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Notizie 16-30 maggio 2025


Lo Shin Bet sventa 85 tentativi di attacchi informatici iraniani contro alti funzionari israeliani

di Nina Prenda

La guerra tra Iran e Israele non si disputa solo nei cieli a suon di missili, droni o proxies ma riguarda anche lo spionaggio informatico. Non è la prima volta, infatti, che con successo Israele riesce a bloccare tentativi di furto di dati attuati dalla Repubblica Islamica.
Lo Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni israeliana, in collaborazione con la National Cyber Directorate, ha ostacolato con successo 85 tentativi di attacchi informatici orchestrati da attori iraniani che hanno preso di mira cittadini israeliani, tra cui figure di alto livello nei settori della difesa, della politica, a livello accademico e dei media.
Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì 29 maggio, gli attacchi hanno riguardato principalmente tentativi di phishing tramite applicazioni come WhatsApp, Telegram ed e-mail. Gli aggressori hanno creato storie di copertina su misura per ogni bersaglio, allineandosi con i loro campi professionali per apparire autentici ed evitare sospetti.
Un metodo di attacco diffuso ha incluso perfino l’invio di falsi link di Google Meet progettati per rubare le credenziali di accesso per gli account Google. Questo approccio ha consentito l’accesso non autorizzato alle informazioni personali, tra cui e-mail, password, dati sulla posizione e foto memorizzate nel cloud. Inoltre, ci sono state segnalazioni dell’uso di software ingannevoli e file scaricabili destinati a installare spyware sui computer delle vittime.
Un funzionario dello Shin Bet ha sottolineato che questi attacchi informatici fanno parte della campagna in corso dell’Iran contro Israele, con l’obiettivo di danneggiare direttamente gli individui attraverso l’estrazione di informazioni sensibili. Il pubblico è invitato a rimanere vigile, evitare di cliccare su link sconosciuti e aderire a pratiche online sicure.
I funzionari dello Shin Bet hanno riaffermato l’impegno dell’organizzazione a continuare a collaborare con tutte le agenzie di sicurezza per identificare e neutralizzare in modo proattivo le attività ostili.

(Bet Magazine Mosaico, 30 maggio 2025)

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«Gli adolescenti israeliani sono più forti di tutti gli altri al mondo»

di Carl Brunke

RAMAT GAN - Con le loro magliette, i jeans e le scarpe da ginnastica, i 13 studenti sembrano adolescenti normali come tanti altri nelle società occidentali. Ma cosa c'è di normale in Israele? «Abbiamo costruito tre nuovi rifugi», dice Rotem Lezter, direttore del liceo Ebin di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. Qui frequentano la scuola 780 giovani, seguiti da 97 insegnanti in 26 classi. Grazie a due licei gemellati nella città tedesca di Weinheim, c'è un vivace scambio di studenti.
  Durante l'incontro con 13 ragazzi e ragazze di età compresa tra i 14 e i 17 anni, la guerra di Gaza diventa subito argomento di discussione. A 18 anni inizia il servizio militare triennale. "Ci penso ogni giorno. L'esercito è più importante che mai e niente è più importante del Paese“, afferma Schahar con convinzione, ma anche con preoccupazione: ”Il servizio militare è ovviamente una cosa pericolosa".
  Tra i giovani israeliani, parole come queste non suonano pretenziose, ma piuttosto mature. Difendere il loro Stato ebraico è per loro una cosa ovvia, un dovere fondamentale per la sopravvivenza.
  Maya prova «sentimenti contrastanti» e guarda con un po' di scetticismo al suo periodo nell'esercito. Rani si rammarica di «non poter aiutare fisicamente» a causa di un infortunio alla spalla destra. «Nell'esercito proteggerò la mia gente come ingegnere informatico», afferma con sicurezza.

Elevata pressione psicologica
   Il liceo Ebin fa parte dell'Ort Israel Sci-Tec School Network, un consorzio di 250 scuole specializzate in tecnologia e intelligenza artificiale. Inoltre, nell'ambito del programma “Connected”, il liceo assiste i sopravvissuti all'Olocausto e fornisce loro assistenza quotidiana nel mondo digitale, ad esempio per utilizzare le app mediche sui loro smartphone. “Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo visitato gli anziani ancora più spesso. Ha fatto bene a loro e anche a noi”, dice David.
  Il massacro e i rapimenti, il destino degli ostaggi e delle loro famiglie hanno cambiato Israele. "È troppo, la pressione psicologica è troppo alta. Qui non ci sono periodi tranquilli. È incredibile come i nostri studenti riescano a sopportare tutto questo. I giovani in Israele sono più forti di tutti gli altri adolescenti del mondo“, dice un'insegnante. E un collega aggiunge: ”Per noi non c'è altro posto e non c'è altra strada“.
  Alla domanda su cosa si aspettano dalla Germania, gli studenti rispondono: ”Sostegno, fiducia e fede. Credeteci!".

(Israelnetz, 30 maggio 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 4

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

Un Dio che agisce
   Abbiamo detto che il personaggio principale della Bibbia è Dio; e abbiamo sottolineato che ogni riflessione sugli scritti biblici deve sempre cominciare da ciò che sta all’inizio, cioè da Dio che agisce. Per capirlo basta aprire la Bibbia alla prima pagina: “Nel principio Dio creò i cieli e la terra”. Il racconto non comincia con una profonda riflessione sul problema del bene e del male, dell’amore e dell’odio, della gioia e del dolore, e così via filosofando, ma il quadro si apre facendoci vedere un Dio che agisce. Dio disse, Dio fece, Dio vide, Dio creò. E così fu. Sei giorni di duro lavoro, ma ne valeva la pena, perché alla fine il giudizio che ne dà lo stesso Operatore è ottimo: “Dio vide tutto quello che aveva fatto ed ecco, era molto buono”.
  Ai sei giorni di lavoro attivo se ne aggiunse un settimo, che indubbiamente si distingue dai precedenti:

    “Il settimo giorno, Dio compì l'opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l'opera che aveva fatta. E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso si riposò da tutta l'opera che aveva creata e fatta(Genesi 2:2-3).

Dio giudica perfetta l’opera che aveva creata e fatta nei primi sei giorni e la completa con un settimo giorno che ha come centro di attenzione non le varie cose create, ma la persona stessa del Creatore. Se le descrizioni degli atti creativi sono viste come fotografie, si può dire che nell’ultimo giorno il Signore si è fatto un selfie. Nelle altre foto si vedono oggetti creati, mentre in quest’ultima si vede il Creatore che riposa. “Riposo di Dio ”potrebbe essere la scritta in calce alla foto, che è la più importante di tutte, perché dà senso a tutte le altre.
  Nel seguito Dio stesso parlerà del mio riposo in cui alcuni non entreranno (Salmo 95, Ebrei 4), e questo accenna al fatto che Dio connette il suo riposo di Creatore con quello che si svolge sulla terra tra le sue creature. E il fatto che Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò sottolinea ancora una volta il fatto che nella creazione, e in tutto ciò che ne consegue, al centro della scena c'è il Creatore. Il termine astratto “creazione” non si trova mai nell’Antico Testamento, e attira l’interesse più sulle cose fatte che su Chi le fa.

Un Dio che pensa
   Abbiamo visto che “nel principio” Dio si presenta come un operatore che agisce, lavora e ottiene un risultato più che soddisfacente.
  Ma prima di lavorare, Dio che cosa faceva? “Preparava una verga con cui frustare quelli che fanno domande come questa”, fu la fulminea risposta che diede una volta Lutero. Ma forse il riformatore in questo non aveva ragione: dipende dallo spirito con cui si fa la domanda. Potrebbe esprimere il desiderio di conoscere più a fondo l’Operatore che ha compiuto un’opera così grandiosa, attratti dall’ammirazione per la persona, prima ancora che per gli oggetti da lui creati.
  Una risposta alla domanda fatta potrebbe essere: Dio pensava. Sì, pensava al lavoro che avrebbe fatto in quei primordiali sei giorni, perché la creazione, prima di apparire nella sua concretezza, è esistita nella mente di Dio come progetto. Ed è proprio nel progetto, prima ancora che nella sua messa in opera, che si manifesta la personalità del Creatore nella sua infinita sapienza:

    “Con la sapienza l’Eterno fondò la terra, e con l’intelligenza rese stabili i cieli” (Proverbi 3:19).

Dalla sapienza di Dio è scaturita la creazione. E se la creazione ha avuto un inizio, la sapienza di Dio no. Il Progettista ha preceduto in tempo e importanza l’Operatore.
  Tra tutti gli esseri creati, l’uomo ha ricevuto la capacità di indagare le opere create da Dio, e anche di provare a risalire nel tempo fino a tentare di arrivare alle origini dell’opera, ma oltre questo non può andare. Alla mente del Progettista l’uomo non ci arriva. Neppure con le sue più sofisticate tecniche filosofico-scientifiche. E quando si arrischia a farlo, scivola fatalmente su un piano di stoltezza che può farlo arrivare fino alla follia:

    Chi ha preso le dimensioni dello Spirito dell'Eterno o chi è stato il suo consigliere per insegnargli qualcosa? (Isaia 40:13).

Il pensiero di Dio non si raggiunge per opere, ma solo per rivelazione. Con le nostre umane capacità possiamo esaminare gli oggetti creati, conoscerli, manipolarli, trasformarli, ma con quali strumenti potremo arrivare a conoscere il pensiero di Dio? Il “come” delle cose fatte possiamo capirlo, ma il “perché” sono state fatte così, chi è in grado di spiegarlo?

    L'uomo stende la mano sul granito, rovescia dalle radici le montagne. Pratica trafori dentro le rocce, e il suo occhio scorge quanto vi è di prezioso. Frena le acque perché non fuoriescano e trae fuori alla luce le cose nascoste. Ma la sapienza, dove trovarla? Dov'è il luogo dell'intelligenza?  L'uomo non ne conosce la via, non la si trova sulla terra dei viventi (Giobbe 28:9-13).

C’è un passo nella Bibbia che allude a ciò che è prima della creazione:

    L'Eterno mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche (Proverbi 8:22)

Di chi si tratta? E’ detto poco sopra: “Io, la sapienza, sto con l'accorgimento e trovo la scienza della riflessione” (Proverbi 8:2). Dunque si tratta di Dio stesso nella veste del sapiente che riflette, e non solo.
  Il passo intero continua così:

    22 L'Eterno mi ebbe con sé al principio dei suoi atti, prima di fare alcuna delle sue opere più antiche. 23 Fui stabilita fin dall'eternità, dal principio, prima che la terra fosse. 24 Fui generata quando non vi erano ancora abissi, quando ancora non vi erano sorgenti straripanti di acqua. 25 Fui generata prima che i monti fossero fondati, prima che esistessero le colline, 26 quando egli ancora non aveva fatto né la terra né i campi né le prime zolle della terra coltivabile. 27 Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso, 28 quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso, 29 quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra, 30 io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto; 31 mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini (Proverbi 8:22-31).

Per sei giorni Dio si è mosso in veste di operatore, affaticandosi nella costruzione del complesso edificio del creato, ottenendo alla fine un risultato che Egli stesso, in veste di esaminatore, ha giudicato molto buono. Ma l’opera è risultata molto buona perché il progetto era stato pensato molto bene. Prima che come operatore, Dio ha agito come progettista; prima di formare il creato, ha elaborato un progetto a cui ha messo mano con una sapienza che possedeva fin da prima dell'inizio dei lavori.
  Nel versetto 22, dove si dice che “L’Eterno mi ebbe con sé”, il verbo qanah usato nell’originale ha un significato generico di possesso con molte sfumature. Dopo il parto di Caino, Eva dice: “Ho acquistato (qanah) un uomo con l'aiuto dell'Eterno” (Genesi 4:1). Si può allora usare questo verbo italiano anche nel versetto 22 e tradurre, con riferimento alla sapienza: “l’Eterno mi acquistò all’inizio dei suoi atti”. E’ come se al momento opportuno Dio avesse "acquistato" un valido progettista, associandolo a Sé col compito di dare forma al progetto e seguire i lavori fin dall’inizio, passo dopo passo, cosa che poi il progettista-architetto ha puntualmente eseguito, confermando una sapienza che non gli proveniva dall’esperienza ma che aveva “fin dall’eternità” (v. 23).
  Il nostro brano sposta dunque l’attenzione dall’opera della creazione al pensiero da cui è scaturita, e più precisamente all’ideatore che l’ha pensata. Non è forse sempre da grandi idee che si producono nel mondo tutte le grandi opere umane? E se con un’attenta indagine tecnica e storica dei documenti che riguardano una grande opera, come per esempio la torre di Pisa, si potrebbe arrivare a conoscere chi ne è stato il progettista e quale ne sia stata l’idea originaria, chi può risalire dall’esame degli oggetti creati al pensiero originario del Creatore? Chi ha consultato l’Eterno prima che desse il via alla creazione? C’è qualcuno che sa rispondere?

    “O profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e incomprensibili le sue vie! Poiché: “Chi ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato il suo consigliere? O chi gli ha dato per primo, e gli sarà contraccambiato?” Poiché da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose. A lui sia la gloria in eterno. Amen” (Romani 11:33-36).

Un Dio che ama
   Continuando a fissare la nostra attenzione sul personaggio principale della Bibbia, possiamo chiederci: qual è la parola che esprime al meglio l’aspetto essenziale della personalità di Dio? La prima risposta che forse viene in mente è “amore”. Ed è quella giusta.
  “Dio è amore”, scrive due volte l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera (1 Giovanni 4:8,16). Nell’Antico Testamento non si trova una formulazione come questa, ma resta il fatto che Israele, come popolo e nazione, ha la priorità in fatto di esperienza dell’amore di Dio, perché Israele è l’unica nazione a cui Dio abbia fatto un’esplicita “dichiarazione d’amore”:

    “Ma ora così parla l'Eterno, il tuo Creatore, o Giacobbe, colui che ti ha formato, o Israele! “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome; tu sei mio! Quando passerai per le acque, io sarò con te; quando attraverserai i fiumi, non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco, non sarai bruciato e la fiamma non ti consumerà. Poiché io sono l'Eterno, il tuo Dio, il Santo d'Israele, il tuo salvatore; io ho dato l'Egitto come tuo riscatto, l'Etiopia e Seba al tuo posto. Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei stimato e io ti amo, io do degli uomini al tuo posto, e dei popoli in cambio della tua vita. Non temere, perché io sono con te; io ricondurrò la tua discendenza dall'oriente e ti raccoglierò dall'occidente. Dirò al settentrione: 'Da'!' e al mezzogiorno: 'Non trattenere; fa' venire i miei figli da lontano e le mie figlie dalle estremità della terra, tutti quelli cioè che portano il mio nome, che io ho creato per la mia gloria, che ho formato, che ho fatto'” (Isaia 43:1-7).

E inoltre:

    “Così parla l'Eterno: ‘Il popolo scampato dalla spada ha trovato grazia nel deserto; io sto per dare riposo a Israele’. Da tempi lontani l'Eterno mi è apparso. ‘Sì, io ti amo di un amore eterno; perciò ti prolungo la mia bontà’” (Geremia 31:2-3).

In queste citazioni l’amore di Dio si manifesta come un’opera che pone rimedio al male: Israele viene ricondotto in patria da tutti i luoghi dove si trova in esilio e trova grazia nel deserto scampando dalla spada del nemico.
  Anche per il credente in Cristo, la prima esperienza che fa dell’amore di Dio consiste nel perdono dei peccati, che fa scampare dal male della perdizione eterna. Poi è vissuta anche come benedizione per il presente e promessa di salvezza eterna per il futuro.
  Si pone allora una domanda: esiste la possibilità di parlare di amore senza nominare il male? Per noi uomini, per quanto buoni e santi possiamo essere, la risposta è “no”. Solo Dio può farlo. L’uomo ha ottenuto quello che non avrebbe dovuto ricercare: la conoscenza del bene e del male (Genesi 3:22), e come conseguenza il male gli si è irreparabilmente appiccicato addosso, quali che siano le forme in cui parla del bene, soprattutto quando nomina implicitamente Dio parlando con disinvoltura di “amore”.
  Seguiamo ora Dio in azione nella sua opera creativa.
  Quando si fermò ad esaminare il risultato ottenuto, era il sesto giorno, e fino a quel momento nessun male era stato compiuto o nominato. Il giorno dopo Dio “si riposò da tutta l’opera che aveva creata e fatta” (Genesi 2:1-3), e qualunque sia la spiegazione che si voglia dare del fatto, nei giorni successivi il male fece la sua apparizione negli atti compiuti dall’uomo. E se ne dovette parlare.
  Qualcuno allora forse si chiederà se sia stato proprio quell’aggiuntivo giorno di riposo che Dio si è concesso ad essere l’inizio di tutti i mali venuti dopo. Potrebbe essere questo l’errore di progettazione di Dio? Non è così. Quel settimo giorno faceva parte del progetto: era il “fattore di rischio” messo in programma affinché si realizzasse un autentico rapporto d’amore fra il Creatore e le creature. Messo davanti a una proposta alternativa, l’uomo aveva la possibilità di credere o no alla parola d’amore ricevuta da Dio. Poiché un autentico rapporto d’amore si fonda sulla fiducia, l’uomo dimostrò di voler dare più fiducia al serpente che a Dio. E con ciò si collegò al serpente, o per meglio dire al suo mandante.
  Tutto questo disturbò il riposo di Dio. Il settimo giorno, che nell’opera attiva della creazione è stato l’ultimo, doveva essere il primo di un “eterno riposo” di Dio. E’ significativo che l’espressione “eterno riposo”, che per noi mortali ha un suono che richiama sì l’eternità, ma un’eternità di morte, nel piano di Dio intendeva un’eternità di vita, in un rapporto d’amore tra Creatore e creature. Ed è un pensiero che Dio ha avuto prima della creazione, quando elaborava un progetto che per l’uomo prevedeva, in caso di una sua risposta positiva, un ambiente in cui il male sarebbe stato soltanto un cartello attaccato a una porta che non si sarebbe mai aperta e non avrebbe creato alcun desiderio di aprirla.
  Possiamo rileggere allora gli ultimi due versetti del testo citato sopra:

    … ero presso di lui come un artefice; ero sempre esuberante di gioia giorno dopo giorno, mi rallegravo in ogni tempo in sua presenza; mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini(Proverbi 8:30-31).

Qui il soggetto è Dio che agisce assistito dalla sua eterna sapienza, che non solo gli fornisce elementi per compiere un’opera creativa tecnicamente perfetta, ma anche lo allieta col pensiero di quando potrà rallegrarsi nella parte abitabile della sua terra e trovare gioia tra i figli degli uomini. E’ da qui che deve cominciare la riflessione sull’amore.
 La presentazione della sapienza di Dio che qui fa la Bibbia non è la personificazione di astratti concetti umani di giustizia, pace, libertà, ma pura e gratuita rivelazione che Dio fa di Sé agli uomini come destinatari del suo progetto creativo di amore. Un amore che è fonte di gioia: Dio si rallegra nell’esecuzione di ciò che è nella sua mente; si rallegra fin dall’inizio, giorno dopo giorno. E pensa al compimento finale del suo progetto, quando troverà la sua piena gioia tra i figli degli uomini.
  Il tentativo ci fu. La parte abitabile della sua terra fu in origine il giardino di Eden, dove il Signore andava ad incontrare Adamo ed Eva. Ma quella volta non li vide. Non si mise a cercarli, non mandò angeli a scovarli. Usò la voce, quella stessa voce con cui aveva detto ad Adamo: “Del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare”. E pacatamente chiese: “Adamo, dove sei?” Adamo si fece vedere e rispose. Fu quell’atto, non certo le sue penose parole di autogiustificazione, a far sì che la storia d’amore di Dio per l’uomo potesse proseguire, anche se in modo molto, molto diverso.
  Il riposo di Dio si era interrotto. Dio avrebbe dovuto ricominciare a lavorare.

(4. continua)
precedenti 

(Notizie su Israele, 1 giugno 2025)


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In Israele i laser hanno eseguito con successo i primi ingaggi di minacce

di Giacomo Cavanna

Video rilasciato dal Ministero della Difesa di Tel Aviv
Nel corso dell’operazione “Iron War” la Direzione di Ricerca e Sviluppo per la Difesa (DDR&D) del Ministero della Difesa israeliano (IMOD), l’Aeronautica Militare israeliana (IAF) e RAFAEL Advanced Defense Systems hanno avviato un programma di sviluppo accelerato per implementare sistemi di intercettazione rivoluzionari.
Gli operatori della IAF Aerial Defense Array hanno utilizzato prototipi di sistemi laser ad alta potenza sul campo, intercettando con successo decine di minacce nemiche.
Questi sistemi si basano su innovazioni tecnologiche sviluppate nel corso di decenni presso RAFAEL, in stretta collaborazione con la divisione R&S del DDR&D.
I sistemi laser impiegati fanno parte del portafoglio di sistemi d’arma a energia diretta di RAFAEL, sviluppati in collaborazione con l’IMOD, e completano il più potente sistema IRON BEAM, attualmente in fase di sviluppo, la cui consegna alle IDF è prevista entro la fine dell’anno.
Durante tutta la guerra in corso, l’IAF, compresi i soldati dell’Aerial Defense Array, ha studiato ed utilizzato i sistemi laser sul campo, ottenendo eccezionali percentuali di intercettazione che hanno salvato vite civili e protetto le risorse nazionali.
Lo Stato di Israele è stato il primo Paese al mondo a dimostrare reali capacità operative di intercettazione laser su larga scala.
I sistemi di intercettazione laser forniranno un ulteriore livello all’interno del sistema di difesa aerea multistrato di Israele.

Iron Beam
  Da parte sua l’IRON BEAM ad alta potenza (HELWS) da 100 kW prodotto dalle linee di produzione di RAFAEL è destinato a cambiare radicalmente il paradigma della difesa aerea, consentendo intercettazioni rapide, precise ed economiche, ineguagliate da qualsiasi sistema esistente.
Il sistema laser in questione è in grado di ingaggiare e neutralizzare rapidamente ed efficacemente un’ampia gamma di minacce da una distanza di centinaia di metri a diversi chilometri . Aggregandosi alla velocità della luce, Iron Beam ha un caricatore illimitato, con un costo per intercettazione quasi nullo e causa danni collaterali minimi.
Iron Beam ricorre ad un laser a fibra per ingaggiare e distruggere un bersaglio in volo entro 4-5 secondi dallo sparo ad una distanza massima di 7 km (la portata massima teorica di sistema sarebbe di 10 km).
La batteria è costituita da un radar da difesa aerea, un centro di comando e controllo e da una coppia di High Energy Laser (HEL)

(Ares Difesa, 31 maggio 2025)

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Parigi, imbrattati con vernice siti di istituzioni ebraiche

All'alba un uomo vestito di nero è stato filmato dalle telecamere di sorveglianza mentre cospargeva di vernice verde i 4 edifici. Tutte le azioni sono avvenute nello stesso quartiere, il Marais.

Quattro siti di istituzioni ebraiche o frequentate da ebrei a Parigi sono stati questa notte imbrattati con vernice verde. La pittura è visibile questa mattina anche sui muri del Memoriale dell'Olocausto. Attorno alle 4:30 di questa mattina, un uomo interamente vestito di nero, è stato filmato dalle telecamere di sorveglianza mentre cospargeva di vernice i 4 edifici. Lo ha reso noto la radio RTL. Davanti a uno dei quattro siti danneggiati è stato ritrovato un barattolo di vernice verde.
  Tutte le azioni sono avvenute nello stesso quartiere, il Marais: la sinagoga di rue des Tournelles, il memoriale dell'Olocausto, la sinagoga Agoudas Hakehilos e il ristorante "Chez Marianne". "Con gli atti 'militanti', sappiamo dove si comincia ma non dove si finisce", ha denunciato su X il sindaco dei quattro arrondissement di Paris Centre, Ariel Weil. Condanna "con la massima forza" il gesto anche la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che ha annunciato una denuncia del Comune.

(skytg24, 31 maggio 2025)

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La deriva dell’Occidente da Israele

L’antisemitismo dilaga, si impossessa delle università, delle scuole, delle strade

di Stefano Parisi

L’occidente è sempre più lontano, Israele è sotto attacco. Basta bombe, basta morti a Gaza. Molti governi pensano a nuove sanzioni per mettere sotto pressione Gerusalemme allo scopo di fermare la guerra nella Striscia. Le manifestazioni per la Palestina sono ormai libere di poter esprimere l’odio verso lo Stato ebraico, represso fino a oggi dalla retorica della falsa memoria per la Shoah. Si sentono liberi di dire che Israele sta facendo ai palestinesi quello che Hitler ha fatto agli ebrei, utilizzandogli contro financo Marzabotto. Possono ricongiungersi alle “avanguardie” degli squadristi pro-Pal che nelle università impediscono ai figli di Abramo di parlare.
  Arrivano a sostenere che l’accusa di antisemitismo è un ricatto che impedisce loro di battersi per l’occupazione di quella terra, difendendo però chi vieta l’ingresso nei ristoranti e nei pubblici esercizi agli ebrei e cancellando il 7 ottobre dalle loro dichiarazioni. Così come dalla loro memoria.
  L’antisemitismo dilaga, si impossessa delle università, delle scuole, delle strade, dei muri delle città, delle piazze, dei media. La propaganda dell’Islam radicale invade le opinioni pubbliche occidentali. Hamas è l’unica fonte ufficiale per la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione. E l’Europa, dopo anni di retorica contro il razzismo, guarda tutto ciò senza alcuna capacità di reagire, senza la forza di contrastare l’ondata di odio. Le leadership del vecchio continente, sotto la pressione delle élite accademiche e intellettuali che condizionano l’opinione pubblica, hanno abbandonato da tempo lo Stato ebraico al suo destino e fanno la voce sempre più grossa a sostegno della causa palestinese. Non si chiede più la liberazione degli ostaggi, non si chiede più il disarmo di Hamas, non si rivendica più il diritto all’esistenza di Israele.
  Così arriviamo a questo drammatico momento della vicenda mediorientale senza avere nessuna voce in capitolo. Abbiamo lasciato per anni che fiumi di finanziamenti andassero ad armare e rafforzare Hamas, facendo si che i ricchi paesi arabi che foraggiano il terrorismo comprassero le nostre università, i nostri sport, le nostre città e contrastassero i loro stessi governi nel tentativo di isolare i Fratelli Musulmani. Subito dopo il 7 ottobre, sotto la pressione dei partiti ormai condizionati dalla propaganda dell’Islam radicale, abbiamo abbandonato Israele a sé stessa, lasciandola da sola a combattere contro Hamas, Hezbollah, Houthi e Iran. Eppure, quel terrorismo vuole cacciare gli ebrei dal Medio Oriente e vuole anche distruggere le democrazie occidentali, uccidere i cristiani in africa e i musulmani che provano ad opporsi. La sopravvivenza dello Stato ebraico è la nostra sopravvivenza, eppure…
  Se l’Europa fosse stata al fianco di Israele nella sua guerra contro il terrorismo, se avesse combattuto unita per la sicurezza di Gerusalemme come ha fatto per Kyiv, oggi avrebbe la forza politica di condizionare le scelte di Netanyahu. Se avesse affrontato la realtà ammettendo che i nemici di entrambe le guerre sono gli stessi, che attaccano con le stesse armi, con le stesse potenti relazioni diplomatiche, con gli stessi droni, il vecchio continente oggi avrebbe la forza politica di mettere un punto fermo, proponendo una soluzione per liberare i palestinesi da Hamas, dall’odio antisemita, dalla cultura della morte e del martirio. Se avessimo condannato con forza la vergogna del considerare Israele l’aggressore e non la vittima, oggi potremmo fermare questa guerra.
  Chiedere di fermare la guerra senza dare una soluzione per la sicurezza degli israeliani è velleitario e rende i governi occidentali funzionali agli scopi alla propaganda di Hamas. Ma siamo ancora in tempo. L’Europa e la Gran Bretagna possono oggi assumere un’iniziativa con la Lega Araba e gli Stati Uniti per non lasciare soli gli ebrei d’Israele. Far entrare a Gaza un’amministrazione ANP, disarmare e smantellare Hamas con forze militari dei paesi sunniti, iniziare la ricostruzione nella Striscia sciogliendo Unrwa e ricostruendo scuole palestinesi che formino una generazione pacifica. Israele è una democrazia ancora forte. Gli israeliani sapranno scegliere la leadership in grado di garantire la loro sicurezza e svolgere un ruolo propulsivo nel processo di stabilizzazione del Medio Oriente. Ora, anche se esausti, hanno bisogno di questo. E l’occidente devastato deve salvare sé stesso dagli incubi di un passato che sta prepotentemente tornando.

(Il Riformista, 31 maggio 2025)
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«L’occidente è sempre più lontano, Israele è sotto attacco». Anche questo articolo vede Israele come un baluardo dell’Occidente, e accusa quest’ultimo di non fare abbastanza per supportare il suo “baluardo”. E mette in un fascio la guerra di Ucraina con quella di Gaza, e auspica lo sforzo unito di Europa, Gran Bretagna, Lega Araba e Stati Uniti per “condizionare Netanyahu”. Chi coltiva questi sogni di un Occidente regno del bene che deve salvare Israele per salvare se stesso, continua ad essere per Israele parte del problema,  non della soluzione. La democrazia occidentale ormai è intessuta di antisemitismo, e si avvicina il momento in cui non riuscirà più a dissimularlo. M.C.

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Riservisti israeliani: temprati dalla vittoria, al limite delle loro forze

La vittoria appartiene al Signore, ma Egli la ottiene attraverso il suo popolo Israele, che non deve restare solo.

di Ryan Jones

Riservisti israeliani si addestrano con armi leggere prima di partire per i campi di battaglia nella Striscia di Gaza.
GERUSALEMME- Israele è un piccolo Paese con risorse umane ed economiche limitate. I conflitti militari prolungati hanno un costo elevato, poiché la maggior parte dei combattimenti è condotta da riservisti che devono lasciare le loro famiglie e i loro posti di lavoro per difendere la nazione.
Tuttavia, anche dopo quasi 600 giorni di guerra, la maggior parte di loro considera sacro il proprio dovere, dopo che gli eventi del 7 ottobre 2023 hanno ricordato a uno Stato ebraico sempre più compiaciuto che ci sono ancora nemici che vogliono davvero annientare la vita ebraica.
I soldati cittadini di Israele, spina dorsale delle forze di difesa israeliane, continuano ad ardere con incrollabile determinazione per sconfiggere Hamas e ottenere la vittoria totale nella Striscia di Gaza, al fine di garantire che gli eventi del 7 ottobre non si ripetano mai più. Ma dopo quasi due anni di guerra incessante, questi leoni di Giuda sono esausti, le loro famiglie sono provate e le risorse di Israele sono pericolosamente esaurite. La Bibbia dice: “Il popolo d'Israele si leverà come un leone” (Esodo 23:24), ma anche i leoni si stancano quando la caccia non finisce mai.

(Israel Heute, 30 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Amnesia e indifferenza sul 7 ottobre di chi chiede la resa d’Israele

di Iuri Maria Prado

Le manifestazioni dei prossimi giorni “contro la guerra di Gaza” e “per fermare Israele” sono organizzate e promosse da chi non capisce che cosa è successo dal 7 ottobre a questa parte o, peggio, non se ne preoccupa.
  I cinquemila miliziani e civili palestinesi che il 7 ottobre del 2023 invadevano Israele dicevano al mondo che massacrare gli ebrei in massa era nuovamente possibile. I loro smartphone e le loro bodycam, restituendo le immagini dei massacri, delle decapitazioni, dei bambini bruciati vivi, raccontavano che 80 anni dopo la Shoah non era più solo una vaga ambizione, ma una possibilità effettiva, sterminare 1200 ebrei e rapirne 250.
  Raccontavano che era possibile farlo, solo che ci fosse qualcuno disposto a farlo e nessuno disponibile a impedirglielo.
  Era un nuovo inizio, il 7 ottobre. L’inizio di una nuova era della persecuzione degli ebrei. Una nuova era che non cominciava con quei massacri, ma con la diffusione dell’idea che essi “non venivano dal nulla”, come disse il Segretario Generale dell’Onu.
  La guerra è una cosa orribile sempre, a prescindere da chi la faccia e per chiunque la subisca. Ma Israele non combatte la propria guerra. Combatte la guerra scatenata da Hamas, una guerra organizzata sul presupposto che la distruzione di Israele valesse la pena della distruzione di Gaza.
  Manifestare “contro la guerra di Gaza” e “per fermare Israele” (“fermare Netanyahu” è un modo comodo per dire la stessa cosa) significa pretendere che Israele e gli ebrei debbano accettare, nella noncuranza della comunità internazionale, la sopravvivenza di un nemico che vuole distruggerli.
  Significa pretendere la resa di Israele a quella minaccia. Perché nessuno, salvo Israele, salverà Israele da quella minaccia. Perché nessuno, salvo Israele, ha mai salvato Israele dalla minaccia cui lo Stato ebraico, dalla sua fondazione, è stato sottoposto.
  E ai manifestanti dei prossimi giorni noi diciamo, ancora, di meditare su questo: che nessuno ha mai salvato gli ebrei, se non gli ebrei stessi. Israele, che in quelle manifestazioni sarà più o meno esplicitamente indicato come il nemico, è nato essendo, e per essere, l’ultimo posto per gli ebrei. Perché non ne esisteva nessun altro.
  Chiedere che un Paese in guerra rispetti le leggi di guerra è giusto e doveroso. Ma le manifestazioni dei prossimi giorni non hanno l’intenzione, e tanto meno avranno l’effetto, di impedire la commissione di crimini di guerra (che Hamas commette sistematicamente e per statuto).
  Quelle manifestazioni hanno l’intenzione, o in ogni caso avranno l’effetto, di armare l’opinione pubblica contro il diritto di Israele di vincere la guerra contro chi vuole distruggerlo.
  E avranno l’effetto, proprio mentre affermano di prenderne le distanze, di portare in piazza un risentimento antisemita che ha trovato nuove denominazioni (il cosiddetto “antisionismo”, la “critica al governo criminale di Israele”, la condanna del “genocidio”) per dispiegarsi in libertà.
L’Europa che fu della Shoah si accorse dopo, troppo tardi, di esserlo stata.

(InOltre, 30 maggio 2025)

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Dopo l’attentato al Museo Ebraico, una nuova realtà a Washington: “Il terrorismo può colpire ovunque”

“Ci aspettiamo che il governo agisca in modo deciso contro chiunque minacci la nostra esistenza con atti terroristici. L’attentato avvenuto a Washington rappresenta un’escalation significativa della violenza antisemita, e dobbiamo rispondere di conseguenza”. Parola di Eric Fingerhut, presidente delle Federazioni Ebraiche del Nord America.

di David Zebuloni

Seicento giorni esatti fa, il 7 ottobre 2023, la vita di milioni di ebrei in Israele e nel mondo è cambiata per sempre. Un preoccupante sondaggio condotto dall’American Jewish Committee ha già rivelato che la maggior parte degli ebrei adulti negli Stati Uniti ha modificato il proprio comportamento nell’ultimo anno per il timore di subire violenze e odio a sfondo antisemita. Un timore assolutamente fondato e reso tragicamente reale la scorsa settimana, quando due giovani impiegati dell’ambasciata israeliana a Washington sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco.
“L’attentato terroristico avvenuto fuori dal Museo Ebraico di Washington ha scosso le nostre comunità, questo crimine orribile è una vera tragedia per tutto il popolo ebraico”, ha dichiarato Eric Fingerhut, presidente delle Federazioni Ebraiche del Nord America, in un’intervista a Makor Rishon. “Stiamo facendo tutto il possibile per proteggere gli ebrei americani da ogni minaccia e per permettere loro di vivere una vita comunitaria sicura e dignitosa”.
Una sfida tutt’altro che semplice. “Da alcuni anni ormai percepiamo che la minaccia contro la comunità ebraica negli Stati Uniti va intensificandosi, ed è per questo che abbiamo già aumentato in modo significativo i livelli di sicurezza nei siti ebraici sensibili”, ha sottolineato Fingerhut. “Di recente abbiamo anche promosso alcuni piani di sicurezza avanzati per tutte le comunità ebraiche del Nord America”.
Eric Fingerhut è stato senatore nel parlamento dello Stato dell’Ohio dal 1997 al 2006 e nel 2004 è stato candidato del Partito Democratico al Senato degli Stati Uniti. Durante il suo mandato alla Camera dei Rappresentanti, è stato promotore di quattro proposte di legge a favore dei legami tra Stati Uniti e Israele. Dal 2019 ricopre il ruolo di presidente e amministratore delegato delle Federazioni Ebraiche del Nord America.
“Dopo il 7 ottobre abbiamo chiesto il sostegno del governo americano e l’abbiamo ottenuto: lavoriamo in piena collaborazione con le autorità di sicurezza locale”, ha rivelato l’ex senatore americano. “Tuttavia, ora ci aspettiamo che il governo faccia di più per proteggere gli ebrei d’America. Che agisca in modo deciso contro chiunque minacci la nostra esistenza con atti terroristici. L’attentato avvenuto a Washington rappresenta un’escalation significativa della violenza antisemita, e dobbiamo rispondere di conseguenza”.
Dall’atroce attacco di Hamas nei Kibbutzim nel sud d’Israele a oggi, i livelli di odio, violenza e antisemitismo negli Stati Uniti sono aumentati in modo esponenziale. “Le manifestazioni pro-palestinesi si sono diffuse molto rapidamente in tutto il Nord America, non solo nei campus delle grandi università”, ha raccontato Fingerhut. “Oggi si sentono ovunque accuse contro Israele di genocidio a Gaza: davanti ai municipi, davanti alle scuole e, ovviamente, sui social network”.
Nonostante ciò, l’ondata di antisemitismo che ha investito gli Stati Uniti non ha realmente sorpreso Eric Fingerhut. “Fin dal primo momento in cui le strade e le piazze si sono riempite di violenti manifestanti, era a noi chiaro che le proteste pro-palestinesi non erano contro Israele, ma contro tutti gli ebrei. Non a caso, già nel novembre 2023, appena un mese dopo il terribile massacro di Hamas, abbiamo organizzato a Washington una marcia contro l’antisemitismo. Avevamo subito riconosciuto la nuova tendenza, e cercato di agire di conseguenza”.
Numerosi movimenti antisemiti avevano già preso di mira gli ebrei americani, ma nell’ultimo anno pare che questi siano passati dalle parole ai fatti, rappresentando ora una minaccia concreta all’esistenza delle numerose comunità ebraiche sparse per il Nord America. “Riteniamo che atti di terrorismo possano verificarsi ovunque, e in qualsiasi momento”, ha affermato Fingerhut. “Ieri è successo a Pittsburgh, oggi a Washington, domani potrebbe accadere in Texas o in California”.
Nel frattempo, le comunità ebraiche cercano di organizzarsi di conseguenza. “I sistemi di sicurezza che oggi proteggono le nostre comunità sono più sofisticati e innovativi che mai”, ha chiarito l’ex senatore. “Abbiamo anche modificato le linee guida sulla sicurezza che da sempre caratterizzano la vita comunitaria. Ad esempio, per partecipare a qualsiasi evento ebraico è necessario registrarsi in anticipo – non è più possibile presentarsi spontaneamente. Anche i luoghi dove si svolgono gli eventi, devono soddisfare standard di sicurezza molto elevati”.
La Federazione delle Comunità Ebraiche del Nord America è un’organizzazione ebraico-sionista che unisce 146 federazioni ebraiche e circa 300 comunità ebraiche indipendenti negli Stati Uniti e in Canada. L’organizzazione protegge e migliora il benessere degli ebrei in 70 Paesi nel mondo, ma non solo.
Durante l’operazione Spade di Ferro, la Federazione ha aiutato Israele a finanziare la ricostruzione dello Stato dopo la distruzione e ha donato diverse centinaia di milioni di dollari a favore di cause umanitarie. “Ogni comunità ebraica negli Stati Uniti sente un legame profondo con lo Stato ebraico – un legame fortissimo che non si può spezzare”, ha concluso Fingerhut. “Siamo assolutamente impegnati al fianco di Israele, per la sua sicurezza e per il suo sviluppo. Oggi e per sempre”.

(Bet Magazine Mosaico, 29 maggio 2025)

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Il Sionismo italiano torna protagonista: eletta la delegazione per il 39º Congresso Mondiale

di Luca Spizzichino

Con un’affluenza del 76,3% e 1.388 votanti su oltre 1.800 registrati, si sono concluse le elezioni per il rinnovo della delegazione italiana al 39º Congresso Sionista Mondiale, in programma a Gerusalemme nell’ottobre 2025. Un momento storico per la Federazione Sionistica Italiana (FSI), che ha rilanciato le proprie attività dopo anni di inattività, con l’ambizione di costruire una piattaforma ampia, pluralista e realmente rappresentativa del panorama sionista italiano.
  Alla consultazione hanno preso parte sette liste, espressione di diverse tradizioni politiche e culturali. Il risultato ha visto Meretz Italia – Hashomer Hatzair, con 469 voti, affermarsi in alleanza con Arzenu, che ha ottenuto 120 voti, come prima forza, seguita da Likud Italia con 516 voti e Mizrachi Benè Akiva Italia con 245. A seguire, Herut, Over the Rainbow – ADI e Shas Italia, quest’ultima ritiratasi dopo aver inizialmente presentato la propria adesione.
  “La Federazione esisteva già molti anni fa, ma col tempo si era spenta” spiega Raffaele Turiel, presidente della Federazione Sionistica Italiana. “Su stimolo della World Zionist Organization, ci siamo chiesti: perché l’Italia non dovrebbe avere, come ogni altro Paese, una propria federazione attiva? Così l’abbiamo ricostruita, ma soprattutto abbiamo costruito un’idea nuova: non più una somma di individui, ma un contenitore comune per i movimenti sionisti italiani”. E aggiunge: “Abbiamo messo insieme storie, valori e reti. Il nostro compito ora è dare una missione precisa a questa Federazione: costruire progetti concreti, coinvolgere i giovani, trovare risorse, inserirci nel dibattito mondiale sul futuro del sionismo”. Un punto centrale, per Turiel, è la necessità di “intercettare le esigenze reali della comunità ebraica italiana e creare ponti autentici con Israele. La Federazione non deve solo rappresentare: deve agire dove altri non arrivano”.
  Un voto che ha rappresentato molto più di una semplice conta: “Per la prima volta abbiamo avuto una piattaforma trasparente, un regolamento chiaro, un comitato elettorale indipendente. È stato un segnale importante per tutta la comunità,” ha dichiarato Beatrice Hirsch, presidente del Comitato Elettorale. “Non solo un traguardo, ma un punto di partenza”.
  Sono stati eletti: Laura Gutman Benatoff (Meretz Italia – Hashomer Hatzair, in alleanza con Arzenu), Rav Moshe Hacmun (Likud Italia) e Raffaele Turiel (Mizrachi Benè Akiva Italia). Tre personalità con esperienze, orientamenti e sensibilità diverse, ma accomunate da una volontà chiara: rilanciare il sionismo italiano e renderlo un ponte vivo tra Israele e la diaspora.
  “Il risultato ottenuto in queste elezioni rappresenta una vittoria storica per la sinistra ebraica italiana.” afferma Laura Gutman Benatoff, rappresentante di Meretz Italia – Hashomer Hatzair. “Per la prima volta, l’ebraismo umanista si è fatto sentire forte e chiaro. È un segnale inequivocabile: c’è un desiderio diffuso di un Israele democratico, pluralista e giusto”. Il suo impegno ora guarda al Congresso: “Siamo stati numerosi come mai prima. Ogni voto è stato un atto di fiducia. Lavoreremo da subito con i movimenti progressisti eletti negli altri 25 Paesi. Costruiremo una coalizione internazionale coerente e forte, affinché la nostra voce abbia un peso politico reale. È solo l’inizio”. E aggiunge: “La nostra visione è chiara: uno Stato ebraico e democratico, con giustizia indipendente, diritti uguali per tutti e un impegno concreto per una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese. E vogliamo che nessuno dimentichi i 58 ostaggi ancora a Gaza: il loro ritorno deve essere una priorità nazionale e morale”.
  Diversa la lettura di Rav Moshe Hacmun, rappresentante di Likud Italia, che ha ottenuto il maggior numero di voti, 516. “Queste elezioni riflettono la grande fiducia che gli ebrei italiani ripongono nel nostro movimento e nelle liste di centro-destra, che complessivamente hanno raccolto 787 voti”, dichiara. “Non è solo un successo politico: è il frutto di anni di lavoro educativo e identitario, portato avanti con coerenza nel movimento Eli Hay, a Roma e Milano”. Per Hacmun, il voto è anche “una testimonianza di riconoscenza verso i nostri valori: rafforzare i legami con Israele, promuovere l’aliyah, sostenere una politica di sicurezza nazionale, unire religiosi e laici in una visione comune del popolo ebraico”. Ma il messaggio centrale è un appello all’unità: “Le elezioni sono finite. Ora uniamoci. Non possiamo permetterci di restare divisi. È il momento di lavorare insieme per rafforzare l’ebraismo italiano e costruire un ponte ancora più solido con lo Stato d’Israele”.
  Prossimo appuntamento: ottobre 2025, Gerusalemme, per il 39º Congresso Sionista Mondiale. Lì si riuniranno 525 delegati da 43 Paesi per discutere il futuro delle relazioni tra Israele e la diaspora, e il ruolo delle federazioni sionistiche nel mondo. L’Italia, con la sua delegazione rinnovata e pluralista, torna a far sentire la propria voce.

