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Notizie 16-31 maggio 2015


Israele - Esercitazione annuale per la difesa della popolazione

GERUSALEMME - L'esercito israeliano ha cominciato l'esercitazione annuale destinata a valutare il livello di preparazione e allerta dei diversi sistemi che proteggono la popolazione civile in situazioni di emergenza L'esercitazione Turning Point 15 durera' per tutta la settimana. Martedi' le sirene antiaereo si attiveranno in tutto il Paese per due volte, mattina e pomeriggio, per testare la reazione degli edifici scolastici a un attacco di razzi e poi di nuovo per verificare la preparazione dei residenti. Secondo il Jerusalem Post, l'esercitazione ha lo scopo di preparare sia il settore civile, sia i siti militari "a uno scenario apocalittico senza precedenti". I soccorritori - tra cui polizia, vigili del fuoco e paramedici - prenderanno parte alla simulazione cosi' come i ministeri e 240 consigli locali. Anche l'aeroporto di Ashdod e i porti marittimi di Haifa e Ben Gurion saranno coinvolti nei test. Alle esercitazioni dovrebbero partecipare anche alcuni siti strategici, alcuni dei quali contengono materiali pericolosi.

(AGI, 31 maggio 2015)


Steven Spielberg girerà a Bologna l'adattamento di "Prigioniero del Papa Re"?

di Matteo Tosini

 
The Kidnapping of Edgardo Mortara, dipinto di Moritz Daniel Oppenheim, 1862
Steven Spielberg produrrà l'adattamento cinematografico di "The Kidnapping of Edgardo Mortara", romanzo scritto da David Kertzer arrivato in Italia nel 1997 con il titolo "Prigioniero del Papa Re". L'opera segue la storia di Edgardo Mortara, un bambino ebreo che nell'800 venne strappato alla propria famiglia a Bologna per essere portato a Roma a causa di un battesimo avvenuto in totale segretezza. Tale pratica, proibita dallo Stato pontificio in una famiglia ebrea, spinse il l'Inquisitore di Bologna a portare via il bambino e a guidarlo nella capitale.
Secondo Variety Tony Kushner, già sceneggiatore feticcio di Spielberg (Lincoln, Munich) scriverà l'adattamento del romanzo per il grande schermo.
Inoltre, secondo Repubblica.it la produzione si sarebbe già messa in contatto con la comunità ebraica di Bologna per trovare un possibile candidato che possa sostenere la parte del giovane Edgardo. Due bambini cresciuti in Italia con una vasta conoscenza della lingua inglese avrebbero già sostenuto un provino per il ruolo.
Le riprese, che si terranno maggiormente tra Bologna e Roma, potrebbero iniziare in autunno.
La DreamWorks Pictures e la Weinstein Company si occuperanno della produzione. Basandoci sul tema di tale progetto non è da escludere un possibile coinvolgimento di Spielberg anche nella regia del film.
Qui di seguito la sinossi ufficiale del romanzo (via Amazon):
    La sera del 23 giugno 1858 a Bologna la polizia bussò alla porta della casa di Momolo Mortara, rispettato mercante ebreo. Lo scopo: farsi consegnare il figlio Edgardo di sei anni. Il motivo: all'Inquisitore di Bologna risultava che il bambino fosse stato segretamente battezzato e la legge dello Stato pontificio non tollerava che un bambino cristiano crescesse all'interno di una famiglia ebrea. Tra le proteste della famiglia, Edgardo iniziò un lungo viaggio verso Roma per diventare un buon cattolico. Ma la vicenda (e il suo seguito) non riguardò solo la famiglia Mortara. Mobilitò l'opinione pubblica liberale, indignò le comunità ebrariche, provocò l'entrata in scena del papa Pio IX stesso e finì per influenzare addirittura la storia d'Italia…
(Bad Taste, 31 maggio 2015)


Luzzato, avvocato degli ebrei

Scoperte nuove arringhe difensive del rabbi che sostenne strenuamente il diritto dei correligionari di risiedere a Venezia.

di Giulio Busi

Quante volte l'avrà guardata, l'acqua, entrare lenta, solenne, sottomettersi di buon grado al giogo dei ponti e poi, trascorse sei ore, scivolarsene di nuovo via, verso il grembo largo dell'Adriatico. Al ritmo delle maree, e a certe trasparenze velate di laguna, Simone Luzzato era abituato da sempre. Rabbino, filosofo, scettico, imprenditore e sognatore, e, soprattutto, veneziano. Uno che con in ghetto c'era nato e cresciuto, e dalla sua città non se ne sarebbe andato per nulla al mondo. Un microcosmo, quello ebraico di Venezia, pieno di sapienza e dignità. Quando si trattò di opporsi a chi voleva cacciare questo piccolo avamposto della diaspora, fu proprio lui, rabbi Simone, a impugnare la penna e a buttar giù il Discorso circa lo stato degli hebrei ein particolar dimoranti nell'inclita città di Venezia. Era il 1638, e l'apologia, brillante, fece il suo effetto. Luzzatto fu tanto convincente che, a decenni di distanza, il suo testo veniva ancora usato e citato, anche da nobili cristiani. Gianfranco Miletto e Giuseppe Veltri hanno ora ritrovato, tra le carte dell'Archivio veneziano, una «Renga», arringa difensiva in favore degli ebrei, tenuta nel Senato veneto nel 1659-6o da un Loredan. È sorprendente come il gentiluomo veneziano segua passo passo le ragioni del rabbi. Gli ebrei sono utili alle esauste casse della Serenissima, argomenta la «renga», leali e probi, e troppo impolitici per ribellarsi. «Scazzadi da questi andran profugi ne altri Paesi d'Europpa», teme il Loredan, e porteranno così ad altri i vantaggi della loro operosità. Vuoi per l'imbeccata acuta di Simone Luzzatto, vuoi per l'eloquenza dialettale del senatore filosemita, la comunità giudaica ebbe, ancora una volta, il permesso di restare, più o meno indisturbata.
   Quanto al rabbi, a cui piaceva scrivere in un italiano ampolloso e fiorito di citazioni latine, fece in modo di diventar anziano (morì nel 1663) e, per quanto possibile, saggio. L'aspetto più singolare del Luzzatto filosofo è forse la sua idea di tempo. Non è la permanenzaa distinguere tra vero e falso. I fenomeni passeggeri, i balenii della mente e i detti mutevoli si succedono gli uni agli altri come onde che montano e si frangono. Tutto si rivolge, instabile, vitale. E che dire di «quell'animaluccio e vil insetto che efimero s'appella»? Nasce la mattina e la sera s'estingue, e pure, se potesse, ci racconterebbe di un suo tempo, fatto d'istanti più brevi e più intensi dei nostri, giacché la durata è nozione soggettiva, biologica, esperenziale. Simone Luzzatto gioca un po' a far lui stesso l'«efimero»,inventandosi un personale labirinto di dubbi. Nulla di uumano è certo mentre saldo e certissimo rimane solo Dio. Il suo scetticismo fideistico, al servizio della religione o - se volete - ironia corrosiva di uno che d'acqua sotto ai ponti ne ha vista passar tanta.
   

"Filosofo e Rabbino nella Venezia del Seicento. Studi su Simone Luzzatto con documenti inediti dall'Archivio dl Stato di Venezia", a cura di Giuseppe Veltri, Aracee, Roma, pagg. 517, € 26

(Il Sole 24 Ore, 31 maggio 2015)


I palestinesi combattono con i serpenti

È stata escogitata una nuova forma di lotta, non convenzionale, contro i militari israeliani

Una nuova forma di lotta, non convenzionale, contro i militari israeliani è stata escogitata in Cisgiordania da attivisti palestinesi. Secondo quanto riferisce il sito israeliano '0404', militari impegnati venerdì a sedare disordini nel villaggio palestinese di Silwad (Ramallah) hanno scoperto che un serpente li attendeva (legato con una fune) in una postazione provvisoria da loro utilizzata per ripararsi dai lanci di sassi.
I soldati si sono accorti in tempo del pericolo e sono rimasti incolumi. Ma, aggiunge il sito, fra i loro commilitoni si è diffusa adesso la preoccupazione che questa possa diventare una nuova tattica di lotta. "Non c'è dubbio che in futuro dovremo guardarci anche da pericoli del genere", ha detto al sito un ufficiale della Guardia di frontiera.

(Corriere del Ticino 31 maggio 2015)


Anche gli uccelli smetteranno di volare nel cielo d'Israele

Questo è un libro sull'impostura, quel sospetto che tutti ci affligge di essere le persone sbagliate al posto giusto.

di Alessandro Piperno

 
Eshkol Nevo
Un miracolo triste: è la definizione che anni fa George Steiner diede di Israele, suscitando scandalo, soprattutto in ambito ebraico. Israele è un miracolo triste perché non ha saputo (o non ha potuto?) essere all'altezza dell'utopia di pace, temperanza e sicurezza immaginata dai suoi fondatori. Perché ha costretto gli ebrei allo scandalo di armarsi, formare eserciti, indossare i panni dell'occupante. Perché ha normalizzato il giudaismo, privandolo dell'aura messianica che gli ha consentito di sopravvivere per millenni senza patria e, ancor peggio, senza lingua e costumi in comune.
   A giudicare dai suoi ultimi libri si direbbe che il romanziere israeliano Eshkol Nevo condivida tacitamente il giudizio di Steiner. Sia in Neuland, il libro di un paio d'anni fa, sia in Soli e perduti, il romanzo in uscita in questi giorni, Nevo ha avvertito l'esigenza di immaginare luoghi che non esistono e che in modo parodistico fanno il verso a lsraele e al suo sogno infranto. Ma mentre in Neuland Nevo fondava questa nuova piccola patria ebraica in Sud America, in Soli e perduti il Paese immaginario è Israele stesso. Il quale, a dispetto dell'originale, pullula di cittadine, quartieri e luoghi di pubblico interesse dai nomi fiabeschi: «Città dei Giusti», «Città dei Peccatori», «Città santa», la «Base Segreta-Nota-A-Tutti», «Siberia», e via dicendo. Ora non so dire quanto tale scelta onomastica giovi al romanzo (di norma non amo le astrazioni), né il peso e il ruolo che Nevo le attribuisce. Credo che avesse in mente un apologo sulle mille aporie israeliane: esiste un altro Paese al mondo capace di far convivere (con una certa insofferenza reciproca, a dire il vero) una comunità ortodossa così numerosa e influente e una tanto laica, secolarizzata, edonista? Esiste un Paese altrettanto giovane che possa vantare una storia millenaria?
   Che questo sia uno degli obiettivi di Nevo lo capisci quando Naim, l'arabo con la passione per l'ornitologia, arrestato per sbaglio dai servizi segreti israeliani, decide di emigrare. Alle proteste della madre, alla speranza da lei evocata di una pace sempre più vicina, Naim nsponde: «Non si farà nessun accordo. ( ... ) Uccideranno chi cercherà di fare la pace. Questo Paese è maledetto, non lo capite? Fra poco anche gli uccelli smetteranno di passarci ... ».
   Da uno scrittore amato pretendi che ti trascini senza troppi preamboli nel suo mondo: in Soli e perduti, Nevo ci riesce già dal titolo. Senso di solitudine e sperdimento sono i sentimenti che da sempre affliggono i personaggi di Nevo, sin dai tempi di Nostalgia e de La simmetria dei desideri.
   L'intreccio stavolta è d'una pretestuosa esilità. Un vedovo del New Iersey piuttosto abbiente, di nome Geremia Mendelshtorm, in omaggio alla moglie defunta, finanzia la costruzione di una mikveh, il bagno rituale degli ebrei ortodossi, nella «Città dei Giusti», nel quartiere periferico di «Siberia», pieno di immigrari russi che non spiccicano ancora una parola di ebraico.
   Il romanzo non è che la storia di questa difficile edificazione: intorno a essa agiscono Ben Zuk, l'assistente del vulcanico sindaco Avraham Danino; Naim, il capomastro arabo; Anton e Katia, coppia di russi appena emigrali in Israele; e Danicl, il loro intelligentissimo nipotino.
   Come sempre nelle storie di Nevo non è importante ciò che sta per succedere ma ciò che è già successo. Sono pochi gli scrittori contemporanei in grado di raccontare la tenerezza, forse perché si tratta di un sentimento scivoloso, retorico, ingestibile. Nevo lo fa con la spigliatezza del fuoriclasse. Vuole bene ai suoi eroi: li ascolta, li accudisce, li comprende; talvolta li sfotte bonariamente; di rado li giudica e comunque non ama contrastarli; li lancia a briglia sciolta neI mondo, sperando che alla fine trovino la strada di casa. Intanto loro, sovrastati dal peso del passato, dagli errori, dai torti commessi e subiti, da rimpianti cocenti e vaghe nostalgie, tirano avanti come possono.
   Del resto, non ce n'è uno che si senta al suo posto e che non tinga di essere qualcun altro. A cominciare da Ben Zuk che ama considerarsi un uomo religioso, sebbene in fondo non lo sia, e solo perché odia l'idea di non esserlo: come certi personaggi di Isaac Singer, ha bisogno di conferire uno scopo a una vita che gli scappa da tutte le parti. Proprio come a suo tempo si lasciò scappare la bella e svagata Ayelet e il bambino che lei portava in grembo. Le pagine sulla fuga di Ayelet e sulla conversione di Ben Zuk sono un piccolo prodigio. Per non dire di quelle in cui, dopo sette anni di lontananza, si ritrovano. Poi c'è Nairn, l'arabo perseguitato, che a diciassette anni decide di cambiare il proprio nome in Noarn, perché vuole farsi passare per ebreo. In apparenza lo fa solo per ragioni lavorative, per accedere a commesse più vantaggiose, ma in realtà non ne può più di sentirsi uno straniero in patria, adora l'idea di confondersi con gli altri. Infine c'è Anton, il russo che si è trasferito in Israele malgrado non sia ebreo e malgrado detesti tutto del suo nuovo Paese: «Le canzoni russe a cui avevano appiccicato parole in ebraico. I "religiosnik" con gli abiti caldi in piena estate, gli uomini che bevevano il caffè con il latte, quel cibo arabo, il falafel, che gli ebrei avevano eletto a cibo nazionale». Anche Anton gioca a fare il nonno di un bimbo che non è suo nipote e si scopre migliore come nonno finto che come padre vero. D'altronde, la stessa mikveh, il bagno rituale, si rivela una bufala. Concepito come spazio sacro di purificazione per le donne alla fine del ciclo, prima viene confuso con un circolo di scacchi, poi diventa un luogo di adulterio e di fornicazioni.
   Soli e perduti è un romanzo sull'impostura. No, nessun Tartuffe, nessun conte di Montecristo, nessun Mago di Oz. Gli impostori di Nevo non perseguono obbiettivi criminosi, non hanno nessuno da turlupinare, né sono animati da smanie di vendetta. L'impostura non è altro che il sospetto, che tutti ci affligge, di essere la persona sbagliata al posto giusto.
   
(Corriere della Sera, 31 maggio 2015)


Le pensioni agli ex-nazisti negli Stati Uniti

Almeno 130 sospettati di crimini di guerra hanno ricevuto un totale di 20 milioni di dollari, spesso in cambio della rinuncia alla cittadinanza americana.

Il direttore dell'Agenzia per i servizi sociali degli Stati Uniti (l'equivalente della nostra INPS), ha detto che nel corso degli ultimi decenni più di 130 ex nazisti hanno ricevuto un totale di 20 milioni di dollari in pensioni e altri sussidi pagati dai contribuenti americani. L'agenzia dovrebbe pubblicare a breve un rapporto più approfondito sul caso, ma già ora si sa che almeno un quarto della cifra totale, più di 5 milioni di dollari, è stato dato a individui colpevoli di crimini di guerra o espulsi dagli Stati Uniti, mentre gli altri quindici sono stati elargiti a persone mai condannate, ma che comunque hanno aiutato il partito nazista negli anni dell'Olocausto.
   Tra di loro ci sono diversi paramilitari delle SS addetti alla sorveglianza armata dei campi di concentramento, uno scienziato impiegato nel settore missilistico dove venivano utilizzati prigionieri di guerra ed ebrei come schiavi e un collaboratore non membro delle SS che però aiutò nell'organizzare l'arresto e l'uccisione di migliaia di ebrei in Polonia.
   L'agenzia ha dovuto comunicare questi dati a causa della forte pressione alla quale era stata sottoposta pochi mesi fa da un'inchiesta di Associated Press. Nell'autunno del 2014 un gruppo di giornalisti dell'agenzia scoprì una serie di documento che mostravano come il dipartimento di Giustizia americano avesse fatto degli accordi con diversi criminali nazisti. Il dipartimento prometteva di utilizzare un cavillo legale per continuare a pagare le loro pensioni, ma gli ex nazisti in cambio avrebbero dovuto accettare di abbandonare il paese e rinunciare alla cittadinanza americana.
   In questo modo il dipartimento di Giustizia si risparmiava i complessi processi agli ex-nazisti che intanto avevano ottenuto la cittadinanza americana. Contemporaneamente, l'unità del dipartimento che si occupava di trovare gli ex nazisti (l'Ufficio per le indagini speciali, OSI) poteva mostrare statistiche positive che indicavano il numero di nazisti costretti ad abbandonare il paese. A quel punto gli ex nazisti diventavano il problema di un altro paese, che in genere - hanno scritto i giornalisti di AP - presentava lamentale molto dure nei confronti degli Stati Uniti (la pratica di liberarsi in questo modo degli ex criminali di guerra è conosciuta come "scaricare i nazisti").
   Uno dei primi casi scoperti dai giornalisti di Associated Press è stato quello di Jakob Denziger, una ex guardia del campo di sterminio di Auschwitz, che dopo aver firmato un accordo con il dipartimento di Giustizia volò fino alla Germania occidentale e da lì si spostò in Croazia dove vive tuttora. La sua cittadinanza americana, come da accordi, venne revocata soltanto dopo che si era sistemato nel suo nuovo paese. Secondo le indagini di Associated Press, in tutto quattro degli ex nazisti che hanno firmato questo tipo di accordi sono ancora vivi. Oltre a Denzinger, l'altro di cui si conosce il nome è Martin Hartmann, che lavorava come guardia nel campo di concentramento di a Sachsenhausen.

(il Post, 31 maggio 2015)


L’ambasciata Usa in Israele mette all'asta oggetti usati

La sede dell'ambasciata Usa a Tel Aviv
In vendita mobili, divani, computer, ma anche una moto e un’utilitaria.

TEL AVIV - Gli israeliani che sognano di concedersi lussi da ambasciatori possono realizzare in parte i loro desideri grazie ad un'asta senza precedenti dell'ambasciata Usa di Tel Aviv che ha messo in vendita mobili usati, poltrone, divani, computer, stampanti, lavastoviglie nonchè una moto e una utilitaria. Entrando nel sito gli israeliani possono avanzare le proprie offerte. Fra due settimane l'ambasciata pubblicherà la lista dei vincenti.

(ANSA, 31 maggio 2015)


A Milano l'ottava edizione di Nuovo Cinema Israeliano

Dal 7 all'11 giugno 2015 presso Spazio Oberdan di Milano, Fondazione Cineteca Italiana ospita l'VIII EDIZIONE DEL NUOVO CINEMA ISRAELIANO.

Il 2015 per la nostra città non è un anno come tutti gli altri: la presenza di EXPO allarga i confini metropolitani a una dimensione internazionale e multiforme. NUOVO CINEMA ISRAELIANO è uno degli eventi cittadini che fanno da cornice all'esposizione e offre a una platea in cerca di novità le ultime proposte cinematografiche israeliane: film di qualità, ma non solo.
  Durante i cinque giorni di programmazione sono previsti incontri e presentazioni di libri: La dieta Kasher a cura di Rossella Tercatin e Svita di Luciano Bassani. Il popolo del libro diventa poi anche il popolo del libro digitale: dai rotoli ai file il passo è breve. Verrà, infatti, presentata la nuova casa editrice digitale Tiqqun - di letteratura esclusivamente ebraica ed israeliana - con le sue due proposte Ladri nella notte di Arthur Koestler e Life on Mars di Fiammetta Martegani.
  Come di consueto, la rassegna filmica prevede lungometraggi, documentari e una sezione dedicata a percorsi ebraici familiari italiani.
  Si apre con Life as a Rumor di Adi Arbel e Moish Goldberg, che narra la storia di Assi Dayan, figlio di Moshe Dayan, regista, attore e protagonista di vicende di ogni genere, scomparso di recente. Fra i lungometraggi, segnaliamo Bethlehem di Yuval Adler, storia di un ragazzo palestinese reclutato per collaborare con i servizi segreti israeliani. Sempre tra i lungometraggi, Big Bad Wolves di Aharon Keshales e Navot Papushado, un thriller dai toni un po' pulp con protagonista un poliziotto in pensione che si fa giustizia da solo. The Good Son di Shirly Berkovitz, invece, affronta il difficile argomento dell'identità sessuale in toni delicati e intimi.
  Ricordiamo ancora: Magic Man di Guy Nattiv e Erez Tadmor, la storia di un ebreo greco che torna a Salonicco e Santorini sulle tracce di colui che salvò il padre durante la Shoah; Next to Her di Asaf Korman, in cui si racconta la vicenda di Heli e della sorella Gaby, portatrice di handicap; Matzor di Gilberto Tofano, noto sceneggiatore italiano, bellissimo film realizzato in Israele nel 1969 e qui proposto anche perché segna il lancio del progetto di restauro di questa pellicola di altissimo valore. Matzor è la storia di Tamar, vedova di guerra, e del suo percorso per uscire dal dolore della perdita del marito.
  Vengono poi presentati due episodi originali della serie televisiva israeliana Betipul di Hagai Levi, grande successo in Israele e adattata per la televisione in vari paesi, tra cui l'Italia, col titolo In Treatment, incentrata sugli incontri di uno psicologo con i suoi pazienti.
A conclusione, per la sezione dedicata alle vicende familiari nel nostro paese, tre pellicole da non perdere: il prezioso film di Claudio Della Seta, La memoria che ritorna girato negli anni Venti; un divertente cortometraggio, Felice nel Box, con attori che vi sorprenderanno, della giovane regista Ghila Valabrega, su un curioso ritrovamento; e infine The Tree of Life di Hava Volterra, il viaggio di un'arzilla ottantaduenne alla ricerca dei propri antenati ebrei.

(cinemaitaliano.info, 31 maggio 2015)


La nazionale di Judo israeliana umiliata in Marocco dagli antisemiti

"Vi uccideremo tutti" e "Non vi vogliamo qui" sono solo alcune delle frasi che si sono sentiti rivolgere i membri della squadra israeliana di Judo durante i mondiali svoltisi lo scorso week-end a Rabat in Marocco. Per gli atleti israeliani i problemi sono cominciati già prima dell'arrivo in Marocco: lo Shin Bet infatti aveva annunciato alla delegazione giunta all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv che i suoi uomini della sicurezza non avrebbero accompagnato la squadra e hanno consigliato di cancellare la loro partecipazione alla competizione...

(Progetto Dreyfus, 29 maggio 2015)


Isis vuole attaccare Eilat

di Graziella Giangiulio

Il porto di Eilat
GERUSALEMME - Fonti israeliane sostengono che l'organizzazione di Isis "in Sinai" andrà a Eilat. A riportare la notizia è stata la testata eremnews.com.
   In un rapporto israeliano si afferma che i leader dell'organizzazione nel Sinai avevano contattato le loro controparti in Gaza, e che effettueranno attacchi contro il porto di Eilat e contro la sede di appartenenza alla Brigate "Qassam".
  Sostanzialmente ISIS-Egitto ha intenzione di espandersi a "Eilat". In quell'area c'è un gruppo di fedeli a Daash che, prima del giuramento si chiamavano "Ansar Gerusalemme" e ora fusi in Daesh minacciano di lanciare attacchi contro il porto di Eilat e la Striscia di Gaza. sempre nel rapporto si legge che fino ad ora le operazioni di ISIS-Sinai si erano concentrate contro lo stato egiziano. Un rapporto del sito (Walla), testata giornalistica israeliana, sostiene che anche fonti arabe hanno informazioni al riguardo. Inoltre via social, da tempo circolano documenti che parlano della fine di Hamas. Del taglio dei finanziamenti dell'Iran ad Hamas. E ancora via social account affiliati allo Stato Islamico dicono che il leader di Hamas è vivo e stia trattando con ISIS. Fonti non verificabili. Secondo la testata israeliana
  I leader dell'organizzazione nel Sinai avevano contattato le loro controparti nella Striscia di Gaza di recente, e sono in fase di attuazione di attacchi simultanei contro il porto di Eilat e contro la sede di appartenenza alla Brigate "Qassam" l'ala militare di Hamas nella Striscia di Gaza. Il leader del gruppo si chiamerebbe "Abu Usman Musli" e avrebbe postato dal suo account personale Facebook note sul reclutamento «ha cominciato a reclutare nuovi combattenti tra appartenenti al jihad in corso in Egitto, e tra i sostenitori dei Fratelli Musulmani» e che l'obiettivo è quello di lanciare attacchi contro gli obiettivi di esercito e polizia in Egitto, nonché appartenenti alle Izz el-Deen al-Qassam di obiettivi di Hamas. Il leader, via facebbok, ha sottolineato che l'esercito egiziano ha aumentato i controlli, di recente, nel nord del Sinai, nel tentativo di prevenire le operazioni terroristiche effettuate dall'organizzazione, e che due settimane fa è riuscito a eliminare i sette membri dell'organizzazione, utilizzando gli elicotteri "Apache", sulla scia dei tre giudici egiziani uccisi dall'organizzazione. ISIS ha pubblicato sui canali you tube un video in cui chiede agli egiziani aderenti a ISIS di uccidere i giudici egiziani.

(agc, 31 maggio 2015)


Palestina e povertà: possibile che nessuno si chieda che fine fanno i soldi?

Ancora ieri il Presidente della ANP (Autorità Nazionale Palestinese), Abu Mazen, piangeva miseria di fronte al Re di Giordania e si lamentava della scarsa cooperazione economica da parte del Governo israeliano. Una litania che ormai il "nano malefico" ripete a memoria senza però mai spiegare a nessuno che fine facciano le centinaia di milioni di dollari in aiuti che arrivano a pioggia sulla Palestina e senza nessuno che si azzardi a chiederglielo.
Qualche mese fa la nostra organizzazione si è mossa in seno all'Unione Europea per cercare di avere un quadro preciso in merito agli aiuti elargiti alla Palestina dopo che diverse denunce, non ultima quella della Corte dei Conti Europea, avevano denunciato la scomparsa di un mare di soldi. La risposta che abbiamo avuto è stata del tutto elusiva e poco circostanziata e nella sostanza ci dice quanto hanno dato alla Palestina ma non dove siano finiti i soldi dato che dei progetti menzionati dall'Unione Europea non vi è traccia in Cisgiordania....

(Right Reporters, 31 maggio 2015)


L'inconfessabile «patto» tra Obama e Al Qaeda

In cambio no attentati. Washington non fa nulla per fermare Al Nusra. Si è affidato alla strategia degli alleati del Golfo, che più che sconfiggere l'Isis vogliono abbattere Assad.

CARLO PANELLA - E' sconfortante dare anche solo un'occhiata distratta alla carta del Medio Oriente a un anno dalla proclamazione del Califfato di Abu Bakr al Baghdadi. L'unica cosa certa è che si è avverato il lapsus di Barack Obama che in quell'occasione, ai giornalisti che gli chiedevano cosa avesse in mente di fare per combattere la ferocia califfale, rispose: «Non abbiamo una strategia». Passate poche settimane, il presidente americano varò una Coalizione, di cui è parte anche l'Italia, e diede da intendere di avere poi elaborato una strategia. Ma in molti scuotemmo la testa quando Obama spiegò i due capisaldi della sua azione anti califfale: perno solo sull'esercito iracheno (che non esiste e non combatte) e no "boots on the ground" degli occidentali in Iraq. Quanto alla fondamentale Siria... Nulla! Obama doveva stabilire se combattere il Califfato al fianco di al Assad o combattere anche contro di lui. Non ha deciso. Risultato: il Califfato è avanzato come uno schiacciasassi in Iraq e in Siria, si è radicato in una Libia in cui non esisteva (dall'aeroporto di Sirte conquistato venerdì si arriva a Palermo in mezz'ora) e al Qaeda si è tanto rafforzata in Siria, da avere conquistato anche lei un suo Stato, di grandi dimensioni. Difficile credere che Obama volesse raggiungere questi risultati, ma siccome non ha fatto nulla per impedire questo disastro, nonostante gli evidenti indizi che stava per maturare, sorge il terribile sospetto che in fondo in fondo alla Casa Bianca vada bene così. Che non avverta la catastrofe imminente. Che accetti o subisca passivamente la strategia dei tre suoi alleati storici in Medio Oriente, Arabia Saudita, Qatar e Turchia che hanno formato una alleanza tra le milizie che hanno foraggiato in Siria con al Nusra (denominazione di Al Qaeda in Siria) che sta infliggendo sconfitte forse decisive ad Assad. Pare insomma che per interposti alleati islamici, Obama e al Qaeda vadano quasi di concerto. In parallelo. Ipotesi pazzesca, ma confortata da un dato di fatto indiscutibile: l'aviazione Usa non ha dato il minimo fastidio da mesi ad al Nusra per bloccare o rendere più difficile la loro avanzata. Una scelta rilevata e criticata con parole di fuoco dal regime di Damasco.
   In questo quadro che ha del patologico, non stupisce che il leader di al Nusra, il misterioso al Golani, faccia chiare profferte politiche ad Obama: «Voi americani ci lasciate abbattere Assad senza bombardarci e noi di Al Qaeda non facciamo attentati in Usa e in Europa».
   Insomma, Al Qaeda fa politica, mentre Obama non fa nulla, tranne mandare 14 misere missioni aeree al giorno (in Libia contro Gheddafi erano centinaia) a bombardare vuoi l'Iraq, vuoi la Siria.
   Un nulla che rischia di avere conseguenze epocali se e quando, forse presto, Assad sarà costretto ad abbandonare una Damasco già pesantemente sotto assedio e a ritirarsi nella regione natia degli alawiti, attorno a Latakia, nel nord ovest della Siria. Avremo allora una Siria che replicherà in peggio la Libia. Al Nusra, con le spalle coperte da Ankara e Ryad, tenterà di imporsi e di allargare il suo Stato sino alla conquista di Damasco. Così farà anche il Califfato. E gli iraniani probabilmente faranno di tutto, manovrando Hezbollah libanese e i Pasdaran, per impedire che Damasco cada sotto il dominio degli uni o degli altri. Un caos, che contagerà il Libano, da sempre, storicamente, propaggine politica della Siria. A quel punto potremo cancellare dalla carta geografica ben 5 stati arabi, che si saranno disintegrati in pezzi: Siria, Libano, Iraq, Yemen e Libia. Risultato perfetto per Al Qaeda, per il Califfato, per la Turchia e per l'Arabia Saudita che tenteranno di estendervi la loro egemonia.
   E' questo che vuole Obama? Probabilmente no. Ma è più che sospetto che non faccia assolutamente nulla per evitare il disastro. Sospetto che può essere fugato solo da una affermazione scabrosa: Obama non ha la più pallida idea di quanto sta avvenendo in Medio Oriente, perché vive una realtà parallela.
   Come se fosse autistico. Saremmo cioè passati dall'imperialismo, all'autismo americano.
   
(Libero, 31 maggio 2015)


I membri del Gaza Surf Club corrono in spiaggia con la tavola da surf sotto al braccio

di Sabika Shah Povia

 
A Gaza c'è un gruppo di una trentina di giovani palestinesi che si reca regolarmente in spiaggia con la tavola da surf sotto al braccio. Sono i membri del Gaza Surf Club, nato nel 2008 grazie agli sforzi dell'ong americana Explore Corps.
Attraverso il surf, questi abitanti di Gaza possono rilassarsi, mettersi alla prova, divertirsi e esplorare la loro piccola fetta di Mediterraneo.
Il gruppo è composto principalmente da maschi, visto che la maggior parte delle donne musulmane di Gaza non indosserebbe un costume da bagno.
Le poche ragazze che fanno parte del gruppo hanno meno di 16 anni, dopo i quali sarebbero considerate troppo adulte per stare su una spiaggia senza attirare attenzioni, e per surfare indossano un burkini, un costume da bagno per donne musulmane che copre il corpo intero.

(The Post Internazionale, 30 maggio 2015)


Ciclopasseggiata nella Ferrara ebraica

Appuntamento e partenza domenica 31 maggio presso Il Mercatino del Libro e del Fumetto

Una ciclopasseggiata in cerca dell'ebraismo ferrarese è necessariamente una ricerca intorno agli uomini e alle cose che degli uomini conservano il ricordo, tracce, memorie, miti che, tutti appartenenti al passato, nell'intenzione di Alessandro Gulinati servono a decifrare il presente e rappresentano risorse aperte al futuro. Dopo la Festa del Libro ebraico e la lunga gestazione dell'ambizioso progetto di Museo Nazionale dell'Ebraismo e della Shoah proprio qui a Ferrara, parlare di ebraismo, antigiudaismo, Romanza di Ferrara, rabbini, libri e Talmud potrebbe risultare retorico oppure ridondante.
   Il fatto è che rendere omaggio a Giorgio Bassani, visitare i luoghi della sua vita, educazione, apprendistato letterario e civile, soffermarsi sulla sua tomba, ripetere insieme le parole del suo Romanzo, i versi delle poesie, rievocarne lo sguardo arguto e critico, è un esercizio forse spirituale, certamente sempre di forte impatto emotivo.
Per queste ragioni ancora una volta e spera per molte altre volte ancora Alessandro Gulinati propone a ferraresi e turisti di ripercorrere le strade della città storica e dentro le sue mura scoprire i luoghi di una cultura altra, quella ebraica, differente dalla maggioranza cristiana, eppure ad essa accomunata da molteplici punti di contatto, da frizioni, da radici comuni, simili laicismi e destini ora paralleli ora convergenti.
   Nel corso della ciclopasseggiata oppure con partenza da Il Mercatino del Libro e del Fumetto in via Saraceno, 32, domenica 31 maggio alle ore 15.30, saranno molti i nomi di ferraresi di nascita e di adozione che verranno ricordati insieme alle loro storie, all'eredità ricca con la quale hanno lasciato la nostra città.
   Memorie antiche, quelle di ebrei spesso senza nome, vissuti nelle case vicino al fiume della città medioevale, ebrei noti nel mondo come Giorgio Bassani e Isacco Lampronti, altri ancora le cui esistenze furono segnate da contraddizioni in un'epoca rude, quella del Novecento e delle due guerre mondiali: Renato Hirsch, resistente e prefetto del Cln accusato di perseguitare i fascisti sconfitti, e Renzo Ravenna, podestà del regime, intimo amico di Italo Balbo.
   Poi figure diverse, tutte forse eccentriche rispetto alle prevalenti normalità cristiana del passato e a quella borghese dei nostri tempi, Abramo Colorni ovvero "Il prestigiatore di Dio" secondo la felice definizione di Ariel Toaff nell'omonimo volume che di questo ebreo mantovano, divenuto stipendiato del duca Alfonso II, ricostruisce avventure e scoperte scientifiche, Gianfranco Rossi, il cantore delle piccole cose, dei gatti, delle tartarughe, dei sentimenti di confine, di una ferraresità minuta eppure universale, Beatriz de Luna, marrana e cosmopolita figura femminile del XVI secolo, i doviziosi e dotti esuli portoghesi-napoletani Abravanel tra i quali Leone, autore dei neoplatonici Dialoghi d'Amore, Abrahm Usque l'autore della Bibbia di Ferrara e poi Vittore Veneziani, Ciro Contini, la famiglia Cavalieri e quanti altri nomi, luoghi, cose che dal passato riaffiorano per scoprirsi parte integrante della storia della nostra città e più in generale dell'Occidente.
   In questo Ferrara, è la tesi che con maggior forza propone Gulinati, curatore dell'itinerario, è davvero una città mediterranea, antico porto, che dal mare e dalla convergenza di occidente ed oriente trae la propria linfa vitale e scopre la sua più vera identità. Appuntamento domenica pomeriggio alle ore 15.30 presso il Mercatino del Libro e del Fumetto, via Saraceno, 32.
Il costo per la partecipazione alla ciclopasseggiata è di euro 6 per gli adulti, 4 euro per gli studenti e i soci di Pro Loco Ferrara. Partecipazione gratuita per i ragazzi fino a 14 anni.

(estense.com, 30 maggio 2015)


Wakeboard a Tel Aviv: le foto dal Cable Wakeboard World Council

Sapevi che Tel Aviv significa letteralmente "Collina della primavera"? Sapevi che è il principale centro economico di Israele? Ma soprattutto: sapevi che spesso e volentieri si organizzano manifestazioni di wakeboard? Puoi direttamente verificare con i tuoi occhi nelle foto qua sotto, che hanno per protagonista il rider Protest Age "Golden Age" Methorst, che ha ottenuto un ottimo quinto posto alla tappa israeliana del tour del Cable Wakeboard World Council (CWWC). E se hai voglia di estate, ecco le foto giuste per te.
CWWC organizza ogni due anni il campionato mondiale di cable wakeboard, e negli altri anni (tipo il 2015, dato che l'ultima edizione si è tenuta l'anno scorso) prepara tour mondiali con i propri atleti.

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Atleti come il giovane Age, già conosciuto dai più con il nomignolo di Golden Age. Viene da Barneveld - in Olanda - e ha appena sedici anni. Ma è già un pro rider che gira il mondo per dare dimostrazione del proprio imbattibile stile su una tavola da wakeboard.
Age ha già all'attivo numerose vittorie, e anche nella tappa di Tel Avivi del CWWC Tour ha saputo dimostrare di che stoffa è fatto, sottolineando immediatamente lo stile e la grinta che lo contraddistinguono e che gli hanno permesso di farsi rapidamente notare dalla scena wakeboard.

(news.mtv.it, 30 maggio 2015)


Le Scuole Ruini premiate dal Museo Ebraico "Fausto Levi Z.L."

PARMA - Domenica 7 giugno 2015, alla presenza delle Autorità, si svolgerà presso il Museo Ebraico "Fausto Levi z.l." di Soragna la premiazione della V edizione del concorso per le scuole "Shevilim - percorsi di studio e di approfondimento della cultura ebraica". Tante le scuole che anche quest'anno hanno partecipato con lavori di gruppo o individuali, ricerche presentate su creativi cartelloni o su supporti digitali. La Commissione giudicatrice ha deciso di premiare la Scuola Secondaria di primo Grado Francesco Ruini, Istituto Comprensivo Sassuolo 3o sud di Sassuolo (MO), responsabili gli inss. Alessandra Gibellini e Nario Innella, per l'elaborato Shalom estratto dallo spettacolo omonimo; la Classe IVA dell'Istituto Superiore Tramello-Cassinari, responsabile il prof. Giuseppe Pighi, per il progetto Cimitero Ebraico di Fiorenzuola, restauro di una lapide.
Verrà inoltre conferita una menzione speciale alla classe 2aA della scuola Secondaria di Primo Grado di Felino Dell'I.C. Loris Malaguzzi di Felino, per l'elaborato Esploriamo il Kosher, responsabile l'insegnante Sr. Maria Luisa Zavaroni.
"L'iniziativa è giunta ormai alla quinta edizione e con il tempo l'interesse riscosso non accenna a diminuire, anzi ogni anno la commissione giudicatrice si trova con piacere a valutare elaborati sempre più complessi e strutturati", commenta il Presidente della Commissione giudicatrice nonché Presidente della Comunità Ebraica di Parma Giorgio Yehuda Giavarini. "E questo è il forte segno che, a dispetto delle violenze che si abbattono ancora oggi sul popolo ebraico, la sua cultura millenaria suscita interesse, curiosità e costituisce un ambito di rilievo per la didattica delle scuole di ogni ordine e grado". Il bacino di utenza della manifestazione inoltra si allarga ogni anno di più, andando a coinvolgere non solo le scuole della Provincia di Parma ma anche quelle delle provincie più prossime.
Quest'anno la cerimonia di premiazione degli elaborati più meritevoli si svolgerà domenica 7 giugno p.v. alle ore 15.30 presso il Museo Ebraico di Soragna e sarà seguita dalla presentazione del libro "La coraggiosa storia di Camillo Treves", la storia di un ebreo partigiano raccontata dai suoi familiari; gli intermezzi musicali saranno curati dal Mo Riccardo J. Moretti.

(Bologna2000, 30 maggio 2015)


Una sofisticata crudeltà

Goebbels, il più abile psicologo di sempre. Una biografia racconta il nazista che aizzava le masse.

di Giulio Meotti

Joseph Goebbels
Ai suoi comizi arrivava puntualmente in ritardo: "Aumenta la tensione, così mi ascoltano di più". E a chi lo rimproverava perché ci andava in taxi, Joseph Goebbels rispondeva: "Lei non ha la minima idea di che cosa sia la propaganda. Avrei dovuto arrivare con due taxi: uno per me, l'altro per la mia borsa". Durante una manifestazione, prima di presentare Hitler al pubblico festante, si era accorto che il sole stava per farsi strada fra le nubi. Regolò così la lunghezza del proprio discorso in modo che la "luce di Dio" inondasse Hitler nel momento in cui saliva sul podio. La sera stessa, al Club degli artisti, si vantò con un gruppo di registi di essersi "servito del sole".
   Fu un genio moderno, il "dottor Goebbels", che di sé diceva di considerarsi "l'uomo meglio e più informato del mondo". Alasdair MacIntyre, filosofo morale scozzese, già professore di Filosofia a Boston e in altre università americane, lo ha definito "il più abile psicologo di tutti i tempi". Fu il primo comunicatore moderno. Il più grande pubblicitario mai esistito.
   E' di Goebbels la massima secondo cui "una menzogna ripetuta all'infinito diventa la verità". Sua l'idea di un appello al cuore, nell'interesse della menzogna, per poter manipolare l'opinione pubblica. "L'arte della propaganda", diceva, "consiste precisamente nella capacità di sollecitare la fantasia del pubblico con un appello ai sentimenti, nel trovare la forma psicologicamente appropriata che attirerà l'attenzione e toccherà il cuore delle masse della nazione".
   Di Goebbels l'idea di far firmare l'armistizio con la Francia, nel 1940, nella foresta di Compiègne, sullo stesso vagone ferroviario su cui nel 1918 i tedeschi avevano firmato la propria resa. Di Goebbels l'idea di pubblicare un articolo sull'invasione della Gran Bretagna, passarlo ai giornalisti stranieri per poi farlo ritirare dalle edicole come se fosse stato sequestrato. Di Goebbels l'idea di distribuire ai giornali tedeschi gli oroscopi firmati Nostradamus, in cui si prevedevano per i nemici sconfitte, lutti e catastrofi.
   Adesso una biografia del maggiore storico del nazismo, Peter Longerich, mille pagine pubblicate da Random House, racconta come mai prima Goebbels nella sua interezza. Longerich rifiuta il ritratto convenzionale del ministro della Cultura e della Propaganda come di un opportunista cinico. Colpito a quattro anni dalla polio e sottoposto ancora bambino a un intervento chirurgico che lo lascerà claudicante ("il diavolo zoppo"), Goebbels aveva il fisico del ruolo. Era gracile, esile, con una grossa testa e un volto scavato, una voce bellissima, una vasta cultura e un sarcasmo sempre a portata di mano. La gente accorreva a sentirlo, e lui riusciva a infondere nel pubblico sentimenti diversi tra loro, come la commozione, l'odio, l'entusiasmo. Sul palco trascinava persino i militanti nazisti sanguinanti per via degli scontri di strada con comunisti e socialdemocratici.
   Era follemente attratto da Hitler, al punto da dare a ciascuno dei sei figli un nome con la lettera "h" iniziale:
   Helga, Hildegard, Helmut, Holdine, Hedwig e Heidrun. Quasi tutti i principali funzionari del regime nazista fuggirono dalla capitale mentre le truppe sovietiche avanzavano, e anche i vertici cercarono di salvare le loro vite mentre il Terzo Reich crollava. Heinrich Himmler, sperando di passare inosservato tra i milioni di soldati sconfitti della Wehrmacht, venne catturato e identificato. Hermann Göring e Albert Speer si arresero agli Alleati. Goebbels fu l'unico membro del cerchio più intimo di Hitler a resistere nel bunker e l'unico che trascinò tutta la sua famiglia verso la morte.
   Estese il proprio dominio anche sulla letteratura, bruciando in piazza i libri proibiti ed espropriando le case editrici. Ma scriveva come un ossesso, Goebbels. Fra il 1924, quando si affacciò alla vita politica, e il 1945, quando volle morire a Berlino ormai spacciata sotto l'incalzare dell'Armata Rossa, tenne un diario furente e sferzante di migliaia di pagine. Di notte, dettava per ore allo stenografo un ritratto di se stesso, destinato ai posteri. E non mancava di annotare, poiché si pesava prima e dopo, di quanto era calato al termine di un discorso importante.
   Dopo appena qualche anno di scuola, il piccolo Goebbels passava gran parte del tempo divorando libri confusamente. Nella natia Rheydt, una città della Renania, era il primo della classe. I genitori, cattolicissimi, volevano farne un sacerdote, ed egli non era contrario. In seguito pensò di diventare maestro, infine riuscì a laurearsi in Filosofia. Scriveva romanzi, drammi, articoli. Li mandava agli editori e ai giornali, ma gli venivano restituiti. Senza la politica forse sarebbe diventato uno scrittore.
   Fu sempre ingordo di onori, di potenza, di denaro, di donne. Seppe valersi per questo di ogni mezzo: il libro e il cinema, la radio e la musica, la stampa e il turismo. Riuscì a conquistare scrittori, filosofi, scienziati, intellettuali. "E' bello esercitare il potere con i fucili, ma meraviglioso è conquistare il potere sui cuori e sui cervelli", diceva. Il trionfo di Goebbels sul piano dell'organizzazione coincise con l'ascesa prima a ministro della Cultura e Propaganda e poi con la creazione della Camera della cultura del Reich, l'organismo che doveva irreggimentare tutte le attività culturali e connesse, sino agli strilloni dei giornali e ai venditori di cartoline illustrate. Sempre sua l'idea di mettere all'indice illuminati spiriti della cultura moderna, da Adorno a Brecht, da Einstein a Freud, da Hemingway a Kafka, ai fratelli Mann.
   Diede molta importanza al cinema.
   Fece produrre uno spezzone in 3D: era il 1936, molto prima che Hollywood lanciasse quella tecnica. Ma fu geniale soprattutto nel comprendere come i film politici alla Leni Riefenstahl fossero a malapena tollerati dal pubblico, che preferiva la commedia o il dramma storico. E allora iniziò una produzione hollywoodiana, in cui i contenuti fondamentali dell'etica nazista venivano diluiti nei facili luoghi comuni.
   Goebbels sostenne fra l'altro una letteratura d'evasione "per le donne sole in casa e per i soldati al fronte". Longerich lo descrive come "uno scrittore frustrato e un giornalista occasionai e, con un dottorato in letteratura, dal carattere lunatico". Vanitoso, possedeva cento paia di scarpe, decine di apparecchi per il sole artificiale, collezioni preziose in ogni camera dei suoi appartamenti. Scrisse persino un feroce attacco contro le grasse, disadorne mogli dei Gauleiter provinciali, invitandole al lusso per incrementare l'industria tedesca dell'abbigliamento, dei cosmetici, dei profumi. Frequentava i teatri di prosa, controllava le sceneggiature, consigliava soggetti e suggeriva modi e temi d'espressione.
   Era ossessionato dalla "questione ebraica". Fin dall'inizio vide gli ebrei, sia in patria sia all'estero, come una fonte di disgrazie per la Germania. Nel marzo 1942 scriveva: "Non ci deve essere sentimentalismo su questo". Sulla distruzione degli ebrei. Fu lui a ispirare, con i discorsi alla radio, le prime campagne e le violenze antisemite culminate nel 1938 nel pogrom della "Notte dei cristalli".
   C'è persino chi ha indicato in Goebbels il padre delle moderne campagne salutiste, con la guerra al fumo nei luoghi di lavoro e negli uffici governativi, negli ospedali e sui treni e autobus delle città che fecero del nazismo uno stato all'avanguardia nella prevenzione delle malattie (sebbene il dottore non sia mai riuscito a rinunciare al tabacco).
   E' ancora di Goebbels l'idea di usare la pedofilia come arma, ampliata ad arte per creare "un panico morale", per screditare la chiesa cattolica. Fu un gesuita tedesco, Walter Mariaux, a pubblicare le istruzioni che Goebbels inviò, pochi giorni dopo la pubblicazione dell'enciclica di Pio XI "Mit brennender Sorge" ("Con viva preoccupazione") con cui il Papa condannava l'ideologia nazista, alla Gestapo e soprattutto ai giornalisti invitati a "riscoprire i casi giudicati nel 1936 e anche episodi più antichi, riproponendoli costantemente all'opinione pubblica".
   Di Goebbels il grande rogo di libri che avrebbe anticipato quelli islamisti decenni più tardi. "Contro la lotta di classe e il materialismo! Per l'unità del popolo e una concezione idealista della vita! Getto alle fiamme gli scritti di Marx e Kautsky". E poi: "Contro il tradimento letterario nei confronti dei soldati della Grande guerra! Per l'educazione del popolo in uno spirito sano! Getto alle fiamme gli scritti di Erich Maria Remarque". E ancora: "Contro la sopravvalutazione della vita sessuale, corruttrice degli spiriti! Per la mobilitazione dell'animo umano! Getto alle fiamme gli scritti di Sìgmund Freud". Le vittime di Goebbels furono tante e illustri, da Heinrich e Thomas Mann a Stefan Zweig, da Lion Feuchtwanger a Werner Hegemann e Emil Ludwig.
   Il 10 maggio 1933, sull'Opernplatz di Berlino, oggi Bebelplatz, furono bruciati 18 mila libri. Opere classiche e moderne, frutto di ricerca e di fantasia, furono annientate. I loro autori furono additati alla pubblica esecrazione e le biblioteche, in dieci giorni, furono ripulite di più di tremila titoli. Mentre Goebbels parlava, giovani gettavano in un enorme falò libri e riviste prelevate dalla vicina Università Humboldt, una culla della cultura tedesca.
   Fu di Goebbels la decisione di "vendere" all'opinione pubblica tedesca l'eutanasia di massa di decine di migliaia di malati e disabili tramite un film, "Ich klage an" ("lo accuso"). La storia è tutta avvolta nel privato, non compaiono mai gerarchi o segni nazisti. Hanna è una giovane donna appassionata che scopre di essere affetta da sclerosi multipla. Quello che più la tormenta è il pensiero che Thomas, marito e medico, conserverà di lei. Il film, diretto da Wolfgang Liebeneiner e prodotto in collaborazione con il ministero della Propaganda, è girato completamente in interni e si basa sui rapporti di amore, amicizia, fedeltà, devozione, onore, nella piccola comunità di amici e parenti che ruota intorno alla protagonista. Hanna prega l'amico Bernhard, anche lui medico, di aiutarla a morire, ma la risposta è negativa. Il marito, invece, dopo aver cercato nel suo laboratorio una cura per guarirla, acconsentirà a somministrarle la morfina, stringendola tra le braccia fino all'arrivo della fine. Quando Bernhard lo saprà, griderà in faccia all'amico: "L'aveva chiesto anche a me, ma non l'ho fatto, perché l'amavo!" e il marito ribatterà: "lo l'ho fatto perché l'amavo di più".
   Goebbels capì che l'eutanasia andava presentata come un "caso di coscienza" di chi uccide un paziente inguaribile per non farlo soffrire. L'annientamento scientifico inteso come "atto di pietà". E fu lo stesso Goebbels a presentare nel 1939 il ricorso all'eutanasia nei confronti dei "malati cronici" come "un atto di umanità".
   L'ultima parte del film, Joseph Goebbels chiese che si svolgesse in un'aula di giustizia come coronamente di un dibattito perfettamente attuale. Come lo fu sempre il dottore claudicante. Compreso il sestuplice infanticidio finale.

(Il Foglio, 30 maggio 2015)


A Gerusalemme dal 3 all'11 giugno VII appuntamento con il Festival delle Luci

 
Anche quest'anno la Ir Atiqa, la Città Vecchia di Gerusalemme, sarà il luogo splendido e privilegiato dove prenderà vita lo straordinari "Light in Jerusalem", il Festival delle Luci, realizzato attraverso eccezionali impianti di illuminazione che porteranno il turista a scoprire una città resa per l'occasione ancor più vivace per mezzo di mostre e visite guidate. Un'intera settimana, dal 3 all'11 giugno, sarà dedicata alla scoperta della "luce" e delle "luci" di questa città che già nell'etimo del suo nome, Jerushalaim, contiene proprio il significato di "Città della Luce". Questa "festa della luce" che prende vita in un un contesto urbano - iniziativa promossa dall'Autorità per lo sviluppo di Gerusalemme, dal Ministero del Turismo e dalla Municipalità di Gerusalemme - sarà realizzata proprio dalla società elettrica Ariel; si prevede che l'evento attirerà oltre 250.000 visitatori nella Città Vecchia nel corso della settimana del festival. La manifestazione si inserisce anche in una prestigiosa rassegna di di "Festival della luce" che prende vita im molte città in tutto il mondo come Lione, Glasgow e Lisbona. Quest'anno ci saranno dieci artisti "della luce" provenienti dall'estero che, insieme a quelli locali, presenteranno spettacolari esibizioni luminose in 3-D, sculture e strutture artistiche, stelle dotate di una grande massa luminosa e impressionanti proiezioni video sugli edifici e le pareti della Città Vecchia. Queste esibizioni, abbinate ad attività all'aria aperta e a spettacoli sul palco, avranno luogo nei vicoli pittoreschi, nei luoghi unici e nelle vie centrali intorno al centro storico di Gerusalemme. Per la settimana del Festival gli artisti mutano così l'aspetto della Città Vecchia accrescendo l'atmosfera notturna della città antica con una dimensione magica e di notevole valore artistico. Il pubblico è invitato a godersi i diversi "percorsi di luce" che si snodano attraverso i quartieri della Città Vecchia, tracciando un percorso tra gli impianti luminosi. Una fiera unica nel suo genere di light-body designer e coloratissimi spettacoli all'aperto arricchiranno l'esperienza del visitatore.

(Prima Pagina News, maggio 2015)


Desalinizzazione in Israele

di Lorenzo Cremonesi

Desalinizzazione in Israele, sembra un gigantesco successo. Fa pensare ai benefici dell'intelligenza al servizio dei bisogni del genere umano. Solo pochi anni fa ogni estate vietavano di lavare le mecchine, l'agricoltura era continuamente limitata. Nel 1967 tra le ragioni della guerra con la Siria vi fu il controllo delle fonti del Giordano. Ora non più. E' l'inveramento del vecchio mito del deserto fatto rivivere e inverdire. A chi chiede come mai Netanyahu vince le elezioni si può anche rispondere che sotto il suo governo è stato sviluppato il vecchio progetto delle centrali di desalinizzazione. Non è poco!

(Corriere della Sera, 30 maggio 2015)


Conto alla rovescia per Assad, ora si rischia l'effetto domino

Avanza Al Nusra, rafforzata dall'alleanza coi ribelli anti-tiranno. Hezbollah in rotta. Dopo la Siria toccherà al Libano e l'Iran non potrà rimanere a guardare.

di Carlo Panella

Con la caduta di Ariha nelle mani dei qaidisti di al Nusra che ora controllano tutto il confine con la Turchia, la sconfitta di Assad entra nel novero delle probabilità concrete. Anche perché nella battaglia per Ariha i suoi alleati fondamentali, i miliziani libanesi di Hezbollah, sono stati battuti come non era mai accaduto. Ma il dato più interessante e inquietante è la alleanza militare che ha portato a questa vittoria. Un patto tra al Nusra e i miliziani delle organizzazioni sostenute dall'Arabia Saudita e dalla Turchia che sino a pochi mesi fa si combattevano aspramente. Alleanza inquietante, denominata Esercito della Conquista, che testimonia che Erdogan e re Salman sono disposti a tutto, anche a dare forza ad al Qaeda, pur di abbattere al Assad, forse anche a governare la Siria "in condominio" con le peggiori forze jihadiste, magari con l'intenzione, ancora più machiavellica e diabolica, di usare al Nusra contro l'Isis. Isis che peraltro, nelle stesse ore, si è impadronita dell'aeroporto di Sirte, in Libia, concretissimo pericolo per l'Italia.
   L'unico dato certo è che il futuro della Siria è in una frantumazione in mini Stati: uno di Assad, sulla costa nord, attorno a Latalda, nella regione degli alauiti; uno di al Nusra e dei suoi alleati turco-sauditi;
In Damasco è prevedibile che si scateni una battaglia feroce, dall'esito incerto. E i cristiani damasceni pagheranno un caro prezzo per l'appoggio dato ad un Assad che li abbandonerà al loro destino.
uno dei curdi e uno dell'Isis. Nella fondamentale Damasco, invece, è prevedibile che si scateni una battaglia feroce, dall'esito incerto. E i cristiani damasceni pagheranno un caro prezzo per l'appoggio dato ad un Assad che li abbandonerà al loro destino. L'esplosione della Siria avrà poi un devastante effetto domino sul Medio Oriente e farà saltare ogni equilibrio in un Libano in cui Hezbollah sarà spinto a reagire in attacco alla sconfitta subita dai suoi 5.000 miliziani in Siria. Soprattutto, rischia di spingere l'Iran a un intervento militare diretto e devastante, per non perdere quella sponda siriana che dal 1979 è fondamentale per la stessa sicurezza del regime khomeinista. Si aprirà una fase di caos, nei cui confronti quello iracheno apparirà poca cosa, a riprova che la politica di "non intervento" voluta da Obama, porta guai e disastri come e sicuramente più di quella "interventista" di Bush.
   Un anticipo delle nuove dinamiche di questo caos è andato in onda giovedì su al laze-era, emittente di quel Qatar che finanzia al Nusra, con una lunga intervista al suo leader, Abu Mohammed al Golani, assiso sulla poltrona del governatore di Idlib, che ha esordito con un: «Prendo ordini da Ay-man al-Zawahiri», l'erede di Bin Laden. Il suo messaggio è stato molto politico, ben più raffinato di quelli di Abu Bakr al Baghdadi e teso palesemente a tranquillizzare l'Occidente: «La nostra unica missione è abbattere il regime e sconfiggerne gli agenti a cominciare da Hezbollah. Damasco sta per cadere».
   Poi, parole tranquillizzanti per gli alawiti, i membri della setta scismatica sciita degli al Assad, spina dorsale del regime, che al Golani - a differenza di al Baghdadi che scanna gli sciiti e alawiti in Iraq -
Ayman Muhammad Rabi al-Zawhiri, terrorista egiziano. Dal 16 giugno 2011 è ufficialmente il capo del gruppo terrorista islamico al-Qaida in seguito alla morte di Osama bin Laden, dopo essersi impegnato a continuare il suo operato. (Wikipedia)
rassicura, probabilmente in modo strumentale: «Gli alawiti non sono il nostro obiettivo, l'ultima battaglia non sarà a Qardaha, il villaggio alawita degli Assad, ma a Damasco e combatteremo solo chi ci spara. La nostra guerra non è una vendetta contro gli alawiti, dopo la vittoria fonderemo uno Stato islamico solo dopo aver consultato tutti i gruppi siriani».
   Infine, un messaggio all'Occidente: «Al Nusra non ha piani né ordini per attaccare l'Occidente, è Al Zawahiri a darci le direttive e non abbiamo ricevuto chiare richieste di adoperare la Siria come piattaforma per attacchi contro gli Usa e l'Europa perché non vogliamo sabotare la missione di abbattere Assad». È da notare l'ambiguità dell'enunciato che palesemente significa che se al Zawahiri darà l'ordine di attaccare l'Occidente, sarà sicuramente obbedito. Infatti al Golani specifica: «Forse Al Qaeda ha piani contro gli Usa ma non qui in Siria».
   Nel complesso, l'intervista segnala una novità clamorosa: al Qaeda, sotto la direzione di al Zawahiri, figlio di una potente famiglia del Cairo, si mette a fare politica, ora che ha ripreso alla grande le sue forze in Siria, grazie allo spazio datogli dal non intervento di Obama. Tesse alleanze tattiche con Turchia e Arabia Saudita , rifiuta - come già fece nel 2005 Osama bin Laden in polemica con al Zarkawi, il leader con cui si formò al Baghdadi - la politica di sgozzamento degli sciiti, e rassicura l'Occidente (per ora). Una lezione di contorta politica mediorientale per il dilettante Obama.
   
(Libero, 30 maggio 2015)


Per Hamas e Autorità Palestinese il compromesso con Israele è "alto tradimento"

Incoraggiando i palestinesi a manifestare contro la nascita di Israele e a rimanere attaccati al miraggio del "ritorno", i capi arabi ingannano la loro gente.

La dirigenza dell'Autorità Palestinese continua ad alimentare false speranze nei palestinesi per quanto riguarda il "diritto al ritorno" nei villaggi e nelle città all'interno di Israele, così come fa la dirigenza della maggior parte dei paesi arabi.
E' ciò che fanno i leader palestinesi sin dalla creazione di Israele nel 1948, ed è il motivo per cui milioni di palestinesi continuano a vivere nei campi profughi in Cisgiordania, nella striscia di Gaza, in Giordania e in Siria. Anziché aiutare i profughi e incoraggiarli ad andare avanti con la loro vita, i leader arabi e palestinesi continuano ad esortarli a rimanere dove sono, sbandierando il miraggio di tornare un giorno nelle case dei loro progenitori dentro Israele....

(israele.net, 30 maggio 2015)


Israele fra i lebbrosi

Gli inviati di Ban Ki-moon vogliono mettere Tsahal nella lista nera assieme al Califfo, con l'aiuto delle ong.

di Giulio Meotti

ROMA - In quale documento ufficiale l'unico esercito del mondo con una clausola che prevede di disobbedire a un ordine disumano, l'esercito d'Israele, può finire accanto a bande di terroristi islamici che crocifiggono i bambini, li seppelliscono vivi e li usano come kamikaze? Alle Nazioni Unite, certo. E' quanto ha deciso l'inviato dell'Onu per i Bambini e i conflitti armati, Leila Zerrougui, che ha suggerito l'inserimento dell'esercito israeliano nella lista nera di paesi e organizzazioni che causano regolarmente danni ai bambini. In questa black list ci sono già al Qaida, i nigeriani di Boko Haram, lo Stato islamico di Iraq e Siria, i talebani e paesi come il Congo e la Repubblica Centrafricana, tristemente celebri per i loro eserciti di fanciulli lontani dall'essere maggiorenni.
  Il segretario generale dell'Onu, Ban Kimoon, sarebbe restìo a inserire Israele in questa lista. Ma il danno è fatto. Al Palazzo di Vetro è in corso una pesante pressione da parte palestinese, dei suoi sponsor e delle organizzazioni non governative sui diritti umani, tutti decisi a far includere Tsahal nella lista nera. Secondo il maggiore quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth, i palestinesi avrebbero anche il sostegno di alti funzionari del segretariato dell'Onu che stanno premendo su Ban Kimoon. Il governo Netanyahu si sta opponendo con forza per non essere messo nello stesso elenco di "organizzazioni e paesi lebbrosi". L'esercito israeliano è accostato alla decapitazione degli ostaggi diventata un metodo per addestrare i baby-killer dell'Isis. Nel campo di addestramento al Faruk, creato vicino a Raqqa in Siria, bambini in tuta mimetica, a partire da cinque anni, sono addestrati a sparare e decapitare. Per non parlare del fatto che il califfo riempie fosse comuni di bambini.
  Il rapporto Zerrougui è stato al centro anche dell'incontro a Gerusalemme tra Netanyahu e il senatore repubblicano Lindsey Graham che ha minacciato di perorare lo stop americano dei fondi all'Onu se non ritireranno il documento. A volere l'inserimento di Israele in questa lista nera ci sono anche organizzazioni dei diritti umani come Human Rights Watch. E' così che Israele, agli occhi dell'opinione pubblica europea, sta diventando uno stato infanticida. Grazie ai dossier dei felloni dell'Onu.
   
