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Notizie 16-31 maggio 2020


La comunità di Israele

di Rav Chaim Navòn

 
Chaim Navòn, nato nel 1973 a Ramat Gan, è un rav, pensatore, scrittore e pubblicista. Insegna Talmud e pensiero ebraico alla Yeshivà di Har Etziòn e all'Istituto Lindenbaum. Ha ricevuto il titolo rabbinico dal Rabbinato d'Israele e da rav Aharon Lichtenstein z.l.
In America esistono le comuni, una specie di kibbutz. L'antropologo Richard Sosis ha condotto uno studio sulla storia di 200 comuni fondate negli Stati Uniti nel XIX secolo. Ha studiato quali di loro si sono sciolte con facilità e quali hanno invece resistito di più. Sosis ha scoperto che a vent'anni dalla fondazione era sopravvissuto solo il 6% delle comuni laiche contro il 39% delle comuni religiose. Approfondendo l'argomento Sosis ha scoperto che la caratteristica di tutte le comuni di successo: più la comune esigeva sacrifici e sforzi dai propri membri, più le possibilità di sopravvivere erano alte. A volte le persone credono di cercare una comunità dalla quale possano ricevere qualcosa, ma in generale quello che veramente cercano è una comunità per la quale potersi sacrificare.
  Il bet hakkenèset non nasce come un'istituzione comunitaria. I nostri Maestri dicevano cose terribili di chi chiamava il bet hakkenèset "casa del popolo", cioè: casa della comunità (TB Shabbàt 32). Il bet hakkenèset è un'invenzione ebraica originale, copiata successivamente dal Cristianesimo e dall'Islam, ed è stato fondato come casa di preghiera, o meglio ancora come casa di Dio. Quando preghiamo dai balconi (in Israele NdT), Dio è nostro ospite: ma quando preghiamo nel bet hakkenèset siamo noi i Suoi ospiti. Il bet hakkenèset non è fatto per viziarci. Quando dissero a rav Soloveitchik che è più comodo per la famiglia stare seduti a pregare insieme, egli rispose che è vero, ma che la preghiera al bet hakkenèset non è fatta per essere comoda. La preghiera dovrebbe essere un'esperienza di tensione spirituale nella casa di Dio. E questo è vero in contesti diversi: la preghiera col pubblico richiede comunque uno sforzo. È incredibile che proprio da tutto questo nasca una comunità. Una comunità forte è il sottoprodotto di quando ci si dedica a uno sforzo comune. Proprio per questo il bet hakkenèset che è una casa di Dio e che non è indirizzato di principio alla soddisfazione dei bisogni emotivi e comunitari di chi prega, riesce a creare comunità forti.
  Va di moda negli ultimi anni criticare i nostri battè hakkenèset. Molto prima del Covid-19 è diventato popolare parlar male dei battè hakkenèset che sarebbero diventati irrilevanti, e quindi si svuoterebbero. L'esatto contrario è vero. C'è chi sottolinea che senza alcun legame col Covid-19 la maggior parte del pubblico verrebbe al bet hakkenèset solo di shabbàt, e questo, a sentir loro, perché il bet hakkenèset non sarebbe sufficientemente aggiornato, accessibile e sensibile. La verità è invece che la maggior parte dei battè hakkenèset in tutte le generazioni erano pieni principalmente di shabbàt. In ogni periodo storico troviamo sermoni di rimprovero per le preghiere infrasettimanali vuote. Già nel Talmud si dice che la maggior parte delle persone pregano al bet hakkenèset di sera solo il venerdì (Rashì, TB Shabbàt 24). Triste, ma così è sempre stato, anche se un bet hakkenèset non viene misurato solo su questo parametro. La verità è che ogni famiglia osservante lotta per legarsi a un bet hakkenèset, o per fondarne uno, o per abbandonarne uno. I nostri battè hakkenèset sono vivaci come non mai.
  L'istituzione religiosa più libera che esiste in Israele è il bet hakkenèset, che ogni gruppo può fondare e gestire come vuole senza alcuna influenza statale. Il risultato è che ci sono oggi in Israele circa 15.000 battè hakkenèset, vivaci e diversi tra loro, per ogni rito e per ogni gruppo etnico. Più del 99% di questi sono ortodossi. Quando viene data agli israeliani la libertà di culto, questi scelgono di dedicarsi volontariamente alle antiche usanze dei padri. È chiaro che c'è ancora molto da migliorare nei nostri battè hakkenèset. In molti di questi, per esempio, la configurazione del matroneo non è adatta e non è rispettosa. Ma questo non vuol dire che il bet hakkenèset sia un'istituzione in crisi, ma che al contrario è una buona istituzione che prospera, deve cambiare in meglio e perfezionarsi.
  Quando ero bambino quasi ogni persona aveva una comunità di riferimento. Oggi, in termini generali solo chi ha un bet hakkenèset ha una comunità di riferimento. Una volta si tornava dal lavoro alle 4 del pomeriggio e si stava seduti fuori della porta con i vicini. Oggi torniamo dal lavoro alle 8 di sera e ci chiudiamo a casa con condizionatore e televisore. Non è un fenomeno solo israeliano. Il prof. Robert Putnam ha scritto un libro intitolato "Capitale sociale e individualismo" (Il Mulino, 2004), dove descrive la scomparsa dei campionati comunitari di bowling che vede come l'espressione del dissolvimento delle comunità di riferimento negli Stati Uniti. Molte di queste comunità si sono dissolte anche in Israele, mentre quelle legate a un bet hakkenèset al contrario prosperano. I battè hakkenèset di oggi sono molto più attivi di quello che erano quarant'anni fa. In ogni bet hakkenèset sionista-religioso medio ci sono almeno due gruppi di preghiera la mattina, una lezione di Daf Yomì (studio di una pagina al giorno di Talmud NdT), una commissione di accoglienza e una culturale, e a volte anche una cerimonia dei più giovani per Yom Hazikkaròn (giorno che commemora i caduti nella guerre di Israele NdT). Tutto questo una volta non esisteva. La potenza dei battè hakkenèset e delle loro comunità di riferimento è un piccolo miracolo, una fioritura continua in un trend universale di appassimento.
  Le comunità dei battè hakkenèset sono floride proprio perché si riuniscono intorno alla casa di Dio. Quando gli ebrei si prepararono per l'evento del Sinài erano tutti «come un solo uomo, un solo cuore». L'unità non è solo la condizione per l'accettazione della Torà, ma anche il suo risultato: si può raggiungere l'unità solo quando ci sacrifichiamo per uno scopo più grande. A livello nazionale un governo di unità sarà in grado di unire il paese solo se riuscirà a proporre un obiettivo nazionale comune. Al livello delle comunità, non sono i picnic fatti insieme ad unirci, ma l'impegno dedicato al bet hakkenèset. Che bello poterci ritornare.
- Makòr Rishòn 28.5.2020 - Titolo originale: "Kenèsset Israèl"

(Kolòt, 31 maggio 2020 - trad. D. Piazza)


Tavoletta dell'età del bronzo trovata in Israele da bambino di sei anni

di Ilaria Ester Ramazzotti

 
Va in gita con i genitori e trova una tavoletta illustrata di 3.500 anni fa. Protagonista della vicenda è un bambino israeliano di sei anni, Imri Elya, residente nel Kibbutz Nirim, non lontano dalla Striscia di Gaza. Lo scorso marzo, come riporta il Jewish Press, il bambino è andato a visitare il sito archeologico di Tel Jemmeh, dove ha rinvenuto una tavoletta di argilla che i genitori hanno poi consegnato all'Autorità israeliana per le antichità.
   Secondo gli archeologi Saar Ganor, Itamar Weissbein e Oren Shmueli, il manufatto potrebbe risalire alla tarda età del bronzo, tra il XII e il XV secolo a.C. L'oggetto mostra un uomo potente e importante che porta con sé un prigioniero con le mani legate. L'immagine è stata impressa con un modello, e alcune impronte digitali dell'antico artigiano sono rimaste segnate sul retro della tavola. "L'artista che ha creato questa tavoletta sembra essere stato influenzato da rappresentazioni simili [che si trovano] nell'arte del Vicino Oriente antico - spiegano i tre archeologi dell'Autorità israeliana per le antichità -. Il modo in cui il prigioniero è legato è già stato visto in rilievi e reperti trovati in Egitto e nel Sinai settentrionale".
   Poiché il sito archeologico di Tel Jemmeh è identificato con la città cananea di Yurza, la scena raffigurata sul manufatto potrebbe simboleggiare le lotte di potere tra la città di Yurza e una delle città vicine, probabilmente Gaza, Ashkelon o Lachish, ma anche la lotta di una popolazione nomade del Negev. I ricercatori ritengono infatti che la scena "sia presa dalle descrizioni di parate di vittoria" e che mostri "il potere di un sovrano sui suoi nemici; ciò apre una finestra utile a comprendere la lotta per il dominio nel sud del paese durante il periodo cananeo". In quel tempo, la terra di Canaan era governata dall'Impero egiziano e divisa in stati cittadini governati da re locali.
   Al piccolo Imri Elya, artefice del prezioso ritrovamento, è stata consegnata una pergamena con le lodi dell'Autorità israeliana per le antichità.

(Bet Magazine Mosaico, 31 maggio 2020)


Riapre dopo due e mesi e mezzo la moschea di Al Aqsa a Gerusalemme

GERUSALEMME - Riapre al pubblico e ai fedeli dopo due mesi e mezzo il complesso della moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, terzo luogo più santo dell'Islam. Le autorità hanno imposto alcune precauzioni, come l'obbligo di indossare le mascherine protettive per il viso e di utilizzare tappeti di preghiera personali per i fedeli che desiderano pregare all'interno dei santuari o nello spazio esterno del complesso religioso. Non è ancora chiaro se sia stato disposto un numero limitato di persone ammesse alla Spianata delle Moschee (Monte del Tempio per gli ebrei), chiuso lo scorso 15 marzo per la pandemia di Covid-19. Circa un migliaio di fedeli musulmani erano presenti per la preghiera dell'alba, riferisce il quotidiano "Jerusalem Post", mentre nel corso della mattinata un gruppo di ebrei ortodossi, scortati dalla polizia israeliana, ha visitato il Muro del Pianto. Israele ha registrato finora circa 17 mila casi di coronavirus e 284 decessi, mentre in Cisgiordania sono stati rilevati 386 e tre morti.

(Agenzia Nova, 31 maggio 2020)


Simon Bar-Kokhba: controverso eroe Ebreo che si ribellò ai Romani

di Annalisa Lo Monaco

 
Guida i suoi soldati in battaglia a cavallo di un leone ruggente, e combatte con una mano sola mentre con l'altra tiene alta la bandiera del suo popolo, oppresso dalla dominazione dei Romani.
   Lui è Simon Bar-Kokhba, Simone Figlio della Stella, eroe ebreo tardivamente riscoperto agli inizi del '900 dal movimento sionista di recente costituzione. A metà dell'ottocento esce un romanzo storico Le rovine di Beitar, dove l'autore inventa di sana pianta quella simbolica immagine di Bar-Kokhba che cavalca un leone. Non è quell'opera a dar vita alla glorificazione dell'eroe ebreo, ma piuttosto un discorso tenuto da Max Nordau, fondatore dell'Organizzazione Sionista Mondiale, che propugna l'idea di un "dimenticato ebraismo muscolare": l'esercizio fisico inteso come metodo educativo per "raddrizzare le nostre schiene, fisicamente e caratterialmente".
   E quale migliore esempio per i giovani ebrei che vivono sparsi per l'Europa se non quel potente eroe che cavalca un leone, "l'ultima incarnazione nella storia mondiale di un ebreo bellicoso e militante".
   Un eroe "recente" quindi, questo Simon Bar-Kokhba, nonostante la sua strenua lotta contro i Romani durante la terza e definitiva guerra giudaica, che si conclude con la sconfitta degli ebrei nel 135 d.C. Su di lui ci sono pochissime notizie, e le fonti ebraiche dell'epoca quasi non lo menzionano.
   Eppure Simon si conquista quel cognome "Figlio della Stella" in riferimento a una citazione biblica dove il Messia viene indicato come una stella, e d'altronde lui appartiene alla stirpe di David, dalla quale, secondo tradizione, sarebbe nato il Messia.
   E' il rabbino Akiva che lo proclama Messia, nonché principe d'Israele e re di Giudea, dopo qualche battaglia vinta contro l'esercito romano. Ma quelli sono tempi difficili per gli ebrei che, sottoposti all'autorità di Roma, non adottano una linea comune e sono divisi in diverse scuole di pensiero, guidate da rabbini che non vanno d'accordo.
   Per rispondere ad Akiva, il rabbino Yochanan ben Tornata, in merito alla proclamazione di Bar-Kokhba, afferma "l'erba crescerà sulla tua faccia prima che arrivi il Messia".
   In un contesto così divisivo, con un'autorità ebraica debole, nel 131 l'imperatore romano Adriano prende due decisioni che scateneranno la rivolta dei giudei: la prima è quella di vietare la pratica della circoncisione, considerata dai romani un'usanza barbara, ma che per gli ebrei è obbligatoria per mantenere il patto tra Dio e il suo popolo; la seconda è la decisione di costruire una colonia romana, Aelia Capitolina, sulle rovine di Gerusalemme, distrutta nel 70 d.C. durante la prima guerra giudaica. Quello che però viene considerato un vero e proprio sacrilegio è il progetto di edificare un luogo di culto dedicato a Giove là dove sorgeva il Tempio di Gerusalemme.
   Senza una vera e propria guida politica, gli ebrei si organizzano in bande che compiono dei "crimini politici": si ribellano ad Adriano praticando furti e omicidi, in una sorta di guerriglia contro l'esercito romano, invincibile in campo aperto.
   Simon Bar-Kokhba è quasi certamente a capo di una di queste bande e con il tempo, grazie al suo carisma, diviene la figura di riferimento dei ribelli. E' un tipo duro, che pretende dai suoi seguaci una prova di coraggio raccapricciante: devono amputarsi da soli il dito di una mano, oppure devono dimostrare la propria forza sradicando un albero di cedro. E' talmente convinto del suo valore che quando va in battaglia non prega per la benevolenza di Dio, ma piuttosto chiede "O Maestro dell'universo, non c'è bisogno che tu ci assista [contro i nostri nemici], ma neanche che ci scoraggi!".
   L'adesione alla ribellione contro i romani non è generalizzata: i seguaci di Bar-Kokhba sono prevalentemente gli abitanti delle campagne e cittadini di ceto medio-basso, e molti rabbini in realtà lo osteggiano, definendolo "figlio della menzogna", un personaggio "irrazionale e irascibile nella condotta".
   Negli anni della rivolta, tra il 132 e il 135 d.C, il "figlio della Stella" se la prende anche con i cristiani che non si uniscono alla ribellione. Secondo lo scrittore Giustino, filosofo e martire cristiano, Bar-Kokhba puniva, torturava e uccideva tutti quelli che "non disconoscessero Gesù come Messia e maledicessero il suo nome".
   La tecnica della guerriglia favorisce i ribelli, che ottengono diversi successi, mentre il governatore romano Rufo non pare all'altezza della situazione. Bar-Kokhba prova addirittura a riconquistare Gerusalemme e Adriano decide di sostituire Rufo con Giulio Severo, valoroso generale richiamato dalla Britannia nel 133 proprio per sconfiggere, e questa volta definitivamente, i ribelli giudei che ancora non si arrendono alla grande potenza di Roma.
   Giulio Severo prima riesce a isolare le diverse unità dei ribelli, e le affronta ad una a una: vuole sfinire gli avversari e li indebolisce ricorrendo anche alla immediata uccisione di tutti i prigionieri, finché Bar-Kokhba si ritira nella fortezza di Betar (oggi il sito è conosciuto con il nome arabo Khirbet al-Yahud, "rovina degli ebrei").
   I Romani assediano la cittadella, dove hanno trovato rifugio migliaia di persone. E' il 135 d.C, e nel giorno di lutto ebraico per la distruzione del primo e del secondo tempio di Gerusalemme le legioni di Giulio Severo sferrano l'attacco finale.
   E' un massacro. I Romani "continuarono a uccidere finché i loro cavalli non furono immersi nel sangue fino alle narici". Adriano ordina che i corpi rimangano insepolti, la Giudea è messa a ferro e fuoco, anche il suo nome deve essere cancellato e da allora si chiamerà Syria Palestina, Gerusalemme si trasforma nella colonia Aelia Capitolina, dove a nessun giudeo è permesso entrare, pena la morte.
   La rivolta di Bar-Kokhba, morto durante la battaglia di Betar, costa agli ebrei, secondo il racconto di Cassio Dione, 580.000 morti, la distruzione di mille villaggi e cinquanta città, e sancisce la definitiva dispersione di quel popolo .
   Soprattutto è la fine del sogno di uno stato indipendente. Sogno che rinasce solo alla fine dell'800, quando la figura di Bar-Kokhba, non troppo apprezzata da molti suoi contemporanei (e neanche da alcuni intellettuali ebrei odierni), ritorna prepotentemente alla ribalta come simbolo della rinascita di una nazione indipendente.

(Vanilla Magazine, 31 maggio 2020)


"Trapani Urbs Invictissima", alla scoperta di via Giudecca

 
Palazzo della Giudecca - Trapani
Una delle vie più importanti del quartiere San Pietro, capace di raccontare la storia del rione e di Trapani, è sicuramente Via Giudecca.
   Il nome Giudecca, che deriva dal latino Iudaicus «giudaico», non è un termine utilizzato solo nella nostra città. Essa, infatti, era la denominazione che veniva data ai quartieri abitati dagli Ebrei nelle varie zone italiane.
   A Trapani la Comunità Ebraica fu molto importante perché, grazie alla sua laboriosità e abilità nel commercio, portó allo splendore la nostra città. Forse è proprio per questo che esistono più vie che ricordano la sua presenza, come Via degli Ebrei e la stessa Via Giudecca che, nel periodo fascista rischiò di perdere la propria titolazione a favore di Via Guglielmo Marconi, ma ciò non venne mai attuato.
   Percorrendola si percepisce l'abbandono, sensazione che vivono gli stessi abitanti di Via Giudecca che, però, diventano delle vere e proprie guide turistiche per chi si ritrova a visitare quella zona.
   Una di queste è D'Antoni "u Bummularo", che vive in questa via da più di sessant'anni.
   Se la ricorda bene, lui, Via Giudecca con il basolato in pietra. E ricorda una Via Giudecca laboriosa, piena di vita e di botteghe di artigiani (come la donna Pasquala con la sua rattata - ghiaccio tritato con lo sciroppo - il padre dello scienziato Zichichi che riparava le scarpe, la pasticceria Renda, la cantina Siciliana o la macelleria Auci).
   Ricorda bene anche il Palazzo Ciambra, detto a Jurèca, grande esempio di architettura siciliana grazie all'unione di elementi gotici, rinascimentali e catalani (come l'ornamento a punta di diamante). Edificato dai banchieri Sala tra la fine del 1300 e l'inizio del 1400, dopo la cacciata degli Ebrei dalla Sicilia fu acquisito dalla famiglia Ciambra, il cui stemma nobiliare risalta sul grande portone d'ingresso.
   Il palazzo, che fu sede di una scuola superiore di studi ebraici e forse della Sinagoga principale, potrebbe essere un fiore all'occhiello per la nostra città.
   Potrebbe ma non è, perché ad oggi riversa in uno stato di totale degrado.
   Proprio come tutta la zona, composta da case solitamente basse e malsane e costruite tutte unitamente per coprire la via dal vento e dall'umidità.
   Arrivando all'angolo tra Via Giudecca e Via degli Ebrei è collocabile un'antica Sinagoga, trasformata in Chiesa Latina (Cappella Iesus Christus) dove i Padri Domenicani vi si stabilirono per un decennio.
   Oggi è rimasta solo una lapide, in cui è rappresentato il Santissimo Sacramento, che veniva utilizzata per esporre il nome della Chiesa in cui si sarebbero svolte le Quarantore Circolari.
   La Via Giudecca, piena di storia e tradizione, oggi viene trattata come se fosse una zona qualunque. Rimane viva grazie agli abitanti e ai pochi lavoratori rimasti, che hanno deciso di non abbandonare quell'area, nonostante loro vivano quella sensazione ogni giorno.

(PrimaPagina Trapani, 31 maggio 2020)


L'immenso valore della medicina nell'Ebraismo

di Luciano Bassani

L'ebraismo, attribuisce uno straordinario valore alla vita: «Scegli la vita» (Deuteronomio 30:19). È l'imperativo della Torah. Ne consegue che l'esigenza di salvare la vita umana, così come la tutela della salute, occupano un posto elevato nella scala dei valori della tradizione ebraica.
   Tali istanze sono anteposte a quasi tutte le norme e neutralizzano pressoché ogni divieto. Nella Bibbia la salute dell'uomo è presentata come uno degli elementi del sistema della retribuzione e della punizione che Dio riserva all'uomo. Per quanto riguarda il significato religioso della pestilenza, la tradizione ebraica è assai meno rigida del Cattolicesimo nell'attribuire a essa un significato di punizione divina del peccato, anche in virtù del midrash (racconto) secondo il quale l'angelo della morte a lungo andare prende un po' troppo gusto a fare il suo dovere e non distingue più fra buoni e cattivi così che devono intervenire i medici a limitare i danni. La facoltà di guarire è attribuzione di Dio che la demanda al medico.
   Nel Ben Sirà, il libro dell'Ecclesiaste, è dedicato al medico un intero capitolo che inizia con la seguente frase ricorrente in fonti talmudiche: «Onora il tuo medico, anche questi è parte di Dio». L'azione del medico non pub pertanto essere considerata come un'interferenza con la volontà di Dio. L'esercizio della medicina che si propone di guarire o di preservare la salute dell'uomo è non solo ammesso ma considerato come meritorio. Non va dimenticato che, secondo i Maestri, se è vero che alcuni malanni sono conseguenza della volontà Divina, altri, forse la maggior parte di essi, derivano da scarsa cautela da parte dell'uomo (da qui, l'importanza della medicina preventiva nell'ambito dell'ebraismo) o da «inconvenienti da raffreddamento» cioè cause esterne. L'uomo è considerato un collaboratore del Creatore nel controllo e nel miglioramento del creato. Il medico può essere considerato come un «collaboratore specializzato» al mantenimento della salute.
   Si racconta che Rabbi Yiahmael e a Rabbi Akivà stavano uscendo da Gerusalemme in compagnia di un uomo malato. Questi domandò: «Maestri come posso guarire?» Ed essi: «Fa così e guarirai». Ed egli disse ancora:. «Chi mi ha colpito?» «Il Santo Benedetto» fu la risposta. Allora il malato soggiunse: «Voi v'immischiate in un affare che non è di vostra competenza. Egli ha colpito e voi risanate? Così facendo non trasgredite il suo volere?». Gli dissero i Maestri: «Qual è la tua professione?» Ed egli rispose: «Lavoro la terra, ecco la falce nella mia mano»; e i Maestri: «Anche tu t'impicci in una cosa che non è di tua competenza allorquando lavori il terreno. Come l'albero se non è sarchiato e concimato non cresce e se cresce ma non beve l'acqua e se non è concimato non vive, così è per il corpo umano; il concime è la medicina mentre il contadino è il medico».

(La Verità, 31 maggio 2020)


Gli antichi ebrei usavano la ganja nel tempio

Scoperto l’uso di cannabis per scopi rituali

 
Veduta della cella nel tempio di Tel Arad, con veduta dall'alto dei due altari (sulla sinistra quello più grande e sulla destra quello più piccolo dove veniva bruciata la cannabis)
Nel tempio di Tel Arad in Israele sono stati scoperti residui di cannabis, segno che gli antichi ebrei la usavano per scopi rituali.
   Una ricerca condotta da tre archeologi israeliani (Eran Arie, Baruch Rosen e Dvory Namdar) ha fatto emergere un'importante scoperta: gli antichi ebrei utilizzavano cannabis a scopo rituale durante le cerimonie religiose. O almeno, questo accadeva nel piccolo tempio di Tel Arad (Israele), dove sono stati analizzati (da due laboratori indipendenti) resti di materiali trovati su due altari calcarei. Su uno dei due, quello di dimensioni più ridotte, sono state rinvenute tracce di cannabinoidi come il THC, il cannabidiolo e il cannabinolo, insieme a tracce di terpeni: gli studiosi hanno avuto dunque gioco facile a ipotizzare che sull'altare venissero bruciate infiorescenze di cannabis. Insieme alle tracce dei cannabinoidi sono stati ritrovati anche residui di letame, che permetteva alla cannabis di bruciare a una temperatura più bassa, in modo da attivare i suoi principi psicoattivi: anche questo indizio concorre a far pensare che le piante di canapa indiana venissero bruciate appositamente per giungere a uno stato di alterazione.
   L'altro altare, quello più grande, ha rivelato tracce di terpeni derivati dal franchincenso, una resina ricavata dalle piante del genere Boswellia e utilizzato per realizzare incenso e profumi: la presenza di residui di grasso animale sullo stesso altare ha permesso di scoprire che, anche in questo caso, la sostanza veniva bruciata, per inondare il tempio del suo profumo.
   La scoperta del franchincenso è la prima nel suo genere in un contesto levantino, ma non ha destato scalpore, dal momento che l'utilizzo di quest'essenza è citato anche nella Bibbia (e, com'è noto, l'incenso è uno dei doni che i tre Magi portano a Gesù Bambino), mentre è stata una vera sorpresa la scoperta dell'utilizzo di cannabis a scopi rituali da parte degli antichi ebrei, dal momento che si tratta della prima scoperta di questo tipo: è noto che, in antico, diverse popolazioni facevano uso di cannabinoidi, ma non era nota questa usanza presso gli ebrei. "Sembra probabile", scrivono gli studiosi nella loro ricerca, "che l'utilizzo della cannabis sull'altare di Arad avesse un deliberato ruolo psicoattivo. L'odore della cannabis non è invitante, e quindi non si spiegherebbe su questa base l'importazione delle infiorescenze da lontano. Tuttavia il frequente uso di materiali allucinogeni per ragioni cultuali nell'antico Medio Oriente e oltre è ben conosciuto e si spinge fino alla preistoria [...]. Gli ingredienti psicoattivi erano destinati a stimolare stati di estasi come parte della cerimonia. E come questo studio vuole dimostrare, la Giudea dell'VIII secolo a.C. potrebbe essere aggiunta all'elenco dei luoghi dove questi rituali si tenevano".
   Inoltre, gli archeologi hanno anche ipotizzato che l'uso di cannabinoidi fosse in qualche modo istituzionalizzato, dal momento che il franchincenso, e probabilmente anche la canapa indiana, avevano un costo molto alto, e questo porta a pensare che il forte di Tel Arad fosse un istituto ufficiale gestito dal regno di Giuda. Inoltre, si tratta della più antica evidenza dell'uso di cannabis nel Medio Oriente antico.
   Il tempio di Tel Arad è stato scoperto negli anni Sessanta, durante una campagna di scavi condotta tra il 1962 e il 1967 dall'Istituto di Archeologia dell'Università di Gerusalemme e guidata dall'archeologo Yohanan Aharoni: gli scavi avevano portato alla scoperta di due fortezze sovrapposte, databili a un periodo compreso tra il IX e il VI secolo avanti Cristo, all'interno delle quali, nel 1963, era stato rinvenuto anche il piccolo santuario (di 13 metri per 20) che ha rivelato la scoperta attuale. Anche se gli studi su Tel Arad sono andati avanti per cinquant'anni, c'è ancora molto da scoprire e lo dimostra quest'ultima pubblicazione.

(Finestre sull’Arte, 31 maggio 2020)



Nuovo cielo e nuova terra

Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il primo cielo e la prima terra erano passati, e il mare non c'era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso a Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini; Egli abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli, e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dagli occhi loro e la morte non ci sarà più; né ci saran più cordoglio, né grido, né dolore, poiché le cose di prima sono passate.
E Colui che siede sul trono disse: Ecco, io faccio ogni cosa nuova, e aggiunse: Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci. Poi mi disse: È compiuto. Io sono l'alfa e l'omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente della fonte dell'acqua della vita. Chi vince erediterà queste cose; e io gli sarò Dio, ed egli mi sarà figlio. Ma per i codardi, gli increduli, agli abominevoli, agli omicidi, ai fornicatori, agli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e di zolfo, che è la morte seconda.

(Dal libro dell'Apocalisse, cap. 21)

 


Guerra fredda? Troppo presto per dirlo. Parla Halevy (ex Mossad)

Gabriele Carrer

primo appuntamento della serie di webinar intitolata "China in the Mid-Med" di cui Formiche.net è media partner esclusivo. Ospite Efraim Halevy, dal 1998 al 2002 a capo del Mossad, che spiega: quello attuale tra Usa e Cina è "un confronto prolungato", è prematuro parlare di nuova guerra fredda. Guarda la video intervista
   "Penso che il paragone tra la Guerra fredda e il rapporto attuale tra Stati Uniti e Cina sia sfortunato e un modo per sfuggire a questa situazione". A parlare è Efraim Halevy, dal 1998 al 2002 a capo del Mossad, che è stato ospite della conferenza di apertura di una serie di webinar intitolata "China in the Mid-Med" e organizzata da ChinaMed, un progetto del Center for Mediterranean Area Studies dell'Università di Pechino e del Torino World Affairs Institute, parte del TOChina Hub sviluppato dall'Università di Torino. A condurre i lavori di questa serie di incontri (di cui Formiche.net è media partner esclusivo), Enrico Fardella, professore associato del dipartimento di storia dell'Università di Pechino, il professore Ori Sela, direttore del dipartimento di East Asian Studies della Tel Aviv University, e il professor Brandon Friedman, director for research del Moshe Dayan Center della Tel Aviv University.
   In queste settimane lo scontro tra Stati Uniti e Cina è diventato sempre più evidente, in particolare sulle origini del coronavirus. "La storia di ciò che è successo davvero a Wuhan non è ancora venuta a galla e la Cina non offre alcuna trasparenza e collaborazione", ha spiegato Halevy. Che però consiglia di non avere fretta: "Non sappiamo ancora come andrà a finire", ripete spesso con molto cautela, anche quando si tratta di analizzare la tenuta della leadership del presidente cinese Xi Jinping. A dimostrazione di quanto la situazione sia complessa e in grande evoluzione.
   "La Guerra fredda ha rappresentato uno scontro tra due modi di vivere", ha spiegato l'ex direttore del Mossad. Oggi siamo davanti "a un confronto prolungato ed è troppo presto per giudicare", ha aggiunto sottolineando però come entrambe le parti abbiano "molti interesse per evitare" di arrivare a quel livello di scontro che contraddistinse il conflitto tra l'Occidente a guida statunitense e l'Unione Sovietica dalla fine della Seconda guerra mondiale.
   Quando si parla della sfida tra Stati Uniti e Cina, spesso si pensa agli investimenti esteri. In questo senso, lo Stato di Israele sta lavorando per implementare un meccanismo simile al Comitato per gli investimenti esteri degli Stati Uniti (Cfius). Un tema di grande attualità soprattutto dopo la visita del segretario di Stato americano Mike Pompeo nei giorni precedenti il giuramento del nuovo governo guidato da Benjamin Netanyahu. In cima all'agenda del capo di Foggy Bottom c'erano le telecomunicazioni e la costruzione del più grande impianto di dissalazione al mondo che sorgerà a Sud di Tel Aviv. Sul primo tema, come raccontato da Formiche.net, Israele deciderà a breve; sul secondo invece ha già scelto affidando a una società israeliana (e non alla favorita cinese) il progetto.
   "Servirà molto tempo a Israele per questo", ha spiegato Halevy parlando del meccanismo Cfius e sottolineando le difficoltà di Gerusalemme "di trovare la strada per raggiungere l'obiettivo senza perdere prestigio in entrambe le direzioni", con gli Stati Uniti e con la Cina. Anche se, "non c'è discussione" sul rapporto speciale tra Israele e Usa, ha sottolineato: tanto che Israele non ha aderito alla Via della seta, tiene a evidenziare Halevy rispondendo a una domanda sulla firma italiana del Memorandum d'intesa a inizio dell'anno scorso sulla quale, però, preferisce non commentare essendo decisioni di un altro Paese.
   Ecco il video completo dell'intervista nella quale Halevy ha affrontato diversi temi: dallo scontro Usa-Cina alla situazione in Medioriente e il piano di pace nella regione proposto dal presidente Donald Trump, dalle tensioni tra Israele e palestinesi al tempo del coronavirus fino alle debolezze e le sfide delle democrazie liberali.

(Formiche.net, 30 maggio 2020)


Prove di riconciliazione tra Turchia e Israele?

di Francesca Salvatore

Il complesso teatro mediorientale e la pandemia stanno riscrivendo le relazioni bilaterali fra molti paesi, tra i quali Turchia e Israele.

 Rapporti congelati da almeno dieci anni
  Il coinvolgimento di Ankara nella provincia di Idlib in Siria, contro il regime di Assad sostenuto da Teheran, ha recentemente fornito una causa comune per la riconciliazione tra Turchia e Israele, poiché serve anche gli interessi strategici di quest'ultima nell'indebolire la presenza iraniana in Siria.
  Il dialogo tra Ankara e Gerusalemme, diventa ora più che mai necessario, dopo che i rapporti fra le due nazioni erano rimasti congelati dieci anni fa dopo l'incidente della nave Mavi Marmara. La nave salpò dalla Turchia alla volta di Gaza nel maggio 2010 con il dichiarato intento di violare il blocco navale anti-Hamas decretato da Israele. Dopo i regolari avvertimenti da parte della Marina israeliana, rispettati dalle altre cinque navi della flottiglia, un commando israeliano abbordò l'imbarcazione che si rifiutava di sbarcare il carico nel porto di Ashdod, da dove sarebbe stato trasportato a Gaza via terra dopo le necessarie ispezioni anti-armi.
  Ad avvelenare ulteriormente i rapporti era stata la Turchia, che aveva espulso l'ambasciatore di Israele Eitan Na'eh nel maggio 2018, dopo che gli Stati Uniti avevano trasferito la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

 Gocce di distensione
  Come illustrato nei giorni scorsi dall'incaricato d'affari israeliano in Turchia Roey Gilad, i due paesi hanno numerosi interessi comuni, che riguardano anche le risorse energetiche nel Mediterraneo orientale.
  Nelle ultime ore è un interessante episodio a far pensare ad un riavvicinamento fra i due paesi. La compagnia aerea israeliana El Al ha ripreso i voli cargo due volte alla settimana tra Tel Aviv e Istanbul per la prima volta in dieci anni, un segnale che le tensioni bilaterali decennali potrebbero allentarsi: una svolta del genere, infatti, può essere programmata solo al prezzo di complesse mosse diplomatiche di alto livello. Il Boeing 787 Dreamliner della El Al ha effettivamente toccato domenica scorsa la pista dell'aeroporto di Istanbul, ma solo per fare scalo verso New York, destinazione finale di un carico di attrezzature mediche. Si tratta, in particolare, di 24 tonnellate di aiuti destinati agli Stati Uniti impegnati nella lotta alla pandemia di Covid-19, secondo quanto riferisce il quotidiano Jerusalem Post.
  La concessione del permesso alla El Al di operare voli cargo da e verso Istanbul ha colto molti di sorpresa: lo scorso mese di marzo, infatti, la Turchia aveva negato ai velivoli di Israir Airlines e di Tourism Ltd il permesso di atterrare a Istanbul per rimpatriare gli studenti israeliani bloccati in Turchia.

 Un cargo non fa primavera
  Cosa vuole significare questa apertura piccola ma significativa? Al momento non è chiaro, ma non si deve pensare ad un ritorno ai giorni dell'amicizia turco-israeliana degli anni '90, quando i generali anti-islamisti turchi avevano l'ultima parola e i jet israeliani si allenavano nei cieli turchi.
  Tuttavia, il fatto che questo passaggio avvenga parallelamente a una discussione sull'annessione israeliana in Cisgiordania e alle critiche all'annessione da parte di attori regionali e internazionali, potrebbe influire sul modo in cui viene visto in Turchia. I governi israeliano e turco continuano a presentare differenze politiche significative, e sono ancora lontani dal ripristinare le loro relazioni diplomatiche e rilanciare un dialogo strategico sugli sviluppi regionali di reciproco interesse: la formazione del nuovo governo israeliano potrebbe, però, essere un'opportunità per farlo. Il trattamento di Israele nei confronti dei palestinesi rimane una delle principali ragioni di astio nei rapporti con Ankara che, nella persona di Erdogan, continua a ribadire il suo sostegno ai palestinesi, definendo Gerusalemme, tra l'altro, una "linea rossa per tutti i musulmani, in tutto il mondo", chiarendo che la posizione generale di Ankara verso lo stato ebraico è rimasta invariata.
  Erdogan, tuttavia, è ben conscio che la strada verso il suo sogno neo-ottomano è lastricata di difficoltà e creare legami economici è necessario al di là dell'atavica questione del conflitto israelo-palestinese. Secondo numerosi analisti arabi questo passo avanti sarebbe permesso dai cambiamenti demografici degli ultimi anni: i giovani turchi sono meno infastiditi dalla questione palestinese, e non si dichiarano più favorevoli a rischiare troppo per risolvere l'antica vicenda. Un atteggiamento decisamente diverso da quello spirito che dieci anni fa aveva generato l'incidente della Freedom Flotilla. Allo stesso tempo, Israele, che ha vissuto un'impasse non da poco, è un paese ben conscio del progressivo empowerment regionale turco, e pertanto è alle prese con tentativi di normalizzazione dei rapporti con Ankara.

 Cosa c'è in ballo
  Tra rumors e notizie reali è facile comprendere che qualcosa sta accadendo tra i due paesi. Il capo dello spionaggio turco Hakan Fidan e il suo omologo israeliano Yossi Cohen si sarebbero incontrati almeno due volte negli ultimi dieci mesi (Al Monitor). Nulla di cui stupirsi: perfino le nazioni del Golfo che non hanno legami diplomatici con lo stato ebraico condividono l'intelligence con essa contro i nemici comuni. Siria, la Libia e il Mediterraneo orientale sarebbero stati al centro dei colloqui.
  I problemi della Turchia nel Mediterraneo orientale - legati ai diritti di trivellazione - hanno ispirato alcuni discorsi sulla distensione con Israele. L'assenza di Israele da una dichiarazione firmata due settimane fa da Grecia, Cipro ed Egitto, che ha condannato la Turchia per le sue "attività illegali" di perforazione di gas e "espansionismo" nel Mediterraneo orientale, è stata vista come un segno che le relazioni sono in via di risanamento. Da qui, ulteriori fughe di notizie secondo cui funzionari israeliani e turchi abbiano tenuto colloqui a porte chiuse per raggiungere un accordo sui confini marittimi e le zone economiche esclusive del Mediterraneo orientale. Quest'ultima fuga di notizie sarebbe tutta da verificare poiché appare improbabile che Israele promuova un accordo di demarcazione marittima con la Turchia che metterebbe in pericolo le importanti alleanze nel Mediterraneo orientale che ha promosso negli ultimi anni proprio con Grecia, Cipro ed Egitto.

(Inside Over, 30 maggio 2020)


Esplode l'antisemitismo in Turchia: «gli ebrei hanno creato il virus»

di Haamid B. Al-mu'tasim

Quello che in tanti temevamo è purtroppo accaduto. In Turchia, dove vi è una delle maggiori comunità ebraiche in un paese islamico, è scoppiato un fortissimo sentimento antisemita a causa del diffondersi della notizia che il virus COVID-19 sarebbe stato inventato in Israele.
   Lo riferisce a The Media Line il gruppo Avlaremoz, una organizzazione deputata a tenere sotto osservazione gli abusi religiosi in Turchia.
   Scrive TML; mentre la Turchia è alle prese con uno dei più grandi focolai di coronavirus al mondo, un gruppo di ebrei turchi notava la nascita di un altro focolaio nel paese, quello dell'antisemitismo che si diffonde attraverso i media.
   TML cita Dani Albukrek, 21 anni, turco ebreo residente a Istanbul, il quale afferma che moltissimi utenti turchi dei social media stanno promuovendo con successo l'idea che il coronavirus sia una creazione israeliana.
   Quando Israele ha dichiarato il suo primo caso di COVID-19, gli account Twitter in turco sono letteralmente esplosi per l'annuncio mostrando felicità. Quando il ministro degli interni turco si è temporaneamente dimesso per il fallimento della sua politica di contenimento, i Tweet hanno accusato gli ebrei di essere dietro lo scandalo.
   Anche i giornali vicini a Erdogan non si fanno mancare niente, sia nelle loro edizioni cartacee che in quelle digitali dove impazza un video che mostra l'autista di un autobus che parlando con i passeggeri spiega, tra l'approvazione generale, il "sicuro coinvolgimento di Israele nella creazione del virus".
   Berk Esen, assistente professore di relazioni internazionali alla Bilkent University di Ankara, anche lui ebreo, ci fa notare come per diffondere odio verso gli ebrei i turchi usino uno dei capisaldi dei principi di Joseph Goebbels, quello denominato "Principio della semplificazione e del nemico unico" che consiste nell'inviare alla massa messaggi semplici affinché individuino con facilità il nemico unico, l'ebreo. E il messaggio non può essere più semplice e diretto di così.
   Il risultato di questa campagna è che oggi in Turchia nessuno dei 15.000 ebrei turchi può girare tranquillamente indossando una kippah o qualsiasi altra cosa che lo possa individuare come ebreo.
   Ma la comunità ebraica non è la sola ad essere presa di mira in questa pericolosissima involuzione turca. Proprio nei giorni scorsi un uomo ha tentato di dare alle fiamme una chiesa armena ortodossa a Istanbul perché, seguendo un numeroso gruppo su Facebook, li riteneva responsabili della pandemia.
   Tuttavia è indubbio che la comunità ebraica sia quella più presa di mira, anche perché il regime fa ben poco per impedirlo. È una situazione gravissima che in poco tempo è esplosa in faccia a coloro che sostenevano che la Turchia fosse un paese tollerante e aperto a ogni religione.

(Rights Reporters, 30 maggio 2020)


Svastica vicino alla casa di una famiglia ebrea

La scritta sull'asfalto di via Scialoja a Firenze

 
La svastica disegnata a Firenze, nel quartiere di Campo di Marte
Una svastica in via Antonio Scialoja, è comparsa sul selciato a pochi metri di distanza da dove abitano alcune famiglie di origine ebraica. La svastica è stata scoperta giovedì scorso, la Comunità ebraica ha subito «condannato fermamente» l'episodio spiegando però che, a differenza di quanto sembrava in un primo momento, «lì di fronte non abita alcuna persona della nostra comunità».
   Un precisazione dovuta al fatto che i due consiglieri comunali del gruppo Sinistra Progetto Comune Antonella Bundu e Dmitrji Palagi, che avevano sollevato il caso per primi, avevano parlato di «scritta di fronte alla casa di una famiglia di origine ebraica». Resta il fatto che giovedì verso le 12 una ragazza di origine ebraica, che abita a pochi metri da dove è comparsa la svastica, ha dato l'allarme ai carabinieri del Nucleo informativo che ora stanno conducendo le indagini sull'autore della scritta ( che ieri pomeriggio è stata rimossa).
   La Digos, che ha fatto alcuni accertamenti, ha scoperto che in zona (in via Bovio, ad esempio) ci sono anche «pietre di inciampo» che ricordano le atrocità subite dal popolo ebraico. E che su un cassonetto della spazzatura sono comparse - come scritte - la croce, la mezza luna e la stella di David.
   Dure le reazioni bipartisan che condannano quanto accaduto. «Vergogna. Ma stiamo scherzando? Lasciamo stare simboli e ferite del passato. Noi, intanto, la cancelliamo e mandiamo un grande abbraccio» alla comunità ebraica, scrive su Facebook, il sindaco Dario Nardella Il gruppo consiliare Lega Salvini di Palazzo Vecchio dice che «i gesti di antisemitismo sono inaccettabili. Oggi, come abbiamo più volte ribadito, la più moderna forma di antisemitismo è l'antisionismo. Solidarietà sia unanime per la comunità ebraica che è parte integrante di quella fiorentina». «Alla comunità ebraica di Firenze la nostra solidarietà e vicinanza - dice Valerio Fabiani della segreteria regionale del Pd toscano - Al protagonisti di questo gesto infame dico solo che ci rendete più forti nel combattervi nel nome dei valori delle generazioni che ci hanno preceduto».
   Il console di Israele per la Toscana, Marco Carrai, esprime «tutto il suo sconcerto per la svastica disegnata» e dice: «Il morbo dell'antisemitismo non accenna a piegarsi ed esige la condanna senza sé e senza ma di tutti. Mi auguro una dura presa di posizione di condanna da parte di tutte le istituzioni e forze politiche».

(Corriere Fiorentino, 30 maggio 2020)


Il cyber-inverno del nostro scontento

Il capo della difesa informatica israeliana: saltate tutte le regole, ricorderemo l'attacco al sistema idrico d'Israele come l'inizio della cyber-guerra contro civili.

E' in arrivo un inverno cibernetico e molto più velocemente di quanto ci aspettassimo. Lo ha detto Yigal Unna, Direttore generale della Direzione nazionale informatica israeliana, intervenendo giovedì alla conferenza CyberTechLive Asia. La conferenza era rivolta al pubblico di Singapore e di altri paesi asiatici, e ha visto la partecipazione della controparte di Unna, David Koh, capo della Cyber Security Agency di Singapore, nonché di importanti esperti di informatica da Israele, Asia e Stati Uniti.
"Il termine 'veloce' non rende l'idea di quanto rapidamente e in che modo folle e frenetico stanno precedendo le cose nel cyberspazio - ha detto Unna - Penso che ricorderemo questo mese di maggio 2020 come un punto di svolta nella storia della moderna guerra informatica"....

(israele.net, 29 maggio 2020)


Israele, sfuma l’appalto con la Cina

Sotto la lente i rischi per la sicurezza e timori di spionaggio

di Simonetta Scarane

L' estromissione della società cinese Hutchison dalla gara per la costruzione in Israele del secondo impianto di dissalazione a Tel-Aviv, il Sorek 2, da due miliardi di dollari (1,8 mld di euro), racconta un nuovo episodio della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. Racconta di come Washington cerchi di rintuzzare le mire espansionistiche di Pechino nei Paesi suoi alleati, come Israele in questo caso. Ambizioni che si manifestano anche attraverso la volontà dell'ex Impero di Mezzo di realizzare infrastrutture di vario tipo, dalle reti per il 5G alle grandi opere in Asia, Medio Oriente e Europa. Infrastrutture che sono parte del progetto della Nuova via della Seta fortemente voluto dal presidente cinese Xi Jinping.
   La nuova infrastruttura idrica israeliana sorgerà in un'area vicina a un centro di ricerca nucleare e di una base militare aerea e per questo ha fatto scattare le avvertenze degli americani in materia di sicurezza per il timore di spionaggio da parte dei cinesi. E la presa di distanza di Israele da Pechino.
   I fatti registrano che la società cinese Hutchison sembrava ben piazzata per vincere la gara per la costruzione del Sarek 2, l'impianto per desalinizzare l'acqua del mare presentato come il più grande del mondo, ma alla fine la concessione è stata data al consorzio locale formato dalla società israeliana Ide Technologies e dalla banca Leumi.
   La presa di distanza di Israele da Pechino sarebbe la conseguenza delle pressioni degli Stati Uniti, secondo quanto ha riportato Le Figaro. Ufficialmente il consorzio israeliano che si è aggiudicato l'appalto è descritto come la scelta migliore, ma, secondo Le Figaro, non c'è dubbio che abbiano inciso in maniera pesante le raccomandazioni di Washington sui pericoli di legami economici troppo stretti con Pechino.
   La Cina ha già investito 25 miliardi di dollari (22,5 mld di euro) in Israele negli ultimi anni. Un gruppo pubblico cinese controlla Tnuva, il principale gruppo alimentare israeliano. Imprese cinesi hanno vinto appalti per la gestione per 25 anni dei due porti principali: Haifa e Ashdod, tappe della Nuova Via della seta. A Haifa i cinesi sono vicini alla base navale militare dove staziona la flotta di sottomarini di Israele con capacità di missili nucleari e dove transitano anche navi militari americane.
   L'avvicinamento tra Israele e la Cina era cominciato nel 2016. Adesso, secondo la stampa israeliana, gli Stati Uniti hanno insistito con il loro fedele alleato per ottenere un testo di rottura o di presa di distanza dalla Cina.
   Un paio di settimane prima, Israele aveva ricevuto la visita del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, nella sua unica missione all'estero dall'inizio della crisi sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19. In programma i colloqui sulla controversa questione del progetto di annessione della Cisgiordania occupata dallo Stato ebraico, ma di certo l'inviato del presidente americano Donald Trump non ha mancato di allertare l'alleato israeliano sulla «minaccia cinese», secondo quanto ha riportato Le Figaro. «Non vogliamo che il partito comunista cinese abbia accesso alle infrastrutture israeliane, ai sistemi di comunicazione e a tutto quello che può mettere in pericolo i cittadini di Israele e le capacità degli Stati Uniti-, ha dichiarato il capo della diplomazia americana alla televisione israeliana, aggiungendo che i rischi sono reali e la condivisione delle informazioni al riguardo ha lo scopo di permettere a Israele di decidere per il meglio.
   Il nuovo impianto di dissalazione Sorek 2 ha una capacità di 200 milioni di metri cubi di acqua potabile l'anno, all'incirca un quinto dell'acqua consumata dalle famiglie dei comuni ogni anno. Sorek 2 dovrebbe permettere a Israele di coprire l'85% del proprio fabbisogno idrico attraverso il processo di desalinizzazione dell'acqua del mare. L'infrastruttura idrica è parte di una strategia a lungo termine che mira ad adeguarsi ai rischi del cambiamento climatico in Medio Oriente.