(Shalom, 30 maggio 2025)

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Il mito palestinese

di Daniel Greenfield

Anche se la storia degli ebrei in terra d’Israele è una delle storie più popolari dell’umanità ed è stata incorporata nelle credenze religiose di oltre metà della razza umana, è di moda negare il legame degli ebrei con la terra d’Israele. E tuttavia, allo stesso modo, viene condannato strenuamente il fatto che i discendenti dei conquistatori musulmani che oggi si definiscono “palestinesi”, alcuni dei quali sono arrivati in Israele solo un secolo fa, siano coloni e colonizzatori. 
L’identità “palestinese” è politicamente sacrosanta, pur non avendo alcun fondamento storico o linguistico in un passato più remoto delle guerre e delle invasioni islamiche che hanno di gran lunga preceduto la presenza ebraica in Israele. Non solo è stata inventata nella storia, ma lo si è fatto così di recente che molti oggi ricordano quando fu concepita, e si lega a infinite contraddizioni. 
Non esiste una vera storia “palestinese”. Esiste soltanto il progetto ideologico del “palestinismo” e la sua storia revisionista che ha ribaltato la storia, trasformando i conquistatori arabi musulmani che invasero e perseguitarono gli ebrei negli abitanti autoctoni che furono cacciati dagli ebrei. Il “palestinismo” è il generale Custer che indossa un costume indiano e afferma che i suoi antenati erano stati in America per migliaia di anni prima che i Sioux li cacciassero. 
Il revisionismo storico del palestinismo insiste sul fatto che gli ebrei che sono stati in Israele per 3.400 anni sono coloni europei, mentre gli arabi musulmani che hanno deciso di definirsi “palestinesi” sessant’anni fa erano gli abitanti originari della terra. La loro unica base per questa argomentazione, altrimenti completamente astorica, è la scelta di un nome dal suono “biblico”. 
Ma il nome “Palestina” deriva originariamente dai Filistei, coloni europei provenienti dalla regione dell’Egeo. Il nome fu imposto molto più tardi dai conquistatori romani che cercavano di eliminare ogni traccia della presenza ebraica da Israele. Chiamare Israele “Palestina” è un termine che avrebbero usato i coloni stranieri, il cui unico legame con la terra derivava dai loro legami con imperi stranieri. 
Anziché affermare di essere originari di quella terra, l’assunzione di una falsa identità “palestinese” è un’ammissione involontaria di estraneità. È ciò che farebbe un estraneo inetto che cerca di integrarsi. 
Il marchio “palestinese” non è un’antica rivendicazione autoctona della terra, ma è il nome di un gruppo di coloni europei che condussero una guerra contro gli ebrei, più di un millennio e mezzo prima della nascita dell’Islam, che venne poi riapplicato da un altro gruppo di conquistatori europei più di 500 anni prima della comparsa dell’Islam, e poi ripreso dagli invasori musulmani i cui antenati erano stati mercenari al servizio di Roma e non avevano alcuna memoria storica antecedente all’Impero Romano. 
È difficile immaginare un nome più strettamente associato agli invasori stranieri di “palestinesi”. 
Consapevole di questo problema, Yasser Arafat, nato in Egitto,  iniziò a rivendicare la propria discendenza dai Cananei, in particolare dai Gebusei. Anche questa rivendicazione, altrettanto insensata, di discendenza da un popolo antico risale addirittura agli anni Sessanta. Rashid Khalidi, il mentore di Obama autore di questa affermazione, è nato a New York, figlio dell’ex ministro degli Esteri della Giordania. 
Ma se i “palestinesi” sono davvero Cananei, perché non definirsi tali? Non ha la stessa risonanza storica tra gli americani e gli europei che sono stati i destinatari del marchio “palestinese”. Sebbene il Corano non menzioni né la “Palestina” né la “Terra di Canaan”, implica però che Allah abbia ordinato agli ebrei di intraprendere un jihad e scacciare i Cananei. Gli islamisti più religiosamente devoti si risentono profondamente dell’ipotesi di Arafat di essere mai stati Cananei. 
“Il popolo palestinese non ha alcun diritto storico sulla Palestina (…) la nostra storia è semplice e non è antica. La nostra storia risale solo a 1.440 anni fa. E 1.440 anni fa non avevamo alcun tipo di diritto. Assolutamente nessuno“, ha affermato l’imam Issam Amira in un discorso tenuto nella moschea che occupa il Monte del Tempio, sostenendo che  i “palestinesi” possono rivendicare diritti solo sulla base dell’Islam. “Non va detto che i palestinesi hanno radici cananee. Possiamo tornare alle parole di Yasser Arafat che ha perso la nostra causa (…) l’unica cosa che è permesso dire è: ‘Oh palestinesi, siete musulmani’”. 
Quando non presentano le loro ragioni all’opinione pubblica occidentale, i “palestinesi” fanno orgogliosamente risalire la loro discendenza a quella che oggi è l’Arabia Saudita, dalle famiglie Qays e Yaman. Vogliono tutti essere collegati alle antiche dinastie maomettane e non ai pagani Filistei o ai Cananei. 
La base della rivendicazione musulmana su Israele è la stessa di quella sull’Iraq, sul Pakistan o su qualsiasi altro Paese musulmano. L’Islam riconosce solo il diritto religioso di conquista, non qualsiasi tipo di origine autoctona, sia che si tratti di Israele, del Nord Africa, dell’India, dell’Afghanistan o di qualsiasi altra area in cui gli abitanti autoctoni furono massacrati, sottoposti a pulizia etnica e ridotti in schiavitù dagli invasori islamici. 
I musulmani predicano agli occidentali i diritti autoctoni dei “palestinesi”, ma rifiutano i diritti autoctoni di ogni gruppo che hanno conquistato, dagli indù e i buddisti in Asia ai berberi in Nord Africa e ai copti in Egitto. Dov’è che i musulmani hanno mai riconosciuto i diritti autoctoni di una minoranza non musulmana che hanno conquistato a discapito del loro stesso popolo? 
Quando si tratta di Israele, i musulmani chiedono l’adesione a un principio che non rispettano, e lo chiedono sulla base di una storia inventata che loro stessi non hanno mai preso sul serio. 
Se esiste davvero un antico popolo “palestinese” in qualche modo distinto da tutti i suoi parenti arabi musulmani, cos’è che lo rende tale? Dov’è la sua antica storia precedente agli anni Sessanta? Anche un rapido esame della storia recente dimostra che si trattava di un’etichetta di convenienza politica. 
Erano “palestinesi” quando i britannici amministravano il Mandato della Palestina? Eppure, quando parte del Mandato fu trasformata nel Regno di Giordania, quei “palestinesi” divennero giordani. 
Nel 1948, la Giordania attaccò Israele e annesse varie aree, tra cui Ramallah, e i “palestinesi” della futura capitale dell’Autorità Palestinese divennero giordani. Non avevano alcun interesse a creare uno Stato “palestinese”. Solo quando Israele liberò Gerusalemme e altre parti del suo territorio, i giordani divennero improvvisamente “palestinesi” e rivendicarono uno Stato. 
Nulla di tutto ciò avrebbe senso se essi, come gli ebrei, fossero stati membri di un popolo antico con un’identità coerente risalente a migliaia di anni fa, ma per i coloni arabi musulmani la Giordania e la Palestina erano solo nomi geografici che avevano ereditato, non identità. 
Hajj Amin al-Husseini, meglio conosciuto come il Mufti di Hitler, e una delle figure cardine della causa genocida “palestinese” che si alleò con i nazisti nella speranza di sterminare tutti gli ebrei, faceva parte della famiglia al-Husayni che si era trasferita in Israele nel XVIII secolo e rivendicava la propria discendenza dal nipote di Maometto in Arabia Saudita. I loro grandi rivali, i Nashashibi, anch’essi “palestinesi” erano curdi comparsi nel XV secolo. 
Il “palestinismo” sostiene che i coloni arabi musulmani hanno un legame profondo e antico con la terra. Questo non dovrebbe riflettersi nella geografia e nei nomi delle loro città? Il nome attribuito dai coloni musulmani a Gerusalemme è Al-Quds o Città Santa, perché questo era l’unico modo in cui gli arabi musulmani d’Arabia potevano descrivere una città di cui avevano sentito parlare, ma che non avevano mai visitato. Ciò che gli ebrei chiamano Giudea e Samaria, i coloni arabi musulmani chiamano ad-difa’a al-gharbiya ossia Cisgiordania. Questi nomi non mostrano alcun legame storico con la terra. 
Il termine arabo per Betlemme è “Bayt Lehem” o una traduzione dell’ebraico “Beit Lehem”. Nablus fa parte del grande e antico patrimonio palestinese? Ma Nablus non è arabo, è la storpiatura in arabo di Neapolis, che in latino significa “città nuova”. Proprio come “Palestina”, è un altro prestito romano da parte di coloni stranieri che non hanno antiche radici in Israele. 
Ramallah, la capitale dell’Autorità Palestinese, è la traduzione araba della vicina e antica città ebraica di Beit El. Era scarsamente abitata sotto il dominio musulmano e risale al XVI secolo, quando un gruppo di arabi cristiani attraversò l’attuale Giordania in fuga dalle persecuzioni musulmane. Sotto il dominio giordano, fu invasa dai musulmani e oggi è a maggioranza musulmana. 
Se la capitale del vostro popolo fu fondata da cristiani provenienti dall’altra sponda del fiume nel XVI secolo e il suo nome fu preso da un’antica città ebraica e di fatto non fu la vostra capitale fino a prima degli anni Novanta, e poi lo divenne solo perché ne cacciaste i suoi abitanti originari negli anni Cinquanta, allora la vostra antica civiltà in realtà non esiste. 
I “palestinesi” non sono soltanto un popolo inventato. Sono un popolo malamente inventato, senza storia, senza passato e il cui unico talento è quello di rubare l’identità degli antichi popoli autoctoni che i loro antenati invasori provenienti dall’Arabia conquistarono, perseguitarono e schiavizzarono. 
Quando il popolo ebraico autoctono si è affrancato, i conquistatori sono passati a fingere di essere i conquistati, gli oppressori hanno interpretato il ruolo degli oppressi e gli invasori si sono spacciati per autoctoni per giustificare i loro piani genocidi di conquistare, opprimere e invadere nuovamente Israele. 

(L'informale, 29 maggio 2025 - trad. Angelita La Spada)

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A proposito di quelli che “noi amiamo Israele” e “abbiamo molti amici ebrei”

di Iuri Maria Prado

Vi sarà capitato di ascoltare – nei discorsi su Israele, sulla guerra di Gaza, sul conflitto arabo-israeliano, sulle politiche del governo israeliano, eccetera – vi sarà capitato, dicevo, ascoltare i discorsi di chi sente l’urgenza di precisare che “ama Israele”. Dice: “Io amo Israele”, “Noi che amiamo Israele”, “Io che amo la democrazia israeliana”, “Noi che amiamo la democrazia israeliana”.
  Ora, innanzitutto è significativamente buffo che queste dichiarazioni di amore siano sistematicamente, puntualmente, immancabilmente anteposte a requisitorie sul fascismo di Israele, sui crimini di guerra che commetterebbe Israele.
  Vale a dire: “Io amo, amo, amo Israele, e però il genocidio…”; “noi amiamo, amiamo, amiamo la democrazia israeliana, e però la pulizia tecnica…”. Eccetera. Ma a parte questo: ma se si parla di – che so? – di Armenia, questi che cosa fanno? Dicono “Noi amiamo l’Armenia”? Se si parla – boh – di Canada, che cosa fanno? Dicono “noi amiamo tanto la democrazia canadese”? Se si parla di Spagna che cosa fanno? Cominciano ogni discorso dicendo “Noi amiamo la Spagna”, “Noi amiamo la democrazia spagnola”?
  Perché lo fanno con Israele?
  È molto semplice. Dicono così come dicono che loro “amano il popolo ebraico”, “amano gli ebrei”, e notoriamente loro hanno tanti amici ebrei. Ma gli ebrei giusti ovviamente. Gli ebrei come devono essere: gli ebrei buoni, gli ebrei democratici, che oggi significa gli ebrei che dicono che Bibi è un pazzo criminale e che Israele commette crimini di guerra.
  E così Israele: loro “amano, amano, amano” Israele, loro difendono il diritto di esistere di Israele ma a un patto: e cioè a patto che Israele dia prova di moralità. Non amano il diritto degli ebrei di avere uno Stato con un esercito che lo difende, amano il dovere degli ebrei e di Israele di essere come vogliono gli altri.
  E appunto lo fanno solo con gli ebrei e con Israele, non lo fanno con il Canada e con i canadesi, non lo fanno con l’Armenia e con gli armeni. Lo fanno solo con Israele e con gli ebrei, perché sono sostanzialmente antisemiti, tanto più antisemiti quanto più dichiarano di amarli tanto tanto tanto.

(InOltre, 29 maggio 2025)


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«Io non sono antisemita, però...»

Quando uno dice: "Non è per il denaro, ma per il principio",
è per il denaro, dice Leo Longanesi.

Quando lo spiritoso dopo una battuta contro qualcuno dice: "Scherzo",
non è uno scherzo, e infatti quel qualcuno non si diverte.

Quando l'oratore prima della conferenza dice: "Sarò breve",
sa che sarà lungo, e teme che gli uditori si addormentino.

Quando uno dice: "Io non sono antisemita, però...",
è un antisemita, e teme che qualcuno se ne accorga.


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L’ICEJ offre un futuro più luminoso agli studenti drusi

di Nativia Samuelsen

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La comunità drusa, che rappresenta solo l’1,6% della popolazione israeliana, è spesso un gruppo trascurato della società. Eppure ha un impatto profondo e positivo sull’intera nazione grazie alla sua lealtà, ospitalità e ai suoi numerosi contributi a favore di Israele.
La religione drusa risale all’XI secolo, quando si separò da una branca dell’Islam sciita. È considerata eretica dalla maggior parte dei musulmani, il che ha portato a forti persecuzioni contro i suoi seguaci. Oggi, i drusi vivono principalmente in Israele, Siria e Libano. Ci sono circa 145.000 drusi in Israele, divisi tra la catena del Carmelo, l’Alta Galilea e le alture del Golan.
A differenza di altre minoranze non ebraiche in Israele, i drusi sono soggetti al servizio militare obbligatorio. Questa politica è da loro accolta con favore come espressione della loro lealtà allo Stato di Israele. Molti drusi prestano servizio non solo nelle Forze di Difesa Israeliane, ma anche nella polizia, nella magistratura e nella Knesset.
L’Ambasciata Cristiana Internazionale di Gerusalemme (ICEJ) ha coltivato buoni rapporti con la comunità drusa israeliana nel corso di diversi decenni. In una recente cerimonia in Galilea, abbiamo potuto nuovamente osservare la vita di questo popolo fiero e affascinante, che ha evidenziato ancora una volta non solo le sue sfide, ma anche la sua visione per il futuro.
Quest’anno, l’ICEJ ha finanziato la ristrutturazione di un corso di robotica per una scuola elementare drusa a Yarkah e ha sponsorizzato 47 borse di studio per gli studenti.
Molti dei beneficiari delle borse di studio svolgono anche attività di volontariato durante gli studi e ognuno incontra settimanalmente un mentore dedicato per tutta la durata del programma. Gli ambiti di studio sono diversi e includono psicologia, ingegneria civile, elettronica e software, diplomazia, assistenza sociale, informatica, terapia occupazionale, economia e commercio, odontoiatria e giurisprudenza, solo per citarne alcuni.
Durante la cerimonia di premiazione dei vincitori delle borse di studio per i drusi, i leader locali e altri donatori hanno sottolineato l’importanza cruciale dell’istruzione e la responsabilità condivisa tra le generazioni.
“Non dimenticate mai da dove venite e chi vi ha offerto questa opportunità di studio”, ha detto agli studenti il signor Amer, presidente del consiglio regionale di Hurfeish. “Questi donatori credono in voi e vi augurano successo. In ogni luogo che visitate, dimostrate l’eccellenza della nostra comunità drusa. Cogliete ogni opportunità per imparare e per crescere”.
“La nostra visione è quella di formare una generazione di leader provenienti da diverse comunità israeliane, tra cui drusi, arabi ed ebrei”, ha affermato Aya Ha’asiya del Ministero dell’Istruzione. “Investire nella vostra istruzione è fondamentale perché plasma il vostro futuro. Continuate a sognare. Continuate a studiare… Sappiate che siete i nostri futuri leader e che siamo orgogliosi di voi”.
Un tema ricorrente durante la serata è stato il profondo rispetto reciproco intergenerazionale, tra comunità e tra partner. Il leader druso Mofied Amer ha voluto sottolineare i loro profondi e duraturi legami con l’ICEJ.
“L’ICEJ è sempre stato un alleato solidale della comunità drusa”, ha affermato. “Il loro sostegno include l’investimento nei nostri giovani, il miglioramento delle aule e l’assistenza agli studenti drusi nel loro percorso educativo. Consideriamo questo come un caloroso abbraccio da parte dell’ICEJ”.
Jannie Tolhoek e Pnina Zubarev del nostro staff di Gerusalemme sono rimaste profondamente commosse dall’accoglienza amichevole ricevuta in qualità di rappresentanti di un’organizzazione cristiana.
“I drusi sono un popolo davvero fedele e generoso”, ha spiegato Pnina. “Hanno accolto pienamente la vita in Israele e sono profondamente impegnati per il suo successo, arrivando persino a sacrificarsi e a servire nell’esercito”.
“Ciò che mi ha colpito di più è stato il loro profondo rispetto intergenerazionale”, ha aggiunto. “I giovani onorano sinceramente gli anziani, e questi ultimi sentono la responsabilità di trasmettere i propri valori e di sostenere la generazione successiva. Durante la cerimonia, un anziano ha detto: ‘Come noi ci prendiamo cura di voi, allo stesso modo ora voi dovete prendervi cura della prossima generazione’. Questa mentalità è rara nel mondo di oggi; è come se noi l’avessimo persa, mentre loro ce l’hanno”.
“Ci hanno accolto con calore, amore e generosità. Ci siamo sentiti come parte di una grande famiglia. Non si vede sempre questo livello di ospitalità e cura reciproca in altre parti del Paese. Qui c’è un forte senso di identità, non basato sulla nazionalità, ma sulla fede e sulla comunità. La loro lealtà è rivolta alla nazione di Israele… non solo esteriormente, ma con tutto il loro cuore. Si percepiscono l’orgoglio e la responsabilità che portano con sé”, ha concluso Pnina.
“In piedi e stringendo la mano agli studenti, guardavo negli occhi la prossima generazione di medici, avvocati, ingegneri, infermieri, specialisti in robotica”, ha commentato Jannie a proposito della visita. “È stato profondamente toccante vedere ogni persona che stiamo aiutando con queste borse di studio, contribuire a migliorare la comunità drusa e di tutta Israele”.
Questa cerimonia ha chiarito una cosa: sebbene i drusi vivano tranquilli sulle colline del nord di Israele, la loro presenza ha un effetto a catena su tutta la nazione. La loro lealtà, il profondo rispetto per la tradizione e l’investimento nell’istruzione li rendono una comunità nascosta ma vitale.
Grazie per il vostro sostegno al nostro fondo “Futuro e Speranza”, che consente a noi cristiani di raggiungere e avere un impatto su tutti i settori della società israeliana.

(Icej Italia ODV, 29 maggio 2025)

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Hamas sta attraversando la crisi più grave dalla sua fondazione

La perdita della funzionalità dello Stato nella Striscia di Gaza, il crescente isolamento in Giudea e Samaria e la crescente pressione dei governi regionali, in particolare in Libano, stanno creando un vuoto di potere geopolitico. 

di Aviel Schneider

Palestinesi in una strada di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza meridionale, il 28 maggio 2025
GERUSALEMME - Il quotidiano arabo Asharq Al-Awsat ha riferito che “Hamas sta attualmente attraversando una delle crisi più gravi della sua storia, forse la più grave dalla sua fondazione nel 1987”. Fonti interne all'organizzazione hanno dichiarato che la massiccia reazione israeliana all'attacco del 7 ottobre e le ingenti perdite subite dalla Striscia di Gaza hanno fatto precipitare Hamas in una crisi sistemica globale: economica, amministrativa, politica e interna all'organizzazione.
Fonti locali nella Striscia di Gaza riferiscono che Hamas non è in grado di pagare gli stipendi ai propri dipendenti. Negli ultimi quattro mesi, ai dipendenti dell'apparato civile è stato versato un solo stipendio, pari a circa 900 shekel, il che ha provocato un notevole malcontento pubblico. I fondi di bilancio per i ministeri e i servizi di pubblica utilità sono stati quasi completamente congelati e molti comitati di emergenza non funzionano più. Anche il cosiddetto braccio militare di Hamas, le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, non pagherebbe gli stipendi ai propri combattenti da almeno tre mesi e non sarebbe in grado di procurarsi le attrezzature necessarie.
Le famiglie delle vittime, dei feriti e dei dispersi, che tradizionalmente ricevevano sostegno finanziario da Hamas, non riceverebbero attualmente alcun aiuto. Secondo le stesse fonti, all'interno delle strutture governative di Hamas regna un vuoto di potere totale. I tentativi di riorganizzare le autorità governative locali nella Striscia di Gaza sarebbero sistematicamente ostacolati da attacchi mirati dell'esercito israeliano. A parte un apparato di comando militare in gran parte indebolito, soprattutto nel nord e nel sud della Striscia, l'organizzazione non funzionerebbe quasi più come autorità governativa.
Ma in Israele si teme che Hamas non rinuncerà a tutte le carte vincenti di cui dispone, ovvero che non rilascerà tutti gli ostaggi. "Hamas non restituirà tutti i rapiti in una volta sola. Giocherà, ma terrà sempre alcuni rapiti in pugno“, ha dichiarato ieri un alto ufficiale dell'esercito all'esperto di sicurezza e giornalista Yossi Yehoshua. ”Ciò che spinge Hamas a decidere è la pressione militare di Israele, che finora ha riportato tutti gli altri ostaggi israeliani".
A differenza degli anni precedenti, in cui Hamas godeva di un ampio sostegno pubblico o almeno di un controllo deterrente sulle critiche, ora la rabbia dell'opinione pubblica è più forte che mai. I palestinesi non solo aggrediscono verbalmente i terroristi di Hamas, ma in alcuni casi anche fisicamente, un fenomeno che non si verificava dall'ascesa al potere di Hamas nella Striscia di Gaza nel 2007.
Secondo fonti della sicurezza israeliana, anche nel cuore biblico della Giudea e Samaria Hamas sta attraversando una grave crisi. Gli arresti su larga scala da parte delle forze armate israeliane e dell'Autorità palestinese avrebbero smantellato cellule terroristiche armate, prosciugato le fonti di finanziamento e portato a un blocco operativo. Tra la popolazione cresce la preoccupazione che Israele possa trasferire il modello militare della Striscia di Gaza alle zone della Giudea e Samaria, in particolare a Jenin e Tulkarem, aumentando ulteriormente la distanza da Hamas.
Anche in Libano, dove Hamas ha potuto operare relativamente liberamente negli ultimi anni, l'influenza dell'organizzazione si è fortemente indebolita dopo il cessate il fuoco di novembre. Il nuovo governo libanese mira a limitare le attività dei gruppi terroristici palestinesi armati e invia a Hamas un chiaro messaggio che non saranno più tollerate operazioni terroristiche dal territorio libanese.
Parallelamente, la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza continua ad aggravarsi. La nuova consegna di aiuti statunitensi, che avrebbe dovuto iniziare oggi, è stata rinviata per motivi logistici da parte dell'azienda statunitense responsabile. Fino a nuovo avviso, la distribuzione degli aiuti continuerà come finora, accompagnata da grandi preoccupazioni che Hamas possa impossessarsi delle forniture.
Questa preoccupazione sembra essere confermata da nuove notizie: la notte prima dell'altro ieri, i terroristi di Hamas avrebbero fermato i trasporti umanitari al valico di Kerem Shalom, rubandone il carico e lasciando deliberatamente un solo camion per provocare un panico di massa degno di un film. Secondo fonti palestinesi, la maggior parte dei camion sarebbe stata saccheggiata nella zona di Khan Yunis.
Queste azioni si inseriscono in una campagna propagandistica mirata condotta da Hamas nelle ultime settimane. L'obiettivo è quello di esercitare pressioni internazionali su Israele affinché ponga fine ai combattimenti, senza soddisfare la condizione fondamentale posta da Israele: il rilascio degli ostaggi. Parte della campagna consiste nell'accusare pubblicamente Israele di affamare sistematicamente la popolazione di Gaza, mentre i sostenitori armati di Hamas rubano con la forza i beni di prima necessità.
Secondo fonti interne ad Hamas, l'organizzazione potrebbe essere ricostituita al termine dei combattimenti. Ma la strada per arrivarci sarà lunga, lenta e completamente dipendente da fattori politici e regionali che al momento sono del tutto incerti. Israele deve distruggere Hamas una volta per tutte, anche per dimostrare a tutti gli altri nemici che non vale la pena attaccare Israele. E nel frattempo, Israele deve liberare i suoi fratelli dalla prigionia con tattica e saggezza.

(Israel Heute, 29 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Lo scudo di luce che porta Israele nell’età delle guerre stellari

di Ugo Volli

Quattordici anni fa Iron Dome
  La data di ieri sarà ricordata sui manuali di storia (almeno quelli di storia militare) del futuro. Come dovrebbe essere ricordata quella del 7 aprile 2011, che invece molti hanno dimenticato. Il 7 aprile di quattordici anni fa infatti, fu dichiarato operativo il sistema antimissile Iron Dome (in ebraico Kippat Barzel, cioè cupola di ferro), capace di bloccare i missili a corta gittata come quelli che usava e usa ancora Hamas. Proprio un missile Grad lanciato da Gaza fu l’oggetto della prima intercettazione riuscita di Iron Dome, sempre il 7 aprile 2011. Ci si può solo immaginare come sarebbero state sanguinose le guerre terroristiche degli ultimi anni senza Iron Dome (e i sistemi successivi per missili a più lunga distanza, “David Sling”, cioè la “fionda di Davide” e “Arrows” , “frecce”) che sono stati usati per i missili balistici provenienti dall’Iran e dallo Yemen.

Il nuovo sistema laser
  Ieri, 28 maggio 2025, c’è stato un progresso analogo. Le forze aeree israeliane hanno dichiarato operativo il sistema Iron Beam (trave di ferro) almeno nella sua versione leggera, chiamata Iron Blade (lama di ferro); ma il nome più chiaro è quello in ebraico “Maghen or”, cioè scudo di luce. Si tratta sempre di un sistema di intercettazione di missili, ma basato non su razzi che vanno a colpire il proiettile ostile e lo fanno esplodere, come facevano i sistemi precedenti, bensì su laser che lo distruggono grazie all’energia elettromagnetica che veicolano. Il laser, che molti conoscono perché lo hanno visto usare nei puntatori da conferenza o in certi giochi, sono raggi di luce coerente, cioè con una sola lunghezza d’onda, che hanno la proprietà di disperdersi molto poco, a differenza della luce normale di pile elettriche anche molto potenti. Per questa ragione possono veicolare molta energia. I normali puntatori laser da conferenza, che si comprano liberamente ma vanno usati con cautela per non fare danni se puntati direttamente negli occhi della gente, hanno una potenza fra 1 e 5 milliwatt. Una lampadina elettrica normale ha potenza fra i 25 e i 100 watt, alcune migliaia di volte tanto. “Maghen or” sviluppa una potenza di almeno 100.000 watt (la sua versione leggera 40.000), cioè 20 milioni di volte superiore, e se si focalizza su un missile è in grado di penetrare il metallo e farlo esplodere. Se vogliamo visualizzare il nuovo strumento in termini cinematografici, siamo vicini a “Starwars”.

I problemi tecnici
  Detto così, sembra una cosa semplice da farsi. In realtà produrre un laser così potente e renderlo usabile per periodi relativamente lunghi e anche trasportabile da un aereo come Israele è riuscito a fare, è molto difficile. Bisogna poi che il raggio funzioni immediatamente a comando, senza periodi di latenza; che non si faccia disperdere da nuvole o fumi (è una questione di lunghezza d’onda ma anche di “ottica adattiva”, una tecnologia che consente di regolare i fasci laser in tempo reale), che sia capace di seguire la traiettoria di un missile che va a migliaia di chilometri all’ora per il tempo sufficiente (alcuni secondi), che sia gestibile da un radar e così via. Problemi complicatissimi sul piano tecnico, su cui lavorano parecchi stati, ma che Israele ha risolto per primo. Già alla fine dell’anno scorso, ha dichiarato il Ministero della difesa, “Maghen Or” ha abbattuto quattro droni di Hezbollah e in seguito è stato usato con successo in altre occasioni, anche da aerei da caccia. Ora è ufficialmente operativo.

La rivoluzione della difesa
  I vantaggi sono parecchi: Il raggio laser viaggia alla velocità della luce, cioè colpisce subito senza tempi di lancio; impiega circa 4 secondi a distruggere un bersaglio e poi può passare al successivo; non esaurisce mai i proiettili né richiede tempo per essere ricaricato, perché non ha bisogno di razzi antimissile. Soprattutto un suo colpo costa tipicamente intorno ai 2 dollari contro gli 80.000 dollari del razzo Tamir usato da Iron Dome (per lo più in coppia, per cui ogni abbattimento costa 150.000 dollari). Per ora il sistema è efficace a una distanza di una decina di chilometri, per cui non è adatto ai missili balistici ipersonici. Ma naturalmente è probabile che questo limite sia esteso con la sperimentazione. Mentre nei quindici anni da Iron Dome la difesa era favorita sull’attacco, ma a costi molto alti e asimmetrici (un tipico missile di Hamas costa circa fra i 500 e i mille dollari, cento volte meno di un Tamir), ora le cose dovrebbero cambiare fondamentalmente, rendendo difficile e inutile il terrorismo dei missili. Un vantaggio accessorio, ma certo non indifferente per l’economia israeliana, è che esso è tutto prodotto in casa, non deve nulla agli americani e può essere facilmente venduto ai governi amici. Insomma, anche su questo piano vince la capacità innovativa della tecnologia e dell’economia privata israeliana (il sistema è prodotto dall’industria militare israeliana di punta, la Rafael).

(Shalom, 29 maggio 2025)

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L’ex 007 Mancini: “Ci sono due guerre a Gaza, si parla poco delle perdite umane di Israele. Se Hamas non cede i palestinesi andranno in Siria e Libia”

di Aldo Torchiaro

È stato formato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in un reparto speciale dei carabinieri. Marco Mancini, a lungo a capo del controspionaggio italiano, ai vertici dell’Aise e del Dis, è un profondo conoscitore dello scenario mediorientale, dove ha operato spesso in missioni che naturalmente non ci può raccontare.

- Marco Mancini, lei qualche anno fa è stato anche a Gaza. È tra i pochi che, oltre a parlarne, in quei maledetti tunnel c’è anche stato. Che valutazione fa della guerra di Israele al terrorismo?
  «Ci sono due guerre. Una viene combattuta ancora da Hamas con 40.000 miliziani armati. Una guerra difficilissima da vincere perché si svolge sottoterra. E in quei maledetti tunnel, sparsi lungo 732 chilometri, le forze armate israeliane, incluse le truppe d’élite, non riescono ancora ad arrivare. Sopra, in superficie, c’è un’altra guerra che invece consente a Tsahal di avanzare sul territorio. Tra mille insidie e scudi umani, inclusi i bambini messi sempre intorno agli arsenali del terrorismo».

- La guerra in superficie e quella sotterranea. Due popoli, due strati…
  «Due strati ci sono, uno sull’altro, appunto. Per i due Stati, vedremo. Però tutti gli israeliani hanno diritto a vivere in prosperità e sicurezza e tutti i palestinesi, allo stesso modo, a un futuro di pace, liberi dal giogo di Hamas. Abu Mazen, il leader eletto dei palestinesi, ha autorevolmente definito Hamas come “un gruppo terroristico di figli di cani”. Nonostante sia stata neutralizzata tutta la famiglia Sinwar e decapitato l’intero vertice – con l’eliminazione di dieci capi dei terroristi in una singola, recente azione – Hamas ha gioco facile nell’arruolare nuove leve. Mentre Israele sta pagando un prezzo carissimo del quale si parla poco: dall’inizio del conflitto oltre 17.000 soldati israeliani sono stati uccisi e il bilancio dei feriti arriva a 70.000. Senza contare il bilancio degli orrendi massacri del 7 ottobre».

- Ci sono vittime anche nel tentativo di esplorare quei tunnel dei terroristi?
  «Purtroppo sì. Una unità scelta di undici soldati e soldatesse israeliane ha trovato la morte all’interno di un tunnel a Gaza: sono entrati per qualche decina di metri ma era una trappola. Hamas ha fatto saltare il tunnel alle loro spalle, uccidendoli tutti in un colpo solo. L’IDF sta utilizzando anche i cani molecolari, addestrati a fiutare l’esplosivo nascosto in quelle gallerie. Inutile dire che abbaiano spesso, perché Hamas ha speso milioni e milioni di dollari per i suoi arsenali pronti a saltare in aria».

- Anche gli ostaggi del 7 ottobre sono in quelle gallerie sottoterra?
  «Ci sono 53 ostaggi nelle mani di Hamas. 18 o forse 19 sono ancora vivi, gli altri sono tutti morti. Tutti nei tunnel. Per finirla con la guerra a Gaza basterebbe un gesto semplice: il rilascio di tutti gli ostaggi. Se Hamas lo fa, finisce la guerra».

- Ma non lo faranno perché la pace non conviene ai terroristi, hanno bisogno di portarla avanti a lungo.
  «E nonostante questo, il governo israeliano ha liberato 1750 prigionieri riconducibili ad Hamas e a Hezbollah».

- Hamas è una organizzazione criminale, le risulta che gestiscano il racket degli aiuti spendendoli come arma di ricatto e di reclutamento?
  «È una organizzazione terroristica classificata in tutto il mondo come tale. Per molti, troppi anni ha spadroneggiato sul territorio di Gaza, controllandolo palmo a palmo e imponendo la sua legge: ha espropriato beni e terreni, trattenuto gli aiuti internazionali, taglieggiato il commercio. Hanno ancora un potere molto forte all’interno della Striscia e minacciano chiunque provi a minarlo. Tutti a Gaza li temono, pochi osano ribellarsi apertamente. Anche se una manifestazione contro di loro, per la prima volta, si è vista».

- Vertici decapitati, struttura indebolita, diversi arsenali sequestrati. Potrebbero accettare una tregua, se non la pace?
  «I “signori della guerra” non sono mai prossimi ad accettare la pace: perderebbero tutto. Ma i civili palestinesi non possono stare più tra l’incudine e il martello: vivere a Gaza, sotto la minaccia di Hamas da un lato e il fuoco di Israele dall’altro, non è più sopportabile. E d’altronde quella Striscia è ormai ridotta a brandelli. Va tutta ricostruita, non solo non ci sono più case ma neanche scuole, strade, infrastrutture energetiche, prospettive di lavoro…»

- E quindi?
  «La prospettiva di abbandonare la Striscia, fantapolitica fino a pochi mesi fa, si sta facendo sempre più concreta. E in un incontro segreto, tenutosi – credo – in Svizzera, emissari dei servizi americani e russi ne hanno anche parlato tra loro, in queste ultime settimane».

- Ci dica di più. Gaza sarebbe in procinto di svuotarsi, di veder emigrare i suoi abitanti?
  «Ci sono due milioni di palestinesi esausti, a Gaza. Viene data loro più di una opzione: metà potrebbe andare in Siria – dove Al Jolani ha assicurato a Donald Trump, nel recente incontro avuto a Riad, di essere pronto a prenderli – e metà andrebbero in Libia, dove Haftar ha avuto pieno mandato da Putin di completare le sue operazioni e mettere anche Tripoli sotto controllo. E infatti sta riprendendo la guerriglia tra tribù e milizie, in Libia. A Damasco e a Tripoli servono un milione di migranti ciascuno, parlanti arabo e pronti a lavorare per ricostruire le città in rovina dopo i conflitti interni e un domani a combattere, se serve. I palestinesi in fuga da Gaza dunque fanno gola a entrambi».

- Scusi Mancini, lei non è più al vertice dell’intelligence ma ha informazioni di prima mano e di primo livello. Da dove le arrivano?
  «Per molti anni, agendo in Medio Oriente e nell’ex blocco sovietico, ho messo in piedi una rete di amicizie interessanti che continuo a sentire. Mi continua a stare a cuore la sicurezza del nostro Paese».

(Il Riformista, 29 maggio 2025)

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Avviato il nuovo meccanismo di distribuzione

CHAN JUNIS – Il meccanismo di distribuzione degli aiuti alimentari per la Striscia di Gaza sostenuto da Israele e dagli Stati Uniti è partito lunedì con alcune difficoltà. Martedì si sono verificati brevi momenti di caos. Gli operatori ritengono comunque che il nuovo sistema sia un successo.
  L'obiettivo principale del nuovo meccanismo è quello di impedire i saccheggi da parte dell'organizzazione terroristica Hamas. A tal fine è stata istituita l'organizzazione Gaza Humanitarian Foundation (GHF), che a sua volta si avvale dei servizi di due organizzazioni, Safe Reach Solutions (SRS) e UG Solutions, per l'intervento sul posto.
  Gli operatori distribuiscono gli aiuti umanitari, soprattutto pacchi alimentari, in luoghi prestabiliti. Questi vengono ritirati da rappresentanti delle famiglie selezionati in anticipo. L'esercito israeliano garantisce la sicurezza, affiancato da mercenari di una società di sicurezza privata americana.
  Finora sono stati istituiti quattro di questi centri di distribuzione e altri sono in programma. Secondo la GHF, in questo modo entro la fine della settimana sarà possibile fornire aiuti a circa un milione di palestinesi, ovvero circa la metà degli abitanti della Striscia di Gaza.

Breve momento di caos
  Martedì si sono verificati disordini in una stazione di distribuzione, dove numerosi palestinesi sembravano aver preso d'assalto la stazione. L'esercito ha sparato colpi di avvertimento. L'ONU ha poi parlato di “scene strazianti”. Gli operatori hanno tuttavia comunicato che il caos è durato solo circa 20 minuti.
  Altri video sui social media hanno mostrato i palestinesi che applaudivano gli operatori dei centri di distribuzione. Alcuni hanno festeggiato gli Stati Uniti. Alcuni hanno detto che era la prima volta che ricevevano cibo gratis. Finora, secondo loro, Hamas avrebbe venduto i beni a prezzi eccessivi.
  La GHF ha inoltre accusato Hamas di aver minacciato di morte le organizzazioni umanitarie disposte a collaborare. “È chiaro che Hamas si sente minacciato dal nuovo modello operativo”, ha dichiarato lunedì la GHF.

ONU: nessuna cooperazione
  Le Nazioni Unite avevano già annunciato che non avrebbero collaborato con la GHF. Secondo l'organizzazione internazionale, il meccanismo viola i principi umanitari. I palestinesi dovrebbero infatti percorrere lunghe distanze per ricevere i beni.
  Poiché i centri di distribuzione si trovano principalmente nel sud della Striscia di Gaza, l'ONU teme inoltre che i palestinesi vengano espulsi dal nord. Tre dei centri si trovano nella parte meridionale della Striscia di Gaza, nella regione costiera, un altro nel corridoio centrale di Nezarim.

Questione del finanziamento
  Nel frattempo, per l'opposizione israeliana non è ancora chiaro da dove provengano i fondi per il GHF. Il leader dell'opposizione Yair Lapid (Yesh Atid) ha dichiarato lunedì sera alla Knesset che il governo sta finanziando segretamente il GHF. Il GHF e l'SRS sarebbero solo “società di comodo”. “Se si tratta di denaro israeliano, se proviene dal bilancio dello Stato, allora lo Stato di Israele non dovrebbe e non può nasconderlo”.
  Lapid ha collegato la sua tesi alle dimissioni a sorpresa del direttore generale della GHF, Jake Wood, avvenute domenica. Lapid ha dichiarato che Wood si è reso conto di essere stato ingannato. Wood stesso ha motivato le sue dimissioni affermando che non era possibile attuare il meccanismo senza violare i principi di umanità e neutralità.
  Il deputato della Knesset Avigdor Lieberman, leader del partito di opposizione “Israel Beiteinu”, ha sollevato accuse simili a quelle di Lapid. Martedì ha dichiarato che i fondi per la GHF provengono dal Ministero della Difesa e dal Mossad, i servizi segreti israeliani all'estero.
  L'ufficio del governo ha respinto l'accusa. “Israele non finanzia gli aiuti umanitari per la Striscia di Gaza”, ha affermato il portavoce del governo Omer Dostri. Anche il ministro delle Finanze Bezalel Smotritsch (sionismo religioso) ha negato le dichiarazioni di Lapid e Lieberman.

(Israelnetz, 28 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Hamas giustizia quattro uomini mentre cerca di affermare il controllo sugli aiuti umanitari nella frammentata Striscia di Gaza

di Nina Prenda

Lunedì 26 maggio Hamas ha giustiziato quattro uomini con l’accusa di aver saccheggiato alcuni dei camion di soccorso che hanno iniziato a entrare a Gaza, secondo fonti che hanno familiarità con l’evento. La distribuzione degli aiuti nella Striscia rimane controversa in alcuni punti: un leader palestinese di un clan nel sud di Gaza ha sfidato il gruppo terroristico riguardo alla guardia dei convogli.
Una fonte ha detto che i quattro uomini sono stati coinvolti in uno scontro tra Hamas e i membri della banda, che avrebbero cercato di dirottare il camion di soccorso. “I quattro criminali, che sono stati giustiziati, sono stati coinvolti nei reati di saccheggio e causa la morte di membri di una forza incaricata di proteggere i camion di soccorso”, ha detto una fonte a Reuters. Altri sette sospetti sono stati inseguiti, secondo una dichiarazione rilasciata da un “gruppo ombrello” guidato da Hamas che si identifica con il nome di “Resistenza palestinese”.
Nella Striscia di Gaza ci sono organizzazioni che tentano di avere il comando o rivendicarne il controllo. Hamas, che ha preso il potere a Gaza nel 2007, ha a lungo represso i segni del dissenso tra i palestinesi a Gaza, ma negli ultimi mesi ha affrontato proteste considerevoli per la guerra e le sfide al suo controllo da parte di gruppi armati, ad alcuni membri dei quali è stato risposto sparando alle gambe in pubblico.
Yasser Abu Shabab, un leader di un grande clan nell’area di Rafah, che ora è sotto il pieno controllo dell’esercito israeliano, ha detto che stava costruendo una forza per garantire le consegne di aiuti in alcune parti della Striscia. Ha pubblicato immagini dei suoi uomini armati che ricevono e organizzano il traffico di camion di soccorso.
Hamas, che non è in grado di operare nell’area di Rafah dove Abu Shabab riesce ad esercitare qualche forma di controllo, lo ha accusato di aver saccheggiato camion di aiuti internazionali nei mesi precedenti e di mantenere i legami con Israele.
Su una pagina Facebook che porta il suo nome, Abu Shabab ha negato di aver agito come alternativa al governo o ad altre istituzioni e ha respinto le accuse di saccheggio. Sulla pagina Abu Shabab è descritto come un “leader di base che si è opposto alla corruzione” e che ha protetto i convogli di aiuti. Ma un funzionario della sicurezza di Hamas ha definito Abu Shabab uno “strumento usato dall’occupazione israeliana per frammentare il fronte interno palestinese”.
Alla domanda se l’Onu stesse lavorando con Abu Shabab, un portavoce dell’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite OCHA ha detto che non ha pagato nessuno per sorvegliare i camion di soccorso. “Quello che facciamo è parlare regolarmente con le comunità, costruire fiducia e impegnarci con le autorità sull’urgente necessità di più aiuti per arrivare attraverso più rotte e più incroci”, ha detto il portavoce.
Israele ha accusato Hamas di rubare aiuti e ha affermato che gli aiuti devono essere strettamente controllati per impedire loro di aiutare il gruppo terroristico, che detiene ancora 58 ostaggi.
Funzionari militari israeliani hanno detto che le squadre di sicurezza messe in atto da Hamas sono lì per prendere in consegna le forniture, non per proteggerle. Israele lunedì ha confermato che la distribuzione dell’assistenza nell’ambito della Fondazione umanitaria di Gaza era iniziata, lanciando un sistema che Israele dice che ha lo scopo di impedire che gli aiuti vengano deviati al gruppo terroristico di Hamas.