 Altre due risoluzioni contro Gerusalemme
  Il rapporto delle Nazioni Unite sui bambini arriva dopo quello di fine marzo del Csw (Commission on the Status of Women). Israele anche allora venne esposto al pubblico ludibrio come il principale stato che viola i diritti delle donne nel mondo. L'unico paese al mondo condannato per come tratta le donne. Non la Siria, dove le forze governative utilizzano gli stupri come tattica di guerra o lo Stato islamico che schiavizza le donne delle minoranze religiose. Non l'Arabia Saudita, dove le donne sono fisicamente punite se non indossano gli indumenti obbligatori. Non l'Iran, dove l'adulterio è punibile con la morte per lapidazione.
  Ad aprile, Israele è stato poi condannato, con un voto di 104 a 4 al Consiglio dei diritti umani di Ginevra, come l'unico paese al mondo che viola i diritti alla salute, sebbene sia l'unico stato al mondo che cura i feriti dei suoi nemici (dai siriani sul Golan ai palestinesi di Gaza). Hanno votato contro la risoluzione soltanto Canada, Australia e Stati Uniti. Nel mondo orwelliano delle Nazioni Unite, il giusto diventa torto e gli amici sono trattati alla stregua di nemici. Se l'Onu votasse oggi e non nel 1948, Israele non vedrebbe la luce.
   
(Il Foglio, 30 maggio 2015)


Almeno una buona notizia: Israele e Palestina fanno pace con il pallone

Stretta di mano tra i presidenti delle due federcalcio: niente sospensione per Gerusalemme. Netanyahu: "Fallito il tentativo di espellerci". La mediazione continua.

 
La manifestazione palestinese davanti al congresso: consueta manifestazione di odio antiebraico
In una delle giornate più nere del calcio mondiale, quella della rielezione di Sepp Blatter a padrone del vapore del pallone mondiale, almeno una buona notizia c'è.
È la stretta di mano con cui è stata sancita se non la pace almeno la tregua palonara tra Palestina e Israele. Il Paese arabo ha ritirato la richiesta di sospendere Israele dalla Fifa ma ha ottenuto, con il voto approvato dall'assemblea, la creazione di un Comitato congiunto che dovrà affrontare i temi sul tavolo, compreso quello delle cinque squadre israeliane basate nei Territori Occupati.
   Uno scontro che ha animato la giornata, anche a causa della manifestazione di cinquanta palestinesi davanti alla strada antistante alla sede del Congresso della Fifa. Una dimostrante che sventolava una bandiera palestinese è stata buttata fuori dalla sala del Congresso dopo che ha contestato il presidente della Fifa Sepp Blatter urlandogli contro. I palestinesi accusano la federazione israeliana di comportarsi in modo razzista e di ostacolare il calcio palestinese, per esempio applicando restrizioni al movimento dei giocatori all'interno dei territori occupati.
   Poi tutto è rientrato. Una stretta di mano tra i presidenti delle due Federcalcio, Ofer Eini e Jibril Rajoub, ha suggellato, dopo la votazione (165 a favore, 18 contrari), l'esito della «mediazione» presentata giovedì sera all'ultimo momento dallo stato ebraico e fortemente invocata dal presidente della Fifa Blatter. Sembra così chiusa la parte «sportiva» dello scontro tutto politico in corso nelle varie organizzazioni internazionali (come mostrato in sede Fifa) tra Autorità nazionale palestinese (Anp) e Israele. Tanto che il premier Benyamin Netanyahu ha sottolineato che «è fallito il tentativo dei palestinesi di espellerci dalla Fifa» definendo quella di Ramallah «una provocazione che allontana la pace invece di avvicinarla».
   Una mossa - ha spiegato - che va «ad aggiungersi alle altre unilaterali» compiute dai palestinesi in diverse istituzioni internazionali, mentre «l'unico modo di raggiungere la pace» - ha insistito - passa «attraverso negoziati diretti». Fatto sta che l'Anp, pur rinunciando al voto sulla sospensione di Israele, ha ottenuto con l'accettazione della «mediazione» l'istituzione di un Comitato che ha l'obbligo di risolvere i problemi sul tavolo come chiesto da Rajoub alla Fifa. A cominciare dalla libertà di movimento dei calciatori e allenatori palestinesi dai Territori (Gaza compresa) verso Israele e l'estero (e viceversa), per passare alle tasse doganali che riguardano il calcio palestinese, al denunciato razzismo nei confronti degli atleti e allo status delle cinque squadre israeliane che sono di base nei Territori. Rajoub ha chiesto che a decidere sullo status di queste squadre sia l'Onu ma, fonti in Israele, hanno spiegato che dovrebbe essere la stessa Fifa. «Sono felice per il calcio israeliano e per Israele che la minaccia di espulsione sia stata tolta», ha detto Eini; «ho deciso di ritirare la sospensione, ma questo non significa che ho ceduto sulla resistenza», sottolinea Rajoub.
   Insomma, ancora una volta la diplomazia sportiva sembra funzionare meglio di quella tradizionale. Come accadde nei primi anni Settanta del secolo scorso, quando lo scambio di visite tra giocatori di ping pong di Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese negli anni settanta. costituì un primo momento di distensione nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti d'America e aprì le porte alla visita in Cina del presidente statunitense Richard Nixon nel 1972.

(il Giornale, 30 maggio 2015)


 Equivalenza metapolitica
 Il mondo sta a Israele
 come Israele sta al Messia
 

Congresso Fifa: irruzione di attivisti palestinesi!

Il congresso Fifa in corso a Zurigo, è stato interrotto a causa di un'irruzione improvvisa

di Francesco Gregorace

Due donne hanno interrotto con grida e slogan a favore della Palestina il 65esimo Congresso della Fifa in corso a Zurigo, prima di essere portate fuori per ordine del presidente della Fifa, Sepp Blatter. Poco dopo il discorso di apertura del dirigente svizzero, le attiviste, che erano tra i partecipanti alla riunione presso l'Hallenstadion di Zurigo, si sono alzate dai loro posti e si sono dirette verso il palco gridando slogan ed esponendo una bandiera della Palestina. Avvertiti dallo stesso Blatter gli agenti di sicurezza le hanno fermate prima che potessero avvicinarsi al luogo in cui i membri del comitato esecutivo erano in seduta. Decine di attivisti filo-palestinesi hanno dimostrato oggi di fronte al padiglione che ospita l'assemblea, chiedendo a gran voce l'espulsione di Israele dalla Fifa.

(CalcioWeb, 29 maggio 2015)


Non si chiede qualcosa A FAVORE della “Palestina”, cosa che potrebbe esprimere AMORE per qualcuno. Si chiede qualcosa CONTRO Israele, cosa che sicuramente esprime ODIO per qualcuno. E questo qualcuno sono gli ebrei, pensati, sentiti e odiati come un tutto unico. Nessuno di loro s’illuda di potersi sottrarre a questo odio prendendo le distanze da Israele, come una volta si prendeva il battesimo cristiano. M.C.


Le due spose di Israele

Inizia con un matrimonio di convenienza, finisce con una storia di passione: un esordio che svela una scrittrice vera.

di Lara Crinò

Ayelet Gundar-Goshen
Si può scrivere un Cent'anni di solitudine tra le succose arance, i nodosi ulivi e i pietrosi ouadi di Israele? Sì, a giudicare dall'esordio di Ayelet Gundar-Goshen, classe 1982, esile bellezza dagli occhi chiari, che con Una notte soltanto, Markovitch ci regala qualcosa di nuovo nella pur ricca letteratura israeliana. Ovvero un romanzo romantico che intreccia Storia e sentimenti e piega l'arcaica, paratattica bellezza del narrare in ebraico a una sensualità nuova, quasi da realismo magico sudamericano. Ecco la storia: da un moshav nelle campagne della Palestina del mandato britannico il mediocre Yaakov Markovitch e il vulcanico Zeev Feinberg vengono inviati dall'Irgun, il capo del villaggio sionista, in missione nell'Europa di fine anni Trenta. Devono contrarre un matrimonio di convenienza con due ragazze ebree, in modo che gli inglesi consentano loro di emigrare nella Terra Promessa. A Zeev toccherà una bruttina da cui subito divorzierà per approdare nelle braccia di Sonia, l'unica capace di guarire la sua insaziabile fame di donne. La sposa di Yaakov sarà invece una creatura algida e irraggiungibile, la splendida Bella. Markovitch non vorrà concederle il divorzio, incatenando a sé l'unica cosa preziosa che gli sia toccata in sorte. Verrà la guerra del 1948, nasceranno figli, ci saranno dolori, lutti, separazioni e tradimenti. E all'ultima pagina ci dispiacerà di lasciare Zeev, Yaakov e le loro donne fortissime in quella terra del latte e del miele. Dove tutto è specialmente dolce, specialmente crudele.

Ayelet Gundar-Goshen, Una notte soltanto, Markovitch, Giuntina, € 16,50

(la Repubblica, 30 maggio 2015)


Israele - Esercitazione dell'Home Front Command: simulerà un conflitto su più fronti

GERUSALEMME - Un'esercitazione su scala nazionale organizzata dall'Home Front Command israeliano avrà inizio domenica e si protrarrà per l'intera durata della prossima settimana, simulando un attacco simultaneo a Israele su più fronti. Martedì le sirene antiaeree si attiveranno in tutto il paese per testare la reazione delle strutture scolastiche e poi di tutti i civili a un massiccio lancio di razzi contro il territorio nazionale. La simulazione - scrive la "Jerusalem Post" - ha lo scopo di preparare sia il settore civile, sia i siti militari allo scenario di un attacco senza precedenti al paese. Alle manovre prenderanno parte Polizia, vigili del fuoco e paramedici, oltre ai ministeri e a 240 consigli locali. Anche l'aeroporto di Ashdod e i porti marittimi di Haifa e Ben Gurion saranno coinvolti nell'esercitazione. Il Comando intende coinvolgere anche alcuni siti militari strategici, alcuni dei quali contengono al loro interno materiali pericolosi e sono fortificati contro possibili attacchi missilistici.

(Agenzia Nova, 29 maggio 2015)


Pesaro - Cultura ebraica, a giugno riapre il percorso cittadino

 
Il cimitero ebraico di Pesaro
 
La Sinagoga di Pesaro
Si avvicina l'inizio ufficiale dell'estate e crescono le opportunità per vivere il patrimonio culturale cittadino. Da giugno a settembre, ogni giovedì pomeriggio si visitano la sinagoga e il cimitero ebraico.
Con il mese di giugno, riapre il percorso cittadino della cultura ebraica composto dalla sinagoga e dal Cimitero Ebraico visitabili gratuitamente il giovedì pomeriggio, come di consueto ormai da diversi anni. Si parte dunque giovedì 4 giugno.
Dopo aver fatto parte del "pacchetto culturale" della Stradomenica, con la stagione estiva, la sinagoga di via delle Scuole torna ad essere visitabile - fino al 17 settembre - ogni giovedì dalle 17 alle 20, grazie anche alla preziosa collaborazione della Delegazione di Pesaro e Urbino del FAI Fondo per l'Ambiente Italiano.
Collocata nel cuore dell'antico quartiere ebraico, la sinagoga sefardita (o di rito spagnolo) è uno degli edifici storici più suggestivi del centro che risale alla metà del XVI secolo. E' questo un periodo d'oro per Pesaro che vede il suo porto ampliato, per boicottare quello di Ancona, da Guidubaldo II Della Rovere. In città accorrono molti ebrei portoghesi che hanno l'esigenza di continuare i propri studi mistici; e infatti la struttura in cui è inglobata la sinagoga (o scola, termine con cui un tempo si indicava appunto la sinagoga), ospitava anticamente le scuole di studi cabalistici, di musica e materna. All'interno dell'edificio si possono ammirare ancora oggi gli elementi architettonici legati alle funzioni che quel luogo svolgeva per la comunità, come il forno per la cottura del pane azzimo o la vasca per i bagni di purificazione.
Accanto alla sinagoga, anche il Cimitero Ebraico (strada panoramica San Bartolo c/o n. 161), è visitabile da giugno a settembre sempre il giovedì, dalle 17 alle 19. Per raggiungerlo bisogna uscire dal centro e arrivare in Panoramica. Adagiato sulle pendici del colle San Bartolo, fino a metà novecento, lo spazio appariva come una scoscesa pendice campestre con rade alberature, nel 2002 è stato recuperato dalla Fondazione Scavolini che ne ha reso possibile la fruizione. Fra l'intrico di rovi affiorano più di 100 monumenti funerari realizzati con pietre locali, soprattutto calcare di Piobbico e più raramente arenarie, o marmi.

(Comune di Pesaro, 29 maggio 2015)


Portico d'Ottavia. Vigili e Rabbinato dettano le regole per il cibo kosher

Controlli in bar e ristoranti per tutelare l'alimentazione ebraica. Chiuso un locale, evasi 450mila euro.

di Gabriele Isman

ROMA - Dopo i controlli in via SantaMaria del Pianto, i vigili urbani sono tornati nel quartiere ebraico, stavolta nei locali di via del Portico d'Ottavia. I risultati sono simili a quelli di due settimane fa: 12 attività controllate, un totale di 435.356,97 euro di tasse e imposte evase tra Tari, Cosap e insegne. Stavolta è arrivata anche la chiusura disposta dalla Asl per un' attività: è la Taverna del Ghetto, per irregolarità negli scarichi fognari. Ma oltre ai vigili del Gruppo Sicurezza s0- ciale e urbana guidati da Renato Marra, al personale di Asl, Aequa Roma e Inps, questa volta c'era anche il mashghiach David Sessa, il custode della tradizione e delle regole dell'alimentazione ebraica su incarico del Rabbinato della Capitale. E per l'occasione ai controlli ieri in Portico d'Ottavia c'erano anche anche Rossalla Matarazzo, delegata del sindaco alla Sicurezza, e Raffaele Clemente, comandante generale dei vigili urbani: «La partecipazione del mashghiach - spiega il numero uno di via della Consolazione - è un frutto positivo di un incontro con il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, per avere controlli ancora più puntuali e attenti anche alla tradizione ebraica dell'alimentazione». «Ben vengano le verifiche affinché questo sia trasformato in un quartiere d'eccellenza: Senza le attività commerciali kosher e non, il quartiere ebraico sarebbe di certo una zona più spenta, e non è il nostro obiettivo» diceva ieri Pacifici in via del Portico d'Ottavia. Le verifiche hanno riguardato anche i locali più noti del quartiere ebraico, come Ba'Ghetto e Bellacarne, dove però sono stati richiesti documenti aggiuntivi. Ieri intanto a pranzo molti locali erano chiusi per permettere i minuziosissimi controlli disposti da Clemente e altri, già raggiunti dalle verifiche precedenti, mantenevano le serrande abbassate per i lavori di messa in regola.
   E mentre presto arriveranno i pylomat, i dissuasori a scomparsa all'incrocio tra il lungotevere e via del Tempio a sancire la definitiva pedonalizzazione, nel quartiere ebraico circola una petizione per allargare con pedane di legno i marciapiedi di fronte a quei locali. Parlando con Fabio Perugia, portavoce della comunità, Clemente lancia anche un'idea per le strade di fatto pedonalizzate: «Probabilmente - dice il comandante - moltissimi fenomeni di degrado sono connessi alla percezione del brutto. La bellezza è armonia di forme e colore. D quartiere ebraico può essere un 'occasione per la città». Perugia ascolta con attenzione, mentre i controlli con l'ausilio del mashghiach Sessa proseguono: «S0no convinto- prosegue il comandante - che vi sia un rapporto tra le azioni umane e l'ambiente in cui si vive. Una città che abbia spunti di bellezza cambia i comportamenti degli abitanti. Gli effetti di una scelta esclusivamente militare sono solo temporanei. Se il ghetto diventa un luogo magico con delle luci, senza plastica, che lasci respirare quelle pietre che hanno visto sorrisi e tante lacrime diventerà davvero uno dei primi salotti della città».

(la Repubblica, 29 maggio 2015)


L'angelo e la goccia

di Stefano Jesurum

 
Yoel De Malach
In quanti sanno che l'agricoltura del futuro, quella che già aiuta e soprattutto aiuterà il pianeta a sopravvivere, ha alle spalle una storia che pare un romanzo avventuroso e romantico? È vero che nell'ufficialità di ExpoMilano2015, nelle relazioni, nelle tavole rotonde, si rende merito a Israele di avere portato la propria esperienza nella tecnica di irrigazione a goccia e di avere realizzato il suo padiglione in funzione appunto di questa tecnica. Come è vero che il commissario del padiglione Elazar Cohen sottolinea spesso quanto la tecnica in questione sia esportabile, basta adattarla al territorio e non dimenticarsi mai che l'acqua non è soltanto un bene naturale da preservare, è anche un bene economico.
Ma che cosa c'è dietro a queste meraviglie del progresso? Una vicenda incredibile che raccontai su L'Europeo, nel 1988 in occasione del quarantennale dello Stato d'Israele. La storia di Yoel De Malach z"l, che del sistema di irrigazione a goccia (ma lui diceva «goccia a goccia») fu uno degli inventori. Ecco, un poco accorciato, il racconto di quel miracolo.
La baracca del Centro sperimentale (uno dei più importanti al mondo per gli studi sull'uso dell'acqua salata in agricoltura) è a pochi chilometri dal kibbutz Revivìm, dove il deserto del Neghev è già cominciato da un pezzo. Yoel, il grande capo, si allontana dal computer con cui sta lavorando e alza il volume della radio. In Israele le radio sono sempre accese e i notiziari seguiti con ossessiva meticolosità. Da quarant'anni.
    «Anche quella sera del 1948 ero in una baracca ad armeggiare con una scassatissima radio militare. Ben Gurion annunciava che eravamo liberi, che avevamo il nostro Stato. Non mi pareva vero. Ero felice. Piangevo. Avevo paura. I miei compagni - eravamo venti in tutto - stavano fuori in trincea. Contro i kibbutzim della zona marciava l'intera armata egiziana».
La storia di Yoel De Malach è la storia di quell'esercito di halutzim che lasciarono il passato per il futuro. Per costruire un'Eretz Israel (Terra d'Israele) antiborghese, anticonformista, fondata sul lavoro e sulle teorie del sionismo socialista di Ber Borokov e Chaim Brenner. Di signori come Yoel, piccolo piccolo, la gran testa di capelli candidi, gli occhi vicini e vivissimi, le sinagoghe italiane, il giorno di Kippur e di Pesach, sono piene. E infatti il suo cognome originario è De Angelis, ma sulla tomba di un avo vercellese si trova ancora il corrispondente ebraico di angelo, malach.
    «Eravamo una famiglia borghese, integrata. Mio padre, Guido, era sionista dal 1911. Da bravo italiano, sono stato balilla fino alle leggi razziali del '38. Avevo quindici anni quando il babbo, con grande coraggio, mi mandò in Palestina. Lui, la mamma e le mie due sorelle restarono. Arrivai nel '39. Con i patemi d'animo di un quindicenne: essere religioso o no, credere nel socialismo o no. Il nucleo degli italiani, allora, era la Ghiv'at Brenner di Enzo Sereni, dei Savaldi, dei Castelbolognesi. Loro mi educarono. Laico, alla fine, e socialista. Un ragazzino imberbe e mingherlino com'ero io, abituato alle comodità dell'Europa borghese, si trovava, in realtà, benissimo. Da giovani il domani è nuovo, tutto da costruire, si pensa solo al presente. Però manca la famiglia, c'è Hitler, si hanno notizie, poche, attraverso la Croce Rossa e il Vaticano. Il mio gruppo era formato da 50 ragazzi: 15 italiani e 35 fra lituani, tedeschi, austriaci. L'ebraico divenne faticosamente ma rapidamente la lingua con cui comunicare. Lavoravamo da salariati. Risparmiavamo i soldi per comprare la terra per il nostro kibbutz. Eravamo molto romantici, avevamo deciso di chiamarlo Revivìm, una forma poetica che nella Bibbia sta a significare gocce di pioggia. Volevamo far fiorire il deserto. Le nostre case erano le tende rotonde dell'esercito, tre brandine per tenda, i fortunati avevano il pavimento fatto con assi di legno. Poi ci mandarono a lavorare per un anno in un kibbutz. Nel '42 ci fondemmo con altri ragazzi scappati dal nazismo. Ma non avevamo abbastanza denaro per comperare la terra agli arabi. Continuavamo a essere un kibbutz ideale, teorico. Allora vivevo a Rishon Le Zyon, un insieme di baracche a sud di Tel Aviv. Intanto il Keren Kayemeth Leisrael, il Fondo nazionale ebraico, ci diede una mano e cominciò ad acquistare terreno anche per noi. Agli inizi del 1943 avevo ormai diciotto anni fummo travolti dalle prime notizie sullo sterminio. Dovevamo fare più in fretta, correre contro il tempo. Dovevamo preparare un'isola per chi ce l'avesse fatta. Qui nel Neghev c'erano soltanto pietre, sabbia e beduini. Gli sceicchi vendevano, anche se a caro prezzo, pezzi di possedimenti perché speravano, e sapevano, che avremmo portato la vita in quella zona dimenticata. Prima una tenda, poi due. Poi una baracchetta. Con gli inglesi bisognava fare così, metterli di fronte al fatto compiuto. Il "punto d'osservazione provvisorio" di Revivìm era nato. Arrivammo alla chetichella. Le famiglie con i bambini rimasero a Rishon Le Zyon. La vita nel deserto non era pensabile per loro. Noi non sapevamo che cosa fare. Gli istruttori agricoli, per la verità, non ne capivano molto di più. Lavoravamo come matti. Non veniva su niente. Seminammo il grano: nulla. Tentammo con i pozzi di acqua salata: ancora niente. Costruimmo dighe per trattenere il ruscellaggio e l'acqua piovana. I risultati erano mediocri, ma sufficienti perché noi si sbarcasse il lunario. In un kibbutz, si sa, ogni cosa è in comune, collettiva. Nel '48 il kibbutz vero e proprio non era ancora nato. Con la guerra si rimandò ancora una volta. I più erano disperati, gli anziani mollarono. Rimanemmo una ventina. Nel '45 anche i miei genitori e le mie sorelle avevano lasciato l'Italia. Il 1948 - sono già passati quarant'anni? - ci trasformammo in un fortino. Qui passava la strada di collegamento fra Il Cairo e Gerusalemme. Gli egiziani ci assediarono per giorni e giorni. Due ragazzi venuti con me, Renato Volterra e Claudio Campi, mi morirono accanto. Ci gettavano il cibo con il paracadute. Dovevamo arrangiarci. Livellammo il deserto. Arrivarono i Dakota con qualche rinforzo. Mi ordinarono di procurare pomodori per i soldati. Il Palmach (i gruppi scelti dell'Haganà, l'esercito ebraico) mi mandò i semi e il concime…».
La guerra finì. Yoel De Malach e i suoi compagni festeggiarono la nascita vera e propria del loro kibbutz tanto amato. Lui studiò con scienziati di fama internazionale. Girò per anni il Neghev con una jeep e un sacco a pelo. Oggi di quel deserto conosce quasi ogni segreto. E l'ha fatto fiorire. L'ha fatto rivivere.

(moked, 28 maggio 2015)


Prove di collaborazione tra sanità istraeliana e sanità lombarda

La proposta di individuare in Lombardia luoghi dove sperimentare le buone pratiche del sistema sanitario israeliano è stata lanciata nel corso del convegno organizzato dall'Omceo di Milano, in collaborazione con la Mediterranean Solidarity Association. In Israele più di 8mila medici su 27mila parlano italiano.

 
Sperimentare momenti di collaborazione e di scambio di esperienze qualificanti tra l'organizzazione del Sistema sanitario israeliano e quello lombardo. Due sistemi che, anche per la dimensione della popolazione assistita, 9 milioni il primo e 10 milioni il secondo, presentano numerosi punti di contatto.
    È stato questo il tema al centro del convegno dell'Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Milano, in collaborazione con la Mediterranean Solidarity Association, organizzato presso il Circolo della Stampa di Milano e presieduto da Giuseppe Bonfiglio, VicePresidente di OMCeOMilano.
    "Il Sistema sanitario israeliano - ha ricordato Roberto Carlo Rossi, Presidente di OMCeO Milano - ha messo al centro della sua organizzazione l'Assistenza domiciliare integrata del paziente cronico governata dal Medico di Famiglia è, oggi, indicato dall'Oms come modello socialmente e finanziariamente sostenibile. Un modello in cui il medico ha un ruolo sociale primario".
    Quella israelianaè una sanità con punti di forza ma anche con alcune criticità, ha ricordato Leonid Eidelman, Presidente dell'Israeli Medical Association (IAM), che rappresenta la quasi totalità dei 27mila medici israeliani sia dal punto di vista sindacale che da quello regolatorio.
    I punti di forza risiedono, soprattutto, nell'efficienza complessiva del sistema, la cui incidenza sul Pil è inferiore a quelle dei Paesi europei, Italia compresa, frutto sia dell'avanzata diffusione delle più moderne tecnologie, ma anche della sua struttura organizzativa nella quale, ad esempio, non è prevista incompatibilità tra l'attività in ospedale e quella sul territorio. Il servizio sanitario, come quello italiano, è universale, anche se l'organizzazione della domanda è affidata a quattro fondi, a uno dei quali il cittadino israeliano è obbligato ad iscriversi.
    Un'organizzazione che, tuttavia, non garantisce risultati omogenei su tutto il territorio. Nella zona di Tel Aviv, ad esempio, le aspettative di vita sono tra le più alte a livello mondiale, mentre in altre zone del Paese si vive in media anche 9 anni di meno.
    "Anche in Israele ci sono motivi di insoddisfazione sul funzionamento della sanità - ha ricordato Leonid Eidelmann - ad esempio, ci sono 3 medici ogni mille abitanti contro i 4 dell'Italia. E anche per questo nel 2011 l'IAM è scesa in piazza per rivendicare al Governo un miglior trattamento lavorativo per i medici, ottenendo l'assunzione di alcune migliaia di medici, significativi aumenti salariali, fino all'80%, e la riduzione degli adempimenti burocratici per la categoria".
    "Su 27mila medici israeliani più di 8mila parlano correntemente italiano avendo studiato medicina nel nostro Paese e, di questi, 4mila nella sola città di Milano - ha aggiunto Enrico Mairov,Presidente di Mediterranean Solidarity Association, elencando le diverse iniziative nelle quali è impegnata la sua Associazione a sostegno dello sviluppo della collaborazione fra i sistemi sanitari di Israele e della Lombardia - un punto di forza a sostegno di un lavoro comune che deve, nonostante le tante difficoltà, coinvolgere l'intera area Mediterranea".
    Infine un auspicio affinché le proposte per sperimentare momenti di collaborazione e di scambio di esperienze qualificanti tra i due sistemi sanitari, avanzate anche dal Presidente di OMCeO Milano, trovino una concreta attuazione è arrivato infine da Fabio Rizzi, Presidente della Commissione Sanità della Regione Lombardia.

(Quotidiano Sanità.it, 28 maggio 2015)


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Mantovani: "Con nostri sistemi sanitari valido contributo a livello mondiale"

MILANO - "L' idea di consolidare la sinergia tra Regione Lombardia e Stato di Israele ravviva non solo un'antica amicizia, ma rappresenta un momento importante anche sul piano della collaborazione tra sistemi sanitari. Credo che Regione Lombardia ed Israele possano offrire, in questo ambito, un valido contributo a livello mondiale". Così ha dichiarato Mario Mantovani, vicepresidente ed assessore alla Salute di Regione Lombardia, intervenuto su delega del presidente Maroni al Convegno "Costruzione di un Sistema Sanitario Globale" presso il Circolo della Stampa di Milano. All'iniziativa, promossa dalla Comunità Ebraica di Milano, dall'Associazione Medici di Israele e dall'Ordine dei Medici di Milano. "Il diritto alla salute è sancito dalla costituzione italiana e si traduce con la possibilità concessa a tutti di accedere ad un ospedale italiano per essere curato. Una direttiva europea sottolinea poi che ogni cittadino dell'Unione possa curarsi in qualsiasi ospedale e quindi anche in Italia. Cosa che in Lombardia - ha ricordato Mantovani - hanno già fatto 13500 persone provenienti da tutta Europa". "Un diritto che diventa ancora più importante se si pensa al Mediterraneo, non più solo come confine naturale, ma come vero e proprio ponte tra l'Africa e il Medio Oriente. Basti pensare - ha sottolineato l'Assessore -all'emergenza Ebola, che ci ha insegnato a mettere in sicurezza i cittadini affrontando in modo competente anche le situazioni più pericolose". "E' evidente - ha concluso Mario Mantovani -che anche il tema sanitario diventerà fondamentale per il futuro dell'Europa e sarà necessario offrire una strategia di lavoro comune. Regione Lombardia anche in questo campo rappresenta un modello virtuoso con il suo rapporto medico-scientifico ormai consolidato con Israele".

(Italpress, 29 maggio 2015)


La cacciarono da scuola perché ebrea, risarcita 80 anni dopo le leggi razziali

La livornese Edi Bueno ha vinto un lungo braccio di ferro con lo Stato. La Corte dei conti: "Ha diritto a riscuotere il vitalizio di benemerenza".

di Ilaria Bonuccelli

Edi Bueno ospite al Tirreno in compagnia del nipote Renzo
La famiglia di Edi Bueno. Da sinistra: la tata, il fratello Sirio, il fratello Dino, Edi e la mamma morta ad Auschwitz
Le pietre d'inciampo che ricordano due vittime dei lager nazisti. Sono state messe in via della Coroncina, dove abitavano Dina Bona Attal e Dino Bueno che furono uccisi nei campi di sterminio
Sanguinano i piedi. Edi avverte caldo e dolore, ma non si ferma. Scappa per i campi di Marlia. Via dai fascisti. Non ci crede che la vogliano mandare in Germania a lavorare, come dice sua madre. Sirio, il fratellino più piccolo, la segue. Anche il padre cerca un nascondiglio. La mamma e il fratello grande no. Restano nella casa dove si nascondono. Lontani da Livorno, nelle campagne della Lucchesia.
   Edi Bueno ha rimosso il cognome della famiglia che li ha ospitati. La fuga dalla casa ce l'ha sempre impressa in mente, invece. È stata l'ultima volta che ha visto sua madre e suo fratello, morti ad Auschwitz. Quest'anno, a gennaio, ha accarezzato due piccole pietre "anti-inciampo" con i loro nomi incisi, Dina Attal e Dino Bueno: sono cementate davanti allo stabile che sorge al posto della loro vecchia abitazione di Livorno, in via della Coroncina, distrutta dai bombardamenti. L'unico segno tangibile del loro passaggio su questa terra. Fino a un paio di giorni fa. Ora ce n'è un altro. Edi Bueno l'ha inseguito per una decina di anni. Sconfitta dopo sconfitta. Ogni volta che si accarezzava le cicatrici sotto i piedi, trovava un motivo per non lasciarsi abbattere. E alla fine la Corte dei Conti di Firenze le ha dato ragione: Edi Bueno di Livorno è perseguitata per ragioni razziali. E ha diritto a riscuotere il "vitalizio di benemerenza".
   A quasi 80 anni dalla pubblicazioni dalle leggi razziali, lo Stato riconosce di averle usato violenza. Non l'ha picchiata, né messa in prigione o mandata al confino come gli oppositori del Fascismo. Ma - secondo la giurisprudenza attuale - gli atti di violenza verso gli Ebrei «sono anche di natura morale». Vanno oltre la «terribile» deportazione di familiari. Nel caso di Edi la violenza ha assunto le forme della quotidianità negata: «Sono andata a scuola fino a 7 anni. Quando sono passata in terza, non mi hanno più voluta». Secondo la magistratura contabile il «provvedimento di espulsione da una scuola pubblica può essere considerato un atto persecutorio» in quanto «limitativo del diritto fondamentale della persona». Proprio come il diritto a vivere nel proprio domicilio, ad avere una propria attività. «Il mio nonno - racconta Renzo Bueno, nipote di Edi e figlio di Sirio, detto Luciano - era benestante. Prima delle legge razziali aveva una merceria a Livorno, in via della Madonna. Ma con il fascismo e quelle leggi la vita cambiò». Lo sa bene Edi: «Le amiche con cui giocavo fino a poco tempo prima si rifiutavano di stare con me perché ero ebrea. Un giorno andai con il mio fratellino andai al bar Lateri, a Livorno, e la commessa non mi dette il gelato perché ero ebrea. Allora protestai con il direttore. E lui mi rispose: "Bimba sai leggere? Guarda cosa c'è scritto dietro di te: non si dà il gelato agli Ebrei". Non me lo sono più dimenticato». Anche per questo dallo Stato Edi preteso il risarcimento.
 
   In denaro, il suo assegno corrisponde al trattamento minimo di pensione erogato ai lavoratori dipendenti. Non una grande cifra, tutto sommato. Soprattutto se paragonato alla fuga precipitosa del 1944 da Livorno «per una spiata dei fascisti». Ma Edi Bueno non si è mai battuta per i soldi. Piuttosto per la sofferenza: «Dopo 15-20 giorni che eravamo a Santa Caterina, a Marlia, abbiamo visto arrivare i fascisti. Ci hanno messo tutti in un salone. Mio padre mi ha fatto un cenno. Stava cercando di aprire una porta: io e il mio fratellino ci siamo avvicinati e infilati nella stanzetta. Era un bagno. Lì siamo rimasti nascosti, fino a quando non sono andati tutti via. Mia madre e mio fratello si sono lasciati portare via, convinti che sarebbe arrivato presto l'armistizio e che non avrebbero subito nulla di grave. Mio padre non era convinto e aveva ragione».
   Per questo nasconde i figli e si nasconde. Quando tutto è silenzo, Edi dice al fratellino: «Togliti le scarpe perché dobbiamo correre». E si buttano scalzi nei campi. Il grano è stato appena mietuto. I piedi si tagliano, ma non si fermano fino a quando non trovano un ponticello. «Ci nascondiamo, ma vediamo spuntare due teste. Iniziamo a dire: "Non siamo ebrei, non siamo ebrei". Le voci - ricorda Edi - ci rassicurano: "Siamo partigiani". Ci hanno presi e tenuti con sé due notti. Poi ci hanno riportati a Livorno. Davanti a casa abbiamo ritrovato nostro padre. Ma abbiamo avuto tanta paura».
   Anche di questa paura, Edi chiede conto allo Stato. Ma ancora una volta la strada è in salita, conferma l'avvocato Jacopo Bandinelli di Firenze.La prima richiesta, infatti, viene inoltrata nell'aprile 2006 alla Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali costituita presso la Presidenza del Consiglio. Dopo quattro anni e un'istruttoria suppletiva, l'istanza è respinta: non viene precisato il nome della famiglia presso la quale la famiglia Attal-Bueno si è rifugiata nel periodo trascorso a Marlia, in località Santa Caterina. Gli atti sono considerati «troppo generici».
   Edi Bueno non si dà per vinta. Neppure quando il ricorso viene rigettato. «Un sostegno consistente - conferma l'avvocato Bandinelli - arriva dal Comune di Capannori che ci ha aiutato a ricostruire il periodo nel quale la famiglia è rimasta nascosta a Marlia». Inoltre, da ricerche svolte sul sito www.nomidellashoah.it risulta che Dina Attal, il nonno (materno) David Attal e Dino Bueno vengono catturati a Marlia e deportati ad Auschwitz dove muoiono. Di fronte a queste indicazioni, perfino il ministero delle Finanze si è dovuto arrendere: per ordine della Corte dei Conti dovrà pagare il vitalizio a Edi, oggi 85enne. A partire dal 1 maggio 2006. la dovrà risarcire perché le leggi razziali le hanno impedito di frequentare la scuola. Di mantenere il proprio nome e, di fatto, la propria identità. Rinunce quotidiane che oggi sono archiviate, ma non dimenticate.
   Ci sono le cicatrici sotto i piedi a ricordarle. Ogni giorno, quando bada ai bisnipoti, va al «circolino a lavare i piatti e dare una mano», partecipa alle attività della comunità ebraica di Livorno. E perfino il sabato sera. L'unico giorno in cui i piedi non le dolgono. Perché lì al circolo Pirelli, a Livorno, Edi torna ragazza, prima della guerra. E balla. La samba, la bachata, perfino il rock. Come se le cicatrici non ci fossero. Come se.

(Il Tirreno, 28 maggio 2015)


La cucina ebraica italiana e i profumi della storia

Se gli italiani mangiano "all'ebraica" (e spesso non lo sanno), gli ebrei invece si ingegnano a rendere kasher carbonara e amatriciana. Uno scambio cultural-culinario che è una costante nella storia dell'ebraismo in Italia.

di Ester Moscati

 
Carciofi alla giudia
 
Aliciotti con l'indivia
 
Pizza di beridde
MILANO - «È una strada a doppio senso quella che unisce la cucina ebraica italiana a quella italiana tout court. Ci sono piatti che gli italiani non ebrei gustano da secoli senza sapere nulla della loro origine ebraica, e piatti della cucina italiana che gli ebrei si ingegnano a rendere kasher (cioè "adatto", conforme alle regole della alimentazione ebraica), prima di tutto separando, come Torà comanda, carne e latte - e relativi derivati, tipo burro, besciamella…- ed escludendo gli animali proibiti (maiale, coniglio, cavallo…)». Così spiega Daniela Di Veroli, personal chef, esperta soprattutto in cucina ebraica romana, quella della sua famiglia. «I piatti del ghetto di Roma sono quelli più riconosciuti come ebraici da tutti gli italiani: i celeberrimi carciofi alla giudia o gli aliciotti con l'indivia, per esempio, o la pizza di beridde, preparata in occasione dei brit milà. Ma molti vengono anche da altre regioni, come le venete sarde in saor, o la siciliana caponata di melanzane, le triglie alla mosaica o, ancora, la zuppa di pesce che originariamente, dagli ebrei, era preparata solo con merluzzo; poi, con l'aggiunta di pesci non kasher e frutti di mare, è diventata il caciucco alla livornese». Un indizio sicuro per riconoscere l'origine ebraica di alcune specialità è in alcuni casi l'assenza di lievito: il Pan di Spagna, base per diversi tipi di torte o buono da gustare così com'è, ha una storia controversa: c'è chi pretende sia stato portato in Italia dall'ambasciatore della Repubblica di Genova, Domenico Pallavicini, a metà del 1700, il quale, tornando in patria, si portò il suo cuoco personale spagnolo e l'ambita ricetta che fece girare la testa alle corti europee, per la sua consistenza soffice e quasi impalpabile. Ma c'è chi afferma che la Spagna che dà il nome al dolce sia la Sefarad degli ebrei cacciati dai Re Cattolici nel 1492. Uova, farina (o fecola) e zucchero sono gli ingredienti di questa ricetta che esclude rigorosamente il lievito, come accade durante la Pasqua ebraica, Pesach.
   È solo la sapiente lavorazione dei tuorli con lo zucchero e gli albumi montati a neve fermissima che consente al Pan di Spagna di sviluppare la sua paradisiaca consistenza.
   E senza lievito sono anche i dolci di pasta o farina di mandorle, come la Bocca di dama; anche qui l'origine ebraica è certa, con le contaminazioni locali degli aromi siciliani di zagare e frutta. Furono cacciati, gli ebrei, anche dal Sud Italia sotto il dominio spagnolo, ma lasciarono un'eredità di sapori che dà ancora oggi ingredienti e forme alle tradizioni locali.
   La cucina ebraica italiana ha una varietà di ricette esuberante e fantasiosa, che si coniuga alle tradizioni regionali e alla ricchezze di materie prime del nostro Paese: le verdure, gli olii, la frutta, e anche gli animali, come l'oca, che da secoli sostituisce il maiale sulle tavole kasher in tutte le particolari preparazioni che il suo gusto consente.
   C'è una caratteristica che spesso ricorre, ed è l'agrodolce, che poi è il sapore della vita. L'aceto e il miele, la frutta secca nei piatti di carne o comunque salati. Un esempio di questo connubio è il frisinsal o Ruota del faraone, un pasticcio di tagliolini, polpettine di carne e uvette e pinoli. Composti i tagliolini come onde del mare, le polpettine di carne rappresentano gli egiziani sommersi dalle onde del Mar Rosso, mentre cercavano di riacciuffare gli schiavi liberati. Sulle tavole ebraiche si racconta la grande Storia anche attraverso la forma, gli ingredienti, l'odore dei cibi; perché, da sempre, fin dalla più tenera età, il profumo-sapore di certe pietanze è un effluvio che si espande e corrobora lo studio dei sacri testi, diventando proustianamente tutt'uno con l'apprendimento. Palato, olfatto e conoscenza, intimamente intrecciati in un processo di sinestesia cognitiva, come lo stesso Marcel Proust ci suggeriva (non a caso, sua madre era di confessione ebraica). Tutte le mamme dei ghetti italiani, infatti, insegnavano l'alfabeto ebraico ai propri figli disegnando le lettere con il miele, in modo che seguendone la traccia con il ditino, i piccoli ne imparavano la forma, finendo per associare lo studio alla dolcezza.
   Strada a doppio senso, dicevamo. Gli ebrei che vogliono gustare tipici piatti italiani, come la pasta alla carbonara o l'amatriciana, hanno dovuto inventarsi il modo di sostituire alcuni ingredienti "peccaminosi"; così la carbonara si declina in due versioni, bassarì (di carne) o halavì (di latte). Chi non vuole rinunciare ai tocchetti soffritti e saporiti di carne, sostituisce la pancetta con la carne secca di manzo kasher, mette l'uovo e rinuncia al formaggio. Chi preferisce una carbonara spolverata di grana (sì, c'è anche quello kasher!) sostituisce la pancetta con delle zucchine soffritte. Stessa cosa per l'amatriciana, in cui il guanciale deve essere sostituito con la carne di manzo secca. Ovviamente, niente formaggio!
   Ma le contaminazioni della cucina ebraica italiana non sono avvenute, nei secoli, esclusivamente con quella autoctona. Sapori, profumi, spezie, sono state condivise con le altre cucine ebraiche, sefardita e askenazita, portate dalle migrazioni forzate e frequenti nella storia. Così la cannella, il chiodo di garofano, un particolare modo di insaporire i fegatini di pollo o di preparare il collo d'oca ripieno o la galantina arrosto per la vigilia di Kippur, devono essere stati ingredienti e tradizioni comuni all'Europa ebraica, come dimostra questa storia, letta in un testo di Maria Luisa Moscati (Saperi e sapori): "Il 28 agosto del 1944, nel pomeriggio, arrivarono in Urbino, su dalla strada della stazione, le prime truppe di liberatori. Al seguito dell'esercito Alleato c'era anche un gruppo di giovanissimi soldati ebrei, "La brigata ebraica", provenienti da quella che era ancora chiamata Palestina, al tempo Mandato britannico. Risalivano la penisola combattendo contro i tedeschi e al tempo stesso raccoglievano notizie e dati sugli ebrei deportati o uccisi. Molti caddero combattendo e furono sepolti a Montecassino e nel cimitero ebraico di Piangipane presso Ferrara.
   C'era con loro un giovane polacco, Isacco, appena ventenne, che di motivi per combattere i tedeschi ne aveva parecchi. Proveniva dall'università ebraica di Haifa, ove si era trasferito dalla Polonia per frequentare la facoltà di ingegneria, e questo lo aveva salvato dalla deportazione.
   Isacco dunque giunse nella città di Urbino in agosto e poco dopo cominciarono a ritornare le famiglie degli ebrei urbinati che avevano trascorso gli undici mesi dell'occupazione tedesca nascosti nelle campagne circostanti. Nessuna delle famiglie ebraiche poté rientrare subito nelle proprie case, occupate dagli sfollati o dai vari comandi militari. Si sistemarono perciò alla meglio, grati a D-o di aver almeno salva la vita, e alla fine di settembre, dieci giorni dopo Rosh ha-Shanà, (il Capodanno ebraico), si apprestarono a celebrare Yom Kippur (il giorno di espiazione e digiuno) con più fervore che nel passato. Poiché l'astensione da cibi e bevande dura oltre 25 ore, è consuetudine consumare, il giorno precedente, un pasto sostanzioso ed anche quell'anno, pur con mille difficoltà, si era riusciti a mettere insieme un pasto molto simile a quello allestito in altri tempi per quella ricorrenza. La pasta non era tutt'ovo e un polpettone, più pane che carne, sostituiva la galantina, ma l'uso degli aromi tradizionali e forse ancor più i mesi di privazioni patite, rendevano il tutto una vera prelibatezza.
   Isacco, come pure gli altri militari ebrei che avevano chiesto di trascorrere Yom Kippur nella sinagoga, venne invitato presso una di queste famiglie al pranzo che precede il giorno del digiuno. Erano certi di fargli cosa gradita, ma ben presto si resero conto che dopo i primi bocconi, il giovane riusciva a fatica ad ingoiare il cibo finché, allontanato il piatto, non scoppiò in singhiozzi.
   Soltanto molto più tardi Isacco riuscì a spiegare che sin dal primo momento, entrando, aveva avvertito un profumo a lui famigliare in quel giorno di festa, confermato poi dal sapore di una pietanza che mai più pensava di assaporare ancora e ne era rimasto sconvolto. Aveva rivisto se stesso bambino nella casa dei nonni, nella lontana Lublino, seduto a quella lunga tavola con i genitori e la sorellina, gli zii, le zie e i cuginetti, il nonno con il talled fin sul capo che recitava la benedizione e infine la nonna che portava trionfante il suo piatto di pasta, manipolata con infinito amore, condita con il polpettone calzato nel lungo collo d'oca. Nulla era più struggente del risentirne tutto ad un tratto il profumo".

(Kolot, 28 maggio 2015)


Pirkei Avot, messaggio universale

 
I Pirkei Avot, le massime dei padri, una delle opere più affascinanti della tradizione ebraica, comparate alla filosofia classica: questo il tema trattato dalla tesi di laurea in Lettere Antiche discussa dalla giornalista della redazione dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Francesca Matalon all'Università Statale di Milano.
"Chi è il sapiente? Colui che impara da chiunque" la citazione scelta da Francesca per il titolo dell'elaborato, discusso con relatrice la docente di Lingua Ebraica Anna Linda Callow e con presidente di commissione Paolo Chiesa (docente di Filologia medio-latina).
Nella tesi vengono esplicitati i punti di incontro tra il trattato di carattere etico-filosofico dei Pirkei Avot ("Il massimo manifesto dell'ebraismo farisaico") con la produzione filosofica di Socrate e Platone. "I Pirkei Avot - ha spiegato Francesca - fanno parte della tradizione orale e sono l'unico trattato inserito nella liturgia ebraica e che viene letto negli shabbat tra la festività di Pesach e quella di Shavuot. Questa scelta ha decretato la fortuna e lo ha diffuso in tutto il mondo".
"Il rabbino capo emerito di Roma Elio Toaff, scomparso un mese fa - ha continuato Francesca - lo definiva un eccezionale aureo libretto spiegando come esso si rivolgesse a tutti sia grazie al linguaggio semplice che nei contenuti; è infatti 'la quintessenza del buonsenso' ed esemplifica il carattere fortemente etico dell'ebraismo".
Ma come si lega tutto questo alle filosofia classica? "Platone individuava la sapienza come ricerca del sapere che si attuava nella condotta adottata: una sorta di sapienza etica. Chi è il saggio chiede Ben Zomà nei Pirkei Avot, rispondendo poi che esso è colui che impara da chiunque. Una domanda assai simile a quelle che faceva Socrate, apparentemente assai elementari ma nate per provocare una riflessione. Per i classici, la filosofia è prima di tutto una scelta di vita. Un passaggio che avviene ancora prima del discorso filosofico".

(moked, 28 maggio 2015)


Rivlin non esclude negoziati con Hamas

Indiscrezioni sull'esistenza di un canale segreto di contatti.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Il presidente israeliano, Reuven Rivlin, non eslcude la possibilità di negoziati diretti con Hamas. Durante una visita in Galilea Rivlin è stato sollecitato dai reporter ad esprimersi sulle insistenti indiscrezioni di stampa sull'esistenza di contatti segreti con i leader politici di Hamas e la sua risposta è stata: «Non sono contrario a negoziare con chiunque sia pronto a negoziare con me». «Non è importante con chi si negozia ma su cosa si negozia» ha aggiunto Rivlin, secondo il quale «ciò che non si può negoziare è l'esistenza di Israele».
Il leader politico di Hamas a Gaza, Ismail Haniyeh, si è detto contrario a «colloqui diretti con il nemico sionista» e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha paragonato Hamas a Isis «frutto dello stesso veleno». Ma le indiscrezioni sull'esistenza di un canale segreto di contatti, forse attraverso la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, continuano suggerendo un continuo scambio di informazioni che potrebbe portare ad incontri diretti.

(La Stampa, 28 maggio 2015)


Il consiglio di lettura di Saviano scatena gli antisemiti su Facebook

di Elena Loewenthal

La copertina del libro consigliato
C'è chi la butta sul personale con un lapidario «Saviano ebreo». Chi avanza ardite ipotesi teologicostoriche: «Israele vive con la mentalità dell'ultima guerra, quel popolo è rimasto fermo a quell'epoca, si rendono antipatici perché pigolano sempre… solite storie che loro sono il popolo eletto, lo stesso popolo che ha crocifisso Nostro Signore». Chi sentenzia di «nazismo ebraico», di Israele come «il male del Medio Oriente» che «deve sparire dalla faccia della terra» e del titolare della pagina come suo servo («e gli rende tanto») e protettore degli assassini. È bastato che Roberto Saviano postasse sulla sua seguitissima pagina Facebook un consiglio di lettura, nella fattispecie La collina del giovane autore israeliano Assaf Gavron, appena tradotto dalla Giuntina, per innescare una valanga di commenti tanto deliranti quanto indignati.
   «Se odiate Israele, se odiate i coloni, leggete questo romanzo. Se amate Israele e difendete i coloni leggete questo romanzo. Ma anche se non vi importa niente del Medio Oriente ma amate la letteratura, allora leggete questo romanzo»: in modo più bipartisan di così non poteva esprimersi. Ma a quanto pare dalla neutralità (e in fondo dal senso stesso) della letteratura al pregiudizio bell'e buono il passo è molto breve, almeno sui social network. Che, tanto per cambiare, sfoderano il consueto repertorio di un antisemitismo ormai disarcionato da ogni decenza, condito di un'ignoranza disarmante. Difficile immaginare quale possa essere la terapia, in questo mondo della comunicazione globale dove tutti scrivono ma quasi nessuno legge.

(La Stampa, 28 maggio 2015)


«Corpi ridotti in poltiglia». Così Hamas governa Gaza, trucidando il popolo che dice di difendere

Un rapporto pubblicato da Amnesty International descrive i «crimini di guerra» compiuti dai terroristi islamici contro i palestinesi.

di Leone Grotti

«C'erano segni di tortura e fori di proiettile su tutto il corpo. Le sue gambe e le sue braccia erano spezzate… Il suo corpo era ridotto come se fosse stato infilato in un sacco e ridotto in poltiglia». Comincia così la descrizione di come è stato ritrovato il cadavere di Atta Najjar, disabile mentale arrestato nel 2009 a Gaza dai terroristi islamici di Hamas e ucciso in modo orribile nel 2014.
COLLI STRANGOLATI - La storia, testimoniata dal fratello di Najjar, fa parte di una delle tante raccolte da Amnesty International, che ha pubblicato un rapporto intitolato "Colli strangolati" e che documenta i «crimini di guerra» compiuti da Hamas contro il popolo palestinese nell'estate del 2014, mentre era in corso la guerra con Israele.
«CRANIO SVUOTATO» - Il racconto del fratello di Najjar, che ha recuperato il cadavere dall'ospedale Al-Shifa il 22 agosto, continua: «Il suo corpo è stato crivellato con più di 30 proiettili. Aveva segni di sgozzamento attorno al collo, cicatrici di coltello… Da dietro la testa, si vedeva che non aveva più il cervello. Gli avevano svuotato il cranio… È stata dura per noi portarlo via… Era pesante, come quando infili della carne in un sacco: non c'erano ossa. Le sue ossa erano state frantumate. Gliele hanno rotte in prigione».
«SENZA PIETÀ» - Secondo il rapporto, almeno 23 palestinesi sono stati giustiziati senza processo, decine di altri arrestati e torturati senza motivo. «È scioccante che mentre le forze israeliane infliggevano morte e distruzione al popolo di Gaza, Hamas ne approfittava per regolare i propri conti senza pietà, uccidendo e compiendo altri gravi abusi. (…) Hanno le mani sporche di sangue», ha dichiarato Philip Luther, responsabile di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.
SHARIA E CORTI RIVOLUZIONARIE - Il fratello di Ibrahim Dabour ha ricevuto questo sms il 22 agosto, alle 10.31 di notte: «La sentenza contro Ibrahim Dabour è stata portata a termine secondo la sharia, dopo il giudizio della Corte rivoluzionaria». Ibrahim, sposato con due figli, era stato arrestato pochi giorni prima con l'accusa di aver «comunicato con la parte ostile», cioè Israele. «Non abbiamo ricevuto nessuna notifica ufficiale, tranne il messaggio. Anche se l'avessero condannato a morte, avrebbe potuto ricorrere in appello o tentare altre strade. Ciò che hanno fatto non ha niente a che vedere con la giustizia, è criminale. Queste sono solo azioni criminali».
ESECUZIONI DAVANTI AI BAMBINI - Sempre il 22 agosto, davanti a centinaia di spettatori, tra cui molti bambini, sei persone sono state giustiziate pubblicamente fuori dalla moschea di Al-Omari. Le vittime erano sospettate di «collaborazionismo» ed erano state condannate a morte da «corti rivoluzionarie». I sei uomini sono stati fatti inginocchiare davanti alla folla, con la testa chinata sul pavimento: a tutti sono toccati un colpo di pistola alla nuca e una raffica di Kalashnikov.
LA TORTURA - Uno di loro era quasi certamente Saleh Swelim, accusato di essere in contatto con gli israeliani. Il fratello minore, M.S., è stato arrestato e torturato per confessare i presunti crimini del fratello. Ha raccontato: «Mi hanno appeso per le gambe, ancora ammanettato e bendato, perché non volevo confessare. (…) Mi hanno picchiato con bastoni di metallo e tubi. (…) Mi hanno infilato un tubo del gas in bocca e versato dell'acido sulle mie mani. Non potevo più sopportare il dolore e da quel momento ho confessato tutto quello che mi hanno chiesto di confessare. (…). Mi dicevano: "Di' questo e quello". Mi hanno pestato tutta la notte». Gli hanno fatto confessare di tutto, anche se lui non vedeva da tempo il fratello e non ne sapeva niente. Poi l'hanno rilasciato e in base alle sua testimonianza hanno giustiziato Saleh.
HAMAS E LA GIUSTIZIA - «Hamas chiede in continuazione diritti e giustizia per i palestinesi di Gaza e non solo» ma poi agisce in questo modo, «senza rispettare le più basilari regole della legge umanitaria internazionale. Chi si è macchiato di questi crimini di guerra, come le esecuzioni extragiudiziarie deve essere processato e chiamato a rispondere delle sue azioni», conclude Luther.

(Tempi, 28 maggio 2015)


Otto islamici su dieci stanno con l'Isis

Islam moderato? Un sondaggio della tv «Al Jazeera» conferma: l'81% dei musulmani sono affascinati dai terroristi.

di Fiamma Nirenstein

Nonostante il titanico sforzo dei leader mondiali, soprattutto di Obama, di spiegare che l'Isis è una perversione «random», casuale per quanto pericolosa, che il suo collegamento all'islam è marginale se non nullo, la realtà sovente si occupa di smentire questa pacificante osservazione, e ci getta di fronte a una cruda realtà. L'islam, specie se sunnita, non disprezza l'Isis, almeno in gran parte. Ce lo fa sapere il Qatar, che dell'Isis è un amico segreto ma non tanto. Ed è al Jazeera, la televisione che è stata il geniale strumento dei suoi emiri per disegnare a suo piacimento le convulsioni del mondo musulmano, che ci getta in faccia una realtà davvero scioccante, anche se con i dovuti dubbi e obiezioni: un'indagine della tv dimostra che l'81 per cento degli intervistati rispondono «sì» alla domanda: «Appoggiate le vittorie che organizzano lo Stato islamico in Irak e in Siria?» ovvero l'Isis. Decapitazioni, stupri, rapimenti, fucilazioni di massa, non hanno creato nel cuore del mondo musulmano quel rifiuto che si desidererebbe, secondo la tv. Naturalmente c'è da chiedersi, e non abbiamo dati precisi, con quali criteri sia stato costruito il campione per l'indagine, e anche con quali fini il Qatar (padrone assoluto della tv) l'abbia organizzata e distribuita.
   Al Jazeera è il network più popolare del mondo arabo, e lo è specie presso il mondo sunnita: la guardano nel mondo arabo circa 40 milioni di persone, e Al Jazeera li ha sempre orientati da Doha secondo una visione falsamente oggettiva, di fatto aggressiva e vittimista. Al Jazeera si nasconde sempre dietro un paravento di finta obiettività, ma di fatto tutto quello che fa è carico di simpatia per gli islamisti anche più estremi: persino dopo l'11 di settembre Bin Laden vi veniva considerato un profeta e una famosa indagine fra i telespettatori dimostrò che il 50 per cento sosteneva Al Qaida. La tv del Qatar come i suoi finanziatori è molto vicina a tutti i gruppi sunniti estremisti, compresa la Fratellanza musulmana, di cui è forse, insieme alla Turchia, il principale sponsor, ha fomentato le primavere arabe spingendo le opposizioni islamiste.
   Dunque, è facile che l'indagine abbia un significato politico, e come tutte le «neutrali» imprese di Al Jazeera di fatto nasconda un elemento di provocazione, per rendere forte un umore non trascurabile. Infatti il mondo islamico soffre di un pesante dilemma: da una parte l'Isis è invisa a tutto il mondo civile, ha all' interno del mondo arabo nemici agguerriti come l'Egitto, l'Arabia Saudita, i Paesi del Golfo. Però l'Isis affascina, oltre che per i motivi perversi del piacere della crudeltà, per due motivi base: la frustrazione dei giovani alla ricerca di un'identità in un mondo che secondo loro li discrimina, e soprattutto l'amore per la sharia, la legge islamica, che ogni buon musulmano sa essere dura e tuttavia chiarissima: se vuoi essere un buon islamico, è tutto nel Corano. L'Isis offre la sharia come al tempo di Maometto, nella perfezione di un ritorno assoluto all'islam originale che dovrebbe garantire quel successo mai più ottenuto dopo la caduta dell'impero ottomano. L'islam è la risposta, è così che più del 90 per cento dei palestinesi, il 74 per cento degli egiziani, il 90 per cento degli iracheni vogliono la sharia secondo una credibile Pew poll. In Malesia, in Indonesia, in Kenya, in Etiopia, e anche il 15 per cento in Bosnia la reclama. L'Europa partorisce jihadisti, un forte spirito di rivendicazione e di vittimismo antioccidentale fanno sì che i francesi fra i 18 e i 24 anni abbiano per il 15 per cento un atteggiamento positivo verso l'Isis; in Egitto un terzo della popolazione tiene per Hamas, la Fratellanza gode della simpatia del 35 in Egitto e del 32 in Arabia Saudita.
   Di fatto il Qatar sguazza nel mare del doppio gioco: la maggiore base americana dell'area è sua ospite, nonostante molti analisti assicurino che esso aiuta e finanzia Hamas, la Fratellanza musulmana, Jabhat al Nusra, alcuni gruppi di Al Qaida, gli islamisti libici e anche l'Isis. Le varie congiure della Fratellanza per rovesciare re Abdullah di Giordania, i regnanti sauditi, il presidente egiziano al Sisi, sembra abbiano sempre potuto contare sul Qatar, che pare distribuisca le sue grandi ricchezze con uno strano criterio di filantropia, dato che molti dei suoi clienti sono terroristi. Fra loro, il più affezionato è Hamas: Khaled Mashaal, costretto a lasciare Damasco, ha pagato l'ospitalità a Doha rilanciando la guerra con Israele quando l'Egitto aveva disegnato la tregua.
   
(il Giornale, 28 maggio 2015)


C’è da chiedersi se il vuoto nihilistico del mondo occidentale, il suo relativismo dogmatico e libertinismo etico, tra cui primeggia oggi la sacralizzazione dell’omofilia, il suo edonismo sfrenato e l’amore incondizionato per i soldi, ovunque ricercati e comunque ottenuti, non spinga i giovani musulmani cresciuti in questo vuoto a illudersi di poterlo colmare con un ritorno alle origini. L’islam è una falsa soluzione, ma il problema esiste. M.C.


La discesa di Laras nella rivelazione di Dio secondo la visione ebraica

di Maurizio Schoepflin

«Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono»: è opportuno prendere le mosse da questo celebre versetto della Genesi per comprendere il significato autentico e profondo della concezione ebraica della natura. È quanto fa Giuseppe Laras, uno dei più noti e autorevoli rabbini europei, nel volume Natura e pensiero ebraico (Jaca Book, pp. 144, euro 12), che affronta un tema non sempre adeguatamente conosciuto. Infatti, come ricorda l'autore, si è portati a guardare alla Bibbia come a un libro caratterizzato da finalità etiche e non contenente una vera e propria teorizzazione relativa all'essere e all'origine delle cose: ciò ha fatto sì che la questione della natura nel pensiero ebraico sia passata in secondo piano.
   In effetti, la netta e decisa trascendenza di Dio rispetto all'universo, tipica della fede degli ebrei, sembra invitare a prestare un'attenzione limitata alla realtà fisico-materiale. Certo - avverte l'autore - sbaglierebbe chi andasse a cercare nel testo biblico l'elaborazione di un'articolata dottrina della natura; ma è tuttavia innegabile che esso spinga il credente ad ammirare Dio attraverso la contemplazione del creato, cosa che comporta un duplice effetto: da una parte il rafforzamento del senso religioso e dall'altra il consolidamento della convinzione che tra Dio e le creature vi sia un legame intimo e straordinariamente significativo. Nei sette capitoli del volume, Laras presenta temi, personaggi e opere. Tra i temi spiccano quello del tempo e quello del rapporto tra la Bibbia e la scienza; fra le personalità, va ricordato il celebre filosofo medievale Mosè Maimonide; fra le opere, merita una sottolineatura particolare lo Zòhar, vero scrigno del pensiero qabbalistico. Laras non trascura alcuni salmi, dai quali si evince facilmente la positività attribuita dalla rivelazione ebraica alla dimensione naturale dell'universo. E seguendo questa linea interpretativa, scrive: «A partire dall'idea del Dio creatore dal nulla, nell'ebraismo la natura materiale del mondo non è mai stata considerata come inferiore o subalterna a quella spirituale: tutta la realtà è frutto della creazione divina e, in virtù di questo, se ne devono predicare e apprezzare la sua bontà e positività».
   