(ItaliaOggi, 29 maggio 2020)


Verso il deserto, onore alla brigata

Un monumento degli anni Sessanta: Dani Karavan per Israele

di Manuel Orazi

 
Il monumento di Dani Karavan nel deserto del Negev
A poco più di un'ora d'automobile verso sud-est di Tel Aviv, in direzione del deserto del Negev, c'è Beer Sheva, una città di circa duecentomila abitanti. Non è una meta turistica ed è difficile capitarci, se non di passaggio verso Eilat sul Mar Rosso. Eppure è un luogo estremamente significativo soprattutto per il sionismo che è alla base dello Stato d'Israele. Qui David Ben Gurion, il fondatore dello Stato, volle costruire un'università specializzata nello studio delle piante grasse e in generale a come coltivare il deserto - fra l'altro per denotare gli ebrei nati in Israele si usa la parola "sabra" che significa fico d'India, una pianta grassa con le spine a indicare una certa ruvidezza caratteriale, compensata però dalla dolcezza dell'interno del frutto. In età matura Ben Gurion si era convinto che Israele avrebbe dovuto svilupparsi verso sud, evitando così conflitti con le altre popolazioni autoctone arabe e no, stabilendo la sua residenza in un kibbutz poco lontano dove è anche sepolto accanto a sua moglie Paula.
   Nel 2004 insieme con Stefano Graziani ho visitato il monumento che lo scultore Dani Karavan ha realizzato su una piccola altura defilata da cui sono visibili però sia la città sia l'inizio del deserto. Il monumento è sia un complesso di sculture sia un tentativo di land art ed era sorvegliato da un beduino e da suo figlio - la minoranza più numerosa in città - e celebra la 12a brigata Negev del Palmach, quasi sterminata durante una battaglia per l'indipendenza nel 1948. Karavan, 89enne, ha studiato da ragazzo a Firenze, e fra il 1963 e il 1968 ha realizzato il monumento in cemento armato sull'onda del brutalismo modernista di quegli anni, nel 1966 per esempio realizzava un rilievo sempre in cemento all'interno dell'edificio della Knesset, il parlamento israeliano a Gerusalemme - nel 2016 fra l'altro chiese di coprirlo in segno di protesta contro la politica del governo Netanyahu.
   Nel 1994 ha onorato la memoria di Walter Benjamin con una poetica installazione a Portbou, la località catalana dove il filosofo in fuga si suicidò. Visto che l'antico significato di Beer Sheva è "pozzo dei sette", proprio per questo è stato luogo di molte battaglie per strappare l'acqua al nemico, fra l'altro anche durante la Grande guerra quando gli inglesi la strapparono agli Ottomani con una leggendaria carica di cavalleria, l'ultima della sua lunga storia. Per questo il complesso è dominato da una torre che ricorda una pipe-line di quelle che si trovavano un po' dappertutto in Israele nel '48, visto che l'acqua era la priorità assoluta per chi faceva Aliyah, spuntano dappertutto anche nell'eccezionale reportage fotografico di Robert Capa per la Magnum del 1948-50.
   Le altre stravaganti costruzioni sono forme astratte nello spazio, decorate da scritte in bassorilievo tratte dai diari degli oltre trecento caduti e dalla Torah. Il clima secco ha favorito la conservazione delle strutture, mentre la luce solare così intensa esalta tutte le irregolarità del cemento in superficie e i bassorilievi in particolare. Non rappresentano nulla, ma attraversandole si ha la sensazione di essere in trappola, analoga a quella di chi cammina nelle trincee o in gallerie dove i tagli e i fori lasciano passare la luce negli spazi interni. Sono sculture che diventano architetture che vanno dunque percorse e non solo guardate. Nel 1969 Bruno Zevi sull'Espresso elogiò l'anti-simbolismo di quelle "strane figure, tradotte poi in terza dimensione in un arcano dialogo di totem".

(Il Foglio, 29 maggio 2020)


Qual è stato il ruolo del Mossad nella lotta contro il Covid-19 in Israele

di Caterina Galloni

ROMA - Coronavirus e servizi segreti. Il Mossad, servizio segreto di spionaggio dello Stato di Israele, e Shin Bet, il controspionaggio interno, hanno avuto un ruolo decisivo nelle fasi iniziali della lotta al Covid-19.
Ora che la fase di emergenza sembra passata, c'è stato il passaggio delle consegne al ministero della Salute. Con una cerimonia pubblica, riportata dai giornali.
Riferisce Y net news, nell'ambito della battaglia mondiale sull'offerta, scoppiata a seguito dell'epidemia di Covid-19, per ottenere le forniture mediche salvavita, il capo del Mossad Yossi Cohen è stato costretto a utilizzare i contatti personali con varie nazioni di tutto il mondo, compresi paesi che non hanno legami diplomatici con Israele.
Secondo i media, alcune delle forniture sono arrivate in anonimo da paesi del Golfo Persico.
Ultimamente, il comando del Mossad ha avviato il trasferimento delle forniture al Ministero della Sanità, nel caso una seconda ondata di coronavirus colpisca il paese.
Secondo il rapporto, la quantità di macchinari e forniture mediche ottenute dall'inizio dell'epidemia comprende 2,5 milioni di occhiali protettivi, altri 5,5 milioni in arrivo.
Circa 80 milioni di mascherine chirurgiche, altri 142 milioni in arrivo; 1,3 milioni di mascherine di tipo N-95, altri 14 milioni in arrivo.
Oltre 30 tonnellate di disinfettanti, 180 milioni di guanti elasticizzati e almeno 1.300 respiratori, con altri 4.700 che dovrebbero arrivare tra giugno e ottobre.
A luglio verranno forniti al Ministero della salute altri 3.500 ventilatori di fabbricazione israeliana.
In totale, gli ospedali israeliani entro ottobre dovrebbero ricevere quasi 10.000 respiratori.
Il rapporto inoltre menziona quattro milioni di giubbotti di protezione e oltre due milioni di kit per il test coronavirus, molti dei quali arrivati dalla Cina e dalla Corea del Sud.
La consegna di 47 diversi tipi di farmaci, inclusi anestetici e insulina.
Aggiunge il Jerusalem Post che la lista completa delle forniture mediche, tra cui circa 80 milioni di mascherine chirurgiche, "inseguita" dal Mossad e portata in Israele durante la pandemia, è stata rivelata martedì dal sito Web ebraico Ynet.
Le informazioni sulle forniture garantite dal Mossad a Israele sono arrivate lo stesso giorno in cui Cohen, il capo dello staff dell'IDF Aviv Kochavi, il direttore generale del Ministero della Salute uscente Moshe Bar Siman Tov e altri alti funzionari, hanno partecipato a una cerimonia che segna la fine del coinvolgimento dell'IDF con il National Coronavirus Control Center presso lo Sheba Medical Center.
Nel corso della cerimonia, Cohen ha affermato che nonostante lui e i suoi agenti non abbiano "alcuna competenza medica", hanno ugualmente portato "lo spirito del Mossad" nelle azioni quotidiane intraprese per frenare la minaccia del coronavirus.
Knesset Intelligence Subcommittee ha esteso per altre tre settimane il monitoraggio da parte di Shin Bet, agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele, dei cittadini positivi, mentre il governo sta per approvare una nuova legge mirata a regolamentare la materia.
Knesset Intelligence Subcommittee ha esteso la sorveglianza per un periodo limitato, cercando così di motivare il governo a presentare una proposta di legge ed evitare una fase di stallo.
A difesa del programma c'è la statistica secondo cui circa un terzo delle oltre 16.000 persone positive sono state rintracciate proprio grazie a Shin Bet.
Una delle principali critiche è che il 93% delle persone rintracciate da Shin Bet, è stata sottoposta a isolamento ma risultate negative e solo il 7% è risultato positivo.

(blitz quotidiano, 29 maggio 2020)


Regionali, Ariel Dello Strologo verso la candidatura unitaria dell'alleanza centrosinistra e M5s

Avvocato e presidente della Comunità ebraica di Genova, pronto a sfidare il centrodestra di Giovanni Toti

di Michela Bompani

L'alleanza tra Pd, M5s e liste civiche sta finalmente convergendo, in Liguria, sul candidato presidente della Regione che dovrà sfidare il governatore Giovanni Toti: e il nome s'impone nelle ultime ore, sparigliando la rosa di nomi finora circolata, è quello di Ariel Dello Strologo, 54 anni, avvocato, sposato, tre figli. Dal 2015 è anche presidente della Comunità Ebraica di Genova. Per otto anni, dal 2009 al 2017, è stato presidente della società pubblica Porto Antico e, dal 2015 al 2017, è anche stato presidente della Fiera di Genova. Nominato dai sindaci Marta Vincenzi e poi Marco Doria, si è dimesso dopo la vittoria del centrodestra in Comune, con il sindaco Marco Bucci, nelle cui mani ha rimesso i mandati.
   Il dibattito nazionale sulla data delle elezioni regionali ha dato un'ulteriore accelerata alla discussione sul candidato nelle file dell'alleanza, da poco sigillata in Liguria, tra 5s, Pd e forze civiche e politiche riunite nel Campo Progressista: uno schieramento ampio cui potrebbe unirsi, nelle prossime ore, anche Italia Viva. Dello Strologo avrebbe convinto gli alleati, molto più di quanto avevano fatto i nomi circolati finora: tra questi, giornalista del Fatto, Ferruccio Sansa, il rettore dell'ateneo genovese, Paolo Comanducci, l'ex preside della Scuola Politecnica, Aristide Massardo. Aveva fatto un passo avanti qualche tempo fa anche Maurizio Mannoni, giornalista Tg3, ligure di Spezia, ma poi aveva ritirato la propria disponibilità, non senza deludere i tanti liguri entusiasti del suo nome, oltre che le diverse forze dell'alleanza che parevano convergere sul suo nome.
   Il nome di Ariel Dello Strologo, avrebbe coagulato l'approvazione, nelle ultime ore, dell'asse Pd-M5s-Campo Progressista, offrendo un profilo civico per rappresentare i punti del programma indicato dalla coalizione, dalla sanità pubblica, allo sviluppo sostenibile, dal lavoro alla scuola. Per tutto il giorno esponenti delle diverse forze civiche e politiche alleate hanno contattato Dello Strologo.
   La Liguria è la prima regione, tra le sei che andranno al voto probabilmente a settembre, a sigillare l'alleanza giallorossa, duplicando quella di governo: per questo il nome di Dello Strologo è in queste ore sul tavolo dei leader nazionali della coalizione perché arrivi il placet ufficiale. E cominci, finalmente, la campagna elettorale per provare a strappare la Regione al centrodestra.

(la Repubblica, 29 maggio 2020)

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Liguria: fonti M5S, Dello Strologo nome non condiviso, in gioco Sansa-Massardo

ROMA - 'Nome non condiviso'. Così fonti del M5S stroncano all'Adnkronos le voci di una candidatura comune con il Pd per la presidenza della Regione Liguria: un'intesa trovata, stando ai rumors, sul nome di Ariel Dello Strologo, presidente della Comunità Ebraica di Genova, che, assicurano al contrario autorevoli fonti del Movimento, in realtà non sarebbe affatto sul tavolo. Le stesse fonti sostengono che il nome di Dello Strologo non sarebbe stato 'nemmeno preso in considerazione'. In campo, per il Movimento, restano al momento i nomi di Ferruccio Sansa, giornalista de Il Fatto Quotidiano, e quello di Aristide Massardo, ex preside della Facoltà di Ingegneria a capo della lista civica Oltre.

(Adnkronos, 29 maggio 2020)


Ambasciata italiana e Intesa Sanpaolo a supporto delle start-up con base in Israele

di Bruno Russo

Il Coronavirus non ha fermato le attività dell'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv e di Intesa Sanpaolo Innovation Center a supporto delle startup e delle imprese innovative italiane in Israele. Due le importanti iniziative recentemente portate a termine: la conclusione in sicurezza e con successo del primo programma di accelerazione di sette startup italiane a Eilat, nel sud del Paese; l' EcoMotion 2020 Virtual Event: grandi aziende e startup italiane e internazionali a confronto a Tel Aviv su progetti dedicati alla smart mobility. Per ciò che attiene l'Israel-Italy Acceleration Program, si è concluso con successo il primo programma di accelerazione per startup italiane in Israele lanciato dall'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv e da Intesa Sanpaolo Innovation Center, la società del gruppo bancario presieduta da Maurizio Montagnese e diretta da Guido de Vecchi. L'Israel-ItalyAcceleration Program ha visto la partecipazione di sette startup che, nel pieno rispetto dei parametri di sicurezza dovuti al diffondersi del Coronavirus, hanno potuto seguire in loco o, per un breve periodo, a distanza un percorso formativo e di crescita all'Eilat HighTech Center, l'acceleratore patrocinato dal gruppo israelo-americano Arieli Capital, che gestisce programmi di innovazione per università, centri di ricerca, istituzioni governative e grandi imprese. Il programma nasce nell'ambito delle attività previste dall'Accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica. L'obiettivo è sviluppare nuove idee d'impresa in uno degli ecosistemi dell'innovazione più all'avanguardia a livello mondiale.
  Israele è al primo posto per numero di startup pro-capite e per la creazione di brevetti, con una percentuale sul Pil investito in ricerca e sviluppo pari al 4,1%. Anche per questi motivi, il Paese può contare su di una forte capacità di attrazione di capitali: il 47% delle imprese ha una partecipazione estera rilevante o è interamente controllata da gruppi stranieri, contro una media europea del 9%. Le domande di partecipazione all'Israel-Italy Acceleration Program sono state complessivamente 40. Tra queste il Comitato di valutazione ha selezionato le migliori realtà attive nei settori Healthtech, Smart mobility e Clean tech. Il Comitato ha coinvolto, oltre al Chief Scientist dell'Ambasciata d'Italia in Israele, Stefano Ventura, e a Dani Schaumann di Intesa Sanpaolo Innovation Center, Danny Biran, ex Vice president della Israel Innovation Authority, Jeremie Kletzkine di Startup Nation Central, e Dan Fishel di OurCrowd. Le sette startup finaliste che hanno avuto accesso al programma sono: per l'Health tech BionIT Labs, SyDiag, Materias ed Elysium; per la Smart mobility Isaac e Djungle; per la Clean techNanomia. La crisi internazionale legata al Coronavirus ha costretto le startup a un rientro anticipato in Italia, rimandando a data da destinarsi l'evento conclusivo finale, ma la grande professionalità e il costante impegno di tutti i partner coinvolti hanno comunque garantito il completamento del programma, che per la crescita dei giovani imprenditori italiani ha visto l'organizzazione di oltre 250 meeting b2b, 100 connessioni con grandi aziende a livello globali e oltre 30 sessioni one-to-one con investitori internazionali. La conclusione di accordi commerciali così come la grande soddisfazione dei partecipanti ha indotto l'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv , e Intesa Sanpaolo Innovation Center a rinnovo dell'iniziativa, per la quale verrà presto pubblicato un nuovo bando. L'Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti, ha dichiarato: "La prima edizione del programma Accelerate in Israel si è appena conclusa con pieno successo.
  Per le nostre sette startup si sono aperte significative opportunità di business, offerte di partnership e per qualcuna anche un round di investimento. Si è trattato di un'occasione unica per immergersi completamente nell'eccezionale ecosistema dell'innovazione israeliano e per affinare le idee progettuali e le soluzioni tecnologiche in un costante, serrato confronto con esperti, investitori e imprenditori israeliani e internazionali. L'Ambasciata che ha lanciato l'anno scorso questa iniziativa, convinta delle potenzialità che la complementarietà dei sistemi economici italiano e israeliano ancora offre, guarda con maggiori aspettative alla seconda edizione del programma, che verrà pubblicizzata fra pochissimi giorni con una più ampia partecipazione del sistema Paese e un budget raddoppiato". Il Direttore Generale di Intesa Sanpaolo Innovation Center, Guido de Vecchi, ha commentato: "Supportare la crescita delle migliori realtà tecnologiche italiane anche attraverso programmi di accelerazione internazionale è parte della mission di Intesa Sanpaolo Innovation Center e Israele, oltre a essere uno dei più importanti provider di tecnologie innovative per il nostro Gruppo, è l'esempio più concreto di ecosistema innovativo di successo in cui centri di ricerca, incubatori, investitori e governo possono fornire un valido aiuto nella formazione e nella crescita delle startup più promettenti". Or Haviv, partner e responsabile delle piattaforme di innovazione globale di Arieli Capital e CEO dell'Eilat Tech Center, ha affermato: "Siamo onorati di aver gestito questo primo programma per startup italiane in Israele. Siamo molto soddisfatti dei risultati ottenuti avendo prodotto affari reali e aumentato così il valore di queste giovani aziende. Nonostante la crisi globale del virus Corona, siamo riusciti a portare a termine il programma con collegamenti on line in remoto, con grandi sforzi professionali ma anche soddisfazioni da parte di tutti. Non vediamo l'ora di poter continuare questa connessione di successo fra gli ecosistemi di startup italiane e israeliane". Per quanto attiene invece alla seconda iniziativa importante; l'EcoMotion 2020 Virtual Event. Occorre dire che esso è uno degli eventi più importanti al mondo per quanto riguarda la mobilità del futuro e fa convergere a Tel Aviv le maggiori realtà a livello globale dell'automotive e dell'high tech.
  Quest'anno, a causa del diffondersi del Coronavirus, EcoMotion ha realizzato un Virtual Event a cui hanno preso parte oltre 400 partecipanti, in rappresentanza di big corporate e di 150 startup idivernternazionali. Intesa Sanpaolo Innovation Center, che da sempre partecipa all'iniziativa, ha accompagnato all'evento alcune delle più importanti realtà italiane che si occupano di mobilità, affiancandole a sette promettenti startup: Sentetic, seguita direttamente dallo stesso InnovationCenter, e Parkofon, Automotus, Nickelytics, V2X, TUC eWe Glad, che a Torino hanno intrapreso un percorso di crescita che coinvolge anche Techstars, uno dei più importanti acceleratori internazionali. Intesa Sanpaolo Innovation Center, in particolare, è stato protagonista del webinar Meet the Italian Smart Mobility Ecosystem and Opportunity, un convegno virtuale dedicato alle opportunità di investimento in Italia, con particolare focus sulla Smart mobility. L'appuntamento, sostenuto da Intesa Sanpaolo Innovation Center, è stato aperto dall'intervento dall'Ambasciatore d'Italia a Tel Aviv, Gianluigi Benedetti. Le sette startup dell'Israel-Italy Acceleration Program sono: "BionIT Labs", che sviluppa dispositivi medici innovativi applicando l'IT alle tecnologie Bionics, con l'obiettivo di "trasformare le disabilità in nuove possibilità". Il primo dispositivo in fase di sviluppo da parte di BionIT Labs è Adam's Hand, un'innovativa protesi mioelettrica della mano basata su di un meccanismo brevettato. La "SynDiag" che ha sviluppato un software per i ginecologi che he utilizza l'intelligenza artificiale per diagnosticare precocemente il carcinoma ovarico. SynDiag offre ai medici la possibilità di condurre facilmente esami diagnostici di imaging, con una valutazione accurata e obiettiva, producendo referti medici standardizzati, in tempi più brevi e costi inferiori. La "Materias" che ha brevettato un processo che genera in una sola fase schiume polimeriche stratificate e graduabili utilizzando la semplice tecnologia di schiumatura a gas, con l'introduzione di particolari condizioni che variano con tempistiche diverse lo stadio di assorbimento del gas.
  La tecnologia sviluppata può essere applicata per realizzare diversi prodotti, generando diverse linee di business. La "Elysium Tech" che offre una piattaforma decentralizzata basata sulla tecnologia blockchain per condividere in modo sicuro dati sanitari riservati tra pazienti, medici e strutture sanitarie. Sfruttando un protocollo di scambio dati decentralizzato, ha lo scopo di incoraggiare lo scambio di cartelle cliniche, terapie e farmaci e può essere esteso per includere qualsiasi altro tipo di dati condivisibili. La "Isaac" che si concentra sulla dinamica delle strutture, che è lo studio dei comportamenti degli edifici in risposta a terremoti, vento o altri fenomeni che inducono vibrazioni. Isaac sta sviluppando tre diversi tipi di servizi relativi alla resistenza sismica degli edifici esistenti: un sistema per la diagnosi e la valutazione sismica delle strutture, uno per il monitoraggio continuo dell'edificio e un altro - innovativo e brevettato - per la protezione sismica e il monitoraggio continuo. La "Djungle" che si dedica al coinvolgimento digitale dei clienti. Opera in due mercati principali: il settore Retail e il settore Smart City. Djungle utilizza la metodologia di gamification per coinvolgere le comunità attraverso i canali digitali, in particolare sul canale mobile. La sua tecnologia di base è stata concepita e progettata seguendo le linee guida dell'Octalysis Framework, un modello che utilizza i driver psicologici fondamentali della gamification per creare coinvolgimento duraturo e autentico, interattività e cambiamento positivo della predisposizione nei confronti di un prodotto o servizio. Infine la "Nanomania" che incapsula composti agrochimici in nanoparticelle organiche su misura, al fine di garantire il controllo del loro rilascio e della loro consegna in dosaggi contenuti sui tessuti delle piante bersaglio. In tal modo si prolunga il tempo di contatto e si evita un assorbimento eccessivo di sostanze chimiche non biodegradabili nel suolo. Le nanoparticelle sviluppate da Nanomnia con diversi polimeri biodegradabili e biocompatibili non causano alcun tipo di contaminazione ambientale e sono stabili durante lo stoccaggio.
  Le sette startup portate da Intesa Sanpaolo InnovationCenter a EcoMotion sono: "Sentetic" che ha sviluppato una soluzione tecnologica per la manutenzione di impianti e infrastrutture nell'ambito dell'Industry 4.0. Grazie all'utilizzo di sensoristica integrata, algoritmi di intelligenza artificiale e tecnologie di machine learning, la startup è in grado di controllare il comportamento di impianti industriali e infrastrutture, stimando la probabilità di guasto o anomalia e programmando in anticipo gli interventi di manutenzione. "Parkofon" che offre una piattaforma di mobilità all-in-one con una tecnologia basata sul rilevamento della posizione e automatizza le transazioni relative alla guida, come i pagamenti relativi a parcheggi, pedaggi, assicurazioni pay per use, ricariche mezzi elettrici o a gas e gestione di flotte aziendali. "Automotus" che aiuta le città a costruire e mantenere ecosistemi di mobilità organizzati e sostenibili attraverso un software di analisi video degli spostamenti urbani che fornisce informazioni in merito ai veicoli (auto, biciclette, bus, taxi, monopattini elettrici) e ai pedoni: identifica targhe, rileva violazioni del codice della strada e segnala le aree di parcheggio e carico/scarico disponibili. Con Techstars Smart Mobility Accelerator ha avviato un test con la Citta di Torino nell'ambito di Torino City Lab. "Nickelytics" che offre un nuovo modo di fare pubblicità, attraverso l'installazione di immagini promozionali su veicoli che percorrono un numero predefinito di chilometri al giorno su strade trafficate di città. Le aziende che utilizzano il servizio di Nickelytics possono avere conferma della lunghezza del percorso compiuto e ottenere informazioni quantitative e demografiche sui gruppi di persone esposte agli annunci. La tecnologia di tracciamento registra ogni impressione, utilizzando i dati raccolti per effettuare il re-target digitale dei consumatori. Nickelytics lavora con diversi operatori della mobilità (taxi, società di noleggio auto e flotte), che vengono rimborsati economicamente a seconda di parametri prefissati. "V2X Network" che automatizza completamente il processo di ricarica dei veicoli elettrici per l'utente finale, eliminando l'inconveniente di gestire molteplici applicazioni di ricarica, variazioni di prezzo e ansia di autonomia. La soluzione white label di V2X Network consente all'OEM di offrire un'esperienza di mobilità elettronica completamente integrata. Utilizzando la rete V2X, il veicolo elettrico può cercare, prenotare e pagare automaticamente la stazione di ricarica. "TUC" che introduce sul mercato una nuova tecnologia (TUC) in grado di digitalizzare e rendere continuamente riconfigurabile l'esperienza di mobilità all'interno dei veicoli, rendendoli a sua volta intelligenti e multimodali, ed è inoltre in grado di razionalizzare e semplificare il loro intero sistema elettronico. Il TUC è un plug multimodale, ovvero un'interfaccia digitale/strutturale implementabile in fase progettuale o di restyling nel telaio dei principali mezzi di trasporto, concepita sia come punto di fissaggio strutturale, dove è possibile ancorare in sicurezza i vari elementi costituenti l'esperienza interna dei veicoli, sia come sistema di hub & switches digitali per lo scambio e l'elaborazione dei dati tra i vari dispositivi connessi. L'intero sistema è gestito dal TUC Brain, una centralina unica collegata ai dispositivi personali dell'utente che consente di gestire e configurare direttamente da smartphone l'esperienza interna del veicolo. "We Glad" è una startup in ambito social impact in fase super-early stage. L'idea iniziale in corso di validazione si sta focalizzando sullo sviluppo di una app principalmente dedicata a persone con disabilità temporanea o permanente in grado di supportare la mobilità urbana attraverso l'individuazione di percorsi personalizzati privi di barriere architettoniche, a seconda della tipologia di disabilità e dell'ausilio motorio necessario.

(Il Denaro, 29 maggio 2020)


Khamenei usa Twitter per invocare la "soluzione finale" di Israele

Segnala Trump e caccia i suprematisti, ma Twitter glissa su Khamenei che ogni giorno vuole "eliminare Israele".

di Giulio Meotti

ROMA - L'account del partito Alba dorata in Grecia, del suprematista bianco Alex Jones negli Stati Uniti e del gruppo neonazista tedesco Better Hanover, per citare soltanto alcuni profili che Twitter ha bannato per violazione delle regole contro l'incitamento all'odio, l'antisemitismo e il razzismo. O il leader della Nazione dell'islam, Louis Farrakhan, costretto a cancellare un tweet in cui paragonava gli ebrei alle "termiti". Ma quando la Guida suprema della Repubblica islamica d'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, paragona gli ebrei israeliani a un "cancro", Twitter glissa. Khamenei ha pubblicato dieci giorni fa un poster che evoca la "soluzione finale". Si vede Gerusalemme conquistata dai terroristi e senza più ebrei, sovrastata dalla scritta: "La Palestina sarà libera. Soluzione finale".
  Sono partite subito richieste di mettere al bando l'account Twitter di Khamenei. Richieste, come già successo, ignorate. Khamenei ha appena "chiarito" sempre su Twitter che l'espressione "soluzione finale" (coniata dai nazisti a Wannsee) non si riferisce agli ebrei, ma "solo" a Israele. E ha concluso il suo nuovo tweet con le testuali parole: "Eliminating Israel & it will happen" ("Eliminare Israele ed è ciò che accadrà"). E l'Iran per far sì che "it will happen" finanzia con miliardi di dollari i gruppi terroristici antisraeliani.
  "I ventisette paesi Ue e Josep Borrell condannano le dichiarazioni di Khamenei che mettono in discussione la legittimità di Israele", ha detto l'Alto rappresentante per la politica estera dell'Unione europea. Tali dichiarazioni sono "totalmente inaccettabili e incompatibili con l'obiettivo" di garantire che "la regione sia stabile e pacifica. L'Ue ribadisce il proprio impegno a favore della sicurezza di Israele". E con una lettera al ceo di Twitter, Jack Dorsey, la neo ministra israeliana per gli Affari strategici Orit Farkash Hacohen ha chiesto la "sospensione immediata" dell'account di Khamenei "per la sua costante pubblicazione di post antisemiti e genocidi".
  Anche un anno fa, un tweet del leader iraniano ha sollevato dubbi sui termini di servizio di Twitter e sul doppio peso del gigante sociale. Khamenei aveva già twittato: "Israele è un tumore maligno canceroso nella regione dell'Asia occidentale che deve essere rimosso e sradicato: è possibile e accadrà".
  Le regole di Twitter dettano: "Non puoi fare specifiche minacce di violenza o desiderare gravi danni fisici, morte o malattie di un individuo o di un gruppo di persone". Eppure, quando i tweet di Khamenei vengono segnalati alla direzione del social, la risposta è quasi sempre la stessa: "Non vi è stata violazione delle regole di Twitter contro comportamenti abusivi". In risposta a una richiesta di commento, un rappresentante di Twitter aveva risposto a Fast Company sul caso Khamenei: "Bloccare un leader mondiale da Twitter o rimuovere i loro controversi tweet nasconderebbe informazioni importanti che le persone dovrebbero potere vedere e discutere". Una risposta in linea di principio corretta, salvo che Twitter è appena intervenuta per segnalare un tweet di Donald Trump contro il voto via posta, a suo dire "falsato". In fondo al tweet del presidente americano, il social ha inserito una frase in blu, "leggi come stanno le cose sul voto postale". Nulla di simile è mai comparso sotto ai tweet di Khamenei per segnalare la sua invocazione alla distruzione dello stato di sei milioni di ebrei israeliani.
  Siamo in pieno paradosso algoritmico. Il paradosso è che il Global Times, una sorta di Pravda inglese del Partito comunista cinese, diffonde propaganda antiamericana su Twitter, che è vietato in Cina, su come i soldati americani avrebbero portato il Covid-19 a Wuhan lo scorso autunno. Twitter, nel frattempo, oscurava il popolare sito web Zero Hedge per avere pubblicato un articolo che collegava uno scienziato cinese all'epidemia. Non meno paradossale del bando che il presidente iraniano Hassan Rohani ha deciso contro l'uso nel paese di qualsiasi prodotto israeliano, compresi hardware o software. Come ha spiegato David Horovitz su Times of Israel, "farebbe arretrare l'Iran di 50 anni: niente computer, internet, telefoni cellulari". Forse Jack Dorsey potrebbe dare loro una mano: niente Twitter a chi lo usa per invocare una nuova "soluzione finale del problema ebraico".

(Il Foglio, 28 maggio 2020)


Shavuot 5780

La sera di giovedì 28 maggio inizia la festa di Shavuot che termina il 30 maggio in corrispondenza del 6 e 7 del mese ebraico di Sivan e celebra il momento in cui gli ebrei ricevettero la Torà.
   Shavuot significa "settimane" e cade esattamente sette settimane dopo Pesach, la festa che ricorda la liberazione degli ebrei dalla schiavitù egiziana. Il periodo tra le due ricorrenze, contrassegnato dal conteggio dell'omer (la benedizione in ricordo della misura d'orzo che si offriva presso l'antico Tempio di Gerusalemme), è vissuto con profondo coinvolgimento e rappresenta una fase di elevazione spirituale in preparazione della rivelazione della Torà.
   Durante Shavuot vengono celebrati i valori universali dei Dieci Comandamenti, strumenti alla base dell'etica di ogni uomo e ogni donna.
   Il dono ricevuto viene festeggiato ogni anno con la stessa gioia ed intensità: è uso infatti decorare con tantissimi fiori le sinagoghe come simbolo della fioritura improvvisa del Monte Sinai e dello straordinario profumo che si diffuse durante il momento della rivelazione della Torà.
   Quello da Pesach a Shavuot è un vero e proprio cammino in cui progressivamente ci si libera interiormente dalla schiavitù per essere in grado di ricevere le regole di comportamento che permettono di convivere pacificamente e in armonia. La festa coincide con il momento di maturazione spirituale in cui si è pronti godere pienamente della libertà nel suo vero significato.
   Shavuot è chiamata anche Hag ha-Qatsir, Festa della mietitura e Yom ha-Bikkurim, Giorno delle primizie, esso era infatti il primo giorno in cui si potevano portare in offerta all'antico Tempio di Gerusalemme le primizie di frumento, orzo, fichi, uva, melagrane, olive e datteri; le sette specie per le quali si loda la Terra di Israele. Fa parte con Pesach (la festa della primavera e della rinascita della terra) e Sukkot (la festa del raccolto) degli Shalosh Regalim, i tre pellegrinaggi che si facevano per giungere al Tempio di Gerusalemme.
   Shavuot è una ricorrenza fatta di sapori e profumi, un'occasione nella quale si rinnova il forte legame tra ebraismo e natura, come racconta il video del MEIS qui a lato facendovi visitare il Giardino delle domande che riapre al pubblico giovedì 28 maggio.
   Durante la festa si legge il Libro di Ruth dedicato alla storia dell'omonima donna moabita, vedova del marito ebreo, che nonostante la fede religiosa diversa decise di convertirsi, abbandonare tutto e seguire la suocera Noemi in Terra di Israele dove sposò Boaz. "Ti seguirò ovunque tu vada" disse Ruth a Noemi, divenendo il simbolo di uno dei più toccanti sodalizi femminili. Il ruolo di Ruth nella storia ebraica è particolarmente emblematico: non solo pone al centro il ruolo cruciale delle donne nell'ebraismo celebrandone il coraggio e la caparbietà, ma racconta la vicenda di una donna convertita, non ebrea per nascita. È allora significativo che proprio dalla stirpe a cui dà vita Ruth discenderà David, uno dei re di Israele.
   Il Libro di Ruth viene letto a Shavuot proprio perché l'ambientazione della storia coincide con il periodo della mietitura e la donna si impegnò nel lavoro dei campi in prima persona facendo la spigolatrice. È però anche una delle storie che riflettono l'importanza della trasmissione dei valori di generazione in generazione (midor le dor) e dei rapporti interpersonali.
   Nelle comunità ebraiche italiane è tradizione celebrare proprio durante Shavuot il bat-mitzvà, la maggiorità religiosa, delle ragazze di dodici anni che attraverso questo rito di passaggio entrano nell'età adulta. Alcuni inoltre usano trascorrere tutta la notte a studiare Torà e consumare un pasto a base di latticini; spiegano infatti i maestri che come il latte per un neonato è un alimento completo, così il popolo ha recepito la Torà come una legge compiuta e autorevole. Chag Shavuot Sameach, Felice festa di Shavuot.

(meisweb.it, 28 maggio 2020)


Shavuot: Rousseau e la legge di Mosè

E' noto che i Dieci Comandamenti (meglio sarebbe dire le Dieci Parole) furono accettati dal popolo ebraico e successivamente accolti da tutti i popoli nelle linee essenziali (anche se con modifiche rilevanti). La festa di Shavuot è l'occasione per ascoltare, anche in questi giorni di epidemia, la promulgazione - rivelazione avvenuta davanti a tutto il popolo. La domanda è se gli ebrei e i gentili abbiano veramente accettato in toto la "Legge di Mosè" e che influenza essa ha avuto sugli ebrei.
   Può essere però interessante leggere cosa pensava, sugli ebrei e sulla legge di Mosè, Jean-Jacques Rousseau, filosofo che non simpatizzava particolarmente per il popolo ebraico, le cui parole sono quindi ancora più significative. Ecco cosa scrive Rousseau (nel testo conservato alla Biblioteca pubblica di Neuchatel, Cahier de Brouillons, notes and extraits, 7843):
    …. Ma è uno spettacolo stupefacente e veramente unico vedere un popolo senza patria, privo di tetto e di terra da circa duemila anni, un popolo misto di stranieri, forse senza più un solo discendente delle primitive razze , un popolo sparso, disperso sulla terra, asservito, perseguitato, disprezzato da tutte le nazioni, che nondimeno conserva le sue caratteristiche, le sue leggi, i suoi costumi, il suo amore patriottico per l'originaria unione sociale, quando tutti i legami sembrano spezzati. Gli Ebrei ci danno un sorprendente spettacolo: le leggi di Numa, di Licurgo, di Solone, sono morte; quelle di Mosè, ben più antiche, sono sempre vive. Atene, Sparta e Roma sono perite e non hanno più lasciato figli sulla terra; Sion distrutta non ha perso i suoi. Essi si mescolano fra tutti i popoli e non vi si confondono mai; non ha più capi, e sono sempre un popolo, non hanno più patria, e sono sempre cittadini.
       Quale deve essere la forza di una legislazione capace di operare simili prodigi, capace di sopravvivere ai costumi, alle leggi, all'autorità di tutte le nazioni, che, infine, per queste prove promette loro di continuare a sostenerli tutti, di vincere le vicissitudini, e di durare quanto il mondo? Di tutti i sistemi di legislazione che ci sono noti, gli uni sono enti razionali la cui stessa possibilità è discussa; altri hanno prodotto solo pochi fedeli, altri non hanno mai fatto uno Stato ben costituito,. Eccettuato questo qui, che ha sempre subito ogni prova ed ha sempre resistito. L'Ebreo e il Cristiano sono concordi nel riconoscervi la mano di Dio che, secondo l'uno, sostiene il suo popolo e, secondo l'altro, lo punisce; ma chiunque deve riconoscervi una meraviglia unica, le cui cause, divine o umane, certamente meritano lo studio e l'ammirazione dei saggi più di tutto quello che la Grecia e Roma offrono di ammirabile in materia di istituzioni politiche e di insediamenti umani.
Queste parole sono significative perché scritte oltre due secoli or sono: cosa direbbe oggi Rousseau dopo la nascita dello Stato d'Israele, un caso davvero unico di cui solo i libri di storia adottati nelle nostre scuole non si rendono conto, relegando la storia degli ebrei tra quella dei popoli antichi.
   Cosa ha preservato il popolo ebraico dall'assimilazione nonostante la dispersione, le persecuzioni, i massacri legati alle epidemie che hanno costellato la sua storia? Rousseau non ha dubbi: la legislazione di Mosè, messa al centro dell'educazione da una generazione all'altra ha garantito la continuità. Una legge ascoltata o trasmessa non da un solo uomo, ma da tutto un popolo, che ha voluto rimanere fedele alle parole e all'impegno assunto ai piedi del Monte Sinai.
   Una legge scritta sui rotoli di pergamena, con cui il popolo ebraico usa ballare con gioia. Perché solo ciò che si trasmette con gioia può attraversare i secoli.

(Progetto Dreyfus, 28 maggio 2020)


Le mascherine? Il nuovo fashion trend Made in Israel

di Michael Soncin

 
La moda, specchio del mondo, riflette il periodo nel quale viviamo. Se in questo momento l'intero globo per la salvaguardia della propria e altrui salute, deve indossare mascherine di protezione, meglio farlo con stile, scegliendo quello che rispecchia di più la propria personalità.
  La chiusura della maggior parte delle attività, durante la fase più delicata della pandemia, ha lasciato in Israele artisti, stilisti, sarti e operai del settore tessile senza lavoro. Molti di loro, come riporta NoCamels, si sono sentiti in dovere di aiutare, apportando ciascuno il proprio contributo. Maschere così belle, alla moda e innovative che non saranno più un imbarazzo ma divertenti accessori, oggi imprevedibilmente, indispensabili da indossare.
  Motivi floreali, fantasie geometriche, patchwork e messaggi di solidarietà sono solo alcuni degli elementi d'ispirazione che hanno contraddistinto la creatività degli stilisti israeliani nel disegnare le mascherine protettive da indossare, a causa del nuovo coronavirus.

 "Happy People". La collezione di Yarden Oz
  La stilista Yarden Oz con la collezione Happy People ha pensato alle esigenze di tutti.
Una delle varianti proposte e più richieste è l'animalier, trend che ciclicamente si ripresenta, come il maculato, lo zebrato o il tigrato. Se siete ai preparativi per una serata galante o all'insegna del chic-style, sarà una pioggia di paillettes dal colore argento ad adornare la vostra mascherina. L'olografico è praticamente ovunque, dagli accessori, all'abbigliamento fino al make up, dove ha spopolato con gli illuminanti per il viso, quindi tranquille, Yarden ha pensato anche a quello, troverete una mascherina dalla texture perlato cangiante, nello stesso stile da abbinarvi. Ma non è finita qui, sul sito della designer potrete acquistare fantasie murales, per chi predilige un look più streetwear, o un genere la cui ispirazione sembra fondersi tra un'opera dell'artista Roy Lichtenstein ed i fumetti della Marvel. Siete indecisi o preferite qualcosa di più monocromatico, magari da abbinare a qualche accessorio? Le tinte unite non mancano dalla lista. Davvero una bella mossa, quella di questa giovane stilista israeliana, nota per gli abiti da sposa e da sera, trovatasi improvvisamente senza lavoro quando le celebrazioni dei matrimoni furono del tutto bandite, ha colto l'occasione con le sue mascherine "di portare in questa era un po' di colore e gioia", si legge dal suo sito. "Adoro il mio lavoro perché posso vestire le donne nel giorno più felice della loro vita", afferma la designer ad Haaretz.

 Un insolito duo tra un ristoratore e un'imprenditrice di moda
  La moda israeliana è anche eco-sostenibile, creare maschere artigianali per il viso con tessuti riutilizzabili è l'idea venuta da un unione insolita e fortuita tra un ristoratore, Alon Levi, e Dana Kira un'imprenditrice della moda che opera a Tel Aviv, quando entrambi in occasione dell'epidemia hanno visto le loro attività bloccarsi.
  Tutte le maschere sono cucite localmente. Non essendo usa e getta è possibile ridurre gli sprechi. Amit Shalom del marchio BoBo contattato da Kira ha donato i tessuti rimasti inutilizzati, consentendo di ridurre ulteriormente il prezzo delle maschere, le quali sono consegnate gratuitamente e disponibili ovunque in Israele. "È molto importante per noi rendere accessibili le nostre maschere in modo che chiunque possa permettersele", spiega Levi.

 Trapunte da sogno e maschere gratuite ai più bisognosi
 
  Ruth Lenk, un'insegnante d'arte di Netanya dopo aver iniziato a vendere le proprie trapunte, sulla pagina Facebook, The Creative Adult, incoraggiata dalla propria famiglia, ha pensato di darsi anche alle mascherine. Per ogni maschera venduta ha deciso di regalarne una al personale ospedaliero e agli anziani che si trovano nelle case di riposo. Nel caso abbiate fatto già provvista di mascherine, non vi resta che dare uno sguardo a queste variopinte trapunte, che possono diventare anche una sorta di arazzo da appendere alle pareti di casa. Alcune riprendono il motivo del Maghen David (Stella di Davide), altre la Mano di Miriam. Guardandole sprigionano un'atmosfera che ricorda molto quella delle splendide illustrazioni che si trovano nei libri per bambini. Un tuffo di cromie che appaga la vista.

 Quando l'idea vien dal mare: "Le maschere Fishi Fish"
   "È successo tutto molto in fretta", dice Kancepolsky a NoCamels. "Ho passato tutta la notte a cucire campioni e la sera successiva li avevamo già messi in vendita." Doraya Avital Kancepolsky e Oryan Asher fondatori del marchio Fishi Fish quando le autorità israeliane annunciarono l'obbligatorietà di indossare le maschere all'aperto si misero subito al lavoro. Ne è venuto fuori un design che rispecchia i codici del brand, che ha il mare come principale punto d'ispirazione. I loro prodotti tutti fatti a mano, spaziano dagli accessori per donna e uomo come zaini, pochette e tracolle, a dei gioielli dallo stile semplice e essenziale davvero accattivante.

 Il progetto "futuristico" di Yael Mordecay
  Un tempismo perfetto, nato proprio in coincidenza nel momento del bisogno. La maschera protettiva creata dalla studentessa Yael Mordecay dell'Accademia di belle arti di Gerusalemme faceva parte di un progetto del primo semestre che si occupava di scenari futuri. "Ho deciso di affrontare l'inquinamento atmosferico, che diventerà un problema significativo in futuro. "L'obiettivo principale del corso era la tecnologia indossabile, quindi ho cercato una protezione contro l'inquinamento atmosferico, costruendo una maschera sugli stessi principi della tipologia N95 che sono anche in grado di filtrare il coronavirus", spiega a NoCamels. "La custodia per la maschera ha due funzioni: la prima è un sensore che monitora l'aria circostante e avvisa l'utente quando indossare la maschera, la seconda è la luce UV che si accende una volta che la maschera è all'interno della custodia per mantenerla sterile per un uso ripetuto". Nessun fastidio alle orecchie, poiché la maschera è senza spalline, grazie ad un adesivo speciale riutilizzabile da apporre sulla pelle. "Mordecay ha detto che voleva che la maschera per l'uso quotidiano fosse "comoda, leggera e compatta".

 II neo-barocco e il militar posh di Stav Ofman
  "Gianni" è il nome di una delle sue mascherine, molto probabilmente, visto lo stile neo-barocco, come tributo allo stilista italiano, genio della moda, Gianni Versace. Stav Ofman fashion designer diplomatasi in una delle scuole di design più rinomate in Israele, lo Shenkar College, ha ben pensato di dare un nome a ciascuna delle maschere di protezione facciale da lei pensate. Ritroviamo nomi come la "The Eden", probabilmente ispirata alla parashà di Bereshit nella Torah, o la "The Matrix", come la nota pellicola cinematografica. A Londra ha lavorato per Mary Katrantzou, stilista greca di fama internazionale. "È tornata in Israele per una vacanza durante la festività di Purim", scrive Haaretz, ma quando ha visto che la situazione a causa del coronavirus stava peggiorando ha deciso di rimanere. Le prime maschere ad essere prodotte furono dei pezzi unici, poiché per farle ha utilizzato i tessuti avanzati durante gli studi di moda. Sul suo sito potrete scegliere quella che più vi s'addice, avendo a disposizione tre tipi diversi di taglie. "Ora sta pensando di lavorare su abiti da abbinare alle maschere, o forse ai costumi da bagno".

 E per i più piccoli? Unicorni e Pois
  Nel creare maschere per bambini, Rachel Aharami si è sbizzarrita fra arcobaleni, unicorni e cuoricini. Tinte pastello e tinte vivaci, che incorniciano il volto, riempendolo d'armonia, sì, perché i suoi colori hanno catturato l'attenzione anche degli adulti, tant'è che la costumista si è vista arrivare persone adulte a richieder mascherine della loro taglia con le stesse fantasie che erano pensate per i più piccoli. Lo sappiamo tutti che gli adulti forse superano i bambini in tema d'unicorni. Da un paio d'anni o forse più l'unicorno è diventato una vera e propria ossessione. Rachel è una delle diverse persone che in Israele è riuscita a reinventarsi quando il covid-19 ha lasciato molti senza lavoro. Rachel Aharami prima di cucire mascherine per bambini, vista la difficoltà per loro di trovare una taglia della dimensione adatta, perché quelle in commercio erano troppo grandi, cuciva vestitini su misura per Purim ai bambini oltre a confezionare abiti per il Bat Mitzvah. Direi che il momento di ricominciare a produrne di nuovi è arrivato.
  Non c'è ombra di dubbio, le maschere customizzate nelle molteplici varianti diventeranno il nuovo fashion trend. Ne vedremo delle belle sulle prossime passerelle di tutto il mondo.

(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2020)


USA vogliono che Israele blocchi gli investimenti cinesi nelle sue reti 5G

L'ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Friedman ha esortato i funzionari israeliani a fermare gli investimenti cinesi nella tecnologia di rete 5G nel paese, secondo il quotidiano Haaretz. Ciò è avvenuto durante i colloqui tra David Friedman e il ministro delle comunicazioni israeliano Yoaz Hendel.
  L'ambasciatore Friedman ha anche informato i suoi interlocutori della preoccupazione che gli Stati Uniti hanno riguardo agli investimenti della Cina in progetti tecnologici israeliani.
  Gli Stati Uniti ritengono che le società cinesi possano utilizzare la loro partecipazione a tali progetti per costruire reti 5G per lo spionaggio.
  A ottobre, dopo tre anni di pressioni statunitensi, il gabinetto di sicurezza israeliano ha deciso di creare un meccanismo per monitorare gli investimenti cinesi.

 Il confronto con Huawei
  Lo scorso maggio, Washington ha inserito nella lista nera Huawei, sostenendo che la società intende fornire accesso back-door ai servizi d'intelligence cinesi.
  Gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni su altre nazioni affinché seguano l'esempio, sebbene queste siano state respinte da paesi come la Germania e il Canada, che hanno insistito sul fatto che prenderanno le proprie decisioni in merito al coinvolgimento di Huawei nella prossima generazione di tecnologia di connessione wireless.

(Sputnik Italia, 28 maggio 2020)


Le insurtech israeliane a confronto con gli assicuratori italiani

Entra nel vivo dell'operatività l'Italian Insurtech Association (IIA), entità senza scopo di lucro costituita all'inizio del 2020 da soggetti rappresentativi di tutte le componenti della filiera del mercato assicurativo per accelerare l'innovazione digitale dell'industria assicurativa in Italia. Tra i servizi dell'associazione c'è anche l'organizzazione di momenti di confronto attraverso vertical workshop finalizzati a individuare le best practice (su tecnologia, customer experience e InsurTech User Journey) e a valutarne l'applicazione in Italia.
   Il primo appuntamento è con Israele, Paese in cui è diffusa l'applicazione delle nuove tecnologie digitali ai servizi finanziari e assicurativi. Sono circa 6.000 le imprese censite, 400 delle quali basate a Tel Aviv, una delle capitali mondiali dell'innovazione tecnologica.
   Il 18 giugno, grazie alla collaborazione con InsurTech Israel, società fondata nel 2017 per promuovere l'innovazione nel settore assicurativo, si terrà alle 15.00 un workshop nel corso del quale saranno presentate agli operatori italiani le migliori startup e scale-up insurtech del Paese. InsurTech Israel, che ha il compito di mettere in contatto startup e scale-up del Paese con i maggiori gruppi assicurativi globali, ha selezionato 11 imprese che illustreranno i loro modelli operativi e le tecnologie abilitanti.
   "L'IIA è nata per contribuire a recuperare il ritardo dell'Italia nell'evoluzione digitale del business assicurativo - ha affermato Simone Ranucci Brandimarte, socio fondatore e Presidente dell'IIA - Compiere questa missione richiede, necessariamente, anche di guardare oltre i nostri confini per incorporare nel nostro sistema le migliori esperienze internazionali. Israele è tra i Paesi con il maggior tasso d'innovazione nel fintech e nell'insurtech: partire dalle loro imprese ci è sembrato, anche simbolicamente, il modo migliore per dare inizio al nostro lavoro".

(insurzine.com, 28 maggio 2020)


Ingaggiato da squadra israeliana, minacce a un calciatore della nazionale palestinese

 
Abdallah Jaber
Abdallah Jaber è un difensore della nazionale palestinese di calcio, che è nato a Taibeh e quindi ha passaporto israeliano. È dal primo luglio prossimo militerà nella Hapoel Hadera, una squadra israeliana.
Un semplice trasferimento di club per uno sport che lentamente sta cercando di tornare alla normalità pre-pandemia. E invece no, perché il passaggio al campionato della Stato ebraico ha portato grossi problemi al 27enne calciatore, che alla stampa ha dichiarato:
"La gente è impazzita, è impazzita davvero. Sto ricevendo minacce e insulti sul web e anche miei familiari sono stati minacciati per strada. È solo un fatto politico, è una questione delicata che con il calcio non c'entra nulla".
Alla radio israeliana Jaber ha continuato:
"Ho partecipato ad incontri importanti con l'Arabia Saudita, con gli Emirati, con l'Australia e col Giappone. In passato mi muovevo nei Paesi arabi con un lasciapassare palestinese. Ma il fatto che io abbia tuttora la nazionalità israeliana mi ha ostacolato professionalmente. Ad esempio, ha impedito che io fossi ingaggiato da una squadra in Egitto. Se la nazionale mi chiamerà ancora e se il mio club attuale me lo consentirà, tornerò a giocare con la Palestina".
A colpire è un altro particolare. Il fratello minore di Abdullah Jaber, Mahmoud, attualmente è un centrocampista in rosa dell'Hapoel Nof HaGalil, squadra di seconda divisione israeliana che l'ha preso in prestito dal Maccabi Haifa.
Al momento non risulta che il mediano abbia subito le stesse minacce del fratello maggiore. E allora cosa potrebbe essere alla base di questo ostracismo nei confronti di Abdullah Jaber che potrebbe perdere la nazionale palestinese?
Forse perché è un simbolo della sua nazionale? Magari le diverse leadership palestinesi di vari settori non possono permettere che un calciatore della nazionale giochi in Israele?
Un conto è un giovane atleta (Mahmoud Jaber, classe 1999) agli inizi della carriera, un altro è un atleta nel pieno della sua attività agonista (Abdullah Jaber) che milita nella nazionale palestinese…

(Progetto Dreyfus, 28 maggio 2020)


L'Iran mette al bando tutti i prodotti israeliani

"Un crimine contro Dio collaborare con Israele"

di Paolo Castellano

Il 25 maggio il presidente iraniano Hassan Rouhani ha bandito dall'Iran i prodotti israeliani. Ennesima provocazione, dopo il tweet pubblicato la scorsa settimana da Ali Khamenei in cui il leader supremo ha invocato su Twitter una "soluzione finale" contro lo Stato ebraico. Il tweet di Khamenei ha indignato le diplomazie di tutto il mondo, compresa l'Unione Europea che ha condannato il gesto.
   L'ultima disposizione di Hassan Rouhani, che è stata approvata dal parlamento iraniano, vieta l'uso di qualsiasi prodotto made in Israel all'interno del territorio iraniano. Come riporta Israel National News, il divieto riguarda anche i prodotti tecnologici come hardware e software. Il provvedimento è stato accettato dai parlamentari iraniani con un voto unanime.
   Secondo le istituzioni iraniane, la legge è stata creata per "affrontare gli atteggiamenti ostili del regime sionista che minacciano la pace e la sicurezza". Da ora in poi, ogni cooperazione con Israele è considerata "un atto contro Dio". Recita il provvedimento vigente in Iran.
   Come è noto, il regime iraniano ha esteso il suo controllo anche sui mezzi di comunicazione. Per esempio, la censura iraniana si è abbattuta su Internet e su alcune applicazioni israeliane come Waze. Quest'ultimo evento si inserisce all'interno della lunga lista di atteggiamenti anti-israeliani condotti dai rappresentati dell'Iran. Incluso il leader supremo Ali Khamenei che minaccia ripetutamente Israele con toni violenti, dichiarando di voler bombardare Tel Aviv e definendo lo Stato ebraico come un "tumore da sradicare".
   Il 20 maggio, il leader supremo ha pubblicato un tweet contro Israele in cui si augurava una "soluzione finale". Queste due parole vennero utilizzate da Hitler per mettere in atto un genocidio che coinvolse 6 milioni di ebrei in tutta Europa. Benjamin Netanyahu ha immediatamente replicato alla minaccia iraniana sul suo profilo Twitter: «Khamenei deve sapere che qualsiasi regime che minacci Israele di sterminio si troverà in un simile pericolo». Dopo la reazione del governo Israeliano e della comunità internazionale, il leader supremo ha chiarito che "soluzione finale" non si riferiva agli ebrei ma solamente allo Stato di Israele.
   Il 22 maggio, l'account Twitter di Ali Khamenei ha insistito sulle minacce allo Stato ebraico: «Il virus sionista non durerà a lungo e il regime sionista non sopravviverà e sarà distrutto».