(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2025)

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Ciclismo – Derek Gee scala la classifica e punta il podio ‍‍

Si sa, l’appetito vien mangiando. E le parola podio, a questo punto, non è più un tabù. Nel 2023 il canadese Derek Gee è stato proclamato ciclista “più combattivo” del Giro d’Italia, nel 2024 è arrivato nono al Tour de France e nel 2025 e tutto lascia immaginare un ulteriore salto di qualità. Alla partenza della 17esima tappa dell’edizione numero 108 del Giro, un Giro molto incerto e combattuto, la classifica dice che il capitano della Israel Premier Tech è al quarto posto in graduatoria a un minuto e 31 secondi dalla maglia rosa, il messicano Isaac Del Toro, e che il podio oggi appannaggio dell’ecuadoriano Richard Carapaz dista un minuto esatto. Sono gli effetti del “terremoto” in classifica delle scorse ore, con tre italiani nelle prime tre posizioni (Scaroni, Fortunato e Pellizzari) della tappa conclusasi sul traguardo trentino di San Valentino Brentonico, ma soprattutto l’uscita di scena dei due principali contendenti per la vittoria finale: lo sloveno Primoz Roglic (ritiratosi) e lo spagnolo Juan Ayuso (indietro ora di 14 minuti). Tutto è ora possibile, tutto è in discussione, con tante cime ancora da scalare. Anche nella frazione odierna, tra Tonale e Mortirolo. La squadra israeliana e il suo capitano si godono intanto la ribalta, in un Giro segnato da numerose (e a volte pericolose) intemperanze da parte di attivisti propal.

(moked, 28 maggio 2025)

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«Abbiamo visto asili nido minati con ordigni esplosivi»

Un alto comandante delle forze armate israeliane riferisce sul ruolo decisivo dei blindati D9 nelle incursioni nella Striscia di Gaza per combattere gli ordigni esplosivi disseminati da Hamas.

di Yaakov Lappin

D9 delle forze armate israeliane e soldati che li guidano
GERUSALEMME - Durante la grande offensiva delle forze armate israeliane (IDF) nella Striscia di Gaza, l'operazione “Gideon's Chariots”, iniziata il 16 maggio con la mobilitazione di decine di migliaia di riservisti e l'impiego di tutte le brigate di fanteria e corazzate regolari, sono stati utilizzati in modo massiccio e decisivo veicoli tecnici pesanti, in particolare i bulldozer corazzati D9.
Questi veicoli imponenti svolgono un ruolo cruciale nella neutralizzazione degli ordigni esplosivi improvvisati (IED, Improvised Explosive Device) distribuiti da Hamas in tutta la Striscia di Gaza e delle trappole esplosive piazzate dai terroristi.
Il contesto operativo nella Striscia di Gaza è caratterizzato da una densità senza precedenti di trappole esplosive e ordigni esplosivi, una tattica che Hamas ha affinato e notevolmente ampliato.
Un alto comandante delle forze armate israeliane ha spiegato martedì a JNS la natura di questa minaccia: “Durante questi lunghi combattimenti abbiamo capito che Hamas, come Hezbollah, è in definitiva un esercito di guerriglieri classici. Come eserciti di guerriglia, usano la popolazione per nascondersi e usano le infrastrutture – asili, scuole, infrastrutture di organizzazioni internazionali, organizzazioni umanitarie – e usano queste infrastrutture per tendere trappole”.
L'ufficiale ha poi approfondito la portata del problema degli IED, spiegando: ”Fanno un uso molto, molto intenso degli IED. Non è una novità per noi; già durante l'operazione Piombo fuso nel 2008 abbiamo trovato IED prodotti in serie da Hamas con etichette, numeri di serie e dati di produzione. Ora ci imbattiamo negli stessi IED, solo in quantità molto, molto maggiori”.
L'ufficiale ha sottolineato la totale mancanza di ritegno morale da parte di Hamas nell'uso di questi dispositivi. “Vediamo che minano semplicemente tutto e che non conoscono limiti o barriere morali in questo senso. Abbiamo visto asili minati, anche con pozzi di tunnel; abbiamo visto scuole; abbiamo visto luoghi che dovrebbero essere utilizzati per gli aiuti umanitari – in tutti questi luoghi abbiamo trovato ordigni esplosivi e pozzi di tunnel”, ha spiegato.
Secondo l'ufficiale, Hamas utilizza principalmente tre tipi di ordigni esplosivi: tutte le strutture o gli oggetti immaginabili, le strade e le vie di comunicazione (comprese le strade asfaltate utilizzate dai civili, analogamente alla minaccia che devono affrontare le forze armate americane in Afghanistan e in Iraq) e campi di ordigni esplosivi improvvisati (IED) posizionati in prossimità di obiettivi operativi importanti per l'esercito israeliano, come i pozzi dei tunnel. Ha aggiunto che i terroristi di Hamas fanno consapevolmente affidamento sul codice morale delle forze armate israeliane e sfruttano questa conoscenza a proprio vantaggio.
In questo ambiente insidioso, il bulldozer D9 si è dimostrato indispensabile. L'alto comandante ha descritto il D9 come “uno strumento molto versatile e molto utile sul campo di battaglia. Può essere utilizzato per una vasta gamma di applicazioni militari, che si tratti di preparare il terreno, aprire varchi o liberare e sgomberare”.
La sua funzione più importante nell'attuale offensiva è la lotta contro la minaccia degli IED. “Nel contesto della lotta contro le trappole esplosive, il bulldozer fornisce all'elemento combattente e manovrabile - che si tratti di carri armati, veicoli corazzati per il trasporto di truppe (Namer) o fanteria - una sorta di schermo di ricognizione davanti alla truppa. Trattandosi di un veicolo grande, protetto e alto, consente un primo incontro con la trappola esplosiva, invece che con un soldato”, ha spiegato la fonte.
Il D9 dispone di capacità speciali per individuare pericoli nascosti: ”Il D9 ha una lama anteriore e uno strappatore posteriore con cui può creare attrito con il terreno. In questo modo è possibile localizzare e combattere gli IED sepolti. D'altra parte, la potenza di questo veicolo permette anche di modificare il terreno, prevenendo così le minacce e riducendo i rischi per le forze di sicurezza in entrambe le dimensioni [sopra e sotto terra]”.
Il D9 viene utilizzato anche per scoprire aree nascoste come cumuli di detriti o vegetazione fitta che non possono essere facilmente scansionate, in modo che i soldati possano poi utilizzare altri mezzi per ripulirle dalle minacce o, se necessario, aprire il fuoco.
Sebbene il D9 sia uno strumento primario, le forze armate israeliane sono tatticamente flessibili. “Cerchiamo di non limitarci a un modello operativo specifico, perché questo permetterebbe al nemico di imparare e prepararsi alle nostre azioni”, ha affermato l'ufficiale.
Riguardo alla vasta rete di sorveglianza di Hamas, ha detto: “Sappiamo che il nemico ci osserva sempre; hanno installato molte telecamere in tutta la striscia, anche in siti umanitari o sedi di organizzazioni internazionali, perché sanno che non attaccheremo questi luoghi, quindi mettono lì le telecamere”.
“Inoltre, hanno un gran numero di osservatori - bambini, donne, anziani - gruppi di popolazione che sanno per certo che non attaccheremo, e questi due fattori li aiutano a imparare i modelli operativi delle nostre forze armate”.
In definitiva, le forze armate israeliane dispongono di una serie di strumenti che possono utilizzare in qualsiasi operazione di combattimento, ha affermato. “A seconda di come valutano la situazione e di come analizzano il terreno e il nemico, scelgono quale strumento utilizzare per primo e quale per secondo, adattandosi costantemente alle diverse circostanze”, ha spiegato l'ufficiale dell'IDF.
Anche le capacità tecniche delle forze armate israeliane stanno evolvendo dal punto di vista tecnologico. L'ufficiale ha menzionato gli sforzi per il controllo remoto e l'automazione di varie piattaforme, che non si limitano ai veicoli tecnici, ma sono osservabili anche nel campo dei droni e dei velivoli.
Nel novembre 2024, Israel Aerospace Industries (IAI) ha confermato l'uso dei suoi sistemi terrestri senza pilota nelle recenti operazioni dell'esercito. La versione senza pilota del D9 dell'IAI, denominata RobDozer (o Panda nella terminologia dell'IDF), è stata utilizzata per missioni ad alto rischio, tra cui lo sgombero di strade, la costruzione di ponti e la lotta contro ordigni esplosivi, spesso come parte di una “forza di combattimento robotica” che può includere anche veicoli blindati senza pilota M113. Il sistema di automazione di IAI funge da “cervello” per unificare questi strumenti senza pilota e integrarli nell'ambiente di combattimento con equipaggio.
Il 24 maggio, funzionari del comando meridionale dell'IDF hanno dichiarato che le forze armate israeliane stanno avanzando lentamente e sistematicamente nell'ambito dell'operazione “Gideon's Chariots” per evitare ordigni esplosivi, con bulldozer come il D9 che spesso precedono i movimenti delle truppe.
Il comandante ha sottolineato che il D9 non è l'unico strumento utilizzato a questo scopo: “Ci sono altri strumenti nell'arsenale; ci sono anche mezzi aerei che utilizziamo e ci sono anche mezzi che il soldato in prima linea può utilizzare per individuare o neutralizzare un ordigno esplosivo. Naturalmente ci sono anche forze speciali di tecnica di combattimento e Yahalom (unità speciale) il cui compito è quello di individuare e neutralizzare gli IED”.
Riguardo ai progressi compiuti, il comandante ha dichiarato: “Oggi ci troviamo in una situazione completamente diversa rispetto al 7 ottobre [2023]. L'esercito e lo Stato di Israele stanno investendo molte risorse nello sviluppo di mezzi tecnologici e attrezzature da combattimento più avanzati, sia per i soldati in prima linea che per i livelli più sistemici, al fine di far fronte a questa minaccia”.
Ha aggiunto: “In definitiva, comprendiamo che questo – l'IED – è uno degli strumenti più importanti di un esercito terroristico come Hamas. E si stanno investendo enormi sforzi e risorse per fornire davvero un'ampia gamma di strumenti a tutti i livelli operativi, dai soldati in prima linea ai quartier generali di brigata e divisione”.

(Israel Heute, 28 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Fame o fedeltà, cibo a Gaza usato come arma di ricatto

Mentre Hamas minaccia la popolazione, la comunità internazionale accusa Israele

di Rodolfo Belcastro

Mentre la popolazione di Gaza sprofonda in una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi decenni, si fa sempre più chiaro chi abbia davvero interesse a mantenere questa emergenza in stato permanente. Hamas non solo continua a ostacolare sistematicamente ogni tentativo di distribuzione autonoma degli aiuti, ma impone alla popolazione palestinese una scelta crudele: la fame o la fedeltà. È il cibo l’arma più efficace nelle mani dell’organizzazione terroristica islamista. Un’arma usata per ricattare, controllare e punire, un metodo di gestire il potere “mafioso”.

Folle affamate e disperate
  È di ieri l’inizio ufficiale della consegna di aiuti alimentari organizzata dagli Stati Uniti attraverso la Gaza Humanitarian Foundation (GHF), con il supporto di Israele. Nei nuovi punti di distribuzione aperti a Tal al-Sultan e nel corridoio di Morag, nell’area di Rafah, migliaia di civili si sono riversati per cercare di accedere a razioni di sopravvivenza. Le immagini circolate sui social media mostrano folle affamate e disperate che cercano di raggiungere i pacchi accatastati in un fortino sabbioso vicino al mare. Per contenere l’assalto e gestire la distribuzione degli aiuti, le guardie di sicurezza private ingaggiate dalla GHF – contractor della Safe Research Solutions – sono state costrette a sparare colpi di avvertimento in aria.

15 km a piedi per un pacco e i posti di blocco di Hamas
  Dietro il caos, però, non c’è solo la disperazione. Ci sono ostacoli deliberatamente imposti. La stessa GHF ha spiegato che è proprio Hamas ad aver creato posti di blocco per impedire alla popolazione di raggiungere i centri di distribuzione. In media, per ottenere una scatola contenente tre pacchi di pasta, due chili di riso, un chilo di lenticchie rosse, scatolette di ceci e pomodori – razioni sufficienti per pochi giorni – occorrono 15 chilometri a piedi in un territorio dissestato e privo di mezzi. Tutto questo per sfuggire al controllo capillare dell’organizzazione che governa Gaza con il pugno di ferro.

La distribuzione ‘parallela’ dei terroristi
  Il Ministero degli Interni di Hamas ha definito la GHF un’iniziativa destinata al fallimento, rilasciando un comunicato che invita la popolazione ad “agire responsabilmente”. E mentre attacca duramente il meccanismo indipendente sostenuto da Israele e Stati Uniti, avvia improvvisamente la distribuzione gratuita di cibo nella zona umanitaria di Al-Mawasi. Come mai? Da dove proviene quel cibo? Perché adesso sì, e prima no? La risposta è lampante: Hamas aveva le risorse, ma le ha tenute come strumento di potere. Ora le libera per non perdere il controllo e contrastare un’alternativa che sfugge alla sua egemonia.
  Ancora più inquietante la minaccia diretta del braccio armato dell’organizzazione: “Chi prenderà cibo dalla GHF sarà accolto con cura”. È un avvertimento mafioso, un’intimidazione rivolta a civili affamati che cercano di sopravvivere. Non è un caso isolato. Già nei giorni scorsi a Nuseirat, nel cuore della Striscia, si è verificato uno scontro a fuoco tra miliziani di Hamas e cittadini palestinesi per l’accesso alla farina. Hamas non distribuisce, controlla. E quando perde il controllo, risponde con la violenza.
  La realtà è che Hamas teme di perdere il suo monopolio sugli aiuti. Non è una guerra per la liberazione, ma una lotta per la supremazia interna. Per anni ha intercettato e condizionato i flussi di beni umanitari, trasformando l’assistenza in privilegio politico. La retorica sulla sovranità e sull’occupazione serve solo a mascherare la paura di perdere il potere su una popolazione che sopravvive vendendo sul mercato nero le razioni distribuite selettivamente.

Superare le narrazioni semplificate
  La GHF ha distribuito finora 8mila pacchi – circa 462mila pasti – con il supporto di tre agenzie internazionali: la International Human Rights Commission, la Rahma e la Multifaith Alliance, queste ultime due americane. Sono le uniche ad aver accettato di collaborare, mentre le Nazioni Unite e molte Ong continuano a rifiutarsi, accusando Israele di distogliere l’attenzione dalla riapertura dei valichi. È una posizione ideologica miope: l’ostilità verso un attore politico, per quanto legittima, non dovrebbe mai giustificare l’abbandono dei civili. In parallelo, l’Italia ha inviato 15 camion di aiuti attraverso il programma “Food for Gaza”, distribuiti dal World Food Programme.
  Il controllo degli aiuti avviene spesso attraverso intimidazioni, minacce e con la violenza diretta da parte di Hamas. Il monopolio sulle risorse umanitarie è esercitato non solo sul piano politico, ma anche con metodi repressivi, con conseguenze devastanti per una popolazione già stremata dalla guerra e dalla fame. Oggi più che mai, occorre superare le narrazioni semplificate: è tempo che la comunità internazionale e il dibattito pubblico superino la visione semplicistica secondo cui ogni forma di aiuto è automaticamente positiva e ogni critica a Israele necessariamente legittima. La questione è più complessa, e oggi è più evidente che il principale ostacolo alla sopravvivenza quotidiana dei palestinesi di Gaza è proprio Hamas.

(Il Riformista, 28 maggio 2025)

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Canada: non mostrate simboli ebraici e israeliani

di Malka Letwin

Il consiglio di sicurezza nazionale israeliano ha esortato caldamente i propri cittadini durante i viaggi in Canada a «evitare di esporre simboli ebraici e israeliani in pubblico», a causa potenziali attacchi terroristici. Lo riporta il sito Jewish News.
  L’organo che si occupa dell’analisi e della sicurezza generale, considerata la crescita vertiginosa dell’antisemitismo in tutto il mondo, ha aggiornato l’alert, innalzando il livello di rischio per l’incolumità di israeliani o ebrei che si trovano in Canada in questo momento. Oltre alla raccomandazione di evitare di mostrare simboli ebraici, il consiglio invita tutti loro a “rimanere estremamente vigili quando si trovano in pubblico”.

Le manifestazioni anti-israeliane promuovono la violenza
  Il documento puntualizza che “negli ultimi 18 mesi, ci sono stati diversi attacchi contro istituzioni e centri ebraici, inclusi incidenti con sparatorie, bottiglie molotov e minacce contro israeliani e/o ebrei nel paese”. Inoltre, le manifestazioni anti-israeliane come quelle in programma nelle città di Toronto e Waterloo, spesso incitano e sfociano in atti di violenza contro ebrei e israeliani. “Negli ultimi giorni, i discorsi che riguardano questi eventi sono diventati più radicali, compresi quelli che potrebbe essere intesi come un invito a fare violentemente del male agli israeliani e agli ebrei presenti a queste manifestazioni”.

Gli ebrei canadesi si sentono meno sicuri
   Nel 2024 si è registrato in Canada un aumento dell’antisemitismo del 970%, un dato estremamente allarmante, diffuso dal Ministero israeliano per gli Affari della Diaspora e la lotta all’antisemitismo, che combacia perfettamente con il sondaggio del Centro canadese per gli affari israeliani ed ebraici (CIJA), dove riportata che l’82% degli ebrei del paese si sente meno sicuro, dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023 in Israele. Infatti, dopo l’attentato del 7 ottobre la comunità ebraica canadese è stata protagonista di violenti attacchi: dagli spari contro una scuola femminile ebraica a Montreal, verificatisi in tre differenti episodi, alle accuse di un tribunale di Toronto ad un uomo incriminato di “sostenere il genocidio” contro gli ebrei.
  Come risponde la politica a questi fatti significativamente allarmanti? Il primo ministro canadese Mark Carney ha da poco pubblicato una dichiarazione congiunta, con il primo ministro britannico Keir Starmer e il presidente francese Macron, dove si chiede al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di cessare nell’immediato l’operazione militare in corso a Gaza o di subirne le conseguenze. Non si è fatta attendere la replica di Netanyahu che risposto dicendo ai politici di “essere dalla parte sbagliata della giustizia, dell’umanità e della storia”.

(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2025)

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Ostaggi – L’instancabile Ofra Keidar ‍‍

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Ofra Keidar

Ofra Keidar aveva 70 anni e una forza che sembrava illimitata. Era una donna pratica, concreta, instancabile. Chi l’ha conosciuta la ricorda sempre in movimento, determinata e devota alla sua famiglia e al kibbutz Be’eri, dove aveva vissuto per quasi sessant’anni. Keidar amava l’attività fisica, il giardinaggio, gli animali, il nuoto. Ma più di tutto, amava prendersi cura della terra, delle persone, dei suoi cari. Per quarant’anni ha lavorato nel caseificio del kibbutz, allevando vitelli, senza mai fermarsi, nemmeno dopo la pensione. «Era fisicamente così forte che era difficile starle dietro», ha ricordato un collega. Arrivava al lavoro ogni mattina all’alba, anche quando non era più tenuta a farlo.
  Con il marito Sami, che condivideva il suo stesso spirito, Ofra aveva cresciuto tre figli: Elad, Oren e Yael, la più fragile. Yael ha una disabilità intellettiva, ma grazie all’impegno dei suoi genitori, ha imparato a leggere, scrivere e parlare, sfidando ogni previsione medica. «Ogni settimana la portavano da Be’eri a Gerusalemme per la terapia», ha raccontato il fratello, Oren. «Ora Yael comunica, tutto grazie alla determinazione di mia madre».
  Il 7 ottobre 2023, come ogni mattina, Ofra era uscita per la sua consueta passeggiata all’alba. Sami era a casa con Yael, in visita come ogni fine settimana. I terroristi l’hanno intercettata a pochi chilometri dal kibbutz, mentre erano in moto. Le hanno sparato e poi, nel loro rientro a Gaza, hanno portato via il suo corpo. «Era ingenua, pensava fossero beduini che cercavano di rubare. Gli ha urlato: “Basta, smettetela”», ha raccontato Oren. La famiglia conosce questi dettagli perché Ofra era al telefono con il figlio Elad quando è iniziato l’attacco. In quell’ultima telefonata, registrata da Elad, si sente la donna implorare i terroristi di risparmiarla. Non lo hanno fatto. Come non è stato risparmiato il marito Sami, malato di Parkinson e per questo incapace di raggiungere in tempo il rifugio antimissile.
  La loro figlia Yael, 43 anni, è sopravvissuta. Rimasta sola per oltre dodici ore, si è nascosta sotto un tavolo nella stazione di polizia del kibbutz, mentre fuori si sentivano gli spari e il fumo dell’incendio appiccato dai terroristi cominciava a entrare dalle finestre. Ha chiamato i fratelli, Elad e Oren, implorando di essere salvata. «Ho detto: “Venite a salvarmi, per favore”, e loro mi hanno detto: “Yael, non possiamo”», ha raccontato. Alla fine, alcuni soldati hanno sentito la sua voce, l’hanno tirata fuori. Era completamente ricoperta di fuliggine, disidratata, in stato di shock.
  Oggi è tornata a vivere a Sderot nella struttura di assistenza in cui risiedeva prima dell’attacco, ma ogni fine settimana torna a trovare i fratelli. La sua storia è al centro del documentario Dear Mom, diretto da Dana Levy, Maor Alters, Gala Kaplan in cui Yael, consapevole delle proprie disabilità cognitive, ripercorre la perdita, la solitudine e il ritorno a una quotidianità diversa. «Ora mi prendo cura dei cani in un canile. Mi piace quando abbaiano, e anche quando mangiano gli insetti: mi fa ridere», racconta nel documentario.
  All’inizio di dicembre, dopo quasi due mesi dal 7 ottobre, il kibbutz di Be’eri ha annunciato la morte di Ofra Kedar. Il suo corpo è ancora prigioniero a Gaza. Per molti giorni, ricorda Yael nel documentario, “Dicevo: ’Dov’è la mamma, dov’è?‘. Gridavo: ’Mamma, dove sei?’. Pensavamo fosse stata rapita. Ho chiesto a mio fratello Oren: ‘E la mamma?’. E loro non sapevano nulla, proprio nulla. Gli ho detto: ‘Voglio sapere perché l’hanno rapita, perché hanno ucciso la mamma. Che cosa ha fatto? Non capisco’. Ancora non capisco. E nemmeno papà. Papà era malato. Perché hanno fatto del male a papà?”.
  Oren ora è il tutore di Yael. Lui non si aspetta un ritorno della salma della madre. «Temo rimarrà dispersa. Non so se la troveranno mai». La priorità, ha spiegato di recente in un’intervista ad Haaretz, sono gli ostaggi ancora in vita (20 secondo fonti israeliane) da 600 giorni prigionieri di Hamas. “Mia madre mi avrebbe detto di smettere di rimuginare sul passato. Era una donna pragmatica che non amava i sentimentalismi. Non era il tipo che dimostrava affetto con abbracci e baci, ma faceva tutto per noi”.
  Yael continua a parlare di lei ogni giorno. «Mia madre è la mia vita», ha spiegato al sito ynet. «Mi coccolava, mi preparava il caffè con la macchinetta, mi chiamava “Orsa russa” perché dormivo tanto, e “Leone” per i miei capelli. Mi manca tanto. Le chiedevo sempre: “Mamma, mi vuoi bene?”. E lei mi rispondeva: “Ti voglio bene, figlia mia”. Ora le parlo lo stesso, ogni mattina». d.r.

(moked, 28 maggio 2025)

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Il ritorno di un tesoro: la Torah di Shem Tov esposta alla Biblioteca Nazionale di Israele

di Michelle Zarfati

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Un capolavoro dell’arte e della spiritualità ebraica è tornato a casa. La Torah di Shem Tov, uno straordinario manoscritto del XIV secolo realizzato in Spagna dal cabalista Rabbi Shem Tov ben Abraham Ibn Gaon, sarà d’ora in poi esposta al pubblico presso la Biblioteca Nazionale di Israele a Gerusalemme.
  Terminata nel 1312 nella città castigliana di Soria, quest’opera monumentale rappresenta una sintesi unica della Torah Masora (tradizione di trasmissione testuale), Kabbalah e arte ebraica. Riccamente illustrato, il codice contiene elementi decorativi raffinati come archi gotici, cornici dorate, animali fantastici e motivi ispirati alle tradizioni artistiche islamiche e cristiane, adattati secondo la sensibilità ebraica. Dopo il completamento del manoscritto, Rabbi Shem Tov emigrò nella Terra d’Israele, dove proseguì la sua attività fino alla morte, avvenuta attorno al 1330. Nei secoli successivi, la Torah cambiò più volte proprietà: si trovò nel Medio Oriente, poi in Nord Africa, dove le furono attribuite proprietà mistiche, come aiutare le donne durante il parto. Nel XX secolo fu acquistata dal collezionista David Solomon Sassoon, poi passò in mani europee fino ad arrivare, nel 1994, al collezionista svizzero Jaqui Safra.
  Nel 2024, il manoscritto è stato messo all’asta da Sotheby’s e acquistato dai collezionisti Terri e Andrew Herenstein, che lo hanno generosamente concesso in prestito a lungo termine alla Biblioteca Nazionale di Israele. “È emozionante accogliere questo capolavoro proprio in occasione di Shavuot, la festa che celebra il dono della Torah” ha dichiarato Sallai Meridor, presidente della Biblioteca. “La Torah di Shem Tov torna nella terra in cui il suo autore voleva che si trovasse: Israele. E oggi, a Gerusalemme, entra a far parte del nostro patrimonio comune”.
  La Torah di Shem Tov è attualmente parte della mostra permanente “Un Tesoro di Parole” nella Galleria William Davidson. Il manoscritto sarà inoltre digitalizzato ad altissima risoluzione, per consentire al pubblico globale di accedervi per studio, ricerca o semplice ammirazione della sua bellezza senza tempo.

(Shalom, 28 maggio 2025)

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Indottrinamento jihadista ad uso dei più piccoli

di Davide Cavalierei

La tesi secondo cui l’esercito israeliano affamerebbe e ucciderebbe, addirittura «per gioco», i bambini «palestinesi» ha una sola funzione: consente a chi la sostiene di odiare gli ebrei con la coscienza tranquilla. Ai «filopalestinesi» non importa nulla dei bambini arabi, se non quando la loro morte diventa uno strumento per amplificare la loro ostilità a Israele, rendendola più esplicita e sguaiata. 
A Gaza, come nella cosiddetta «Cisgiordania», i bambini sono sempre morti, ma perivano per mano di Hamas o di al-Fatah, pertanto non suscitavano alcuna indignazione. Dato che ogni atto militare dei «palestinesi» viene rapidamente rubricato sotto la nobile categoria di «resistenza», nessun urlatore dello slogan «Palestina libera» si è mai preoccupato di denunciare la trasformazione dei fanciulli arabi in combattenti o in attentatori suicidi.
Il primo utilizzo di bambini-soldato risale al 1969. L’al-Fatah di Arafat armò due tredicenni che, il 9 settembre del medesimo anno, assaltarono con bombe a mano la sede della compagnia aerea israeliana El Al a Bruxelles. Nel 2002, durante la seconda Intifada, la sedicenne Ayat, uccise una sua coetanea ebrea facendosi esplodere. Nel 2005, un’altra ragazza, la quindicenne Noura, cercò di accoltellare dei soldati israeliani a un check-point. 
Sono solo alcuni esempi. L’elenco, purtroppo, è molto più lungo. Le varie sigle terroristiche – da al-Fatah ad Hamas, dalla Jiahd Islamica Palestinese alle Brigate dei martiri di al-Aqsa – negano ogni coinvolgimento, parlando di atti «spontanei» e «volontari». Ma si tratta di una menzogna: il reclutamento dei fanciulli per scopi bellici e terroristici è una prassi consolidata, che rientra nella strategia militare degli jihadisti. La stessa Jihad Islamica ha ammesso, in un caso del 2002, di avere insegnato a un sedicenne a guidare per poterlo utilizzare come pilota kamikaze di un’autobomba.
Hamas non ha impiegato i bambini solo nelle sue azioni terroristiche, ma anche come forza lavoro schiavile per scavare i rifugi sotterranei dei miliziani e i tunnel che questi impiegano per entrare di straforo in Israele. Nel 2012, si stimavano in 160 i bambini deceduti nelle operazioni di scavo, schiacciati da pietre e colate di detriti, asfissiati a diversi metri sotto terra o pestati a morte dai membri di Hamas quando incapaci di reggere i massacranti turni di lavoro. 
I bambini «palestinesi» crescono immersi in un clima di odio, di disprezzo degli ebrei, di radicale disumanizzazione del «nemico sionista». I testi scolastici contengono istigazioni all’odio e al martirio, teorie del «complotto ebraico» e celebrazione della violenza. La loro anima viene costantemente storpiata da adulti assetati di sangue, il tutto nel silenzio delle organizzazioni umanitarie e dei «filopalestinesi» occidentali. 
La TV palestinese Al Aqsa, controllata da Hamas, diffonde interviste ai figli di genitori kamikaze. Nel 2007, ai bambini Dohah e Mohammed, figli di Rim Al-Riyashi, una donna che tre anni prima si  fece saltare per aria a un posto di blocco tra Israele e Gaza, venne fatta recitare in diretta una poesia inneggiante al martirio della madre, definita «una bomba di fuoco». 
I fanciulli sono sempre in prima linea nelle manifestazioni pubbliche di Hamas. Indossano il sudario dei martiri, cinture esplosive, sulla fronte la fascia nera dei kamikaze, impugnano mitra e coltelli. È diventata celebre una foto di Yahya Sinwar, pianificatore della strage del 7 ottobre, mentre espone fiero un bambino che impugna un mitra a una folla festante e plaudente di «civili palestinesi». 
Nessun «propal» si è mai indignato per i civili siriani, tra cui innumerevoli bambini e ragazzi, assassinati brutalmente degli alleati dei «palestinesi» in Siria, ossia dall’esercito di Assad, da Hezbollah e dai pasdaran iraniani. Ad Aleppo, sembra che questi «nemici del colonialismo sionista» scaldassero un’enorme piastra di metallo e vi gettassero sopra i detenuti affinché confessassero crimini reali o presunti. 
Qualcuno sarebbe tentato di affermare che non importa chi uccida un bambino, se Hamas o Israele, poiché la morte di un fanciullo è sempre una tragedia, ma si tratterebbe di una scandalosa equivalenza morale. Le azioni dell’IDF hanno certamente causato la morte di bambini e ragazzi, ma si è trattato di decessi accidentali, «danni collaterali» inevitabili nel contesto di un conflitto dove le abitazioni civili vengono sistematicamente utilizzate come basi militari. Ben diversa, nonché moralmente riprovevole e ingiustificabile, è la trasformazione di giovani e giovanissimi in carne da cannone.
L’ONU, con l’UNICEF e l’UNWRA in testa, fanno acriticamente propri i dinieghi di Hamas, chiudendo gli occhi sui crimini contro l’infanzia commessi con atroce regolarità dai «resistenti palestinesi», preferendo concentrarsi sui presunti abusi compiuti da Israele – «abusi» perlopiù inventati dalla propaganda islamista permanente, oppure fatti volutamente distorti al fine di farli apparire come «violazioni dei diritti umani». 
I bambini indottrinati, sfruttati e uccisi da Hamas, come si diceva, non suscitano indignazione perché non legittimano alcuno sfogo antiebraico e anti-israeliano. Nessun «filopalestinesi» ha mai urlato (e mai urlerà) «i bambini, signora mia, i bambini!», di fronte ai massacri compiuti in Sudan, Siria o Nigeria. Se non è antisemitismo questo, è difficile capire cosa lo sia.

(L'informale, 27 maggio 2025)

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Trump: da Messia a Giuda Iscariota?

Improvvisamente, le sofferenze dei palestinesi nella Striscia di Gaza e la fame che li affliggono sono diventate un tema centrale, in linea con la posizione dell'opinione pubblica saudita e dei media influenzati dal principe ereditario. Israel Heute conosce la fonte americana molto vicina a Donald Trump. A quanto pare, per un investimento saudita di 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti valgono ora nuove regole politiche. Inoltre, durante la visita di Trump in Qatar, è stato firmato un accordo economico globale che, secondo fonti ufficiali, ha un valore di oltre 1,2 trilioni di dollari. In questo contesto, anche se non del tutto appropriato, un ministro che desidera rimanere anonimo mi ha detto: “Trump sta passando da Messia a Giuda Iscariota”. E solo pochi giorni dopo, anche il mio amico e collega Avshalom Kapach ha fatto lo stesso paragone.

di Aviel Schneider

GERUSALEMME - Trump non ferma nemmeno la conferenza che la Francia e l'Arabia Saudita intendono tenere il mese prossimo a New York con l'obiettivo di promuovere una soluzione a due Stati. I sauditi e i francesi stanno cercando di mettere fuori gioco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e intendono invitare anche altri politici israeliani, non solo esponenti dell'opposizione. Le stesse fonti di alto livello hanno parlato in termini sprezzanti di Netanyahu e hanno deriso le sue dichiarazioni irrealistiche durante l'ultima conferenza stampa, in particolare in relazione al kibbutz Ein HaShlosha e al riferimento alle infradito dei terroristi. “Ma è ancora con noi?”, ha chiesto uno dei fedelissimi di Trump.
Nel tentativo di minimizzare la portata del sabato mattina – in cui il denaro del Qatar avrebbe aiutato Hamas a sviluppare quelle capacità militari che alla fine hanno reso possibile il massacro del 7 ottobre – Netanyahu ha affermato nella sua prima conferenza stampa dopo 160 giorni che i terroristi di Hamas avrebbero attaccato Israele con “infradito, kalashnikov e camioncini” , ovvero con mezzi economici e facilmente reperibili, senza alcun finanziamento dal Qatar. Questa versione dei fatti è imprecisa e fuorviante. Secondo numerose indagini, testimonianze e riprese video, Hamas ha utilizzato anche droni, missili anticarro e altri missili portatili, lanciando l'attacco con migliaia di razzi. Inoltre, l'attacco altamente coordinato ha evidenziato una pianificazione meticolosa e un addestramento mirato. Ma anche questo ha poco senso: in Medio Oriente i musulmani amano combattere con le infradito. Lo si vede in Siria, nello Yemen e in altre zone di crisi.
Il primo ministro ha anche cercato di attribuire la responsabilità del fallimento nella difesa del confine il 7 ottobre all'IDF e ad altre autorità di sicurezza. Tra le altre cose, ha affermato che un'indagine futura dovrà chiarire perché l'aviazione sia stata mobilitata solo “ore” dopo l'inizio dell'attacco, “chi ha detto di farlo e chi ha detto di non farlo”. Netanyahu ha perfettamente ragione, e questo deve essere verificato. Ma anche il suo governo e lui stesso devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni! Non può dare tutta la colpa ai terroristi di Hamas o al fatto che non è stato svegliato in tempo la mattina dello Shabbat prima dell'alba. Netanyahu è al vertice di Israele dal 2009 e tutti capiscono che anche lui ha la sua parte di responsabilità nel fiasco nazionale dell'ottobre 2023.
Nella stessa conferenza stampa, Netanyahu ha affermato che “il kibbutz Ein HaShlosha non aveva ricevuto alcuna istruzione di non mobilitarsi e che quindi non era successo nulla e nessun terrorista era entrato nel kibbutz”. Assolutamente falso! Poco dopo, il kibbutz ha pubblicato una dichiarazione in cui esprimeva «sorpresa e sgomento» per la «palese inesattezza» del primo ministro. Secondo la dichiarazione, decine di terroristi avevano fatto irruzione nel kibbutz e quattro dei suoi membri erano stati uccisi. Netanyahu si è poi scusato, affermando che le sue parole erano state «fraintese». Ciò che voleva dire era che “proprio l'assenza di un ordine da parte del sistema di sicurezza di non agire ha spinto le persone nel kibbutz ad agire”.
Questa e altre dichiarazioni hanno sorpreso molti nel Paese e all'estero. Tornando alle fonti di Washington, è importante sottolineare che non tutti nell'entourage di Trump la pensano così su Netanyahu e Israele. Naturalmente, ciò riflette anche le lotte di potere e di influenza che circondano Trump. Il vicepresidente americano J.D. Vance ha annullato nei giorni scorsi una visita a Gerusalemme che avrebbe dovuto avere luogo subito dopo l'inaugurazione della statua di Papa Francesco in Vaticano. Ma il solo fatto che nell'entourage di Trump ci siano voci così critiche nei confronti di Netanyahu dimostra che Netanyahu ha un problema, e che Israele ha un problema.
Poiché Trump è considerato un uomo d'affari politico, più interessato al denaro che all'ideologia, a Dio e a Israele, alcuni a Gerusalemme temono che possa tradire Israele, perché si aspetta di più dagli altri in Medio Oriente. Non so se sia davvero così. Ma è quello che dicono alcuni dietro le quinte, e conoscono il termine cristiano per tradimento: Giuda Iscariota. Che Trump agisca come Giuda dipende dal fatto che si considerino le sue priorità – denaro, potere e affari – un tradimento di una “missione superiore”, come quella nei confronti di Israele. In termini teologici, si potrebbe dire che chi antepone i profitti a breve termine alla verità, alla lealtà e alla giustizia si avvicina pericolosamente allo spirito di Giuda. Ma sul campo politico la situazione non è sempre così chiara come nel Vangelo.
Giuda Iscariota – ovvero l'uomo di Kariot (איש קריות) – era uno dei dodici discepoli di Gesù ed è noto nella tradizione cristiana come colui che tradì Gesù. Il suo nome è diventato simbolo di tradimento. Giuda tradì Gesù ai sommi sacerdoti per 30 monete d'argento. Identificò Gesù durante l'arresto notturno nel giardino del Getsemani con un bacio, il cosiddetto “bacio di Giuda”. Mi sorprende sempre che Giuda Iscariota simboleggi il traditore per eccellenza per gli ebrei, nonostante abbia tradito Gesù, che gli ebrei considerano un falso messia. In un certo senso è una contraddizione: un ebreo tradisce colui che l'ebraismo non riconosce affatto come Messia. È proprio per questo che menziono questo punto in relazione a Trump.
 

(Israel Heute, 27 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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“Gaza è lontana dalla carestia”, assicura un responsabile dell'esercito israeliano

“Non c'è carestia a Gaza, non ci siamo nemmeno vicini”, ha assicurato un alto responsabile dell'esercito israeliano durante una riunione sulla situazione umanitaria a Gaza tenutasi lunedì dai servizi di sicurezza israeliani, secondo quanto riportato martedì dal canale televisivo israeliano N12. ‘C'è disagio [a Gaza], ma non carestia’, ha tuttavia ammesso il militare.
  I responsabili dell'esercito israeliano hanno dichiarato ai media che le principali carenze a Gaza riguardano i servizi medici e il cibo, ma sono aggravate dal problema del saccheggio degli aiuti umanitari. Secondo quanto riportato da N12, citando le dichiarazioni dei responsabili militari, dalla ripresa degli aiuti a Gaza la scorsa settimana si sono già verificati 110 episodi di saccheggio.
  Questi ultimi hanno tuttavia dichiarato che, per quanto a loro conoscenza, nessuno di questi saccheggi è stato commesso da Hamas, ma piuttosto da civili di Gaza, bande armate e clan organizzati. Lunedì Hamas ha giustiziato quattro uomini per aver saccheggiato alcuni dei camion con gli aiuti che avevano iniziato a entrare nella Striscia di Gaza, mentre un capo clan della parte meridionale della Striscia ha lanciato una sfida al gruppo terroristico riguardo alla custodia dei convogli.
  N12 ha riferito che durante la riunione è stata affrontata la questione dei centri di distribuzione degli aiuti, in particolare il fatto che tra mercoledì e venerdì dovrebbero aprire i battenti tre nuovi centri di distribuzione degli aiuti umanitari. Lunedì avrebbe dovuto aprire un centro di distribuzione degli aiuti a Rafah, ma è stato rinviato per motivi logistici.

(i24, 27 maggio 2025)

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Gaza, al via gli aiuti di Ghf. Il ceo lascia a sorpresa. Hamas minaccia: “Chi li accetta la pagherà”

di Anna Lombardi

TEL AVIV – La Gaza Humanitarian Foundation inizia oggi la sua missione a Gaza. Si tratta della Fondazione nata a febbraio e registrata a Ginevra dall’ex marine americano Jack Wood cui il governo israeliano ha affidato l'impegno di occuparsi del controllo e della distribuzione di aiuti umanitari a 1,2 milioni di persone (cioè la metà degli abitanti della Striscia) all’interno di aree sigillate - “ripulite dal terrore” le chiamano loro - e controllate da mercenari americani armati - come già anticipato da Repubblica. Ma nel frattempo – è notizia della notte – si è dimesso a sorpresa il ceo Wood e con un comunicato decisamente inquietante: “Il programma di aiuti non può essere attuato nel rispetto dei principi umanitari di neutralità, equità e indipendenza, principi cui non rinuncio”. Non solo: Wood ha esortato Israele “ad ampliare significativamente la distribuzione di cibo a Gaza con tutti i mezzi possibili” e ha invitato tutte le parti coinvolte “a continuare a esplorare modalità innovative per la distribuzione senza ritardi, distrazioni e discriminazioni”.

La fondazione
  Ha ottenuto l’ok a procedere dell’esecutivo del premier Benjamin Netanyahu a inizio maggio. Per ricevere gli aiuti i gazawi devono però recarsi in una delle quattro aree di distribuzione appositamente realizzate nell’ultimo mese tra i corridoi di Netzarim e Morag. Secondo i media israeliani, la pianificazione operativa è stata finalizzata solo nel fine settimana da rappresentanti del governo, Idf e altre agenzie di sicurezza. Eppure, lo ha scritto sabato il Washington Post in una lunga inchiesta, solo la scorsa settimana il capo di stato maggiore delle Idf, generale Eyal Zamir, aveva ammesso in riunioni a porte chiuse di essere all’oscuro di molte cose: compresa la suddivisione di responsabilità fra militari e contractors. Rispetto al piano annunciato per ora si procederà in maniera, diciamo, provvisoria. Perché nonostante il progetto preveda che gli aiuti vengano distribuiti agli abitanti solo tramite la registrazione a un sistema di riconoscimento elettronico simile a quello che Israele già utilizza in diverse aree della Cisgiordania, per ora ai capifamiglia che si presenteranno non sarà chiesto di sottoporsi a controlli: una “misura di rafforzamento della fiducia nella popolazione”, sebbene, ammettono, qualcuno “potrebbe abusarne”. Le scatole saranno “semplicemente disposte su grandi tavoli”. Il contenuto determinato in base a un valore calorico medio calcolato in Israele per nucleo familiare. Ci sarà dunque farina, olio, barrette proteiche, prodotti in scatola, zucchero, alimenti per neonati e alimenti per esigenze dietetiche particolari.
  I centri saranno operativi 24 ore su 24 e avranno staff umanitario locale e internazionale che lavorerà su tre turni. Ma non personale delle Nazioni Unite, che fin dall’inizio ha bocciato il progetto: "Secondo il diritto internazionale, il cibo deve essere portato alla popolazione e non la popolazione al cibo, tanto meno se c’è personale armato” dicono. Il sistema di controllo e selezione dei beneficiari, hanno inoltre spiegato, “viola la Convenzione di Ginevra”. E il sistema agevolerebbe il piano di sfollare del tutto i civili dalla Striscia di Gaza settentrionale. Gli israeliani obiettano che è già stato fatto in Somalia, Sudan e Yemen (tutti posto nient’affatto pacificati). Secondo il piano, decine di camion raggiunteranno quotidianamente i complessi, circondati da alti terrapieni difesi dai contractors americani armati. L’Idf si terrà a distanza: occupandosi della sorveglianza aerea e di intelligence, e monitorando da lontano gli spostamenti verso i siti e le attività al loro interno. Tutto questo, naturalmente, per ora è solo sulla carta. Nel frattempo la distribuzione degli aiuti resta complicata: sabato notte altri cinque camion sono stati saccheggiati e il contenuto – farina, zucchero, semi di sesamo – rivenduto a prezzi gonfiati a Deir el-Balah e nel campo profughi di Nuseirat. D’altronde, spiegano gli israeliani, è proprio per rompere la catena che foraggia principalmente Hamas che si è deciso di prendere il controllo degli aiuti. Perché ormai è con le scorte sottratte che l’organizzazione ancora paga i suoi uomini, rivendendo il resto a prezzi esorbitanti, arricchendosi quanto basta da mantenere il potere.