(Avvenire, 28 maggio 2015)


Ritrovata una lapide del cimitero ebraico di Calle Agricola a Udine

Presentato nel capoluogo friulano il frammento dedicato alla memoria di una donna defunta nel 1454 o nel 1458, unico reperto epigrafico superstite dell'antico Beth ha-Chayyim

È una scheggia di storia di 34 per 22 centimetri. Mostra un testo, parzialmente leggibile, disposto su sei righe e dedicato alla memoria di una donna defunta nel 1454 o nel 1458. Sono questi gli elementi principali di quello che al momento è l'unico reperto epigrafico superstite dell'antico Beth ha-Chayyim, il cimitero ebraico di Calle Agricola a Udine, acquistato da un piccolo nucleo di ebrei tedeschi il 22 maggio 1405. Il frammento, una piccola lastra irregolare in pietra d'Istria, è stato ufficialmente presentato oggi, 27 maggio, a palazzo Morpurgo dall'assessore alla Cultura, Federico Pirone, dal docente in quiescenza dell'università di Udine, Pier Cesare Joly Zorattini, dall'assessore al Patrimonio della Provincia di Udine, Carlo Teghil, dal presidente dell'associazione Italia Israele, Giorgio Linda, e da rappresentanti della comunità ebraica. Da questo momento il reperto resterà in esposizione nella sala del Caminetto di palazzo Morpurgo grazie alla sottoscrizione di un comodato d'uso quinquennale con la Provincia di Udine.
   "Un grazie a tutti coloro che hanno reso possibile il ritrovamento e il recupero di questo reperto, a partire dal professor Joly Zorattini e dal presidente Linda - è il commento dell'assessore Pirone -. È un'importante testimonianza storica della città e per questo abbiamo scelto di collocarla a palazzo Morpurgo, che è il nostro luogo della memoria delle vittime della Shoah, appartenuto tra l'altro a una famiglia ebraica, i Morpurgo appunto. Un gesto in omaggio sia alla nostra storia sia al pluralismo e all'apertura della città".
   La scoperta della porzione di lapide da parte di Joly Zorattini, su segnalazione del presidente dell'associazione Italia Israele, Giorgio Linda, risale al 2010 con il ritrovamento di un frammento di lapide ebraica (mazevah) inserito orizzontalmente all'interno del muro di cinta dell'Educandato Statale Uccellis di Udine, all'altezza dell'attuale via Santa Chiara. La rimozione del frammento dalla struttura muraria è avvenuta solo qualche mese fa, seguita dalla concessione in comodato gratuito dalla Provincia al Comune di Udine affinché il reperto potesse essere restaurato ed esposto al pubblico. Sulla base della trascrizione e dell'interpretazione effettuata dalla docente dell'università di Rochester (Stati Uniti), Michela Andreatta, la grafia presente sul frammento è di area ashkenazita. I lacerti di testo ebraico ancora presenti, disposti su sei righe, suggeriscono la dedicazione ad una donna.

(il Friuli, 27 maggio 2015)


Hamas ha arrestato i responsabili del lancio di un razzo contro Israele

GERUSALEMME - Hamas ha arrestato i responsabili del lancio di un razzo Katyusha contro Israele. Lo hanno riferito questa mattina fonti del gruppo palestinese al sito internet israeliano "Ynet news". "Ciò che è avvenuto è contrario agli interessi delle fazioni palestinesi nella Striscia di Gaza e contro il nostro interesse nazionale. Consideriamo il lancio di razzi un fatto dannoso", ha riferito la fonte di Hamas. Al momento, ha aggiunto, è i corso una mediazione tra le parti per una de-escalation della tensione dopo i raid aerei israeliani. La fonte ha precisato che l'Egitto non è coinvolto nella mediazione.
  In precedenza, l'agenzia palestinese "Maan" aveva riferito che le autorità egiziane hanno invitato Israele a fermare gli attacchi aerei sulla Striscia di Gaza e a mostrare moderazione dopo i raid lanciati quest'oggi contro alcuni obiettivi delle milizie palestinesi a est di Rafah. L'attacco aereo è scattato dopo il lancio di un razzo di prova da parte delle milizie palestinesi caduto in mare. L'esercito israeliano sostiene invece di aver rilevato il lancio di un razzo palestinese verso il territorio israeliano caduto in una zona disabitata. I caccia israeliani hanno condotto una serie di raid aerei all'alba di oggi contro alcuni terreni e obiettivi militari delle milizie palestinesi a est di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, senza provocare feriti. In particolare i caccia israeliani hanno colpito una sede vuota delle brigate Ezzedin al Qassam, braccio armato di Hamas, e un terreno usato dal Jihad islamico a Beit Lahya, nel nord della Striscia.
  Secondo un'analisi del quotidiano israeliano "Haaretz", l'ultimo lancio di razzi mostra i contorni di una disputa interna palestinese e mette in allarme gli israeliani, ancora segnati dal conflitto della scorsa estate con Hamas nella Striscia di Gaza. Secondo quanto appreso da funzionari della Difesa israeliani e da fonti a Gaza il capo dell'ala militare del Jihad islamico sta cercando di imporre un nuovo comandante locale nel nord di Gaza, mentre gli operatori sul campo hanno deciso di opporsi alla nomina. Il risultato è l'acuirsi di un conflitto violento tra fazione contrapposte. Ieri gruppo armato ha reagito lanciando un razzo contro Israele, senza l'approvazione preventiva di Hamas. Israele, così come il movimento palestinese attualmente non vogliono un'altra guerra, ma Hamas continuerà a scavare gallerie, testare missili e a investire nella formazione dei suoi combattenti in vista del prossimo conflitto.

(Agenzia Nova, 27 maggio 2015)

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"Faremo di tutto per mantenere la calma con Gaza"

 
GERUSALEMME - Benyamin Netanyahu avverte: Israele farà tutto il necessario per mantenere la calma ottenuta con Gaza la scorsa estate e non accetterà alcun nuovo lancio di razzi dalla Striscia: "questa è la nostra politica".
  Anzi - ha ammonito il ministro della Difesa Moshè Yaalon - se la violenza aumenterà "Gaza pagherà un prezzo pesante". "Hamas farebbe bene - ha aggiunto - a reprimere il lancio di razzi. E bene che nessuno ci metta alla prova".
  E già la notte scorsa l'aviazione israeliana - ha fatto sapere il portavoce militare - ha colpito quattro infrastrutture del "terrore" dopo il razzo piovuto ieri sera intorno alle 21 (ora locale) nei pressi di Gan Yavne, un piccolo centro non distante dalla città costiera di Ashdod nel sud di Israele. Le strutture centrate dal raid aereo - che non ha fatto vittime così come quello lanciato su Israele - si trovavano a Rafah e Khan Yunis nella parte sud della Striscia e a Beit Lahia in quella nord.
  L'episodio, che ha fatto improvvisamente rialzare la tensione dopo il terribile conflitto dell'estate del 2014, è avvenuto a circa un mese esatto dall'ultimo razzo piovuto su Israele dopo quattro mesi di tranquillità. Israele - che ritiene responsabile in ogni caso Hamas, visto che di fatto è al comando nella Striscia - ha incolpato del lancio del razzo già da ieri sera, ed oggi lo ha ribadito lo stesso Yaalon, la Jihad islamica, una delle fazioni presenti a Gaza.
  Hamas, secondo quanto annunciato da una fonte dell'organizzazione, ha detto di aver arrestato "i miliziani" responsabili del lancio. "Quanto accaduto ieri sera - ha spiegato la fonte - va contro gli interessi delle fazioni palestinesi a Gaza e i nostri interessi nazionali". Per questo subito dopo il lancio - ha aggiunto la stessa fonte - le "nostre forze di sicurezza sono state dispiegate in differenti punti della Striscia e i responsabili son stati inseguiti fino alla loro cattura".
  In base ad informazioni da Gaza, gli arrestati da Hamas sarebbero tre "attivisti" della Jihad sospettati di essere coinvolti nel lancio del razzo Grad nei confronti di Israele. Secondo le stesse fonti, citate da Al Quds, la stessa Jihad avrebbe partecipato agli arresti dei sospetti che avrebbero agito senza il sostegno della leadership dell'organizzazione.
  Pur non avendo alcuna fazione rivendicato la paternità dell'azione, fonti della sicurezza di Israele sono convinte che a tirare il razzo siano stati elementi dell'ala militare della Jihad probabilmente per una disputa interna con i ranghi più alti della fazione circa la nomina di un nuovo responsabile militare della stessa nel nord di Gaza.

(Corriere del Ticino, 27 maggio 2015)


L'Egitto dà il via libera all'importazione di gas da Israele

GERUSALEMME - Le trattative tra Tel Aviv
e Amman per l'esportazione del gas israeliano verso la Giordania (per un periodo di 15 anni) sono tuttavia in fase di stallo. La Giordania ha annunciato a febbraio scorso la decisione di sospendere i negoziati con Tel Aviv
per l'importazione di gas dal sito del Leviathan, subito dopo la proposta del governo israeliano di porre delle limitazioni allo sfruttamento dei giacimenti di gas offshore da parte di Delek e Noble Energy. Le due società sono accusate infatti di aver creato un monopolio del gas nel paese. Una via di sbocco "certa" per il gas israeliano rimane quindi l'Egitto.

(Agenzia Nova, 27 maggio 2015)


Sconfigge la leucemia e incontra il suo idolo: Totti

Ragazzo israeliano ospite a Trigoria

ROMA - Si sono scambiati le maglie come fanno i campioni in campo, ma Tomer Inbar non è (ancora) un calciatore professionista, ha solo 13 anni, e la n.10 di Francesco Totti l'ha ricevuta direttamente a Trigoria.
Il capitano della Roma, d'altronde, messo al corrente della storia del ragazzo israeliano - tornato a giocare dopo aver lottato contro una leucemia - si è subito attivato per esaudirne il desiderio, ovvero incontrare il suo idolo nel mondo del calcio. Per Tomer insomma la visita al centro sportivo giallorosso, e il tempo trascorso nell'ufficio personale di Totti, sono stati un sogno.
   Al giovane nel marzo del 2014 era stata diagnosticata una leucemia che lo ha costretto a lasciare sia la scuola sia il calcio, che praticava indossando la maglia dell'Hapoel Herzliya. Dopo un trattamento aggressivo, presso l'ospedale pediatrico di Tel Aviv, a settembre è stato trovato un donatore compatibile che ha permesso il trasferimento in un'altra struttura (l'ospedale Schneider di Petah Tikva, dove ha passato due lunghissimi mesi in assoluto isolamento) per il trapianto di midollo osseo. A febbraio di quest'anno poi ecco la vittoria più grande: il ritorno sui banchi di scuola e, sostenuto dai compagni di squadra, anche quello in campo.
   Un ritorno che, complice la tournee in Italia (a Milano) della sua squadra per una serie di amichevoli, ha permesso a Tomer di esprimere un desiderio: vedere dal vivo il suo idolo calcistico, Francesco Totti. Detto, fatto. Durante l'incontro il giovane ha spiegato di giocare da terzino destro (nel ruolo adora Dani Alves, e per questo ha scelto il n.22 come l'esterno del Barcellona), poi i due si sono scambiati le rispettive maglie con nome e autografo. Al termine poi Totti, a nome del Maccabi Italia e della Federcalcio israeliana, è stato invitato in Israele, e a visitare la Sinagoga Maggiore e il Museo ebraico di Roma.

(Il Messaggero, 27 maggio 2015)


Che fa l'Italia contro Baghdadi?

Consigli non richiesti al ministro Gentiloni sul nostro ruolo nella coalizione in vista del vertice di Ginevra.

di Carlo Panella

Il vergognoso comportamento dell'esercito iracheno e l'appoggio che le tribù sunnite dell'Anbar continuano a garantire allo Stato islamico (Is) in Iraq hanno aperto le porte di Ramadi alle milizie del Califfato. Su questi due elementi deve focalizzarsi l'elaborazione di una nuova strategia di contrapposizione della coalizione. Le questioni sono legate, e per tutto l'anno trascorso dalla caduta di Mosul, il nuovo governo di Baghdad ha continuato la stessa politica settaria nei confronti delle tribù sunnite che le ha portate alla alleanza col Califfato. Questa politica settaria anti sunnita è stata per di più codificata nel sangue con le modalità feroci con cui le milizie sciite hanno gestito a marzo la riconquista di Tikrit. Tra queste due battaglie c'è un legame evidente: dopo avere visto quanto fatto ai danni della popolazione civile sunnita di Tikrit, la maggioranza delle tribù sunnite di Ramadi e dell'Anbar ha rinsaldato l'alleanza con Abu Bakr al Baghdadi.
  In termini provocatori si può dire che la lezione di Tikrit e Ramadi è semplice: allearsi con la Gestapo per sconfiggere le Ss è peggio che un crimine, è un errore. Ma proprio questo è quanto la coalizione guidata da Barack Obama, e di cui fa parte l'Italia, ha fatto e sta facendo in Iraq per fermare l'avanzata delle milizie dell'Is. Il disastro è che questa strategia non è stata scelta, men che meno dal governo italiano, ma è stata applicata dagli Stati Uniti casualmente, a rimorchio di avvenimenti non controllati.
  I fatti: il 5 marzo il Foglio pubblicò un allarme accorato al governo italiano perché il premier curdo Nechirvan Barzani, in visita a Roma, aveva espresso al ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, la sua preoccupazione per il modo con cui il governo di Baghdad si accingeva a conquistare Tikrit. Un dispiegamento militare divisivo, imperniato su una visione settaria e violentemente anti sunnita, basato sullo sfondamento delle milizie sciite di Moqtada al Sadr, coadiuvate da Pasdaran iraniani in veste di "consiglieri" sotto il comando del generale iraniano Qassem Suleimaini. Il tutto con una speccie di "silenzio-assenso" da parte del governo americano che, dopo un primo diniego, dopo aver dichiarato di non essere stato neanche informato dell'offensiva (è agli atti!), ha fornito copiosa assistenza aerea ai miliziani sciiti. La dinamica di quella battaglia ha superato in peggio le preoccupazioni del governo del Kurdistan.
Massour Barzani, capo dei servizi segreti del Kurdistan iracheno:
"Le milizie sciite sono un pericolo maggiore dello Stato islamico".
Passati 20 giorni, questi sono stati i commenti sulle atrocità commesse dall'esercito iracheno e dalle milizie sciite nella riconquista di Tikrit: Massour Barzani, capo dei servizi segreti del Kurdistan iracheno: "Le milizie sciite sono un pericolo maggiore dello Stato islamico". Al Tayeb, Grande Imam di al Azhar, ha emesso un lungo, inequivocabile, comunicato ufficiale della più alta istituzione religiosa sunnita che ha creato un caso diplomatico tra Baghdad e il Cairo: "Al Azhar esprime le sue preoccupazioni per le decapitazioni e le aggressioni contro pacifici cittadini iracheni, del tutto estranei allo Stato Islamico, commesse dalle milizie sciite alleate con l'esercito iracheno a Tikrit e nell'Anbar. Queste milizie hanno bruciato moschee sunnite e ucciso donne e bambini sunniti. Condanniamo fermamente i crimini barbari che le milizie sciite commettono nelle zone sunnite che le forze irachene hanno iniziato a controllare. Invitiamo le organizzazioni umanitarie internazionali per la difesa dei diritti umani a intervenire immediatamente per fermare questi massacri". Ma la posizione più pesante e ragionata circa la follia dell'Amministrazione Obama di diventare complice dell'ennesima atrocità sciita-iraniana nell'Anbar è venuta dall'unico leader militare che nel 2006 (col voto contrario dell'allora senatore Obama) ha saputo battere al Qaida in Iraq e costringere lo stesso Abu Bakr al Baghdadi a fuggire, sconfitto, in Siria: il generale David Petraeus. "Le milizie sciite e l'Iran che le sostiene e perfino le guida rappresentano a lungo termine per l'Iraq e per gli equilibri regionali una minaccia più grave dell'Is. E' una Cernobyl geopolitica che continuerà a diffondere instabilità radioattiva e ideologia estremista nell'intera regione fino a che non sarà bloccata. E' una minaccia che deve essere affrontata immediatamente e gli Stati Uniti devono fare di più. Lo sforzo avviato solleva domande legittime sulla sufficienza di dimensioni, obiettivi, velocità e risorse. Il regime iraniano non è nostro alleato in medio oriente: è parte del problema, non la soluzione. Più gli iraniani sembrano dominare la regione, più si infiammerà il radicalismo sunnita e alimenterà l'ascesa di gruppi come l'Is. Contro l'Is è necessario coinvolgere le forze sunnite che possono essere considerate come liberatori, non conquistatori. Per sconfiggere l'Is poi, non è solo necessario farlo sul campo di battaglia, ma simultaneamente, attraverso una nuova riconciliazione politica con i sunniti che devono tornare a contare. Devono sentire che hanno una responsabilità nel successo dell'Iraq, piuttosto che nel suo fallimento. Il nostro ritiro ha contribuito alla percezione che gli Stati Uniti lasciassero il medio oriente… la percezione nella regione negli ultimi anni è che gli Stati Uniti stiano scomparendo e i nostri nemici prendendo piede".
  Le parole di Petraeus hanno preceduto di poche settimane lo schiaffo menato (esattamente per queste ragioni) dal re Salman dell'Arabia Saudita e da altri emirati del Golfo che hanno deciso di rifiutare l'invito personale di Obama di recarsi a Washington per discutere della situazione irachena e yemenita. Di fatto, l'incrinatura formale, forse insanabile, di un'alleanza strategica che ha garantito per 70 anni la sostanziale stabilità del medio oriente.
  Passati due mesi dalla sanguinaria riconquista di Tikrit, dopo la sconfitta subita dall'esercito iracheno nella strategica Ramadi, capitale dell'Anbar sunnita, gli Stati Uniti si accingono a ripetere quello schema. Non sapendo cosa fare, stanno fornendo copertura aerea alle milizie sciite Hashed al Saabi di Moqtada Sadr (le stesse di Tikrit), che sono le uniche che si sono mosse per contrastare l'avanzata su Baghdad delle milizie califfali (non senza attriti feroci con le milizie sciite del partito Sciri). Come si vede, il paragone volutamente provocatorio dell'alleanza con la Gestapo per sconfiggere le Ss non è inappropriato e impone al governo italiano di fare chiarezza e di esprimere una sua posizione, in occasione della riunione dei ministri degli Esteri della coalizione anti Califfato che si terrà a Ginevra il 2 giugno.
  Sappiamo bene che Paolo Gentiloni ha recepito con preoccupazione e in un certo senso ha fatto sue le critiche alla scelta di dispiegare le milizie sciite irachene e i pasdaran contro le milizie califfali a Tikrit. Sappiamo che con discrezione le ha avanzate nelle sedi internazionali appropriate. Sappiamo che il governo Renzi - con modalità adeguate - ha comunicato all'Arabia Saudita e ai paesi del blocco sunnita che condivide l'allarme circa il ruolo dell'Iran (quindi delle milizie sciite oltranziste) in Iraq, Siria e Yemen. Sappiamo infine che il governo italiano, nel caso si arrivasse a un conflitto insanabile tra il "blocco sunnita" e l'Iran e le sue molteplici propaggini in attacco in tutto il medio oriente (Iraq, Yemen, Libano e Siria), ha stabilito che i nostri interessi nazionali, non solo energetici, ci porterebbero a scegliere il campo sunnita.
  Su questi punti cruciali, abbiamo nostre fonti ufficiose dirette e qualificate. Ma crediamo sia utile dare alcuni consigli - non richiesti - circa la posizione che il governo italiano può e deve avanzare nella riunione di Ginevra che dovrà affrontare il tema drammatico di un cambio della strategia della coalizione che a oggi si è rivelata fallimentare in Iraq (e in Siria). Il primo consiglio è ovvio: che Paolo Gentiloni legga a Ginevra parola per parola l'analisi del generale David Petraeus. Condividendola. Il secondo consiglio è che la posizione italiana sia coerente con quell'analisi: l'Italia avvisi gli alleati che sospenderà la sua partecipazione alla coalizione se si continuerà nell'ambiguità di una offensiva che di fatto sceglie - a posteriori, caoticamente - di fare perno sull'alleanza con l'Iran. L'Italia dovrebbe optare invece per una road map militare che mantenga l'alleanza e il sostegno alla componente sciita irachena in funzione solo difensiva e che affidi l'offensiva contro il Califfato a una coalizione che veda l'impegno diretto dei paesi della Lega araba, con supporto e impegno militare diretto sul terreno degli Stati Uniti, della coalizione e naturalmente dell'Italia stessa.
  Il nodo politico fondamentale della riconquista dell'appoggio delle tribù sunnite dell'Anbar, del loro passaggio dall'alleanza col Califfato all'alleanza con Baghdad, può essere sciolto solo fornendo la più alta garanzia da parte delle nazioni arabe per una ragione poco chiara a Obama, come alla coalizione. Come spiegò nel 2009 alla Lega araba Abdel Razzaq al Suleiman, capo della potente tribù dei Dulaimi, in gioco non c'è solo la discriminazione, l'emarginazione dei sunniti e l'eterno, feroce conflitto religioso: "Gli arabi devono unire le loro forze per fermare l'influenza iraniana in Iraq che produce distruzione, uccisioni e espulsione dai nostri territori. Se l'Iraq, Allah non voglia, dovesse perdere la sua identità araba, l'Iran, che persegue proprio questo obbiettivo, si mangerebbe il Golfo dalla sera alla mattina". In Iraq, dunque si combatte per offendere o difendere "l'identità araba" della Mesopotamia e del Golfo. Questo elemento è assente dalle analisi della coalizione che non riesce a vedere come il solo Abu Bakr al Baghdadi sia capace di proporsi come difensore degli arabi contro i persiani, conflitto millenario di quelle terre. Questo tema deve diventare il baricentro politico - quindi militare - delle nuova strategia della Coalizione.
  Se questo percorso proposto dall'Italia non dovesse essere accettato dagli Stati Uniti - come è più che probabile - si dovrà arrivare alla clamorosa sospensione del nostro paese dalla Coalizione. Gesto politico di rottura e di chiarezza. Rifiuto di continuare la complicità implicita con le atrocità delle milizie sciite e dei pasdaran in Iraq. Si tratterebbe di una sospensione tutta e solo politica, che nei fatti comporterebbe la continuazione del nostro sostegno militare, politico e finanziario al governo del Kurdistan iracheno e a quello della Giordania, pienamente affidabili sotto tutti i profili, ma in un ambito bilaterale.
Per essere più chiari ed evitare equivoci: riteniamo che il governo italiano possa e debba proporre una strategia alternativa a quella seguita sinora: che la coalizione riconosca piena e totale legittimità alle Forze armate irachene di dispiegare le milizie sciite di Moqtada al Sadr e di altre componenti sciite (comandate dai Pasdaran iraniani del generale Suleimaini) solo e unicamente a difesa di Baghdad e del centro-sud sciita dell'Iraq. Ma che chieda con forza che esse non vengano più impiegate nella controffensiva verso Ramadi o Mosul.
  Questo comporta la definizione di un nuovo impegno militare diretto - anche italiano - e di un nuovo dispiegamento militare della coalizione che deve fare da muro difensivo contro l'avanzata delle milizie califfali. Innanzitutto a difesa di Baghdad. Questo dispiegamento non può che essere boots on the ground da parte di una coalizione a guida americana, che veda a nord la collaborazione aperta e contrattata delle forze armate della Turchia con i Peshmerga del Kurdistan iracheno (collaborazione possibile, visti gli ottimi rapporti tra di due governi) e, sul fronte di Ramadi, che veda la presenza di reparti della Lega araba, oltre che occidentali. Uno schema non dissimile da quello messo in atto da George Bush padre con Desert Storm nel 1990-91, difficile da costruire, ma possibile, col tempo, se il muro anti califfale viene frapposto subito.
  Questa scelta non facile è irrinunciabile alla luce della terribile conferma venuta a Ramadi: il fallimento totale delle forze di terra di Baghdad. Celato per alcuni giorni (il Pentagono in un primo tempo ha addebitato la sconfitta "a una tempesta di sabbia"), questo disastro è stato denunciato alla Cnn il 24 maggio dal segretario alla Difesa americano, Ashton Carter, indignato: "L'esercito iracheno a Ramadi aveva forze ampiamente superiori a quelle dei jihadisti eppure non ha combattuto, si è semplicemente ritirato. Quello che è successo a quanto pare è che le forze irachene non hanno mostrato alcuna volontà di combattere… Abbiamo un problema con la volontà degli iracheni a combattere l'Is e a difendersi. Possiamo addestrarli, possiamo dare equipaggiamenti, ovviamente non possiamo fornire la voglia di combattere". Questa valutazione certifica il fallimento del baricentro della strategia enunciata da Obama e dalla coalizione dopo la caduta di Mosul: affidare al solo esercito di Baghdad, addestrato e riarmato, il compito del contrasto sul terreno. Il responsabile della Difesa americana polverizza, ridicolizza addirittura, oggi le previsioni del generale John Allen che nel febbraio scorso assicurava che "entro le prossime settimane, comunque entro l'estate, l'esercito iracheno partirà alla riconquista di Mosul con le 12 brigate che stiamo addestrando". Un cortocircuito, una politica militare basata sul wishful thinking che mai, neanche nei suoi momenti più buii, si è vista nella storia militare americana.
  E' chiaro che la nuova strategia che proponiamo, motivata dalla inaffidabilità dell'esercito iracheno e dal settarismo sanguinario delle milizie sciite, sarà avversata sia dal governo iracheno sia dalle milizie sciite sia dall'Iran. Ma, quanto al governo di Haydar al Abadi (che ha continuato la politica settaria di Nouri al Maliki), la coalizione ha un'arma formidabile di pressione e di "moral suasion": il rifiuto di fornire nuove indispensabili armi e nuovi ancora più indispensabili appoggi militari, se non alle condizioni sopra esposte. Fornire miliardi di armamenti come è stato fatto sinora, sine conditione, e fornirne ancora di più e più moderni (in particolare i missili anticarro), come pare Obama abbia deciso di fare in questi giorni "a scatola chiusa", non solo è politicamente sucida, ma rischia di fornire armamenti che cadranno nelle mani e nella disponibilità delle milizie califfali (come è successo sino a oggi, anche a Ramadi).
  Quanto all'Iran, Obama ha voluto sinora mantenere una posizione ambigua, confusa, di fatto opportunista circa le sue aperte e strategiche imprese militari in Iraq, Siria e Yemen, per non interferire con le trattative sul nucleare. La Casa Bianca ha volutamente non ascoltato le tante voci di autorevoli esponenti di Teheran, non ultima quella del comandante generale dei pasdaran Ali Jaafari, che negli ultimi mesi hanno esaltato "i successi nell'esportazione della rivoluzione iraniana in Siria e Iraq" e che addirittura esaltavano "la rinascita del nuovo Impero Persiano Sassanide" (sic). Ma il rapido precipitare della Siria verso il caos di un drammatico "post Assad", le sconfitte in Iraq e il marcire della guerra civile yemenita impongono che a Ginevra - o su altri tavoli - sia posta subito dagli Stati Uniti e dalla coalizione, con forza e chiarezza, come chiedono l'Arabia Saudita e tutti i paesi sunniti (in straordinaria simbiosi con Israele), la questione dell'interdipendenza di un accordo sul nucleare con la cessazione dell'espansionismo militare e "rivoluzionario" iraniano. Se questo non sarà fatto - e crediamo che Obama non lo farà - il disastro sin qui consumato sarà solo il primo tempo di una catastrofe epocale.
  Infine, ma non per ultimo. E' evidente, e sappiamo che Paolo Gentiloni è cosciente del fatto che quanto avviene in Mesopotamia, in Yemen e in Libia segnala una crisi drammatica del multilateralismo, cui è speculare il moltiplicarsi nel medio oriente e nel Mediterraneo di iniziative militari unilaterali e violente di molti paesi, non solo dell'Iran e delle sue propaggini (Hezbollah libanese e Houti yemeniti). Qatar, innanzitutto, ma anche Arabia Saudita, Egitto (in Libia), Emirati Arabi uniti e Turchia dal 2011 inviano in molti paesi arabi in guerra commandos, armi, milizie, intelligence a combattere, complottare, acquisire alleanze bilaterali.
  Questo difficile quadro - e non è un paradosso - apre all'Italia e al nostro governo, che sin qui si è comportato con saggezza nella crisi libica, un grande spazio per una nuova politica estera e una nuova azione diplomatica. A condizione che si interrompa la pratica seguita dai governi che si sono succeduti dal 2011 al 2014, che si sono limitati ad accodarsi, con diligenza, ai riti multilaterali di Onu, Nato e Ue. Il pessimo esito della nostra richiesta di intervento multilaterale a fronte della emergenza del canale di Sicilia ha reso evidente che questa strada semplicemente, non dà frutti.
  L'Italia, oggi, può invece porsi l'obbiettivo di esercitare una leadership nuova e originale su un contesto multilaterale allo sbando, per responsabilità equamente divise tra l'amletismo di Obama e l'assenza di una politica mediorientale di Inghilterra, Francia e Germania. Può farlo, a patto però che batta, per così dire e con tutto il garbo possibile, i pugni sul tavolo e pretenda dagli alleati, soprattutto dalla Casa Bianca, chiarezza di analisi e di proposte, minacci di ritirarsi da coalizioni senza strategia e quindi votate alla sconfitta.
P.S. Qualcuno può spiegare che senso ha continuare a mantenere un contingente Unifil in un Libano che da un momento all'altro sarà travolto dal caos siriano? La missione Onu del 2006, appoggiare l'esercito libanese nel disarmo di Hezbollah, è fallita. A fronte di un più che possibile precipitare della situazione interna libanese, già evidente nel nord del paese e nella Bekaa, il nostro contingente ha regole d'ingaggio riferite a una fase ormai preistorica. Che senso ha tutto questo? Perché non spostare il nostro contingente a difesa delle strategiche, e fragili, frontiere della fondamentale Giordania con l'Iraq?

(Il Foglio, 26 maggio 2015)


Gerusalemme e Roma, insieme per la ricerca

 
La convinzione che oggi la ricerca tecnologica (acqua, gas e biotecnologia) non possa fare a meno di una visione umanistica. Questa l'idea alla base della collaborazione nata tra l'Università Europa di Roma e l'Università Ebraica di Gerusalemme, progetto presentato ieri nel corso della conferenza stampa "Dialogo Italia-Israele: lo sviluppo è il nuovo nome della pace", tenutasi a Roma all'associazione stampa estera. A intervenire Paolo Sorbi, docente di Sociologia dell'Università Europea di Roma e direttore del Centro Ricerche di Psicologia Politica e Geopolitica (Crippeg), Uzi Rebhun, docente di Sociologia dell'Università Ebraica di Gerusalemme, Luca Gallizia, rettore dell'Università Europea di Roma e Antonio Gaspari, direttore editoriale di Zenit. A moderare l'incontro Maria Medici, referente Crippeg dell'Università Europea di Roma nonché tra le promotrici dell'iniziativa che vedrà la sua prima tappa a Gerusalemme, il prossimo 22 giugno con un convegno che avrà tra i suoi protagonisti il demografo Sergio Della Pergola, docente dell'Università Ebraica.
"Israele diventa un banco di prova esemplare per saggiare la fecondità dei concetti e delle coordinate teoriche che sorreggono le ricerche scientifiche promosse dal Centro - ha spiegato ieri Medici, in riferimento alla collaborazione tra le università - Dunque, diversi ordini tematici e filoni critici si intrecciano e si annodano nell'esperienza del Centro e delle sue testate. Politica, spiritualità, di cui nessun altro luogo al mondo è ricco quanto Gerusalemme; e, naturalmente, psicologia, se è vero che la psico-politica persegue l'ambizione di mettere a nudo le radici psicologiche coscienti e incoscienti dei comportamenti politici degli esseri umani, innanzitutto quelli attinenti alla leadership e al suo ascendente sulle masse".

(moked, 27 maggio 2015)


Amnesty accusa Hamas: a Gaza ha ucciso e torturato palestinesi

ROMA, 27 mag. - Hamas, il movimento al potere nella Striscia di Gaza, ha condotto una brutale campagna di rapimenti, torture e uccisioni nei confronti palestinesi sospettati di "collaborazionismo" con Israele durante l'offensiva di Tsahal a luglio e agosto dello scorso anno. Lo sostiene un nuovo rapporto pubblicato oggi da Amnesty International.
   "Strangling Necks", questo il titolo del documento, pone l'accento su una serie di abusi, come le esecuzioni sommarie di almeno 23 palestinesi, oltre all'arresto e le torture di decine di altri, compresi membri del movimento palestinese Fatah.
   "E' assolutamente agghiacciante che, mentre le forze israeliane infliggevano morti e distruzione al popolo di Gaza, forze di Hamas cogliessero l'opportunità di fare spietati regolamenti di conti, realizzando una serie di uccisioni illegali e di altri gravi abusi", ha dichiarato Philip Luther, direttore per il Medio Oriente e il Nordafrica di Amnesty. "Nel caos del conflitto - ha continuato - l'amministrazione de facto di Hamas ha garantito alle sue forze di sicurezza mano libera per esercitare orribili abusi, anche su persone in sua custodia. Queste azioni agghiaccianti, alcune delle quali corrispondono a crimini di guerra, sono state progettate per vendicarsi e per diffondere la paura nella Striscia di Gaza".
   La gran parte delle uccisioni furono presentate come punizioni nei confronti di collaborazionisti di Israele. Tuttavia - sostiene Amnesty - almeno 16 dei giustiziati erano in custodia da prima che l'attacco israeliano iniziasse. Alcuni erano in attesa di giudizio, quando sono stati uccisi.
   Hamas, accusa ancora Amnesty, ha rapito, torturato o attaccato membri e sostenitori di Fatah, il movimento laico suo rivale e al potere in Cisgiordania. Tra le vittime, anche ex mmebri delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese.
   Per questi crimini, nessuno è stato portato in giudizio, segno che - scrive ancora Amnesty - le autorità di Hamas hanno coperto o ordinato queste azioni. "Invece di esercitare la giustizia- ha detto ancora Luther -, le autorità e la leadership di Hamas ha continuamente incoraggiato e facilitato questi agghiaccianti crimini contro individui inoffensivi. Il fatto che non abbiano neanche condannato le uccisioni illegali, i rapimenti e le torture di presunti sospetti lascia le loro mani sporche di sangue".

(askanews, 27 maggio 2015)


Ruthie Rousso, la nuova cucina di Israele

di Alessandra Dal Monte

Ruthie Rousso
Radiopost:
Chef, giornalista, scrittrice. Ruthie Rousso è una «ambasciatrice culinaria» di Israele, che gira per il mondo spiegando e raccontando la cucina del suo Paese. Una cucina giovane, piena di influenze e contaminazioni. Una cucina che lei ha vissuto in prima persona fin da piccola, visto che sua madre, Nira Rousso, era la Julia Child d'Israele, tra programmi e libri di ricette. Ruthie non voleva seguire le sue orme, ma poi la passione ha avuto il sopravvento e a 20 anni ha deciso di andare a studiare da chef a New York. Oggi è columnist per diverse riviste israeliane e autrice della rubrica Latte&miele per Cucina.corriere.it. Invitata come ospite a "Cibo a regola d'arte", l'evento gastronomico del Corriere della Sera, ha preparato il masabacha, un piatto a base di ceci cotti e crema di sesamo. Nel radiopost ci racconta anche il rapporto tra le donne e la cucina in Israele, e il paradosso dell'alta gastronomia dominata da chef uomini: ma la persona più influente è una donna, Michal Ansky.

(Corriere della Sera - Blog, 27 maggio 2015)


Israele colpisce quattro obiettivi dopo un lancio di razzi dalla Striscia di Gaza

Il portavoce militare ha spiegato che l'azione è "una diretta risposta all'aggressione di Hamas contro civili israeliani. L'idea che il territorio di Hamas sia usato come terreno di esercitazione per attaccare Israele è inaccettabile e intollerabile". Il ministro della difesa di Israele Moshé Yaalon ha poi aggiunto che Gaza "pagherà un prezzo pesante" se la violenza dovesse aumentare.

Israele non ha atteso e ha subito risposto al "lancio di quattro razzi partiti dalla Striscia" verso il sud del paese. L'aviazione israeliana ha colpito quattro obiettivi "terroristici". Il portavoce militare ha spiegato che l'azione è "una diretta risposta all'aggressione di Hamas contro civili israeliani. L'idea che il territorio di Hamas sia usato come terreno di esercitazione per attaccare Israele è inaccettabile e intollerabile". Il ministro della difesa di Israele Moshé Yaalon ha poi aggiunto che Gaza "pagherà un prezzo pesante" se la violenza dovesse aumentare. Israele "non ha intenzione di ignorare il lancio di razzi contro i suoi cittadini, come quello che è stato effettuato dalla Jihad islamica ieri sera" ha proseguito Yaalon invitando Hamas a interrompere il lancio.
   Martedì 26 maggio un missile - che l'esercito israeliano ha attribuito alla Jihad islamica - ha colpito Gan Yavne, un piccolo centro a ridosso della città costiera di Ashdod. In tutta la zona attorno alla Striscia poco prima - verso le 21 (ora locale) - sono risuonate le sirene di allarme antimissili: un evento accaduto l'ultima volta il 23 aprile scorso, in occasione del giorno dell'Indipendenza dello Stato ebraico, e al quale Israele rispose con il fuoco di tank verso la postazione di lancio dei razzi. Erano passati allora quattro mesi di tranquillità dall'ultimo allarme: dalla fine del duro conflitto della scorsa estate, altre volte - rompendo un cessate il fuoco faticosamente raggiunto tra le parti - sono stati infatti lanciati razzi dalla Striscia a cui l'esercito israeliano ha risposto contenendo però la riposta. Il razzo, comunque, non fatto né danni né vittime anche se un ragazzo di 15 anni si è presentato all'ospedale locale in stato di choc. Il lancio - secondo i media - sarebbe dovuto ai dissidi interni sorti nell'organizzazione riguardo la nomina di un nuovo comandante militare nella zona nord di Gaza.
   Un'ala di Hamas invece, ha arrestato i miliziani responsabili del lancio dei razzi. Una fonte del movimento islamico palestinese ha detto al sito di Ynet che "quello che è successo va contro gli interessi delle fazioni palestinesi nella Striscia di Gaza e contro i nostri interessi nazionali". L'esponente di Hamas ha quindi annunciato che è in corso una mediazione con Israele per cercare di allentare la tensione il prima possibile.

(il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2015)


Anche Churchill diventa uno spot per gruppi di pressione gay friendly

Uno storico riduce il premier inglese a un'allusione sessuale

di Giulio Meotti

 
Winston Churchill con la moglie Clementine nel 1951
ROMA - "Il matrimonio è stato per me l'evento più fausto e gioioso ... Non avrei mai pensato che la vita normale potesse essere tanto interessante". Così scriveva Winston Churchill alla moglie Clementine. Scrisse quasi ogni giorno alla sua "darling Clemmie", e le sue lettere rivelarono sempre semplicità. "I love you so much". "Mia preziosa, deliziosa Clemmie ... non sarebbe bello, al mio ritorno, andare per qualche settimana in Italia o in Spagna, e dipingere e vagabondare al sole, lontano dal fragore delle armi o dai ragli del Parlamento".
   Adesso un grande storico, Michael Bloch, autore del volume "Closet Queens", prende Churchill e lo getta nel mucchio gay friendly, Il grande statista inglese sarebbe in realtà un cripto omosessuale. Dietro al misogino Churchill, vulcanico ed eccentrico, facile all'ira come all'humour, corpulento, amante della buona tavola e della buona conversazione, ci sarebbe una queen. "Winston Churchill non avrebbe potuto essere un marito più fedele e non ha mai mostrato il minimo interesse romantico o sessuale per altri uomini", replica sul Daily Mail lo storico Dominic Sandbrook. Bloch sostiene che erano omosessuali anche il liberale tardo vittoriano Lord Rosebery, il Tory edoardiano Arthur Balfour ed Edward Heath. In alcuni casi, le prove di Bloch sono inconfutabili. Ad esempio su Jeremy Thorpe, il leader liberale nei primi anni Settanta. Bloch suggerisce che fosse gay anche Enoch Powell, profeta thatcheriano che divenne famoso per la sua battaglia contro l'immigrazione, citando le lettere e le poesie che scriveva negli anni Trenta e Quaranta. Powell divenne un marito e un padre felice, la cui vita personale sembra essere stata del tutto convenzionale.
   "Bloch è così desideroso di identificare i politici morti come omosessuali che mi chiedo se non sarebbe stato più facile scrivere un libro su quelli che egli riteneva eterosessuali", risponde Sandbrook. "Sarebbe probabilmente stato molto più breve, perché agli occhi di Bloch, semplicemente dire 'buongiorno' a uno dei suoi colleghi potrebbe essere un segno rivelatore di devianza sessuale". E' lunga la serie di personaggi storici che sono stati recentemente "smascherati" come omosessuali segreti, da Alessandro Magno ad Abramo Lincoln. Pochi mesi fa è uscito negli Stati Uniti il libro di Larry Kramer, drammaturgo, sceneggiatore e saggista, "The American People", in cui sostiene che Nixon, George Washington, Lincoln, Alexander Hamilton, ma anche Melville e Mark Twain, fossero in realtà tutti gay. "Ma anche se gli attivisti per i diritti dei gay si sono affrettati a rivendicare le figure storiche come modelli, la realtà è più complicata", scrive Sandbrook. "Alessandro, Leonardo e Michelangelo sarebbero stati sicuramente sconcertati nello scoprire se stessi etichettati come gay, perché hanno vissuto in un'epoca in cui le persone non erano ordinatamente divise in due o tre categorie sessuali".
   Corsi universitari, soprattutto in America, si specializzano in quelli che chiamano "studi queer", presentando autori come Jane Austen e Charles Dickens alla luce della teoria queer, Alcuni storici hanno anche cercato persino di omosessualizzare Riccardo Cuor di Leone, fino al punto di suggerire che avesse fatto sesso con il suo storico rivale, Filippo II di Francia. Un genere storiografico caratterizzato, scrive Sandbrook, da "un frivolo e sensazionalistico voyeurismo che riduce il passato a una serie di allusioni sessuali". Ci mancava soltanto la trasformazione del più grande primo ministro inglese della storia, il duro che ha salvato l'Europa dal nazismo, in uno spot per gruppi di pressione gay friendly, Soprattutto, Churchill era capace di quel sarcasmo che sembra mancare ai moderni militanti del queer, Una fredda sera di novembre del 1958, un deputato conservatore, Ian Harvey, venne arrestato a St. James Park dopo che la polizia lo aveva beccato a fare sesso con una guardia. La notizia venne trasmessa a Sir Winston, che disse: "Nella notte più fredda dell'anno?". E ridacchiò. "Ti rende orgoglioso di essere inglese".

(Il Foglio, 27 maggio 2015)


Anti-semitismo e pro-omofilismo: due correnti culturali che non per caso procedono di pari passo. M.C.


Convegno su sanità in Israele e welfare lombardo

MILANO, 27 mag. - Domani, 28 maggio, alle ore 9.30, in Corso Venezia 48, presso il Circolo della Stampa, si svolgerà il convegno «Costruzione di un Sistema Sanitario Globale». L'iniziativa mette a confronto il sistema sanitario lombardo con quello israeliano; l'organizzazione del territorio da un punto di vista socio-sanitario nei due Paesi; il diverso ruolo e la diversa considerazione sociale che i medici egli altri operatori sanitari occupano nei due Sistemi.
L'evento è stato proposto da Mediterranean Soli-darity Association (MSA), e patrocinato dalla Comunità ebraica di Milano.
Oltre alla presenza dell'Ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon, interverrà anche Alberto Zoli, Direttore Generale Areu 118 Lombardia.

(Libero, 27 maggio 2015)


Pannelli fotovoltaici sugli ospedali di Gaza

Un medico canadese di origini palestinesi ha deciso di lanciare un progetto per coprire di pannelli fotovoltaici gli ospedali della Striscia di Gaza. Il progetto si appoggia su una piattaforma di crowdfunding.

La luce del sole per evitare i blackout negli ospedali di Gaza. Con il progetto "EmpowerGAZA" un gruppo di dottori canadesi vuole installare pannelli fotovoltaici su quattro dei maggiori nosocomi della Striscia, dove anche in tempo di pace la luce può mancare per 16 ore al giorno.
   L'idea è nata dall'esperienza diretta di Tarek Loubani, medico canadese di origini palestinesi a capo del progetto, che ha lavorato come volontario a Gaza sotto i bombardamenti israeliani la scorsa estate. Ma il progetto non è pensato soltanto per rispondere alle crisi durante i conflitti. La sua iniziativa infatti ha anche un obiettivo di carattere ambientale.
   Da un lato riuscire a salvare più vite: un blackout in sala operatoria infatti può essere fatale, anche perché costringe i dottori a eseguire procedure d'urgenza rischiose per risparmiare l'energia dei gruppi di continuità. Dall'altro lato, c'è la questione ambientale. Ogni ospedale a Gaza è dotato di generatori diesel che entrano in funzione quando l'elettricità viene tagliata o arriva a singhiozzo. Procurarsi il carburante costa molto, ma soprattutto inquina e il macchinario produce un elevato inquinamento acustico.
   Un progetto simile è già andato in porto all'inizio dell'anno al Jenin Charitable Hospital e con ottimi risultati. Adesso l'edificio, alimentato al 100% dalla radiazione solare, produce 76 MWh l'anno da 168 moduli e serve un bacino di 200mila persone.
   Loubani, insieme ai colleghi Ben Thomson e Dalal Dahrouj dell'università del Western Ontario e alla regista Amy Miller, ha iniziato a fine aprile una raccolta fondi che si concluderà il 26 giugno. Appoggiandosi alla popolare piattaforma di crowdfunding Indiegogo puntano a raccogliere 200.000 dollari, che andranno a finanziare i pannelli solari per il primo dei quattro ospedali. Una volta raggiunto l'obiettivo subentreranno altri sponsor, fra cui il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) e la Ong canadese Islamic Relief Canada. Il costo totale del progetto è di 1,2 milioni di dollari per fornire energia 24/7 agli ospedali di Deir al-Balah, Beit Lahiya, Khan Younis e la struttura pediatrica Rantisi di Gaza.

(Rinnovabili.it, 26 maggio 2015)


Lanciati quattro razzi da Gaza: in Israele suonano le sirene d'allarme

Quattro esplosioni sono state udite nelle area sud di Israele intorno a Gaza dove poco prima sono risuonate le sirene di allarme anti missili.
Nella zona è compresa la città di Ashdod. L'esercito sta valutando la situazione e alcuni rapporti parlano di quattro razzi sparati dalla Striscia. Per ora non sono segnalate nè vittime nè danni.
Il portavoce dell'esercito israeliano ha detto che almeno un razzo lanciato da Gaza è esploso in Israele. Il proiettile - ha spiegato, citato dai media - è caduto a Gan Yavne nei pressi della città di Ashdod.

(Il Messaggero, 26 maggio 2015)


Israele chiede alla Fifa l'espulsione della Palestina

 
Nitsana Darshan-Leitner, fondatrice di Shurat HaDin
La ONG israeliana Shurat HaDin (Centro Giuridico d'Israele), che difende i diritti delle vittime israeliane del terrorismo, ha inviato una lettera al presidente della Fifa chiedendo che la Federcalcio palestinese venga espulsa dall'organo di governo del calcio mondiale. La richiesta arriva in risposta a un'identica mozione presentata, a parti invertite, dalla federazione palestinese. Shurat HaDin, l'ente che ha inviato la lettera a Joseph Blatter, crede che il presidente Jibril Rajoub violi le regole della Fifa per il suo invocare violenza contro Israele. Rajoub aveva presentato una mozione per l'espulsione del Paese rivale sostenendo che la loro "politica ostruzionista" impedisca lo sviluppo del calcio palestinese. La fondatrice di Shurat HaDin, Nitsana Darshan-Leitner, invece crede che "se il Congresso discuterà di accuse contro Israele, allora discutere anche di quelle contro Rajoub. Dovrebbe esaminare chi ha realmente commesso dei crimini, chi incoraggia la violenza". Per Darshan-Leitner, Rajoub dovrebbe essere espulso perché è il segretario del Comitato centrale del movimento Fatah la cui ala armata ha rivendicato diversi attacchi che "hanno causato innumerevoli morti e feriti tra gli israeliani - dice, intervistata dalla Dpa - il presidente della Federcalcio palestinese ha promosso, supervisionato e benedetto azioni armate contro Israele".

(Fonti: la Repubblica, Le Monde.juif, 26 maggio 2015)


Israele - Venduti oltre 700 mila telefoni cellulari nel primo quadrimestre 2015

GERUSALEMME - Sono 787.630 i nuovi telefoni cellulari venduti in Israele nel primo quadrimestre del 2015, in aumento del 20 per cento rispetto allo stesso periodo del 2014. E' quanto emerge dai dati forniti dall'International data corporation, secondo quanto riferisce l'Agenzia per la promozione all'estero e l'internazionalizzazione delle imprese italiane (Ice). Apple si conferma il marchio leader in Israele detenendo il 32 per cento del mercato. Il dato è rilevante se si considera che la multinazionale statunitense offre solamente due modelli (iPhone6 e iPhone 6 Plus) e nel mercato israeliano è presente con prezzi mediamente elevati.

(Agenzia Nova, 26 maggio 2015)


"L'Occidente deve fermare l'Iran che sostiene i terroristi e viola i diritti umani"

Lo chiede un parlamentare americano

Steve Stivers
"L'Iran deve smettere di sostenere i terroristi e porre fine alle violazioni dei diritti umani in base a qualunque accordo con l'Occidente che miri ad impedirgli di acquisire la bomba atomica", ha chiesto un parlamentare americano.
Steve Stivers, membro del Congresso, ha detto di essere "seriamente preoccupato" del fatto che non ci si possa fidare che questo regime rispetterà i suoi impegni presi in base a qualunque accordo e che il Congresso dovrà avere un ruolo nell'approvazione di qualunque accordo.
Ed ha continuato dicendo: "Credo che gli Stati Uniti debbano fare tutto ciò che possono per scongiurare un Iran nuclearizzato e che debbano considerare tutte le opzioni necessarie a raggiungere questo scopo.
"L'Amministrazione è stata recentemente coinvolta nei negoziati per impedire all'Iran di creare armi nucleari. Il mese scorso è stato raggiunto un accordo di massima che rimuoverà le sanzioni economiche se l'Iran ridimensionerà il suo programma nucleare.
"Sfortunatamente l'Iran ora insiste che le sanzioni dovranno essere rimosse appena l'accordo verrà finalizzato, mentre l'Amministrazione vuole che le sanzioni vengano rimosse gradualmente dopo che il programma nucleare sarà stato ridimensionato e verificato. La scadenza fissata per il raggiungimento dell'accordo finale è la fine di Giugno".
E Stivers ha aggiunto: "Sono seriamente preoccupato e mi chiedo se ci si possa fidare che questo regime rispetterà i suoi impegni presi in base ad un qualunque accordo.
"Prima di prendere in considerazione un alleggerimento delle sanzioni, l'Iran deve smettere di sostenere le organizzazioni terroristiche, deve eliminare il suo programma nucleare e porre fine alla sua lunga storia di violazione dei diritti umani. Credo anche, visto che il Congresso ha imposto le sanzioni, che il Congresso dovrà avere un ruolo nell'approvazione dell'accordo.
"Ecco perché la scorsa settimana ho votato per chiedere una revisione del Congresso di qualunque accordo finale sul nucleare con l'Iran, prima che il Presidente possa ritirare o sospendere le sanzioni imposte dal Congresso".

(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 26 maggio 2015)


Proteste in Svizzera per l'acquisto di droni israeliani

Alcuni attivisti hanno bloccato per circa un'ora l'accesso alla piazza d'armi di Thun.

THUN - Alcuni attivisti di diverse organizzazioni hanno bloccato stamane per circa un'ora l'accesso principale alla piazza d'armi di Thun per protestare contro il previsto acquisto di droni israeliani da parte dell'esercito svizzero. La polizia bernese ha fatto un controllo di identità ma non ha fermato nessuno.
Secondo quanto indica una nota del Gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE), gli attivisti volevano impedire ai membri delle commissioni della politica di sicurezza di entrambe le camere del parlamento di accedere alla piazza d'armi, dove doveva essere loro presentato il programma d'armamento 2015. Lo scopo era di sensibilizzarli affinché rinuncino all'acquisto dei droni.
Il programma presentato in febbraio dal Consiglio federale prevede tra l'altro l'acquisto, per 250 milioni di franchi, di sei velivoli senza pilota di esplorazione del tipo Hermes 900 prodotti dall'impresa israeliana Elbit Systems, inclusi componenti a terra, simulatore e logistica. Il GSsE accusa l'impresa di essere "direttamente coinvolta in diverse violazioni di diritti umani e del diritto internazionale".
Diversi politici, in particolare di sinistra, si sono già espressi contro una tale spesa: vengono rivolte accuse al governo israeliano di violazione dei diritti umani e di aver testato il materiale in Cisgiordania, Gaza e Libano.
A febbraio il ministro della difesa Ueli Maurer aveva detto che il Consiglio federale non vede alcun problema nel fatto che i droni vengano da Israele.
Una portavoce della polizia cantonale bernese, interpellata dall'ats, ha indicato che sul posto sono stati annotati i dati personali di singoli attivisti. Nessuno è però stato fermato. Nelle foto pubblicate dal GSsE si vedono alcuni di loro coricati al suolo davanti all'ingresso della piazza d'armi in modo da impedire l'accesso ai veicoli.

(Corriere del Ticino, 26 maggio 2015)


Cacciati gli israeliani dal festival delle ong finanziato dall'Unione europea

Helsinki proibita al Fondo nazionale ebraico

di Giulio Meotti

 
Keren Kayemeth LeIsrael
ROMA - In ebraico si chiama Keren Kayemeth LeIsrael. E' il Fondo nazionale ebraico, l'organizzazione no profit sorta prima ancora dello stesso stato di Israele e che solo nell'ultimo mezzo secolo ha piantato duecentottanta milioni di alberi. Quel Fondo che è anche uno dei protagonisti del padiglione d'Israele all'Expo di Milano, i "Fields of Tomorrow", campi di domani.
   Cosa ci può essere di meglio che boicottare uno dei simboli stessi della rinascita del popolo ebraico nella sua terra, quel Fondo che riuscì a far rifiorire terre aride che la letteratura professionale aveva definito inutilizzabili e che oggi collabora con molti paesi della zona e del Terzo mondo per la bonifica di terreni agricoli e per l'arricchimento delle riserve idriche? Girando per Israele, un villaggio ebraico si distingue da uno arabo già a prima vista, perché dovunque è possibile vedere piante e verde, la vita (lo scrittore A. B. Yeoshua ha dedicato un racconto al fuoco che divora lo sforzo israeliano di far fiorire le pietre). E quale evento migliore per boicottare Israele e la sua più antica organizzazione ecologista del mondo di una festa green all'insegna di parole come sostenibilità, razzismo, aiuti umanitari, diritti umani, paesi in via di sviluppo, globalizzazione e interazione fra culture diverse? Come rivela il giornale israeliano Maariv, è quello che è successo nel weekend a Helsinki, dove la ong israeliana Fondo nazionale ebraico è stata bandita dalla partecipazione al "Maailma kylässä", il World Village, il festival delle ong organizzato dall'organizzazione multiculturale Kepa, che raccoglie trecento diverse ong, e finanziato dall'Unione europea e dalla Croce Rossa. All'inizio gli israeliani avevano ricevuto l'invito a partecipare, salvo poi vedersi rifiutata l'affiliazione a causa dell'"esistenza di punti di domanda sulla legittimità delle sue attività". Il professor Syksy Räsänen, che aveva organizzato la protesta contro la presenza degli israeliani, si dice "molto soddisfatto della decisione", che saluta come una "vittoria del boicottaggio". E' il secondo successo contro Israele in una settimana. L'Università di Helsinki ha appena annullato, infatti, anche il suo contratto con l'azienda di sicurezza G4S per i suoi appalti nel sistema carcerario israeliano. La decisione dell'Università di Helsinki fa seguito a una campagna sostenuta dai sindacati che rappresentano docenti e studenti. A seguito della cancellazione, i servizi di sicurezza al campus verranno ora forniti dalla società finlandese Turvatiimi.
   L'ambasciata israeliana in Finlandia aveva protestato con il governo di Helsinki per la estromissione del Fondo nazionale ebraico, per poi sentirsi dire che "è un evento privato su cui il ministero degli Esteri non ha voce in capitolo", quando invece il World Village è finanziato anche dal ministero degli Esteri finlandese (diciassette milioni di euro in due anni), oltre che da Bruxelles. L'ambasciatore israeliano a Helsinki, Dan Ashbel, ha detto che "che questo tipo di approccio ha portato all'Olocausto".
   Al World Village del 2014, il Forum Palestina aveva distribuito mappe del medio oriente da cui mancava lo stato d'Israele. Un anno dopo, "la lobby delle Grandi Coscienze", come Mark Steyn ha definito le ong, è riuscita a cancellare davvero Israele.
   
(Il Foglio, 26 maggio 2015)


Salmo 129

Molte volte mi hanno oppresso fin dalla mia giovinezza!
- lo dica pure Israele -
molte volte mi hanno oppresso fin dalla mia giovinezza;
eppure, non hanno potuto vincermi.
Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
vi hanno tracciato i loro lunghi solchi.
L'Eterno è giusto;
egli ha tagliato le funi degli empi.
Siano confusi e voltino le spalle
tutti quelli che odiano Sion!
Siano come l'erba dei tetti,
che secca prima di crescere!
Non se ne riempie la mano il mietitore,
né le braccia chi lega i covoni;
e i passanti non dicono:
«La benedizione dell'Eterno sia su di voi;
noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!»
 

Abu Mazen, angelo di che?

di Maurizio Del Maschio

L'affermazione attribuita dai media a papa Francesco secondo cui Mahmoud Abbas, noto con il nome di battaglia di Abu Mazen, sarebbe un "angelo della pace" è a dir poco sbalorditiva. Posso capire che diplomaticamente occorre lisciare il pelo a chi permette (se non incoraggia) l'espulsione dei cristiani dai territori islamizzati, posso capire la necessità di tutelare la minoranza cristiana cercando il consenso di chi detiene il potere nei Paesi islamici, ma riconoscere la Palestina come Stato ignorando le problematiche connesse alla sicurezza di Israele, Stato legittimo e legalmente esistente che non mai attaccato per primo i propri vicini e etichettare il leader palestinese come "angelo della pace" sta a metà strada fra il comico e il tragico. Solo dopo che la Palestina avrà riconosciuto ufficialmente il diritto di Israele di esistere il suo capo può essere definito "angelo della pace". Ma il papa è informato riguardo agli interventi, all'interno o all'estero, del Presidente dell'OLP o glieli hanno tenuti nascosti? Inoltre, ci vuole una bella faccia tosta per parlare dei palestinesi come "nazione". O non si conosce il concetto di "nazione" o si ignora la storia o si bara al gioco. Vedere un papa che si affretta ad andare incontro al leader palestinese abbracciandolo come se fosseun amico fraterno mi ha profondamente indignato. Trovo aberrante che il capo della cattolicità possa comportarsi in modo tanto disinvolto, azzardato e superficiale, senza pensare all'ambiguità dell'interpretazione del suo gesto (compiuto sicuramente in buonafede), alle lacrime, ai morti, al dolore di tutti i figli rimasti senza genitori e di genitori rimasti senza figli a seguito delle azioni di terroristi senza scrupoli amanti della morte ed esaltati dal presidente palestinese. Sorge il dubbio che si tratti di un gesto ambiguo, interpretabile come connivenza ideologica antisemita tra chi comanda i terroristi e chi vuol ridare vigore all'antica tradizione cristiana di odio antigiudaico. Io, cristiano cattolico, non posso non denunciare una simile vergogna, neppure di fronte al papa.
 
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   Sono preoccupato che al ruolo di capo religioso dei cattolici il papa Francesco sembri anteporre quello del capo di Stato che con Pio IX ci auguravamo fosse morto e sepolto. Come si fa, da capo della Chiesa cattolica, ad abbracciare chi ha esaltato i terroristi palestinesi seminatori di morte, responsabili di migliaia di vittime israeliane e cristiane, senza dire una parola per esortare la massima autorità palestinese a far cessare tanto odio inculcato nelle nuove generazioni fin dalle scuole d'infanzia? Quale messaggio il papa vuole trasmettere con simili gesti? Cosa ha pensato quando, in visita a Betlemme, si fermò a pregare davanti al muro che difende gli Israeliani dal terrorismo palestinese? Come posso dimenticare che si soffermò davanti a un'immagine di Gesù bambino avvolto in una kefiah? Forse che voleva negare l'ebraicità di Gesù, avvalorando la falsa cristologia della liberazione palestinese offendendo Israele, gli ebrei e pure i cristiani che si sentono seguaci di quel Gesù ebreo (non del Gesù dei santini vestito alla romana) pienamente inserito nella religiosità dell'Israele del suo tempo? Abu Mazen non ha mai nascosto di non voler fare alcuna pace con Israele, non ha mai nascosto di considerare tutta la terra dello Stato di Israele proprietà palestinese, non ha mai condannato il terrorismo che insanguina le strade di Israele e di Gerusalemme. Anzi, ha dedicato e continua a dedicare ai terroristi strade, piazze, scuole, esaltandoli pubblicamente e propalando menzogne e falsità alla televisione di Stato, da lui controllata, dove non passa giorno che non si mandino in onda programmi di odio contro gli ebrei, dove appaiono bambini di scuola materna ed elementare che si dicono desiderosi di uccidere gli ebrei e diventare shahid (martiri). Questo è l'"angelo della pace" che ha abbracciato il papa Francesco. Se è vero che dal buio sorge l'aurora, dal male può venire un bene, dalla morte può venire la vita, aspettiamo di vedere segni concreti della "conversione alla pace" di Abu Mazen.
   Questo incontro ricorda i tempi passati in cui Yasser Arafat, noto terrorista e capo dell'OLP, veniva osannato dai francescani di Assisi. Provo inquietudine, tristezza e sdegno di fronte a simili eventi, perché coloro che si sono succeduti al vertice della Chiesa cattolica continuano a fare un passo avanti e due indietro, perché, secondo la logica del mondo, ossequiano i prepotenti, i cattivi, i violenti, gli ingiusti, gli esseri abietti che non hanno mai dato segni di pentimento e di voler perseguire sinceramente la pace. Gesù accoglieva tutti i peccatori, ma a condizione che decidessero di cambiare vita. Basta ascoltare i discorsi di Abu Mazen per capire che egli non desidera la pace, basta riascoltare il suo discorso all'ONU, quando ha evocato un inesistente "genocidio" perpetrato da Israele nel confronti dei palestinesi e ha invocato il Tribunale internazionale contro i "criminali di guerra" israeliani, mentre Tzahal oggi è fra gli eserciti maggiormente ispirato ai più alti principi etici. L'alleanza di Fatah con Hamas non è casuale: anche se i suoi motivi di opportunità sono evidenti, di certo non è un segnale di pace la decisione di Abu Mazen di stringere un accordo di governo con un'organizzazione che promette di sterminare il Popolo ebraico e che mette in pratica costantemente le sue intenzioni. Abu Mazen è l'uomo che ha dichiarato che uno Stato palestinese deve essere judenrein (cioè, come dicevano i nazisti tedeschi, depurato dagli ebrei), che non accetterà mai che Israele sia denominato "Stato del Popolo ebraico"; che insiste con il diritto al ritorno degli arabi che dissolverebbe Israele, che è erede di chi a rifiutato la proposta israeliana del 96% del territorio del West Bank, di tutta Gerusalemme Est e della spianata del Tempio. Al Fatah, la sua organizzazione, non lesina le false, atroci e assurde "accuse del sangue" di medievale memoria nei confronti di Israele, le accuse di apartheid, di genocidio, di violenza che sono temi quotidiani alla televisione, sui giornali, nelle scuole palestinesi. L'ondata di terrore che dal 2013 di nuovo incombe sulle strade di Gerusalemme ha protagonisti che sono in gran parte di al Fatah, non di Hamas. Ora, forte dei vari riconoscimenti internazionali, Abu Mazen pone condizioni sempre più dure e inaccettabili per riprendere le trattative con Israele. Tanta ipocrisia, anche da parte dei governi occidentali, deve essere smascherata per amore di verità. Quello con l'Islam terroristico è un abbraccio ambiguo e mortale che sancisce la resa del cristianesimo. Di tutto ciò il papa è consapevole?