(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2020)


Israele, fino a luglio non si vola

I voli commerciali in Israele non riprenderanno fino a metà luglio. È quanto ha dichiarato il direttore generale dell'aeroporto Ben Gurion Shmuel Zakaim al sito d'informazione Ynet. E anche quando ci sarà il via libera, ha spiegato Zakaim, il numero di aerei in partenza rimarrà basso. "Le norme sociali di distanziamento negli aeroporti non ci permetteranno di aumentare la capacità di passeggeri - ha dichiarato Zakaim - Se terremo il passo a questo ritmo, vedremo qualche dozzina di voli in partenza dall'aeroporto Ben Gurion a partire da metà luglio e non prima. Finché non ci sarà un vaccino per il coronavirus e la malattia continuerà a spostarsi da un paese all'altro, non ci saranno cambiamenti significativi".
   Nei giorni scorsi l'autorità aeroportuale ha stilato una lista di paesi considerati come destinazioni non a rischio, tra cui Grecia, Cipro, Seychelles, Austria, Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Islanda, che sono caratterizzati da una bassa percentuale di contagi da Covid-19. L'idea sarebbe non solo di permettere di andare nelle destinazioni in elenco ma anche di escludere - per chi torna da quei paesi - la quarantena obbligatoria di 14 giorni. Al momento le restrizioni di volo sono ancora in vigore, quindi l'atterraggio in Israele richiede due settimane di isolamento mentre l'ingresso ai passaporti non israeliani è proibito.
   Secondo il giornalista Amichai Stein dell'emittente israeliana Kan, in queste ore il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha partecipato a una riunione convocata dal cancelliere Sebastian Kurz con alcuni dei paesi considerati a basso contagio. "Vorrei trovare un meccanismo per fare i test per il Covid-19 sul campo, prima della partenza e dopo l'atterraggio dei passeggeri", il virgolettato di Netanyahu, riportato da Stein.

(moked, 27 maggio 2020)


Il Meis di nuovo attivo: la cultura ebraica tra relax e alimentazione

FERRARA - Il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara da domani riaprirà le sue porte dopo la chiusura forzata per l'emergenza sanitaria. A cominciare dal Giardino delle domande, dove un percorso verde conduce alla scoperta delle regole dell'alimentazione ebraica e delle piante bibliche. Uno spazio sicuro e accogliente per ripartire nella sede di via Piangipane 81, in cui poter giocare all'aria aperta, esplorare Il giardino didattico dedicato all'alimentazione ebraica, partecipare a laboratori rivolti ad adulti e bambini ma anche leggere e passare un po' di tempo immersi tra ulivi e melograni. Non è un caso che Il Meis riapra proprio domani, prima della festa ebraica di Shavuoth che ricorda il momento in cui venne data agli ebrei la Torah e che è anche chiamata Hag ha-Qatslr, Festa della mietitura, e Yom haBlkkurlm, Giorno delle primizie, il primo giorno in cui si potevano portare in offerta all'antico Tempio di Gerusalemme le primizie di frumento, orzo, fichi, uva, melagrane, olive e datteri.

(Corriere di Bologna, 27 maggio 2020)


A Gerusalemme scoperta una moneta con la scritta "Anno due della libertà d'Israele"

 
 
"Anno due della libertà d'Israele": sono queste le parole impresse su un'antica moneta coniata al tempo della rivolta del condottiero Bar Kochba, pretendente al trono del regno di Giudea che guidò la terza guerra giudaica contro i Romani. La Israel Antiquities Authority ha presentato, informa Israele.net, che cita articoli apparsi sul "Jerusalem Post" e il "Times of Israel", la rara moneta in bronzo risalente al periodo della rivolta anti-romana del 132 d.C.: è stata scoperta di recente negli scavi condotti, sotto la supervisione della Società per la ricostruzione e lo sviluppo del quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme, nel parco archeologico William Davidson, che si trova tra il Monte del Tempio e la Città di David. Sul dritto, la moneta è decorata con un grappolo d'uva e la scritta "Anno due della libertà di Israele". Il rovescio presenta una palma e la scritta "Gerusalemme" in ebraico antico.
   Le monete del periodo della rivolta di Bar Kokhba, sono ben conosciute dagli archeologi. La scoperta di queste monete aiuta i ricercatori a mappare la rivolta, che ebbe luogo circa 1.900 anni fa. Donald Tzvi Ariel, capo del Dipartimento monete presso la Israel Antiquities Authority, ha esaminato più di 22.000 monete di varie epoche rinvenute durante scavi archeologici nell'area della Città Vecchia di Gerusalemme. Dalla sua indagine risulta che solo quattro di quelle monete risalgono al periodo della rivolta di Bar Kokhba: un numero decisamente esiguo se paragonato al grande numero di monete di Bar Kokhba che sono state trovate al di fuori di Gerusalemme. Fra l'altro, delle quattro monete di Bar Kokhba trovate dentro la città, questa da poco scoperta è l'unica in cui appaia la parola "Gerusalemme".

(Adnkronos, 27 maggio 2020)


Ramallah tenta l'indipendenza, almeno nella sanità

«Nel 2019 l'Anp ha speso 220 milioni di Euro per la cura negli ospedali israeliani di nostri cittadini. Abbiamo già ridotto questo flusso e puntiamo a sviluppare una sanità indipendente e migliore» afferma Mai Al Keile, ministra della sanità dell'Anp.

di Michele Giorgio

Superata, almeno così sembra, l'emergenza coronavirus, l'unico tema al momento sul tavolo israelo-palestinese è l'annessione a Israele di una larga porzione di Cisgiordania. Netanyahu è stato chiaro l'altro giorno incontrando i quadri dirigenti del Likud, il suo partito. «Non lascerò passare l'opportunità di estendere la sovranità israeliana a terre patrie in Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndr). Si tratta di una occasione storica come mai si è avuta dal 1948», ha detto descrivendo il territorio palestinese occupato nel 1967 come parte di Eretz Israel, la biblica Terra di Israele. Parole che smentiscono le voci di una frenata al suo piano di annessione unilaterale, a partire dal 1 luglio, a causa degli ammonimenti rivolti a Israele da alcuni paesi europei e dalle Nazioni unite.
   Le frecce all'arco palestinese intanto restano poche, considerando il sostegno insufficiente che arriva loro dall'Ue e dal mondo arabo. L'Anp per ora insiste sulla linea del disimpegno dagli Accordi di Oslo annunciato dal presidente Abu Mazen e confermato dal governo. «Manterremo l'ordine e la nostra sovranità in Cisgiordania, difendendo al tempo stesso i diritti civili dei palestinesi» assicura il premier Mohammad Shtayyeh. «Questa è una battaglia importante - sottolinea - una battaglia sull'esistenza nazionale della Palestina nel suo territorio e sulla prevenzione dell'annessione israeliana di terra palestinese attraverso l'espansione delle colonie». I dubbi sulle intenzioni vere dell'Anp tuttavia restano. Non è facile stabilire se l'interruzione dei rapporti con Israele e Usa e la fine della cooperazione con l'intelligence rappresentino il passaggio del Rubicone o restino una minaccia volta a scoraggiare Israele e a raccogliere consenso internazionale.
   I dirigenti palestinesi a Ramallah ripetono che l'annuncio fatto da Abu Mazen è concreto. Staccare la spina però è complicato per l'Anp che, di fatto, non può schiacciare un pulsante senza il via libera di Israele. Economia e finanza palestinesi sono sotto il controllo di Israele, così come l'import ed export. Il governo israeliano, lo ha già fatto innumerevoli volte, può interrompere in qualsiasi momento il trasferimento dei fondi palestinesi derivanti dalla raccolta di tasse e dazi doganali che rappresentano circa il 40% delle entrate dell'Anp. Ed è importante ricordare che la "Zona A", il territorio amministrato pienamente dall'Anp, rappresenta appena il 14% della Cisgiordania.
   Shttayeh a inizio settimana ha dato ordine di limitare i rapporti con la sanità israeliana e di interrompere appena possibile il trasferimento negli ospedali dello Stato ebraico di palestinesi gravemente ammalati che non possono essere curati in Cisgiordania e a Gaza. «Nel 2019 l'Anp ha speso 850 milioni di shekel (circa 220 milioni di Euro) per la cura negli ospedali israeliani di nostri cittadini. Abbiamo già ridotto questo flusso e puntiamo a sviluppare una sanità indipendente e migliore» ci spiega Mai Al Keile, ministra della sanità ed ex ambasciatrice palestinese a Roma. «Il mio ministero - assicura Al Keile - sta preparando un piano volto a migliorare le nostre strutture e le nostra assistenza medica. Nel frattempo Giordania ed Egitto sono disponibili a ricevere coloro che non possiamo curare in Cisgiordania e Gaza, tra 1000 e 2000 persone ogni anno».
   Indipendenza da Israele. Facile a dirsi, molto meno a farsi. Senza intoppi lo sviluppo del sistema sanitario palestinese comunque richiederà anni e il trasferimento di ammalati in Giordania ed Egitto, all'estero, è soggetto a restrizioni e controlli molti rigidi. «Il problema riguarda soprattutto i malati oncologici che necessitano cure immediate e terapie speciali molto costose» ci dice Steve Sosebee, del Pcrf, una ong palestinese che assiste gratuitamente bambini ammalati. Il Pcrf negli anni passati ha aperto dipartimenti di oncologia pediatrica in due ospedali pubblici in Cisgiordania e Gaza. «I bambini con il cancro possono essere curati nei nostri dipartimenti. Diverso è il caso dei pazienti oncologici adulti» aggiunge Sosebee «gli ospedali locali hanno pochi macchinari e non abbastanza medici e infermieri specializzati in oncologia. Mi auguro che gli accordi con Giordania ed Egitto siano già ben avviati, altrimenti non vedo come gli ammalati più gravi potranno essere assistiti in modo opportuno».

(il manifesto, 27 maggio 2020)


I falasmura tornano a Gerusalemme

 
Gli ebrei etiopi continuano a emigrare verso Israele. A fine febbraio ne sono arrivati 43, seguiti da altri 72 a marzo e 119 giovedì 21 maggio. Sono i primi tre gruppi a fare aliya. Altri ne seguiranno fino a raggiungere il numero complessivo di 398 etiopi autorizzato dal governo di Banjamin Netanyhau il 9 febbraio.
   In realtà non si tratta di veri ebrei etiopi. La comunità originale dei Beta Israel (che i cristiani etiopi chiamavano in modo spregiativo falasha, in amarico «esiliato» o «straniero») è stata portata in Israele negli anni Ottanta con tre grandi ponti aerei organizzati dalle Operazioni Mosè, Salomone e Giosuè. Furono sottratti alle persecuzioni e alle privazioni alle quali erano stati condannati dal dittatore Menghistu Hailè Mariam. Allora 90mila ebrei etiopi, che la leggenda vuole fossero gli eredi degli ebrei nati dall'unione di Re Davide e la Regina di Saba, ma le cui origini sono incerte, furono trasportati nella Terra Promessa. Una volta giunti in Israele faticarono molto a integrarsi. Un po' perché abituati a vivere in un ambiente premoderno e un po' perché l'ebraismo tradizionale non li aveva mai veramente accettati come appartenenti all'ortodossia. Negli anni, però, lentamente hanno iniziato a far parte attiva della società israeliana. Molti ragazzi hanno fatto strada nelle forze armate. La comunità è riuscita a far eleggere propri deputati. Fino ai giorni scorsi, quando Pnina Tamano-Shata è stata nominata ministro dell'Immigrazione, prima donna di origine etiope (giunta in Medio Oriente nell'ambito dell'operazione Salomone) a ricoprire una carica all'interno di un governo israeliano.
   Ma chi sono allora gli ebrei etiopi giunti in Israele in questi ultimi tre mesi? In realtà sono falasmura, cioè gli eredi di quegli ebrei etiopi che in passato furono costretti a convertirsi al cristianesimo. In Etiopia vivrebbero, in gran parte nei dintorni di Gondar (antica capitale imperiale) e di Addis Abeba, 8.200 ebrei convertiti al cristianesimo. Nel 2018, il governo israeliano ha autorizzato l'arrivo di un migliaio di immigrati di origine ebraica. Poi il dossier si è fermato ed è stato ripreso a febbraio quando è giunta l'autorizzazione all'arrivo di 398 falasmura.
Ed è stata proprio Pnina Tamano-Shata, insieme a Isaac Herzog, capo dell'Agenzia ebraica, ad accogliere il terzo gruppo di ebrei etiopi. «È un enorme privilegio dare il benvenuto a questi meravigliosi [immigranti] dall'Etiopia proprio poco dopo aver assunto la mia importante carica - ha detto nella cerimonia di accoglienza -. Avete aspettato molto tempo per realizzare il sogno dell'aliya. Ora siete tornati a casa e io, personalmente, sono estremamente commossa. In questa occasione voglio ricordare le centinaia di ebrei etiopi che hanno sognato Gerusalemme e sono morti lungo la strada per arrivarci».
   Giovedì 21 ricorreva infatti la ricorrenza che ricorda gli ebrei etiopi morti durante il tentativo di giungere in Israele. Alla cerimonia sul Monte Herzl a Gerusalemme hanno partecipato, oltre ai membri delle famiglia che hanno perso i loro cari, anche il presidente Reuven Rivlin, il premier Benjamin Netanyahu, il presidente della Knesset Yariv Levin, il giudice della Corte suprema David Mintz e, appunto, Tamano-Shata.
   «Non tutti sono tornati a casa, a Gerusalemme - ha detto Rivlin -. Padri e figli, sorelle e fratelli, nipoti e nonni non sono sopravvissuti al viaggio estenuante, ai predoni lungo la strada, alla fame, alle malattie, alle terribili condizioni nei campi di transito. Gerusalemme conserva per sempre il loro ricordo nel suo cuore».

(Rivista Africa, 27 maggio 2020)


Israele abbandona Pechino dopo la visita di Pompeo

di Davide Bartoccini

Il piano economico cinese non tiene in Israele. Washington sbarra la nuova Via della seta che voleva passare nel cuore del Medio Oriente e Pechino perde così le commesse per la costruzione di grandi opere vicine ai "siti sensibili" sul suolo israeliano che avevano messo in allerta fin dal primo momento gli 007 dei "Five Eyes". Le pressioni mosse dal Segretario di Stato Mike Pompeo, che si è recentemente recato in visita a Gerusalemme per ribadire agli omologhi dello Stato ebraico il "netto rifiuto di Washington alla penetrazione di Pechino", sembrano essere state sufficienti a mietere un'altra "vittima": l'azienda cinese che ha perso il contratto per costruire il più grande impianto di dissalazione di Israele.
   Appena due settimane fa, Mike Pompeo era volato nell'ambasciata americana di Gerusalemme - nuovo simbolo dell'eterna vicinanza tra i due Paesi alleati - e aveva messo in guardia i vertici israeliani nei confronti della Hutchison Water, direttamente collegata ad una conglomerata cinese con sede ad Hong Kong. L'azienda cinese era stata selezionata per costruire il cosiddetto "Soreq B", un gigantesco impianto di desalinizzazione che andrà ad aggiungersi a quello già in funzione in prossimità della base aerea di Palmachim, situata a sua volta in prossimità del Centro di Ricerca nucleare di Soreq. Questa nuova struttura è destinata a diventare la più grande del suo genere. In grado di produrre "200 milioni di metri cubi di acqua all'anno e aumentare la capacità di dissalazione di Israele del 35%".
   Dopo il cambio di rotta "suggerito" dal Segretario di Stato americano, essa verrà realizzata interamente dalla israeliana Ide: senza investimenti e senza la presenza di Pechino nell'operazione che permetterà ad Israele di "risparmiare al paese circa 3,3 miliardi di shekel durante la vita dell'impianto". L'annuncio formale, come riportato oggi dal quotidiano Haaretz , è stato fatto da un comitato congiunto dell'Autorità per l'Acqua, il ministero delle finanze e il ministero dell'Energia israeliani. Le autorità hanno concesso l'appalto alla società israeliana con sede a Kadima che si era già occupata dell'attuale impianto di dissalazione di Soreq.
   Il direttorio israeliano conferma in questo modo, e ancora una volta, la sua piena fiducia dell'alleato americano; che ha espresso il suo consiglio "strategico" attraverso il più autorevole dei suoi ambasciatori. Durante la sua visita in Israele, l'ex direttore della Cia Mike Pompeo ha sottolineato come gli investimenti cinesi nelle infrastrutture che sorgono in prossimità di siti sensibili potrebbero rappresentare un rischio per la sicurezza di Israele e dei suoi alleati.
Messa al corrente delle dichiarazione del segretario americano, l'ambasciata cinese presso lo Stato ebraico aveva immediatamente reagito a queste insinuazioni bollando come "assurde" le congetture che Washington sta sollevando intorno agli investimenti all'estero promossi da Pechino e sulla colpevolezza della diffusione del virus che ha provocato la pandemia.
   I diplomatici cinesi hanno rilasciato una serie di dichiarazioni nelle quali confidano che Israele: "sconfiggerà il coronavirus" insieme al "virus politico"; vittoria che le consentirà di "sceglierà la linea d'azione che servirà meglio i suoi interessi". La velata querelle fa chiaramente riferimento alle pressioni che il presidente americano Donald Trump sta esercitando nei confronti di tutti i partner e gli alleati che stanno "aprendo" alla Cina; con l'obiettivo di limitare gli investimenti di Pechino, e proseguire a sferzare colpi vincenti nella lunga "guerra commerciale" che si protrae con la potenza asiatica.
   La strategia americana è in larga parte basata sull'onnipresente pericolo per la sicurezza. E questa evenienza ha già spinto il gabinetto di sicurezza israeliano ad istituire un "meccanismo per monitorare gli investimenti cinesi" come diretto seguito delle pressioni degli Stati Uniti. Le morti sospette, come quella dell'ambasciatore cinese o dell'ipotetica "spia" collegata alla grandi opere cinesi in Australia, non fanno che giocare a favore di questa teoria che finisce per farci immaginare trame intriganti (quanto indimostrabili) degne della penna di Le Carré. Nonostante l'insistenza di Washington, tuttavia, le ombre cinesi continuano ad incombere sull'Occidente. A nulla sono valsi infatti i continui "moniti" dell'intelligence americana di rifiutare l'installazione della rete 5g in gran parte d'Europa. Se c'è davvero un pericolo di spionaggio infatti, a Pechino basterà invadere il cyberspazio, non il dissalatore di Soreq.

(Inside Over, 27 maggio 2020)


«Storia dell'ebraismo», di Martin Goodman

di Matteo Moca

Martin Goodman, docente di Studi ebraici all'Università di Oxford, è l'autore del fondamentale Roma e Gerusalemme. Lo scontro delle civiltà (tradotto da Laterza nel 2012), vera e propria pietra miliare nella storiografia ebraica, libro unico nel raccontare le vicende di quel popolo durante l'Impero romano e nell'illustrare le motivazioni che hanno portato alle configurazioni storiche, sociali e politiche dei secoli successivi. Con il suo nuovo libro Storia dell'ebraismo, pubblicato nel 2018 dalla Princeton University Press e prontamente tradotto per Einaudi da Luigi Giacone, Goodman offre al lettore una storia completa dell'ebraismo, dalle origini, rintracciabili intorno a due millenni prima di Cristo, fino agli anni più recenti, alla nascita dello stato di Israele e alle nuove correnti interne all'ebraismo, fornendo così agli studiosi e agli interessati un compendio da cui in futuro sarà impossibile prescindere.
   Come il titolo suggerisce, l'ampio lavoro di Goodman si concentra sul percorso millenario dell'ebraismo e non è dunque una storia degli ebrei: eppure, e questa è una delle cifre più importanti di questo libro, indagare l'itinerario della religione porta a considerare anche tutti quegli elementi politici e culturali che con essa hanno interferito, in un lavoro che quindi fonde in maniera mirabile le molteplici variabili che chiama in causa, non ultime le differenze linguistiche, simbolo dei riflessi delle diverse culture con cui si è trovato a dialogare il popolo ebraico.
   Per questi motivi Goodman finisce per coprire, oltre a un numero di anni "scoraggiante", secondo le sue parole, per qualsiasi studioso, anche un'area geografica immensa, riuscendo nel difficile tentativo di gestire queste innumerevoli forze centrifughe all'interno di una narrazione bilanciata e completa, che si muove con dimestichezza e senza alcuna sbavatura da un capo del mondo a un altro. Il discorso di Goodman situa intelligentemente la storia ebraica all'interno degli eventi "del più vasto mondo", modellando proprio su questo principio dialogico la sua storia e individuando secondo questo paradigma i momenti più importanti: si incontreranno, partendo dalle descrizioni di Flavio Giuseppe, le vicende in cui si trovò a nascere e crescere l'ebraismo negli imperi del vicino oriente, in Grecia e a Roma, i movimenti di cristianizzazione in Europa, le interazioni fondamentali con il Rinascimento e con l'Illuminismo, fino appunto a giungere alla complessa conformazione contemporanea, in un intreccio che rende ottimamente conto anche delle maggiori idee filosofiche e delle più importanti discussioni dottrinarie.

(Il Foglio, 27 maggio 2020)


Comunità ebraiche a rischio. Il caso belga

di Michael Sfaradi

Per le comunità ebraiche l'Europa non è mai stata un posto tranquillo, la storia, quella vera, lo insegna. Questo, e vale la pena sottolinearlo, a prescindere da Israele e dalle sue politiche. Israele ha dichiarato la sua indipendenza solo il 13 maggio del 1948, mentre le persecuzioni contro gli ebrei, con contorno di antisemitismo feroce condito da calunnie e menzogne, che è sempre arrivato in maniera trasversale da parte di quasi tutti i colori politici e dottrine varie, sono molto più vecchie, ma che dico vecchie, antiche. Per cui chi oggi giustifica decine di attentati che negli ultimi decenni sono stati portati a termine contro le istituzioni ebraiche, attentati che hanno lasciato dietro di loro una lunga scia di morti e feriti, ricercandone il motivo scatenante nella politica del governo israeliano, cerca di fare ammuina non rendendosi probabilmente conto, o peggio nascondendo colpevolmente, la gravità di ciò che è successo o del pericolo di quello che potrebbe accadere.
  Chi ancora cerca di giustificare, o peggio sdoganare il terrorismo, è solo un illusionista che fa il gioco delle tre carte nascondendo l'asso di cuori in una cortina fumogena intrisa nelle calunnie e menzogne di cui sopra. Calunnie e menzogne che anche se in molti casi sono già state smascherate, quasi per incanto, dopo un periodo di decantazione e dopo una bella lucidata, vengono riesumate e mandate nuovamente allo sbaraglio perché, come diceva Joseph Goebbels "Una menzogna ripetuta alla fine diventa una verità". In quegli attentati, purtroppo e troppo spesso, ci sono stati morti e feriti, feriti che in molti casi sono poi diventati invalidi che ogni giorno vivono la loro esistenza nel rimpianto di una vita che non sarà mai vissuta a pieno perché caduta nel baratro della disperazione solo per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Persone che se quel giorno fossero uscite di casa un minuto prima, o uno dopo, avrebbero potuto vivere felici o, almeno, con la speranza di una felicità ormai irraggiungibile.
  Persone alle quali è stata tolta anche la speranza di una felicità possibile per il solo fatto di essere ebree, perché i loro figli frequentavano una scuola ebraica o perché si voleva pregare in una sinagoga, o perché si voleva presenziare a un qualsiasi momento di vita o a un evento della tradizione ebraica. Chi credeva che dopo la seconda guerra mondiale tutto sarebbe cambiato sbagliava, perché quella che soffia in Europa per le comunità ebraiche è, una volta ancora e da molti anni a questa parte, una brutta aria e di esempi, purtroppo, ne esiste un elenco intero. L'ultima voce di questo elenco arriva dal Belgio dove il governo ha fatto sapere che dal prossimo settembre verrà rimossa la protezione delle forze dell'ordine, in questo caso si trattava di militari dell'esercito regolare, alle Sinagoghe di Anversa.
  Le truppe belghe erano state inviate a guardia delle istituzioni ebraiche della città fiamminga nel maggio 2014, dopo che un islamista aveva ucciso quattro persone in una sparatoria terroristica al Museo ebraico di Bruxelles. Fra tutte le città belghe Anversa è quella che ha nella sua popolazione residente la più alta percentuale di islamici, ma non solo, la città ospita circa cento istituzioni ebraiche al servizio di una popolazione di 18.000 persone. Anche se le autorità giustificano la decisione indicando problemi di budget, legati alla crisi del Covid-19, si è levata forte la protesta da parte del Forum delle Comunità Ebraiche Fiamminghe che ha dichiarato che in questi tempi difficili, proprio in questo periodo, gli ebrei hanno bisogno di più protezione.
  Togliere la sorveglianza alle istituzioni ebraiche è, di fatto, il modo più disonorevole per lasciarle in balia della furia che, fomentata dagli estremismi, non tarderà ad alzarsi e a far sentire il suo ruggito nell'andare a colpire, come già fatto decine di volte in passato e in tutto il mondo, il ventre molle, e ora indifeso, dell'ebraismo europeo. Il governo belga giustifica la sua decisione con la mancanza di budget, come giustificherà i morti e i feriti di un attacco contro una qualsiasi di quelle cento istituzioni ebraiche che dal primo settembre, proprio alla vigilia delle più importanti festività del calendario ebraico, saranno lasciate senza protezione? Speriamo che questa mia previsione sia assolutamente errata, ma la richiesta di copertura da parte dei vertici delle comunità belghe a società private specializzate proprio nel settore sicurezza è un campanello d'allarme di tutto rispetto.
  In Israele gli osservatori non escludono che il togliere la protezione alle istituzioni ebraiche sia un segnale, di fatto un ricatto, a Israele in vista dell'annessione di parte della Cisgiordania come previsto dal piano di pace del Presidente Trump. Una sorta di ricatto non scritto e non palese, ma non per questo meno minaccioso, che mette in pericolo famiglie e anche minori che potrebbero rimanere coinvolti, come già lo sono stati in passato. Un ricatto che potrebbe estendersi al resto d'Europa o a parte di essa, mettendo altre comunità ebraiche più in pericolo di quanto già non lo siano. Un ricatto che potrebbe colpire ancora più a fondo la parte debole dell'ebraismo europeo trattandolo da ostaggio, e se questa valutazione dovesse poi risultare giusta le conseguenze, sia politiche che di altro genere, potrebbero essere imprevedibili per il semplice motivo che Israele non si lascerebbe comunque condizionare perché la sua sicurezza è condizione assoluta e necessaria.
  Un ricatto che con ciò che sta succedendo in Francia dove gli atti antisemitismo stanno crescendo esponenzialmente, in Germania, in Olanda e in Norvegia dove i governi consigliano agli ebrei di non esporre in pubblico simboli religiosi, o in Svezia dove il sindaco di Malmö ha consigliato alla comunità ebraica locale di trasferirsi a Stoccolma perché non può più garantire la sicurezza delle istituzioni ebraiche cittadine, dovrebbe aumentare i decibel della sirena dall'allarme che da troppi anni è inascoltata, come è volutamente ignorato, sempre da troppi anni, che le comunità ebraiche europee, lentamente ma costantemente, si stanno assottigliando.
  Il vecchio continente sta perdendo la parte più importante dei suoi ebrei e non capisce quanto ciò sia pericoloso, eppure basterebbe leggere qualche libro di storia per capire la fine che hanno fatto le nazioni rimaste senza i loro ebrei con l'impoverimento in tutti i campi che ne è sempre seguito. Fatto sta, però, che le politiche europee vanno verso altre rotte e altri interessi, prova ne sono le decine di votazioni all'Onu e all'Unesco dove, a parte poche rare eccezioni, gli stati europei, inchinandosi al potere del petrolio e degli affari, hanno sempre votato, in blocco e senza vergogna alcuna, contro gli interessi degli ebrei e di Israele.
  Ora il Belgio, ed aspettiamo di capire chi lo seguirà nella stessa decisione o in una simile, lascia i suoi ebrei senza protezione alla vigilia delle festività ebraiche più importanti e ciò che scandalizza, oltre la decisione stessa, è che la notizia non ha avuto risonanza sui media europei. Ciò che scandalizza, è che per il momento non abbiamo ancora visto alcuna levata di scudi a questa assurda ma ragionata decisione.

(Nicola Porro, 26 maggio 2020)


Dove allignano davvero odio etnico e apartheid?

Convivenza e crogiolo culturale in Israele, ostracismo e rifiuto da parte palestinese

Nell'attimo di premere "play" sull'ultimo singolo di Amir Abu potreste averne un'impressione sbagliata. Con un titolo come Balagan ("Caos"), la prima cosa che viene in mente è un allegra pezzo pop mediorientale. Ma pochi secondi dopo si scopre che è la canzone di un artista che si definisce "sensibile": il "caos" di cui sta cantando è dentro il suo cuore.
Abu è un israeliano arabo musulmano di 26 anni che è nato e cresciuto a Beersheba e che ha frequentato scuole ebraiche per tutta la vita. La passione per la musica l'ha ereditata dal padre, suonatore di oud. Dopo essere apparso in un reality show musicale concluso dopo solo nove episodi, Abu ha registrato cover in arabo di canzoni ebraiche, fabbricandosi i suoi video musicali e mettendoli on-line. La sua ultima canzone, Balagan, intreccia le due lingue in cui ha vissuto tutta la sua vita: arabo ed ebraico. "Questa è la prima canzone - dice - che ho scritto insieme alla mia direttrice musicale, Nofar Makover, e ci siamo davvero noi due. E' incentrata sul caos dello spirito. Sensazioni di confusione"....

(israele.net, 27 maggio 2020)


In arrivo da Israele la terapia antivirus che rallenta il morbo

Individuata la proteina che attiva gli anticorpi nei pazienti. Lo Stato ebraico ha arginato la pandemia isolando gli anziani e ora prepara un siero per immunizzare la popolazione

di Alessandro Gonzato

Israele ha scoperto gli anticorpi che neutralizzano il Covid-19 e i ricercatori stanno ultimando un vaccino passivo che consentirà di indebolire drasticamente l'impatto del virus. Non si tratta ancora, quindi, di un immunizzante in grado di prevenire il contagio, bensì di una terapia messa a punto dopo che gli scienziati sono riusciti a isolare otto tipi diversi di anticorpi monoclonali neutralizzanti. «È un ottimo punto di partenza per una cura finalizzata a salvare molte vite» ha dichiarato il dicastero della Difesa, che il 5 maggio aveva anticipato la notizia. Il Jerusalem Post aveva dato conto della visita all'Israel Institute for Biological Research (IIBR) del ministro Naftali Bennet Il giorno prima il premier Benjamin Netanyahu aveva annunciato lo stanziamento di 60 milioni di dollari per la lotta internazionale alla pandemia. A inizio febbraio, inoltre - prima che il virus raggiungesse Israele - Netanyahu aveva incaricato il ministero della Salute e l'IIBR di lavorare alla creazione di un vaccino su vasta scala: «È possibile che anche su questo tema», aveva detto, «se procediamo abbastanza velocemente, con un budget adeguato e le persone di talento che abbiamo, Israele sarà in vantaggio rispetto al mondo». Di fatto, anche se per avere il primo vaccino immunizzante servirà ancora tempo, Israele in vantaggio lo è stato fin dall'inizio. La strategia di isolare il più possibile gli anziani e le persone malate, lasciando maggiore libertà al resto della popolazione, ha fatto sì che finora in tutta la nazione (8 milioni 300mila abitanti) i decessi legati al Covid-19 siano stati "appena" 280. La decisione è stata duramente criticata da una parte della stampa internazionale, ma ha evitato che il virus colpisse in massa le fasce più deboli. Ormai lo Stato viaggia a una decina scarsa di nuove infezioni al giorno. Al momento le persone contagiate sono 2.250, di cui meno di 50 considerate in condizioni preoccupanti.
  Va poi detto che la teoria del presidente del Consiglio nazionale per la Ricerca e lo Sviluppo, Isaac Ben- Israel, secondo il quale dopo 70 giorni il Coronavirus batterebbe in ritirata, sembrerebbe trovare riscontro a livello mondiale, anche se è presto per sbilanciarsi.

 Test super-rapido
  Ora, dicevamo, Israele è sul punto di avere una cura ufficiale ed efficace all'epidemia. I ricercatori sono riusciti a individuare le proteine che iniettate nell'organismo di un paziente affetto da Covid-19 svolgono la funzione di immunodepressori e permettono di rallentare il decorso della malattia, fino alla guarigione. Resta da capire se in seguito potranno verificarsi casi di recidiva e se sì dopo quanto tempo, insomma, quanto durerà la protezione garantita dagli anticorpi. Sennonché la battaglia di Israele contro il virus procede anche in altri settori. Sempre il Jerusalem Post ieri ha dato ampio spazio alla collaborazione tra la nazione e l'India per lo sviluppo di un test super-rapido in grado di rilevare la positività al Covid-19 in pochi minuti. «L'obiettivo» ha affermato Avigal Spira, portavoce dell'ambasciata israeliana a Nuova Delhi, «è di consentire alle persone di tornare il più velocemente possibile alla propria routine, dal momento che il virus continuerà a circolare ancora per qualche periodo».

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 Precauzioni
  Sulla riapertura delle frontiere però il governo sembra mantenere la linea prudenziale. Il sito di informazione in lingua ebraica Ynet riporta il parere di Shumerl Zakai, amministratore delegato dell'aeroporto di Tel Aviv "Ben Gurion", secondo il quale il numero di voli turistici rimarrà piuttosto limitato fino a metà luglio. «Allo stato attuale a partire da quella data potremmo avere decine di collegamenti. Forse entro metà settembre raggiungeremo mezzo milione di passeggeri. Finché non esiste un vaccino per il Coronavìrus», per Zakaì, «non ci saranno cambiamenti significativi». Nel frattempo però, questione di tempo, Israele grazie agli anticorpi neutralizzanti potrà assestare un altro duro colpo alla malattia

(Libero, 26 maggio 2020)


Ipotizzabile regressione estiva del Coronavirus

"Anche le nazioni che non hanno applicato il lockdown" per contenere l'epidemia di nuovo coronavirus "a un certo punto sembrano registrare un decremento di positivi sovrapponibile al nostro. Il che ci fa ipotizzare e sperare una regressione estiva, analogamente agli altri coronavirus e a tutti i virus respiratori". E' l'auspicio del virologo Giorgio Palù, intervistato da 'La Verità'. Rispetto ai suoi simili, Sars-CoV-2 è apparso comunque "molto più contagioso: gli altri virus hanno infettato solo 10mila persone - osserva il past president della Società europea di virologia - mentre con questo ormai siamo a 5 milioni. Ma non ha una letalità paragonabile agli altri, anche se oggi in Italia, in base ai tamponi fatti, dobbiamo ammettere una letalità superiore al 14%". Un dato non definitivo, precisa l'esperto, perché "il tasso di letalità vero lo avremo quando saranno pubblicati gli studi basati sui test sierologici. I dati cinesi ci dicono che circa l'80% di chi ha contratto il virus è asintomatico, ma aspettiamo di sapere anche i valori statunitensi ed europei, perché ormai tre quarti della pandemia è da noi".
   Quanto ai test sierologici per la ricerca degli anticorpi contro Covid-19, Palù dice no allo screening di massa: "Vanno fatti a strati per età, genere, occupazione e residenza su qualche decina di migliaia di persone". E i tamponi? "Il tampone è diventato un procedimento salvifico - risponde il virologo - ma ha una sensibilità del 60%. E adesso sta emergendo anche il caso dei falsi positivi. E' un elemento diagnostico che va studiato assieme alla sorveglianza sindromica, alla sierologia, all'isolamento del virus che nessuno fa perché non lo sanno fare".

(Adnkronos, 26 maggio 2020)


Israele e la cosiddetta "annessione": facciamo chiarezza

Un evento storico per lo Stato ebraico e chi cerca di esorcizzarlo

I segni premonitori ci sono tutti: un tentativo di imporre sanzioni da parte dell'Unione Europea (bloccato da "cattivi sovranisti" come l'Austria e l'Ungheria, ma la Francia dice che andrà avanti da sola); una manovra complessa per estendere la giurisdizione della Corte Penale Internazionale anche sullo stato di Israele che ne è esente non avendone firmato la convenzione istitutiva; una lettera minacciosa di diciotto senatori americani. Perfino una settantina di deputati italiani hanno firmato una dichiarazione (l'origine politica è molto significativa, Pd, Leu, 5 Stelle); il dittatore palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha cercato di fare più rumore possibile dichiarando (per l'ennesima volta, ma giura che questa è la volta buona) di interrompere ogni collaborazione con Israele e gli Usa, facendo eco al re di Giordania Abdallah. Una durissima offensiva politico-diplomatica e giuridica contro Israele è annunciata per le settimane che verranno.
  L'oggetto di questa campagna viene spesso definito "l'annessione" che Israele si proporrebbe di compiere su alcuni territori della cosiddetta Cisgiordania. Il termine è chiaramente sbagliato perché annessione significa "Atto mediante il quale uno Stato estende la propria sovranità sul territorio di un altro Stato o su parte di esso" (così il dizionario di Repubblica), "atto con cui uno stato amplia il proprio territorio estendendo la propria sovranità su quello di un altro stato" (Garzanti), ecc. e non c'è nessuno stato del cui territorio si vorrebbe impadronire. I territori della Giudea e Samaria su cui Israele intende estendere la sua
I territori della Giudea e Samaria non sono stati sottratti ad alcuno stato, perché prima erano occupati illegalmente e senza alcun riconoscimento internazionale dalla Giordania, che vi ha rinunciato col trattato di pace del 1994.
legge civile, circa il 20%, per lo più il deserto della valle del Giordano oltre ai blocchi di insediamenti, appartengono tutti alla "zona C" che gli Accordi di Oslo del 1993, firmati oltre che dall' "Organizzazione per la Liberazione della Palestina" anche dall'Unione Europea e dagli USA come testimoni, attribuiscono all'amministrazione israeliana, erano sotto il controllo israeliano già dal 1967, in seguito alla vittoria nella Guerra dei Sei Giorni contro l'aggressione degli eserciti arabi. Essi non sono stati però sottratti ad alcuno stato, perché prima erano occupati illegalmente e senza alcun riconoscimento internazionale dalla Giordania, che vi ha rinunciato del resto col trattato di pace del 1994. La Giordania li aveva occupati nel 1948 durante la guerra in cui con Egitto Siria e altri stati arabi cercò di impedire la nascita dello stato di Israele. Prima ancora Giudea e Samaria facevano parte del Mandato britannico di Palestina, istituito dalla Società delle Nazioni nel 1922 su tutto il territorio attuale di Israele e della Giordania, allo scopo esplicito di costituire una "national home" (una casa nazionale, cioè uno stato) per il popolo ebraico, con il compito preciso per la Gran Bretagna che lo amministrava di favorire l'immigrazione e l'insediamento ebraico. Prima ancora, dal XVI secolo, tutto il Levante era una colonia turca. Il territorio del Mandato subì subito una divisione in due regioni politiche, una parte per gli arabi che divenne poi il regno di Giordania a Est del Giordano e una per gli ebrei a Ovest. Coloro che parlano di due stati dovrebbero tener presente che i due stati ci sono già, da quasi cent'anni.
  Israele dunque non occupa nulla, non annette nulla, semplicemente abolisce il regime militare che ha retto finora i territori liberati nel '67 usando le leggi britanniche ed estende loro la legge civile israeliana, molto più garantista. Perché protestano allora non solo l'Autorità Palestinese, che coglie ogni occasione per cercare di mettere in difficoltà Israele, ma anche i democratici americani e quelli italiani e Macron e l'Irlanda e il Belgio (promotori della mozione europea contro Israele)? Vi sono due ragioni, una di principio e una più politica. Quella di principio è che tutti i "progressisti" in Europa e negli Usa, inclusi alcuni nel mondo ebraico, hanno deciso che i territori al di là delle linee armistiziali del 1948 (che non sono confini, per esplicita dichiarazione dei trattati di armistizio, ma solo linee di cessate il fuoco) devono andare allo
Lo stato di Palestina sovrano su Giudea e Samaria è un pio desiderio di molti movimenti e stati, ma ha la stessa realtà della Catalogna o della Padania di Bossi: progetti politici senza base legale.
"stato di Palestina". Non esiste nessuna base legale per questa pretesa, non solo perché l'Autorità Palestinese non è uno stato secondo i criteri internazionalmente riconosciuti , ma soprattutto perché nessuno ha mai ceduto al governo di Ramallah la sovranità su quei territori: non Israele, non l'Onu, che non ha l'autorità per farlo, non un qualche trattato. Lo stato di Palestina sovrano su Giudea e Samaria è un pio desiderio di molti movimenti e stati, ma ha la stessa realtà della Catalogna o della Padania di Bossi: progetti politici senza base legale. Certo, è bello per soggetti ex coloniali come la Francia o il Belgio sentirsi titolati a decidere come debbano essere i confini di stati che sono fuori dalla loro portata, fa sentire di nuovo la grandeur… ma da questo gioco del Risiko allo stabilire principi legali ce ne passa.
  Poi c'è una ragione più politica. Per imperialisti e multilateralisti (che oggi paradossalmente sono quasi la stessa cosa), l'esistenza di negoziati, magari pomposamente intitolati "processi di pace" è molto rassicurante, sostituisce la pace vera con un'infinita trama di incontri, discorsi, chiacchiere progetti. Così, dato che fra Israele e Autorità Palestinese la pace non c'è e non è prevedibile, avere una "base di trattativa" sembra fondamentale. E una volta che - ahimè con la complicità di Peres e anche di Rabin - a Oslo si sono trasformati i terroristi in "legittimi rappresentanti del popolo palestinese", per mantenere questa "base" bisogna accordare loro in linea di principio quel che vogliono come base di partenza per iniziare a parlare e cioè tutta la Giudea e Samaria. Che questo non basti l'hanno sperimentato per ultimi Olmert e Barak, con la testimonianza di Clinton e di Bush jr. Perché questa concessione è solo la partenza per ottenere l'obiettivo vero, che è la distruzione di Israele, come i palestinisti e i loro protettori iraniani apertamente dichiarano. Ma ai "progressisti" questo non importa, anche perché si tratta della vita di Israele e degli ebrei, non della loro. Dunque non lasciare intatta e impregiudicata la sovranità di Giudea e Samaria è un crimine contro i "due stati" e contro la trattativa.
  Trump, che è un realista, molto più intelligente dei piccoli giornalisti e dei minuscoli politici che lo sfottono, ha capito che la strada della pace non passa per il mantenimento di questa "base della trattativa" e ha proposto una soluzione diversa, su cui certamente si può discutere, ma che ha una sua logica. Di
La dichiarazione di sovranità di Israele non solo mette in maggiore sicurezza lo stato ebraico ma potrebbe aprire una fase nuova al di là delle sterili liturgie di trattativa che si ripetono da trent'anni.
essa fa parte la possibilità per Israele di applicare la sua sovranità sulle zone di Giudea e Samaria essenziali per la sua sicurezza. Se i palestinisti vorranno cercare di ottenere la loro parte dell'accordo non potranno più stare fermi e rifiutare di discutere con Israele e con l'America. Dovranno muoversi, fare controproposte e non tirate retoriche. Insomma la dichiarazione di sovranità di Israele (questa è l'espressione giusta, non "annessione") non solo mette in maggiore sicurezza lo stato ebraico ma potrebbe (ripeto: potrebbe) aprire una fase nuova al di là delle sterili liturgie di trattativa che si ripetono da trent'anni e aprire una strada che porti davvero alla necessità della pace.
  Vedremo se questo avverrà. Per ora c'è il fatto che Netanyahu ha ottenuto come condizione per la formazione del nuovo governo la possibilità di decidere, d'accordo con gli Usa, la sovranità su zone di Giudea e Samaria. E' l'aspetto più positivo dell'accordo di governo, forse il solo davvero positivo. Certamente una tappa storica nel rapporto fra gli ebrei e la loro terra. Per questo gli antisemiti e i loro amici si agitano. Nelle prossime settimane ne vedremo delle belle.

(Progetto Dreyfus, 25 maggio 2020)


Le virtù del compromesso che la nakba avrebbe dovuto insegnare

I palestinesi non si limitano a rievocare la "catastrofe" della guerra persa contro la nascita di Israele: rifiutando di negoziare, continuano a tirarsi addosso altri fallimenti.

Gli arabi palestinesi continuano a imparare la lezione sbagliata dalla storia. Ogni anno, il 15 maggio, rievocano il dolore del 1948 ricordando tutte le cose terribili che gli sono capitate in seguito alla creazione del moderno stato d'Israele. La loro versione, che narra di un popolo martirizzato, cacciato dalla sua casa e ridotto a vittima senza patria, è assai più che una affermazione politica: è una fede, che fa parte integrante della loro identità. Il solenne voto rinnovato ogni anno di "ritornare" a tutto ciò che hanno perduto 72 anni fa - in pratica, di far girare all'indietro la ruota della storia - è così profondamente radicato nella loro coscienza da mettere qualunque loro dirigente nell'impossibilità di prendere in considerazione l'idea di rinunciarvi formalmente....

(israele.net, 26 maggio 2020)


La Comunità Ebraica di Napoli sostiene il progetto della Macroregione Mediterranea

di Paolo Pantani

"La Comunità Ebraica di Napoli condivide le finalità che l'Unione Europea ha posto come basi fondanti della strategia politico-culturale della Macroregione Mediterranea, e condivide anche il senso di "Identità Mediterranea" che, per quanto la riguarda, rappresenta certamente un aspetto che storicamente ha contribuito alla formazione di quella che è la specifica Identità di Ebrei della Diaspora Mediterranea. La Comunità Ebraica di Napoli inoltre, apprezza e condivide l'azione civile dell'EUSMED e del Coordinamento Operativo della Macroregione Mediterranea che, con la sua opera di diffusione dei valori euro-mediterranei e, attraverso il coinvolgimento attivo di Enti e Persone, con un'opera a partenza "dal basso", tende, con metodo democratico e civile al finale coinvolgimento del Governo Europeo per la indispensabile attuazione anche di quest'ultima macroregione non ancora realizzata. La Comunità Ebraica di Napoli, chiedendo di continuare ad essere informata sugli sviluppi dell'azione dell'EUSMED, spera di poter essere utile, una volta realizzata la Macroregione Mediterranea, come "anello di congiunzione locale" con lo Stato di Israele e con le consorelle Comunità Ebraiche del Bacino del Mediterraneo. Auspichiamo al più presto il riconoscimento da parte del Consiglio d' Europa di questa importante procedura innovativa di coesione territoriale e di partenariato euro-mediterraneo." E' il contenuto della significativa Manifestazione di Interesse inviata il 22 Maggio 2020 dalla Comunità Ebraica di Napoli alla EUSMED Macroregione Mediterranea (European Strategy for Mediterranean Macroregion) che tramite il coordinatore Paolo Pantani ha assicurato l'impegno a tenere informati su tutte le iniziative programmate e messe in atto auspicando la collaborazione della Comunità Ebraica di Napoli ai fini di un'adesione dello Stato di Israele all'EUSMED Macroregione Mediterranea.
   "Secondo il pensiero di Abraham B. Yehoshua: L'identità mediterranea è un'identità meravigliosa: antica e moderna. Nel bacino del Mediterraneo, sorsero e prosperarono grandi civiltà come quella cristiana, ebraica, musulmana e, naturalmente, greca e romana. Civiltà che sono il grande fondamento della cultura mondiale. È inconcepibile che gli ebrei, che furono a lungo ospiti in terre musulmane e cristiane, non debbano dare un contributo decisivo all'identità mediterranea per mezzo della loro storica identità israeliana, che risale a 3mila anni fa. Questo è il debito che gli israeliani hanno con il Mediterraneo, un luogo in cui, dopo le fatiche delle incessanti peregrinazioni, vogliono rimanere come cittadini permanenti".
   La Macroregione Mediterranea EUSMED, nata sulla base di specifici strumenti Comunitari previsti dalla strategia politico-culturale comunitaria approvata dalla Comunità Europea nel 2007, parte integrante del Trattato di Riforma di Lisbona, con lo scopo di favorire pacifici processi di interscambio tra cittadini dell'Unione Europea e cittadini viventi al di fuori dell'Unione Europea ma in aree confinanti, con simili caratteristiche identitarie, e filiere economiche complementari, è stata ufficialmente riconosciuta al fine di realizzare la Macroregione Mediterranea, con decreto n° 09/2018 del Difensore Civico presso la Regione Campania pubblicato sul BURC n° 89 del 29 novembre 2018 . Il Coordinamento Operativo dell'EUSMED, ha deciso di fondare il suo percorso operativo finalizzato all'obiettivo della realizzazione della Macroregione Mediterranea, mediante una capillare opera di informazione e raccolta di consenso, con una azione bottom-up, rivolta ai soggetti della Società Civile, nonché ad Enti Locali quali la Associazione dei Comuni e delle regioni d'Europa A.I.C.C.R.E., la Regione Campania, e Organizzazioni Sindacali e dei Diritti dei Lavoratori, nazionali ed sovra-nazionali , quale la UIL Nazionale.

(Il Denaro, 26 maggio 2020)

"...
ai fini di un'adesione dello Stato di Israele all'EUSMED Macroregione Mediterranea." Che ne pensa Israele?


Erdogan in difficoltà si inventa un nuovo golpe in Turchia. Epurazioni in vista?