Il piano israeliano
  Del piano che sta per essere messo in atto, secondo le ricostruzioni, si discute fin dall’inverno 2023: da poco dopo l’inizio della guerra, cioè. Fu in ambiti Cogat, l’unità del Ministero della Difesa israeliano che gestisce gli aiuti a Gaza, che s’iniziò a ipotizzare «bolle umanitarie sterili» per confinare i civili all’interno di aree determinate, mentre le Idf proseguiva la sua guerra contro Hamas. Secondo un’inchiesta pubblicata sabato sul New York Times, se ne continuò a discutere in incontri privati tra funzionari, militari e imprenditori israeliani. Il gruppo si era dato anche un nome: Mikveh Yisrael Forum. Sono stati loro a optare per l’idea di aggirare le Nazioni Unite – considerate ostili agli israeliani - e ingaggiare mercenari privati . Nel corso del 2024, hanno cercato sostegno tra i leader politici israeliani e comandanti militari. Del gruppo, scrive sempre il NYT faceva parte Yotam HaCohen, consulente strategico e assistente del Generale di Brigata Roman Goffman_ comandante del Cogat e oggi consigliere del premier; Liran Tancman, imprenditore tecnologico e riservista dell’unità di intelligence dei segnali 8200 delle IDF, che ha chiesto l’utilizzo di sistemi di identificazione biometrica all’esterno dei centri di distribuzione per controllare i civili palestinesi; Michael Eisenberg, venture-capitalist ad alto rischio americano israeliano.

I contractors
  A metà del 2024, i funzionari israeliani hanno condiviso i loro piani con un gruppo di consulenti americani del settore privato guidati da Phil Reilly. Un ex ufficiale della CIA che negli anni 80 addestrava i Contras (le milizie di destra in Nicaragua). Post 11 settembre, fu poi uno dei primi agenti statunitensi ad atterrare in Afghanistan, dove divenne capo della locale stazione Cia a Kabul. Salvo lasciare l’incarico per lavorare come esperto di sicurezza privata per Orbis, una società di consulenza con sede in Virginia. Con Reilly c’erano altri cinque individui, israeliani e americani, che presero in carico la pianificazione e stabilirono la creazione di una nuova società - guidata proprio dall’ex Cia - chiamata Safe Reach Solutions. Registrata a novembre – subito dopo le presidenziali americane – in Wyoming. L’azienda già opera all’interno di Gaza: lo scorso gennaio, ha preso in carico la gestione di posti di blocco durante il cessate il fuoco, in aree da cui l’esercito si era ritirato, perquisendo i veicoli diretti a nord (in Israele l'iniziativa è stata vista come un esperimento su piccola scala per un futuro modello di sicurezza che potrebbe essere esteso più ampiamente).
  La Gaza Humanitarian Foundation è nata un mese dopo, soprattutto come gruppo di raccolta fondi: registrata – lo dicevamo all’inizio - a Ginevra a febbraio da Jake Wood. Curiosamente, nota il New York Times, una società con quel nome è stata registrata anche in America (nel Delaware) poco prima. E dallo stesso avvocato che si era occupato di registrare pure Safe Reach Solutions, James H. Cundiff.
  Il piano verrà gestito in collaborazione con un’altra società di sicurezza statunitense UG Solutions: basata in Nord Carolina, fondata anche questa da un’ex militare in pensione, Jameson Govoni: che - lo ha raccontato ad Abc – si occupava in passato di addestrare soldati per operazioni speciali di sorveglianza e ricerca di cellule terroristiche nel mondo. A Gaza si occuperà di pianificazione e logistica e solo una settimana fa cercava collaboratori su Linkedin «cittadini statunitensi che parlassero fluentemente l’arabo, avessero esperienza sul territorio e capacità di destreggiarsi su territori sensibili», recitava l’annuncio. Finora, le due aziende avrebbero assunto oltre 100 ex militari statunitensi che potranno entrare a Gaza con fucili d'assalto, pistole Glock e coltelli, come da un elenco pubblicato online. Il piano finale ne prevede però mille.

I finanziamenti e le connessioni
  Non è chiaro chi stia finanziando l’intera faccenda. Wood ha affermato che la fondazione ha ricevuto fondi iniziali da imprenditori non israeliani, ma si è rifiutato di rivelarne i nomi. Ha poi detto che un paese dell’Europa occidentale ha donato oltre 100 milioni di dollari. Quel che risulta evidente dai documenti pubblicati sabato dal Washington Post è che chi ha ipotizzato l’intero progetto era consapevole delle potenziali obiezioni che sarebbero state sollevate. Tanto da aver messo per iscritto delle risposte preliminari. In un documento riservato di 198 pagine datato novembre 2024, sei mesi prima che Israele e gli Stati Uniti approvassero pubblicamente Ghf, cioè, si affermava dunque necessità di reclutare gruppi di aiuti internazionali e dirigenti di buona reputazione «con credibilità nel mondo umanitario». Nessuna delle principali agenzie Onu ha però finora accettato di collaborare. Hanno anche stilato liste di influencer arabi da coltivare per una campagna sui social. E nel memo si parla di corteggiare paesi occidentali come la Germania e la Francia. Ma sono soprattutto i legami col governo israeliano che ci si è preoccupati di minimizzare, nonostante, scrive il WP, la "forte collaborazione”.
  La Ghf - è scritto nel documento - non avrebbe dovuto in nessun momento apparire come "fantoccio dello Stato ebraico”. Un grande aiuto è arrivato a quel punto dall’amministrazione Trump: a inizio maggio, l’ambasciatore Usa in Israele Mike Huckabee, ha annunciato l’accordo sugli aiuti, affermando che era “del tutto inesatto definirlo un piano israeliano”: i centri di distribuzione “saranno gestiti dalla Fondazione e diretti dagli Stati Uniti”, ha detto ai giornalisti pure l'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Danny Danon. Nel frattempo, l’amministrazione Trump ha organizzato incontri con funzionari delle Nazioni Unite nella speranza di raggiungere un compromesso che potesse soddisfare sia i gruppi umanitari che Israele, ma i colloqui si sono presto arenati: “Era già tutto deciso, non c’era spazio a discussione» denunciano fonti Onu. Solo domenica l’Associated Press ha pubblica una lettera datata 22 maggio e firmata Jake Wood dove la fondazione ammetteva di non essere pronta: “Riconosciamo di non avere le capacità tecniche o l’infrastruttura sul campo per gestire le distribuzioni in modo indipendente”. E affermava di aver concordato con Israele di consentire alle altre organizzazioni umanitarie di continuare ad occuparsi di aiuti non alimentari: dalle forniture mediche a quelle per l’igiene intima e ai materiali per costruire da gestire e distribuire secondo il sistema già esistente. Si dice pure che, per quanto riguarda il cibo, ci sarebbe stato un periodo di sovrapposizione del lavoro fra Fondazione e Onu, almeno fin quando i siti di distribuzione non diventeranno 8. Wood scriveva pure di aver parlato coi Ceo di sei organizzazioni umanitarie: Save the Children, International Medical Corps, Catholic Relief Services, Mercy Corps, Care e Project HOPE. Qualcosa dev’essere andato particolarmente storto se l’ex marine ha deciso di non metterci la faccia proprio il giorno della partenza.

La minaccia di Hamas
  Nel pomeriggio inoltrato il Ministero degli Interni di Hamas ha diffuso un comunicato in cui condanna il nuovo piano di distribuzione degli aiuti organizzato dalla Fondazione, definendolo “un'iniziativa pericolosa, finalizzata a servire obiettivi di sicurezza israeliani e a indebolire le organizzazioni internazionali nella Striscia”. E ha invitato i residenti a non collaborare con il nuovo meccanismo, minacciando: "Chi collabora pagherà, saranno adottate le misure necessarie". Anche perché, secondo Hamas, "il meccanismo sarà utilizzato per raccogliere informazioni come la scansione dell'iride" e "Israele sfrutterà gli aiuti per reclutare collaboratori”.

(la Repubblica, 27 maggio 2025)

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L’intelligence tedesca accusa ufficialmente il BDS di antisemitismo

Nel rapporto annuale sulle minacce al sistema democratico e alla sicurezza nazionale della Germania, la sezione berlinese del movimento filopalestinese BDS è stata definita ‘un movimento estremista comprovato ed ostile alla Costituzione’, e che ‘la sua ideologia, che nega il diritto all’esistenza di Israele, gioca un ruolo centrale all’interno del movimento anti-Israeliano presente a Berlino’.

di Pietro Baragiola

Martedì 20 maggio, l’Ufficio federale per la protezione della Costituzione tedesca (BfV), responsabile del monitoraggio dei gruppi estremisti e della loro segnalazione al Ministero degli Interni, ha pubblicato il suo rapporto annuale sulle minacce al sistema democratico e alla sicurezza nazionale della Germania.
In questo nuovo rapporto la sezione berlinese del movimento filopalestinese BDS è stata definita ‘un movimento estremista comprovato ed ostile alla Costituzione’, aggiungendo che ‘la sua ideologia, che nega il diritto all’esistenza di Israele, gioca un ruolo centrale all’interno del movimento anti-Israeliano presente a Berlino’.
Il materiale raccolto ha evidenziato come il BDS chieda la fine dello Stato di Israele e come i suoi associati abbiano partecipato frequentemente a manifestazioni anti-israeliane sfilando cartelli con immagini antisemite, alimentando l’odio antiebraico e glorificando il massacro del 7 ottobre, ritenendolo ‘una lotta di liberazione contro il colonialismo dei coloni’ o ‘una fuga dalla prigione a cielo aperto di Gaza’.
“L’obiettivo del BDS è mettere in discussione il diritto di Israele ad esistere, isolandolo dalla comunità internazionale e agevolandone l’eliminazione” ha spiegato il Ministro degli interni tedesco Nancy Faeser che, già l’anno scorso, aveva accusato il movimento di avere legami con l’estremismo laico palestinese.
Volker Beck, presidente della Società tedesco-israeliana, ha elogiato le dichiarazioni della BfV nei confronti del BDS affermando che ‘tutte le forme di antisemitismo devono essere combattute con la stessa coerenza’.
“È importante diffondere i risultati di questo rapporto in modo che la banalizzazione o addirittura la simpatia di alcune istituzioni nei confronti del BDS cessino di esistere” ha affermato Beck al quotidiano ebraico tedesco The Jüdische Allgemeine.
Già nel 2019 la Germania è stata il primo paese a condannare il BDS come antisemita ma il tutto si è spento in un nulla di fatto. Oggi il nuovo rapporto è accompagnato dai dati registrati dall’Associazione federale tedesca dei dipartimenti per la ricerca e l’informazione sull’antisemitismo (RIAS) che ha evidenziato quanto i crimini dell’odio a Berlino siano aumentati vertiginosamente nel giro dell’ultimo anno.

I dati del RIAS
   Secondo lo studio del RIAS, nel 2024 gli incidenti antisemiti sono stati circa 2521 (quasi 210 al mese), un aumento del 98,5% rispetto al 2023. Solo nei primi sei mesi il numero di episodi a Berlino aveva già superato il totale dell’intero 2023, raggiungendo il numero più alto mai registrato in un solo anno.
Gli studiosi hanno affermato e verificato che il 44% di questi attacchi, caratterizzati da violenze fisiche scatenate da simboli ebraici o dall’uso dell’ebraico in luoghi pubblici, è direttamente collegato agli eventi del 7 ottobre e all’odierno conflitto.
Il RIAS ha documentato anche un aumento delle manifestazioni pubbliche con inviti alla violenza, alla banalizzazione della Shoah e alla giustificazione degli attacchi terroristici di Hamas, promossi sia online che offline.
“In queste campagne, il termine “sionista” è stato utilizzato più volte per reintrodurre tropi antisemiti di lunga data sotto le spoglie di critiche politiche” ha spiegato Faeser. “La propaganda diffusa attraverso i social network funge da motore chiave della radicalizzazione, prendendo sempre più di mira i giovani e persino i bambini.”

Le manifestazioni berlinesi del BDS
   Secondo quanto riportato dal quotidiano tedesco BILD, le manifestazioni che hanno generato più scalpore nell’ultimo anno a Berlino rientrano un sit-in di protesta alla stazione centrale della città, un blocco stradale e l’occupazione dell’università FU.
40 persone hanno guidato quest’ultima protesta e, sebbene sia stata velocemente sedata grazie all’intervento tempestivo delle forze dell’ordine, i manifestanti sono riusciti a distruggere mobili, computer e altre proprietà dell’università, spruzzando slogan pro-Hamas sulle scale e sulla facciata dell’ufficio del preside.
“I dipendenti che si trovavano nell’edificio sono stati minacciati fisicamente e psicologicamente da coloro che sono entrati” ha dichiarato Henry Marx, segretario di Stato berlinese per l’istruzione superiore e la ricerca. “Gli occupanti mascherati e armati di asce, seghe, piedi di porco e mazze, hanno cercato di allontanare con la forza i dipendenti dai loro uffici”.
Nelle settimane seguenti alcuni di questi manifestanti sono stati individuati e schedati, portando le autorità tedesche ad emettere ordini di espulsione nei confronti di due cittadini irlandesi, uno polacco e uno statunitense residenti a Berlino, per la loro partecipazione a queste ed altre proteste anti-Israele e pro-Hamas.
“Questi individui rappresentano una minaccia all’ordine pubblico” ha affermato Faeser. “Dobbiamo fermare il prima possibile la spirale di escalation in Medio Oriente poiché porta ad un odio ancora più disgustoso nei confronti degli ebrei del nostro Paese.”
La Germania non è l’unica nazione ad aver agito contro il BDS. Come affermato dalla Jewish Virtual Library, Spagna, Canada e Paesi Bassi sono, infatti, tra i Paesi che hanno approvato leggi anti-BDS e ad oggi hanno adottato decreti esecutivi o risoluzioni volte a scoraggiare il boicottaggio contro Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 27 maggio 2025)

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Tensioni diplomatiche tra Israele e l’Occidente: Netanyahu accusa i leader di incoraggiare Hamas

Netanyahu accusa i leader di Regno Unito, Francia e Canada di sostenere Hamas dopo le critiche all'offensiva militare israeliana e le richieste di cessate il fuoco

di Leonardo Costin

Le tensioni diplomatiche tra Israele e alcuni storici alleati occidentali hanno raggiunto un nuovo punto critico. A riportare la notizia è il The Guardian. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha apertamente accusato Keir Starmer, Emmanuel Macron e Mark Carney – rispettivamente leader di Regno Unito, Francia e Canada – di “incoraggiare Hamas” per aver chiesto un cessate il fuoco immediato a Gaza e la rimozione delle restrizioni agli aiuti umanitari.
In un video pubblicato giovedì sera su X, Netanyahu ha espresso il suo sdegno per le pressioni internazionali, affermando che Hamas mira alla distruzione dello Stato ebraico e che le richieste occidentali di una tregua non farebbero altro che rafforzare il gruppo islamista.
Londra, Parigi e Ottawa hanno criticato con forza l’operato di Israele a Gaza, definendolo “atroce” e minacciando azioni concrete nel caso non venga cambiata rotta. Il Regno Unito ha già sospeso i negoziati per un nuovo accordo di libero scambio e ha imposto sanzioni ad alcuni coloni israeliani, in risposta a retoriche definite “mostruose” da parte di ministri israeliani, che hanno invocato la “pulizia” di Gaza.
Il contesto è ulteriormente aggravato dall’uccisione di due diplomatici israeliani a Washington DC, evento che Netanyahu ha citato per sottolineare i pericoli a cui Israele è sottoposto. L’attacco, definito “antisemita” da Starmer, ha suscitato reazioni di solidarietà da parte dei governi occidentali, ma non ha smorzato le critiche verso la condotta militare israeliana.
Il ministro delle Forze Armate britannico, Luke Pollard, ha ribadito venerdì la posizione del Regno Unito: piena condanna degli attacchi contro Israele, ma anche la necessità urgente di un cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi da parte di Hamas e l’accesso immediato agli aiuti umanitari per la popolazione civile di Gaza. «È l’unico modo per garantire un futuro sicuro sia agli israeliani che ai palestinesi», ha affermato Pollard, sottolineando il rispetto per il diritto di Israele all’autodifesa, ma nel pieno rispetto del diritto internazionale umanitario.
Il confronto tra Israele e i suoi alleati sembra destinato a protrarsi, con posizioni sempre più inconciliabili tra chi invoca una risposta militare dura al terrorismo e chi chiede il rispetto dei diritti umani e un’immediata soluzione diplomatica per fermare la crisi umanitaria in corso a Gaza.

(atuttomondo, 27 maggio 2025)

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Israele festeggia 58 anni di Gerusalemme unita

Cerimonie commemorative e sfilate con bandiere ricordano la liberazione di Gerusalemme, della Giudea e della Samaria nella Guerra dei Sei Giorni del 1967.

Una gigantesca bandiera nazionale israeliana viene issata alla vigilia della Giornata di Gerusalemme, il 25 maggio 2025.
GERUSALEMME - Oggi, lunedì 26 maggio 2025, Israele celebra il 58° anniversario della riunificazione di Gerusalemme e della liberazione della Giudea e della Samaria nella Guerra dei Sei Giorni. Il Jerusalem Day (Yom Yerushalayim) è tradizionalmente celebrato il 28 Iyar del calendario ebraico, in ricordo del ritorno del popolo ebraico ai suoi luoghi più sacri dopo quasi 2000 anni.
I festeggiamenti sono iniziati già la sera prima con una preghiera pubblica al Muro del Pianto e lo srotolamento solenne di un'enorme bandiera israeliana nella città vecchia. La mattina è seguita una preghiera speciale nelle sinagoghe di tutto il Paese. Il programma prevedeva anche una trasmissione televisiva nazionale per gli alunni delle scuole elementari.
Il momento clou della giornata è la tradizionale marcia delle bandiere (Rikudgalim), durante la quale decine di migliaia di giovani e famiglie sfilano per il centro di Gerusalemme, dalla Grande Sinagoga alla Porta di Damasco fino al Muro del Pianto. Nonostante la guerra in corso con Hamas, anche quest'anno le autorità hanno dato il via libera alla parata. Per garantire la sicurezza sono stati dispiegati migliaia di poliziotti.
Due cerimonie ufficiali si terranno inoltre al Cimitero Nazionale di Gerusalemme sul Monte Herzl:

  • alle 11:00 si commemoreranno gli ebrei etiopi morti durante il viaggio verso Israele.
  • Alle 14:00 seguirà la cerimonia in memoria dei caduti della Guerra dei Sei Giorni e della guerra dell'Attrito (1967-1970).

In un videomessaggio, l'ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, ha reso omaggio alla Giornata di Gerusalemme. Ha sottolineato il profondo legame tra il popolo ebraico e la sua capitale, che si estende su oltre 3.500 anni di storia. Huckabee ha ricordato la decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale eterna di Israele e di trasferirvi l'ambasciata degli Stati Uniti.
“La vostra lotta è la nostra lotta. I vostri nemici sono i nostri nemici. La vittoria di Israele è la nostra vittoria e insieme vinceremo e pregheremo per la pace di Gerusalemme”, ha affermato Huckabee.

Contesto: storia e significato della Giornata di Gerusalemme
   La Giornata di Gerusalemme è stata celebrata ufficialmente per la prima volta nel 1968, un anno dopo la Guerra dei Sei Giorni. Nel 1998 la Knesset l'ha dichiarata festa nazionale con una legge. I due rabbini capo di Israele le hanno inoltre conferito lo status di giorno commemorativo religioso, come espressione di gratitudine per la storica vittoria e la realizzazione del sogno secolare degli ebrei di tornare a Gerusalemme.
In molte sinagoghe, in questo giorno si recita la preghiera dell'Hallel, in parte con benedizione, in parte senza, a seconda della tradizione. I sionisti particolarmente religiosi celebrano questo giorno con grande gioia, mentre i gruppi ultraortodossi spesso non lo festeggiano.

Gerusalemme oggi: popolazione e crescita
   Con circa 1.046.300 abitanti, Gerusalemme è la città più grande di Israele. Circa il 60,5% della popolazione è ebrea e il 39,5% è araba. Quasi un terzo della popolazione totale appartiene alla comunità ebraica ultraortodossa.
Secondo l'ultimo rapporto dell'Ufficio centrale di statistica israeliano (Central Bureau of Statistics, CBS), pubblicato in occasione della Giornata di Gerusalemme, nel 2024 la città è cresciuta di circa 17.900 persone, principalmente grazie al tasso di natalità naturale. Tuttavia, il numero di persone che hanno lasciato Gerusalemme è stato superiore a quello dei nuovi arrivati: la città ha registrato un saldo migratorio interno negativo di circa 7.800 persone.

Tra celebrazioni e realtà politica
   La marcia delle bandiere è considerata il simbolo centrale della riunificazione di Gerusalemme, ma il suo percorso attraverso la Porta di Damasco e i quartieri adiacenti continua ad attirare l'attenzione internazionale. Mentre molti israeliani celebrano questa giornata come espressione di unità nazionale, altri la percepiscono come politicamente controversa. Anche quest'anno le autorità si stanno adoperando per garantire la sicurezza di tutti i partecipanti.
Quest'anno il 28 Iyar cade il 26 maggio, sei settimane dopo il Seder di Pesach e una settimana prima di Shavuot.

(Israel Heute, 26 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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I palestinesi hanno rifiutato più volte la creazione uno Stato tutto per loro

di Rodolfo Belcastro

Nel vortice di accuse, appelli internazionali e narrazioni spesso parziali che dominano il discorso sulla questione israelo-palestinese, esiste una costante: l’idea secondo cui la pace in Medio Oriente sarebbe possibile se solo Israele accettasse di creare uno Stato palestinese. È un presupposto ricorrente nei corridoi diplomatici, nei media e nelle aule universitarie occidentali. Ma è anche una narrazione che resiste alla realtà dei fatti.
Quello che molti ignorano, o scelgono di ignorare, è che Israele ha già offerto uno Stato ai palestinesi almeno cinque volte nel corso del Novecento e dei primi anni Duemila, e ogni volta si è scontrato con un rifiuto. Non un rifiuto negoziale, ma un rifiuto esistenziale: il rigetto stesso dell’idea di uno Stato ebraico.
Tutto comincia con la Commissione Peel, istituita dal governo britannico per indagare sulle tensioni tra arabi ed ebrei nella Palestina mandataria. La soluzione proposta fu pionieristica: la creazione di due Stati, uno arabo e uno ebraico. Agli arabi veniva destinato l’ottanta per cento del territorio, agli ebrei un’esigua striscia di terra. I sionisti accettarono, pur tra mille perplessità. Gli arabi respinsero la proposta e ripresero la rivolta.
Dieci anni dopo, la Risoluzione 181 dell’Onu ribadiva l’idea della doppia sovranità: uno Stato arabo e uno ebraico. Ancora una volta gli ebrei dissero sì, mentre gli arabi risposero con la guerra. Le truppe di cinque nazioni arabe (Egitto, Siria, Libano, Transgiordania e Iraq) invasero Israele il giorno dopo la sua nascita ufficiale, il 15 maggio 1948. L’intento era chiaro: cancellare il neonato Stato ebraico dalla mappa.
Dopo la Guerra dei Sei Giorni, in cui Israele prese il controllo di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, il governo israeliano discusse internamente se restituire i territori in cambio della pace. Ma la risposta arrivò chiara dal vertice della Lega Araba a Khartoum: «No alla pace, no al riconoscimento, no ai negoziati». Israele restituì comunque il Sinai all’Egitto dieci anni dopo, nel quadro degli Accordi di Camp David del 1978. Ma con i palestinesi, ogni apertura fu ignorata o boicottata.
Nel luglio del 2000, sotto l’egida del presidente americano Bill Clinton, il premier israeliano Ehud Barak offrì a Yasser Arafat uno Stato palestinese su oltre il novantaquattro per cento della Cisgiordania, tutta Gaza, e con capitale a Gerusalemme Est. Mai prima di allora un’offerta era stata così ampia. Clinton stesso, alla fine del summit, disse: «Arafat è venuto qui per dire no a tutto». Non solo Arafat rifiutò: al suo rientro scoppiò la seconda Intifada, con una feroce ondata di attentati suicidi nelle strade di Israele.
Nel 2008 fu Ehud Olmert a rilanciare. La sua proposta andava ancora oltre quella di Barak: scambi di territorio per compensare gli insediamenti, controllo congiunto sui luoghi sacri di Gerusalemme, ritorno parziale dei rifugiati palestinesi. Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas non rispose mai ufficialmente. Ancora una volta, un’occasione perduta.
Nel frattempo, nel 2005, Israele attuò il ritiro unilaterale da Gaza, smantellando ventuno insediamenti e dislocando oltre novemila coloni israeliani. In cambio della rinuncia totale al territorio, non ricevette pace, ma missili. Gaza fu conquistata da Hamas, che trasformò la Striscia in una base di lancio terroristica. Gli investimenti in infrastrutture si trasformarono in tunnel per il contrabbando e l’attacco. L’opportunità di dimostrare che uno Stato palestinese sarebbe stato possibile fu sprecata dalle stesse autorità palestinesi.
Una domanda che resta sospesa: oggi, come nel 1937, nel 1947, nel 1967, nel 2000 e nel 2008, la questione non è territoriale, ma identitaria. Israele è disposto a condividere la terra. I vertici palestinesi sono disposti a condividere l’esistenza?
Lo storico David Brog osserva: «Ogni volta che Israele ha detto sì a uno Stato palestinese, i palestinesi hanno risposto con un no. A volte accompagnato da bombe». Se davvero si vuole la pace, è tempo di invertire la narrazione: non si deve chiedere a Israele nuove concessioni, ma ai palestinesi un primo, storico “sì” alla convivenza.
Israele è una democrazia, uno Stato di diritto, e l’unico Paese del Medio Oriente dove cristiani, musulmani, ebrei e drusi convivono sotto la stessa legge. È lo Stato nazionale del popolo ebraico, e il solo Stato ebraico al mondo. Riconoscerne l’esistenza non è una concessione politica: è un atto minimo di giustizia storica.
In un’epoca in cui l’antisemitismo torna a minacciare le democrazie, il dovere dell’informazione non è quello di appiattirsi sull’opinione dominante, ma di restituire complessità. E una verità spesso scomoda: la pace non si costruisce su slogan, ma su verità e responsabilità reciproche.

(LINKIESTA, 26 maggio 2025)
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Ottimo articolo, sintetico e chiaro. Ne proponiamo la diffusione in formato PDF.

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Greenblatt (ADL): “L’omicidio al Museo ebraico di Washington? Era solo questione di tempo”

Sul Time il presidente dell’Anti Defamation League ha pubblicato un articolo pieno di dolore e accuse alla società americana per l’aumento dell’antisemitismo. E accusa: «Dove sono le voci di coloro che affermano di combattere l’odio in tutte le sue forme? Dove sono coloro che parlano contro altri bigottismi ma rimangono in silenzio quando gli ebrei sono presi di mira? Questo silenzio è assordante».

di Ilaria Myr

«I segnali d’allarme erano ovunque. Il potenziale di violenza era inequivocabile. Eppure, in qualche modo, due giovani innocenti sono morti». Inizia così l’articolo scritto da Jonathan Greenblatt, presidente dell’Anti Defamation League venerdì 23 maggio sul Time, dopo l‘uccisione di Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, una giovane coppia che lavorava all’ambasciata israeliana, uccisi mentre uscivano da un evento per giovani diplomatici organizzato dall’American Jewish Committee al Capital Jewish Museum mercoledì sera. Il colpevole, Elias Rodiguez, li ha uccisi al grido di “Palestina libera”.
«È un canto che abbiamo sentito più volte in America negli ultimi 18 mesi. Non solo in occasione di eventi politici, ma anche davanti a sinagoghe, scuole, ospedali e istituzioni culturali che hanno una sola cosa in comune: sono legate alla comunità ebraica – continua Greenblatt -.  Non sorprende quindi che il sospetto fosse presumibilmente coinvolto in una serie di cause radicali; i ricercatori dell’Anti-Defamation League (ADL) hanno collegato Rodriguez, residente a Chicago, con un alto grado di certezza, a un manifesto con il titolo “Escalate For Gaza, Bring The War Home”. Questo conferma ciò che sospettavamo. Non si trattava di violenza casuale. Si trattava di antisemitismo mirato. Si è trattato di un attacco, non solo contro la comunità ebraica di Washington, ma contro tutti gli ebrei americani, anzi contro tutti gli americani. Ciò che è così esasperante e triste è che, per molti versi, era solo questione di tempo che si verificasse un episodio omicida come questo».
I dati parlano chiaro: nel 2024 l’ADL aveva registrato 9.354 incidenti antisemiti in tutti gli Stati Uniti, con un aumento del 5% rispetto al 2023, a sua volta un anno record. Questo include un aumento del 21% delle aggressioni violente. Ciò rappresenta un aumento dell’893% nell’ultimo decennio.
Ma l’omicidio dei due ragazzi a Washington è solo l’ultimo di una serie di gravi atti antisemiti. Dopo il primo Seder di Pesach la casa del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro era stata incendiata mentre la sua famiglia dormiva da un uomo che aveva definito Shapiro un “mostro” e incolpandolo della morte dei palestinesi nella guerra tra Israele e Hamas. Il presunto colpevole avrebbe poi ammesso alle autorità di provare “odio” per Shapiro e che lo avrebbe attaccato con il suo martello se ne avesse avuto l’occasione.
Greenblatt ricorda che l’FBI ha arrestato Forrest Pemberton di Gainesville, in Florida, in seguito a un blocco del traffico durante il quale sarebbero state trovate diverse armi da fuoco nel suo veicolo rideshare. Secondo le autorità, l’uomo intendeva recarsi presso gli uffici dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), un gruppo di difesa pro-Israele, nel sud della Florida, con l’intento di fare del male alle persone, forse con un attacco suicida. Non solo. Nella stessa settimana, gli agenti dell’FBI di Fairfax (Va) hanno arrestato un cittadino egiziano e studente della George Mason University, Abdullah Ezzeldin Taha Mohamed Hassan. Secondo la denuncia penale, Hassan gestiva diversi account pro-ISIS e Al Qaeda che promuovevano la violenza contro gli ebrei. Secondo quanto riferito, stava pianificando un attacco con vittime di massa al consolato israeliano di New York.
«Non passa giorno in cui non si assista a un atto terrificante. Bambini ebrei vittime di bullismo negli spazi pubblici. Studenti ebrei affrontati nei campus universitari. Ebrei molestati mentre si recano alla sinagoga. Aziende e case ebraiche vandalizzate con triangoli rossi, svastiche o slogan politici. O gli ebrei assaliti e derisi sui social media con fervore implacabile. Abbiamo una crisi di antisemitismo in questo Paese. Questo antico odio cova da entrambe le parti dello spettro politico. È incubato e cresciuto nei pozzi neri dei social media. È alimentato da persone che giustificano l’antisemitismo come semplice “antisionismo”, che liquidano la nostra indignazione come un tentativo di servire un’altra agenda e che si contorcono su se stessi rivendicando il diritto alla libertà di parola, anche quando questa parola sconfina nell’incitamento alla violenza, nell’antisemitismo e nelle molestie. E ha delle conseguenze. Quando la retorica antisemita viene normalizzata, tollerata o amplificata nel nostro discorso pubblico, si crea un ambiente in cui la violenza contro gli ebrei diventa non solo probabile ma inevitabile. Quando la società permette che le menzogne sullo Stato ebraico che commette un genocidio dilaghino, quando voci di spicco liquidano la retorica incitante come “gloria ai martiri” o “globalizzare l’Intifada” come libera espressione giovanile, e quando l’opinione pubblica confonde in qualche modo l’essere anti-Hamas con l’essere anti-palestinese, questo ha delle conseguenze».
Anche le piattaforme dei social media meritano un maggiore controllo, precisa Greenblatt. All’indomani del tentato pogrom contro i tifosi sportivi ebrei ad Amsterdam, lo scorso novembre, Hasan Piker, uno degli streamer più seguiti su Twitch, ha passato ore a minimizzare l’attacco. All’inizio del mese, il rapper Kanye ‘Ye’ West ha trasmesso in streaming una nuova canzone intitolata “Heil Hitler” e l’ha promossa su X, dove ha accumulato milioni di visualizzazioni.
Da qui l’appello accorato di Greenblatt. «In tempi come questi, abbiamo bisogno di alleati che stiano dalla parte della comunità ebraica. Dove sono le voci di coloro che affermano di combattere l’odio in tutte le sue forme? Dove sono coloro che parlano contro altri bigottismi ma rimangono in silenzio quando gli ebrei sono presi di mira? Questo silenzio è assordante. Smettete di scusarlo. Smettete di voltarvi dall’altra parte. Questo attacco deve servire da campanello d’allarme per la nostra nazione per affrontare una volta per tutte questa marea crescente di odio. (…) Il momento di agire è adesso. La posta in gioco non potrebbe essere più alta».

(Bet Magazine Mosaico, 26 maggio 2025)

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Battaglia per la verità: intervista a Fiamma Nirenstein

di Niram Ferretti

- Credo che sia inevitabile cominciare questa intervista facendo riferimento all’uccisione dei due giovani funzionari dell’ambasciata israeliana avvenuta a Washington e assassinati da un estremista di sinistra che prima di ucciderli ha urlato, “free Palestine”, e dopo averli uccisi, “l’ho fatto per Gaza”. Cosa hai da dire in merito?
  Innanzitutto voglio dire che mi ha molto impressionato il modo in cui lui ha gridato “free palestine”, perché era un modo professionale, esattamente come lo si scandisce nelle manifestazioni. L’omicida è un giovane bianco di origini ispaniche o latinoamericane, proveniente da Chicago che, come si sa, ha un passato e un presente nei movimenti woke e di ispirazione marxista. Ha sparato sulle sue vittime in quanto ebrei, perché non credo che sapesse chi fossero, si trattava infatti di due funzionari subalterni che non avevano un ruolo di rilievo all’interno dell’ambasciata. Il contesto dell’attentato era quello di un evento al Museo ebraico di Washington. Ormai ci sono degli eserciti che dentro lo slogan “free palestine” mettono dei contenuti molto ben definiti e che si definiscono ogni giorno di più. Si tratta di eserciti le cui parole d’ordine radicali prendono corpo nelle grandi istituzioni che dovrebbero essere a tutela dei diritti umani, come l’ONU per esempio e dove la criminalizzazione costante di Israele conduce inevitabilmente all’antisemitismo. Quando si inizia a dire che gli ebrei uccidono i bambini, li uccidono con gusto, praticano il genocidio, come si fa a meravigliarsi se poi aumenta l’antisemitismo e se si giunge a un episodio estremo come quello avvenuto a Washington?  Aggiungo che “Free Palestine” significa di fatto “destroy Israel”, non ha altro significato se non questo. Quando poi si specifica, “from the river to the sea”, ovvero dal Giordano al Mediterraneo, il senso dello slogan si chiarisce inequivocabilmente.

- Si tratta di uno slogan programmaticamente genocida.
  Assolutamente, come, nelle sue intenzioni è stato programmaticamente genocida il 7 ottobre. Per altro va sottolineato che proprio ieri uno dei leader superstiti di Hamas, essendo stati sostanzialmente decimati, ha dichiarato che dobbiamo avere ben chiaro che i jihadisti di Hamas uccisi dall’IDF verranno rimpiazzati dai 25 mila bambini che le donne di Gaza hanno messo al mondo durante il periodo della guerra, smentendo oltretutto con questa dichiarazione la tesi assurda che a Gaza sia in corso un genocidio. In altre parole, ci ha informato che sono già pronte nuove leve per rimpolpare la macchina omicida di Hamas. Non solo, ha evidenziato come tutto ciò vada inteso come esempio per tutto il mondo islamico nel suo insieme, per l’Umma.

- Da attenta osservatrice e studiosa del fenomeno dell’antisemitismo, ti aspettavi una recrudescenza così grande come quella a cui stiamo assistendo o sei meravigliata?
  Come sai, ho scritto diversi libri su questo argomento. Ho cominciato vent’anni fa a occuparmi del fenomeno, e credo di essere stata la prima ad usare il termine “israelofobia”. Mi sembrava cioè evidente che l’odio per gli ebrei venisse rivestito con una nuova veste. Il fatto che l’antisemitismo stesse diventando soprattutto odio per Israele è stata la cosa più difficile da fare accettare, anche per chi si occupa professionalmente di questi temi. La difficoltà di recepire questa nuova forma di antisemitismo sta nel fatto che viene mascherata come critica legittima allo Stato ebraico. Devo dire che per smascherarla ha aiutato molto Natan Sharansky con le categorie da lui introdotte delle tre d, ovvero la delegittimazione, la demonizzazione e il doppio standard. Quando ci troviamo al cospetto di una di queste tre categorie, di due o di una sola, non si tratta più di critica legittima, ma di antisemitismo. Si, che quello a cui stiamo assistendo potesse accadere me lo aspettavo perché sapevo che si può odiare lo Stato di Israele, invece non mi aspettavo la nazificazione di Israele e la conseguente vittimizzazione dei palestinesi su una scala così ampia anche se si tratta di una costruzione ideologica già in corso almeno dalla fine degli anni ’60 originata dall’Unione Sovietica e che ha avuto come cinghia di trasmissione anche quella delle socialdemocrazie europee.

- A proposito della nazificazione di Israele non dimentichiamo che già nel 2002 Jose Saramago, autore di un feroce articolo contro Israele intriso di stereotipi antisemiti, paragonò la condizione dei palestinesi in Cisgiordania ad Auschwitz.
  Certo, il terreno era già stato preparato, ma che si arrivasse al punto di immaginare che l’esercito israeliano, unico esercito del mondo che fa spostare la popolazione civile in un teatro di guerra e si occupa di fornire gli aiuti umanitari, nonostante il saccheggio sistematico di Hamas, sia composto da assassini sadici di bambini, questo va oltre ciò che potevo prevedere. Si tratta di un rovesciamento totale della verità, organizzato e foraggiato sistematicamente.

- Personalmente ritengo che riguardo alla propaganda contro Israele ci troviamo di fronte alla più grande e oliata macchina di inversione della verità dal dopoguerra ai giorni nostri. Non mi viene in mente niente di così pervasivo, isterico, sistematico, ossessivo.
  Sì, ci troviamo di fronte a una grande forza di trasformazione e contagio delle menti. Su questo non ci sono dubbi. Fu Ben Gurion a dire che quando ci si trova al cospetto di una Shoah c’è subito chi pensa di poterne fare un’altra. Oggi ci troviamo in questo scenario, anche se Israele non soccombe ma combatte, resiste nonostante il vituperio internazionale per altro aiutato anche da personaggi nostrani come Yair Golan, Ehud Olmert, Ehud Barak e altri, che pur di attaccare Netanyahu sono disposti a fornire argomenti ai nemici di Israele.

- A proposito di odio, tu sei stata oggetto recentemente di un violento attacco antisemita da parte di un impiegato della regione toscana, Giuseppe Flavio Pagano che ti ha definita “demone” e “verme nazista”. Come lo hai vissuto?
  Premetto che è dal 2001, dall’inizio della seconda intifada, che quando vengo in Italia non posso muovermi senza la scorta a causa del numero elevato di minacce ricevute all’epoca per il mio lavoro di documentazione sul terrorismo palestinese. La minaccia è lo strumento preferito di questa galassia. L’attacco di cui parli è particolarmente disgustoso nell’uso delle parole impiegate, che hanno qualcosa di appiccicoso e di bigotto, però non sono intimidita o spaventata, ci sono abituata. Interpreto questo episodio come la forma di persecuzione che deve subire un ebreo nel nostro tempo, con la differenza che oggi, rispetto al passato, abbiamo a disposizioni strumenti che prima non erano presenti, come la tutela legale. Naturalmente poi c’è la possibilità di intervenire negli spazi pubblici, fare sentire la propria voce anche se, rispetto a quella che prende le parti del palestinismo, la nostra è sicuramente una voce minoritaria, ciò nonostante non bisogna scoraggiarsi ma continuare a combattere contro le menzogne. Credo che essere ebrei oggi significhi partecipare a una grande battaglia per la verità e per la sopravvivenza.

- Nel tuo ultimo libro scritto con Nicoletta Tiliacos, La guerra antisemita contro l’Occidente già il titolo si riferisce a come l’antisemitismo sia un attacco all’Occidente e ai valori che esso incarna, che porta iscritti nel suo dna, vorresti sinteticamente darne qualche accenno?
  Guarda, più sinteticamente di così non saprei farlo. Dirò però questo, l’altro giorno davanti a Montecitorio c’è stata una manifestazione propal da parte di ragazzi e ragazze che appartengono alla galassia lgbt, e penso al destino che avrebbero se fossero a Gaza o in Iran che sponsorizza Hamas da anni. Questo piccolo episodio è emblematico di come l’antisemitismo e l’odio per Israele che ne è un proseguimento, sia una spada puntata contro i valori stessi dell’Occidente. Detto questo, allargando la visuale va detto che chi si schiera contro Israele lo fa a vantaggio di chi potendo farlo li impiccherebbe alle gru a Teheran o gli sparerebbe in testa a Gaza, e in linea con lo svuotamento di senso di istituzioni come l’ONU che sulla carta dovrebbero difendere i diritti umani e che è invece diventato, dal 1967 in poi, una fucina di risoluzioni anti israeliane che si producono una dopo l’altra mentre si seguita a non sanzionare mai la Cina, la Turchia o il Marocco per le loro violazioni flagranti del diritto internazionale, non la presunta e fasulla violazione di Israele in merito ai territori della Cisgiordania. Per non parlare della negazione dei diritti umani violati degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas, per i quali nessuna delegazione dell’ONU o della UE ha mai interpellato Hamas per liberarli, limitandosi a dichiarazioni formali di pura circostanza. Anche la Croce Rossa se ne è disinteressata fino a quando è stata costretta a farlo. Persino sui piccoli bambini Bibas non si è detto quasi nulla, e questo perché erano bambini ebrei e non palestinesi. È spaventoso.

- Come finirà a Gaza?
  Io mi fido dell’esercito e del suo programma. Non mi fido del contesto internazionale. Penso che si sia sulla strada giusta. Si sta cercando soprattutto di separare la popolazione civile dal contesto terroristico che se ne fa scudo, spostandola fisicamente in zone dove possa essere maggiormente salvaguardata. Questo dovrebbe aiutarci nel riuscire a riavere indietro gli ostaggi che, a me pare una cosa fondamentale, e quindi di battere Hamas. Hamas deve essere disarmato e rinunciare al dominio su Gaza. È un programma semplice e chiaro, ovviamente non facilmente attuabile. Attualmente dentro Gaza abbiamo sei divisioni operative. Fino a quando Hamas resterà a Gaza si concimeranno solo guerre future e nuovi 7 ottobre. Io mi fido in quanto abbiamo ottenuto risultati clamorosi. Ci dicevano tutti che combattere Hamas era un conto ma con Hezbollah la storia sarebbe stata assai diversa. Non solo Hezbollah è stato fortemente lesionato come mai prima ma si è riusciti a eliminare Nasrallah. Veniva pronosticato uno scenario apocalittico che non si è verificato. L’area in cui stiamo operando non è più quella di prima. Stiamo ancora combattendo a Gaza, che è un territorio molto difficile e Hamas è un nemico diabolico, che ha saputo strumentalizzare al massimo la sofferenza della sua popolazione per aizzare l’opinione pubblica contro Israele.

