gli orfani ebrei. Se poi sono orfani ebrei israeliani si scende di un altro livello. Intanto gli incivili continuano a manifestare in Europa contro Israele, tra l'indifferenza degli europei che si sono piegati all'islamizzazione violenta...

(VicenzaPiù, 23 luglio 2017)


Spianata delle Moschee, Israele conferma: "I metal detector restano"

La riunione del gabinetto della Difesa ha decretato il perdurare delle misure di sicurezza al Monte del Tempio. Proteste della comunità islamica

di Edith Driscoll

 
Metal detector nella Città Vecchia
I metal detector resteranno al loro posto: questa la decisione (annunciata) del gabinetto della Difesa di Israele, convocato dal premier Benjamin Netanyahu in merito all'apposizione delle misure di sicurezza in ingresso alla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme. Un provvedimento che, nei giorni scorsi, aveva provocato il forte dissenso della comunità islamica d'Israele, con numerosi scontri nella capitale costati la vita, finora, a 5 persone di origine palestinese, per un totale di 8 vittime, compresi i tre coloni israeliani assassinati da un terrorista 19enne nella loro casa, nei pressi di Ramallah. Nessuna alternativa, quindi: i macchinari di controllo rimarranno e, anzi, verranno applicate anche delle videocamere di sorveglianza, con discrezione ai controllori di limitare l'uso dei detector.

 Comunità islamica in protesta
  La decisione di confermare l'apposizione dei controlli, come detto, era stata in gran parte annunciata, nonostante gli scontri di venerdì scorso. L'attacco del 14 luglio perpetrato da tre terroristi palestinesi e costato la vita a due agenti delle Forze di sicurezza poste a guardia del perimetro, avevano spinto il governo israeliano addirittura a sospendere la preghiera del venerdì, avviando una serie di proteste da parte della comunità musulmana. La stessa comunità, del resto, ha ampiamente manifestato il proprio dissenso anche al termine della riunione odierna, attraverso la voce del Gran muftì di Gerusalemme, Mohamed Hussein: "Respingiamo qualsiasi cambiamento nella situazione storica della moschea di al-Aqsa, perché sia essa sia Gerusalemme sono sotto occupazione", ha spiegato.

 Israele, blitz in Cisgiordania
  "Gli assassini non ci diranno mai come cercare gli assassini - ha detto il ministro della Difesa, Tzachi Hanegbi -. Se non vogliono entrare nella moschea, allora non vi entrino". A scanso di rischi, comunque, considerando le possibili ripercussioni dovute alla decisione, Israele ha schierato ingenti truppe in Cisgiordania dove peraltro, questa mattina, le Forze armate hanno effettuato un blitz che ha portato all'arresto di 25 funzionari di Hamas tra i quali, probabilmente, anche un deputato. Insomma, un clima di tensione che sembra destinato a restare sul filo del rasoio, ancor di più con la presa di posizione irremovibile della Difesa israeliana.

(In Terris, 23 luglio 2017)


Gerusalemme, riportare l'ordine è la priorità di Israele

Il 14 luglio scorso tre terroristi arabo-israeliani hanno aperto il fuoco, nei pressi del Monte del Tempio a Gerusalemme, uccidendo due agenti di polizia israeliana. I terroristi, uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, erano riusciti a introdurre le armi all'interno della zona della Spianata delle Moschee (Monte del Tempio per l'ebraismo) grazie a un complice, ora sotto custodia. L'attacco ha fatto così emergere una breccia nella sicurezza israeliana ed è stata aperta un'indagine per fare chiarezza. Nel mentre sono stati presi dei provvedimenti temporanei che hanno scatenato le proteste dei palestinesi e innescato l'escalation di violenza di cui da giorni parlano i quotidiani di tutto il mondo. Ma è necessario ricordare che il punto di partenza è stato l'attentato del 14 luglio: a seguito di questo la polizia israeliana ha deciso di utilizzare i contestati metal detector all'ingresso della Moschea Al Aqsa e di vietare del tutto agli uomini con età inferiore ai 50 anni l'accesso del luogo sacro ai musulmani. Azioni che hanno scatenato le proteste dei palestinesi, e l'istigazione alla rivolta da parte di movimenti terroristici come Hamas, che controlla la Striscia di Gaza ma che ha molti operativi anche in Cisgiordania
. Proprio a Hamas, seppur non fosse un miliziano, era legato il terrorista che ha accoltellato e brutalmente ucciso ad Halamish, insediamento nella West Bank, tre israeliani. Prima di attaccare la famiglia, l'attentatore aveva postato su Facebook una sorta di testamento, dicendo di voler morire in difesa della Moschea Al Aqsa.
   Qui l'altro punto della questione: il messaggio che è passato è che Israele, con i provvedimenti di sicurezza, vuole cambiare lo status quo del Monte del Tempio, la cui custodia è affidata (dalla fine della Guerra dei Sei Giorni) ai rappresentanti musulmani del Waqf di Gerusalemme, una fondazione religiosa controllata dalla Giordania. Questi ultimi, invece che calmare la situazione, hanno sostenuto che Israele vuole installare i metal detector all'ingresso della Spianata per aumentare il proprio potere sul complesso (l'esercito israeliano ha fatto sapere di valutare altre opzioni, oltre ai metal detector, mentre non agevolano a calmare la situazione le parole dei politici del governo Netanyahu che parlano di annettere tutta l'area del Monte del Tempio). A rincarare la dose, il segretario generale della Lega Araba che ha accusato Israele di "giocare col fuoco" mentre il leader dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas, che non ha condannato l'efferato attentato di Halamish, ha annunciato di aver fermato come atto di protesta la cooperazione con l'intelligence israeliana in merito alla sicurezza. Abbas inoltre ha dichiarato di aver stanziato 25 milioni di dollari per curare i manifestanti feriti negli scontri degli scorsi giorni con la polizia israeliana (nel corso dei quali sono morti sei palestinesi).
   "Abbiamo fatto a meno di loro per anni, continueremo a farlo ora", la dura risposta del ministro della Difesa Avigdor Lieberman alla decisione di Abbas di interrompere la cooperazione. "È una decisione loro. Non è che il coordinamento sulla sicurezza sia una necessità israeliana. Prima che una nostra esigenza, è innanzitutto una necessità palestinese, e quindi se vogliono, continuerà, altrimenti no", ha concluso Lieberman. E rispetto a quella che i giornali israeliani definiscono la crisi del Monte del Tempio, è intervenuto nelle scorse ore il Premier Netanyahu, assicurando che verrà riportato l'ordine nella Capitale e non solo (nella notte 25 alti rappresentanti di Hamas in Cisgiordania sono stati arrestati).

(moked, 23 luglio 2017)


Blitz in Cisgiordania, Israele arresta 25 capi di Hamas

Nella notte blitz dell'esercito israeliano in Cisgiordania, con i servizi segreti. In manette diversi alti esponenti di Hamas, tra cui un deputato. Tensione altissima

 
I servizi segreti israeliani fanno sapere di aver arrestato 25 membri di Hamas in un blitz condotto con l'esercito in Cisgiordania. Resta altissima, dunque, la tensione dopo i gravi episodi di violenza verificatisi a Gerusalemme nei giorni scorsi, dopo le restrizioni imposte da Israele agli ingressi alla Spianata delle moschee. Fra gli esponenti di Hamas in manette, come scrive il Jerusalem Post, ci sono anche ufficiali di alto livello dell'organizzazione. Tra questi il deputato Omar Abd Al-Razak e cinque miliziani di Hamas liberati anni fa da Israele dopo uno scambio di prigionieri.
Un razzo lanciato verso Israele dal nord della Striscia di Gaza è esploso in aria poco dopo il lancio. Lo riferiscono i media israeliani citando un portavoce dell'esercito. Data l'esplosione in aria, non sono neanche scattate le sirene di allarme e non si registrano feriti. Ma è un nuovo episodio che alimenta la tensione.
Ieri Hamas aveva celebrato l'attacco in cui un palestinese ha ucciso tre membri di una famiglia di coloni, ferendone un altro, nell'insediamento di Halamish, vicino a Ramallah (Cisgiordania). Il crimine è stato definito una "risposta alle violazioni sioniste e a tutti i loro crimini contro la nostra gente a Gerusalemme e alla moschea al-Aqsa", ha dichiarato il portavoce del movimento, Fawzi Barhum, in una nota diffusa nella notte.

(ANSA, 23 luglio 2017)


A Gerusalemme è guerra aperta: otto i morti

Adesso Abu Mazen si schiera con Hamas

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Una casa del villaggio di Halamish non lontano da Ramallah e da Gerusalemme, completamente inondata di sangue. Il pavimento della cucina così rosso che non si distingue il colore del pavimento; quattro corpi crivellati di colpi di coltello, come se una tigre avesse compiuto la sua caccia: sono tre persone della stessa famiglia, il padre intorno a 60 anni, un uomo e una donna, suoi figli, sui 40.
   La madre agonizza ma verrà salvata dai soccorsi, e ancora mentre scriviamo, all'ospedale di Sharei Tzedek non sa del destino dei suoi cari. Erano una decina di persone a tavola, per la santa cena di Shabbat. Ma niente può essere santo di quello che riguarda gli ebrei quando ad attaccare sono terroristi islamici. Una delle figlie è riuscita a rifugiarsi in una stanza delle casa con i bambini, da là ha chiamato aiuto al telefono e ha urlato dalle finestre: «C'è un terrorista in casa». Un giovane militare in licenza è corso sul luogo e dalla finestra è riuscito con la sua arma a ferire il terrorista, Omar Abed di 19 anni del villaggio vicino di Kaubar. È stato ferito e portato all'ospedale e alla polizia.
   Alle domande ha risposto ripetendo quello che aveva scritto nel suo messaggio di addio: «Difendo la Moschea di Al Aqsa, l'onore musulmano. Ho solo un coltello con cui rispondere alla chiamata ... avete cominciato una guerra con noi per cui Allah vi giudicherà. Spero che dopo di me verranno uomini che vi abbatteranno con pugno di ferro. Avevo speranze e progetti, ma adesso per difendere Al Aqsa vado e non tornerò». Invece è andato, ha ucciso come una bestia, ed è tornato. I suoi precedenti dimostrano che deve avere preparato bene l'attacco: tre mesi fa lo fermarono le forze di polizia di Abu Mazen.
   E ieri sera altri due giovani palestinesi hanno perso la vita negli scontri che non si placano in tutta la zona. Il primo è il 17enne Oday Nawajaa, colpito a morte da proiettili a AI-Azariya vicino a Gerusalemme. Il secondo è un 18enne deceduto nel sobborgo di Abu Dis, ucciso dalla bomba molotov che è esplosa prima di poterla lanciare verso gli israeliani.
   Tutta la vicenda di questi ultimi giorni a partire dall'attacco del 14 luglio che ha freddato due giovani guardie israeliane, oggi ha a che fare soprattutto con l'invenzione propagandistica che è di fatto l'unica in grado di mantenere in vita l'idea che esista una lotta in cui i palestinesi sostengono un ruolo importante per il mondo arabo, per altri versi stanco e poco convinto della guerra di Arafat e di Abu Mazen, che sa dire solo no e inghiottire enormi incontrollate somme di denaro. Sempre di più il punto più importante è stato quello religioso islamista, la continua ripetizione dello slogan che la Moschea di Al Aqsa è in pericolo: anche adesso dopo che gli attentatori del 14 luglio erano usciti dalla Moschea stessa impugnando le armi automatiche, la decisione israeliana controversa e sofferta quanto logica di mettere metal detector davanti alla Spianata e di bloccare l'entrata venerdì scorso ai minori di 50 anni, è stata descritta come un attacco alla religione musulmana.
   Adesso in Israele la discussione come sempre arde: si accusa il primo ministro di avere affidato la decisione alla polizia. Netanyahu ha ripetuto che si tratta di una scelta momentanea destinata a non toccare lo status quo, e quindi a ripristinare presto l'ingresso senza controllo. Ma il boccone era troppo ghiotto per Hamas e per tutti i politicanti e gli islamisti fanatici: così dopo la prima condanna Abu Mazen è saltato di nuovo sull'autobus affollato (anche da Erdogan, e dal parlamento giordano) della chiamata allo scontro e ha persino annunciato contro il suo interesse di interrompere ogni rapporto con Israele. Lo scontro non cesserà con la destrutturazione dei metal detector, ma solo con quella dell'incitamento. Che non è in vista.

(il Giornale, 23 luglio 2017)


Metal detector. Lite in Israele tra il governo e i militari

di Davide Frattini

Miri Regev, ministra della Cultura nel governo di Israele
Yoav Mordechai è il generale israeliano incaricato di coordinare le attività nei territori palestinesi: «Siamo pronti a valutare controlli alternativi ai metal detector». Miri Regev è la ministra della Cultura nel governo di Benjamin Netanyahu: «Lo status quo al Monte del Tempio va cambiato». Il venerdì di violenze - tre palestinesi uccisi negli scontri, tre israeliani accoltellati in casa da un terrorista - e i disordini di ieri (un dimostrante ucciso) non sembrano per ora aver allineato le posizioni del governo e quelle dei militari. Che assieme ai servizi segreti interni avevano suggerito di rimuovere i varchi elettronici posizionati all'ingresso principale verso la Spianata delle Moschee dopo l'attentato di dieci giorni fa, due poliziotti israeliani ammazzati. I palestinesi - e gran parte dei musulmani nel resto del mondo - considerano le nuove misure un primo passo verso la modifica delle regole fissate cinquant'anni fa da Moshe Dayan: la Spianata nella Città Vecchia di Gerusalemme è amministrata dal Waqf, solo i musulmani possono pregare in quello che è il terzo luogo più sacro dell'islam, agli ebrei è consentito vistarlo ma non recitarvi i salmi. È lo «status quo» che Regev e altri politici dell'ultradestra nazionalista vogliono smantellare per imporre la propria sovranità sul Monte dove sorgeva il Secondo Tempio. Il premier Netanyahu ripete che le regole non saranno toccate, sa che qualunque accenno viene sfruttato dai leader palestinesi per incitare gli attacchi. Oggi riunisce di nuovo il consiglio di sicurezza per decidere se mantenere o togliere i metal detector, deve resistere alle pressioni degli oltranzisti.

(Corriere della Sera, 23 luglio 2017)


Confidustria apre la rotta su Israele

Cybersicurezza, edilizia, arredamento, ma anche kosher. Sono tante le possibilità offerte da Israele alle aziende italiane, che nel 2016 hanno esportato verso la terra di David per 2,5 miliardi di euro, rappresentati per il 67,3% da prodotti strumentali e per il 32,7% da beni di consumo, e importato per 904 milioni, con un saldo commerciale positivo di 1,6 miliardi, terzo fornitore europeo e il sesto al mondo. Di questo si è parlato nell'incontro "Israele: grandi opportunità anche in un mercato piccolo" organizzato da Confindustria Vicenza, al quale hanno partecipato, tra gli altri, l'ambasciatore italiano Francesco Maria Talò e il direttore dell'ufficio Ice a Tel Aviv Massimiliano Guido, in collegamento video dalla capitale israeliana e chiuso da Bernardo Finco, presidente della sezione Concia.

(Il Giornale di Vicenza, 22 luglio 2017)


"Abu Mazen condanni il massacro di una famiglia innocente"

"Esigiamo che il presidente dell' Autorita' nazionale palestinese Abu Mazen condanni in maniera esplicita e chiara il massacro avvenuto ieri di una famiglia innocente che non minacciava alcuno, un massacro terribile": questa la posizione espressa oggi dal ministro israeliano della difesa Avigdor Lieberman nell'insediamento di Halamish (Ramallah) dove un adolescente palestinese ha pugnalato a morte tre israeliani, nella loro casa. In Cisgiordania c'è forte tensione. L'esercito ha arrestato il fratello dell'attentatore e, secondo i media, potrebbe demolire la sua abitazione. I reparti militari in Cisgiordania sono mantenuti in stato di allerta.
    Dopo i gravi incidenti di ieri in cui tre dimostranti palestinesi sono rimasti uccisi, la polizia mantiene un elevato stato di allerta anche a Gerusalemme e in particolare nella Città Vecchia e nella Spianata delle Moschee.
   
(ANSAmed, 22 luglio 2017)


Bayern Monaco, ecco la terza maglia: l'ha disegnata un ragazzino israeliano

Il concorso è nato la scorsa estate, i tifosi avevano proposto birre bavaresi o simboli che ricordassero i trofei. Ma l'idea vincente è stata quella di Joseph Maraska, giovane israeliano.

di Elmar Bergonzini

 
Thomas Müller e Alaba presentano la nuova terza maglia
La maglia. È lei che fa innamorare i bambini, lei l'unica alla quale nel calcio moderno i tifosi si sentono attaccati. Tutti sognano di indossarla, qualcuno riesce perfino a disegnarla. Ci è voluto un anno, ma finalmente c'è il responso. L'Adidas ha permesso ai tifosi di creare la terza maglia di club importanti come il Milan, la Juventus, il Manchester United, il Bayern Monaco e il Real Madrid, di cui ovviamente è sponsor.

 Il concorso
  L'idea è nata la scorsa estate. Attraverso la piattaforma Creator Studio è stato possibile caricare i disegni delle (terze) maglie attraverso pc, tablet o smartphone. Una volta caricate le creazioni, la community ha votato la propria divisa preferita. Le 100 proposte più apprezzate (attraverso i like) sono infine state esaminate da una giuria di giocatori del club in questione, che ha preso la decisione finale. E proprio nelle ultime ore sono stati svelati i vincitori. La terza maglia del Manchester United, per esempio, è stata disegnata da Nello Carotenuto, un 21enne iscritto all'università di Salerno. Completamente grigia, sulla nuova divisa dei Red Devils è stata stampata anche l'immagine della Santa Trinità, la statua di bronzo presente fuori dall'Old Trafford e che ritrae George Best, Denis Law e Bobby Charlton.

 L'idea vincente
  A Monaco i tifosi avevano invece provato a disegnare maglie sulle quali venissero riportate birre bavaresi, o la pagina Wikipedia del Bayern, evidenziando così i trionfi della storia del club fra Bundesliga e Coppe dei Campioni. Le idee erano state numerosissime, a vincere però è stata l'idea di Joseph Maraska, un ragazzo israeliano di 15 anni. La maglia sarà bianca e avrà sottili strisce rosse che si affievoliscono procedendo verso il basso. Le maniche, anch'esse bianche, avranno il bordo rosso. Tutte le divise stanno già facendo il giro del web. D'altronde è la maglia che fa innamorare i bambini, e a lei si attaccano sempre di più i tifosi. Oggi che la disegnano accade perfino con maggiore intensità.

(La Gazzetta dello Sport, 22 luglio 2017)


Il timore (condiviso) di Israele e Palestina che a incendiare la "rivolta della Spianata" sia l'Isis

Dalla Striscia, la penetrazione di Daesh si è estesa alla Cisgiordania: si parla di centinaia di miliziani ormai devoti al califfato
   Si combattono senza esclusioni di colpi, ma al tempo stesso c'è un timore che accomuna i servizi d'intelligence d'Israele e quelli di Fatah e dell'Autorità nazionale palestinese: che a cavalcare la "rivolta della Spianata" non sia Hamas ma l'Isis. A variare sono le dimensioni del fenomeno di proselitismo dell'Is in Palestina. Per i servizi di Israele, i miliziani dell'Is operanti nella sola Striscia di Gaza sarebbero almeno 800; fonti vicine a Fatah li quantificano in 4-5mila, suddivisi in 350 cellule che rispondono a un comando unificato.
   Tra i gruppi più attivi confluiti nelle file dell'Is c'è al-Tawhid wa al-Jihad fi garb Ifriqya (Monoteismo e jihad) che ha rivendicato l'uccisione (il 15 aprile del 2011) del cooperante e attivista per i diritti umani Vittorio Arrigoni. Una delle roccaforti dell'Is in Palestina è Rafah, nella parte meridionale della Striscia, da sempre culla dell'estremismo radicale armato palestinese. Qui, nei cinquanta giorni della terza guerra di Gaza (estate 2014), sono comparsi i primi ritratti di al-Baghdadi.
   Nelle settimane di "Bordo protettivo", l'ex capo del Mossad Efraim Halevy rimarcava come, qualora dovesse cadere Hamas, salirebbero probabilmente al potere gruppi ben peggiori, come, per l'appunto, l'Is: "Hamas è sicuramente un pessimo interlocutore, ma c'è di molto peggio in giro. Mi riferisco ai movimenti jihadisti che stanno sconvolgendo il mondo islamico. Soprattutto l'Is, che ha già i suoi tentacoli nella Striscia di Gaza".
   Dalla Striscia, la penetrazione dell'Isis in Palestina si è estesa alla Cisgiordania: fonti di Ramallah dicono all'HP che sarebbero un centinaio i miliziani che usciti da Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, e dalle Brigate dei martiri di al-Aqsa, l'ala militare di Fatah, sarebbero confluiti nel Daesh palestinese: il reclutamento avviene soprattutto nei campi profughi della West Bank e in quelle che restano le roccaforti dell'estremismo palestinese nell'area, a cominciare da Jenin, che fu la "capitale" dell'Intifada dei kamikaze.
   D'altro canto, Gerusalemme sembra essere di grande importanza per le aspirazioni politiche dell'Isis, almeno da un punto di vista retorico, dal momento che l'Isis spesso ha affermato di voler liberare Bayt al-maqdis dal governo non musulmano. Anzi, esso sfida direttamente le concezioni palestinesi della questione palestinese e il ruolo in essa rivestito da Gerusalemme.
   "Il tuo sforzo non riguarda la terra, riguarda il giusto contro l'ingiusto. Si tratta di religione", si legge in una dichiarazione dell'Isis. L'idea è che Gerusalemme sarà davvero liberata solo quando sarà governata da musulmani, secondo la legge islamica. L'Isis usa poi molti simboli religiosi, riferendosi a Gerusalemme, con la moschea di Al-Aqsa e la cupola della roccia spesso raffigurate in video e dichiarazioni.
   Quello che colpisce di più non è tanto il numero, pure in crescita, di miliziani aggregatisi attorno al fronte palestinese di Daesh, ma l'area di simpatia che il "califfato" riesce a catalizzare nei Territori. Quattro sondaggi di opinione pubblicati di recente hanno rivelato che il 24 per cento dei palestinesi ha una visione positiva dello Stato islamico.
   Un passo indietro nel tempo. Il 23 ottobre 2015, con un messaggio, per la prima volta in ebraico, l'Isis minaccia gli israeliani che le violenze delle ultime settimane sono l'inizio di un conflitto ben più vasto. "La guerra vera - ha avvertito un miliziano incappucciato - non è ancora iniziata. Stiamo arrivando". A dar forza alle sue parole - che annunciano "sgozzamenti - ha mostrato una cartina sulle avanzate recenti dello Stato Islamico: "Ci stiamo avvicinando a voi da Sud (Sinai, ndr) e da Nord (Golan, ndr). Il nostro scopo è di cancellare per sempre i confini tracciati (dalle potenze occidentali nel 1916, ndr) con gli accordi di Sykes-Picot".
   Quella lanciata dall'Is è una doppia sfida: per lo Stato islamico, infatti, non c'è differenza tra Israele, Hamas e l'Autorità Nazionale palestinese ("Sono tutti nemici di Allah" e vanno combattuti "sangue per sangue e distruzione per distruzione". È quanto contenuto in un "messaggio dei soldati del Califfato Islamico alla nostra gente nella Casa di Gerusalemme" diffuso in un video postato da jihadisti sui social media. Nel filmato appaiono due uomini armati di mitra e con il volto coperto; uno dei due afferma che l'Isis "non guarda alla Palestina come una questione di terra o di un territorio da conquistare", e spiega: "Tutte le terre che sono governate dalla Shariya di Allah (la legge islamica) e con la forza dei musulmani sono terra dell'Islam e tutte le terre governate dagli apostati e con la forza degli apostati sono terre di blasfemia. Pertanto non troviamo nessuna differenza tra le zone della Palestina governate dagli ebrei da quelle governate dall'Anp o da Hamas se non che una è controllata da un ebreo e l'altra da un apostata che veste la nostra pelle". E ancora: "Non combattiamo per cambiare un apostata straniero con uno locale, e non combattiamo per liberare la Palestina e farla governare da una costituzione, ma combattiamo per imporre la legge di Allah", prosegue il jihadista prima di accusare il movimento islamico Hamas che governa la Striscia di Gaza di essere "un governo arabo in miniatura".
   Il messaggio è chiaro: Mahmoud Abbas e Benjamin Netanyahu sono inquinati dall'Occidente, i gruppi di Gaza e del West Bank dall'Iran, sciita e dunque nemico contaminante tanto quanto l'America o l'Europa. Voi, dicono i media del Califfo rivolgendosi ai palestinesi, dovete mirare ad altro: una volta mollati i partitini palestinesi e presa la via della lotta in nome di Maometto e Allah, distruggerete Israele e poi creerete una provincia dello Stato islamico.
   Il 16 giugno scorso, "l'Isis ha rivendicato il suo primo attacco coordinato a Gerusalemme, identificando gli assalitori. La rivendicazione è stata postata subito dopo l'attacco". A scriverlo è stata Rita Katz su Twitter, direttrice del Site, il sito che monitora le attività dei jihadisti sul web. Hamas, però, ha subito smentito. "Le affermazioni dell'Isis - ha detto Izzat El-Reshiq, citato dai media - sono un tentativo di confondere le acque. L'attacco è stato condotto da due palestinesi del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina e un membro della nostra organizzazione". Nell'attacco, vicino alla storica Porta di Damasco a Gerusalemme vecchia, una poliziotta 23enne era stata uccisa a colpi di coltello da tre palestinesi. Gli agenti hanno ucciso i tre assalitori a colpi di pistola.

(L'Huffington Post, 22 luglio 2017)


Israele censura la rete: legge contro internet frena il gaming

di Vincenzo Giacometti

La nuova legge adottata dallo Stato di Israele consente alle autorità di bloccare o rimuovere siti internet che promuovono attività terroristiche, tra cui include il gioco d'azzardo.
   Attività di gioco illegale, prostituzione e pornografia infantile, tratta online di droga e cannabinoidi sintetici e siti web di gruppi terroristici. Sono i contenuti digitali vietati dalla nuova legge adottata dal governo israeliano, attraverso la nuova legge su Internet approvata con 63 voti a favore e appena 10 pareri contrari. "Stiamo colmando un gap che esiste da molti anni durante i quali la legge esistente è stata scollegata dalla realtà che ha visto una vera e propria migrazione del crimine verso Internet", ha dichiarato il Ministro della sicurezza pubblica di Israele, Gilad Erdan.
   In alcuni casi, se il proprietario del sito è basato su Israele, il tribunale può ordinare al provider di tentare la rimozione del sito, invece di limitarsi a inibire l'accesso agli utenti, secondo quanto illustrato dal ministero.
   I tribunali possono anche ordinare ai motori di ricerca di rimuovere i siti web dai loro risultati e potranno avvalersi di consulenze governative qualificate per prendere le loro decisioni. Tutte le parti interessate dovranno tuttavia essere presenti in tribunale, specifica le legge, in caso di segnalazioni e valutazioni da eseguire, a meno che non siano stati convocati e non si siano presentati.