Da diverse settimane politici e giornali turchi vicini al regime fanno trapelare notizie della possibilità di un nuovo golpe in Turchia.
«La minaccia permane» ha detto Ersin Ramoglu, editorialista del quotidiano filo-governativo Sabah. «I nemici della Turchia sono ovunque, nell'esercito, nella stampa, nella polizia, nella burocrazia, nei comuni e in politica».
A quasi quattro anni dallo "strano golpe"che ha permesso a Erdogan di epurare praticamente tutta la Turchia dai suoi nemici e di ottenere poteri inimmaginabili prima del "golpetto", si torna a ventilare la possibilità che qualcuno trami alle spalle del dittatore turco.
All'inizio di questo mese, Erdogan ha accusato il Partito popolare repubblicano (CHP) - fondato da Ataturk e ora il più grande partito di opposizione - di «bramare per un colpo di stato».
Gli hanno fatto eco diversi importanti personaggi del suo partito, l'AKP, i quali sostengono che «i secolaristi hanno ripreso vigore e intendono fermare con ogni mezzo il processo di islamizzazione iniziato da Erdogan».
Non mancano giornalisti e scrittori pro-regime che addirittura arrivano a fare liste di proscrizione dedicate principalmente all'opposizione o a giornalisti che invece non sostengono Erdogan.
«Con l'attuale governo, ogni figura dell'opposizione che esprime la necessità di un cambiamento è accusata di tramare un colpo di stato» ha detto Murat Emir, deputato del CHP di Ankara.
L'opposizione teme che tutto questo "vociferare" di colpo di stato altro non sia che un mezzo per mettere sotto silenzio gli oppositori e gli avversari politici, oltre che un disperato tentativo di distrarre la popolazione da una gestione scellerata dell'economia e della crisi scatenata dal Coronavirus.
In particolare Erdogan sembra essere molto disturbato dagli ottimi programmi di aiuto economico e sanitario messi in piedi nelle due maggiori città perse alle ultime elezioni comunali, Ankara e Istanbul.
In queste città la gestione del Partito popolare repubblicano (CHP) sta ottenendo una enorme approvazione da parte della popolazione, così come in altre città e comuni gestiti dalla opposizione, tanto che la settimana scorsa Erdogan ha detto di «temere che questi sindaci tentino di creare uno Stato parallelo».
«Le speculazioni di Erdogan su un potenziale colpo di stato sono uno stratagemma conveniente per distogliere l'attenzione del pubblico dalla crisi economica e dalla cattiva gestione finanziaria in patria», ha dichiarato Aykan Erdemir, direttore senior del Foundation for Defence of Democracies' Turkey Programme. «Spero solo che non sia l'anticamera per nuove violente epurazioni» ha concluso Erdemir.

(Rights Reporters, 26 maggio 2020)


"Da polizia e procura un golpe contro di me"

Il premier israeliano a processo per corruzione, frode e abuso di fiducia. Gantz, alleato di governo: "Lo considero innocente fino a prova contraria.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Dopo altre tre anni di indagini che hanno pesato come una spada di Damocle sulle altrettante campagne elettorali dell'ultimo anno e mezzo, ieri Benjamin Netanyahu ha registrato un nuovo record: il premier israeliano più longevo, al suo quinto governo, è ora anche il primo premier in carica della storia del Paese ad affrontare un processo. «Lo Stato d'Israele contro Benjamin Netanyahu» si è pronunciato nel corso della prima udienza presso la Corte distrettuale di Gerusalemme, dove Netanyahu, insieme ad altri tre imputati, inizia ora una lunga battaglia legale che lo vede affrontare accuse di abuso di fiducia, frode e corruzione.
   Dopo avere aperto la prima riunione del neonato gabinetto, Netanyahu ha raggiunto il tribunale, acclamato da una grande folla di sostenitori, mentre centinaia di manifestanti dell'opposizione protestavano di fronte alla sua residenza. Prima di accedere all'aula 317, Netanyahu ha tenuto un discorso di 15 minuti, circondato dai suoi più fedeli ministri, in cui ha attaccato duramente la procura che «insieme ai media di sinistra, quelli del `tutto tranne Bibi', ha montato ad arte accuse inverosimili per cercare di sconfiggere un primo ministro di destra. Da polizia e procuratore un golpe contro di me». Ha chiesto che il processo fosse trasmesso in diretta - richiesta respinta già in precedenza dalla corte «per garantire la trasparenza, senza censure», menzionando l'inchiesta trasmessa giovedì sera dal Canale 13 sul processo, che ha suscitato clamore per le interviste a diversi testimoni chiave dell'accusa e che ha costretto la corte a ribadire la necessità di mettere un freno alle fughe di notizie. Benny Gantz, l'alleato di governo, esprime fiducia nei sistema giudiziario e dichiara che «il premier è innocente fino a prova contraria». La prossima udienza è fissata per luglio e la corte - a differenza di quanto accaduto per l'udienza di ieri in cui aveva respinto la richiesta di Netanyahu di non presenziare in aula - ha chiarito che per tutta la fase delle discussioni preliminari, che durerà almeno altri sei mesi, gli imputanti sono esonerati. Con oltre 300 testimoni da ascoltare, si parla di almeno due anni di processo, al netto dei ricorsi. Sono in discussione tre vicende: nel caso 1000, Netanyahu è accusato di aver ottenuto doni per un valore di circa 200.000 dollari da due miliardari in cambio di favori; nel caso 2000 di aver avviato con l'editore del principale quotidiano Israeliano, Yediot Ahronot, una trattativa - poi non andata in porto - per ottenere copertura mediatica positiva in cambio di una legge che avrebbe svantaggiato il principale concorrente, Israel Hayom, giornale fllogovernativo distribuito gratuitamente; nel caso 4000, il più grave in quanto include l'accusa di corruzione, Netanyahu avrebbe negoziato con Shaul Elovich, allora azionista di maggioranza del gigante delle telecomunicazioni Bezeq, copertura positiva sul sito di informazione Walla!, in cambio di politiche favorevoli all'azienda. Fuori dall'aula, il decennale dibattito pubblico sull'attivismo giudiziario ha raggiunto toni senza precedenti, tra i fedeli di Netanyahu che parlano di uso politico della giustizia e chi solleva la questione del conflitto di interessi di un premier sotto processo nel valutare eventuali riforme in materia giuridica. «Non ci sarà nulla, perché non c'è nulla» è la celebre frase con cui Netanyahu rivendica la sua innocenza, ripresa dal media come emblema della sua sfida al sistema. Ieri è iniziata la resa dei conti.

(Corriere della Sera, 25 maggio 2020)


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Netanyahu alla sbarra tra proteste e sospetti. E lui: «Un colpo di Stato»

Il premier contestato: «Sono perseguitato da un'élite». Il processo potrebbe durare anni.

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Infuriato e a testa alta, mentre Gerusalemme prendeva fuoco con manifestazioni, urla, cartelli pro e contro, quando Benjamin Netanyahu si è presentato alle tre del pomeriggio al tribunale come imputato, si è tolto la mascherina, si è posto di fronte al microfono circondato dai suoi ministri (tutti con le mascherine) e ha sparato: «Lo scopo di questo processo è fare quello che con le elezioni, che da 11 anni mi danno democraticamente ragione, non sono mai riusciti a fare: eliminare un primo ministro forte e il suo governo di destra. Pensavano che mi sarei piegato, che mi sarei accucciato come un cucciolo impaurito, ma io non sono un cucciolo. E questo processo, pieno di impicci e falsificazioni, dovrete trasmetterlo tutto in diretta, da capo a fondo, perché la verità sia ristabilita». No, non è un cucciolo, anzi un «poodle», un barboncino, come ha detto. E' il Primo ministro che ha battuto con 11 anni di florido potere persino Ben Gurion; che arriva al processo dopo avere guidato il Paese fuori dalla pandemia; che è riuscito ad arrivare al processo da premier di una impossibile coalizione a rotazione. L'accusa formale del procuratore generale è del 21 novembre, il 28 gennaio l'accusa è stata formalizzata, e le tre elezioni (col Likud sempre in crescita nonostante le accuse), il coronavirus e le trattative di governo hanno allungato i tempi.
   Netanyahu ieri ha sostenuto che un gruppo elitario e compatto di politici, giornalisti, giudici ne ha decretato la persecuzione, e che per questo il Paese ha sofferto inganni, false testimonianze, prove fasulle e forzate, invenzioni giuridiche inesistenti. Le tre imputazioni, tutte incerte e pericolanti, richiedono per il dibattimento una massa di carte e di testimoni per cui, dopo questa prima seduta di pure formalità, i tre giudici, il procuratore Mandelblit, la pubblica ministera Liat Ben Ari si preparano a un processo lunghissimo. Non si porrà probabilmente, quindi, il problema di gestione del governo fino alla rotazione con Benny Gantz fra 18 mesi. Ma in realtà lascia senza fiato che un Primo ministro della stazza di Netanyahu sia stato trascinato fino nel banco degli imputati senza nessuna accusa di aver intascato denaro (come invece fu il caso di Ehud Olmert). Tre sono i casi in questione: il numero 2000 e il 4000 concernono tentativi di convincere i proprietari del quotidiano Yediot Aharonot e quello del sito Walla a dare a Bibi una copertura più favorevole. Ma non è successo, e mai Yediot ha abbassato i toni. Quanto a Walla (procedimento 4000) il padrone Shaul Elovitch (accusato di corruzione con Bibi) avrebbe ricevuto facilitazioni statali per una fusione con la grande compagnia Bezek in cambio di articoli positivi. Qui l'accusa è la più forte, ma sembra che Walla non abbia mai cambiato tono, e soprattutto che la fusione fosse stata decisa da una apposita commissione prima che arrivasse nelle mani del pm.
   Infine il caso 1000 (abuso di fiducia) riguarda i regali di sigari e champagne per 25mila euro l'anno per 20 anni: lusso eccessivo, ma lo scambio non si trova, a meno che non si consideri tale una telefonata all'ambasciata americana per far concedere il visto a Milchan. Il famoso avvocato americano Alan Dershowitz ha esaminato a fondo la cartella, e ha dedotto che si tratta di accuse pericolose per lo stessa sistema democratico, perché inducono sfiducia nel pubblico per la loro fragilità. La tempesta è appena cominciata: Netanyahu adesso, come volevano i suoi nemici, è sotto processo. Ma la sua forza, dopo che ha creato un Paese moderno, ben difeso, pacifico, è grande. Non la si uccide con un processo sfrangiato.

(il Giornale, 25 maggio 2020)


Perché né l'Italia né il resto del mondo hanno diritto a contestare Israele

di Maurizia De Groot Vos

Con una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, 70 parlamentari di centrosinistra e del M5S hanno chiesto il Governo Italiano di condannare quello israeliano per le prospettive di annessione della Valle del Giordano e di alcuni insediamenti in Giudea e Samaria, comunemente conosciute come "Cisgiordania".
  Per lo stesso motivo condanne e minacce a vario titolo sono arrivare anche dalle Nazioni Unite e dall'Unione Europea.
  Che l'ONU e l'Unione Europea abbiano da sempre una posizione anti-israeliana non è certo una novità, come non è una novità che la sinistra italiana e il M5S abbiano al loro interno una forte componente anti-sionista che nel corso degli anni ha preso sempre posizioni marcatamente anti-israeliane.
  Quindi parrebbe tutto nella norma. E invece no. Questa volta è diverso perché questa volta più che in ogni altra occasione in gioco c'è la sopravvivenza di Israele.
  In particolare l'annessione della Valle del Giordano non può più essere rinviata, non fosse altro che per stabilire confini sicuri e ben definiti per lo Stato Ebraico.
  Sicurezza di Israele, una frase che né all'ONU né alla UE sembrano minimamente considerare, come si evince dal fatto che le gravissime minacce rivolte allo Stato Ebraico dell'Ayatollah Khamenei non siano state condannate o, se lo sono state, sono state condannate con una certa superficialità mentre si è trattato di un atto gravissimo.
  Ma non è nemmeno questo il punto vero per il quale ONU, UE e Italia non hanno il Diritto di contestare la legittima decisione israeliana.
  Per decenni hanno tollerato la politica palestinese, una politica mai basata su programmi di pace o su colloqui con Israele, una politica mai pensata per la tanto declamata "soluzione a due Stati", una politica che anzi, è stata totalmente basata sull'odio anti-israeliano con le famiglie degli attentatori che venivano pagate dallo Stato Palestinese per aver ucciso cittadini israeliani e persino per aver tentato di farlo.
  Non hanno mai condannato le tantissime incitazioni all'odio da parte dei palestinesi, non hanno mai condannato gli attacchi di Hamas contro il sud di Israele, non hanno mai condannato i pagamenti alle famiglie dei terroristi, l'acquisto di armi in luogo di beni per la popolazione. Non hanno mai condannato il furto sistematico di denaro della comunità internazionale che in questi anni ha gonfiato i conti correnti dei boss palestinesi a discapito della costruzione di infrastrutture nella cosiddetta "Palestina".
  In oltre 70 anni i palestinesi non hanno mai cambiato la loro politica d'odio verso lo Stato Ebraico, non hanno mai accettato l'idea di vivere in pace e accanto a Israele. Al contrario, hanno sempre professato, esplicitamente o meno, la distruzione di Israele.
  E se i palestinesi per tutto questo tempo hanno potuto continuare a ricevere denaro pur portando avanti una politica del genere, lo si deve proprio alla assurda accondiscendenza di ONU e Unione Europea e di Stati "permissivi e indecisi su dove stare" come l'Italia.
  Ora queste importanti istituzioni internazionali e questi Stati permissivi (verso i palestinesi) vorrebbero criticare Israele perché, con attenzione alla propria sicurezza, vuole annettersi la Valle del Giordano e alcuni insediamenti ebraici.
  Beh, non ne hanno alcun Diritto. Non dopo che per oltre 70 anni hanno chiuso sistematicamente gli occhi di fronte alle gravissime malefatte palestinesi, ai furti di denaro, al pagamento statale dei terroristi, agli attacchi armati, alla politica dell'odio ecc. ecc.
  Non possono far finta di non comprendere i motivi di sicurezza (persino esistenziali) che spingono Israele a regolarizzare l'annessione della Valle del Giordano.
  Ed è una vera vergogna che parlamentari della Repubblica Italiana, responsabili di anni di silenzio sulle malefatte palestinesi, si adoperino per proteggere chi si è arricchito con miliardi di dollari della comunità internazionale, impoverendo nel contempo il popolo palestinese. I veri anti-palestinesi sono loro.

(Rights Reporters, 25 maggio 2020)


Un nuovo ministro del turismo per Israele

 
Asaf Zamir, nuovo Ministro del Turismo israeliano
Si è insediato in Israele il nuovo Ministro del Turismo Asaf Zamir, che ha preso il posto dell'uscente Yariv Levin. Durante la cerimonia di inaugurazione, il Ministro Asaf Zamir ha dichiarato: "Abbiamo diversi temi da affrontare. Dobbiamo ricostruire l'industria turistica, riaprire il prima possibile gli hotel, le attrazioni e tutto ciò che supporta il turismo, come ristoranti, locali e bar, per far ripartire le attività. Bisogna incoraggiare il turismo domestico, riaprire i cieli e minimizzare i danni, così che il settore possa tornare a crescere. Una volta compiuta questa importante missione, torneremo a realizzare il grande potenziale di questo Paese, da Eilat fino al Nord, da Nazareth a Tel Aviv, Gerusalemme e al Mar Morto. Abbiamo le capacità per uscire dalla crisi".
   Il Direttore Generale del Ministero del Turismo Amir Halevi ha dichiarato: "Vorrei ringraziare il Ministro uscente Yariv Levin per la leadership, la professionalità, il coraggio, la saggezza e la collaborazione, grazie alle quali siamo riusciti a portare il settore del turismo verso grandi successi e numeri da record anno dopo anno. Al nuovo Ministro del Turismo Assaf Zamir dico: la prima sfida che ti attende è far ripartire i flussi turistici, sia nel turismo domestico che in quello internazionale. Dovrai fare in modo che gli israeliani tornino a viaggiare per il mondo e che i turisti tornino in Israele. Abbiamo davanti a noi sfide e decisioni che riguardano direttamente tutti coloro che lavorano nel settore turistico e che per noi sono molto importanti. Dovremo permettere a tutti di ripartire il prima possibile. Spero che tu possa trascorrere degli anni importanti alla guida di questo Ministero e che possa lasciare il segno in questo settore. Tutta la squadra, me compreso, sono a tua disposizione e siamo sicuri che insieme riusciremo ad affrontare le grandi sfide che ci aspettano".

(Turismo & Attualità, 25 maggio 2020)


Intesa lancia le start up sull'asse Italia-Israele. «Acceleriamo le migliori società tecnologiche»

Successo per l'lsrael-Italy Acceleration Program ed EcoMotion 2020 che si è svolto in modo virtuale. Focus su health tech, smart mobility e clean tech. De Vecchi: "Israele, oltre a essere uno dei più importanti provider di tecnologie innovative per il nostro gruppo, è l'esempio più concreto di ecosistema innovativo di successo".

Guldo De Vecchi
«Supportare le migliori realtà tecnologiche italiane attraverso programmi internazionali fa parte della nostra missione».
L'ambasciatore Benedetti
«Grandi aspettative per la seconda edizione con una più ampia partecipazione del sistema Paese e budget raddoppiato».

di Achille Perego

MILANO - Il Coronavirus non ha fermato la crescita delle start up innovative sull'asse Italia-Israele. Si sono infatti conclusi con successo l'Israel-Italy Acceleration Program e il virtual event EcoMotion 2020. L'Israel Italy Acceleration - per cui è già previsto un secondo bando - è il primo programma di accelerazione per startup italiane in Israele lanciato dalla nostra Ambasciata a Tel Aviv e da Intesa Sanpaolo Innovation Center, la società del primo gruppo bancario italiano, presieduta da Maurizio Montagnese e diretta da Guido de Vecchi.
   Il programma ha visto la partecipazione di sette startup che, nel pieno rispetto dei parametri di sicurezza dovuti al diffondersi del Covid-19, hanno potuto seguire in loco o, per un breve periodo, a distanza un percorso formativo e di crescita all'Eilat HighTech Center, l'acceleratore patrocinato dal gruppo israelo-americano Arieli Capitai che gestisce programmi di innovazione per università, centri di ricerca, istituzioni governative e grandi imprese. Nata nell'ambito delle attività previste dall'accordo italo-israeliano di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica, questa iniziativa ha come obiettivo quello di sviluppare nuove idee d'impresa in uno degli ecosistemi dell'innovazione più all'avanguardia a livello mondiale. Israele infatti è al primo posto per startup procapite e per la creazione di brevetti, con una percentuale sul Pii investito in ricerca e sviluppo pari al 4,1%. Le domande di partecipazione sono state complessivamente 40 e il Comitato di valutazione ha selezionato le migliori realtà attive nei settori health tech, smart mobility e clean tech.
   Il Comitato ha coinvolto, oltre al Chief Scientist dell' Ambasciata d'Italia in Israele, Stefano Ventura, e a Dani Schaumann di Intesa Sanpaolo Innovation Center, Danny Biran, ex vice presidente della Israel Innovation Authority, Jeremie Kletzkine di Startup Nation Central e Dan Fishel di OurCrowd. Al programma hanno avuto accesso sette start up finaliste: per l'health tech BionIT Labs, SyDiag, Materias ed Elysium. Per la smart mobility Isaac e Djungle e per la Clean tech Nanomia.
   La crisi internazionale legata al Coronavirus ha costretto le startup a un rientro anticipato in Italia ma la grande professionalità e il costante impegno di tutti i partner coinvolti hanno comunque garantito il completamento del programma, che per la crescita dei giovani imprenditori italiani ha visto l'organizzazione di oltre 250 meeting b2b, 100 connessioni con grandi aziende a livello globali e oltre 30 sessioni one-toone con investitori internazionali. La prima edizione del programma Accelerate in Israele si è appena conclusa con pieno successo - ha sottolineato l'Ambasciatore italiano in Israele, Gianluigi Benedetti -. Per le nostre sette start-up si sono aperte significative opportunità di business, offerte di partnership e per qualcuna anche un round di investimento. Si è trattato di un'occasione unica per immergersi completamente nell'eccezionale ecosistema dell'innovazione israeliano e per affinare le idee progettuali e le soluzioni tecnologiche in un costante, serrato confronto con esperti, investitori e imprenditori israeliani e internazionali. L'Ambasciata che ha lanciato l'anno scorso questa iniziativa convinta delle potenzialità che la complementarietà dei sistemi economici italiano e israeliano ancora offre, guarda con maggiori aspettative alla seconda edizione del programma che verrà pubblicizzata fra pochissimi giorni con una più ampia partecipazione del sistema Paese e un budget raddoppiato».
   «Supportare la crescita delle migliori realtà tecnologiche italiane anche attraverso programmi di accelerazione internazionale è parte della mission di Intesa Sanpaolo Innovation Center - ha commentato Guido de Vecchi, dg di Intesa Sanpaolo Innovation Center -. E Israele, oltre a essere uno dei più importanti provider di tecnologie innovative per il nostro gruppo, è l'esempio più concreto di ecosistema innovativo di successo in cui centri di ricerca, incubatori, investitori e governo possono fornire un valido aiuto nella formazione e nella crescita delle startup più promettenti». «Siamo onorati di aver gestito questo primo programma per startup italiane in Israele - ha aggiunto Or Haviv, partner e responsabile delle piattaforme di innovazione globale di Arieli Capital e Ceo dell'Eilat Tech Center -. Nonostante la crisi da Coronavirus siamo riusciti a portare a termine il programma con collegamenti on line in remoto. Non vediamo l'ora di poter continuare questa connessione di successo fra gli ecosistemi di startup italiane e israeliane». Il successo ha riguardato anche l'EcoMotion 2020 Virtual Event, uno degli eventi più importanti al mondo per quanto riguarda la mobilità del futuro che coinvolge le maggiori realtà internazionali dell'automotive e dell'high tech.
   Quest'anno, a causa del virus, EcoMotion ha realizzato un Virtual Event a cui hanno partecipato in oltre 400, in rappresentanza di big corporate e di 150 startup internazionali. Intesa Sanpaolo Innovation Center, che da sempre partecipa all'iniziativa, ha accompagnato all'evento alcune delle più importanti realtà italiane che si occupano di mobilità, affiancandole a sette promettenti startup che sta seguendo nel percorso di crescita in collaborazione con Techstars, uno dei più importanti acceleratori internazionali: Parkofon, Automotus, Nickelytics, V2X, TUC, WeG!ad e Sentetic.

(Nazione-Carlino-Giorno, 25 maggio 2020)


Comunità ebraica di Roma. Distribuzione di pacchi alimentari per famiglie bisognose

di Giacomo Kahn

 
Pasta, olio, riso, passata di pomodoro, tonno, zucchero, torte, cioccolata, burro, frutta, oltre a prodotti per igiene personale e per la pulizia della casa. Di questi beni di prima necessità è stata composta la spesa alimentare che la Comunità ebraica di Roma, attraverso l'assessorato alle politiche del welfare e assessorato coordinamento volontari, ha distribuito oggi a centinaia di famiglie in stato di bisogno.
   Moltissimi volontari, aiutati dalla Deputazione, fin dalle prime ore della mattina presso il Tempio Beth Shalom, hanno prima provveduto ad allestire i pacchi alimentari e poi a distribuirli a decine e decine di persone ordinatamente in fila nel rispetto del distanziamento.
   Da quando è iniziata l'emergenza coronavirus, è questa la sesta distribuzione che organizza la Comunità Ebraica, a cui hanno oggi dato il loro aiuto anche Alberto Ouazana (assessore al welfare), l'assessorato alle attività di Ghemilut Chasadim e volontariato e il consigliere Giorgio Heller.
"Purtroppo - ha spiegato Ouazana - il Covid ha messo a terra tantissime famiglie e la povertà ha colpito purtroppo una parte del ceto medio che fatica anche a fare la spesa quotidiana. Oltre a circa 250 famiglie che sono stabilmente aiutate dalla Deputazione, abbiamo avuto altre 250 famiglie che il lockdown ha privato di ogni entrata economica".
   Solo oggi si è provveduto a preparare e a distribuire quasi mille pacchi alimentari "per un valore della merce - prosegue Ouazana - vicina a 100.000 euro. Soldi che siamo riusciti a raccogliere sia grazie a tanti sostenitori privati, sia grazie alla generosità di tante aziende di settore. Un grazie quindi a tutti quelli che ci consentono di aiutare chi ha veramente bisogno, ed un grazie che va esteso a decine e decine di volontari che oggi, ma anche nelle settimane passate, ci hanno consentito di effettuare più di 750 consegne a domicilio a persone impossibilitate ad uscire, perché malate, anziane o affette da patologie invalidanti. Infine un ringraziamento va dato all'Associazione 'Da Lev el Lev' che ha raccolto il contributo di centinaia di israeliani che generosamente hanno deciso di aiutare gli ebrei italiani in difficoltà".

(Shalom, 24 maggio 2020)


Addio a Saturn, l'alligatore "di Hitler" sopravvissuto alle bombe della Seconda Guerra Mondiale

E morto Saturn, l'alligatore sopravvissuto alle bombe della Seconda Guerra Mondiale

di Fulvio Cerutti

Saturn
Saturn è morto a 84 anni. Età a parte, la vita di questo alligatore del Mississipi non si può dire che non sia stata avventurosa: sopravvissuto alle bombe della seconda guerra mondiale a Berlino e, dice la leggenda, appartenuto al leader nazista Adolf Hitler, si è spento nello zoo di Mosca dove ha vissuto dal 1946.
   La sua storia, almeno quella conosciuta, inizia nel 1936 quando venne donato allo zoo di Berlino dopo essere nato negli Stati Uniti. Nel novembre 1943 la città tedesca venne pesantemente bombardata dagli Alleati. In particolare nella notte fra il 22 e 23 di quel mese, gli ordigni danneggiarono pesantemente le aree a ovest del centro, incluso il distretto di Tiergarten, proprio dove c'era lo zoo. Un rapporto dell'epoca racconta che quattro coccodrilli vennero uccisi scagliati in strada dalla potenza delle esplosioni. Ma non Saturn che riuscì a sopravvivere e a fuggire. Per tre anni visse fra le rovine della città fin quando venne trovato dai soldati britannici che lo consegnarono ai militari sovietici e finì per essere portato nello zoo di Mosca. Lì è vissuto per altri 74 anni, raggiungendo così la ragguardevole età di 84 anni: almeno una trentina in più rispetto a quanto mediamente vivono gli esemplari in natura. Forse addirittura il più vecchio al mondo, anche se è impossibile dirlo: nello zoo di Belgrado in Serbia vive un altro alligatore maschio, Muja, che attualmente ha 80 anni e potrebbe superarlo.
   Di certo Saturn può vantare tanti racconti e leggende che gli sono stati attribuiti: «Appena arrivato a Mosca - racconta l'agenzia stampa Interfax - si è diffuso il mito che Saturn non provenisse dallo zoo di Berlino ma che appartenesse a una collezione privata del leader nazista Adolf Hitler». Una voce mai confermata e respinta dallo zoo moscovita secondo il quale gli animali «non appartengono alla politica e non devono essere ritenuti responsabili dei peccati umani».
   Altri miti raccontano che quando venne costruito nel 1990 un nuovo acquario, Saturn si rifiutò di mangiare cibo per 4 mesi quasi non volesse abbandonare la sua vecchia casa. E si dice anche che nel 1993, quando dei carri armati si spostarono lungo la tangenziale, Saturn pianse a causa della vibrazioni, ma che in realtà quelle lacrime fossero dovute al ricordo della battaglia di Berlino. Insomma un animale circondato da racconti davvero curiosi.
   «E' una grande gioia che ognuno di noi abbia potuto guardarlo negli occhi - raccontano dallo zoo moscovita - , stargli vicino in silenzio. Ha visto crescere molti di noi. Speriamo di non averlo deluso».

(La Stampa, 24 maggio 2020)


Via al processo Bibi «costretto» ad andare in aula

di Davide Frattini

Arriverà in tribunale accompagnato dalle guardie del corpo. Fino a pochi giorni fa i suoi avvocati hanno cercato di convincere i giudici che le misure di sicurezza sarebbero costate troppo, che bastavano loro per ascoltare l'elenco delle accuse di corruzione, frode, abuso d'ufficio contro Benjamin Netanyahu, le stesse che gli israeliani sentono ripetere da quasi quattro anni, da quando la polizia ha cominciato le indagini. Gli investigatori hanno chiamato i casi 1000, 2000, 4000, un'ascensione piena di strapiombi e passaggi delicati per arrivare ai vertici del potere. Il processo che inizia questa mattina ( con 45 giorni di ritardo sulla data prevista causa emergenza Covid- 19) non segna la fine della scalata: Il dibattimento - prevedono gli analisti - andrà avanti per anni, i documenti da analizzare sono migliaia, i testimoni da chiamare centinaia
   È la prima volta nella Storia di Israele che un primo ministro in carica finisce davanti ai giudici: Ehud Olmert, condannato per corruzione, era stato costretto a dimettersi dopo l'incriminazione.
   Da capo dell'opposizione Netanyahu aveva allora proclamato che un premier «immerso fino al collo nei problemi legali» non potesse guidare la nazione. Una settimana fa si è insediato il suo quarto governo, il quinto in totale nella carriera politica Si è rifiutato di lasciare la carica come invocava per il rivale e ha condotto tre campagne elettorali di fila. I fedelissimi nel Likud sono convinti che sia tutto un complotto per rimuovere il leader della destra, al potere senza interruzioni dal 2009, sostengono che i mandati popolari ripetuti dovrebbero garantirgli l'immunità. La battaglia legale si svolgerà tra i due palazzi uno di fronte all'altro su via Salah A-Din a Gerusalemme: la Corte distrettuale dove Netanyahu entra oggi e Il ministero della Giustizia, che il premier e i suoi consiglieri considerano la roccaforte da smantellare.

(Corriere della Sera, 24 maggio 2020)


La cyber guerra che lambisce i confini dell'Europa

Che prima o poi esploderà anche da noi

Chi come noi nella vecchia Europa vive in un mondo apparentemente pacificato, dove le tensioni e le volontà di potenza appaiono lontane, sfocate dalla nebbia della miopia, può credere davvero che il mondo contemporaneo non conosca la violenza, la guerra, l'antisemitismo, se non in spazi residuali dove abitano i "folli" o i "nostalgici". Se per caso capitano aggressioni e atrocità dalle nostre parti, si tratti delle guerre che hanno devastato l'ex Jugoslavia e l'Ucraina o del terrorismo, cerchiamo in tutti i modi di dimenticarlo, rimuoverlo, considerarlo frutto di "malattia mentale" o di una "eccessiva" risposta a colpe che comunque sono nostre, dell'Occidente, del capitalismo. Ma la guerra c'è, anche non lontano dai nostri confini (in Libra, in Siria), la volontà di dominio non è cessata (e per esempio motiva le mosse della Cina e della Russia) e soprattutto non è sparito l'antisemitismo, più o meno mascherato da "resistenza" contro il "colonialismo sionista", che poi in sostanza significa l'esistenza di ebrei in territori che l'Islam vorrebbe judenrein. Queste guerre continuano a essere atroci, ma assumono volti sempre nuovi, che le limitano sempre meno alla prossimità territoriale. E' la guerra del terrorismo, condotta anche nelle pacifiche città dell'Occidente da avanguardie militari che noi spesso accogliamo come rifugiati; coi missili, che ignorano le frontiere e colpiscono al di là dei continenti: l'Iran ne ha parecchi capaci di colpire Israele e anche l'Europa e sta cercando ostinatamente di armarli con l'atomica.
   L'ultimo teatro di guerra è la rete, che non conosce distanza. Qualche settimana fa l'Iran ha cercato di colpire la rete idrica israeliana - tipico obbiettivo civile della nuova guerra - Israele, che per l'Europa ha il torto di difendersi, ha reagito in maniera precisa ma limitato, mettendo fuori uso il principale porto iraniano. L'altro giorno l'Iran ha colpito altri obiettivi civili, come l'autorità che controlla il lago di Tiberiade, la città di Ramat Hasharon, il servizio di emergenza medica United Hatzalah. L'obiettivo dichiarato in mille modi è "eliminare Israele dalla carta geografica". Per fortuna Israele si sa difendere anche su questo piano, è tecnologicamente avanzato e non è preda dell'irenismo nichilistico dell'Europa. Prima o poi toccherà però anche ad essa. Si può ignorare la guerra, ma difficilmente la guerra ignora te. Saprà difendersi l'Europa dalla ciberguerra, vorrà difendersi, oltre a moraleggiare sugli "eccessi" di Israele?

(Progetto Dreyfus, 24 maggio 2020)


Un lavoro che non è fisico

La 'avodàt Hashèm - culto divino, non è lavoro creativo, ma il simbolo dell'accettazione del giogo del cielo. La filosofia moderna vi si è ribellata perché non l'ha capito pienamente.

di Shalom Rosenberg*

Shalom Rosenberg
Ci separiamo dal libro di Vayikrà che ci ha presentato il sistema dei sacrifici e passiamo al libro di Bemidbàr che si occupa anch'esso delle regole del santuario. Questi temi ci sembrano oggi appartenere a un passato lontano. La nostra vita ebraica è guidata dal principio stabilito dai nostri Maestri: «Sostituiremo i tori con le nostre labbra» (Hoshèa' 14, 3), che come spiegava rabbì Yehoshùa' ben Levì: «Le preghiere sono state stabilite in corrispondenza dei sacrifici quotidiani» (TB Berakhòt 26b). La preghiera ha rimpiazzato i sacrifici e la recitazione dei brani relativi ai sacrifici sostituisce i sacrifici stessi. La preghiera è 'avodà shebalèv - il culto nel cuore. «Lo servirete con tutto il vostro cuore», questo principio fondamentale è radicato nell'Ebraismo sin dalla sua nascita. Il principio della preghiera e la sua ritualità sono un'aggiunta che sostituisce il culto nel santuario. La sinagoga è diventata un piccolo santuario.
  Nel contesto dei sacrifici ricorre in continuazione una parola chiave: 'avodà - culto. Questa parola ha avuto un'importanza decisiva nel vocabolario sionista. Così nello slogan sionista-religioso Torà Va'avodà - Torà e lavoro, la 'avodà rappresentava l'idea della produttività che è alla base della redenzione del popolo sulla sua terra. Questo slogan ha rappresentato la fertile de-costruzione del detto classico dei Pirkè Avòt - Massime dei Padri: «Shim'òn il giusto ... diceva che su tre cose il mondo si appoggia, sulla Torà, sulla 'avodà e sulle opere di bene». Nelle prossime righe vorrei ritornare invece al significato originale di questo detto, e cioè la 'avodà intesa come 'avodàt Hashèm - culto divino, una 'avodà che non si esprime nella produttività che vi è in esso, ma nella sua simbologia di accettazione del giogo divino.

 L'uomo ribelle
  Più di ogni altro filosofo Friedrich Nietzsche rappresenta la rivolta contro questa 'avodà. Ci sono nella sua opera numerosi e diversi strati. A volte mi sembra che ci siano in lui tre anime diverse. Una di queste, è diventata, a mio avviso, il profeta della sitrà atrà - parte oscura (termine kabbalista che indica le forze del male NdT), cioè l'anima dell'uomo che si ribella. Nietzsche si ribellava contro la concezione che vedeva nella religione l'imposizione dell'accettazione del giogo del cielo e che pretendeva la sottomissione assoluta nei confronti del padrone del mondo. Egli non era solo in questa lotta. La rivolta contro Dio appare nell'insegnamento di molti pensatori moderni che sono alla base dell'umanesimo, e cioè la concezione secondo la quale l'uomo vive in piena autonomia ed è il centro di ogni valore.
  Con molte differenze, abbiamo trovato idee simili anche all'estremità filosofica opposta - i marxisti, che si identificavano nella figura di Prometeo che sottrae il fuoco agli dei. Il Marxismo ha costruito un'ideologia che ha trovato la sua espressione nel capovolgimento semantico del termine 'avodà. Questi proponevano la 'avodà - lavoro, come sostituzione della 'avodàt Hashèm - servizio divino. L'uomo redime se stesso per mezzo della politica e dell'economia. I nostri Maestri lo avevano già previsto descrivendo la generazione della divisione, che costruisce una torre (di Babele NdT) verso il cielo e dichiara: «Facciamoci una torre e pratichiamo la 'avodà zarà - culto estraneo (idolatria), sulla cima, mettendogli una spada in mano e sembrerà come se Gli facesse guerra».
  Questa è la rivolta dell'uomo che grida: «D-o è morto», ma anche «Meno male che sono orfano!» (citazione del racconto dello scrittore Shalòm 'Alekhèm, che descrive l'abbandono della tradizione paterna NdT). A mio avviso il risultato di questa rivolta è ben rappresentato dalla copertina di una rivista popolare, dove una nave affonda in mezzo al deserto, da qualche parte della Russia. Questa non è finita lì a causa di qualche incontro del terzo tipo, ma è la testimonianza muta del mare che si è ritirato per decine di chilometri ed è diventato deserto, proprio a causa dell'opera dell'uomo - con l'uso maldestro dei fiumi che vi scorrono. Questa immagine mi ha fatto capire il significato dell'intenzione divina quando ha messo l'uomo nel Gan 'Èden: «Le'ovdà ulshomrà - per operarvi e per proteggerlo». Promoteo ha certamente "lavorato", ma non l'ha protetto. Ma ancora peggio sono i "campi di lavoro", che erano in realtà "campi di schiavitù". E dal lato opposto dell'arco politico, i nazisti, discendenti di Caino l'assassino, hanno trasformato il "lavoro" in un inferno, quando hanno inciso sulla porta d'ingresso di Auschwitz lo slogan satanico "il lavoro rende liberi".

 Amore e tikkùn
 
  La controversia sulla 'avodà è un conflitto incentrato sull'immagine dell'uomo che ci poniamo come modello. Ma a questo riguardo, ci ha insegnato rav Kuk che nonostante la rivolta contro la divinità sia focalizzata in senso antropologico, questa è in realtà fondata su un principio teologico errato. Siamo in presenza di un errore fondamentale della comprensione del concetto di 'avodà. Quelli che hanno alzato la bandiera della rivolta hanno concepito la 'avodà divina in maniera errata, a causa di una percezione immatura, perché la 'avodà non è sottomissione.
  Per capire questo dobbiamo fare riferimento a un concetto preso dalla mistica e dalla kabbalà, diventato di dominio pubblico. Le parole di lyòv: «Che parte è stabilita da Dio lassù?» (lyòv 31, 2) sono diventate nel pensiero tradizionale ebraico l'espressione della condizione umana: l'anima dell'uomo non è un prodotto del mondo materiale, ma un'entità celeste, una scintilla del fuoco divino. La conseguenza è che il rapporto dell'uomo con Dio non è quello di un'entità estranea e lontana, ma quella di un Dio nascosto che supera i confini del mondo, ma che ha la sua presenza anche dentro noi stessi. La concezione che vede nella 'avodàt elo-kìm - culto divino, per esempio quando ci si inchina, come sottomissione a un re straniero, è totalmente estranea alla nostra concezione dell'anima come "scintilla divina". Noi mettiamo in pratica una 'avodà- culto, che è amore, e non una 'avodà che è sottomissione.
  Ma ancora di più, nella tradizione ebraica troviamo un concetto che completa questa idea, fondato sulla aggadà (in questo caso si riferisce al Midràsh NdT) e successivamente sviluppato dalla Kabbalà: Il santo, benedetto Egli sia, ha creato l'uomo non come servo ma come collaboratore. Questa è l'idea del tikkùn - riparazione. Il santo, benedetto Egli sia, ha creato l'uomo perché riparasse i mondi, compito che lo rende collaboratore di Dio. Anche la 'avodàt elo-kìm - culto divino, quindi è parte di questa riparazione del mondo. L'uomo, attraverso le mitzvòt, cambia sia sé stesso, sia il volto dell'intera realtà. La Kabbalà esprime questo concetto con una durezza senza precedenti, la 'avodà non sarebbe sottomissione, ma addirittura una necessità suprema. Come se fosse Dio ad aver bisogno dell'uomo, di noi che siamo i suoi collaboratori.

 Sangue che torna alle origini
  Non posso terminare questi appunti teorici senza fare riferimento al carattere concreto che la 'avodà - culto, ha nel libro di Vayikrà: il sacrificio di animali. Essenzialmente si tratta di sacrificarne le parti grasse e il sangue, che rappresentano la vita, che è il principio che supera la materia e che è presente in ogni essere vivente. L'anima è in effetti l'elemento divino superiore, ma troviamo la santità anche nel corpo materiale e quindi ci è vietato consumare il sangue. Per mezzo del sacrificio il sangue che si trova sull'altare viene restituito a Dio, alla fonte della vita.
  Questa cerimonia si scontra con la sensibilità estetica di tante persone nel mondo moderno, tuttavia senza che la non-eticità del consumo di carne riesca a sconvolgerli come buongustai. Nel suo commento al siddùr - formulario di preghiere, rav Kuk esprime dei concetti legati alla sua visione vegetariana. Alla fine della preghiera delle diciotto
  benedizioni aggiungiamo dei versetti che esprimono la nostra preghiera perché venga ripristinata la 'avodà - culto, ai tempi del messia: «Sia la Tua volontà. .. che venga ricostruito il santuario, presto, ai nostri giorni ... e là ti serviremo con timore ... e sarà gradita l'offerta di Yehudà e di Yerushalàyim come in passato e ai tempi antichi». Su quest'ultimo versetto scrive rav Kuk: «In futuro l'abbondanza della conoscenza sarà diffusa e penetrerà addirittura negli animali: "In tutto il Mio sacro monte non verrà fatto più alcun male o alcuna distruzione, poiché la terra si è riempita della conoscenza dell'Eterno" (Yeshayàhu 11, 9) e il sacrificio sarà allora composto di offerta farinacea, dai vegetali, e sarà gradita a Dio come in passato e ai tempi antichi». Rav Kuk ci delinea una visione più equa alla quale l'uomo dovrà prendere parte lasciandosi però dietro il suo istinto di sbranare la carne.

* Shalom Rosenberg (1935) è un pensatore ebreo osservante, israeliano, professore emerito dell'Università Ebraica, dove è stato preside della facoltà di pensiero ebraico. Si occupa principalmente di filosofia della religione, rapporto tra religione ed etica, interpretazione dei testi, ermeneutica ebraica e generale.

(Kolòt, 24 maggio 2020 - Trad. Piazza))


Coronavirus: primo morto a Gaza, timori dopo l'impennata di casi

Primo morto per coronavirus nella Striscia di Gaza. Il ministero della Salute dell'enclave palestinese governata da Hamas ha precisato che si tratta di "Fadila Muhammad Abu Raida, 77 anni, del governatorato di Khan Younis, morta in isolamento in ospedale al valico di Rafah". Di recente, Gaza ha registrato un'impennata di casi di Covid-19 tra coloro che sono rientrati nella Striscia, suscitando forti preoccupazioni per il possibile impatto dell'epidemia sulle fragilissime strutture dell'enclave. Finora i contagi erano rimasti a quota 20 ma con l'arrivo nei giorni scorsi di circa 1.500 residenti che erano rimasti bloccati in Egitto e pochi altri lasciati passare da Israele, sono stati riscontrati 35 nuovi casi tra di loro, di cui 25 solo giovedi', portando il totale dei contagi a 55. I nuovi arrivati sono stati messi tutti in isolamento ma le autorita' stanno cercando di verificare se hanno avuto contatti con altre persone a Gaza prima di mettersi in quarantena. Nelle ultime settimane le misure restrittive erano state allentate e caffe' e ristoranti avevano riaperto, ma con l'impennata di casi Hamas sta pensando di imporre un coprifuoco e di richiudere il confine con l'Egitto fino almeno alla fine di giugno.

(Shalom, 24 maggio 2020)


Così s'infranse il sogno del kibbutz

di Davld Bldussa

Amore tardivo di Amos Oz (compreso nel suo Finché non sopraggiunga, Feltrinelli) è un racconto che coglie in tempo reale l'inizio della trasformazione della società israeliana. Protagonista della storia è la crisi del kibbutz come comunità e come specchio di una realtà in cerca di se stessa. Sono gli anni a cavallo tra i '6o e '70, quando la nuova realtà successiva alla guerra lampo vittoriosa del giugno '67 rapidamente trasforma una società fino a quel momento ancora in equilibrio tra città industriale e agricoltura d'avanguardia in una struttura ormai urbana, virata in gran parte verso i consumi, decisamente spinta ad emanciparsi dalle sue origini.
   Assaf Inbari, con Verso casa, idealmente riprende quella condizione esistenziale e con occhio impietoso ricostruisce l'intera parabola: dal sogno, all'inizio del Novecento, alla dissoluzione, mezzo secolo dopo.
   All'inizio quel sogno si incarna in una generazione di ebrei ventenni, in gran parte russi, soprattutto ucraini Il sogno è uscire dal ghetto, andare via e inventarsi una vita altrove sulle ali del proprio progetto di utopia che si carica anche di una proiezione di redenzione. Lo slogan è rinascere altrove, andare in Palestina, costruire un altro futuro, meglio dove non c'è nulla, perché come dice Lonya, uno dei membri del gruppo, «non sono venuto qui per avere una casa. Ce l'avevo una casa. Sono venuto qui per fare la storia».
   La massima è che si fa tutto, tutti insieme, e la dimensione assembleare è quella che consente di costruire competenza. «Dei compagni ingenui pensano che nominare un comitato significhi nominare un gruppo di esperti. Il processo è inverso. Le persone non studiano economia e poi nominano un comitato sull'economia. Istituiscono un comitato sull'economia e così diventano economisti» [p.104]. Così scrive Mola Zaharhari, l'ideologo del gruppo, sulla bacheca della Comune agricola sulle rive del Lago di Tiberiade. Siamo verso la fine degli anni 20.
   Lì inizia la stagione di sviluppo inarrestabile dell'esperienza kibbutzistica e Assaf Inbari la segue e ne segna le tappe essenziali: la bonifica delle zone paludose, la messa a cultura delle aree semidesertiche del Negev, la trasformazione delle colline in Galilea o della costa mediterranea. Lo sviluppo significa immissioni di nuove tecniche, formazione di nuove competenze, crescita del fatturato. Fino agli anni 50.
   Poi a partire dall'inizio degli anni 60 l'atmosfera cambia. A partire da allora la seconda generazione dei figli dei fondatori non si riconosce più in quell'esperienza, spesso va via. Il kibbutz non attrae più nuovi immigrati; quelli che arrivano non si integrano con il gruppo precedente. I fondatori diventano sempre più la testimonianza di un sogno, mentre intorno la realtà cambia. Soprattutto cambiano i desideri.
   Improvvisamente fa la sua comparsa la proprietà privata. Il segno più evidente è la proprietà della casa dove si vive. Anche quella finirà per essere un segno della discordia: con i vecchi che abitano quelle case e i loro figli che ora vivono in città e che tornano, mentre tutti gli altri li guardano sospettosi
   Scrive Assaf Inbari in chiusura: «Alcuni figli che avevano lasciato il kibbutz secoli prima si presentarono all'improvviso, accolti calorosamente dai compagni che credevano fossero venuti per prendersi cura del vecchi genitori, ma ricevuti freddamente dai compagni che sospettavano fossero venuti per prendere possesso dell'eredità dei genitori mentre erano ancora vivi, sistemandosi nelle loro proprietà. Ma i compagni che erano sospettosi nei loro confronti, lo erano anche l'uno dell'altro; tutti chiudevano a chiave gli appartamenti quando uscivano» [p. 333].
   Fine del sogno. Forse tutti più ricchi, ma non più comunità. Soprattutto non più redenti.

(Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2020)


Condannare Israele per le annessioni? Il solito strabismo dice Malan

Un gruppo di 70 parlamentari di centrosinistra e M5S ha scritto al premier Conte chiedendogli di "condannare" Israele per l'annessione di alcuni territori della Cisgiordania. Malan (Forza Italia) spiega perché non si può essere equidistanti.

di Gabriele Carrer

Settanta parlamentari del centrosinistra e del Movimento 5 Stelle hanno firmato una lettera indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte chiedendogli di "condannare" lo Stato di Israele per l'annessione di alcuni territori della Cisgiordania e di "adoperarsi attivamente, prima della data dell'1 luglio, in tutte le sedi europee e internazionali, per scongiurarne la realizzazione". Le conseguenze, dicono, "potrebbero essere devastanti per l'intera regione". L'annessione è contenuta nell'intesa di governo tra Benjamin Netanyahu e Benny Gantz: dal primo luglio lo Stato ebraico potrebbe infatti annettere il 30 per cento dell'area C della Cisgiordania, "se gli Stati Uniti saranno d'accordo".
   "Numerose sono state le reazioni critiche verso questa decisione", sottolineano i deputati citando il segretario generale dell'Onu António Guterres e l'Alto rappresentante per la politica estera europea Josep Borrell, ma anche la Lega Araba e diversi governi europei. "Compreso il nostro, attraverso il ministero degli Affari esteri, tutti hanno ribadito due questioni fondamentali: che tale decisione è in aperta violazione del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite e che essa, qualora realizzata, porrebbe una pietra tombale su ogni rilancio del processo di pace in Medio Oriente e sulla prospettiva di due popoli e due Stati che convivano in pace e sicurezza reciproca".
   La lettera dei 70 (tra questi Laura Boldrini, Pino Cabras, Stefano Ceccanti, Stefano Fassina, Piero Fassino, Matteo Orfini e Lia Quartapelle) arriva a conclusione della prima settimana del nuovo governo israeliano ma anche della decisione della leadership palestinese di decretare la fine di tutti gli impegni con Israele e gli Stati Uniti come conseguenza del piano di annessione della Cisgiordania.
   Ma non tutto l'arco parlamentare italiano sembra condividere la posizione dei parlamentari della maggioranza. "Da parte di molti firmatari si tratta del consueto strabismo contro Israele", spiega a Formiche.net Lucio Malan, senatore di Forza Italia e presidente dell'intergruppo parlamentare di amicizia Italia-Israele. Tuttavia, continua, "alcuni di loro hanno anche firmato un comunicato molto duro contro Ali Khamenei che ha proclamato il Jihad contro lo Stato ebraico. Da parte loro l'intenzione è di evitare tensioni pericolose. Penso però che non si possa essere equidistanti in una situazione di questo genere. C'è uno Stato potente, l'Iran, dotato di missili, che lavora incessantemente per procurarsi armi nucleari, che già ha missili che possono arrivare in Europa, che più che minacciare, promette di distruggere Israele e il suo leader ammette chiaramente e di farlo anche finanziando i terroristi presenti sia a Gaza, sia nella cosiddetta Cisgiordania".
   Il senatore Malan aggiunge: "Cosa deve fare Israele? Deve dire va bene? Deve incoraggiare la nascita di uno Stato contiguo al suo, dichiaratamente rifornito di armi allo scopo di sterminare gli ebrei? No, l'equidistanza qui non ci sta. Se i nemici d'Israele gettano le armi, è la pace. Se lo fa Israele è una nuova Shoah. Chi il 27 gennaio dice 'mai più sterminio' lo ricordi anche oggi!".