(L'informale, 25 maggio 2025)

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La settimana di Israele: i due volti della guerra

di Ugo Volli

Le ragioni della durata
  La settimana scorsa, come e più di quelle precedenti, è stata segnata da un doppio volto: quello della guerra sul campo, che Israele combatte ormai da oltre un anno e mezzo, e quelle della guerra mediatica e giudiziaria contro gli ebrei e il loro Stato, che precede di gran lunga il 7 ottobre 2023 ma si è acutizzata di nuovo in questo periodo. Sul primo piano la guerra è lenta e complessa, anche perché gestita da una “testa della piovra” che agisce da lontano ed è difficile colpire (l’Iran) ed è stata messa in atto dai suoi satelliti a Gaza, in Libano, in Siria, in Iraq, in Yemen, in Giudea e Samaria. Questi gruppi non manovrano come eserciti classici, anche se sono armati, addestrati e finanziati come tali e se talvolta gestiscono un territorio che per certi versi somiglia a uno stato. Ma essi applicano sistematicamente la strategia della guerriglia urbana, nascondendosi dietro ai civili e alle istituzioni che dovrebbero tutelarli (scuole, moschee, soprattutto ospedali) e usando le tecniche moderne (soprattutto quelle missilistiche) per tentare di colpire la popolazione civile e quella della guerra psicologica e comunicativa per indebolire lo Stato ebraico. A causa di queste tattiche la guerra non si può risolvere con una battaglia campale e anche l’eliminazione di un numero notevole di capi e truppe non basta a risolverla, almeno a Gaza, perché bisogna prendere atto che essi trovano facilmente nuove reclute in una popolazione fanatizzata.

Buoni risultati militari
  Sul piano militare l’ultimo periodo è positivo per Israele. Si è confermata la scelta delle autorità libanesi di non consentire a Hezbollah di trascinare ancora il paese in guerra ed Israele ha potuto eliminare senza problemi alcuni loro comandanti e depositi di armi. In Siria sembra confermata la decisione del regime di Al Jolani di non provocare Israele, rinunciando allo sterminio dei drusi che sembrava preparare e non osteggiando i presidi dell’esercito israeliano fra il Golan e l’Hermon. L’accordo con Trump per l’annullamento delle sanzioni americane è condizionato infatti al comportamento non aggressivo della Siria e in prospettiva prevede l’adesione agli accordi di Abramo. Israele ha stretto con la Turchia, che è il padrino di Al Jolani, un patto di consultazione telefonica per evitare scontri involontari, che in sostanza sancisce il carattere demilitarizzato delle regioni siriane al confine con Israele, rendendo improbabile per il momento ogni aggressione da quel lato. Gli Houthi continuano a sparare periodicamente missili contro località civili israeliane, ma sono stati duramente colpiti e probabilmente lo saranno di nuovo, sicché la loro minaccia è ridimensionata. Resta l’Iran, su cui Israele attende il probabile fallimento delle trattativa con gli Usa per cercare di distruggerne la minaccia nucleare. E resta naturalmente Gaza. Dopo il fallimento delle trattative dovuto al rifiuto di Hamas delle condizioni americane per por fine alla guerra (disarmo e smantellamento delle forze terroriste, liberazione di tutti i rapiti) la pressione israeliana aumenta e ormai ci sono cinque divisioni (parecchie decine di migliaia di soldati) che stanno entrando in tutta la Striscia, mentre si perfeziona l’allestimento patrocinato dagli Usa di aree sicure e sistemi di rifornimenti della popolazione civile che non siano appropriati da Hamas come in precedenza. In sostanza, è in vista la distruzione vera della minaccia militare di Hamas.

L’incitamento all’odio
  Proprio questi due sviluppi positivi (disarmo forzato dell’Iran e sconfitta definitiva di Hamas) hanno scatenato la macchina dell’odio in Occidente, ormai sempre più consapevolmente non diretta a una generica solidarietà con le sofferenze della popolazione di Gaza, ma al sostegno del terrorismo di Hamas, alla volontà di distruzione di Israele e direttamente all’antisemitismo. Se restava un dubbio sulla buona fede di chi manifestava o faceva dichiarazioni “per la pace” a Gaza, ormai la malafede è diventata evidenza. Vi è uno schieramento chiaramente anti-israeliano e sempre più scopertamente antisemita che va dagli estremisti dei centri sociali e dei gruppi islamisti ai sindacati e ai partiti della sinistra, fino ai governi che intendono premiare il terrorismo riconoscendo “lo Stato di Palestina” (si sono pronunciati così Francia, Gran Bretagna, Canada dopo Belgio, Irlanda, Spagna ecc.) e che vorrebbero rivedere gli accordi economici europei con Israele, realizzando un boicottaggio statale (hanno votato in questo senso 15 dei 27 paesi dell’UE).

L’antisemitismo in azione
  E per questi attori istituzionali sembra non contare il fatto che sempre più frequentemente emerga il carattere criminale e terrorista della “lotta” contro Israele, come mostra anche l’orribile omicidio di due funzionari dell’ambasciata israeliana di Washington, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, ma anche una miriade di episodi meno sanguinosi, boicottaggi, minacce, violenze fisiche, danneggiamenti, scritte d’odio, che ricordano il clima di epoche buie. Il giornalismo, i media e la politica ci mettono la loro parte, incitando all’odio di Israele e tentando di ricattare gli ebrei, condizionando il loro diritto di parola e perfino di esistenza all’adesione alla campagna d’odio. Comunissimo è l’uso di menzogne costruite per indebolire l’autodifesa di Israele e la solidarietà internazionale e la simpatia popolare che nonostante tutto la circonda: dalla diffamazione personale di Netanyahu (“pazzo criminale” secondo Conte) alla riproposizione della calunnia del sangue nei confronti dei soldati, dall’invenzione di fake news (la più frequente nella settimana scorsa è quella che inventava ogni giorno una frattura fra Usa e Israele) ai vecchi insulti di stile nazista. Qualcuna di queste menzogne emerge e porta conseguenze, com’è stato il caso, questa settimana, della sospensione dalla funzione del procuratore della corte internazionale dell’Aya, Karim Khan, che sembra avesse promosso il mandato di cattura contro Netanyahu per coprirsi dall’indagine per abusi sessuali ai danni delle sue collaboratrici. Ma la ripetizione continua e non prende atto delle smentite fattuali. A tutta questa offensiva di comunicazione è necessario resistere, spiegando il buon diritto all’autodifesa di Israele e i suoi grandi sforzi per condurre questa guerra non voluta nella maniera più umana possibile. E alla fine sarà la vittoria di Israele a modificare il panorama politico del Medio Oriente, travolgendo i terroristi e i loro sostenitori, anche in Occidente.

(Shalom, 25 maggio 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 3

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

L’agire di Dio
  Si dice talvolta che nell’evangelizzazione il credente deve saper esporre “il piano della salvezza”, dove con ciò s’intende la presentazione di quello che Dio ha fatto in Gesù Cristo per offrire all’uomo il perdono dei peccati, e il successivo invito ad accettare tale offerta e ottenere così una sicura salvezza eterna. Un annuncio del Vangelo presentato in questo modo è stato decisivo in molti casi per portare qualcuno alla conversione, ma è chiaro che non esprime “tutto il consiglio di Dio” (Atti 20:27).
  Una chiave di lettura fondamentale dell’approccio olistico alla Bibbia che si vorrebbe fare in questo studio può essere espresso con una semplice formulazione: il personaggio principale della Bibbia è Dio. E’ da Lui che si deve sempre cominciare. Ovvio? Banale? Se ne riparlerà nel seguito, ma un primo accenno si può fare accostando i termini salvezza e consiglio usati poco sopra: la salvezza di cui si parla si riferisce all’uomo, mentre il consiglio si riferisce a Dio. Che cosa viene prima? la salvezza o il consiglio?
  Per fare un veloce sguardo sul messaggio biblico nella sua totalità, si possono leggere i primi due capitoli della Bibbia (Genesi 1-2) e saltare subito dopo agli ultimi due (Apocalisse 21-22), e chiedersi: che cosa è avvenuto tra l’inizio e la fine di questo racconto? In entrambi i casi si parla di Dio e di uomini, ma mentre Dio agisce in sovrana libertà, gli uomini reagiscono nella circoscritta libertà loro concessa, e ne subiscono le inevitabili conseguenze. Nel seguito, questo schema di rapporti si ripete in continuazione, anche se in forme diverse, e va da sé che per capire i fatti che poi accadono, la riflessione non può che cominciare da ciò che sta all’inizio: cioè da Dio che agisce.

I due progetti
  Abbiamo già visto che l’originario progetto di Dio prevedeva la creazione di un habitat perfetto, popolato da una società di giusti, al cui centro si trova un santuario in cui Dio abita in mezzo agli uomini. L’esercizio che Adamo, capostipite dell’umanità, ha fatto della libertà a lui concessa, ha compromesso la forma originaria del progetto, facendo penetrare in tutta la creazione il virus di una fatale malattia che la Bibbia chiama “morte”:

    “Come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e per mezzo del peccato la morte, così la morte si è estesa a tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Romani 5:12).

I segni di questa malattia mortale sono presenti dappertutto, nella forma di una corruzione presente in tutti i campi. Il Signore comunque ha consentito al suo progetto creativo di andare avanti, preparando un’opera di recupero salvifico che, anche se avrà bisogno di secoli, sarà comunque portata a compimento: il tempo è un problema per noi, non per Dio. Dal quarto capitolo della Genesi in poi, la Bibbia è interamente dedicata alla presentazione di questo progetto di recupero.
  Nel seguito chiameremo “primo progetto”, o “progetto creativo”, o più semplicemente “creazione”, l’originario piano di Dio, e “secondo progetto”, o “progetto redentivo”, o semplicemente “redenzione”, il piano di salvezza elaborato da Dio dopo la caduta dell’uomo. Quando il progetto è in esecuzione, useremo anche il termine “programma”.
  E’ chiaro che a noi interessa soprattutto il progetto redentivo, perché è quello che ci riguarda in questo tempo; e poi… siamo uomini, e come uomini pensiamo soprattutto ai nostri interessi personali. Ma se, oltre allo star bene adesso e in eterno, qui in terra e su nel cielo, e oltre al progetto di salvezza in cui siamo inseriti, dirigiamo la nostra attenzione sul progettista che l’ha ideato; se siamo interessati a conoscerlo meglio; se siamo stati afferrati da quella parola di Gesù che dice: “'Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua e con tutta la mente tua” (Matteo 22:37), allora forse saremo interessati anche a conoscere più a fondo chi è davvero Colui che ci ama, e ora noi vogliamo amare; e forse cercheremo di sondare, nei limiti del possibile e del lecito, quali sono i pensieri e i sentimenti che spinsero il Creatore a formulare quel grandioso programma di creazione prima che l’uomo lo facesse deviare. Perché è lì, all’origine di tutte le cose, che Egli ha cominciato a esprimere Se stesso, per darne poi conoscenza alle sue creature.
  Per il momento ci limiteremo a notare soltanto le differenze più evidenti tra i due progetti.
  Il progetto creativo parte con un inizio in cui tutto è molto buono. Nell’ordine compare dapprima l’habitat, costituito da “i cieli e la terra” dell’incipit biblico, poi la società, potenzialmente presente nella coppia Adamo-Eva, poi il santuario, costituito dal Giardino di Eden.
  Il primo Adamo è stato tratto dal primo habitat, cioè dalla terra “molto buona” che Dio aveva creato fino a quel momento. Attraverso il soffio di Dio nelle sue narici, l’uomo è diventato un’anima vivente (1Corinzi 15:45). Nell’immaginaria ipotesi di ciò che sarebbe avvenuto se la prima coppia non avesse peccato, l’habitat sarebbe rimasto perfetto in ogni sua parte; la società sarebbe rimasta anch’essa perfetta perché i ribelli sarebbero stati immediatamente distrutti; il santuario sarebbe rimasto a disposizione degli uomini come centro della terra e luogo d’incontro nella relazione d’amore tra il Creatore e la creatura.
  Il progetto redentivo opera invece su un mondo contaminato dal male in ogni sua parte, e tuttavia mantenuto in piedi dalla provvidenza di Dio, perché su quella terra maledetta è destinato a cadere un giorno il seme di vita che porterà guarigione eterna al mondo, cioè la salvezza nel senso pieno della parola.
  Quello che l’apostolo Paolo chiama ultimo Adamo è spirito vivificante (1Corinzi 15:45), è stato formato (non creato) con il soffio dello Spirito di Dio non più nella terra inerte, ma nel corpo vivente di una giovane donna ebrea. Tra i due Adami ci sono dunque differenze, ma sono confrontabili, perché in entrambi i casi sono espressione di “Colui che opera ogni cosa secondo il consiglio della propria volontà” (Efesini 1:11).
  Con questo abbiamo appena toccato il tema che dottrinalmente si chiama “incarnazione”, ma qui vogliamo soltanto limitarci a sottolineare che in Gesù Dio è venuto a compiere quello che fin dall’inizio è stato il suo proposito: venire ad abitare in mezzo agli uomini:

    “E la Parola si è fatta carne ed ha abitato per un tempo fra di noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre” (Giovanni :1:14).

L’habitat finale del secondo progetto è costituito dal “nuovo cielo e nuova terra” dell’Apocalisse (cap. 21). Esso appare per ultimo, e solo allora sarà perfetto in ogni sua parte, perché sarà liberato dalla vanità a cui ora è sottoposto a causa del peccato dell'uomo (Romani 8:18-25).
  La società finale che lo popolerà, secondo le poche cose che si dicono negli ultimi due capitoli della Bibbia, sarà una società di tutti giusti, perché giustificati dall’opera di Cristo, e in essa ci saranno popoli, nazioni e re della terra (Apocalisse 21:24-26). Sarà il Regno eterno di Dio che Gesù consegnerà nelle mani del Padre “dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza” (1 Corinzi 15:24). Esso sarà preceduto dal Regno messianico milleniale promesso a Israele nell'Antico Testamento, che si svolgerà in un habitat e con una società non ancora totalmente redenti.
  Il santuario finale sarà costituito dalla nuova Gerusalemme, in cui non ci sarà alcun tempio dove incontrare il Signore, perché “l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio” (Apocalisse 21:22).
  Abbiamo messo a confronto diretto, in modo schematico e necessariamente approssimativo, l’inizio e la fine dell'intero programma di Dio, accostando i primi due capitoli della Genesi con gli ultimi due dell’Apocalisse, anche per sottolineare che il corretto esame di tutto quello che si trova in mezzo deve essere fatto seguendo lo svolgersi del discorso lungo le linee di azione di Dio, dall’inizio alla fine, senza saltellare di qua e di là con occasionali e arbitrarie interpretazioni di singoli passi, staccati non solo dal contesto linguistico, ma in certi casi anche dal centro del messaggio biblico.

Chi saranno i cittadini della nuova società?
  Detto in poche parole: chi saranno i salvati? La domanda è seria, perché se il nuovo mondo sarà realizzato soltanto alla fine della storia, i suoi abitanti proverranno tutti da quello che è stato il vecchio mondo, così come si svolge dalla creazione in poi. Abbiamo detto che se Adamo non avesse peccato, nel progetto creativo i cittadini della società voluta da Dio sarebbero stati soltanto coloro che avrebbero superato il test a cui il Signore li avrebbe sottoposti; qualcosa del genere è previsto anche nel progetto redentivo: gli abitanti della finale società saranno soltanto coloro che hanno risposto Sì al Signore, anche se la chiamata di Dio potrà arrivare al singolo in modi diversi a seconda del momento storico in cui vive. Anche se è vero che tutti gli uomini sono peccatori fin dalla nascita, perché partecipi di un mondo in cui è entrata la corruzione della morte, non per questo Dio li vede tutti allo stesso modo: il racconto di Caino e Abele fa capire che Dio osserva e valuta l’atteggiamento di ogni uomo rispetto a Lui in base a quello che egli ha ricevuto, sa e decide.
  E’ chiaro comunque che in ogni caso la salvezza sarà donata da Dio al peccatore soltanto in virtù dell’opera giustificante di Gesù sulla croce, perché “in nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è alcun altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini, per mezzo del quale dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12). E’ quello che in termini teologici si esprime dicendo che la salvezza si ottiene per grazia mediante la fede, sempre e in ogni caso.
  Può sorprendere, a proposito di salvezza personale, che l’Antico Testamento sembri poco interessato a indicare in modo chiaro chi sarà eternamente salvato e chi no. Non potremmo dirlo con certezza neppure per Adamo ed Eva. Fino all’arrivo di Gesù, la Bibbia non dice quello che gli uomini devono fare per poter salire un giorno dalla terra e andare in cielo, ma piuttosto informa su quello che Dio ha fatto, e in seguito farà, per avvicinarsi dal cielo agli uomini che vivono sulla terra. Se ne dovrà riparlare.

(3. continua)
precedenti 

(Notizie su Israele, 25 maggio 2025)


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Il nuovo capo dello Shin Bet è un combattente religioso

Netanyahu nomina David Zini capo dello Shin Bet – Zini aveva previsto l'invasione di Hamas sei mesi prima che avvenisse.

di Ryan Jones

Il generale David Zini e Benjamin Netanyahu   
GERUSALEMME - Gli israeliani religiosi e conservatori lamentano spesso di essere ignorati nell'assegnazione di incarichi di alto livello nell'apparato di sicurezza. Allo stesso tempo, in alcuni settori dell'opinione pubblica prevale l'errata convinzione che gli israeliani religiosi non prestino affatto servizio militare, confondendo tutti coloro che indossano la kippah con gli ultraortodossi, che di norma rifiutano il servizio militare.
Il generale David Zini rompe questo schema in due modi.
Giovedì, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha nominato Zini nuovo capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni israeliani.
Netanyahu ha citato le impressionanti qualifiche di Zini e la sua lungimiranza come motivi determinanti per la nomina. Tuttavia, anche lo stile di leadership intransigente di Zini e la sua profonda comprensione del carattere religioso del conflitto dovrebbero andare a vantaggio suo e dello Stato di Israele.
Zini è un combattente tra i combattenti. Ha prestato servizio come soldato d'assalto nel prestigioso Sayeret Matkal(unità di ricognizione dello Stato Maggiore), ha comandato un battaglione della Brigata Golani, ha guidato l'unità d'élite Egoz e ha fondato la brigata di comando dell'IDF, che è fortemente impegnata nell'attuale guerra. Da ultimo è stato capo del comando addestramento dell'esercito israeliano.
Particolarmente rilevante nella situazione attuale: già nel marzo 2023, sei mesi prima dell'attacco di Hamas, Zini aveva redatto un rapporto in cui criticava la disposizione errata dell'IDF intorno alla Striscia di Gaza. Quasi ogni sezione era vulnerabile ad attacchi a sorpresa, avvertiva.
Tragicamente, il suo avvertimento profetico non è stato preso sul serio in tempo.
Zini è anche una persona profondamente religiosa. Figlio di un noto rabbino di Ashdod, indossa la kippah e, secondo quanto riferito, ha undici figli. La sua famiglia discende da rabbini sefarditi provenienti dall'Algeria, in netto contrasto con i candidati ashkenaziti, per lo più laici, che considerano la sicurezza di Israele da una prospettiva “occidentale”, quella stessa prospettiva che oggi è spesso criticata come un “concetto fallito

(Israel Heute, 24 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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L'antisemitismo social arma i folli

L'ennesima strage causata dall'odio per Israele è il frutto della propaganda di Hamas, che prova a sdoganare pure il nazismo. Per fortuna alcuni palestinesi si scandalizzano.

di Silvana De Mari

Chi sono i mandanti del delitto di Washington? Due giovani funzionari dell'ambasciata israeliana, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, sono stati abbattuti come cani davanti al Museo ebraico della città. Yaron aveva appena comprato un anello per Sarah, si sarebbero sposati a Gerusalemme. Nel museo si stava tenendo un evento umanitario che aveva come scopo l'aiuto alla popolazione di Gaza. L'omicida si è dichiarato un protettore della popolazione della Striscia, un vendicatore di torti. Il mandante è l'antisemitismo social, che grazie alla sapiente e costosissima propaganda di Hamas è esploso fino a livelli omicidi.
  L'antisemitismo social si è riversato nelle strade: la ristoratrice di Napoli che caccia gli israeliani, la merciaia che nega loro l'accesso, i latrati e le violenze dei cortei pro Pal sono i primi timidi esempi. L'apogeo è stato raggiunto alle commemorazioni del 25 aprile, quando la bandiera della Brigata ebraica è stata oltraggiata e le bandiere degli alleati in Medio Oriente di Adolf Hitler sono state esaltate. Il massimo è il vergognoso episodio all'università di Torino con l'aggressione agli studenti ebrei, a uno dei quali è stato strappato il nastro giallo in memoria permanente degli ostaggi. Per inciso: porto anche io quel nastro, quindi la prossima volta che fate la lista degli amici degli ebrei e di Israele, mi raccomando, mettete anche il mio nome. Innumerevoli sprovveduti stanno rilanciando l'antisemitismo più bieco e quindi tutti sono ufficialmente i mandanti dell'antisemitismo che risorge dalle sue ceneri come un'orrida fenice.
  Mi dichiaro un'esperta in antisemitismo da social. Alcuni miei post, nei quali pubblicavo la fotografia dei bambini con i capelli rossi e della loro madre, rapiti il 7 ottobre per essere strangolati il mese successivo, hanno ottenuto alcune migliaia di insulti. L'antisemitismo è sempre appartenuto alla cultura europea. Siamo la stessa civiltà che dopo secoli di pogrom ha sterminato 6 milioni di ebrei, sul proprio territorio. Poi, certo, tutti allineati e coperti il 27 gennaio a ricordare la cosa, ma tutti hanno colto la meravigliosa offerta di Hamas, l'assoluzione del genocidio hitleriano.
  Tra le varie forme di sconvolgente idiozia che stanno dilagando sui social c'è quella di pubblicare fotografie di bambini scheletrici, nella grande maggioranza dei casi si tratta di bambini affetti da enterocoliti necrotizzanti e da fasi terminali di malattie oncologiche. E possibile recuperare le loro foto su Google e spacciarle per fotografie di bambini di Gaza affamati dal nemico sionista. Nulla è più squallido della commistione tra la memoria di Auschwitz e la sua negazione. Hitler ha tolto decenza all'antisemitismo: dopo il 1945 nessuno osava più dichiararsi fieramente antisemita. Inventandosi che antisemitismo e antisionismo siano cose diverse, si può rilanciare il gioco. «Sporco ebreo» è moralmente ignobile, mentre «Sporco sionista» diventa magnificamente morale. Hamas con il sacrificio del popolo palestinese buttato allo sbaraglio, ridà onore all'antisemitismo.
  Ci spiegano che Israele« non aspettava altro che un 7 ottobre per fare un genocidio». Se Israele volesse fare un genocidio, potrebbe farlo in sei giorni perché ha la capacità tecnica di farlo, non solo perché Hamas non ha la contraerei, ma perché tutta l'acqua che arriva a Gaza passa da Israele. Basterebbe che Israele chiudesse i rubinetti. Israele ha un'enorme potenza di fuoco e addirittura una potenza nucleare poteva bombardare a tappeto dall'alto, risparmiando i propri soldati. Al contrario ha fatto operazioni di fanteria perdendo 3.000 uomini proprio per minimizzare le perdite civili di Gaza.
  Nella corsa a chi è il più antisemita del reame una speciale menzione spetta a tutti coloro che stanno pubblicando il video fatto in Siria il 22 agosto del 2013 dopo un bombardamento chimico. Fu colpita una scuola. Nel video si vedono i cadaveri allineati dei bambini: sono bambini uccisi con un bombardamento chimico, quindi non hanno segni di ferite. Nel video, ogni tanto nella parte alta a sinistra, si illuminava una scritta in caratteri arabi con la data, 22 agosto 2013. Tutti continuano a specificare che è lo Stato sionista a causare queste stragi a Gaza, incapaci persino di leggere la data. Peccato che nel 2013 nessuno di loro abbia protestato per i terrificanti massacri in Siria.
  «Free Palestìne» è il nuovo grido degli assassini. Sui social scrivono che sono gli stessi sionisti ad aver assassinato i due funzionari per passare da vittime. Sono gli stessi che scrivono che il 7 ottobre è stata una burla. Al contrario, è nel mondo arabo che si comincia a prendere le distanze da questa follia. Addirittura nel mondo palestinese. Ahmed Fouad Alkhatib, palestinese, attivista per i diritti umani, blogger, ricercatore senior per il Medio Oriente dell'Atlantic council, ha scritto su X: «Liberate la Palestina dai folli uomini armati che propugnano la "liberazione della Palestìna"!». «L' omicidio criminale e la tragica uccisione di due membri del personale dell'ambasciata israeliana al Capitai jewish museum, durante un evento per giovani diplomatici dell'American jewish community (Ajc) a Washington Dc a cui avrei voluto partecipare con un collega, se non fosse stato per un viaggio a New York, sono un orribile promemoria di un discorso israeliano e palestinese ormai in frantumi».
  «Il vile aggressore, Elias Rodriguez, ha urlato: "Free free Palestine". Sebbene ci siano molte voci legittime che sostengono i diritti e le aspirazioni palestinesi, la questione e la causa palestinese sono tragicamente e dolorosamente diventate un terreno fertile per terroristi violenti e feccia squilibrata in tutto il mondo. Come può la popolazione di Gaza o della Palestina trarre beneficio da un atto di violenza così atroce e casuale? L'antisemitismo deve essere respinto; gli slogan e la retorica divisiva possono avere, e di fatto hanno, conseguenze mortali. Questo è davvero il momento giusto per chiarire che, indipendentemente dal problema o dalla causa che divide le varie comunità, dobbiamo opporci in modo chiaro e unito alla violenza politica di qualsiasi tipo. Chiunque cerchi di giustificare ciò che è accaduto o di fare acrobazie mentali in difesa di questo atto indifendibile è un autentico apologeta del terrorismo». Mentre la gallina di turno pubblica le foto delle stragi di Bashar Al Assad in Siria per invocare la distruzione di Israele dal fiume al mare, esistono uomini di buona volontà che cercano di costruire la pace.

(La Verità, 24 maggio 2025)

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Emergenza antisemitismo: lettera aperta al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

Carissimo Presidente Mattarella,
mi rivolgo a lei, attento e severo custode della Costituzione, da cittadino italiano di origine ebraica, scampato alla morte mentre era nel ventre di sua madre, sfuggita fortunosamente alla cattura dei nazisti il 16 ottobre del 1943, per chiederle se il silenzio delle Istituzioni rispetto a recenti innumerevoli episodi di antisemitismo sia accettabile o debba invece essere oggetto del richiamo della suprema magistratura dello Stato.
Una domanda spontanea e non capziosa per dare tranquillità all’intera esigua, inerme, minoranza ebraica italiana, che pure ebbe grandi meriti nella costruzione dello Stato unitario nel Risorgimento e nella lotta partigiana per la riconquista della libertà, con un cospicuo numero di martiri.
Senza entrare nel merito del conflitto attualmente in atto in Medio Oriente, né della irrisolta diatriba tra antisionismo e antisemitismo, sono certo che lei sia a conoscenza di alcuni eclatanti episodi degli ultimi giorni, ma per esigenze di chiarezza glieli rammento.
I cartelli comparsi negli esercizi commerciali a Napoli, con conseguente discreto consiglio del prefetto agli ebrei di non indossare la kippah.
In una libreria Feltrinelli di Milano sono state rinvenute delle copie di un libro del premio Nobel Singer sulle quali sono stati incollati degli sticker antiebraici.
Al Salone del libro di Torino, a parte i tentativi di irruzione di propal, due conferenzieri ebrei hanno dovuto rinunciare ai loro interventi.
Questi sono solo alcuni dei più recenti, preceduti, come lei sa, dalle discriminazioni in varie scuole e università, dalle minacce a Sami Modiano e alla senatrice a vita Liliana Segre, da tempo sotto scorta.
Il nostro è uno Stato democratico che si alimenta della libertà di opinione, di stampa e di parola, mi chiedo se sia giusto soggiacere quando una parte, pur minoritaria, dell’opinione pubblica passa alle vie di fatto, impedendo ad altri di espletare i propri diritti di liberi cittadini o peggio trattandoli da quinte colonne di uno Stato straniero, cui tutti hanno diritto di rivolgere le proprie critiche, sia ben chiaro.
Presidente, lei sa quanto me che i primi provvedimenti assunti contro gli ebrei in Italia nel ‘38 riguardarono scuola e cittadinanza, forse sono ipersensibile, ma vedo spirare un brutto vento.
È chiedere tanto un suo intervento, pubblico, ufficiale, chiarificatore in proposito?
Rammento il suo riferimento a Stefano Gaj Tachè da lei definito ”un nostro bambino italiano” e l’incontro con i genitori del piccolo martire innocente, ucciso dal fondamentalismo, principale responsabile dell’odio che impedisce la pace tra Israele e i profughi arabi che attendono una soluzione dal 1948.
La prego intervenga come sa, lei che ha subito nei suoi affetti familiari le conseguenze dell’odio, dall’alto della sua funzione, ma anche della sua riconosciuta umanità ed equanimità.
Con deferenza Stefano Piperno

(InOltre, 24 maggio 2025)

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Londra: un uomo toglie le mezuzot dalle case di ebrei

di Michelle Zarfati

Un uomo tenta di staccare una mezuzah
Nella zona di Golders Green, nel nord-ovest di Londra, un uomo è stato ripreso dalle telecamere mentre rimuoveva mezuzot dai telai delle porte di abitazioni di cittadini ebrei. Le immagini, che mostrano l’individuo estrarre un coltello per staccare con forza gli oggetti sacri, un gesto che ha suscitato profonda preoccupazione nella comunità ebraica locale, una delle più grandi e ortodosse del Regno Unito.
La mezuzah è un piccolo rotolo di pergamena con versetti biblici, custodito in un contenitore decorativo e fissato agli stipiti delle porte come simbolo di fede e protezione. La rimozione deliberata di questi oggetti è percepita come un atto di profanazione e intimidazione. Il gruppo di sorveglianza comunitaria Shomrim sta collaborando con la polizia locale per raccogliere prove e identificare il responsabile. Questo episodio si aggiunge a una serie di incidenti simili avvenuti negli ultimi mesi nella stessa area, tra cui atti vandalici contro attività commerciali ebraiche e aggressioni verbali e fisiche. La comunità ebraica locale ha espresso crescente preoccupazione per l’aumento degli episodi di antisemitismo e chiede maggiore protezione e vigilanza da parte delle autorità.

(Shalom, 23 maggio 2025)

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Jakub Klepek, amico di Yaron Lishinsky, vittima dell’attentato a Washington, racconta: “Ho perso un fratello”

di David Zebuloni

“Qui è tutto fantastico, davvero, proprio come avevo sognato. Sto lavorando ad alcuni progetti molto interessanti, soprattutto riguardo gli Accordi di Abramo e i processi di normalizzazione. Sono colmo di gratitudine. Ho anche una nuova fidanzata, quindi la mia vita non è affatto male”. Questo è stato l’ultimo messaggio inviato da Yaron Lishinsky al suo caro amico Jakub Klepek. Questa notte Yaron, 30 anni, e la sua compagna Sarah Lynn Milgram, 26 anni, sono stati assassinati in un attacco terroristico a colpi d’arma da fuoco davanti al Museo Ebraico a Washington. Entrambi lavoravano presso l’ambasciata israeliana della capitale americana.
“Ho conosciuto Yaron per la prima volta all’università Reichman a Herzlya, dove abbiamo frequentato insieme un master in Scienze Politiche”, racconta Jakub con voce tremante, ancora incapace di credere alla tragedia che lo ha colpito. “Io ero il rappresentante della classe e lui era uno studente brillante ed energico, pieno di iniziative originali – ci siamo subito legati. Di solito ci incontravamo nel campus o a Gerusalemme, dove lui abitava. Amava leggere, era la sua più grande passione, e conosceva tutte le librerie migliori della città”.
Lishinsky è cresciuto a Norimberga, in Germania, come cristiano evangelico, e all’età di 16 anni, mosso dal suo grande sentimento sionista e dal suo profondo legame con il popolo ebraico, ha deciso di trasferirsi in Israele. “Era così orgoglioso di far parte dello Stato di Israele, e io amavo condividere con lui pensieri, emozioni, intuizioni, idee”, continua Jakub. “Il modo in cui guardava la realtà mi affascinava. Era un fervente sostenitore degli Accordi di Abramo, un argomento che lo appassionava moltissimo”.
Jakub Klepek, 27 anni, è nato e cresciuto in Polonia dove ancora oggi lavora come attivista nel campo della diplomazia pubblica e politica. In particolare, tratta la radicalizzazione dello hate speech e dell’antisemitismo sui social network. “Quando sono arrivato in Israele ero un po’ confuso – faticavo a comprendere la complessa realtà politica locale”, racconta Jakub sinceramente. “Yaron è stato il primo ad aiutarmi a capire cosa stava succedendo intorno a me. Era più di un amico per me, era come un fratello maggiore”.
Oggi il giovane Klepek ricorda soprattutto il sorriso dell’amico perduto. “Era la cosa che più lo caratterizzava”, dice nostalgico. “Yaron era una persona sorridente e ottimista. Era anche molto diplomatico, sapeva sempre come comportarsi in ogni situazione. Era un uomo pieno di valori e molto rispettabile, nonostante la giovane età. Io non mi apro facilmente, ma Yaron era una delle poche persone con cui mi sentivo a mio agio a parlare di tutto. Sapevo che mi avrebbe accolto senza mai giudicarmi. Che si sarebbe preso cura di me e avrebbe agito per il mio bene. Mi fidavo di lui come ci si fida di un fratello maggiore”.
Poco prima di finire gli studi in Israele e tornare in Polonia, Jakub ha incontrato Yaron per l’ultima volta. “Forse è il ricordo più intenso che ho di lui”, ricorda. “Eravamo seduti nella Città Vecchia di Gerusalemme, bevevamo un caffè nero e parlavamo del futuro. Volevamo fondare insieme un’azienda che aiutasse le persone a volare in sicurezza ovunque nel mondo. In quell’occasione, Yaron mi ha anche raccontato di aver superato tutte le fasi di selezione ed essere stato accettato per lavorare all’ambasciata israeliana a Washington. Era così felice”.
Sì, Lishinsky ha realizzato il suo sogno servendo negli ultimi anni come assistente di ricerca per il Medio Oriente e il Nord Africa nel dipartimento politico di una delle ambasciate israeliane a Washington. Nel suo ruolo, era responsabile dell’aggiornamento continuo del personale diplomatico su eventi e tendenze nella regione, della redazione di ricerche geopolitiche, della gestione dei rapporti con rappresentanze straniere e think tank locali, e dell’assistenza nell’organizzazione di delegazioni in visita da Israele. A Washington, Yaron aveva anche trovato l’amore: Sarah Lynn Milgram z”l, con cui progettava di sposarsi a breve.
La notte dell’attacco, Jakub si trovava in Germania. “Ero stato invitato a partecipare a una conferenza a Berlino e quando mi sono svegliato la mattina in hotel, ho acceso la TV e ho scoperto dell’attentato terroristico avvenuto a Washington”, racconta. “Il notiziario parlava di due giovani vittime. Non ho avuto il tempo di capire di chi si trattasse, ero molto di fretta e non sospettavo minimamente che Yaron fosse coinvolto nella tragedia. Poi, ho ricevuto una sua foto in uno dei tanti gruppi WhatsApp di cui faccio parte. Ero sotto shock. Rifiutavo ancora di credere che fosse lui. Pensavo fosse un errore. Ho scritto ad altri amici del corso universitario, e loro hanno confermato che si trattava di Yaron”.
Ore dopo la tragedia, Jakub ancora fatica a credere che il peggio sia davvero accaduto. Cerca risposte a molte domande, ma non riesce a trovarle. “Sono molto confuso in questo momento, cerco soprattutto di capire cosa provo, e dentro di me scopro un dolore nuovo che non avevo mai provato prima”, confida. “Sono da anni coinvolto nel mondo dell’Hasbara e conosco bene la dura realtà con cui Israele deve confrontarsi. So cosa sia  il lutto, ma questa è la prima volta che il lutto mi colpisce personalmente. Ed è sconvolgente”.
Una cosa è certa per Klepek: il suo caro amico non verrà mai dimenticato. “Yaron era giovane, ma è riuscito a lasciare un’importante eredità morale”, vuole sottolineare. “Chiunque gli stava vicino conosceva bene i suoi valori, i suoi sogni, le sue aspirazioni. Io, noi, tutti gli amici, faremo il possibile per continuare il percorso di Yaron e dare significato a questa perdita così orribile e così assurda. Non ci arrenderemo, e certamente non ci piegheremo. Ci rialzeremo più forti e più uniti. Non dimenticheremo mai il nostro Yaron”.

(Bet Magazine Mosaico, 23 maggio 2025)

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Cosa è andato storto tra Israele e Trump?

Il corrispondente di Israel Heute Itamar Eichner analizza la rottura tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu: aspettative deluse, falliti negoziati per il rilascio degli ostaggi e crescente influenza delle forze isolazioniste a Washington.

di Itamar Eichner

GERUSALEMME - All'inizio tutto andava per il meglio. Le dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump hanno entusiasmato la destra israeliana. Ha promesso di aprire le “porte dell'inferno” su Hamas, ha annunciato di voler combattere l'antisemitismo nelle università e ha dichiarato che l'unica soluzione per Gaza era quella di trasferire tutti i gazawi in un paese terzo e trasformare la zona in un paradiso immobiliare.
Ma lentamente le cose sono cambiate. La domanda sorge spontanea: perché?
La risposta è complessa. Innanzitutto va detto che Trump non ama i perdenti. In Benjamin Netanyahu ha visto proprio questo: un perdente. Preferiva invece il principe ereditario Mohammed bin Salman dell'Arabia Saudita. A Netanyahu preferiva anche l'emiro del Qatar  che gli ha persino regalato un aereo per la sua Air Force One.
Trump ha una visione: estendere gli accordi di Abraham, raggiungere una normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, concludere un accordo nucleare con l'Iran, porre fine alla guerra tra Russia e Ucraina e vincere il Premio Nobel per la Pace. Ma Putin e Zelenskyj lo hanno lasciato a bocca asciutta. E in Medio Oriente è stato Netanyahu a deluderlo, con la sua ostinazione a continuare la guerra a Gaza e a non parlare del “giorno dopo”. Questo ha allontanato i sauditi da una normalizzazione. Non possono tendere la mano a Israele finché la guerra continua, e certamente non finché Netanyahu non accetta una formula per un futuro Stato palestinese.
Trump ha capito che se avesse aspettato Netanyahu, tutti i suoi piani sarebbero rimasti nel cassetto. Questo non gli va bene. Così ha deciso di lasciare Netanyahu alle spalle. Nel suo entourage si dice che Israele reagisce troppo lentamente e dice no a tutto. La metafora è chiara: un treno sta lasciando la stazione. Se Israele vuole salire, può farlo più tardi. Ma non si aspetterà.
Dietro le quinte, nel campo di Trump infuria una lotta di potere per chi ha maggiore influenza sulla politica mediorientale. Da una parte ci sono i classici repubblicani filoisraeliani: il consigliere per la sicurezza Robert O'Brien, il segretario di Stato Marco Rubio e l'ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee, fervente sostenitore degli insediamenti. E poi ci sono gli isolazionisti: il vicepresidente JD Vance, che ha annullato la sua visita in Israele quando è diventato chiaro che Israele voleva estendere i combattimenti a Gaza e che lui avrebbe potuto essere strumentalizzato. E Steve Witkoff, l'inviato speciale personale di Trump, forse la persona più vicina al presidente.
Witkoff è un personaggio particolare. Chi ha parlato con lui riferisce che considera la sua missione di liberare gli ostaggi quasi un compito mistico. La morte di suo figlio lo ha legato profondamente alle famiglie degli ostaggi. Ha promesso loro di fare tutto il possibile per riportare a casa i loro figli. E in effetti, con l'aiuto di un uomo d'affari americano di origini arabe come mediatore, è riuscito a ottenere il rilascio del soldato americano-israeliano Edan Alexander dalla prigionia di Hamas.
Witkoff credeva che questo avrebbe spianato la strada a un accordo più ampio. Ma si è scontrato con un muro insormontabile: Hamas ha chiesto agli Stati Uniti garanzie chiare per la fine della guerra. Netanyahu si è rifiutato. Hamas ha capito che la tattica di Netanyahu è quella di ridurre il numero degli ostaggi senza porre fine alla guerra. Un fidato collaboratore di Netanyahu ha ammesso che in Israele è opinione comune che l'ultimo ostaggio potrà essere liberato solo con un'operazione militare, non con un accordo. Dal punto di vista di Hamas, infatti, gli ostaggi sono la loro ultima assicurazione sulla vita. Non li avrebbero liberati senza garanzie da parte degli Stati Uniti sulla fine della guerra. Hanno persino chiesto che Witkoff firmasse l'accordo. Volevano una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Israele ha rifiutato.
I rappresentanti del governo statunitense hanno accusato Israele di aver fatto fallire i negoziati rifiutando un accordo globale. Israele respinge queste accuse e sottolinea di aver accettato un accordo, a condizione che Hamas deponga le armi, lasci Gaza e liberi tutti gli ostaggi.
Nel frattempo, la delegazione israeliana è stata richiamata da Doha. I colloqui sono sospesi e Israele intensifica la guerra a Gaza. Ma la domanda rimane: ha senso che alla fine muoiano più soldati che ostaggi liberati?
In Israele si guarda ora con preoccupazione ai negoziati tra Stati Uniti e Iran. Negli ultimi giorni Trump sembra aver inasprito la sua posizione, rifiutando di concedere all'Iran la possibilità di arricchire l'uranio in modo indipendente. Teheran, dal canto suo, ha dichiarato che ciò è inaccettabile.
Rimane la domanda: Trump manterrà la sua minaccia di bombardare gli impianti nucleari iraniani se l'Iran non accetterà di smantellare il suo programma nucleare?
Secondo alcune fonti, Israele si starebbe preparando a un attacco militare contro l'Iran se non si raggiungesse un accordo. Forse gli Stati Uniti attaccheranno insieme a Israele. Ma forse alla fine Washington raggiungerà un accordo e Israele lo rifiuterà. Netanyahu sarà allora disposto ad attaccare l'Iran contro la volontà di Trump? I dubbi sono leciti.
Sembra che oggi le forze isolazioniste nel campo di Trump abbiano più influenza dei tradizionali amici di Israele. E non bisogna dimenticare che Trump persegue una politica estera orientata all'economia, che dovrebbe portare successi economici alla sua famiglia e agli Stati Uniti.