(gioconews, 22 luglio 2017)


Spianata chiusa, l'ira araba. A Gerusalemme tre morti

Scontri per i metal detector alla moschea di Al Aqsa In serata un palestinese accoltella tre coloni: ucciso.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Ce l'hanno fatta quelli che da anni cercano di rendere il Monte del Tempio, ovvero la Spianata delle Moschee, non un luogo di fede condivisa, ma un focolaio di odio religioso continuo contro gli ebrei nel cuore di Gerusalemme. Ieri gli scontri fra la polizia israeliana e i dimostranti palestinesi in Città Vecchia e intorno alle porte della Spianata ma anche in molte altre aree abitate da arabi israeliani sia a Gerusalemme sia in decine di località dell'West Bank, hanno portato almeno a tre morti, fra cui uno di 17 anni, e a decine di feriti. Migliaia di musulmani sono in strada anche a Ramallah, Hevron, Betlemme. L'eco dello scontro sta raggiungendo tutto il mondo arabo col titolo degli estremisti islamici: «La Moschea di Al Aqsa è in pericolo». È la vecchia invenzione propagandistica di Arafat, che ha il pregio di mettere i palestinesi in rapporto diretto con il grande falò islamista. Tanto che ieri sera un palestinese ha ucciso due donne anziane e un uomo in una colonia prima di essere ucciso a sua volta.
   La vicenda comincia il 14 luglio, quando tre terroristi palestinesi, tutti detentori della carta blu che permette libero accesso in Israele, penetrano nella moschea nascondendo armi automatiche in una sacca e uccidono due guardie israeliane e ne feriscono una. Questa violazione di ogni norma che definisce la santità di un luogo che dovrebbe essere dedicato alla preghiera e che suscita persino la condanna di Abu Mazen, di fatto viene subito salutato dal mondo arabo come un gesto eroico. Intanto Israele che sin dal 1967 ha affidato la gestione della spianata all'Waqf, l'organizzazione che controlla i luoghi santi islamici, governata da giordani e palestinesi, si domanda come garantire l'ordine. La risposta è quella che persino i sauditi, con 5mila macchine da presa, hanno dato per i loro luoghi santi alla Mecca: controllo. E vengono poste davanti alle entrate della spianata i metal detector destinati a suscitare la furia del mondo islamico. Netanyahu ha un bel ripetere che come è stato fatto sin dal '67 non verrà toccato lo status quo, e che la misura è momentanea. Dalla Lega Araba, fino agli stessi giordani che come al solito sono terrorizzati dalla reazione salafita, e i membri arabi del parlamento insieme al grande Mufti della Moschea, per non parlare degli appelli di Hamas alla rivolta totale, ognuno lancia inviti a inondare di folla Gerusalemme e andare a pregare alla moschea spezzando la regola del controllo, vista come un altro tentativo di Israele di dominare il terzo luogo santo dell'lslam. La questione è stata rigirata da ogni parte dal governo nelle ore precedenti alla giornata della preghiera dei musulmani. Netanyahu di ritorno da Budapest, è andato direttamente in ufficio dall'aeroporto per il consiglio di sicurezza. Intanto si susseguivano le telefonate dei leader per chiedere di togliere i metal detector: ma si sarebbe trattato sia di una rinuncia evidente a uno dei principi più cari alla politica israeliana, quella della difesa della vita dei cittadini, sia a una evidente violazione di uno status quo per cui la sovranità di Gerusalemme e il dovere di mantenervi l'ordine contro il terrorismo è del governo israeliano. I metal detector sono rimasti, il Mufti ha lanciato il suo appello dicendo che «un miliardo e 700mila musulmani dicono no al controllo». Forse qualsiasi altro stato si sarebbe arreso, Israele che non ha compiuto nessun gesto aggressivo, non ha messo i soldati sulla Spianata, ha cercato di contenere la furia fermando i pullman a Gerusalemme e impedendo ai giovani sotto i 21 anni l'ingresso alla moschea. Adesso, il mondo palestinese è in guerra, accompagnato da dimostrazioni di solidarietà al grido di «redimeremo al Aqsa» in Giordania, in Libano e in altri Paesi arabi, sospinto dalle consuete fiammate di odio contro Israele alimentate dal fuoco religioso. Si tratta di vedere quello che porterà il domani. Abu Mazen è l'ultimo ad avere interesse a scontro religioso che può solo aumentare l'influenza di Hamas. Israele cercherà di spegnere la furia islamica, il ritorno allo status quo sarà sottolineato da qualche gesto di pacificazione: ma di quale status qua può trattarsi, in realtà, avendo come interlocutore l'universo conquistatore dell'lslam?

(il Giornale, 22 luglio 2017)


Il progetto del terzo Tempio ebraico: radere al suolo la Cupola e la Spianata

La ricostruzione finanziata con 30 milioni

Il Terzo Tempio di Gerusalemme si avvicina. Con l'introduzione dei metal detector sulla Spianata delle Moschee, luogo sacro per l'islam e per l'ebraismo, chiamato Monte del Tempio dagli ebrei, si è andati a toccare il delicato equilibrio dello status quo. Ora i palestinesi, la Waqf in particolare, temono che i provvedimenti celino il tentativo di dare il via libera ai movimenti per la costruzione del Terzo Tempio, proprio dove ora ci sono le moschee di Al Aqsa e la Cupola della roccia.
Il Terzo Tempio sarebbe l'edificio più sacro per l'ebraismo, ma nel luogo in cui dovrebbe sorgere da 1300 anni è situata la Cupola della Roccia islamica. La sua progettazione va avanti da una trentina di anni, da un gruppo di rabbini riuniti in un'associazione chiamata Istituto del Terzo Tempio: il loro fondatore, rav Chaim Richman, dice di sapere esattamente dove l'Arca scomparve dalla conquista di Gerusalemme da parte dei Babilonesi. Cercano ebrei puri, nati in Israele e mai stati a contatto con morti o ospedali, per diventare sacerdoti. Saranno loro a essere abilitati all'esecuzione dei sacrifici di animali, compreso quello di immolare la giovenca rossa perfetta che verrà bruciata nel rituale di purificazione del tempio. Pare che questa mucca sia già nata.
   A tempo pieno per l'istituto, che si regge su donazioni da tutto il mondo, anche da chiese cristiane sioniste, lavorano 20 studenti del Talmud, e finora sono stati spesi circa 30 milioni di dollari. Fino a qualche anno fa l'idea sembrava una bizzarria, oggi le cose stanno cambiando e i fatti di cronaca e la vita quotidiana a Gerusalemme dicono che potrebbe presto tradursi in realtà. Gran parte degli arredi sono già pronti. Recentemente corone, coppe, incensieri, vesti sacre e candelabri sono stati ricreati come quelli originali dai migliori orafi di Gerusalemme. In tutto oltre 70 oggetti sacri di inestimabile valore. Solo la veste del sommo sacerdote ha un pettorale intarsiato di pietre preziose del valore di 159mila dollari; la menorah (il candelabro) è stato realizzato con 90 chili di oro e pesa 1,5 tonnellate.
   E anche alla Knesset gli esponenti dei movimenti per la ricostruzione del Tempio sono attivi e particolarmente propositivi. Tutto nella Gerusalemme moderna è stato costruito negli ultimi anni in funzione di agevolare i tre pellegrinaggi che ogni anno gli ebrei devono compiere a Gerusalemme. Recentemente il ministro dei trasporti israeliano ha dichiarato che la ferrovia che unisce l'aeroporto di Tel Aviv a Gerusalemme, che a breve verrà ultimata, è funzionale proprio al miglioramento del traffico verso il Kotel, il Muro Occidentale anche impropriamente detto Muro del Pianto, quel che resta del Secondo Tempio, quello distrutto dai Romani nel 70 d.C. Quando verrà compiuta la costruzione del Terzo Tempio, secondo Israele, gli ebrei pellegrini saranno ancora di più, e in programma c'è anche la costruzione di una funivia che porti direttamente in cima a quello che nella Bibbia è chiamato il monte Moria, dove oggi sorgono le moschee di Al Aqsa e la Cupola della Roccia.
   Nella Bibbia, però sta anche scritto che il Terzo Tempio sarà costruito dall'Alto, verrà calato dal cielo, e quando sarà compiuto ci sarà l'Apocalisse. L.P.

(Libero, 22 luglio 2017)


L'accenno dell'articolista alla Bibbia è superficiale e discutibile, ma è un fatto che i riferimenti biblici in relazione ai fatti politici che avvengono a Gerusalemme non sono eliminabili in modo sbrigativo, come vorrebbero i laici con paternalistico senso di superiorità. Israele, Gerusalemme e Tempio non sono temi scollegabili. M.C.


Israele, Usa e Turchia: cosa fanno in Siria?

I ruoli dei tre Stati nel complesso scenario bellico

di Cristina Di Giorgi

Israele, Usa e Turchia. Tre Paesi le cui posizioni, nelle ultime ore, risultano di notevole importanza per quanto attiene all'evoluzione dello scenario bellico e diplomatico siriano.
  A proposito di Israele, è di ieri la notizia che il premier Netanyahu, durante l'incontro con i rappresentanti degli Stati dell'Europa orientale che si è tenuto mercoledì a Budapest, a microfoni aperti (a sua insaputa) ha tra le altre cose confermato di aver autorizzato decine di interventi in Siria contro il "Partito di Dio", aggiungendo di aver detto al leader del Cremlino che "se vediamo l'Iran passare armi ad Hezbollah sul nostro confine, intraprenderemo azioni militari in Siria" in particolare nella zona di de-escalation della provincia di Daraa, Sweida e Quneitra, che si trova nel sud del Paese, proprio nei pressi della frontiera con Tel Aviv. Quella stessa area rispetto alla quale - questa volta ufficialmente - il premier israeliano aveva qualche giorno fa dichiarato la sua contrarietà al cessate il fuoco concordato da Usa e Russia durante il G20 di Amburgo (in vigore dal 9 luglio) in quanto, a suo dire, consoliderebbe la presenza dell'Iran nella zona. E oltretutto costringerebbe Israele ad interrompere ogni operazione nel sud della Siria.
  La risposta di Mosca alle preoccupazioni di Netanyahu è stata il dispiegamento del suo esercito nell'area interessata (la notizia è di ieri) "per controllare la provincia e garantire il rispetto dell'intesa". L'importanza di tale novità - si legge su Gli Occhi della Guerra - sta non nell'arrivo delle truppe russe sul suolo della Siria meridionale (già da mesi, infatti, le forze speciali di Mosca sono impegnate in quell'area sostenere le forze di Damasco ed evitare che la coalizione internazionale potesse colpire deliberatamente l'esercito siriano) ma nel fatto che "la Russia abbia preso il controllo della zona di de-escalation che divide la Siria da Israele nel momento in cui i due Stati stavano per giungere ad uno scontro aperto". Che la presenza di Mosca dovrebbe riuscire ad evitare, con conseguenti maggiori possibilità di stabilizzazione sia della provincia sia, in generale, della Siria tutta.
  Quanto poi agli Stati Uniti, la Cia ha sempre ieri reso noto di aver deciso di mettere fine al suo programma di sostegno ai ribelli siriani in lotta contro il presidente Bashar al Assad. Ne ha riferito il Washington Post, sottolineando inoltre che il piano in questione, avviato quattro anni fa, ha avuto un effetto decisamente irrilevante nell'evolversi dello scenario bellico siriano. E questo soprattutto dopo l'ingresso nel conflitto, a fianco di Damasco, delle forze armate russe. Nessun commento da parte della Casa Bianca e della stessa Central Intelligence Agency.
  Dichiarazioni ufficiali sono invece state rilasciate mercoledì da fonti del Pentagono, che hanno manifestato la loro forte preoccupazione alla notizia che l'agenzia di stampa della Turchia ha rivelato la posizione di postazioni americane nel nord della Siria: Anadolu ha infatti pubblicato un rapporto dettagliato su strutture militari e in alcuni casi anche entità dei contingenti in esse operanti, aggiungendo che le basi sono utilizzate per sostenere le forze curde, ovvero il Partito dell'Unione democratica (Pyd) e il suo braccio armato, le Unità di Protezione Popolare (Ypg). L'appoggio americano ai curdi impegnati nella guerra contro lo Stato Islamico (curdi che, con particolare riferimento alle formazioni delle Ypg, Ankara considera terroristi) costituisce un forte elemento di frizione tra Washingon e Ankara. Che seppure entrambi membri della Nato, sulla questione curda hanno sempre avuto visioni in nettissimo contrasto.
  Oltretutto proprio l'alleanza curdo-araba siriana sostenuta dagli Usa denominata "Siria democratica" (Sdf), ha ieri reso noto di aver liberato il 30% di Raqqa. L'annuncio - riportano i media curdi - arriva dal responsabile comunicazione della stessa coalizione Mustafa Bali, che ha aggiunto una richiesta di "ulteriore sostegno per la totale liberazione della città dal pugno dello Stato Islamico", che "ricorre a piani militari diversificati come autobombe e cecchini. E usa i civili come scudi umani".
  Da registrare infine, per quanto attiene al resto della Siria, la notizia - molto importante ai fini della stabilizzazione anche economica del Paese - che le forze governative di Damasco hanno riconquistato almeno quaranta impianti petroliferi situati nella provincia settentrionale di Raqqa che erano caduti nelle mani dell'Isis. Ne ha riferito ieri sputniknews, citando come fonte Ali Ibrahim, ingegnere incaricato del restauro delle strutture per la produzione petrolifera nell'area in questione. "Le pompe saranno smontate e portate alla città di Hama per la ricostruzione. La maggior parte dei macchinari - ha detto Ibrahim - riprenderà il funzionamento entro la fine di luglio".

(Rischio Calcolato, 21 luglio 2017)


Russia e Israele: no alla demolizione di monumenti sovietici in Polonia

 
Monumento ai caduti dell'Armata Rossa a Varsavia
Il parlamento russo e quello israeliano hanno lanciato un appello congiunto all'Europa a seguito della decisione delle autorità polacche di demolire i monumenti sovietici.
   "Secondo il regolamento del parlamento israeliano si tratterebbe di una procedura speciale che si viene adottata molto di rado. La questione verrà esaminata dal parlamento alle 15:00 (ora locale)" ha dichiarato il capo del comitato per gli affari esteri della Duma, Leonid Sluzkij, durante la sessione plenaria di martedì 18 luglio.
   L'appello della Duma è indirizzato ai parlamenti dei paesi europei "in relazione all'insulto alla memoria dei soldati caduti durante la liberazione dell'Europa dal nazismo e dall'olocausto".
   Monumento ai caduti dell'Armata Rossa a Varsavia. Fonte: Ria Novosti
   Secondo quanto riferito dallo speaker del parlamento, Vyachelsav Volodin, l'accordo con i colleghi israeliani è stato raggiunto durante la visita in Russia da parte del rappresentante del Kessnet. Volodin avrebbe inoltre aggiunto che Israele "come nessun altro popolo è consapevole del ruolo che i soldati dell'armata rossa hanno avuto nel salvare migliaia di persone".
   "Questi monumenti sono dedicati ai nostri e ai vostri nonni i quali hanno dato la propria vita per liberare l'Europa", avrebbe infine aggiunto il portavoce, sottolineando che in molti paesi europei si stanno sviluppando casi analoghi a quello polacco.
   Stando alle dichiarazioni della portavoce del Consiglio della Federazione, Valentina Matvienko, la Russia porterà avanti contromisure alla decisione delle autorità polacche.
   Il presidente della Polonia, Andrzej Duda, ha firmato questo lunedì 17 luglio un emendamento alla legge sul divieto di propaganda del comunismo, la quale prevedrebbe appunto la demolizione dei monumenti sovietici nel Paese. La legge entrerà in vigore tra tre mesi. Stando alle previsioni dell'Istituto della Memoria in Polonia, la legge sulla "decomunizzazione" riguarderà circa 230 monumenti dell'Armata Rossa.
- Traduzione dal russo a cura di Italo Cosentino

(Sicurezza Internazionale, 21 luglio 2017)


Siria: Putin rassicura Israele

Truppe russe stanno prendendo posizione nelle provincie di Deraa e Quneitra, alla frontiera tra Siria e Israele, per garantire il rispetto del cessato il fuoco concordato da Russia, Stati Uniti e Giordania lo scorso 7 luglio. La zona occupata dall'esercito russo comprende la zona cuscinetto stabilita dall'ONU nel 1973 al termine della Guerra del Kippur.
   La Russia sta dispiegando le proprie truppe nelle provincie di Deraa e Quneitra, al fine di garantire il cessate il fuoco concordato in occasione del G20 di Amburgo da Donald Trump e Vladimir Putin. Con questa mossa, Mosca prende il controllo non solo della zona di de-escalation pattuita in Germania, ma anche della terra cuscinetto creata nel 1967 e ridisegnata nel 1973 dalle Nazioni Unite alla frontiera tra Siria e Israele, che comprende la città di Quneitra.
   Le truppe russe assumono dunque su di sé anche il compito di garantire la non belligeranza tra Siria e Israele. L'accordo di Amburgo prevede infatti la creazione di una no-fly zone. Toccherà a Mosca impedire ai caccia israeliani di colpire le posizioni siriane nella regione. L'aviazione di Tel Aviv negli ultimi mesi ha colpito più volte nella provincia di Quneitra proprio mentre l'esercito del presidente Assad, alleato di Mosca, attaccava le forze appoggiate dagli USA.
   La pacificazione del confine tra Siria e Israele è importantissima per rinforzare il governo di Damasco ed è di conseguenza di primario interesse per il Cremlino. Lo scorso 9 marzo, ricevendo il premier di Israele Benjamin Netanyahu, Vladimir Putin aveva assicurato che la Russia avrebbe garantito i confini settentrionali dello stato ebraico, preoccupato dal rafforzamento di Hezbollah. Tel Aviv, tuttavia, preferirebbe continuare indisturbata le azioni aeree, secondo quanto riferisce il sito d'intelligence israeliano Debkafile, che definisce "sfida a Israele" l'azione di dispiegamento delle truppe russe.
   Quneitra, abbandonata definitivamente nel 1973 e oggi "città fantasma", si trova a soli 5 Km dalle posizioni dell'esercito israeliano e dalle alture del Golan. Le truppe russe nella regione stanno sostituendo le forze del governo di Damasco e alcuni battaglioni inviati dall'Iran, tuttavia, lamenta Israele, un contingente d'élite della milizia sciita libanese Hezbollah non è stato sostituito dalle forze di Mosca.
   Lunedì 17 luglio, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov aveva assicurato che Russia e Stati Uniti avrebbero fatto di tutto per tutelare gli interessi di Israele nella costruzione di una zona di sicurezza comune nel sud della Siria, e che la posizione di Tel Aviv, come quella di Ankara, era stata presa in considerazione nel corso del vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin. Lavrov aveva cercato così di rassicurare Netanyahu dopo che erano trapelate indiscrezioni sull'opposizione israeliana alla tregua decisa da Mosca e Washington.
   Il dispiegamento di Mosca segue di pochi giorni il voto della Duma che rinnova la missione militare russa in Siria, approvando il relativo decreto presidenziale. Il voto del parlamento russo, lo scorso 13 luglio, autorizzava le forze aeree russe e le truppe speciali presenti in Siria a continuare la propria opera di assistenza alle forze del governo siriano del presidente Bashar al-Assad.

(Sicurezza Internazionale, 21 luglio 2017)


L'Eritrea gioca la carta diplomatica e si allea all'Arabia Saudita

I soldati eritrei potrebbero andare a combattere a fianco dei sauditi nello Yemen. L'Eritrea potrebbe essere la seconda nazione africana, insieme al Senegal, a contribuire con proprie truppe all'alleanza guidata da sauditi contro i ribelli houthi.
Al momento non c'è nulla di certo. La scorsa settimana, però, il presidente dell'Eritrea, Isayas Afwerki, ha visitato Riyadh e ha incontrato re Salman e altri dignitari sauditi. Secondo indiscrezioni, Asmara avrebbe promesso il proprio sostegno alla coalizione o, comunque, una stretta collaborazione in campo strategico.
Già ora, i porti eritrei danno supporto logistico alla coalizione anti houti. In futuro, dalle coste eritree potrebbero poi partire operazioni anfibie per penetrare a fondo nel territorio yemenita.
Dietro questi colloqui, oltre all'aspetto militare, si intessono fitte trame diplomatiche. L'Arabia Saudita, da tempo, sta cucendo relazioni con i Paesi della costa orientale dell'Africa. Ha ottimi rapporti con Gibuti, Etiopia e Somalia. L'alleanza con l'Eritrea rafforzerebbe la presenza e l'influenza saudita sulla costa occidentale del Mar Rosso.
Ciò per Riyadh, è strategico anche al di là delle necessità belliche nello Yemen. «Le controversie di Afwerki hanno continuato a essere una fonte di angosce per l'Arabia Saudita, che è separata dall'Eritrea da una piccola striscia di mare - ha detto un diplomatico arabo al sito "The News Arab" -. L'Arabia Saudita si è molto preoccupata quando i rapporti eritreo-israeliani sono diventati più stretti e sono state costruite basi israeliane nelle isole Dahlak e in altre isole dell'Eritrea appena fuori la costa saudita».
Gli osservatori ritengono che la visita di Afwerki a Riyad ha una grande importanza anche per Asmara. L'Eritrea sta cercando di riavvicinarsi agli Stati Uniti, ma con essi non ha un rapporto diretto. L'amicizia con l'Arabia Saudita potrebbe portare a nuove e più cordiali relazioni tra Asmara e Washington (tradizionalmente alleata di Addis Abeba). Più in generale, la visita di Afewerki in Arabia sarebbe anche un tentativo dell'Eritrea di rompere l'isolamento diplomatico che la ex colonia italiana vive da alcuni anni.
L'invio di militari in Yemen sarebbe quindi una tassello di un puzzle diplomatico più grande.

(Rivista Africa, 21 luglio 2017)


Il Jewish Museum di New York celebra Amedeo Modigliani, ebreo italiano e sefardita

di Ilaria Ester Ramazzotti

 
"Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi", scriveva l'artista Amedeo Modigliani (Livorno, 12 luglio 1884 - Parigi, 24 gennaio 1920). In effetti, tutti coloro che avevano posato per lui dicevano che essere ritratti da Modì era come "farsi spogliare l'anima". In onore del pittore e scultore livornese, celebre per i suoi ritratti dai volti stilizzati e dai colli affusolati, il Jewish Museum di New York proporrà dal 15 settembre 2017 al 4 febbraio 2018 la mostra Modigliani Unmasked.
Alcuni disegni dell'artista, catalogati fra i suoi primi lavori, mostreranno l'esperienza di Modigliani mettendo in luce come il suo essere stato ebreo italiano e sefardita sia fondamentale per capire la sua produzione artistica. Le opere, molte delle quali saranno esposte per la prima volta negli Stati Uniti, erano state acquisite direttamente dall'artista da Paul Alexandre, il suo caro amico e mecenate che lo accolse in Francia.

 La mostra
  Modigliani Unmasked racconterà di un giovane Modigliani appena arrivato nella Parigi del 1906, straniero in una città macchiata dall'antisemitismo e dal recente Affair Dreyfus. Un artista emergente che avrebbe tuttavia saputo cogliere e abbracciare le diversità culturali e strutturare al contempo la sua complessa identità, così come gli ebrei italiani hanno spesso saputo fare. Un percorso narrativo che lascerà trasparire la sua ricerca artistica tesa a scoprire quale ritrattistica avrebbe potuto rivelarsi significativa in un mondo moderno e ricco di differenze.
La mostra, curata da Mason Klein, si comporrà di circa 150 opere, fra cui una selezione di dipinti di Paul Alexandre, sculture e altri disegni provenienti da collezioni in tutto il mondo. L'arte di Modigliani sarà accompagnata da una rappresentazione delle varie influenze multiculturali, africane, greche, egiziane e Khmer, che avevano ispirato il giovane artista nel suo periodo più primo e meno conosciuto.

 Il commento di Raffaele Bedarida, professore di Storia dell'arte all'Università Cooper Union di New York
  "Sono proprio curioso di vedere come sarà impostata la mostra - ci svela Raffaele Bedarida, ebreo livornese, newyorkese d'adozione e professore di Storia dell'arte all'Università Cooper Union di New York -. Mason Klein aveva già curato una mostra su Modigliani sempre al Jewish Museum nel 2004, intitolata Modigliani: Beyond the Myth e spero che continui il lavoro allora avviato, dedicato a mettere da parte la mitologia e cercare di recuperare la complessità dell'artista. Studiare la sua identità di ebreo sefardita, come farà la mostra del prossimo settembre, può aprire prospettive stimolanti. Non solo su Modigliani: sulla sua rete di rapporti e sul suo modo di intrecciare la ricerca più avanzata delle avanguardie europee del Novecento con un ampio ventaglio di tradizioni artistiche (dal Rinascimento italiano alla scultura africana e molto altro). Ma anche sulla geografia culturale delle avanguardie: tutti si ritrovavano e si mescolavano a Parigi. Ma cosa significava in quel contesto essere un ebreo sefardita italiano? E in che modo questa prospettiva ha contribuito a definire l'idea di modernità europea? Sono domande particolarmente calde da porci oggi". L'appuntamento con le possibili risposte è fissato a New York a metà settembre. E come ebreo livornese, sottolinea infine Raffaele Bedarida, "il moto di fierezza è inevitabile".

(Mosaico, 21 luglio 2017)


Il 10 settembre in 35 Paesi si celebra la Giornata europea della cultura ebraica

Domenica 10 settembre 2017 torna la Giornata europea della cultura ebraica, la manifestazione che invita la cittadinanza a scoprire luoghi, storia e tradizioni degli ebrei in 35 Paesi d'Europa. L'appuntamento, giunto alla diciottesima edizione, coordinato e promosso in Italia dall'Unione delle comunità ebraiche italiane, è in continua crescita: sono 81 quest'anno le località che aderiscono nel nostro Paese, 7 in più dello scorso anno. In grandi città e piccoli centri si favorirà la scoperta del patrimonio culturale ebraico, con visite guidate a Sinagoghe, musei e antichi quartieri ebraici, e con centinaia di iniziative tra concerti, spettacoli, conferenze, visite archeologiche, mostre e assaggi di cucina kasher. Il tema, che unisce idealmente tutti gli eventi, è quest'anno "La Diaspora. Identità e dialogo". Uno spunto per scoprire la storia dell'esilio del popolo ebraico, durato quasi due millenni, a seguito delle due diaspore dalla terra d'Israele nell'antichità, e poi ulteriormente disperso con l'espulsione dalla Spagna e dai domini spagnoli, sud Italia incluso, iniziata nel 1492. Una storia che sarà possibile approfondire grazie ai tanti appuntamenti e incontri sul tema, in particolare in Sicilia, regione prescelta quale centro delle iniziative, dove si svolgeranno eventi in 6 località. L'apertura ufficiale della Giornata avverrà a Palermo, dove si darà il via all'intera manifestazione nazionale, la mattina di domenica 10 settembre, alla presenza delle autorità e di esponenti del mondo ebraico. L'evento vuole "sfatare qualche pregiudizio che ancora oggi sussiste, favorendo la conoscenza di una cultura antica e al contempo vivissima, parte integrante della storia d'Italia e d'Europa".

(SIR, Servizio Informazione Religiosa, 21 luglio 2017)



Le ottantuno località, divise per Regione, che partecipano in Italia (moked)

Calabria Bova Marina, Cosenza, Crotone, Reggio Calabria, San Giorgio Morgeto, Santa Maria del Cedro, Vibo Valentia
Campania Napoli
Emilia Romagna Bologna, Carpi-Fossoli, Cento, Correggio, Cortemaggiore, Ferrara, Finale Emilia, Fiorenzuola d'Arda, Lugo di Romagna, Modena, Parma, Reggio Emilia, Soragna
Friuli Venezia Giulia Gorizia, Trieste, Udine
Lazio Ceprano, Fiuggi, Fondi, Roma
Liguria Genova
Lombardia Bozzolo, Mantova, Milano, Ostiano, Sabbioneta, Soncino, Viadana
Marche Ancona, Fano, Jesi, Pesaro, Senigallia, Urbino
Piemonte Acqui Terme, Alessandria, Asti, Biella, Carmagnola, Casale Monferrato, Cherasco, Chieri, Cuneo, Ivrea, Moncalvo, Mondovì, Pomponesco, Rivalta Bormida, Saluzzo Torino, Trino Vercellese, Vercelli
Puglia Bari, San Nicandro Garganico, Taranto
Sicilia Agira, Catania, Modica, Palermo, Ragusa (Camarina), Siracusa
Toscana Firenze, Livorno, Pisa, Pitigliano, Siena, Viareggio
Trentino Alto Adige Merano
Veneto Padova, Venezia, Verona, Vicenza, Vittorio Veneto



Nuovo fondo cinese investe 100 milioni di dollari in Israele

Un nuovo fondo di capitale di rischio originario della Cina investirà 100 milioni di dollari in Israele. Il nuovo fondo si chiama MizMaa Ventures - una combinazione delle parole ebraiche di oriente e occidente.
Il fondo, che ha già investito in sei startup, investirà in cyber-sicurezza, tecnologie per auto, Fintech, cloud computing e robotica.
MizMaa ha ottenuto un finanziamento da tre famiglie cinesi benestanti, con la maggior parte del denaro proveniente dalla famiglia Chen, che si ritiene essere il 58esima famiglia più ricca del mondo.
Nella fase successiva, MizMaa cercherà di raccogliere 150 milioni di dollari per un altro fondo.
Il portfolio israeliano di MizMaa include le aziende di cyber-sicurezza Armeron e Coronet, così come Twiggle - un motore di ricerca per siti web commerciali. Un'altra società in cui ha investito MizMaa è Corephotonics, che si occupa di ottica e fotocamere. Il fondo dovrebbe presto annunciare altri due investimenti, uno dei quali nel settore Fintech.