(Formiche.net, 24 maggio 2020)



L'uomo moderno e la perdita della realtà

Quest'articolo è stato scritto circa trent'anni fa. Allora c'era solo la televisione. La realtà perduta era trasformata in immagini e vissuta dai più come spettacolo a cui partecipare passivamente. Oggi c'è internet. E le cose a questo riguardo sono ancora peggiori.

di Marcello Cicchese

L'uomo moderno è abituato a osservare la realtà con l'occhio di chi vuole modificarla. E' un atteggiamento di fondo che certamente gli è stato favorito dalle trasformazioni a dir poco impressionanti che è riuscito a produrre nell'arco degli ultimi secoli.
  Da qualche decennio, tuttavia, qualcosa si sta muovendo nella sensibilità dell'uomo moderno. E' venuta meno, anzitutto, la fiducia incondizionata nel fatto che i cambiamenti possibili siano sempre per il meglio. Ci si è accorti che l'"homo faber" con i suoi martelli, ogni tanto, oltre a creare nuovi e utili oggetti riesce anche a spaccare qualcosa che sarebbe stato meglio lasciare così com'è. Non è un caso allora se la parola "ecologia", di cui fino a vent'anni fa ben pochi conoscevano il significato, oggi è sulla bocca di tutti.
  Oltre a questo, l'uomo di oggi comincia ad accorgersi che se da una parte le trasformazioni che può operare sulla realtà sono sempre più estese e profonde, dall'altra gli strumenti di intervento diventano sempre più complessi e sofisticati, con la conseguenza che il contatto con la realtà da dominare deve necessariamente avvenire attraverso una fitta rete di relazioni intermedie tecniche e sociali che il singolo non è più in grado di comprendere e controllare in tutta la sua estensione.
  E neppure gli viene chiesto. Quello che gli viene chiesto è di inserirsi docilmente nel sistema, di non voler essere nulla di più che un elemento, non necessariamente molto importante, del sistema stesso.
  In altre parole, si può dire che negli ultimi secoli l'uomo moderno è riuscito ad arginare e dominare la realtà con la costruzione di un robustissimo traliccio artificiale, che però è diventato ormai così importante e sofisticato da non lasciare al singolo altra scelta che quella di diventare un nodo del traliccio stesso.

 La fase dell'integrazione
  Ad una fase eroica di "aggressione" della realtà da modificare con sistemi artificiali, sta dunque lentamente subentrando una fase burocratica di "integrazione" in una realtà che fin dall'inizio si presenta artificialmente modificata. L'amore per l'azione e lo spiccato senso di responsabilità con cui, per esempio, imprenditore e sindacalista si assumevano il compito di lavorare o di lottare per la trasformazione delle cose, hanno ceduto il posto alla capacità professionale di inserirsi, con la necessaria duttilità, nei complicati meccanismi di funzionamento di un sistema di produzione che ha leggi sue proprie.
  Oggi non è più tempo d'eroi. L'epoca mitica dei "self made men", dei rivoluzionari romantici, degli scienziati folli è ormai alle nostre spalle. Le doti principali che si richiedono oggi agli uomini impegnati sono l'adattabilità, l'equilibrio del temperamento, la capacità di integrarsi docilmente in un sistema complesso senza correre il rischio di cedere a reazioni personali imprevedibili. Anche ai piloti d'aereo e agli astronauti, figure atte a muovere la fantasia delle persone normali, non si chiede tanto di avere coraggio e fantasia individuali, quanto di saper svolgere con precisione tutte le operazioni previste dai programmi di volo. Si può dire insomma, tanto per fare un esempio, che se cinquecento anni fa l'America fu scoperta da un manipolo di avventurieri, vent'anni fa la luna fu visitata per la prima volta da due impiegati altamente specializzati.
  Anche nelle chiese cristiane, soprattutto in quelle dei paesi più ricchi, si cominciano a ricercare i funzionari, cioè persone che non necessariamente abbiano spiccate doti personali e autentici doni spirituali, ma sappiano far "funzionare" le cose, sappiano fungere da animatori, da catalizzatori di fenomeni complessi come quelli che possono avvenire in una chiesa un po' grande, inserita in una società complicata come quella di oggi.
  Nel mondo della produzione l'operaio diventa impiegato e l'imprenditore diventa manager: a entrambi viene affidato il compito di contribuire al funzionamento di un sistema che li ingloba e li sovrasta. L'alienazione, di cui si parlava volentieri qualche anno fa, si è estesa a tutti i livelli sociali e si presenta in una forma più complessa di quello che volevano gli schemi sociologici marxisti.
  Il rapporto con la realtà modificabile è diventato molto più sfuggente e problematico da quando l'uomo moderno ha cominciato a sospettare che nel processo di modificazione della realtà quello che rischia di doversi modificare più di tutti è proprio lui.

 La realtà dell'apparenza
  A questa accresciuta difficoltà di contatto diretto con la realtà da parte dell'uomo moderno corrisponde, per motivi che varrebbe la pena di indagare più a fondo, un impressionante aumento di offerta di immagini da parte dei mezzi di telecomunicazione. Dal teleschermo a colori la realtà "appare" ancora solida e ben delineata. A guardare le avventure di James Bond e Rambo, si direbbe che l'uomo singolo sa ancora tenere saldamente in mano le cose, dominarle, modificarle. I telegiornali e i servizi di attualità danno allo spettatore l'impressione di essere portato a contatto diretto con la realtà che si evolve. Le telenovele gli fanno provare emozioni personali che ben difficilmente potrebbero essere sperimentate in modo così intenso nella piatta consuetudine giornaliera. Come diceva la vignetta di un giornale: "Certi sentimenti profondi non si possono esprimere, bisogna vederseli in TV".
  Le cose guardate sembrano più reali delle cose vissute. Le immagini di miseria che ci giungono in casa da un mondo lontano attraverso il teleschermo ci fanno provare fremiti di compassione che non riusciamo ad avvertire quando la miseria si avvicina a noi nella forma di uno straccione fetido che ci siede accanto nella sala d'aspetto della stazione. Le sempre più complicate scene di sesso che vengono riversate su tutti gli schermi, pubblici e privati, fanno vivere a molti, nella loro fantasia, esperienze che mai riusciranno a fare nella vita pratica.

 Il diluvio di immagini spinge tutti a vivere nell'immaginazione.
  L'obiezione più elementare è che l'immagine rappresenta una realtà, e quindi è soltanto un veicolo di collegamento. E' indispensabile accettare le immagini - si dice - se si vuole entrare in contatto con la realtà sempre più complessa del mondo d'oggi. Ma si entra veramente in contatto? Con che cosa entra in contatto? Con la cosa o con la notizia? La notizia non è ormai diventata, essa stessa, una cosa? La notizia che oggi ci giunge in forma di immagine è ormai un oggetto a sé stante, con una relazione molto tenue e problematica con altre forme di realtà. Certo, un film di guerra interamente inventato è molto meno eccitante di una ripresa in diretta di una guerra vera, ma la differenza sta solo nel materiale con cui è costruita la notizia, non nel fatto fondamentale che, comunque, la notizia è una realtà costruita. Se già prima si diceva che "la cosa detta non è la cosa", questo è tanto più vero per la cosa teletrasmessa.
  Di questo, naturalmente, anche lo spettatore più sprovveduto ha un vago sentore. Ma non si ribella. Anzi, si direbbe che alla spigolosa, problematica, frammentaria, spesso deludente realtà vissuta in prima persona preferisca la realtà colorata, eccitante, ben confezionata, con tanto di sottofondo musicale e commento parlato, che si può contemplare nelle immagini dello schermo. Come nell'universo infantile, finzione e realtà si confondono, e alla fine ci si arriva a chiedere se veramente esista una realtà distinta dalla finzione, e se valga la pena di andarla a cercare.

 L'uomo diventa spettatore e la realtà si confonde con lo spettacolo.
  Si prenda in considerazione un momento forte della vita di una persona: il matrimonio. E' comprensibile che, da quando è stata inventata la macchina fotografica, alla cerimonia di nozze ci sia qualcuno che scatta fotografie per conservare ricordi particolari di una giornata memorabile. Sembrerebbe ovvio dire che il fatto importante è il matrimonio e le fotografie sono solo un mezzo per ricordare il fatto importante. Da qualche tempo, invece, si avverte uno spostamento d'accento. In alcuni casi sembra quasi che le persone, a partire dagli sposi, siano lì non per celebrare un matrimonio, ma per girare un film. Riflettori che illuminano a giorno ogni cosa, macchine da ripresa che spuntano da tutte le parti, operatori fotografici in tenuta da lavoro che si muovono con disinvoltura tra sposi, parenti e ufficiali civili dando ordini a destra e a sinistra, imponendo, se necessario, di ripetere qualche scena che non è riuscita bene. Viene spontaneo di chiedersi: ma qual è il fatto importante? Quello che sta accadendo ora o quello che si rivedrà dopo? Certo, quando gli sposi, comodamente seduti in poltrona, rivedranno insieme agli amici le scene della cerimonia abilmente montate, con la marcia nuziale di Mendelssohn suonata dall'organista famoso, gli zoom, le musiche di sottofondo, gli effetti sfumati e il commento parlato di qualcuno che ha una bella voce, il nudo "fatto" della cerimonia compiuta in quel giorno "apparirà" arricchito di significati profondi a cui, in quel momento, non si aveva neppure il tempo di pensare. La finzione si mescola alla realtà e la fa apparire più reale.
Il mondo delle immagini, anche se sono immagini tratte dalla vita concreta, diventa sempre più un mondo immaginario, un universo finto in cui chi guarda si inserisce con un impegno finto. Davanti allo schermo l'uomo assume la mentalità dello spettatore, che dalle immagini vuole essere stimolato a provare sentimenti diversi, ma non le prende sul serio, perché in fondo sa che sono una finzione. Ma poiché la finzione delle immagini appare più gradevole della realtà vissuta in prima persona, dal momento che non richiede impegni responsabili, l'uomo-spettatore preferisce illudersi, e si convince di stare mantenendo un rapporto stretto con la realtà perché attinge abbondantemente ai mezzi di comunicazione. E invece la valanga di messaggi da cui è investito lo lascia sempre più solo: solo con le sue impressioni e reazioni, senza un autentico rapporto con qualcuno e qualcosa che non sia sé stesso.

 Il vangelo estetico
  Si capisce allora quanto sia illusorio, per i cristiani, sperare di far arrivare alle persone il messaggio del vangelo attraverso immagini telecomunicate. Si possono dire le cose più bibliche sul peccato e la salvezza, sul perdono e la giustificazione, ma la mentalità da spettatore di chi le riceve le trasforma immediatamente in oggetti di consumo per lo svago di qualche minuto, fino a che non arriva la prossima trasmissione o non si passa ad un altro canale.
  In generale, è illusorio ogni tentativo di rendere più "commerciabile" il vangelo con una presentazione estetizzante. Concerti, mimi, rappresentazioni teatrali invitano l'interlocutore ad assumere l'atteggiamento dello spettatore, e quando ciò è accaduto, quello che gli arriva non è più l'evangelo. Il messaggio ricevuto come fatto estetico che si può valutare, giudicare, applaudire o fischiare, non è l'evangelo: è un'altra cosa.
  Ma il guaio più grosso è che gli assomiglia, come la finzione della rappresentazione scenica assomiglia alla realtà. Anzi, come abbiamo visto, qualche volta può sembrare addirittura più reale. Ma se questo tipo di finzione è grave in ogni caso, applicato all'evangelo arriva ad essere un'autentica menzogna, perché il messaggio trasmesso non porta l'uomo a contatto con la verità, ma con l'illusione della verità. Anche in questo caso, l'uomo resta solo con sé stesso, solo con quel mondo di impressioni e sensazioni che ha cominciato a ricercare nel momento stesso in cui ha assunto la mentalità dello spettatore.
  E questa solitudine, attorniata dalla finzione della realtà rappresentata, diventa ben presto un terreno ideale per il "padre della menzogna" (Giovanni 8:44), che nell'evanescente mondo delle immagini non ha difficoltà a mescolare i suoi precisi e finalizzati messaggi.

 I cristiani: uomini per la verità
  Se riconosciamo che l'uomo moderno, a causa della complessità degli strumenti tecnici che si è dato per dominare le cose, e a causa dell'impressionante mole di messaggi immaginosi che riceve da ogni parte, ha pericolosamente indebolito il suo rapporto con la realtà, come cristiani dobbiamo chiederci seriamente se è nostro compito scendere in lizza su questo terreno e cercare di offrire "spettacoli cristiani" più attraenti di quelli che ci sono già. Ha bisogno di questo l'uomo di oggi? Ha bisogno di una finzione in più? Di una bella finzione a sfondo religioso, professionalmente ben costruita e ben presentata? O non ha bisogno, piuttosto, di essere scosso dalla sua mentalità di consumatore passivo di immagini di tutti i tipi per essere portato a contatto, anche brutalmente se necessario, con l'autentica realtà illuminata dalla parola di Dio? E in questa realtà non dobbiamo esserci noi cristiani, in carne ed ossa, nella nostra dimessa, ma autentica versione giornaliera?
  In un mondo che vuole surrogare la realtà perduta con l'offerta di spettacoli avvincenti, i cristiani hanno il compito di testimoniare della verità offrendo sé stessi come uomini veri, che hanno trovato la loro realizzazione nell'"immagine di Cristo" a cui sono stati predestinati da Dio, che nella sua grazia li ha chiamati, giustificati e glorificati (Romani 8:29-30).
  C'è bisogno di uomini, non di spettacoli; di relazioni corte, non di telecomunicazioni; di persone autentiche, non di personaggi.
  Dobbiamo fuggire gli applausi e guardare con diffidenza i consensi. Dobbiamo guardarci dal desiderio di "curare l'immagine", perché chi cura l'immagine fa un uso plastico della menzogna. Dobbiamo avere fiducia nella forza della verità che si fa strada contro ogni apparenza. Troppe cose, oggi, vogliono soltanto apparire; e un mondo in cui l'apparenza è diventata realtà è un mondo che vive nella menzogna.
  Sono dunque più che mai attuali le parole del salmista:
    "Come avviene d'un sogno quand'uno si sveglia, così tu, o Signore, quando ti desterai, sprezzerai la loro vana apparenza" (Salmo 73:20).
Prima che il Signore si desti e disperda i vapori irreali dell'apparenza con la realtà del Suo giudizio, come cristiani abbiamo il compito di "testimoniare della verità" (Giovanni 18:37). Una verità che in questo tempo di grazia è una verità d'amore, che non arriva agli uomini in forma di immagini ben confezionate, ma trasforma gli uomini ad immagine di Colui che è l'autentico Uomo, in tutto conforme alla volontà di Dio.
    "E noi tutti contemplando a viso scoperto, come in uno specchio, la gloria del Signore, siamo trasformati nell'istessa immagine di lui, di gloria in gloria, secondo che opera il Signore, che è Spirito" (2 Corinzi 3:18).
(Credere e comprendere, luglio 1991)
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Allarme a Gaza, raddoppiano i contagi

Quando sembrava che la Striscia di Gaza fosse riuscita, in ragione dell'isolamento in cui è tenuta da Israele ed Egitto, a superare con pochi danni la pandemia, l'accertamento nel giro di poche ore di 29 nuove infezioni da Covid-19 ha fatto scattare l'allarme in questo lembo di terra palestinese con la più alta densità di popolazione della terra e un sistema sanitario fragile. Il numero totale dei positivi resta contenuto, 49, ma crea preoccupazione il fatto che i nuovi casi siano stati tutti diagnosticati fra le tante persone che rientrano dall'Egitto. Le autorità di Hamas hanno chiuso i valichi fino alla fine di luglio.

(il manifesto, 23 maggio 2020)


"Tradimento di Gantz, in Israele colpo alla speranza"

Intervista Yael Dayan. La scrittrice: il patto con Netanyahu allontana la pace

di Umberto De Giovannangeli

Yael Dayan
"Israele ha un governo, ma non avrà pace. Benny Gantz si è arreso a Netanyahu senza combattere, per usare una terminologia militare cara all'ex capo di stato maggiore. C'è chi ha detto e scritto che Gantz abbia tradito il suo elettorato. Ma accettando di governare assieme a Netanyahu, ha fatto qualcosa di peggio•. ha inferto una ferita mortale alla speranza di cambiamento". A sostenerlo" è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare e vice sindaca di Tel Aviv, paladina dei diritti delle donne, figlia di uno dei miti d'Israele: l'eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan.

- Israele ha un nuovo governo: il governo Netanyahu-Gantz, C'è chi lo ha definito il "governo dell'annessione" chi un "matrimonio" politico contronatura. Qual è il suo giudizio?
  "Il più severo possibile. Gantz è entrato in politica col dichiarato proposito di mettere fine all'era Netanyahu. Lo ha fatto anzitutto in nome di uno dei pilastri di uno stato di diritto: nessuno, neanche un Primo ministro può considerarsi al di sopra della legge, come pretende Netanyahu. Gantz ha ceduto su questo e non può giustificare quella che è una mera operazione di potere in nome della 'guerra al Coronavirus. In passato, Israele ha combattuto tante guerre che ne hanno messo in pericolo la sua stessa esistenza, ma mai quelle guerre sono servite per operazioni politiche di potere. Nei momenti più duri della sua esistenza, Israele ha saputo mostrarsi unito, al di là delle divisioni politiche tra chi era al governo e chi all'opposizione. Il sale della democrazia è proprio il confronto tra diverse visioni, tra diverse alternative di governo. Gantz ha cancellato tutto questo e nel farlo si è consegnato a Netanyahu, provocando anche la rottura nella coalizione che aveva dato vita a Blu e Bianco".

- Tra diciotto mesi, per l'accordo raggiunto, sarà Gantz il primo ministro
  "Diciotto mesi sono una eternità per la politica israeliana, basti pensare che in meno di un anno abbiamo avuto tre elezioni anticipate. Piuttosto che cedere quella poltrona, Netanyahu farà in modo di andare a nuove elezioni. E ci andrà dopo aver diviso l'opposizione. Gantz ha ceduto a un primo ministro che fomenta odio e divisione, che con le sue parole intrise di odio arma ideologicamente e politicamente la mano alla destra più estrema".

- Lei ha fatto riferimento alle performance di Netanyahu. Performance vincenti
  "Ma che Israele pagherà a caro prezzo. Lo pagheranno le minoranze, non solo gli arabi israeliani, lo pagherà il processo di pace con i Palestinesi, lo pagheranno le fasce socialmente più deboli della società. D'altro canto, Netanyahu ha costruito il suo consenso sulla divisione del paese, radicalizzando a destra il Likud, cavalcando paura e insicurezza, indicando di volta in volta i nemici da combattere, esterni e interni. E ora si appresta a essere Primo ministro per altri 18 mesi. Un incubo".

- In questo scenario non certo rassicurante, c'è ancora uno spazio per rilanciare il dialogo lsraelo-palestinese?
  "Se questo spazio deve essere trovato da coloro che si apprestano a governare Israele, allora dico no, questo spazio non esiste più. Non esiste perché si è scelto di indebolire e delegittimare un leader moderato, disposto al compromesso, qual è Abu Mazen, anche se questo ha finito per rafforzare gli estremisti di Hamas. Non esiste, perché nella visione di cui questa destra è portatrice la sicurezza è sempre congiunta con disegni di grandezza che non contemplano il riconoscimento di uno Stato palestinese. Non esiste, non può esistere una pace vera, durevole, che possa conciliarsi con la massiccia colonizzazione dei Territori palestinesi occupati. Non è conciliabile per il semplice, inconfutabile, dato di realtà che la politica di annessione di fatto di terre palestinesi, la trasformazione, anche sul piano dello status, di colonie in città israeliane, minano dalle fondamenta un accordo fondato sul principio di "due popoli, due Stati".

- Ma gli insediamenti sono cresciuti, e tanto, anche quando a guidare Israele erano primi ministri laburisti.
  "Su questo la sinistra dovrebbe riflettere e fare una salutare autocritica. Ma c'è una differenza sostanziale: nell'orizzonte della destra nazionalista, gli insediamenti hanno una legittimazione ideologica e non rispondono a ragioni di sicurezza. Per la destra più estrema, che oggi ha un ruolo decisivo all'interno del governo, i coloni, anche nelle componenti più radicali, sono degli eroi, i pionieri di Eretz Israel. In questa ottica, gli insediamenti in Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania, ndr) sono la concretizzazione del disegno della Grande Israele che è stato a fondamento del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, da sempre il pensatore di riferimento della destra israeliana. Dove dovrebbe nascere lo Stato dei palestinesi? Su quali territori, entro quali confini? E ancora: certo, può esistere uno stato smilitarizzato ma non uno stato che non eserciti la propria sovranità sul territorio nazionale. Uno Stato del genere sarebbe una finzione. Netanyahu, e con lui i capi della destra radicale, considerano la nascita di uno Stato di Palestina non come una minaccia alla sicurezza d'Israele ma come un colpo mortale alla Grande Israele. Non è con la forra che Israele diventerà un paese normale. Vede, Yitzhak Rabin capi che la pace, che è altra cosa dalla resa dell'altro contraente, non può essere a costo zero. La pace dei coraggiosi è un incontro a metà strada. E' alla ricerca di un compromesso sostenibile. Ma coraggio, compromesso, dialogo, sono parole che non esistono nel vocabolario politico di chi governerà Israele".

- Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha annunciato nei giorni la fine di tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti e affermato che il primo, come potenza occupante, è responsabile dei territori che occupa.
  "E' la conferma della gravità del momento. Pace e annessione sono tra loro inconciliabili. Ma questo Netanyahu lo sa bene. Lui ha scelto da tempo. Ha scelto l'annessione".

(l’Unità, 23 maggio 2020)


Annessione, stavolta Abu Mazen fa sul serio (forse)

Stop alla cooperazione con Israele, la polizia palestinese lascia la zona B

di Michele Giorgio

 
Ghassan Khatib
GERUSALEMME - L'Autorità nazionale palestinese prova, con fatti concreti, a dissipare i dubbi che ancora circondano la decisione annunciata martedì dal presidente Abu Mazen di svincolare i palestinesi dagli accordi fumati con Israele e di mettere fine alla cooperazione di intelligence con lo Stato ebraico.
   Unità della sicurezza palestinese si sono ritirate ieri da Azzariyah, Abu Dis, Biddu e Beit Iksa. Erano entrate nei quattro sobborghi di Gerusalemme est - "Zona B" a controllo misto secondo gli Accordi di Oslo - di recente e su autorizzazione israeliana per far rispettare le misure di contenimento del corona virus. Nulla di drammatico. Ma il passo indica che i palestinesi non accetteranno passivamente che larghe porzioni di Cisgiordania siano annesse unilateralmente a Israele, come ha promesso di fare il premier israeliano Netanyahu. A ciò si aggiungono la comunicazione alla Cia dell'interruzione del coordinamento di sicurezza con Israele e il rifiuto degli aiuti inviati dagli Emirati ai palestinesi a bordo di un aereo della Etihad atterrato per la prima volta a Tel Aviv in coordinamento solo con Israele.
   «Non mi meraviglia lo scetticismo di molti, stavolta però credo che l'annuncio fatto dal presidente contenga elementi di concretezza maggiori rispetto a dichiarazioni simili fatte in passato - ci spiega l'analista e docente dell'università di Bir Zeit, Ghassan Khatib - L'Anp non può rimanere inerte. Netanyahu si prepara a muovere un passo di estrema gravità. L'annessione a Israele di porzioni di Cisgiordania con l'approvazione di Donald Trump mette la leadership palestinese in una condizione insostenibile. Pertanto, me lo auguro, l'annuncio del presidente dovrà necessariamente avere riflessi sul terreno».
   Il nuovo governo israeliano, nato appena qualche giorno fa, non ha risposto. Ignora i palestinesi, evidentemente li ritiene irrilevanti nel quadro delle valutazioni da fare per l'annessione. Netanyahu resta in silenzio. I suoi nuovi alleati del partito Blu Bianco, il ministro della difesa Benny Gantz e il ministro degli esteri Gabi Askanazi, hanno soltanto cercato di placare le forti preoccupazioni della Giordania e di accorciare la distanza con l'Ue che non esclude (ma è una ipotesi remota) sanzioni contro Israele. Ai palestinesi non si sono rivolti in alcun modo.
   Qualche reazione è arrivata dall'esercito e dai servizi di intelligence israeliani. Un ufficiale delle forze di sicurezza ha avvertito che la decisione palestinese comporterà incursioni più frequenti dell'esercito in Cisgiordania «per catturare ricercati» e un impiego maggiore di reparti israeliani. Il ruolo del servizio di intelligence dell'Anp, guidata da Majd Faraj che vanta ottimi rapporti con la Cia e i servizi segreti europei, giordani ed egiziani, è stato fondamentale sin dalla firma di Oslo (1994) per tenere sotto controllo (spesso in cella) oppositori di ogni orientamento politico e i militanti del movimento islamico Hamas.
   La popolazione e la base di Fatah, il partito di Abu Mazen, hanno chiesto con forza la fine del coordinamento di sicurezza con Israele considerato una forma di collaborazione attiva con l'occupazione militare.
   «Gli effetti delle decisioni annunciate a inizio settimana andranno valutati più avanti - afferma Khatib - Israele è in grado di esercitare una pressione enorme sull'Anp, usando ad esempio blocco del trasferimento dei fondi palestinesi derivanti da dazi e tasse (una delle entrate principali per il governo dell'Anp, ndr). La capacità e la volontà di resistere alle pressioni sarà fondamentale».

(il manifesto, 23 maggio 2020)


Roma - Museo ebraico e sinagoghe già riaperti (con lo sconto)

La direttrice Olga Melasecchi: «Biglietti a 2 euro e ingressi gratuiti nel 2020 per medici e infermieri».

di Francesca Nunberg

 La visita
  Biglietto scontato a 2 euro (anziché 11) per i primi mille visitatori, ingresso gratuito per medici e Infermieri per tutto il 2020, entrate contingentate fino a un massimo di 50 persone alla volta. Seguendo le regole per la riapertura al pubblico anche il Museo Ebraico di Roma riparte dopo il lockdown e torna a raccontare la storia della più antica comunità della diaspora occidentale. La visita si potrà fare solo su prenotazione e diventerà coì un tour esclusivo per tutti quelli che vogliono scoprire, o riscoprire, gli argenti e i tessuti ebraici, i marmi e gli ornamenti che raccontano più di due millenni di presenza ebraica a Roma. Oltre al museo, torneranno visitabili anche il Tempio Spagnolo e soprattutto il Tempio Maggiore, luogo simbolo dell'ebraismo.

 La collezione
  «Siamo riusciti a riaprire il 18 maggio - spiega la direttrice Olga Melasecchi - e anche se non tutto è tornato accessibile, come il tavolo con la ricostruzione multimediale dell'antico ghetto, perché è necessario toccarlo con le mani, il pubblico potrà ammirare tutta la collezione del museo, tra cui circa novecento stoffe e quattrocento argenti di uso liturgico, quanto rimane degli antichi addobbamenti per il Sefer Torà. Queste complesse macchine cerimoniali costituivano i doni delle famiglie ebraiche alle loro sinagoghe e vanno dal Seicento al Novecento. Nella sala 4 abbiamo esposto da poco una collezione di argenti di una famiglia askenazita, con delle bellissime lampade di Hannukah, mentre nella sala 2 si può vedere la Menorah di Jar, realizzata da Joel Arthur Rosenthal, un gioielliere americano che lavora a Parigi, come quella descritta nell'Esodo, ossia a forma di bouquet con i rami di mandorlo che formano le 7 braccia e i frutti di rubini e diamanti».
  Si sta ancora cercando di capire se è possibile riprendere i tour del Portico d'Ottavia, mentre le mostre in programma, come quella Intitolata 1848-1870. Verso l"emancipazione degli ebrei di Roma che si sarebbe dovuta inaugurare in autunno, sono state rinviate al 2021.

(Il Messaggero, 23 maggio 2020)


Fine del Ramadan con il fiato sospeso. Khamenei torna a minacciare Israele

Nonostante i divieti si temono assembramenti per la festa del Sacrificio che chiude il mese sacro all'islam La diffusione può ulteriormente crescere, specie in realtà come l'Iran con più di 131 mila malati.

di Camille Eid

 
Ali Khamenei
Si spegne la speranza di poter celebrare "normalmente» Eid al-Fitr, la festa che segna la fine del mese di Ramadan, attesa a partire da domani. Quasi tutti i Paesi arabi e islamici hanno imposto un giro di vite alle celebrazioni per evitare una nuova ondata di contagi da coronavirus. «Non spostatevi durante l'Eid», è l'invito rivolto dal ministro della Sanità di Teheran agli iraniani, soliti mettersi in viaggio durante questi giorni. Anche ieri i morti sono stati 51 e i contagi oltre duemila con oltre 131mila malati dall'inizio della pandemia. «In molte zone - ha aggiunto Saeid Namaki- circa il 90% della popolazione non ha contratto il virus. Nel caso di una nuova epidemia, sarebbe molto difficile controllarla». Tuttavia, l'Iran consentirà ai fedeli di pregare all'interno dei centri religiosi e non nei luoghi all'aperto.
  Ieri, in occasione dell'ultimo venerdì di Ramadan dedicato alla "Giornata di al-Quds" (Gerusalemme), la Guida suprema Ali Khamenei ha precisato che «il jihad e la lotta per liberare la Palestina sono doveri islamici», sottolineando che «la vittoria è garantita da Dio» e che sarebbe «un grave errore considerare la questione palestinese solo come una questione prettamente araba». «I gruppi jihadisti, ha aggiunto Khamenei, devono essere organizzati e si devono espandere nelle terre palestinesi, perché i sionisti capiscono solo il linguaggio della forza». A Gerusalemme, dopo due mesi di chiusura, la Spianata delle moschee riaprirà probabilmente solo dopo le festività. Il direttore della moschea al-Aqsa, il terzo luogo sacro dell'islam, ha detto che i dettagli della riapertura saranno finalizzati «a evitare critiche sulla mancanza di precauzioni sanitarie». Moschee ancora serrate a La Mecca e Medina, in Arabia Saudita, dove le autorità hanno imposto restrizioni dopo un'improvvisa impennata dei casi positivi registrati. A Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, è stato deciso un ulteriore giro di vite sul distanziamento sociale durante l'Eid per evitare che i festeggiamenti diventino un moltiplicatore del contagio. La città è disseminata di poliziotti dotati di "thermal scan" per rilevare la temperatura corporea. Misure drastiche anche in Egitto, dove il governo ha deciso di estendere i giorni di festa (retribuita per i dipendenti pubblici) da tre a cinque. Fino a venerdì è quindi prevista la chiusura di tutti i negozi, ristoranti, centri commerciali, servizi di intrattenimento e spiagge, mentre è previsto il coprifuoco dalle 17 fino alle 6 del mattino.
  Il premier egiziano, Mostafa Madbouli, ha indicato che il coprifuoco nel Paese si applicherà successivamente dalle 20 alle 6 di mattina, mentre il ritorno di alcuni riti religiosi nei luoghi di culto sarà studiato in modo da consentirlo nella seconda metà di giugno. In occasione dell'Eid e per evitare il collasso del settore turistico, alcune strutture alberghiere del Mar Rosso e del Sinai che avranno soddisfatto tutti i controlli di sicurezza sanitaria potranno ricevere i primi clienti dal mercato interno per la prima volta dalla fine di marzo, ma garantendo una capacità del 25 per cento soltanto. Secondo le disposizioni in vigore, gli hotel devono mantenere il distanziamento sociale tra gli ospiti, misurare la temperatura corporea dei clienti e seguire una serie di rigorose misure preventive anti-coronavirus.
  In Algeria, il primo ministro ha annunciato il divieto di circolazione di veicoli e motocicli durante i giorni dell'Eid, nonché l'obbligo di indossare una mascherina nei luoghi pubblici. Il divieto riguarda tutte le province del Paese, a prescindere dalla fascia oraria 7-13 in cui è possibile circolare, ma solo a piedi. Le indagini epidemiologiche condotte dagli esperti del ministero della Sanità, si legge in un comunicato del governo, «hanno rivelato che la maggior parte» degli oltre ottomila casi contagio «sono stati registrati durante eventi familiari e assembramenti di persone».
  Clima di non-festa anche in una Siria devastata, oltre che dal Covid-19, anche da nove anni di guerra. Come se non bastasse, la celebrazione di quest'anno è stata ulteriormente oscurata dal crollo del potere d'acquisto della valuta nazionale. Al mercato dell'usato di Damasco, nei giorni scorsi si sono viste molte donne siriane intente a cercare, tra le pile di abiti, i loro "nuovi" vestiti dell'Eid. L'unico Paese in cui la festività avrà una certa "libertà di azione" è forse il Pakistan che ha già revocato il lockdown riaprendo anche le poche moschee che erano state chiuse. Non senza gravi rischi. Ieri, il numero di 2.603 nuovi contagi è stato quello più alto registrato dall'inizio dell'emergenza.

(Avvenire, 23 maggio 2020)


Crisi, rabbia e proteste. Il declino violento del Sultano Erdogan

Controllo della dissidenza, persecuzioni contro i curdi e lo stallo in Siria. Dopo il golpe fallito, il presidente turco ha perso il controllo del Paese.

di Giordano Stabile

La bambina, appena sei anni, la bandiera in mano e indosso una giacca militare, il basco amaranto delle forze speciali, voltava la testa e piangeva, mentre Recep Tayyip Erdogan le dava un bacio sulla guancia. Febbraio 2018, nella cittadina di Reyhanli, a due chilometri dal confine siriano, tutti seguivano i notiziari tv. L'operazione "Ramoscello d'olivo" era cominciata. I boati delle bombe che martellavano i guerriglieri curdi ad Afrin facevano tremare i vetri. Alla fine del comizio il presidente aveva fatto salire la piccola Arnine sul palco: «Hai la bandiera turca. Se diventerai una martire ti avvolgeranno con quella». Il proprietario dello sgarrupato hotel di frontiera, che però aveva il vantaggio di una terrazza da dove si potevano filmare i raid, sgranava gli occhi: «Se vince le prossime elezioni vendo tutto e me ne vado a Londra. Qui è finita».
  Dopo aver scacciato i curdi da Afrin ed essersi preso un pezzo di Siria, nel giugno seguente Erdogan ha vinto senza storie le presidenziali. Ma non si è ancora preso la Turchia. Ad Ankara, nel palazzo da mille stanze e da 400 milioni di dollari, con le guardie in costume ottomano, riflette spesso sui due eventi storici che vuole in qualche modo conciliare. Il «sogno di Osman», fondatore nel 1300 dell'impero turco, un albero che «abbracciava tutto il mondo», e il discorso di Mustafa Kemal Ataturk dell'ottobre 1927, una requisitoria di 36 ore, destinata a modellare in senso autoritario la Repubblica kemalista. In un passaggio Atarurk se l'era presa con la stampa, bestia nera anche di Erdogan. Oggi Reporter senza frontiere definisce la Turchia «la più grande prigione al mondo per giornalisti», con 48 imprigionati, un record.
  Le cose non vanno meglio a quelli stranieri. Nel 2015 l'olandese Frederike Geerdink è finita in galera con accuse di «terrorismo», per aver incontrato oppositori curdi. Il corrispondente di Radio Radicale da Istanbul, Mariano Giustino, si è visto cancellare la sua pagina Facebook dopo i pezzi sui tre musicisti della band Grup Yorum, morti dopo mesi di sciopero della fame. Il sistema presidenziale ha ridotto gli spazi democratici, anche se esiste ancora una società civile, e un'opposizione che ha il suo perno nel partito repubblicano Chp, e che è stata capace di imporre il suo candidato sindaco a Istanbul.
  Ekrem Imamoglu è diventato il simbolo della "resistenza" alla deriva autocratica, proprio nella città dove è cominciata l'ascesa di Erdogan, nel 1994. Il volto della metropoli è cambiato. Nel quartiere Fatih, dal nome di Mehmet Sultan, il "conquistatore", il velo islamico è la norma. Dopo il fallito colpo di Stato del 2016 la magnifica moschea cinquecentesca si era riempita di fedeli. Nel cortile una fila infinita di cittadini rendeva omaggio ai "martiri", uomini e ragazzi che si erano opposti a mani nude ai carri armati dei golpisti sul ponte sul Bosforo. Il rosso delle bandiere turche si mischiava al verde islamico, come nel sogno di Erdogan.
  A Istanbul, e poi come premier dal 2003, il "Sultano" ha unito conservatorismo religioso e liberalismo in economia, in due decenni di successi continui. La sua parabola ha cominciato la discesa proprio dopo il golpe fallito. Il controllo paranoico della dissidenza, la campagna implacabile contro i curdi del Pkk ma anche contro sindaci eletti e rimossi con la scusa dell'antiterrorismo, cinque solo la scorsa settimana, ha finito per minare il miracolo economico della Turchia pro-business, aperta ai mercati europei. Le purghe continue, 150 mila arresti, 18 mila dipendenti pubblici licenziati, le avventure militari in Siria e Libia, lo scontro con gli Stati Uniti, sospettati di aver favorito il golpisti, è costato caro. La lira è crollata. Nel 2015 ne bastavano 2,5 per un dollaro, ora ne servono quasi sette. La disoccupazione è salita al 12%, il Pil quest'anno è previsto in caduta dell'1,4%. Il coronavirus ha dato la mazzata finale.
  Nel disagio sociale l'opposizione rialza la testa. L'episodio di mercoledì, quando gli altoparlanti di una moschea di Smirne hanno diffuso la canzone Bella Ciao invece che l'adhan, il richiamo alla preghiera, è folgorante. Forse è un blitz della sinistra antagonista, per vendicare la band Grup Yorum. O dei curdi, che resistono a Diyarbakir come ad Afrin e Kobane, in Siria. Erdogan ha perso il suo tocco magico. Ma incarna ancora la Turchia profonda, del quartiere Fatih, o degli altipiani anatolici, o di Konya, la città di Rumi, il grande poeta islamico che ispira anche i jihadisti. Su giornali e tv si moltiplicano le cartine che mostrano una Turchia allargata, che include il Nord della Siria e dell'Iraq, Cipro, Rodi, le isole dell'Egeo. Erdogan ha spiegato che "nella patria del cuore» Aleppo, Mosul, e persino Misurata in Libia, sono «turche». E' un richiamo potente al «popolo guerriero». Il "Sultano" è convinto che lo seguirà. Fin dove è tutto da vedere.

(La Stampa, 23 maggio 2020)


La bellezza vive senza mascherina

La nostalgia del silenzio e le notti insonni. L'attacco al buonismo e ai "cretini sorridenti". Intervista ad Alain Finkielkraut. Parla il più anticonvenzionale dei filosofi francesi.

di Anais Ginori

 
                                Anais Ginori                                                                        Alain Finkielkraut
PARIGI - «Non voglio vivere nel mondo di cretini sorridenti che alcuni tentano di propinarci ». Alain Finkielkraut racconta di avere avuto la "pelle d'oca" quando ha letto il manifesto ambientalista di Nicolas Hulot.Il popolare ex minlstro dell'Ambiente che propone in un lungo testo di costruire un "nuovo mondo" basato sull'empatia, la benevolenza, il rispetto del Pianeta. Il filosofo non vede né auspica una svolta buonista alla fine del tunnel nel quale slamo finiti. «Il mondo che ci aspetta non sarà né migliore né peggiore. E' sbagliato ragionare in modo così schematico» - commenta Finkielkraut, settant'anni, protagonista di epici scontri intellettuali e vittima un anno e mezzo fa di un'aggressione antisemita da parte di un gilet giallo. E' nella sua casa parigina.Risponde al telefono fisso, non ha mai voluto avere il cellulare.

- - Non è giusto interrogarsi su come possiamo uscire migliori da questa crisi?
«Stiamo vivendo una tragedia, e in ogni tragedia c'è una parte di assurdità e contingenza. Molti pensano che questa crisi debba rimettere in discussione la nostra modernità perché l'uomo ha selvaggiamente sfruttato il Pianeta, distrutto habitat naturali, deforestato intere regioni. Il coronavirus sarebbe la vendetta della Natura. Nemesis, la potenza divina che punisce l'hybris. Non condivido quest'analisi. Preferisco restare modesto. Tanti cedono all'immodestia della colpevolezza».

- A chi si riferisce?
«La ricerca di colpevoli si traduce in decine di denunce già presentate contro il governo presso la Corte della Repubblica. Si vuole far pagare i responsabili per i ritardi, le contraddizioni sulle mascherine o i test. Qualsiasi errore viene trasformato in crimine. C'è addirittura chi parla di una futura Norimberga del coronavirus. È aberrante. L'ho chiamato nuovo populismo penale».

- Come spiega che il giudizio del francesi su Macron sia così duro?
«È una triste eccezione francese. Boris Johnson gode ancora della fiducia dei britannici nonostante abbia ritardato il confinamento, si sia ammalato e abbia portato il Regno Unito a un alto numero di vittime. Se fosse successo qualcosa di simile in Francia, i cittadini avrebbero chiesto la testa di Macron. Siamo quel Paese che continua a voler decapitare i suoi re. È il lato oscuro della Rivoluzione accanto a quello luminoso della Dichiarazione dei diritti dell'Uomo».

- Riconosce che il governo ha fatto diversi errori?
«Personalmente cerco di seguire il consiglio di Raymond Aron: prima di criticare i governanti, provate a mettervi al loro posto. In questa crisi abbiamo visto che la scienza non è onniscienza. La medicina ha lavorato in tempo reale, correggendosi, esitando. E la politica ha seguito lo stesso accidentato percorso».

- Da dove viene quest'eccezione francese?
«Un giorno bisognerà fare una genealogia del malcontento francese. I cittadini accusano il potere ma al tempo stesso non vedono quanto hanno beneficiato dello Stato Provvidenza. Oltre 12 milioni di francesi sono stati protetti da ammortizzatori sociali, molti di più che in Germania. Negli ospedali non è stata fatta nessuna selezione dei pazienti, tutti sono stati accolti. Eppure domina la collera».

- Chi sono i "cretini sorridenti" di cui parla?
«Chi pensa che ieri eravamo tutti cattivi e domani, passata questa terribile prova, diventeremo tutti buoni. Mi sembra di vedere i film di propaganda sovietica È quello che Milan Kundera definisce "kitsch" ne L'insostenibile leggerezza dell'essere. Oggi c'è un kitsch dell'ecologia, e mi duole notarlo. Credo nella causa ambientalista ma non voglio che venga affidata a persone come Hulot o Greta Thunberg per cui la soluzione è sradicare il Male. La realtà non è così semplice. Ce lo insegna la letteratura. Prendete Flaubert, Proust, Svevo, Roth. I libri dovrebbero renderci impermeabili a questi incantamenti».

- Usciremo diversi da questa crisi?
«La storia del Novecento mi ha insegnato a diffidare del sogno dell'Uomo Nuovo. E so, attraverso Auguste Comte, che la società è composta più di morti che di vivi. Si ragiona come se tutto il passato dovesse essere liquidato. Da tempo rivendico invece il diritto alla nostalgia».

- Di cos'ha nostalgia?
«Del silenzio che era quasi scomparso dalle nostre vite frettolose e rumorose. Durante il confinamento il silenzio è tornato. Dovremmo imparare a dargli spazio. Come non lo so, organizziamo una festa del silenzio. In questo momento ho nostalgia dei café che sono una componente della civiltà europea Non si può immaginare la Francia né l'Italia senza i café».

- E l'immagine di una Parigi che non ha ancora ripreso la sua vita culturale?
«Già prima di questa crisi, avevo nostalgia dello charme della vita urbana che ha subito un colpo fatale con l'avvento dei cellulari. La poesia di Baudelaire dedicata all'incontro furtivo di sguardi con una passante oggi non sarebbe possibile. Adesso osservo che quel poco che restava dello charme urbano è stato deturpato dalla mascherine».

- E' contrario?
«Non è un giudizio militante. Probabilmente è giusto indossare una mascherina per proteggere se stessi e gli altri ma non vorrei che diventasse un'abitudine come in Asia. Se me lo chiedono, obbedirò e la porterò anche io. Ma lasciatemi la nostalgia dei volti senza mascherine».

- Oggi parliamo dl "distanziamento sociale". Lei che ama tanto le parole, cosa pensa di quest'espressione?
«Più che distanziamento, preferisco parlare di distanza. Dovremmo riscoprire il senso delle distanze. Io non ho nessuna nostalgia per i bacetti che si davano i francesi a tutto spiano prima della crisi. Un po' di distanza aiuta la civiltà. Non significa che bisogna cedere alla virtualizzazione del mondo e rinunciare all'incarnazione di un incontro fisico».

- Ci sono momenti in cui ha avuto paura?
«Ho vissuto bene il confinamento perché sono abituato a lavorare a casa e mia moglie è rimasta con me. C'è stato un momento in cui ho dovuto fare dei controlli medici. Ho temuto di avere il coronavirus ma era un'altra cosa. L'angoscia che mi attanaglia è legata al mio lavoro. Mi alzo ogni mattina chiedendomi se ho ancora qualcosa da dire».

- Ha qualche nuovo progetto di libro?
«È quello che cerco nelle mie notti insonni».

(la Repubblica, 23 maggio 2020)


La "soluzione finale" di Khamenei

La Guida suprema iraniana evoca una nuova “Endlösung” per Israele

Il segretario di stato americano Mike Pompeo e il premier israeliano Benjamin Netanyahu hanno accusato il leader supremo dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, di invocare il genocidio degli ebrei. Il poster condiviso sul sito web del leader supremo iraniano mostra persone in festa nel complesso del Monte del Tempio a Gerusalemme dopo averlo catturato da Israele e una bandiera palestinese che si alza sulla moschea di al Aqsa, "La Palestina sarà libera. La soluzione finale", dice il testo. Endlösung der Judenfrage. La "soluzione finale della questione ebraica" è l'espressione usata dai nazisti alla Conferenza di Wannsee che pianificò in dettaglio lo sterminio di undici milioni di ebrei (i nazisti sarebbero riusciti a incenerirne sei). "Il leader del principale sponsor mondiale del terrorismo e dell'antisemitismo nega l'Olocausto, invia denaro e armi ai terroristi anti israeliani e ora invoca l'espressione nazista della soluzione finale", ha detto Pompeo. La questione è terribilmente seria. "Le minacce di Khamenei le fanno venire in mente il piano nazista della 'soluzione finale' per annientare il popolo ebraico", ha affermato Netanyahu. "Dovrebbe sapere che qualsiasi regime che minaccia la distruzione dello stato di Israele deve affrontare un pericolo simile". Gli ebrei israeliani hanno qualcosa che gli ebrei europei negli anni Quaranta non avevano e che garantisce che le minacce di Khamenei non siano facilmente realizzabili: uno stato e la sua straordinaria potenza militare. Il punto è che Khamenei ha chiesto la distruzione di Israele in numerose occasioni e che si riferisce a Israele come a un ''tumore canceroso". Il punto è che in occidente dovremmo prendere sul serio queste parole. L'Iran ha la chiara volontà di distruggere lo stato ebraico, lo proclama apertamente dal 1979. Quello che gli manca sono i mezzi per poterlo fare. Una testata atomica. E' qui che Israele non può essere lasciato solo. E' compito anche nostro, delle democrazie, lavorare per far si che quei mezzi non li abbiano mai.

(Il Foglio, 22 maggio 2020)


Domenica in Israele il processo a Netanyahu

Si avvicina il processo a Benjamin Netanyahu e sale la tensione per un evento che, per la prima volta nella storia del Paese, vede un premier in carica salire sul banco degli imputati. La giornata fatidica è domenica 24 maggio, quando il primo ministro, fresco di nomina per il nuovo governo di emergenza nazionale ma il più longevo nella vita politica israeliana, dovrà rispondere in un'aula di Gerusalemme alle accuse di corruzione, frode e abuso di potere derivanti da tre inchieste terminate dopo una complessa istruttoria. Accuse che Netanyahu - la cui richiesta di non partecipare alla prima udienza gli è stata negata dal Tribunale - ha sempre respinto con fermezza rispondendo agli inquirenti e definendo l'incriminazione «un tentativo di ribaltamento di potere da parte di una magistratura politicizzata». Tesi - quella del golpe giudiziario - che ha ripetuto nelle tre campagne elettorali che hanno contraddistinto la lunga crisi politica israeliana terminata la scorsa settimana con la formalizzazione dell'esecutivo con il suo ex avversario Benny Gantz.