(Israel Heute, 23 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Tesori ellenistici a Gerusalemme: ritrovato un anello d’oro risalente a 2.300 anni fa

di Nicole Nahum

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Nel cuore dell’antica Gerusalemme, una scoperta straordinaria ci riporta indietro di oltre 2.000 anni. Durante recenti scavi nella Città di David, all’interno del Parco Nazionale delle Mura di Gerusalemme, è emerso un anello d’oro con una gemma rossa. Si tratta del secondo ritrovamento di questo genere in meno di un anno, un evento che sta illuminando i frammenti di vita risalenti all’epoca ellenistica nella città santa.
  La scoperta è avvenuta durante scavi archeologici condotti dalla Israel Antiquities Authority (IAA) in collaborazione con l’Università di Tel Aviv e il sostegno dell’Associazione Elad. Il gioiello è stato rinvenuto insieme ad altri oggetti di grande valore – orecchini in bronzo e oro e una perla decorata – nascosti sotto le fondamenta di un grande edificio. Gli archeologi ritengono che questi tesori non siano stati persi o abbandonati, ma sepolti intenzionalmente.
  Secondo la dottoressa Marion Zindel e l’archeologo Yiftah Shalev, la posizione degli oggetti sotto il pavimento dell’edificio suggerisce una pratica rituale ben precisa. In epoca ellenistica, infatti, era diffusa l’usanza per cui le giovani promesse spose seppellivano oggetti d’infanzia e gioielli nelle fondamenta delle nuove case, come simbolo del passaggio all’età adulta, riflettendo nel rito la speranza di un futuro prospero.
  “È la prima volta che troviamo a Gerusalemme un insieme così ampio di gioielli in oro di questo periodo,” ha dichiarato Efrat Bocher del Centro di Ricerca su Antica Gerusalemme. “Una tale manifestazione di ricchezza è molto rara”. Gli ornamenti riflettono il gusto estetico dell’epoca, in cui l’oro veniva impreziosito da pietre colorate come la granata. Lo stile mostra chiaramente l’influenza delle culture orientali, in particolare indiana e persiana, grazie all’apertura dei canali commerciali seguita alle conquiste di Alessandro Magno.
  Rivka Lengler, presente al momento del ritrovamento, ha raccontato come l’esperienza l’abbia resa parte della sua stessa storia, spiegando come abbia avuto la sensazione di poter toccare e connettersi con le persone che vivevano la terra migliaia di anni fa.
  Anche Eli Escusido, direttore della IAA, ha sottolineato il valore simbolico della scoperta: “La ‘Gerusalemme d’oro’ non è solo una canzone, ma un fatto storico sotto i nostri piedi. La scoperta degli anelli d’oro è una prova tangibile della ricchezza, della bellezza e dell’importanza di Gerusalemme anche migliaia di anni fa”.
  Questo secondo anello ritrovato in meno di un anno conferma, quindi, l’importanza di Gerusalemme come crocevia culturale e centro prospero anche in epoca ellenistica. Ogni oggetto ritrovato permette di ampliare la nostra conoscenza storica e ricuce un legame intimo con le persone che hanno vissuto, amato e sperato in questa città millenaria. E sotto ogni pietra, forse, si cela ancora una storia pronta a essere raccontata.

(Shalom, 23 maggio 2025)

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Un tentativo terrificante di rendere cool l’antisemitismo”

Il database CyberWell condanna il nuovo brano di Ye, “Heil Hitler”

di Pietro Baragiola

«La nuova canzone Heil Hitler di Ye (il rapper noto anche come Kanye West) rappresenta un ultimo terrificante tentativo di ‘rendere cool il razzismo’». Lo ha detto, martedì 13 maggio. Tal-Or Cohen Montemayor, fondatrice e direttrice esecutiva di CyberWell, l’organizzazione no profit che funge da primo database mondiale per la lotta all’antisemitismo online.
Il video musicale del brano, pubblicato in rete l’8 maggio in occasione dell’80° anniversario della sconfitta della Germania nazista, include persino un frammento audio di un discorso di Adolf Hitler ed oggi ha superato le 10 milioni di visualizzazioni su X.
“Ye ha sfruttato la carica algoritmica e l’ampia portata delle piattaforme di social media per normalizzare e diffondere l’odio verso gli ebrei attraverso la cultura pop, raggiungendo milioni di persone” ha affermato Montemayor sul sito di notizie Algemeiner. “È necessaria una risposta decisa da parte delle diverse piattaforme di streaming per risolvere una volta per tutte il problema dell’antisemitismo digitale”.
Da quando Elon Musk ha acquistato Twitter nel 2022, ribattezzandolo X, si è posizionato come ‘paladino della libertà di espressione’, liberalizzando così l’uso di discorsi volti all’incitamento dell’odio e alla diffusione di disinformazione sulla sua piattaforma.
Il comportamento decisamente antisemita di Ye ha spinto molti personaggi pubblici come l’attore David Schwimmer e organizzazioni come la Campaign Against Antisemitism e la StopAntisemitism a criticare apertamente X per non aver ancora estromesso definitivamente il rapper.
Ye ha il doppio dei follower su X rispetto a tutti gli ebrei sulla terra messi insieme” ha affermato un portavoce di StopAntisemitism ad Algemeiner. “La sua ossessione per noi non è solo folle ma pericolosa. Deve essere rimosso dalla piattaforma prima che la sua retorica violenta si trasformi in azioni dello stesso tipo”.

L’antisemitismo di Ye
   47 anni, 24 Grammy e 37 milioni di follower, Ye era uno dei musicisti più popolari e influenti al mondo prima di abbracciare pubblicamente le idee filonaziste. Da allora ha perso il sostegno dell’industria musicale e, secondo quanto afferma, la custodia dei figli dall’ex moglie Kim Kardashian, continuando a diffondere antisemitismo nonostante le occasionali promesse di smettere.
A febbraio il suo account su X è stato disattivato dopo aver inondato il social con sfoghi antisemiti in cui egli stesso si definiva ‘nazista’.
In questa occasione il sito web del suo celebre marchio di sneakers, Yeezy, è stato chiuso da Shopify per ‘violazione dei termini’ dopo aver scoperto che il rapper aveva messo in vendita diverse magliette bianche con la svastica per le quali aveva persino acquistato spazi pubblicitari durante il Super Bowl.
Già nel 2022 Ye era stato bannato per quasi otto mesi da X per aver violato le regole che vietano l’incitamento alla violenza sulla piattaforma.
In seguito a questo comportamento ha perso una serie di partnership con marchi e opportunità professionali, in particolare con il gruppo Adidas con cui aveva un accordo da 2 miliardi di dollari all’anno.
La fine di questa partnership decennale è costata molto ad Adidas che però, sotto la guida di Bjorn Gulden, ha deciso di vendere le scorte di Yeezy e donare il ricavato a gruppi che lottano contro l’odio e la discriminazione: 200 milioni all’Adidas Foundation e i restanti 50 ad associazioni come l’Anti-Defamation League e la Foundation to Combat Antisemitism sostenuta da Robert Kraft.
Queste reazioni ai suoi commenti non hanno impressionato Ye che negli ultimi mesi aveva già preannunciato l’uscita del brano Heil Hitler affermando: “normalizzerò il parlare di Hitler. Era davvero un umano innovativo”.
Il nuovo video musicale ha come protagonisti decine di uomini di colore, vestiti con pelli di animali e maschere, che cantano il titolo della canzone mentre West rappa sul fatto di sentirsi incompreso e sulla sua battaglia per la custodia dei figli contro l’ex moglie.
“Amico, queste persone mi hanno portato via i miei figli, poi mi hanno congelato il conto in banca” canta Ye. “Ho tanta rabbia dentro di me, non ho modo di sfogarla. Penso di essere bloccato nel Matrix. Così sono diventato un nazista. Sì, stronza, sono io il cattivo. All my niggas Nazis, nigga, heil Hitler”.
Il brano si conclude con un lungo estratto di un discorso di Hitler del 1935 che Ye ha anche ripostato sul suo account X: “che pensiate che il mio lavoro sia giusto, che crediate che io sia stato diligente. Che io abbia lavorato, che io abbia lottato per voi in questi anni, che io abbia usato il mio tempo in modo dignitoso al servizio del mio popolo. Ora votate, se sì, allora difendetemi come io ho difeso voi”.
Secondo quanto anticipato dal team di Ye la canzone Heil Hitler sarà inclusa nel suo prossimo album Cuck insieme ad altri brani controversi come Gas Chambers, WW3 e Hitler Ye and Jesus.
Questo album è un esempio palese di antisemitismo ed è disgustoso” ha dichiarato il CEO dell’American Jewish Committee Ted Deutch in un comunicato rilasciato in questi giorni. “Ye sta approfittando dell’odio verso gli ebrei e l’industria musicale deve farsi sentire per condannare questa oscenità”.
Nonostante molti pareri contrari, diversi personaggi pubblici hanno sostenuto il nuovo brano di Ye, tra cui il podcaster Joe Rogan che lo ha definito ‘piuttosto orecchiabile’, il comico e attore Russel Brand che ne ha elogiato il ‘buon ritornello’ e il suprematista bianco e negazionista dell’Olocausto Nick Fuentes, che è apparso in più occasioni affianco a Ye mentre indossa una collana con svastica tempestata di diamanti.
Fuentes ha anche utilizzato il proprio profilo X per complimentarsi con il rapper per il nuovo brano, affermandosi entusiasta: “immaginate 50.000 persone in uno stadio in piedi che cantano ogni parola”. Una visione che CyberWell si augura di non veder mai diventare realtà.

L’attività di CyberWell
   Il database di CyberWell ogni giorno collabora con le principali piattaforme di social media per identificare e rimuovere i contenuti di natura antisemita.
I suoi programmi basati sull’intelligenza artificiale scansionano i social in inglese e arabo alla ricerca di post che promuovono la negazione dell’Olocausto e l’odio o la violenza contro gli ebrei. Una volta trovati questi contenuti, gli analisti li segnalano ai moderatori delle piattaforme su cui vengono individuati.
Sulla base di queste segnalazioni, Spotify e SoundCloud hanno rimosso il brano di Ye dai loro siti ma versioni alternative e modificate sono state condivise dai fan e possono essere tutt’ora presenti.
Lo stesso vale anche per YouTube e Apple Music, dove un fan di Ye ha ripostato la canzone con il titolo HH ma, dopo giorni di ricerca, è stata finalmente rimossa.
“Abbiamo rimosso il contenuto e continueremo a cancellare i re–upload” ha dichiarato un portavoce di YouTube a NBC News.
Su Reddit, invece, diverse versioni della canzone sono state condivise in subreddit dedicati a Ye e ad altri rapper.
Un portavoce del sito ha informato NBC News che Reddit sta lavorando attivamente per rimuovere tutti i contenuti e i post che riguardano il nuovo brano: “l’odio e l’antisemitismo non hanno assolutamente posto su Reddit. Abbiamo regole severe contro i contenuti che incitano all’odio. In linea con queste stiamo rimuovendo la canzone e qualsiasi celebrazione del suo messaggio”.
Anche se YouTube, Reddit e TikTok hanno compiuto tentativi rapidi e chiari per demonetizzare gli account di Ye e rimuovere la canzone su larga scala, altre piattaforme come Facebook, Instagram e X non sono riuscite a fare granché per moderare questi contenuti.
Montemayor ha condannato apertamente queste piattaforme per la loro esitazione nel rimuovere il brano nonostante violi chiaramente le loro politiche sulla negazione e distorsione dell’Olocausto: “la risposta, o la mancanza di risposta, da parte di alcune piattaforme a questo ultimo attacco di odio è una prova del nove per capire quanto prendano sul serio la questione dell’antisemitismo e della sicurezza delle piattaforme.”
Concludendo la sua dichiarazione, la fondatrice di CyberWell ha promesso il suo impegno nel continuare ad assistere tutte le piattaforme streaming nell’ottimizzare la loro risposta al video di Ye, fornendo una guida chiara sulle moderne manifestazioni dell’antisemitismo e come comportarsi per debellarlo dal mondo digitale.

(Bet Magazine Mosaico, 23 maggio 2025)

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Il conformismo e l’uomo massa ovvero delle loro declinazioni lessicali

di Gustavo Micheletti

Esiste forse una parola della lingua italiana che, più di altre, condensa la tendenza umana ad aderire acriticamente all’opinione prevalente, e questa parola è «conformismo». Tuttavia, per quanto sia efficace, da sola non riesce a restituire la varietà di sfumature morali, psicologiche e culturali che connotano tale atteggiamento. In certi contesti, infatti, il conformismo si fa «gregarismo», ovvero sottomissione cieca al gruppo, alla massa.
  Elias Canetti, nella sua opera Massa e potere, spiega bene come l’individuo, annullato nella folla, possa perdere ogni senso critico assumendo un’identità collettiva capace di ogni eccesso gregario. Altre volte, tende invece a incarnare le vesti più vischiose della piaggeria, come quando l’adesione non è solo passiva, ma compiacente, calcolata, volta a ottenere consenso o a evitare il rischio dell’esclusione. Non meno diffusa è l’«acquiescenza», che non ha bisogno di motivazioni ideologiche: essa si limita ad accettare, ad arrendersi al clima culturale dominante, per stanchezza, tornaconto, viltà o semplice desiderio di quieto vivere.
  Queste declinazioni del conformismo trovano un potente riflesso filosofico in ciò che Hannah Arendt definisce come la «banalità del male». Durante il processo ad Adolf Eichmann, osservando l’imputato, la Arendt non scorgeva in lui un mostro, ma un uomo mediocre, ordinario, incapace di pensiero autonomo. Era un burocrate diligente che aveva eseguito ordini con scrupolo, senza interrogarsi sulle conseguenze etiche delle sue azioni.
  Il “male” infatti non si manifesta solo in figure diaboliche o scellerate, ma soprattutto in uomini comuni che smettono di pensare, di riflettere, e che non riescono a giudicare senza incasellare in formule riduttive, indifferenti o sprezzanti verso quanto non è espressione dello spirito del tempo o del proprio habitat sociale. In questo senso, la «banalità del male» è la forma estrema del conformismo: quella in cui l’individuo delega completamente la propria responsabilità morale alla struttura, all’ideologia, al contesto ideologico e culturale.
  Pier Paolo Pasolini, in vari suoi Scritti corsari e nelle sue Lettere luterane, ha denunciato con grande coraggio intellettuale un nuovo tipo di conformismo: non quello clericale e conservatore, ma quello consumistico e progressista, che travolge ogni resistenza critica in virtù del desiderio di appartenere, di essere accettati da una maggioranza che asseconda dei paradigmi introiettati in genere in maniera piuttosto acritica. È un conformismo più insidioso, perché si traveste da libertà e da modernità. Anche Pasolini, come la Arendt, ha intuito che il “male” può assumere tratti normali, quotidiani, socialmente gratificanti.
  Quando le proprie posizioni su temi politici e sociali non sono più oggetto di una scelta razionale e quando non scaturiscono da un confronto argomentato, ma sono semplicemente effetto di imitazione, ogni deviazione dal politicamente corretto può diventare sospetta e perfino sovversiva.
  La società, in questi casi, premia chi si confonde nel paesaggio delle mode culturali e ideologiche. Il «collaborazionismo» rappresenta forse, in tali circostanze, la forma più attiva e strategica di questa adesione: non più solo passiva sottomissione, ma partecipazione interessata, calcolo, alleanza con chi sa lusingare le masse anche a costo di calpestare la verità o la giustizia.
  In tutti questi casi, ciò cui si rinuncia è l’autonomia del pensiero, che per quanto non esista in forma assoluta può sussistere in misura significativamente diversa e che dovrebbe invece essere sollecitata ed esercitata per non divenire una virtù intellettuale astratta e fittizia, oltre che improbabile e sempre più remota.
  Come ricordava Simone Weil, il primo atto di libertà è il silenzio interiore, il tempo per riflettere, e oggi quel tempo sembra ormai frammentato, anche grazie alla diffusione di internet e dei social networks, in mille schegge incapaci di coordinarsi in modo razionale, in mille frasi fatte e stereotipati pregiudizi. Inoltre, nel frastuono collettivo, quel silenzio è spesso temuto o ridicolizzato.
  La cultura politica contemporanea, pur celebrando per altri versi l’individuo, spinge in realtà verso forme di «omologazione» sempre più sofisticate. E così il “male” non appare più come l’eccezione, ma come la norma che può dormire sonni tranquilli nella falsa coscienza collettiva, camuffato spesso da nobili ideali, o da buonsenso, o dal “così fan tutti”.
  Riconoscere questo meccanismo è oggi un esercizio essenziale di consapevolezza. Non per ergersi a giudici degli altri, ma per non cedere noi stessi alla tentazione rassicurante dei buoni propositi rassicuranti, soprattutto quando essi corrono in realtà il rischio di rivelarsi cinici o ciechi riguardo ai modi in cui potrebbero realizzarsi. In un simile contesto, e cioè in tempi di menzogna universale, come suggeriva George Orwell, dire la verità è già un atto rivoluzionario.
  A completamento di questo quadro, meritano di essere richiamate anche le riflessioni di José Ortega y Gasset e Gustave Le Bon, due pensatori che hanno scandagliato con rigore la psicologia delle masse. Gustave Le Bon, nella Psicologia delle folle, osserva come l’individuo, una volta immerso nella massa, perda il senso di sé, si lasci trascinare dall’inconscio collettivo e venga privato dell’autocontrollo.
  Ne nasce una folla dominata dall’irrazionalità, dal contagio emotivo, dalla suggestionabilità e dall’intolleranza. La massa diventa facilmente orientabile da fattori esterni, specie dal prestigio di chi riesce a imporsi come figura carismatica, e la concreta possibilità di derive populiste e demagogiche di ogni tipo è allora in agguato dietro l’angolo.
  Ortega y Gasset, facendo riferimento anche al saggio di Le Bon, ne La ribellione delle masse introduce il concetto di «uomo-massa», un individuo che, pur appartenendo a qualsiasi classe sociale, si caratterizza per la mancanza di disciplina interiore e per l’incapacità di affrontare responsabilmente le sfide della vita. Secondo Ortega, l’uomo-massa si sente pieno di diritti ma privo di doveri, un aspetto questo sottolineato in un altro contesto teorico anche da Simone Weil, e tende a imporre la propria mediocrità come norma, soffocando le minoranze eccellenti che sono invece le portatrici della cultura e del progresso. È un atteggiamento spirituale e culturale che minaccia la qualità della vita pubblica e più in generale qualsiasi forma di reale condivisione dei valori democratici.
  Sia Le Bon sia Ortega denunciano l’impoverimento dell’individuo di fronte alla potenza livellante della folla e dell’opinione dominante anticipando, seppur in forme diverse, quel vuoto malleabile della coscienza che Hannah Arendt avrebbe poi descritto come la radice della banalità del male.
  Anche nelle loro opere, come in quella della Arendt, torna infatti il nodo decisivo: la diffusa perdita di capacità critiche tende a produrre anche la rinuncia alla responsabilità personale e l’abdicazione all’esercizio di quella che Jurgen Habermas chiama «ragione comunicativa», esercizio che è invece assolutamente necessario implementare se si vuole evitare la subordinazione d’interi popoli alle varie forme di autoritarismo che oggi minacciano la loro propensione a convivere da cittadini liberi, in modo autenticamente democratico e civile.
  In nome di un imprecisato senso di appartenenza – che è tanto più pericoloso in quanto risulta di per sé efficace e gratificante, dato che costituisce la conseguenza implacabile di quell’essenziale spirito gregario sui cui effetti deleteri Nietzsche ci aveva avvertito con largo anticipo – proprio mentre la «ragione comunicativa» viene vieppiù dismessa si assiste a l’iperbolico sviluppo di quella che, sempre Habermas, chiama «ragione strumentale», e se l’implementazione di quest’ultima non costituisce di per sé un fatto negativo, la susseguente perniciosa illusione che possa garantire comunque all’umanità sorti sempre più «magnifiche e progressive» potrebbe contribuire all’abbandono di ogni residuale capacità critica e rivelarsi un fatale errore di prospettiva.

(InOltre, 23 maggio 2025)

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Antisemitismo, l’incendio si propaga. Il seme dell’odio aspetta già le prossime vittime

di Claudio Velardi

Che cosa vi aspettavate, razza di pelosi ipocriti che non siete altro, allevati e pasciuti nei media, nella cultura e nella politica d’Italia e dell’Occidente? Che non ci fosse qualcuno pronto a raccogliere il testimone degli insulti, delle minacce, degli incitamenti alla violenza antisionista e antisemita e passare all’azione per sparare e uccidere? A Washington è accaduto semplicemente quello che doveva accadere, perché quando si semina odio si raccoglie tempesta. E poco importa se a uccidere due ragazzi ebrei che stavano per recarsi a Gerusalemme la prossima settimana a dichiararsi il loro amore, sia stato un «pazzo» – come vi piace dire in queste ore per mettere a tacere la vostra coscienza, se ancora ne possedete una – oppure il terminale organizzato di una catena terroristica.

Il clima d’odio mai così visibile
  Quello che è certo è che il velenoso fiume carsico di giudeofobia, che scorre nel sangue malato dell’umanità da duemila anni, non è mai stato così visibile, diffuso e pervasivo come negli ultimi mesi. Una realtà che va oltre le statistiche. Un clima di odio e di paura che coinvolge la quotidianità di milioni di persone, lambisce le istituzioni e interroga la nostra coscienza collettiva. Nel 2024, nella sola Italia, sono stati censiti 877 episodi di antisemitismo, quasi il doppio rispetto al 2023. Di questi, 600 sono cresciuti nelle fogne dell’online, veicolati da hashtag e slogan che glorificano il terrorismo e demonizzano Israele e il popolo ebraico. Mentre i 277 episodi «materiali» vanno dalle aggressioni fisiche (da 32 a 68 in un anno), alle scritte e ai simboli nazisti su edifici e cimiteri, alle minacce dirette a studenti, docenti e membri delle comunità ebraiche, a boicottaggi e discriminazioni nei luoghi pubblici e nelle università. Il 94% degli ebrei italiani dichiara di aver subito almeno un episodio di antisemitismo nell’ultimo anno. In alcune città, studenti ebrei e israeliani hanno dovuto nascondere la propria identità o cambiare scuola per paura di ritorsioni. La distribuzione dei periodici delle comunità ebraiche avviene in modo clandestino, per evitare reazioni ostili.

L’esplosione nelle manifestazioni pubbliche
  L’antisemitismo è esploso poi nelle manifestazioni pubbliche, dove la critica (legittima) alla politica israeliana si trasforma in odio antiebraico alimentato da gruppi estremisti, dal falso storico che equipara il «sionismo» al razzismo o al colonialismo, e da guitti politici alla Conte che soffiano sul fuoco per un voto in più da recuperare nella melma. Nel mondo, dopo il 7 ottobre 2023, l’escalation globale dell’antisemitismo ha riguardato – dicono i tanti dossier – la Francia, la Germania, il Regno Unito, gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, l’Argentina, la Svizzera, la Spagna, con aggressioni fisiche, vandalismi a sinagoghe e cimiteri, minacce, discriminazioni, boicottaggi, oltre alla solita valanga di odio online. In Svizzera, i casi sono aumentati del 42,5% nel 2024 rispetto all’anno precedente; in Francia, gli episodi sono più che quadruplicati; in Germania, tra ottobre 2023 e gennaio 2024, si sono registrati quasi tanti episodi quanti in tutto il 2022. Negli Stati Uniti, nei campus universitari si moltiplicano le intimidazioni, e le minacce contro studenti ebrei sono all’ordine del giorno. Perché il salto di qualità dell’antisemitismo dei nostri tempi è che non occupa più soltanto i margini della società, ma si è infiltrato nei rami alti, dalle Università alle scuole, ai social network, ai media, ai luoghi di lavoro, per sfociare nei salotti buoni in cui è obbligatorio pronunciare la frase chiave: «Io antisemita? Nemmeno per idea, starei con Israele però stanno esagerando, però Netanyahu…». Le stesse cose che sentivo dire da ragazzo, quando gli odiati erano Golda Meir, e poi via via i Begin, i Barak e gli Sharon: tutti urticanti e fastidiosi solo perché combattevano per la sopravvivenza di Israele.

Aspettando le prossime vittime
  Ora la guerra di Gaza ha fatto riemergere le radici profondissime di un odio che si alimenta delle più nefaste teorie cospirazioniste e negazioniste e di quella retorica della «colpa collettiva» che è la più atroce delegittimazione dell’identità ebraica. Per questo non ci stupisce affatto l’episodio di Washington, «ordinaria» messa in pratica di subculture primitive. E, mentre aspettiamo le prossime vittime e le prossime giaculatorie delle anime belle, non possiamo fare altro che continuare la nostra piccola battaglia quotidiana in difesa di quegli elementari e basilari principi di civilizzazione che portano scritti a caratteri cubitali la parola «Israele».

(Il Riformista, 23 maggio 2025)

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Attentato antisemita a Washington: uccisi due diplomatici israeliani

di Luca Spizzichino

Due giovani funzionari dell’Ambasciata di Israele negli Stati Uniti sono stati assassinati mercoledì sera nei pressi del Capital Jewish Museum, nel cuore di Washington DC. L’attentato è avvenuto al termine di un evento organizzato dall’American Jewish Committee (AJC), come ha confermato il CEO Ted Deutch in una nota. “Una serata di diplomazia e dialogo si è trasformata in un incubo. Questo è un attacco all’intera nostra comunità. Piangiamo due amici e partner preziosi” ha dichiarato Deutch, che ha aggiunto: “Siamo sconvolti dalla brutale uccisione di due giovani impegnati nella costruzione di ponti tra Israele e il mondo. L’odio antisemita non può trovare spazio in una società libera. La memoria di Sarah e Yaron sarà per sempre un simbolo di impegno, pace e speranza”.
  Le vittime sono Yaron Lischinsky, 28 anni, e Sarah Milgrim, funzionari della missione diplomatica israeliana. Entrambi erano presenti alla serata in rappresentanza dell’ambasciata. I due, che, secondo l’ambasciatore israeliano Yehiel Leiter stavano  per fidanzarsi, sono stati raggiunti da colpi d’arma da fuoco sparati a distanza ravvicinata mentre lasciavano l’edificio. Sarah Milgrim lavorava nel dipartimento per la diplomazia pubblica. Aveva conseguito due lauree magistrali in studi internazionali e sviluppo sostenibile. Il suo impegno nella promozione del dialogo interreligioso e nella cooperazione ambientale era al centro della sua attività professionale. Yaron Lischinsky, invece, lavorava nel dipartimento politico dell’ambasciata. Laureato in Relazioni Internazionali e specializzato in Diplomazia e Strategia, era un convinto sostenitore degli Accordi di Abramo e dell’importanza del dialogo interculturale nel Medio Oriente.
  Il Capo della Polizia Metropolitana di Washington, Pamela Smith, ha definito l’attacco “un crimine d’odio alimentato da antisemitismo”. Ha aggiunto che le autorità federali stanno collaborando per chiarire ogni aspetto dell’attentato. Il responsabile dell’attacco è stato identificato come Elias Rodriguez, 30 anni, residente a Chicago. Secondo la polizia, l’uomo ha aperto il fuoco contro un gruppo di partecipanti all’evento, gridando slogan antisemiti e filopalestinesi. Dopo aver sparato, è entrato nel museo dove è stato fermato dalla sicurezza e ha ammesso la propria responsabilità gridando “Free Palestine”. Rodriguez, secondo fonti investigative, era legato a un gruppo estremista di estrema sinistra con posizioni radicali contro Israele. In passato aveva partecipato a proteste organizzate dalla Party for Socialism and Liberation, una formazione marxista-leninista. Proprio il giorno dell’attentato, il gruppo aveva pubblicato online una petizione per boicottare Israele, parlando di “genocidio contro i palestinesi”.
  L’attacco ha immediatamente suscitato la condanna unanime delle istituzioni americane e israeliane. Il presidente Donald Trump ha definito l’episodio “un orrore assoluto”, affermando che “queste uccisioni basate sull’antisemitismo devono finire adesso”. Anche la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, spesso critica verso le politiche israeliane, ha condannato con fermezza l’attacco: “Assolutamente nulla giustifica l’omicidio di innocenti. L’antisemitismo è una minaccia per tutta la nostra società. Deve essere affrontato e sradicato ovunque.”
  Il Presidente israeliano Isaac Herzog ha espresso “profondo cordoglio” alle famiglie, ricordando che “Israele e Stati Uniti resteranno uniti contro l’odio e il terrorismo”. Danny Danon, ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha definito la sparatoria un “atto depravato di terrorismo antisemita”. “Fare del male alla comunità ebraica significa oltrepassare una linea rossa. Siamo fiduciosi che le autorità statunitensi intraprenderanno azioni forti contro il responsabile di questo atto criminale. Israele continuerà ad agire con determinazione per proteggere i propri cittadini e rappresentanti, ovunque nel mondo”, ha aggiunto. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso profondo shock per l’attentato antisemita, che è frutto della “selvaggia istigazione” contro Israele e ha ordinato un rafforzamento della sicurezza nelle missioni diplomatiche del Paese in tutto il mondo.

(Shalom, 22 maggio 2025)
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L’onda di odio che fomenta gli assassini

I mandanti morali della loro uccisione, coloro che armano le mani di esaltati, psicotici, uomini ordinari intenti a un giorno o a una notte di ordinaria follia, sono coloro che da mesi e mesi, continuano a ripetere che Israele è uno Stato genocida, che affama i bambini, che ama uccidere i bambini, che con deliberata e sadica efferatezza gli spara in testa a bruciapelo come scrive in un suo libro, chiamiamolo libro, la giornalista glamour Rula Jebreal, che li uccide per hobby come ha detto Yair Golan, ex ufficiale di alto rango dell’IDF, ora politico di quarta fila in una formazione di estrema sinistra, per poi, dopo la profonda indignazione suscitata in Israele dalle sue parole, arrampicarsi penosamente sugli specchi affermando che no, lui non voleva dire che l’esercito israeliano uccide i bambini per sport, ma voleva attaccare il governo in carica.
  Qui in Italia, abbiamo solo da scegliere tra chi ogni giorno provvede a sostenere la narrativa di un Paese mostruoso che affama e uccide i bambini (quelli che sono stati uccisi con vero sadico diletto da i jihadisti di Hamas, tra cui il piccolo Bibas, strangolato a mani nude).
  Tra di loro, Alessandro Orsini, che è stato denunciato dalla Comunità ebraica di Roma per istigazione all’odio razziale per i suoi deliranti post contro Israele.
  Qualcuno poi, convinto effettivamente che gli israeliani uccidono i bambini per diletto, che siano demoni, prende in mano un fucile o una pistola, e spara contro i “demoni”. I demoni ebrei. E su questa falsariga appare tra le abituali sconcezze pubblicate ogni giorno sui social, un post a firma di dejalanuit ovvero, Giuseppe Flavio Pagano responsabile comunicazione della biblioteca delle oblate di Firenze, in cui Fiamma Nirenstein viene paragonata a un demone e insultata in quanto “verme nazista”.
  Il copione è sempre quello. Prima si deumanizza con le parole, poi dopo, l’ebreo ridotto a scarto o mostro, si provvede a eliminarlo, come è successo a Washington.
  Se l’obiettivo della guerra contro Hamas, iniziata da Israele a seguito dell’eccidio da esso perpetrato il 7 ottobre 2023, era di sconfiggere il nemico, come è di prassi l’obiettivo di ogni guerra, dopo diciassette mesi non è stato raggiunto. È inutile consolarsi sottolineando che Hamas è stato fortemente depotenziato, che i suoi principali leader sono stati uccisi, che la sua struttura militare operativa è stata ridotta notevolmente, che non è più in grado di lanciare migliaia di razzi  su Israele, che non governa più tutta la Striscia ma solo parte di essa. Hamas è ancora in piedi e ancora in grado di combattere nonostante le vaste perdite e la ingente diminuzione della sua capacità aggressiva. La vittoria, dunque non può essere ancora proclamata.
  Se l’altro obiettivo della guerra era la liberazione dei 251 ostaggi detenuti da Hamas, nonostante la maggioranza di essi sia stata liberata, senza contare quelli uccisi, nella Striscia ne permangono su 58, ancora 21 vivi. Anche questo obiettivo non è stato raggiunto totalmente.
  Allo stesso tempo, a Gaza, ridotta in buona parte ad un ammasso di macerie, la popolazione si trova a doversi confrontarsi con le inevitabili condizioni drammatiche della guerra. Dopo avere provveduto con regolarità ad inviare centinaia di camion contenenti viveri, per due mesi Israele aveva deciso di sospenderli a causa del loro saccheggio sistematico da parte di Hamas. Questa decisione ha inevitabilmente provocato l’accusa che si esso volesse affamare la popolazione attraverso una carestia programmata. Niente di più falso, ma è un’altra delle accuse che si assommano a quelle già lanciate e che si raggruppano tutte sotto il cappello dell’accusa principale, di volere genocidiare gli abitanti della Striscia.
  Ieri il ministro degli Esteri della Gran Bretagna, David Lammy, ha lanciato contro Israele una durissima requisitoria, che segue le aspre critiche della Francia e le dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Kaja Kallas di volere rivedere gli accordi di cooperazione commerciale tra la UE e Israele, se la situazione a Gaza non migliorerà. Da Washington, nonostante la Casa Bianca non abbia messo Israele sotto torchio come faceva quando il presidente era Joe Biden, sembra non spirare un vento del tutto favorevole. Trump, non è un mistero per nessuno, desidera che la guerra abbia termine e non ha disponibilità a trascinarla a oltranza.
  Sono molteplici e intersecate le ragioni che non hanno ancora permesso a Israele di vincere la guerra più lunga dalla sua fondazione ad oggi. Dalla presenza degli ostaggi che ha impedito un attacco massiccio volto alla conquista dell’enclave, dalla riluttanza del comando militare israeliano a porsi questo obiettivo, dalla difficoltà operativa incontrata su un terreno, dalle interferenze americane sotto l’Amministrazione Biden, volte a commissariare il conflitto imponendogli le proprie priorità, dai negoziati con Hamas, l’ultimo voluto da Trump, che hanno ulteriormente allungato i tempi, dal rifornimento continuo di viveri, mai visto in nessun altro teatro di guerra, che ha avvantaggiato Hamas. Tutto questo ha fatto sì che la guerra si trascinasse fino ad oggi. Ma è un trascinamento che non può durare ancora a lungo.
  Israele può scrollare le spalle di fronte al montare della pressione internazionale nei suoi confronti, dell’aumento esponenziale dell’odio e della propaganda atta a rappresentarlo come uno Stato criminale, ci ha fatto il callo, ma non può esimersi, arrivato a questo punto, dal chiudere una guerra che è durata troppo a lungo.
  La natura umorale e ondivaga di Trump è una ipoteca troppo grossa, e il momento in cui l’unico vero alleato che per Israele conta, gli Stati Uniti, inizino ad aggiungersi al coro di chi chiede la fine della guerra, potrebbe non essere lontano. Finirla senza avere sconfitto Hamas, sarebbe l’esito peggiore, anche se, nel frattempo, gli ultimi ostaggi avessero fatto ritorno a casa.

(L'informale, 22 maggio 2025)

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Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui

di Filippo Piperno

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Scritta in ebraico: "Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui"

Un cartello scritto in ebraico e appeso alla porta di una merceria nel pieno centro di Milano con una scritta in ebraico: “Gli israeliani sionisti non sono benvenuti qui”. Lo ha notato Roberto Della Rocca, membro della Camera di commercio israelo-italiana, che ha condiviso la foto sui suoi profili social.
  Acclariamo che la moda partita dalla pugnace trattora di Napoli, di selezionare la propria clientela in base a demeriti di nascita, si sta dunque diffondendo. Per il momento riguarda gli israeliani e da ultimo la fantomatica categoria degli israeliani “sionisti”.
  In attesa che colpisca anche i ciclisti e i bevitori di Sambuca, dobbiamo rimarcare che, tra le tante stupidaggini che si sono potute leggere su Israele, questa dell’israeliano “sionista” è una delle più stupide ma, in vero, denota tutto quell’indicibile che si nasconde dietro alla propaganda propal malamente rimasticata in occidente.
  Scimmiottare la propaganda dei nemici d’Israele e prendersela con il sionismo (“Entità sionista”, sionisti, sionismo sono termini usati da Hamas, dall’Iran e da altri potenziali distruttori d’Israele) testimonia una volta ancora la grande confusione (o l’ipocrisia?) che regna nel diffuso antisemitismo orecchiante che ha trovato nello sdoganamento della criminalizzazione d’Israele la sua tana libera tutti.
  Eppure non ci vuole molto a capire che il sionismo può dispiacere solo a chi ritiene una sciagura la nascita e l’esistenza dello Stato d’Israele, resi possibili proprio dal movimento sionista. E non dovrebbe essere complicato comprendere, conoscendo un po’ di storia, che il sionismo ha esaurito la propria missione il giorno stesso in cui Israele è nato.
  Per cui solo iscrivendosi tra i nemici giurati d’Israele dà il diritto a considerarlo come un’entità sionista da cancellare dal “fiume al mare”. Ohibò! Esattamente quello che accade nella ruminante propaganda propal di seconda mano che affolla il dibattito pubblico occidentale e ora si va estendendo anche a qualche bottega.
  Accade che il conformismo e il perbenismo agiscano come leve potenti e, poiché a parlare male degli ebrei si fa peccato ma a parlar male d’Israele si può e anzi si “deve”, ecco farsi strada la consuetudine furbastra dei distinguo: c’è l’ebreo buono, in genere già morto in un lager, e c’è l’ebreo cattivo, vivo e in carne ed ossa che si ostina a non dissociarsi dai crimini d’Israele. Non bastava.
  Occorreva sofisticare il concetto ed estenderlo anche agli israeliani buoni e a quelli cattivi: i sionisti. I primi possono entrare, i secondi no.

(InOltre, 22 maggio 2025)

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“Non silenziosi, ma silenziati”: la resistenza taciuta dei Palestinesi contro Hamas

di Sofia Tranchina

Continuano nella Striscia di Gaza le mobilitazioni popolari contro l’autorità di Hamas, segnalando un persistente dissenso interno nonostante le gravi condizioni di sicurezza e la militarizzazione del territorio.
Lunedì 19 maggio, a Khan Younis, nel contesto di un imminente attacco su larga scala annunciato dall’esercito israeliano – che ha dichiarato l’area zona di combattimento attivo in vista di un’“offensiva senza precedenti” e ha emesso un avvertimento straordinario di evacuazione – centinaia di cittadini palestinesi sono scesi ancora una volta in piazza chiedendo la fine del conflitto armato e la destituzione del governo de facto di Hamas.
Le manifestazioni, che si sono estese a più aree urbane del sud della Striscia, sono state caratterizzate ancora una volta da slogan espliciti come “Fuori Hamas” e richieste per una governance civile e non armata, auspicando una riorganizzazione istituzionale in grado di rappresentare i bisogni reali della popolazione.
Il gruppo islamista è divenuto espressione quotidiana di un autoritarismo repressivo e autoreferenziale, e i palestinesi, esausti da un anno e mezzo di guerra, con morti, distruzione e insicurezza alimentare, mostrano una crescente esasperazione nei suoi confronti.
Hamas, come documentato da innumerevoli fonti indipendenti, ha implementato una strategia deliberata di militarizzazione della vita civile: tunnel sotto scuole e ospedali, utilizzo sistematico della popolazione come scudo umano, repressione della stampa e delle voci dissidenti. Questa logica strumentale del martirio collettivo ha avuto come unico esito il consolidamento del proprio controllo, a discapito della sopravvivenza della popolazione, e ha compromesso la stessa causa palestinese, e il dialogo con la comunità internazionale.
L’intento dei protestanti non è, evidentemente, di assolvere Israele dalle fondamenta etiche che dovrebbero guidare l’uso della forza militare in un contesto di estrema asimmetria, né dalle gravi responsabilità che ha nei confronti dei civili gazawi vittime del conflitto. «Radere al suolo un territorio con oltre 2 milioni di persone per colpire circa 15.000 terroristi, al fine di raggiungere 23 ostaggi vivi e 35 corpi — che prego Dio vengano salvati e liberati al più presto — sembra qualcosa di ampiamente sproporzionato, incredibilmente irresponsabile», scrive l’attivista palestinese Ahmed Fouad Alkhatib, aggiungendo: “Ma — e non fatevi ingannare — Hamas ha preso decisioni che ci hanno portati fin qui; Hamas è un partner malvagio nella distruzione dei sogni e delle aspirazioni del popolo palestinese».
Ahmed Fouad Alkhatib ha sottolineato anche le differenze abissali tra le condizioni del dissenso in Israele e quelle nella Striscia: criticare il governo israeliano comporta costi sociali; opporsi a Hamas significa mettere a rischio la propria vita. Nonostante ciò, i gazawi persistono nelle loro richieste di demilitarizzazione, assistenza umanitaria e sovranità civile. Il fatto stesso che tali richieste vengano articolate in contesti di estrema vulnerabilità, sotto minaccia costante, restituisce soggettività politica ai gazawi, non come strumenti di una causa, ma come agenti di cambiamento che rivendicano i propri diritti.
La crescente dissonanza tra una parte significativa della società civile palestinese e l’apparato autoritario di Hamas si è inasprita a seguito dell’intensificarsi delle operazioni militari, dell’acuirsi delle condizioni umanitarie e della sistematica negazione di diritti fondamentali perpetrata dal gruppo islamico.
Le violazioni della libertà di stampa sono state documentate dal Committee to Protect Journalists (CPJ). Giornalisti come Tawfiq Abu Jarad e Ibrahim Muhareb hanno subito minacce, pestaggi e intimidazioni da parte di Hamas per aver tentato di documentare proteste e condizioni di vita nella Striscia: «Quando il giornalista gazawo Tawfiq Abu Jarad ha ricevuto una telefonata da un agente della sicurezza di Hamas che lo avvertiva di non coprire una protesta, ha subito obbedito: era già stato aggredito una volta da forze affiliate a Hamas».
Secondo le testimonianze raccolte, le autorità di Hamas non esitano ad equiparare il giornalismo critico allo spionaggio, legittimando così la repressione e contribuendo a instaurare un clima di autocensura generalizzata. Il raro giornalismo indipendente a Gaza sopravvive in condizioni estreme, tra minacce dirette e l’omertà imposta dalla paura.

L’inerzia dell’occidente “propalestinese”
  In questo scenario, appare paradossale l’inerzia di parte del mondo accademico, dei movimenti sociali e dei media, spesso pronti a mobilitarsi contro le violazioni dei diritti umani in altri contesti, ma reticenti nel riconoscere le dinamiche autoritarie interne ai contesti che si presume di difendere. Questa reticenza non solo indebolisce la credibilità morale delle istituzioni e degli attori coinvolti, ma contribuisce anche a perpetuare un’ingiustizia che silenzia le vittime quando esse non rientrano nei canoni ideologici dominanti. Il silenzio o la marginalizzazione operata riguardo alle manifestazioni diventa ingombrante. La mancata copertura e l’assenza di reazioni sollevano interrogativi sull’onestà intellettuale con cui viene affrontata la questione palestinese, e in particolare sulla capacità dell’opinione pubblica di elaborare una comprensione complessa e disallineata dagli schemi dicotomici a cui siamo abituati
L’attivista Hamza Howidy, figura di riferimento del movimento Bidna Naish, afferma che le manifestazioni rappresentano “una maggioranza”, che non è “silenziosa”, ma “silenziata”. Vengono escluse dal dibattito internazionale le voci dissidenti, che invece andrebbero protette e valorizzate proprio per la loro capacità di sfidare il pensiero dominante.
«I cosiddetti giornalisti “indipendenti” di testate filo-palestinesi come The Intercept, DropSite News, Zeteo, Democracy Now, Al Jazeera, The Guardian, Amnesty International o Human Rights Watch non documentano la brutalità di Hamas contro manifestanti o giornalisti palestinesi a Gaza», scrive Ahmed Fouad Alkhatib. «Hamas promuove solo una manciata di reporter altamente selezionati per raccontare la guerra esclusivamente da una prospettiva antisraeliana e che non osano mai criticare l’organizzazione. Gli altri, devono autocensurarsi per sopravvivere».
La solidarietà con il popolo palestinese, se intesa come espressione di un’etica politica coerente e non come riflesso ideologico, impone di distinguere chiaramente quello che è un regime autoritario che esercita il potere tramite coercizione, propaganda e repressione.
Le manifestazioni di Khan Younis chiedono di restituire complessità al discorso sulla Palestina, con rigore analitico, coscienza morale e responsabilità storica, e smascherare le narrazioni che riducono il conflitto a un teatrino ideologico.