(SiliconWadi, 21 luglio 2017)


Slovacchia-Israele - Interessati a una collaborazione in settori di tecnologia militare

BRATISLAVA - Il primo ministro slovacco Robert Fico ha invitato la controparte israeliana Benjamin Netanyahu a visitare il paese dell'Europa centrale, per discutere di possibili iniziative congiunte. Lo riferisce l'agenzia di stampa slovacca "Tasr", secondo cui Fico vorrebbe approfondire la collaborazione con Israele nel settore dell'innovazione, dell'automotive e dell'industria militare, oltre che nel contrasto "all'ideologia fascista". Fico ha avuto un incontro bilaterale con Netanyahu nella giornata di ieri, a margine della riunione dei primi ministri del gruppo di Visegrad (Slovacchia, Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria -V4) a Budapest. Il premier israeliano ha accolto la proposta di Fico, dicendosi disponibile a visitare la Slovacchia quanto prima. "La mia proposta è quella di visitare il nostro paese il 9 settembre, quando si celebra la Giornata in ricordo delle vittime dell'Olocausto e della violenza razziale. Si è detto interessato a questa possibilità, e sarei felice se venisse in quel giorno. In ogni caso, mi auguro che questa importante visita si tenga in autunno", ha commentato Fico.
   Il premier slovacco ha poi elencato le possibili aree di cooperazione con Israele. Il governo israeliano si sarebbe detto disponibile ad ospitare lavoratori slovacchi del settore dell'innovazione, delle start-up, ambiti in cui Israele "è ai massimi livelli". In questo ambito "dovrebbe essere segnato un accordo fra i paesi di Visegrad e Israele, così da permettere ad alcuni lavoratori specializzati slovacchi di recarsi nel paese quanto prima", ha aggiunto Fico. La seconda area per la collaborazione fra Slovacchia e Israele è quella dell'automotive, ambito nel quale Bratislava è, "in una certa misura, una potenza globale". Riguardo la modernizzazione nel settore militare, Fico non ha negato che la Slovacchia abbia bisogno "di migliorare sensibilmente le proprie capacità. Alcune cose andranno migliorate, e tutti sanno come Israele sia fra i massimi sviluppatori mondiali di tecnologie militari", preventivando una futura collaborazione.

(Agenzia Nova, 20 luglio 2017)


Gerusalemme - Spianata chiusa ai musulmani con meno di 50 anni

La decisione del governo israeliano in una riunione con il Consiglio di sicurezza nella notte: «Gli estremisti vogliono infrangere l'ordine pubblico». Restano i metal detector.

di
Francesco Giambertone

 
Misure di emergenza a Gerusalemme per le preghiere del venerdì. L'ingresso alla Città Vecchia e alla Spianata delle moschee sarà limitato: potranno entrare i musulmani di età superiore ai 50 anni, ma per le donne non ci sono restrizioni. I palestinesi di Gerusalemme avevano preannunciato «un venerdì di protesta» contro le autorità israeliane, dopo che queste avevano preso nei giorni scorsi una serie di misure restrittive per limitare l'accesso alla moschea di al Aqsa a seguito dell'uccisione di due militari da parte di tre uomini palestinesi. La riunione sulla sicurezza convocata in serata dal premier Netanyahu per contrastare quello che Hamas aveva annunciato come «il giorno della rabbia palestinese» ha stabilito che non saranno rimossi neanche i metal detector: «Sappiamo - ha detto un portavoce - che elementi estremisti vogliono infrangere l'ordine pubblico ricorrendo a violenze».

 Alta tensione
  Alla Spianata delle moschee, il terzo luogo più sacro per l'islam, rimangono anche i metal detector che da una settimana tengono fuori i musulmani in preghiera: dopo la riunione di giovedì sera con i funzionari della sicurezza, l'ufficio del primo ministro Benyamin Netanyahu ha fatto sapere che «Israele resta vincolato allo status quo sul Monte del Tempio (Spianata delle moschee, ndr) e alla libertà di culto nei Luoghi santi». Il quotidiano israeliano Haaretz aveva rivelato che all'interno dello stesso consiglio c'erano posizioni diverse: le forze di polizia e il ministro della Sicurezza Gilad Erdan erano favorevoli a lasciare i metal detector, mentre l'agenzia di intelligence per gli affari interni israeliana, Shin Bet, e le Forze armate sarebbero stati propensi a eliminare i dispositivi.

 Nuovi scontri
  Giovedì sera si erano verificati altri scontri alla Spianata delle moschee tra i palestinesi in protesta contro le misure di accesso e le forze di sicurezza israeliane. La croce rossa palestinese ha contato almeno 22 feriti, nessuno tra gli agenti di Israele, che secondo un portavoce della polizia erano stati aggrediti con un lancio di pietre e bottiglie di vetro.

(Corriere della Sera, 21 luglio 2017)


Ci vorrebbero dei "bufala-detector" per evitare il diffondersi di menzogne e idiozie

Fare uno "sciopero della preghiera" alla moschea di al-Aqsa per i metal detector senza battere ciglio per il fatto che nella moschea sono state nascoste armi assassine è una forma di bestemmia.

Scrive Michael Freund: «E' dall'inizio di questa settimana che esponenti politici e religiosi arabi e musulmani cercano di provocare polemiche e violenze, lanciando invettive contro Israele per la decisione di installare metal detector agli ingressi del Monte del Tempio di Gerusalemme. Il Comitato Centrale di Fatah ha indetto nientemeno che una "Giornata della rabbia" a cui ha aderito Hamas da Gaza; esponenti arabi della Città Vecchia hanno denunciato la misura come "un atto di guerra"; il primo ministro dell'Autorità Palestinese Rami Hamdallah l'ha definita una "volgare e pericolosa aggressione"; i fedeli musulmani gridano all'"insopportabile umiliazione". Tutta retorica. La vera minaccia alla pace non è una misura di sicurezza in più adottata all'ingresso di un luogo santo. La vera minaccia sta negli irresponsabili proclami, sfacciatamente infondati, della dirigenza politica e religiosa palestinese. In effetti, accanto ai metal detector bisognerebbe installare dei nuovi bufala-detector per evitare il diffondersi a profusione di menzogne e idiozie fra i nemici di Israele. Per cominciare, sarebbe doveroso per tutti ricordare che la decisione di installare i nuovi controlli ha fatto seguito all'attentato terroristico di venerdì scorso in cui tre arabi, facendo fuoco con armi ricevute dentro la moschea di al-Aqsa, hanno assassinato due poliziotti israeliani. In altre parole, il luogo che portavoce e rappresentati musulmani proclamano così sacro e intoccabile per la loro fede viene utilizzato per nascondere armi da fuoco e chissà cos'altro, ma questo non sembra scandalizzarli più di tanto. No: lo scandalo sono i metal detector. Invece dovrebbe essere ovvio che attentati come questo rappresentano una minaccia non solo per gli agenti delle forze di sicurezza incaricati di proteggere il sito, ma anche per tutti coloro che lo visitano....

(israele.net, 21 luglio 2017)


Tra le menzogne e le idiozie diffuse dai nemici di Israele si può collocare anche il seguente articolo dell’Osservatore Romano,


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Mobilitazione palestinese a Gerusalemme

TEL AVIV - La questione dei metal detector installati dalle forze di sicurezza israeliane nell'area della moschea di Al Aqsa a Gerusalemme mantiene alta la tensione in tutta la città. Mentre le autorità israeliane stanno valutando la possibilità di rimuovere i controlli, che erano stati intensificati dopo l'attentato nel quale sono rimaste uccise cinque persone, da parte palestinese è stata annunciata per domani, in occasione della preghiera del venerdì, una mobilitazione di massa.
Fonti di stampa israeliane riferiscono infatti che il premier Benjamin Netanyahu, attualmente in visita di stato in Ungheria, ha avuto ieri una consultazione telefonica con responsabili alla sicurezza in merito alle misure antiterrorismo adottate presso alcuni accessi dell'area circostante la moschea di Al Aqsa. Secondo le stesse fonti lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, non si opporrebbe alla rimozione dei metal detector. Di parere opposto sarebbero invece i responsabili della polizia israeliana.
Come detto, i palestinesi si stanno intanto mobilitando per manifestare il loro dissenso contro quello che considerano un impedimento alla loro pratica religiosa. Il Muftì di Gerusalemme, Muhammad Hussein, ha disposto che venerdì tutte le moschee della città resteranno chiuse. E ha fatto appello ai fedeli di convergere in massa per pregare nell'area circostante la moschea di Al Aqsa - se nel frattempo i metal detector israeliani saranno rimossi - oppure nelle strade vicine, se essi saranno ancora in funzione.
Proprio a causa della situazione di altissima tensione che si respira a Gerusalemme e in tutta la Cisgiordania, il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha deciso di interrompere la visita ufficiale in Cina e di rientrare al più presto a Ramallah, nel suo quartier generale, e seguire da vicino la crisi. Al suo arrivo a Ramallah, ha reso noto il suo portavoce Nabil Abu Rudeina, Abbas presiederà una riunione di urgenza dei vertici del governo. Rudeina ha precisato, inoltre, che Abbas è in contatto con diversi leader arabi e mondiali per evitare un'ulteriore escalation della situazione a Gerusalemme.
E intanto, ieri un appello alle autorità israeliane a «rispettare la libertà di culto e i luoghi santi» è giunto dall'Egitto. In una nota diffusa dal ministero degli esteri si mette in guardia lo stato ebraico dalle «conseguenze derivanti dall'escalation di sicurezza alla moschea Al Aqsa».
Preoccupazione per l'attuale situazione è stata espressa dai patriarchi e i capi delle Chiese a Gerusalemme che in un comunicato hanno rinnovato l'appello al rispetto dello status quo dei siti in questione.

(L'Osservatore Romano, 21 luglio 2017)


Palestina: tensioni tra Hamas e Al-Fatah

La nascita di uno Stato in Palestina è un progetto reso difficile non soltanto dalla forza di Israele, ma anche dalle divisioni interne al movimento palestinese, che si indebolisce con le proprie mani. Il movimento palestinese è infatti diviso in due anime contrapposte. Da una parte, Hamas, che controlla la città di Gaza; dall'altra, Al-Fatah, che guida l'Autorità Nazionale Palestinese, il cui centro amministrativo è a Ramallah, in Cisgiordania. Le tensioni e gli scontri tra le due parti per il controllo di Gaza sono esplose nel giugno 2007, quando Hamas, dopo un sanguinoso scontro con Al-Fatah, ha assunto il controllo della Striscia di Gaza.
Da qualche mese, Hamas impedisce ai capi di Al-Fatah di entrare in Cisgiordania per incontrare gli altri membri del loro movimento. L'ultimo episodio risale a martedì 11 luglio, quando le forze di sicurezza di Hamas hanno impedito al vice segretario del Consiglio rivoluzionario di Al-Fatah di entrare in Cisgiordania, senza fornire nessuna spiegazione. Secondo una fonte di Al-Monitor, che ha chiesto di rimanere anonima, l'obiettivo di Hamas è quello di "stringere il cappio sulla leadership di Al-Fatah".
Gli scontri tra i due gruppi si sarebbero intensificati dopo che, il 10 marzo 2017, Hamas ha istituito a Gaza un comitato amministrativo per gestire le istituzioni governative nel territorio. Al-Fatah ha più volte chiesto a Hamas di chiudere il comitato, senza però ottenere alcun risultato.
Al-Fatah ha colpito Hamas con alcune misure punitive nella Striscia di Gaza, al fine di spingere i suoi capi a riprendere i colloqui di riconciliazione. Tra le misure, vi è l'aumento delle tasse sulle importazioni, quindi anche sul carburante che nella Striscia di Gaza viene fornito da Israele, ma acquistato da Al-Fatah che poi lo vende ad Hamas. Israele e Hamas, infatti, essendo in guerra, non hanno scambi commerciali diretti. Ciò ha causato una grave crisi elettrica nella Striscia di Gaza, che ancora oggi consente ai palestinesi di avere l'elettricità per due sole ore al giorno.
Hamas sta cercando di rafforzare la propria posizione, migliorando i rapporti con l'Egitto. Dal 4 giugno 2017, l'Egitto sta aiutando la Striscia di Gaza ad affrontare la crisi elettrica, attraverso l'invio di carburante industriale nel territorio. I rapporti tra Egitto e Hamas sono migliorati notevolmente negli ultimi mesi. I rappresentanti di Hamas si sono più volte recati al Cairo per chiedere aiuto al governo egiziano di Al-Sisi.
L'Egitto, volendo assumere un ruolo da protagonista nel conflitto israelo-palestinese, ha un interesse strategico ad aiutare Hamas.
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 21 luglio 2017)


Che senso ha allora parlare di "colloqui di pace" tra Israele e Palestina, quando non si sa con chi Israele dovrebbe parlare? La Palestina come sovrano Stato unitario non è mai esistita e non esiste ancora. E’ una finzione che mantiene viva l’opposizione allo Stato d’Israele, che esiste, ma di cui si continua a mettere in dubbio il diritto all’esistenza. M.C.


I Rabbini perdono la battaglia per il cimitero

MANTOVA - Niente da fare, i lavori vanno avanti senza ripensamenti. Nell'area dell'ex cimitero ebraico di San Nicolò a Mantova, aperto nel 1442 e chiuso nel 1786, sorgerà la "Piazza della terra" con laboratori dedicati all'ambiente, un mercato per la promozione di prodotti agricoli locali e spazi per l'accoglienza dei disabili. La pronuncia della Sovrintendenza è chiara.
Le ricerche effettuate con il georadar hanno escluso la presenza di reperti degni di essere portati in superficie e conservati. Il riferimento è alle pressioni di alcuni rabbini ortodossi americani e israeliani che avevano invocato lo stop dei lavori. «Il nostro interlocutore è l'Unione delle comunità ebraiche italiane e finora non ha chiesto scavi archeologici nell'area dell'ex cimitero» taglia corto l'assessore all'urbanistica Andrea Murari intervistato dalla Gazzetta di Mantova.

(la Repubblica - il Venerdì, 21 luglio 2017)


Radiohead, a Tel Aviv hanno suonato sfidando il boicottaggio

di Angela Sorrentino

Lunghe settimane di polemiche, ma alla fine la musica, ancora una volta, ha vinto ed è riuscita a vincere anche le critiche più aspre.
Alla fine il concerto che non si doveva fare si è fatto, e oltre 50 mila persone hanno assistito alla lunghissima performance dei Radiohead al parco Yarkon di Tel Aviv, la prima in diciassette anni.
Questo è stato probabilmente il concerto più discusso degli ultimi tempi, ma i Radiohead sono riusciti a chiudere a Tel Aviv la loro tournée, dopo settimane di polemiche: da una parte esponenti della comunità artistica che hanno fatto pressione perché la band di Thom Yorke sostenesse il boicottaggio dello stato, dall'altra i Radiohead che hanno sempre sostenuto il loro diritto ad esibirsi.
La querelle, avviata dall'ex Pink Floyd Roger Waters, era andata avanti fino a poche ore prima dell'inizio del concerto nell'estremo tentativo di dissuadere Thom Yorke, ma il messaggio del cantante e polistrumentista britannico era chiaro sin da quando dieci giorni fa aveva risposto con il dito medio alle bandiere palestinesi e ai fischi che avevano accompagnato l'inizio della sua esibizione al Transmight Festival di Glasgow, in Scozia.
In un post su Twitter Yorke aveva pazientemente spiegato: "Suonare in un paese non equivale ad approvare il suo governo. Noi non sosteniamo Netanyahu più di quanto sosteniamo Trump, ma continuiamo a suonare in America".
E in intervista alla rivista Rolling Stone aveva dichiarato: "È profondamente offensivo supporre che noi siamo così disinformati o così ritardati da non poter prendere queste decisioni per conto nostro. È davvero impressionante che artisti che rispetto pensino che non siamo in grado di prendere da soli una decisione etica dopo tutti questi anni. Ci parlano con arroganza e sufficienza e trovo semplicemente sbalorditivo che credano di avere il diritto di farlo".
I Radiohead alla fine hanno suonato ed è facile e soprattutto ricco di speranza immaginare che ci fossero anche arabi-israeliani nel pubblico.

(Web.it, 21 luglio 2017)


Gli affari (segreti) del Patriarca. Venduti i «tesori» di Israele e Palestina

Il capo della Chiesa greco-ortodossa ha compiuto una serie di operazioni immobiliari e ha ceduto a investitori misteriosi centinaia di ettari di terreni dal valore simbolico oltre che commerciale.

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Per dieci anni Ireneo è rimasto agli arresti conventuali, degradato da patriarca a monaco. Riceveva il cibo dopo aver calato la corda con il cestello tra i vicoli della Città Vecchia e riportava al terzo piano la generosità di una famiglia musulmana del quartiere. Per dieci anni non ha lasciato la stanza nel palazzo dove una volta comandava perché temeva di non poterci tornare.
   Adesso Teofilo III, il successore alla guida della Chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, rischia di trovarsi dallo stesso lato della fune e per la stessa ragione: una serie di operazioni immobiliari rimaste segrete fino a pochi giorni fa, smercio di terreni che è riuscito ad accomunare nello sdegno e nella rabbia gli israeliani e i palestinesi. Le centinaia di ettari vendute in questi anni non hanno solo un valore commerciale ma anche simbolico. A investitori misteriosi, società con sede nei paradisi fiscali dei Caraibi, sono andati: l'anfiteatro di Cesarea (fatto costruire da Erode il Grande) e il parco archeologico con gli altri resti dell'epoca romana; la piazza dove sorge la Torre dell'Orologio a Jaffa (eretta dagli ottomani nel 1903), il primo monumento che si incontra arrivando da Tel Aviv. I lotti in uno dei quartieri più eleganti di Gerusalemme — ci abitano nelle residenze ufficiali il primo ministro e il presidente — sarebbero stati acquistati invece da finanzieri ebrei. Tutti passaggi di proprietà che non sono stati comunicati, fino alle rivelazioni del Canale 2 televisivo, al governo israeliano.
   Il patriarcato greco-ortodosso è il secondo maggiore possidente dopo lo Stato, sui suoi appezzamenti sorge anche il palazzo della Knesset, il Parlamento. Questo patrimonio gli garantisce un potere di contrattazione con le autorità israeliane molto superiore al ruolo. È stato accumulato durante il periodo ottomano e nel 1952 dato per la maggior parte in concessione — durata novantanove anni — al Fondo Nazionale Ebraico, l'organismo che fin dagli inizi del Novecento ha sostenuto l'acquisizione di terreni in Palestina.
   Il ministero della Giustizia israeliano ha convocato una riunione d'emergenza per capire come sia possibile che l'anfiteatro a Cesarea, uno dei siti più visitati in Israele e dove vengono organizzati i concerti estivi, possa essere finito nelle mani di privati. Preoccupati sono anche i proprietari di 1.500 case a Gerusalemme, le hanno costruite con la convinzione che l'affitto decennale dei terreni — garantito dal governo — sarebbe stato rinnovato. Gli speculatori potrebbero invece decidere di vendere al miglior offerente. Nel 2005 Ireneo I è stato rimosso per aver dato via — lui sostiene di essere stato incastrato — quei metri quadrati che i palestinesi considerano fondamentali per edificare un eventuale Stato. Palazzi e pietre antiche nella Città Vecchia di Gerusalemme, i quartieri catturati nella guerra dei Sei giorni, poi annessi dagli israeliani, e che gli arabi considerano parte della futura capitale. Il successore Teofilo III replica di essere stato costretto a cedere le altre proprietà per cercare di ricomprare quei lotti politicamente così importanti.
   La spiegazione non basta ai parlamentari giordani e ai politici palestinesi che chiedono al re e al presidente Abu Mazen di revocargli il beneplacito ufficiale, necessario per restare in carica. «Sta firmando un atto di vendita dopo l'altro, nonostante le prove non siamo ancora riusciti a ottenere la sua rimozione», spiega Alif Sabbagh tra i leader del gruppo che guida la campagna contro Teofilo III.
   Le cessioni a investitori ebrei (anche in aree che sono parte di Israele da prima del 1967) sono considerate un tradimento della causa. Da anni gli arabi cristiani accusano il patriarcato di discriminazione, premono per prendere il controllo della Chiesa e affidarne la gestione a monaci e sacerdoti locali. Come ha commentato un palestinese al quotidiano New York Times: «Questi patriarchi arrivano dalla Grecia, sono stranieri. Non capiscono i nostri problemi».

(Corriere della Sera, 21 luglio 2017)


Gino Bartali il Giusto, ci sono prove contro tutti i dubbi

Lo scetticismo dello storico Sarfatti, basato su documenti vecchi e un libro con vari errori. Ma c'è il racconto di chi deve la vita al ciclista.

di Adam Smulevich

«Il grande ciclista italiano Gino Bartali salvò davvero degli ebrei durante la Shoah?». A porsi la domanda sulla testata web Tablet, voce influente dell'informazione ebraica americana, è lo storico Michele Sarfatti.
   Sarfatti è stato direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.
   Un duro atto d'accusa nei confronti della Commissione dei Giusti dello Yad Vashem, che nel 2013 ha voluto che la memoria di Ginettaccio trovasse collocazione in modo permanente tra gli eroi del popolo ebraico. Ma anche nei confronti di chi, in questi anni, si è adoperato perché frammenti vecchi e nuovi relativi a questa vicenda potessero trovare una composizione adeguata.
   Nel suo attacco, che sembra voler smontare tutto il lavoro svolto finora, Sarfatti si basa quasi unicamente su documenti vecchi di decenni. E in particolare sul libro di un giornalista, Alexander Ramati, che nel 1978 fu tra i primi a parlare della rete di assistenza clandestina ad Assisi nel suo The Assisi Underground. Un racconto intrigante, anche se poco solido da un punto di vista storico. Vi sarebbero infatti alcune fragilità e incongruenze, chiaramente sottolineate da Sarfatti.
   Peccato che da allora molta acqua sia passata sotto i ponti e che, in particolare negli ultimi anni, diverse prove sull'eroismo di Bartali siano emerse in modo chiaro arricchendo una pratica per lungo tempo giacente in un cassetto del Memoriale.
   Fu proprio in considerazione di questa stasi, in assenza di testimonianze dirette da parte di salvati, che nell'aprile del 2010 si decise di comune accordo con Sara Funaro di lanciare sul mensile Ucei Pagine Ebraiche una mobilitazione per riscoprire il Bartali nascosto e di attivarsi con ricerche che battessero strade diverse. Una sfida premiata in tempi rapidi da un esito più che positivo. Tra le molte vicende inedite emerse quella che ha avuto come protagonista l'ebreo fiumano Giorgio Goldenberg, che fu nascosto da Bartali in una casa di sua proprietà in via del Bandino insieme a genitori, sorellina e cugino. «Se sono vivo lo devo a Bartali» mi spiegò Goldenberg al telefono da Kfar Saba, in Israele, dove viveva dal dopoguerra e dove è recentemente scomparso. Fu una rivelazione sconvolgente ed emozionante. Un capitolo nuovo che si apriva su Gino il Giusto. La testimonianza diretta che finalmente arrivava, colmando una lacuna grande come un macigno. Naturalmente però il Memoriale di Gerusalemme è un ente che agisce in base a criteri scientifici. Per cui film, libri e articoli - per quanto accurati - non sono considerati una prova. Non ha valore il fragile libro di Ramati, su cui Sarfatti sembra basare tutto il suo intervento. Ma in sé non poteva aver valore neanche l'intervista a Goldenberg pubblicata su Pagine Ebraiche e poi rapidamente circolata un po' ovunque. Serviva che Giorgio si presentasse di persona al Memoriale e certificasse, di proprio pugno, quanto raccontato a voce. L'ha fatto pochi giorni dopo, aiutato anche da un esperto di genealogia che gli è stato vicino: Nardo Bonomi.
   La testimonianza di Goldenberg, insieme tra le altre a quelle dei fiorentini Renzo Ventura e Giulia Donati, si è rivelata decisiva. Ma solo dopo un attento esame della commissione, che ha svolto le sue indagini con la consueta autorevolezza e indipendenza. Non sorprende quindi l'amarezza di Sergio Della Pergola, noto demografo e membro della commissione stessa. Per lo studioso, intervenuto sul portale moked.it, operazioni di questo tipo rischiano di rappresentare «un'azione diffamatoria, indegna di chi voglia occuparsi seriamente delle vicende del periodo bellico e della Shoah».

(Corriere Fiorentino, 21 luglio 2017)


“Il giudizio di Dio sulle nazioni”

Convegno regionale di EDIPI a Ficarazzi (Palermo), 29-30 luglio 2017

Locandina

(EDIPI, 20 luglio 2017)


Netanyahu attacca l'Unione Europea: «Politica folle verso Israele»

Un «fuorionda» al vertice di Budapest

Una dura critica ai Paesi europei che «minano alla base Israele con pressioni politiche». Benjamin Netanyahu ha attaccato la «folle» politica dell'Ue in un discorso a porte chiuse a Budapest davanti ai leader del gruppo di Visegrad. Il primo ministro israeliano non si è reso conto che l'audio era rimasto acceso per sbaglio e che i giornalisti all'esterno hanno sentito ogni parola, riportandola sui siti israeliani. «Penso che l'Europa debba decidere se vivere e prosperare o se vuole appassire e scomparire», ha detto davanti ai leader di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. «L'Unione europea - ha affermato - è l'unica al mondo che ponga condizioni politiche ai suoi rapporti con Israele, che produce tecnologia in ogni settore». «È folle, è completamente folle», ha proseguito Netanyahu, dicendo di parlare «nell'interesse dell'Europa» e invitando i quattro Paesi a chiudere le porte ai migranti.

(La Stampa, 20 luglio 2017)

*

Bibileaks

Il fuorionda del premier israeliano Netanyahu su Europa, Siria e Trump

Non c'è alcuna logica. Logorando i suoi rapporti con Israele, l'Ue mina la sua stessa sicurezza. Sta minacciando il proprio progresso compromettendo i legami con il più grande polo di innovazione al mondo per colpa di un tentativo folle di creare precondizioni politiche. L'Ue è l'unica organizzazione di stati a stabilire le sue relazioni con Israele, che fornisce loro la tecnologia, su condizioni politiche. Nessun altro lo fa. E' una cosa da pazzi. Ed è contro i suoi stessi interessi. Persino i paesi arabi parlano con noi di tecnologia e di tutto quello di cui stiamo discutendo qui". Il fuorionda del premier israeliano Benjamin Netanyahu, in visita in Ungheria, è iniziato così: pensava che il microfono fosse spento, ma tutti i giornalisti presenti hanno sentito in cuffia le sue parole. Il primo ministro ungherese Viktor Orbàn interrompe con una risata: "L'Unione europea è ancora più singolare. Pone condizioni anche agli stati al suo interno, non solo ai partner esterni". Netanyahu riprende: "Penso che l'Europa debba scegliere se vuole vivere e prosperare o se vuole avvizzire e scomparire. Io non sono molto politicamente corretto. So che è uno choc per alcuni di voi. Ma la verità è la verità. Sia la sicurezza dell'Europa sia il futuro economico dell'Europa necessitano di una politica diversa nei confronti di Israele. Noi siamo parte della cultura europea. A est di Israele, non c'è più Europa. Prima di tutto vi suggerisco di aiutarci ad accelerare la formazione di accordi tra Europa e Israele, e che passiate un messaggio ai vostri colleghi su come aiutare l'Europa stessa. Tutto (ciò che Israele può offrire, ndr) è a vostra disposizione, in qualsiasi campo. Dunque smettetela di attaccare Israele. Sostenetelo, invece, come gli americani, i cinesi e gli indiani stanno già facendo".
   E ancora il premier israeliano: "Abbiamo avuto un grosso problema con gli Stati Uniti. E' diverso ora. C'è una presenza americana rinnovata nella regione (la Siria e il medio oriente in generale, ndr) ed è positivo. (Con l'Amministrazione di Donald Trump, ndr) siamo d'accordo sullo Stato islamico, non sull'Iran. Ho detto anche a Putin che se vediamo l'Iran che passa armi a Hezbollah sul nostro confine, intraprenderemo azioni militari, come abbiamo fatto (già in passato, ndr) una dozzina di volte, senza avere problemi con la Russia. Abbiamo bloccato la frontiera non solo in Egitto, ma sulle alture del Golan. Abbiamo costruito il muro perché c'era un problema con lo Stato islamico e l'Iran cerca di costruire là un fronte terrorista. Credo nella libera circolazione delle merci e delle idee, ma non delle persone. Proteggete i vostri confini".