(Online News, 26 maggio 2015)


Salvò un bimbo ebreo. Medaglia a don Perron

Una grande vicenda di coraggio, un debito di riconoscenza che sarà onorato domani nel municipio di Courmayer. Protagonista un parroco morto da tempo e un medico di fede ebraica di Saluzzo, oggi ottantenne. Ne aveva 7 quando don Cirillo Perron lo prese dalle braccia del padre in fuga sulle montagne e lo salvò dai rastrellamenti nazifascisti, fingendo che fosse un nipotino affidatogli dalla sorella vedova e ospitandolo nella canonica della sua parrocchia, a Courmayer, per un anno e mezzo, tra il 1943 e il 1945.
   Giulio Segre, questo il nome del bambino, non ha mai dimenticato l'affetto, la protezione e la salvezza ricevuta da un semplice parroco. E, dopo aver raccontato la sua storia in un manoscritto destinato ai familiari (poi diventato un libro grazie a una piccola casa editrice di Saluzzo), l'ha fatta arrivare allo Yad Vashem di Gerusalemme, l'Ente israeliano per la Memoria della Shoah. Ed ecco l'epilogo: domani il prete che resse la parrocchia di Courmayer per 50 anni (fino al 1989: è morto nel 1996, a 84 anni) riceverà una medaglia alla memoria, diventando un Giusto fra le Nazioni; la massima onorificenza concessa a coloro che hanno rischiato la propria vita per salvare anche un solo ebreo. A riceverla al suo posto sarà un altro don Perron: Donato, il nipote (vero) di Cirillo. Adesso, il nome del parroco di Courmayer che salvò il piccolo Giulio sarà inciso sul Muro d'Onore presso il Museo dell'Olocausto a Gerusalemme: un elenco che comprende 24mila persone, di cui circa 550 italiani. A.Ma.
   
(Avvenire, 26 maggio 2015)


Roma - Quattordici studenti del liceo ebraico sui banchi della formazione digitale

 
Piccoli programmatori crescono. Gli studenti del Liceo Ebraico di Roma "Renzo Levi" saranno premiati per il loro percorso all'interno del progetto di formazione DoLab Educational Tech.
   Dopo aver acquisito le tecniche di base di programmazione delle App, festeggeranno la consegna degli attestati di fine corso insieme ai rappresentanti della Comunità Ebraica di Roma, ai genitori, alla Scuola e ai membri del Benè Berith. La cerimonia di chiusura del corso si terrà martedì alle ore 17 presso LUISS ENLABS "La Fabbrica delle Startup", in Via Giolitti 34 a Roma.
   Il laboratorio animato da DoLab aiuta ad apprendere nuove competenze professionali in ambito digitale e dello sviluppo software. Durante l'anno scolastico che si sta concludendo, 14 giovani studenti hanno lavorato per impadronirsi dei principi basilari della programmazione mobile e sono riusciti a programmare un videogame, acquisendo tecniche professionali che potranno spalancargli le porte del mondo del lavoro digitale. Se la tendenza del "coding" - ovvero il codice informatico, la programmazione - ha già preso piede in UK e negli Usa, in Italia muove i primi passi. Il Liceo Renzo Levi è la prima scuola a sperimentare un nuovo percorso di educazione alla digitalizzazione con l'obiettivo di dare una nuova formazione ai ragazzi.
   «E' il primo passo verso un programma più ampio che speriamo di ampliare con altre scuole. C'è bisogno di educazione e formazione al digitale, perché tutte le professioni hanno bisogno di know how digital. I ragazzi devono essere preparati a un mondo del lavoro che è già cambiato. Programmi come questi regalano uno sprint in più alle opportunità lavorative», spiega Futura Pagano, Cofounder di DoLab School.
   Nato da un'idea di LVenture Group, holding di partecipazioni quotata sul MTA di Borsa Italiana, DoLab ha l'obiettivo di garantire un'offerta formativa in grado di valorizzare la creatività e le conoscenze in campo digitale con corsi in aula, azienda e istituti scolastici. Ad un anno dalla nascita, la scuola del digitale ha già formato più di 600 persone e si prepara ad allargare la propria attività in tutta Italia.
   "L'elemento straordinario di questa collaborazione è che sono per primi i ragazzi, ma anche gli stessi genitori, a farne richiesta. Il Liceo Ebraico Renzo Levi ha da tempo fatto la scelta di andare incontro alle nuove esigenze di quei ragazzi che tra pochi anni si troveranno catapultati nel mondo del lavoro digitale. E' un richiesta che arriva dal basso, che supera il dibattito sulle politiche per la scuola e centra direttamente l'obiettivo", racconta Ruth Dureghello, Assessore alla Scuola della Comunità Ebraica di Roma.
   L'iniziativa è stata lanciata in collaborazione con il Bené Berith, associazione ebraica internazionale che si occupa di diritti umani e di formazione dei giovani dal punto di vista ebraico e professionale e con la Comunità Ebraica di Roma i cui esponenti saranno presenti all'evento.
   Dopo il saluto di Luigi Capello, Ceo di LVenture Group e Cofounder di DoLab School interverranno infatti Ruth Dureghello Assessore alla Scuola & Rav della comunità ebraica; Benedetto Carucci, Preside del Liceo Renzo Levi; Mario Venezia, vicepresidente del Bené Berith e rappresentanti di alto livello dell' Ambasciata d'Israele a Roma.

(Il Messaggero, 25 maggio 2015)


Hezbollah fa sfoggio del suo arsenale nelle zone al confine con Israele

BEIRUT - Un rapporto pubblicato venerdì dal quotidiano libanese "As-Safir" getta luce sulle capacità militari di Hezbollah nel sud del Libano, lungo il confine con Israele. Il giornale noto per la sua posizione pro-Hezbollah ha rivelato che il gruppo terroristico ha stazionato ingenti forze militari nei pressi del confine tra Israele e il Libano, oltre ad aver realizzato una rete capillare di tunnel, bunker e punti d'osservazione, oltre a posizionare apparecchiature di sorveglianza e a decine di migliaia di razzi. Secondo il rapporto, Hezbollah è ai massimi livelli di allerta ed è pronto a sostenere un conflitto contro Israele in qualunque momento. Il quotidiano riporta una serie di informazioni dettagliate, specie per quanto riguarda la rete di tunnel sotterranei realizzati da Hezbollah: le gallerie - scrive il quotidiano - sono dotate di sistemi di ventilazione e Corrente elettrica, e le unità militari che vi operano hanno a disposizione razioni alimentari speciali in grado di sostenerli per settimane nell'eventualità di un conflitto, di cui vengono rifornite ogni cinque mesi. Hezbollah seguirebbe tutti i movimenti delle Forze di sicurezza israeliane al confine con apparecchiature elettroniche e sistemi di visione notturna, e alle piattaforme di lancio di razzi e missili viene assegnato personale che si alterna per garantirne l'operatività 24 ore su 24. Il rapporto, invece, non menziona l'esistenza di tunnel trans-frontalieri, a indicare che le postazioni sotterranee hanno funzione esclusivamente difensiva.

(Agenzia Nova, 26 maggio 2015)


Se la francesina a cui probabilmente è rivolto il messaggio non bada agli errori di lingua, certamente sarà lusingata.
Romanticismo a Gaza

Ragazzi palestinesi camminano su un muro a Gaza su cui è scritto in francese: "Ti amo, tu sei e sarai l'unica persona in tutta mia vita".

(Internazionale, 25 maggio 2015)


La fallimentare strategia di Obama in Medio Oriente

Il possibile raggiungimento di un accordo entro il 30 giugno sul programma nucleare iraniano, sembra aver dato il via alla corsa per la bomba atomica nel Golfo Persico. Secondo una fonte anonima del Pentagono, l'Arabia Saudita è ad un passo dall'acquisto di un ordigno atomico già pronto per l'uso: "C'è un accordo da lungo tempo tra i pakistani (sulle armi nucleari) e la Casa dei Saud (la famiglia regnante sauditi). Ora si è deciso di procedere". La mossa di Riyadh è a tutti gli effetti un messaggio che il paese saudita lancia agli Usa. L'Arabia Saudita, così come tutte le altre monarchie sunnite del Golfo, si sentono fortemente minacciate da un Iran (sciita) potenza atomica. Insomma, la scellerata decisione di intavolare una trattativa con l'Iran per il nucleare, ha creato fino ad ora più tensioni che benefici.
   Intanto metà della Siria è in mano all'Isis, ma Obama continua a dire "Non stiamo perdendo". In questo momento, francamente, è difficile credere alle parole del presidente Usa. A perdere, se non gli Usa, è senz'altro la sua strategia in Medio Oriente. Secondo Charles Krauthammer: "In Siria c'era gente pronta a combattere contro i terroristi dell'Isis e il carnefice Assad, ma noi americani abbiamo deciso di non aiutarli dicendo che erano ingegneri, medici, banchieri: poco credibili con le armi in mano. In Iraq, invece, abbiamo continuato a cercare di costruire un esercito locale con capi settari e soldati corrotti che non avevano voglia di combattere. Se Obama crede davvero in quello che dice, siamo ne guai". L'ex ministro della Difesa Robert Gates, invece ricorda : "Il gap tra la retorica e i risultati sul campo è molto vasto. I nostri nemici hanno Ramadi, Falluja e Mosul: cacciarli da queste città è un lavoro tremendamente difficile". Obama sembra non avere piani di riserva. Per il momento esclude l'invio di truppe sul campo, affidandosi alle milizie sciite in Iraq, che a dir la verità, rispondo più agli ayatollah di Teheran, piuttosto che al governo di Baghdad. Se si prendono in considerazione numerose fonti di intelligence, è facile intuire come la strategia globale di Teheran per quanto riguarda il nucleare militare-civile, non sia finalizzata alla costruzione della "bomba", ma all'armamento dei missili intercontinentali (alcuni capaci di un raggio di azione di 2000 chilometri). A questo l'Iran sta puntando.
   A questo punto sorge una domanda spontanea: Dove, e soprattutto contro chi potrebbero usare questi missili le forze sciite? Un paese affidabile, alleato dell'occidente in Medio Oriente c'è, e si chiama Israele. Fortemente contrario all'accordo con l'Iran, il paese guidato da Benjamin Netanyahu, è costantemente minacciato dalle forse sciite. Basti pensare che il consigliere militare della Guida suprema iraniana Ali Khamenei, il generale Yahya Rahim Safavi, ha recentemente dichiarato: "Ci sono 80mila missili del movimento libanese sciita Hezbollah, puntati su Haifa e Tel Aviv. Se i sionisti vogliono fare qualcosa di sbagliato (nei confronti dell'Iran) raderemo al suolo Haifa e Tel Aviv". Safavi, ha poi proseguito accusando gli Stati Uniti di causare "separatismi nella regione usando gruppi estremisti". Ecco con chi sta facendo accordi Obama.

(formiche.net, 26 maggio 2015)


Una festa nel deserto

Il 24 maggio si è concluso il festival Midburn, che si svolge nel deserto del Negev, nel sud di Israele. Per cinque giorni i partecipanti si sono accampati e hanno preso parte a una serie di performance artistiche, di danza e musicali. L'evento è una versione israeliana del Burning man in Nevada.

(Internazionale, 25 maggio 2015)


Israele e Italia dialogano partendo dallo sviluppo

Martedì 26 maggio 2015, alle ore 11,30, presso l'Associazione Stampa Estera (via dell'Umiltà 83/C) si terrà la conferenza stampa "Dialogo Italia-Israele: lo sviluppo è il nuovo nome della pace", organizzato dall'Università Europea di Roma. Promossa dall' Università Europea di Roma e organizzata da un suo centro di ricerca orientato ai temi economico culturali del Medio-Oriente (www.unier.it).
   Interverranno il Prof. Paolo Sorbi, Ordinario di Sociologia dell'Università Europea di Roma e Direttore del CRIPPEG (Centro Ricerche di Psicologia Politica e Geopolitica), il Prof. Uzi Rebhun, Docente di Sociologia dell'Università Ebraica di Gerusalemme, Padre Luca Gallizia LC, Rettore dell'Università Europea di Roma, e Antonio Gaspari, Direttore dell'agenzia internazionale Zenit.
   Presenterà l'incontro Maria Medici, Referente CRIPPEG, dell'Università Europea di Roma. Lo sviluppo dei popoli e la pace si alimentano soprattutto grazie al dialogo, all'abbattimento delle barriere e alla costruzione di ponti di amicizia.
   In questo solco si inserisce la conferenza stampa del 26 maggio, che ha l'obiettivo di illustrare i frutti e i progetti del percorso di collaborazione tra l'Università Europea di Roma, ateneo di ispirazione cristiana, e l'Università Ebraica di Gerusalemme.
   La collaborazione tra le due università nasce dalla convinzione che la ricerca tecnologica (acqua, gas e biotecnologia ) non possa fare a meno, oggi, di una visione umanistica.
   Tra gli argomenti che saranno trattati: le ricerche sui temi dell'acqua, del gas e delle biotecnologie in relazione ai temi della crescita e delle politiche pubbliche. L'attuale contesto socio culturale favorisce, in ampie fasce di giovani ricercatori universitari, lo sviluppo di un'economia nuova, basata sul rispetto per ogni essere umano e su una compatibile crescita economico-ambientale. "Lo sviluppo è il nuovo nome della pace" scriveva Papa Paolo VI nel 1967 nell'enciclica Populorum Progressio. Parole sempre vive, che ancora oggi ci indicano una strada da percorrere. Nella conferenza stampa sarà anche presentato l'iter di ricerca archeologica che il CRIPPEG sta conducendo in collaborazione con l'Opera di Magdala negli scavi di una nuova sinagoga e di un intero piccolo villaggio di pescatori del primo secolo d.C.
   
(korazim.org, 25 maggio 2015)


Mahfouz, il collezionista d'auto (e di storia) a Gaza

Mahfouz, collezionista di auto d'epoca, ha un sogno nel cassetto: creare un Museo di macchine palestinesi nella Striscia di Gaza perchè le nuove generazioni possano sapere di più della storia dei loro nonni, famiglie ed eredità.

(La Stampa, 25 maggio 2015)


Scoperti legami con l'Iran ed Hezbollah negli attacchi dell'ISIS in Arabia Saudita

Il regime iraniano potrebbe aver diretto l'attacco terroristico di venerdì in Arabia Saudita, riferisce il giornale Al-Watan citando la scoperta di una sostanza altamente esplosiva, l'RDX, contenuta nella cintura utilizzata dal terrorista suicida.
"E' stata scoperta una possibile relazione con questa sostanza, l'RDX, che gli alleati di Tehran hanno cercato di contrabbandare in Arabia Saudita due settimane fa", ha detto il quotidiano saudita.
Rispondendo ad una domanda su questa possibile relazione, il portavoce della sicurezza del Ministero degli Interni saudita, il Maggiore Generale Mansour al-Turki ha detto: "La possibilità esiste. Ma stiamo aspettando i risultati delle indagini in corso sui due casi".
Intanto il Ministero degli Interni saudita ha rivelato i dettagli delle due operazioni più recenti dell'ISIS in Arabia Saudita, ha riferito la Saudi Press Agency (SPA).
Secondo il comunicato del ministero, l'ultimo attacco del gruppo è stato compiuto venerdì da un terrorista che si è fatto saltare in aria in una moschea del villaggio di Al-Gudayh, nella provincia di Qatif, nella zona orientale della regione, uccidendo 21 fedeli e ferendone più di 100.
Il secondo attacco è stato compiuto dalla una cellula composta da cinque persone, che hanno ucciso il comandante di una pattuglia in servizio a sud di Riyadh 16 giorni fa.
Il portavoce del Ministero degli Interni saudita sabato sera ha rivelato l'identità dell'attentatore della moschea, Saleh bin Abdulrahman Al-Qash'ami, un cittadino saudita ricercato già da un anno come membro attivo di una "cellula terroristica affiliata all'ISIS' della quale finora sono stati arrestati 26 membri, tutti sauditi.
"I tests di laboratorio hanno rivelato che il materiale usato nell'attentato è RDX", ha detto il portavoce, aggiungendo che una cellula terroristica di cinque membri è riuscita ad uccidere il capo della pattuglia del dipartimento per la sicurezza delle strutture, mutilandone anche il corpo dandogli fuoco.
Il portavoce del ministero ha detto che due fucili Kalashnikov, usati nell'attacco e altri tre fucili con 14 caricatori, nove pistole con 12 caricatori, armi con baionette, 230 kg. di nitrato di alluminio e nitrato di potassio e dei volantini, sono stati sequestrati in una fattoria nella provincia di Al-Gasab utilizzata come base dalla cellula terroristica.
Altri 21 membri della cellula terroristica, che condividono molti ruoli per contribuire a diffondere le idee dell'ISIS nel Regno, sono stati arrestati, ha detto il portavoce, aggiungendo che tutti facevano propaganda per l'organizzazione, reclutavano i giovani, raccoglievano denaro per finanziare le loro operazioni, sorvegliavano i movimenti degli uomini della sicurezza, raccoglievano informazioni sui siti cruciali e fornivano rifugio ai ricercati, tra i quali vi erano anche gli autori dell'attacco di venerdì alla moschea.

(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 25 maggio 2015)


A Tel Aviv Expo e cultura, eventi per celebrare l'Italia

 
"Arakne Mediterranea"
ROMA - Tarantella, opera lirica ed Expo: la rete diplomatica italiana in Israele ha organizzato una serie di eventi per celebrare la Festa della Repubblica, presentando il Bel Paese in tutta la sua ricchezza. Con il motto "Italia e Israele EXPOnential Partners", il programma prenderà il via il 2 giugno con il concerto gratuito di tarantella che si svolgerà il 2 giugno presso l'Hatachana, la vecchia stazione ferroviaria di Giaffa, a opera del gruppo musicale "Arakne Mediterranea". Uno spettacolo all'aperto di danza, musica e canto nella migliore tradizione del Salento. Sempre il 2 giugno si svolgerà al Rabin Center il Forum scientifico Italia-Israele, quest`anno dedicato alla medicina e alla salute. Saranno presenti, tra gli altri, Ruth Arnon del Weitzman Institute, Marta Weinstock Rosin dell`Universita` Ebraica di Gerusalemme, entrambi vincitori dell`Israeli Prize per la Medicina e Sami Sagol, fondatore del `Sagol Neuroscience Network`. Il giorno dopo, sarà la volta dell`annuale ricevimento presso la residenza dell`ambasciatore d`Italia, Francesco Maria Talo`, con numerosi ospiti del mondo istituzionale e culturale. A chiudere la serie di iniziative, sarà la partecipazione il 4 giugno al Summer Festival dell`Opera di Israele a Masada, dove si terra` la prima della "Tosca" di Giacomo Puccini diretta da Daniel Oren. Sarà l`occasione per l`ambasciata di promuovere l`Expo di Milano, la cultura e i prodotti italiani presso un apposito spazio, il "Salotto Italia".

(Globalpress, 25 maggio 2015)


Se scoppia un'altra guerra con Hamas

Nel caso di una nuova guerra con Hamas le comunità israeliane situate fino a 7 km dal confine con la striscia di Gaza saranno evacuate in luoghi prestabiliti per dare spazio ad una efficace gestione della difesa minimizzando i danni ai cittadini. Dieci mesi dopo l'operazione "Margine protettivo" le Forze di Difesa israeliane, l'Autorità nazionale per le emergenze e le autorità locali del sud del paese stanno terminando la messa a punto di un piano per evacuare i residenti del sud nel caso di un altro conflitto con massicci attacchi di razzi da Gaza. Lo ha scritto sabato il Jerusalem Post spiegando che il piano, chiamato "Distanza di sicurezza", prevede che ogni comunità venga informata del luogo dove verrà ospitata prima che scatti la necessità evacuare; dei meccanismi di controllo per prevenire il saccheggio delle case sgomberate; segnalazione in tempo reale ai residenti nel caso in cui la loro abitazione risultasse danneggiata dai bombardamenti nemici.

(israele.net, 25 maggio 2015)


Antisemitismo e omofilia

Antisemitismo e omofilia
sono due binari paralleli
su cui l'umanità ribelle e peccatrice
corre veloce verso la resa dei conti
con l'unico Dio Creatore e Legislatore.
Capofila dell'antisemitismo
è l'islamico Oriente.
Capofila dell'omofilia
è il marcio Occidente.
L'unico modo di scendere dal treno
sta nell'incontro personale
con l'unico Dio Salvatore e Redentore.
 

Per sviare l'attenzione dall'uccisione di musulmani in Siria

Hezbollah concentra la sua propaganda su Israele per sviare l'attenzione dall'uccisione di musulmani in Siria. Lo ha scritto domenica Mitch Ginsburg su Times of Israel spiegando che il gruppo sciita libanese filo-iraniano, profondamente coinvolto nella guerra per la sopravvivenza del presidente siriano Assad, ha utilizzato il 15esimo anniversario del ritiro unilaterale di Israele dalla fascia di sicurezza nel Libano meridionale (24 maggio 2000) per fare sfoggio della sua preparazione alla guerra contro Israele, esibendo sofisticati bunker e tunnel sotterranei equipaggiati con elettricità, ventilazione e lanciarazzi. Si tratta comunque di struttura scavate all'interno del Libano, e non sotto il confine con Israele come i tunnel di Hamas a Gaza. Venerdì scorso il capo dell'organizzazione, Hassan Nasrallah, ha definito la battaglia in Siria "una lotta esistenziale" dicendo che una mobilitazione generale potrebbe essere necessaria per tenere a bada le forze sunnite estremiste come lo "Stato Islamico" (ISIS): questa sembra essere ancora la priorità di Hezbollah - commenta Mitch Ginsburg - ma non si può escludere che il gruppo tenti di trascinare Israele in una guerra al confine settentrionale se le cose dovessero volgere al peggio sul fronte siriano.

(israele.net, 25 maggio 2015)


L’Egitto apre il valico di Rafah per due giorni

Nella sola direzione verso la Striscia per palestinesi bloccati

Il valico di Rafah riaprirà domani e dopodomani nella sola direzione verso Gaza per consentire il ritorno di palestinesi bloccati in Egitto. Lo annunciano media egiziani citando l'ambasciata palestinese al Cairo. Il valico, l'unico che aggira il confine con Israele per raggiungere Gaza, è chiuso da ottobre e le autorità egiziane giustificano la misura con la guerra in corso contro jihadisti alleati dell'Isis nel Sinai settentrionale.

(ANSA, 25 maggio 2015)


Bruxelles ricorda le vittime dell'attentato al museo ebraico

A Bruxelles centinaia di persone si sono radunate davanti al museo ebraico per commemorare le 4 vittime dell'attentato perpetrato un anno fa.
"Bruxelles è città ebrea perchè tutti gli ebrei hanno un posto a Bruxelles" ha detto il sindaco durante una cerimonia di omaggio alle vittime in presenza del Premier Charles Michel.

(euronews, 25 maggio 2015)


Primato in Israele: una donna diventa mamma a 65 anni

Diventa mamma dando alla luce il suo primo figlio a 65 anni: succede in Israele ad una donna che ha avuto un bambino grazie alla donazione del seme.
Mamma per la prima volta a 65 anni. Sembra incredibile, eppure succede nello Stato di Israele dove una donna, dopo una vita a cercare di avere figli senza riuscirci, è diventata finalmente mamma a 65 anni.
La signora Haya Shahar, è una cittadina dello Stato di Israele che non ha certo avuto una vita facile.
La donna, dopo anni di inutili tentativi è riuscita a diventare mamma per la prima volta a 65 anni dando alla luce il suo primo bambino.
Si tratta di un vero e proprio record visto che la 65enne è la donna più anziana che abbia mai partorito in Israele.
La signora Haya Shahar non riesce comunque a raggiungere il record di donna più anziana che è diventata mamma. Il primato resta nelle mani dalla spagnola Maria del Carmen Cousada de Lara che ha partorito a 67 anni.
Come raccontano i media di Israele, Haya Shahar e il marito il 67enne Shmuel non sono stati in grado di dare alla luce un bambino nella loro lunga vita matrimoniale insieme che dura da 46 anni.

 Anni di tentativi sempre inutili.
  Poi succede che la coppia intraprende un viaggio all'estero per la fecondazione in vitro con sperma donato. In Israele infatti è vietata la fecondazione artificiale per donne oltre i 54 anni di età a causa dei rischi per la salute della madre e per quella del bambino.
Durante la gravidanza della signora molte sono state le polemiche sia nello Stato di Israele che in altri Paesi e la coppia è stata duramente attaccata da chi considerava questa gravidanza come un atto profondamente egoistico che non rispettava la vita del bambino che, inevitabilmente, sarebbe stato costretto a perdere i genitori troppo presto.
Fortunatamente in questo caso però tutto si è risolto per il meglio e la donna lunedì scorso ha dato alla luce senza complicazioni un bambino di oltre due chili e mezzo al Meir Medical Center di Kfar Saba di Israele.

(Dire Donna, 25 maggio 2015)


Start Tel Aviv competition 2015

C'è tempo fino alle ore 24 del 21 giugno 2015 per iscriversi

Le startup italiane hanno un mese di tempo per vincere l'opportunità di volare a Tel Aviv. Si è aperto infatti il bando per partecipare alla quarta edizione dello "Start Tel Aviv Competition 2015", un concorso internazionale per startup del web, mobile e security organizzato dal Ministero degli Affari Esteri israeliano, Google Israel, la Città di Tel Aviv e Tel Aviv Campus e promosso in Italia dall'Ambasciata d'Israele e da Luiss ENLABS "La Fabbrica delle Startup".
   Proprio presso la sede dell'acceleratore capitolino si è tenuto l'evento ufficiale di presentazione del contest in Italia al quale hanno preso parte l'Ambasciatore d'Israele, Naor Gilon, Talia Rafaeli, Vice Presidente di StageOne Ventures, Luigi Capello, Ceo di LVenture Group e fondatore di Luiss ENLABS e Giuseppe Morlino, ceo della startup Snapback, vincitrice della scorsa edizione della competizione.
   La startup vincitrice rappresenterà l'italia a Tel Aviv insieme alle startup di altri 22 paesi per partecipare ad un bootcamp che si svolgerà dal 6 al 10 Settembre 2015 a margine del Digital Life Design Festival. "Da sempre l'Italia è al nostro fianco in questo progetto - ha dichiarato l'Ambasciatore Gilon -. Questo paese sta facendo grandi passi avanti nel campo dell'innovazione e luoghi come Luiss ENLABS, che ci affianca da tre edizioni, sono un esempio concreto di questo fermento. Invitiamo i giovani italiani con la voglia di innovare a partecipare numerosi al contest per vincere l'opportunità di volare a Tel Aviv, uno spazio che vanta la più alta concentrazione di imprese innovative per abitante".
   I numeri dell'innovazione in Israele sono davvero impressionanti. "In trenta anni, Israele ha sviluppato il secondo ecosistema innovativo più grande al mondo dopo la Silicon Valley - ha sottolineato Talia Rafaeli -. In un territorio grande quanto la Toscana, con 8 milioni di abitanti, ci sono oltre 5.500 startup tech e centinaia di multinazionali".
   Per Luigi Capello "sviluppare e rafforzare i rapporti con l'ecosistema israeliano e il loro Venture Capital è una cosa a cui teniamo moltissimo e progetti come quello lanciato oggi servono proprio a tessere relazioni e far nascere nuove opportunità di business".
   I founder e ceo di startup del web, mobile e security, tra i 25 e i 35 anni, che abbiano già ricevuto un finanziamento di tipo seed e sviluppato un prototipo del proprio prodotto/servizio possono candidarsi inviando un video pitch, un executive summary, un Cv e un link (opzionale) alla demo del prodotto/servizio, il tutto in lingua inglese, che verranno esaminati da giornalisti, imprenditori e investitori esperti del mondo dell'innovazione.

(askanews, 25 maggio 2015)


Dalla vendita di arance alla vendita di imprese, il miracolo israeliano

In poco più di due decenni, Israele è diventato il centro nevralgico delle startup, un luogo in cui un'idea basta pensarla per essere già realtà.
Stime recenti indicano che lo Stato ebraico attualmente possiede il più alto numero di aziende high-tech pro capite: quasi 5.000 per 8 milioni di persone. Ed è proprio grazie all'alta concentrazione di queste industrie del futuro che Israele si è guadagnata il soprannome di Silicon Wadi, la Silicon Valley del Medio Oriente.
Come ha fatto un paese piccolo come Israele e con limitate risorse naturali a diventare il polo tecnologico che è oggi?
Quando si cerca di recensire la storia economica di Israele si analizzano diversi fattori che contribuiscono alla sua affascinante storia di successo: voglia di crescere, un afflusso di immigrati altamente qualificati e, di conseguenza, una forza lavoro fiorente e una buona dose di chutzpah (termine che descrive quell'essere audacemente non conformista nel proprio campo con in più un po' di "faccia tosta").
Ma forse il fattore chiave lo si trova nell'obiettivo del suo governo di rendere Israele un crogiuolo di cultura e alta imprenditorialità tecnologica che inizia fin dal percorso universitario.
2014: anno record per le exit di startup israeliane
Diciotto aziende israeliane sono entrate in Borsa (13 negli Stati Uniti e 5 nel Regno Unito) nel 2014, sollevando un totale di 9,8 miliardi di dollari, rispetto a 1,2 miliardi nel 2013.
52 startup sono state vendute per un totale di 5 miliardi di dollari. Le startup israeliane sono state acquisite ad un ritmo più veloce che mai.
Si tratta senza dubbio di risultati esaltanti, come commenta Alon Sahar di Meitar:
A volte le quotazioni rispecchiano una tendenza di mercato che indica la propensione degli azionisti verso certi settori, magari scientifici, in altre situazioni riflettono la reale capacità dell'industria di dare vita a realtà più grandi e destinate a vivere a lungo. In Israele si stanno materializzando entrambe le situazioni.
Secondo l'ultimo rapporto IVC Research Center e dallo studio legale Meitar Liquornik Geva Leshem Tal, le exit del 2014 sono state circa il 5% in più rispetto al 2013. Tra acquisizioni ed ingressi in borsa si è registrata una crescita pari a circa 6.94 miliardi di dollari.

(SiliconWadi, 25 maggio 2015)


Gaza: Hamas addestra le bambine e le ragazze, sono le "Pioniere della Liberazione"

 
 
(Sami al-Ajrami) - Si chiamano "Pioniere della Liberazione" (Taliyah a-Tahrir): è il nome del gruppo che da questa estate, su iniziativa di Hamas, raccoglierà bambine e ragazze di Gaza per metterle in condizione di affrontare situazioni di combattimento, come quelle vissute nel luglio-agosto 2014. L'annuncio è giunto da Mushir al-Masri, uno dei dirigenti di Hamas a Gaza, citato dalla agenzia Quds.net. Nelle prossime settimane, ha precisato al-Masri, sarà completata la organizzazione di campi di addestramento para militare per le ragazze di Gaza che lo desiderino. L'iscrizione è volontaria, ma l'estate scorsa - quando oltre 15 mila ragazzi della Striscia parteciparono ai corsi dei 'Pionieri della Liberazione', allora per soli maschi - apparve evidente che in materia esiste anche una dose di pressione sociale.
   Fonti informate hanno anticipato che nei campi estivi di Hamas saranno ammesse bambine e ragazze di età compresa fra 10 e 16 anni. Per loro stanno per essere allestiti campi di addestramento in quella porzione nel Sud della Striscia dove fino al 2005 si trovavano le colonie ebraiche di Gush Katif. Non saranno consegnate loro armi e vere e proprie, solo fucili di legno.
   L'idea centrale, a quanto pare, è quella di prepararle sia fisicamente (con addestramenti atletici) sia psicologicamente. Non tutti a Gaza vedono però di buon occhio la iniziativa. Destano perplessità sia la loro giovane età, sia la opportunità o meno di coinvolgere anche il 'sesso debole' in situazioni di conflitto. Proprio in questi giorni sul web sono comparse peraltro informazioni relative ad alcune decine di donne islamiche, anche madri di famiglia, già inquadrate nelle Brigate combattenti Nasser Salaheddin ed istruite all'uso di armi automatiche.
   Si addestrano tre giorni la settimana, per poter accudire al tempo stesso alle loro famiglie. In caso di guerra, per il momento, non sarebbero dislocate in prima linea, ma utilizzate come vedette o staffette. Hamas, in via informale, replica ai critici che l'avvio delle ragazze di Gaza a corsi di istruzione para militare è lecito »perché - sostiene - anche il nemico israeliano è molto militarizzato, e nella sua società non si distinguono i civili dai militari«.
   Dunque Hamas ritiene di non avere altra scelta che plasmare una società che, se necessario, sia pure determinata a combattere in forma monolitica, senza debolezze.

(Spondasud News, 24 maggio 2015)


Iran: trentasette esecuzioni in diverse città, tre in pubblico

Dal 19 al 21 Maggio il disumano regime teocratico ha giustiziato 37 persone nelle prigioni o nelle strade di varie città. Tre persone sono state giustiziate in pubblico nelle città di Qouchan, Minab e Shiraz. L'esecuzione di Minab è stata compiuta nel campo sportivo della città per intensificare ulteriormente l'atmosfera di orrore tra i giovani. A Shiraz i prigionieri condannati a morte, prima di essere giustiziati hanno subito 111 frustate.
Proprio il 20 e il 21 Maggio 24 detenuti sono stati impiccati in tre gruppi nelle prigioni di Ghezel Hessar e Gohardasht a Karaj. Gli otto impiccati all'alba di giovedì 21 Maggio nella prigione di Ghezel Hessar, erano tra quelli che avevano protestato per l'ondata di esecuzioni collettive e segrete avvenute in questa prigione il 17 Agosto 2014 e, per impedire l'esecuzione di molti loro compagni di cella, si erano scontrati con le guardie della prigione.
L'esecuzione di nove detenuti impiccati in due gruppi nelle prigioni di Shiraz e Arak il 19 Maggio, più un altro detenuto nella prigione centrale di Arak, sono gli altri crimini commessi dal regime in questo lasso di tempo.
L'obbiettivo del selvaggio regime del velayat-e faqih, che il popolo iraniano chiama "il padrino dell'ISIS", è quello di intensificare l'atmosfera di terrore e di orrore per controllare le proteste popolari che sono diventate l'incubo del regime teocratico.

(Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 24 maggio 2015)


Non ci sono in Iran, come in Israele, ONG umanitarie che documentino e denuncino simili azioni? Non è ancora stata organizzata qualche forma di boicottaggio delle Università iraniane?


Israele acquista 4 navi da guerra tedesche per difendere i giacimenti di gas nel Mediterraneo

 
GERUSALEMME, 24 mag, 13:00 - Il ministero della Difesa israeliano ha annunciato l'acquisto di quattro corvette tecnologicamente avanzate dalla Germania del valore totale di 430 milioni di euro. Secondo un comunicato del dicastero israeliano, il contratto d'acquisto è stato firmato a Tel Aviv durante una cerimonia per i 50 anni di relazioni diplomatiche fra Germania e Stato di Israele. Nell'accordo è previsto l'assunzione da parte della Germania di 115 milioni euro come parte dei risarcimenti legati all'olocausto, sistema già utilizzato in passato per altri acquisti di attrezzature militari. Fonti della Marina israeliana hanno riferito che le corvette saranno di classificate come "Sa'ar6", navi lancia missili, con il doppio della capacità offensiva delle attuali navi di classe "Sa'ar 5". Per il direttore generale del ministero della Difesa israeliano, le quattro navi rappresentano un "enorme salto di qualità nelle capacità difensive della Marina israeliana". Le quattro imbarcazioni saranno fornite nel corso dei prossimi cinque anni e avranno il compito di pattugliare le coste israeliane e di difendere i giacimenti di gas offshore presenti nell'area. Israele ha già acquistato in questi anni quattro sottomarini Dolphin, anch'essi di produzione tedesca, in grado di lanciare testate nucleari.

(Agenzia Nova, 24 maggio 2015)

Riad vuole la testa di Assad a costo di scatenare l'Isis

Lo Stato islamico issa la bandiera su Palmira. ll re sa udita è convinto di poter usare i jihadisti per abbattere il rais, ma sono loro che destabilizzano l'Arabia

di Carlo Panella

L'attentato di venerdì nella moschea sciita di Kudehi, in Arabia Saudita (20 morti e 100 feriti), segna un ulteriore è drammatico passo nell'espansione non contrastata del Califfato Nero. E la prova di una operatività piena dei miliziani del Califfato anche in un Paese sottoposto a una sorveglianza poliziesca frenetica, tanto che è stato approntato un immenso muro elettronico ai confini con l'Iraq. Ma segnala anche una sua diabolica e intelligente strategia. Come obbiettivo infatti, non è stato scelto, come fece al Qaeda nel 2002 e nel 2003 un compound dove abitavano americani, o un edificio della sicurezza saudita. Il massacro degli sciiti ha un diverso obbiettivo, preciso e inquietante: sobillare una rivolta sciita contro le autorità saudite. Il tutto, nella principale regione petrolifera saudita, dove sono i principali campi di estrazione. Kudehi è nella regione nord orientale del Qatif, a ridosso del Golfo arabico ed è abitata dalla minoranza sciita (il 10-15% della popolazione saudita) sempre sul punto di rivoltarsi. Rivolta che ha salde e concretissime ragioni: per il wahabismo saudita, gli sciiti infatti non sono musulmani, ma idolatri, perché non adorano un Dio unico, Allah, ma anche i 12 Imam (la moschea colpita è dedicata al più importante, l'Imam Ali, nipote del Profeta).
   Per questo, sia dalla fondazione del regno saudita nel 1932, gli sciiti del Qatif sono trattati da Riad come dei veri e propri paria. Hanno diritti civili dimezzati, non possono sposarsi con i wahabiti, vengono pagati molto meno degli altri (in larga parte lavorano nell'industria estrattiva e nelle raffinerie) e sono sottoposti a una sorveglianza poliziesca capillare e feroce. Più volte. A partire dagli anni '30, si sono ribellati e sono stati repressi nel sangue; negli anni '50 e '60 hanno dato vita a grandi scioperi - ugualmente repressi - nell'industria estrattiva.
   Contagiati dalla vittoria della rivoluzione sciita di Khomeini in Iran nel 1979, hanno ripreso a rivoltarsi. Oggi sono considerati dalle autorità saudite una «quinta colonna» del regime di Teheran su suolo saudita, nell'eterna ricerca di un abbattimento della dinastia regnante degli al Saud, considerata dagli sciiti khomeinisti «indegna di esercitare la Custodia dei Luoghi Santi».
   L'ultima rivolta sciita del Qatif è scoppiata nel 2011, in non casuale contemporaneità con la rivolta degli sciiti del Bahrein, che stava per detronizzare l'Emiro (sunnita). Repressa con l'invio di una colonna di carri armati la rivolta del Baharein, le autorità saudite hanno usato per l'ennesima volta ii pugno di ferro anche contro i loro concittadini sciiti. In questi ultimi giorni, la tensione stava di nuovo montando nel Qatif, a causa della condanna a morte di un religioso sciita, Nasr al Nasr, accusato da Riad di essere il responsabile di quella «sovversione». Pochi giorni fa, l'inviato di Le Monde dava conto di una riunione convocata dal governatore saudita del Qatif, con alcuni i maggiorenti e capi tribù sciiti del Qatif, per intimidirli e per convincerli - con le minacce - a sedare gli animi. Ora, il Califfato, entra con questa sua sanguinaria provocazione in questo ginepraio di tensioni, con l'evidente scopo di spingere gli offesi e non protetti sauditi a una nuova rivolta.
   Contemporaneamente, sviluppa la stessa strategia contro gli sciiti Houti dello Yemen, facendo saltare in contemporanea quattro loro moschee. Una strategia e una forza di penetrazione e di attacco che dimostrano la capacità del Califfato di al Baghdadi non solo di avanzare con la guerra tradizionale, con strategiche vittorie in Siria (a Idlib e Palmira, dove ieri i jihadisti hanno issato la bandiera nera sul castello medievale e hanno distrutto alcune copie di statue nel museo) e in Iraq (a Ramadi), ma anche di aprire nuovi fronti di destabilizzazione interna in Arabia Saudita e nello Yemen.
   Ennesima, sconfortante, prova, della vacuità della strategia della Coalizione contro il Califfato di un Obama, che nei giorni scorsi, non a caso, ha dovuto subire l'affronto del rifiuto del re saudita Salman e di altri sovrani del Golfo a partecipare alla riunione da lui convocata a Wahington per concordare l'azione contro Califfato.
Alla vigilia della possibile caduta di Assad (anche grazie al l'appoggio saudita a miliziani siriani anti regime, che peraltro combattono anche contro il Califfato, nonostante quanto si crede), questo attentato è un segnale inquietante del caos in cui tutto il Medio Oriente precipita Obama regnante.

(Libero, 24 maggio 2015)


Mostrati i tunnel del terrore di Hezbollah

Se fino a ieri i tunnel del terrore di Hezbollah erano un sospetto, concreto ma pur sempre un sospetto, da oggi sono una certezza. A mostrali al mondo con un reportage è stato il giornale libanese As-Safir, affiliato ai terroristi libanesi.
Nel servizio pubblicato venerdì scorso a pagina 3 del newspaper libanese il giornalista racconta il suo viaggio all'interno delle strutture di sicurezza e di monitoraggio di Hezbollah al confine con Israele e per la prima volta accenna ai tunnel del terrore, costruiti inizialmente con lo scopo di lanciare missili dal territorio libanese senza che il punto di lancio venisse individuato e per sfuggire al controllo dei droni israeliani, cioè una struttura fondamentalmente difensiva, ma che visto il "proficuo utilizzo fatto da Hamas in configurazione offensiva" sono stati recentemente "revisionati" per essere utilizzati anche come mezzo per offendere....

(Right Reporters, 24 maggio 2015)


Salmo 133: “Quanto è buono e quanto è piacevole che fratelli dimorino insieme”

Un gruppo femminile di danza ebraica si muove in modo meraviglioso al canto di un salmo molto amato:

הִנֵּה מַה טּוֹב
וּמַה נָּעִים
שֶׁבֶת אַחִים
גַּם יָחַד

Hine ma tov
uma naim
shevet achim
gam yachad

Ecco, quanto è buono
e quanto è piacevole
che fratelli dimorino
insieme nell’unità



La stessa musica, le stesse parole, cantate dallo stesso coro invitano alla danza un altro gruppo, del tutto diverso. I Giudei prima e poi...  .

(Notizie su Israele, 23 maggio 2015)


L'Isis ha unificato il suo impero in Siria e Iraq

Assad nei guai. Conquistato il valico di al Tanf I jihadisti controllano Palmira e i qaedisti prendono l'ospedale simbolo del regime.

di Carlo Panella

Dopo la strategica e sanguinaria conquista di Palmira, continua a passi frenetici l'avanzata delle milizie del Califfato che ieri ha conquistato il valico di frontiera con Iraq di al Tanf, dopo la conquista di Palmira, nelle ultime ore ha assunto il controllo dei confini con l'Iraq. Vittoria anch'essa importantissima, perché ora il Califfato controlla una regione omogenea che comprende metà della Siria (95.000 chilometri quadrati) con le fondamentali città di Raqqa e Idlib, col controllo parziale, ma ben radicato di Deir alZour, Hasakeh, Aleppo, Homs e Hama e si estende senza soluzioni di continuità, senza più frontiera, fino a Mosul e Ramadi, a 120 chilometri da Baghdad. Un vero e proprio Stato. Specularmente, è sempre più visibile l'arretramento scomposto del dispiegamento militare di Assad, ben illustrato dal fatto che controlla solo 7 (5 con il Libano e altri 2, entrambi chiusi, con la Turchia) sui 19 valichi con Libano, Giordania, Iraq e Turchia. Quattro posti di frontiera sono nelle mani dei curdi, 4 controllati dall'Isis e 4 da al Qaeda e ribelli siriani. Miliziani dell'opposizione al regime siriano controllano inoltre un checkpoint al confine con Israele. Questo fa sì che i rifomimenti e i movimenti delle fondamentali truppe alleate (milizie di Hezbollah e Pasdaran iraniani), tranne che da e per il Libano, si devono sostanzialmente muovere solo per via aerea. Ma non basta, sempre ieri, al Nusra, ramo siriano di al Qaeda, ha preso il controllo dell'ospedale di Yisr al Shogur, nel nord della Siria. Una sconfitta drammatica per il regime, perché da settimane nell'ospedale resistevano «gli eroi della Siria», come li ha definiti lo stesso Assad: 150 soldati e ufficiali feriti, barricati con le famiglie. Il giuramento di soccorrere questi «eroi», solennemente pronunciato dallo stesso Assad, non è stato mantenuto, gli assediati sono stati massacrati, con un contraccolpo psicologico devastante nella Siria controllata dal regime.
   A fronte di questo disastro, Obama si rifiuta di prendere atto della realtà, non ammette che la sua strategia, sviluppata ormai da un anno, con migliaia di bombardamenti e le sue amate «uccisioni mirate» di leader del Califfato, non ha sortito nessun effetto. Anzi. Non ammette che fare affidamento sulla capacità di attacco di Assad e dell'esercito di Baghdad si è rivelato - come era prevedibile - un fiasco clamoroso. Infine, non prende atto di un fatto ovvio: affidare alle milizie sciite di Moqtada al Sack (responsabili peraltro dell'uccisione di centinaia di soldati americani) l'offensiva per riprendere al Califfato Tikrit, ha spinto ancora di più le tribù sunnite nelle braccia del Califfato, anche perché la ferocia di questi sciiti nei confronti della popolazione civile sunnita si è dimostrata pari a quella del Califfato (come accusano gli stessi leader curdi e persino il generale Usa David Petraeus). Ciò nonostante, il giorno prima della caduta di Palmira, Obama ha dichiarato: «Non credo che con l'Isis stiamo perdendo: oggi il problema non è se inviare contingenti di truppe Usa sul campo, ora la domanda è come trovare partner effettivi non solo in Iraq, ma anche in Siria, Yemen e Libia con cui possiamo lavorare e come creare la coalizione internazionale e l'atmosfera in cui le persone di differenti confessioni religiose vogliano lavorare assieme e raggiungere un compromesso». È passato un anno dalla proclamazione del Califfato e Obama ancora cerca partner e una Coalizione... Mai visto!
   
(Libero, 23 maggio 2015)


La parola della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi che siamo salvati è la potenza di Dio. Sta scritto infatti: «Io farò perire la sapienza dei savi e annienterò l'intelligenza degli intelligenti». Dov'è il savio? Dov'è lo scriba? Dov'è il disputatore di questo secolo? Dio non ha forse resa pazza la sapienza di questo mondo? Poiché, visto che nella sapienza di Dio il mondo non ha conosciuto Dio con la propria sapienza, è piaciuto a Dio di salvare i credenti mediante la pazzia della predicazione. Poiché i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza; ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i Gentili, pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più savia degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.
Dalla Prima lettera dell'Apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 1
 

Video reportage su Israele: tour tra Eilat, il deserto del Negev e Tel'Aviv

Un magnifico racconto di viaggio, un video che attraverso immagini e musiche ci porta in Israele, per un tour naturalistico, storico e culturale.

Israele, una terra meravigliosa e dotata di una varietà paesaggistica incredibile, offre delle emozioni uniche ai viaggiatori, specialmente a chi si addentra nei suoi luoghi più caratteristici e misteriosi. Il direttore di VeraClasse ha partecipato ad un'esperienza decisamente magnifica, un tour che l'ha portata a fare birdwatching a Eilat, escursioni nel deserto del Negev e passeggiate nella movimentata città di Tel'Aviv.
Le parole, a volte, non sono sufficienti per raccontare le emozioni: ecco perché ci siamo serviti delle immagini e dei suoni, per un racconto di viaggio decisamente spettacolare!
Da come potete ammirare nel video, l'itinerario seguito dal nostro direttore è completo e ricco di meravigliosi spunti fotografici, per scattare con la macchinetta fotografica delle immagini che per sempre restano nel cuore.
Se volete approfondire ulteriormente il tour in Israele del nostro direttore, su VeraClasse trovate su tutte le informazioni specifiche su Eilat, sul deserto del Negev e su Tel'Aviv...

(Vera Classe, 23 maggio 2015)


Essere riuscito a far sì
che il mondo considerasse Tel Aviv
la capitale degli omosessuali
e nello stesso tempo
scegliesse Tel Aviv
come capitale d'Israele
al posto di Gerusalemme
è un capolavoro del Diavolo.
 

Bisogna difendere la libertà di parola

di Geert Wilders (*)

La libertà di parola oggi è in pericolo. Non solo in Europa, da dove vengo io. Ma anche qui, in America. La mia ultima visita negli Stati Uniti risale a meno di due settimane fa. Sono stato a Garland, in Texas, dove ho parlato a un concorso di vignette su Maometto. La manifestazione si è tenuta in un centro congressi, dove dopo la strage di Charlie Hebdo, a Parigi, un'organizzazione islamica si era riunita per chiedere che la libertà di parola fosse limitata e le vignette su Maometto vietate.
  La gara di vignette di Garland è stata organizzata per prendere posizione contro queste richieste. Non dobbiamo mai lasciarci intimidire. A vincere il concorso di Garland è stato un ex musulmano. C'è qualcosa di molto simbolico riguardo al fatto che sia un apostata. Ai sensi della legge islamica della Sharia, l'apostasia è punibile con la morte. Secondo la stessa legge, disegnare Maometto è punibile con la morte. Il vincitore del concorso ha ritratto un feroce Maometto, che brandisce una spada. "Non mi potete disegnare", egli dice. Sotto la vignetta, l'artista ha scritto: "Questo è esattamente il motivo per cui ti disegno!" Questo è il vero spirito americano. Questo vignettista è un esempio per tutti noi. Secondo la legge islamica, raffigurare Maometto è un crimine. Ma essendo americano, l'artista non vive in un paese islamico. Vive in America. E qui in America è permesso fare foto e disegni, non importa quello che dice la Sharia.
  Ed è anche permesso cambiare religione e diventare un apostata. E non dovremmo mai permettere a nessuno di privarci di queste libertà. Se l'America dovesse cedere alla legge islamica, non sarebbe più l'America. I suoi valori giudaico-cristiani andrebbero persi. La sua civiltà andrebbe persa. E anche le sue libertà. I nemici della nostra civiltà cercano di imporci la legge della Sharia. Qualche minuto dopo la fine del mio discorso a Garland, due jihadisti hanno aperto il fuoco. Hanno ferito un addetto alla sicurezza colpendolo a una gamba, ma per fortuna sono stati uccisi prima che potessero fare più male. Attraverso la violenza e il terrorismo, questi due jihadisti hanno cercato di imporre la Sharia all'America. Non ci sono riusciti grazie ai coraggiosi poliziotti americani. Non dobbiamo mai permettere ai terroristi di vincere. Se reagiamo alle minacce per le vignette, smettendo di disegnarle, i terroristi avranno vinto. Ma se reagiamo disegnando e mostrando più caricature, il segnale sarà chiaro. Il terrorismo non avrà alcun effetto su di noi.
  Non ci faremo intimidire dal terrorismo e dalla violenza, facendo esattamente l'opposto di ciò che i terroristi vogliono. E i terroristi avranno perso. Ed è per questo che vorrei esporre nel Parlamento dei Paesi Bassi i disegni raffiguranti Maometto della mostra di Garland. Dovremmo mostrarli al mondo intero. In Europa e in America, in Canada, in Australia e in tutto l'Occidente libero - dobbiamo lottare per la libertà e prendere posizione contro l'Islam. Prima di continuare, permettetemi di raccontarvi qualcosa di me. Sono un deputato, un membro della Camera dei Rappresentanti dei Paesi Bassi. Sono il leader del Partito per la libertà. Nelle ultime elezioni politiche, abbiamo ottenuto il 10 per cento dei voti. Parlo a nome di quasi un milione di persone. Il mio partito non è un fenomeno marginale. Secondo un recente sondaggio di una importante televisione nazionale, è anche il più grande partito. Tuttavia, ricevo minacce di morte. Sono sulla lista nera di al-Qaeda e di altre organizzazioni islamiche, come i talebani pakistani e l'Isis. Da oltre dieci anni vivo sotto protezione della polizia 24 ore su 24.
  Ho vissuto con mia moglie in caserme, prigioni e in nascondigli, per sicurezza. Ovunque io vada, poliziotti armati mi accompagnano per proteggermi. I jihadisti vogliono uccidermi, ma altri vogliono farmi tacere. Non uccidendomi, ma con vessazioni giuridiche o politiche. Cercano di farmi condannare in tribunale o mi hanno messo al bando. Tutto questo non accade nelle dittature del Terzo mondo, come ci si potrebbe aspettare, ma nelle democrazie occidentali. Nella mia nazione, i Paesi Bassi, pochi anni fa mi sono ritrovato in tribunale perché ho preso posizione contro l'Islam e l'islamizzazione del mio paese. Per fortuna, sono stato assolto. Ma ora sono di nuovo accusato. E solo perché ho espresso la mia opinione. Dicono che "istigo all'odio", ma non faccio altro che difendere i valori giudaico-cristiani della nostra civiltà e dire la verità sull'Islam. Due mesi fa, ero in Austria, dove ho parlato al Palazzo Hofburg di Vienna sul pericolo di islamizzazione dell'Europa.
  Le organizzazioni islamiche hanno chiesto alle autorità austriache di perseguirmi per le mie parole. E il mese scorso, mi trovavo nella città tedesca di Dresda, dove ho parlato a un raduno pubblico davanti a un pubblico di 15.000 persone. Alla manifestazione erano presenti agenti di polizia inviati dal pubblico ministero ad ascoltare ciò che dicevo, in modo da poter valutare se accusarmi di istigazione. In questa sala, c'è una spia o un pubblico ministero? Penso di no. l'America non imbavaglia le persone. Due settimane fa, ero a Washington per un incontro con i membri del vostro Congresso, su invito dei deputati che volevano informarsi sulla situazione in Europa. Ma due deputati musulmani, Keith Ellison e André Carson, volevano mettermi la museruola. Hanno cercato di impedirmi di entrare nel vostro paese. Non ci sono riusciti, perché in America le persone sono ancora libere di parlare. E non ho dubbi, gli americani non rinunceranno mai a questa libertà. Perché è l'essenza di ciò che rende l'America quella che è! È ciò che rende l'America unica.
  Non c'è in gioco solo la libertà di parola. Ma la nostra stessa esistenza, la nostra libertà a esistere sono in pericolo. Se permettiamo a noi stessi di autocensurarci riguardo a qualsiasi cosa diciamo dell'Islam, allora, presto l'Islam inizierà a dirci come vivere, come vestirci, come respirare. Potremo anche perdere il diritto alla vita se non seguiremo i comandi della Sharia. Se cediamo al totalitarismo perderemo ogni cosa, anche la nostra vita. È così che le civiltà decadono. È così che le democrazie periscono. È nostro dovere far sì che questo non accada. Naturalmente, mi rendo conto che se la maggior parte dei terroristi oggi sono musulmani, non tutti i musulmani sono terroristi. Certo, mi rendo conto che i terroristi sono solo una minoranza - ma sono molti. Una ricerca dell'Università di Amsterdam ha mostrato che l'11 per cento del milione di musulmani che vive nei Paesi Bassi è disposto a ricorrere all'uso della violenza per il bene dell'Islam. Il che significa 100.000 persone in un paese di 17 milioni di abitanti. I terroristi possono anche essere solo una minoranza, ma i sondaggi mostrano che hanno l'appoggio della maggioranza.
  Nel mio paese, i sondaggi hanno rivelato che il 73 per cento della popolazione islamica dei Paesi Bassi ritiene che i musulmani che si recano in Siria per combattere il jihad siano eroi. E l'80 per cento dei giovani turchi presenti nei Paesi Bassi non crede che la violenza usata da gruppi come l'Isis contro i miscredenti sia sbagliata. Quattro su cinque. E allora vi chiedo: "Dove sono le manifestazioni dei musulmani che disapprovano la violenza perpetrata in nome dell'Islam e del suo profeta? Io non ho visto nessuno di loro, non è così? La maggioranza può non commettere atti di violenza, ma non si oppone neanche. Non possiamo mettere la testa sotto la sabbia e fare come se tutti questi fatti non esistessero. Dobbiamo affrontare la realtà. Anche nella Germania nazista, era solo una minoranza quella che commise atrocità. Ma la maggioranza glielo permise. Anche nell'Unione Sovietica, era solo una minoranza quella che perpetrò crimini orribili.
  Ma la maggioranza permise che ciò accadesse. Come disse una volta il grande filosofo Edmund Burke: "L'unica cosa necessaria per il trionfo del male è che gli uomini buoni non facciano niente". Quindi, questo è il primo passo per salvaguardare le nostre libertà: renderci conto dei fatti, affermare la verità, trarre le conclusioni e agire di conseguenza. Se non agiamo, saremo destinati a perdere. In tempi come questi, quando i nostri leader chiudono gli occhi di fronte alla pericolosa minaccia dell'Islam totalitario, in tempi come questi, in cui il compito di dare l'allarme spetta ai comuni cittadini, in tempi come questi, la libertà di parola è più importante che mai. George Orwell una volta disse: "Quanto più una società si allontana dalla verità, tanto più odierà quelli che la dicono".
  Ecco perché il vostro Primo emendamento è così importante. È necessario soprattutto per tutelare la libertà di parola di coloro che dicono la verità e sono odiati per questo. Oggi, parlare di "istigazione all'odio" ha un significato ben preciso. Criticare l'Islam viene considerato un incitamento all'odio. È permesso mettere un crocefisso in un barattolo di urina. O rappresentare Israele come uno stato nazista. Questo non è considerato un atto di istigazione all'odio. Ma se si raffigura Maometto o si parla contro l'islamizzazione oppure si dice la verità sull'Islam, beh, allora si viene considerati estremisti, istigatori all'odio, provocatori. Il fatto è che più Islam abbiamo, meno libere diventano le nostre società. Nel corso degli ultimi decenni, i nostri politici hanno permesso a milioni di immigrati musulmani di stabilirsi entro i nostri confini. Sono arrivati con la loro cultura e la loro legge della Sharia. E ora, cercano di imporle a noi. Invece di dire: "Se vieni nel nostro paese ti devi adattare a noi", i nostri leader politici hanno detto: "Mantieni la tua cultura, noi rispettiamo l'Islam e la sua sensibilità". Da nessuna parte è stato chiesto agli immigrati di assimilarsi. E ora le nazioni europee sono arrivate al punto di far rispettare i tabù islamici nelle loro leggi. Lo chiamano crimine razziale quando le persone che amano la libertà non accettano i tabù islamici. Criticare l'Islam è diventato incitazione all'odio, perseguibile penalmente. Non solo dobbiamo affrontare l'islamizzazione, ma anche la follia del relativismo culturale e la debole mentalità di appeasement dei nostri leader politici.
  Questa codardia deve finire. Se questa situazione dovesse continuare, ci porterà dritti alla catastrofe. Ed è per questo che faccio quello che faccio. Non resterò a guardare e a lasciare che la nostra civiltà e la nostra democrazia periscano. Parlerò contro l'Islam e contro i nostri leader deboli. Amo il mio paese, amo la libertà, non voglio vivere in schiavitù ed è per questo che parlo. Senza un Primo emendamento, le conseguenze per la libertà di parola sono più dure rispetto a quando invece si dispone di un Primo emendamento. In ogni caso, il nostro dovere è sempre lo stesso: dobbiamo parlare, in nome della libertà. Non importa quali siano le conseguenze. Perché la libertà e la dignità sono ciò per cui lottiamo. La verità è la nostra unica arma - dobbiamo usarla. La libertà di parola è una cosa fragile che va difesa con coraggio. Finché siamo liberi di parlare, possiamo dire alla gente la verità e far loro capire che cosa è in gioco. L'establishment politico, accademico e i media occidentali nascondono alle persone il vero scopo della minaccia islamica. Dobbiamo diffondere il messaggio. Questo è il nostro primo e più importante dovere.
  Se gli immigrati accettassero le nostre leggi e i nostri valori sarebbero i benvenuti a restare e a godere di tutti i diritti che la nostra società garantisce; e noi li aiuteremo perfino a integrarsi. Ma se commettono crimini, agiscono contro le nostre leggi, ci impongono la Sharia o dichiarano jihad, noi dobbiamo mandarli via. Dobbiamo smettere di fingere che l'Islam sia una religione. L'Islam è un'ideologia totalitaria che mira a conquistare l'Occidente. Una società libera non dovrebbe garantire la libertà a coloro che vogliono distruggerla. Come disse Abraham Lincoln: "Coloro che negano agli altri la libertà non la meritano per se stessi". Ogni negozio halal, ogni moschea, ogni scuola islamica e ogni burqa è considerato dall'Islam come un passo verso l'obiettivo ultimo della nostra sottomissione. E per finire, dobbiamo ricordare che avendo l'Islam delle ambizioni globali, noi siamo tutti in pericolo. Dobbiamo stare dalla parte di ogni nazione e popolo che sono minacciati dal jihad. Tra cui Israele, la sola democrazia del Medio Oriente, il cui conflitto con gli arabi non è una disputa territoriale: è un conflitto tra la libertà e la tirannia. Dobbiamo tutti appoggiare Israele perché siamo tutti Israele.
  E non dovremmo mai fidarci dei regimi islamici criminali come l'Iran. Un trattato con lo Stato islamico dell'Iran sulle armi nucleari è una farsa e una grave minaccia per la sicurezza di Israele e di tutto l'Occidente. Io sono europeo. Voi siete americani, ma siamo tutti nella stessa barca. Dovemmo unirci contro il nostro avversario comune. L'ondata islamica è forte, ma l'Occidente l'ha respinta prima e possiamo farlo ancora. Ronald Reagan ha detto che "il futuro non appartiene ai pavidi, è dei coraggiosi". Pertanto, cerchiamo di essere coraggiosi. E garantire il futuro.


(*) Questo discorso è stato tenuto in una forma un po' diversa al Gatestone Institute, a New York, il 12 maggio 2015.