(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2025)

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Quando Kafka incontrò il rabbino nella foresta

di Adam Smulevich

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GERUSALEMME – «Ogni sera, verso le sette e mezza o le otto, il Rebbe esce in macchina. Si muove lentamente nella foresta e alcuni dei suoi discepoli seguono la macchina a piedi. Scende dalla macchina in un punto designato in anticipo e cammina con i suoi seguaci lungo i sentieri della foresta fino al tramonto. All’ora della preghiera, verso le dieci, torna a casa…».
  È il 1916 quando Franz Kafka, in una lettera a Max Brod, descrive la vivida impressione di un incontro con un rabbino del movimento chassidico e la sua corte. Un documento inedito, esposto fino al 30 giugno prossimo alla Biblioteca Nazionale d’Israele (Nli) nell’ambito dell’esposizione Kafka: metamorfosi di un autore. In occasione dei cento anni dalla morte dello scrittore praghese (con uno slittamento di qualche mese rispetto alla data inizialmente prevista), la Nli ha tracciato un percorso il cui punto focale è il rapporto di Kafka con l’ebraismo e la sua identità ebraica. Diari, lettere, disegni, bozze: una parte del patrimonio di carta che Brod salvò dalla distruzione, disattendendo la richiesta dell’amico in punto di morte, risalta nel coinvolgente allestimento che abbiamo visitato con la guida di una delle curatrici, Karine Shabtai.
  Shabtai si sofferma su alcuni dei documenti più interessanti in dotazione alla Nli, che nel 2019 ha ricevuto dalla Corte Suprema d’Israele l’incarico di custodire l’archivio Kafka. Vicino alla celebre Lettera al padre, ecco gli esercizi di ebraico su un quadernino del 1920 pieno di vocaboli con traduzione tedesca a fianco. «Aveva iniziato a dedicarcisi alcuni anni prima », spiega la curatrice. «Le parole più antiche le trascriveva direttamente dal Tanakh, l’insieme dei testi sacri ebraici». La sua insegnante si chiamava Puah Ben Tovim, una giovane “sabra” nativa di Gerusalemme, giunta a Praga per studiare matematica. Insegnava per sostenere le sue spese e Kafka la conobbe attraverso Hugo Bergmann, il grande filosofo amico fin dai tempi delle elementari. Anche lungo questo filone ricorre nella mostra il tema dell’identità. «Cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla in comune con me stesso e dovrei stare molto tranquillo in un angolo, contento di poter respirare », scrisse Kafka. Certo è che per un periodo cullò comunque il pensiero di emigrare nell’allora Palestina mandataria. Qui, secondo Brod, avrebbe voluto vivere come «un semplice artigiano».
  Kafka: metamorfosi di un autore, il cui curatore principale è Stefan Litt, non si sottrae alle domande spinose. «A chi appartiene Kafka?», ad esempio. In uno spazio apposito è affrontata la controversia legale citata in precedenza, arrivata al termine di un dibattito acceso e spesso polarizzante. Da una parte chi, come la Biblioteca Nazionale d’Israele, sottolineava come le sue opere andassero considerate «patrimonio nazionale ebraico» e rivendicava di essere il posto giusto per valorizzarle. Dall’altra chi ne enfatizzava il carattere tedesco o, in senso più ampio, universale. Una sezione tra le più stimolanti è poi dedicata a come fu recepito in Israele e in Medio Oriente. Le prime traduzioni in arabo di suoi racconti, racconta Shabtai, risalgono alla fine degli anni Sessanta. Un fenomeno che interessò in particolare Egitto, Siria, Libano e Giordania, «aprendo una discussione sulle posizioni di Kafka rispetto alla sua identità ebraica e al sionismo». Se ne continua a parlare. Anche a Gerusalemme.

(moked, 21 maggio 2025)

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“Il nostro impegno per un Israele democratico e una diaspora forte”. Il passato e il presente di Hashomer Hatzair e Meretz Italia

In vista del Congresso Sionistico Mondiale, che si terrà a ottobre, parla Laura Gutman Benatoff, candidata per il gruppo Meretz Italia – Hashomer Hatzair. “Un patto generazionale”

di Ester Moscati

A ottobre si terrà a Gerusalemme il 39° Congresso sionista mondiale e l’Italia invierà al Congresso tre delegati, eletti dalla Federazione Sionistica Italiana a fine maggio tra le sette compagini che hanno proposto dei candidati. Il Sionismo ha avuto nel corso della sua storia diverse anime e origini: dal sionismo religioso a quello socialista, passando per il sionismo liberale, quello revisionista e, più recentemente, il post-sionismo e il neo-sionismo.
I sette gruppi che si sono messi in gioco per portare a Gerusalemme i propri rappresentanti sono, in ordine alfabetico, Arzenu Italia, Herut Italia, Likud Italia, Mizrachi Benè Akiva, Meretz Italia – Hashomer Hatzair, Over the rainbow Italia – ADI, Shas Italia. Tante ispirazioni diverse, unite dall’amore per Israele e dalla preoccupazione per il suo futuro.

- Come e quando nasce Hashomer Hatzair in Italia?
  L’Hashomer Hatzair porta con sé oltre 112 anni di storia: nato nel 1913 in Galizia, ha attraversato i momenti più cruciali della storia ebraica del Novecento. Non è stato solo un movimento giovanile, ma una forza attiva contro l’antisemitismo, un protagonista nella creazione dello Stato di Israele e un elemento vitale della Resistenza durante la Shoah. Nel 1992, in Italia, l’unione tra ex bogrim dell’Hashomer Hatzair e militanti di Mapam ha dato vita a Meretz Italia, creando un ponte tra generazioni e tradizioni.
Oggi il nostro movimento è una realtà vibrante in 26 paesi, con una missione che rimane immutata: promuovere giustizia sociale, educazione ebraica di qualità e un sionismo umanista. In Italia, attraverso i diversi kenim, non ci limitiamo a trasmettere tradizioni ebraiche, ma coltiviamo un’identità ebraica progressista che rafforza il legame vitale tra diaspora e Israele.

- Quale linea politica seguite in relazione ai recenti eventi in Israele?
  Il 7 ottobre 2023 ha segnato una ferita profonda per Israele e l’intero popolo ebraico. Il massacro perpetrato da Hamas ha spezzato oltre mille vite e lasciato famiglie devastate dalla perdita dei propri cari portati in ostaggio a Gaza.
Oggi i Democratim, l’alleanza tra Meretz e il Partito Avodah, sono guidati da Yair Golan – ex Vice Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane, un leader che unisce visione politica, esperienza e coraggio. Ha inoltre servito come vice ministro dell’Economia nel governo Bennett-Lapid del 2021 per Meretz e come membro della Knesset dal 2019 al 2022.
Durante l’attacco del 7 ottobre, Golan ha dimostrato cos’è la vera leadership: non appena è stato avvertito di ciò che stava accadendo, ha indossato la sua uniforme, è salito in auto e ha raggiunto il sud di Israele. Dopo aver ricevuto chiamate da genitori preoccupati per i loro figli che si nascondevano dai terroristi di Hamas sul terreno del festival musicale Nova, ha consultato Google Maps e si è diretto in quella direzione, riuscendo a salvare diversi giovani. Nonostante fosse praticamente da solo, ha scelto di agire senza attendere ordini, dimostrando come nei momenti di crisi l’iniziativa personale possa fare la differenza. Le sue azioni in quelle ore drammatiche riflettono esattamente i valori che guidano il nostro movimento.
La nostra visione politica è chiara: vogliamo preservare un Israele democratico con una giustizia indipendente, dove tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, e che cerchi una soluzione politica al conflitto israelo-palestinese e israelo-arabo.
Il pogrom ha colpito in modo particolare i kibbutz, cuore pulsante dell’identità israeliana. I kibbutzim Artzi, legati all’Hashomer Hatzair, rappresentano il 32% di tutti i kibbutzim del paese – il nostro movimento è stato quindi colpito nel suo nucleo più profondo. Questa non è politica astratta per noi: è personale. Anche la mia famiglia è stata toccata direttamente – mia cugina e i suoi quattro figli, residenti nel kibbutz Be’eri, sono sopravvissuti fisicamente all’attacco, ma portano ferite psicologiche profonde che nessuno può ignorare.
Oggi siamo in prima linea nella ricostruzione delle comunità colpite, sostenendo ogni passo di questo difficile cammino. Ma una verità rimane salda: nessuno di noi – in Israele o nella diaspora – potrà sentirsi davvero in pace finché ognuno dei 58 ostaggi ancora trattenuti non sarà tornato a casa. Il loro ritorno è e rimane una priorità nazionale e morale assoluta.

- Perché hai scelto di candidarti al Congresso Sionista Mondiale? Qual è il tuo legame con Israele?
  Il mio legame con Israele ha radici profonde nella storia della mia famiglia. I miei nonni, sopravvissuti ad Auschwitz, mi hanno tramandato una verità essenziale: quando uscirono dai campi, fu Israele ad accoglierli, offrendo loro non solo una casa e una cittadinanza, ma la possibilità concreta di ricostruire una vita dignitosa. Queste testimonianze hanno forgiato in me un senso di appartenenza e gratitudine che va oltre la semplice identità.
A 18 anni ho fatto una scelta consapevole, diventando una sionista attiva: mi sono trasferita in Israele per studiare all’Università di Tel Aviv. Questa scelta di vita era guidata dalla volontà di contribuire alla costruzione di un Israele democratico, pluralista e in costante dialogo con la diaspora.
La mia candidatura nasce dal profondo legame con l’Hashomer Hatzair, movimento che ha plasmato la mia identità ebraica e che continua a vivere nella generazione successiva. I miei tre figli ne fanno parte attivamente: mia figlia maggiore è una bogheret ‘senior’ del ken di Milano, mio figlio è madrich (istruttore) e quest’estate proseguirà la sua formazione in Israele presso i kibbutz Mishmar HaEmek e Sasa, mentre la mia figlia più piccola ha appena iniziato con entusiasmo il suo percorso di formazione come madricha (istruttrice).
Con un’altra candidata del movimento di Roma, sosteniamo con passione la gioventù impegnata in Italia, consapevoli che le decisioni del Congresso Sionista possono avere un impatto concreto sulle nostre comunità. Il nostro impegno è chiaro: lavorare affinché i fondi vengano reinvestiti nei movimenti giovanili e rappresentare efficacemente i loro interessi presso l’Agenzia Ebraica. Puntiamo a formare una nuova generazione di leader che si impegnino per un Israele democratico, portando avanti una visione progressista del sionismo e del nostro patrimonio ebraico nella diaspora.

- Qual è la vostra visione per il futuro?
  Votare per Meretz e Hashomer Hatzair significa scegliere di difendere i valori profondi dell’ebraismo come cultura e identità del nostro popolo. Significa investire in un futuro dove la ricca tradizione ebraica continui a vivere attraverso le nuove generazioni, mantenendo vivo il dialogo tra Israele e diaspora.
Non stiamo solo chiedendo il vostro voto: vi invitiamo a unirvi a un movimento che da oltre un secolo combatte per un ebraismo umanista, per la giustizia sociale e per un Israele democratico e inclusivo. In un momento storico così complesso, la vostra partecipazione attiva è più che un diritto: è una responsabilità verso il futuro delle nostre comunità.
Il momento di agire è adesso. Costruiamo insieme il futuro dell’ebraismo progressista – in Israele e nella diaspora.

(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2025)

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Trump nomina 4 rabbini ortodossi tra i consiglieri della nuova Commissione per la Libertà Religiosa

Quattro rabbini ortodossi sono tra le 26 persone nominate dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump per consigliare la sua neoformata Commissione per la Libertà Religiosa. Altri due attivisti ebrei di gruppi di difesa di destra fanno parte della commissione, che Trump ha annunciato all’inizio di questo mese. I critici della commissione hanno sostenuto che essa asseconda le preoccupazioni dei cristiani evangelici e riflette un ampio sforzo dell’amministrazione Trump per erodere la separazione tra chiesa e stato. Trump ha espresso scetticismo riguardo a questo stesso principio, anche durante l’evento nel Giardino delle Rose della Casa Bianca nella Giornata Nazionale della Preghiera dove ha annunciato la commissione.
Separazione? È una cosa buona o cattiva? Non sono sicuro,” ha detto, aggiungendo: “Stiamo riportando la religione nel nostro paese. È una cosa importante.
All’epoca, Trump nominò diverse persone nella commissione, tra cui una serie di leader e influencer cristiani, nonché l’ex seconda classificata di Miss USA Carrie Prejean Boller e il personaggio televisivo Dr. Phil. Tra i nominati c’era anche un leader ebreo, il rabbino Meir Soloveichik, studioso senior presso il Tikvah Fund, un think tank ebraico politicamente conservatore, e rabbino della Congregazione Shearith Israel, una sinagoga ortodossa che è la più antica congregazione ebraica degli Stati Uniti.
Giovedì, Trump ha annunciato tre comitati consultivi per aiutare il lavoro della commissione. I loro membri includono altri quattro rabbini e due leader ebrei.
Tutti i rabbini sono affiliati all’ortodossia, che rappresenta l’8% dell’ebraismo americano ma costituisce una porzione significativa del sostegno ebraico a Trump. Mentre la grande maggioranza degli ebrei americani disapprova l’operato di Trump come presidente, gli ebrei ortodossi hanno mostrato un forte sostegno: più del 71% approva il lavoro che sta facendo, mentre meno del 20% lo disapprova, secondo un recente sondaggio.
Gli ebrei nominati nei comitati consultivi della Commissione per la Libertà Religiosa includono Jason Bedrick, il primo ebreo ortodosso eletto al parlamento del New Hampshire. Ora ricercatore presso il Centro per la Politica dell’Istruzione della Heritage Foundation, si descrive come un “ebreo testardo” sul suo account X, dove spesso sostiene la libertà di scelta scolastica.
Il rabbino Mark Gottlieb è il capo dell’istruzione di Tikvah e preside fondatore del Programma Tikvah Scholars. È stato anche uno dei firmatari della Dichiarazione di Phoenix, che chiede la scelta dei genitori nell’istruzione americana e l’insegnamento agli studenti dei “principi fondanti dell’America e delle radici nelle più ampie tradizioni occidentali e giudaico-cristiane“. È stata prodotta dalla Heritage Foundation, un think tank conservatore.
Alyza Lewin è presidente del Louis D. Brandeis Center for Human Rights Under Law, un gruppo legale pro-Israele attivo nelle cause nei campus, e cofondatrice e partner di Lewin & Lewin, uno studio legale. Nel 2014, Lewin ha discusso davanti alla Corte Suprema per il riconoscimento di Israele come luogo di nascita sui passaporti statunitensi, che l’amministrazione Trump ha approvato nel 2020.
Il rabbino Yaakov Menken è il vicepresidente esecutivo della Coalition for Jewish Values, un gruppo conservatore intransigente che afferma di rappresentare più di 2.500 “rabbini ortodossi tradizionali” e si oppone ai valori progressisti che a suo dire costituiscono il “wokeism”. Menken ha dichiarato in un comunicato che il suo gruppo è stato “un sostenitore vocale delle protezioni della libertà religiosa per i gruppi cristiani e altri, comprendendo che qualsiasi minaccia alla loro libertà religiosa potrebbe facilmente essere usata anche contro le nostre libertà“.
Il rabbino Eitan Webb è il fondatore e direttore del Chabad di Princeton e cappellano ebraico dell’Università di Princeton dal 2007. Nel 2017, Webb ha ospitato un discorso di un legislatore israeliano di destra dopo che la Hillel di Princeton aveva cancellato la sua apparizione a causa di accuse secondo cui avrebbe fatto dichiarazioni razziste.
Il rabbino Chaim Dovid Zwiebel è il vicepresidente esecutivo di Agudath Israel of America, un gruppo ombrello ortodosso Haredi. Ad aprile, Zweibel è andato a Washington per fare pressione sui membri del Senato e della Camera affinché sostenessero un disegno di legge sul credito d’imposta per aiutare i genitori a pagare l’iscrizione dei loro figli a scuole private. Una versione di questo disegno di legge è inclusa nella proposta di bilancio del Congresso.
In un momento in cui molti segmenti della società americana si stanno allontanando dalla pratica e dall’identità religiosa, è particolarmente importante che rimaniamo vigili nel proteggere la nostra prima libertà – la libertà religiosa,” ha dichiarato Zweibel in un comunicato.
Trump ha effettuato le nomine lo stesso giorno in cui la Commissione degli Stati Uniti sulla Libertà Religiosa Internazionale ha annunciato la partenza di un importante membro ebreo, prima che la commissione si rinnovi a maggio 2026. Susie Gelman è una filantropa ebrea di lunga data e attivista pro-Israele che, fino a poco tempo fa, presiedeva il consiglio dell’Israel Policy Forum, un gruppo di difesa centrista che fa pressione per una soluzione a due stati. Nel 2016, Gelman ha espresso preoccupazione per le posizioni dell’amministrazione Trump entrante su Israele.
Il lavoro della Commissione ha tratto grande beneficio dai suoi inestimabili contributi e dalla sua visione derivante da anni di esperienza di lavoro con le comunità religiose, in particolare la comunità ebraica,” ha dichiarato in un comunicato il presidente della commissione, Stephen Schneck.
Rimangono due ebrei tra i sette commissari rimanenti, che hanno il compito di monitorare la libertà religiosa all’estero. Si tratta di Soloveichik e Ariela Dubler, un’avvocatessa e preside della Abraham Joshua Heschel School di New York.

(Kolòt - Morashà, 21 maggio 2025)

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È pazzesco! Ultraortodossi ballano con bevande energetiche

L'umorismo ebraico è presente in tutte le tribù di Israele, anche dove meno te lo aspetti. Anche gli ultraortodossi hanno senso dell'umorismo.

di Michael Selutin

I cosiddetti ultraortodossi, o charedim in ebraico, finiscono spesso sui giornali per il loro rifiuto di prestare servizio militare. A volte anche per altri eventi negativi, ma mai perché sono divertenti. Eppure anche nel loro cuore batte il famoso umorismo ebraico, che però raramente viene espresso in pubblico.
Un esempio del fatto che anche gli ebrei in abiti neri sanno divertirsi e intrattenere il pubblico è il gruppo satirico “Bardak”. Il loro nome significa ‘confusione’ o “caos” ed è proprio questo il programma del gruppo comico, che prende di mira in modo umoristico la vita dei charedim.

Danza per un amico che sta per sposarsi
Bardak è stato fondato da Efi Skakovsky e Meni Wakshtock, entrambi studenti di yeshiva ortodossa, che hanno poi scoperto il loro talento per la commedia. "Il loro stile è caratterizzato da un umorismo osservazionale che si ritrova nelle situazioni quotidiane della cultura israeliana. Gran parte del loro lavoro si concentra sulla comunità charedi, ma i loro contenuti affrontano anche temi più generali legati alla cultura, alla politica e alle dinamiche sociali israeliane. Il loro approccio è generalmente spensierato, evitano posizioni politiche esplicite e cercano di colmare i divari culturali con un umorismo comprensibile", scrive Sam Sokol a proposito di Bardak.
I bambini non devono digiunare
I suoi sketch sono recitati in ebraico e in parte in yiddish, ma per lo più sono comprensibili anche senza parole. Tuttavia, molte delle sue battute sono piuttosto “battute per addetti ai lavori”, che fanno ridere soprattutto i membri della sua comunità.
In un video, ad esempio, un gruppo di giovani uomini prova una danza per il loro amico che sta per sposarsi. È usanza ebraica rallegrare lo sposo con dei balli e nella comunità charedica ci sono alcuni uomini di talento che vivono solo per questo momento. (Al mio matrimonio, un vecchio rabbino ha improvvisamente iniziato a ballare la break dance per me. Non ero divertito, ma preoccupato per la sua salute).
Tornando al video, il giovane insegna ai suoi amici i passi della danza attribuendo a ogni movimento un significato religioso. Ad esempio, per un movimento dice “legare i tefillin (tikkunim)”, per un altro “andare al mikveh il venerdì” e così via. È particolarmente divertente quando spiega un movimento a un amico che lo interpreta in modo diverso perché è sefardita.
Un altro video tratta del vecchio problema del fatto che i bambini non devono digiunare durante il giorno di digiuno. Mentre la sinagoga è piena di uomini affamati, a volte ci sono dei bambini seduti lì che mangiano con gusto. I rumori del cibo e l'odore degli snack rendono molto difficile concentrarsi sulle preghiere. Il carismatico comico di Bardak descrive molto bene questa situazione imbarazzante, ma guardate voi stessi.

(Israel Heute, 21 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Israele vince!

Riporto, un po’ in ritardo, quello che mi ha scritto Carmela, una sorella in fede già presente altre volte su queste pagine, per farmi conoscere il modo in cui ha vissuto sabato scorso il televoto di Eurovision Song 2025, forse perché sa che non guardo la televisione. Non le ho chiesto il permesso di farlo, ma sono convinto che non mi denuncerà.  M.C.

Carissimo fratello Marcello,
il Signore benedica grandemente te e tutta la tua famiglia!
Seduta comodamente in poltrona col cuore che mi batteva aspettando i risultati del televoto, sabato sera, ho esultato vedendo Israele al primo posto!
Mi è venuto in mente un versetto del Salmo 23 “Tu apparecchi la mensa al cospetto dei miei nemici”!
Ed è stato proprio così! Serpeggiava tra le presentatrici un senso di inquietudine  e di insicurezza per quel risultato inaspettato e anche tra i conduttori italiani sgomento e incredulità… non sapevano cosa dire ed erano molto rammaricati. 
Per non parlare del pubblico, ammutolito!
C’è stato un momento in cui tutti erano schiacciati, salvo poi esultare per il risultato finale.
Io, invece, un po’ amareggiata ma col cuore colmo di gioia! In fondo anche il secondo posto è stato ottimo! Per me, Israele, sempre al primo posto!!!
So che è stata solo una competizione canora ma quando si parla di Israele, in tutti gli ambiti, mi sembra che c’è sempre una battaglia che si combatte!
Raphael Yuval non ha fatto breccia per il suo passato da scampata all’eccidio, non è stata apprezzata per le sue doti canore dal mondo pieno di livore ed invidia!
Ma ”Il Signore si è riservato tante persone che non hanno piegato il ginocchio davanti a baal”!
Inutile dire che tutto è finito lì!
Ieri mi aspettavo dei commenti che non sono arrivati! Pur di non parlare bene di Israele non si parla proprio, solo quando c’è da parlar male ci si attacca anche ad un cavillo insignificante!
Il Signore c’è! Lunga vita a Israele!!!
Parlare bene di Israele è di primaria importanza per me!
Un forte abbraccio a te e a Lidia!
In Cristo.
Carmela

(Notizie su Israele, 21 maggio 2025)

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Nuova fase offensiva e nuovi aiuti umanitari a Gaza

Nel pieno della nuova offensiva Carri di Gedeone, Israele ha deciso di ripristinare gli aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, dopo oltre due mesi di blocco totale. La mossa, disposta dal primo ministro Benjamin Netanyahu senza votazione in gabinetto, arriva dopo forti pressioni americane e su richiesta dell’esercito, scrivono i media locali. «Israele consentirà l’ingresso di una quantità base di cibo per prevenire una crisi umanitaria», ha spiegato l’ufficio del capo del governo. Determinante per questo passo, scrive ynet, l’allarme lanciato dal maggiore generale Rassan Alian, che nelle ultime 24 ore ha avvertito l’esecutivo: «Il cibo finirà entro il 21 maggio. Se non interveniamo ora, anche l’operazione militare dovrà fermarsi». Secondo Ynet, Alian ha anche risposto al ministro Itamar Ben Gvir – contrario alla riapertura – spiegando che «l’accesso ai magazzini è quasi impossibile» per la popolazione ed è necessario intervenire per evitare una carestia.
  La distribuzione sarà gestita da organizzazioni internazionali e aziende americane, senza il coinvolgimento diretto di Israele né il controllo di Hamas. Una gestione provvisoria, in attesa che entri in funzione la Gaza Humanitarian Foundation, un meccanismo coordinato da Washington e Gerusalemme, pensato per distribuire gli aiuti in modo sicuro e senza interferenze da parte di Hamas.
  Sul fronte dei negoziati, l’inviato speciale americano Steve Witkoff ha proposto un cessate il fuoco di circa due mesi in cambio del rilascio di 9-10 ostaggi. Nell’intesa ci sarebbe anche la scarcerazione di 300 detenuti palestinesi. Hamas ha respinto l’iniziativa, ribadendo di volere la fine della guerra con garanzie internazionali.
  Sul fronte militare, l’operazione israeliana è entrata in una nuova fase, con cinque divisioni impegnate dentro Gaza. «Divideremo la Striscia, sposteremo la popolazione e avanzeremo fino alla sconfitta di Hamas», ha affermato il portavoce militare Effie Defrin.

(moked, 20 maggio 2025)
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«... l’inviato speciale americano Steve Witkoff ha proposto un cessate il fuoco di circa due mesi in cambio del rilascio di 9-10 ostaggi.» Vomitevole. Si mercanteggia con la vita di persone in carne ed ossa. Witkoff potrebbe specificare quali ostaggi vuole, se uomini o donne, se giovani o vecchi, se sani o malati. E' importante saperlo, perché il valore di scambio di quelli che restano potrebbe variare in funzione del loro stato di salute. A Witkoff probabilmente verrà richiesto di affinare la raccolta-dati per la trattativa in corso. "America first" e business prima di tutto. Vomitevole. M.C.

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Houellebecq: io sto con Israele

di Giulio Meotti

ROMA - In una libreria di Tel Aviv, uno scrittore francese di fama mondiale corre in un rifugio antiaereo mentre suonano gli allarmi che annunciano i missili in arrivo dallo Yemen. Non è la scena di un romanzo, ma un momento vissuto da Michel Houellebecq giovedì scorso in Israele.Erano le 21:10 quando, come tutti i lettori riuniti per la serata, Houellebecq scese nel seminterrato del rifugio antiaereo per proteggersi da un attacco missilistico houthi. Una pianista israeliana, Ofra Yitzhaki, ha iniziato a suonare Maurice Ravel a un centinaio di persone a conoscenza delle norme di sicurezza. “La resilienza della gente qui è affascinante e dice qualcosa di profondo sull’umanità”, dice Houellebecq. Nell’ora più solitaria per lo stato ebraico,lo scrittore di “Sottomissione” e “Serotonina” non si è tirato indietro, mentre da un anno si registrano scrittori che rifiutano la traduzione in ebraico delle proprie opere (da Sally Rooney ad Alice Walker) e che firmano appelli per boicottare Israele (compresa la francese Annie Ernaux). “Dovrei capire il mondo in cui vivo e pensavo che in Europa ci fosse un movimento positivo verso gli ebrei, ma quello che è successo è completamente l’opposto”, ha detto Houellebecq nella conferenza stampa in occasione della vittoria del Premio Gerusalemme.
  “Si è semplicemente aperto un abisso” ha detto Houellebecq da Gerusalemme. “Se provo a parlare con un sostenitore di Hamas, non so nemmeno come approcciarlo, il dialogo è impossibile”.
  Il presidente israeliano, Isaac Herzog, si è rivolto a Houellebecq durante la cerimonia di premiazione: “Lei è diventato sinonimo dello scrittore fedele alla libertà di pensiero. Gerusalemme è una città di spirito, di passione, di ricchezza culturale e di diversità umana. E’ chiaro che per lei la libertà è un valore supremo e, così facendo, lei dà libero sfogo al suo spirito”.
  Houellebecq si è poi presentato con la spilla gialla degli ostaggi alla serata organizzata dal Museo dell’arte di Tel Aviv in collaborazione con l’Istituto francese in Israele. Al di là del successo commerciale, gli israeliani sembrano avere un rapporto speciale con Houellebecq, e questo rapporto è reciproco. In una foto, scattata nei giorni successivi al 7 ottobre, si vede la prima raccolta di saggi di Houellebecq, “Rester vivant”, su un tavolo carbonizzato in una casa bruciata nel kibbutz Be’eri. Houellebecq, che ha ricevuto la foto da un lettore israeliano, ha risposto: “La mia prima impressione è stata quella di vedere una cupa ironia nel titolo dei libri, ma in questa foto si può anche leggere un messaggio di speranza”. Houellebecq ha visitato Be’eri la scorsa settimana. Lì ha incontrato i membri del kibbutz, particolarmente colpiti dagli attacchi del 7 ottobre. Dopo aver parlato con loro, Houellebecq ha dedicato il suo libro “Rester vivant” a Roni Baruch, un residente di Be’eri che ha perso i due figli nel massacro di Hamas: Edan, caduto combattendo contro i terroristi; e Sahar, rapito dai terroristi dalla sua casa e poi ucciso durante un tentativo israeliano di liberarlo a Gaza. Quello di Houellebecq è l’ultimo libro che Edan ha letto prima di morire.
  “Antisemitismo mostruoso” Con il Premio Gerusalemme,Houellebecq è il terzo scrittore francese dopo André Schwarz-Bart nel 1967 e Simone de Beauvoir nel 1975, insieme al romeno Eugène Ionesco e al ceco Milan Kundera, a ricevere il prestigioso riconoscimento. “L’impronta delle religioni monoteiste è in me” ha detto Houellebecq nel ricevere il premio. “Ogni scrittore occidentale, che gli piaccia o no, porta l’impronta delle religioni monoteiste. Nessuno scrittore, e soprattutto nessuno scrittore occidentale, può essere indifferente a Gerusalemme”.
  Houellebecq in Israele ci era già stato due volte più di dieci anni fa: nel 2011 arrivò a Gerusalemme augurando “ogni bene a Israele dal profondo del cuore”. Ma l’Israele del dopo 7 ottobre è un paese diverso, mentre lui non è cambiato nel suo rapporto con il piccolo stato ebraico. “E’ mostruoso” ha detto al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Si riferisce all’antisemitismo europeo. “E’ mostruoso che invece di mostrare solidarietà e compassione, ci sia una cultura di antisemiti. E’ inconcepibile. E’ qualcosa che davvero non capisco, e che mi spaventa davvero, in Francia. C’è davvero qualcosa che non riesco a capire”.
  Al canale Kan 11, Houellebecq ha detto anche che sta con Israele “perché cerca di comportarsi in maniera morale in guerra, che è difficile, iper difficile”. Attacca la “demente” visione woke per cui “non puoi criticare i trans ma neanche gli islamisti” e dice che questo woke ha “dentro di sé i germi della propria distruzione”. Fa l’esempio del MeToo, “silente sugli stupri di Colonia” (a opera di centinaia di immigrati la notte di Capodanno del 2016). “Sono degli idioti”. Spesso utili a Hamas.

Il Foglio, 20 maggio 2025)

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Dopo il secondo posto di Israele all’Eurovision partono le contestazioni

Il direttore del Contest risponde: “Nessun broglio né favoritismo”

di Luca Spizzichino

C’è chi vince, chi arriva al secondo posto e chi contesta perché è rimasto a bocca asciutta. Dopo il secondo posto conquistato da Yuval Raphael all’Eurovision, naturalmente è arrivato il momento di quella che chiameremmo “eurocontestazione”, ovvero il fronte di attacco contro Israele che a suon di accuse strampalate e insinuazioni degne dei peggiori complottisti cerca (ovviamente senza successo) di far scendere lo Stato ebraico dal podio a riflettori ormai spenti. La pagina vergognosa si aggiunge ai sospiri di sollievo, alle malcelate esultazioni, da parte di molti che hanno condotto la serata, quando hanno appreso che Israele non si era classificato al primo posto.
  A guidare la battaglia contro i mulini a vento è la Spagna, dove l’emittente pubblica RTVE ha chiesto all’European Broadcasting Union (EBU) una revisione del sistema di voto, con particolare riferimento a quello online. Secondo RTVE, il risultato non rifletterebbe l’opinione generale del pubblico iberico, in gran parte contrario alla partecipazione di Israele. Un dettaglio, questo, che ignora completamente il principio alla base dell’Eurovision: si vota la canzone, non la geopolitica. A rincarare la dose è arrivata VRT, emittente fiamminga responsabile della trasmissione in Belgio, che ha chiesto “massima trasparenza” e persino minacciato il boicottaggio delle future edizioni se le loro “preoccupazioni” non verranno prese sul serio.
  In mancanza di prove, le accuse appaiono come un classico caso di chi fatica ad accettare un’evidenza e si rende anche un po’ ridicolo davanti a tutto il mondo. Quando Israele partecipa e perde, va bene. Ma quando ottiene un buon risultato, ecco spuntare “reti di voto”, “campagne coordinate” e richieste di inchiesta. Il tutto con l’aggiunta di una certa dose di moralismo fuori tempo massimo, che mal si concilia con lo spirito dell’evento.
  A spegnere le fiamme della polemica ci ha pensato Martin Green, direttore esecutivo dell’Eurovision, che in una nota ha ribadito l’affidabilità del sistema di televoto: “Il sistema attuale è tra i più avanzati al mondo, dotato di sofisticati meccanismi di verifica, sicurezza e analisi. Non esistono elementi che indichino brogli o favoritismi, nemmeno nel caso dei 12 punti attribuiti a Israele dagli spettatori spagnoli.” Green ha ricordato che il sistema è costantemente monitorato da esperti esterni e validato da controlli incrociati, e che ogni anno viene aggiornato proprio per garantire imparzialità e trasparenza. Il vero problema, forse, non è il sistema di voto, ma l’incapacità di alcuni di accettare che un artista israeliano possa aver emozionato milioni di spettatori.
  Con l’aria che tirava all’arrivo di Yuval c’era da aspettarselo: d’altra parte tra quel gesto di minaccia di linciaggio che ha accolto l’artista e il tentativo di linciaggio mediatico, non vi è differenza alcuna. Malgrado tutto Israele è arrivato al secondo posto, una vittoria che con la portata delle forze dispiegate da tanti paesi per l’attuale campagna antisemita, è ancor più forte e importante.

(Shalom, 20 maggio 2025)

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Il mio mese da ebreo, tra paure e autocensure

di Carmelo Palma

FOTO
Ho terminato il mio mese da ebreo, trascorso a vedere l’effetto che fa, anche perché per capire che effetto fa essere ebreo non occorre neppure esserlo, basta essere riconosciuto per tale. Poi, come è noto, dal riconoscimento all’imputazione il passo può essere brevissimo e così quello dall’imputazione alla condanna e dalle parole ai fatti.
  Per sembrare ebreo – nel mio caso, senza esserlo – è bastato indossare la kippah in tutti i luoghi pubblici – per strada, sul treno, sulla metropolitana, al cinema, al ristorante, al supermercato… –  cioè in tutti i luoghi in cui chiunque non mi conoscesse avrebbe potuto scambiarmi per un anonimo rappresentante del solo gruppo umano, dai cui membri sia pacificamente legittimo esigere un requisito di speciale meritevolezza individuale, per scriminare la colpa di un’appartenenza di rinomata perfidia.
  La meritevolezza dei dissociati, quando non dei rinnegati. La meritevolezza di non essere come gli ebrei cattivi, che sono la regola e di cui i buoni sono la sempre sospettabile eccezione. La meritevolezza di denunciare la stessa esistenza di Israele come progetto di colonialismo genocidario fin dal 1948, anzi dal famigerato piano Balfour del 1917 per la creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina durante il mandato britannico.
  A vedere l’effetto che fa sono stato fortunato. Qualche sguardo di muto rimprovero o di aperto disprezzo, uno sfottò pacifico, anche se insultante. Tutto qui.
  Nessuno mi ha mai chiesto di tenermi a distanza, per non creare problemi, come i bravi cittadini romani di via Torlonia che, mentre io iniziavo il mio mese da ebreo, hanno avviato una raccolta di firme e preparato un esposto al Prefetto per chiedere la sospensione dei lavori del Museo della Shoah, così da non essere esposti alle minacce e alle violenze che quel monumento di provocatoria ebraicità istiga anche a danno degli incolpevoli non ebrei.
  Non sono neppure mai stato aggredito come i giovani ebrei che a Torino – mentre terminavo il mio mese con la kippah – hanno provato a organizzare nel Campus universitario Einaudi una conferenza sulla libertà di parola – la propria libertà di parola – alla fine annullata dai vertici dell’Università per ragioni di ordine pubblico. Libertà di parola negata, dunque, di nuovo.
  Del resto, nel circolo vizioso della normalizzazione antisemita, se gli ebrei sono il bersaglio della violenza, diventano essi stessi la causa del disordine e il problema da risolvere. Già sei ebreo e pure ti agiti? Se gli ebrei stessero calmi… Da farci un altro, ennesimo decreto sicurezza. Troncare gli ebrei, per sopire gli antisemiti.
  Dicevo l’effetto che fa: che effetto mi ha fatto? Dividerei l’interrogativo in due parti.
  La prima: come mi sono sentito “fuori” da ebreo? Sempre un po’ in pericolo, ma mai troppo, per ragioni in larga misura contingenti e fortunate. Vivo a Roma, a poco meno di due chilometri dal Ghetto. Lavoro nel centro di Roma. Frequento in genere luoghi in cui la presenza ebraica è, se non visibile, metabolizzata o mollemente ingoiata, come Roma ingoia con noncuranza quasi ogni cosa. Eppure mi è capitato spesso farmi domande che normalmente non mi faccio, tipo: stasera è il caso che prenda la metropolitana a mezzanotte, oppure è più sicuro che prenda un taxi? Oggi incontro in un locale pubblico un po’ “alternativo” una persona anziana: è il caso che faccia l’ebreo o per non coinvolgerla involontariamente in qualche incidente è meglio che mi metta in tasca la kippah? Lo sapevo già, ma ho concretamente avvertito, fisicamente e psicologicamente, cosa significa vivere da ebreo visibile ed è stata un’esperienza istruttiva, che consiglio a tutti i non ebrei.
  La cosa però più istruttiva è stato scoprire come mi sono sentito “dentro”: mi sono sentito come gli ebrei che devono giustificare di non essere come gli altri ebrei, che evidentemente per molti procurano all’ebraismo e a Israele un disprezzo meritato. E mi sono sentito nella trappola dell’autocensura.
  Se per essere preso sul serio devo sputare su un ebreo cattivo, non voglio essere preso sul serio così. Se per essere riconosciuto in buona fede nella mia lotta contro l’antisemitismo devo ammettere che questo antisemitismo è un effetto collaterale delle azioni del governo israeliano a Gaza e in Cisgiordania – affermazione che non è solo storicamente falsa, ma è la quintessenza della vulgata antisemita, per cui sono gli ebrei la causa dell’odio antiebraico – non dico che per reazione mi verrebbe da difendere pure i fascisti messianici e gli epigoni ministeriali di Yigal Amir, ma di certo mi viene da tacere, per non cadere nella trappola antisemita per eccellenza: quella – come dicevo all’inizio – per cui si possono difendere alcuni ebrei, che sono buoni solo se dimostrano di non essere cattivi. Trappola in cui i nazisti di Hamas e i loro zelanti agenti sotto mentite (e a volte pure involontarie) spoglie sono riusciti a far cadere buona parte del mondo progressista europeo e la quasi totalità di quello italiano.
  Però, per non cadere in questa trappola, il prezzo rischia di essere altrettanto salato: quello di finire in una autocensura uguale e contraria verso personaggi e politiche che ritengo rovinose per gli ebrei e per Israele (non aggiungo altro all’articolo di Stefano Piperno, di cui condivido tutto, dolore compreso).
  Solidarizzare con gli ebrei e con Israele mentre per una larga fetta dell’umanità antisemitismo e antisionismo sono non solo legittimati, ma rappresentano il non plus ultra della correttezza politica e dell’intransigenza umanitaria, significa trovarsi di fronte a questa alternativa apparentemente obbligata. Non è una cosa semplice e soprattutto non vi sono “soluzioni” che non rischino di apparire esse stesse politicamente e intellettualmente equivoche, sia per gli amici che per i nemici.

(Inoltre, 19 maggio 2025)

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Il nome Shalom

Il nome Shalom mi suscita nostalgia e mi ricorda la mia bella infanzia. “Shalom”. Questa parola non significa solo pace, ma anche ciao, arrivederci, completezza.

di Anat Schneider

Shalom in ebraico
Quando ero una bambina di circa 7 anni, nelle scuole israeliane era consuetudine organizzare una grande festa in onore del Giorno di Gerusalemme. La classe veniva divisa in gruppi, ognuno dei quali rappresentava un diverso gruppo etnico che viveva in Israele. Insieme ad alcuni amici, io rappresentavo gli yemeniti. L'insegnante che lavorava con noi ci insegnò una canzone intitolata “Shir Ad”, con un testo di Natan Alterman (un grande poeta ebreo).
La canzone parla di una famiglia molto numerosa, con molti figli e figlie, che arriva in Israele dallo Yemen. La famiglia arriva nella grande città e cerca di attraversare la strada su un passaggio pedonale. Ecco i nomi dei membri della famiglia, così come compaiono nella canzone mentre attraversano la strada:

     Nessim attraversa – con l'aiuto di Dio.
     Dopo di lui Nisima, la madre – Dio abbia pietà di lei.
     Nehemia, Gedalja, Zacharias e Asarja attraversano,
     Salim, Saadia, Michael, Hanan, Hanania.
     Ci sono Jeruham e Rahamim, grazie a Dio sono gemelli,
     Baby Shalom ride nel sonno, e io sono sua sorella Miriam,
     Poi il piccolo asino Bileam...

Io interpretavo Miriam che si prende cura della sua sorellina e cantavo la frase: “Baby Shalom ride nel sonno, e io sono sua sorella Miriam”.
Da allora, il nome Shalom mi suscita nostalgia e mi ricorda la mia bella infanzia, le meravigliose feste che celebravamo nel Giorno di Gerusalemme, e mi restituisce per un attimo l'innocenza che con il passare degli anni va gradualmente scomparendo.
Basti pensare a quanto significato e profondità racchiudono queste poche lettere: “Shalom”. La parola non significa solo pace, ma anche ciao, addio, completezza. Contiene un grande segreto di felicità e fede nella vita. Quando i bambini di sei anni in Israele iniziano la prima elementare, la prima parola che imparano a leggere e scrivere è “Shalom Kita Aleph”:
     “Shalom Kita Aleph – Pace [sia con te], ciao prima elementare.
Questa parola racchiude in sé tesori e promesse. La pace è la preghiera profonda di ogni persona ragionevole che comprende il valore e la bellezza della vita.

  • Pace interiore, con me stesso
  • Pace con le persone che mi circondano, con la mia famiglia, con il mio coniuge
  • pace all'interno della nazione, tra i partiti e tra le confessioni e le etnie
  • pace mondiale tra tutti i popoli e tutte le nazionalità
  • pace tra gli uomini

Nel nome della città di Gerusalemme si nasconde questa meravigliosa parola: pace. Gerusalemme, Yerushalayim, può essere interpretato come “città della pace/totalità”.
Quando regna la pace, ci sentiamo completi. 
E funziona anche al contrario:
quando ci sentiamo completi, regna la pace.
Non a caso la parola pace è contenuta nella parola Gerusalemme. La pace a Gerusalemme è la fonte della pace nel mondo.
E Melchisedek, re di Salem, portò pane e vino, ed era sacerdote dell'Iddio Altissimo. “ (Genesi 14,18) ("Salem" significa ‘completo’ e si riferisce a Gerusalemme)
Aspetto con ansia e prego per il momento in cui Melchisedek, un ‘re completo’, tornerà da noi. Aspetto il giorno in cui pregheremo insieme a lui sul pane e sul vino e avremo una nuova profezia che dice:
«Pace, pace, e la pace È» (Geremia 6,14).
Amen.