(Il Messaggero, 22 maggio 2020)


Perché si parla molto di annessione da quando Israele ha un governo

Abu Mazen ha decretato la fine di tutti gli accordi con Gerusalemme e con Washington, ma le minacce confuse e le risposte sconnesse hanno lasciato indifferenti anche i palestinesi che vorrebbero una posizione forte da parte del loro leader e la reazione del mondo arabo. Ma non hanno un piano.

di Micol Flammini

ROMA - Martedì, durante una riunione della leadership palestinese, Abu Mazen ha decretato la fine di tutti gli accordi, di tutti gli impegni presi con Israele e gli Stati Uniti come conseguenza del piano di annessione della Cisgiordania. Tutti, anche quelli che riguardano la sicurezza. Il leader dell'Autorità palestinese non ha risposto alle domande dei giornalisti presenti né alle lamentele di chi gli faceva notare, tra i funzionari palestinesi, che la decisione l'aveva presa senza consultare nessuno e sembrava imprecisa e confusa. Alcuni dei membri del suo partito, al Fatah, hanno anche abbandonato la sala in cui si teneva la riunione e hanno rilasciato dichiarazioni ai giornali israeliani per dire che la situazione non è chiara per nessuno e che le parole di Abu Mazen non corrispondono alla posizione ufficiale palestinese. I membri del partito attendono delle istruzioni più chiare, e hanno detto al giornale israeliano Haaretz che vorrebbero da parte del loro leader una posizione più forte sulla base di tre principi: dichiarare gli accordi nulli, annullare il riconoscimento di Israele e convocare tutte le fazioni palestinesi per concertare una strategia comune. A poche ore dalle dichiarazioni di Abu Mazen sono iniziati annunci e contro annunci e alcuni funzionari palestinesi hanno fatto sapere a Israele, alle Forze di difesa e all'agenzia di sicurezza Shin Bet che un certo coordinamento sarebbe rimasto comunque, anche perché Israele controlla alcuni posti di blocco e alcune strade in Cisgiordania e i palestinesi devono coordinarsi con loro per attraversare quei luoghi, Nel caos del suo annuncio, c'è soltanto un punto che tutti hanno compreso: che il governo israeliano adesso c'è, esiste e che la possibilità che il premier Benjamin Netanyahu proceda all'annessione della WestBank è sempre più reale. Ha l'avallo dell'America, gli manca ora di risolvere alcuni attriti dentro al governo, ma il premier ha le idee chiare e vuole andare avanti, vuole rischiare e i rischi sono molti.
  A fine gennaio Donald Trump aveva accolto a Washington Netanyahu e Benny Gantz, allora rivale del premier e adesso compagno di governo. Li aveva chiamati per esporre il suo "deal of the century", la sua offerta "generosissima" che prevede l'annessione da parte di Israele degli insediamenti della Cisgiordania e la valle del Giordano, che lo stato ebraico controlla dal 1967. Gerusalemme, secondo il piano, dovrebbe rimanere capitale indivisa di Israele e in cambio gli israeliani dovranno fermare la costruzione di insediamenti nei territori arabi, Il resto potrà rimanere nelle mani dei palestinesi che potranno costruire un proprio stato a cui apparterranno anche un reticolo di vie, strade, ponti e tunnel per collegare la parte palestinese della Cisgiordania a Gaza Il documento di 80 pagine era stato presentato durante una conferenza stampa in cui Trump e Netanyahu - Gantz se ne era già andato via in camicia e jeans e aveva chiesto agli americani di evitare che lui e il premier si incontrassero - esponevano la grande offerta davanti agli ambasciatori di Oman, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti,
  Il leader del Likud era poi tornato in Israele, allora ancora senza un governo, con in tasca la grande approvazione del presidente americano e con un'enorme promessa da fare agli israeliani: l'annessione della Cisgiordania Avrebbe voluto procedere subito, ma su richiesta degli Stati Uniti ha deciso di rimandare. Israele è tornata al voto il 2 marzo, la terza elezione in un anno, nei seggi già preparati per la quarantena: Netanyahu ottiene più seggi del rivale ma non la maggioranza. I frettolosi parlavano già di quarta elezione, poi Gantz ha dato la sua disponibilità per un governo di unità nazionale: "In tempi eccezionali servono scelte eccezionali", aveva detto. Questo "sì" a Gantz è costato molto, la sinistra gli rimprovera di aver tradito le sue battaglie, il suo partito, Kahol Lavan, ha iniziato a perdere pezzi, ma il governo è nato - ha 36 ministri e 16 vice - e si è insediato domenica con Netanyahu premier per 18 mesi e Gantz ministro della Difesa, poi ci sarà il cambio.
  Domenica davanti alla Knesset il leader del Likud ha preso la parola per primo, ha detto di essere felice di collaborare con Gantz, ha ricordato la loro missione del 2014 a Gaza, quando il ministro della Difesa era capo dell'Idf, ha parlato del budget, un'urgenza per lo stato, e della sua promessa "Le regioni della Cisgiordania sono la culla del popolo ebraico - ha detto - E' tempo di estendere la legge di Israele. Questo passaggio non ci porterà più lontano dalla pace, ci avvicinerà. La verità, e tutti lo sappiamo, è che i coloni di Giudea e Samaria rimarranno il qualsiasi accordo faremo". Gantz non ha toccato l'argomento, in passato ha detto di essere contrario, ma ha comunque firmato l'intesa di governo in cui c'è scritto che dal primo luglio Israele potrebbe procedere all'annessione del 30 per cento dell'area C della Cisgiordania, "se gli Stati Uniti saranno d'accordo". Prima ci vorrà l'approvazione da parte della Knesset e sarà questo il punto in cui il governo di unità nazionale potrebbe traballare. E' il primo luglio la data che tutti guardano per capire il futuro di Israele.
  Il piano, nonostante l'appoggio degli Stati Uniti e oltre la resistenza palestinese, potrebbe anche mettere a rischio alcuni dei più recenti progressi diplomatici con il mondo arabo nati in funzione anti iraniana, in particolare con gli stati del Golfo, che hanno, almeno formalmente, biasimato l'annessione. I sauditi hanno confermato il loro sostegno ai palestinesi, i ministri degli Esteri della Giordania e dell'Egitto hanno rilasciato dichiarazioni per dire che l'annessione metterebbe a rischio la pace nella regione. Poi ci sono i rapporti con l'Unione europea da considerare, Josep Borell, alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza, ha già detto che Bruxelles non riconoscerà l'annessione e ci sono alcuni paesi che minacciano sanzioni contro Gerusalemme. Sul fronte interno non c'è solo il silenzio di Gantz da gestire ma ci sono anche i deputati di estrema destra, per i quali il piano trumpiano non è affatto generoso, anzi il solo fatto che ammette la creazione di uno stato palestinese e che chiede di bloccare gli insediamenti lo rende, ai loro occhi, poco ambizioso.
  Netanyahu quindi potrebbe dover rimandare la sua promessa per tenere in piedi il governo. Potrebbe preferire che il paese si riprenda del tutto dalla crisi sanitaria e venga votato il nuovo budget E' pronto a negoziare sui tempi dell'annessione ma non sull'annessione stessa. Il suo mandato da premier scadrà il 13 novembre del 2021, poi sarà il momento di Gantz e probabilmente anche il momento di un'altra epoca per Israele: la prima dopo dieci anni di Netanyahu al governo.
  A decidere come e quando avverrà l'annessione, "se gli Stati Uniti saranno d'accordo" - e lo saranno - sarà soltanto Israele. I palestinesi, come ha dimostrato il non-annuncio di Abu Mazen, non hanno piani da opporre all'annessione. Sono divisi, non hanno una visione da presentare in alternativa ai piani di Gerusalemme. Tutti sono rimasti freddi all'annuncio. Anche i palestinesi sembrano attendere il primo luglio, nel frattempo danno risposte confuse, senza un progetto, una controproposta o un'offerta.

(Il Foglio, 22 maggio 2020)


IL CIMITERO EBRAICO DI MANTOVA
Scheletri nell'ex ceramica. Sono in zona che fu ebraica

Affiorano scheletri nell'ex ceramica, vicino all'antico cimitero ebraico. Il ritrovamento immediatamente a ridosso dell'antico cimitero. Le analisi delle ossa potrebbero riaprire la partita con l'Unione delle Comunità Ebraiche.

di Enrico Comaschi
« ... entrato per la portella che dà ingresso alla suddetta ortaglia, ho rinvenuto alla destra due lapidi fitte nel muro con iscrizioni in ebraico e due altre alla sinistra pure fitte nel muro, e queste sepolte per un terzo nella terra segnali dimostranti che una volta vi fu cimitero; di fatto interrogato l'Ortolano che coltiva la suddetta ortaglia, mi disse che quello era il vecchio cimitero degli Ebrei e che all'atto di riffare la muraglia destra ci furono rimesse le dette due lapidi e li stessi Ebrei gli dissero che quelle erano lapidi sepolcrali all'uso loro e di una data di trecento anni addietro ... ».

 
   Queste le parole del perito ingegnere Francesco Bronzi. Nel 1787 descrisse così le proprietà dell'Università degli Ebrei a proposito dell'orto con casa censito al mappale della parrocchia di Santa Caterina in corrispondenza di via Cappadocia (la citazione e il riferimento sono contenuti. nel libro "Il gradino degli ebrei" a cura di Anna Maria Mortari e Claudia Bonora Previdi).
   Chissà se gli addetti agli scavi a fianco dell'ex ceramica conoscevano questa relazione quando l'altro ieri si sono ritrovati davanti almeno tre scheletri umani completi. E chissà se sapevano di trovarsi in un fondo ebraico a poche decine di metri da dove Bronzi aveva individuato il primo luogo di sepoltura della comunità, concesso nel 1442, oggi a fianco dell'ex ceramica. Le ossa andranno analizzate e datate, ma il luogo in cui sono state ritrovate suscita più di un'ipotesi che si tratti in effetti di sepolture ebraiche: il confine del cimitero è a pochi passi, a ridosso di via Argine Maestro, una ventina di metri al massimo.
   Negli ultimi dieci anni si è spesso fatto riferimento a quell'area chiusa tra via Argine Maestro e il lago Inferiore. Su questa porzione di terreno in particolare si è consumata una battaglia politica arrivando, alla fine, ad un'intesa per procedere con i lavori di Mantova Hub. Il presupposto dell'intesa era che nel vecchio cimitero non ci fossero più sepolture in quanto Napoleone aveva fatto spostare il cimitero al Rigoletto: non che questa considerazione sia stata accettata dai rabbini ultraortodossi del Comitato europeo per la tutela dei cimiteri ebraici, che tuttora chiedono uno stop ai lavori, ma una quadra era stata trovata tra molte difficoltà.
   Ora però, se le analisi delle ossa e l'incrocio dei mappali confermeranno che il cantiere dell'ex ceramica è incappato nell'estrema propaggine del cimitero ebraico, il problema si proporrà di nuovo. Perché questa volta non si tratta soltanto di trovare una soluzione per rendere fruibile un prato: questa volta le ossa ci sono e come dimostra la fotografia che pubblichiamo in questa pagina sono ben visibili e richiamano all'approfondimento della storia mantovana.
   Sull'edizione di lunedì avevamo riportato la notizia del ritrovamento di vecchie fondazioni che, in effetti, si vedono a ridosso del posto in cui sono stai ritrovati gli scheletri. Il cantiere era stato fermato, ma i tecnici della sovrintendenza ai beni archeologici avevano ritenuto di sbloccarlo nel giro di pochissimo tempo. Impossibile, a distanza, capire se insieme agli scheletri siano state ritrovate lapidi o pezzi dilapidi: il cantiere è blindato.
   A questo punto, probabilmente, gli scavi proseguiranno per vedere cosa c'è sotto questi scheletri: ci vorrà più tempo di quanto non sia stato necessario per i muri di fondazione.

(Gazzetta di Mantova, 21 maggio 2020)


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Sono sepolti a Mantova i grandi maestri della Qaballah

Dieci anni fa la visita di un gruppo di rabbini ultraortodossi. Volevano pregare sulla tomba di Azariah Da Fano.

 La storia
  Sono passati dieci anni esatti da quando la Gazzetta di Mantova ha riportato la notizia di un gruppo di rabbini ultraortodossi che erano arrivati in città per pregare sulla tomba di Azariah Da Fano (Fano, 1548 - Mantova, 1620), considerato uno dei padri della Qaballah.
  Da allora il problema della tutela dell'antico cimitero ebraico si è trasformato in un caso politico, ma non bisogna dimenticare il risvolto storico della rivelazione su Da Fano.
  Mantova è stata una delle capitali della Qaballah, ed è ancora considerata tale, e nel cimitero di San Nicolò sono sepolti molti grandi maestri: persone che sono conosciute e studiate in tutto il mondo. Nel 2016 un rabbino israeliano aveva scovato a Budapest l'elenco delle sepolture, e aveva fatto un salto sulla sedia: «Moshè Zacuto, Aviad Basilea, David Pinzi, Yehudà Briel - aveva annunciato Rav Shmaya Levi, che dopo la scoperta aveva portato subito la notizia di persona alla Gazzetta - sono seppelliti a Mantova, ora lo sappiamo per certo. Per la nostra comunità questi nomi sono i maestri. Ancora oggi leggiamo e studiamo le loro opere ogni giorno». Molte lapidi sono state ritrovate, molte altre sono state trafugate nel corso dei secoli e sono andate perdute. La comunità ultraortodossa, formata soprattutto da rabbini israeliani, statunitensi e ucraini, ha combattuto il progetto Mantova Hub: avrebbe voluto che l'antico cimitero fosse lasciato così com'era.

(Gazzetta di Mantova, 21 maggio 2020)


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Proseguono i lavori. Murari: Ucei informata

«Gli scavi stanno avvenendo con molta attenzione e scrupolo guidati dalla Soprintendenza, che ci ha comunicato che si trovano al di fuori dell'antico cimitero ebraico - ha dichiarato l'assessore all'urbanistica Andrea Murari - ho in ogni caso informato l'Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) dei ritrovamenti e delle indicazioni della Soprintendenza e ho proposto di organizzare appena possibile un confronto congiunto. La collaborazione con l'Unione è stata massima nell'intenzione di preservare al meglio l'antico cimitero ed arricchire insieme tutto il progetto di Mantova Hub».
   Di tutt'altro tenore la posizione del consigliere di minoranza Giuliano Longfils: «Tutto quello che è stato fatto dal 1852, quando comunità ebraica ha dato al regno austriaco l'intero sedime, fino al 2017, certifica che anche il terreno di Mantova hub è area cimiteriale. Questa amministrazione si comporta in modo superficiale: lì non dovrebbe essere toccato nulla».

(Gazzetta di Mantova, 22 maggio 2020)


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Gli archeologi sugli scheletri: «Fossa comune, non cimitero»

La Soprintendenza: resti di persone morte per un evento come un'epidemia. Gli esperti escludono che l'area del ritrovamento rientrasse nella zona ebraica.

di Nicola Corradini

 
«Siamo davanti a scheletri di individui che morirono probabilmente a seguito di un singolo evento - come un'epidemia di peste - e che furono sepolti insieme in una fossa scavata appositamente. Nulla a che vedere, pertanto, con il rituale funerario caratteristico della religione ebraica». Come dire: l'antico cimitero ebraico che sorgeva aldilà del confine di via Argine Maestro, nell'area di San Nicolò, non c'entra. Con una nota nutrita e dettagliata la Soprintendenza di Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Cremona, Lodi e Mantova interviene sul ritrovamento di antichi resti umani avvenuto a inizio settimana nel cantiere dell'ex Ceramica.
   Un ritrovamento che, considerando la storia di questa zona non può non far sorgere delle domande. Cosa che la Gazzetta ha fatto nell'edizione di mercoledì. «Il settore attualmente soggetto a indagine archeologica - risponde la Soprintendenza - nel quale sono venuti alla luce i resti, è situato appena a nord dell'ex Ceramica, tra l'edificio e via Santa Marta. Si trova pertanto al di fuori dell'antico cimitero ebraico, che occupava parte dei terreni posti nell'area di San Nicolò, al di là dell'attuale via Argine Maestro e oltre un muro di recinzione riportato anche nei catasti storici. È possibile che l'area degli scavi si collochi nello spazio occupato un tempo dalle ortaglie annesse alla scomparsa chiesa di Santa Marta e che effettivamente entrarono a un certo punto nella proprietà dell'Università degli Ebrei. Tali terreni, però, furono gestiti come spazi ortivi e dati in affitto a privati, come dimostra una nutrita serie di documenti di contratto conservati negli archivi. Soprintendenza e archeologi hanno svolto uno studio preliminare approfondito sull'antica storia e topografia di questa zona».
   «Fin dall'inizio dei lavori - prosegue la nota - e proprio perché consapevole della delicatezza dell'area, la Soprintendenza ha coordinato l'indagine con la massima cautela e attenzione, insieme ai responsabili del Comune e agli archeologi che lavorano sul campo con grande professionalità. I lavori procedono e al momento non è emerso alcun elemento che possa fare ipotizzare un utilizzo dell'area come parte del cimitero ebraico: non sono presenti né frammenti di lapidi né iscrizioni ( ... ). Occorreranno più dati per poter datare con precisione la fossa e i suoi occupanti e comprendere meglio a quale traumatico accadimento storico vada ascritta la loro morte. Si prevede già di divulgare il risultato di tutte queste indagini, insieme alle altre informazioni provenienti dallo scavo dell'ex Ceramica, ma ciò potrà avvenire solo a lavoro ultimato: sono frammenti preziosi della millenaria storia mantovana, una storia che, come Soprintendenza, tuteliamo col massimo impegno perché possa essere conosciuta da ogni cittadino».

(Gazzetta di Mantova, 22 maggio 2020)



"Basta accordi con Israele" Tramonta il sogno di pace del popolo palestinese

Abu Mazen reagisce agli annunci di Netanyahu: "I patti con lo Stato ebraico e Usa non valgono più" Entrambe i leader dicono addio alla formula "due popoli due Stati". Ma nei Territori si rischia il caos. Rompere la collaborazione tra i servizi segreti però un pericolo per tutti

di Giordano Stabile

Alla fine su una cosa, una soltanto, Abu Mazen e Benjamin Netanyahu si sono ritrovati d'accordo. Il processo di Oslo è morto, un guscio vuoto, una finzione. E toccato al presidente palestinese prenderne atto. Dopo mesi di annunci, in una riunione notturna, ha comunicato alla leadership dell'Olp che «lo Stato di Palestina non è più tenuto a rispettare gli accordi con i governi americano e israeliano e tutte le obbligazioni a essi legate, comprese quelle sulla sicurezza». E stato un incontro tempestoso, con molti delegati dubbiosi sulle reali intenzioni dell'84enne raiss, al potere da quindici anni senza essere mai rieletto e indebolito dalla crisi economica e dalla fronda interna. Se per Netanyahu il dopo-Oslo è molto chiaro ed è una Israele più grande, per Abu Mazen è un passo verso il buio. Il messaggio era rivolto più all'America che a Israele. Un appello a fermare Netanyahu. Perché rompere davvero gli accordi di Oslo, l'inizio di un percorso che doveva portare alla nascita di uno Stato indipendente, significa svuotare l'Autorità palestinese e condannarsi all'irrilevanza.
  Certo anche lo Stato ebraico è interessato al mantenimento di Oslo per quanto riguarda la collaborazione fra i servizi di sicurezza, che sotto la presidenza di Abu Mazen ha consentito di evitare una nuova Intifada e limitato gli attacchi terroristici. Lo Shin Bet israeliano e il Moukhabarat palestinese hanno lavorato gomito a gomito, come ha mostrato con un certo realismo la serie tv Fauda, senza scandalizzare più di tanto. In base agli accordi del 1993 la Cisgiordania è stata divisa in tre. L'Area C, il 60 per cento dei 5655 chilometri quadrati totali, è sotto controllo delle forze di sicurezza israeliane, ed è la zona dove sorgono gli insediamenti che Netanyahu intende annettere assieme alla valle del Giordano. L'Area B è sotto controllo misto, mentre l'Area A, il 20 percento, è affidata in esclusiva alla polizia palestinese.
  Lo status quo ha creato un semi-Stato, con una imponente burocrazia, che soddisfaceva parte della leadership e il mondo degli affari palestinese. Ma è stato spazzato via da Donald Trump e il «piano di pace americano». Quando Abu Mazen, a fine febbraio, ha visto la mappa della «nuova Palestina» ha rischiato il collasso. Lo Stato indipendente era diventato «una gruviera» come lui stesso lo ha definito, poche aree colorate di verde, immerse nell'Israele ingrandita. Una mappa tagliata su misura per isolare i 2,6 milioni di palestinesi della West Bank dai 600 mila israeliani a Gerusalemme Est e negli insediamenti. La «gruviera» è la fine del sogno di indipendenza, ancora più impresentabile perché priva di Gerusalemme Est. Abu Mazen ha cominciato allora a rilanciare l'idea di uno «Stato unico-, con pari diritti fra ebrei e palestinesi, una vecchia proposta di Mustafa Barghouti, diventata di colpo più realistica dei «due popoli, due Stati» di Oslo.

 Il semi-Stato
  Per Israele la proposta è inaccettabile, perché mette in discussione il «carattere ebraico» dello Stato. Fra il Mediterraneo e il Giordano i palestinesi, compresi i cittadini arabo-israeliani, sono circa il 45%. L'idea di Netanyahu è di continuare con il semi-Stato. Che però si riduce pezzo dopo pezzo, come la Pelle di Zigrino di Balzac. Lungo la Route 60 che sale da Gerusalemme verso Nablus lo si può toccare con mano. Insediamenti che si espandono, con le loro villette immerse nel verde dei vigneti e degli ulivi, strade riservate ai loro abitanti, che evitano il caos delle città palestinesi strangolate. Per mantenere la calma nel semi-Stato Netanyahu ha pensato al dopo-Abu Mazen. L'uomo scelto è Mohammed Dahlan, capo di Al-Fatah a Gaza, cacciato dal raiss nel 2014 quando ha capito che voleva fargli le scarpe. Dahlan ha trovato protezione ad Abu Dhabi ed è diventato il braccio destro del principe ereditario Mohammed bin Zayed. Ha creato legami stretti fra i Servizi dei due Paesi, e con la compagnia di sorveglianza elettronica Nso che dà la caccia a potenziali terroristi palestinesi come ai dissidenti emiratini.

 Gli alleati arabi
  Attraverso questi rapporti Netanyahu si è guadagnato l'appoggio di Emirati e Arabia Saudita, mentre l'Egitto, che dipende dai soldi del Golfo, non ha la forza di opporsi. E probabile però che l'ipotesi Dahlan alla guida di un'Autorità dimezzata non vada in porto.
  Lo stesso Shin Bet, il servizio interno israeliano, ha messo in guardia da annessioni non concordate, perché porteranno all'esplosione della violenza. L'opportunità è stata fiutata dall'Iran. Una settimana fa la guida suprema dell'Iran ha proposto la Striscia di Gaza come modello per tutti i Territori, in quanto «i sionisti capiscono soltanto il linguaggio della forza» e anche la Cisgiordania «deve essere armata». Teheran ha rifornito e addestrato le forze speciali di Hamas, e, dopo la rottura del 2011, un movimento ancora più estremista, la Jihad islamica. In caso di collasso dell'Autorità palestinese i Pasdaran cercheranno di fare lo stesso a Nablus o Hebron.
  Una scenario da incubo che assilla la comunità internazionale. L'Unione europea, in particolare la Francia, è pronta a passi senza precedenti, come sanzioni economiche, se Israele andrà avanti con le annessioni. L'Alto rappresentante Josep Borrell ha anticipato che l'Ue «non accetterà modifiche dei confini del 1967». Netanyahu conta però sul veto di Austria e Paesi dell'Est. Bruxelles è anche preoccupata dalle ripercussioni sulla Giordania. Re Abdullah, custode della moschea di Al-Aqsa, ha avvertito che lo Stato ebraico andrà incontro a «conflitti» con il regno hashemita. Il sovrano governa una popolazione per metà palestinese, teme un'insurrezione se gli arabi verranno tagliati fuori per sempre da Al-Quds, come chiamano la Città Santa. «King Bibi», che domenica dovrà comparire alla prima udienza nel processo per corruzione, è sordo a tutti gli avvertimenti, va avanti come un treno. Sa che la «finestra di opportunità» potrebbe chiudersi a novembre, se Trump perdesse le presidenziali. E questa, tutto sommato, l'unica carta in mano ad Abu Mazen. Il vecchio raiss sa che senza gli accordi con Israele «non potrebbe sopravvivere un giorno», come sintetizza una giornalista palestinese di lungo corso, adesso allevatrice di cavalli a Ramallah. Ma non può passare allo storia come il leader arabo che «ha venduto Gerusalemme».

(La Stampa, 21 maggio 2020)


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Abu Mazen chiude a Usa e Israele

Erekat chiama la Santa Sede. Che invita al dialogo e alla ricerca di un negoziato. Il leader palestinese ha annunciato l'interruzione delle intese anche in materia di sicurezza. Ma potrebbe solo voler lanciare un segnale.

di Barbara Uglietti

Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen ha annunciato l'interruzione di tutti gli accordi con Israele e con gli Stati Uniti, compresi quelli che riguardano la sicurezza La decisione - comunicata alla leadership palestinese durante una riunione di emergenza, l'altra notte, a Ramallah - è stata presa in reazione alla proposta di annessione di parte della Cisgiordania e della Valle del Giordano contenuta nell'"Accordo del secolo" che il presidente statunitense Donald Trump ha presentato lo scorso gennaio. Proposta che l'Amministrazione americana ha fin da subito subordinato a un periodo di negoziazione; proposta su cui la stessa Amministrazione Usa si è mostrata a più riprese prudente; proposta che da settimane è al centro di un intenso dibattito interno alla società civile e alla politica israeliana. Il nuovo governo di unità nazionale guidato dal premier Benjamin Netanyahu cui subentrerà tra 18 mesi l'attuale ministro delle Difesa Benny Gantz si è mostrato sin qui cauto, sensibile alle conseguenze sul piano regionale (evidenziate in particolare dai vertici delle Forze Armate) di una decisione sulle annessioni, e disponibile all'ascolto. Non è la prima volta che il presidente Abu Mazen annuncia la chiusura delle relazioni con gli Stati Uniti l'ultima a febbraio senza poi dare seguito alle minacce.
   Anche adesso la sua potrebbe essere una mossa volta a richiamare l'attenzione su un problema che preoccupa Ramallah. Secondo fonti sentite dal quotidiano israeliano Haaretz, Abu Mazen non sarebbe intenzionato a chiudere la porta: punterebbe solo a lanciare un segnale, riducendo l'impegno delle forze palestinesi nel coordinamento con la controparte israeliana. Va ricordato che sono gli Accordi di Oslo del 1993 (con altri memorandum successivi) a fissare i parametri della cooperazione, anche, e soprattutto, in fatto di sicurezza. Abu Mazen ha comunque ribadito l'impegno a una soluzione del conflitto «basata sulla soluzione dei due Stati», e ha rinnovato la disponibilità a tornare al tavolo dei negoziati purché si svolgano «sotto gli auspici internazionali».
   Ieri, poi, Saeb Erekat, capo negoziatore e segretario generale dell'Olp, ha raggiunto telefonicamente l'arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per le relazioni con gli Stati, rappresentandogli le preoccupazioni palestinesi sulla possibilità che la sovranità israeliana venga applicata unilateralmente su alcune porzioni dei Territori. La Santa Sede ha ribadito che il rispetto del diritto internazionale «è un elemento indispensabile affinché i due Popoli possano vivere fianco a fianco in due Stati». E ha espresso «preoccupazione per eventuali atti che possano compromettere ulteriormente il dialogo», auspicando «che gli israeliani e i palestinesi possano trovare di nuovo, e presto, la possibilità di negoziare direttamente un accordo, con l'aiuto della Comunità internazionale».

(Avvenire, 21 maggio 2020)


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«Stop agli accordi con Israele e Usa». Ma solo Fatah ci crede

Sembra più una minaccia che una decisione vera e propria. E non è passata inosservata la scarsa incisività del discorso del presidente Abbas.

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Un annuncio del genere non molti anni fa avrebbe innescato una crisi regionale, manifestazioni popolari nelle strade dei Territori palestinesi occupati e l'invio di rinforzi di truppe e mezzi corazzati israeliani in Cisgiordania.
   Invece le parole con cui martedì sera, dopo una riunione dei vertici politici palestinesi, il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha decretato la fine degli accordi con Israele e Usa a causa delle intenzioni del governo Netanyahu di voler annettere allo Stato ebraico la Valle del Giordano e larghe porzioni di Cisgiordania, è stato accolto tiepidamente dai palestinesi e con palese disinteresse nello Stato ebraico.
   «Sapete quante volte il presidente Abbas ha annunciato o minacciato l'interruzione dei rapporti con Israele, inclusa la cooperazione di sicurezza (tra le intelligence delle due parti)? Tante. E alle sue parole non sono seguite azioni concrete. La nostra popolazione non ci crede più», ci dice l'analista Hamada Jaber di Rarnallah.
   I vertici di Fatah, il partito guidato da Abbas e spina dorsale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), ieri giuravano sulla sostanza del passo mosso dal presidente. «Siamo di fronte a una decisione storica, spiegava Osama Qawasme, portavoce di Fatah,,è la risposta all'attacco di Netanyahu e Donald Trump ai diritti legittimi del popolo palestinese e alle risoluzioni internazionali». Altri dirigenti di Fatah hanno usato toni simili.
   Hamada Jaber invece ridimensiona la portata dell'annuncio. «Lo considero più una minaccia che una decisione vera e propria, afferma «ì'altronde non è passato inosservato che il presidente Abbas sia stato poco perentorio e incisivo leggendo il suo discorso. L'intervento che pronunciò alle Nazioni unite lo scorso autunno e la sua condanna delle demolizione di case palestinesi a Wadi Hommus (a sud di Gerusalemme) erano stati molto più accesi contro Israele e Usa»
   Fonti dell'ANP ci riferiscono che la riunione dei vertici palestinesi è stata infuocata. Alcuni dei presenti hanno invocato, a tratti alzando la voce, di tagliare ogni rapporto con Israele e di dare all'occupazione militare israeliana l'intero peso del mantenimento dei tre milioni di palestinesi. Non si è parlato di uno scioglimento delle autorità palestinesi. Tuttavia nelle pieghe del dibattito, a mezza bocca, è emerso anche un possibile ritorno al periodo precedente agli Accordi di Oslo del 1993 (tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin) e, quindi all'esistenza dell'Anp che ha sgravato Israele dall'obbligo di fornire servizi a milioni di civili palestinesi sotto occupazione e non ha conquistato l'indipendenza. In questo clima ha avuto origine l'annuncio di Abbas.
   Ma il presidente non cerca lo scontro. Spera che l'Unione europea, le Nazioni unite e altre parti internazionali convincano Netanyahu a frenare l'annessione, almeno fino alle presidenziali Usa di fine anno che il presidente palestinese si augura possa vincere Joe Biden, il candidato democratico. Per questo ha ribadito che la via del negoziato resta aperta. «A patto - ha spiegato che si svolga sotto auspici internazionali (il Quartetto per il Medio oriente) e attraverso una Conferenza di pace basata sulla legittimità internazionale».
   L’opinione pubblica palestinese è divisa al suo interno. Da un lato reclama una posizione più ferma nei confronti di Israele e insiste per la fine della cooperazione di intelligence. Dall'altro pur non avendo fiducia nell'Anp teme il suo smantellamento che significherebbe disoccupazione per circa 200 mila persone e altrettante famiglie senza reddito.

(il manifesto, 21 maggio 2020)


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Abu Mazen minaccia (e bluffa): «Stop a tutti gli accordi di pace»

L'obiettivo è far saltare il piano di Trump per Israele

di Fiamma Nirenstein

GERUSALEMME - Mahmoud Abbas, al secolo Abu Mazen, ha un'ambizione chiara: essere ricordato come Arafat, l'uomo che ha vissuto per trascinare parte del mondo in uno scontro frontale con Israele, con lo scopo di destrutturarne le alleanze internazionali, prima fra tutte quella con gli Stati Uniti, e la sua stessa legittimità. Così, con un ennesimo «armiamoci e partite» che ancora non ha effettività pratica, ha giurato con un discorso urlato di voler cancellare ogni tipo di accordo con Israele. La minaccia investirebbe la vita civile, dall'elettricità all'acqua ai patti di sicurezza, passando per gli accordi Oslo del '93, di Hebron del '97, di Wy River del '98. Difficile che lo faccia: salterebbe la cornice dell'amministrazione civile e di commercio, la cooperazione, gli accordi per la sanità.
   La ragione conclamata nella rabbia è la paura che Netanyahu, adesso che è primo ministro, si affretti a realizzare il piano Trump che prevede l'annessione del 30 per cento dell'West Bank e della Valle del Giordano. Non sarà certo questione di pochi giorni, ma la proposta di Trump è sul tavolo sia di Netanyahu che di Gantz, che sarà fra 18 mesi primo ministro a rotazione. Le elezioni americane di novembre incombono sulla rielezione di Trump: Israele ne tiene certo conto, come i palestinesi che vogliono fare rumore almeno fino ad allora. E anche gli Usa sembrano rallentare un po'.
   Ma la verità è che molte volte Abu Mazen ha minacciato di spaccare tutto: le ragioni in genere sono soprattutto propagandistiche, perché funziona ogni volta che si dice «territori palestinesi occupati» e si parla di annessione israeliana. Ma i cosiddetti «territori» non sono palestinesi, né lo sono mai stati, né, secondo la legge internazionale, sono occupati, ma «disputati» secondo le risoluzioni Onu. Tuttavia già dall'Unione Europea il commissario Josef Borrell condanna preventivamente ogni «annessione». Intanto il primo ministro Shtayye chiede all'Onu sanzioni per Israele. Più diretto è l'ayatollah Khamenei, che accusa Israele di essere «il male». L'ondata è variegata, e lo sarà di più se si seguiterà a ignorare il contenuto di un piano che mette in mano a Israele solo territori abitati da ebrei (il 30%) e il 70% invece destina ai palestinesi, gli consente uno Stato con grande aiuto internazionale, mette alla prova una leadership che ha saputo solo rifiutare ogni proposta e ha sempre portato a campagne di terrorismo. Quanto alla Valle del Giordano, tutto il Medio Oriente diventerebbe possibile preda di eserciti di regimi autoritari se Israele non ne avesse il controllo. Pompeo, tornato negli Usa dopo tre giorni in Israele, si è dispiaciuto che Abu Mazen non voglia accettare la prima opzione del piano Trump, i colloqui far le due parti. Può darsi che coronavirus e furia politica rallentino questa opzione, e che i palestinesi, come sempre da 40 anni, distruggano ogni opzione di pace. Sarebbe un peccato per tutti.

(il Giornale, 21 maggio 2020)


«Vietato indossare shorts a scuola»

Studentesse israeliane in piazza

 
La protesta delle ragazze israeliane di Gedera
Di ritorno questa settimana nelle scuole dopo due mesi di assenza forzata per il Coronavirus, gli allievi israeliani di medie e licei hanno trovato ad attenderli agli ingressi un'altra insidia inaspettata. Un'ondata di calore impietosa e prolungata, con temperature fino a 40 gradi. I maschi sono stati ammessi anche se vestiti in modo 'casual'. Alle ragazze invece è stato vietato tassativamente di presentarsi con pantaloncini corti.
   Un primo caso isolato di una ragazza in shorts bloccata ai cancelli, verificatosi lunedì nella località laica di Raanana (Tel Aviv), ha subito fatto rumore nei media. La protesta si è estesa ad altri istituti.
   A Gedera, nel sud di Israele, ieri le studentesse ribelli erano oggi 150, secondo il sito Ynet. Bloccate ai cancelli, sotto al sole, hanno scandito indignate che i loro pantaloncini erano del tutto identici a quelli dei maschi. Poi sono state ammesse in classe, ma sotto la minaccia di sospensioni.
   In un'altra città laica, Petach Tikwa, una bambina di sette anni è stata obbligata a togliersi un abitino perché - è stato spiegato - «lasciava le spalle scoperte». In alcune località più progressiste - in particolare nella zona agricola di Emek Hefer, a nord di Tel Aviv - le autorità hanno invece sostenuto la lotta delle ragazze rilevando che in quel modo, più ancora che nelle lezioni in classe, dimostravano di aver assimilato concetti base di democrazia e libertà di espressione.
   Alla Knesset un deputato di sinistra, Nitzan Horowitz, si è scagliato contro «la polizia degli abbigliamenti» che nelle scuole, a suo parere, «dissemina umiliazioni». Nei banchi delle destre la protesta invece non è piaciuta. «Un po' più di modestia - hanno osservato deputati tradizionalisti - non guasta certo».
   Un giornalista di destra ha poi rilanciato su twitter il codice di abbigliamento stabilito per i suoi dipendenti dal tabloid Yediot Ahronot, che è stato in prima fila nel sostegno alle studentesse. «Anche in quella redazione - ha polemizzato - è vietato girare con pantaloncini corti e sandali da mare».

(Nazione-Carlino-Giorno, 21 maggio 2020)


Dopo Hitler, Khamenei torna a proporre la "soluzione finale" per gli ebrei

di Sarah G. Frankl

Jón Kalman Stefànsson sostiene che a volte "le parole sono come proiettili". Parlare di "soluzione finale" quando si parla di ebrei significa assumersi la responsabilità di quanto si afferma consapevoli che il suo vero significato è "sterminio degli ebrei".
  Se poi a parlare di soluzione finale è un dittatore islamico come Ali Khamenei a capo di un regime islamico come l'Iran che da sempre non fa mistero delle sue intenzioni verso Israele, allora quelle parole diventano veramente dei proiettili sparati deliberatamente per chiarire il proprio pensiero.
  Succede così che la guida sprema iraniana, Ali Khamenei, in occasione della imminente Quds Day, l'evento annuale organizzato dall'Iran per celebrare la "resistenza palestinese", pubblichi sul suo blog una immagine dove si vedono persone che celebrano la liberazione/conquista di Gerusalemme (dal "perfido nemico sionista") sotto le mura della moschea di Al-Aqsa. La soluzione finale, secondo il poster.
  L'uso di quella frase non è certo passato inosservato. Ieri il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, nonché il Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, hanno accusato il leader supremo iraniano di proporre lo sterminio degli ebrei usando le stesse parole di Hitler.

 La risposta di Khamenei
  Non si è fatta attendere la risposta di Khamenei il quale con un twitter precisa che "eliminare il regime sionista (Israele n.d.r.) non significa eliminare gli ebrei". Secondo il nazista persiano gli iraniani non sono contro gli ebrei. Certo, aggiungo io, a patto che non si difendano e si lascino sterminare nella loro terra. Insomma, gli ebrei vanno bene solo se sono morti oppure se non si difendono. "Questo vuol dire eliminare Israele e accadrà" conclude Khamenei.
  Naturalmente la cosa è passata del tutto inosservata su quei media che amano così tanto gli Ayatollah iraniani. Il successore della Mogherini, Josep Borrell, che tanto ama i nazisti iraniani, ci è allegramente passato sopra. A parte Pompeo e Netanyahu nessun politico occidentale si è sentito il dovere di rispondere a Khamenei e alla gravità delle sue parole. Evidentemente, chi tace acconsente.

(Rights Reporters, 21 maggio 2020)


Gerusalemme, scoperte stanze sotterranee risalenti a duemila anni fa

Scavando nella roccia sotto al Muro Occidentale della Città Vecchia di Gerusalemme, in Israele, gli archeologi hanno scoperto delle stanze risalenti a duemila anni fa. La loro funzione, al momento, è ancora sconosciuta.
La struttura sotterranea è una testimonianza della vita nella Città santa prima della distruzione del Secondo Tempio. Nelle stanze sono stati trovati anche oggetti di uso quotidiano.

(BI Italia, 20 maggio 2020)


Israele nella morsa dello scontro tra Usa e Cina

In bilico progetti «cinesi» in infrastrutture e tecnologie

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il freno tirato dagli Stati uniti all'annessione in tempi stretti a Israele di larghe porzioni di Cisgiordania palestinese potrebbe essere legato anche ai rapporti commerciali esistenti tra la Cina e lo Stato ebraico.
  Relazioni che Washington, impegnata in una guerra economica e diplomatica sempre più dura contro Pechino, segue con forte disappunto già da tempo. E potrebbe condizionare il rapido via libera all'annessione che vuole Netanyahu al soddisfacimento delle aspettative americane da parte del nuovo governo israeliano. Lo ipotizzano fonti israeliane precisando che non è a rischio il progetto di annessione, figlio diretto del piano di Donald Trump per il Medio Oriente. Il tempo però è un fattore decisivo. Netanyahu ha fretta: teme che Trump possa uscire sconfitto dalle presidenziali americane di fine anno a vantaggio del democratico Joe Biden.

 Ipotesi, voci
  Intanto il Jerusalem Post cita un non meglio precisato funzionario americano che ricorda agli alleati israeliani che gli Usa chiedono con insistenza di interrompere i legami con la Cina, in particolare in aree a rischio per la sicurezza. Ed è lecito pensare che il «problema» sia stato al centro dei colloqui della scorsa settimana a Gerusalemme tra il segretario di Stato Mike Pompeo e Netanyahu. Alla domanda se l'istituzione di una versione israeliana del "Comitato per gli investimenti esteri negli Stati uniti" riuscirà a soddisfare Washington, il funzionario americano ha risposto: «È un buon inizio ma andrei oltre».
  Quindi ha ribadito che Israele deve ridurre i legami con la Cina: da parte israeliana ha riconosciuto le nostre preoccupazioni ma non si è impegnata in azioni concrete» Gli Stati uniti sono talmente rigidi sulla questione che qualche giorno fa ha inizialmente destato sospetti a Pechino la morte improvvisa dell'ambasciatore cinese in Israele avvenuta, come è stato accertato, per causa naturali.
  La Cina è il terzo partner commerciale di Israele e gli scambi tra i paesi sono cresciuti del 402% negli ultimi dieci anni (14 miliardi di dollari). Un settore in cui gli Usa sono particolarmente sensibili è la tecnologia: masticano amaro di fronte ai miliardi di dollari che le società cinesi hanno investito in tecnologie israeliane che potrebbero essere usate dall'intelligence. Altra area critica è il coinvolgimento di aziende cinesi in importanti progetti infrastrutturali in Israele, a cominciare dal nuovo terminal, parzialmente costruito, nel porto di Haifa dove la sesta flotta della Marina Usa attracca almeno una volta all'anno.
  Israele non sembra avere alcuna intenzione di sganciarsi da un partner importante come la Cina e avrebbe chiesto agli Stati uniti forme di indennizzo per limitare i rapporti economici con Pechino. Richiesta che, riferiva un paio di giorni fa la radio militare israeliana, Washington ha respinto. Si aspetta comunque che Israele sia dalla sua parte nello scontro con la Cina.

(il manifesto, 20 maggio 2020)


«Gli occhi di nonna Liliana» svelano la Shoah

Le Illustrazioni per i più piccoli sulla storia della senatrice a vita Segre. L'autrice Giusy Mondani: così spieghiamo l'orrore ai più piccoli.

di Carla Parisi

 
MULAZZANO - Raccontare l'Olocausto ai più piccoli in maniera delicata ma profonda, attraverso gli occhi di una donna che, prima di diventare una testimone della più grande tragedia del Novecento, è stata una bambina che ha visto la sua vita normale sconvolta dall'orrore del nazifascismo. Questo lo scopo di «Gli occhi di nonna Liliana», il libro di Giusy Mondani, originaria di Mulazzano (Lodi), pubblicato a fine marzo da Europa Edizioni. Classe 1977, l'autrice è laureata in Disegno Industriale al Politecnico di Milano e vive da anni a Campoformido, in provincia di Udine. Da sempre appassionata di illustrazione per l'infanzia, questo è il suo primo albo: «Da tempo volevo realizzarne uno, e la scelta dell'argomento è arrivata l'anno scorso, quando come presidente dell'associazione «Genitori per la Scuola» della mia città ho organizzato un incontro con Oleg Mandic, sopravvissuto alla Shoah - racconta - e ho approfondito le testimonianze di molti reduci. Quella della Segre mi ha colpita perché è una donna e una madre, quando ha iniziato a vivere l'orrore era una bambina. Mi sono chiesta come potessi spiegare ai miei figli questa tragedia, e anche cosa farei e quali responsabilità mi prenderei in una situazione del genere».
   Il testo, dal tono quasi di filastrocca, è accompagnato da scene illustrate dove Segre compare sempre, accompagnando il lettore attraverso vari avvenimenti: la vita normale sconvolta dalle leggi razziali, la prigionia nei campi di sterminio, il ritorno e l'incontro con il marito Alfredo. Per raccontare questa storia Mondani ha scelto di affidarsi a poche parole e alla loquacità delle illustrazioni, nelle quali il colore è assente, a eccezione, spiega «di alcune note che caratterizzano il personaggio di Liliana. Importante è il ruolo del fiocco, che perde e ritrova con l'incontro con il marito, salvifico per lei».

(Il Giorno - Milano, 20 maggio 2020)


Caccia a Zemmour

"Viva l'islam, viva Allah". E il giornalista francese viene nuovamente aggredito per strada

di Giulio Meotti

ROMA - La prima minaccia di morte a Eric Zemmour risale al 7 giugno 2012, quando una lettera arrivò alla radio Rtl, il suo datore di lavoro, in rue Bayardnell ottavo arrondissement di Parigi. Zemmour è chiamato "SS in libertà" e gli autori annunciano di voler attaccare fisicamente il giornalista e la sua famiglia. L'ultima minaccia, due settimane fa, ha spinto anche il presidente francese Emmanuel Macron a esprimergli solidarietà "Parigi. Francia 2020. Questa donna inveisce contro Zemmour nel nome di 'Viva l'islam!'. E' ridicolo, non lo accetto. Mi rifiuto di abituarmi", ha reagito l'avvocato Gilles-William Goldnadel in un video. Il polemista del Figaro, antimmigrazione e antisistema, il più critico dell'integrazione e delle banlieue, camminava per strada a Parigi senza scorta (gli è stata tolta mesi fa) quando una donna gli si è avvicinata gridando "Éric Zemmour! Lunga vita all'islam! Lunga vita ad Allah! Lunga vita a Maometto!". E' il secondo episodio in due settimane. Il 1° maggio, Zemmour era stato aggredito e insultato sempre a Parigi mentre faceva la spesa. "Figlio di puttana! Fan culo a tua madre!", gli urlano. Il video, diventato virale, aveva causato tumulti sui social e un'ondata di indignazione da parte dei politici di tutte le parti.Nel novembre scorso, Zemmour era stato chiamato "bastardo sionista" da una fiche S, un sospettato di terrorismo, di fronte alla sede di Cnews durante una dimostrazione. Una manifestazione chiamata "Stop Zemmour" era stata indetta davanti all'emittente che ha arruolato il polemista di destra. Il co-fondatore del Coordinamento contro il razzismo e l'islamofobia, Abedelaziz Chaambi, prende la parola dal palco e chiama Zemmour "bastardo sionista", "virus" e "bestia disgustosa".

 "Ha un bersaglio nella schiena"
  Qualche giorno dopo, durante la grande "marcia contro l'islamofobia" a Piace de la République, un oratore dal palco arringa così la folla: "Se non ti piace Zemmour batti le mani!". Il giornalista finora è sfuggito al peggio. Ma fino a quando? "Se questa storia potesse aprire gli occhi a tutti coloro che, disumanizzando i propri avversari, hanno appeso dei bersagli dietro la loro schiena", ha scritto sul Figaro Céline Pina. E Zemmour non è certo il solo. Un anno fa, il filosofo ebreo Alain Finkielkraut era stato minacciato di morte e apostrofato da un islamista salafita durante una manifestazione dei gilet gialli. Lo stesso Finkielkraut avrebbe poi confessato: "Ho paura a girare per strada".
  L'autore dell'aggressione a Zemmour, Mehdi K, si fa chiamare "haram", proibito. Originario di Orleans, ha detto all 'Express di essere "manager di un rapper'' e dice di aver incontrato "per caso" quel giorno Zemmour. Uscendo dal commissariato di polizia, l'uomo ha pubblicato su Snapchat la prima pagina di una vecchia copia di France Soir, dal titolo:
  "Nemico pubblico numero uno". Come se Zemmour, la cui trasmissione è già boicottata da alcuni grandi gruppi industriali e che è stato già trascinato più volte in tribunale, fosse il nemico numero uno della banlieue francese. I rapper lo odiano. E Youssoupha declama; "Chi zittirà questo stupido Zemmour''?
  L'amico del giornalista Eric Naulleau è preoccupato: "Un giorno, ci sarà un dramma". Anche il padre di Zemmour ci pensa: "Lo uccideranno". Emilio Lussu avrebbe scritto che con queste parole (sionista bastardo, razzista islamofobo) "le pistole sparano da sole".

(Il Foglio, 20 maggio 2020)


L'ufficiale tedesco suonò la musica di Bach

di Giuseppe Giorgio Mariani

 
Polcenigo - Chiesa di San Giacomo
All'inizio della primavera 1945 verso sera, a Polcenigo, sul sagrato della Chiesa di San Giacomo, durante il nostro raduno di chierichetti, ci fu il passaggio di due militari tedeschi a cavallo diretti verso il Castello. Ci stupimmo, era strano quell'incontro. Entrammo in chiesa richiamati dal seminarista ospite dell'arciprete che ci avrebbe, come da programma, illustrato il funzionamento dell'organo del '700. Salimmo e si iniziò a prendere contatto con quella meraviglia. Il seminarista toccava i tasti e noi tiravamo le corde dei mantici e nasceva una musica frammentata: si interrompeva ci spiegava.
   Improvvisamente, senza fare rumore, salì fino a noi un ufficiale tedesco con il frustino e il cappello con visiera in mano. Sorrise e fece cenno di voler suonare. Ci raggiunse l'arciprete don Maurizio Amadio che tentò di dire qualcosa e l'ufficiale tedesco gli rispose in latino, sorridendo. Sorpresa per tutti. Si accomodò ed incominciò a suonare. Lo stupore fu generale e grandissimo perché non avevamo mai sentito la musica dell'organo così da vicino. Al suo cenno, di tanto in tanto, a turno tiravamo le corde dei mantici. Attimi per noi memorabili. La musica era bellissima. Poi ad un tratto finì, fece un inchino all’arciprete ed anche a noi, e disse «Johann Sebastian Bach. Toccata e fuga ... Immortalis! Grazie». Scese la scaletta di corsa e sentimmo i cavalli allontanarsi. Quei nomi a noi ragazzini non dicevano niente, ma don Amadio li scrisse sulla lavagna.
   Il giorno dopo ci chiese le nostre impressioni. Noi eravamo tutti entusiasti di quell'evento a cui avevamo partecipato, tanto che lui rimase un po' perplesso, il tedesco era pur sempre un nemico. Cercò di spiegarci che lo studio rende gli uomini migliori e quell'ufficiale era certamente molto istruito. Le sere successive dal sagrato vedemmo ancora il tedesco cavalcare velocissimo nel vicino campo sportivo. L'ultima sera si fermò al centro della strada che dal Castello porta al Borgo allargandosi sul sagrato e ci salutò ripetutamente. Noi ricambiammo con entusiasmo, ma avevo notato un mesto sorriso che mi parve come un triste addio.
   Il giorno dopo don Amadio ci disse che erano partiti tutti per la Germania e che sperava tanto ci arrivasse vivo, perché erano passate tante Fortezze Volanti da oscurare il cielo; anche noi lo speravamo e avremmo voluto suonare come lui, non era più un nemico da temere, ma un amico da proteggere. Toccata e fuga in Re minore opera 565, del vecchio J. S. Bach, Immortalis!

(il Giornale, 20 maggio 2020)


Antisemitismo in Ucraina, la polizia vuole schedare gli ebrei a Kolomyya

L'antisemitismo fa tappa in Ucraina, dove la polizia ha chiesto alla comunità ebraica di Kolomyya di consegnare una lista con i nomi di tutti gli ebrei della città, che si trova nella parte occidentale del paese.
A firmare la richiesta è stato l'ufficiale Myhaylo Bank, il cui intento formale è indagare "sulle organizzazioni che lottano contro i gruppi transnazionali ed etnici e la criminalità organizzata".
Il presidente della Comunità ebraica locale, Jacob Zalichker, ha rispedito alla mittente una richiesta, che da molti ebrei ucraini è stata vista come un atto di antisemitismo.
L'episodio risale alla seconda metà di febbraio, ma è venuto alla ribalta in questi giorni grazie a Eduard Dolinsky, direttore dell'Ukrainian Jewish Committee, che postato il testo della richiesta su Twitter:
"Vi chiediamo cortesemente di fornirci le seguenti informazioni relative alla comunità religiosa ebraica ortodossa di Kolomyja , in particolare: lo statuto della comunità e l'elenco dei membri, con indicazione di dati, numeri di telefono e luoghi di residenza".
Il testo è stato così commentato dallo stesso Dolinsky:
"È una vergogna e una manifestazione di palese antisemitismo ed è una cosa particolarmente pericolosa perché proviene dalle stesse autorità che invece dovrebbero combattere proprio quello che stanno mettendo in pratica [l'antisemitismo]".
Quanto accaduto in Ucraina è molto preoccupante. Nella storia del popolo ebraico quando si parla di lista non è mai una cosa buona, perché fotografa il momento che si sta vivendo.
D'altro canto l'ex repubblica sovietica non si è mai contraddistinta per una "simpatia" nei confronti degli ebrei, come nel caso di indire una festa nazionale per onorare Stepan Bandera, esponente nazionalista e antisemita ucraino, che collaborò con il Terzo Reich nei rastrellamenti degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.