(Il Foglio, 20 luglio 2017)


Cantante araba israeliana difende il concerto dei Radiohead a Tel Aviv

"Cercano solo di dividerci, di fermare la musica. E danneggiano chi vuole promuovere la pace"

La musicista arabo-israeliana Nasreen Qadri ha preso posizione a favore della performance dei Radiohead, mercoledì in Israele, nonostante le furiose pressioni cui il gruppo britannico è stato sottoposto dal movimento BDS (per boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele) affinché annullasse il concerto estivo a Tel Aviv....

(israele.net, 20 luglio 2017)


Radiohead, al concerto a Tel Aviv anche un fan palestinese

E' probabilmente il concerto più discusso degli ultimi tempi. Stasera, 19 luglio, i Radiohead chiuderanno a Tel Aviv la loro tournée, dopo settimane di polemiche.
Da una parte esponenti della comunità artistica che hanno fatto pressione perché la band di Thom Yorke sostenesse il boicottaggio dello stato (in particolare, si ricordano le dure esternazioni di Roger Waters e del regista Ken Loach), dall'altra i Radiohead (sostenuti da amici come Michael Stipe) che sostengono il loro diritto ad esibirsi.
Thom Yorke ha detto le parole probabilmente definitive sulla questione, spiegando che i Radiohead non sostengono il governo israeliano, e che "La musica, l'arte e il mondo accademico hanno a che fare con il superamento delle frontiere, non con la costruzione; con le menti aperte, non chiuse, l'umanità condivisa, il dialogo e la libertà di espressione".
E' una bella storia, in questo senso, quella di un fan palestinese che ha chiesto l'aiuto della rete per poter avere il permesso di andare nella capitale israeliana per il concerto. Permesso accordato dall'autorità militare Naranjah, grazie all'intervento di diverse persone che hanno comunicato la richiesta dopo averne letto su Reddit:
    Dopo l'annuncio dell'arrivo dei Radiohead in Israele questa estate, abbiamo ricevuto una richiesta da parte di un palestinese che vive in Giudea e Samaria, un grande fan della band e giornalista amatoriale per la sua università. Quando abbiamo ricevuto la richiesta, abbiamo fatto di tutto per aiutarlo ad assistere lo spettacolo. Ci fa piacere sapere che ci sono persone che sono disposte a compiere tali sforzi per vedere un concerto.
(Rockol.it, 19 luglio 2017)


Egitto: ucciso uno dei leader dello Stato islamico nel Sinai ad al Arish

IL CAIRO - Il ministero dell'Interno egiziano ha annunciato l'uccisione di uno dei leader del gruppo terroristico Wilayat Sinai, precedentemente noto come Ansar Beit al Maqdis, che ha cambiato nome in Stato del Sinai dopo aver giurato fedeltà al sedicente califfato di Abu Bakr al Baghdadi nel novembre del 2014, in uno scontro a fuoco avvenuto ad al Arish, nel nord del Sinai. Il terrorista ucciso si chiamava Ahmed Hasan Ahmed al Nashu, il cui nome di battaglia era Ghandur al Misri. Per gli inquirenti si tratta di uno dei capi di spicco del gruppo jihadista nel Sinai legato all'esecuzione di diversi attentati ed aveva la responsabilità di reclutare nuove leve. Il terrorista viveva ad al Arish ed aveva 32 anni. Era nascosto in un seminterrato di un'abitazione ed ha risposto al fuoco della polizia che lo aveva individuato per catturarlo.
  Le forze armate e la polizia hanno intensificato i controlli dopo l'attacco del 7 luglio che ha ucciso 25 soldati nei pressi di Rafah, non lontano dal confine con la Striscia di Gaza. Quest'ultimo è stato uno dei più sanguinosi attacchi condotti negli ultimi due anni nell'area, diventata fortemente instabile dopo il crollo del regime di Hosni Mubarak e, successivamente, dopo la caduta del presidente islamista Mohamed Morsi. L'attacco, rivendicato dallo Stato islamico, è stato condannato anche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha invitato tutti i paesi membri dell'Onu a mettere da parte le divergenze per collaborare nel contrasto globale al terrorismo.
  Dallo scorso 10 luglio, in Egitto è in vigore l'estensione dello stato di emergenza per altri tre mesi. Il capo dello Stato egiziano, Abdel Fatah al Sisi, aveva approvato per la prima volta la misura per un periodo di tre mesi lo scorso aprile, in seguito agli attacchi terroristici della Domenica delle Palme contro i luoghi di culto cristiani di Tanta e Alessandria, costati la vita rispettivamente ad almeno 29 e 17 persone. Il provvedimento consente alla polizia egiziana di "prendere tutte le misure necessarie per combattere il terrorismo e prosciugarne le risorse finanziarie, mantenere la sicurezza a livello nazionale, proteggere la proprietà pubblica e privata e salvare vite umane", riferisce il quotidiano filo-statale "Al Ahram", citando un comunicato del governo.

(Agenzia Nova, 19 luglio 2017)


Il sottosegretario al Turismo Bianchi incontra in Calabria l'ambasciatore di Israele

"Rapporti consolidati nel tempo e scambi molto proficui"

di Ilaria Quattrone

Dorina Bianchi
"Tra Italia e Israele esistono rapporti consolidati nel tempo e proficui scambi sia sul piano economico che su quello culturale, turistico e della ricerca. Il cedro rappresenta una nostra eccellenza conosciuta in tutto il mondo, un esempio di Made in Italy unico e autentico, e un importante punto di contatto tra le nostre culture, quella italiana e quella israeliana. È significativo che un prodotto della nostra terra, sia così caro al popolo di Israele: come ogni anno i rabbini di moltissime comunità israelitiche, da Londra a New York sono qui per raccogliere il cedro di Santa Maria del Cedro che è un elemento fondante della Festa delle Capanne".
Così Dorina Bianchi, sottosegretario al Turismo, che oggi ha incontrato a Santa Maria del Cedro Oren David, ambasciatore di Israele presso la Santa Sede.
E ha aggiunto:
"La cooperazione tra Italia e Israele si sta implementando anche nel settore turistico e trova sostegno nella crescente domanda di Italia che si registra anche in ambito economico, scientifico e culturale. L'interscambio italiano con Israele è andato crescendo del +3,9% medio annuo negli ultimi dieci anni. L'Italia è una delle mete preferite dai turisti israeliani, attirati in modo particolare dal patrimonio culturale, dal settore moda e dall'enogastronomia. Al tempo stesso stiamo lavorando per sostenere presso il pubblico italiano l'immagine di Israele come Paese accogliente e tranquillo, favorendo anche il rilancio dei pellegrinaggi, che è un interesse prioritario della Custodia di Terra santa e della Chiesa cattolica".

(strettoweb.com, 19 luglio 2017)


Visegrad: premier ceco alla riunione con Netanyahu

Cooperare con Israele in ambito tecnologico

BUDAPEST, 19 lug 14:28 - Cooperazione con Israele nel campo della sicurezza, l'innovazione, la scienza e la ricerca, la lotta contro la siccità e anche nel ramo informatico. Questi secondo il premier ceco Bohuslav Sobotka i principali argomenti trattati durante l'odierna riunione a Budapest dei capi di governo del Gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria - V4) cui ha partecipato anche il premier israeliano, Benjamin Netanyahu. "Israele ha una tecnologia superiore e una vasta esperienza nel migliorare la gestione delle risorse idriche", ha detto Sobotka durante la conferenza stampa conclusiva dell'incontro, confermando che il paese è fonte d'ispirazione per il V4. "Il Gruppo di Visegrad sostiene il miglioramento e l'approfondimento delle relazioni tra l'Ue e Israele", ha detto Sobotka, in quanto Bruxelles e Gerusalemme "condividono legami storici, i valori democratici e interessi economici".

(Agenzia Nova, 19 luglio 2017)


Mazal tov Grazia

di Iaia Shulamit Vantaggiato

ROMA - Collegio rabbinico, ore 5 del pomeriggio. I corridoi sono affollati come sempre ma la "quota rosa" sembra prendere il sopravvento. Allegre e disciplinate, emozionate e partecipi, le amiche e le compagne di corso di Grazia Gualano sono tutte lì. Solo qualche minuto e a Grazia verrà conferito il titolo di Bagrut. Il secondo dopo molto tempo perché il corso (equivalente a quello di "Maskil") è un impegno molto serio. Lo testimoniano, incalzanti, le domande che si susseguono nel corso dell'esame. La Commissione, composta dal direttore rav Riccardo Di Segni, rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano e membro della Consulta rabbinica, rav Gianfranco Di Segni e Luisa Basevi, non concede un attimo di tregua. Halakhà, Tanakh, Torah - e che ci dici di Rashì? - e poi ancora storia ebraica, dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme alla fondazione dello Stato d'Israele, e poi cashrut, le candele dello Shabbat e le regole del Kiddush ("può una donna fare il Kiddush al posto dell'uomo?"), la struttura della tefillà, lingua ebraica. Grazia - che declina il suo ebraico senza mai rinunciare alle sonorità della sua terra, Sannicandro - tiene testa come sempre. Anni di studio duro ma anche anni ricchi di relazioni. Perché parlano i nostri testi e i nostri Maestri ci accompagnano. Non sono previste soste.
Un Diploma coi fiocchi che si conclude con un brindisi alla presenza dei genitori di Grazia, delle compagne e amiche, della commissione al completo.

(moked, 19 luglio 2017)


Basket - U20M European Championship: Israele-Italia 79-71

L' Italia colleziona la quarta sconfitta, ai quarti va Israele. Ora ci sono le gare per i piazzamenti dal nono posto in giù.

di Enrico Mercadante

 
Nel pomeriggio di Heraklion, gli azzurrini di Buscaglia hanno incontrato Israele negli ottavi di finale dell'Europeo Under 20. Nonostante la dura battaglia offerta dalle due squadre, gli israeliani hanno avuto la meglio.
Dopo un iniziale parziale di 6-0, la formazione guidata da Dan Shamir, grazie ad una solida difesa ed essendo riusciti a sfruttare gli errori in fase di gestione italiana, hanno chiuso il primo quarto sul punteggio di 23-15, con 10 punti della guardia Yovel Zoosman, classe 1998 ed attualmente in forza al Maccabi di Tel Aviv.
Un secondo quarto a ritmi alternati, con un'Italia molto più compatta e cinica (nonostante un Lorenzo Caroti costretto in panchina causa infortunio) e Israele che sbaglia molto dall'arco (dopo 20 minuti le statistiche dicono 5/16), ha permesso alla formazione nostrana di ridurre il divario, andando al riposo lungo sul 38-33.
Al ritorno dagli spogliatoi, i medio-orientali non sembrano accusare la fatica e raggiungono il massimo vantaggio (17 punti) con il canestro di Artzi. Gli azzurrini, però, non si perdono d'animo e grazie all'ottima frazione di Tote, che dopo 30 minuti ha collezionato già 17 punti , all'ultimo riposo si arriva 55-48 per Israele.
L'ultimo quarto si apre a ritmi molto elevati, con entrambe le squadre che soffrono il gioco aggressivo altrui. Un Totè "on fire", segna 7 punti consecutivi e riporta gli azzurri ad un possesso di distanza da Israele, ma le due triple consecutive di Roi Huber ri-allontanano gli azzurri, mettendo in fresca la partita. Il risultato finale è di 79 a 71 con Artzi che chiude con 22 punti e 6 assist. Tra gli azzurri, un ottimo Totè lascia il campo con 27 punti (top scorer del match) tirando con il 56% da 3.
Israele, ora, incontrerà l'Islanda domani, nella partita valida per un posto in semifinale. L'Italia, invece, si giocherà un posto tra le prime 13 con la Svezia.

(La Gazzetta dello Sport, 19 luglio 2017)


Il voto dell'Unesco su Hebron riscrive la storia così come la vuole l'islam
      Articolo OTTIMO!


Perché gran parte del mondo mediatico-culturale italiano sorvola sulla deriva antistorica e antisemita dell'Unesco? Quella di Israele non è solo una semplice battaglia geopolitica.

di Giuseppe Cecere*

"Scambiereste le Tombe dei Patriarchi con le Mura della Serenissima?". La domanda è un filino provocatoria, ma la risposta, evidentemente, deve essere un sì. Altrimenti, come spiegare il fatto che gran parte del mondo mediatico-culturale italiano (ministro Franceschini in testa) sorvoli sulla deriva antistorica e antisemita dell'Unesco, per celebrare invece con tanta enfasi l'iscrizione di un nuovo sito del Bel Paese nel Patrimonio Mondiale dell'Umanità?
   Un grande successo, ci viene detto, che dimostra (parole del ministro) "il ruolo notevole dell'Italia nella diplomazia culturale". Ma davvero serve una così grande abilità diplomatica perché l'Unesco aggiunga ogni tanto un nostro sito alla sua lista? E soprattutto: se abbiamo davvero un ruolo diplomatico così notevole, perché non provare a esercitarlo nel tentativo, non più rinviabile, di ricondurre l'Unesco al rispetto dei suoi valori fondanti?
   Che senso ha battersi per inserire nuovi siti nella lista di una istituzione che rinnega il concetto stesso di patrimonio culturale mondiale (concetto intrinsecamente pluralista e laicamente fondato sul valore della storia come ricerca) e si fa strumento delle mire egemoniche di una tradizione culturale sulle altre?
   Perché di questo si tratta. Questa è la vera posta in gioco nel conflitto di memorie in corso dentro l'Unesco: al di là della battaglia, combattuta a colpi sempre più bassi, per la delegittimazione politica di Israele (che già di per sé dovrebbe suscitare una controffensiva compatta di tutte il mondo libero), è in atto un gigantesco Kulturkampf di segno islamista. Una battaglia culturale che punta a riscrivere la storia, anzi il modo stesso di scrivere la storia. Sostituendo alle particolari e umanissime verità storiche - concrete quanto fragili, e sempre soggetto al dubbio, alla critica, alla ricerca - le universali e divine "verità della fede", astratte quanto inconfutabili ed eterne. In questa battaglia, nessuno, tanto meno l'Italia e l'Europa, può illudersi di poter restare alla finestra per il solo fatto di "non essere Israele" - o meglio per aver dimenticato di essere, in virtù delle proprie radici culturali, anche Israele.
   Il voto su Hebron è emblematico della posta in gioco. Dire che le Tombe dei Patriarchi e delle Matriarche di Israele non abbiano legami... con Israele (!) è un controsenso sul piano logico, prima ancora che storico. Eppure, l'Unesco lo ha detto: quello "non è un sito ebraico", recita la risoluzione di Cracovia. Forse gli stati che hanno approvato questa risoluzione credevano di appoggiare "semplicemente" una aberrazione propagandistica contro Israele. In realtà, hanno dato l'ennesimo avallo (come già su Gerusalemme) a un'operazione culturale di portata, questa sì, mondiale: la riscrittura della storia dell'umanità sulla base delle esegesi tradizionali del Corano.
   In questa visione, che resta maggioritaria nel mondo islamico al di là delle tante divergenze politiche e/o dottrinali che lo attraversano, l'islam non è semplicemente una religione storica costituitasi nella penisola araba a partire dal VII secolo e.v. in rapporto dialettico di continuità e di rottura con le altre religioni monoteistiche, ma è la religione. L'unica religione da sempre rivelata da Dio agli esseri umani (sin da Adamo ed Eva). L'unica religione predicata, nelle più varie epoche e alle più diverse latitudini, da tutti i Profeti - inclusi i Profeti di Israele - fino a Muhammad.
   In questa visione, tutti i Profeti sono musulmani, anche se poi le loro comunità hanno "deviato" costituendo tradizioni religiose che sono solo un riflesso imperfetto del messaggio originale. Per questo, la Bibbia e i Vangeli sono visti come versioni alterate (nella forma e/o nell'interpretazione) di quella Rivelazione che il Corano invece presenta nella sua forma pura ed originaria. Muhammad, quindi, non sviluppa l'eredità dell'ebraismo e del cristianesimo in una forma religiosa nuova, ma restaura la religione perfetta per tutta l'umanità. L'islam, in realtà, non riconosce Abramo, Mosè, Gesù o le altre grandi figure delle tradizioni ebraiche e cristiane: se ne appropria, rappresentandole tutte come Profeti dell'islam. In quest'ottica, e solo in quest'ottica, diventa "logico" sostenere che le Tombe dei Patriarchi e delle Matriarche non siano un sito ebraico, perché quei Patriarchi e quelle Matriarche sono in realtà musulmani. Quindi, un sito sorto millenni prima della nascita storica dell'islam, diventa un sito musulmano. Ed è precisamente in quest'ottica che si è mossa l'Unesco.
   Se una simile chiave di lettura sembrasse incredibile, o dettata da spirito non equanime nei confronti della controparte, segnaliamo che proprio questa è l'interpretazione orgogliosamente rivendicata da una protagonista della battaglia: la ministra palestinese Rula Maaya ha dichiarato che la risoluzione dell'Unesco "conferma l'identità dei Patriarchi". Ovvero, l'Unesco si è assunta il compito di stabilire che i Patriarchi di Israele erano musulmani!
   In questa linea, una prossima risoluzione potrebbe stabilire, ad esempio, che la chiesa della Natività a Betlemme - o magari la Santa Casa di Loreto - "non sono siti cristiani". Perché Gesù è un Profeta dell'islam, e la Madonna (Maryam) è una santa (siddiqa) musulmana.
   Non una semplice battaglia geopolitica, dunque, ma teologico-epistemologica. E' la fede - o una certa visione di una certa fede - che fagocita la scienza, utilizzando a questo fine, paradossalmente, anche il residuo prestigio delle istituzioni scientifiche internazionali. L'obiettivo non è "soltanto" la fine di Israele, ma la fine della Storia - e delle scienze storiche - come patrimonio plurale dell'umanità. In questo (come già in altri) Kulturkampf, l'odio contro Israele è il primo fronte di una guerra globale al pluralismo, al pensiero laico, alla libertà di tutti e di tutte.
   Speriamo che la gravità del pericolo accenda un barlume di riflessione tra i distratti e gli indifferenti. Magari persino tra alcuni odiatori di Israele. Ma soprattutto, che possa risvegliare le coscienze di tanti dei suoi troppo timidi amici.
* Professore associato di Lingua e Letteratura araba, Università di Bologna

(Il Foglio, 19 luglio 2017)


Calcio - Honved-Hapoel Beer Sheva. Info streaming video e diretta tv

Diretta Honved-Hapoel Beer Sheva, info streaming video e tv: probabili formazioni, quote, orario e risultato live della partita del ritorno del secondo turno preliminare di Champions League.

di Claudio Franceschini

Oggi alle 21:15 è in programma Honved-Hapoel Beer Sheva; è una delle sfide che rientrano nel quadro del ritorno del secondo turno preliminare di Champions League 2017-2018. La partita di andata si è conclusa per 2 a 1 in favore degli israeliani, i quali però possono recriminare per il goal preso in casa, che lascia aperte delle speranze di qualificazione per la gloriosa compagine magiara.
Entrambe le compagini hanno fatto il loro esordio in questa Champions League 2017/2018 nella partita giocata al Toro Turner Stadium di Beer Sheva. Gli ungheresi sono arrivati a questo doppio confronto grazie alla vittoria del campionato nella scorsa stagione, evento che non si verificava addirittura dal 1993: la vittoria del titolo è stata davvero al cardiopalma, perché arrivata all'ultima giornata.

(ilsussidiario.net, 19 luglio 2017)


Ecco come Hezbollah aggira l'ONU e prepara la guerra con Israele

Hezbollah viola la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite e sotto gli occhi dei caschi blu schierati nel sud del Libano prepara la prossima guerra con Israele. Lo denunciano le Forze di Difesa Israeliane (IDF) sul loro blog.
L'IDF diffonde un video nel quale si spiega come Hezbollah attraverso una finta organizzazione umanitaria denominata "Green Without Borders" che funge da copertura alle azioni dei terroristi libanesi, violi in realtà uno dei principi della risoluzione 1701 che impone ai terroristi di Hezbollah di non superare la linea blu delimitata dal fiume Litani...

(Right Reporters, 19 luglio 2017)


Tregua in Siria, arrivano i soldati russi

Truppe di Mosca a Daraa per il monitoraggio. Netanyahu: l'Iran così si prenderà il Paese

di Giordano Stabile

 
Militari russi nelle zone controllate dal regime in Siria
Le truppe russe arrivano al confine fra Siria e Giordania per controllare il rispetto della tregua nel Sud del Paese e Israele lancia l'allarme: così si rafforza l'Iran. L'accordo del 7 luglio fra Donald Trump e Vladimir Putin sembra funzionare e marcia a ritmi spediti. Ai presidenti Usa e russo si è allineato anche il francese Emmanuel Macron, ma l'alleato chiave dell'America in Medio Oriente, lo Stato ebraico, non è d'accordo e il premier Benjamin Netanyahu lo ha detto proprio a Macron durante la sua vista a Versailles.
   Il nervosismo di Israele deriva anche da un retroscena sulle trattative russo-americane rivelato dal quotidiano «Haaretz». Nei mesi che hanno preceduto l'accordo, Israele ha tenuto diversi meeting con gli alti funzionari americani coinvolti, compreso Brett McGurk, inviato speciale anti-Isis della Casa Bianca. Gli israeliani hanno chiesto che Iran, Hezbollah, e altre milizie sciite venissero «tenute fuori dalle zone di de-escalation vicino ai confini di Israele e Giordania». Anche perché «Teheran progetta di costruire basi aeree, e persino una navale».
   Gli americani hanno dato assicurazione agli israeliani su questo, ma poi l'accordo non ne ha tenuto conto. Netanyahu ne ha discusso con il segretario di Stato americano Rex Tillerson. Teme che l'Iran costruisca una testa di ponte al confine meridionale della Siria, che farebbe il paio con quella dell'alleato Hezbollah nel Sud del Libano, e «la tregua lo rafforza».
   I russi insistono che saranno loro a gestire la situazione. Ieri sono arrivate le prime truppe per pattugliare i check-point fra le zone sotto controllo governativo e quelle in mano ai ribelli, nella città di Daraa. I russi erano già presenti con truppe speciali, ma ora si installeranno in un quartiere generale, a Izraa. Sono in arrivo anche gli uomini della «polizia militare», composta in gran parte da ceceni, musulmani sunniti, già usati con successo ad Aleppo.
   Russi e americani vogliono replicare le zone di de-escalation, o «safe-zone», in altre parti della Siria. Questo permette di concentrare le forze nella battaglia contro l'Isis a Est. Gli alleati degli Usa, i curdi, hanno preso già un terzo di Raqqa. L'esercito siriano avanza verso la provincia di Deir ez-Zour, l'ultima in mano allo Stato islamico. A rimanere tagliati fuori sono i ribelli moderati nel Sud.
   Ieri ad Amman c'è stato un incontro fra i capi delle milizie e l'inviato speciale americano per la Siria, Michael Ratney.
   I ribelli potrebbero avere un ruolo nelle zone di de-escalation, magari assieme a militari statunitensi. Sono ipotesi. A parte mezza Daraa, ai ribelli rimane solo un altro capoluogo di provincia, Idlib. Ma qui sono stretti fra Al-Qaeda e l'Isis, che sta prendendo campo. Ieri in città sono apparse le bandiere nere sui tetti dei principali edifici. Potrebbe diventare, a sorpresa, l'ultima roccaforte del califfato.

(La Stampa, 19 luglio 2017)


Il comandante Tullio Del Sette in visita alla mostra "La Menorà"

ROMA, 19 lug - Ieri pomeriggio alle 18 il comandante generale dell'Arma dei carabinieri Tullio Del Sette, accompagnato dalla presidente della Comunità ebraica di Roma e dalla direttrice del Museo Ebraico di Roma ha partecipato a una visita esclusiva della mostra "La Menorà", il candelabro a sette bracci razziato dai romani nel 70 d.C. a Gerusalemme e portato a Roma. L'esposizione, allestita parallelamente nel Braccio di Carlo Magno dei Musei Vaticani e nel Museo Ebraico di Roma, rappresenta il primo progetto comune tra le due Istituzioni. Racconta la storia della Menorah - la lampada a sette bracci, simbolo identitario del popolo ebraico - attraverso un ricco percorso costellato da circa 150 opere d'arte, tra sculture, pitture, manoscritti e illustrazioni librarie.