(L'Opinione, 23 maggio 2015 - trad. Angelita La Spada)


Applausi in sinagoga e missili. Così Obama rassicura Israele

 
NEW YORK - La folla che ieri ha accolto Barack Obama in una delle più importanti sinagoghe di Washington non ha risparmiato gli applausi, soprattutto quando il presidente ha parlato dello stato palestinese, riaffermando che la politica dei due stati continua a essere la linea ufficiale degli Stati Uniti. Adam Israel è una vecchia congregazione che raduna l'élite ebraica della capitale americana, ha fama di essere un ricettacolo di conservatori, ma negli ultimi anni la linea politica di chi la frequenta si è spostata decisamente verso il centro.
   L'occasione formale della visita era la celebrazione del mese dell'identità ebraica, festa di cui molti dei fedeli accorsi ieri non avevano mai sentito parlare, ma di fatto si tratta di un pezzo di una più ampia strategia politica per rassicurare Israele e riaffermare l'incrollabile alleanza in questi tempi turbolenti. I negoziati nucleari con l'Iran sono l'ovvio oggetto del contendere, montati sul piedistallo di una rela- zione da tempo avvelenata fra Obama e Netanyahu e dall'ulteriore spostamento a destra del primo ministro di Israele e del suo governo formato di recente. Quando Bibi ha detto che "non ci sarà uno stato palestinese" sotto il suo governo, la Casa Bianca ha reagito tenendo la linea, e ora passa alla fase del riavvicinamento. La visita di ieri è stata introdotta da un'intervista a Jeffrey Goldberg dell'Atlantic, l'interlocutore pubblico a cui Obama affida periodicamente le sue riflessioni su Israele, e a proposito dei negoziati con l'Iran Obama ha usato un modo inedito per tranquillizzare l'alleato preoccupato: "Fra vent'anni sarò ancora in giro, se Dio vuole. Se l'Iran avrà le armi nucleari, ci sarà scritto sopra il mio nome". Come dire: non sto facendo un accordo di breve respiro ora soltanto per passare alla storia come quello che ha riaperto le relazioni con l'Iran, se l'accordo è il suicidio che alcuni dicono lo scopriremo, e la colpa ricadrà soltanto su di me. Insomma, Obama mostra la sua buona fede dicendo che non è nemmeno nel suo interesse siglare un accordo che permetterà all'Iran in futuro di ottenere la Bomba.
   Per Chemi Shalev, editorialista del quotidiano Haaretz, il vero destinatario di questi messaggi è "innanzitutto la sua constituency di ebrei americani liberal"; è di questo elettorato istintivamente democratico, e tuttavia preoccupato, che ha bisogno per convincere i senatori del suo partito a non mettersi di traverso quando il Congresso sarà chiamato a votare l'eventuale accordo che dovrà essere siglato entro il 30 giugno. Obama deve essere sicuro che l'operazione non venga sabotata all'ultimo dai suoi alleati di Capitol Hill. L'altro lato della manovra di rassicurazione è una commessa militare da 1,9 miliardi di dollari, approvata qualche giorno fa dal Pentagono e dal dipartimento di stato. L'ordine non dovrebbe avere problemi a passare al vaglio del Senato, e l'elemento più importante dell'affare è la presenza di missili bunker-buster di ultima generazione, armi in grado di penetrare nelle installazioni nucleari sotterranee dell'Iran. La commessa non risolve certo le obiezioni israeliane ai negoziati, ma può alleviare il senso di preoccupazione dell'alleato.
   Una nota ufficiale di Foggy Bottom dice che "gli Stati Uniti sono impegnati per la sicurezza di Israele, ed è fondamentale per l'interesse nazionale americano assistere Israele nello sviluppo e nel mantenimento di una capacità forte di autodifesa". Capacità forte di cui Israele gode in formula esclusiva fra gli alleati americani dell'area. Negli ultimi mesi l'Arabia Saudita, altro alleato recalcitrante e nemico giurato dell'Iran, si è lamentata con la Casa Bianca di non avere forniture militari paragonabili a quelle che gli Stati Uniti concedono a Israele, e i funzionari di Riad hanno citato proprio la mancanza di missili bunker-buster, che non risolvono ma possono alleviare.
   
(Il Foglio, 23 maggio 2015)


Insieme al Papa, Obama è uno dei più decisi e motivati nemici di Israele. Come la visita tutta miele che fece in Israele nel 2013, anche questa per Obama è una carta da giocare per raggiungere i suoi scopi, che contemplano l’indebolimento graduale di Israele nella politica mediorientale. Più che rassicurare Israele, cosa di cui dopo i precedenti non è più così sicuro, vuole ottenere il consenso degli ebrei americani affinché il Congresso non ostacoli l’accordo con l’Iran. E’ probabile che ci riesca, visto che ci sono persone che, come l’editorialista di quest’articolo e molti ebrei americani liberal, credono alla “buona fede” di Obama. M.C.


La strategia di Obama è fallita

di Fiamma Nirenstein

Non ci sono parole che possano essere pari all'idea che ci venga strappata Palmira, la città carovaniera da cui passava sul cammello nel deserto fin dal tempi biblici il traffico fra la Mesopotamia e il Mediterrano con il suo carico di merci, di architettura e di scultura. Fa vergogna vederla distruggere dall'Isis, è una sconfitta per ogni singolo abitante del pianeta, a volte si vorrebbe che l'Unesco avesse un esercito di mercenari. È vergogna anche che Ramadi sia caduta nella mani dell'Isis nonostante l'impegno americano e della grande coalizione che avrebbero, almeno, dovuto tenere a bada l'esercito dei barbuti dello Stato islamico. Eppure non dovrebbe essere impossibile, si tratta di un esercito senza forze aeree, con vecchi tank, con una truppa che a suo vantaggio può annoverare solo gli esperti ufficiali di Saddam e il fanatismo. Si potrebbe batterli. Ma la scelta di Obama è quella di combattere con una mano legata dietro la schiena, senza i famosi boots on the ground e anche di fare un uso modesto dei droni, se è vero che da settembre il numero degli attacchi è stato di 3800 in confronto ai 47mila del primo mese dell'operazione Iraqi Freedom del 2003.
   Obama ha dichiarato che l'Isis non sta vincendo, ma la città caduta consolida il controllo Isis da pochi chilometri da Bagdad fino nel cuore della Siria. Il fatto è che si tratta qui, di una sconfitta sia dell'esercito iracheno come di Obama stesso e della sua strategia. Sono mesi che gli americani si baloccano con lo scontro per Ramadi e hanno lasciato sconfiggere il loro alleato Haider al Habadi, messo al potere da Obama che decise di sostiturlo a Nouri al Maliki. Il fatto che Obama non abbia aiutare al Habadi come necessario lascia all'Iran sempre più spazio, e infatti il suo ministro degli Esteri ha preso il primo volo per Bagdad per far vedere chi sa venire in aiuto. Obama ha aperto la strada agli ayatollah sul campo di battaglia, per esempio a Tikrit, dove sostenuti dai bombardamenti americani, hanno cacciato l'Isis. È un precedente conturbante, come scrive Michael Ledeen: perchè, se gli americani si decidessero a un bombardamento massiccio e Ramadi venisse recuperata con l'intervento dell'Iran, questo farebbe decadere il sogno di un Iraq indipendente; e se perdessero, peggio ancora. In questa guerra contro l'Isis, Obama si è sempre più infilato nel vicolo stretto del rapporto con l'Iran, oltretutto mentre gli ayatollah dichiarano che se si arriverà all' accordo sul nucleare, non consentiranno mai di ispezionare i siti militari. Come si sa il risultato strategico dell'accordo Iran-Usa e che l'Arabia Saudita minaccia di procurarsi la bomba atomica.
   Obama, che ha creato questa situazione, per salvare almeno l'Iraq e l'onore dovrebbe, con l'esercito iracheno e con i curdi, cacciare l'Isis dalle città occupate. Questo cambierebbe la sorte della Siria, dove si combatte poco l'Isis per paura di fare un piacere a Assad, e non si combatte Assad per paura di fare un dispetto all'Iran.

(il Giornale, 23 maggio 2015)


Auschwitz 75 anni dopo, la memoria nei libri

di Cecilia Russo

A 75 anni dall'apertura del campo di Auschwitz-Birkenau, la memoria è ancora necessaria. Ne abbiamo parlato con Jadwiga Pinderska-Lech, direttrice della Casa Editrice Museo Auschwitz.

 
Jadwiga Pinderska-Lech al Salone del Libro di Torino 2015, dove il Museo di Auschwitz aveva un suo stand
Il 20 maggio 1940 fu aperto il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, simbolo della Shoah e della Seconda guerra mondiale, dentro al quale furono rinchiusi, in quella data, i primi 30 prigionieri. Secondo le stime, vi morirono oltre 70.000 persone, e vi furono internati importanti intellettuali come Primo Levi e Elie Wiesel. Nel 1979, le rovine di Auschwitz diventarono patrimonio UNESCO, per la memoria e per gli errori dell'uomo. Oggi è un museo aperto a tutti, tassello fondamentale per la memoria.
Abbiamo conversato con Jadwiga Pinderska-Lech, direttrice della casa editrice e guida del Museo Auschwitz-Birkenau, in merito al ruolo della cultura e dei libri nella memoria della Shoah.

- Quand'è nata la casa editrice e qual è il suo rapporto con il museo?
  «La casa editrice è nata nel 1957, è uno dei principali reparti del museo ed è nata per pubblicare i "Quaderni di Auschwitz", pubblicazione annuale, stampata nei primi anni in polacco e tedesco, oggi in polacco e inglese (Auschwitz Studies). La rivista raccogli saggi storico-scientifici sulla storia del campo e dei sottocampi. Sono di solito articoli molto lunghi, scritti dagli storici del museo ma anche da università europee. Alcune copie della rivista vengono distribuite gratuitamente a enti che si occupano di queste tematiche (Museo dell'Olocausto di Washington, Mémorial de la Shoah di Parigi, Centro di documentazione ebraica di Milano e altri), altre copie sono in vendita al museo. La casa editrice ha anche come obiettivo quello di pubblicare le memorie dei sopravvissuti, oltre che documenti, fonti e articoli storici che parlano della storia di Auschwitz e della Shoah, l'obiettivo è divulgare la storia dei campi».

- Qual è il valore dell'editoria legata alla Shoah?
  «Il rapporto è molto stretto, facciamo anche libri di carattere pedagogico e libri per bambini. L'esistenza della casa editrice è importante perché altrimenti molti testi non sarebbero mai stati pubblicati, anche perché le case editrici private pensano soprattutto al guadagno, quindi a pubblicare storie molto commoventi, mentre i testi scritti dagli storici non sarebbero mai stati pubblicati».

- I romanzi che hanno una forte componente fantastica danneggiano o aiutano la letteratura della Shoah?
  «I romanzi sono dannosi quando storpiano la verità storica. Ad esempio "Il bambino con il pigiama a righe" dice cose non verosimili, racconta falsi storici. Tuttavia non tutti i romanzi sono così. Vanno bene anche libri ben scritti, che piacciono alla gente, sebbene le storie non siano realmente accadute, ma senza falsi storici. Libri così sono buoni perché permettono di parlare del tema e attirano l'attenzione. La casa editrice, tuttavia, non pubblica cose non vere, del resto i sopravvissuti ancora in vita, spesso si sentono offesi se vengono pubblicate cose completamente inventate. A oggi la casa editrice ha 350 titoli in catalogo, pubblicati in diverse lingue, vendiamo anche libri pubblicati da altre case editrici, tuttavia pochi di questi ricevono il permesso di vendita».

- Quali sono i rischi di banalizzazione legati alla memoria? La cultura può evitarlo?
  «Occorre scegliere i temi molto attentamente e fare attenzione all'accento che si dà. La letteratura è spesso banalizzata, soprattutto quando l'autore vuole per forza commuovere il lettore, quando si dà troppo peso al sentimentalismo, senza dare importanza alla parte storica. Le persone spesso si aspettano l'orrore e c'è il grande rischio di abituarsi al male. Anche le guide del campo cambiano spesso la loro narrazione per non essere ripetitive, tante di loro vedono il loro lavoro come una missione».

- Alla luce dei violenti atti di antisemitismo che dilagano nel mondo cosa può fare la cultura di fronte a tutto questo?
  «Il rischio dell'antisemitismo compare quando c'è la crisi economica e i partiti di destra, nazionalisti, vogliono incolpare qualcuno. Nascono strutture mafiose e le persone che non stanno bene le seguono nella speranza di migliorare la propria vita. La cultura può sensibilizzare le persone anche attraverso i film (Il pianista, Schindler's List), è necessario capire l'equilibrio, perché parlare troppo di certe tematiche non fa bene. Le ricorrenze come il 27 gennaio sono utili per non dimenticare, altrimenti si parlerebbe di questi argomenti solo nei programmi scolastici. È impressionante pensare che tempo fa in Germania è stato fatto un sondaggio che ha rivelato che moltissimi ragazzi non sapessero cosa fosse la Giornata della Memoria».

(Last Reporter, 22 maggio 2015)


Varesini brava gente?

Franco Giannantoni racconta la Shoah allo Scopricoop di Varese.

VARESE - Universauser Varese ha organizzato un'interessante conferenza dal titolo "Varesini brava gente? 1943-1945. La Shoah in città e lungo la frontiera italo-svizzera, repressione e solidarietà".
Protagonista dell'incontro sarà lo storico varesino Franco Giannantoni, che interverrà sul tema spinoso martedì 26 maggio alle ore 17.30, presso lo Spazio Scopricoop in via F. Daverio 44 a Varese.
La repressione della comunità ebraica fu spietata. Fascisti della RSI e tedeschi della guardia di frontiera diedero il via ad una serrata caccia fra le strade di Varese e lungo i confini. Seguirono le razzie. Centinaia di fuggiaschi, catturati, dopo una sosta nelle carceri dei Miogni, finirono ad Auschwitz. Non ci fu pietà nè per i vecchi nè per i malati negli Ospedali.
Sequestri e confische dei beni poterono avvenire per la denuncia degli amministratori ariani. Ls Shoah fu "italiana". Alla fine della guerra essa fu dimenticata. Una colpa tragica per essere ammessa in un Paese che rinasceva in gran parte sull'ossatura burocratica e politica fascista e prefascista.

(Varese Report, maggio 2015)


Le milizie armate di Fatah avvertono gli israeliani: "Dovete andarvene!"

di Khaled Abu Toameh(*)

Sono molti quelli che nella comunità internazionale parlano spesso della fazione palestinese di Fatah, guidata dal presidente dell'Autorità palestinese (Ap) Mahmoud Abbas, come di un gruppo "moderato" che crede nel diritto di Israele a esistere e nella soluzione dei due Stati.
  Ciò che queste persone non sanno è che Fatah, la più grande fazione dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), consta di molti gruppi che nutrono visioni diverse da quelle espresse in inglese da Abbas e da altri dirigenti di Fatah. Alcuni di questi gruppi non credono nel diritto di Israele a esistere e continuano a parlare di "lotta armata" intesa come l'unico mezzo per "liberare la Palestina e ripristinare i diritti nazionali dei palestinesi". Una di queste formazioni è la Brigata dei Martiri di al-Aqsa-Brigata del Martire Nedal al-Amoudi. Le Brigate dei Martiri di al-Aqsa sono il braccio armato di Fatah, create poco dopo l'inizio della seconda Intifada nel settembre 2000. Anche se la leadership dell'Ap sostiene che il gruppo sia stato sciolto e i suoi membri reclutati nelle sue forze di sicurezza, decine di uomini armati continuano a operare liberamente nei villaggi palestinesi e nei campi profughi in Cisgiordania.
  La Brigata al-Amoudi, con base nella Striscia di Gaza, che è composta da decina di miliziani di Fatah, prende il nome da Nidal al-Amoudi, un operativo di Fatah ucciso il 13 gennaio 2008 dalle Forze di sicurezza israeliane (IDF), dopo che aveva effettuato una serie di attacchi armati contro civili e soldati israeliani nella seconda Intifada. Durante l'ultima guerra nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas (operazione "Protective Edge"), la Brigata al-Amoudi ha rivendicato la responsabilità del lancio di decine razzi verso le città israeliane e i soldati delle IDF. Fonti della Striscia affermano che molti dei membri del gruppo sono ex agenti della sicurezza, ancora alle dipendenze dell'Autorità palestinese. Secondo altre fonti, la milizia è finanziata da Mohamed Dahlan, il leader di Fatah espulso dal partito, che attualmente vive negli Emirati Arabi Uniti, e da Hezbollah, il gruppo terroristico sciita libanese. Va inoltre rilevato che la leadership dell'Ap non ha mai preso le distanze dalla retorica e dalle azioni della Brigata del Martire Nedal al-Amoudi.
  Oltre a un sito web ufficiale, la suddetta brigata minaccia regolarmente di perseguire la lotta armata contro Israele per distruggerlo. La settimana scorsa, il gruppo ha postato un video con un messaggio per "il nemico israeliano", in occasione della 67o anniversario della fondazione dello Stato di Israele - che i palestinesi chiamano "Nakba Day" (il "Giorno della catastrofe"). Intitolato "Un messaggio alla popolazione israeliana" e accompagnato da sottotitoli in ebraico, questo video dichiara che "la battaglia per la liberazione (della Palestina) è più vicina che mai", e avverte gli israeliani: "La nostra Nakba (catastrofe) è incancellabile; presto dovrete andarvene perché non avete altra scelta". Il filmato mostra i membri del gruppo durante un addestramento militare nella Striscia di Gaza, in preparazione della prossima battaglia contro Israele. "Prepariamo i migliori soldati", dice la canzone di sottofondo. In una dichiarazione separata, rilasciata nella stessa occasione, Fatah sottolinea che "la lotta armata" contro Israele "è l'unico mezzo per liberare la Palestina" e insiste anche a dire che "il diritto al ritorno" dei profughi palestinesi alle loro case di origine all'interno di Israele non può essere compromesso e non è negoziabile. "La nostra gente respinge tutte le opzioni alternative al diritto al ritorno", recita la dichiarazione, facendo ripetutamente riferimento a Israele come "il nemico sionista".
  E il gruppo di Fatah si vanta del fatto che i suoi uomini siano riusciti a costruire un nuovo razzo della gittata di 12 km da 107 millimetri che è stato utilizzato contro i carri-armati israeliani durante l'ultima guerra nella Striscia di Gaza. La Brigata al-Amoudi non è l'unica milizia armata di Fatah che opera in Cisgiordania e a Gaza. Un'altra importante formazione, che ha partecipato alla guerra del 2014 contro Israele, è la Brigata del Martire Abdel Qader Husseini. Come il gruppo affine della Brigata al-Amoudi, questa milizia appoggia altresì la lotta armata contro "il nemico sionista". Un terzo e importante gruppo terroristico prende il nome di Brigate Abu al-Rish ed è responsabile di molti attacchi terroristici contro Israele e del rapimento di stranieri nella Striscia di Gaza. La formazione, che dice di essere "il braccio militare di Fatah", definisce Israele "il nemico sionista" e sostiene di aver partecipato al fianco di Hamas all'ultima guerra nella Striscia di Gaza. La comunità internazionale e i media spesso ignorano il fatto che Fatah ha un certo numero di gruppi armati che sono ancora apertamente dediti alla "lotta armata" e al terrorismo come un mezzo per "liberare la Palestina". Essi fingono anche di non vedere che i leader "moderati" di Fatah che sono favorevoli alla pace e alla soluzione dei due Stati non prendono le distanze da queste formazioni.
  Molti dirigenti di Fatah, in realtà, parlano spesso in inglese della necessità di rilanciare il processo di pace, mentre in arabo elogiano e approvano i miliziani di Fatah. La presenza di bande armate di Fatah in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è segno delle sfide enormi che ogni leader palestinese dovrebbe affrontare se e quando i palestinesi e Israele raggiungeranno un accordo di pace. Ovviamente, questi gruppi di Fatah saranno i primi a rifiutare ogni accordo di pace che contenga la minima concessione a Israele. Alcune di queste formazioni sono contrarie in linea di principio alla pace con lo Stato ebraico, perché semplicemente non riconoscono a Israele il diritto di esistere. Questo è qualcosa che la comunità internazionale - soprattutto gli Stati Uniti - deve prendere in considerazione quando si affronta la questione del conflitto israelo-palestinese.
  I responsabili decisionali devono anche sapere che a opporsi alla pace con Israele non è solamente Hamas, ma anche molte formazioni all'interno di Fatah. Come gli stessi gruppi armati indicano, la loro lotta è finalizzata a eliminare "il nemico sionista" e a conseguire "il diritto al ritorno" per milioni di discendenti dei profughi alle loro case di origine all'interno di Israele. Nel frattempo, Abbas e i leader di Fatah, che sono pienamente consapevoli delle azioni e delle minacce dei loro fedelissimi, fanno del loro meglio per far sì che il mondo smetta di sentire ciò che i miliziani di Fatah hanno da dire sulla pace e sulla soluzione dei due Stati. Ma occorre chiedersi: "Fino a quando la comunità internazionale continuerà a nascondere la testa sotto la sabbia e a fingere che Fatah sia un gruppo unito, moderato e pragmatico che cerca la pace e la coesistenza con Israele a nome di tutti i palestinesi?"


(*) Gatestone Institute

(L'Opinione, 23 maggio 2015 - trad. Angelita La Spada)


Rinascere in Puglia: il Film documentario sull'accoglienza salentina ai superstiti ebrei

 
Profughi ebrei arrivati in Puglia
 
Rivka Cohen, Shuni Lifshitz, Esther Hertzog
Rivka, Shuni ed Ester sono tre donne israeliane nate a Leuca nell'immediato dopoguerra tra il 1946 e il 1947. La storia della loro vita le accomuna. L'esperienza dei loro genitori, deportati nei lager, liberati per essere estradati nei campi di transito, le rende protagoniste di un racconto che ha molti punti d'incontro e che le vede unite in un passato comune, quello che racconta di radici salentine sopravvissute ad oggi solo nel cuore dei loro genitori e che probabilmente si sono estese per bene anche nella cultura dei figli.
Questo racconto si chiama "Rinascere in Puglia", ed è il film-documentario sull'accoglienza ai superstiti ebrei delle persecuzioni della Shoà da parte della terra salentina. La proiezione, in italiano e in ebraico, che verrà realizzata sabato 23 Maggio alle ore 19.30 presso le Officine Cantelmo, e che rientra nell'ambito della Rassegna "Europa e dintorni" organizzata da Europe Direct Salento, vede alla regia Yael Katzir e alla sceneggiatura Gady Castel per Katzir Productions.
Ospiti della proiezione saranno la regista Yael Katzir, lo sceneggiatore Gady Castel e due delle promotrici del film, le due "figlie di Leuca" Rivka Cohen e Shuni Lifshitz . L'organizzazione e il coordinamento, sono a cura di Fabrizio Lelli, docente di ebraico presso l'Università del Salento, curatore del sito www.profughiebreinpuglia.it.
Ai nostri microfoni, i protagonisti dell'iniziativa, ci hanno raccontato cos'è e cosa racconta "Rinascere in Puglia", la solidarietà e l'accoglienza che riservò il Salento, l'amore attuale per una terra.

- Con questo tour nel Salento potete dire di aver riportato nella terra natia i "Figli di Leuca". Quali sono le vostre sensazioni?
  Rivka Cohen: I miei genitori hanno iniziato qui una nuova vita. Sapere di aver dato una nuova luce e sorriso ai loro occhi mi emoziona tanto.
  Esther Hertzog: Sapevo ben poco della Puglia. Nei viaggi di ricerca e riprese del film, con le testimonianze delle persone, ho scoperto un paese meraviglioso e un popolo eccezionale.
  Yael Katzir: Prima mi hanno conquistato il cuore i paesaggi e le spiagge bellissime. Poi, però, approfondendo la conoscenza della realtà salentina ho stabilito un legame vero e proprio con questo posto.
  Shuni Lifshitz: Ho fatto un viaggio di ricerca e oggi raccontare la storia dei profughi nel Salento e farci un film mi ha regalato sensazioni meravigliose.

- I salentini nell'immediato dopoguerra hanno saputo accogliere la comunità israeliana con gesti di grande solidarietà. Vi sembrano ancora capaci di una tale apertura?
  Gady Castel: chi ha saputo ospitare cosi umanamente in un periodo di miseria e fame sono certo che saprà farlo anche in altre occasioni e si comporterà cosi dignitosamente e coraggiosamente anche in futuro.
  Esther Hertzog: anch'io la penso così, ma penso anche che siamo in tempi di ricchezza e di "pigrizia" che difficilmente si possono confrontare con i tempi di incontro vero e proprio tra poveri, com'era un tempo.

- In questi giorni avete visitato i luoghi del Salento in cui si muovono i protagonisti del film. Quale vi ha colpito di più?
  Yael Katzir: Dal punto di vista del panorama Santa Maria di Leuca con la chiesa e il faro che sono simbolo di salvezza e speranza. Però oggi a Nardò, nel centro storico, ho riscontrato il rapporto con la storia e con la fede che si avvertono in ogni angolo.
  Rivka Cohen: Non esiste per me un luogo che ha più bellezza della colonia a Santa Maria di Leuca dove iniziò la mia vita e ricominciò la vita dei miei genitori.
  Gady Castel: La baia di Santa Maria al Bagno dove si incontrano la bellezza naturale con quella storica
  Esther Hertzog: Il museo a Santa Maria al Bagno: piccolo, intensivo e pieno di significati come rinascita, amicizia ed ospitalità, compresa quella di oggi.

- Il documentario "Rinascere in Puglia" traccia un forte legame col territorio salentino e con la sua storia. Crede che possa avere un'immediata ricaduta educativa sulle nuove generazioni?
  Yael Katzir: Mi sono occupata per tanti anni di educazione. Per questo spero che il valore educativo del film e della storia dei profughi ebrei nel Salento continuerà anche oltre il nostro film e il contatto tra i "figli di Leuca" e la Puglia e si rafforzerà sempre di più.
  Gady Castel: Un film non è una lezione didattica, Il suo valore educativo ha la sua importanza, ma il vero successo è quando un film arriva e tocca il cuore dello spettatore. Io spero che il messaggio del film tocchi soprattutto quello dei più giovani. Questo sarà per me la conferma del suo successo.
  Shuni Lifshiz: Ho imparato cosi tanto dal mio viaggio e dalle mie ricerche che spero tanto che la storia abbia un valore educativo durevole e non passeggero.

L'augurio e l'obiettivo del docu-film è che "lo spirito dell'accoglienza possa unire popoli" e il messaggio è un omaggio all'Italia, "da sempre ponte ideale tra tradizioni e culture".

(Salento Web TV, 22 maggio 2015)


L'Omer

di Roberto Jona, agronomo

Cos'è l'Omer? I rabbini vi risponderanno con dotte spiegazioni sul conteggio dei giorni e le settimane che intercorrono tra Pesach e Shavuoth, ma da agronomo mi sia permesso dare una risposta più terra-terra, sul significato letterale della parola 'Omer. L'Omer è una pratica agricola, un modo di cogliere il frutto della terra che il Signore ci ha concesso.
   Quando, a fine stagione, abbiamo un campo pieno di belle spighe cosa dobbiamo fare per coglierle e portare a casa il prodotto che il Signore ci ha elargito? Oggi, se poniamo questa domanda ad un giovane, ci risponderà, giustamente, che si entra nel campo con una macchina mietitrebbiatrice e in breve tempo si porta in magazzino la granella pulita; ma non molto tempo fa non era così, esattamente come non lo è stato per millenni e come facevano i nostri antenati, agricoltori nella Terra Promessa.
   La raccolta e la pulitura dei granelli era suddivisa in fasi successive, ognuna distinta dalle altre e spesso esposta ad alee diverse. La prima fase era il taglio effettuato con la falce (o i falcetti).
   A questa seguiva la raccolta dei culmi con le spighe, che venivano raccolte e legate, formando dei piccoli fasci che prendono nomi diversi a seconda della località. In italiano si chiamano covoni. In effetti in alcune descrizioni della mietitura manuale (che in Italia si protrasse praticamente fino a tutta la prima metà del XX secolo) riportano una doppia fase per la formazione di covoni: una prima consisteva nel taglio di mazzi di culmi che una mano (la sinistra) poteva racchiudere (mentre la destra manovrava il falcetto per tagliare la paglia).
   Questi mazzi di spighe venivano definiti 'manipoli': successivamente questi manipoli venivano legati in un fascio più grosso denominato 'covone' (che è la traduzione della parola 'Omer in ebraico).
   È quindi il distacco dalla terra, il passaggio emblematico della presa di possesso del raccolto elargito dal Signore e la la formazione del covone ne è la rappresentazione concreta. È quindi questo che doveva essere portato in offerta al Santuario il giorno dopo Pesach per rendere grazie al Signore con un atto concreto. Per inciso, aggiungerò che è tradizione che il primo covone sia di orzo, perché è il primo cereale che viene a maturazione in Israele proprio nel periodo di Pesach, ma la specie che costituisce l'Omer non è indicata espressamente.
   È però noto che la coltivazione dell'orzo abbia avuto origine nell'area compresa tra Ur e Israele con estensione nella parte meridionale dell'Anatolia.
   Si tratta probabilmente del cereale che per primo è stato coltivato dall'uomo: le testimonianze più antiche di coltivazione risalgono al 10.500 a.E.V., nel Neolitico, ben prima dell'epoca dei Patriarchi.
 
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Sicuramente tipi polistici (più di 2 file di cariossidi nella spiga) erano coltivati in Mesopotamia (cioè nell'attuale Iraq) nel 7.000 a.E.V., mentre nel 5000 a.E.V. l'orzo era diffuso anche in Europa centrale oltre che in Egitto, dove già nel 3000 a.E.V., cioé all'incirca nel periodo dell'esilio dei discendenti di Giacobbe, avveniva la trasformazione in birra. A causa della sua robustezza e soprattutto del ciclo breve che lo sottrae alle insidie della siccità precoce, fino al XV secolo fu tra i cereali più diffusi per la panificazione. Il termine 'Omer è divenuto anche un'unità di misura (circa 1,3 kg) forse per la necessità di normare l'entità minima dell' offerta al Santuario. Gradatamente, nel XX secolo, si cercò di meccanizzare i metodi di coltivazione così come erano pervenuti dai secoli precedenti: questo processo evolutivo affrontò separatamente, le varie fasi della raccolta: la mietitura con le barre falcianti (insiemi di forbici montate su un veicolo trainato solitamente da un cavallo) erano azionate dal movimento del veicolo. Operatori ausiliari di solito donne e ragazzi affiancavano la falciatrice e legavano i culmi di frumento tagliati e caduti sul campo formando grossi covoni, che venivano poi raccolti, caricati in cumuli alti su carri trainati da coppie di buoi, portati in cascina e ricoverati nel pagliaio. Dopo qualche anno comparvero le mieti-legatrici: macchine che tagliavano alla base le spighe del grano e le legavano direttamente in covoni prima di abbandonarli sul terreno. Un carro trainato dai buoi doveva quindi provvedere al recupero dei covoni ed al loro trasporto in cascina al riparo dalle intemperie estive. Ma i chicchi di grano non erano ancora pronti per il mulino.
   Alla mietitura seguiva la battitura del frumento, sull'aia della cascina. Mediante due bastoni legati tra loro con stringhe di cuoio i contadini, dopo aver sciolto i covoni, battevano le spighe di frumento traendone i chicchi liberati dalle glume che le ricoprivano.
   La pula veniva separata dai granelli, sfruttando il vento, oppure facendo saltare la mescolanza in cesti di vimini appositi costruiti con un lato ribassato. Lentamente comparvero macchine, dapprima semplici e a movimento manuale e poi sempre più grandi e complesse, azionate da cinghie che prendevano il moto da una puleggia di un trattore. Era la trebbiatura. Un momento di festa nelle cascine per il raccolto che finalmente si concretava e diveniva disponibile per il consumo e la vendita. Ma era anche un momento di aggregazione tra vicini che si scambiavano il lavoro.
   Ma nella seconda metà del XX secolo si diffusero le mietitrebbiatrici: il lavoro di mietitura era unificato alla trebbiatura ed avveniva direttamente sul campo. La formazione dei covoni perdeva senso: non si formavano più e tantomeno si portavano in cascina. L'Omer che fino ad allora oltre che un precetto era una della pratica agricola, restava solo una norma religiosa, anzi non essendoci più il Santuario restava solo il ricordo di un momento della coltivazione e la sua santificazione mediante il ringraziamento al Signore che ha elargito il raccolto.

(moked, 22 maggio 2015)


L'Autorità Palestinese cancella sistematicamente Israele dalla carta geografica

Mentre politici e diplomatici agiscono come se la soluzione "a due stati" dipendesse solo dalla buona volontà di Israele.

Anche quest'anno in occasione della giornata della Nakba - il giorno in cui i palestinesi commemorano quella che definiscono la "catastrofe" della nascita dello stato di Israele - il movimento Fatah, che fa capo al presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha ribadito il messaggio secondo cui non c'è posto per Israele in Medio Oriente. Per l'occasione Fatah ha postato sulla sua pagina Facebook questo testo, che contraddice la conclamata soluzione "a due stati":
    "Celebrazione dell'anniversario della Nakba a Tubas [in Cisgiordania]. Dal mare [Mediterraneo] al fiume [Giordano]: è tutto nostro". (Dalla pagina principale di Fatah su Facebook, 13.5.15)....
(israele.net, 22 maggio 2015)


Al via lo Start Tel Aviv Competition 2015

Presentazione a Luiss Enlabs, un mese per volare in Israele

ROMA, 22 mag. - Le startup italiane hanno un mese di tempo per vincere l'opportunità di volare a Tel Aviv. Si è aperto infatti il bando per partecipare alla quarta edizione dello "Start Tel Aviv Competition 2015", un concorso internazionale per startup del web, mobile e security organizzato dal Ministero degli Affari Esteri israeliano, Google Israel, la Città di Tel Aviv e Tel Aviv Campus e promosso in Italia dall'Ambasciata d'Israele e da Luiss ENLABS "La Fabbrica delle Startup".
Proprio presso la sede dell'acceleratore capitolino si è tenuto l'evento ufficiale di presentazione del contest in Italia al quale hanno preso parte l'Ambasciatore d'Israele, Naor Gilon, Talia Rafaeli, Vice Presidente di StageOne Ventures, Luigi Capello, Ceo di LVenture Group e fondatore di Luiss ENLABS e Giuseppe Morlino, ceo della startup Snapback, vincitrice della scorsa edizione della competizione.
La startup vincitrice rappresenterà l'italia a Tel Aviv insieme alle startup di altri 22 paesi per partecipare ad un bootcamp che si svolgerà dal 6 al 10 Settembre 2015 a margine del Digital Life Design Festival. "Da sempre l'Italia è al nostro fianco in questo progetto - ha dichiarato l'Ambasciatore Gilon -. Questo paese sta facendo grandi passi avanti nel campo dell'innovazione e luoghi come Luiss ENLABS, che ci affianca da tre edizioni, sono un esempio concreto di questo fermento. Invitiamo i giovani italiani con la voglia di innovare a partecipare numerosi al contest per vincere l'opportunità di volare a Tel Aviv, uno spazio che vanta la più alta concentrazione di imprese innovative per abitante".
I numeri dell'innovazione in Israele sono davvero impressionanti. "In trenta anni, Israele ha sviluppato il secondo ecosistema innovativo più grande al mondo dopo la Silicon Valley - ha sottolineato Talia Rafaeli -. In un territorio grande quanto la Toscana, con 8 milioni di abitanti, ci sono oltre 5.500 startup tech e centinaia di multinazionali".
Per Luigi Capello "sviluppare e rafforzare i rapporti con l'ecosistema israeliano e il loro Venture Capital è una cosa a cui teniamo moltissimo e progetti come quello lanciato oggi servono proprio a tessere relazioni e far nascere nuove opportunità di business".

(askanews, 22 maggio 2015)


Comunità ebraica di Roma. L'addio di Pacifici: "I miei vent'anni tra Rutelli e Alemanno"

"Anche il Pd mi ha proposto di fare il sindaco, poi c'è stata Mafia Capitale e tutto è cambiato".

di Gabriele Isman

 
  «Quando più di 20 anni fa entrai in consiglio con la bandiera di Israele mi dissero che era sbagliato. Oggi due liste hanno quella parola nel loro nome: è il mio più grande successo. Il suo successore alla presidenza uscirà dalle elezioni del 14 giugno, ma Riccardo Pacifici alla fine della sua era alla guida della comunità ebraica, apre il libro dei ricordi dal 1993 - «Mi candidai da solo e arrivai secondo. Mi ero formato nel partito radicale, l'unica tessera che abbia mai avuto» - al futuro. Per lui non è più possibile ricandidarsi, dopo 3 mandati da consigliere.»

- Ha conosciuto quattro sindaci, senza contare premier e Capi dello Stato.
  
«I sindaci sono cinque, il primo fu Carraro, quando organizzammo la posa della targa per i 112 bimbi morti alla scuola Polacco. La politica romana all'epoca non conosceva la comunità ebraica, il vero "presidente" era il rabbino Toaff. La svolta fu con Rutelli, nel 1993: il consiglio della Comunità diede un'indicazione di voto per lui, rimane un caso unico. D'altra parte il suo avversario era il segretario del Msi, Fini».

- Anni dopo, Rutelli fu sconfitto da Alemanno, e molti la accusano di troppa vicinanza col sindaco di centrodestra.
  «Rivotai Rutelli, ma al ballottaggio ero in Israele, appena eletto presidente. Lui si arrabbiò molto che non fossi tornato in tempo e perché avevo detto ad Alemanno che l'avrei attaccato se si fosse apparentato con Storace. L'apparentamento saltò».

- Sicuro di non aver sbagliato nulla con Alemanno?
  
«Rifarei tutto. Credo che lui, forse anche per il mondo da cui veniva, abbia fatto un percorso di revisione storica ma il suo entourage non ha mai tollerato i suoi rapporti con noi e i viaggi ad Auschwitz. Non sapeva molto delle responsabilità del fascismo sugli ebrei italiani, ma si mise a studiare e, come mi raccontò, imparò a salutare con il braccio sinistro per paura di essere confuso nel saluto romano. Certo, Mafia Capitale è stata poi una delusione, ma lì la responsabilità credo sia collettiva.»

- II sindaco Veltroni invece volle il Museo della Shoah. Un'opera che verrà mai terminata?
  
«No, se non sarà ripristinata la deroga al Patto di stabilità fissata dal governo Monti. L'alternativa è che Renzi si faccia carico dell'opera: a Berlino, a Washington, ovunque, il memorial della Shoah è a cura del governo, non del sindaco, affidarla ai soli cittadini romani è un sacrificio eccessivo».

- II sindaco oggi è Marino.
  
«Un uomo timido, con una giunta terrorizzata da Mafia Capitale. Prima che scoppiasse il caso un autorevole esponente del Pd mi prospettò l'ipotesi di candidarmi a sindaco dopo di lui. Altre due volte la proposta era arrivata, da Buttiglione e dal Pdl. Stavolta ci avrei pensato a patto di essere pagato un euro, come il sindaco di Gerusalemme. Voglio vivere del mio lavoro di rappresentante di abbigliamento, e finalmente sarò più vicino alla mia famiglia, che ha sopportato gli anni sotto scorta».

- La sua immagine resterà legata al processo Priebke.
  
«Avevamo preparato volantini e striscioni per l'assoluzione e per la condanna. Alla sentenza il presidente del tribunale mi chiamò e mi disse "sto per assolverlo e farò sgomberare l'aula" e io gli preannunciai che saremmo rimasti nel tribunale, che soltanto Toaff poteva farmi cambiare idea. Lo chiamammo in viva voce, l'Unione delle comunità ebraiche aveva già deciso di andare a deporre fiori alle Fosse Ardeatine come protesta. Toaff mi disse "resta dentro". Il vero obiettivo era impedire a Priebke di prendere il volo Alitalia per l'Argentina delle 22. Ci riuscimmo. Quella vicenda mi cambiò. Speravamo solo di farlo schiaffeggiare da Raimondo Neris, reduce di Mauthausen».

- Chi la preoccupa oggi in Italia?
  
«Salvini ha la responsabilità di traghettare la destra moderata ex Forza Italia e Pdl a una deriva xenofoba in cui, più di lui, emerge CasaPound. Usa un linguaggio che neppure fa parte del suo Dna politico perché gli serve, pur non credendoci, a racimolare consensi. Non voterei mai né lui né Grillo.»

- II voto più vicino è per la Comunità ebraica.
  
«Sostengo Ruth Dureghello, la sua lista "Per Israele" l'ho fondata io. Ha un carattere molto forte ed è meno generosa con gli avversari di me, anche se più dialogante. Mi ha anche arginato».

(la Repubblica, 22 maggio 2015)


La viceministra degli esteri israeliana: "Questa terra è nostra"

Ha citato la Torah per rivendicare la legittimità degli insediamenti in Giudea-Samaria.

Il vice ministro degli Esteri israeliano, la 36enne Tzipi Hotovely, che di fatto regge il dicastero, ieri ha ribadito di essere a favore del riconoscimento internazionale degli insediamenti in Giudea-Samaria:

È arrivato il momento di far sapere al mondo che abbiamo ragione e non siamo semplicemente intelligenti. È importante dire che questa terra è tutta nostra.
Non siamo venuti qui per chiedere scusa.

La Hotovely fa parte di una schiera di giovani politici del Likud, vicini a Netanyahu. A sostegno della sua posizione ha citato anche Rashi, un famoso commentatore della Bibbia dell'undicesimo secolo.
Parlando con i giornalisti ha poi in qualche modo moderato i toni, spiegando che nonostante le sue visioni politiche personali, sarà al fianco del primo ministro a favore del dialogo per la soluzione dei "due stati" pubblicamente appoggiata da Netanyahu. Mercoledì in un incontro con il capo della diplomazia europea Federica Mogherini aveva accusato i palestinesi di aver abbandonato i dialoghi di pace un anno fa e aveva chiesto il supporto dell'Europa nei confronti del riconoscimento di Israele come uno stato ebraico da parte dell'autorità palestinese.

(Fonti di agenzia, 22 maggio 2015)


La convivenza con i musulmani? Solo in un caso

di Angelo Panebianco

Fino a qualche decennio fa, era lecito essere ignoranti in materia di islam. Oggi non più. Ciò che passa sotto il nome di "risveglio islamico" ha cambiato tutto: la rivoluzione khomeinista del 1979 che diede vita in Iran al primo Stato islamico sciita, i movimenti jihadisti sunniti che si fecero le ossa trasformando i propri adepti in combattenti esperti al tempo dell'invasione sovietica dell'Afghanistan, gli attentati dell'11 settembre 2001 e tutto ciò che ne è seguito.
   Oggi, non è possibile comprendere quasi nulla di quanto accade in alcune delle aree più calde del pianeta, dal cosiddetto Grande Medio Oriente all'Africa sub-sahariana se, contestualmente, non ci si sforza anche di padroneggiare intellettualmente le diverse correnti ideologiche che attraversano il frammentato mondo islamico. E, per effetto dell'immigrazione musulmana in Europa, non è nemmeno possibile ragionare sul futuro delle società europee senza tenere conto dei rapporti, presenti e futuri, fra la minoranza islamica e l'Europa cristiana e secolare.
   A questo proposito, segnalo ai lettori quella che mi sembra la guida più completa e utile sul pensiero politico islamico e sulle varie correnti ideologiche che si confrontano in quel mondo: il volume, edito dal Mulino, Islam e poetica di Massimo Campanini.
Se si leggono gli specialisti, come Campanini, non solo si comprende quanto vivace, ricco e complesso sia il pensiero politico islamico ma si trova anche la conferma del perché sia così difficile organizzare la convivenza fra islamici e non islamici. Non parlo ovviamente dei jihadisti, combattenti in nome e per conto dell'islamismo radicale. Parlo di quella parte, maggioritaria, che non prende le armi e rifugge dalla violenza. Come si fa ad assicurare condizioni di convivenza non fondate sull'equivoco fra gli occidentali che (credenti o non credenti) hanno accettato di tenere il più possibile separato il sacro e il profano, la religione e la vita secolare, e comunità che fanno di Dio la fonte della legge e del governo l'esecutore della sua volontà (con varie conseguenze, ivi compresa quella che legittima la disuguaglianza formale fra uomini e donne)?
   Appare evidente che la convivenza è possibile solo in un caso: se i musulmani, forzando il loro credo, accettano di tenere il più possibile distinte, non mescolate, dimensione religiosa e dimensione secolare. Ma se lo fanno, si espongono all'accusa, da parte degli islamisti radicali e dei tradizionalisti, di essere dei falsi musulmani, corrotti dal contatto con l'aborrito mondo occidentale. Non se ne esce facilmente.
   Fronteggiare l'islamismo radicale, quello che usa le armi, richiede una combinazione di virtù civiche e militari, di capacità politiche e di capacità belliche. Difficile, certo, ma non impossibile. In linea di principio, almeno si può elaborare una sensata linea d'azione e di difesa. Come far convivere e cooperare fra loro quelli che separano e quelli che non separano religione e politica, sacro e profano, è invece un enigma di cui nessuno, al momento, ha in tasca la soluzione.

(Corriere della Sera, 22 maggio 2015)


Invece di continuare a ripetere che “non è una guerra di civiltà” si sarebbe dovuto dire subito che, sì, è proprio una guerra di civiltà. Perché è chiaro che se gli islamici finissero per accettare davvero il multiculturalismo democratico occidentale, dovrebbero ammettere che qui la loro civiltà islamica ha perso. Finché questo non avverrà, la loro civiltà li obbligherà a considerarsi in guerra (jihad), con tutto quello che significa in fatto di tecniche di minaccia e inganno. I governi occidentali, invece di aspettare pazientemente e timorosamente che gli islamici portino a compimento il loro progetto di vittoria, dovrebbero dichiarare apertamente che stanno svolgendo una guerra di civiltà e sono decisi a vincerla. Ma, appunto, in modo civile, cioè non sgozzando i nemici, ma obbligandoli al rispetto rigoroso delle leggi, uguali per tutti, e non diverse a seconda delle religioni professate. E, soprattutto, non adattate a nessuna forma di “sharia”. M.C.


Le relazioni commerciali tra Cina e Israele

di Simone Pieranni

 
Ultimamente la Cina ha acquisito l'azienda israeliana Tnuva, principale operatore nazionale del mercato alimentare. Si è trattato di un'operazione imponente, portata avanti dalla Bright Food cinese capace di sborsare oltre due miliardi di dollari. Si tratta di un segnale inequivocabile: da partner sulla tecnologia e le infrastrutture, Pechino diventa sempre più interlocutore commerciale di Tel Aviv.
Secondo il China Daily, «Le acquisizioni di aziende israeliane fuori del settore high-tech da parte degli investitori asiatici, europei e statunitensi sono balzati a 636 milioni di dollari l'anno scorso da 73 milioni dollari nel 2013, secondo Liat Enzel, capo dei servizi di consulenza presso PricewaterhouseCoopers in Israele. Questa cifra è già stata eclissata nel 2015 con l'acquisizione Tnuva e un altro importante accordo nel settore delle materie plastiche è in corso».
Anche il Financial Times ha sottolineato questa nuova vicinanza tra Cina e Israele. «I cinesi stanno mangiando formaggio, ha scritto il quotidiano finanziario, come non hanno mai fatto nella loro storia». La società cinese che ha investito in Tnuva, tuttavia, ha specificato che i miliardi servono per accapparrarsi «la qualità della gestione agro-alimentare israeliana».
«L'accordo - ha scritto il Financial Times - è stato il più grande buyout cinese di una società israeliana dal 2011, quando la China National Chemical Corporation ha acquistato Adama, che produce pesticidi allora conosciuta come Makhteshim Agan, per 2,4 miliardi di dollari».
Ricordiamo altre operazioni importanti della Cina in Israele: Baidu, il più grande motore di ricerca cinese, ha investito oltre 3 milioni di dollari in Pixellot, una start-up israeliana che si occupa di video e pare abbia stretto un accordo, sotto forma di fondi e prestiti, con Carmel Ventures, una società di venture capital israeliano.
«Nel mese di novembre Shouguang, sulla pianura costiera della Cina, ha lanciato un progetto per una «Città d'acqua» allo scopo di mostrare le innovazioni israeliane per il riutilizzo e desalinizzazione dell'acqua. Sono attesi i primi contratti da firmare entro la fine di questo anno, e dovrebbe essere operativo entro il 2017», ricorda il Financial Times.
«Siamo grandi inventori e brillanti nello sviluppare le cose», ha raccontato al Ft Todd Dollinger di una società di investimento tecnologico che ha organizzato Agrivest. Ma le nostre capacità di produzione non sono quelle della Cina, e siamo molto lontani dai principali mercati -. Siamo effettivamente un'isola e lavoriamo al meglio in partnership».
Si conferma dunque la tendenza cinese, che cerca mercati per le proprie merci, sviluppa infrastrutture e contemporanee nuove vie della Seta e va in cerca di know how e innovazione, per trovare la quadra ad uno sviluppo economico che oggi più che mai ha bisogno di nuove frontiere e di una capacità ad innovare, che finora è mancata nel sistema produttivo cinese.

(EastOnline, 21 maggio 2015)


La festa ebraica di Shavuot

Shavuot ricorda la promulgazione dei Dieci Comandamenti e la presentazione delle primizie al santuario. Si usa trascorrere la prima notte di Shavuot studiando per tutta la notte. Esistono dei libri appositi in cui sono indicati i brani della Bibbia, del Talmud e dello Zohar da leggere. Si legge nel libro di Rut.

Come per gli altri giorni di festa solenne, di Shavuot è permesso accendere da un fuoco gia acceso, è permesso cucinare e trasportare oggetti da un luogo pubblico a uno privato. In alcune Comunità si usa fare pasti a base di cibi di soli latticini forse perché, non avendo ricevuto ancora la Torah, gli ebrei non sapevano come macellare in modo kasher gli animali. Altri pasti sono comunque a base di carne, come è consuetudine nei giorni festivi. E' consuetudine adornare il Tempio con fiori e piante, in ricordo del profumo che gli ebrei sentirono quando furono promulgati i Comandamenti. Non si dice Tachannun nei cinque giorni successivi a Shavuot.

(Comunità Ebraica di Roma, maggio 2015)


Netanyahu propone un dialogo fra governo e parlamentari arabi

Per migliorare le condizioni della minoranza palestinese.

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha proposto un dialogo strutturato fra funzionari del governo e parlamento arabi-israeliani al fine di sviluppare un piano economico per la minoranza e allontanare le critiche di razzismo e settarismo piovute in queste prime settimane contro il nuovo esecutivo conservatore. Oggi il premier ha incontrato il presidente della Lista araba, Ayman Odeh, al quale ha proposto la creazione di una squadra mista composta da funzionari del governo e parlamentari arabi al fine di risolvere i problemi della minoranza. In una nota diffusa al termine dell'incontro citata dal quotidiano israeliano "Haaretz", Odeh ha rivelato di aver discusso con Netanyahu anche il possibile congelamento della demolizione delle abitazioni appartenenti alla comunità palestinese residente in Israele. "L'incontro si è svolto in un clima positivo, ma non posso parlare di risultati concreti, finché non vi saranno risultati sul campo", ha detto Odeh.

(Agenzia Nova, 21 maggio 2015)


Start up e esperti israeliani in Italia per costruire il futuro

Innovazione, droni, robot: Israele si conferma paese protagonista

di Elisa Pinna

Talia Rafaeli
ROMA - Dal festival dell'innovazione a Milano, nel quale droni e robot affiancheranno relatori in carne ed ossa, al primo corso inter- universitario a Firenze per mettere in contatto team di giovani innovatori con investitori privati, fino al concorso per la migliore start up italiana che parteciperà alla settimana Digital Life D di Tel Aviv dal 6 al 10 settembre 2015. Sono tre le iniziative in programma in questo fine settimana in Italia, dove i maggiori esperti di web, nuove tecnologie e start up israeliani svolgeranno un ruolo da protagonisti nel raccontare e nel descrivere le potenzialità del futuro alle nuove generazioni italiane, anche in un'ottica di collaborazione bilaterale sempre più stretta. Israele è ormai diventato un paese simbolo per l'alta tecnologia e il numero di start up che ospita. Secondo una recente ricerca, Tel Aviv si è piazzata come la seconda città al mondo nell'offrire un "eco-sistema" particolarmente adatto per la nascita di imprese innovative. Nella Città Bianca sul Mediterraneo, le compagnie internet e di alta tecnologia sono oltre un migliaio e ne nascono di nuove ogni giorno. Nomi del calibro di Yossi Matias, vice presidente dell'engineering di Google, di Uri Levine, fondatore di Waze, di Talia Rafaeli, vice presidente di StageOne Ventures e del prof. Ronen Feldman, docente di Sistemi di Informazione alla Business School della Hebrew University di Gerusalemme, guideranno il primo corso inter-universitario a Firenze che permetterà a studenti di creare team , di valutare il potenziale economico di un'idea innovativa e di presentarla a investitori privati.
Intrigante poi la partecipazione al festival dell'innovazione a Milano, tra droni e robot, di Omri Amirav-Drory, fondatore e amministratore delegato di Genome Complier Corp, un'azienda che punta alla produzione di materiale genetico, come ad esempio il DNA, attraverso l'utilizzo di stampanti 3D. Sabato, Amirav Drory condurrà il pubblico in un viaggio per esplorare le potenzialità che offrono bio e nanotecnologie. Infine a Roma si svolgerà la presentazione della quarta edizione italiana del competizione internazionale "Start Tel Aviv, un concorso tra giovani startupper di 21 paesi del mondo che porterà i finalisti a partecipare ad un bootcamp all'interno del Digital Life D. L'evento lancio si tiene giovedì nella sede dell'acceleratore d'impresa Luiss Enlabs a Roma. tra i relatori la vicepresidente di StageOne Ventures, Talia Rafaeli.

(ANSAmed, 21 maggio 2015)


L'accordo con l'Iran finisce ancor prima di cominciare

Khamenei dice no agli ispettori sul nucleare. Che beffa pericolosa.

di Redazione

In un'intervista alla tv israeliana a inizio maggio, il segretario di stato americano John Kerry ha cercato di rassicurare Israele sull'accordo per il nucleare iraniano che dovrà essere raggiunto entro il 30 giugno, dicendo: "Avremo gli ispettori in Iran ogni singolo giorno. Non è un accordo che dura dieci anni, questo, è un accordo che durerà per sempre. C'è molta isteria in giro al riguardo". La Guida suprema della Repubblica islamica, Ali Khamenei, parlando due giorni fa davanti a una platea di cadetti a Teheran, ha detto: "Per quel che riguarda le ispezioni, ribadiamo che non lasceremo che degli stranieri vengano a ispezionare alcun sito militare" e sono vietati anche i contatti diretti con gli ingegneri nucleari - "cari figli di questa nazione" - che lavorano per il governo: "Non sarebbero colloqui, sarebbero interrogatori".
   Il controllo è la base su cui si costruisce il negoziato nucleare: Teheran fa promesse sul contenimento dell'arricchimento dell'uranio e sulla costruzione delle centrifughe, e l'occidente verifica con continuità che non ci siano violazioni, dando in cambio l'allentamento delle sanzioni. Obama, in una lunga intervista all'Atlantic, ha detto di voler siglare un accordo "sicuro", "tra vent'anni sarò ancora in giro, se l'Iran avrà l'arma atomica ci sarà scritto su il mio nome", ha detto, dicendo che "l'antisemitismo non rende le persone irrazionali", Teheran vuole rientrare nel mondo e avere un'economia che funziona. Ma se il controllo non c'è o non è concesso o viene ostacolato, il deal traballa.
   Le parole di Khamenei complicano il negoziato, Teheran pretende fiducia senza dar nulla in cambio, ma scardina l'argomentazione cruciale della difesa obamiana del deal: vi garantiamo che la Bomba non ci sarà, controlleremo noi. Se si pensa che in nome di questo accordo è stata plasmata la politica mediorientale di Obama, dallo Yemen passando per la Siria fino all'Iraq, la dichiarazione di Khamenei non appare solo pericolosa, è anche tremendamente umiliante.

(Il Foglio, 21 maggio 2015)


Musica - Ballare a ritmo yemenita

di Rachel Silvera

 
Ambientazione brulla, immersa nel deserto. Un uomo in divisa avanza minaccioso munito di frusta. Da una tenda lo guarda, piuttosto scocciata, una lei che inizia il suo canto profondissimo in arabo: "Amore del mio cuore, occhi miei. È straordinario che qualcuno ti abbia messo contro di me. Ha osato mangiarmi ma non per esser soddisfatto. Come una rosa appena sbocciata l'amore mi sconvolge e mi lascia qui inconsapevole. Questo amore ha fatto piangere i miei occhi". Un testo che inviterebbe a una dolorosa nenia dedicata all'amor perduto ma che a sorpresa mescola il sound tradizionale yemenita ad un ritmo dance a cui non si può resistere più di un minuto seduti e che promette di far ballare almeno mezza Israele. "Habib Galbi" è la canzone rivelazione delle A-wa Sisters, tre sorelle israeliane originarie dello Yemen, Tair, Liron e Tagel Haim (rispettivamente 31, 29 e 25 anni), che hanno avuto l'intuizione di mixare armoniosamente la propria tradizione insaporendola con un pizzico di attualità. Lanciano la loro serenata d'amore alla propria patria di origine, lo Yemen, proprio mentre la situazione del paese viene inasprita sempre più dall'avanzata dei ribelli Houti, preoccupando Israele sulle sorti del centinaio di ebrei ancora presenti sul territorio che non intendono lasciare le proprie case, nonostante il minaccioso grido di guerra dei miliziani sia "Morte all'America, morte a Israele, siano maledetti gli ebrei, vittoria all'Islam".
   Le tre sorelle della band, cresciute con altri tre fratelli nel piccolissimo paesino Shaharut, nel sud di Israele, si presentano così: "Siamo sorelle, tre sorelle, siamo yemenite, proveniamo da un piccolissimo posticino nel Sud e aggiungiamo hip-hop e reggae alla tradizionale musica yemenita".
   Una infanzia, quella di Liron, Tair e Tagel, passata a recitare con i nonni i tradizionali poemi liturgici e con il papà appassionato di musica greca: "Tutto questo è sempre rimasto sepolto nella parte più profonda della mia anima", racconta Tair.
   La svolta arriva nel 2010 quando, dopo aver prestato tutte il servizio militare e aver coltivato i propri studi, si ritrovano nella vecchia casa di Shaharut a cantare e scrivere insieme: "Cantiamo in diverse lingue - spiegano - ma la musica yemenita è diversa, è come tornare a casa". Dopo aver riscoperto un intero repertorio di canzoni tradizionali cantate da donne e scritte da Shlomo Mooga tra gli anni '50 e '60, le sorelle Haim decidono di contattare Tomer Yosef, produttore e leader di una band che mescola musica ebraica e balcanica a sound elettronici: "Volevamo riportare alla luce i lavori di Mooga prima che sparissero per sempre" concludono. Quello che ne esce fuori è un disco con 12 tracce che promettono di entrare nel cuore dei migliaia di ebrei yemeniti di seconda generazione, i figli di coloro che giunsero in Israele dopo l'operazione Magic Carpet voluta dal governo tra il 1949 e il 1950 e che non hanno dimenticato il proprio passato. Come se non bastasse infine, le A-wa portano con loro una potentissima carica femminista: in "Habib Galbi" ad osservarle soddisfatta seduta in poltrona, la matriarca che fuma il narghilè e tiene il ritmo con fare autorevole. E mentre le tre sorelle guidano una jeep in mezzo al deserto nei pressi di Shaharut e tagliano la legna, a ballare sono tre ragazzini, maschi, che indossano una tuta blu e non riescono proprio a fermarsi.

(Pagine Ebraiche, maggio 2015)


È il più antico del mondo, il ghetto di Venezia compie 500 anni

Tante iniziative per celebrare la ricorrenza tra cui mostre, restauri e un concerto alla Fenice. Il programma è stato presentato dalla comunità ebraica giovedì.

Venezia - Campo de Gheto Novo
È il più antico quartiere ebraico del mondo, tanto che la parola "ghetto" è nata proprio qui a Venezia. Ora si appresta a compiere mezzo millennio di vita, e lo farà con un ricco calendario di eventi che prevede mostre, interventi di restauro e un concerto al teatro la Fenice in programma il 29 marzo 2016: data in cui, 500 anni prima, venne costituito il ghetto veneziano sotto il dogado di Leonardo Loredan.
Il decreto del doge stabiliva che "li giudei debbano tutti abitar unidi in la corte de case che sono in ghetto appresso san Girolamo": una sorta di recinto i cui cancelli che venivano chiusi di notte affinché gli abitanti "non vadino tutta la notte attorno". Il nome del luogo deriva probabilmente dal fatto che nei secoli precedenti vi era stata una fonderia, che in veneziano veniva chiamata "getto". Il programma messo a punto dal comitato per i 500 anni del ghetto di Venezia è stato presentato giovedì nella sinagoga Canton della comunità ebraica.
Tre i progetti principali, cui si affiancherà un calendario di iniziative portate avanti autonomamente da soggetti diversi: il primo è la mostra "Venezia, gli ebrei e l'Europa", che si terrà a Palazzo Ducale tra giugno e novembre del prossimo anno. L'obiettivo è mettere in luce la ricchezza dei rapporti tra ebrei, città e società civile nei diversi periodi della lunga storia della permanenza degli israeliti in laguna, attraverso le relazioni culturali, linguistiche, artistiche e commerciali intessute dalla minoranza ebraica con la popolazione cristiana e con le altre comunità di stranieri presenti a Venezia.
Poi un intervento di restauro, ampliamento e rinnovamento del museo ebraico e delle sinagoghe, finanziato grazie alla raccolta fondi lanciata a novembre 2014 da "Venetian Heritage". La campagna, tra le attività dei comitati privati internazionali per la salvaguardia di Venezia (Unesco), punta a raccogliere oltre 8 milioni di euro. Saranno completamente riorganizzati i percorsi di visita, che includeranno anche l'accesso alla antica sinagoga italiana, e verrà aggiunta una nuova ala al museo, con l'aumento dei fondi in esposizione. Infine la cerimonia inaugurale del 500o anniversario del ghetto veneziano, affidata ad un concerto e ad una serata di gala nel teatro La Fenice il 29 marzo 2016.

(VeneziaToday, 22 maggio 2015)


Washington vende bombe a guida laser a Israele

Anche 10 elicotteri all'Arabia Saudita. Contratti da circa 1,9 miliardi ciascuno

WASHINGTON - L'amministrazione Usa ha dato il via libera alla vendita a Israele di bombe a guida laser e all'Arabia saudita di 10 elicotteri multimissione MH-60: lo ha annunciato il Pentagono, spiegando che il semaforo verde è stato già notificato al Congresso. I due contratti ammontano rispettivamente a 1,879 e 1,9 miliardi di dollari, secondo un comunicato dell'Agenzia per la cooperazione su sicurezza e difesa, che fa riferimento al dipartimento alla Difesa Usa. Il contratto israeliano prevede in particolare 14.500 kit di Gps per bombe classiche e 700 per bombe per perforazione dei bunker Blu 109. Sono comprese, inoltre, bombe classiche, bombe anti-bunker Blu 113, 3.000 missili anticarro Hellfire e 250 missili aria-aria. Si tratta di "rinnovare" lo stock di armi di cui lo Stato ebraico già beneficia, ha spiegato un funzionario americano. Il contratto per l'Arabia saudita prevede invece la vendita di 10 elicotteri multimissione MH-60, versione Marine dei Blackhawk di Sikorsky, assieme al loro equipaggiamento, tra cui 38 missili Hellfire e 380 piccoli missili a guida laser.

(askanews, 21 maggio 2015)


Le quattro tecnologie israeliane in aiuto alla produzione casearia

 
Tra pochi giorni si celebra la festività di Shavuot, conosciuta anche come "festa delle primizie" e "festa delle sette settimane" in cui gli ebrei di tutto il mondo ricordano la donazione della Torah (Bibbia).
Molto prima di diventare la Startup Nation, Israele era conosciuta come la terra stillante latte e miele. Rimanendo fedele a questi due titoli, nel corso degli anni, Israele è diventato noto come il leader mondiale nelle tecnologie di mungitura.
Qualche anno fa l'Ufficio Centrale di Statistica israeliano ha annunciato che le mucche israeliane sono le più redditizie di tutto il mondo. Di conseguenza, molti paesi cercano in Israele per migliorare la propria produttività casearia.
Quindi vicini a Shavuot, la festa ebraica in cui si è soliti mangiare latticini, diamo uno sguardo alle 4 innovazioni nel campo delle tecnologie lattiero-casearie di Israele.
  1. Prima azienda ad usare il lattometro - AfiMilk
    Con sede nel Kibbutz Afikim, questa azienda è pioniera in questo campo perché è stata la prima ad aver introdotto il lattometro elettronico (il quale serve per il monitoraggio dei dati) più di 25 anni fa. Da quel momento AfiMilk sviluppa sistemi computerizzati per la gestione del caseificio che aiutano l'agricoltore a monitorare le condizioni sanitarie della mandria nel totale rispetto per la natura.
  2. SCRDairy - latte di qualità
    Innovatori israeliani sono costantemente alla ricerca di nuove tecniche per garantire una produzione di latte efficiente. Un altro fornitore ha sviluppato una tecnologia chiamata FreeFlow che misura la quantità del flusso del latte. Questa tecnologia consente ai produttori di raccogliere dati sulla latte e mantenere alta la qualità.
  3. Tecnologia cow friendly - MiRobot
    La startup Ilagritech ha sviluppato sistemi di mungitura di nuova generazione, automatiche. Il robot MiRobot gestisce tutte le attività coinvolte nel processo, come la pulizia e le attività di routine post-mungitura. Il sistema è stato definito cow-friendly ovvero la mucca non subisce alcun danno.
  4. Basta latte acido - Oplon
    La società con sede a Ness Ziona ha inventato Oplon, un sistema che evita che il latte diventi acido grazie all'utilizzo di materiali di imballaggio che proteggono il contenuto dal deterioramento. Questa tecnologia consente di mantenere il latte fresco per oltre un mese senza l'utilizzo di additivi e mira ad aiutare la distribuzione di latte nei paesi in via di sviluppo.
(SiliconWadi, 21 maggio 2015)


Fra Hamas e Israele negoziati top secret per dieci anni di tregua

Decisiva la mediazione turca. L'ira di Abu Mazen.

di Maurizio Molinari

RAMALLAH - Abu Mazen è su tutte le furie, i suoi collaboratori non parlano d'altro e nel «press club» della Muqata i reporter arabi sono alle prese con la «storia di Gaza»: l'argomento che tiene banco in Cisgiordania è il negoziato segreto fra Hamas e Israele per raggiungere una «hudna», una tregua, di 5-10 anni.