(Progetto Dreyfus, 19 maggio 2020)


Verità, giustizia e bellezza nel pensiero di Adriano Olivetti

Storia e attualità del progettare, a partire dal modello Ivrea

di Sandra Sicoli e Pierpaolo Nicolini

 
Casa popolare di Borgo Olivetti a Ivrea
Parlare oggi di una figura come quella di Adriano Olivetti (scomparso sessanta anni fa), significa cercare di coglierne l'attualità del pensiero e dell'azione in campo industriale, architettonico, urbanistico, sociale, politico istituzionale e culturale. Due termini innanzi tutto sui quali riflettere oggi: quelli di "comunità" e di "città dell'uomo". li libro dal titolo Città dell'uomo, uscì pochi giorni prima della morte di Olivetti: contiene una summa del suo pensiero e costituisce una sorta di testamento spirituale. Vi è presentata, rielaborata, tutta la complessità del suo sogno. Pensiero e opera, due aspetti per lui inscindibili che derivano dall'eredità morale trasmessagli dal padre, Camillo; azione sostanziata da pensiero e radicata nella giustizia sociale. E' da questo testo che prende avvio la nostra riflessione. Due termini, "comunità" e "città dell'uomo", come vedremo, intrecciati e dal cui serrato dialogo sarà possibile scorgere una luce, un chiarimento per l'oggi e una interpretazione più puntuale sull'originalità.
  In questi giorni si celebra il settantesimo anniversario della prima fase economica della futura comunità politica europea. E' proprio l'analisi del significato che Olivetti attribuisce a "comunità", a segnare la differenza tra il suo progetto politico e quello che allora si avviava nell'ambito europeo. La genesi dell'Idea di Comunità è legata in modo indissolubile alla fabbrica fondata dal padre all'inizio del Novecento e sta a indicare la realtà umana dei lavoratori, operai, impiegati, tecnici, dirigenti. Comunità indica perciò una unità di persone responsabili di un processo produttivo, a vari livelli, che ne possono condividere i frutti, anche in termini di partecipazione agli utili. Una comunità fondata sul lavoro come principio di dignità e come garanzia per un livello di vita che permetta l'accesso al godimento dei beni essenziali: diritto all'abitare, alla città, alle relazioni sul territorio, ai servizi, alla sanità, alla scuola, alla cultura. Comunità di persone, di abitanti, di famiglie che si relazionano con altri tipi di lavoro sul territorio di riferimento. Comunità fondata sul principio di responsabilità e di appartenenza.
  Appartenenza a un territorio con i suoi propri confini geografici e topografici ereditati dalla storia, dalla tradizione che l'ha trasformato e modificato. Territorio amato, teatro delle vite che si sono avvicendate, abituate a una esistenza circoscritta da profili paesaggistici ben precisi, imprescindibili punti di riferimento per lo svolgersi della vita e delle funzioni abitative. E' su questo territorio amato, gestito con cura, affidato alle nuove generazioni che la comunità cresce con senso di armonia, ordine e con senso di responsabilità. E' il principio di solidarietà come istanza morale che precede l'aggregazione umana. E' tutto ciò a rendere poi vera la città, l'architettura, l'abitare. La quale città non sussiste dove non ci sia solidarietà, giustizia e verità. La città può essere bella se è vera. li bello nell'architettura e nell'arte è in quanto valore spirituale. Parlando nel 1958 di pianificazione territoriale dice Olivetti:
"Mi sia consentito ricordare parole che sono care agli architetti: "E quando l'uomo si è elevato prendendo la buona via dell'amore delle cose del mondo, sino a intendere la Bellezza, egli non è lontano dal fine. E colui che prende il giusto cammino, deve cominciare ad amare le bellezze della terra e progredire, incessantemente, verso l'idea della Bellezza stessa: dall'armonia delle forme a quella delle azioni, dalla perfezione delle azioni a quelle delle conoscenze, per pervenire infine a quell'ultima conoscenza che è la Bellezza in sé"."
Si potrebbe dire che il processo generativo del pensiero di Olivetti sull'architettura e la città è contenuto tutto nell'andamento dinamico che si apre alla meraviglia del microcosmo della comunità di lavoro intorno alla fabbrica di oggetti metalmeccanici (macchine di calcolo elettriche e calcolatori elettronici) con le caratteristiche prima individuate; poi si espande come una fioritura dalla cellula madre fino alle esperienze e alle realtà più grandi, mantenendo intatti i caratteri primari e rendendoli sempre riconoscibili, anche se mutati. Così avviene col passaggio, l'allargamento di interesse verso la città e la sua architettura, la progettazione di spazi nuovi per la fabbrica, le strutture sociali e i servizi (biblioteca, asili nido, mense, abitazioni per operai, impiegati e dirigenti). Lo spazio abitativo di lavoro è pensato dal punto di vista dell'interiorità dell'abitante che porta con sé il bagaglio della propria memoria: la struttura prima dell'armatura visiva dell'abitare è il profilo paesaggistico, pianura - monti, che l'uomo ha sempre visto dalla nascita, quindi è elemento di riferimento spaziale indispensabile. Perciò l'architettura con facciata vetrata a tutta altezza nella fabbrica nuova di Ivrea, così diversa dagli opifici ottocenteschi, è negli Anni Trenta e poi Cinquanta, pensata per la totale trasparenza tra interno ed esterno e per il benessere spirituale di chi lì opera e vive. Non è omaggio formale all'estetica del Bauhaus in Germania, ma una scelta oculata di architetti razionalisti milanesi, Figini e Pollini, che sulla base di quella esperienza straniera, di democrazia e apertura prima della tragedia nazista, interpretano il pensiero di libertà di Olivetti. Analogo processo si verifica per la realizzazione della edilizia abitativa: principi guida sono la facilità di accesso dal luogo di lavoro alla casa, il rapporto con il paesaggio, il verde come parte integrante dell'abitare. L'architettura di Ivrea si viene perciò accrescendo con episodi urbanistici nuovi in dialogo con l'antica configurazione della città, dove il centro storico, con le sue memorie e la sua fisionomia, si rende più vero e più vivo attraverso il contatto con i nuovi innesti residenziali.
  Progressivamente l'idea del bello, come verità spirituale, si espande sulla città intera attraverso gli strumenti dei piani regolatori. Gli urbanisti e gli architetti diventano i protagonisti in una sorta di comunità maieutica tra Adriano Olivetti e chi deve valutare le possibilità di attuazione delle sue intuizioni; e poi ancora questa spinta a interpretare e configurare il nuovo per l'uomo moderno e per i suoi più profondi desideri e bisogni, si concretizza nel disegno dei piani regolatori di una area più vasta della città, ma che alla città appartiene, che è il piano della comunità o delle comunità che vanno a definire il piano regionale. La comunità, come si vede, si allarga, sempre nel rispetto del codice originario. Prefigurazione, predisposizione, mai imposizione di una forma. Il bello, la forma, la disegneranno coloro che si succederanno sul territorio. C'è insieme a questa ideazione un'ammirazione per l'arte e l'urbanistica delle città d'Italia medievali, cui Olivetti guarda come esempio di civiltà che ha dato i suoi frutti attraverso la consapevolezza di essere cittadini e la coralità pubblica che sostiene gli sforzi economici. C'è in Olivetti che viaggia per l'Italia per la diffusione delle sue idee e dei suoi progetti, un rispecchiamento tra ciò che intravede per la rinascita dell'Italia e il passato di un'Italia artistica frammentata, sì, ma pur sempre capace di affermare una unitarietà di disegno urbano e di rapporto con il territorio.
  Una lezione della storia come alimento per il presente. Ciò che Olivetti vede nell'Italia di ieri non è una tipologia formale da riprodurre, ma una continuità di spirito che si può inverare nel presente, nelle forme nuove che prefigura per le sue fabbriche e i suoi insediamenti. Ci riferiamo a Pozzuoli, a Matera, a Massa. Centrale rimane in Olivetti l'attenzione all'uomo che lavora, abita, vive nei nuovi edifici. Puntuale riemerge l'attenzione ai paesaggi nei quali il lavoratore è cresciuto che restano ancora come asse direzionale per la crescita della persona, il mare, il golfo di Pozzuoli non è immagine da cartolina, ma imprescindibile punto di riferimento. Perciò, ancora una volta, la trasparenza è carattere distintivo della fabbrica affinché il lavoratore vi porti dentro la propria bussola visiva (architetto Luigi Cosenza). Così a Matera (architetti Luigi Piccinato e Ludovico Quaroni), i campi, la terra, le argille, i sassi, sono teatro di intere generazioni di contadini e devono essere assunti nel nuovo abitare. Pensiamo alla figura di Carlo Levi che lì al confino in Lucania negli anni 1935-36 vive la realtà contadina, la condivide, ne ha cura come medico e la vede con occhi prensili di pittore. Intanto la conosce con gli strumenti dell'indagine medica, in quanto la riconosce come realtà umana inscritta in quei limiti di paesaggio e di storia e li ritrae. E' la stessa logica di Olivetti che comprende i caratteri dell'uomo, li rispetta nella loro genesi e nella loro storia; non è molto lontano l'atteggiamento di Carlo Levi, che prendendosi cura dei corpi, ne assume anche le storie, e li fissa nella pittura e nella letteratura. Adriano Olivetti ha però nella volontà di creare spazi abitativi e di lavoro per l'uomo, per il suo benessere, una estensione ancora maggiore del prendersi cura da parte del medico. Ha nel progetto il motore che avvia un meccanismo a catena di speranze per il futuro e per l'avvenire. In Olivetti prevale il sogno profetico che intravede i lineamenti di un futuro, ma non ne può godere appieno i frutti che avverranno dopo. Intanto prevale in lui l'attitudine a gettare generosamente semi, a generare. Olivetti visionario non solo in direzione del futuro, ma visionario già nel presente; cioè in ogni progetto prefigura, accarezza ciò che sta nascendo, ciò che potrà essere.
  li progetto abitativo, architettonico e urbanistico, con i criteri di cui sopra si è detto, di profondo rispetto dell'uomo e del suo abitare, è però inserito in una visione politica di comunità che estende il modello originario di piccola comunità in un sistema, "Movimento di comunità". Insieme a queste vanno a definire unità che si collocano approssimativamente in spazi geografici corrispondenti alle provincie, in rapporto con le regioni. Ma anche questo progetto più ampio deve rispettare i principi guida della partecipazione e della responsabilità, anche sul piano amministrativo. Il movimento politico prevede figure istituzionali saldamente legate al territorio che conoscono e sono chiamate a valorizzare. Ma soprattutto sono legittimate a governare da uno stretto rapporto di fiducia con gli abitanti che li eleggono e li riconoscono. Obiettivo è sconfiggere la diffidenza fra cittadino, regione e stato che Olivetti intravede nell'ordinamento politico dell'Italia del dopoguerra, nel Parlamento e nel governo. Ancora una volta lo strumento principe è il piano urbanistico. La comunità deve essere di grandezza opportuna, "la dimensione ottima"; la grandezza esatta: un termine precisamente greco che lui prende da Aristotele. La misura, il numero; e ancora città e territorio solo nella misura esatta dei propri confini possono garantire armonia e benessere. E lì solo possono fiorire quelle virtù morali degli abitanti che fanno "grande" una città:
"Secondo l'opinione prevalente - scriveva Aristotele - la città felice dovrebbe essere grande. Ma se anche questo giudizio fosse giusto, non è proprio chiaro il criterio quale sia veramente la città grande e quale la città piccola; poiché chiamiamo grande la città che ha un numero notevole di abitanti, mentre si deve avere riguardo non alla quantità della popolazione bensì alle forze materiali e morali dell'associazione civile".
Il Movimento Comunità ispirato al concetto più pregnante di libertà ha le sue origini nella riflessione di Olivetti in clandestinità in Svizzera, in Engadina, negli anni 1943-44 e lì, con tutta l'urgenza di una situazione di drammatica oppressione dell'Italia negli ultimi anni di guerra, egli scrive la bozza del suo progetto, l'ordine politico delle Comunità. Il nome non è un caso. E il movimento che si apre alla sua pienezza negli anni successivi alla Costituzione italiana, avrà per linee guida quelle già tracciate a Ivrea negli Anni Trenta ed espresse in forma di programma politico in Engadina. Ivrea diventa quindi l'"esperimento pilota" per la realizzazione di nuove comunità e per la sua estensione sul piano nazionale. Proprio Ivrea è da qualche anno patrimonio dell'Unesco: uno dei frutti maturali dal sogno e dalla capacità di vedere di Olivetti. Il Movimento Comunità si sostanzia poi con l'attività editoriale della rivista "Comunità" che diviene una sorta di seminario pluridisciplinare coordinato da Adriano Olivetti. Lì lavorano con spirito di collaborazione e grande forza creatrice intellettuali di diversa pratica disciplinare e tutti contribuiscono alla creazione di un pensiero collettivo. Singolarmente tutte le analisi sociologiche, urbanistiche, filosofiche, architettoniche, concorrono a creare uno stile Olivetti che non per magia, ma per forza intrinseca, produce un'eccellente qualità estetica dell'oggetto prodotto (design), grafica pubblicitaria e pubblicistica che traducono in forma l'idea del bello accarezzata da Olivetti: un altro frutto. E ancora, una riflessione conclusiva, sulle radici del pensiero di Olivetti: l'idea di giustizia sociale appresa dal padre, ebreo socialista; l'idea del lavoro come etica del giusto operare, dall'ambiente protestante della madre; dalla comunità valdese, la forza delle radici identitarie di una minoranza e la cura e salvaguardia puntuale dei villaggi. Dall'ebraismo, il principio-dovere di avere cura della terra ereditata e di saperla migliorare. Infine da Sant'Agostino, la città terrena e la città celeste, al cristianesimo radicale di marca francese, di Maritain (Umanesimo integrale), Mounier (Il personalismo), la visione mistica di Simone Weil, filosofa ebrea, deriva una forza di interlocuzione con il mondo moderno e con le scienze. La formazione di ingegnere del padre e di Adriano è il connotato costante della famiglia Olivetti, quello cioè del mondo della tecnica che padroneggia i segreti della materia ed è capace di trasformarli in prodotti e in forma. Il messaggio di Olivetti oggi cade su un terreno difficile dove non sembra di poter ravvisare echi del suo pensiero. D'altra parte esso è attuale perché i problemi sono ancora lì, ingombranti come le macerie della guerra da cui è fiorito il Movimento comunità. Oggi il messaggio è attuale proprio perché c'è una urgenza di "verità, giustizia e bellezza",

- Sandra Sicoli, storica dell'arte, ha lavorato presso la pinacoteca di Brera e la soprintendenza alle Belle arti di Milano.
- Pierpaolo Nicolini, architetto, docente di Storia dell'arte

(JoiMag, 18 maggio 2020)


Israele: da domani riaprono le spiagge e dal 27 ristoranti e caffè

Dal 27 maggio in Israele riapriranno completamente ristoranti, locali e caffè, dopo che per settimane è' stato concesso solo consegne e ordini a portar via. Lo ha annunciato l'Associazione dei Ristoranti, dopo aver raggiunto un accordo con il ministero della Salute sulle misure di sicurezza da attuare. I clienti verranno sottoposti al controllo della temperatura e si potranno sedere all'estero a una distanza minima di un metro l'uno dall'altro. Intanto da domani prenderà ufficialmente il via la stagione estiva, con l'apertura al pubblico delle 136 spiagge del Paese. Per prendere la tintarella la distanza minima dovrà essere almeno di due metri e al momento non si potrà accedere a docce al chiuso e spogliatoi.

(Shalom, 19 maggio 2020)


Se il governo più strano di Israele può riportare il Paese alla normalità

All'insegna della prudenza i primi passi dell'esecutivo a rotazione Netanyau-Gantz

di Fiammetta Martegani

 
Omer Yankelevich, titolare del dicastero della Diaspora
Dopo 509 giorni di gestazione, il 35esimo governo della storia di Israele è nato in mezzo a un'emergenza nazionale - il coronavirus - e non proprio sotto i migliori auspici. Il giuramento è avvenuto domenica tra mille polemiche. Non piace quel (fragilissimo) meccanismo di rotazione tra il premier Benjamin Netanyahu; che guiderà per i prossimi 18 mesi, e l'ex rivale Benny Gantz, per ora ministro della Difesa e premier "vicario''. Non piace l'ingombrante richiamo ai tre processi (per corruzione, frode e abuso d'ufficio) a cui si dovrà sottoporre il primo ministro a partire dal prossimo 24 maggio (salvo i soliti imprevisti). Non piace il numero record di ministri: 36 - «più ministri che contagiati», la battuta che girava ieri -, prodotto di una negoziazione da Manuale Cencelli tra i due partiti principali, il Likud di Bibi, e Blu Bianco di Benny. Non piace, infine, la subordinazione, mai così tanto esplicitamente dichiarata, al sostegno e agli obiettivi americani. Eppure, proprio questa coalizione così stranamente assortita potrebbe tirare fuori il Paese da uno stallo che si è protratto per un anno e mezzo (con tre tornate elettorali andate a vuoto). E persino mostrare un suo equilibrio. Un primo (incoraggiante) segnale di ponderatezza c'è. E riguarda proprio una delle questioni più delicate sul tavolo negoziale: le annessioni di parte della Cisgiordania e della Valle del Giordano così come viene prefigurato nell"'Accordo del Secolo" per il Medio Oriente proposto in gennaio dal presidente americano Trump.
   In questo nuovo governo ibrido c'è un'ala, quella più vicina a Bibi Netanyahu, che spinge per una definizione dei confini da attuarsi al più presto. Nei giorni scorsi lo stesso premier, indubbiamente rafforzato dal risultato elettorale, ha ribadito senza tentennamenti che «è tempo di estendere la legge israeliana agli insediamenti». Ma il neo-alleato Gantz, che non ha dimenticato i suoi quarant'anni di carriera militare (fino alla carica più alta di ramatkal), non sembra per nulla intenzionato ad aprire un fronte con la comunità internazionale e con i Paesi confinanti già sul piede di guerra (Egitto e Giordania hanno definito le possibili annessioni una «catastrofe»). E ha fatto capire, Gantz, che qualsiasi decisione sulle annessioni deve essere prima sottoposta alle Forze Armate. La stessa Casa Bianca ha mostrato una certa cautela: «Pensiamo che queste decisioni debbano essere il risultato delle discussioni fra israeliani e palestinesi», è stato suggerito. Così la prudenza sembra aver guidato i primi passi del neonato esecutivo. E ieri il ministro degli Esteri (a sua volta ex capo dell'esercito) Gabi Ashkenazi ha sottolineato che il piano «verrà portato avanti con responsabilità e in coordinamento con gli Usa, tutelando i trattati di pace e gli interessi strategici di Israele». Chiaro riferimento agli accordi con Giordania ed Egitto.
   Parlano di saggezza, poi, due nomine che spiccano: quelle delle ministre che rappresentano due importanti minoranze del Paese. A Pnina Tamano-Shata, esponente della comunità etiope, è andato il ministero dell'Immigrazione. All'ultraortodossa Omer Yankelevich
Ultraortodossa? non si direbbe a prima vista (vedi foto)
il dicastero della Diaspora. Entrambe sono scese in campo grazie alla pressione di Gantz. Tra le novità, infine, c'è l'uscita di scena di Avigdor Lieberman, leader della formazione nazionalista Israel Beitenu che per tre elezioni è stato considerato l'ago della bilancia politica israeliana. Proprio lui è stato escluso dai giochi, schiacciato dall'inaspettata alleanza Bibi-Benny. Almeno fino alla prossima mossa.

(Avvenire, 19 maggio 2020)


Inciampi israeliani sulla via della seta

La guerra scatenata dagli Stati Uniti contro la Cina si intensifica e trova un nuovo e inatteso campo di battaglia: Israele. Nella sua recente visita in Israele il Segretario di Stato americano (giunto a esprimere il sostegno Usa al nuovo governo Netanyahu) ha esortato Tel Aviv a evitare di intrattenere rapporti troppo stretti con Pechino.
  Nell'occasione Mike Pompeo ha ribadito le usuali accuse contro la Cina per il Covid-19, invitando l'alleato mediorientale a non far affari con Pechino, perché avrebbero come effetto una dipendenza di Tel Aviv da Pechino.
  In effetti, negli ultimi anni la Cina ha rafforzato gli scambi commerciali con Israele, includendo anche Tel Aviv nella nuova Via della Seta. Uno sviluppo apparentemente in contrasto con la geopolitica del Medio oriente, dato la Cina ha rapporti fecondi con l'Iran, considerato irriducibile antagonista da Tel Aviv (China Goabroad).
  Ma, appunto, si tratta di un contrasto solo apparente, dato che la Cina intende sviluppare la sua rete diplomatico-commerciale globale bypassando le conflittualità locali e ponendosi come superpotenza super partes, almeno laddove non siano toccati i propri interessi.
  La partnership con Israele ha irritato non poco gli Usa, da cui la reprimenda di Pompeo. Una controversia che ha trovato un focus simbolico e che si è tinta di giallo.

 Questione di sale
  Al centro della controversia è finito l'impianto di desalinizzazione "Sorek B" che, scrive Axios, "dovrebbe essere il più grande impianto di desalinizzazione al mondo, dato che dovrebbe produrre 200 milioni di metri cubi di acqua ogni anno - un quarto dell'acqua che Israele utilizza ogni anno".
  Un impianto che è stato aggiudicato alla "Hutchison Israel" filiale locale della Hutchison Water International, società cinese con sede a Hong Kong.
  Un'aggiudicazione che ha duplice importanza: sdoganerebbe in via definitiva la possibilità dei cinesi di far affari in Israele (la fornitura di un servizio più che essenziale apre prospettive); in più Israele costituirebbe una vetrina perfetta per la ditta cinese, alla quale si aprirebbero così nuove vie commerciali nel mondo.
  Un'importanza che non è sfuggita a Washington, come riferisce la nota di Axios citata, che ha tentato di vanificare l'affare, che peraltro aveva suscitato allarme anche nella Sicurezza israeliana, che aveva paventato intromissioni in siti sensibili (Timesofisrael).
  L'intemerata di Pompeo a Tel Aviv ha trovato una pronta replica da parte dell'ambasciata cinese in Israele, che in una nota nella quale ha ribadito l'infondatezza delle accuse Usa sul coronavirus e ha invitato Israele a preservare le relazioni commerciali con Pechino, che peraltro, non rappresentano che 0.4% degli investimenti cinesi nel mondo.
  "Confidiamo che gli amici ebrei - conclude la nota - siano in grado di sconfiggere non solo il coronavirus, ma anche il 'virus politico' [riferimento alla propaganda anti-cinese ndr] e di scegliere la linea di azione che meglio soddisfa i loro interessi" (Haaretz).

 La morte improvvisa dell'ambasciatore
  Dopo la nota, il giallo: ieri mattina l'ambasciatore cinese in Israele, Du Wei, è stato trovato morto nella sua abitazione. Probabile causa della morte un malore, come da dichiarazioni del ministero degli Esteri cinese, anche se evidentemente altre causali , pur se taciute, sono state prese in considerazione sia a Tel Aviv che a Pechino.
  Lo conferma il fatto che la polizia israeliana è andata sul posto, ispezione che seppure giustificata come normale procedura, così nella nota ufficiale della polizia riferita da Tansim, appare incongrua, dato che nei malori in genere intervengono i medici.
  E lo conferma l'invio da parte di Pechino di una squadra di investigatori con il compito far luce sulla morte improvvisa, mossa anche qui forse dettata dalla procedura, ma che appare alquanto desueta, e che probabilmente serve anche a dissipare eventuali malumori all'interno dell'composito ambito diplomatico cinese.
  Al di là del giallo, destinato a chiudersi come si è aperto, cioè acclarando le cause naturali del decesso, resta che la ferma opposizione Usa al progetto cinese sembra aver fatto breccia nelle autorità israeliane.
  The Hill riferisce che Netanyahu, chiamato a ratificare l'aggiudicazione della gara per l'impianto di desalinizzazione in favore della ditta cinese, ha rimandato l'atto formale, con mossa che appare un ripensamento.
  Piccolo episodio in sé, ma emblematico, quello della Hutchison Water International: sia The Hill sia il South China morning post (succitati) spiegano come ormai lo scontro epocale Usa-Cina abbia investito anche Israele. Il degrado dei rapporti tra le due grandi potenze rischia cioè di porre a Tel Aviv il dilemma che finora aveva deciso di non affrontare, cioè da che parte stare.
  In realtà, a Tel Aviv non può che convenire tenere in piedi la partnership con la Cina, dati gli indubbi vantaggi economici per i suoi cittadini. Ma il clima da Guerra Fredda porta il gelo anche nei Paesi più temperati.

(Piccole Note, 19 maggio 2020)


Quando si tratta di condannare Israele, l'Ue è sempre pronta

di Roberto Penna

L'Unione europea, quando occorre prendere una posizione circa le mosse di Israele e l'eterno conflitto con i palestinesi, di solito non è mai tenera nei confronti dello Stato ebraico. Ciò si concretizza solitamente attraverso le dichiarazioni ufficiali delle Istituzioni comunitarie, vale a dire nel momento in cui l'Ue parla con una voce sola, anche se poi emergono distinguo fra i vari Paesi membri. C'è chi non vede l'ora di poter trattare Israele quasi come uno Stato terrorista e criminale, ma vi sono anche governi del Vecchio Continente assai più cauti e ponderati. Si avverte tuttavia l'esistenza in Europa di una sorta di costante pregiudizio che quando non è palese, diventa almeno strisciante e si cela dietro a tante affermazioni ipocrite e di circostanza. Già la cosiddetta equidistanza europea fra Israele e il fronte arabo-palestinese, perorata da molti esponenti della politica presente e passata del nostro continente, rappresenta un atteggiamento abbastanza abominevole. Lo Stato d'Israele è l'unica e vera democrazia del Medio Oriente, che offre peraltro opportunità di lavoro e di un'esistenza migliore anche a tanti arabi.
   "La libertà dell'Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme", così diceva Ugo La Malfa, e non aveva affatto torto. Proprio per la sua natura, lo Stato ebraico non può mai essere messo sullo stesso piano non solo di Hamas, ma anche dei cosiddetti "moderati" di Al-Fatah, dell'Anp e del leader palestinese Abu Mazen, i quali restano comunque lontani anni luce dallo Stato di diritto e dalla democrazia liberale. Negli ultimi anni sono stati lanciati a più riprese dalla Striscia di Gaza, sotto il pieno controllo dei terroristi, perché questo sono, di Hamas, missili e razzi su alcune città israeliane come Sderot e Ashkelon, con la deliberata intenzione di colpire civili inermi ed abitazioni private. Israele ha reagito militarmente più di una volta colpendo obiettivi di Hamas a Gaza, e del resto non avrebbe potuto fare in altro modo perché una completa inazione sarebbe stata deleteria per la sicurezza del popolo israeliano e ai fini del contenimento delle mire criminali di chi ha in pugno la Striscia. Il governo di Benjamin Netanyahu, durante le risposte militari dei tempi più recenti, non è andato oltre all'eliminazione di quelle basi operative di Hamas più pericolose per il territorio israeliano ed ha evitato quindi, pur potendolo fare, una totale rioccupazione della Striscia di Gaza con conseguente cacciata dei loschi figuri di Isma'il Haniyeh.
   Netanyahu si è attirato persino qualche critica interna da parte di coloro i quali ritengono, non del tutto a torto, non sufficiente il semplice contenimento dei terroristi di Gaza perché questi, dopo ogni raid israeliano, tornano puntualmente e sistematicamente a riarmarsi e ad attaccare di nuovo. Ma le Istituzioni europee tendono quasi sempre a vedere le reazioni da parte di Israele come eccessive e sproporzionate, invitando lo Stato ebraico alla calma, cioè di fatto a soccombere, mentre non stigmatizzano con altrettanta convinzione i razzi Qassam provenienti da Gaza e l'uso di donne e bambini come scudi umani. Poi capita che il rappresentante Ue presso la Striscia di Gaza e la Cisgiordania scriva alle Ong palestinesi circa la possibilità di ottenere fondi europei anche da parte di persone fisiche affiliate o sostenitrici in qualche modo di organizzazioni presenti nella lista nera del terrorismo internazionale redatta dalla stessa Unione europea. Per dirla in parole semplici, Hamas, il cui nome compare nella citata lista, non può chiedere alcunché se si presenta nel suo complesso come organizzazione paramilitare o partito, ma un militante della stessa sarebbe autorizzato a richiedere singolarmente per sé i finanziamenti europei.
   Una follia destinata a foraggiare il terrorismo e chi vuole cancellare Israele dalle carte geografiche. Occorre precisare che il rappresentante dell'Unione presso i Territori palestinesi, tale Sven Kühn von Burgsdorff, è stato smentito da Bruxelles, ma il contenuto della sua missiva inviata alle Ong è un segnale che inquieta. Si tratta di una notizia di pochi giorni fa passata quasi inosservata in un mondo concentrato solo sul Covid-19, ma sempre non molti giorni fa la nostra Ue, pur presa dal Coronavirus, è riuscita comunque a trovare il tempo per tornare su Israele, e con intenti non proprio amichevoli. Il governo israeliano di unità nazionale di Netanyahu e Benny Gantz, fra l'altro appena insediatosi, sarebbe deciso a procedere con l'annessione degli insediamenti ebraici in parti della Cisgiordania e nella Valle del Giordano. L'Europa, per bocca di Peter Stano, portavoce dell'Alto rappresentante dell'Ue Josep Borrell, minaccia sanzioni e ritorsioni come se avesse a che fare con l'Iran o qualche altro Stato canaglia, rivelando per l'ennesima volta di non comprendere o di non voler comprendere i particolari bisogni di sicurezza dello Stato d'Israele. Quest'ultimo non combatte un nemico convenzionale, che magari spera soltanto in una vittoria militare e in un ridimensionamento altrui, bensì si confronta da sempre con chi intende cancellarlo dalla faccia della terra.

(L'Opinione, 19 maggio 2020)


Vittima o Nazista? Una mostra gioco "interattiva" sulla Shoah a Babyn Yar

L'idea per il museo Ucraino di Kiev

di Michael Soncin

Fa discutere un piano per un museo di Kiev (Kyiv) che dovrebbe classificare i visitatori in "carnefici" o "vittime". La notizia è apparsa in prima e seconda pagina sull'edizione internazionale del The New York Times, "probabilmente sembrava una buona idea al momento", si legge.
  Un'idea che sarebbe nata da parte di Ilya A. Khrzhanovsky, un regista di Mosca e riguarderebbe il Memoriale dell'Olocausto Babyn Yar, a Kiev in Ucraina, dove il tutto inizierebbe facendo un questionario con un test psicologico attraverso un computer che raccoglierebbe i dati dai social media.
  Khrzhanovsky è per il momento il direttore artistico del grande progetto di commemorazione dell'Olocausto ucraino, progetto che prende il nome - Babyn Yar, conosciuto anche come Babi Yar - da uno dei peggiori pogrom della Shoah, in cui furono assassinate più di 150.000 persone, tra cui 50.000 ebrei, nel burrone di Babyn Yar, fuori Kiev.

 Carnefice, collaboratore o vittima?
  L'algoritmo dopo aver elaborato i dati, assegnerebbe una o più delle seguenti categorie ai visitatori. Il motivo di tale proposta avrebbe come oggetto la personalizzazione della propria visita all'interno del museo.
  Sul progetto, a prescindere che venga effettivamente messo in atto, è già caduta una pioggia di critiche. L'apertura con la revisione del centro è prevista nel 2025 e si trova nello stesso luogo in cui i nazisti hanno assassinato a colpi d'arma da fuoco migliaia d'ebrei, rom e pazienti degli ospedali psichiatrici.
  "Il luogo, un burrone boscoso alla periferia di Kiev, fu lasciato in gran parte intatto dai sovietici come memoriale all'aperto; negli anni del dopoguerra, la città crebbe attorno ad esso, lasciando tra i condomini e le strade trafficate, un'isola di alberi con una storia terribile".
  Si legge che durante il genocidio sul fronte orientale gli ebrei non erano trasferiti nei campi di sterminio venivano spesso direttamente uccisi vicino alle loro case.
  Sono molti i testimoni che raccontano di quella colonna di persone che videro passare quell'anno, quando nel settembre del 1941, a Kiev, i nazisti, aiutati dagli agenti di polizia locali ordinarono agli ebrei di radunarsi all'angolo tra le strade di Melnykova e Dehtyarivska, vicino a Babyn Yar. Quel viaggio a piedi era per loro l'ultimo.

 "De gustibus non est disputandum". Siamo davvero sicuri?
  I visitatori, se il piano si mantiene, sarebbero indirizzati dai computer, su uno dei molteplici percorsi labirintici, assistendo all'orrore di Babyn Yar come partecipanti a una "esperienza interattiva basata sui diversi ruoli", indossando occhiali per la realtà virtuale, che offrirebbe loro l'esperienza di essere "vittime, collaboratori, nazisti e prigionieri di guerra che hanno dovuto bruciare i cadaveri".
  Come se non bastasse, si è pensato di utilizzare la cosiddetta "deep-fake technology" che potrebbe mostrare rievocazioni di video horror con i volti dei visitatori incollati ai personaggi delle scene, si tratta di una tecnologia utilizzata per creare "video pornografici falsi sulle celebrità".

 L'indignazione degli intellettuali
  "Come possono questi progetti essere appropriati nell'affrontare l'Olocausto situati tra l'altro proprio in un ex sito dell'Olocausto?" È quanto afferma in una lettera di dimissioni Karel Berkhoff, storico presso l'Institute of War, Holocaust and Genocides di Amsterdam ed ex capo storico del progetto. "Dove sono la sensibilità e il senso della misura?"
  "Molte delle persone che stavano lavorando al progetto, l'hanno in seguito abbandonato".
  Dozzine di scrittori, storici, artisti e altre figure intellettuali ucraine hanno firmato il 29 aprile una lettera aperta di protesta, disapprovando quelle che venivano denominate "forme di coinvolgimento attraverso la ricostruzione della realtà virtuale dell'Olocausto e della "ludicizzazione" della morte".

 "Una Disney dell'Olocausto" dal costo di 100 milioni di dollari
  "Il tracciare un profilo dei visitatori, ha detto Khrzhanovsky, potrebbe avere molti usi, ad un visitatore, ad esempio, potrebbe essere mostrata la storia di una vittima di età e professione simili".
  "Le mostre esploreranno le scelte morali individuali", afferma. "Non è stato un "cattivo Hitler" o un "cattivo Stalin" che ha procurato un omicidio di massa in Europa nella metà del secolo scorso, è stato fatto da persone che hanno iniziato a partecipare a questo".
  L'intento è mostrare, ha detto, che "qualsiasi persona può essere in qualsiasi condizione, e si basa sulle decisioni prese".
  Ha ammesso che la visita al museo potrebbe diventare straziante. "Non puoi renderlo non spaventoso", ha detto. "È una storia spaventosa."
  Il progetto suggerisce ai visitatori di completare il loro viaggio catartico in un "parco giochi urbano" per adulti, come simbolo di speranza. La presentazione raffigura adulti che si dondolano sulle altalene.
  Ai critici non piace. C'è chi si è dimesso dal progetto. Dieter Bogner, uno dei membri ha scritto: "La mostra principale si avvicina pericolosamente all'impressione di una Disney dell'Olocausto".
  Un tipo di mostra interattiva che immerge il visitatore nel contesto è forse più consona in altre situazioni, vedi le mostre d'arte, ma farlo replicando la Shoah sembra alquanto inopportuna e di cattivo gusto. Come si dovrebbe sentire un reduce, particolarmente quelli che spesso sono sul luogo e offrono la propria testimonianza ai visitatori, coloro che hanno vissuto gli orrori compiuti dai nazisti vedendo la propria famiglia interamente sterminata? Che direbbero i figli della Shoah, che sono gli eredi di queste testimonianze?

(Bet Magazine Mosaico, 19 maggio 2020)


Le relazioni tra Israele e Giordania sono a rischio

di Futura D'Aprile

Il re di Giordania, Abdullah II, ha lanciato un chiaro messaggio a Israele: se annetterete la Valle del Giordano, scoppierà un conflitto. Il monarca si riferiva ovviamente al piano israeliano avallato dal Governo Netanyahu-Gantz appena instauratosi che prevede l'annessione di una parte della Valle del Giordano sulla base di quanto previsto dall'Accordo del secolo americano. I due leader hanno di recente trovato un accordo per procedere entro l'estate all'espansione territoriale israeliana, minando secondo diversi esperti il processo di pace con la controparte palestinese.
  Nonostante il recente acuirsi delle tensioni tra Israele e Giordania, i rapporti tra i due Paesi non sono mai stati semplici, soprattutto da quando il regno è passato nelle mani di Abdullah II e Israele in quelle del premier Netanyahu.

 L'accordo di pace del '94
  La Giordania è stato uno dei Paesi che nel 1948 si è opposto alla nascita dello Stato israeliano, facendosi fin dal principio paladino della causa palestinese e accogliendo nel proprio territorio un alto numero di rifugiati. Ad oggi, infatti, più della metà della popolazione giordana ha origine palestinese e circa 2 milioni di abitanti sono registrati come rifugiati della guerra del '48 o loro discendenti. I rapporti tra Giordania e Israele hanno segnato una prima normalizzazione solo nel 1994, quando i due Paesi hanno firmato un accordo di pace tuttora in piedi. L'accordo ha anche comportato la restituzione da parte dello Stato israeliano di due aree di confine appartenenti alla Giordania e occupate fin dal 1948 dagli israeliani. La monarchia giordana aveva però concesso a Israele l'affitto dell'area per 25 anni, ma il contratto non è stato più rinnovato e dal 2019 i contadini israeliani hanno perso il diritto allo sfruttamento dell'area.
  C'è da dire che l'allora premier Netanyahu non ha dato grosso peso alla questione, dimostrando come il re fosse più alla ricerca di un consenso interno per mettere almeno in parte a tacere il malcontento dei sudditi, cavalcato dall'opposizione e dai Fratelli Musulmani. La maggioranza della popolazione giordana infatti non ha mai sostenuto l'accordo di pace con Israele, ritenendolo sì un male necessario, ma pur sempre un male. Il trattato di pace e l'avvio delle relazioni bilaterali avrebbe dovuto portare dei vantaggi a entrambi i Paesi, ma non è stato così in tutti gli ambiti. A livello di sicurezza, Israele fa affidamento sul ruolo della Giordania nel contenere la popolazione palestinese presente nel Regno, mentre la Giordania riceve supporto nella lotta al terrorismo dall'intelligence israeliana. I due Paesi avrebbero dovuto anche implementare i rapporti commerciali, ma su questo fronte i risultati raggiunti sono stati piuttosto scarsi. Stessa situazione per il dossier acqua: Israele avrebbe dovuto costruire un sistema di canali per alleviare la siccità che caratterizza la Giordania, ma il progetto non ha mai visto la luce. Nonostante ciò, fino ad oggi l'accordo di pace tra i due Stati è rimasto in piedi ma l'espansione israeliana - come confermato dagli esperti della Difesa - rischia di metterne seriamente in pericolo la tenuta.

 Gli scontri recenti
  A minare i rapporti tra Israele e Giordania in tempi recenti è stato prima di tutto lo spostamento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e il riconoscimento di quest'ultima quale capitale dello Stato ebraico. La mossa non è piaciuta al re Abdullah, ma la monarchia giordana può fare ben poco contro gli Stati Uniti a causa della forte dipendenza del Regno dagli aiuti internazionali e principalmente statunitensi. La situazione è però peggiorata con la presentazione dell'Accordo del secolo redatto dagli Stati Uniti e che mette definitivamente fine alla creazione di due Stati, come invece richiesto da sempre dalla Giordania. Il Piano inoltre prevede che chiunque possa pregare nei luoghi sacri presenti a Gerusalemme, andando contro la decisione della Giordania che prevede che solo i musulmani possano pregare ad Haram al-Sharif (o Monte del Tempio). Il recente annuncio della preparazione per l'annessione di una parte della Valle del Giordano ha ovviamente messo ancora più in pericolo la tenuta dei rapporti tra Israele e Giordania. Senza contare che la decisone ha anche fornito all'opposizione interna giordana un ulteriore pretesto per attaccare la monarchia, che a inizio anno aveva già dovuto fare i conti con manifestazioni popolari contro la stipula dell'accordo per l'acquisto di gas da Israele.
  Tuttavia una rottura dei rapporti avrebbe conseguenze negative per entrambi i Paesi, considerata l'importanza delle loro relazioni a livello prima di tutto di sicurezza regionale. Il Regno hashemita si trova in una situazione particolarmente delicata e se Israele dovesse procedere con l'annessione non solo metterebbe a repentaglio la pace con la Giordania, ma darebbe anche assist ai Fratelli Musulmani che guidano l'opposizione interna al re Abdullah II.

(Inside Over, 18 maggio 2020)


Il neo ministro degli esteri israeliano sottolinea la priorità della pace con la Giordania

Ashkenazi ha definito il piano Trump "un'opportunità storica", ma questo non significa promuovere annessioni unilaterali.

Il nuovo ministro degli esteri israeliano Gabi Ashkenazi ha sottolineato lunedì la necessità di preservare i trattati di pace fra Israele, Egitto e Giordania. La pace è una risorsa strategica per Israele che deve essere preservata così come deve essere preservata la forza militare, ha detto l'ex capo di stato maggiore alcuni giorni dopo che il re giordano Abdullah II aveva dichiarato che il trattato di pace fra il suo paese e Israele potrebbe essere a rischio nel caso in cui Israele attuasse l'annessione unilaterale di porzioni della Cisgiordania. "Attribuisco una grande importanza al rafforzamento dei legami con i paesi con cui siamo in pace: l'Egitto e la Giordania - ha detto Ashkenazi durante una breve cerimonia di insediamento al Ministero degli esteri - Sono i nostri alleati più importanti nell'affrontare le sfide in questa regione"....

(israele.net, 19 maggio 2020)



La prova della Scrittura

Dobbiamo ricominciare a conoscere la sacra Scrittura come l'hanno conosciuta i Riformatori e i nostri padri. Non possiamo avere scrupoli per il tempo e il lavoro impiegato a questo scopo. Dobbiamo imparare a conoscere la Scrittura innanzitutto per amore della nostra salvezza.
   Ma inoltre ci sono tanti altri validi motivi per considerare impellente questa esigenza. Ad esempio, come conseguire una certa sicurezza e fiducia nell'azione personale ed ecclesiale, se non abbiamo il solido fondamento della Scrittura? Non è il nostro cuore a decidere la strada, ma la Parola di Dio. Ma oggi chi è che comprende ancora, in modo corretto, la necessità della «prova della Scrittura»? Molto spesso sentiamo elencare innumerevoli argomenti tratti «dalla vita», dall'«esperienza», per motivare importanti decisioni, ma non sentiamo mai la prova della Scrittura, che magari indicherebbe una direzione opposta.
   Non c'è da meravigliarsi comunque che si tenti di gettare discredito sulla prova della Scrittura, da parte di chi neppure legge la Scrittura con serietà, non la conosce e non l'indaga a fondo. E chi non vuol imparare a cimentarsi abitualmente e in prima persona con la Scrittura, non è un cristiano evangelico.
   Inoltre ci si dovrebbe chiedere come si pensi di poter aiutare nel modo giusto un fratello in difficoltà e in tentazione, senza ricorrere alla Parola stessa di Dio. Tutte le nostre parole fanno presto a venir meno. Ma chi, simile a «un padrone di casa che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Matteo13,5), è in grado di parlare attingendo alla pienezza della Parola di Dio, alla ricchezza delle prescrizioni, degli ammonimenti, delle consolazioni della Scrittura, grazie alla Parola di Dio scaccerà il demonio e sarà in grado di aiutare i fratelli. Qui ci fermiamo. «Fin da fanciullo hai conosciuto le sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza» (2 Timoteo 3,15).

(Da "La vita comune" di Dietrich Bonhoeffer)

 


Netanyahu, il premier immortale. "Ora annessioni in Cisgiordania"

Dopo 500 giorni di crisi e tre elezioni anticipate, il leader del Likud vara un governo di unità nazionale con il rivale Gantz.

I cittadini volevano un governo di unità, e l'avranno. Adesso si apre un'era
di riconciliazione
Abbiamo messo fine alla peggiore crisi politica. I nostri obiettivi sono: sanità, economia e sicurezza

di Giordano Stabile

La crisi dei record, 500 giorni e tre elezioni anticipate di seguito, si è chiusa con un governo dai numeri mai visti, 36 ministeri, come mai prima in Israele, ma segna soprattutto il record di permanenza di Benjamin Netanyahu, l'uomo che ha governato lo Stato ebraico più di ogni altro premier, il primo a formare un quinto esecutivo sotto la sua guida. «King Bibi» ci è arrivato con l'ostinazione, la determinazione che lo contraddistingue, la «churzpah» come dicono gli israeliani, ma anche con un compromesso finora inimmaginabile, il patto con l'ex rivale Benny Gantz, lo spostamento al centro, il sacrificio di gran parte degli alleati della destra.
   Un sacrificio reso necessario dalla crisi del coronavirus, un'emergenza da affrontare tutti assieme, in un esecutivo di unità nazionale. Ma anche un passo reso inevitabile dal processo per corruzione e abuso di ufficio che incombe, con la prima udienza prevista per il 21 maggio. Netanyahu mai e poi mai lo avrebbe voluto affrontare nudo, senza lo schermo protettivo della premiership.
   Adesso ha la possibilità di portare a compimento la sua «missione», lasciare un'eredità storica. Per prima cosa, stabilire una volta per tutte i confini di Israele lungo la Valle del Giordano, con le annessioni che gli sono state promesse da Donald Trump. «Il popolo vuole un governo di unità e lo avrà», ha rivendicato Netanyahu nel discorso prima del giuramento e del voto di fiducia alla Knesset, che ha approvato il nuovo governo con 73 voti a favore su 120 deputati, una maggioranza confortevole. L'esecutivo mette fine «alla peggiore crisi politica- e apre a «un'era di riconciliazione», gli ha fatto eco Gantz. L'ex capo delle Forze armate ha strappato caselle importanti, la Difesa per sé, oltre alla carica di vicepremier, gli Esteri per il collega di stellette e di partito Gabi Ashkenazi. Ha imposto una virata verso il centro, e pure la prima ministra di origine etiope nella storia israeliana, Pnina Tamano-Shata, 39 anni, uno schiaffo alle derive xenofobe della destra. E soprattutto fra 18 mesi, salvo colpi di scena, il generale di ferro darà il cambio a Netanyahu alla guida del governo.
   Si chiuderà un'era lunghissima, cominciata con il secondo governo Netanyahu, il31 marzo 2009. E stata l'era della «start-up nation», delle liberalizzazioni e dell'inserimento dell'economia israeliana nel ciclo globale a guida Usa, della nascita della Silicon Valley con la Stella di David, del reddito pro capite arrivato a superare quello della Germania. Ma è stata anche l'era dell'intransigenza nei confronti dei palestinesi, delle due operazioni di terra nella Striscia di Gaza con la loro scia di vittime civili, e della fine del processo di pace di Oslo, seppellito in via definitiva dal piano «di pace» americano che apre la strada all'annessione di almeno un terzo della Cisgiordania e chiude la porta al sogno di uno Stato indipendente del raiss Abu Mazen. Con questi 11 anni di seguito, più la parentesi del primo governo fra il 1996 e il 1999, Netanyahu ha sommato 14 anni e 65 giorni al potere, contro i 13 e 127 giorni di Ben Gurion, il padre della patria.
   Il suo quarto governo, appena concluso, è durato più di cinque anni, un altro record, più del secondo governo di Golda Meir, allungato oltre la scadenza della legislatura per via della Guerra dello Yom Kippur nel 1973. Il prolungamento questa volta è stato orchestrato dallo stesso premier, dopo che la sua coalizione era andata in pezzi, nel dicembre del 2018, per il ritiro dell'ex alleato più fidato, Avigdor Lieberman, che voleva scalzarlo come leader del centrodestra.
   Ha vinto invece Netanyahu, che però ha ancora parecchie montagne da scalare. La crisi economica innescata dalla Covid-19, con il 30 percento di disoccupazione. I guai giudiziari, che possono macchiare il suo posto nella storia. La questione palestinese, con il rischio sempre più concreto di una caotica, ancora più violenta Terza Intifada. E infine la «questione cinese», il pressing degli Usa perché vengano stoppati gli investimenti cinesi nel porto di Haifa e nella rete 5G. Tensione alimentate anche dall'improvvisa scomparsa, proprio ieri, dell'ambasciatore cinese. «King Bibi» ha dimostrato di saper vincere anche contro tutti i pronostici. La partita più difficile è però sempre l'ultima.

(La Stampa, 18 maggio 2020)


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Due premier e 34 ministri è il governo più affollato di Israele

Parte la staffetta tra Netanyahu e Gantz. E già sono in disaccordo sulla Cisgiordania

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Tre round elettorali inconcludenti e 508 giorni di stallo politico hanno portato ieri alla nascita in Israele di un governo di unità nazionale, con 73 voti a favore e 46 contrari. Sarà il quinto esecutivo per Benjamin Netanyahu, che questa volta dovrà condividere la poltrona con l'ex rivale Benny Gantz, per il quale scatterà la rotazione il 17 novembre 2021, ma che già ieri ha prestato giuramento nella sua funzione di "Primo Ministro alternativo" oltre che Ministro della Difesa. Sostenuto da 8 partiti, alcuni dei quali frutto di secessioni dell'ultima ora, è il governo più nutrito della storia del Paese: 34 ministri e 16 viceministri.
   «Ci sono più ministri e viceministri che persone ricoverate in terapia intensiva per il Coronavirus» - effettivamente 50 contro 48 - ha attaccato Yair Lapid in un passaggio del durissimo discorso durante la cerimonia di insediamento, in cui ha accusato il suo ex alleato Gantz di aver tradito il proprio elettorato e «di essersi venduto per le poltrone». Dopo la scissione del suo partito "Yesh Atid" dall'alleanza Blu e Bianco, Lapid diventerà ora capo dell'opposizione.
   Netanyahu ha dovuto rinviare il giuramento da giovedì a domenica e fino all'ultimo ha lavorato per sbrogliare l'intricata matassa delle nomine, cercando di accontentare i numerosi alleati politici e soprattutto i suoi ministri uscenti. Sono stati suddivisi ministeri: Energia e Risorse idriche, Intelligence e Affari Strategici, d'ora in avanti saranno quattro dicasteri diversi; ne sono stati creati nuovi di zecca: uno dei più discussi, il "Ministero per il Rafforzamento Comunitario", affidato a Orly Levy, che ha rotto un'alleanza con il partito di sinistra Meretz e con i laburisti il giorno dopo le elezioni e che andava quindi ricompensata; seguita poco più tardi anche dai due soli superstiti dello storico Partito Laburista - quello dei fondatori della patria - che pure sono venuti meno alla promessa elettorale «di non sedersi mai con un premier accusato di corruzione» e si sono aggiudicati i Ministeri dell'Economia e del Welfare. Altro ministero controverso, ideato in extremis pochi minuti prima del discorso di Netanyahu alla Knesset, quello per "gli insediamenti", affidato alla già viceministra degli esteri Tzipi Hotoveli.
   Difendendosi dalle accuse sullo sperpero di soldi pubblici durante la peggiore crisi economica che il Paese abbia mai affrontato, con la disoccupazione in-impennata dal 3,6% al 27%, Netanyahu ha affermato che il costo di questo governo (85 milioni di shekel all'anno) è comunque inferiore a quello di nuove elezioni (2 miliardi di shekel).
   Sono diversi i nodi che il nuovo governo dovrà affrontare nel brevissimo raggio e che potrebbero mettere a rischio il delicato equilibrio tra le anime che lo formano. Tra questi, la possibile estensione della sovranità israeliana a parti della Cisgiordania, come previsto dal Piano di Trump. Netanyahu ha affermato nel suo discorso di insediamento che «è giunto il momento di procedere», ma Blu e Bianco contesta l'eventuale unilateralità della mossa. E soprattutto, il processo di Netanyahu, la cui prima udienza è prevista per il 24 maggio.
   Nonostante la Corte Suprema si sia pronunciata a favore della possibilità di un premier inquisito di governare fino a sentenza passata in giudicato, ci sono nuovi ricorsi in vista che potrebbero fare saltare l'accordo di governo.