(Il Messaggero, 19 luglio 2017)


Il patto tra Netanyahu e i sauditi rimescola le carte

In Israele l'equilibrio dello status quo tra Netanyahu e Abu Mazen è fragilissimo. Gerusalemme è preoccupata del'Iran, i palestinesi sono divisi al loro interno.

di Paolo Alli

Sta destando curiosità la vittoria di Avi Gabbay nelle primarie laburiste israeliane, svoltesi lunedì 10 mentre mi trovavo a Gerusalemme nel mio ruolo di presidente dell'assemblea parlamentare Nato. Il leader uscente, Herzog, è stato sconfitto da un personaggio con una breve esperienza politica, iniziata peraltro come ministro nel governo conservatore di Netanyahu. Gabbay come Macron? Personalmente lo paragonerei piuttosto a Renzi, dal momento che non ha vinto le elezioni nazionali ma, appunto, le primarie laburiste. Probabilmente si tratta oggi dell'unico elemento potenzialmente in grado di introdurre una novità: non a caso la sua elezione sta cominciando a suscitare preoccupazioni in ambiente conservatore. Una novità che potrebbe smuovere una situazione caratterizzata dal più totale immobilismo. Infatti oggi le posizioni appaiono più che mai radicalizzate, e il sospetto che il mantenimento dello status quo, alla fine, vada bene a tutti i contendenti è più che legittimo.
   Per anni, infatti, non si sono affacciate all'orizzonte leadership in grado di cambiare in modo sostanziale gli equilibri consolidati: all'abilissimo ed eterno Netanyahu continua a contrapporsi l'anziano Abu Mazen, sempre più indebolito all'interno del proprio popolo.
   E ancora una volta ho constatato sul campo come, a livello sociale, israeliani e palestinesi si sentano ormai definiti dal conflitto. L'immagine del muro, così fisicamente visibile dappertutto, sta ormai nella testa della gente come dimensione esistenziale del vivere quotidiano. Tra le giovani generazioni, in entrambe le fazioni, convivono l'intransigenza di una parte, l'indifferenza di un'altra e il desiderio di andarsene di un'altra ancora.
   Ma se il conflitto israelo-palestinese sembra oggi derubricato a guerricciola di provincia, dopo l'esplosione delle polveriere siriano-irachena e libica, esso è comunque sempre percepito nella regione come la madre di tutte le guerre. Perciò non si può abbassare l'attenzione su questo scenario, come dimostra il recente attacco terroristico palestinese sulla spianata delle moschee.
   Israele è concentrata sull'Iran e sulla sua crescente influenza nella regione. La strategia di Teheran è molto chiara: creare un doppio corridoio per accerchiare l'Arabia Saudita, la Giordania e Israele, a nord attraverso l'Iraq, la Siria di Assad e il Libano degli Hezbollah, per chiudersi nella striscia di Gaza di Hamas; a sud attraverso Oman e Yemen.
   L'Iran è oggi una potenza legittimata, dopo l'accordo sul nucleare, agli occhi della comunità internazionale e possiede missili balistici in grado di raggiungere Gerusalemme. Questo ha convinto Israele a cercare — pur nell'estrema diffidenza rispetto a tutti gli interlocutori — intese che fino a poco tempo fa apparivano improbabili se non impossibili: con la Turchia, con la quale è stato firmato un accordo per la ripresa dei rapporti; con la Russia, che ormai ha le proprie truppe a 200 km dalla capitale; persino con l'Arabia Saudita, nemico storico accomunato oggi dalla ferma volontà di Riyad di limitare l'influenza sciita nella regione. Unico punto certo, il solido legame con l'Egitto, che permette ad entrambi di governare la difficile frontiera del Sinai e di tenere sotto controllo le mosse di Hamas nella striscia di Gaza.
   In questo contesto, Netanyahu ha incassato l'importante sostegno di Trump che, sia a Gerusalemme sia a Riyad ha tuonato contro l'Iran, ma ha bisogno di ulteriori alleanze. Questo spiega l'accoglienza a dir poco straordinaria riservata pochi giorni fa al primo ministro indiano Modi, oltre che all'ormai consolidato rapporto con la Cina, mentre estrema diffidenza è riservata all'Europa, soprattutto dopo le prese di posizione dell'Europarlamento a favore della soluzione a due stati.
   Sul fronte palestinese, la partita è legata alla leadership interna. Hamas controlla completamente la situazione a Gaza mentre Abu Mazen, ai minimi storici della propria popolarità, farebbe carte false per mettere nell'angolo la stessa Hamas. La recente decisione di Israele di bloccare le forniture di energia elettrica e di carburanti a Gaza, è stata tacitamente avallata anche dallo stesso Abu Mazen, che ha in comune con Netanyahu la necessità di indebolire Hamas agli occhi della popolazione palestinese. La situazione esplosiva nell'area (2 milioni di persone ammassate in 370 chilometri quadrati) viene tenuta sotto controllo grazie alle forniture di benzina da parte dell'Egitto e favorendo la continuazione dei finanziamenti dal Qatar. E non vi è dubbio che la profonda divisione interna alla popolazione palestinese, con Gaza che ha eletto un proprio governo, costituisca un grande favore a Israele.
   Tutto ciò spiega il fatto che non vi sia nessuna reale intenzione di modificare, almeno nel breve-medio periodo, i fragilissimi equilibri. Le dichiarazioni sia israeliane, sia palestinesi, di apprezzamento nei confronti di Trump e della sua proposta di mediazione appaiono più formali che sostanziali.
   Né aiutano i numerosi ma velleitari pronunciamenti di organismi internazionali a favore della causa palestinese, che in realtà costituiscono unicamente una forma di legittimazione per la debole leadership di Abu Mazen. Il Parlamento europeo, molti Paesi occidentali, l'Unesco approvano risoluzioni a favore dei palestinesi che certamente mettono a posto la coscienza di molti ma che hanno l'effetto opposto, aumentando inutilmente le tensioni, portando acqua al mulino di Hamas e dando tutte le ragioni ad Israele di radicalizzare ulteriormente le proprie posizioni.
   La realtà è che nella situazione estremamente complessa del Medio oriente non esistono soluzioni facili, tanto più in un quadro ulteriormente complicato da interferenze e pressioni di situazioni e attori esterni: la Russia, l'Arabia Saudita, l'Iran, la complessa realtà del Golfo, l'avvicinarsi delle grandi potenze orientali — Cina e India —, l'oscillante Turchia e il debole Egitto, le instabilità in Siria e Libia alle porte.
   Auguriamoci che l'emergere di un personaggio nuovo come Gabbay possa portare elementi nuovi e positivi. Nel frattempo l'attentato di Gerusalemme sembra un lugubre monito alla comunità internazionale perché non abbassi la propria attenzione e non cerchi scorciatoie e semplificazioni inevitabilmente destinate a risolversi in nuovi fallimenti.

(ilsussidiario.net, 18 luglio 2017)


Netanyahu in Ungheria difende Orban da accuse di antisemitismo

Prima visita di dirigente israeliano a Budapest da fine comunismo

BUDAPEST - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha lodato oggi il sostegno mostrato allo Stato ebraico dall'Ungheria e ha espresso apprezzamento per il suo omologo ungherese Viktor Orban, respingendo le critiche di chi accusa Budapest di alimentare l'antisemitismo.
Netanyahu è il primo dirigente israeliano a recarsi in visita a Budapest dalla fine del regime comunista nel 1989. Un viaggio quindi storico, che arriva sulla scia delle pesanti polemiche scatenate dalla crociata governativa contro il miliardario americano di origine ungherese George Soros.

(askanews, 18 luglio 2017)


Maimonide conteso

La strana storia di un manoscritto prezioso che rischia di finire in Austria. Un capolavoro custodito a Mantova dall'inizio del Cinquecento. Ma le eredi lo vogliono vendere a un collezionista, che ha firmato un contratto d'acquisto da due milioni. Con il via libera del ministero.

di Francesca Sironi

 
Una pagina mlnlata del manoscritto della "Guida del Perplessi" della famiglia Norsa, risalente al 1349
E' un testimone, fragile e prezioso, un capolavoro mantenuto fino a un mese fa al chiuso di una cassetta di sicurezza. Tra i suoi paragrafi scorrono animali fantastici, ricami, geometrie. Le colonne scritte si alternano a pagine miniate a colori - un disegno mostra Eva con i capelli sciolti, la mela rivolta ad Adamo mentre il cielo è occupato dalle fiamme, dall'aria del volo, l'acqua del mare, una roccia. È un manoscritto del 1349, traduzione dall'arabo all'ebraico de "La guida dei perplessi" di Mosè Maimonide, giurista, medico e filosofo del XII secolo che si era rifugiato dall'Andalusia alla corte del Saladino, lasciando fra gli altri la "Guida" in cui discute la coesistenza fra religione e scienza, fra fede e ricerca (vedi box a pago 90). Un secolo e mezzo dopo l'autore del manoscritto gli dedica pagine perfette, ma il contenuto del trattato e l'abilità del miniatore non Sono le sole ragioni della straordinarietà del volume. È anche la storia di cui è messaggero: il libro arriva a Mantova in un momento decisivo per la comunità ebraica italiana, nel 1500. E da allora, per cinque secoli, rimane attaccato alla stessa casa nella collezione dei Norsa, una delle più antiche famiglie della città. Questa rara continuità è però ora a rischio: le eredi vogliono vendere ii libro alla fondazione di un collezionista austriaco. Con un progetto che prevede mostre e restauri, finora mancati, l'immobiliarista di Vìenna ha ottenuto dalla segreteria del ministero un accordo esclusivo. Datato a maggio, sarebbe valido, si legge, per 40 anni, rinnovabili per altri 40. Uno schema senza precedenti. li passaggio è stato però bloccato da una nuova ispezione, imposta dal direttore generale per gli Archivi all'inizio di giugno. La conoscenza tramandata in quelle pagine da secoli è così ora al centro di una partita. Fra identità e valore. Fra fruizione e tutela.
Le legature del volune
Per comprenderne il senso, bisogna partire da Mantova. Dalla Mantova del 1500. Mosè ben Nathaniel Norsa è titolare di una delle più importanti banche della città. È una persona rispettata nella comunità ebraica locale, fondatore di una sinagoga, finanziatore del cimitero. Ed è un appassionato bibliofilo. Ha iniziato a collezionare nel 1487 e da allora non ha più smesso. Il lO gennaio del 1516 firma così l'atto di acquisto di uno dei volumi più preziosi di quella che sarà una biblioteca destinata con gli eredi a crescere fino a diventare il giacimento di «alcuni dei più superbi manoscritti mai eseguiti da scribi e artisti in Italia», diranno gli studiosi. La guida filosofica di Maimonide è un trattato controverso: Aristotele è usato come fondamento di un approccio nuovo ai principi della religione e della fede. La comunità ebraica mantovana del Rinascimento ne è attratta, tanto da dedicarvi tre ricchi commentari. Il volume che Mosè Norsa si è deciso a comprare, in quel clima, è imponente. È stato copiato in scrittura ashkenazita, sottoscritto da "Jacob ben Samuel', con rigoroso dettaglio, Il 10 marzo del 1349. Sono 228 fogli raccolti in 27 fascicoli. I paragrafi si alternano a miniature dai colori accesi di cultura boema, con i corpi affusolati e i capelli biondi che riportano allo stile gotico internazionale del suo autore, vissuto a Krems, nell'attuale Austria. Il banchiere mantovano è consapevole del suo straordinario valore. Vi commissiona una nuova rilegatura, realizzata in pelle con inserti dorati da una bottega di scuola veneziana. «Foglie d'edera nei ferri, rombi centrali che fanno il verso alle mandorle orientali portano verso un legatore d'area veneta», scrivono gli esperti. Non è un dettaglio secondario.
 
Pagina del volume
  «La datazione all'inizio del 1516 contestualizza l'acquisto in un momento particolare della storia ebraica», ricorda infatti in una perizia la soprintendente Micaela Procaccia: «In questo stesso anno, le crescenti discussioni circa la sorte dei profughi dell'entroterra, fra i quali numerosi ebrei, che affollavano la città dopo la fine della guerra con la Lega di Cambrai, spinse i rabbini di Venezia a chiedere ai confratelli mantovani di accogliere parte dei profughi. Di lì a poco la Serenissima avrebbe creato il primo ghetto della storia, il 29 marzo l516».1l primo ghetto della storia: la grande linea degli eventi sfiora la vita carsica del libro, che continua a farsi testimone del tempo. Nel 1599 Domenico Gerosolimitano - ebreo convertito, medico presso il sultano a Costantinopoli, al servizio dell'Inquisizione prima a Venezia a Mantova poi - appone un visto di censura. La Guida resiste. E dovrà resistere presto a una prova ancora più dura. Rimasta sugli scaffali di famiglia, sopravviverà infatti ai sacco della città del 1630, come racconta Thérèse Metzger, autrice nel 2002 del più approfondito studio sul manoscritto. Il tomo sembra infatti sottoposto a «un trattamento brutale, a una volontà di distruzione», mostrano le legature divelte. Nel 1630 i mercenari dell'imperatore Ferdinando II devastarono le case degli ebrei. Le cronache dell'epoca raccontano che i Norsa furono «quasi i soli banchieri ebrei a recuperare e mantenere il loro status nel tempo». Da allora il libro è rimasto ininterrottamente nelle mani della famiglia. Per generazioni e generazioni. Secoli e secoli. Fino al nuovo millennio.
  Nel 2013 le eredi decidono infatti di venderlo a un magnate degli Stati Uniti, disposto a pagare un milione e 900 mila euro. La soprintendenza non ha i fondi per esercitare il diritto di prelazione e il manoscritto sembra destinato ad andare oltreoceano, quando interviene la direttrice per i Beni Culturali
Pagina del volume
della Lombardia, Caterina Bon Valsassina (oggi a Roma alla guida della Direzione generale) che nel 2014 notifica un vincolo «di interesse artistico e storico particolarmente rilevante». Contro il decreto, il potenziale acquirente affida a uno dei migliori avvocati di Milano alcune osservazioni. Fra queste il fatto che «l'esportazione non costituirebbe un danno alla "memoria della comunità nazionale e del suo territorio"» poiché il testo sarebbe «estraneo alla cultura e ai valori identitari della nazione italiana. Infatti appartiene a una cultura straniera, la cultura ebraica ashkenazita». Il Consiglio superiore per i beni culturali invece avvalora le conclusioni della dirigente proprio su questo punto. La professoressa Francesca Cappelletti sostiene come sia «chiaro che ci si trovi di fronte a un oggetto importantissimo, eccezionale e anche straordinariamente legato alla storia italiana, alla storia della comunità ebraica a Mantova». Il presidente Giuliano Volpe sottolinea «l'importanza del bene per il suo valore storico-artìstìco e identitario rispetto alla storia e alla cultura» del paese. Entrambi si augurano, si legge nella relazione finale, che «venga sottoposto ad interventi urgenti di restauro, di conservazione corretta e di fruizione», Perché i decenni nel caveau di banca stanno danneggiando la sua tenuta.
  Restauro e diffusione però non accadono. Nonostante il vincolo, infatti, e il grande valore attribuito al manoscritto, il libro resta nella cassetta di sicurezza. Continua a dormire nel bunker, senza esposizioni o nuove ricerche. È su quest'assenza che insiste la richiesta arrivata nel 2017 dalla fondazione di Ariel Muzicant, uno degli uomini più ricchi d'Austria. Il collezionista di Vienna ha firmato con le eredi un
 
Pagina del volume
contratto d'acquisto da due milioni di euro. È condizionato a un accordo che l'ente di Muzicant sottoscrive con il Segretario generale del ministero dei Beni e delle attività culturali, Antonia Pasqua Recchia. Nel testo si rimarca la volontà dell'acquirente di aggiungere la Guida alla propria collezione per «assicurarne la circolazione e la valorizzazione in Italia e all'estero». Per legge l'uscita delle opere per manifestazioni culturali o analisi per la conservazione, può essere richiesta anche per i beni vincolati, ma solo per un periodo massimo di quattro anni. L'accordo di maggio (approvato con il parere dell'ufficio legislativo) introduce invece un'assoluta novità: in cambio del restauro, della digitalizzazione e dell'impegno ad esporre il volume, infatti, il ministero rinuncia alla prelazione e si impegna «ad autorizzare l'esportazione temporanea» in tutti i musei citati in un allegato. Nell'elenco, fra il Louvre e alcuni importanti istituti ebraici e culturali d'Europa, del Giappone, degli Stati Uniti, appare la stessa Collezione Muzicant, sia nella sua sede di Vienna che nel suo deposito bancario in Israele. Fra le sedi c'è cioè anche la camera blindata della fondazione. Sono previste, si legge, uscite di quattro anni. Ma all'interno di un accordo «della durata di 40 anni», rinnovabili per altri 40 e quindi automaticamente, «agli stessi termini e condizioni» ogni 10 anni. A garanzia della vendita all'estero, altrimenti impossibile. Quando la soprintendenza lombarda riceve a fine maggio la "denuncia di trasferimento della proprietà'; il direttore generale Archivi, Gino Famiglietti, avvia però subito nuovi controlli. E un'ispezione, avvenuta ai primi di giugno, con cui i tecnici confermano la necessità del restauro e la possibilità di un nuovo vincolo. La direzione avvia così il trasferimento immediato della Guida, con i carabinieri per la Tutela del patrimonio, al laboratorio di restauro dell'Archivio di Stato di Torino. Ora è lì, in cura. In attesa che si decida del suo futuro. Dopo un così glorioso passato.

(L'Espresso, 18 luglio 2017)


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Maimonide? Importante come Platone

«Un gigante». Così il biblista Haim Baharier, allievo di Lévinas definisce l'autore della 'Guida dei perplessi'.

di Francesca Sironi

«Per raccontare l'importanza di Maimonide da dove possiamo cominciare? È come parlare di un gigante, non meno di Platone, o di Aristotele». L'autore della "Guida dei Perplessi" è questo: un gigante.
   Per provare a raccontarlo, allora, Haim Baharier, allievo di Lévinas, matematico e grande biblista, decide di partire da una delle numerose complessità del suo testo più celebre: «Forse dovremmo innanzitutto ricordare che gli storici non sono ancora d'accordo se l'opera sia stata scritta in arabo o in ebraico. Di certo Maimonide ha avuto accesso al pensiero greco attraverso la lingua araba», esordisce. L'opera di Maimonide, continua lo scrittore, è densa di contraddizioni, soprattutto nei suoi testi normativi. «Ma è grazie a queste contraddizioni, credo, che nasce un pensiero», aggiunge. La ricerca del pensatore medioevale era «difficile da accettare nelle comunità ebraiche europee», spiega, che non concepivano «una filosofia separata dalla pratica».
   Eppure ebbe una fortuna e un'eco vastissime. In un'epoca in cui l'Occidente non conosceva o quasi Aristotele, Maimonide pone lo Stagirita al centro della sua Guida, «diretta a stabilire affinità e differenze fra pensiero greco e d'Israel», a dare «una risposta all'impatto dell'ellenismo». Per Maimonide «la fede, che in ebraico è "fiducia", deve essere alimentata dal pensiero, dalla razionalità, dalla logica. È così che discute i 13 principi, o valori, della fede».
   Nella Guida si serve «della dottrina di Aristotele e soprattutto del suo metodo dimostrativo ed espositivo», scriveva in una prefazione il rabbino Giuseppe Laras, uno dei suoi massimi conoscitori e commentatori: «Per dimostrare in una veste di maggiore intelligibilità e chiarezza i fondamenti dell'ebraismo». Ebreo, Rambam (dalle iniziali del suo patronimico) era nato in Andalusia nel 1128. Morto al Cairo nel 1204, trascorse una vita alla confluenza dei monoteismi: sotto la dominazione islamica, prossima alla minaccia crociata. Fu filosofo, giurista, commentatore delle scritture e medico alla corte del Saladino, un impegno di cui racconta oneri e onori: «Una rumorosa folla di pagani e di ebrei, di plebei e di nobili, di giudici e di mercanti, di amici e di nemici» lo aspettava sotto casa per una visita, come racconta lui stesso in una lettera citata da Giorgio Cosmacini in "Maimonide e il suo tempo", raccolta di studi pubblicata da Franco Angeli nel 2007. «La Guida può essere compresa soltanto commentata», riflette Baharier: «Un testo che consiglierei di leggere, per la sua incredibile modernità, sono i suoi "Otto capitoli" di introduzione all'etica».

(L'Espresso, 18 luglio 2017)


Grandi manovre per riportare Dahlan a Gaza

Perché Egitto ed Emirati hanno voltato le spalle al leader dell'Anp Abu Mazen?

di Giordano Stabile

Il vertice di Riad doveva spianare la strada ad Abu Mazen nel suo duello con Hamas, e riconsegnargli la Striscia di Gaza che il movimento islamista si è preso dieci anni fa, nell'estate del 2007. Sta per accadere il contrario. Il raiss palestinese ha giocato così male la partita che i rivali, con in mano pochissime carte, lo hanno messo all'angolo. A Riad, Trump e gli alleati sunniti avevano posto Hamas, e i Fratelli musulmani, in cima alla lista del nuovo asse del male. Egitto e Arabia Saudita, protettori di Abu Mazen, davano le carte. Che è successo poi? Il raiss ha tentato di mettere in ginocchio la Striscia, ha tagliato l'elettricità, reso ancora più difficili gli spostamenti, anche dei malati. Gli egiziani si sono resi conto però che così non si andava da nessuna parte, si rischiava un'esplosione pericolosa anche per gli equilibri interni del Cairo e in tutto il mondo arabo. Hanno trovato una via alternativa, condivisa da Emirati e Israele. Puntare su Mohammed Dahlan, l'uomo di Al-Fatah nella Striscia (è nato a Khan Younis) e rivale numero uno di Abu Mazen, che nel 2012 lo ha spedito in esilio ad Abu Dhabi e fatto condannare in contumacia per corruzione. Per sottrarre la Striscia al controllo di Hamas, e all'influenza del Qatar, Emirati ed Egitto pensano che sia l'uomo giusto. Israele vuole invece un nuovo interlocutore, prima a Gaza e poi forse in Territori palestinesi: ha da sempre buoni rapporti con Dahlan. A metà giugno Dahlan ha incontrato al Cairo il leader di Hamas Yahya Sinwar. L'accordo è stato trovato sui punti principali: Dahlan avrebbe il controllo dei valichi di frontiera e delle finanze mentre ad Hamas resterebbe il «ministero dell'Interno». Una sorta di governo di grande coalizione fra Hamas e Fatah, quello che Abu Mazen non è mai riuscito a costruire. A completare la manovra ci sarebbe poi la fine del blocco dal lato egiziano e la costruzione di una centrale elettrica a Rafah, finanziata con 150 milioni di dollari dagli Emirati. Nel frattempo Il Cairo fornisce il gasolio all'unica centrale a Gaza, ora al buio 22 ore al giorno. Se il piano funziona e Dahlan riesce a migliorare le condizioni di vita dei quasi due milioni di palestinesi chiusi nella Striscia avrà la strada spianata per la presidenza, se mai ci sarà un bis delle presidenziali del 2005. Il mandato di Abu Mazen è scaduto da otto anni.

(La Stampa, 18 luglio 2017)


Velodromo d'Hiv: gli ebrei deportati nel tempio della bici

1942-2017 - Il 17 luglio di 75 anni fa i poliziotti francesi rastrellarono Parigi: ne presero 13.152, chiusi in uno dei luoghi simbolo della capitale. Il presidente Macron: "Fu la Francia che la organizzò".

di Leonardo Coen

 
Rafle du Vel d'Hiv - 17 luglio 1942
Mano nella mano SS e poliziotto francese
Il Tour de France lunedì 17 luglio ha riposato. La memoria del ciclismo no. E tornata indietro di 75 anni, a un altro 17 luglio. Quello del 1942. Per i francesi, la data indelebile della vergognosa Rafle du Vel d'Hiv, la retata del Velodromo d'Hiv, il tempio della pista, cominciata alle 4 del mattino del giorno prima e conclusa trentasei ore dopo: 4.660 poliziotti francesi rastrellarono Parigi per catturare e deportare 28mila ebrei, compresi tra i 2 e i 60 anni d'età. La caccia deluse le aspettative di René Bousquet, il responsabile dell'Opération Vent Printanier (Operazione Vento Primaverile) che aveva accolto le richieste dei nazisti: gli arresti furono la metà di quelli preventivati, ossia "soltanto" 13.152, di cui 5.802 donne e 4.115 bambini. Circa 15mila ebrei riuscirono a beffare i gendarmi e gli sbirri e a scappare. Ottomila vittime della retata vennero trasportate con cinquanta autobus della Compagnia metropolitana al Velodromo d'Hiv, che si trovava non lontano dalla Tour Eiffel.
  Non un solo tedesco fu coinvolto nel rastrellamento, tantomeno nella sorveglianza dei prigionieri. Se ne occupò la polizia francese che si comportò in modo disumano: gli ottomila rimasero "parcheggiati" al Velodromo in condizioni drammatiche per cinque giorni, senza acqua né sanitari. Qualcuno impazzì. Parecchi tentarono il suicidio. Morirono in una trentina, molti erano bimbi. Ancora oggi è difficile ricostruire quelle ore maledette. Nei giorni successivi gli ebrei sono ammassati sui treni della morte e deportati nei lager del Reich o in quelli del Loiret, sempre dagli zelanti poliziotti francesi, complici così degli aguzzini tedeschi di Auschwitz di Mauthausen. Dall'inferno dei campi di concentramento tornarono in meno di cento. La Shoah marcata Francia. Come ha ricordato impietosamente domenica il presidente Macron, nella dolente commemorazione della Rafle (presente il premier israeliano Netanyahu), "fu la Francia che la organizzò (...) È tanto comodo vedere nel regime collaborazionista di Vichy una mostruosità nata da nulla .. ma è falso". Per riconoscere la responsabilità dello Stato - allora nelle mani di Pétain - si dovette attendere l'ammirevole ma tardiva ammissione del presidente Jacques Chirac che dichiarò nel 1995: "La Francia, patria dell'Illuminismo e dei diritti umani, terra d'accoglienza e d'asilo, la Francia, quel giorno, compì l'irreparabile". François Hollande ammise il "crimine commesso dalla Francia", negato invece dall'ineffabile Marine Le Pen, durante la campagna elettorale delle presidenziali di quest'anno. Del Vel d'Hiv, smantellato nel 1959, oggi resta una lapide, posta in boulevard de Grenelle, all'incrocio con rue Nélaton, dove sorgeva il tempio delle due ruote, nel 15esimo arrondissement. Era diventato l'imbarazzante simbolo della collaborazione con il Reich di Hitler, il luogo dove la Francia ambigua e oscura del regime fantoccio di Vichy aveva compiuto la più importante e la più emblematica azione repressiva. E tuttavia, Bousquet, il segretario generale della polizia di Vichy che materialmente aveva ordinato la Rafle, se la cavò. Uno scandalo. Peggio: amico di François Mitterand, ne godette la protezione e si trasformò in un fortunato uomo d'affari dopo la Liberazione. La giustizia, lentissima, lo incriminò solamente negli anni Ottanta. Finirà assassinato da uno squilibrato nel giugno del 1993. Quanto al velodromo, nel dopoguerra, servì come prigione per i collaborazionisti, prima di ospitare comizi politici e qualche avvenimento sportivo, come gli incontri di boxe (nel 1947 si scazzottarono Marcel Cerdan amato follemente da Edith Piaf e Sugar Ray Robinson, il pugile che pareva danzare sul ring). Pochi sanno che il Vel d'Hivebbe sussulti di gloria ciclistica proprio negli anni infami dell'occupazione.
  A ricordarlo è stato Jean Bobet in un mirabile saggio uscito dieci anni fa (Le vélo à l'heure allemande, La bicicletta al tempo tedesco, ed. La Table Ronde, 2007). Jean, ex giornalista, ex professore d'inglese e soprattutto ex corridore, era fratello brocchino del celebre campione Louison Bobet, rivale di Coppi e Magni, vincitore di tre Tour, di un campionato mondiale, di una Milano-Sanremo e di una Parigi-Roubaix. La bicicletta era tornata a essere la regina dei trasporti. Lontano dai conflitti e dalle sventure, i campioni della strada si affrontavano sulla pista ovale in abete del Vel d'Hiv, davanti a 17mila spettatori. Le Sei Giorni erano eventi mondani: nel parterre si avvicendavano divi dello schermo e della musica, malavitosi e borsaneristi, ufficiali tedeschi e funzionari di Vichy. Prima di Cerdan, Edith Piaf ebbe un'avventura anche con Toto Gèrardin, grande pistard. I tedeschi volevano che il calendario ciclistico continuasse normalmente, pretesero persino un ersatz del Tour. I giornali collaborazionisti scrivevano pagine sulle imprese dei corridori emergenti come Robic, Bobet e Géminiani. Non una riga sulla Raile. Né sui percorsi eroici dei corridori che contribuirono alla Resistenza. Jean Bobet non vinceva. Ma è stato il primo a raccontare quegli anni difficili rimasti sotto silenzio.

(il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017)


La libertà di suonare a Tel Aviv

Pure i Rem contro i boicottatori che vorrebbero censurare i Radiohead

Il leader dei Rem, Michael Stipe
Tutto è iniziato almeno un paio di mesi fa, con il solito aut aut del solito Roger Waters, ormai non più frontman dei Pink Floyd ma piuttosto leader del più redditizio movimento per il boicottaggio di Israele. Aveva detto ai Radiohead: dovete cancellare il vostro concerto a Tel Aviv - concerto previsto per domani. Thom Yorke, leader del gruppo, aveva risposto con un'intervista a Rolling Stone dicendo, in pratica: ci state dando degli ignoranti, ma non lo siamo. Semplicemente, non siamo d'accordo con il boicottaggio per motivi politici. E' uno spreco incredibile di energie, che "crea divisioni, non unisce". Alla puntuta risposta di Yorke, aveva replicato ancora l'altro campione del boicottaggio, il regista Ken Loach, con un editoriale sull'Independent. "Dovete decidere se stare dalla parte degli oppressi o degli oppressori. Così sostenete l'apartheid". E sembra impossibile, ma a quel punto Yorke aveva ancora le forze per rispondere, via Twitter: suonare non significa fare endorsement a un governo. Non siamo d'accordo con la politica di Donald Trump ma non smettiamo di suonare in America, "la musica, l'arte e la ricerca dovrebbero costruire ponti, non muri". Il tono persecutorio dei sostenitori del boicottaggio ha il suono del linciaggio mediatico nei confronti di chi la pensa diversamente, di chi crede che un concerto sia un concerto e basta. E conduce alla paradossale situazione di una band che è costretta a giustificarsi più volte per un concerto organizzato in un paese che aspetta da anni l'evento - come sabato scorso in sessantaduemila hanno aspettato a Tel Aviv i Guns N' Roses, tre ore di musica e rock. Ma c'è una novità. Qualcuno, nel sistema musicale omologato e che spesso ha voltato le spalle a Israele, inizia a non poter più sentire la parola boicottaggio. Michael Stipe, voce e anima dei Rem, ha scritto ieri su Instagram: "Io sto con i Radiohead e la loro decisione di esibirsi". E Stipe non può proprio essere definito un sostenitore di Israele, ma magari più realista: fascista è chi non fa suonare, non chi suona.