 Località segreta
  Una ricostruzione minuziosa viene da «Ad-Dustour», quotidiano giordano che, citando fonti occidentali, spiega come Hamas e Israele conducono «colloqui segreti» in almeno una «città europea», forse attraverso emissari della Turchia, il più stretto alleato dei fondamentalisti che controllano la Striscia dal 2007. In questa «località segreta», forse Istanbul o una città tedesca, i «colloqui» sono iniziati sullo scambio fra i resti di un soldato israeliano di origine etiope caduto a Gaza e un imprecisato numero di prigionieri palestinesi.

 Il nodo frontiere
  Hamas e Israele avrebbero affrontato anche il nodo delle frontiere ovvero la possibilità che Gerusalemme riconosca de facto la Palestina dentro i confini della Striscia, siglando accordi bilaterali per migliorare la qualità della vita dei residenti, a cominciare dalla fornitura di elettricità e acqua come già avviene in Cisgiordania. Per «Ad-Dostour» ciò che più conta è il progetto di un «porto di accesso a Gaza», a Cipro o altrove nel Mediterraneo, sotto il controllo di Hamas, per facilitare l'arrivo di merci senza evadere i controlli israeliani. L'idea di un «porto fluttuante nel Mediterraneo» per accedere a Gaza risale all'ex premier Ariel Sharon e Hamas sembra disposto a discuterla, come avviene per l'ipotesi di un'estensione della Striscia a un'area del Sinai che verrebbe concessa dall'Egitto.

 Le parti negano
  I portavoce di entrambe le parti negano tutto. Per Sami Abu Zuhri, di Hamas, sono «notizie tese a ingannare» ed Emmanuel Nachson, portavoce del ministro degli Esteri israeliano, taglia corto: «Di questo non parlo». Ma a farlo è Abu Mazen che, durante una visita in Giordania, ha affermato di essere «del tutto al corrente dei contatti Hamas-Israele» aggiungendo di considerarli «nocivi per il popolo palestinese».

 Allentato il blocco
  L'irritazione si spiega con l'esistenza di più canali tutti estranei a Ramallah, inclusi gli incontri fra Muhammad Al-Ahmadi, ambasciatore del Qatar a Gaza, con il generale Yoav Mordechai, coordinatore delle attività nei Territori, sulla necessità di un «Tahdiat Ala'amar», cessate il fuoco per la ricostruzione. Proprio Mordechai è all'origine dell'allentamento non dichiarato del blocco della Striscia, testimoniato dall'entrata di camion con 1 milione di tonnellate di materiali edili di cui 180 mila per la ricostruzione delle case distrutte nell'ultimo conflitto.

 Restituite le barche
  Altri segnali di «confidenza reciproca» sono la restituzione da parte di Israele di gran parte delle barche sequestrate ai pescatori di Gaza e la rapidità con cui Hamas ha accertato chi, dieci giorni fa, ha lanciato razzi sul Negev. Per i reporter nel «Press Club» della Muqata tutto ciò dimostra che «chi sta a Gaza pensa a Gaza» più che alle sorti della Cisgiordania. Ma l'interrogativo riguarda cosa avverrà dentro Hamas ovvero se a prevalere saranno esponenti politici come Ahmad Yousef, legati al leader all'estero Khaled Mashaal favorevole ai colloqui segreti, oppure i comandanti militari fedeli a Mohammed Deif, capo dell'ala armata sostenuta da Teheran e contraria a ogni tregua con il nemico israeliano.

(La Stampa, 21 maggio 2015)


"Undici cristiani uccisi ogni ora, ma l'occidente è in letargo". Un libro choc

"Gli islamisti vogliono sradicare la cristianità dalla terra".

di Giulio Meotti

ROMA - Ogni anno centomila cristiani vengono assassinati a causa della loro fede. Sono 273 al giorno, undici all'ora. Il cristianesimo è la religione più oppressa al mondo, tanto che l'ottanta per cento di tutti gli atti di discriminazione che si perpetrano nel mondo è diretto contro i cristiani. E' quanto è contenuto nel dossier presentato da John McAreavey, presidente del Consiglio Giustizia e pace dei vescovi di Dublino. Eppure, i cristiani resistono. Lo spiega il giornalista americano Johnny Moore nel suo nuovo libro, "Defying Isis", dove in copertina campeggia una croce formata da una sciabola rosso sangue.
   Un libro che Newt Gingrich, ex speaker del Congresso, consiglia di leggere a tutte le cancellerie. Moore non esita a parlare di "genocidio di cristiani", perché lo scopo dell'islamismo è "sradicare il cristianesimo dal mondo". "In molte città ci si è 'presi cura' di ogni singolo cristiano, sfollato, ucciso o forzatamente convertito, e proprio come i nazisti dipingevano la stella di David sulle case degli ebrei, i jihadisti hanno dipinto la 'N' cristiana sulle case delle comunità cristiane autoctone per identificarli prima di distruggerli", spiega Moore. "Le chiese sono state demolite, le croci bruciate e sostituite con bandiere dello Stato islamico (l'Isis o Is appunto), le case distrutte, intere comunità sfollate, bambini massacrati, e tutto in bella vista. Hanno proclamato che non si fermeranno fino a quando il cristianesimo non sarà cancellato dalla faccia della terra, dal suo luogo di nascita fino al vostro giardino".
   La minaccia che l'occidente affronta "è come quella del nazismo, ma senza una singola reazione di coscienza che resista al male". Moore è affascinato da "quegli uomini, donne e bambini che hanno abbandonato tutto per la loro fede, anche le loro stesse vite". Nel video della recente strage dei cristiani copti in Libia si è potuto notare che nel momento della decapitazione molti di loro invocavano in arabo il nome di Gesù e scandivano preghiere. Quello di cui più distintamente si sono percepite le parole è stato Milad Saber, un figlio di contadini di un villaggio egiziano. L'ironia della storia è che i suoi nonni si erano rifugiati lì negli anni Trenta del secolo scorso per scampare ai massacri di cui erano vittima nel neonato Iraq.
   Lo Stato islamico viene da lontano. E oggi, dalla Siria all'Iraq, è la principale minaccia all'esistenza del cristianesimo: "Fin dall'inizio, l'obiettivo dell'Is è stato quello di pulire etnicamente il mondo dalla presenza dei cristiani". Lo sanno bene i cristiani decimati nella Chiesa di Nostra Signora della Salvezza di Baghdad. Non vennero massacrati dallo Stato islamico nel 2013, neppure nel 2014, ma nel 2010, quando l'occidente tutto non si accorse dell'ascesa di questo mostro. "Aleppo sarà senza cristiani entro un mese", ha invece denunciato a Fides il vescovo caldeo della città siriana, Antoine Audo, che non accusa soltanto l'Is, ma anche "i paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l'ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l'idea di una presenza dei cristiani in medio oriente".
   E se non bastassero le storie di Mosul e Aleppo per scuotere le coscienze, c'è anche la Nigeria, dove il califfato agisce sotto il nome di Boko Haram. Più di cinquemila cattolici sono stati uccisi da Boko Haram nella sola diocesi di Maiduguri, nel nord della Nigeria, a partire dal 2009. Nel complesso sono oltre 13 mila le vittime dei terroristi islamici. Lo dice un rapporto di Aiuto alla chiesa che soffre. Centomila cattolici sono stati cacciati dalle loro case. In tutto, 350 chiese sono state distrutte, molte più di una volta, dopo che erano state ricostruite. Dei quaranta centri parrocchiali di questa sola diocesi, più della metà sono stati abbandonati dai fedeli, altri sono stati occupati dagli islamisti. "Il mondo è rimasto in silenzio mentre un milione e mezzo di cristiani in Iraq è stato cacciato, uno per uno", scrive Moore. "Il luogo dove Dio ha creato l'uomo è anche il luogo dove uomini malvagi stanno usando il nome di Dio per distruggere l'umanità". L'islamismo punta a Roma e alla Basilica di San Pietro: "Vorrebbero convertirla in una moschea, dopo aver vandalizzato i musei Vaticani. Distruggerebbero le loro antiche statue, ridurrebbero a ceneri la sua arte e trasformerebbero la Cappella Sistina in un mercato per schiavi o in una prigione per coloro in attesa di esecuzioni". Questo genocidio ci pone di fronte "al mistero per cui così tanti cristiani in occidente fanno fatica a vivere per quello per cui molti cristiani sono disposti a morire in questi paesi mediorientali".
   Moore conclude con una esortazione: "Che il terrore che affrontano i cristiani risvegli il mondo dal suo letargo". Ma forse per quello c'è ancora meno speranza.

(Il Foglio, 21 maggio 2015)


Tribunale svizzero impone a Israele di riscarcire 1,1 miliardi di dollari all'Iran

TEHERAN - La compagnia petrolifera israeliana, Eilat Ashkelon, dovrà versare all'Iran 1,1 miliardi di dollari a titolo di risarcimento dopo la sentenza di un tribunale svizzero. E' quanto riferisce l'agenzia di stampa iraniana "Irna" che cita una "fonte informata dei fatti" presso il Centro presidenziale iraniano degli affari giuridici. Israele per tutta risposta ha chiarito che non intende risarcire Teheran. "In base 'all'Atto sul commercio col nemico' è vietato ogni tipo di trasferimento di denaro al un paese ostile, quindi anche alla compagnia petrolifera nazionale iraniana", si legge nel comunicato rilasciato dal ministero delle Finanze israeliano. La sentenza di risarcimento segue una battaglia legale tra i due paesi legata a una joint venture dell'oleodotto Eilat-Ashkelon che risale a prima della Rivoluzione islamica.
La joint venture tra i due paesi, che ha avuto inizio sotto lo Scià di Persia nel 1968, riguardava un progetto per la vendita di petrolio iraniano in Europa attraverso Israele. Il greggio è stato trasportato dall'Iran a Eilat, per poi arrivare sino al porto del Mediterraneo di Ashkelon grazie alla costruzione all'oleodotto trans-israeliano Eilat-Ashkelon, anche noto come Tipline israeliano. La struttura in comproprietà fra i due paesi è stata effettivamente nazionalizzata da Israele dopo la rivoluzione islamica del 1979, dopo che l'Iran si è schierato contro Tel Aviv.

(Agenzia Nova, 21 maggio 2015)


Accordo nucleare, ecco perché non ci si può fidare dell'Iran

di Giancarlo Elia Valori

 
Hassan Rouhani
Le autorità cecoslovacche, secondo la agenzia Reuters, hanno bloccato il tentativo iraniano, recentissimo, di comprare compressori utili per le applicazioni nucleari, il tutto per un valore di 61 milioni di dollari.
Il governo britannico ha poi informato il "panel" dell'Onu che controlla l'accordo Iran-P5+1, il 20 aprile scorso, riferendo che aziende come la Tesa, la società per la tecnologia delle centrifughe in Iran, e la Kalay, sempre una società iraniana, stiano tentando di acquisire tecnologie nucleari evolute in Occidente.
La Kalay è di proprietà della Autorità per l'Energia Atomica dell'Iran, ed ha costruito gran parte dell'impianto di Natanz e quello di Fordow, a 95 chilometri a sud di Teheran.
 Il trasporto dei pezzi di tecnologia nucleare "fine" sarebbe stato possibile tramite la rete di società aeree legate alla Mahan Air, che ha affittato alcuni Airbus da società basate in Occidente, evitando così le sanzioni.
La Mahan Air è legata alle Guardie della Rivoluzione iraniana e ha usato anche, come società di copertura, la linea aerea irachena Al Naser Airlines per acquistare, sempre evitando le sanzioni, aerei da trasporto presso produttori europei e Usa.
La rete iraniana delle acquisizioni illegali di materiale tecnologico sensibile è basata in Texas, soprattutto, e opera tramite la Bahram Mechanic, che possiede la maggioranza della Faratel a Teheran e della Smart Power Systems con sede a Houston, Texas.
 La rete ha esportato oltre 24 milioni di dollari di componenti di microelettronica, utili naturalmente per il controllo delle attività nucleari.
In altri termini, ci possiamo fidare dell'Iran? Come ha detto Henry Kissinger dopo l'accordo di Aprile, non ci si può fidare degli accordi, ma dei loro modi di verifica.
Bene, e come sono previste le verifiche del "deal" tra il P5+1 e la Repubblica Islamica dell'Iran? Intanto, gli ispettori dipendono dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che non è omogeneo riguardo alla politica da tenere con Teheran.
 Nel Consiglio di Sicurezza siedono almeno due alleati strategici dell'Islam sciita iraniano: la Cina e la Federazione Russa, e questo indebolisce non poco la potenza "analitica" degli ispettori.
I "parametri" dell'accordo, il testo ufficiale del "deal", parlano di riduzione "approssimata" da parte dell'Iran di due terzi delle centrifughe già installate. E quelle nuove? E perché parlare di dati approssimati, quando tutto è ormai ben noto agli analisti?
 La ulteriore riduzione, da parte di Teheran, delle riserve di uranio arricchito oltre il 3,7 % vale "entro" i prossimi quindici anni, che sono tanti, troppi, e strutturalmente inverificabili.
Il deposito monitorato dalla Iaea delle centrifughe e del materiale nucleare "in eccesso" non è chiaro: come l'Agenzia di Vienna monitorerà praticamente il materiale? E sarà solo la Iaea a controllare le strutture e l'uranio? O anche l'Iran?
Anche la disponibilità iraniana a non costruire altre strutture nucleari per quindici anni è improbabile, siamo sempre in un limite temporale incontrollabile da alcuno, e Teheran può sempre dire agli ispettori Onu che le strutture nucleari che sta costruendo saranno attive "solo" tra quindici anni, e tutto sarebbe apparentemente regolare.
 L'Agenzia di Vienna avrà regolare accesso alle strutture di Natanz e Fordow, e le altre non scritte nei "Parametri"? E le tecnologie di verifica "aggiornate" sono o non sono note alla Repubblica sciita, che può quindi evitarle, modificarle, vanificarle?
Il testo dell'accordo, poi, prevede una durata di circa un anno tra l'inizio della probabile costruzione di un arma atomica da parte dell'Iran e l'allarme internazionale, il che è davvero troppo.
E se le sanzioni, che saranno rimosse in breve tempo contro l'Iran, dopo l'accordo con il P5+1 non vengono tolte rapidamente o in modo insoddisfacente, sempre secondo Teheran, l'accordo sul nucleare salta e viene denunciato dall'Iran?
 È facile pensare, insomma, che la strategia globale di Teheran per quanto riguarda il nucleare militare-civile sia finalizzata non alla costruzione della "bomba", che non riteniamo serva alla Repubblica sciita, ma all'armamento dei missili intercontinentali che sono l'asse della dottrina militare attuale di Teheran.
E quindi si tratta di vedere come la geopolitica della Repubblica Islamica dell'Iran legga, tramite l'armamento nucleare o quasi-nucleare dei suoi missili, alcuni capaci di un raggio di azione di 2000 chilometri, la sua espansione unificante per tutta l'area sciita, e per la egemonia nel Golfo Persico contro gli Usa e la Nato certamente, ma anche contro l'Arabia Saudita e i suoi alleati sunniti.
 Se non si mette in correlazione la questione del nucleare iraniano con la dottrina strategica di Teheran, si rischia quindi di capire ben poco della questione, riducendola ad una trattativa di "polizia internazionale", il che sarebbe l'errore più grave.

(formiche.net, 21 maggio 2015)


Per salvare il Giordano grandi "trasfusioni" dal lago e agricoltura sempre più hi-tech

Collaborazione fra Stati per centrare obiettivi ambiziosi

di Maurizio Molinari

Il Giordano
Con l'apertura della diga del lago di Tiberiade, nel pomeriggio di domenica, è iniziato il piano del governo israeliano per rinvigorire e risanare il Giordano, un fiume storico ma inquinato e carente di acqua. Il progetto prevede l'immissione di circa mille metri cubi d'acqua ogni ora per arrivare a 30 milioni di metri cubi l'anno, destinati ad aumentare il livello delle acque, risanarle dall'inquinamento e contribuire all'opera dei coltivatori, israeliani e giordani, che convivono nella valle. Contemporaneamente all'immissione dell'acqua da Tiberiade - dove il lago ha aumentato il livello grazie agli ultimi anni di forti precipitazioni - verranno asportate acque inquinate e fognature, secondo un calendario di interventi dell'«Authority dell'Acqua».
  Dalla creazione della diga di Deganya, nel 1964, è la prima volta che l'acqua di Tiberiade viene immessa nel Giordano in tali quantità, puntando a raggiungere anche la regioni di più lontane, basse a aride. «Il sistema idrico israeliano si è risollevato dalla crisi - spiega Alexander Kushnir, commissario delle Acque - grazie ad un network di impianti di desalinizzazione, purificazione e riciclo delle acque unito ad una maggiore consapevolezza della popolazione nell'evitare gli sprechi e ciò consente di aumentare l'acqua immessa in Natura, anche grazie alle restaurazione di fonti idriche». Varato nel 2009 come piano per «la riabilitazione del Giordano», si basa sulla collaborazione fra parchi nazionali, Fondo nazionale ebraico (Kkl) e consigli comunali nell'Emek Israel, la valle del Giordano. Obiettivo primario del progetto è asportare le acque inquinate incanalandole in tre direzioni: rifiuti, alta e bassa salinizzazione. E al termine saranno adoperate tutte per irrigare campi agricoli, su entrambi i lati del confine, senza restituirle al fiume.
  L'acqua proveniente dalle fonti naturali di Tiberiade verrà invece separata nelle condotte ed adoperata per l'allevamento di pesci. Ciò significa che circa 17-20 milioni di metri cubi d'acqua verranno immessi e, sommando l'acqua desalinizzata, si arriverà a superare 30 milioni. «Stiamo restaurando il sistema idrico israeliano» spiega Shaul Goldestein, direttore generale dei parchi nazionali, secondo il quale «la chiave del successo è nella collaborazione fra tutti gli attori coinvolti». Shimon Ben-Hamo, ceo della compagnia idrica «Mekorot», parla di «rivoluzione nella gestione delle acque» possibile «anzitutto perché siamo riusciti a immettere sul mercato quantità importanti di acqua desalinizzata» come fino a pochi anni fa era impossibile fare. «Restaurando il Giordano le conseguenze saranno numerose e positive» assicura Amir Peretz, ex ministro per l'Ambiente, parlando di «un progetto che completa l'opera di recupero iniziata, in località minori, su specchi d'acqua avvicinabili dai cittadini». L'uso dell'acqua desalinizzata avviene con le tecniche di colture hi-tech illustrate dal padiglione israeliano all'Expo di Milano: architettura verticale e 80 per cento di risparmi.
  Ma c'è chi si oppone al piano, come la ong «Amici della Terra in Medio Oriente» secondo cui 30 milioni di metri cubi «non bastano» per resuscitare un fiume «a cui ne servirebbero 400-600 l'anno» così suddivisi: 220 da Israele, 90 dalla Giordania e 100 dalla Siria. Saad Abu Hammour, capo dell'Authority della Giordania sul fiume, plaude al progetto israeliano affermando che «le nostre nazioni lavorano assieme, in un team congiunto». E' un aspetto a cui plaude anche Gidon Bromberg, direttore israeliano di «Amici della Terra in Medio Oriente», perché «da almeno dieci anni ci battiamo per una campagna di sensibilizzazione fra i giordani sulla sorte del fiume». Al tempo stesso però è polemica fra ambientalisti ed agricoltori sull'ipotesi di ridurre del 30 per cento il consumo dell'acqua nei campi a valle del Giordano. Gli agricoltori lo ritengono un obiettivo «impossibile da raggiungere» mentre per gli ambientalisti è «indispensabile a far rinascere il Giordano».
  Al centro della disputa c'è uno studio secondo cui ogni anno il 97 per cento dei 1250 milioni di metri cubi d'acqua del fiume vengono adoperati da Israele, Siria e Giordania per l'agricoltura e Gilad Safier, degli «Amici della Terra» ritiene che sia un tasso di sfruttamento «incompatibile con la volontà di salvare il fiume».

(La Stampa, 21 maggio 2015)


Gerusalemme est, palestinese scaglia l'auto sui passanti: due agenti feriti

GERUSALEMME, 20 mag, - Due agenti di polizia sono rimasti feriti questa mattina in seguito all'attacco da parte di un autista palestinese che ha diretto la sua auto contro la folla nel quartiere di Atur, a Gerusalemme est. Secondo fonti della sicurezza israeliana, la polizia avrebbe sparato contro l'attentatore che ora verserebbe in condizioni critiche. A partire dallo scorso settembre 2014 sono aumentati in Israele gli attentati condotti da singoli individui che a bordo di auto investono passanti, si scagliano contro negozi o edifici, oppure attaccano con armi taglio o da fuoco assembramenti di persone. La scorsa settimana tre persone sono rimaste ferite dopo che un giovane palestinese ha lanciato la sua auto a forte velocità contro l'ingresso dell'insediamento di Alon Shvut in Cisgiordania.


(Agenzia Nova, 20 maggio 2015)


Un'amichevole Israele-Palestina a Zurigo?

Netanyahu e Blatter starebbero discutendo sull'organizzazione di un'amichevole storica a Zurigo.

Un'amichevole tra la nazionale israeliana e quella palestinese: è l'idea discussa nell'incontro di oggi tra il premier Benyamin Netanyahu e il presidente della Fifa Sepp Blatter.
Per la Radio Militare la proposta sarebbe stata avanzata da Blatter, mentre per il sito Ynet l'idea sarebbe partita dallo stesso Netanyahu.
La sede dell'incontro dovrebbe essere Zurigo e secondo quanto riportato dalla tv Canale 10 Netanyahu si è detto disponibile ad assistere al match.

(bluwin.ch, 19 maggio 2015)


Armi nucleari in Arabia Saudita?

Alla fine perfino il Manifesto se ne è accorto.

di Fabio Della Pergola

La rabbia delle petromonarchie del Golfo verso il prospettato accordo USA-Iran sul programma atomico di Teheran, porterà probabilmente - scrive Michele Giorgio ("Riyhad acquisirà l'atomica da Islamabad") - ad una diffusione di ordigni nucleari in una delle zone più calde al mondo - e non si parla di meteo. Un'area che da decenni è al centro di turbinosi avvenimenti e dell'attività di tagliagole, governativi o no, di ogni tipo.
   Finora il quotidiano della sinistra residuale (che è concetto diverso da "radicale") si è limitato ad accusare Israele di ogni nefandezza possibile; ad esempio di avere un armamento atomico, ma di non volere che altri se ne procurassero uno equivalente (chissà perché). Oppure di fantasticare cose inesistenti: tipo negare che gli ayatollah non vogliono assolutamente produrre armi nucleari, ma solo dotarsi di energia a basso costo.
   Detto da uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio suonava già parecchio strano, ma nessuno al Manifesto sembrava avere dubbi su quella che appare come una palese incongruenza. Il risultato è sempre stato che alle menzogne di Israele non bisognava dare retta e che a Teheran bisognava invece dare credito e fiducia.
   Adesso non è più solo Israele che protesta; ci si mettono anche i sauditi e la cosa assume un altro significato. Forse che il programma atomico di Teheran, e il suo sbandierato "uso civile, ma non militare" non convinca poi molto?
   Ovviamente l'Arabia Saudita non gode delle simpatie della sinistra essendo nota per essere la più stretta alleata degli USA (ma, contemporaneamente, anche la patria degli attentatori dell'11 settembre) e la base militare per i successivi attacchi all'Iraq (ma, nello stesso tempo, la cassa da cui sono probabilmente usciti i primi finanziamenti a quei bravi ragazzi dell'Isis da cui non si sa come liberarsi se non stringendo nuovi patti con l'Iran).
   Il risultato, comunque sia, era facilmente prevedibile. Un accordo che permetta all'Iran un qualsiasi sviluppo del programma atomico avrà come primo e immediato risultato quello di portare ordigni nucleari di origine pachistana nella penisola arabica, non solo nelle mani dei sauditi (che a suo tempo pagarono il programma atomico del Pakistan), ma forse anche delle altre monarchie del Golfo.
   Senza dimenticare l'Egitto che non ha mai nascosto le sue ambizioni di diventare potenza atomica. Né, a questo punto, la Turchia del nuovo sultanato erdoganiano.
   Dall'arsenale nucleare israeliano, che ha probabilmente salvato lo stato ebraico da minacce più gravi di quelle che ha effettivamente avuto, ma che - forse è opportuno ricordarlo - non è mai stato usato, si potrebbe andare verso un medioriente a diffusa presenza di armi atomiche.
Il che rende il pericolo di un conflitto nucleare ben più realistico di quanto sia mai stato prima.
Peggio di così non poteva andare. Ma chi lo prevedeva, opponendosi ai programmi iraniani su cui era lecito, per molti motivi, avere dei dubbi, veniva tacciato di essere solo uno spalleggiatore delle più oscure e minacciose ambizioni sioniste. E così via salmodiando.
   Ottimo risultato.

(AgoraVox Italia, 20 maggio 2015)


Doppietta Maccabi in Israele

Il tecnico Pako Ayestaràn ha elogiato i giocatori del Maccabi Tel-Aviv, che hanno conquistato la Coppa d'Israele dopo un digiuno durato dieci anni e centrato così l'accoppiata con il campionato per la prima volta dal 1995/96.

di Boaz Goren

Eran Zahavi (a sin.) è andato a bersaglio nel successo del Maccabi in Coppa d'Israele
HAIFA - Il Maccabi Tel-Aviv FC centra l'accoppiata a livello nazionale vincendo la Coppa d'Israele dopo un digiuno di dieci anni, superando nettamente in finale un Hapoel Beer Sheva FC ridotto in dieci.
Tre giorni dopo essersi riconfermato campione nazionale, il Maccabi si impone per 6-2 all'Haifa International Stadium, centrando l'accoppiata campionato-coppa nazionale per la prima volta dal 1995/96.
Di fronte a 32.000 spettatori, Rade Prica firma una tripletta propiziando la 23esima affermazione del Maccabi nel torneo. Il primo gol di Prica arriva al 21', sugli sviluppi di un'azione confusa, e 7' più tardi Yoav Ziv raddoppia. Nel finale di primo tempo Ovidiu Hoban riporta in partita l'Hapoel con una bella azione personale.
Il Maccabi parte fortissimo nella ripresa e Prica va nuovamente a bersaglio al 47', completando poi al 52' la sua personale tripletta. Maor Buzaglo firma il 4-2 5' più tardi con un gol strepitoso, ma la squadra di Pako Ayestaràn replica immediatamente con Eran Zahavi. Nel finale Maaran Radi suggella il risultato.
"Prima della partita ho detto ai giocatori che centrare gli obiettivi non è mai facile, ma loro sono grandi professionisti - ha dichiarato Ayestaràn a fine gara -. Ho chiesto alla squadra di divertirsi e l'ho ringraziata per quanto ha fatto. Dobbiamo essere fieri di ciò che abbiamo fatto, ora è il momento di festeggiare".

(UEFA.com, 20 maggio 2015)


Stati Uniti e Israele discutono su un aumento degli armamenti

In vista di un accordo sul nucleare iraniano

GERUSALEMME - Questo approccio mira ad assicurare alle forze israeliane i migliori sistemi d'armi statunitensi e le più avanzate tecnologie militari rispetto agli altri paesi del Medio Oriente. Secondo un accordo firmato nel 2008, Washington deve sempre tenere aggiornato Israele rispetto alla tipologia di armamenti venduta ai partner arabi, al fine di permettere alle forze di difesa israeliane il mantenimento del vantaggio tecnologico. Al momento le trattative fra Washington e Israele in vista di un accordo sul nucleare iraniano riguardano sostanzialmente due punti: aumento dei jet da combattimento multiruolo F35 in dotazione all'aviazione e nuovi finanziamenti per lo sviluppo di sistemi di difesa anti-missile. Per quanto riguarda i caccia da combattimento, gli Usa potrebbero aumentare a 50 il numero di jet rispetto agli attuali 33 già acquistati da Israele, al fine di creare due battaglioni operativi entro il 2021. Ad oggi gli F35 sono considerati gli unici velivoli in grado di contrastare il sistema anti-missile russo S-300, armamento su cui è già in essere un accordo fra Mosca e Teheran.

(Agenzia Nova, 20 maggio 2015)


Ali Khamenei nega qualsiasi ispezione ai siti nucleari

 
"Queste ispezioni non s'hanno da fare". A parlare è il leader spirituale iraniano Ali Khamenei.
Teheran rifiuta che i suoi siti militari siano ispezionati da stranieri. La Guida suprema lo ha ribadito in un discorso pubblico nel giorno in cui sono ripresi i negoziati in vista di un accordo a fine giugno sul nucleare iraniano: "Non permetteremo alcuna ispezione. Le potenze mondiali vogliono venire qui e parlare coi nostri scienziati, di fatto interrogarli. Non permetteremo che insultino i nostri scienziati nucleari o che entrino in luoghi importanti per nostra sicurezza nazionale".
Khamenei ha inoltre invitato i negoziatori iraniani, che secondo lui stanno "coraggiosamente" combattendo nei colloqui, ad essere decisi e a evitare atteggiamenti di sottomissione, per mostrare la dignità del popolo iraniano.
L'Iran ha ripetuto più volte che non avrebbe permesso ispezioni a siti militari, in quanto non previste dal protocollo aggiuntivo dell'Aiea che attende di essere firmato.

(euronews, 20 maggio 2015)


Addio al professor coraggio: voce contro l'antisemitismo

di Fiamma Nirenstein

Il professor Robert Wistrich ci ha lasciato, ed è troppo triste per essere vero. Spesso si parla di perdite incolmabili, questa volta è vero. È successo qui a Roma all'improvviso, si è spenta ieri all'una una luce di intelligenza e anticonformismo, e nessuno la potrà sostituire. Robert, che aveva 69 anni, era smunto e pallido, l'ho visto sempre sofferente per tutto quello che gli toccava di vedere nel suo campo di studio, l'antisemitismo. Era meditabondo anche se la sua famiglia lo rendeva felice, specie i suoi nipotini: ma la sua Europa si era allontanata del tutto dalla sua Gerusalemme, dove viveva ed era il capo dell'Istituto Vidal Sassoon per lo studio dell'antisemismo.
   Robert era il maggiore storico dell'argomento, il più innovatore e colto: aveva osato staccarsi da ogni parametro che legava l'antisemitismo alla sola destra per esaminare, per primo, come esso sia potuto allignare anche nella sinistra storica e giù per li rami fino nella sinistra radicale e all'islam jihadista.
   I suoi libri sono un incanto di scrittura, come il suo inglese british, preciso, appuntito nell'accusare i veri responsabili dell'obbrobrio che gli è toccato a vedere, quello della rinascita in Europa dell'«odio più antico», come si chiama uno dei suoi libri più importanti. Un suo recente saggio descrive persino con mesta poesia l'assedio alla sinagoga di Parigi Don Abravanel di Rue la Roquette: un attacco quasi completamente islamico, un raid deciso a uccidere gli ebrei in preghiera nel cuore di Parigi. Robert con grazia e orrore denuncia qui il fatto che l'élite raffinata e colta ha voltato la testa dall'altra parte condividendo un segreto odio contro Israele e gli ebrei. Ha osato denunciare l'imbarazzante mistura dell'antisemitismo contemporaneo insieme alla evidenza dell'antisemitismo islamico e di sinistra accanto a quello nazifascista: ci lascia così una lezione di coraggio e di vera lotta contro l'odio più antico.

(il Giornale, 20 maggio 2015)


Il Papa e l'angelo della pace

Lettera a Furio Colombo

Caro Furio Colombo, temo che il Papa abbia esagerato nel definire il presidente del Fronte nazionale palestinese "angelo della pace". Non c'è una sola Palestina e non è chiaro, nel mondo arabo, chi comanda a chi, e dunque chi ha autorità per partecipare a un progetto di pace.
Gregorio


Il Papa ha inteso fare un passo avanti nell'infinita vicenda della pace in Medio Oriente. Lo ha fatto forse nel momento peggiore. Perché, negli stessi giorni, la monarchia saudita stava radendo al suolo una parte dello Yemen per imporre una sua visione e una sua linea, che non risulta discussa in nessun foro internazionale. Eppure l'Arabia Saudita è uno stretto partner politico e amico strategico del mondo occidentale che adesso pare in pericolo. Ma le divisioni intorno al cratere che divide Ramallah (Abu Mazen, individuato come il possibile "angelo della pace") da Gaza (Hamas e i terminali di parecchi gruppi terroristici del mondo), un intrico di fili ad alta tensione che passano in mezzo ai quartieri, le case, le famiglie, le scuole, gli ospedali, i campi da gioco, quelle divisioni restano durissime e paiono fatte da aggregazioni di natura diversa, con diverse se non opposte volontà sul che fare e come fare, e con o senza l'aiuto di chi. C'è una parte del mondo arabo così ricca da comprarsi mezza Milano e tutta l'Alitalia. È l'immensa ricchezza che, dal Qatar, sembra avere una doppia linea di interessi, da una parte i grandi affari e, dall'altra, nuove entità di organizzazione aggressiva e militare come il Califfato che non sembrano prive di sostegno, e appaiono tutt'altro che isolate. In questo paesaggio Libia, Iraq, Siria e Yemen sembrano diventati un modello di Stato senza Stato, dove tutto può accadere. Hanno in comune, oltre l'autodistruzione in guerre interne senza fine, il non riconoscimento di Israele, nel senso della sua esistenza. Israele va distrutto. Non dovrebbe cominciare di qui la tessitura di pace del Papa, qualunque sia il suo giudizio sulle cause, le difficoltà, gli ostacoli e i leader? La Chiesa, prima di Bergoglio, ha lasciato una lunga traccia di ostilità a Israele, fin dall'inizio del secolo scorso, quando si è opposta alla nascita di un Paese per gli ebrei, come si legge in tutti i documenti dei Segretari di Stato, anche dopo la Shoah. Poi, quando Israele è nato, ha evitato di riconoscerlo, unica diplomazia non araba al mondo, fino alla fine del secolo scorso. Per un Papa che si dà come vocazione prevalente la pace, c'è molto da fare. Forse, però, non scegliere subito una delle parti (che dipende da altre parti) come "angelo della pace", squilibrando la scena prima di entrarvi. Sono decenni che i palestinesi vengono sacrificati, spingendoli avanti e poi abbandonandoli, nell'infinita guerra che altri arabi, più ricchi e potenti, intendono combattere non contro i governi, ma contro l'esistenza di Israele. Forse, per prima cosa, bisogna svelare e rimuovere questo tragico equivoco.
Furio Colombo

(il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2015)


La Lega araba esprime soddisfazione per l'accordo tra Santa Sede e Stato di Palestina

Il Segretario Generale della Lega Araba Nabil Elaraby
IL CAIRO - Il Segretario Generale della Lega Araba Nabil Elaraby ha espresso compiacimento per "il riconoscimento vaticano dello Stato di Palestina", entità nazionale la cui dicitura sarà esplicitamente citata nell'Accordo globale tra Santa Sede e Palestina in procinto di essere firmato nel prossimo futuro. Elaraby ha espresso la convinzione che il passo annunciato contribuirà a favorire i legittimi diritti del popolo palestinese, a cominciare dal diritto ad avere uno Stato indipendente "con Gerusalemme Est come capitale". E' questo il contenuto di una dichiarazione diffusa ieri dall'organizzazione internazionale con sede al Cairo, pervenuta all'Agenzia Fides. Elaraby ha anche manifestato la speranza che altri Stati e governi possano presto seguire l'esempio del Vaticano, riconoscendo a loro volta lo Stato di Palestina.
In realtà, come ricordano anche i media ufficiali del Patriarcato Latino di Gerusalemme, è già dal novembre 2012, a seguito del voto favorevole alla Palestina di essere "Stato osservatore" - non membro -, alle Nazioni Unite, che il Vaticano utilizza la dicitura di "Stato di Palestina" in tutti i suoi documenti ufficiali, o in diverse comunicazioni sul Paese, come ad esempio nel programma ufficiale del viaggio di Papa Francesco in Terra Santa nel maggio 2014. Il Presidente palestinese Mahmoud Abbas si è recato due volte in Vaticano dopo il voto delle Nazioni Unite, e ogni volta è stato ricevuto e ufficialmente chiamato «Presidente dello Stato di Palestina». È anche con questo stesso titolo che è stato calorosamente ricevuto sabato 16 maggio da papa Francesco, prima di presenziare domenica 17 maggio alla canonizzazione delle due sante palestinesi, Mariam Baouardy e Marie-Alphonsine Ghattas, celebrata in Piazza San Pietro.

(Agenzia Fides, 19 maggio 2015)


Antisemitismo vaticano ed ipocrisia argentina?

di Gian Giacomo William Faillace

MILANO - Sabato scorso, papa Francesco ha incontrato il presidente dell'inesistente Palestina presso il territorio italiano concesso a quello che un tempo era definito Stato Pontificio e che oggi viene comunemente riconosciuto come Città del Vaticano.
  Appena entrato nel Palazzo Apostolico, tra gli affreschi dell'italianissimo artista Raffaello Sanzio, Abu Mazen è stato calorosamente accolto da papa Bergoglio il quale, nel salutarlo, gli ha rivolto le seguenti parole:"Lei è un angelo della pace".
  Saranno stati i retaggi del passato sudamericano, o per come i gesuiti in tempi lontani intendevano la pace (soprattutto eterna per chi non fosse cattolico), che avranno spinto il Papa, in tempi recenti, a non ricevere oltre le mura leonine il Dalai Lama ed invece intrattenersi per ben due volte (il primo incontro con Mazen avvenne nel 2013) con un capo terrorista islamico?
  Tanto affetto e stima sono dovuti alla convergenza di quelle idee antisemite comuni ad entrambi o alla solidarietà tra uno stato inesistente ed un altro che non supera la superficie di un moderno centro commerciale?
  Non ci è dato saperlo ma questa volta il Papa ha raggiunto l'apice dell'ipocrisia, il tradimento della fede cattolica e ha dimostrato la sua totale sottomissione all'Islam, e spiegherò il mio punto di vista.
  Eccovi Abu Mazen, "angelo della pace", un individuo che si è sempre dimostrato antisemita al punto che nella sua tesi di laurea scrisse:" Sembra che il movimento sionista sia interessato ad aumentare le stime dei morti a causa dell'Olocausto per averne un maggiore tornaconto. Questo li ha portati ad enfatizzare questa stima (sei milioni) per conquistare la solidarietà dell'opinione pubblica internazionale. Molti studiosi hanno analizzato tale stima ed hanno raggiunto conclusioni sorprendenti, fissando il numero di vittime a poche centinaia di migliaia".
  Non contento di questo, Abu Mazen, l'angelo della pace, ha sempre sostenuto e commemorato tutti i terroristi palestinesi che si sono resi responsabili della morte di donne e bambini ebrei; non può passare inosservata l'annuale commemorazione, tanto amata dall'angelo della pace, per ricordare come eroi Ali Ahmad Hasan al-Atmah, Ziyad Abdar-Rahim Ka'ik e Muhammad Muslih Salim Dardour. Voi vi starete chiedendo chi sono costoro, presto detto.
  Era il 15 maggio 1974 a Ma'alot, una cittadina nel nord di Israele, situata vicino al confine con il Libano, era il 26o anniversario della Proclamazione dello Stato di Israele, ma nonostante questo fu un giorno tutt'altro che gioioso per il paese. In questo giorno si consumò un terribile massacro, ad opera di terroristi palestinesi, presso la scuola elementare di Netiv Meir.
  Quella mattina, 3 terroristi appartenenti al FDLP (Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina), entrarono in Israele passando dal Libano. Erano armati con fucili AK-47 d'assalto, granate ed esplosivi plastici vari.
  Una volta entrati in territorio Israeliano, attaccarono immediatamente un furgone uccidendo due donne Arabo-Israeliane e ferendone una terza. Si diressero quindi presso un condominio, dove iniziarono a bussare ad ogni porta fino a che, Fortuna e Yosef Cohen, una coppia che abitava nell'edificio, udendo il rumore, aprirono la porta.
  I terroristi li assalirono immediatamente uccidendo Yosef, il figlio Eliahu di soli 4 anni e ferendo la figlia Miriam di 5 anni. Fortuna, incinta di 7 mesi, tentò di scappare ma invano. I terroristi uccisero brutalmente anche lei.
  L'unico sopravvissuto della famiglia fu il figlio Yitzhack, un bimbo di appena 16 mesi, sordomuto.
  Quindi si diressero verso la scuola elementare.
  Sulla strada incontrarono un lavoratore dei servizi igienico-sanitari di nome Yaakov Kadosh, al quale chiesero indicazioni per arrivare alla scuola. Subito dopo lo picchiarono a sangue e gli spararono ferendolo mortalmente.
  Arrivati alla scuola, i terroristi attaccarono immediatamente uccidendo il guardiano ed alcuni bambini. Il resto degli alunni e dei docenti, 115 persone di cui 105 bambini, vennero presi in ostaggio. Nella scuola c'erano anche degli studenti di una scuola superiore in gita scolastica.
  I bambini vennero costretti a rimanere seduti a terra, sotto la minaccia delle armi, con delle cariche esplosive posizionate tra ognuno di loro. I sequestratori chiedevano la liberazione di altri 23 terroristi palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane. Fissarono come termine ultimo le 18.00 di quello stesso giorno. Se le loro richieste non fossero state accettate, avrebbero ucciso tutti gli ostaggi.
  Verso le 10.00 un uomo di nome Sylvan Zerach, a casa in congedo dall'esercito, si avvicinò alla base di cemento di una torre dell'acqua non lontano dalla scuola per avere una visione più ravvicinata di quello che stava succedendo. Venne ucciso anche lui dai terroristi.
  La Knesset (il Parlamento israeliano), in riunione d'emergenza alle 15.00, decise di negoziare con i palestinesi, ma questi si rifiutarono di prorogare il termine dell'ultimatum.
  Fu allora che, alle 17.45, poco prima dello scadere del tempo, la Sayeret Matkal, un'unità della brigata d'élite Golani, iniziarono l'operazione di salvataggio assaltando l'edificio.
  Tutti i terroristi vennero uccisi nell'attacco, ma purtroppo fecero in tempo ad usare le armi e gli esplosivi contro gli ostaggi. Spararono addosso ai bambini con granate ed armi automatiche varie. In totale 25 persone, di cui 22 bambini, vennero barbaramente uccisi ed altri 68 feriti.
  Ogni anno Abu Mazen commemora questo massacro definendo i tre terroristi eroi, esempi da seguire e Bergoglio lo definisce angelo di pace. Ma d'altro canto, cosa possiamo aspettarci da Papa Francesco? Cosa potete aspettarvi voi cattolici dagli assordanti papali silenzi verso il genocidio dei cristiani in Oriente per mano dell'Isis, in merito al rapimento e massacro dei tre ragazzi adolescenti israeliani i cui esecutori trovarono rifugio e protezione proprio in quei territori sotto la giurisdizione di Abu Mazen? Chissà se il Vescovo di Roma è al corrente che il neo-eletto angelo della pace è stato anche condannato per terrorismo da due tribunali (uno francese e l'altro di New York).
  Come può, e qui il tradimento verso la sua fede e, soprattutto, nei confronti del suo Principale, il Vicario di Cristo definire "angelo di pace" un individuo che accoglie in seno al suo "governo" quegli uomini (Hamas) che nel loro statuto professano la distruzione di Israele e di tutti gli ebrei e che nel maggio del 2002 hanno profanato la chiesa della Natività al punto che, coll'ipocrita silenzio vaticano, è stata addirittura riconsacrata? Gesù, il vostro Messia, non era forse ebreo? Non era un cittadino di Israele? Una guida spirituale, un buon pastore, il capo della fede cattolica dovrebbe, visti gli insegnamenti dei Vangeli, saper distinguere tra un angelo della pace e l'angelo della morte e, come egli stesso ama insegnare durante i suoi sermoni, essere puri di cuore e liberi da ogni gesuitismo.
  Intanto, col bene placido degli antifascisti, dei pacifisti ed anche del Vaticano, in tutta Europa ed in Italia, le leggi razziali di nazista memoria, stanno ogni giorno guadagnando terreno: ieri marchiando con la Stella di David gli europei di religione ebraica, oggi i prodotti di fabbricazione israeliana venduti nel territorio del Vecchio Continente. Ma qui tutto tace, tanto non parliamo di uomini, parliamo di ebrei; non parliamo di politically correct, parliamo di persone perfettamente integrate nel tessuto sociale italiano ed europeo che non impongono a nessuno il loro credo, i loro usi e i loro costumi.

(Milano Post, 20 maggio 2015)


New York investe nelle startup israeliane

 
I fondatori della ICONYC Labs: (da sin.) Eyal Bino, Arie Abecassis e Sharon Mirsky
L'israeliano Eyal Bino, imprenditore residente a New York ed Arie Abecassis, hanno creato ICONYC Labs, il primo acceleratore di New York dedicato alle startup israeliane.
   Nel 2013, un collaboratore di Forbes sosteneva gli imprenditori stranieri che volessero creare la propria startup nella Grande Mela, con un articolo che prefigurava le circostanze presenti. All'epoca New York aveva ospitato il Worldwide Investor Network (WIN), una rete di supporto per le startup straniere fondata dall'imprenditore Eyal Bino.
   L'ecosistema imprenditoriale di New York, secondo del suo genere negli Stati uniti dopo la leggendaria Silicon Valley, soffre di due "mali". Senza adeguata visibilità le startup straniere non riescono ad emergere, e di conseguenza ad attrarre gli investitori nonostante il potenziale di innovazione che posseggono, soprattutto nel settore della tecnologia.
   Secondo Eyal Bino, sono circa 250 le aziende israeliane a New York e centinaia sono in procinto di iniziare il loro cammino. Con una startup ogni 2000 abitanti, Israele è il secondo sistema imprenditoriale dopo gli Stati uniti. Ma laddove Israele può contare su 1 investitore ogni 100 startup, New York ne conta molti di più. Forte di questa nuova presenza locale, le startup israeliane ora hanno i mezzi per imporsi sulla scena mondiale. Queste considerazioni sono frutto di un'analisi a lungo termine che permetterà una migliore allocazione del capitale che, per integrare l'esperienza tecnologica israeliana nel panorama imprenditoriale, avrà bisogno di talenti stranieri.
   I due co-fondatori di ICONYC Labs aiutano al lancio delle startup fornendo un capitale iniziale di 20.000 dollari e fornendo consigli strategici per insegnare a posizionare il prodotto all'interno dell'ecosistema, anche culturale, in cui le startup hanno deciso di stabilirsi. In cambio ICONYC Labs diventa azionista ordinario e partecipa con una quota dell'azienda selezionata che varia tra il 6% ed il 10%.
   Partner del progetto è anche AlleyNYC un "openspace" nel cuore di New York che accoglie gli imprenditori in un ambiente lavorativo che favorisce lo scambio e la collaborazione.
   Delle 200 domande pervenute fino ad ora per il lancio di ICONYC Labs, ne sono state selezionate 5. Hanno passato una serie di colloqui volti a familiarizzare con gli obiettivi del programma di accelerazione.
   Le 5 startup israeliane selezionate da ICONYC Labs, per trasformarle da idee a imprese
  1. Myndlift, una piattaforma che genera videogiochi per allenare il cervello dedicata a coloro che soffrono della Sindrome da deficit di attenzione e iperattività, fa parte di quelle 5 startup selezionate per beneficiare dei servizi del nuovo acceleratore. Si tratta di un'alternativa al trattamento di questa sindrome che ha entusiasmato entrambi i cofondatori per unicità del prodotto e perché unisce due mercati in crescita: i dispositivi medici e le applicazioni mobili.
  2. Accanto a Myndlift anche Dandyloop, un supporto virtuale per la promozione di prodotti sugli e-commerce, che consente di aumentare il traffico senza la necessità di investire.
  3. Gaonic: una piattaforma dati e attività di analisi creata sulla base di un SaaS (Software as a Service), destinato alle società che sfruttano le tecnologie legate allo IOT (Internet of Things).
  4. Clickspree: utilizza moderne tecniche pubblicitarie basate sulla personalizzazione di video per aumentare l'engagement e la fedeltà del consumatore.
  5. Flux: un prodotto agricolo intelligente che garantisce la crescita di cibo e di piante risparmiando acqua grazie a nuove tecnologie.
La formula ICONYC Labs avvantaggia entrambe le parti: gli imprenditori israeliani che lottano per integrarsi nell'ecosistema imprenditoriale di New York e che godono di consulenza e di aiuto finanziario necessario per crescere, e per gli investitori i quali possono identificare il potenziale insito nelle aziende straniere capaci di rendere New York la Silicon Valley di domani.

(SiliconWadi, 19 maggio 2015)


L'Autorità nazionale palestinese prosegue la stretta sui sostenitori di Hamas

Le forze di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) proseguono il loro giro di vite nei confronti dei sostenitori del movimento islamico di Hamas in Cisgiordania. Il Servizio generale d'intelligence dell'Anp - scrive la "Jerusalem Post" - ha arrestato uno studente presso il Politecnico di Hebron, e ha convocato per un interrogatorio un suo collega. Nel frattempo, il Servizio di sicurezza preventiva a Hebron ha arrestato un giovane di 15 anni. A Betlemme le forze di sicurezza dell'Anp hanno arrestato Issa Jawarish, affiliato di Hamas che aveva trascorso 7 anni nelle carceri israeliane, ed hanno perquisito le abitazioni di altri due affiliati al partito. I funzionari di Hamas nella Striscia di Gaza hanno condannato con durezza la "repressione" in corso in Cisgiordania, definendo le azioni di polizia sono una prova evidente del coordinamento sulla sicurezza tra l'Anp e Israele.

(Agenzia Nova, 19 maggio 2015)


Uno Stato palestinese? Dimostrino di meritarlo

Lettera al Giornale

Splendida la lettera di Fiamma a Papa Francesco (il Giornale 15/5)! L'unico motivo per riconoscere lo Stato palestinese sarebbe che, così facendo, lo stesso dovrebbe intrattenere rapporti diplomatici come si conviene tra stati civili. Pertanto, dimostri in maniera tangibile la sua buona fede e intenzioni oneste, se veramente ritiene che i tempi siano maturi. Prima gli esami e poi la promozione.
Serenella Allegrini


(il Giornale, 19 maggio 2015)


L'esercito a difesa della Sinagoga di Pitigliano

Dodici militari la sorveglieranno costantemente.

di Barbara Farnetani

La sinagoga di Pitigliano
PITIGLIANO (GR), 19 mag. - Il Generale di Corpo d'Armata Bruno Stano, responsabile per la sicurezza per gli obbiettivi sensibili del centro-nord Italia, questa mattina ha fatto visita al ghetto e alla sinagoga ebraica di Pitigliano. La sinagoga, considerata obiettivo sensibile, sino ad ora era controllata dai carabinieri. Da oggi invece è stata presa in carico dal Savoia cavalleria: e proprio a questo scopo 12 uomini si sono trasferiti in pianta stabile per garantire la sicurezza della parte ebraica del borgo di Pitigliano.
Il generale Stano, nel corso della visita ha ringraziato il Comune e l'associazione della Picola Gerusalemme che si occupa della Sinagoga per come è gestita. «Non c'è un pericolo imminente - tiene a sottolineare il sindaco Pierluigi Camilli - il generale ha tenuto però a visitare la Sinagoga perché voleva rendersi conto di persona della situazione». Insomma non ci sono minacce di terrorismo al momento ma trattandosi appunto di un obiettivo sensibile e delicato il generale non ha voluto lasciare nulla al caso.

(Il Giunco, 19 maggio 2015)


Le trattative segrete fra Israele e Arabia Saudita per una tregua con Hamas

di Tommaso Canetta

Gira una voce negli ambienti diplomatici e d'intelligence che si fa sempre più insistente: Israele starebbe trattando in segreto una tregua con Hamas. La notizia sembra incredibile, considerati i rapporti tra l'organizzazione - ritenuta terroristica da Israele - palestinese e il neonato governo di estrema destra di Benjamin Neanyahu. Eppure indiscrezioni di stampa parlano addirittura dei dettagli che sarebbero compresi nell'accordo: cessazione delle ostilità per 5 o 10 anni da parte di Hamas, che in cambio otterrebbe la fine del blocco su Gaza e ingenti investimenti da parte delle monarchie del Golfo nella Striscia. Il ruolo più importante in questo negoziato spetta infatti all'Arabia Saudita, ed è guardando all'evoluzione della sua linea strategica che si capisce la verosimiglianza delle indiscrezioni che circolano.
   Agosto 2014, Israele bombarda Gaza e il precedente monarca saudita, Abdullah, addossa pubblicamente la responsabilità delle violenze ad Israele (niente di nuovo) ma anche ad Hamas (inedito nella propaganda araba). Da sempre Riad ha avuto rapporti poco idilliaci col movimento palestinese, di cui sostiene il rivale moderato Fatah. Hamas era infatti molto vicina - prima delle primavere arabe - all'Iran e alla Siria di Assad, entrambi avversari dei Saud. Dopo le primavere arabe la situazione, dal punto di vista dei sauditi, non era migliorata: Hamas si era infatti sì allontanata da Assad in nome della comune lotta coi ribelli sunniti (il dittatore siriano è invece alawita), ma solo per finire tra le braccia della Fratellanza Musulmana, sponsorizzata da Qatar e Turchia e da sempre considerata alla stregua di un'organizzazione terroristica da parte dell'Arabia Saudita. Di qui la freddezza del Re Abdullah, nemmeno un anno fa, di fronte alla guerra a Gaza. Adesso, con il nuovoo Re Salman, la svolta: Riad sarebbe disposta a farsi portavoce delle istanze di Hamas e ad agevolarle nel corso di una trattativa segreta con Israele. Come nasca questa inversione di 180 gradi e perché sia credibile è una questione che affonda le radici nella profonda paura che i Saud hanno in questo momento per l'ascesa del nemico regionale, l'Iran, unita ai timori per l'allontanamento (attualmente contraccambiato) dell'alleato americano.
   Da quando Teheran è uscito dall'isolamento internazionale grazie alla trattativa sul nucleare con le potenze del 5+1 (gli Stati del Consiglio di sicurezza dell'Onu, più la Germania) e, approfittando degli smottamenti post primavere arabe, ha conquistato posizioni nello scacchiere mediorientale (in Iraq specialmente), i Saud sono preoccupati di perdere il primato economico e politico che hanno ricoperto negli ultimi decenni nel mondo islamico. Anzi, si può forse dire che lo sono stati fino a non molto tempo fa, e da poco hanno preso l'iniziativa per contrastare le mosse iraniane.
   L'ultima pedina che Riad e Teheran si stanno contendendo - più per l'alto valore simbolico presso le opinioni pubbliche musulmane che per una reale importanza strategica - è appunto Hamas. A marzo il presidente del parlamento iraniano Larjani ha incontrato a Doha, in Qatar, Meshaal, il leader in esilio del movimento palestinese. Complici gli sviluppi interni al campo profughi palestinese di Yarmuk in Siria, diversi analisti hanno successivamente ritenuto che fosse in corso un riavvicinamento tra Hamas e il regime siriano di Assad, propiziato proprio da Teheran. Questo sviluppo è doppiamente minaccioso per i Sauditi: da un lato rischia di accrescere la popolarità dell'Iran agli occhi del mondo islamico come difensore della causa palestinese, dall'altro potrebbe avere ripercussioni sullo scenario siriano dove da poco i Saud sono passati all'offensiva. Una tale emergenza potrebbe aver spinto il nuovo Re - già dimostratosi nel caso tunisino meno ostile alla Fratellanza Musulmana del suo predecessore - all'inversione di marcia.
   Se questo fosse il caso, Hamas si troverebbe in una situazione potenzialmente molto interessante. A differenza dell'ex alleato iraniano, i Sauditi hanno ottimi rapporti - specie in questo momento - con Israele e possono credibilmente svolgere il ruolo di mediatore. Tanto Riad quanto Tel Aviv sono infatti in prima linea contro l'Iran ed entrambi sono in una fase di freddezza con gli Stati Uniti. Inoltre l'Arabia Saudita è già una potenza economica che non ha mai fatto mistero di essere pronta a regalare miliardi di dollari a chi sia disposto ad assecondarne i desideri, mentre l'Iran starebbe - forse - per uscire solo ora da anni di sanzioni economiche e conseguente indebolimento. Riad ha poi ottimi rapporti - e potenti leve economiche - con l'Egitto di Al Sisi. Proprio il presidente egiziano, con la sua linea dura nel chiudere i valichi tra Egitto e Gaza, ha inferto uno dei colpi più duri ad Hamas. Se i sauditi lo ammorbidissero sarebbe una boccata d'ossigeno per la Striscia e un importante risultato per il movimento palestinese. Ultimo, ma non meno importante, in questo scenario Hamas costringerebbe il rivale Fatah nell'angolo e potrebbe anche scavalcarlo come interlocutore a livello internazionale.
   Dall'altro lato della barricata, anche a Israele un simile accordo potrebbe non dispiacere, se avesse sufficienti garanzie. Una maggiore sicurezza interna sarebbe esattamente quello che serve a Netanyahu per consolidare la propria popolarità. Inoltre, più che i palestinesi, sembrano preoccupare il premier israeliano gli iraniani: recidere i rapporti tra questi (e i loro alleati di Hezbollah) e Hamas potrebbe garantire maggior tranquillità a Tel Aviv. Altra valida ragione per cui l'attuale governo israeliano potrebbe volere l'accordo - e tentazione inconfessabile - è poi che una trattativa segreta con Hamas lascia le mani molto più libere che non un negoziato alla luce del sole con Fatah. Se Netanyahu volesse un domani rallentare o congelare il processo di pace, la prima opzione sarebbe la più adeguata. Anche perché un accordo segreto si può sempre smentire.

(East Magazine, 19 maggio 2015)


Tolosa e il cardinale che salvò gli ebrei

La città ha ricordato Jules-Géraud Saliège (1870-1956) che durante la seconda guerra mondiale si oppose pubblicamente alla deportazione degli ebrei creando una capillare rete clandestina.

Jules-Géraud Saliège
ROMA - Fu contrario al nazismo e al razzismo. Si oppose pubblicamente alla deportazione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, dando vita a una capillare rete clandestina che riuscì a portare in salvo un gran numero di persone. Il cardinale Jules-Géraud Saliège (1870-1956) è stato ricordato a Tolosa il 12 maggio scorso nella piazza che la città dell'Alta Garonna - della quale fu arcivescovo dal 1928 fino alla morte - gli ha dedicato alla memoria.
Pinchas Goldschmidt, rabbino di Mosca e presidente della Conferenza dei rabbini europei, presente alla cerimonia insieme all'attuale arcivescovo di Tolosa Robert Le Gall e al prefetto dell'Alta Garonna, Pascal Mailhos, ha raccontato che gran parte della sua famiglia è stata salvata proprio da Saliège.
È celebre la lettera pastorale che l'arcivescovo fece leggere in ogni parrocchia della sua diocesi il 23 agosto 1942 rischiando di essere arrestato dalla Gestapo: «C'è una morale cristiana. C'è una morale umana che impone doveri e riconosce diritti. Questi doveri e questi diritti risultano della natura umana. Vengono da Dio. Non possono essere violati. Non è in potere di nessun mortale di sopprimerli. Che bambini, donne, uomini, che padri e madri siano trattati come un vile gregge, che i membri di una stessa famiglia siano separati gli uni dagli altri e portati via, verso una destinazione sconosciuta, c'è voluto il nostro secolo per vedere questo triste spettacolo (...). Gli ebrei sono uomini. Le ebree sono donne. Gli stranieri sono uomini, le straniere sono donne. Tutto non è permesso contro loro, contro questi uomini, contro queste donne, contro questi padri e queste madri».

(Vatican Insider, 19 maggio 2015)


Calcio - Kerm: la Palestina usa lo sport come strumento politico

"I palestinesi stanno usando lo sport come strumento politico". Lo ha detto oggi Rotem Kerm, presidente della Federcalcio israeliana (Ifa), in merito alla richiesta di sospensione dalla Fifa di Israele inoltrata dalla Palestina all'organo che controlla il calcio nel mondo. La mozione sarà valutata dalla Fifa nel congresso annuale di Zurigo del 29 maggio.
   "La federazione israeliana fa parte di un apartheid e si sta comportando in maniera brutale e razzista - aveva detto Jibril Rajoub, presidente della Federcalcio palestinese, per motivare la richieste- l'Associazione del calcio israeliano non è innocente e non ha preso posizione contro la politica del governo di ostacolare lo sviluppo del calcio palestinese". La Pfa ha accusato Israele di bloccare gli spostamenti dei propri atleti, di trattenere le attrezzature sportive a loro destinate alla frontiera e di permettere a un club razzista nei confronti degli arabi, il Beitar di Gerusalemme, di partecipare al campionato nazionale.
   "La richiesta palestinese è un chiaro mix di politica e calcio - ha risposto oggi Kerm - noi siamo una sorta di ostaggio nella battaglia contro il nostro governo. Il calcio nella nostra regione dovrebbe essere usato come ponte tra le persone per mostrare ai nostri governi e a tutti che può unire le persone, non usato come arma contro gli altri". Il presidente della Fifa, Josep Blatter, parlerà con il premier israeliano Netanyahu e il presidente palestinese Abbas, rispettivamente oggi e domani, in cerca di una soluzione prima che la richiesta venga sottoposta al giudizio dei 209 membri del comitato. Se il voto si rendesse necessario servirebbe la maggioranza dei tre quarti del congresso per una sospensione di Israele.