(la Repubblica, 18 maggio 2020)


Morte sospetta dell'ambasciatore

Il diplomatico cinese a Tel Aviv, 57 anni, forse morto per infarto, ma si attende l'autopsia. Al centro di una feroce polemica.

di Angela Di Pietro

 
L'ambasciatore cinese Du Wei
Un infarto. O «altro». Sono in fase di verifica le cause della morte di Du Wei, 57 anni, ambasciatore cinese in Israele. Il diplomatico è stato trovato ieri mattina, senza vita, nel letto della sua residenza ufficiale di Herzliya, località costiera a nord di Tel Aviv. A scoprire il cadavere è stato un impiegato dell'ambasciata. Du Wei, attraente ed in piena salute, non presentava segni di violenza. Chen Kugel, capo del Centro nazionale israeliano di medicina legale, si è rifiutato tuttavia di aggiungere commenti. L'autopsia, già fissata per oggi, dovrebbe sconfessare o avallare ipotesi diverse da quella della disgrazia. Un eventuale enigma, dietro la morte di Wu, non sembra essere poi così campato in aria. L'ambasciatore ha iniziato il suo incarico il 15 febbraio scorso, in piena pandemia da covid-l9 e si è spiacevolmente trovato al centro di una feroce polemica tra Stati Uniti ed Israele, per via dei sempre più congrui investimenti cinesi a Tel Aviv. Una saldatura economica non gradita a Trump. La Cina ha preso parte a centinaia di Start Up tecnologiche ed ha acquisito una partecipazione nella società di trasformazione alimentare Tnuva.
   Non solo. Washington non ha apprezzato che le aziende cinesi abbiano effettuato importanti investimenti infrastrutturali in località sensibili di Israele. Tanto per fare un esempio, una società ha firmato un contratto di 25 anni per gestire il porto israeliano di Haifa (scalo per la Marina degli Usa) a partire dal 2021. La tensione si è arroventata quando Trump ha accusato la Cina di aver nascosto al mondo i termini epidemiologici del coronavirus. Du Wei è dovuto intervenire avallando la buona fede del suo Paese di origine. Impiegato del Ministero degli Affari Esteri per 30 anni, ambasciatore in Ucraina dal 2016 al 2019, Du Wei lascia moglie ed un figlio, non presenti nella residenza dell'ambasciatore al momento del decesso. Lui stesso, arrivato a Tel Aviv, si era messo in quarantena a scopo precauzionale, incontrando solo il 3 marzo il ministro degli Affari Esteri israeliano.

(Il Tempo, 18 maggio 2020)


Quella tela degli Stati Uniti per isolare Pechino

Il viaggio di Pompeo in Israele che mette in guardia Netanyahu. Enormi gli interessi cinesi

di Fiamma Nirenstein

Ci mancava solo la strana morte del 52enne ambasciatore cinese Du Wei trovato esanime nella sua villa per incrementare i grattacapi sulla questione cinese a Gerusalemme: un energetico personaggio ligio a Xi Jinping, e che d'un tratto, dopo la visita di Pompeo due giorni fa e un seguito di furiose dichiarazioni contro il Segretario di Stato, lascia questa Terra Un serial di Netflix sul Mossad e la Cina sarà certo già per strada.
   La veloce visita di Mike Pompeo a Netanyahu segnala al mondo intero la determinazione americana primaria nell'affrontare la questione cinese. E' vero, il Segretario di Stato alla vigilia dell'insediamento del governo, è venuto anche per il Piano Trump, che aspetta sul tavolo di Bibi. Ma la Cina è stato il nodo urgente della conversazione: una amicizia essenziale, dopo il virus e fra imprevedibili sviluppi mediorientali, coll'Iran alle porte, non sopporta che il Dragone avvolga qui la coda. E Pompeo ha sparato quello che potrebbe dire a ognuno dei Paesi che intrattengono intensi rapporti commerciali con la Cina, perché con Xi Jinping ogni rapporto commerciale, attraente e grandioso quanto può apparire, contiene un significato binario, soldi e politica, assorbimento in un sistema e controllo, merci e informazioni, Vìa della Seta e Made in China 2025. «La Cina - ha detto - mette Israele a rischio minacciando i progetti comuni», Niente di più chiaro. Ovvero: io ti amo, attento a non tradire la mia fiducia. Perché non è facile dire di no ai miliardi cinesi per chi è stato colpito nello stomaco dalla crisi economica del virus; la Cina può adoperare misure economiche uniche perché le banche e le compagnie sono sue come le navi da guerra.
   Gli investimenti cinesi in Israele sono imponenti, Huawaei è all'attacco, da tempo gli USA mettono in guardia dal «doppio uso» delle imprese cinesi: il più vistoso è nel porto di Haifa, un terminal costruito in parte. E' chiaro il rischio che diventi un'antenna che raccoglie informazioni nel cuore di Israele e del Mediterraneo. C'è poi il disegno del maggiore impianto di desalinizzazione del mondo, Sorek2, di una compagnia basata a Hong Kong. Biotecnologia, intelligenza artificiale senza protezione della proprietà intellettuale, navigazione, robotica, miniprocessori, analisi di data, gli scambi con le Startup sono un campo di caccia immensamente attraente per la Cina. Ma Pompeo ha aggiunto un argomento imbattibile: «Ti ricordi - ha detto a Bibi - che la Cina sta con l'Iran e il suo progetto nucleare che prevede la vostra distruzione?».
   Al momento, dopo il viaggio amichevole in Cina di Bibi del 2018 Clalit, la maggiore organizzazione sanitaria, ha bloccato alla Cina l'ingresso nella lotta contro il Covid perché avrebbe consentito di penetrare informazioni mediche di 5 milioni di persone. Inoltre l'ufficio del PM alla fine dell'anno scorso ha istituito un ufficio che misura la compatibilità fra investimenti stranieri e sicurezza. Dopo lo scherzo cinese, quale ne sia l'origine, del Corona virus, sembra un'idea per tutti.

(il Giornale, 18 maggio 2020)


Attacco aereo (Israeliano?) contro base iraniana in Siria. Morti e feriti

Un attacco aereo contro una base iraniana in Siria, attribuito a Israele, è avvenuto sabato scorso anche se ne abbiamo avuto conferma solo ieri sera.
Stando a quanto riferito da testimoni locali, aerei non identificati hanno bombardato "in modo severo" una base iraniana nella città di Boukamal, al confine tra Siria e Iraq.
Nel bombardamento sarebbero morti almeno sette miliziani iraniani e almeno due ufficiali, mentre non si conosce il numero dei feriti.
Ad essere colpiti sono stati depositi di armi, veicoli blindati pronti a partire per il Libano, almeno un deposito di missili e un intero deposito di componentistica avanzata.
Testimoni locali riferisco che da diversi giorni gli iraniani stavano trasportando nella base interi container di armi e di componenti per sistemi d'arma, nonché centinaia di miliziani sciiti trasportati con aerei cargo direttamente dall'Iran.
La stampa siriana e iraniana attribuisce l'attacco ad aerei israeliani, ma da Gerusalemme non arrivano né conferme né smentite.
Con la formazione del nuovo governo in Israele si presume che gli attacchi verso obiettivi iraniani in Siria, seguendo una precisa strategia, si moltiplicheranno fino a quando gli Ayatollah non decideranno di lasciare completamente il territorio siriano.

(Rights Reporters, 18 maggio 2020)


Se la comunità fa bene al nostro io

L'ultimo saggio di Jonathan Sacks: siamo troppo infelici e non riusciamo a guarire. Per questo una morale del bene collettivo deve entrare nel mercato e nella società.

di Susanna Nirenstein

Il rabbino Jonathan Sacks è un maestro di armonia. Pensatore globale, filosofo, teologo, è un uomo che non si tira mai indietro quando si tratta di affrontare e combattere a tu per tu i mali che travolgono il mondo. E non vi immaginate che si rivolga solo al pianeta ebraico, il suo è uno spirito universalista che prende spunto dai dettami della Bibbia, ma si sporge verso un'audience totale, rompendo in fondo quella convinzione così diffusa che dal giudaismo possa nascere solo una lezione particolaristica radicata nell'esclusiva vicenda ebraica.
   La sua è una voce profetica riconosciuta a tutto tondo: nato nel 1949, è stato rabbino capo della Gran Bretagna e del Commonwealth dal 1991 al 2013, la Regina Elisabetta l'ha fatto Sir per i servizi resi alle relazioni interreligiose e poi Barone con un seggio a vita nella camera dei Lord: lo scranno da cui parla, insegna, scrive i suoi libri (25 finora), tiene le sue trasmissioni sulla Bbc, viene seguito da migliaia di persone sul suo sito dove alterna lezioni di Torah a interventi sulle tematiche politiche e sociali più attuali, ha una dimensione planetaria.
   Aggredito dalle tensioni che ci attraversano, al centro della sua ricerca è il bene, un bene dove tutti i popoli possano procedere insieme, ed è in questo spazio redentivo che pochi anni fa ha dato una delle maggiori prove di sé, Non nel nome di Dio, edito dalla casa editrice Giuntina nel 2017.
   Un saggio stupefacente anche per chi frequenta i testi sacri, dove si chiede il perché tanta violenza sgorghi da matrici religiose, principalmente dal fondamentalismo islamico, per rispondersi come, interrogando il testo comune alle tre religioni monoteistiche, si possa invece trovare una risposta unificante, perché le rivalità fraterne come quelle tra Caino e Abele, tra Isacco e Ismaele, tra Giacobbe e Esaù, tra Giuseppe e i suoi fratelli non sono affatto definitive, ma sono invece interpretabili, dirimibili e pongono già le basi per una ricomposizione che dovrebbe diventare il dovere di ogni uomo di fede.
   Adesso la sua sete di palingenesi si fa ancora più grande: è appena uscito in Gran Bretagna Morality, Restoring the Common Good in Divided Times (Moralità: ristabilire il bene in tempi divisivi - testo che verrà pubblicato negli Usa a settembre e entro la fine 2020 in Italia, sempre per Giuntina naturalmente - e chi affronta un tema, un obiettivo del genere, senza pensare di fare una banale predica buonista ma corredandola di migliaia di dati, citazioni, ricerche, analisi sociologiche, filosofiche, storiche, ha davvero coraggio da vendere.
   Rav Jonathan Sacks si getta nell'arena indicando ad ognuno come ragionare smettendo di illudersi che il bene del singolo possa prescindere da quello della collettività. smettendo di perdere di vista quanto siamo interconnessi gli uni agli altri, una riflessione che al tempo del Covid 19 può diventare ancora più attuale.
   Il suo ragionamento parte da un documentatissimo grido d'allarme: la democrazia liberale è a rischio, come è a rischio tutto ciò che rappresenta in termini di libertà, dignità, solidarietà che non possono essere sostenute solo dall'economia di mercato e dallo Stato.
   Quello di cui ha bisogno è la moralità, l'impegno attivo nei confronti dell'altro, un rimettere al suo posto primario il "Noi" e non l"'Io".
   Troppi i segnali che ci indicano una decadenza, una destabilizzazione, a cui bisogna reagire: il sovranismo della Brexit e l'antisemitismo che ha preso piede nel Labour inglese, le rivolte violente dei gilet gialli in Francia, un presidente Usa tanto divisivo (il 15 per cento degli americani ha smesso di parlare con un parente o un amico in conseguenza di quelle elezioni), la demonizzazione reciproca che prende piede in tutte le arene politiche, la crescita del populismo nata dal risentimento contro istituzioni ed élite da parte di chi ha visto aprirsi disuguaglianze inaccettabili, la perdita di fiducia nelle istituzioni pubbliche, la nascita di politiche identitarie che si concentrano su gruppi e minoranze a discapito dell'interesse per la collettività.
   Ma oltre a questi macrofenomeni, sottolinea il rabbino Sacks, figura che non può non pensare all'anima dei singoli, c'è una contraddizione pesante e all'apparenza irrecuperabile tra il benessere che sicuramente è cresciuto nel mondo e la mancanza di felicità personale: nel 2017 negli Usa, per citare dei dati, 70200 americani sono morti di overdose, il doppio di dieci anni prima. Il tasso dei suicidi è salito. del 33 per cento. E l'abuso di droghe è collegato al fenomeno della depressione, un male da cui il 70 per cento dei giovani americani, tra i 13 e i 17 anni, si sente o si è sentito toccato nell'ultimo decennio. Nel frattempo il 20 per cento delle quattordicenni in Gran Bretagna si sono rese responsabili di episodi di autolesionismo: la iGen, la generazione nata nel 1995 o dopo, è spaventata, terrorizzata
   Complici di questa situazione, l'attacco alla libertà di parola (stigmatizzata sui vari Facebook e affini e nelle università dove ogni opinione politically uncorrect viene censurata), e, tra molte altre componenti, i social, che hanno mutato la natura dell'incontro interpersonale, ponendo il sé, l'autostima, l'individualismo, l'autorealizzazione, l'autoespressione e non la società al centro della vita. Ci sono altre, infinite, trasformazioni negative verso cui Sir Sacks punta il dito, mostrando ancora una volta come il suo pensiero non sia mai pedissequamente up to time e progressista, come il declino del matrimonio e della famiglia, che sono invece, a suo parere e non solo, la prima molla dell'altruismo e della moralità.
   La felicità continua a sfuggirci. E se l'economia della disuguaglianza non si placherà (l'amministratore delegato della Disney nel 2018 ha ricevuto una paga 1424 volte la retribuzione media di un lavoratore della compagnia), continuerà a sfuggirci, e non solo: in un'economia globalizzata lascerà enormi aree svantaggiate in sofferenza.
   Per combattere questo "cambiamento climatico culturale" l'idea di Sacks è che ognuno, a iniziare dal mercati e dalle industrie che devono ridiventare un'economia interessata non solo al profitto ma anche all'impatto sociale (molti i buoni esempi che porta), ha il dovere di riassumersi le proprie responsabilità. Dobbiamo farlo noi, uno per uno, e tutti insieme, ripartendo dal principi fondanti della moralità, da quel che orgogliosamente Sacks rivendica all'ebraismo e che invece così spesso viene attribuito alla sola cristianità, ovvero dalle parole che Dio disse a Mosè (Levitico 19,18): "Amerai il prossimo tuo come te stesso».

(la Repubblica, 18 maggio 2020)


Israele - Mastercard ed Enel X lanciano il nuovo laboratorio di innovazione

Mastercard ed Enel X lanciano un nuovo laboratorio in Israele per accelerare l'innovazione nei settori della tecnologia finanziaria e della sicurezza informatica nei pagamenti e nel campo energetico a livello globale. Il laboratorio collaborerà con le start-up per testare e sviluppare prodotti e soluzioni, concentrandosi sulla sicurezza digitale, le piattaforme tecnologiche per servizi finanziari, l'autenticazione digitale e inclusione finanziaria. La struttura verrà realizzata in partnership con il Governo di Israele, a seguito di una gara d'appalto indetta dall'Autorità israeliana per l'innovazione (IIA) per promuovere l'innovazione nei settori della tecnologia finanziaria e della sicurezza informatica accelerando la crescita dell'ecosistema di start-up del Paese. Il nuovo laboratorio unirà la forza della start-up economy israeliana al supporto, alle conoscenze e alle competenze tecniche dell'infrastruttura. "Oggi più che mai, le organizzazioni devono porre la sicurezza al primo posto per tutte le innovazioni", ha dichiarato Ajay Bhalla, presidente Cyber & Intelligence Solutions di Mastercard. "Questa nuova collaborazione ci consentirà di attingere a numerosi partner e risorse, inclusa la rinomata start-up economy di Israele per contribuire a portare le innovazioni sul mercato ancora più rapidamente e ridurre la crescente minaccia e il costo degli attacchi informatici".
  "Il nuovo laboratorio ci offre l'opportunità unica di lavorare con le start-up israeliane per portare tecnologie finanziarie innovative ai nostri milioni di clienti nel mondo", ha affermato Francesco Venturini, Amministratore Delegato di Enel X. "Unendo le forze con un importante partner come Mastercard, aiuteremo queste start-up a sviluppare e a introdurre sul mercato le migliori soluzioni nei settori della tecnologia finanziaria e della sicurezza informatica". Il nuovo laboratorio avrà sede nella parte meridionale del paese a Be'er Sheva, una città definita dal governo israeliano come la capitale cibernetica e della tecnologia finanziaria nel mondo, che ospita numerosi centri di R&S cibernetici delle principali imprese tecnologiche globali. La struttura riceverà una licenza triennale e circa 3,7 milioni di dollari USA di fondi pubblici a copertura della sua realizzazione, dei costi operativi e dello sviluppo di Proof of Concept con le start-up locali.
  Questo progetto rappresenta l'ultimo di una serie di investimenti di Mastercard nella cybersecurity, che rafforzano l'impegno della società a supporto dell'innovazione e dello sviluppo di talenti. Il laboratorio andrà a integrare la sede centrale israeliana di Mastercard a Tel Aviv, il suo premiato programma globale dedicato al coinvolgimento di start-up Start Path e i suoi otto centri tecnologici globali di Arlington, Dublino, New York, Pune, St. Louis, Sydney, Vadodora e Vancouver. La nuova struttura capitalizza le precedenti collaborazioni di Mastercard ed Enel in aree quali i prodotti per l'inclusione finanziaria dei soggetti che rimangono al di fuori del sistema bancario e ai pagamenti con wallet digitale per le stazioni di ricarica dei veicoli elettrici. Enel ha aperto il suo primo Innovation Hub a Tel Aviv nel 2016 e, da allora, ha collaborato con 35 start-up locali in settori quali Internet of Things, cybersecurity, mobilità elettrica, accumulo energetico e molti altri. Inoltre, l'Infralab di Enel, un innovation lab dedicato alla digitalizzazione delle imprese del settore delle infrastrutture, ospita oggi oltre sei società laboratorio e altre otto start-up. L'Hub e l'Infralab fanno parte di una rete globale di 10 Innovation hubs e 20 laboratori dedicati all'innovazione che Enel possiede nel mondo, in Paesi quali Brasile, Cile, Italia, Russia, Spagna e Stati Uniti. Grazie a questa rete globale, Enel lavora con circa 300 start-up di tutto il mondo, promuovendo l'innovazione in tutte le sue attività globali.

(il denaro, 17 maggio 2020)


Israele: nasce il governo di unità nazionale. Netanyahu: "Lo vuole il Paese"

Il premier alla Knesset per il giuramento dell'esecutivo formato con Benny Gantz. Finisce uno stallo durato 500 giorni

 
"Sanità, economia e sicurezza". Queste i tre compiti prioritari che il premier Benyamin Netanyahu ha rivendicato al "governo di emergenza e di unità nazionale" che ha presentato oggi alla Knesset riunita per il voto. Nel suo discorso il premier - che si alternerà fra 18 mesi alla guida del governo con suo alleato Benny Gantz - ha aggiunto che "come primo passo formerà un gabinetto ministeriale per affrontare una eventuale seconda ondata di coronavirus". Netanyahu ha poi attaccato l'Iran ed ha denunciato i tentativi del Tribunale penale dell'Aja di voler incolpare i soldati israeliani per "crimini di guerra". Netanyahu ha infine confermato l'intenzione di voler procedere all'estensione della sovranità israeliana a parti della Cisgiordania sulla scia del Piano di pace di Trump. Subito dopo ci sarà il dibattito, quindi il voto e il giuramento.
"Questo è un importante giorno per lo stato d'Israele", ha detto Netanyahu. E ancora: "il nuovo governo è stato formato con il sostegno della maggior parte d'israele e sarà il governo di tutti". Le sue parole sono state però accolte da urla dai banchi dell'opposizione, che hanno ricordato le accuse di corruzione di cui dovrà rispondere in tribunale. Premier più longevo della storia d'Israele, Netanyahu rimarrà alla guida del governo per i primi 18 mesi, passando poi la mano al suo alleato Benny Gantz, leader del partito Blu e Bianco.

(la Repubblica, 17 maggio 2020)


Tamano-Shata: "Ho attraversato il Sahara oggi sono ministra in Israele"

I politici devono essere pragmatici. L'unità nazionale era l'unica via per evitare quarte elezioni.

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Dopo tre round elettorali, in Israele oggi giurerà un nuovo governo di unità nazionale, guidato da Benjamin Netanyahu, con il quale tra 18 mesi scatterà la rotazione a favore dell'ex rivale Benny Gantz. Tra le new entry del governo, il più nutrito di ministri della storia del Paese, Pnina Tamano-Shata, 38 anni, avvocatessa, giornalista e attivista sociale. Sarà il primo ministro di origine etiope in Israele. Guiderà il portafoglio per l'Immigrazione e l'integrazione. Tra le feroci lotte per la distribuzione dei ministeri, la sua è una delle poche nomine su cui c'è consenso trasversale.

- La sua infanzia è stata segnata da un'epopea che negli anni Ottanta ha consentito a 20 mila ebrei etiopi di raggiungere Israele, di recente raccontata anche nel film per Netflix "Red Sea Diving".
  «Sono nata nel villaggio di Wuazaba in Etiopia. Nel 1984, a tre anni, ho attraversato il Sahara a piedi con i miei genitori e sette fratelli per raggiungere Israele nell'ambito dell'Operazione Mosè. Mia madre e due fratelli rimasero in Sudan e la famiglia si è riunita solo dopo un anno».

- Questa nomina rappresenta quindi la chiusura di un cerchio?
  «È un momento molto emozionante per tutta la mia comunità e una conquista per tutta la società israeliana».

- Anche con Gantz c'è stato una sorte di ricongiungimento.
  «Gantz era il comandante dell'unità speciale coinvolta nell'Operazione. Non lo sapevo. Quando abbiamo formato Blu e Bianco (l'alleanza guidata da Gantz, ndr), in un convegno ha raccontato che una delle operazioni che più l'hanno coinvolto nella sua lunga carriera fu proprio quella e così abbiamo ricostruito che io ero una delle bambine che aveva portato in salvo».

- Con il giuramento del governo in vista dopo oltre 500 giorni di stallo politico, si può tirare un sospiro di sollievo?
  «Siamo riusciti a mettere in piedi un governo di unità nazionale e a impedire così quarte elezioni. Netanyahu e Gantz hanno dimostrato che la giusta strada è quella della cooperazione».

- Dal 2012 lei era parlamentare per Yesh Atld, C'è un futuro, il partito di Yair Lapid, che ha preferito sciogliere l'alleanza con Gantz e rimanere all'opposizione. Che cosa l'ha spinta ad abbandonare Lapid?
  «Come ha detto Einstein, la follia sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Abbiamo provato non una, due, ma ben tre volte a formare un governo. II fatto che ogni volta dopo le elezioni i numeri non lo consentissero era la dimostrazione che il popolo richiedesse unità nazionale».

- In molti vi definiscono traditori...
  «A volte le opzioni non sono ottimali, ma bisogna sapere prendere decisioni. I politici devono anche dimostrare pragmatismo. Se non avessimo dimostrato la capacità di scendere a compromessi, avremmo causato un disastro nazionale, con quarte elezioni, che avrebbero avuto probabilmente un altro risultato non determinante, con ulteriore sperpero di soldi pubblici».

- Questo sarà il governo più largo e costoso della storia del Paese, con 36 ministri.
  «Il costo di elezioni anticipate sarebbe stato decisamente più elevato. L'emergenza Coronavirus con oltre un milione di disoccupati rappresenta una sfida nazionale e ci sono dei momenti, e questo il nostro Paese lo sa bene, in cui l'unità è l'unica strada percorribile. È già successo nel 1967 con il governo Eshkol-Begin e nel 1984 con Shamir-Peres. Nella comunità etiope, in cui sono nata e cresciuta, l'unità è un valore fondamentale. Abbiamo attraversato epopee incredibili per raggiungere questo Paese, spinti dall'amore per questa terra. Personalmente, mi era più difficile pensare che avrei potuto votare contro l'unità nazionale. Ho lasciato Yesh Mid per non mentire a me stessa».

- Dopo un anno e mezzo dl dibattito pubblico avvilente tra le fazioni politiche, c'è speranza?
  «Non c'è dubbio che l'incertezza di questo anno e mezzo abbia creato un clima di diffidenza. Nel preambolo delle linee guida è menzionato che questo è un governo di emergenza e di conciliazione nazionale, verrà istituito anche un gabinetto per la pacificazione. La diversità di opinioni è legittima e importante, ma il settarismo, specie se sconfina nel bullismo mediatico, non va tollerato. E dobbiamo cominciare noi, come leadership, a dare un esempio».

(la Repubblica, 17 maggio 2020)


L'ambasciatore cinese in Israele Du Wei è stato trovato morto in casa

Du Wei, 58 anni, era arrivato a febbraio: il corpo è stato trovato nel suo letto. L'indagine della polizia e l'ipotesi di un infarto.

di Davide Frattini

Il corpo è stato trovato dagli assistenti. Ancora nel suo letto. L'ambasciatore cinese in Israele è morto nel sonno, la polizia sta indagando, i primi soccorritori ipotizzano che la causa sia un infarto. Du Wei era nella sua residenza a Herzeliya, il sobborgo residenziale a nord di Tel Aviv dove sulla costa del Mediterraneo si affacciano le finestre delle ville dei diplomatici di tutto il mondo. Non sono stati trovati segni di violenza.
   L'ambasciatore, 58 anni, aveva assunto l'incarico a metà febbraio, arrivato in Israele si era messo in quarantena. Dopo i quattordici giorni di isolamento, aveva incontrato il presidente Reuven Rivlin per ricevere le credenziali. Al giornale conservatore Makon Rishon aveva spiegato di voler rafforzare le relazioni tra i due Paesi: «All'inizio dell'epidemia, l'atteggiamento verso la Cina passava dalla compassione alla soddisfazione per le nostre disgrazie. Poi siamo diventati il capro espiatorio, come se fosse colpa nostra: questo virus è nemico di tutti e dobbiamo combatterlo insieme».
   Due giorni fa il portavoce dell'ambasciata aveva protestato per le parole di Mike Pompeo: il segretario di Stato americano, in visita a Gerusalemme, ha accusato Pechino di continuare a tenere nascoste le informazioni sul Covid-19. Gli americani stanno cercando di convincere il premier Benjamin Netanyahu a cancellare gli accordi commerciali con la Cina, dallo sviluppo del porto di Haifa alla costruzione di un mega-impianto per la desalinizzazione dell'acqua di mare.
   Nel 2014 i servizi segreti israeliani avevano cercato di opporsi alla vendita della Tnuva, il più grande produttore alimentare nazionale, al gruppo Bright Food di proprietà del governo cinese: «Non possono controllare il nostro cibo, è in gioco la sicurezza nazionale».
   La guerra economica rilanciata dal presidente Donald Trump mette in difficoltà l'amico Netanyahu: in questi anni ha rafforzato i legami con l'Oriente - anche con l'India - perché è convinto che sia la strada da seguire per un progressivo allontanamento dall'Europa, se l'Unione dovesse inasprire le critiche verso Israele.
   La settimana scorsa alcuni Paesi, guidati dalla Francia, hanno minacciato sanzioni contro l'ipotesi di annettere alcune aree della Cisgiordania che gli europei considerano parte di un futuro Stato palestinese.
   Prima di Tel Aviv, l'ambasciatore Du Wei era stato in Ucraina dove aveva sostenuto la strategia diplomatica di Pechino: «Le sanzioni contro la Russia non servono», aveva spiegato. Anche perché Mosca è un partner commerciale molto più importante - e confinante - di Kiev.

(Corriere della Sera, 17 maggio 2020)


Shtisel: una serie Netflix poco conosciuta rispetto ai suoi tanti meriti

Come Unthordox, Shtisel tratta il tema della difficile appartenenza, stemperato però da un'ironia sempre presente

di Margherita Fratantonio

 
Il grande successo della serie Unorthodox ci dà modo, finalmente, di parlare di un'altra storia ambientata tra le comunità ultra-ortodosse, sempre su Netflix, uscita nel 2013: Shtisel, che merita davvero di essere raccontata. Ha avuto molta risonanza in Israele, ma stranamente pochissima da noi. Con Unorthodox condivide il tema dell'appartenenza, della difficoltà di adattamento ai rigidi dettami familiari e sociali, a logiche quotidiane così lontane da noi, eppure così normali per chi le vive.

 Il dramma stemperato dall'ironia
  Rispetto a Unorthodox, il dramma è sempre stemperato da una piacevolissima ironia, dall'umorismo tipicamente yiddish che rievoca le tante letture o le scene filmiche che conosciamo. I dialoghi di Woody Allen, per primi, o i motti di spirito tanto amati da Sigmund Freud, e i brevi spassosissimi testi di Moni Ovadia (quelli di Così giovane e già così ebreo). Ancora, forse più di tutti, i racconti efficaci di Isaac Singer. Negli shtetl di un tempo, a Gerusalemme oggi, o nel cuore dell''odierna Brooklyn, una cultura che rimane intatta, almeno nei gruppi Haredì, con le incrollabili chiusure che si fanno sicurezze. Niente tv, internet o altri simboli di modernità. Così, la nonna Shtisel che in casa di riposo scopre l'entusiasmo per la televisione e le trame di Beatiful diventa veramente comica, insieme ad altre situazioni spassose scritte e girate dai giovani autori, Ori Elon e Yehonatan Indursky.

 Delicatezza nella resa dei personaggi
  Si sorride con autentica simpatia davanti ai personaggi, che i registi, nella vita molto religiosi, hanno saputo rendere garbatamente, e come fossero narratori interni alla storia. Senza giudizi o pregiudizi, ma con una delicatezza che inizia fin dalla sigla. Gerusalemme. Quartiere di Geula. Musica che sembra una nenia, parole della canzone in lingua originale (tutta la serie alterna ebraico e yiddish), ritmo lento, immagini a tratti sfumate. Akiva, detto Kive (Michael Aloni) e suo padre Shulem (Dov Glickman) sono ripresi dall'alto e di spalle, separatamente, mentre camminano piano. Poi avanzano verso la macchina da presa, sempre a riprese alternate. A Kive, distratto come poi sapremo, conoscendolo, cade il quaderno di disegni. Lo riprende, rivolge lo sguardo sognante al cielo, e, ripresa la sua andatura, si attorciglia i payot, timidamente. Shulem invece controlla l'orologio, pulisce gli occhiali, fuma (niente altri vizi, ma quanto fumano in questa serie!). Uno ci si presenta già come un'artista svagato, l'altro è colui che controlla. Però, almeno nella sigla, si incontrano. E, un braccio del padre sulle spalle del figlio, iniziano a salire una scala. Non importa vedere tutta la scena: bastano i piedi dei due appaiati nella salita.

 Rapporto complesso tra padre e figlio
  Un anticipo di ciò che avverrà nelle due stagioni di Shtisel, cioè i ripetuti allontanamenti padre-figlio e gli inesorabili ritorni. Kive vuole rispetto per le sue scelte. Quella amorosa per Elisheva (Ayelet Zurer) e quella artistica nel seguire il suo talento di pittore. Shulem le disprezza entrambe, tanto che lo sentiamo dire al figlio: "Con te ho perso ogni speranza" fin dal primo episodio. Elisheva, due volte vedova e con un bambino, è per lui una cotoletta riscaldata, rispetto alle offerte di matrimoni combinati di cui Kive potrebbe vantarsi. Kive e Shulem vivono insieme a un anno dalla morte della madre di Kive, che Shulem ama ancora silenziosamente, mentre trama, vergognandosene, per cercare una nuova moglie.

 Ricerca del ruolo familiare e sociale di ciascuno
  Risponde in pieno allo stereotipo del rabbino di tanta letteratura, nella sua miscela di sarcasmo e amore che non esprime, perché cultura e carattere non glielo consentono. Anche il giovane Kive è rabbino. Insegna, insieme al padre, alla yeshivah ketanah, Shulem con i modi burberi che gli appartengono, Kive con la sua imbranataggine.
  Lì, gli allievi imparano tutte le regole di un buon haremì; le benedizioni, per esempio, di cui è piena la giornata, anche solo prima di bere un bicchier d'acqua. Sono bambini e ragazzini, inutile dirlo, maschi. Eppure, il personaggio più radicale di tutta la serie è femmina: si tratta della nipote Rushama (l'intensissima Shira Haas, protagonista di Unorthodox). Incredibile come ciascuno trovi il proprio ruolo in una comunità opprimente, ma a suo modo rassicurante. Le donne in particolare, per non soccombere del tutto, sperimentano soluzioni tra le più fantasiose (dalla manipolazione, all'attacco diretto, al ricatto) dimostrando comunque una forza superiore a quella degli uomini.

 Fascino e ambivalenza del protagonista
  Ma quanta fatica dovrà fare Kevi per trovare la sua strada senza rinnegare le norme, e se stesso! Il fascino del personaggio sta proprio in questa ambivalenza, nella ricerca di un equilibrio instabile su cui fondare la sua identità. Un dramma che di volta in volta si ricompone, e che non esplode nella fuga, come avviene invece per Esty di Unorthodox o per i tre protagonisti del documentario One of us (anche questo consigliato) che testimoniano il loro allontanamento senza ritorno dalla comunità e la loro sofferenza.

(Taxidrivers, 17 maggio 2020)


Francia. A processo per antisemitismo gli assassini di Mireille Knoll

di Paolo Castellano

I due uomini che sono stati accusati di aver ucciso Mireille Knoll, sopravvissuta alla Shoah di 85 anni, saranno processati per omicidio a sfondo antisemita. Lo ha comunicato la Procura di Parigi, come ha riportato il 16 maggio il sito d'informazione Israel National News. L'omicidio avvenne il 23 marzo e sconvolse non solo l'opinione pubblica francese ma anche quella mondiale. Inoltre, la Comunità ebraica di Milano ricordò l'anziana signora con una cerimonia di commemorazione al Tempio Maggiore di via Guastalla.
   La sopravvissuta alla Shoah venne barbaramente uccisa nel suo appartamento: bruciata viva dopo aver subito 11 coltellate dai suoi aggressori. Il suo corpo carbonizzato venne ritrovato dalle forze dell'ordine. In passato Mireille Knoll aveva denunciato alla polizia che il suo vicino l'aveva ripetutamente minacciata. Ed è proprio il vicino di casa, insieme al suo presunto complice, che dovrà affrontare un processo per omicidio e antisemitismo.
   Yacine Mihoub, 28 anni, figlio del vicino di Mireille Knoll, e il suo amico Alex Carrimbacus, 23 anni, hanno ricevuto l'incriminazione lo scorso 14 maggio. I due presunti assassini hanno evidenti problemi psichiatrici, come hanno scoperto gli investigatori delle forze dell'ordine francesi.
   Durante gli interrogatori, Carrimbacus aveva dichiarato che lui e Mihoub avevano deciso di rapinare Mireille Knoll perché era ebrea. Mihoub ha poi respinto la versione del complice in un successivo colloquio con gli inquirenti. Infine, i due ragazzi si sono dichiarati innocenti. Entrambi hanno precedenti penali.
   Sammy Ghozlan, capo dell'Ufficio nazionale per la vigilanza contro l'antisemitismo, ha detto che la sua organizzazione ha accolto con favore la decisione della Procura di Parigi. Durante il 2019, Ghozlan ha inoltre criticato una sentenza della magistratura francese che aveva stabilito di non poter riaprire l'indagine sulla morte Sarah Halimi: il suo assassino era stato prosciolto dalle accuse per abuso di marijuana. Kobili Traore spinse dalla finestra la donna ebrea, causandone la morte. Questo episodio è avvenuto nel 2017.

(Bet Magazine Mosaico, 17 maggio 2020)



«Io vi lascio pace»

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

  --> Predicazione
Marcello Cicchese
febbraio 2016



L'oasi anti virus

Israele, quel pezzetto di occidente che ha saputo contenere il contagio. "Siamo abituati a chiuderci nei bunker", ci spiegano i suoi intellettuali.

di Giulio Meotti

Israele non era pronto. Ma chi lo era? Shuki Shemer, a capo dei centri medici Assuta, la più grande rete ospedaliera privata nel paese, ha detto che mancavano letti in terapia intensiva, dispositivi medici di protezione individuale e ventilatori. E il premier Benjamin Netanyahu, che aveva appena definito la pandemia "la peggiore da cento anni", era preoccupato. Channel 12 rivela che al culmine della battaglia di Israele per piegare la curva del Covid19, Netanyahu ha avvertito i membri della Knesset che nel caso di reinfezione da coronavirus "l'umanità potrebbe essere spazzata via", immaginando "scenari di anarchia globale". Il direttore del ministero della Salute Moshe Bar Siman-Tov ha avvertito all'inizio della crisi che Israele poteva trovarsi nella "stessa situazione disastrosa dell'Italia e della Spagna". Intanto, Amos Yadlin, l'ex generale dell'aviazione e già a capo dell'intelligence militare, scriveva un editoriale su Yedioth Ahronoth per avvertire: "La campagna contro il coronavirus è la più critica che Israele abbia condotto dalla guerra del Kippur del 1973. E mentre un virus non è un esercito, per sconfiggerlo è di vitale importanza adottare i metodi precedenti per gestire campagne pericolose e costose che erano spesso piene di incertezza". Netanyahu disse poi ai suoi ministri che Israele avrebbe potuto avere un milione di pazienti e diecimila decessi entro la fine di aprile, con gli ospedali sopraffatti. Alle accuse di aver seminato il panico e
"Siamo sotto una sorta di `blocco' dall'inizio della nostra esistenza e l'assedio non è mai veramente diminuito" (Yossi Klein Halevi)
spinto inutilmente l'economia verso la crisi, Netanyahu ha appena risposto: "Non stavamo spaventando la gente; abbiamo salvato la gente. I risultati di Israele sono un modello per molti altri paesi".
Non c'è paese dell'Ocse che abbia fatto meglio contro il Covid. Israele per ora si è fermato a 250 morti. Per avere una idea, Belgio e Svezia, paesi grandi come Israele, di morti ne hanno avuti quasi diecimila il primo e tremila il secondo. Una storia di successo che affonda le radici nella storia dello stato ebraico.
  Il ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha appena annunciato che l'Istituto di ricerca biologica ha raggiunto lo sviluppo di un anticorpo che neutralizzerebbe il coronavirus. Questo istituto è un'unità segreta che lavora direttamente per l'ufficio del premier. Nel 1948, all'interno dell'esercito ebraico fu istituito un dipartimento scientifico, noto come "Hemed". Era ospitato in un edificio in un aranceto fuori Ness Ziona, a sud di Tel Aviv. Nel 1993, uno degli scienziati coinvolti nell'istituto e quarto presidente dello stato ebraico, Ephraim Katzir, è stato intervistato da Hadashot: "Sapevamo che nei paesi circostanti stavano sviluppando armi biologiche. Credevamo che gli scienziati avrebbero dovuto contribuire al rafforzamento dello stato di Israele". Oggi lo dirige il professor Shmuel Shapira e impiega 350 persone, tra cui circa 160 scienziati con dottorati in biologia, biochimica, biotecnologia, chimica analitica, chimica organica, chimica fisica, farmacologia, matematica, fisica e scienze ambientali. Il pubblico non sa cosa succede dietro le mura altamente custodite dell'istituto, accusato in passato di essere dietro il tentativo di eliminazione del capo di Hamas, Khaled Mashaal, ad Amman nel 1997.
  Quando il ministro della Sanità israeliano, Yaakov Litzman, è stato trovato positivo al coronavirus all'inizio di aprile, chiunque era entrato in contatto con lui è finito in quarantena. Non solo i membri del governo, ma anche Yossi Cohen, il direttore del Mossad, il servizio segreto. Si è scoperto così che la potente agenzia di intelligence è stata profondamente coinvolta negli sforzi di Israele contro il virus. E' stato coinvolto Dani Gold, il padre del sistema antimissile di Iron Dome, che guida la direzione per la ricerca e lo sviluppo della Difesa. A gestire i test, Israele ha messo il capo della Sayeret Matkal, una celebre unità clandestina dell'esercito. E se lo Shin Bet, il servizio segreto interno, è stato incaricato di tracciare le infezioni, l'intelligence militare ha rifocalizzato le sue ricerche da nemici come l'Iran e Hezbollah al coronavirus. La famosa Unità 8.200 ha aperto un centro di informazioni sul coronavirus presso il Sheba Medical Center per aiutare a fermare la diffusione. I cervelloni dell'analisi israeliana intanto si riunivano all'Institute for National Security Studies per simulare vari scenari sul virus. Vi partecipavano ex capi di stato maggiore come Gadi Eisenkot e numerosi ex generali di brigata. Ora si fanno scenari su una eventuale seconda ondata.
  "Israele è abituato alle emergenze nazionali, siamo stati sotto una sorta di `blocco' dall'inizio della nostra esistenza e l'assedio non è mai veramente diminuito", dice al Foglio Yossi Klein Halevy, intellettuale americano-israeliano che vive a Gerusalemme, dove lavora allo Shalom Hartman. "Ci ritroviamo in conflitto con i nostri vicini ogni pochi anni. E così gli israeliani rispondono all'emergenza con una disciplina autoimposta, che decade immediatamente al termine dell'emergenza. Il coronavirus è la nostra prima emergenza non di sicurezza, ma abbiamo applicato gli strumenti che abbiamo imparato da quelle situazioni. Ad esempio un blocco immediato dei confini. E chiarezza da parte dei leader, che sono apparsi ogni sera in tv per fornire aggiornamenti. Siamo una società abituata a mostrare una forte solidarietà
"Gli israeliani hanno uno scopo. Gli europei in epoca post cristiana meno. E gli americani? Non ne sono più sicuro" (Joshua Muravchik)
sotto minaccia e questo è successo anche stavolta. Sono stato particolarmente commosso nel vedere i numerosi esempi di arabi israeliani ed ebrei israeliani che lavoravano insieme negli ospedali. Un recente sondaggio mostra uno stupefacente 77 per cento degli arabi israeliani che afferma di sentirsi fortemente legati al destino di Israele. Questo è il risultato della solidarietà che abbiamo vissuto tutti durante il coronavirus. Tendiamo a pensare alle nostre istituzioni come caotiche, ma la verità è che lavorano bene insieme in caso di emergenza. E sì, lo stiamo vedendo nel modo in cui il Mossad ha cercato di acquisire attrezzature mediche e come le agenzie di difesa e il sistema sanitario stanno lavorando insieme per trovare una cura. Israele offre al mondo un modello su come rispondere alle emergenze, anche se va sottolineato che siamo una specie di isola in medio oriente, il che rende più facile rispondere in modo efficace rispetto, per esempio, all'Europa".
  Secondo Leon de Winter, uno dei più noti scrittori olandesi che ha un pezzo di famiglia in Israele e autore de "Il diritto di ritorno", c'è qualcosa di culturalmente unico in Israele che lo rende pronto. "Israele è l'unica nazione sulla terra la cui esistenza è continuamente minacciata di morte", dice De Winter al Foglio. "E prima che fosse creato, le persone che vennero a viverci furono per generazioni di fronte alla minaccia. La vita non è mai stata una realtà, ma un prezioso miracolo contro ogni previsione. Non è un'esagerazione affermare che questa è una parte essenziale dell'esperienza ebraica da migliaia di anni. Forse i padri ebrei fondatori di Israele desideravano che potesse lentamente abbandonare la mentalità ebraica, ma non è così. La vita può sbocciare solo quando viene rispettata la consapevolezza della sua fragilità".
  Ma Israele, così particolare, dovrebbe essere visto dall'Europa come un universale emulabile. "Se l'occidente non segue l'esempio di Israele, collasserà lentamente", dice De Winter. "Il senso dello stato-nazione è forte e vivo in Israele e, nonostante tutti gli sforzi per creare un'Unione europea transnazionale, le linee di difesa contro la pandemia sono completamente nazionali. E la difesa dal virus di Israele non è collettivista come in Asia ma orientata alla comunità, una lotta di individui liberi vincolati da un destino comune". Mossad, esercito, scienziati, civili, politici, medici...Un paese unito contro il virus. "Soltanto se c'è un sentimento di identità nazionale, un paese può organizzarsi efficacemente contro un `nemico invisibile"'. E allora cosa è mancato all'occidente? "Il postmodernismo e il marxismo moderno hanno portato via il senso della storia dell'occidente con le sue tragedie e vittorie: niente verità, niente falsità, ma relativismo culturale", conclude De Winter al Foglio. "Ci rendiamo conto che nulla viene gratis e tutto deve essere conquistato. Come Israele".
  Questa mobilitazione contro la morte in Israele si riflette anche nell'abbondanza di vita, che l'Europa ha sempre meno. "Penso che ci sia qualcosa di culturalmente unico che si esprime nell'alto tasso di natalità non solo tra ebrei e musulmani devoti, ma anche tra i laici", dice al Foglio Joshua Muravchik, saggista e intellettuale americano neoconservatore, autore su Israele del libro "Liberal oasis", su come ha fatto fiorire il liberalismo in una terra che lo ha sempre rigettato. "C'è uno spirito di amore per il paese più profondo che in altri paesi occidentali, e il senso di essere `in tutto questo insieme' che deriva dall'aver sempre avuto nemici dediti alla distruzione del paese. Lo si può vedere nell'esercito, dove gli ufficiali accompagnano i loro soldati nel pericolo. Puoi vederlo nei kibbutz, l'unico posto nella storia che ha praticato il socialismo con successo (anche se alla fine ne sono usciti) perché faceva parte di un progetto più ampio. Puoi vederlo per Yom HaShoah, quando l'intero paese si ferma". Muravchik dice che Israele
"Se l'occidente non segue l'esempio di Israele, collasserà lentamente. Nulla è gratuito nella vita" (Leon de Winter).
ce la fa a causa dell'identità. "Usiamo il termine `occidente' per quello che un tempo chiamavamo `cristianità', un sentimento religioso condiviso alla base della società europea e che le da coerenza. Temo che il regno dell'incredulità sia oggi un grande ostacolo al fiorire di queste società. Israele non è un paese altamente religioso, ma ha il senso di tenere nelle proprie mani il destino del popolo ebraico. E c'è nell'ebraismo la distinta dualità di popolo e fede, una dualità che si fonde in una certa misura in Israele. Così per Yom Kippur le strade si svuotano e nessuno guida. Strano in un paese in gran parte laico, ma anche ebrei laici lì sentono che merita il loro rispetto. Penso che se l'Europa ha bisogno di modelli ciò di cui ha bisogno è riscoprire il suo centro spirituale. Da ciò seguirà tutto il resto, quello economico, politico. Gli israeliani amano la vita. Esistono sondaggi globali che dimostrano che il loro amore per la vita è tra i più alti del mondo, ma vivono anche vicino alla morte. Pochi israeliani non hanno subito perdite a causa della guerra o del terrorismo. Ogni israeliano sa com'è entrare in un rifugio antiaereo. Quando è stato detto loro che questo virus era molto letale e richiedeva un'azione urgente e un sacrificio per la conservazione della vita, questo avvertimento lo hanno preso sul serio. Ma gli israeliani fanno parte di un grande progetto, la redenzione del popolo ebraico dopo duemila anni di diaspora, persecuzioni, espulsioni, massacri. Sono fortemente motivati perché sentono uno scopo. Mi chiedo se gli europei in questa epoca post-cristiana abbiano uno scopo. E gli americani? Credevo di sì, ma non ne sono più sicuro".
  Israele non ha soltanto piegato la curva del virus dentro i propri confini, ma ha anche collaborato con i palestinesi, dove la pandemia non è dilagata. Dice Muravchik che "il numero di palestinesi che sono entrati in Israele per cure mediche in un anno è di circa 120.000. Questo su una popolazione totale di tre milioni. Sembra che ogni volta che si ammalano vadano in Israele e Israele li cura. E i cittadini arabi israeliani sono completamente integrati nel sistema di assistenza sanitaria come pazienti ma anche come personale medico. Molti studenti di medicina arabi israeliani e palestinesi si preparano negli ospedali israeliani".
  Amnon Lord è l'ex direttore del quotidiano Makor Rishon. "Penso che gli israeliani conservino un senso di unità di fronte al pericolo", dice Lord al Foglio. "Nonostante anni di libera economia di mercato, esiste una forte solidarietà sociale e nazionale. Molte situazioni di emergenza hanno reso gli israeliani disposti ad ascoltare le istruzioni. Nonostante lo storico conflitto nazionale, nel sistema sanitario in Israele c'è una completa integrazione di arabi ed ebrei e lo si può vedere nel giorno dell'indipendenza quando due medici, un arabo e un ebreo, accendono insieme la torcia". Israele nella gestione del virus viene accostato a Taiwan, Corea del sud e Singapore. Ma secondo Lord è diverso. "Israele è un moderno paese asiatico avanzato che ha interiorizzato i valori occidentali: democrazia, stato di diritto, modernismo e scienza. Penso che la principale differenza rispetto all'Europa sia la forte leadership centralizzata, la capacità di mobilitare il knowhow operativo e il riconoscimento che il primo impegno del governo è proteggere i cittadini", dice Lord. "Tutte le istituzioni operative e militari si sono mobilitate a sostegno del sistema sanitario. E' la leadership di Netanyahu. Ha riconosciuto in una fase iniziale che la pandemia poteva essere letale e ha assunto tutte le decisioni necessarie. Ha instillato il senso di urgenza ed emergenza; e tutti hanno ricevuto il messaggio. Ha lavorato a pieno ritmo con un solo obiettivo: salute pubblica, salvare vite. Nel frattempo, fanculo l'economia. Ricordiamo che l'economia è stata la conquista di Netanyahu. Ha accettato la strategia secondo cui il rilancio dell'economia dipende dalla situazione sanitaria". L'Europa impari dal tanto esecrato stato ebraico. "Penso che alcuni paesi occidentali abbiano dimenticato quali sono gli obblighi dello stato. I paesi europei purtroppo hanno adattato la politica di pacificazione all'islamismo e al terrorismo. E' successo molto tempo fa, negli anni Settanta, un decennio molto importante come gli anni Trenta".
  La differenza fra Israele e gli alleati europei fu evidente nella prima, fatale settimana di marzo. Avevano tutti davanti agli occhi l'esempio italiano. Eppure, Emmanuel Macron andava a teatro a vedere "Par le bout
"Gli anni Settanta per l'Europa sono stati importanti come gli anni Trenta, la pacificazione di fronte al nemico islamista" (Amnon Lord)
du Nez". Sembrava uscito dal libro di Manuel Chaves Nogales, "L'agonia della Francia", dove racconta che mentre i soldati tedeschi marciavano per le strade di Parigi i francesi sciamavano fuori dai cinema, "in tempo per l'aperitivo al bistrot". Intanto, le autorità spagnole invitavano i cittadini a scendere per strada per la festa della donna e l'epidemiologo Fernando Simón, in conferenza stampa, dichiarava: "Se mio figlio mi chiedesse se andare, gli direi di fare quello che vuole". Un suicidio nazionale, tanto da spingere Juan Luis Cebriàn, cofondatore del quotidiano El País, a scrivere: "Le lacrime di coccodrillo di così tanti politici che sostengono che nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa del genere non hanno alcun senso". L'8 marzo, intanto, mentre in Italia erano già morte 366 persone per il virus, in Belgio il primo ministro Sophie Wilmès non vedeva problemi nel fatto che masse si riversassero al Salon Batibouw (fiera immobiliare), la Foire du Livre (fiera del libro) e, naturalmente, la Giornata della donna. Il Belgio avrebbe battuto ogni record di morte pro capite in Europa. Non andava meglio nell'Inghilterra del keep calm and carry on. Boris Johnson stringeva mani come una star e liquidava il pericolo incombente augurandosi l'immunità di gregge. Di lì a poco avrebbe avuto bisogno di "litri e litri di ossigeno". L'occidente era talmente compromesso da non essersi difeso da una pandemia neanche quando il suo vicino di casa italiano stava già riempiendo i cimiteri. E Israele? Aveva già chiuso i confini da due settimane, imposto la quarantena a chiunque rientrasse nel paese e ordinato al suo servizio segreto di trovare tutto il necessario per far fronte al virus che stava già lavorando all'interno. Ma Israele è il piccolo occidente che ce l'ha fatta.

(Il Foglio, 16 maggio 2020)


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