(Il Foglio, 18 luglio 2017)


Trastevere svela la sua necropoli ebraica, apre il museo delle scoperte archeologiche

Nella nuova sede delle Assicurazioni di Roma in mostra mosaici e statue riaffiorati a otto metri di profondità.

 L'Inaugurazione
 
  Resti della necropoli ebraica
  Trastevere si racconta, svelando la sua vita quotidiana attraverso i secoli. Il viaggio indietro nel tempo avviene a Palazzo Leonori che da oggi apre al pubblico un nuovo spazio museale dedicato alle grandi scoperte archeologiche avvenute durante i lavori di ristrutturazione. È qui che è tornato alla luce (da uno scavo profondo fino a otto metri) il sepolcreto medievale della comunità ebraica di Roma, il cosiddetto Campus Iudeorum databile tra la metà del XIV secolo e la metà del XVII secolo. Non solo, perché a riaffiorare sono stati anche i resti della grande conceria di Settimio Severo, il famoso impianto artigianale voluto dall'imperatore per la lavorazione delle pelli al servizio dell'esercito, noto dalle fonti come i Coraria Septimiana, risalente al III secolo d.C. Siamo a viale delle Mura Portuensi (numero 33), nella nuova sede delle Assicurazioni di Roma, che grazie agli archeologi della Soprintendenza speciale di Roma (lo scavo è stato diretto da Daniela Rossi), hanno valorizzato l'area. Non tutto si è potuto restituire al pubblico per esigenze conservative, ma la storia resta comunque avvincente.

 Il cortile
  Al centro del cortile-museo sfilano reperti preziosi provenienti dalle concerie: un mosaico a tessere bianche, rappresentante un Tritone, i resti di un sacello dedicato al dio Silvano, la statua della dea Fortuna seduta su un trono arcaico. E ancora l'epigrafe che ha consentito l'identificazione della necropoli ebraica. «Della forte presenza ebraica a Roma in antichità, in fondo, non erano emerse numerose testimonianze archeologiche - dichiara Daniela Rossi - In questo caso è forse la prima volta che torna alla luce uno spaccato di vita reale della società di quel tempo. Tanto più importante è l'aver trovato i resti che confermano oggi la presenza del Campus Iudeorum, di cui parlavano le fonti. Solo ora le prove storiche gli restituiscono la giusta importanza. La presenza ebraica nella Roma antica era molto diffusa, soprattutto a Trastevere», Della scoperta, annunciata in un convegno a marzo, ha parlato persino il New York Times. «Nonostante la difficoltà di uno scavo che ha raggiunto una quota profonda otto metri, siamo riusciti a trovare una soluzione adeguata per raccontare al pubblico un capitolo della storia più significativa di Trastevere attraverso i secoli - commenta l'archeologa Marzia Di Mento che ha seguito gli scavi - A partire dalla conceria che evoca la vocazione commerciale del rione». L'allestimento offre una panoramica sui ritrovamenti avvenuti in quest'area, dalla prima età imperiale alla metà del 1600. Un'avventura ripercorsa tra reperti e pannelli didattici ricchi di dettagli, storie, informazioni del tutto sconosciuti.

(Il Messaggero, 18 luglio 2017)


Il Memoriale della Shoah apre le porte ai profughi che fuggono dalle guerre

Docce e un pasto caldo per 40 migranti nei sotterranei della Centrale

di Stefania Consenti

MILANO - Porte riaperte all'accoglienza per il terzo anno consecutivo al Memoriale della Shoah, in un luglio segnato dall'emergenza sbarchi. Quaranta migranti da domenica sera hanno trovato pasti caldi, docce, il conforto di un sorriso durante questa fuga verso la libertà, in un luogo, nei sotterranei della Centrale, che è stato teatro della deportazione verso i campi di sterminio nazisti di tanti ebrei e prigionieri politici italiani.
   Oggi sono siriani, afghani, eritrei, e almeno 15 minori non accompagnati, accolti dai volontari della Comunità di Sant'Egidio in collaborazione con Fondazione Memoriale della Shoah. Iniziativa che si inserisce nel piano di accoglienza del Comune. Ed è scattata subito la gara di solidarietà. Un attimo dopo l'annuncio dell'apertura del Memoriale, almeno cento i milanesi che si sono offerti come volontari per servire colazioni e cene ai profughi.
   «Se l'ostilità e la xenofobia sono contagiose, la solidarietà lo è altrettanto - sottolinea Stefano Pasta, responsabile per la Comunità di Sant'Egidio dell'accoglienza profughi al Memoriale - Questa iniziativa si regge unicamente sull'impegno gratuito e sulle donazioni di privati cittadini. Rilevante è anche il carattere interreligioso ed ecumenico dell'accoglienza: insieme alla Comunità e ad alcune parrocchie, qui si alterneranno volontari ebrei, musulmani, anglicani, induisti, non credenti». Ieri la Fondazione Arca ha servito parte della cena, tutto quello che manca lo portano i volontari della parrocchia di Santa Francesca Romana e le altre che sono collegate in un passaparola. «C'è una docente del liceo Caravaggio che è al suo terzo anno come volontaria - prosegue Pasta - e ha coinvolto i suoi allievi e perfino qualche collega». D'altronde c'è una parola che campeggia a caratteri cubitali all'ingresso del Memoriale ed è «Indifferenza», quella che qui, racconta Pasta, si cerca di combattere in tutti i modi, «con un'idea di accoglienza dei profughi che viene condivisa da Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah. Nel 1943 la sua famiglia aveva pagato un trafficante per passare la frontiera con la Svizzera, ma fu respinta da un poliziotto elvetico, fu arrestata con il papà, finì prima a San Vittore e poi deportata ad Auschwitz». Infine, i dati: 3.707 da giugno a novembre 2015 i profughi ospitati per poche notti, in transito al Memoriale. Scesi 1.474 nello stesso periodo del 2016 per via della difficoltà di puntare alle rotte verso il Nord Europa. «La decisione di ripetere per il terzo anno l'esperienza dell'accoglienza all'interno di questi spazi conferma il grado di sensibilità e coinvolgimento della Fondazione Memoriale della Shoah, della Comunità Ebraica di Milano e della Comunità di Sant'Egidio verso quest'emergenza che interessa l'Europa, l'Italia e noi tutti» è il commento di Roberto Jarach, vicepresidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano.

(Il Giorno - Milano, 18 luglio 2017)


Islamici in rivolta a Gerusalemme, un altro bel regalo dell'Unesco

di Marco De Palma

I membri dell'organizzazione islamica Waqf, che si occupano del controllo e della gestione degli attuali edifici musulmani intorno al Monte del Tempio, nella città vecchia di Gerusalemme, stanno inscenando una serie di proteste e istigando alla violenza contro le misure di sicurezza messe in atto da Israele. Gli attivisti del Waqf non intendono, infatti, cedere alle nuove misure che comprendono anche controlli con metal detectors e screening, presi come conseguenza dell'attacco terroristico palestinese avvenuto venerdì scorso.
Forse proprio perché tre dei 'funzionari' del Waqf sono stati messi in stato di arresto perché sospettati di essere complici dell'attentato terroristico, gli altri membri della organizzazione si sentono in diritto ed in dovere di protestare e di fare resistenza. Addirittura, secondo quanto riporta il Jerusalem Post, già domenica la comunità islamica ha diffuso un messaggio in cui si consigliava ai fedeli musulmani di evitare l'accesso al complesso, e circa 200 persone si sono poi riunite in segno di protesta fuori la Porta delle Tribù. I manifestanti hanno persino chiesto al re Abdullah di Giordania e al resto del mondo musulmano di intervenire, ma soprattutto di interferire, al fine di ripristinare quanto prima lo status quo, la situazione precedente l'attacco.
   Tra la folla si sono anche alzate grida di protesta contro la polizia: "Disgraziati, ne abbiamo abbastanza, ci state soffocando! Al-Aksa appartiene ai musulmani!". Stando a quanto riporta poi The Times of Israel sono decine gli uomini che bloccano i fedeli per impedire che si sottopongano alle misure di sicurezza. Mentre la polizia riferisce che alcuni dei manifestanti - anche palestinesi - hanno cominciato a lanciare pietre alle forze dell'ordine. La porta del Monte del Tempio è praticamente da sempre strumento utile si palestinesi per alimentare la violenza contro Israele. Nei primi anni 2000 i palestinesi usarono una visita al Monte del Tempio di Ariel Sharon come pretesto per lanciare una campagna terroristica in grande stile contro Israele.
   Una decina di gironi fa, per esempio, l'agenzia dell'Onu per la cultura e la scienza, in poche ore, ha "islamizzato" i siti sacri ebraici a Gerusalemme e ad Hebron. Nella riunione annuale a Cracovia, l'Unesco aveva già definito Israele "potenza occupante", e due giorni dopo, sempre l'Unesco aveva tolto al popolo ebraico la sovranità sulla Tomba dei patriarchi a Hebron, la città dei patriarchi biblici. Decisioni scellerate e storicamente infondate che sono alla base dell'atteggiamento di aperta rivolta degli islamici che si respira oggi a Gerusalemme. I musulmani si sentono legittimati a inscenare le proteste, salvo poi stracciarsi le vesti e gridare al "fascismo" se Israele interviene per riportare l'ordine.

(l'Occidentale, 17 luglio 2017)


L'attacco al Monte del Tempio aumenta la tensione tra drusi e arabi israeliani

GERUSALEMME - L'attacco al Monte del Tempio (Spianata delle Moschee) di Gerusalemme, venerdì mattina, è più complesso e problematico rispetto ai precedenti e numerosi attacchi subiti negli ultimi anni dalla Città Santa, scrive "Haaretz", che sottolinea come entrambi gli agenti di polizia uccisi fossero drusi israeliani, mentre gli attentatori erano tre giovani arabi israeliani residenti nel nord del paese. Le possibili implicazioni che l'attentato potrebbe avere sui legami tra le due comunità hanno suscitato forte preoccupazione tra le autorità, soprattutto nelle aree con popolazione mista drusa-musulmana. Le comunità druse israeliane hanno già fortemente condannato l'attacco, mentre alcuni membri della comunità araba musulmana hanno dichiarato che i due drusi, in quanto poliziotti, erano parte delle "forze di occupazione". Questa escalation di tensione tra comunità interne a Israele sta suscitando l'apprensione anche del re di Giordania Abdullah, che sabato ha invitato le diverse parti a mantenere la calma e ha esortato la riapertura della Spianata delle Moschee, chiusa da Israele per motivi di sicurezza in seguito all'attacco. La zona è infatti sotto controllo congiunto da parte delle autorità israeliane e giordane.

(Agenzia Nova, 17 luglio 2017)


Israele contro la tregua in Siria: favorisce l'Iran

L'accordo riguardava un'area che era stata oggetto delle rappresaglie di Tel Aviv.

Il responsabile dello stato ebraico ha reso nota la posizione contraria del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, al cessate-il-fuoco nel sudovest della Siria concordato da Russia e Stati Uniti, dal momento che consentirebbe all'Iran di consolidare la sua presenza nella zona.
L'accordo del 9 luglio per creare una zona di de-escalation nelle regioni di Daraa, Quneitra e Sweida comprende zone in cui ci sono state rappresaglie israeliane per i colpi arrivati nella zona delle Alture del Golan occupata dallo stato ebraico a causa dei combattimenti tra forze del regime siriano e ribelli.
Israele ha inoltre sferrato diversi attacchi aerei in altre zone della Siria dallo scoppio della guerra civile nel Paese, nel 2011. La maggior parte dei raid hanno preso di mira convogli o depositi militari di Hezbollah, il suo storico nemico in Libano.
Il movimento sciita sostenuto dall'Iran è un sostenitore cruciale del regime siriano e combatte al fianco delle forze governative. Un responsabile israeliano, che ha parlato a condizione dell'anonimato, ha spiegato che Netanyahu è contrario all'accordo "a causa della presenza iraniana" in Siria.
Secondo il quotidiano Haaretz, Netanyahu ha espresso la contrarietà di Israele al cessate-il-fuoco nel corso dell'incontro avuto ieri con il presidente francese Emmanuel Macron a Parigi.

(globalist, 17 luglio 2017)


“Grazie per la vostra diffusione della notizia”

Abbiamo ricevuto:

Spettabile sito Ilvangelo-Israele.it,
desidero ringraziarVi perché, attraverso la Vostra diffusione della notizia, ho saputo dell'iniziativa de "Il Foglio" [l’appello contro l’Unesco, ndr].
Vi invio il testo inviato al quotidiano, per farVi sentire la mia vicinanza.
Con i più cari saluti
Maria Laura D'Onofrio

Grazie della vicinanza che ci fa sentire e della sua lettera a “Il Foglio” che diffondiamo come incoraggiamento per coloro che sostengono la giusta causa di Israele. Ecco il testo della lettera:
    Care Amiche ed Amici de "Il Foglio",
    seppur socia fondatrice della sede dell'Unesco di Latina, sostengo la petizione contro le sue decisioni anti-israeliane, antistoriche e mirate alla distruzione di uno Stato che, in molti, chiamano Patria e che ha saputo dare una Patria anche a chi ebreo non è.
    Mi auguro che l'Unesco torni ad agire per valorizzare il patrimonio culturale dell'Umanità ed abbandoni il ruolo politico che si è volontariamente attribuito di modifica della storia dell'Umanità.
    Ringrazio "Il Foglio" per tutto ciò che fa per il sostegno dello Stato che ha saputo dare una casa ad un Popolo da sempre, ed incredibilmente ancora oggi, perseguitato.
    Mi auguro che gli insegnamenti della Storia, sugli effetti della continua demonizzazione del Popolo ebraico, portino ad una rapida inversione di rotta.
    Maria Laura D'Onofrio
(Notizie su Israele, 17 luglio 2017)


Un mondo senza Israele. Senza passato Israele crollerà

"Gli ebrei sono stati espulsi da tutto il medio oriente. Ora l'islam politico cerca di scacciarli anche da Israele, con l'aiuto dell'Unesco e dell'Europa silente".

"Queste risoluzioni sono un passo verso l'islamizzazione. Può l'Onu decidere che la Mecca non è islamica? O che il Vaticano non è cattolico? Mai una protesta dell'Unesco contro la Turchia che sta reislamizzando Santa Sofia, la cattedrale della cristianità orientale.
L'lsis ha raso al suolo le tombe dei profeti ebrei a Mosul. L'Unesco ha sradicato la storia dei patriarchi ebrei in Israele Mentre in Polonia, tomba dell'ebraismo, si attaccava Israele, 200 ebrei francesi partivano per Tel Aviv a causa dell' antisemitismo