(Yahoo!sport, 19 maggio 2015)


Expo, Forestale in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici

Italia ed Israele unite dall'impegno della Forestale: al Padiglione Israele saranno presentate le tecniche per contrastare gli effetti del cambiamento climatico.

di Valentina Ferrandello

Nel contesto internazionale di Expo 2015 sara' illustrato l'impegno sinergico dei Forestali italiani e israeliani per far fronte all'emergenza dei cambiamenti climatici in diverse aree del nostro Pianeta interessate da tali problematiche. Domani si terra', infatti, a Milano presso il Padiglione Israeliano, il seminario in materia di foreste dal titolo "Cambiamenti Climatici: minacce e adattamento" organizzato dall'Ente Nazionale Israeliano per l'Ambiente (Keren Kayemeth LeIsrael) in collaborazione con il Corpo forestale dello Stato.
In tale ambito, verra' dato spazio ad analisi riguardanti le tecniche per contrastare la desertificazione, il rimboschimento, la selezione e propagazione di cloni resistenti alla siccita' e gli effetti che dei cambiamenti climatici sui principali cicli biogeochimici delle foreste mediterranee. Interverranno all'evento rappresentanti del Corpo forestale dello Stato, ricercatori e professionisti dell'Ente Nazionale Israeliano per l'Ambiente, del Centro di Ricerca per la Selvicoltura di Arezzo (CRA-SEL) e dell'Universita' della Tuscia.
L'attenzione e l'impegno del Corpo forestale dello Stato verso il tema dei cambiamenti climatici e del loro impatto sugli ecosistemi forestali sono in fase di progressiva crescita. Cosi' come aumenta l'impegno a svolgere, in collaborazione con altri enti governativi e del mondo scientifico, attivita' di monitoraggio sullo stato di salute delle risorse forestali italiane, e non solo, in risposta ai molteplici fattori di stress ambientali che le minacciano.

(MeteoWeb, 19 maggio 2015)


L'ebrea Ingeborg Rapoport batte i nazisti e si laurea a 102 anni

Una pediatra tedesca ha discusso la tesi di laurea che quasi 80 anni fa il regime di Hitler le aveva negato perché figlia di un'ebrea.

di Massimiliano Jattoni Dall'Asén

Ingeborg Rapoport
«La mia storia è una delle tante vergogne della Germania, ma anche della scienza». Quando il 7 maggio 2015 tre professori dell'Università di Amburgo si sono recati in un appartamento di Berlino, davanti a loro si sono trovati Ingeborg Rapoport, 102 anni e l'aria emozionata ma decisa di chi sa che quello è il giorno della sua rivincita: «Oggi ripulisco l'offesa che mi è stata fatta 77 anni fa», ha commentato la donna. E per 45 minuti, nel suo salottino curato ma modesto, dove spicca un grande pianoforte a occupare la maggior parte della stanza, ha sostenuto la sua tesi in neonatologia, la stessa tesi dedicata alla difterite (una malattia che nella prima metà del Novecento era mortale per molti bambini in Europa) che tentò di discutere all'Università di Amburgo nel 1938, quando aveva 25 anni.
   All'epoca, Hitler era già al potere da 5 anni e la signora Rapoport, nata Syllm, nonostante fosse stata cresciuta come protestante era figlia di un'ebrea. Era, insomma, un «Jüdischer Mischling ersten Grades», una mezza ebrea di primo grado, secondo l'asettico e disumano linguaggio della burocrazia nazista. Sulla sua tesi di laurea allora venne tracciata una striscia gialla, un solo tratto di colore che significava la fine della sua carriera universitaria per «ragioni razziali». «Tutti i miei anni di studio, i miei sogni di diventare medico», ha raccontato al Wall Street Journal la signora Rapoport, «erano improvvisamente diventati macerie».
   In quegli anni, migliaia di studenti e professori ebrei furono cacciati dalle università tedesche e molti di loro avviati verso i campi di sterminio. Ingeborg fu più fortunata: nel 1938 emigrò sola e senza un soldo negli Stati Uniti, riuscì a trovare lavoro in vari ospedali di Brooklyn, New York, Baltimora e Akron, nell'Ohio, mentre tentava di entrare in una scuola di medicina. Fu accettata al Women's Medical College of Pennsylvania di Philadelphia, e nel 1944 a Cincinnati incontrò un medico ebreo, fuggito dall'Austria, Samuel Mitja Rapoport, che sposò due anni dopo. Insieme, i due lavorarono a nuovi metodi di conservazione del sangue, oltre a occuparsi del reparto pediatrico. Su una parete di casa, a Berlino, è appeso un diploma di merito rilasciato dal presidente Harry S. Truman per il loro lavoro.
   Il marito di Ingeborg però era comunista e in America i comunisti erano malvisti. Nel 1950 Samuel Rapoport, dopo una conferenza tenuta a Zurigo, decise di non rientrare negli Stati Uniti. Ingeborg, incinta del suo quarto figlio, lo raggiunse in Europa: meta finale la Germania dell'Est. Qui, Samuel dirigerà un istituto di biochimica fino all'anno della sua morte, nel 2004, mentre Ingeborg ha fondato la prima clinica di neonatologia di Berlino Est. «Non provo amarezza per ciò che la Germania mi ha fatto quando ero una ragazza», racconta. «Sono stata incredibilmente fortunata nella mia vita. Tutto alla fine è andato bene: ho avuto i migliori insegnanti negli Stati Uniti, ho conosciuto mio marito, ho avuto i miei figli. Sì, sono stata sicuramente molto fortunata, ma ho avuto anche molta tenacia».
   La storia di Ingeborg è stata raccontata al rettore dell'Università di Amburgo da un collega di uno dei figli della donna. E il rettore ha deciso di permettere a Ingeborg di discutere a 77 anni di distanza la sua tesi. Gli impedimenti burocratici non sono mancati, anche perché Ingeborg non ci vede più molto bene e non riesce a scrivere o a usare il computer, ma pochi giorni fa Ingeborg ha chiuso i conti rimasti aperti con il passato. In giugno ci sarà il conferimento di questa laurea tardiva, la sua piccola-grande rivincita, insieme ai 102 anni appena compiuti, verso un sistema totalitario che aveva stabilito a tavolino che lei non fosse degna di mettere al servizio dell'umanità la sua intelligenza, verso chi quasi 80 anni fa aveva deciso che lei e quelli come lei dovessero scomparire per sempre, passando «per un camino».

(Io Donna, 19 maggio 2015)


Le due sorelle ebree sotto il faro di Leuca

Oggi si presenta il film sulla loro storia.

di Vito Antonio Leuzzi

In un edificio costruito sulle rocce, sotto il grande faro di Santa Maria di Leuca, nacquero nell'immediato dopoguerra decine di bambini, figli di profughi ebrei provenienti da mezza Europa.
   Su questa singolare e interessante storia degli ebrei che trovarono in Puglia rifugio ed accoglienza tra il 1943 ed il 1947, è stato realizzato un film documentario Rinascere in Puglia diretto e scritto da Yael Katzir e prodotto da Gady Castel e Yael Katzir che sarà presentato oggi alle ore 20,30 nel teatro comunale di Nardò.
   Assieme ai realizzatori del film saranno presenti alcune protagoniste nate a Leuca, Rivka, Esther e Shuni che hanno in questi ultimi anni rivisitato i luoghi di permanenza dei genitori, in particolare Santa Maria al Bagno. La località sulla costa neretina, assieme a Santa Cesarea, Tricase e Santa Maria di Leuca, costituì uno dei principali campi profughi dei sopravvissuti alle persecuzioni ed allo ster minio nazista.
   Nell'edificio sotto il faro, «ex colonia Scarciglia», trasformato dagli alleati anglo-americani in ospedale con una sezione maternità, prestarono la loro opera diverse suore italiane assieme a medici ed infermieri alleati. In uno scritto di Rivka Friedman Cohen che ha raccolto le memorie dei suoi genitori e degli zii (Gerusalemme 2007) si recupera, tra l'altro la storia di sua madre Ilona e di una sorella gemella : «Tra le gestanti c'era anche mia madre, Hanna Rivka e sua sorella gemella Margit. Avevano lasciato il campo di concentramento di Auschwitz e di Therezienstadt circa quindici mesi prima. Ansie oscure di sterilità si erano annidate nei loro cuori, a causa delle condizioni di vita nei campi e soprattutto delle voci che circolavano di ragazze che, per aver sofferto non potevano avere figli. Mia cugina nacque un sabato d'agosto. Salento. In alto, dall'Archivio P. Pisacane Sua madre, Margit, si era fatta ricoverare in maternità due settimane prima, perché temeva di non arrivare in tempo data la distanza dell'ospedale da dove abitavamo. Per questo le suore la conoscevano bene. Le suore le consigliarono di salire e scendere l'altura sopra la maternità per accelerare le contrazioni».
   Le vicende degli ebrei nei campi del Salento ed in quelli della Terra di Bari sono stati oggetto in questi ultimi anni di un ampio processo di recupero della memoria e di ricostruzioni che hanno messo in luce diversi episodi di solidarietà tra gli abitanti della costa salentina ed i profughi ebrei di diversa nazionalità che per alcuni anni fissarono la permanenza in Puglia.
   Una delle più efficaci descrizioni del campo profughi del Tacco d'Italia è nella cronaca del Convento e Parrocchia Cristo Re-Marina di Leuca di Padre Anselmo Raguso (pubblicata dall'Ipsaic, nel volume La Puglia dell'accoglienza , Progedit 2006). Il padre francescano così racconta l'arrivo degli ebrei a Leuca: «Nei primi di ottobre 1945 arrivano ebrei provenienti in massima parte dalla Germania e tutti quelli che balbettano un po' di italiano e che è possibile avvicinare raccontano cose raccapriccianti a riguardo delle sofferenze patite sotto la dominazione nazista».
   Le famiglie dei sopravvissuti alle persecuzioni ed alla violenza che attraversò l'intera Europa si stabilirono nelle case e nelle ville requisite dagli alleati in tutte le località costiere del Basso Salento sino agli inizi del 1947. Nei primi mesi di quell'anno i campi profughi salentini furono chiusi e si dispose il loro trasferimento in provincia di Bari, in particolare a Palese, a Trani e Barletta sotto la gestione dell'IRO (subentrato all'UNR RA), l'organizzazione internazionale per l'assistenza ai rifugiati. In un articolo intitolato, Gli ebrei sognano la Palestina, pubblicato su «La Gazzetta del Mezzogiorno» nel settembre del 1947, il gornalista Arnoldo di Nardi, così descrisse le loro ansie e le loro aspettative: «A Palese il mare i profughi ce l'hanno a portata delle loro baracche, ne ascoltano il tranquillo respiro o il furibondo ruggito... essi amano cullare il loro sogno che è quello di un trabaccolo o di una vecchia carretta clandestina, veleggiante verso la Palestina col carico dei loro cuori esausti e dei loro dolori».

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 19 maggio 2015)


L'Arabia Saudita comprerà un ordigno nucleare dal Pakistan

LONDRA - La possibilita' di un intesa entro il 30 giugno sul programma nucleare iraniano sembra aver dato il via alla corsa all'atomica nel Golfo Persico. Secondo quanto riferiscono fonti dell'intelligence Usa, riportate dal Sunday Times e citate oggi dall'Independent, l'Arabia Saudita, culla del wahabismo (l'interpretazione piu' rigida dell'Islam sunnita), dopo molti tentennamenti, avrebbe rotto gli indugi e si appresterebbe ad acquistare dal Pakistan un'ordigno atomico gia' pronto e funzionante, per trovari un passo avanti a Teheran. "C'e' un accordo da lungo tempo con i pakistani (sulle armi nucleari) e la Casa dei Saud (la famiglia regnante saudita, ndr) ha ora preso la decisione di procedere", ha riferito un'anonima fonte del Pentagono. Questo per contrastare quella che a Riad, e nelle petromonarchie sunnite del Golfo (ed in Israele), percepiscono come la primaria minaccia alla loro sopravvivenza: l'Iran sciita potenza atomica. Riad, come piu' volte preannunciato, riscuoterebbe cosi' il creditop che vanta con Islambad per gli ingenti investimenti (miliardi di dollari) che fece negli anni '70' nel programma nucleare pakistano (nato per contrastate l'atomica indiana), Paese sunnita, legato cosi' tanto all'Arabia Saudita, da essere uno dei 10 Paesi della coalizione contro i ribelli sciiti Houthi (sostenuti da Teheran) in Yemen, nonostante si trovi a miglia di km di distanza dall'area.

(AGI, 19 maggio 2015)


L'ebraismo è sopravvissuto come nessun'altra civiltà
perché è stato capace di riprodursi all'interno di tutte le nazioni


di Diego Gabutti

 
George Steiner
George Steiner distilla il senso d'una vita dedicata a interrogare la letteratura (e gl'incubi di cui è insieme l'origine e l'antidoto) in una bella intervista rilasciata alla giornalista francese Laure Adler - La passione per l'assoluto, Garzanti 2015, pp. 160, 17,00 euro, ebook 11,99 euro. Nato nel 1929, ebreo che ha vissuto la Shoa come esperienza fondante, professore a Cambridge e Harvard, Steiner è stato, per decenni, una delle colonne del New Yorker (nel 1997, la neodirettrice Tina Brown lo licenziò, roba da matti, perché aveva sparlato di lei). Ha scritto libri fondamentali, da Tolstoj e Dostoevskij a Grammatiche della creazione, per citare due suoi titoli a caso, altrettanti omaggi appassionati alla tradizione letteraria d'ogni tempo e cultura. Eppure la letteratura, di cui ha subito l'incantesimo per tutta la vita, non lo ha mai convinto del tutto.
  «Nelle discipline umanistiche», dice a Laure Adler, «quello che raccapriccia è l'imbroglio. Siamo di fronte a un problema filosofico fondamentale. Qualunque giudizio sulla musica, sull'arte, sulla letteratura non può essere dimostrato. Se dichiaro che Mozart è incapace di scrivere melodie - e c'è gente che lo sostiene - lei mi può dire che sono un povero idiota, tuttavia non mi può confutare.
  Quando Tolstoj dice che «Lear è un melodramma improvvisato da qualcuno che di tragedia non capisce nulla» (è l'esatta citazione) si può dire: «Signor Tolstoj, sono mortificato, ma sta sbagliando di grosso». Ma non si può confutare». Inoltre, mentre «la musica non può mentire», il linguaggio (dunque anche la letteratura) può farlo benissimo, cosa che sa chiunque abbia letto un manifesto elettorale o anche soltanto scritto un biglietto d'auguri a una persona detestata.
  «Non solo il linguaggio è infinitamente servile», dice Steiner, «ma non conosce - ecco il suo vero mistero - alcun limite etico». Per spiegarsi, dice: «Ho avuto la sfortuna d'incontrare Hannah Arendt... Una signora che scrive un grande tomo sulle origini del totalitarismo senza mai menzionare Stalin, solo perché il marito era un comunista stalinista convinto? No, grazie».
  Un altro aspetto cruciale della riflessione di Steiner sul rapporto tra poesia e barbarie, tra letteratura e totalitarismo moderno, riguarda quella che lui definisce «condizione ebraica». Nella condizione ebraica c'è infatti qualcosa di «veramente misterioso. Dio sa quanto i greci fossero dotati. Diamine! Dio solo sa quanto i romani abbiano contribuito a dare una forma al mondo, e gli antichi egizi a plasmare l'uomo. Ma sono tutti spariti. Tutti. Sorge quindi una domanda: perché noi siamo sopravvissuti? ( )
  Nessuno può dire: «Sono contemporaneo di Cesare o di Temistocle», mentre l'identità ebraica, etnica e storica, dura da cinquemila anni. È tanto. ( ) Spesso le barzellette antisemite contengono un germe di verità. Hegel racconta: «Arriva Dio, nella mano destra ha i testi sacri con la rivelazione e la promessa del Paradiso, nella mano sinistra il giornale di Berlino, Die Berliner Gazette. L'ebreo sceglie di leggere il giornale». Questa storiella antisemita di Hegel contiene una verità profonda: l'ebreo s'entusiasma per il ductus, il corso interiore della storia e del tempo».
  Benchè il sionismo, per i sopravvissuti ai campi hitleriani, sia stato un'àncora di salvezza, Steiner non stravede per Israele. Anche se Israele potrebbe rivelarsi, in futuro, «il solo rifugio sicuro per i suoi figli e nipoti», minacciati da un revival in grande stile dell'antisemitismo, che torna a montare anche in Europa, Steiner è dell'idea che l'ebraismo sia sopravvissuto perché cosmopolita, perché capace di riprodursi all'interno di tutte le nazioni, incarnandone (con Mosè, Marx, Freud) le inquietudini morali. Dice Steiner, studioso della Bibbia, allievo del grande semitista Gershom Scholem: «Quando Hitler afferma, in quelle che intitola Le conversazioni a tavola (Tischgespräche): «L'ebreo ha inventato la coscienza», ha perfettamente ragione. Perfettamente».

(ItaliaOggi, 19 maggio 2015)


"Steiner è dell'idea che l'ebraismo sia sopravvissuto perché cosmopolita, perché capace di riprodursi all'interno di tutte le nazioni, incarnandone (con Mosè, Marx, Freud) le inquietudini morali". Una dotta spiegazione laica. Assomiglia molto alla risposta in latino che Molière fa dare alla domanda: "Perché l'oppio fa dormire?" Risposta: "Quia est in eo virtus dormitiva, cuius est natura sensus assoupire". Nell'articolo si dice anche che Steiner è un ebreo studioso della Bibbia. Perché allora non ha preso in considerazione il semplice fatto, tutto sommato familiare agli ebrei, che esiste un Dio, che oltre a creare la terra e a formare da essa un essere umano, ha anche deciso, per i suoi scopi, di formare dalle nazioni un popolo che continuasse a sussistere almeno fino a quando sussistono le leggi che governano la terra su cui tutti viviamo? M.C.
    Così parla l'Eterno, che ha dato il sole come luce del giorno, e le leggi alla luna e alle stelle perché siano luce alla notte; che solleva il mare sì che ne mugghiano le onde; colui che ha nome: l'Eterno degli eserciti. Se quelle leggi vengono a mancare dinanzi a me, dice l'Eterno, allora anche la discendenza d'Israele cesserà d'essere in perpetuo una nazione nel mio cospetto. Così parla l'Eterno: Se i cieli di sopra possono esser misurati, e le fondamenta della terra di sotto, scandagliate, allora anch'io rigetterò tutta la discendenza d'Israele per tutto quello che essi hanno fatto, dice l'Eterno. (Geremia 31:35-37)

Compagnia di ricognizione delle Forze di difesa israeliane si addestra all'impiego degli Humvee

Esempio di veicolo Humvee
La compagnia di ricognizione della 401ma brigata corazzata delle Forze di difesa israeliane ha utilizzato veicoli Humvee per trasportare i militari feriti la scorsa estate, durante il conflitto a Gaza, e proprio le operazioni ha sviluppato quasi accidentalmente una nuova serie di tattiche per l'impiego di questi veicoli leggeri in territorio nemico, spiega al quotidiano "Jerusalem Post" il comandante della compagnia, maggiore Yoav Amir. Tradizionalmente, i membri dell'unità effettuano le loro missioni di ricognizione e infiltrazione nel territorio nemico a piedi, ma le cose stanno cambiando: l'unità sta conducendo un intenso programma di esercitazioni teso a sfruttare appieno la flessibilità offerta dalla piattaforma Humvee, ad esempio con la guida notturna a luci spente o con la simulazione di operazioni di infiltrazione nel territorio del Libano meridionale. Dall'operazione Protective Edge della scorsa estate, la compagnia ha affinato le proprie tattiche, istituendo al suo interno un team specializzato nell'evacuazione rapida e due team di combattimento addestrati a impiegare gli Humvee per infiltrarsi in territorio nemico.

(Agenzia Nova, 18 maggio 2015)


Niente donne nei tank israeliani

Il rapporto delle forze armate: escluse per ragioni "psicologiche e di privacy".

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Niente donne nei tank di Tzahal. È un Rapporto delle forze armate israeliane a stabilire che le soldatesse possono essere impiegate nel 92 per cento dei compiti militari ma non negli equipaggi di carri armati per ragioni "psicologiche e di privacy". Il motivo è che l'equipaggio di un tank può restare dentro il mezzo, senza uscire, anche per una settimana e ciò comporta "situazioni di convivenza e stress" capaci di "creare seri problemi psicologici" fino a pregiudicare "lo svolgimento della missione". Lo stesso motivo impedisce alle donne di servire nei sottomarini, anche se ciò avviene negli eserciti di Svezia e Australia. Lo stesso rapporto militare enumera con dovizia di dettagli i nuovi compiti militari consentiti alle donne: dalla guida dei droni all'addestramento nei corpi speciali dell'artiglieria fino alla guida dei D9, i bulldozer blindati del genio d'assalto.

(La Stampa, 18 maggio 2015)


Scandalo antisemitismo: libri antiebraici venduti alla libreria dell'ONU a Ginevra!

di Christian De Lablatinière

La libreria dell'ONU a Ginevra
Camminando lungo gli scaffali della Libreria delle Nazioni Unite a Ginevra non si può non osservare l'allineamento attentamente predisposto dei titoli dei libri anti americani ed anti israeliani che vanno da "Riflessioni sulla guerra di Israele contro i Palestinesi" a "La repressione di Gaza".
Peggio, la libreria dell'ONU, posta subito sotto la sala del Consiglio dei diritti dell'uomo, espone in bella evidenza un libro intitolato "Come ho smesso di essere ebreo" di Shlomo Sand. L'autore accusa la religione ebraica di una «tradizione Jahvestica genocida».
In tal modo l'indubbia tendenza dei libri esposti è anti americana, anti israeliana ed antisemita.
D'altro lato, la libreria dell'ONU non espone alcun libro che denunci l'islamismo radicale...
Ricordiamo la promessa del Segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, nel corso della storica riunione dell'ONU del 2004 contro l'antisemitismo: «La lotta contro l'antisemitismo deve essere la nostra battaglia. Ovunque gli ebrei devono sentire che le Nazioni Unite sono anche la loro casa». Strana casa nella quale la libreria è dedicata ad attizzare l'odio antiebraico...
In un'epoca nella quale gli ebrei, attraverso tutta l'Europa, sono presi come bersaglio nel corso di violenti attacchi e nell'incitamento all'odio, è davvero desolante che la sede delle Nazioni Unite in Europa possa promuovere la vendita del libro sulla "modalità di smettere di essere un Ebreo".
   È importante osservare che non ci sono altri libri esposti nella libreria che prendano di mira o che
   critichino alcun altro gruppo religioso o etnico.

Tutti i giorni numerosi visitatori passano attraverso la libreria delle Nazioni Unite, compresi dei giovani studenti che fanno il giro del palazzo dell'ONU per apprendere qualche informazione sui valori della Carta delle Nazioni Unite che sono l'uguaglianza, la tolleranza e la pace.
L'ONU sta forse diventando lo strumento dell'odio antiebraico in Europa?

(Europe Israèl News, 10 maggio 2015 - trad. Emanuel Segre Amar)


Israele all'Expo: un campo verticale per sfamare il pianeta

Israele prende sul serio il tema dell'esposizione e presenta le tecnologie con cui trasformare i deserti in terre fertili.

di Attilio Barbieri

 
C'è un Paese che ha preso maledettamente sul serio il tema dell'Expo, nutrire il pianeta. Si tratta di Israele che ha giocato la propria presenza alla kermesse di Rho, proprio sul racconto di come, a partire dagli anni Trenta, i primi coloni ebrei iniziarono a rendere coltivabili terre fino ad allora improduttive.
  All'inizio fu l'acqua: decine di chilometri di tubazioni stese nel deserto. Vinta la sfida dell'irrigazione, ad un certo punto gli israeliani si resero conto che l'acqua necessaria era tanta. Troppa. E a metà degli anni Ottanta, iniziarono ad applicare su vasta scala il metodo dell'irrigazione goccia a goccia. Consumi idrici abbattuti del 50 per cento e rese raddoppiate, con la possibilità di coltivare addirittura il riso nei terreni aridi e meno fertili.
  Il campo verticale che accoglie i visitatori all'ingresso del padiglione d'Israele all'Expo esprime proprio il senso della sfida. Le tecnologie applicate all'agricoltura consentono di ottenere risultati impensabili soltanto fino a un decennio fa. Il concetto è esplicitato sotto forma di racconto, forse un po' troppo didascalico, nelle sale in cui si suddivide l'installazione: dai primi tentativi negli anni Trenta, fino alla conquista, al deserto, di vaste aree che hanno consentito al Paese mediorientale di diventare uno dei maggiori produttori di ortofrutta nel bacino del Mediterraneo.

 Deserto sconfitto
  Le tappe recenti della colonizzazione del deserto sono state scritte nell'ultimo decennio del secolo scorso. All'irrigazione goccia a goccia è stato accoppiato un sistema di pompaggio dell'acqua alimentato a batterie solari, grazie al quale la tecnica è applicabile non soltanto nelle zone più aride del pianeta, ma anche in quelle del tutto prive di energia elettrica. Una recente applicazione del metodo israeliano ha consentito di rendere coltivabili appezzamenti di terreno molto vasti in Senegal. È la fase tre della sfida iniziata oltre ottant'anni or sono fra la sponda del Mediterraneo e il lago di Tiberiade. Il metodo è esportabile e può davvero dare un contributo decisivo nella lotta alla fame e alla malnutrizione nel mondo. Con buona pace di quanti rimproverano all'Expo di essere andata completamente fuori tema, a cominciare dai profeti di un'esposizione universale agreste, in cui i visitatori avrebbero dovuto cibarsi esclusivamente dei prodotti coltivati in gigantesche serre destinate a riprodurre i climi dei diversi Paesi. Dalle lande aride del Sahel, in Africa, alle terre fertilissime del Midwest americano. Come siggeriva Stefano Boeri, architetto pluritrombato (prima dalla Moratti e poi da Pisapia) che assieme ai colleghi Richard Burdett, Jacques Herzog e William MacDonough faceva parte della consulta per l'Expo.
  Ma la sfida per i «campi di domani» - così recita lo slogan che campeggia su un gigantesco schermo digitale all'entrata del padiglione d'Israele - sta diventando realtà anche in Italia. Al Parco Tecnologico Padano, alle porte di Lodi, è stato inaugurato lunedì scorso il «campo dimostrativo» in cui sono applicate tutti gli ultimi ritrovati tecnologici raccontati dagli israeliani all'Expo.

 Campo dimostrativo
  Un campo dimostrativo grande poco più di un ettaro, composto da una collinetta artificiale, un frutteto e una serra. L'obiettivo di queste nuove tecniche è quello di produrre di più con meno, per soddisfare i bisogni di una popolazione in crescita preservando le risorse del pianeta, a partire dall'acqua.
  La collinetta artificiale, alta quattro metri e con una pendenza del 20%, è fatta di terreno arido e ghiaioso. Le condizioni peggiori per coltivare alcunché. Su di essa crescono vegetali tipicamente di pianura: mais, riso, sorgo e soia, che richiedono un forte apporto di acqua. In condizioni normali non germoglierebbero neppure, ma nel «campo di domani» vegetano rigogliosamente, proprio grazie all'uso dell'irrigazione a goccia con pompe alimentate a energia solare.
  A Lodi c'era pure Elazar Cohen, commissario del padiglione d'Israele all'Expo, che racconta: «Queste sono le tecnologie applicate all'agricoltura che consentono di raddoppiare le rese, abbattendo il consumo d'acqua o di coltivare i cereali in Paesi dove finora non è stato possibile».
  È proprio qui, fra queste zolle aride, rese fertili dall'acqua che vi penetra goccia a goccia attraverso una miriade di tubicini forati, che si percepisce quanto sia vicina la possibilità di vincere la sfida alla fame. Così è nel fuori salone scientifico, a Lodi, che il tema dell'esposizione universale diviene chiaro. Non si dica che non ci ha pensato nessuno.

(Libero, 18 maggio 2015)


Risposta del Ministro degli Esteri alla Federazione Associazioni Italia-Israele

Il Presidente della Federazione Associazioni Italia-Israele, Carlo Benigni, ci ha inviato per conoscenza e diffusione il testo della risposta del Ministro Gentiloni ad una lettera inviatagli il 29 aprile scorso dalla Federazione. La portiamo volentieri a conoscenza dei nostri lettori. NsI

Caro Presidente,
mi riferisco alla Sua lettera del 29 aprile scorso sul tema dell'etichettatura dei prodotti importati dai territori occupati da Israele. le assicuro di avere preso nota con grande attenzione delle Sue argomentazioni e dei timori di cui si è fatto interprete.
Tengo innanzitutto a confermarle che il Governo italiano si oppone da sempre fermamente a ogni tentativo di boicottaggio e delegittimazione dello Stato di Israele e contrasta attivamente, anche sul piano culturale, gli odiosi fenomeni di antisemitismo che si registrano in Italia e nel resto d'Europa...

(Notizie su Israele, 18 maggio 2015)


Oltremare - Knesset Show

di Daniela Fubini, Tel Aviv

In Israele ci interessa talmente tanto quello che succede nella politica, che abbiamo un canale televisivo dedicato alla Knesset. Veramente credo che un canale simile esista anche in Italia, ma qui in Israele c'è gente altrimenti guidicabile come 'normale' che lo guarda.
Ora, quando uno fa l'aliyah è facile che nel primo anno finisca a fare la canonica visita alla Knesset - parte fondamentale dell'istruzione del nuovo israeliano insieme a lunghe e faticosissime ore a Yad Vashem, e alla salita a piedi a Masada, preferibilmente verso l'ora di pranzo (con 48 gradi centigradi e 2% di umidità), e "veloci che abbiamo fatto tardi!". I migliori sopravvivono, lungo la strada imparano un po' di ebraico e si avviano per l'incerta ma ideologicamente inattaccabile vita da israeliani. Infatti, siamo ancora qui.
Quando si visita il palazzo della Knesset, fra un Chagall grande come un arazzo da castello medievale e la navata dei presidenti, non si presta troppa attenzione alla guida che spiega che nella sala del Parlamento ci sono tre telecamere a coprire anche i punti senza poltrone, e un vetro antiproiettile che divide il pubblico dai parlamentari. Pare che in anni caldi qualcuno abbia lanciato dall'allora aperta balconata un oggetto contundente e incendiario. L'israeliano, si sa, è per natura moderato e riflessivo. Ma ho capito solo questa settimana che quel vetro antiproiettile serve anche all'inverso, e protegge il pubblico dalle insubordinazioni verbali degli augustissimi membri della Knesset. Durante la presentazione del nuovo governo di Bibi, le urla che si alzavano da tutte le parti politiche erano un evidente attentato all'udito degli spettatori, ma noi a casa potevamo abbassare il volume. Quelli in sala, ringraziavano la vetrata. Poi mi sono accorta che il Presidente Rubi Rivlin, uno dei pochi in giro con più sale che peperoncino in zucca, non era protetto da alcun vetro, e osservava attonito la scena di sotto. Spero avesse i tappi per le orecchie.


(moked, 18 maggio 2015)


Moshe Levinger (1935-2015)

Figura carismatica e controversa, leader molto amato e molto odiato, rav Moshe Levinger è scomparso sabato all'età di 80 anni. Aveva guidato il ritorno di una presenza ebraica ad Hebron, promosso l'insediamento di Kiryat Arba, fondato il Consiglio delle Comunità ebraiche di Giudea e Samaria.
   Nato a Gerusalemme da una famiglia di origine tedesca, rav Levinger è allievo del rabbino e leader sionista Yehuda Kook. Tanti già alora si accorgono delle sue doti di leadership. Ma è l'aprile del 1968 quando queste conquistano la ribalta internazionale.
   Pesach 5728: per la celebrazione della prima cena pasquale rav Levinger affitta delle stanze al Park Hotel di Hebron. Al termine della stessa, seguendo un piano affinato nei giorni addietro, il gruppo che ha riunito si rifiuta di abbandonare la struttura. Declinando ogni possibilità alternativa che viene loro offerta, rav Levinger e i suoi seguaci sono protagonisti di uno scontro in cui sorprendentemente prevarranno: dopo un mese sono infatti ospitati in una vicina struttura militare, dove rimangono fino al completamento di Kiryat Arba, la cui prima pietra viene posata nel 1970.
   "Abbiamo deciso di andare ad Hebron perché è un luogo antico di storia ebraica, il luogo in cui viveva il patriarca Abramo" racconterà Levinger nel ricostruire quell'azione in un recente documentario che gli è valso il premio come "miglior pellicola sionista".
   Con il consolidamento di Kiryat Arba, nel 1979 rav Levinger decide che è giunto il momento di stabilirsi nel centro di Hebron. Apripista un gruppo di donne, attorno cui si raccolgono altre famiglie ebraiche che prendono possesso di alcuni appartamenti. Dopo questa azione la tensione con la popolazione palestinese diventerà sempre più forte e lo scontro tra le due componenti, come noto, sarà destinato a sfociare in un conflitto quotidiano che persiste ancora oggi. Nel 1988 una pietra colpisce la macchina di rav Levinger mentro lo stesso è al volante. In risposta vengono sparati dei colpi d'arma da fuoco: un palestinese è ucciso, un altro ferito. Nel 1990 rav Levinger è incriminato per "negligenza" e condannato a tre mesi di prigione.
   Nel 1992, chiuse le sue pendenze giudiziarie, si presenta alle elezioni per il nuovo Parlamento a capo di "Torah VeHaaretz", ma la formazione non supera la soglia di sbarramento. Nel 2005, con l'evacuazione dei 21 insediamenti nella Striscia di Gaza, invita tutti coloro che condividono le sue idee ad insediarsi in modo sempre più massiccio in Cisgiordania.
   "La scomparsa di mio padre, all'alba dello Yom Yerushalaim (il giorno in cui si festeggia la nascita di Gerusalemme), testimonia in modo simbolico l'amore che provava per la terra di Israele. Il suo spirito continuerà a vivere in noi" le parole del figlio Malachai, a capo del Consiglio di Kiryat Arba.
   Tra le molte telefonate ricevute da Malachai anche quella del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che gli ha espresso il proprio cordoglio.

(moked, 18 maggio 2015)


In Vaticano le bandiere palestinesi. L'ira della comunità ebraica e di Israele

"Abu Mazen angelo della pace? Francesco è ingenuo o non conosce il Medio Oriente".

di Giacomo Galeazzi

 
CITTA' DEL VATICANO - «Le nuove sante ispirino solidarietà e fraterna convivenza», auspica Francesco indicando come modello di pacificazione per il Medio Oriente le prime due palestinesi canonizzate in epoca moderna, Marie Alphonsine Danil Ghattas e Mariam di Gesù Crocifisso Baouardy. Umili e coraggiose.
  La storia soffia in piazza San Pietro. L'evento unisce evangelizzazione e diplomazia nel pontificato che ha riportato la Chiesa al centro dello scacchiere internazionale dopo un decennio di ripiegamento sulle ferite interne (scandali finanziari e sessuali, lotte di potere). Il Papa invita religioni e popoli che si contendono la Terra Santa a guardare al futuro con «speranza», lasciandosi ispirare dalla «carità» e dalla «riconciliazione». Geopolitica e fede in una giornata di festeggiamenti, nuovi scenari e polemiche.

 Kefiah e canti
  Nella canonizzazione si accende di colori e canti la festa palestinese a San Pietro con bandiere, kefiah e il presidente dell'Anp, Abu Mazen seduto in prima fila. Francesco lo abbraccia con grande cordialità dopo l'udienza di sabato e l'accordo tra Santa Sede e Palestina. «Siamo sorpresi e delusi», dice Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica di Roma. Guarda le bandiere palestinesi in piazza e sospira: «Di tutto il Medio Oriente e l'Africa, Israele è l'unico Stato in cui i cristiani crescono di numero e hanno libertà religiosa. Da quando nel '94 Betlemme è finita sotto il controllo dell'Autorità nazionale palestinese la presenza cristiana è scesa del- 1'80%». La "due giorni" di Abu Mazen in Vaticano lascia di ghiaccio i «fratelli maggiori» che preparano la visita papale alla sinagoga di Roma. «Facciamo appello a Francesco affinché ci renda noti risvolti sconosciuti del riconoscimento unilaterale e senza condizioni accordato ad Abu Mazen, che invece andava sollecitato a negoziare con il governo israeliano appena eletto, in spirito di giustizia e senza finzioni», spiega Pacifici. E aggiunge: «Per rilanciare solidarietà e accoglienza in Europa occorre combattere uniti, ebrei e cristiani, contro il terrorismo e l'odio fondamentalista in Medio Oriente e in Africa». E' l'unica strada «per arginare le spinte nazionaliste e xenofobe che su questo tema raccolgono consensi».
  Intanto da Israele piovono critiche per l'accoglienza del Pontefice e l'esortazione ad Abu Mazen ad essere angelo della pace. «O Sua Santità è persona ingenua o non ha nessuna conoscenza di quanto succede in Medio Oriente», scrive Yediot Ahronot.

 Fraintendimenti e accuse
  Il tabloid filo-governativo Israel ha-Yom pubblica una «lettera aperta al Papa» in cui si definisce la costituzione di uno Stato palestinese «la prosecuzione dei tentativi di crocifiggere il popolo ebraico». Secondo il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni «abbiamo bisogno tutti di angeli di pace ma devono essere angeli veri e pace vera». Padre Federico Lombardi riconduce però l'episodio all'obiettivo di Francesco, incoraggiare l'impegno per la pace. «Lo stesso dono del simbolo dell'Angelo di Pace viene fatto dal Papa a molti presidenti», chiarisce il portavoce vaticano.
  Resta la delusione degli ebrei, soprattutto a Roma. «Abbiamo vissuto tutto questo come una beffarda ironia della sorte: si affida a un angelo della morte la speranza di pace - afferma Pacifici - Lo scorso giugno la preghiera ai Giardini Vaticani sembrava un nuovo corso. Invece, poi, è scoppiato il peggior conflitto degli ultimi vent'anni. Ci aspettavamo che il Papa chiedesse ad Abu Mazen di tagliare ogni legame con Hamas e con i finanziamenti dei Paesi che sostengono il genocidio dei cristiani». Infatti, «per le vittime cristiane abbiamo spento le luci al Colosseo manifestando con la Comunità di Sant'Egidio». Perciò «in queste ore la nostra base vive come un tradimento le immagini che arrivano dal Vaticano. Ma resta la speranza». Polemiche che non scalfiscono la proposta di pace che Francesco lancia attraverso l'esempio delle nuove sante.

(La Stampa, 18 maggio 2015)


"Polemiche che non scalfiscono la proposta di pace che Francesco lancia attraverso l'esempio delle nuove sante." Gli argomenti per l'articolista non contano. "Il Papa ha sempre ragione", questo deve dire un autentico vaticanista. Tutto quello che in più si dice non conta nulla. Soprattutto se a dirlo sono ebrei. M.C.


Caro Papa Francesco, lei lo sa come vivono i cristiani in Palestina?

L'invito rivolto da Papa Francesco ad Abu Mazen a diventare "angelo della pace" suona un po' come una barzelletta vista l'attuale situazione che vivono i cristiani in Palestina. Basterebbe che Papa Francesco si informasse meglio o che ascoltasse qualche testimonianza.
Per esempio, il Papa sa che in Palestina la conversione dall'Islam al cristianesimo è illegale?...

(Right Reporters, 18 maggio 2015)


Lettera di una cattolica al Papa

Dopo il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della santa sede

Sua Santità, Le scrivo, ancora, perché trovo sempre più difficile considerarmi Cattolica. Eppure sono sempre stata molto vicina alla Chiesa, grazie anche al fatto che provengo da una famiglia molto religiosa, con due pro-zii Vescovi (Umberto Malchiodi, Vescovo di Piacenza e Gaetano Malchiodi, Vescovo a Loreto, erano fratelli di mio nonno Aldo)… ma non solo per questo. La lettura dei Vangeli, che ho cominciato alle medie e quella della Bibbia, che ho iniziato ad affrontare nel 1972, a 15 anni (grazie al regalo di zio don Umberto), mi hanno sempre più coinvolta. Ho poi conosciuto Madre Speranza, che mi ha detto che sarei rimasta delusa dalla Chiesa, ma che avrei dovuto lottare contro le sue storture e non avrei dovuto abbandonarla… Lei mi sta rendendo estremamente difficile mantenere questa promessa. Oggi, per la prima volta nella mia vita, non me la sento di andare a Messa.
   E pensare che ero così felice quando L'ho vista la prima volta!
   La Sua scelta del nome Francesco (il mio Santo preferito) mi aveva fatto sperare che Lei volesse in qualche modo testimoniare il suo distacco dai capitoli bui della nostra storia, che hanno visto i Gesuiti come protagonisti di pogrom e persecuzioni orribili nei confronti degli Ebrei… ma evidentemente mi sbagliavo.
   E non Le scrivo solo a mio nome. Miei amici, conoscenti e parenti ogni giorno mi confessano il loro imbarazzo profondo e la crisi che stanno attraversando, grazie a Lei.
   Le sue gaffes imbarazzanti in occasione del suo viaggio in Israele e in Cisgiordania… il suo assordante silenzio in occasione del rapimento dei tre ragazzi israeliani e la sua sollecita preghiera in occasione della tragica vendetta su un ragazzo palestinese, … la Sua assenza al Convegno ecumenico di Salerno dello scorso novembre (ha preferito andare ad elogiare il fedele alleato di Hamas, in Turchia),… e adesso il suo riconoscimento dello Stato Palestinese e la sua elezione di un capo terrorista ad "angelo della pace"… mi hanno sconvolta e profondamente ferita.
   In questi mesi mi sono domandata il perché.
   Ho pensato che forse Lei non ha letto mai gli statuti di Olp e Hamas, che negano in assoluto la possibilità di esistere a Israele (se è questo il caso, La invito a farlo subito). Condivido l'opinione che la pace in Israele potrà essere raggiunta solo attraverso negoziati che prevedano due Stati, e credo che sia questo il punto che l'Occidente dovrebbe sottolineare e pretendere, anche e soprattutto dai Palestinesi. È infatti noto che è questo il punto dolente, perché per Statuto, sia Olp che Hamas non possono accettare l'esistenza dello Stato ebraico israeliano ed è su questo punto, su questa richiesta di RECIPROCITÀ, che si sono arenati tutti i negoziati di pace.
   L'Occidente finge di sostenere Israele, ma accetta che Israele non possa scegliere la propria capitale storica, Gerusalemme, perché l'idea non piace ai Palestinesi. E ai Palestinesi l'idea non piace perché per negare il futuro al popolo israeliano, negano anche la loro storia e la loro presenza millenaria in quei territori. (Stanno negando anche la nostra storia, al punto da dichiarare che Abramo e Gesù non erano ebrei, ma palestinesi… e celebrando la Liturgia a Betlemme con alle spalle quel manifesto di propaganda palestinese, Lei ha avvalorato - spero inconsapevolmente - questa assurda tesi…). Una cosa analoga è avvenuta in Armenia circa cento anni fa, e anche allora l'Occidente ha assistito indifferente (quando non ha collaborato attivamente) al genocidio armeno che ne è seguito.
   Mi sono detta che forse non ha saputo della sentenza emessa dalla corte francese di Versailles, del 2013 (ed è risaputo che la Francia con Ebrei e Israele non è affatto tenera!). In questa occasione, il tribunale di Versailles ha stabilito che - secondo il diritto internazionale - quella di Giudea e Samaria è un'occupazione legittima, che non viola nessuna norma internazionale, contrariamente a quanto sostiene la propaganda di Olp e Anp, propaganda che - come sottolineato nella sentenza di Versailles - non costituisce diritto internazionale.
   O forse, mi sono detta, non ha saputo che recentemente Anp e Olp e Hamas sono stati accusati di terrorismo da un altro tribunale, a New York. Anche il Suo interlocutore preferito, "l'angelo della pace" Abu Mazen, è stato condannato per atti terrorismo in questa occasione…. E una banca giordana è stata multata per aver finanziato, con prestiti, il terrorismo di Hamas. (E questo dovrebbe mettere in serio imbarazzo anche l'Europa, che da anni offre generosi finanziamenti ai Palestinesi, senza preoccuparsi di come vengono utilizzati).
   Ma mi sono anche detta che una persona che sta utilizzando il potere politico che ha Lei, non può non aver prima studiato con attenzione la situazione e la storia di quei territori… quindi Le chiedo: perché?
   Perché non ha reagito neppure alla richiesta europea e dell'Italia dell'etichettatura obbligatoria per le aziende israeliane che operano in Samaria e Giudea?
   È difficile capire questa scelta italiana, anche considerando le ripetute promesse del nostro Governo di sostenere Israele, in quanto unico Stato democratico in mezzo ad una polveriera impazzita e minacciato seriamente dall'Iran.
   È evidente che lo scopo della richiesta dell'etichettatura è finalizzata ad un prossimo boicottaggio, già in uso presso le cooperative italiane - e non solo - e che tanto ricorda le prime leggi razziali del periodo fascista… Davvero non comprende che cosa significa boicottare le aziende israeliane, dove lavorano anche molti arabi palestinesi e israeliani? Significa boicottare la normalizzazione, l'integrazione, la dignità di quel popolo, dignità che si ottiene con il lavoro, come Lei stesso ultimamente ha spesso ripetuto in riferimento alla disoccupazione in Italia. E boicottare questo, boicottare la normalizzazione, significa boicottare la pace.
   Gli oltre 800.000 ebrei che vivevano da secoli nei paesi arabi, che dalla fine degli anni '40 sono stati espropriati di soldi, case e terreni (i terreni espropriati corrispondevano a circa 5 volte lo Stato di Israele), sono stati accolti dal piccolo neonato stato israeliano e hanno avuto la possibilità di ricostruirsi una vita. Possibilità negata ai profughi palestinesi, visto che i Paesi arabi hanno rifiutato anche la proposta di dare loro parte delle ricchezze e dei terreni espropriati agli ebrei. Possibilità negata perché solo costringendoli a vivere da profughi, in cattività, impediscono loro di sentirsi uomini liberi e quindi non desiderosi di recriminare diritti assurdi (perché solo ai discendenti dei palestinesi questo diritto? Perché non ai discendenti degli ebrei? O degli italiani cacciati dall'Istria?…)
   Ha mai pensato a cosa può condurre la Sua politica per i figli e i nipoti di quegli ebrei, che con tanta fatica si sono ricostruiti una vita, in Israele? Davvero considera giusto e legittimo sostenere chi li vuole - ancora una volta - cacciare ed espropriare di tutto? Anche della loro vita?
   Sono trascorsi solo 70 anni dalla nostra presunta liberazione dal nazismo, dalle leggi razziali, da un antisemitismo becero e vergognoso. Cinquant'anni fa, veniva firmato il documento Nostra Aetate che avrebbe dovuto modificare radicalmente anche i rapporti tra Chiesa e mondo ebraico, aprendoci ad un dialogo onesto e alla pari (e non si immagina quanto mi renda orgogliosa l'ultima firma di quel documento!)
   Eppure oggi, come negli anni '20, stiamo ripercorrendo la stessa strada, commettendo gli stessi errori. E questo fa molto male.
   E fa ancora più male assistere, ancora, impotenti, a certi comportamenti antisemiti in seno alla Chiesa…. ai vertici della Chiesa.
   Sembra che quello che Le interessa non sia la pace in quei territori martoriati, ma colpire gli Ebrei…
   Devo pensare che lo faccia per salvaguardare la vita dei cristiani in Medio Oriente e in Occidente? La storia ci insegna a non fidarci di tali allenze! Oltre al fatto che noi Cristiani siamo chiamati a fare scelte coraggiose! E il Vescovo di Roma dovrebbe essere il primo a dare l'esempio…
   Le ho già scritto altre volte… allora speravo in una Sua risposta, perché lo stato in cui mi trovo - soprattutto per questi motivi - è davvero grave. Anche stanotte non ho dormito e Le ho twittato… ma evidentemente non Le interessa l'avermi ferita, così profondamente. D'altra parte chi sono io, per destare il Suo interesse?
   Mi scuso per la durezza della mia lettera… ma quando sto male mi è difficile nascondere il mio stato e la gravità dei suoi ultimi atti non mi ha dato scelta.
   Continuerò a pregare per Lei e perché il Signore mi aiuti a perdonarLa.
   Laura Malchiodi

(Kolot, 18 maggio 2015)


«La comunità ebraica tradita dal Pontefice»

Dureghello: siamo delusi e amareggiati Fellus: il riconoscimento sia reciproco.

di Maurizio Gallo

 
Traditi, amareggiati, delusi. Così si sentono gli ebrei romani dopo l'incontro del Papa con Abu Mazen, «nominato» in Vaticano presidente dello Stato palestinese. Un «abbraccio» simbolico che «non fa chiarezza». Anzi, alimenta la confusione. Anche il rabbino capo della comunità capitolina ha espresso il suo scetticismo: «Abbiamo bisogno tutti di angeli di pace, ma devono essere angeli veri e pace vera - ha detto Riccardo Di Segni - Speranza sempre, ma anche fatti concreti». Il riferimento è all'auspicio di Bergoglio che, rivolto ad Abu Mazen, gli ha detto: «Sia un angelo della pace!».
   Ma altri membri della comunità sono più espliciti. E più duri. «Ci sentiamo in qualche modo traditi - osserva Ruth Dureghello, candidata presidente nelle elezioni del 14 giugno con la lista "Per Israele" - Quell'incontro e quelle dichiarazioni hanno provocato tanta delusione e tanta amarezza. In questi anni a Roma abbiamo costruito un rapporto di dialogo con tutto il mondo religioso moderato, anche musulmano. Certo che una soluzione va trovata - aggiunge Dureghello - e, per farlo, servono tanti angeli della pace che si diano da fare. Ma serve anche una garanzia di sicurezza e di libertà per tutti. Ed è necessario rifuggire da ogni tipo di integralismo».
   Non è sorpresa, invece, Donatella Di Cesare, docente di Filosofia alla Sapienza e alfiera della battaglia anti-negazionista. «C'era da aspettarselo dopo l'incontro fra Abu Mazen e Peres - sottolinea - Mi sembra un gesto che si inserisce nel solco della politica vaticana, che ha sempre seguito questa linea. Una conferma, insomma. Però non è sicuramente quello che noi vorremmo. Due Popoli e due Stati è uno slogan vecchio, un'ipotesi politica superata. La separazione c'è, è geografica ed economica. È evidente - prosegue la professoressa - che si dovrà lavorare su forme politiche sovranazionali. Non è accettabile dividere Gerusalemme, che deve restare la capitale di Israele, ma con una cittadinanza "aperta"».
   Secondo Claudia Fellus, in corsa per la presidenza della Comunità con una lista di sole donne, la "Binah", quello del Papa «può essere considerato come un atto unilaterale avulso dalla realtà israelo-palestinese». Un gesto che «serve a poco» senza un «reciproco riconoscimento, perché ci sono due popoli che devono fare la pace. Il riconoscimento viene dopo». E Israele non può essere escluso da questo processo. La signora Fellus, vedova di un grande giornalista, Mario Pirani di «La Repubblica», spera che nell'«accordo diplomatico globale» siglato nella Santa Sede (per ora riservato) ci sia anche il riconoscimento di Tel Aviv
da parte palestinese. Atto che «i palestinesi non l'hanno mai compiuto», spiega. «La nostra amarezza per quanto accaduto in Vaticano deriva dalla poca chiarezza di questo passaggio. Non si capiscono i presupposti. Due si incontrano, auspicano la pace: va benissimo, ma a che serve ai fini della soluzione del problema? Abbracciare Abu Mazen non avvicina la pace - conclude Claudia Fellus - Bisogna anche accettare la realtà. Io nel '67 sono stata cacciata da Tripoli, ma le chiavi della nostra casa libica sono riposte in un cassetto. Ancora oggi, invece, molti palestinesi tengono pronte le chiavi delle loro case che sorgono all'interno dello Stato di Israele. Le ripongano anche loro in un cassetto».

(Il Tempo, 18 maggio 2015)


High tech israeliano: il meglio deve ancora venire

In lingua inglese suona più o meno così: the best has yet to came e significa che il meglio deve ancora venire.
Queste sono state le parole pronunciate da Direttore scientifico israeliano Avi Hasson presso il Ministero dell'Economia, per spiegare come, nonostante il 2014 sia stato un anno di successo per le startup israeliane, si è ancora lontani dal raggiungere tutto il potenziale che questo settore tecnologico può offrire.
Il 2014 è stato un anno record per le exit nel settore hightech di Israele ma Hasson sostiene che il meglio debba ancora venire.
L'hightech è una delle aree più economicamente robuste di Israele, ma secondo un rapporto dell'Office of the Chief Scientist (OCS), mentre nuove imprese continuano a germogliare ce ne sono molte che effettuano l'exit (ovvero la vendita della propria azienda) invece di crescere in società più mature. La crescita delle imprese è cruciale per l'economia israeliana, dice il rapporto, perché le grandi aziende impiegano un numero maggiore di dipendenti e contribuisce allo sviluppo del know how israeliano. Per tale motivo il rapporto consiglia alle aziende israeliane di continuare la loro crescita in Israele per diventare leader di mercato.
Vi sono anche tre aeree da tenere sotto controllo per mantenere forte il settore tecnologico israeliano:
  1. nuovi finanziamenti
  2. sviluppo di nuove tecnologie nel settore tradizionale e nel settore pubblico;
  3. coinvolgimento del governo.
I finanziamenti esteri sono responsabili di circa metà del finanziamento della Ricerca e Sviluppo. La maggior parte dei finanziamenti stranieri provengono dagli Stati uniti, ma negli ultimi tre anni, è cresciuto anche l'interesse da parte dell'Asia, soprattutto dalla Cina.
Chiunque si occupi di far progredire il settore tecnologico israeliano deve tenere conto di queste basi per un dialogo continuo tra l'industria, gli investitori, gli imprenditori e il governo per dirigere gli sforzi verso il raggiungimento di una prosperità economica attraverso l'innovazione tecnologica.

(SiliconWadi, 18 maggio 2015)


"Ma qui in Israele il vero problema non sono i cristiani è l'Islam radicale"

Il Paese è diviso Sembra popolato da due tribù rivali: chi vuole compromessi e chi continua a preferire la forza.

di Giampaolo Cadalanu

 
Etgar Keret
La religione è sempre sullo sfondo: per uno scrittore israeliano 'doc' come Etgar Keret, le vicende dei luoghi sacri sono un denominatore comune di tutti gli avvenimenti, che siano i piccoli gesti quotidiani o le grandi decisioni politiche. Persino nei racconti del suo ultimo libro, Sette anni di felici tè (edito in Italia da Feltrinelli), la religione è un orizzonte inevitabile dell'esistenza, che diventa accettabile solo attraverso l'ironia.

- Signor Keret, papa Francesco ha mostrato una forte attenzione per i luoghi santi: dopo il riconoscimento vaticano della Palestina, ha sottolineato le difficoltà dei cristiani in Terra Santa e ha incontrato il presidente Abu Mazen. Ieri ha proclamato sante due suore palestinesi, le prime dell' era moderna. Ma in Israele se n'è parlato?
  Non credo che in Israele qualcuno possa avere da ridire sulla proclamazione di due sante in Vaticano. Ovviamente la decisione non ha niente a che vedere con la politica, la scelta è motivata da quello che hanno fatto in vita.

- Quando la Santa Sede ha firmato un trattato con lo Stato di Palestina, di fatto riconoscendolo dopo il voto dell'Onu del 2012, il governo di Israele si è detto "deluso". Che ne pensa? E qual è stata la reazione della popolazione israeliana?
  So che il governo israeliano era contrario. Molte persone hanno giudicato quella decisione come se il Vaticano avesse deciso di schierarsi da una parte e non dall'altra. Ho sentito che se ne parlava in giro, qualcuno era deluso, altri erano portati a giustificare la decisione. Ma in realtà fra la popolazione, la notizia non ha avuto molto seguito. Capisco che in Europa le parole del Papa abbiano ben altro significato, ma qui in Israele è molto diverso. Non credo che siano stati molti quelli che si sono posti il problema. E l'indomani c'erano già altre notizie da commentare.

- Ma il controllo dei Luoghi Santi resta uno degli elementi più delicati, di divisione forte. Crede che ci sia la possibilità di una soluzione di compromesso, che preveda magari due Stati?
  «Le ultime elezioni hanno portato al potere una coalizione di destra, Benjamin Netanyahu ha vinto proprio indicando la sua indisponibilità a ogni compromesso. Il Paese adesso è cosi diviso che sembra popolato da due tribù rivali, con una spaccatura enorme fra gli uni, disponibili a fare concessioni, e gli altri, che pensano di continuare a usare la forza per controllare tutto».

- Vede una soluzione praticabile per i Luoghi Santi?
  Non al momento, anche se penso che questo tema possa essere alla base di ogni futura trattativa di pace.

- La religione sembra avere un ruolo fondamentale nella vita politica israeliana. Ma il dibattito politico può farne a meno?
  Non credo, anche perché ci sono forze politiche legate unicamente all'ispirazione religiosa, che hanno programmi incompatibili con ogni compromesso.

- Che ruolo ha la comunità cristiana nel dibattito israeliano?
  Non è davvero al centro delle discussioni. In questo momento si parla di temi come l'islam radicale. Oppure si parla della cittadinanza, un tema che interessa tutti in Israele, musulmani, ebrei o cristiani.

(la Repubblica, 18 maggio 2015)


Morsi tua

L'ex presidente egiziano condannato al patibolo. Ma al Sisi non ce lo manderà («Non voglio fame un martire»). Gli basta delegittimare la Fratellanza. E così strappare la Libia a Erdogan.

di Carlo Panella

Ieri Mohammed Morsi è stato condannato a morte da un tribunale del Cairo assieme a 105 altri imputati tra i quali il numero due della Fratellanza Musulmana egiziana Khairat al Shater e il segretario generale Mohammed el Beltagi. Nei mesi scorsi erano stati condannati a morte dai tribunali egiziani Mohammed Badie, il leader mondiale della fratellanza e altri 681 dirigenti e militanti del movimento. L'accusa mossa a Morsi è chiaramente pretestuosa, avere organizzato il 29 gennaio 2011 (negli ultimi giorni del regime di Mubarak) l'evasione dei vertici della Fratellanza musulmana dal carcere di Wadi el Natroun, durante la quale vennero uccisi numerosi agenti. Insieme a Morsi evasero altri 30 detenuti, mentre oltre 20 mila fuggirono da altri carceri dell'Egitto. Nello stesso processo 16 membri del suo governo e dei Fratelli musulmani sono stati condannati a morte per spionaggio e diffusione di segreti di Stato, per la quale invece Morsi è stato assolto.
   Va detto subito che questo migliaio ormai di condanne, a partire da quella contro Morsi, Badie, El Betagi e Shater non verranno mai eseguite ed è questa la ragione dell'insolito silenzio della comunità internazionale a fronte di una condanna a morte che pur sempre colpisce un presidente che è stato regolarmente eletto dal 51% degli egiziani. Nella riservatezza dei colloqui con gli occidentali, inclusi gli italiani, il presidente Fattah al Sisi, che depose Morsi con un golpe nel luglio 2013 e che chiaramente è il «burattinaio» che manovra questi processi, è sempre stato chiaro: «Non gli farò mai il regalo di impiccarli, li trasformerei in martiri. Ma li terrò in galera, con questa condanna sulla testa perché devo governare un Paese in cui i Fratelli Musulmani sono ancora forti, appoggiano i terroristi e non sono disponibili, per costituzione, a nessun dialogo che li porti a partecipare a una democrazia».
   In realtà, dunque, sulla testa di Morsi e dei Fratelli Musulmani egiziani condannati, si combatte una battaglia epocale che interessa tutto il mondo musulmano e che vede al Sisi nelle vesti del più spietato avversario e, all'opposto, nel presidente turco Tayyp Erdogan il più convinto sponsor e sostenitore della Fratellanza. Infatti i Fratelli Musulmani, a partire dalla Libia, in cui sono egemoni nel governo di Tripoli, non riconosciuto dalla comunità internazionale, per spostarsi in tutti i Paesi musulmani, dal Marocco alla Indonesia, passando perla Siria e il Pakistan, costituiscono una enorme organizzazione internazionale ramificata e ben impiantata, grazie alla enorme rete di moschee che controllano (come avviene in Italia, Francia, Germania e Inghilterra e ovunque in Europa). È una specie di partito comunista sovietico ai tempi di Stalin, con una caratteristica che spiega la durezza repressiva di al Sisi: sviluppa una strategia di conquista dei governi per via democratica e costituzionale, ma contemporaneamente non disdegna terrorismo e attentati. Non è infatti un caso che tutti i terroristi arabi e islamici (da Yasser Arafat, sino a Osama bin Laden e Abu Bakr al Baghdadi, per citare personaggi indubbiamente diversi) siano usciti dalle fila della Fratellanza. Mentre al Sisi intende sradicarla dall'Egitto e impedirle di controllare la Libia, Erdogan, che fu membro della Fratellanza, intende invece usarla, premendo per una sua costituzionalizzazione (ma chiudendo gli occhi sulle sue complicità terroristiche) per estendere l'influenza diretta della Turchia in Libia, in Siria e a Gaza (Hamas è la sezione palestinese dei Fratelli Musulmani).
   Quello pro e contro la Fratellanza è dunque uno scontro politico epocale, che vede su barricate opposte i due più grandi Paesi musulmani del Mediterraneo e che impedisce ogni serio accordo di pace in Libia. Ammesso e non concesso che l'inviato dell'Onu Bernardino Leon riesca a siglare un accordo di pace tra il legittimo governo di Tobruk è quello (ben più potente, ma illegittimo) di Tripoli, al Sisi e Erdogan, tramite i propri emissari libici, faranno di tutto per non implementarlo nei fatti. Ma, va detto, in questa battaglia a morte contro la Fratellanza, al Sisi sta perdendo il suo alleato più prezioso: l'Arabia Saudita. Il nuovo re Salman, infatti, ha smesso di combattere la Fratellanza e anzi tenta ora di usarla per dare un colpo mortale al regime di Assad in Siria (in cui i Fratelli controllano varie organizzazioni ribelli). Un caos confuso, tipico dello scenario politico islamico, di cui purtroppo l'Occidente, Obama in testa, spesso non comprende le dinamiche.

(Libero, 17 maggio 2015)


Milano Expo: La proposta Chabad

 
Nell'ambito degli eventi legati a Expo, Chabad Lubavitch unitamente all'ente di certificazione Eurokosher propone sempre a Milano un percorso volto alla scoperta della tradizione alimentare ebraica sotto il profilo culturale ed economico.
Il primo appuntamento si è svolto giovedì 14 maggio all'Università Bocconi con un convegno che ha fatto il punto sull'opportunità di proporre la kasherut alle aziende alimentari italiane e più in generale sui cibi sani per i consumatori.
Il prossimo appuntamento è fissato per giovedì 21 maggio, con un evento su prenotazione chiamato "Challà, amore e fantasia", che si svolgerà in un hotel milanese e vedrà riunite centinaia di signore che impasteranno e intrecceranno la famosa challà, il pane dello Shabbàt, il giorno di riposo degli ebrei.
Organizzatrice di questo evento è Mashi Hazan, la quale ha spiegato che, in compagnia della cantante francese Meleha, verranno proposte le tradizioni, le ricette e i segreti di quell'alimento fondamentale che è appunto il pane, la challà. Il rabbino Levi Hazan ha affermato che "la kasherut non è solo un semplice insieme di regole alimentari, ma un vero e proprio modus vivendi, con oltre tremila anni di storia.
Un approccio culturale e spirituale che, insegnando a controllare ciò che si mangia, può essere considerato come la più antica forma di certificazione alimentare. Le norme vanno infatti nella direzione del rispetto della salute del corpo e dell'anima, secondo il detto 'Siamo ciò che mangiamo'". Da sottolineare che l'anno scorso, a Milano, ha aperto l'unica cucina sociale kosher italiana, che prepara e distribuisce mille pasti al mese ai più bisognosi, in collaborazione con il Comune e la Caritas.

(Chabad.Italia, 17 maggio 2015)


Netanyahu: no alla spartizione di Gerusalemme

Gerusalemme non sarà mai la capitale di alcun altro popolo.

Gerusalemme è "sempre stata la capitale del popolo ebraico" e non sarà più divisa: lo ha affermato, secondo Haaretz, il premier israeliano Benyamin Netanyahu. Intanto a Gerusalemme decine di migliaia di ebrei nazionalisti celebrano l'anniversario della "liberazione di Gerusalemme", nel 1967 (video a lato). "Gerusalemme non sarà mai la capitale di alcun altro popolo" ha aggiunto Netanyahu.