di Giulio Meotti

Nel 1929 un gruppo di archeologi inglesi fece una scoperta sensazionale: il diluvio descritto nella Bibbia era una catastrofe culturale che aveva sconvolto l'attuale Iraq. Gli archeologi rinvennero una sorta di strato di terra pulita fra due di straordinari reperti archeologici. Due differenti presenze umane erano state divise da quella terra vergine. Era come una spaccatura nella civiltà. Ninive, la capitale della civiltà mesopotamica, era stata ridotta in macerie da babilonesi e persiani. Se quegli archeologi visitassero oggi l'Iraq, scoprirebbero un altro strato di terra gettata sopra alcuni dei più antichi culti a Ninive. Una guerra ai figli di Abramo, di Gesù, di Zarathustra e di Gilgamesh. Lo Spectator parla della "terra degli dèi perduti". Come ha detto Louis Sako, a capo della più grande congregazione cattolica irachena, "questo non era mai successo nella storia. Neppure Gengis Khan arrivò a tanto". Non solo i cristiani e gli yazidi sono stati uccisi e scacciati. Tutti i più antichi culti non islamici del medio oriente sono minacciati di estinzione: i kakai, i sincretisti noti per i loro baffoni rituali che gli islamisti considerano "blasfemi"; gli shabak, i cui antenati erano adoratori del fuoco; gli alawiti e i drusi, la cui tradizione è ancorata nella filosofia greca; i mandei, gli ultimi gnostici, gli eredi dei nestoriani e dei giacobiti; gli zoroastriani e i sabei, i figli delle civiltà sudarabiche e della regina di Saba. Di fronte a questa impresa senza precedenti, qual è la preoccupazione dell'Unesco, dedita alla preservazione dei siti patrimonio dell'umanità, che ha fatto della cultura occidentale e dei suoi riferimenti storici e politici l'anima dell'organizzazione delle Nazioni Unite per la scienza, la cultura e l'educazione? Cancellare la storia dell'unico paese, fra Rabat e Rawalpindi, dove chiese, moschee e sinagoghe sono protette e piene di fedeli. Israele, dove il 24 per cento della popolazione è non ebreo (1,8 milioni di persone). Dove gli stessi palestinesi spiccano fra gli arabi più fortunati del medio oriente. Dove il terrorismo islamico usa i luoghi santi per attaccare Israele, come è successo venerdì a Gerusalemme sulla Spianata delle Moschee, dove due poliziotti israeliani sono rimasti uccisi in un attentato senza precedenti. L'Unesco sta cercando di cancellare la storia di un popolo il cui testo sacro, la Bibbia, rimane anche il libro più attendibile per chi visita le città dissepolte fra il Tigri e l'Eufrate, Ur dei Caldei, Babilonia e Ninive, di cui "si dimenticherà anche il nome". Una sterminata distesa desertica e, in quel giallo allucinante, un solo punto di riferimento, la ziggurat, la torre sacra comune a tutte le città mesopotamiche, distrutta dall'Isis nella sua furia iconoclastica. A sud di Israele, c'è l'apartheid dell'Arabia Saudita wahabita, che ha distrutto tante tombe islamiche e separa musulmani e non musulmani; nel nord-ovest, i domini dello Stato islamico e la devastazione della guerra siriana; a est l'Iraq e l'Iran, terre di persecuzione. L'Unesco avrebbe potuto parlare con i drusi (un decimo della popolazione mondiale vive in Israele), con i beduini, con i musulmani della moschea Ahmadi di Haifa, con i Bahai che hanno in Israele la sede del loro movimento religioso perseguitato dal regime iraniano e con tutte le altre minoranze religiose israeliane. Eppure, è a questo piccolo stato, pegno della cultura occidentale in una terra che la sta espiantando, come le tombe dei profeti biblici Daniele, Giona e Seth distrutte dall'Isis, che l'agenzia della cultura dell'Onu ha dichiarato guerra.
  A ottobre, l'Unesco ha cancellato la storia ebraica di Gerusalemme, regalando all'islam e ai palestinesi il Muro del pianto. La scorsa settimana, a Cracovia, in una risoluzione voluta da Libano, Kuwait e Tunisia, l'Unesco ha islamizzato poi la tomba di Hebron, dove riposano i patriarchi della Bibbia. Un anno fa, a meno di una settimana dall'inaugurazione, l'Unesco aveva cancellato una mostra che documenta i 3.500 anni di legami ebraici con la Terra d'Israele. Due anni prima, l'Unesco aveva inserito "con urgenza" la Basilica della Natività di Betlemme, luogo sacro per i cristiani, fra i siti a rischio. Ma la stessa "urgenza" non venne dimostrata dall'Unesco quando la chiesa venne profanata da terroristi palestinesi nel 2002. Allora, solo silenzio. Come quando i palestinesi distrussero il terzo luogo santo dell'ebraismo, la tomba di Giuseppe a Nablus. "L'Unesco è diventato Ionesco", dice al Foglio Ruth Wisse, accademica a Harvard e massima studiosa al mondo di yiddish. "E' una caricatura di se stessa. Questo teatro dell'assurdo dimostra soltanto quanto sia importante preservare la storia ebraica". All'Unesco-Ionesco la settimana scorsa l'ambasciatore tedesco, Stefan Krawielicki, ha osservato un "minuto di silenzio" per le vittime palestinesi chiesto dalla delegazione cubana dopo quello ufficiale per le vittime ebree della Shoah. Shimon Samuels, direttore internazionale del Centro Wiesenthal presente a Cracovia, ha scritto ad Angela Merkel: "Collegare l'Olocausto alle cosiddette 'vittime palestinesi' è una forma di revisionismo illegale in Germania". Succede all'Unesco, il palazzo dell'incultura. Nelle stesse ore da Parigi, sede dell'Unesco, duecento ebrei facevano le valigie per andare a vivere in Israele. A causa dell'antisemitismo.
  "L'Onu, l'Unesco, il Consiglio di Ginevra, questi combattono Israele da quando è diventato un paese forte, avanzato e supermoderno", dice al Foglio Noah Klieger, veterano del giornalismo israeliano e reduce dei campi di concentramento nazisti, insignito della Legione d'onore da François Hollande. "Molti di loro hanno abbracciato l'islam. Ma noi israeliani sopravviveremo" .
  La Tomba dei Patriarchi a Hebron meritava l'inclusione nella lista dell'Unesco. Con migliaia di anni di storia, è il luogo di sepoltura di Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca e Lea della Bibbia. Includendola tra i siti patrimonio dell'umanità, l'Unesco ha trattato Hebron come alcune zone di Città del Messico o il centro storico di Cordoba presenti nella stessa lista. Tuttavia, l'Unesco nota che "nel Tredicesimo secolo, sotto Ferdinando III il Santo, la Grande Moschea di Cordoba è stata trasformata in una cattedrale". A Città del Messico non c'è alcun tentativo di negare l'eredità azteca. A Hebron e Gerusalemme, invece, l'Onu ha eliminato la storia ebraica, come se la tomba o il Muro del pianto non fossero stati costruiti in origine come luoghi ebraici, migliaia di anni prima dell'avvento dell'islam. L'Autorità palestinese ha sfruttato l'Unesco per dichiarare tutti i suoi siti "in pericolo", come altri in Libia, Mali, Iraq, Congo, Siria e Yemen. Come l'lsis che ha demolito Hatra e ha fatto saltare parti di Palmira.
  "Le recenti risoluzioni assunte dall'Unesco su Gerusalemme e su Hebron si iscrivono in un lungo filone di degiudaizzazione della storia ebraica", dice al Foglio il grande storico francese di origini marocchine Georges Bensoussan, direttore editoriale del Mémoral de la Shoah di Parigi e autore in Italia di una "Storia del sionismo" (Einaudi) e della "Storia della Shoah" (Giuntina). "Era già vero, ad esempio, nel corso della Seconda guerra mondiale, quando Mosca rifiutava di nominare la nazionalità ebraica delle vittime. Una cancellazione che si perpetuerà e si estenderà al di là dell'Unione sovietica, in tutte le nazioni che le saranno sottomesse all'inizio della Guerra fredda. Sarà il caso, in particolare, della Polonia, epicentro del genocidio quando, nel mese di aprile del 1967, in occasione dell'inaugurazione del monumento internazionale ad Auschwitz, alla fine del suo discorso il primo ministro polacco non pronunciò una sola volta la parola ebreo. Eppure si sapeva già che il 90 per cento delle vittime di Auschwitz erano ebree. Questa cancellazione del segno ebraico ha, tuttavia, delle radici più antiche. Nel mondo cristiano come nel mondo musulmano, il giudaismo è il segno dell'origine ed è appunto questa origine e questa discendenza che genera il problema. Si parlerà, nel cristianesimo, di una sostituzione di Israele secondo la carne con Israele secondo lo spirito (verus Israel) e la cancellazione del segno ebraico marchierà il cristianesimo con continuità fin dai primi secoli. Oggi fa parte della matrice culturale dell'occidente, al di là del processo di secolarizzazione degli ultimi tre secoli. In questa negazione della legittimità ebraica sulla sua storia e sulla sua terra c'è tuttavia un'altra radice, quella della colpevolezza legata alla Shoah, che si è riversata in aggressività. Se ne vuole a colui che vi ricorda ciò che Vladimir Jankélévitch chiamava il 'segreto opprimente'. Questa colpevolezza nata dal crimine induce un astio anti-israeliano che prende di mira l'esistenza stessa dello Stato ebraico, al di là di questa o di quella sua politica. Con, alla base, questo refrain che vuole vedere nelle vittime di ieri i nazisti di oggi. Propositi insulsi sul piano storico ma importanti perché svelano un certo sottofondo mentale e intellettuale".
  Intanto, la metà degli ebrei francesi intende lasciare la Francia. Uno studio dell'Università di Oslo pubblicato a giugno è una delle relazioni più metodologicamente complete che esplorano la crescita dell'antisemitismo europeo. Nel 2015, 10 mila ebrei dell'Europa occidentale sono partiti per farsi una nuova vita in Israele, "il più grande numero ad aver lasciato l'Europa dal 1948". "L'Unesco ha attaccato gli ebrei come nazione, ripudiando la storia ebraica e delegittimando qualsiasi presenza ebraica su questa terra", dice al Foglio Josef Olmert, docente alla South Carolina University e fratello dell'ex primo ministro israeliano. "Ma dimostra anche che il problema non è la politica israeliana, non sono gli insediamenti, ma la stessa esistenza dello Stato ebraico. Queste risoluzioni sono un passo verso l'islamizzazione e tutti conosciamo le conseguenze dell'appeasement. Può l'Onu decidere che la Mecca non è islamica? O che il Vaticano non è cattolico? L'antisemitismo viola tutte le regole quando si tratta di ebrei".
  "Queste risoluzioni riflettono l'influenza crescente della Organizzazione della conferenza islamica all'Onu, ma sono anche un passo significativo verso l'islamizzazione di tutto il medio oriente", dice al Foglio Nina Shea, direttrice dell'Hudson Institute's Center for Religious Freedom, una delle massime esperte e studiose di libertà religiosa negli Stati Uniti. "Gli ebrei sono stati espulsi dal resto del medio oriente e ora si fanno sforzi per cacciarli da Gerusalemme e Israele. Anche i cristiani sono spogliati dal medio oriente musulmano, paese dopo paese. E poi i mandei, gli yazidi, gli zoroastriani, i bahai sono tutti eliminati da questa regione che un tempo era un mosaico culturale". Non è un caso che l'Unesco abbia dichiarato guerra alla storia di Israele, uno dei pochi stati nazionali realmente radicati nella storia, con alle spalle una tradizione millenaria.
  Fra i primi nella comunità accademica a scagliarsi contro il voto dell'Unesco è il giurista che insegna alla Northwestern University, Eugene Kontorovich, che al Foglio dice: "Questa risoluzione mostra la perversità dell'Unesco che ha scelto Cracovia, nota per essere una delle più grandi tombe di massa ebraiche in Europa, per negare la prima tomba ebraica della storia. Dove gli ebrei sono stati cancellati fisicamente, le nazioni del mondo li hanno cancellati dalla storia. Ciò dimostra che le agenzie delle Nazioni Unite sono facilmente manipolate dall'anti-scienza. Il fatto che alcune organizzazioni facciano anche bene non è un argomento rispettabile per la loro esistenza, non più del fascista che mandava i treni in orario. I paesi rispettabili dovrebbero tagliare i loro finanziamenti a queste organizzazioni o interromperli completamente. La pretesa europea di opporsi a queste risoluzioni astenendosi, consentendo di farle passare, è disprezzabile". Israele, come annunciato dal premier Netanyahu, lo ha fatto.
  "Queste risoluzioni fanno parte di una campagna molto più grande per negare qualsiasi connessione ebraica alla terra di Israele", dice al Foglio l'islamologo americano Daniel Pipes. "E significa che c'è un blocco musulmano gigantesco presso le Nazioni Unite". "La città di Hebron è citata diverse volte nella Bibbia", ricorda David Gelernter, informatico con cattedra a Yale e fra i maggiori intellettuali ebrei americani. "Quando ero bambino, la Grotta dei Patriarchi era in mani arabe e agli ebrei era vietato andarci. Era nota per il massacro del 1929, in cui circa 70 studenti, insegnanti e bambini ebrei furono uccisi dai terroristi arabi a sangue freddo. Il massacro del 1929 fu un impulso per la creazione delle forze di autodifesa ebraiche che costituiscono la base delle forze di difesa israeliane. Gli ebrei erano orgogliosi del loro ruolo nella creazione della religione occidentale e, con essa, della cultura occidentale. Gli ebrei erano felici di pensare che la Grotta fosse santa non solo per loro, ma anche per i musulmani, e che Gerusalemme fosse santa per tutte e tre le religioni. Ma quando l'Onu decide che la Grotta è un sito religioso islamico e non ebraico - come se avessero annunciato che Roma è un sito storico etrusco senza rapporti con gli antichi romani e con gli italiani, o che Venezia è un sito commerciale sviluppato dall'Austria - gli ebrei e gli israeliani dovrebbero sorridere e ignorarlo. Noi ignoriamo le minacce di qualsiasi altro psicotico o lunatico, ed è giusto ignorare anche l'Onu. Vorrei che Israele e gli Stati Uniti (e l'Europa) si dimettessero dall'Onu e riprovassero a creare una seria organizzazione internazionale che cerca di creare la pace invece di distruggerla e (tra le altre cose) di sopprimere l'odio ebraico anziché promuoverlo" .
  Nei prossimi mesi l'Unesco potrebbe subire una ulteriore islamizzazione. Il Centro Wiesenthal ad aprile ha denunciato la possibilità che un politico del Qatar, Hamad Bin Abdulaziz al Kawari, prenda il posto di Irina Bokova come direttore dell'Unesco. Su nove paesi candidati, Francia, Cina e Qatar sono i favoriti. Tuttavia, la Francia e la Cina si trovano ad affrontare un ostacolo nel fatto che funzionari europei e asiatici hanno guidato l'organizzazione. Parigi è anche l'ospite della sede dell'Unesco. "L'ex ministro della cultura del Qatar, al Kawari, non ha nascosto la sua capacità di trovare i fondi per risolvere la crisi dell'Unesco, dato che gli Stati Uniti hanno chiuso i finanziamenti a causa dell'ingresso palestinese nel 2011", dice Shimon Samuels, direttore delle relazioni internazionali del Centro Wiesenthal. Samuels aveva scritto due volte ad al Kawari quando era ministro della Cultura sulla fiera del libro di Doha. "Quella fiera era piena di testi antisemiti", ha detto Samuels.
  Un rappresentante del mondo islamico ci riprova dopo la candidatura nel 2011 di Farouk Hosni, ex ministro della Cultura egiziano, che rispose così alla domanda di un deputato preoccupato del fatto che potessero essere introdotti libri israeliani nella gloriosa biblioteca d'Alessandria: "Bruciamo questi libri; magari li brucerò io stesso davanti a voi". Lo stato più ricco del mondo pro capite, il Qatar, ha da tempo fornito un enorme sostegno finanziario e politico agli estremisti palestinesi, tra cui l'organizzazione terroristica Hamas. La Freedom House classifica il Qatar, dove prevale la legge islamica della sharia, come "non libero". Il Qatar è anche uno dei focolai di estremismo islamico sunnita nella regione. Eppure, questo non ha impedito che acquisisse un ruolo di primo piano all'Unesco: in ottobre il Qatar è stato tra gli sponsor della risoluzione che negava la storia ebraica di Gerusalemme.
  Lo scorso maggio, la direttrice dell'Unesco, Irina Bokova, ha espresso apprezzamento per il sostegno del Qatar che aveva stanziato un finanziamento di due milioni di dollari come parte di un impegno da parte del primo ministro Abdullah bin Nasser bin Khalifa al Thani a donare dieci milioni di dollari all'Unesco. Sono cifre strategiche per l'agenzia dell'Onu per la cultura. I regimi islamici hanno da tempo lanciato un'opa sull'Unesco e sulla cultura che essa dovrebbe rappresentare. Bokova di recente ha elogiato la cooperazione dell'agenzia con il Qatar, nominando la seconda delle tre moglie dello sceicco qatariota al Thani, Sheikha Moza bint Nasser, "Unesco Special Envoy for Basic and Higher Education and Advocate for the Un Sustainable Development Goals". Bokova ha poi incontrato la figlia di al Thani, Sheikha Hind bint Hamad al Thani, portavoce della Fondazione qatariota per la scienza e l'istruzione. Esperti di ventuno paesi si sono riuniti a Parigi, alla sede dell'Unesco, in un meeting finanziato dai sauditi e focalizzato su come "garantire che il contenuto rivolto agli studenti rifletta sistematicamente la diversità culturale e religiosa". Pochi giorni dopo, il re saudita Abdallah Ibn Abdul Aziz al Saud ha donato venti milioni di dollari al Fondo di emergenza dell'Unesco. L'ambasciatore Ziad Aldrees ha dichiarato che "questo contributo non è il primo e non sarà l'ultimo dal regno saudita". Bokova ha ringraziato vivamente il re dell'Arabia Saudita "per questo importante annuncio che è un segno di profondo impegno e di leadership fatta in un momento difficile per l'organizzazione". Il fondo saudita copre, infatti, di quasi un terzo i contributi degli stati membri al fondo, che ha un valore di 58,5 milioni di dollari. "I libri di testo sauditi sono estremamente odiosi e pieni di xenofobia", ha denunciato Ali al Ahmed, il dissidente saudita direttore del Gulf Institute di Washington. Ahmed ha detto che l'Unesco sta tradendo il suo mandato a difesa del "valore dell'istruzione e della tolleranza" mentre ha avvertito che l'agenzia dell'Onu è "suscettibile agli acquisti finanziari provenienti da paesi come l'Arabia Saudita". Ahmed ha fornito esempi di ciò che i bambini sauditi apprendono in quei libri: "Aderire all'islam è l'unico modo per entrare nel paradiso e sfuggire all'inferno; si devono amare i musulmani e odiare i non credenti e non imitarli; esempi di false religioni includono l'ebraismo e il cristianesimo". Brooke Goldstein, direttore del progetto Lawfare, un thinktank giuridico con sede a NewYork, ha poi detto che "lavorando con l'Arabia Saudita l'Unesco non solo legittima il sistema di educazione all'odio del regno, ma promuove condizioni educative favorevoli alla diffusione del terrorismo". Anche gli Emirati arabi uniti hanno stanziato quindici milioni di dollari all'Unesco, rinvigorito da un altro assegno di sei milioni nel novembre 2015 da parte di Hamdan bin Rashid al Maktoum, ministro delle Finanze degli Emirati. Le donazioni hanno conseguenze. Così, Irina Bokova ha nominato la città di Sharjah, negli Emirati, "capitale della cultura nel 2019", sebbene non si capisce quale contributo questa città abbia dato alla cultura (un quarto delle edizioni di questo appuntamento annuale sono state organizzate dall'Unesco in capitali del mondo islamico). Non solo, ma l'Unesco ha anche istituito un "Premio Sharjah alla cultura araba", che si assegna dal 1998. Ora, l'Unesco ha sei premi intitolati a personalità culturali. Due, un terzo, portano i nomi di filosofi e città del mondo islamico. Il Kuwait sostiene l'Unesco con cinque milioni di dollari, mentre il Marocco con uno e mezzo. L'Unesco ha stretto un patto di ferro con l'lsesco, una sorta di Unesco dell'islam, il cui direttore, Abdulaziz Othman Altwaijri, ha siglato un accordo con Flavia Schlegel, vice direttrice dell'Unesco. Al quartier generale dell'Unesco a Parigi è stato presentato il progetto "Combattere l'islamofobia attraverso l'educazione". Pochi giorni dopo, il ministro della Cultura dell'Oman, Madeeha bint Ahmed al Shaybaniyah, si è incontrato con Bokova per un altro accordo di collaborazione con il paese islamico. La direttrice dell'Unesco ormai non fa che presenziare a un grande evento di cultura islamica dietro l'altro. Il 27 marzo, a Parigi, Irina Bokova era invitata a presentare i volumi "The different aspects of Islamic culture", in un evento dove figurava il fondatore dell'Oxford Centre for Islamic Studies, Farhan Nizami. Citando le parole del re saudita Abdullah bin Abdulaziz al Saud, Bokova ha dichiarato: "Gli esseri umani sono stati creati come l'uno pari all'altro su questo pianeta. O vivono insieme in pace e armonia o saranno inevitabilmente consumati dalle fiamme del malinteso e dell'odio". Da quando è stata eletta alla guida dell'Unesco, Bokova non fa che visitare paesi islamici. E' stata la prima segretaria a mettere piede in Iran nel 2014, dove ha incontrato tutti i vertici della Repubblica islamica.
  "Le risoluzioni dell'Unesco che cancellano la storia ebraica stanno cancellando anche i cristiani, visto che il cristianesimo si basa sulla storia ebraica, la Bibbia, che è la storia del popolo d'Israele" dice al Foglio la storica ginevrina di origini egiziane Bat Ye'or, la studiosa della dhimmitudine, ovvero le minoranze nell'islam. "Poiché ci sono più di due miliardi di cristiani, il loro silenzio e persino il consenso sulla distruzione della propria storia e della maggior parte dell'identità e dei valori interiori, dimostrano la portata della disintegrazione morale e culturale dell'occidente. Inoltre, tale voto conferma l'islamizzazione della cultura occidentale, fingendo che i patriarchi ebraici fossero profeti musulmani come affermato dal Corano. La gente dovrebbe rispondere a questa offensiva dell'infamia rifiutando di pagare i burocrati volgari dell'Unesco che mostrano tale ignoranza e rapacità". Nel 2012 durante la sua visita in Arabia Saudita, la direttrice Bokova incontrò il ministro degli Esteri Saud al Faisal, che ringraziò l'Unesco per essere stata la prima agenzia dell'Onu ad ammettere la "Palestina" come membro a pieno titolo, decisione che aveva spinto l'Amministrazione Obama a tagliare i fondi all'Unesco. Quell'anno, l'Arabia Saudita aveva donato cinque milioni di dollari all'Unesco per attuare un programma internazionale di tre anni destinato a costruire una "cultura della pace e del dialogo" (gli eufemismi abbondano nei comunicati dell'Unesco). L'Unesco ha poi ospitato un evento di tre giorni presso la sede di Parigi intitolato "Saudi Cultural Days", con arte, piatti, costumi e danze saudite. L'allora ministro dell'Informazione e Cultura saudita, Abdul Aziz Khoja, aveva denunciato "l'ignoranza dell'occidente sull'islam".
  Va da sé che tutta la preoccupazione dell'Unesco per i "siti in pericolo", come nel caso della tomba di Hebron, non si manifesti per le grandi chiese e cattedrali nel mondo islamico. E' il caso di Santa Sofia, la grande cattedrale della cristianità a Istanbul, reislamizzata dal presidente Erdogan (il canto del muezzin ha risuonato per la prima volta in 85 anni, da quando Ataturk ne fece un museo). Il silenzio si compra. La Turchia nel 2012 donò cinque milioni di dollari al fondo di Emergenza dell'Unesco "a seguito della sospensione dei contributi da parte degli Stati Uniti e di Israele". La Turchia è diventata uno dei principali finanziatori dell'Unesco. E Ankara è stata eletta nel Comitato per il patrimonio mondiale che resta in carica quattro anni. L'ambasciatore turco della buona volontà all'Unesco, Zulfu Livaneli, romanziere, regista, compositore, si è dimesso per il silenzio dell'agenzia dell'Onu sulle distruzioni perpetrate da parte del suo stesso paese. "Pontificare sulla pace rimanendo in silenzio su tali violazioni è una contraddizione degli ideali fondamentali dell'Unesco", ha affermato Livaneli.
  Lo stesso vale per la cattedrale di Cordoba, una chiesa cattolica da sette secoli, ma "la grande moschea di Cordoba" per l'Unesco, che vorrebbe vi si officiasse nuovamente il culto islamico. E chi c'è dietro il tentativo di decristianizzare la cattedrale di Cordoba? Lo ha appena spiegato Emilio Sanchez de Rojas, analista del ministero della Difesa spagnolo. Ha accusato il Qatar e l'Arabia Saudita di condurre "campagne d'influenza in occidente", e di essere "una fonte di finanziamento per la campagna di reislamizzazione della Cattedrale di Cordoba". I paesi islamici sono spalleggiati a Cordoba dall'ex direttore dell'Unesco, Federico Mayor Zaragoza.
  A cosa servono tutti questi fondi? Dei 195 stati membri dell'Unesco, 35 sono nazioni completamente islamiche, altre 21 sono membri dell'Organizzazione per la cooperazione islamica e quattro ne sono osservatori. Questo comporta 60 membri che rappresentano un blocco favorevole alle risoluzioni ispirate all'islam. Questo blocco riesce a condizionare l'elezione del comitato di ventuno paesi chiamato a votare e a condannare Israele e il popolo ebraico come un capro espiatorio, proprio mentre il volto di quei paesi diventa sempre più islamico. Questo voto traduce, prima di tutto, un rapporto di forze. "Esterno, quando l'occidente deve vedersela con i 57 stati musulmani del pianeta e la ventina di stati della Lega araba", continua con il Foglio lo storico della Shoah Georges Bensoussan. "All'interno delle grandi organizzazioni internazionali, l'Onu, l'Unesco, l'Oms e alcune altre, questo rapporto di forze, banale in sé, spiega la comicità involontaria di alcune risoluzioni e di alcune nomine. Come quando l'agenzia dell'Onu specializzata per i diritti dell'uomo porta alla sua guida l'Arabia Saudita alcuni anni dopo averne affidata la presidenza alla Libia di Gheddafi. Comicità involontaria quando, dagli anni 2000, lo stato di Israele concentra su di sé una cifra vicino all'80 per cento delle condanne per violazioni dei diritti dell'uomo. Rapporto di forze interno, anche, perché l'occidente, e in particolare l'Europa occidentale, deve ormai fare i conti con la presenza di una numerosa popolazione di origine arabo-musulmana, sovente anti israeliana, addirittura, a volte, ostile all'esistenza stessa di Israele, e che trova nell'estrema sinistra i suoi alleati più efficaci. Questa popolazione partecipa ai rapporti di forza politici locali come in Francia, per esempio, dove in questi ultimi anni numerosi politici hanno avuto la tendenza di acconsentire a degli accomodamenti con alcune pratiche religiose musulmane in vista di 'preservare la pace sociale', ma anche di preparare la propria rielezione".
  "Bisogna per questo parlare di islamizzazione della società? - si chiede Bensoussan - Io penso piuttosto che una soglia di equilibrio demografico si stia oltrepassando così come lo aveva mostrato già, alcuni anni fa, Christopher Caldwell. Coniugato alla matrice culturale evocata più sopra, questo ribaltamento demografico rischia di accrescere la frequenza dei voti anti israeliani. Quando Gerusalemme viene decretata essere 'senza legami col popolo ebraico', questa demolizione del racconto ebraico costituisce, sul piano della legittimità, la tappa antecedente alla distruzione dello Stato ebraico. Anche se molti si rifiutano ancora di sentirlo, è proprio la sparizione dello stato di Israele che ci si augura in molti ambienti".
  Lo scorso gennaio, la direttrice Bokova ha incontrato il direttore dell'Organizzazione per la cooperazione islamica, Yousef al Othaimeen. Funziona dunque così l'opa islamista sulla cultura occidentale, ebraico-cristiana: si inizia con un finanziamento, si ottengono le poltrone che contano, si costituiscono maggioranze in seno a commissioni e comitati, e da lì si riscrive la storia di Israele.
  "L'Unesco dovrebbe incoraggiare la comprensione interculturale e preservare il patrimonio culturale di tutti i popoli e non cancellare la storia e il patrimonio culturale degli ebrei e più di duemila anni di presenza a Gerusalemme" dice al Foglio Ibn Warraq, studioso dell'islam, maestro di tanti dissidenti come Ayaan Hirsi Ali, autore del celebre "Why I am not a Muslim" e che ha appena scritto un nuovo libro, "The Islam in Islamic terrorism" (New English Review Press). "L'Unesco, negando così il legame ebraico con Gerusalemme, contraddice il proprio obiettivo dichiarato di far crescere la celebrazione culturale, l'illuminismo e la comprensione tra culture diverse. Ma sappiamo da settant'anni che sia l'Onu che l'Unesco sono diventati strumenti e piattaforme per i paesi islamici nel diffondere il loro odio contro l'occidente e Israele. Gli Stati Uniti dovrebbero assumere il comando e iniziare a disfarsi di entrambe queste istituzioni corrotte". Per evitare il peggio: l'islamizzazione della cultura occidentale. "E' la perdita di valori e istituzioni occidentali derivanti da Gerusalemme, Atene e Roma e che si sono formate lentamente in diversi secoli di discorso razionale. Quali sono questi valori e le libertà che costano la vita a tanti popoli coraggiosi, le libertà che assumiamo come scontate? Le grandi idee del razionalismo occidentale, l'autocritica, la ricerca disinteressata della verità, la separazione della chiesa e dello stato, lo stato di diritto, l'uguaglianza davanti alla legge, la libertà di coscienza e di espressione, i diritti umani, la democrazia liberale, che sono il migliore e forse il solo mezzo per tutte le persone, non importa a quale razza o credo appartengano, di vivere in libertà e raggiungere il loro pieno potenziale. I valori occidentali -la base del successo sociale, politico, scientifico e culturale dell'occidente - sono chiaramente superiori a qualsiasi altra serie di valori elaborati dall'umanità. Quando i valori di Westminster sono stati adottati da altre società, come il Giappone o la Corea del Sud, i loro cittadini ne hanno beneficiato. La vita, la libertà e la ricerca della felicità: questo trittico di successi definisce l'attrattiva e la superiorità della civiltà occidentale. In occidente siamo liberi di pensare a ciò che vogliamo, di leggere ciò che vogliamo, di praticare la nostra religione, di vivere come vogliamo. La libertà è codificata nei diritti umani, che trascendono valenze locali o etnocentriche, conferendo pari dignità e valore a tutta l'umanità, indipendentemente dal sesso, dall'etnia, dalla preferenza sessuale o dalla religione. Allo stesso tempo, è in occidente che i diritti umani sono più rispettati. Eppure, in occidente sembriamo troppo pronti ad abbandonare questi principi, valori e libertà, in una forma di ecumenismo sentimentale e sotto la perniciosa influenza del relativismo culturale e soprattutto della paura di offendere i musulmani. La libertà di espressione, il nostro principio fonda la causa della nostra paura dell'islam".
  Questo forse ci dice la sottomissione delle potenze occidentali all'Unesco, le astensioni, i pilatismi. Ma tutto questo, giova ai palestinesi, ad esempio? "Non vi è assalto maggiore alle possibilità di pace che negare la radice del popolo ebraico nella terra d'Israele", spiega al Foglio Yossi Klein Halevi, intellettuale israelo-americano e collaboratore di molte testate liberal fra cui il New York Times. "Non ci sarà la soluzione a due stati se la parte palestinese non accetta la legittimità della presenza ebraica nella terra che condividiamo. Negando la presenza ebraica a Gerusalemme e a Hebron, l'Unesco rafforza il rifiuto e l'estremismo palestinese. L'impatto sul pubblico israeliano è stato devastante, approfondendo il nostro senso di isolamento. I vincitori sono i politici israeliani duri, che ci hanno avvertito che 'il mondo è contro di noi'. Se i leader europei pensano di poter indulgere nella delegittimazione della storia ebraica e mantenere la credibilità dell'Europa come un arbitro equo e bilanciato, allora non capiscono le dinamiche delle società israeliana e palestinese".
  La risoluzione dell'Unesco ha allarmato anche i musulmani liberali, pochissimi, che vivono in occidente. Come Salim Mansur, giornalista e intellettuale musulmano di origine indiana che scrive oggi per alcune testate in Canada. "Il voto dell'Unesco di dichiarare la città di Hebron come luogo di eredità del mondo palestinese è notevole in quanto coronato di sentimento antiebraico, come lo fu il voto dell'Unesco lo scorso ottobre che si riferì al Monte del Tempio a Gerusalemme solo in arabo come 'al-Haram al-Sharif'. Settant'anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la piena divulgazione dell'Olocausto come politica della Germania nazista di Hitler per la soluzione finale del 'problema ebraico' in Europa, stiamo assistendo al ritorno dell'antisemitismo europeo nella veste della concezione della difesa dei palestinesi contro gli ebrei. L'antisemitismo europeo non si è mai davvero estinto ma rimane latente e ora rivive nella giudeofobia arabo-musulmana. Le Nazioni Unite e le sue agenzie, come l'Unesco, hanno ripreso l'antico fervore contro gli ebrei".
  Ma secondo Mansur, questi voti indicano anche una offensiva islamista all'interno dell'occidente. "L'appello agli stati arabi e musulmani alle Nazioni Unite da parte degli stati membri europei, come nei recenti voti su Gerusalemme e Hebron all'Unesco, è la leva con la quale gli stati europei stanno perseguendo la loro politica di tirannia 'morbida' simboleggiata dall'Unione europea. Nell'abbracciare l'islamizzazione, l'Europa rivela la sua nostalgia per i valori totalitari basati sui diritti collettivi, sul multiculturalismo, sull'autoritarismo come affidamento sulla potenza, sulla correttezza politica e sulla negazione dell'eredità culturale dell'occidente. L'islamizzazione è accentuata dalla negazione dei diritti ebraici e della storia ebraica nell'antica terra della Giudea e Samaria, e l'Europa nell'approvvigionamento della politica dell'islamizzazione sta facendo risorgere il suo passato totalitario trascinato nell'antisemitismo. Nessuno dovrebbe essere ingannato dalla falsità delle affermazioni europee che, sostenendo in modo non critico le richieste palestinesi, stanno difendendo i diritti umani di un popolo, in questo caso i palestinesi, votando contro i diritti del popolo ebraico e di Israele, quando in realtà tali voti alimentano gli incendi dell'antisemitismo nel bel mezzo del radicalismo islamista e del terrorismo".
  Non a caso, prosegue con il Foglio la storica svizzera Bat Ye'or, i due presidenti dell'Unesco e dell'Isesco firmarono un programma di cooperazione per gli anni 2008-2009 con un budget che copriva 128 progetti. Nel Report dell'Alleanza delle Civiltà si richiedeva di aumentare gli scambi tra giovani di paesi occidentali e dell'Organizzazione della cooperazione islamica. "L'obiettivo dovrebbe essere facilitare la diffusione della cultura islamica contemporanea nei loro paesi e, così facendo, promuovere la causa del dialogo e della comprensione. La palestinizzazione della storia nega l'identità, i diritti storici e culturali di Israele nella propria patria, comprese Giudea, Samaria e Gerusalemme. Questo contesto spiega l'islamizzazione dell'eredità religiosa giudaica e cristiana, un approccio che implica di negare l'identità di queste due religioni, dal momento che il cristianesimo si considera una derivazione del giudaismo, di cui ha adottato le Scritture. La negazione della storia biblica, a cui l'Europa si è convintamente allineata sostenendo che Israele è uno stato colonizzatore che ha invaso la propria patria ancestrale - vale a dire ricusando i diritti storici degli ebrei alla propria patria - nega anche la storia cristiana e avvalora l'interpretazione coranica che rifiuta la storicità della Torah e dei Vangeli. Pertanto, se non c'è mai stata una storia di Israele o dei Vangeli, ma soltanto la storia di Ibrahim, Ismaele e Isa - il Gesù del Corano -, se tutti i re e i profeti biblici erano musulmani, quali sono le radici dell'occidente? Non sarebbero forse coraniche? Se in passato Israele non è mai esistito, allora la sua moderna restaurazione è soltanto un abuso coloniale su un territorio su cui non può vantare alcuna pretesa storica, religiosa o culturale, e dunque la sua distruzione è giustificata. Ma se la storia testimonia il contrario, allora l'Europa diventa deliberatamente responsabile dell'abominevole crimine di genocidio: spazzar via l'esistenza passata di un popolo per eliminarne la legittimità attuale e i suoi diritti umani, religiosi, culturali e storici. Questo annullamento di identità è soltanto l'ennesima concessione all'islam e alla sua cultura, che è ostile a ebrei e cristiani, fatto che non è stato né ammesso né ripudiato. Gettare il giudaismo (Israele) e il cristianesimo (l'occidente) nel cestino della spazzatura della storia vuol dire eliminare i diritti storici, religiosi, culturali e nazionali di ebrei e cristiani e optare per la dhimmitudine". Secondo Bat Ye'or, è questo che si persegue all'Unesco: "La guerra contro Israele, la de-giudaizzazione del cristianesimo europeo e la de-cristianizzazione dell'Europa". E tutte sembrano passare per l'islamizzazione del medio oriente.
  "I non musulmani - gli antichi cristiani, gli yazidi e le comunità ebraiche - sono scacciati dal medio oriente in attacchi mirati di vari gruppi islamisti", conclude Nina Shea, che dirige il dipartimento per la libertà religiosa all'Hudson Institute. "A questo ora si aggiungono le risoluzioni anti israeliane all'Unesco, risultato delle campagne anti occidentali da parte delle lobby islamiste e di sinistra. Il risultato sarà la delegittimazione dello stato di Israele e l'eventuale sradicamento dei cristiani dal medio oriente, così che soltanto i musulmani saranno tollerati. Il risultato sarà una regione islamizzata, una gigantesca Arabia Saudita". Israele non permetterà che sul Monte del Tempio di Gerusalemme o alla Tomba dei Patriarchi di Abramo vengano applicate le regole della Mecca e Medina. Lo ha detto Avi Dichter, presidente della Commissione esteri e difesa della Knesset, riferendosi alle città sante in Arabia Saudita nelle quali l'ingresso è vietato ai non musulmani. "L'idea - ha spiegato Dichter a Israel Radio - che venga fatto anche sul Monte del Tempio ciò che è stato fatto in Arabia Saudita, dove le due città sante dell'islam La Mecca e Medina sono luoghi in cui solo i musulmani hanno diritto di entrare, è un'idea totalmente sbagliata, e noi non permetteremo che si avveri".
  Dopo settant'anni, Israele è ancora nella fase di stabilire le condizioni per la propria esistenza e questa sua lotta per la sopravvivenza fornisce all'occidente la possibilità di salvare anche se stesso. Soprattutto nel momento in cui il mondo islamico si dà appuntamento a Parigi, la capitale della cultura occidentale, per eliminare gli ebrei dai libri di storia e dalla storia. L'occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme.

(Il Foglio, 17 luglio 2017)


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Gerusalemme non è il baluardo dell’Occidente

di Marcello Cicchese

"L'occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme", sostiene l'autore dell’articolo precedente. E' diffusa l'idea che Israele sia il baluardo di un Occidente progredito contro il resto del mondo ancora avvolto da residui di oscurantismo religioso. "Israele siamo noi", è il titolo di un libro di Fiamma Nirenstein, e tutto fa pensare che con quel "noi" s'intenda l’Occidente, democratico nel governo e libertario nei costumi.
   L'Onu, con il braccio armato dell'Unesco, starebbe dunque insidiando l'Occidente togliendo a Israele il sostegno della storia. E la difesa di Gerusalemme sarebbe compito di chiunque voglia opporsi alle mire dell'Onu contro l'Occidente.
   Il fatto è che l'Onu, prosecuzione della Società delle Nazioni, è un prodotto originale e genuino dell'Occidente, non dell'Islam. L'Onu è la Torre di Babele laica, prodotto della crisi delle nazioni dopo la macelleria della Prima guerra mondiale. L'Onu esprime il desiderio del governo umano non di un popolo, non di una nazione, ma dell'intero mondo. L'Islam si è accorto di questo, e cerca di usare lo strumento creato dai nemici di Allah per farne uno strumento di governo del mondo nelle mani dei fedeli di Allah. Che c'è di strano in tutto questo?
   L'Occidente laico democratico e libertario adesso s'accorge che la conquista di Gerusalemme da parte dell'Islam metterebbe in pericolo anche lui, e allora si mobilita per la sua difesa. L'Occidente laico democratico e libertario però ha già rinunciato a Gerusalemme, e l'ha fatto nel momento della sua più grande vittoria contro ciò che laico e libertario non è: quando ha strappato Gerusalemme Vecchia dalle mani della Giordania e ha consegnato il Monte del Tempio nelle mani dell'Islam. "Che ce ne facciamo di questo Vaticano ebraico", ha detto con disprezzo del Dio di Israele il laico Moshè Dayan. E la nazione ha acconsentito.
   La storia che oggi l'Occidente vuol far giocare a favore di Gerusalemme e contro l’Islam è una storia laica, i cui racconti sono certo molto più veritieri delle favole islamiche, ma che tuttavia non sono tutta la storia. La storia di Gerusalemme è storia sacra, cioè racconto degli interventi di Dio nella storia degli uomini, con un centro di azione che è la nazione di Israele, come popolo che Dio si è scelto per svolgere la sua azione di governo nel mondo. E in questo progetto di governo del mondo è già stabilito che Gerusalemme diventerà la capitale del Regno.
   "Bello si erge, e rallegra tutta la terra, il monte Sion: parte estrema del settentrione, città del gran Re (Salmo 28:2), "Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran Re" (Matteo 5:34-35).
   Chi non è interessato a conoscere chi è questo “gran Re”, e che cosa ha detto e che cosa vuole, difenda pure Gerusalemme da ogni menzogna che si oppone alle semplici e più evidenti verità che appaiono nei libri di storia, ma non trasformi Israele in ciò che non è mai stato e non faccia diventare Gerusalemme ciò che non è.
   Gerusalemme non è il baluardo dell’Occidente.
   Israele non crollerà.

(Notizie su Israele, 17 luglio 2017)


Basta istigazione

La moderna calunnia del sangue secondo cui "La al-Aqsa è in pericolo" si ritorce contro i suoi autori: oggi la moschea è tenuta in ostaggio dai calunniatori.

Scrive l'editoriale di Ha'aretz: «L'attentato omicida sul Monte del Tempio che venerdì mattina ha ucciso gli agenti di polizia Hael Sathawi e Kamil Shnaan avrebbe potuto degenerare in un attacco strategico non solo in ambito arabo e internazionale, ma anche all'interno di Israele. Non esiste luogo politicamente e religiosamente più delicato del Monte del Tempio, dove la lava bollente aspetta solo di erompere e incenerire tutto ciò che c'è attorno. E non c'è luogo come il Monte del Tempio che richiede la massima saggezza militare e politica da parte di coloro che ne hanno il controllo. Dal momento in cui i luoghi santi vennero conquistati da Israele nel 1967, lo Stato si è adoperato il più possibile per dimostrare di poter essere un tutore responsabile di questi siti sacri ai fedeli delle tre religioni. È riuscito a prevenire folli attacchi progettati da estremisti ebrei, così come ha impedito che il sito venisse trasformato in un centro di azioni violente da parte di musulmani fanatici....

(israele.net, 17 luglio 2017)


L'HighTech italiano incontra il mercato israeliano | Il GreenMed Summit a Tel Aviv

Con il coordinatore dell'iniziativa parliamo delle opportunità di interscambio tra Italia e Israele. Aziende, startup e centri di ricerca interessati a prendere parte al progetto potranno fare domanda entro il 21 luglio

di Gabriele Ferrieri

 
Francesco Marcolini - Coordinatore GreenMed Summit 2017
A Tel Aviv dal 12 al 14 settembre 2017 si svolgerà il GreenMed Summit, una business convention bilaterale Italia/Israele finalizzata a promuovere l'High Tech italiano verso il mercato israeliano e favorire la realizzazione di accordi commerciali e produttivi tra le aziende leader nei settori Green Power, Smart Grid, GreenTech, Trattamento delle acque, Protezione ambientale, Ict, Digital Applications. L'iniziativa (aziende, startup e centri di ricerca interessati a prendere parte al progetto potranno fare domanda entro il 21 luglio inviando la scheda di adesione ad application@greenmedsummit.com) si svolge in occasione della conferenza biennale Watec Israel 2017, fiera internazionale, sulle tecnologie delle acque ed il controllo dell'ambiente. L'ecosistema startup israeliano è un esempio di eccellenza come dimostrano i numeri. Nel 2016 il 20% degli investimenti privati mondiali sono finiti in aziende israeliane, sono tra 450 e 500 le start up nel settore della cyber sicurezza, con 40-50 che si uniscono ogni anno. Ma l'innovazione in Israele non si limita a questo settore: la profonda partnership tra pubblico e privato ha portato investimenti in tutti i settore dell'economia. Il risultato sono le oltre 6 mila startup innovative esistenti nello Stato ebraico e i 2,7 miliardi di euro di investimenti e 231 deal solo nel 2016. Abbiamo incontrato Francesco Marcolini - Coordinatore GreenMed Summit 2017 per farci raccontare le opportunità di interscambio possibili tra Italia e Israele.

- Quali sono le principali opportunità che potranno trovare le startup italiane in questo confronto con l'ecosistema innovazione israeliano?
  «L'ecosistema israeliano è molto avanzato e ha un carattere innovativo estremamente d'avanguardia. L'innovazione è tecnologica, ma è una conseguenza di un sistema sociale di relazioni e di propensione sempre verso la trasformazione, qualcosa che si vuole raggiungere e che in Italia obiettivamente abbiamo solo in qualche area o ambiente. Quello che le startup italiane potranno trovare sono principalmente tre: tecnologia di avanguardia con cui fare benchmarking, modelli organizzativi di ricerca, di commercializzazione e di gestione da poter assimilare. E grandi aziende internazionali, presenti sul territorio, con cui poter sviluppare delle collaborazioni e nel caso di startup che abbiano degli alti livelli tecnologici da offrire».

- Questo interscambio tra Italia e Israele quali benefici può portare in termini di crescita e formazione per tutti i giovani innovatori italiani?
  «Israele è un esempio di innovazione a tutti i livelli. Avere un'esperienza di lavoro in Israele o avere una join venture con una società israeliana, apre obiettivamente anche la mente su nuove formule organizzative. Questo lo posso confermare anche come mia esperienza personale diretta in questa organizzazione. L'imprenditore israeliano ad un primo impatto può sembrare una persona molto dura, e apparentemente poco disponibile, per cui occorre conquistare la sua fiducia soprattutto con elementi concreti, quindi con la capacità tecnologica, con la capacità organizzativa e con la qualità del proprio prodotto».

- In base alla sua esperienza e confrontando l'ecosistema startup Italia vs Israele, quali sono gli aspetti su cui ci si dovrebbe maggiormente soffermare?
  «Israele è uno stato che sta sviluppando grandi tecnologie, ma che cerca mercati perché chiaramente non ha un mercato alle spalle. L'Italia invece ha un importante rete commerciale e di mercato, sia a livello nazionale che nell'Unione Europea. Per cui quello su cui stiamo spingendo, anche grazie ai bandi del Ministero degli Esteri per la collaborazione industriale, è quello di dire agli israeliani di vedere l'Italia come l'approdo e l'ingresso dell'Unione Europea. E questo in parte è già accaduto e sta accadendo. E infine quello di dire agli italiani di vedere Israele come un modello per poter prendere non solo tecnologie, ma anche esempi organizzativi».

(StartupItalia!, 17 luglio 2017)


Siria, sancito il primo ingresso delle truppe russe a Daraa

Una mossa fortemente tesa a tranquillizzare gli israeliani "sensibili" alla presenza degli sciiti vicino al Golan.

di Piero Orteca

E' confermato dai servizi di sicurezza occidentali: per la prima volta truppe russe sono entrate nel sud della Siria mercoledì scorso, prendendo posizione nei sobborghi della città di Daraa, finora al centro di furiosi combattimenti. L'operazione è stata resa possibile dalla tregua siglata dopo l'incontro di Donald Trump e Vladimir Putin ad Amburgo. Secondo diversi analisti, le unità di Mosca, comprendenti polizia militare e paracadutisti dei reggimenti ceceni, sono state viste arrivare, a bordo di blindati trasporto-truppe e prendere posizione a Daraa.
   Sempre le notizie diffuse da osservatori occidentali, parlano di un vero e proprio cambio della guardia avvenuto nel centro della città, da dove si sarebbero ritirate le formazioni blindate della Quinta divisione corazzata governativa di Damasco e le milizie di Hezbollah. In effetti, l'arrivo dei soldati di Mosca risponde all'esigenza di garantire una sorta di supervisione "peace-enforcing" senza coinvolgere gli estremisti sciiti libanesi i gruppi armati sostenuti da Teheran. Sembra sia questo uno dei punti nodali che il Presidente degli Stati Uniti e il capo del Cremlino hanno sciolto ad Amburgo.
   Tutto questo per rispondere alle esigenze di sicurezza reclamate dagli israeliani, che non si fidano di avere Hezbollah vicino ai confini del Golan. Nello stesso tempo, una manovra del genere, ha garantito anche i giordani, i quali a loro volta guardavano di malocchio qualsiasi presenza sia dei governativi di Assad e sia delle milizie sciite lungo la loro frontiera. I combattenti russi erano provvisti solo di armi leggere per"autodifesa", così come concordato qualche tempo fa dall'inviato speciale di Putin per gli affari siriani Aleksander Levrentiev.
   L'unico problema, fatta la legge trovato l'inganno, è che accanto alla polizia militare russa (come era stato concordato con Trump) sono comparsi anche i paracadutisti, presenza ritenuta scomoda e sospetta da parte del governo di Gerusalemme. È infatti noto che gli israeliani non gradiscono avere ai loro confini, in qualsiasi veste esse si presentino, truppe di Mosca. La preferenza di Netanyahu, infatti, sarebbe quella di lasciare agli americani i compiti di supervisione ai loro confini nord, fino all'area di Quneitra. In caso contrario, Gerusalemme potrebbe continuare (e forse lo farà) a sostenere i ribelli "laici" anti-Assad.
   Tra le altre cose, questo spiega perché gli israeliani, negli ultimi tempi, abbiano modificato la loro scala delle priorità, monitorando strettamente tutto ciò che si muove tra il Golan e le pietraie del deserto siriano. Non a caso è suonato l'allarme rosso quando l'esercito siriano, sostenuto da ingenti forze delle milizie di Hezbollah, ha attaccato su larga scala i ribelli nella zona di Al-Suweida, che con Quneitra e Daraa era considerata una delle località demilitarizzate e coperte dalla tregua. La Quinta divisione corazzata dell'esercito siriano è stata la punta di diamante dell'offensiva denominata "Operazione Grande Alba". Durante la loro avanzata, le truppe siro-sciite hanno conquistato 11 villaggi e piccoli centri, inclusi Tel Asfar e Al-Qasr, località baricentriche tra la Giordania e il Golan. La Quinta divisione corazzata di Damasco e gli Hezbollah hanno anche costretto gli uomini delle Syrian Democratic Forces a ritirarsi.
   Tutto questo ha mandato in bestia i vertici del governo di Gerusalemme, che, allertati dai propri servizi segreti, si sono rivolti a Trump per fare in modo che la tregua proclamata ad Amburgo non si rivelasse un boomerang proprio per Israele. E in questa chiave va interpretata la presenza russa nella zona o almeno quella della polizia militare di Mosca.
   Difficile viene immaginare, invece, lo "sbarco" dei paracadutisti ceceni. Evidentemente il Cremlino li schiera di riserva per rispondere a qualsiasi eventuale "provocazione" della controparte americana. Qualche giorno fa, infatti, il cessate il fuoco è stato in qualche modo aggirato proprio da Washington, che ha rifornito di armi, munizioni e vettovagliamenti i ribelli anti-Assad schierati a Daraa. Certo, a scherzare col fuoco qualche volta ci si brucia. Speriamo non sia questo il caso della Siria, dato che le truppe di Mosca e di Washington operano pericolosamente vicine. Un incidente, anche un minimo incidente, potrebbe innescare un confronto dalle conseguenze inimmaginabili.

(Gazzetta del Sud, 16 luglio 2017)


Macron: "Siamo gli unici responsabili della deportazione di migliaia di ebrei francesi"

"Fu la polizia francese a collaborare con i nazisti", ha dichiarato il presidente alle commemorazioni dei rastrellamenti del 1942 con il premier israeliano Netanyahu.

 
In occasione delle commemorazioni per i 75 anni della deportazione di massa di migliaia di ebrei francesi, il presidente francese Emmanuel Macron ha condannato il ruolo svolto dal suo Paese nell'Olocausto. «Fu la Francia a organizzarla», ha dichiarato Macron alla cerimonia alla quale ha partecipato anche il premier israeliano Benyamin Netanyahu. «Neanche un tedesco fu coinvolto, fu la polizia francese a collaborare con i nazisti», ha continuato il capo dell'Eliseo bollando come «comode ma false» le tesi dell'estrema destra francese secondo le quali il regime collaborazionista di Vichy non rappresentava lo stato francese.
  Il 16 e 17 luglio del 1942 oltre 13.000 ebrei francesi furono arrestati e portati nel velodromo di Hiv - il rastrellamento viene infatti ricordato come "Vel d'Hiv" - per poi essere trasferiti ad Auschwitz e in altri campi di sterminio. In occasione del suo primo incontro con il nuovo presidente francese, Netanyahu ha detto di essere a Parigi «per commemorare le vittime. Settantacinque anni fa, un buio pesante scese su questa città. I valori della rivoluzione francese furono schiacciati sotto lo stivale dell'antisemitismo».
  Il premier Netanyahu ha messo in guardia contro gli estremismi di oggi elogiando «i grandissimi esseri umani che rischiarono la vita» per salvare ebrei francesi. La sua visita è stata tuttavia preceduta da polemiche: alcuni commentatori hanno criticato la presenza di Netanyahu alle commemorazioni del Vel d'Hiv, affermando che così la cerimonia si è eccessivamente politicizzata. Elie Barnavi, ex ambasciatore di Israele e Parigi, ha detto all'Afp che la presenza del premier lo aveva «messo un po' a disagio. Questa storia non ha niente a che vedere con Israele». L'Unione degli ebrei francesi per la pace (Ujfp), un gruppo filo-palestinese ha definito l'invito a Netanyahu «inaccettabile». Ma alla cerimonia ha preso parte la Crif, principale associazione dei gruppi ebraici francesi.
  I due leader hanno discusso di temi bilaterali nel corso del loro incontro, ribadendo l'intenzione di mantenere una stretta cooperazione nella lotta al terrorismo. L'ultima volta di Netanyahu a Parigi era stata in occasione della «marcia dell'unità» dopo gli attacchi terroristici del gennaio 2015 contro la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e un supermercato kosher. Macron ha quindi sollecitato il premier israeliano a riprendere i negoziati di pace in Medio Oriente. In una conferenza stampa dopo i colloqui, il capo dell'Eliseo ha anche evidenziato la necessità di attuare la soluzione dei due Stati, posizione che aveva espresso anche al leader palestinese Abu Mazen all'inizio del mese.

(La Stampa, 16 luglio 2017)


Marcon a Netanyahu : pronti a limitare la minaccia di Hezbollah nel sud del Libano

PARIGI - La Francia è pronta a svolgere un ruolo diplomatico per affrontare la minaccia posta dalle armi di Hezbollah nel sud del Libano, al confine con Israele. Lo ha detto oggi il presidente francese, Emmanuel Macron, al termine dell'incontro con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita a Parigi. Durante la cerimonia celebrata oggi per celebrare il 75mo anniversario della "rafle du Vel' d'Hiv", ovvero il rastrellamento del Velodromo d'inverno, Macron ha detto che l'antisionismo è il nuovo antisemitismo e va combattuto. Riguardo alle attività del gruppo Hezbollah nel sud del Libano, dove la Francia è presente all'interno della missione Onu Unifil, Macron ha detto che Parigi condivide "le preoccupazioni di Israele riguardo all'attività di Hezbollah e promuove un'iniziativa diplomatica per limitare la minaccia". La Siria, la lotta al terrorismo e l'Iran sono stati un altro argomento di discussione tra i due leader. Macron ha sottolineato che la Francia rimane vigile nel monitorare l'attuazione dell'accordo sul nucleare con Teheran. Il presidente francese ha inoltre condannato l'attacco avvenuto venerdì 14 luglio al Monte del Tempio, chiamato Spianata delle moschee dai musulmani in cui sono rimasti uccisi due agenti di polizia israeliani.

(Agenzia Nova, 16 luglio 2017)


Forte condanna dagli Usa per l'attacco a Gerusalemme

Gli Stati Uniti condannano "nei termini più forti" l'"attacco terroristico" per cui ieri "la città santa di Gerusalemme - che vuol dire 'Città di pace' - è diventata una scena del terrore". Lo sottolinea la Casa Bianca in una nota diffusa dall'ufficio del portavoce.

"Il popolo degli Stati Uniti è affranto", si legge, "estendiamo le nostre preghiere e la nostra vicinanza alle vittime". La nota prosegue sottolineando che "ci deve essere tolleranza zero per il terrorismo. È incompatibile con il raggiungimento della pace e dobbiamo condannarlo nei termini più forti, sconfiggerlo e sradicarlo".
Sottolineando poi che l'attacco ha obbligato il governo di Israele a chiudere temporaneamente il Monte del Tempio/Spianata delle Moschee per condurre le indagini, si rimarca che "Israele ha assicurato al mondo che non ha intenzione di alterare lo status del luogo sacro, una decisione cui gli Stati Uniti plaudono e che accolgono.
Esortiamo tutti i leader e le persone di buona volontà ad essere comprensivi mentre questo processo va avanti e raggiunge la sua conclusione".

(ATS News, 16 luglio 2017)


Iran, Turchia, Israele: guerra fredda a tutto gas

di Monica Mistretta

È l'11 giugno. Il sito di 'Press Tv', la televisione di stato iraniana in lingua inglese, ipotizza una futura guerra dell'acqua nella regione. Il ministro iraniano dell'Energia, Hedayat Fahmi, interviene per parlare del Gap Project turco. Una serie di dighe sul Tigri ed Eufrate, nella regione sud orientale dell'Anatolia, che hanno ridotto l'afflusso di acqua nei paesi a valle dei due fiumi: Siria e Iraq. Il ministro iraniano precisa che è l'Iran a occuparsi del problema perché gli altri due paesi al momento ne hanno di più gravi. Alla fine di giugno 'Press Tv' torna ancora sul tema accusando la Turchia di gravi danni ambientali.
   L'acqua è solo una delle questioni aperte tra Ankara e Teheran. Nella guerra civile siriana le due capitali sembrano avere trovato una forma di accordo al tavolo dei negoziati di Astana, in Kazakistan. Ma l'equilibrio è fragile.
   Il controllo dell'acqua nella regione non è l'unica arma in mano al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Se l'Iran spartisce con il Qatar il più grande bacino di gas naturale nel Golfo Persico, la Turchia è un passaggio quasi obbligato per i gasdotti verso l'Europa. Quasi obbligato, perché Teheran avrebbe un'idea alternativa: un gasdotto che attraversa Iraq, Siria ed eventualmente il Libano, senza passare per la Turchia.
   Certo, il fatto che Siria e Iraq siano esposti al ricatto turco dell'acqua, complica i piani iraniani.
   La Turchia non è un produttore di gas. Per portarlo in Europa, lo deve prendere da altri paesi.
   Il primo potrebbe essere il Qatar: è ovvio che nella disputa che divide Doha dagli altri paesi del Golfo, Erdogan abbia preso le sue parti. Lo ha fatto in grande stile mandando truppe turche nella base militare inaugurata in Qatar un anno prima.
   Il secondo fornitore della Turchia potrebbe essere Israele, uno dei migliori nemici dell'Iran.
   Pochi giorni fa, il 12 luglio, il ministro israeliano dell'Energia, Yuval Steinitz, ha annunciato alla stampa che la controparte turca, Berat Albayrak, sarà in visita in Israele entro la fine dell'anno. Motivo: concludere un accordo per la costruzione di un gasdotto tra i due paesi. Albayrak è il genero di Erdogan. Secondo inviperiti media turchi sarebbe in contatto quasi quotidiano su 'WhatsApp' con ufficiali israeliani.
   L'entrata di Gerusalemme nella mappa regionale del gas cambierebbe le carte in tavola per tutti. Israele ha già firmato con la Giordania accordi preliminari per l'esportazione di gas naturale dal bacino Leviathan, al largo delle sue coste. Secondo il quotidiano israeliano 'Haaretz', agli inizi di quest'anno il passaggio di gas oltre confine avrebbe già iniziato. Non direttamente, ma utilizzando una società americana di facciata. Gli arabi si muovono con cautela quando scendono ad accordi con il governo di Gerusalemme. La rete di gasdotti israeliana è già collegata a quella delle compagnie giordane Arab Potash e Jordan Bromine. La via che porterebbe il gas del Qatar in Turchia è parzialmente spianata.
   L'unico neo sarebbe una probabile opposizione di Cipro: il gasdotto Turchia Israele dovrebbe passare per le sue acque territoriali. Turchi e ciprioti si sono incontrati alla fine di giugno per risolvere le dispute che dividono l'isola in due da oltre 40 anni: i colloqui sotto l'egida dell'Onu sono ancora una volta falliti.
   A dire il vero, nel risiko del gas mediorientale, ci sarebbe anche un altro progetto, cui partecipa il nostro paese. Un gasdotto che da Israele dovrebbe passare da Cipro, Grecia e Italia tagliando fuori la Turchia. La società che lo sovrintende è italiana, la Igi Poseidon, come italiano è uno dei partner, l'Edison. L'accordo preliminare tra le parti è stato firmato in aprile. Il gasdotto coprirà una distanza di 3.500 chilometri. Per raggiungere l'Italia bisognerà spendere oltre sei miliardi di euro. Se ne parlerà nel 2020, quando verrà presa la decisione finale sull'investimento. La Turchia deve fare in fretta a siglare l'accordo con Israele: Erdogan ha già pensato di mandare avanti il genero.
   In Europa oggi arriva solo gas russo. Tutti gli altri gasdotti per ora sono solo sulle mappe. Ma valgono miliardi di dollari e hanno già fatto centinaia di migliaia di morti in Medio Oriente. I russi, impegnati militarmente in Siria, mantengono un canale aperto di dialogo con tutti i protagonisti della partita del gas: Iran, Turchia e Israele.
   Una piccola nota, quasi irrilevante nel quadro generale: nessuno di questi gasdotti toccherà la Cisgiordania. Mentre la leadership palestinese si culla con le risoluzioni dell'Unesco, l'economia della regione sta per tagliare fuori il futuro stato palestinese prima che sorga. Anche l'Egitto di Al Sisi ha voltato le spalle al presidente palestinese Abu Mazen. In questi giorni sta scendendo a patti con Hamas, il movimento islamico palestinese che da dieci anni controlla la Striscia di Gaza. È da qui che passava il gasdotto egiziano diretto in Israele via mare. In passato era stato più volte attaccato nei pressi di Al Arish, a pochi passi dall'enclave palestinese. Nel 2012, sotto la presidenza del Fratello Musulmano Al Mursi, il gasdotto aveva smesso di esportare in Israele. In questo momento è l'Egitto ad avere bisogno di gas. Al Sisi sa che deve controllare la situazione a Gaza per partecipare ai grandi progetti regionali. Anche perché al largo delle coste egiziane, in prossimità del Sinai, l'italiana Eni nel 2015 ha scoperto un giacimento di 30 trilioni di piedi cubi di gas.
   In marzo una delegazione israeliana ha fatto tappa al Cairo per discutere la costruzione di un nuovo gasdotto, questa volta dal bacino Tamar, nel nord di Israele. I colloqui, come al solito, continueranno in gran segreto. Per la piazza araba, come per quella turca, Israele è ufficialmente un paria regionale con il quale nessuno ha rapporti. Ma se di mezzo ci sono gli interessi, la causa palestinese può attendere.

(Articolo Tre, 16 luglio 2017)


Monte Nebo, da qui Mosè vide la Terrasanta

Riaperto in Giordania il sito biblico dove il profeta concluse il suo Esodo

di Luigi Grassia
Inviato sul Monte Nebo (Giordania)

 
Dal Monte Nebo si vedono il Mar Morto e la valle del Giordano. Nelle giornate nitide, anche Gerusalemme
 
Il luogo dove Mosè concluse il suo Esodo è oggetto di culto da tempo immemorabile. Il lavoro degli archeologi testimonia, nella basilica e nel suolo su cui sorge, una stratificazione di chiese cristiane, la più antica delle quali risale al IV secolo
 
Il battistero della basilica custodisce questo bellissimo mosaico
 
La grande pietra rotonda sulla vetta del Monte
 
Tramonto sul Mar Morto dal punto di vista del Monte Nebo. A destra un simbolo biblico
L'Eterno disse a Mosè: "Fa' un serpente ardente, e mettilo sopra un'antenna; e avverrà che chiunque sarà morso e lo guarderà, scamperà". Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra un'antenna; e avveniva che, quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, scampava. (Numeri 21:8-9).
Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna. Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna (Giovanni 3:14-16)

Giordania, a un passo da Israele: sul Monte Nebo, con vista sul Mar Morto e sul Giordano e su tutta la Terrasanta al di là del fiume, si ha il sacrosanto diritto di scattarsi un bel selfie. Va bene, niente da ridire. Siamo nel XXI secolo e questo è uno dei grandi panorami del mondo, e un po' tutti approfittano dell'occasione, è logico. Ma speriamo che ognuno, anche se miscredente, oltre allo smartphone si porti qui, su una vetta non meno mitica del Sinai, una Bibbia tascabile, e si metta a leggere queste poche righe del Deuteronomio, per ricordarsi dov'è, e percepire la solennità del momento: «Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima di Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il Paese...». Cioè la Terra Promessa.
   Ecco, adesso anche noi siamo qui, e vediamo tutto quello che vide Mosè tremiladuecento anni fa. Anzi vediamo pure un po' di più: perché oggi il panorama comprende (almeno nelle giornate più nitide) anche la grande Gerusalemme, dove prima che ci arrivasse il popolo ebraico esisteva solo un villaggetto insignificante, e (di sicuro) invisibile a questa distanza. Comunque, qualora la nebbiolina velasse una parte del panorama - come capita di frequente, ci dicono i locali -, è pure lei una foschia con un suo fascino, quasi ideata per avvolgere il Mito.
   La Bibbia sul Monte Nebo regala un ulteriore colpo a effetto, che Mosè, di certo, avrebbe preferito evitare, ma che è degno di una grande sceneggiatura: «Ti ho fatto vedere il Paese con i tuoi occhi», gli dice Dio, «ma tu non vi entrerai! E Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo». Oggi un cippo segnala dove Mosè esalò l'ultimo respiro, e un'antica basilica marca in senso cristiano il Monte Nebo; grazie al paziente lavoro degli studiosi ne può osservare tutta l'archeologia stratificata, le porzioni più vecchie risalgono al quarto secolo. Ci sono alcune tombe d'antan, e un battistero con un fantastico mosaico. Un'enorme pietra rotonda viene interpretata come la porta d'accesso a un antico monastero.
   Il Memoriale di Mosè sul Monte Nebo è tornato visitabile solo di recente, dopo una chiusura per restauri. Lo hanno riaperto al pubblico nell'ottobre scorso. Adesso è di nuovo possibile fare questo bagno di spiritualità. Poi si può proseguire il viaggio di esplorazione della Giordania, se questo era il nostro scopo, oppure realizzare il sogno di Mosè, fare quello che lui avrebbe voluto ma non ha potuto 3200 anni fa: scendere dal Nebo ed entrare in Israele. Il ponte di Allenby è lì che ci aspetta.

(La Stampa, 16 luglio 2017)


Chi attacca Israele colpisce l'Occidente intero

Lettera a "La Verità"

Senza Israele e la cultura ebraica l'Occidente semplicemente non esisterebbe. Per questo desta sconcerto lo scarsissimo rilievo che viene dato ai vergognosi e infami attacchi terroristici perpetrati contro il popolo ebraico. Ancora una volta i luoghi sacri d'Israele sono sotto attacco e per difenderli è scorso il sangue. I terroristi non hanno alcuna giustificazione e chi si dichiara neutrale ne ha ancora meno.
Francesco Squillante Subbiano (Arezzo)


(La Verità, 16 luglio 2017)


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