(ANSA, 17 maggio 2015)


Il rabbino fa luce sulla tradizione ebraica

Luciano Meir Caro ospite del Maggio dei Libri alla libreria Sognalibro di Ferrara..

FERRARA - Mercoledì 20 maggio alle 18 presso la libreria Sognalibro, Rav Luciano Meir Caro, rabbino della Comunità Ebraica di Ferrara, tratterà il tema: La luce nella tradizione ebraica. La manifestazione è inserita nel programma del Maggio dei Libri 2015.
La libreria Sognalibro prosegue la sua attività culturale in collaborazione con la Comunità Ebraica di Ferrara con un approfondimento del tema proposto dall'Unesco "2015 anno internazionale della luce".
Com'è noto nel testo biblico il temine "or" designa la luce che come elemento primordiale della creazione può essere considerata da varie angolazioni, assurgendo a simbolo di energia, spiritualità, saggezza, illuminazione. Ma può presentarsi anche sotto aspetti negativi, si pensi alla luce sprigionata dall'esplosione nucleare impiegata per scopi distruttivi.
L'incontro sarà arricchito dagli interventi musicali di Vittorio Marchetti.

(estense.com, 17 maggio 2015)


Israele - Testato un nuovo sistema missilistico per la tecnologia satellitare

Il missile israeliano Shavit
GERUSALEMME - Israele ha condotto un test missilistico volto a valutare una nuova tecnologia satellitare. E' quanto riferito dal ministero della Difesa. Il lancio, condotto nell'area centrale di Israele, era stato pianificato da lungo tempo. Secondo quanto riferiscono alcuni media esteri, il missile utilizzato da Israele per lanciare satelliti in orbita si chiama Shavit e si basa sulla balistica di Jericho, un altro missile di fabbricazione israeliana.

(Agenzia Nova, 17 maggio 2015)


Tensione alta a Gerusalemme per un corteo religioso nella Città Vecchia

GERUSALEMME - Ingenti misure di sicurezza sono state disposte oggi a Gerusalemme, in vista della marcia religiosa che dovrebbe attraversare il quartiere arabo della città vecchia per celebrare l'anniversario della nascita dello Stato di Israele, quello che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe). Le autorità israeliane hanno invitato tutti i partecipanti alla marcia a evitare azioni di violenza come quelle avvenute negli anni scorsi. Già ieri diverse persone sono rimaste ferite in scontri tra militari israeliani e manifestanti palestinesi nel nord della Cisgiordania, vicino ad un posto di blocco a sud di Nablus.

(Agenzia Nova, 17 maggio 2015)


Berlino diventa «capitale» degli immigrati israeliani

Il boom: in ventimila si sono trasferiti stabilmente. II numero di presenze è triplicato rispetto al 2012. Chi lascia Israele lo fa per il conflitto con i palestinesi e per le campagne a Gaza. I ragazzi fuggono dal servizio militare o da un costo della vita troppo alto. E sognano una metropoli aperta e vitale.

di Michela Cannovale e Mauro Mondello

 
BERLINO - A Tel Aviv nessuno dice di voler andare in Germania: il sogno è Berlino. All'inizio ero abbastanza prevenuto: non so quanto i miei nonni sarebbero stati felici se avessero saputo che oggi vivo qui, ma una volta arrivato mi sono bastate due settimane per decidere di trasferirmi definitivamente». Yoaf ha 25 anni, è arrivato a Berlino due mesi fa. Secondo le stime, al ribasso, elaborate dall'ambasciata israeliana a Berlino, al momento risiedono nella capitale tedesca tra i 16 e i 20mila israeliani, un numero almeno triplicato rispetto alle rilevazioni al 2012. Adi Farjon, portavoce dell'ambasciata, spiega che «molti degli immigrati sono discendenti di cittadini tedeschi perseguitati dai nazisti e risultano dunque già in possesso di un passaporto tedesco». Per questo motivo non è semplice fornire una valutazione statistica precisa rispetto alla presenza israeliana nella città tedesca, che potrebbe attestarsi ben oltre le stime.
   Chi oggi lascia la Terra Promessa sembra vivere il proprio Paese con insofferenza. Il conflitto israelo-palestinese e le campagne militari portate avanti dal governo di centrodestra di Benjamin Netanyahu nella Striscia di Gaza, hanno infatti spinto Israele a un crescente isolamento internazionale. I giovani fuggono dal servizio militare obbligatorio (24 mesi per le donne, 36 per gli uomini), da un'incertezza geopolitica ancora oggi irrisolta e da un costo della vita cresciuto esponenzialmente nel corso degli ultimi tre anni. Nel settembre del 2014 la pagina Facebook "Olim Le Berlin" ("Trasferiamoci a Berlino") aveva raggiunto una straordinaria notorietà internazionale documentando, scontrini alla mano, come fosse molto più conveniente vivere a Berlino, piuttosto che a Tel Aviv.
   Un esempio che è diventato un simbolo: il budino Milky, un dolce da banco particolarmente diffuso nei supermercati della grande distribuzione israeliana, «a Berlino lo paghi solo 25 centesimi, mentre a Tel Aviv costa più del doppio», afferma Naor Narkis, creatore della pagina social che conta ad oggi più di 20mila iscritti. Sono in molti ad aver affibbiato all'esodo dei giovani israeliani verso Berlino l'etichetta di "Milky Revolution", un fenomeno che racconta la voglia di lasciare il proprio Paese per un luogo, la capitale tedesca, percepito come più economico, più aperto, più libero. Uri, 27 anni, è un cuoco e vive a Berlino dal 2010. «Non credo che questa "nuova diaspora" sia dovuta soltanto al costo della vita, a un disincanto verso il sionismo o semplicemente per l'apertura mentale e la vitalità, seppur importanti, che si respirano a Berlino. Penso, invece, che i giovani israeliani si trasferiscano qui per la curiosità di esplorare da dentro un Paese che un tempo ospitava radici molto profonde della civiltà ebraica». Gali, ballerina, nella capitale tedesca dal 2012, racconta: «Continuiamo a sentirci stranieri, eppure, nonostante questo, qui a Berlino avverto una connessione emotiva con la città e posso affrontare intensamente sia passato, che futuro».
   Diversamente che in passato, oggi l'esperienza della Shoah sembra ridurre le distanze fra le diverse esperienze personali. «I miei nonni, i miei genitori, non accetteranno mai sino in fondo la mia scelta di trasferirmi qui - racconta Eran, un musicista jazz di 28 anni, a Berlino dal 2012 -, ma in Germania ho trovato delle nuove radici, un luogo in cui vivere il mio ebraismo in maniera differente, più aperta e forse persino più completa: sono un berlinese».
   
(Avvenire, 17 maggio 2015)


Morto il rabbino Moshe Levinger, fondatore del Gush Emunim

Rav Moshe Levinger
GERUSALEMME - Il rabbino Moshe Levinger, fondatore dell'organizzazione israeliana Gush Emunim (Blocco dei fedeli), è morto ieri all'età di 80 anni. Nato a Gerusalemme nel 1935, Levinger iniziò la sua "battaglia politica" poco dopo la guerra dei sei giorni del 1967 allo scopo di creare insediamenti israeliani nelle aree di Gerusalemme Est e Cisgiordania. Il governo israeliano autorizzò la costruzione dei primi insediamenti a Kfar Etzion, sulle rovine di un kibbutz distrutto dalla Legione araba alla vigilia della dichiarazione del 1948 per la nascita dello Stato di Israele. Il movimento Gush Emunim fu fondato poi nel 1974. Levinger è stato più volte accusato negli anni di far parte di una rete terroristica israeliana coinvolta in diversi attacchi contro civili palestinesi. Nel 1990 il rabbino fu condannato per omicidio colposo per aver sparato sulla folla a Hebron, uccidendo un palestinese.

(Agenzia Nova, 17 maggio 2015)

Il Medio Oriente di Papa Francesco

Lettera a Corrado Augias

Caro dottor Augias, le sarò grato se vorrà dare spazio alla voce di un vecchio ebreo italiano che da decenni persegue con impegno laico rapporti di fraterno dialogo con amici cristiani nelle sedi più diverse: dai Colloqui di Camaldoli alle sessioni estive del Segretariato per le attività ecumeniche. Sento il bisogno di esprimere a Papa Bergoglio la mia più profonda gratitudine per il riconoscimento dello Stato di Palestina annunciato dal Vaticano. Si tratta di un passo fondamentale in direzione della pace nel Vicino Oriente che non si materializzerà fino a quando in quella regione non vi saranno due Stati, Israele e Palestina Con questa storica decisione, Papa Francesco si erge quale autentico leader del mondo libero, dimostrandosi capace di operare per la promozione della giustizia in tutte le sue declinazioni. Ne fa fede, oltre alla sua caparbia volontà di riconciliazione tra i popoli e tra le fedi, la sua intransigenza nel denunciare e combattere le condizioni miserabili in cui vivono oggi miliardi di donne, uomini e bambini un po' ovunque nel mondo, e nell'esigere da tutti i politici misure più consapevoli ed efficaci di protezione dell'ambiente globale.
Bruno Segre

(la Repubblica, 17 maggio 2015)


Tralsciamo di riportare la risposta di Augias che è un compendio di quell'insieme di banalità buoniste che si dicono in sede ONU, UE e Città del Vaticano, limitandoci ad osservare che ancora una volta si conferma il detto: "La questione ebraica è una cosa troppo seria per lasciare che siano soltanto gli ebrei e i loro nemici dichiarati ad occuparsene". M.C.


Abu Mazen non è un "Angelo della pace"

di Fiamma Nirenstein

Non so come sia venuto in mente a Papa Francesco di chiamare Abu Mazen "Angelo della pace". E' una scelta bizzarra. Abu Mazen non ha mai dato segno di perseguirla, al contrario. ha messo barriere insuperabili soprattutto sul fronte dell'odio contro gli israeliani. Basta prendere qualche frase pronunciata da lui quando ha tenuto il suo discorso all'ONU, per capirlo: di nuovo sono risuonate parole come "genocidio" e il riferimento al Tribunale internazionale contro i criminali di guerra. Questo sono per lui gli israeliani. Abu Mazen è l'uomo che ha concesso di chiamare una piazza col nome di Dalal al Mughrabi, la leader che comandò l'eccidio di 35 israeliani su di un autobus, fra cui 12 bambini.
   I terroristi responsabili della morte di migliaia di innocenti, fra cui anche donne e bambini, vengono regolarmente glorificati nel discorso pubblico, sono gli eroi della piazza guidata da Abu Mazen, e le famiglie dei terroristi in prigione ricevono stipendi mensili dal Governo. Il quotidiano ufficiale dell'Autorità palestinese ha pubblicato una vignetta che celebra il rapimento dei tre teenager rapiti e assassinati nel giugno del 2014. L'alleanza con Hamas non è piovuta dal cielo: anche se i suoi motivi di opportunità sono evidenti, di certo non è segno di pacifismo che Abu Mazen abbia deciso di stringere un accordo di Governo con un'organizzazione che promette di sterminare il Popolo ebraico e che pratica le sue intenzioni quanto possibile.
   Abu Mazen è l'uomo che ha dichiarato che uno Stato palestinese deve essere juden rein; che non accetterà mai che Israele sia denominato "Stato del Popolo ebraico"; che insiste col diritto al ritorno, che smembrerebbe Israele; che non ha mai risposto alla proposta di Ehud Olmert che gli offriva fra il 96 e il 98 per cento dell'West Bank, scambi territoriali, Gerusalemme est e il Monte del Tempio. Fatah, la sua organizzazione, non lesina i peggiori blood libel nei confronti di Israele, le accuse di apartheid, di genocidio, di violenza sono pane quotidiano alla tv, sui giornali, nelle scuole... l'ondata di terrore che dal 2013 di nuovo infesta le strade di Gerusalemme ha protagonisti che sono in gran parte di Fatah, e non di Hamas. Adesso, forte dei vari riconoscimenti internazionali, Abu Mazen pone condizioni sempre più dure per riprendere le trattative. Angelo della Pace, prega per noi.

(Fiamma Nirenstein - Blog, 17 maggio 2015)


Fiamma Nirenstein dice di non capire per quale motivo il Papa ha chiamato Abu Mazen “Angelo della Pace”. Eppure è chiaro, l’ha detto lei stessa: “Abu Mazen è l'uomo che ha dichiarato che uno Stato palestinese deve essere juden rein; che non accetterà mai che Israele sia denominato ‘Stato del Popolo ebraico’; che insiste col diritto al ritorno, che smembrerebbe Israele”. Questa è la pace che piacerebbe a Francesco. E quando sarà chiaro che questo non potrà avvenire, a chi si addebiterà la colpa? Naturalmente all’altro angelo, quello della guerra: Netanyahu. M.C.


Tutti i nomi del nuovo governo Netanyahu

di Stefano Savella

Con il voto di fiducia della Knesset di ieri sera, è stato finalmente varato il nuovo governo di Benjamin Netanyahu, vincitore delle elezioni del 17 marzo scorso. La votazione non ha riservato sorprese: 61 i deputati favorevoli, quelli di Likud, Kulanu, Patria ebraica, Shas e UTJ, contrari tutti gli altri 59. Una maggioranza assai risicata, che non aiuterà la stabilità del governo, specialmente di fronte al clima teso che si è venuto a creare con Stati Uniti e Unione Europea. Non a caso Netanyahu, per la quarta volta alla guida di un esecutivo, sembra aver già messo in conto, presto o tardi, un ampio rimpasto di governo che possa portare anche a una ridefinizione dei confini della coalizione, al momento tutta spostata a destra. Il segnale consiste nell'aver conservato nelle sue mani la delega agli Esteri, un atto che è costato l'uscita dalla maggioranza di Avigdor Lieberman e del suo partito Yisrael Beitenu (ma il ministero degli Esteri era richiesto anche da personalità rilevanti del partito del premier, il Likud): in questo modo, Netanyahu sembra lasciare aperta la strada alla nomina come ministro degli Esteri del leader del partito che potrà in seguito contribuire a stabilizzare il governo: il maggiore indiziato è Isaac Herzog, alla guida del partito laburista, che potrebbe portare nella maggioranza almeno un drappello dei suoi deputati.
  Ma quali sono gli altri nomi del nuovo governo israeliano?
  Torna a occupare una posizione di rilievo Silvan Shalom, del Likud, che diventa vicepremier e ministro degli Interni, dopo aver ricoperto nei precedenti governi, fin dal 1998, molte altre cariche.
   Guiderà le Finanze, come ampiamente previsto, Moshe Kahlon, leader di Kulanu, una nuova formazione politica di centro-destra da lui fondata.
   Per lo stesso partito, entrano al governo Yoav Galant, un ex comandante delle forze armate israeliane, con delega all'Edilizia, e Avi Gabai, neo-deputato con esperienze da manager nel settore privato, con delega all'Ambiente.
   Tre ministeri anche per il partito di destra Patria ebraica, vicino alle posizioni dei coloni:
al leader Naftali Bennett, ex ministro dello Sviluppo, tocca ora non senza polemiche il ministero dell'Istruzione; la 39enne Ayelet Shaked, nota per le sue campagne anti-immigrati, il ministero della Giustizia; mentre Uri Ariel passa dall'Edilizia all'Agricoltura.
   Due, invece, i posti ministeriali per il partito religioso ultra-ortodosso di ispirazione sefardita Shas: al suo controverso leader Aryeh Deri va il ministero dello Sviluppo economico, mentre a David Azulai (eletto alla Knesset dal 1996 ma alla sua prima esperienza di governo) va la delega agli Affari religiosi.
   Per l'altro partito religioso UTJ, di ispirazione askenazita, nessun ministro ma due viceministri e soprattutto la presidenza della Commissione Finanze della Knesset, che era richiesta anche da altri partiti.
  Tutti gli altri undici ministeri vanno al Likud, forte dei 30 seggi conquistati alle ultime elezioni. Alla Difesa va Moshe Ya'alon, capo di stato maggiore dell'esercito fino al 2005, già vicepremier tra il 2009 e il 2013. Per l'astro nascente del partito, Miri Regev, che è stata negli anni scorsi portavoce dell'esercito, va il ministero della Cultura e dello Sport. Tra le altre posizioni di rilievo, quelle di Yariv Levin, ex capogruppo alla Knesset, ora ministro della Sicurezza nazionale e del turismo, e di Danny Danon, sconfitto da Netanyahu alle primarie interne del Likud nel dicembre 2014: a lui va la delega per la Ricerca scientifica e tecnologica.

(Voto Finish, 16 maggio 2015)


Tutti i segreti della cucina kosher

Macellazione "etica", no latticini e carne nello stesso pasto. La tavola ebraica è uno stile di vita. Durante Expo, a Milano una serie di eventi per conoscerla e provarla.

di Emanuela Zuccalà

Vietati latticini e carne nello stesso pasto. No a maiale, coniglio, molluschi e crostacei, mentre sono ammessi bovini e ovini, purché macellati da esperti secondo la procedura detta schechitah, che evita sofferenza all'animale ed elimina più sangue possibile. Sono solo alcune delle complesse norme del cibo kosher seguite dagli ebrei osservanti sul solco dei dettami biblici. E che sia cucina ebraica libanese, tripolina, giudaico-romanesca o persiana, questo stile alimentare sta uscendo dalla nicchia e oggi attira tanti consumatori interessati, più che alla religione, alla sicurezza dei cibi, che nella kasheruth (letteralmente: adeguatezza) è garantita da controlli scrupolosi.
  Il mercato kosher cresce del 15% l'anno, totalizzando oltre 25 milioni di estimatori nel mondo: la metà solo negli Stati Uniti, ma anche in Italia aumentano le aziende che si avvalgono della certificazione kosher (Barilla e Ferrarelle, per citarne alcune).
  Se il padiglione di Israele a Expo2015 ha optato per un'offerta gastronomica solo "kosher style", cioè non perfettamente ligia ai principi religiosi e filosofici, l'ente di certificazione Eurokosher, con il movimento ebraico ortodosso Chabad Lubavitch, lancia parallelamente Kosher@Expo: un percorso che a Milano, fino a ottobre, punta a svelare la tradizione alimentare ebraica sotto il profilo culturale ed economico.
  Si comincia giovedì 14 maggio all'Università Bocconi, con un convegno per fare il punto sulle opportunità di business proposte dalla kasheruth alle imprese alimentari italiane e sui cibi sani per i consumatori. Il 21 maggio, poi, l'evento su prenotazione "Challa, amore e fantasia" riunirà centinaia di donne in un hotel milanese per impastare e intrecciare insieme la challa, il pane dello Shabbat, giorno di riposo per gli ebrei. "Accompagnate dalla voce della cantante francese Meleha, scopriremo le tradizioni, le ricette e i segreti di un alimento fondamentale" spiega l'organizzatrice dell'evento, Mashi Hazan (per prenotazioni, scrivere all'indirizzo: wow@oglitalia.it).
  Kosher@Expo prosegue a La casa 770 di via Poerio 35, con un infopoint e un calendario di incontri culturali, degustazioni e momenti musicali. Mentre in ottobre, il convegno "Soul Kitchen" racconterà il ruolo della donna nella cultura israelita e il suo rapporto con l'alimentazione.
  "La kasheruth non è solo un insieme di regole - spiega il giovane rabbino milanese Levi Hazan - ma un mudus vivendi con oltre tremila anni di storia. Un approccio culturale e spirituale che, insegnando a controllare ciò che si mangia, può essere considerato come la più antica forma di certificazione alimentare. Le norme vanno infatti nella direzione del rispetto della salute del corpo e dell'anima, secondo il detto "Siamo ciò che mangiamo".
  Gli Stati Uniti sono oggi il primo mercato d'esportazione per i prodotti kosher, con un giro d'affari di 12,5 miliardi di dollari e 13 milioni di consumatori. Non solo ebrei (solo il 20%), ma anche musulmani (la loro dieta halal consente i cibi kosher), vegetariani, persone non religiose che trovano il cibo ebraico più salutare o che soffrono di intolleranze alimentari. Nei ristoranti kosher i controlli sono infatti ferrei: un mashghìach (sorvegliante) veglia sul rispetto delle procedure per garantire l'idoneità del cibo. In Italia, dove gli ebrei sono circa 40mila, Roma e Milano hanno registrato un aumento di esercizi alimentari, ristoranti e catering che offrono alimenti kosher certificati. E a Milano ha aperto l'anno scorso Beteavòn, l'unica cucina sociale kosher nel nostro Paese, che prepara e distribuisce mille pasti al mese ai più bisognosi, in collaborazione con il Comune e la Caritas.

(Io Donna, 16 maggio 2015)


Egitto - L'ex presidente Morsi condannato a morte

La sentenza per l'evasione di massa dei vertici della Fratellanza musulmana dal carcere di Wadi el Natroun nel gennaio 2011. Per rappresaglia uccisi tre giudici nel Sinai.

di Pietro Suber

 
Il deposto presidente egiziano Mohamed Morsi è stato condannato a morte per l'evasione di massa dei vertici della Fratellanza musulmana dal carcere di Wadi el Natroun nel gennaio 2011. Lo ha deciso il tribunale de Il Cairo. La sentenza è stata inviata al Gran Muftì per un un parere segreto e non vincolante. Morsi ha invece scampato la pena capitale nel processo per spionaggio a favore di Hamas, Hezbollah e Iran.tto, Morsi condannato a morte
Tra i condannati nei due processi di cui è protagonista il deposto presidente egiziano ci sono diversi esponenti di spicco della Fratellanza musulmana messa al bando in Egitto. Morsi era già stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione nel processo per la repressione di una manifestazione al suo palazzo presidenziale nel dicembre 2012.
   Per il processo sulle evasioni di massa, oltre a Morsi e alla Guida suprema della Fratellanza, Mohamed Badie, spicca anche il nome di Youssef el Karadawi, che però è latitante in Qatar e a capo dell'Unione mondiale degli "ulema" (i dotti musulmani di scienze religiose). Alla sbarra, tra i condannati a morte per "collaborazione" con organizzazioni straniere, oltre al numero due della Fratellanza, Khairat el Shater, spiccano Mohamed el Beltagui (segretario generale del partito "Libertà e giustizia", braccio politico dei Fratelli musulmani) e Ahmed Abdel Atti (capo di gabinetto di Morsi).
   L'evasione dal complesso carcerario di Wadi el Natroun (circa cento km a nord del Cairo) avvenne il 28 gennaio 2011, tre giorni dopo l'inizio della rivoluzione che in febbraio spodestò il presidente Hosni Mubarak: l'azione coinvolse 11.151 detenuti, secondo siti egiziani che citano atti dell'inchiesta (il totale degli evasi considerando altri carceri fu fissato a 23.710). Fonti ricordano che il bilancio, almeno quello "ufficiale", fu di un poliziotto ucciso e diversi feriti.
   L'altro processo, secondo la definizione data da un avvocato di Morsi, è di "collaborazione" (takhabur) "con organizzazioni straniere per compiere atti di terrorismo in Egitto": in pratica aver tramato con i palestinesi di Hamas e gli Hezbollah, i libanesi legati all'Iran, per compiere attentati per reagire alla sua deposizione. Il processo è distinto da un altro procedimento a carico di Morsi per "spionaggio" (taghassus) in favore del Qatar.
   Intanto, nel nord del Sinai, tre giudici egiziani sono stati uccisi a colpi d'arma da fuoco. Fonti della sicurezza hanno sostenuto che l'attacco è stato portato da estremisti islamici legati all'Isis in "risposta alla sentenza" di condanna a morte pronunciata contro Morsi. Le fonti hanno precisato che in azione sono entrati gli ex "Ansar Bait al-Maqdis", il principale gruppo jihadista egiziano da poco ribattezzatosi "Stato del Sinai" nel quadro di un'alleanza-affiliazione con l'Isis annunciata in novembre.

(TGCOM24, 16 maggio 2015)


I "Quaderni neri" di Heidegger sugli ebrei

Qual è la responsabilità dei filosofi rispetto alla Shoah? Donatella Di Cesare racconta il suo libro Heidegger e gli ebrei. I "Quaderni neri" al Salone del Libro di Torino.

Martin Heidegger (1889-1976) è stato uno dei più grandi esponenti della filosofia tedesca, occidentale e contemporanea. Il suo contributo al progresso della disciplina non è privo di lati oscuri: l'adesione al nazismo, nonostante sia spesso stata interpretata come un incidente di percorso, ha sempre rappresentato un'incrinatura di cui tener conto. Recentemente sono stati scoperti i suoi Quaderni neri, scritti tra gli anni '30 e il 1969, un'opera filosofica a tutti gli effetti, di cui è già prevista la pubblicazione in Germania (e in Italia entro la fine del 2015 con Bompiani). L'antisemitismo manifesto è ciò che costituisce una novità sconvolgente, ciò che rompe il cosiddetto "silenzio di Heidegger sul nazismo". Emergono numerosi interrogativi circa le responsabilità dei filosofi rispetto alla Shoah (ma anche a tutte le grandi questioni). Donatella Di Cesare, che insegna filosofia a La Sapienza di Roma, prova a rispondere a questa e ad altre domande nel suo ultimo libro Heidegger e gli ebrei - "I Quaderni neri" (Bollati Boringhieri), presentato ieri, venerdì 15 maggio, al Salone del Libro di Torino.

 Heidegger e gli ebrei.

«Senza Heidegger non si può pensare al mondo dopo Auschwitz, il pensiero di Heidegger fa parte del mondo che ha portato ad Auschwitz.

  Il libro di Donatella di Cesare è un saggio critico sui Quaderni neri, è una ricerca di confronto con Heidegger e con ciò che rappresenta. Le due posizioni estreme sulla novità della questione sono scartate: la prima, che vorrebbe che le opere di Heidegger venissero distrutte o allontanate dalle biblioteche, e la seconda, che sottovaluta l'importanza dell'argomento. L'atteggiamento critico è fondamentale non solo per la comprensione e la conoscenza del pensiero di Heidegger, ma della stessa Shoah. Lo stesso filosofo tedesco non distingueva la filosofia dalla vita, e quindi dalla biografia, nella misura in cui il pensiero influenza la vita e le azioni. Sorge quindi il primo interrogativo sul concetto ineludibile della responsabilità.
Il secondo interrogativo è più insidioso. Heidegger ha consegnato i Quaderni neri all'Archivio letterario di Marbach sul Neckar negli anni '70 con la previsione che venissero pubblicati decenni dopo, in questi anni. Cosa si aspettava Heidegger dalle nuove generazioni di lettori? È un quesito irrisolto e inquietante, alla luce della considerazione sulla natura dell'antisemitismo, che aveva insita una sorta di progettualità.

 L'antisemitismo e la storia.
  È anche l'occasione per esaminare l'essenza dell'antisemitismo, contestualmente alla storia della filosofia occidentale. Donatella di Cesare, con un accurato lavoro di ricerca, ha trovato le tracce dell'antisemitismo nella filosofia, prevalentemente tedesca: «Da Lutero a Fichte, da Kant a Hegel, fino a Nietzsche, il problema dell'ebraismo si è sempre posto». Se per Kant si doveva somministrare l'eutanasia agli ebrei, per Hegel non avevano spazio nel suo sistema filosofico. L'antisemitismo ha delle radici profonde e si rinforza grazie a forti giustificazioni teoriche, non è solo un delirio razzista. Ridurlo al razzismo significa sottovalutare il problema. Donatella di Cesare parla della posizione di Heidegger come Antisemitismo metafisico.

 L'ebreo è pietra.
  Heidegger auspica un ritorno all'Essere, che si traduce nella riscoperta dell'Uomo, della sua soggettività e progettualità, e un abbandono della metafisica e della tecnica, accusata di aver allontanato l'Uomo dall'Essere. In questo contesto teorico, il passo che Heidegger compie nei Quaderni neri è estremo. Come spiega l'autrice, per il filosofo tedesco l'ebreo è «l'agente della modernità, il promotore del progresso della tecnica ed è complice della metafisica. Minaccia lo spirito dell'Occidente e impedisce l'accesso dell'Uomo all'Essere». L'ebreo è Weltlos, senza mondo e incompatibile con la Storia. L'ebreo ha a che fare con gli enti, il mondo delle cose, non appartiene alla Storia dell'Essere. Heidegger riprende Hegel e sostiene che l'ebreo è pietra, rimarcando la considerazione della sua inutilità.

 Il progetto del nazismo.
  Heidegger affida al popolo tedesco un alto compito: l'ebreo deve essere annientato e la Germania ha trovato la sua missione. Lo sterminio si configura dunque come la purificazione dell'Essere. D'altra parte i Quaderni neri sono stati scritti anche durante la Seconda guerra mondiale, quando i campi di concentramento erano in piena attività. Non si può fraintendere Heidegger su questo, ricordando la sua condanna agli Alleati, colpevoli di aver ostacolato la missione tedesca. Il progetto del nazismo non va considerato come il frutto della pazzia di un singolo, ma di un'istanza determinata e razionale. Rappresenta un piano di rimodellamento planetario: il governo del mondo passa attraverso l'annientamento dell'ebraismo, che rappresenta culturalmente la piaga del mondo. L'ebraismo non è solo religione, rappresenta anche un popolo. Come popolo in fuga, si è distribuito in tutto il mondo. Il tratto distintivo del popolo ebraico è però la trasversalità, con cui comunità anche molto distanti geograficamente riescono a stabilire contatti e relazioni.

 Riflettere sulla Shoah.
  L'antisemitismo si intreccia con un sistema teorico e filosofico articolato, non si può più pensare alla Shoah senza coinvolgere nel dibattito Heidegger. C'è la necessità di affrontare in modo critico questa parte oscura e inquietante della filosofia, perché senza la conoscenza il significato della Shoah si perde nel tempo. Nel 1945 si pensava di essere entrati in un'epoca di cambiamento, ma non è stato così. A prescindere dalla sopravvivenza dell'antisemitismo, Heidegger riteneva che la vittoria degli Alleati non avesse interrotto definitivamente la missione della Germania. Del resto, se non fosse così, non ci avrebbe consegnato i suoi Quaderni neri, a distanza di così tanti anni.

(Last Reporter, 16 maggio 2015)


Chiesa cattolica, Palestina e Israele. Perché non c'è accordo

"Gli ebrei hanno ucciso Gesù e per punirli, ha pensato la chiesa, Dio ha condannato gli israeliti a un'eterna diaspora". "No, il riconoscimento mancato è reciproco. Non è questione di cattiva teologia ma di storia".

di Maurizio Crippa e di Giulio Meotti |

 
              Maurizio Crippa                           Giulio Meotti
ROMA. Mercoledì il Vaticano ha riconosciuto lo "Stato di Palestina". Due giornalisti del Foglio, Giulio Meotti e il vicedirettore Maurizio Crippa, si dividono sul significato di questo gesto storico.

Meotti: Il riconoscimento dello "Stato di Palestina", che non cade dal cielo ma è il risultato di un processo storico, nasconde molte ragioni culturali, politiche e storiche per spiegare l'inimicizia del Vaticano verso Israele.
Per i primi diciassette anni dell'esistenza d'Israele, dal 1948 al 1965, il Vaticano si è rifiutato di riconoscere Israele per ragioni teologiche: gli ebrei hanno ucciso Gesù e per punirli, ha pensato la chiesa, Dio ha condannato gli israeliti a una eterna diaspora. Gerusalemme era diventata la "città del deicidio" e la sua caduta commemorata nella liturgia cristiana. Il sionismo andava deprecato perché rinnovava l'esistenza del popolo ebraico. La chiesa è la "nuova Israele". La storia ebraica è finita con la comparsa della cristianità, e gli ebrei che hanno continuato a esistere come popolo sono una mera curiosità. Gerusalemme non è più sulla terra, materiale, ma celeste, in cielo.
Il Concilio Vaticano II ha parzialmente revocato questa dottrina nel 1965. Ma il Vaticano è scivolato dall'antisemitismo all'antisionismo. Da allora due tendenze contrastanti si sono sviluppate in Vaticano: dialogo teologico per gli ebrei e riconoscimento politico e diplomatico per il mondo arabo-islamico, compresa questa ultima decisione di parlare di "Stato di Palestina".

Crippa: Prima del riconoscimento vaticano dello "Stato di Palestina" ci sono quasi due millenni di rapporti cattivi, e controversi, tra ebrei e cristiani. Poiché non è questo il luogo di approfondire, basterà dare per ammesse le colpe dei cristiani, se non altro perché per un millennio abbondante si sono trovati in posizione di forza sulla scena di questo mondo. Poi c'è stata la grande richiesta di perdono di Giovanni Paolo II, ma non è detto che, agli occhi del popolo di Israele, non si sarà mai chiesto perdono abbastanza.
E' esistita anche, fino a qualche decennio fa, una "teologia della sostituzione" in base alla quale "la storia ebraica è finita con la comparsa della cristianità". Ma quella teologia, e i suoi presupposti, non è mai stata quella ufficiale della chiesa cattolica ed è stata condannata da tempo. Detto questo, impostare il problema del (non) riconoscimento dello Stato di Israele da parte del Vaticano da un punto di vista teologico - o addirittura metastorico - come fa Giulio Meotti, è sbagliato. Perché mescola in modo arbitrario e un po' semplificatorio il piano storico e quello teologico. Piani che, intrecciati quanto si vuole, vanno tenuti distinti. E perché la stessa prospettiva storica ne viene falsata.
Il problema della definizione di uno status della Palestina (intesa denominazione geografica) e poi della nascita dello Stato ebraico nasce molto prima, ed è squisitamente un problema politico e diplomatico. Già ai tempi della stesura del testo del mandato britannico sulla Palestina, 1921, Benedetto XV auspicò che, in un assetto stabile alla Terra Santa, fossero stati garantiti i diritti inalienabili della chiesa cattolica.
Per questo che la Santa Sede accolse con favore la risoluzione 181 del 1947, che prevedeva la spartizione della Palestina e l'internazionalizzazione di un ampia area attorno a Gerusalemme. Al problema Pio XII dedicò ben due encicliche, la seconda fu nel 1949, a pochi giorni dalla discussione per l'ammissione di Israele in seno all'Onu. Si disse preoccupato per i danni subiti dai Luoghi Santi e alle istituzioni educative e di beneficenza sorte attorno ad essi, che temeva costituissero l'anticipazione di un disegno volto a "eliminare ogni influenza cristiana" dalla Terra Santa. E chiedeva "una conveniente situazione giuridica", la cui stabilità poteva essere garantita soltanto da una comune intesa tra le "nazioni amanti della pace e rispettose dei diritti altrui".
Il segretario per gli affari ordinari mons. Giovanni Battista Montini disse che si sarebbe dovuto applicare "uno statuto che, in certo modo, si modelli su quello adottato in Roma per lo Stato della Città del Vaticano e le zone ed edifici pontifici che, pur non facendo parte dello Stato, godono di certe più o meno larghe immunità".
La questione è sempre stata storica, non teologica. E' anche da notare che già Pio XII faceva riferimento alla questione dei profughi palestinesi, un quinto dei quali erano di religione cristiana. L'Olp era di là da venire.
Fu poi Paolo VI ad abbandonare la perdente, o insostenibile, o vista con gli occhi di oggi malposta questione dell'internazionalizzazione. Ma lì è rimasto per buona parte bloccato il "dialogo", fino ai tempi di Wojityla, ben oltre il Concilio, che in questo non c'entra.

Meotti: Per oltre cento anni, e per mezzo secolo dopo l'Olocausto, la chiesa cattolica è stata ostile alla creazione di uno Stato ebraico. Lo fu fin dai tempi di Theodor Herzl ricevuto da Pio X, proseguendo con Pio XII che fece pressioni su Roosevelt contro la creazione di uno stato ebraico, e Paolo VI che in visita nella regione non riuscì mai a dire la parola "Israele". Per la Santa Sede, uno Stato ebraico indipendente che porta il nome di "Israele", con Gerusalemme capitale e che rinnova la vita del popolo ebraico nella terra della Bibbia, è uno scandalo. David Ben Gurion diceva che "per il Vaticano il potere di Israele è una minaccia teologica". Basta pensare al sinodo dell'ottobre 2010, quando ancora alcuni vescovi a Roma hanno proclamato che non c'erano "terra promessa" né "popolo eletto".
Così si spiega il fatto che nonostante l'accettazione da parte di tutte le nazioni occidentali e anche, all'inizio, del blocco comunista, a Israele il Vaticano non ha accordato il riconoscimento diplomatico prima del 1993. Cinquant'anni dopo la sua nascita alle Nazioni Unite. Non è un segreto che oggi le mappe turistiche per i pellegrini cattolici e gli opuscoli di viaggio del Vaticano omettano il nome "Israele", usando invece l'espressione asettica e neutra di "Terra Santa" o, peggio, di "Palestina". Per esorcizzare Israele, la chiesa si rifiuta di chiamarlo expressis verbis.

Crippa: Che Ben Gurion dicesse che per il Vaticano il potere di Israele fosse "una minaccia teologica" non implica che ciò sia storicamente né teologicamente vero. Vero può essere che per Benedetto XV, anni Venti, la condizione dei cristiani era già peggiorata con le autorità britanniche, le quali miravano "a scacciare la cristianità" dalle posizioni finora occupate "per sostituirvi gli ebrei". E riteneva che i "diritti dell'elemento ebraico" non avrebbero dovuto essere "menomati", ma non si sarebbero nemmeno dovuti sovrapporre "ai giusti diritti dei cristiani". Se di sostituzione si deve parlare, era questione storico-politica ma non "teologica". Va detto che il riconoscimento del 1993, l'Accordo fondamentale, è un riconoscimento bilaterale. Sono due gli stati che per mezzo secolo non hanno trovato un accordo diplomatico. E le ragioni pertengono a quanto detto prima. E il tema dello status dei cristiani nella Palestina storica divenuta Stato di Israele è sempre e solo stato impostato dalla chiesa nei termini della libertà di esistenza, permanenza e religione. Su questo la controversia è stata a lungo "bilaterale". (Ciò non toglie che i tempi sono molto cambiati, ed è cambiato il ruolo dell'islam. Oggi forse la chiesa avrebbe altri punti di vista).

Meotti: Israele non era citato nemmeno nella famosa dichiarazione Nostra Aetate del 1965, nelle Linee Guida del 1974 o in qualsiasi dichiarazione papale prima del 1980. Il Vaticano aveva legami normali con i regimi più odiosi su questa terra. E ha mantenuto relazioni diplomatiche con la Germania nazista fino alla fine della guerra. A quanto pare, il Vaticano ha considerato solo Israele immeritevole del suo riconoscimento.
E anche quando nel 1986 Papa Giovanni Paolo II si recò in visita alla sinagoga di Roma, la prima volta in duemila anni che un Papa ha messo piede in un tempio ebraico, fu sì un gesto di amicizia. Ma il Papa in sinagoga trattò gli ebrei come una semplice comunità religiosa, quando in realtà essi sono un popolo e una nazione. Considerare gli ebrei - come fa il Vaticano - una semplice comunità religiosa, significa negare loro l'appartenenza a un popolo. Significa negare loro un posto tra le nazioni. Per questo neppure Wojtyla, che pure sentiva la tragedia ebraica nel Novecento, citò mai "Israele". Ci vorranno ancora molti anni.

Crippa: La Nostra Aetate, che molti, compreso Ratzinger, giudicano il documento più importante del Vaticano II, è un documento di natura teologica, non politica. Può essere persino controverso che esso abbia appianato per sempre tutti i problemi di questa natura tra ebrei e cristiani, Ratzinger crede di sì. Wojtyla stette molto attento in quella visita "storica" a sottolinearne l'aspetto religioso. Popolo e nazione implicano nozioni diverse. E il problema "diplomatico" con Israele non poteva entrare in quell'evento. Come pure il problema del sionismo. Quella visita fece giustizia delle teologie variamente sostituzioniste, cioè al fondo liquidatore dell'ebraismo. Vederci dell'antisionismo è azzardato.

Meotti: Lo Stato ebraico è stato abbandonato dal Vaticano nei suoi momenti più tragici dopo l'Olocausto, la Guerra dei sei giorni, la guerra dello Yom Kippur, la Guerra del Golfo, due Intifade dei terroristi, la guerra in Libano nel 2006 e la guerra contro Hamas nel 2009, quando quello stato ha rischiato di essere spinto a mare.
Dopo il Vaticano II, gli arabi cattolici hanno ridato vita all'accusa di deicidio. E' stato dopo la Nostra Aetate che i temi cristologici del palestinismo si sono sviluppati sulla base delle schemi giudeofobici della crocifissione. Le chiese arabe, sostenute dal Vaticano, hanno trasfigurato il terrorismo in una cristologia e presentato i palestinesi come un Gesù sulla croce. I rappresentanti del Vaticano ritraggono gli sforzi di Israele per impedire vittime civili come "punizione collettiva" senza citare i crimini di guerra di Hamas, come se quel conflitto fosse un "ciclo di violenza". Israele è associata al "militarismo", al "colonialismo" e all'"ingiustizia". Basta pensare anche all'assedio della Basilica della Natività a Betlemme nel 2002 e all'accusa rivolta dal Vaticano non ai terroristi che l'avevano presa in ostaggio, ma ai soldati israeliani.
All'interno della chiesa ci sono molti leader che non amano Israele perché credono che gli ebrei non abbiano diritto alla Terra Santa. Essi, infatti, ritengono che uno Stato ebraico sia teologicamente "illegittimo" e intrinsecamente "razzista". Il mantra filo-palestinese, personificato da organizzazioni cattolico-umanitarie e da numerosi esponenti della diplomazia del Vaticano, è che gli arabi siano le vittime innocenti dell'"occupazione" israeliana. Il corollario è che sono a priori discolpati da qualsiasi responsabilità per la loro situazione, specialmente per il terrorismo contro i civili.

Crippa: La posizione equidistante della chiesa tra arabi e Israele (o andreottianamente "equivicina", se qualcuno preferisce) è sempre stata basata su due pilastri: la maggior tutela di tutte le posizioni-religioni nell'ottica della "pace" (questione anche tattica: i cristiani hanno sempre temuto di essere il vaso di coccio tra i due contendenti) e la tutela delle componenti cristiane mediorientali, che sono arabe in maggioranza. Che questa visione sia superata oggi dai fatti, è probabile ma non è una verità assoluta. Che nella componente arabo-cristiana esistano tuttora posizioni "giudeofobiche" e concezioni teologiche che la Nostra Aetate non ha estirpato, è un dato. Che molta parte del problema nasca dalla situazione storica di questi decenni, è un altro dato non proprio censurabile. Che il riconoscimento dello "Stato di Palestina" nasca da un cedimento, o peggio, per quelle posizioni - e non da una declinazione di quei due "pilastri" - credo ci siano montagne di documenti e dichiarazioni della Santa Sede e della sua diplomazia che lo smentiscano.

Meotti: Sui luoghi santi penso che il Vaticano sia un po' ipocrita. Quando il Vaticano chiede la "internazionalizzazione" e la "extraterritorialità" di Gerusalemme, non è interessato all'accesso ai Luoghi Santi, di cui la chiesa gode già secondo la legge israeliana. Inoltre, quando questi Luoghi Santi erano sotto la giurisdizione dei giordani dal 1948 al 1967, e gli ebrei non potevano pregare al Muro del Pianto, allora nessun Papa chiese "l'internazionalizzazione di Gerusalemme". No, è qualcos'altro che vuole il Vaticano. Quello che vuole è la fine del controllo ebraico di Gerusalemme. Il Vaticano non sopporta che la città sia unita sotto controllo israeliano.
Il modo in cui il Vaticano si relazionerà con lo stato di Israele influenzerà il futuro delle relazioni tra cristiani ed ebrei, visto che il primo ne è la più alta autorità spirituale e il secondo ne accoglie i resti dopo la Shoah. Israele è ancora nella fase di stabilire le condizioni per la sua esistenza e questa lotta per la sopravvivenza fornisce al Vaticano la possibilità, concreta e storica, di riscattare gli errori del passato. Riconoscere in quel modo lo "Stato di Palestina" non aiuta.

Crippa: Sulla questione dei Luoghi Santi va notato che quell'insistenza fu tenuta dal Vaticano proprio in quegli anni, dal 1948 al 1967, e venne di fatto abbandonata dopo la Guerra dei sei giorni, con le mutate condizioni politiche. E più esattamente dopo la Conferenza islamica di Rabat, secondo la quale la preservazione del carattere sacro dei Luoghi Santi esigeva che la città recuperasse il suo "statuto anteriore al 1967". La Santa Sede capì che la doppia intransigenza su Gerusalemme, di ebrei e musulmani, avrebbe ridotto la questione a uno scontro politico-religioso, emarginando gli interessi cristiani. Da allora la chiesa si è limitata a rivendicare "pari dignità" per i cristiani. La "fine del controllo ebraico", in questi termini, non è mai stata in agenda per il Vaticano. Di certo non lo è più da decenni.

(Il Foglio, 16 maggio 2015)

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Teologia o storia? Storia o teologia?

di Marcello Cicchese

 
"Non è questione di cattiva teologia, ma di storia", dice Maurizio Crippa a Giulio Meotti. Sarebbe interessante conoscere in modo più preciso dove si trovano i confini tra storia e teologia nella dottrina cattolica. Per esempio, l'esistenza di uno "Stato della Città Vaticano" che cos'è? E' storia o teologia? E' teologicamente necessario che tra tutte le nazioni ce ne sia una che ha la caratteristica di esprimere politicamente la presenza di Dio sulla terra? Forse no, forse quel singolare Stato sorto in modo innaturale nella capitale della nazione italiana per l'opera di un governo fascista severamente giudicato dalla storia potrebbe sparire senza che la teologia cattolica ne abbia danno. Se il Vaticano è storia, si può tranquillamente chiedere che sparisca senza per questo essere tacciati di anticattolicesimo. Chi scrive sarebbe sicuramente tra quelli che lo chiedono.
   Non tutti però sono addentro nella fine arte dei "distinguo" cattolici. Il Vaticano potrebbe anche appartenere alla storia, ma non la Santa Sede, che non per nulla è "santa". La Santa Sede - dicono gli esperti - è teologia, quindi non si discute: deve rimanere. Va bene, ma per questo potrebbe bastare prendere in affitto un locale per il Papa e i suoi collaboratori, come del resto fanno molte chiese evangeliche. Il Papa però una sede, santa quanto vuole, ce l'ha già: è la basilica di San Pietro. Gliel'ha lasciata in uso lo Stato italiano fin dai tempi della breccia di Porta Pia, dopo che lo Stato Pontificio era stato dichiarato decaduto "per debellatio". Perché il Papa allora ha rivoluto per sé uno Stato? La risposta è ovvia: per necessità teologica. Lo Stato del Vaticano è teologia. Ed è una pessima teologia. Che ha avuto conseguenze tremende sulla storia. E continua ad averne oggi, in modo particolare sullo Stato d'Israele.
   Questo Papa si muove abilmente, come del resto hanno fatto anche altri prima di lui, in questa cortina fumogena di storia e teologia. Sa benissimo che non esiste una teologia cattolica che non sia sempre anche storia, ma sapendo di aver a che fare con laici presuntuosi e ignoranti, non gli è difficile presentare l'azione politica della chiesa, fatta soprattutto di immagine, come storica o teologica a seconda dei casi.
   L'interlocutore di Giulio Meotti tenta di muoversi su questa linea, ma a dire il vero lo fa in modo abbastanza goffo. Si pensi soltanto alla frase con cui introduce il suo intervento: "Prima del riconoscimento vaticano dello 'Stato di Palestina' ci sono quasi due millenni di rapporti cattivi, e controversi, tra ebrei e cristiani". Un po' generico, no? Poi ammette che ci sono state, sì, colpe dei cristiani, ma precisa come attenuante che loro "per un millennio abbondante si sono trovati in posizione di forza sulla scena di questo mondo", senza spiegare come mai è avvenuto che ci si siano trovati. Poi aggiunge che c'è stata "la grande richiesta di perdono di Giovanni Paolo II", osservando che questo, a quanto sembra, agli ebrei non basta, perché "agli occhi del popolo di Israele, non si sarà mai chiesto perdono abbastanza". E già, questi ebrei non s'accontentano mai!
   Un punto comunque emerge dall'intervento di Crippa ed è rivelatore: gli ebrei come individui sono religione, come popolo sono storia. Il popolo ebraico dunque non è mai, per il Vaticano, un soggetto teologico. Deve essere così perché, come ha detto giustamente Ben Gurion, "per il Vaticano il potere di Israele è una minaccia teologica". Ed è proprio così. Lo Stato d'Israele, anche se dice di essere laico (senza riuscirci del tutto, bisogna dirlo), agli occhi del Vaticano si presenta come uno Stato teologicamente concorrente. Quei segni di regalità che i Papi hanno portato per secoli e che adesso il volpone Francesco cerca di far dimenticare, sono segni del Regno messianico promesso a Israele e che la Chiesa Cattolica ha dichiarato essere passato nelle mani della sua istituzione ecclesiastica. La teologia della sostituzione continua ad essere presente nel semplice fatto che esiste lo Stato del Papa. E' l'esistenza dello Stato del Vaticano che dovrebbe essere oggetto di seria discussione internazionale, non l'esistenza dello Stato d'Israele. Non si può dichiarare abolita la teologia della sostituzione fino a che continua ad esserci e a pontificare un Papa-Re dall'interno di una "Santa Sede" che si trova in una "Santa Città", capitale di una "Santa Nazione".
   Il problema dell'esistenza dello Stato d'Israele è dunque collegato allo scandalo dell'esistenza dello Stato del Vaticano. In entrambi i casi si tratta di teologia e non di "pura storia". Che non esiste, se non nella mente dei cosiddetti laici illuminati.
   La religione degli ebrei non dà fastidio al Papa perché oggi viene messa nel mucchio di innumerevoli altre religioni, e quindi non si richiede per loro un'attenzione particolare. Il popolo ebraico è storia, e quindi va messo insieme alla storia di tanti altri popoli che hanno gli stessi diritti, e nel caso del "popolo palestinese" ancora di più, per motivi legati a quella terra contesa.
   Quello che invece dà fastidio in modo insopportabile è la presenza sulla "Terra Santa" di uno Stato ebraico sovrano. Il motivo è squisitamente teologico, e quindi, ovviamente, di enorme peso storico e politico.
   Il Papa lo sa.

(Notizie su Israele, 16 maggio 2015)


Follia globale: come consegnare la Palestina ad Hamas

Sulla Palestina e sulla corsa al suo riconoscimento stiamo assistendo ad un vero e proprio suicidio globale della Comunità Internazionale. L'ultimo in ordine di tempo a partecipare a questo macabro rituale è stato il Vaticano che un giorno condanna il terrorismo e il giorno dopo accoglie a braccia aperta un terrorista in casa propria, per di più proprio il giorno stesso in cui in Israele accadeva l'ennesimo attacco contro quattro ragazzi israeliani che venivano investiti da un palestinese in ossequio alle richieste più volte fatte da Abu Mazen, quell'omuncolo accolto in Vaticano da Papa Francesco....

(Right Reporters, 16 maggio 2015)


L'Isis conquista Ramadi, truppe irachene umiliate

Sei kamikaze hanno aperto la strada ai palazzi governativi.

di Maurizio Molinari.

Con un assalto guidato da sei kamikaze i miliziani dello Stato Islamico (Isis) si impossessano del palazzo del governatore a Ramadi, umiliando i governativi iracheni e posizionandosi a 113 km da Baghdad. Ramadi è il capoluogo dell'Anbar, la regione irachena teatro della rivolta sunnita che alimenta il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi.

 Verso la capitale
  In marzo il premier Haider al Abadi, dopo essere riuscito a riconquistare Tikrit, aveva promesso di «liberare tutto l'Anbar» in primavera, per poi lanciare l'assalto a Mosul, roccaforte del Califfo. Ma quanto avvenuto fra giovedì notte e ieri mattina disegna uno scenario differente: sostenuti dai mortai e aprendosi la strada con kamikaze in divisa e barbe tagliate gli uomini del Califfo hanno travolto le difese in centro città, fatto strage degli alleati di Al Abadi e, penetrati nel palazzo del governatore, ucciso almeno 50 fra agenti e militari, infine hanno issato il drappo nero di Isis in segno di sfida proprio al premier di Baghdad, perché l'offensiva del Califfo punta su Baghdad. Colpisce la coincidenza con l'audio di Abu Bark al Baghdadi, postato online giovedì, nel quale si chiede ai musulmani di «venire a combattere perché l'Islam è una fede di guerra». L'impressione è che Al Baghdadi, sopravvissuto all'ultimo attacco alleato, stia tentando di tenere aperti più fronti di iniziativa militare per testimoniare la vitalità del Califfato: a Ramadi contro il governo iracheno, all'aeroporto di Damasco e ad Aleppo contro le milizie di Assad, a Qalamoun contro gli Hezbollah e nel Sinai con Bayt al Maqqdis contro l'Egitto.
Tutto ciò coincide con una fase di debolezza della leadership di Isis - con Al Baghdadi ferito e impossibilitato a muoversi e il vice designato Al Afri forse eliminato - testimoniata dall'annuncio del Consiglio della Shura sulla nomina «entro il fine settimana» del «super-vice Califfo». Ciò dimostra che la forza di Isis non è dovuta ai leader ma alla catena di comando interna, disseminata di veterani di Saddam, a cominciare dal comandante Abu Ali al Anbari.

 Basta con i riscatti
  Ma non è tutto perché la caduta del centro di Ramadi evidenzia il fondamento delle critiche Usa a Baghdad sull'organizzazione delle truppe per l'Anbar: il Pentagono aveva sconsigliato di ricorrere in maniera massiccia alle milizie sciite-irachene, per non spingere i sunniti verso Isis, ma Al Abadi si è limitato a reclutate alcune tribù sunnite che non sono riuscite a fare la differenza.
Proprio ieri il Comitato Finanziario della coalizione anti-Isis, composto da 25 Paesi, si è riunito a Gedda per decidere che «non verranno più pagati riscatti di alcun tipo a Isis in cambio di ostaggi per non facilitare l'avversario». I riscatti «sono un'importante fonte di sostentamento per il Califfato» afferma il comitato finanziario, co-presieduto da Italia, Usa ed Arabia Saudita.

(La Stampa, 16 maggio 2015)


"L'islam è una religione di guerra"

Leggere la dottrina Al Baghdadi, per capire di cosa si sta parlando .

Cade Ramadi nelle mani dello Stato islamico. E' la capitale di Anbar, la regione più pericolosa dell'Iraq, come prima erano cadute altre città irachene, Falluja (a gennaio 2014) e Mosul (a giugno 2014). Questa volta la profondità della sconfitta è davvero maggiore rispetto all'anno scorso, per il governo iracheno e per la coalizione che lo sostiene. Nel 2014 si poteva citare l'effetto sorpresa, la disattenzione globale, il governo di al Nouri al Maliki, corrotto, inefficiente e troppo incline a favorire gli sciiti e a far scoppiare di rabbia i sunniti. Oggi quelle condizioni non ci sono più: tutto il mondo ha capito che c'è una guerra esistenziale in corso - o noi o loro -, la coalizione guidata dall'America ha compiuto più di tremila attacchi aerei contro lo Stato islamico a partire da agosto 2014, sono state mandate armi e addestratori, si sono formate milizie sciite. Insomma, se ancora si perde c'è il rischio che la sconfitta sia un problema strategico: oggi non ci sono le forze per battere davvero lo Stato islamico, a queste condizioni, in Iraq. Ricordate il titolo apparso sul New York Times a fine febbraio? "Il Pentagono annuncia il piano per riprendere Mosul ad aprile o maggio". Sicuro, come no. Ci vorrà un altro tipo di impegno. Due giorni fa il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, ha fatto circolare su internet un audiomessaggio di 34 minuti registrato probabilmente a fine aprile in cui, tra le altre cose, ricorda l'interpretazione dell'islam a cui aderisce il gruppo che lui comanda. "L'islam non è una religione di pace, è una religione di guerra - dice - e il profeta Maometto fu mandato su questa terra con la spada". E sulla possibilità di una coabitazione pacifica con ebrei e cristiani dice: "Assolutamente impossibile, perché non ci sarà mai pace, loro tenteranno sempre di farci fare quello che vogliono, rinunciare all'islam". Non che fosse davvero necessario, si era già intuito che lo Stato islamico è un gruppo di fanatici ossessionato dalla conquista militare e dalla eliminazione settaria, ma la lettura del sermone cupo di Baghdadi serve. La sua interpretazione dell'islam è fondata su una conoscenza non superficiale del Corano e anche se non è considerata valida da tutti i musulmani è comunque considerata legittima da una base robusta, che dispone di carri armati, strateghi e di un infinito desiderio di morte. Non è l'islam tout court. Ma è una versione dell'islam importante.

(Il Foglio, 16 maggio 2015)


Internet, auto verdi e addio al suk. A Rawabi nasce la nuova Palestina

Nella città tecnologica finanziata dal Qatar: "Questa è la collina della speranza" .

di Maurizio Molinari

Rawabi
RAWABI - Bandiere del Qatar, cucine italiane, wi-fi in strada, trasporti pubblici «green» e appartamenti per 40 mila abitanti: benvenuti a Rawabi, la prima città palestinese costruita letteralmente dal nulla, dove le famiglie dei «pionieri» iniziano ad arrivare.
Anwar Hussein, 48 anni, docente all'Università di Bir Zeit, ha versato 140 mila dollari per un appartamento di quattro stanze con vista sulle valli della Cisgiordania perché «dopo essere vissuto in Arizona e Canada ho scelto come casa in Palestina un luogo che mi garantisce un'alta qualità di vita». La moglie Samah annuisce, mostrandoci la casa «dove entreremo a fine mese» a seguito della decisione del governo israeliano di allacciare Rewabi alla rete idrica Mekorot, facendo arrivare acqua corrente in ogni appartamento.
Sono 623 gli immobili già venuti che stanno per ricevere altrettante famiglie del ceto medio-alto palestinese. Altri sono destinati a creare «un nuovo mercato immobiliare» come spiega Isa Rishmaui, imprenditore di Betlemme, cristiano, 41 anni, che ha deciso di investire qui i ricavati della sua azienda turistica «perché Rawabi è l'unica città palestinese che appartiene al XXI secolo».

 Ceto borghese e cristiani
  Per comprendere cosa intende bisogna fare 30 minuti di auto dal centro di RamaUah, raggiungendo le coUine - in arabo «rawabi» - dove nel 2007 la società finanziaria Diar Real Estate Investment Company del Qatar ha deciso di investire un miliardo di dollari per realizzare dal nuDa una città hi-tech, progettata per assomigliare al sobborgo di una metropoli nordamericana attirando i palestinesi che arrivano dall'estero, i professionisti e le famiglie giovani pronte a investire. «Ci siamo trovati davanti numerosi e ostacoli ma i risultati sono davanti ai vostri occhi» dice Bashar Masri, ceo della società Massar, responsabile dei lavori, parlando dalla futura piazza di un centro commerciale con oltre duecento negozi e mille posti macchina.
È posizionato nel cuore dell'abitato, che si articola in strade circolari con palazzi eleganti e case arredate con design moderno, solo in parte già terminate. Un milione di mq è già costruito, ne restano altri cinque da completare. A essere finito è l'anfiteatro per gli show notturni, al cui fianco sorgeranno sei ristoranti, cinque banche, scuole, un campo da calcio e parchi per il tempo libero. Il tutto immerso in un manto di duemila alberi, percorso da strade dove - residenti a parte - potranno circolare solo trasporti locali con carburanti «green».
Rawabi sfida ogni cognizione esistente di città palestinese: non c'è il bazar come a Hebron, il mercato della frutta come a Gerico o un centro governativo come a Ramallah. E non c'è il legame, atavico, il territorio di un villaggio e la «hamula» (grande famiglia) che vi risiede da secoli. C'è invece uno «show room» dove si vendono appartamenti e negozi con simulazioni tridimensionali. Esplorando Rawabi ci si affaccia in Medio Oriente inconsueto. «Abbiamo acquistato la terra da duemila famiglie palestinesi, impieghiamo lO mila operai arabi, e ogni anno acquistiamo 100 milioni di materiale edile da aziende israeliane» spiega Amir Dajani, manager della Bayt Real Estate Investment Company, descrivendo un progetto che «prende corpo con le risorse che ci sono» senza tabù politici.

 La cautela dell'Anp
  D'altra parte l'unico finanziatore è una società privata del Qatar, ovvero l'Emirato accusato di sostenere Hamas a Gaza. Proprio questa matrice spiega la cautela del presidente palestinese Abu Mazen, che qui non è ancora venuto pur esprimendo sostegno. «Ciò che non comprendiamo è perché il governo palestinese non abbia mantenuto l'impegno a versare 140 milioni di dollari le scuole pubbliche - sottolinea Bashar Masri - ma abbiamo trovato una soluzione, le faremo private». Anche i rapporti con Israele sono altalenanti: il via libera del governo Netanyahu all'allaccio della rete idrica è arrivato alla vigilia del viaggio a Washington - per il discorso al Congresso Usa - mentre tardano i permessi per la rete stradale. «Quando avremo raggiunto 2000 famiglie serviranno strade più grandi attraverso territori amministrati da Israele» preannucia Masri, sottolineando però che «non vogliamo diventare motivo di contrasto nel negoziato» perché «la priorità è creare la prima città palestinese per il ceto medio-alto».
Fra i consigli che Masri ha più apprezzato vi sono quelli del sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, che è venuto a Rawabi e ha suggerito di «concentrarsi sulle strutture chiave». È la genesi di una città dove gli acquirenti sono in gran parte coppie giovani, con 1'84 % delle donne che lavorano e il 10% di cristiani. Ecco perché la venditrice Shadia Jarafar, 27 anni, di Hebron, camicia viola e pantaloni attillati, assicura che «investire qui significa scommettere sul futuro». Bashar Masri va oltre: «Se avremo successo, sorgeranno altre Rawabi in Palestina, diventando la spina dorsale dello Stato indipendente».

(La Stampa, 16 maggio 2015)


1967, così la sinistra si divise su Israele

di Maurizio Molinari

Lo strappo dell'Unità, le accuse di Rinascita e il cambiamento di posizione dell'Espresso ma anche le risposte dell'Avanti! e i dubbi di Mondo Operaio: Valentino Baldacci descrive Comunisti e socialisti davanti alla guerra dei Sei Giorni (Edizioni Aska) in uno studio di 638 pagine che ricostruisce la svolta della sinistra italiana che davanti al conflitto del 1967 si lacerò su Israele a causa dell'influenza dell'Urss sul Pci.
   Il valore del libro sta nella mole di documenti raccolti, non solo sui giornali ma sui leader politici, da Giancarlo Pajetta a Enrico Berlinguer, che consentono di rivivere un terremoto di posizioni che cambiò l'identità della sinistra italiana.
   Protagonista e erede della resistenza antifascista che si era battuta contro le persecuzioni degli ebrei e per la nascita di Israele, il Pci voltò le spalle allo Stato ebraico facendo proprie le posizioni dell'Urss che nel 1967 sposò il rifiuto totale dei Paesi arabi nei confronti di Israele. Lo strappo avvenne facendo debuttare in Italia, in maniera quasi istantanea, le tesi sovietiche su «razzismo», «espansionismo» e «imperialismo» del sionismo per delegittimare le fondamenta dell'esistenza di Israele, occidentale e dunque nemico. Il leader socialista Pietro Nenni e l'Avanti!, con gli articoli di Aldo Garosci, si opposero alla svolta filo-Urss in Medio Oriente del Pci, mostrando però incertezze e venature - a cominciare dalle pagine di Mondo Operaio - che vent'anni più tardi avrebbero portato Bettino Craxi a convergere con il Partito Comunista. Valentino Baldacci presenta il suo libro 1967. Comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei Sei giorni (Aska) oggi alle 14 nello Spazio Autori. Con Lele Fiano, Maurizio Molinari, Angelo Panebianco, Ugo Volli

(La Stampa, 16 maggio 2015)


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