(Israel Heute, 20 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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«Ho odiato Hamas e continuo a odiarlo»

Nell'ospedale Sheba di Ramat Gan, vicino a Tel Aviv, in un reparto speciale vengono curati anche soldati gravemente feriti e traumatizzati durante le operazioni contro Hamas nella Striscia di Gaza. Incontro con una vittima di guerra.

di Carl Brunke 

RAMAT GAN (Israele) - “Returning to Life” (Ritorno alla vita) è scritto sul cartello all'ingresso del reparto. Attualmente 50 soldati israeliani feriti nella guerra di Gaza sono qui in riabilitazione per poter tornare alla vita. Alcuni rimangono in clinica fino a un anno. Shahar è uno di loro. Il maggiore della riserva ha 38 anni e ne dimostra dieci di più. Non c'è da stupirsi. “Ero in pessime condizioni, sanguinavo dappertutto. È un miracolo che io sia qui”, dice.
Qui si trova il grande ospedale Sheba a Ramat Gan, vicino a Tel Aviv. L'area si estende su 80 ettari, sei ospedali con 120 reparti e 11.000 dipendenti, di cui 3.000 infermieri. Nella classifica della rivista statunitense “Newsweek”, Sheba si è classificato all'ottavo posto tra i migliori ospedali del mondo.
Sotto il comando di Shahar c'erano 100 soldati di un'unità di infiltrazione. Una volta all'anno i riservisti si riunivano per un'esercitazione. Fino al 7 ottobre 2023. Il giorno del massacro di Hamas che ha cambiato tutto. “Non siamo stati sorpresi che ci provassero. Siamo stati sorpresi che sia successo”, dice.
Da allora è stato in missione a Gaza per un totale di 230 giorni. Fino al 10 ottobre 2024. “Nel nord di Gaza stavamo viaggiando su un veicolo militare quando siamo stati colpiti da un razzo dei terroristi di Hamas. Il mio compagno Daniel è morto sul colpo”, racconta Shahar. Quando il veicolo ha colpito una mina ed è esploso, il mitragliere è rimasto ucciso e Shahar è rimasto ferito in modo grave.
“Ero in pessime condizioni. Sanguinavo dappertutto. Ero solo e indifeso”. Shahar è stato fortunato. Nelle vicinanze si trovava un'unità israeliana che lo ha portato fuori dalla zona di pericolo. È stato trasportato in elicottero in un ospedale di Gerusalemme, dove è stato operato immediatamente.
Da oltre sei mesi, il corridoio dei soldati dell'ospedale Sheba è diventato una sorta di casa per lui. Nelle zone relax ci sono divani e poltrone che hanno visto giorni migliori. Come i soldati che vi riposano. Chi conosce Israele non si stupisce dei mobili segnati dall'uso. In molti luoghi il Paese ha conservato il carattere provvisorio e lo spirito del kibbutz.
Ma naturalmente questa superficiale impressione è ingannevole. Sheba dispone di un ospedale sotterraneo di cinque piani per i casi di guerra e con “Sheba Beyond” sta promuovendo la digitalizzazione in campo medico. “Nel Negev stiamo progettando una clinica basata esclusivamente sull'intelligenza artificiale”, afferma Steve Walz, portavoce di Sheba, sottolineando la coesione tra il personale ebraico e quello arabo (25%): ‘La guerra resta fuori, a Sheba tutti lavorano fianco a fianco e mano nella mano’.
 
Anche i pazienti palestinesi sono benvenuti
   Il professionista delle pubbliche relazioni di New York conosce bene il suo mestiere. Anche i pazienti della Cisgiordania vengono curati a Ramat Gan, pagati dall'Autorità Palestinese (AP) o da organizzazioni non governative (ONG). Al contrario, i pazienti delle famiglie reali degli Stati arabi che non intrattengono relazioni diplomatiche con Israele pagano direttamente a Sheba le loro fatture.
In una grande sala comune, le terapiste lavorano con gli uomini feriti. Un ragazzo di massimo 25 anni è seduto a un piccolo tavolo da cucina e sta imparando a mangiare di nuovo con coltello e forchetta. Ai primi tentativi non riesce ancora a infilzare un pezzo di pollo. Qui nessuno prova vergogna o timidezza. Il destino comune unisce.
Shahar si è in parte ripreso. La gamba destra gli dà ancora problemi. ‘Andrà meglio. Quando sarò completamente guarito, voglio tornare nell'esercito’. E tornare al suo lavoro in una start-up a Tel Aviv. “Come riservista non devo tornare nell'esercito. Ma ho una missione e la porterò a termine”, afferma con convinzione. Shahar vuole difendere il suo Paese, lo Stato ebraico di Israele. Anche per i suoi amici della compagnia che ha perso a Gaza. “Penso che un giorno tornerò a Gaza”.
Molti dei soldati feriti ricoverati nelle cliniche di Sheba condividono questo atteggiamento, conferma Steve Walz. La moglie di Shahar non ha nulla da obiettare: «Anche lei è nell'esercito e sa con chi è sposata. Inoltre, ora ho ancora più esperienza. Odiavo Hamas e continuo a odiarlo». Quando Shahar parla in questo modo, emerge con particolare chiarezza una differenza tra tedeschi e israeliani: gli uni non vogliono mai più essere carnefici, gli altri non vogliono mai più essere vittime.
Nota: per proteggere la sua identità, pubblichiamo solo il nome di battesimo del soldato israeliano e non mostriamo alcuna sua foto.

(Israelnetz, 19 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Usa: per la maggioranza degli elettori ebrei Trump sta sbagliando in politica estera

Il sondaggio tra gli elettori ebrei registrati ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti, e quasi il 70% ha detto lo stesso per le parole “fascista” e “razzista”. Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, e il 49% afferma che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo.

di Nina Prenda

Circa la metà degli ebrei americani descrive il presidente Donald Trump come antisemita, mentre solo una minoranza pensa che le sue misure nei campus stiano riducendo l’antisemitismo, secondo un nuovo sondaggio condotto dalla società di sondaggi GBAO Strategies.
Gli ebrei americani sono anche ampiamente critici nei confronti del primo ministro Benjamin Netanyahu, e alcuni di loro dicono di sentire un attaccamento minore a Israele rispetto a prima dell’attuale guerra Israele-Hamas, iniziata con le atrocità guidate da Hamas del 7 ottobre 2023, secondo il sondaggio.
Il sondaggio tra gli elettori ebrei ha rilevato che il 52% degli intervistati afferma che la parola “antisemita” descrive molto o abbastanza bene il presidente degli Stati Uniti.
Inoltre, il 74% degli intervistati disapprova il lavoro che Trump sta facendo come presidente, mentre il 26% approva. Quasi il 70% ha detto che le parole “fascista” e “razzista” lo descrivono molto o un po’ bene.
Sondaggi precedenti hanno costantemente riportato bassi indici di approvazione per Trump da parte degli elettori ebrei, che si sono appoggiati fortemente ai democratici per decenni. Il sondaggio ha rilevato che una grande maggioranza degli intervistati prevede di sostenere i democratici nelle elezioni di medio termine del prossimo anno.
Ma la descrizione “antisemita” è notevole proprio perché Trump ha fatto una grande campagna per combattere l’antisemitismo. Da quando è tornato in carica, la sua amministrazione ha intrapreso una serie di azioni di alto profilo con l’obiettivo dichiarato di combattere l’antisemitismo, tra cui ottenere miliardi di dollari di finanziamenti dalle università e cercare di limitare la capacità d’azione degli attivisti studenteschi stranieri.
Il sondaggio ha rilevato che solo una frazione degli intervistati pensa che tali azioni riducano l’antisemitismo, mentre una quota molto più grande ha affermato che le azioni aumentano l’antisemitismo.
Il 49% degli intervistati ha affermato che i tagli ai finanziamenti alle università hanno aumentato l’antisemitismo, mentre il 25% ha affermato che i tagli riducono l’antisemitismo e il 26% che non hanno alcun impatto.
Il 61% degli intervistati crede che l’arresto dei manifestanti filo-palestinesi voluto dall’amministrazione Trump aumenti l’antisemitismo, mentre il 20% sostiene che riduca l’antisemitismo e un altro 20% che non ha alcun impatto.
Nel complesso, il 77% degli elettori ebrei è preoccupato per l’antisemitismo nei campus universitari, mentre ancora di più sono preoccupati per l’antisemitismo negli Stati Uniti più in generale. Ma il 64% disapprova il lavoro che Trump sta facendo per combattere l’antisemitismo, mentre il 36% approva.
Il sondaggio è stato condotto da un nuovo gruppo apartitico chiamato Jewish Voters Resource Center, che mira a raccogliere e diffondere dati sugli elettori e sulle questioni ebraiche. GBAO, che in passato ha condotto sondaggi per gruppi ebrei liberali, ha condotto il sondaggio su 800 elettori ebrei dal 22 aprile al 1° maggio. Ha un margine di errore del 3,5%.
Il sondaggio ha anche rilevato che il 74% degli elettori ebrei disapprova il lavoro che Donald Trump sta facendo in politica estera, mentre il 26% approva. Il sondaggio ha rilevato che solo il 34% degli intervistati ha opinioni favorevoli su Netanyahu, mentre il 61% ha opinioni sfavorevoli su di lui.
Infine, il 72% degli intervistati ritiene anche che la ripresa dell’azione militare a Gaza renda più probabile che gli ostaggi vengano uccisi e il 28% afferma che li rende più propensi a essere rilasciati.
 

(Bet Magazine Mosaico, 19 maggio 2025)

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Operazione del Mossad: recuperati oltre 2.500 documenti su Eli Cohen

di Luca Spizzichino

Con un’operazione segreta all’interno della Siria, il Mossad ha recuperato oltre 2.500 documenti classificati riguardanti la figura di Eli Cohen, la spia israeliana giustiziata pubblicamente a Damasco nel 1965. La scoperta arriva in concomitanza con il 60° anniversario della sua morte ed è destinata a riscrivere parti importanti della sua storia. Secondo quanto annunciato domenica dallo stesso Mossad, i materiali erano custoditi in un luogo estremamente protetto, sotto la supervisione dei servizi segreti siriani. Nonostante il deterioramento dell’autorità del regime di Bashar al-Assad, l’operazione ha richiesto una pianificazione meticolosa ed è stata portata a termine solo di recente. Tra i documenti recuperati figurano i passaporti falsi utilizzati da Cohen, le chiavi originali del suo appartamento a Damasco, comunicazioni ricevute dai vertici del Mossad, relazioni di sorveglianza siriane e, tra i ritrovamenti più toccanti, una copia originale del testamento scritto di suo pugno prima dell’esecuzione e una serie di registrazioni audio su cassette.
  Grande rilievo assumono anche i documenti che testimoniano la campagna diplomatica condotta dalla moglie di Cohen, Nadia, per salvargli la vita: lettere, appelli e tentativi rivolti sia ai leader siriani che alla comunità internazionale. In segno di rispetto e riconoscimento, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il direttore del Mossad, David Barnea, hanno recentemente incontrato Nadia Cohen, ribadendo l’impegno dello Stato di Israele a riportare finalmente in patria i resti dell’agente. Resta però il mistero: perché, nonostante il ritrovamento dell’intero dossier siriano, il corpo di Eli Cohen non sia stato ancora localizzato.
  Già nel dicembre 2022 il Mossad aveva declassificato nuovi dettagli sul suo arresto, rivelando l’intercettazione dell’ultimo cablogramma inviato da Cohen il 19 gennaio 1965, in cui riferiva di un incontro segreto tra il presidente siriano Amin al-Hafez e i vertici militari del Paese. Per decenni ci si è interrogati se Cohen sia stato tradito dall’eccesso di zelo dei suoi superiori o da imprudenze personali. Ma il direttore del Mossad Barnea ha messo a tacere queste ipotesi: “Eli Cohen non fu catturato perché trasmise troppo, né perché disobbedì ai protocolli. Fu un esempio di coraggio e dedizione assoluti. A volte, anche i migliori possono cadere vittime della determinazione del controspionaggio nemico”. Addestrato intensamente, Cohen fu inviato in Argentina per costruire una solida identità di copertura come uomo d’affari con legami con la Siria. A Damasco riuscì a penetrare nei più alti circoli del potere grazie al suo carisma e alle sontuose feste che organizzava, guadagnandosi la fiducia di ufficiali e ministri.
  Il suo contributo all’intelligence israeliana fu fondamentale: molti storici gli attribuiscono un ruolo cruciale nella vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Tuttavia, l’intensificarsi delle lotte interne al regime siriano e l’introduzione di tecnologie sovietiche anti-spionaggio nel 1963 segnarono l’inizio della fine per l’agente. “Eli Cohen resta una fonte di ispirazione per generazioni di agenti del Mossad. La sua eredità vive nel nostro impegno quotidiano”, ha concluso Barnea.

(Shalom, 19 maggio 2025)

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Yuval Raphael conquista il secondo posto all’Eurovision 2025

Il televoto premia Israele con 297 punti

di Luca Spizzichino

FOTO
Yuval Raphael ha ottenuto il secondo posto assoluto all’Eurovision Song Contest 2025, trionfando nel televoto con ben 297 punti. A vincere il prestigioso microfono di cristallo è stato l’austriaco JJ con la ballata “Wasted Love”. Per Israele si tratta della settima volta tra i primi cinque posti nella storia della competizione.
  Nonostante le polemiche e i numerosi appelli per escludere Israele dalla gara, il pubblico europeo ha scelto di premiare la performance di Raphael. I fischi di protesta sono stati sovrastati da applausi e standing ovation. Chiudendo la sua esibizione con: “Am Yisrael Chai!”
  Le giurie nazionali si sono mostrate più caute: Israele ha ricevuto il massimo punteggio, i celebri “douze points”, solo dall’Azerbaigian, ma ha raccolto consensi significativi anche da paesi insospettabili come l’Irlanda, che ha assegnato 7 punti allo Stato ebraico, nonostante il forte clima anti-israeliano presente nel Paese. L’Italia ha assegnato 0 punti a Israele tramite la giuria, ma 8 punti dal televoto, a conferma di un ampio sostegno da parte del pubblico.
  Poco dopo l’annuncio dei risultati finali, in un commento rilasciato a caldo, Raphael ha ribadito il suo affetto per il pubblico israeliano: “Amo il popolo d’Israele più di ogni altra cosa al mondo”.
  Durante la sua esibizione, la sicurezza ha sventato due tentativi di protesta sul palco. Una coppia olandese ha cercato di interrompere la performance: la donna ha spruzzato vernice rossa su un agente, e entrambi sono stati arrestati. Per motivi di sicurezza, l’intera delegazione israeliana ha lasciato temporaneamente la Green Room.
  Sui social, Raphael ha pubblicamente ringraziato la sua scorta personale. Le minacce, del resto, non erano nuove né infondate: lo scorso anno, la cantante Eden Golan aveva ricevuto così tante intimidazioni che il capo dello Shin Bet, Ronen Bar, si era recato personalmente a Malmö per supervisionarne la protezione. Anche alcuni canali pubblici europei, come RTVE (Spagna) e VRT (Belgio), hanno trasmesso messaggi a favore della causa palestinese durante la diretta. Il messaggio spagnolo recitava: “Quando i diritti umani sono in pericolo, il silenzio non è un’opzione.”

(Shalom, 18 maggio 2025)

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Il coro della sconfitta – così i media israeliani giocano a favore di Hamas

La menzogna secondo cui agli americani importa degli ostaggi più che al governo israeliano, l’aiuto al nemico nella pubblicazione dei suoi video di terrore psicologico, il modo in cui Hamas manipola i nostri media, e al contrario di tutto questo: le vedove piene di spirito del battaglione 8207

di Kalman Liebskind

Questa è la narrazione che è passata come un filo conduttore questa settimana nei giornali, nei programmi radiofonici e nelle trasmissioni televisive: Donald Trump si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi Eidan Alexander, che ha un passaporto americano, è stato liberato dalla prigionia. Il governo israeliano non si preoccupa dei suoi cittadini, e quindi gli altri 58 ostaggi, che non hanno un passaporto americano, sono rimasti a Gaza. Su Kan 11 hanno fatto di più, quando all’inizio del notiziario hanno mostrato sullo schermo le foto dei 23 ostaggi tenuti in vita, con sopra un grande titolo rosso “Loro non hanno un passaporto americano“.
E questa squallida campagna politica, che cerca di raccontarci che agli americani importa dei nostri ostaggi più di quanto importi al governo israeliano, deve essere smantellata. Prima di tutto, forse qualcuno ha dimenticato – Eidan Alexander non è il primo ostaggio ad essere liberato. Finora il governo israeliano ha portato alla liberazione di quasi 200 ostaggi.
La grande maggioranza di questi ostaggi liberati non sono cittadini americani. Sono cittadini israeliani. E a differenza di Donald Trump – che ha ricevuto Eidan Alexander gratuitamente, e dubito fortemente che avrebbe pagato qualcosa all’organizzazione terroristica di Hamas se fosse stato necessario – per gli altri ostaggi il governo israeliano ha dovuto pagare prezzi molto alti, e ha scelto di pagarli. Era giusto pagare tali prezzi? Questa è un’altra discussione, con opinioni in entrambe le direzioni, ma ora non stiamo trattando opinioni ma fatti.
Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha rilasciato molti terroristi che hanno ucciso circa 650 israeliani, uomini e donne, neonati e anziani. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano ha mandato molti soldati a rischiare le loro vite, alcuni dei quali sono caduti in battaglia per raggiungere questo obiettivo sacrosanto. Per liberare i nostri ostaggi, il governo israeliano era pronto a fermare la guerra, a ritirarsi da luoghi che avevamo conquistato con molto sangue, e a permettere ai terroristi di tornarvi per prepararsi al prossimo round.
Quindi chi ha pagato di più per gli ostaggi, gli americani o noi? Vi immaginate Trump che rilascia centinaia di terroristi, le cui mani sono macchiate del sangue di molti americani, come abbiamo fatto noi? Quante altre menzogne possono ancora iniettarci, solo per adempiere al sacro compito politico di combattere questo governo?
E se parliamo degli americani, bisogna dire un’altra cosa al riguardo. Gli americani sono una delle ragioni principali per cui l’organizzazione terroristica che tiene i nostri ostaggi è ancora in piedi. Gli americani, quegli stessi americani che ora tutti dobbiamo ringraziare e ammirare per le loro azioni, sono quelli che hanno esercitato una forte pressione su di noi e ci hanno ordinato di rifornire Hamas, di permettere loro di sopravvivere, e di far capire loro che nulla è urgente.
Gli americani sono quelli che hanno imposto un embargo sulle armi che ci ha reso difficile colpire i terroristi con più forza e più presto. E in generale, se l’intera storia inizia e finisce con il fatto che gli americani si preoccupano degli ostaggi che sono loro cittadini più di quanto noi ci preoccupiamo degli ostaggi che sono nostri cittadini, e con un piccolo hocus-pocus sono riusciti a fare ciò che noi non abbiamo fatto, come mai Eidan Alexander è rimasto nei tunnel per 584 giorni? Perché gli americani non hanno fatto questa magia prima?
Quindi dopo aver presentato i fatti, possiamo anche aggiungere una valutazione ragionata: dopo che il nostro livello politico ha preso la decisione di rientrare nella Striscia in forze, e dopo che l’IDF ha reclutato così tanti soldati per questa operazione, Hamas ha deciso che valeva la pena gettare un osso agli americani, anche se significava rilasciare senza compenso un soldato dell’IDF, anche solo per fare uno sforzo per fermare la disgrazia che stava per abbattersi. In altre parole, non sono stati gli americani, che come detto non hanno pagato nulla, a portare a questa liberazione, ma è stata ancora una volta la pressione delle Forze di Difesa Israeliane.
E in generale, questo sforzo di trasformare ogni evento, persino la felice liberazione di un soldato di Golani, in qualcosa di acido e deprimente, diventa insopportabile. Che m’importa se questa liberazione è avvenuta a seguito di un dialogo tra americani e Hamas? Che m’importa se questa liberazione è avvenuta “sopra la testa del governo israeliano”? Abbiamo decine di persone in prigionia, e dato le richieste di Hamas – gli sforzi per liberarli affrontano sfide non semplici. E data questa situazione complessa, chiunque porti un’idea su come liberare anche un solo ostaggio, senza compenso, non importa chi sia o quale cittadinanza abbia – sia benedetto.
Se la Repubblica Dominicana riuscisse a portare alla liberazione di un soldato dell’IDF dalla prigionia gratuitamente, sopra la testa del governo israeliano, e lo facesse solo perché questo soldato ha commosso i dominicani quando ha visitato il loro paese una volta, e tutto questo accadesse sfruttando il fatto che il portavoce di Hamas è un secondo cugino del ministro del turismo dominicano, dovrei essere sconvolto da questo? Ma dico, siete impazziti?

Cosa pensavate che sarebbe successo?
   Questa storia non è saltata fuori dal niente. Dagli studi televisivi si sente da molto tempo il canto della sconfitta, mentre si cerca incessantemente di abbassare il morale e seminare tra noi un senso di depressione. Inizia con spiegazioni che la guerra è un fallimento, che nulla sta avendo successo, che avremmo potuto fare le cose molto più velocemente. Continua con sforzi supremi per convincere che solo pochi si presenteranno alle armi, che la motivazione sta diminuendo, che stiamo annaspando, che stiamo affondando nel fango di Gaza, che non si possono inviare ordini di richiamo ai riservisti quando gli ultraortodossi non si presentano, che non c’è senso in questa guerra, che è tutto politico, che metteremo in pericolo gli ostaggi, e che non c’è motivo di combattere ora se possiamo farlo tra un anno o due.
Su Kan 11 ho visto un calcolo economico che spiega che la guerra ci costa molti soldi, e che se solo avessimo risparmiato questi soldi, avremmo potuto creare qui un paese meraviglioso, con classi meno affollate, con più macchinari per la risonanza magnetica e con un budget più alto per strade e ferrovie.
Ho visto questi calcoli e mi sono ricordato dei loro fratelli maggiori, che in passato hanno controllato quanto ci costano gli insediamenti, ma non si sono mai seriamente chiesti se valesse la pena realizzare il costoso piano di disimpegno, e non si sono mai seriamente chiesti quanto ci sono costati gli accordi di Oslo, e quanto ci è costato dover inseguire per anni i terroristi che abbiamo portato in patria dalla Tunisia, e quanto ci sono costate le guerre che ci hanno portato il ritiro dal Libano, e cosa più importante – non si sono seriamente chiesti se, alla luce di questi costi, tutto ciò valesse la pena.
Ma sapete cosa mi ha fatto più ridere quando ho visto sullo schermo di Kan 11 questi calcoli di “cosa avremmo potuto fare con questi soldi se non avessimo combattuto”? Che gli stessi identici testi sono pronunciati da coloro che vogliono chiudere l’ente radiotelevisivo pubblico. Anche loro spiegano, con le stesse identiche parole, che con 800 milioni in più ogni anno avremmo potuto investire di più nelle aule scolastiche, nelle macchine per la risonanza magnetica, nelle strade e nelle ferrovie. E come sostenitore della televisione pubblica, posso dire che non ho idea di come sia un paese che non investe in tale televisione, ma ho un’idea di come sia un paese che non investe nella guerra contro Hamas.
E conosco bene il prezzo di questa guerra, i cicli interminabili di richiami in servizio, la moglie che rimane a casa alla fine della gravidanza mentre il marito è chiamato in servizio, i bambini piccoli che di tanto in tanto si trasferiscono a casa del nonno e della nonna, perché il loro padre è a Khan Younis, e gli ordini di richiamo che piovono come un diluvio una volta dopo l’altra. Ma che scelta abbiamo? Abbiamo già visto cosa succede quando si vive accanto a un’organizzazione terroristica con motivazioni omicide, senza la volontà e la disponibilità a fare ciò che serve per distruggerla.
Alla fine, tutta questa campagna per abbattere lo spirito ha lo scopo di convincerci tutti a fermarci, ad arrenderci e a soccombere. Cosa potrebbe mai succedere se ci fosse Hamas a tre minuti di corsa dal kibbutz Nir Oz? L’importante è che non ci costi denaro, l’importante è che non facciamo il servizio di riserva, l’importante è che ci sia finalmente la pace qui.
C’è qui un coro di un gruppo che si è stancato della strada da percorrere, e i media israeliani dirigono questo coro. Basta, trasmettono, siamo stanchi. Non abbiamo più la forza di combattere per ciò che è nostro. Vogliamo la pace e ci raccontiamo che se solo dessimo al nemico ciò che chiede, ci darebbe questa pace. E questo è esattamente ciò che ci siamo raccontati alla vigilia del 7 ottobre, quando pensavamo che se solo avessimo fornito a Yahya Sinwar una buona economia e posti di lavoro, i suoi uomini avrebbero dimenticato che siamo condannati a morte.
E cosa pensate che succederà se ci ritiriamo adesso? Hamas capirà di aver sbagliato? Che questa non è la strada? I suoi uomini andranno a crescere i nipoti all’ombra del tramonto sulla spiaggia di Dir al-Balah? Abbandoneranno il loro desiderio di distruggere lo stato ebraico? C’è più 6 ottobre di questo?
Non meritiamo una discussione più seria, dal modo in cui i nostri media stanno conducendo la discussione sulla questione di quanto sia necessario e importante sconfiggere definitivamente chi è responsabile del più grande massacro della nostra storia? E in generale, come si può da un lato opporsi alla continuazione della guerra e sostenere che non ha legittimità, e dall’altro gridare perché non abbiamo intrapreso una tale guerra prima del 7 ottobre, e come abbiamo permesso a questo mostro del terrore di esistere senza combatterlo, in giorni in cui è del tutto chiaro che non c’era alcuna legittimità per intraprendere una tale guerra?
E quando e come, diavolo, la necessità di sconfiggere Hamas è diventata un argomento controverso? Non sto parlando di Gideon Levy, che ha spiegato questa settimana su “Haaretz” che “la distruzione di Hamas è un obiettivo criminale”. Sto parlando del mainstream israeliano sionista. Quello che vuole sconfiggere il nemico. Quello che vuole inviare al mondo arabo il messaggio che chi ci fa ciò che Hamas ha fatto, non la farà franca. Quello che vuole permettere ai kibbutzim e ai moshavim di confine di tornare a una vita serena, di coltivare grano, di crescere bambini, e non di occuparsi del conto alla rovescia verso il prossimo round.

Questa non è una richiesta di pace
   Il video pubblicato da Hamas lo scorso sabato, in cui si vedono gli ostaggi Yosef Haim Ohana ed Elkana Bohbot, era straziante. Da un lato – ogni video del genere è un altro segno di vita incoraggiante. Dall’altro – le dure condizioni, il terribile stato mentale e il grande dolore dei filmati colpiscono profondamente l’anima. Ho espresso in passato la mia opinione contro la pubblicazione di questi video.
Anche perché si tratta di una manipolazione maligna con cui non ho alcun desiderio di collaborare. Anche perché i testi pronunciati dagli ostaggi sono formulati meticolosamente dall’organizzazione terroristica crudele che ha invaso i nostri insediamenti, ci ha massacrato, ci ha stuprato, ci ha ucciso e ha rapito la nostra gente. Hamas non pubblica questi video per rallegrarci e trasmetterci i saluti dai nostri ostaggi. Li pubblica per esercitare su di noi il terrore psicologico. E cosa facciamo in risposta? Collaboriamo con questo terrore.
Nell’ultimo video, pubblicato sabato scorso, si sente Yosef Haim Ohana mentre parla ai “nostri fratelli piloti”. “Sono molto orgoglioso di quelli di voi che hanno deciso di smettere di salire e di mettere a rischio le nostre vite, e hanno firmato ciò che hanno firmato. Ma quelli che sono ancora in grado di salire e bombardare qui noi, i prigionieri civili, cosa raccontate alle vostre famiglie? Cosa raccontate alle nostre famiglie? Cosa?
Non bisogna essere un grande genio per capire che il nostro nemico è molto preoccupato dalla possibilità che i piloti dell’aeronautica militare continuino a bombardarlo. Non si preoccupa del benessere di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot. Si preoccupa della sicurezza dei suoi assassini. E visto questo, un media israeliano che pubblica queste cose collabora con il nemico. Non c’è altro modo di presentare le cose.
Volete mostrare qualche secondo in modo che possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo perché il nostro uomo è vivo? Va bene. Ma vedere come quasi tutti i media – Canale 12 e Canale 13, Walla, Mako e Ynet, “Maariv” e i24 – presentano la propaganda del nemico al completo, e trasmettono tre minuti e 19 secondi distillati di messaggi di Hamas, è un evento inconcepibile.
Una nota positiva di responsabilità va, in questo contesto, all’ente radiotelevisivo pubblico (disclosure completa, ecc.), che dopo un breve periodo in cui il video completo era in onda, ha deciso di editarlo e di lasciarne solo 26 secondi. Il messaggio è chiaro: un segno di vita importante – vale la pena pubblicarlo. Un appello emotivo di un’organizzazione terroristica, che cerca, con mezzi manipolativi, di convincere i piloti dell’aeronautica militare a non combatterla – no.
Ho menzionato questo argomento qui più di una volta, ma per qualche motivo non riceve abbastanza spazio nel discorso pubblico. Hamas, senza nemmeno cercare di nasconderlo, ci manipola come burattini. Prendete solo il semplice fatto che quasi tutti i loro video di ostaggi vengono pubblicati da questi assassini nei fine settimana, di solito il sabato pomeriggio. Perché succede questo? Non perché queste sono le ore in cui il loro reparto digitale è libero, ma perché queste sono le ore prima delle proteste regolari del sabato sera, e Hamas ha interesse ad alimentarle con energie.
Non ho alcuna pretesa di pensare, Dio mi guardi, che i manifestanti siano interessati a promuovere gli interessi di Hamas, ma è del tutto chiaro che Hamas è convinto che sia questo che stanno facendo. E quindi, il video di Yosef Haim Ohana e di Elkana Bohbot è stato pubblicato sabato scorso, e anche il video precedente di Elkana Bohbot è stato pubblicato di sabato, e così anche il video di Maxim Harkin, e il video precedente di Harkin e di Bar Kuperstein, e il video di Eidan Alexander, e il video di Matan Tsengauker, e nel passato più lontano il video di Liri Albag, e tra questi, venerdì pomeriggio, è stato pubblicato il video di Matan Angerst.
E poiché, come abbiamo imparato, questa organizzazione terroristica non è stupida, è chiaro che è convinta che le proteste contro il governo sulla questione degli ostaggi la aiutino, e che la pressione sul governo affinché si arrenda e le dia ciò che vuole, la trasmetta. Dovrebbe questo far sì che qualcuno che vuole protestare non lo faccia? Non entro in questo. Viviamo in un paese libero, e che ognuno faccia ciò che ritiene giusto fare. Penso solo che sia giusto parlare di questa questione.
Hamas, con le sue azioni e i suoi video, grida ad alta voce: “Voglio che continuiate a fare pressione sul vostro governo, perché questo è buono per me. Voglio che continuiate a pubblicare i video di propaganda che diffondo, perché questo mi aiuta”, e questa realtà non dovrebbe essere ignorata.
Perché in pratica, qual è la differenza – nell’azione, non nelle intenzioni – tra la campagna che Hamas ci chiede di condurre, e la campagna che noi nei media stiamo conducendo? Ci chiede di trasmettere i video? Noi li trasmettiamo. Ci chiede di incoraggiare le proteste attraverso i video? Noi le incoraggiamo. Ci chiede di convincerci a rinunciare all’espansione della campagna contro di esso? Anche noi cerchiamo di convincere in questo. Ci chiede di spiegare che dobbiamo pagargli qualsiasi prezzo chieda? Questo è esattamente ciò che chiedono i nostri media.
Di nuovo, sottolineiamo l’ovvio, Hamas è un nemico e i nostri media non lo sono, ma il fatto che la sua campagna e la nostra campagna si sovrappongano non dovrebbe causare almeno un po’ di disagio?

Su numeri e storie
   Innumerevoli affermazioni si sentono sul fatto che la guerra non è stata gestita bene, e forse ancora non è gestita bene, e che se fosse stata gestita diversamente – forse saremmo già oltre. È vero? Non lo so. È del tutto chiaro che l’estrema cautela con cui abbiamo operato in vaste aree della Striscia per non danneggiare la vita degli ostaggi, ha danneggiato la nostra capacità di usare lì il fuoco con l’intensità che avremmo voluto usare, ma nella complessa realtà con cui ci confrontiamo questa è stata probabilmente la decisione giusta.
E su questo concetto di fondo, è chiaro che non si può avvertire continuamente che gli ostaggi potrebbero rimanere feriti, e poi chiedere perché la guerra dura così tanto tempo. È anche chiaro che non si può attaccare Netanyahu con l’affermazione che non ha fatto nulla per sconfiggere l’organizzazione terroristica prima del 7 ottobre, e contemporaneamente chiedergli di fermare la guerra e ritirarsi, ora, quando Hamas è in piedi. Decidete, o questa organizzazione terroristica deve essere distrutta o no. Non si può avere entrambe le cose.
Torno all’affermazione secondo cui la guerra non è stata gestita bene finora. Supponiamo, solo per il dibattito, che sia un’affermazione corretta. Ignoriamo i ritardi causati dalle pressioni americane e il modo in cui Joe Biden ci ha costretti a fornire aiuti alimentari a Hamas parallelamente alla sua guerra contro di noi, e per il dibattito partiamo dal presupposto che il governo ha gestito la guerra fino ad oggi in modo catastrofico. Come questa ipotesi ci porta alla conclusione che bisogna fermarsi? Come convince qualcuno che il giuramento che abbiamo fatto di cancellare Hamas, dopo aver visto le orribili immagini dagli insediamenti di confine, non è più rilevante?
Immaginate un inseguimento della polizia dopo un’unità di assassini di una grande organizzazione criminale, che ha appena commesso un triplice omicidio, e questo inseguimento procede zoppicando. Una pattuglia entra nella strada sbagliata, una seconda pattuglia si ribalta durante la guida, una terza pattuglia si confonde e i suoi poliziotti sparano per errore nella direzione opposta.
Qualcuno consiglierebbe alla polizia, in tali circostanze, di interrompere l’inseguimento, solo perché tutto è iniziato storto, e di lasciare che gli assassini fuggano dove vogliono fuggire? Abbiamo un’entità armata che si aggira liberamente. Un’entità pericolosa. Un’entità che potrebbe uccidere innocenti. Quindi lasciarla libera perché l’inseguimento nella sua prima fase non è stato gestito bene?
Scrivete articoli contro chi ha gestito la guerra finora, chiedete di sostituirlo alle prossime elezioni, rilasciate interviste contro di lui alla radio. Ma come può la conclusione di qualcuno da una guerra, che secondo lui non è ben gestita, essere che è meglio lasciare questa organizzazione terroristica in pace?
E questo va ricordato: dall’altra parte di questa campagna mediatica ci sono soldati che sono stati chiamati alla bandiera e si sono presentati. E non li invidio e ciò che stanno passando, quando da un lato ricevono l’ordine di attaccare il nemico, e sanno bene perché devono farlo, e cosa ci ha fatto questo nemico, e cosa bisogna fare per sventare le sue intenzioni, e dall’altro lato si avvicinano al loro orecchio i media israeliani, che deprimono il loro morale, che cercano di convincerli che ciò che stanno facendo è politico, costoso e senza speranza, e che se cadranno in battaglia sarà una morte inutile.
Ho visto che attacco c’è stato la settimana scorsa contro Amit Segal, quando ha riferito del 102% di presenze per la riserva. Una serie di giornalisti ci ha dato una lezione in 5 unità di matematica (punteggi per l’esame di maturità NdT) per spiegare che il conteggio non è corretto, che il calcolo è errato, e che la metodologia è confusa. E io, che non so cosa sia giusto e cosa no, e so solo che i miei amici mi raccontano di buone percentuali di presenze nella loro unità, cerco di capire da dove viene la motivazione per questa discussione. A quale bisogno risponde?
Perché quando vedo dei bravi israeliani presentarsi in massa per la riserva, e tra loro un gruppo della mia stretta famiglia, mi riempio di orgoglio. E mi chiedo qual è la storia di quelli che questo disturba tanto che il loro primo istinto li manda a trovare centinaia di motivi che mostrino che il numero non è corretto, che la motivazione non è così alta, che i riservisti non vengono davvero più. Qual è la vostra storia? Cosa state cercando di promuovere quando siamo in guerra contro questo nemico assetato di sangue?

Donne forti che infondono coraggio
   Ma c’è anche un’altra realtà. Una realtà al di là delle onde radio e degli studi televisivi. Questa settimana sei vedove dell’IDF, che hanno perso i loro mariti in questa guerra, hanno inviato una lettera di incoraggiamento commovente ai combattenti del battaglione dei loro coniugi, che sono stati nuovamente richiamati per la riserva negli ultimi giorni.
Cari soldati e famiglie del battaglione 8207“, hanno scritto loro, “in questi giorni, in cui siete tornati di nuovo a combattere, i nostri cuori sono con voi, vi accompagniamo con orgoglio ed emozione. Voi, coraggiosi combattenti che avete perso sette dei vostri migliori amici, che nonostante il dolore e la mancanza continuate a stare in piedi e non vi scoraggiate dal combattere per la nostra cara terra, non lasciate che le emozioni confondano la strada, e continuate nella missione e nella fede“.
Hanno continuato: “Vogliamo incoraggiarvi e dire: siamo orgogliose di voi, crediamo in voi e confidiamo in voi. Siamo sicure che i nostri mariti, caduti in battaglia, vi guardano dall’alto, e vedono la strada che avete fatto da allora, vi proteggono e sono felici di voi, dello spirito, del cameratismo della perseveranza e dell’unità. Firmato: Tal Avitbul – moglie di Eliav z”l, Reut Shabtai – moglie di Guy z”l, Shir Almaliach – moglie di Gilad z”l, Rachel Goldberg – moglie del rabbino Avi z”l, Smadi Moyal – moglie di Shaul z”l, Shiri Tal – compagna di Amit Hayot z”l”.
(Maariv – 16 maggio 2025)

(Kolòt - Morashà, 18 maggio 2025)

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Perché Dio ha creato il mondo? - 2

Un approccio olistico alla rivelazione biblica.

di Marcello Cicchese

Il primo santuario
   Dio aveva dato ad Adamo ed Eva l’ordine di crescere, moltiplicarsi e riempire la terra: gli uomini dunque avrebbero dovuto spargersi su tutta la terra. Ma prima ancora che fosse formata Eva, Dio aveva assegnato ad Adamo un “giardino”, cioè un particolare territorio che Adamo avrebbe dovuto lavorare e custodire: il giardino di Eden. Sarebbe stato questo il centro del mondo, il luogo a cui avrebbe dovuto riferirsi l’intera umanità che sarebbe discesa dalla prima coppia; lì Dio si sarebbe incontrato con gli uomini, riconoscendo ad Adamo, come primo uomo creato, la posizione di legittimo rappresentante di tutta la società umana da lui discesa.
  Il giardino di Eden sarebbe stato dunque il luogo dell’incontro fisicamente avvertibile fra Dio, nella sua santità d'amore, e l’uomo, nella sua natura di creatura ubbidiente. Con un linguaggio usato in seguito nella Bibbia, si potrebbe dire che il giardino di Eden avrebbe dovuto essere il luogo in cui la creatura veniva ad adorare il suo Creatore. Cioè un santuario.
  Sappiamo bene che cosa è successo poi in quel santuario su istigazione del serpente; ma non è su questo che ora vogliamo soffermarci, ma piuttosto su quello che accadde in seguito:

    “E udirono la voce dell'Eterno Dio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Dio, fra gli alberi del giardino. E l'Eterno Iddio chiamò l'uomo e gli disse: 'Dove sei?” (Genesi 3:8-9).

La presentazione di un Dio che cammina nel giardino e chiede all’uomo di dirgli dov’è, come se non fosse capace di saperlo da solo, induce al sorriso: “ecco la presentazione in forma infantile di una profonda realtà spirituale che non si può esprimere in altro modo”, pensa l’uomo evoluto di oggi nella sua protervia intellettuale, questa sì davvero infantile agli occhi di Dio.
  Le cose invece sono andate proprio così, come dice la Bibbia. E tutto fa pensare che non fosse la prima volta che Dio si presentava ad Adamo ed Eva nel giardino di Eden in forma corporalmente riconoscibile da loro. L’amorevole incontro tra Dio e la sua creatura era concreto, corporale, e dunque non continuo. Continua sarebbe stata la comunione d’amore, che in certi momenti sarebbe stata vissuta in forma di una particolare vicinanza fisica, come avviene in un matrimonio ben riuscito.

Ma le cose non sono andate così
  Sta scritto che nel giardino affidato all’uomo l’Eterno Iddio fece spuntare dal suolo ogni sorta di alberi piacevoli alla vista e il cui frutto era buono da mangiare” (Genesi 2:9). Al centro di questo giardino, dunque proprio nel mezzo del primo santuario, Dio fece spuntare due piante speciali: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male.
  Il frutto del primo albero sarebbe stato per l’uomo il nutrimento che gli avrebbe permesso di proseguire in una vita senza limite, mantenendo così in eterno quel rapporto d’amore che Dio voleva instaurare con la sua creatura.
  Quanto al secondo albero, è quasi sicuro che per Adamo rappresentò un enigma: “conoscenza del bene e del male”, che significa? Adamo era nato e cresciuto in un avvolgente bene totale: in lui e intorno a lui tutto era buono. Che cosa poteva significare per lui la parola “male”? Che cos’è il male? Ma se anche non poteva capire il significato di quella parola, poteva ben capire che cosa voleva Dio da lui con l’ordine che gli aveva dato riguardo al frutto di quell'albero: “Non ne mangiare”, aveva detto. E perché? mi chiedo subito io. Non è detto però che se lo sia chiesto anche Adamo, perché lui non era ancora immerso nel peccato, come invece sono io, insieme a tutti gli altri uomini mortali. Per Adamo tutto era buono: sia il permesso di mangiare, sia l’ordine di non mangiare. Se l’ha detto Dio, che c’è da discutere?

Qualcosa è andato storto.
  Conosciamo tutti la storia del “peccato originale”. Quello che di solito si sottolinea è la disubbidienza della creatura rispetto all’ordine del Creatore, e la parte che ha giocato il serpente nell’indurre l’uomo alla trasgressione.
  Qui invece vogliamo riflettere sulla parte del Creatore, e chiederci come mai il progetto di Dio non ha funzionato. Eppure alla fine del suo lavoro Dio aveva detto che tutto era “molto buono”. Come mai allora da quella meravigliosa opera creativa sono scaturite conseguenze disastrose: guerre, morti, calamità, disgrazie? Non ci sarà stato qualche errore di progettazione? Perché Dio ha fatto spuntare nel giardino quel pericoloso albero della conoscenza del bene e del male? Perché, dopo averlo messo proprio al centro del giardino, bene in vista, ha imposto all’uomo di non mangiarne il frutto? Perché, pur conoscendo la pericolosità del serpente, ha permesso che entrasse liberamente nel giardino e prendesse la parola? Perché, dopo che con sua menzognera arte seduttiva aveva cominciato a parlare, non ha inviato qualche angelo a esporre l’interpretazione autentica delle parole di Dio?
  Sono domande legittime, di cui si può cercare risposte nella Bibbia, tenendo presente però che vale il principio secondo cui “nella Bibbia o si capisce il tutto o non si capisce niente”. E’ uno slogan, ma può servire ad abbozzare quello che s’intende per “approccio olistico alla Bibbia”.

Partiamo dunque dall’inizio
  “Dio è amore”, sta scritto nella prima lettera dell’apostolo Giovanni (4:8,16), ed è un’affermazione che dev’essere vista al principio di tutta l’opera di creazione. Dio ha voluto formare un mondo abitato da una società di uomini in cui Egli potesse esprimere la sua natura d'amore. E l’amore, per essere pienamente compiuto, deve essere contraccambiato; e per essere contraccambiato, chi riceve l’offerta d’amore deve essere libero di rispondere sì o no. In altre parole, la libertà è il terreno basilare su cui può avvenire lo scambio d’amore.
  Ma lo scambio d’amore fra Dio e l’uomo non può essere simmetrico. L’amore di Dio è attivo, e l’amore dell’uomo è reattivo. “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Giovanni 4:19), dice la Bibbia. L’amore attivo di Dio ha un dono e una parola, perché l’amore è collegato alla verità e la verità è collegata alla parola. Dio aveva detto ad Adamo:

    «Mangia pure (dono) da ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai (parola di verità)» (Genesi 2:16-17).

In sostanza, all’uomo è stata offerta la possibilità di vivere una relazione d’amore in una posizione di libera e fiduciosa sottomissione a Dio; il serpente invece è riuscito a far credere all’uomo che la sua relazione d’amore con Dio sarebbe stata piena soltanto se vissuta in posizione di parità: “… sarete come Dio” (Genesi 3:5). Ma questo non è possibile: chi ci prova, muore.
  Con la loro pretesa di autonomia, Adamo ed Eva hanno rotto il legame spirituale che li collegava al Datore della vita. Non sono morti sul colpo, subito dopo aver preso il frutto dell’albero, ma è come se avessero contratto immediatamente una malattia mortale. Dovevano fisicamente morire, era inevitabile, perché Dio l’aveva chiaramente detto, ma tra il compimento del “reato” e le sue annunciate conseguenze, il Creatore si è riservato uno spazio di tempo per prendere le sue decisioni.
  Esamineremo più avanti la nuova formulazione che Dio volle dare al suo progetto dopo la fatale scelta di Adamo ed Eva, ma ora vogliamo provare ad immaginare che cosa sarebbe potuto accadere se Adamo ed Eva non avessero dato ascolto alle parole del serpente e avessero deciso di attenersi strettamente all’ordine di Dio.

L’ipotetica conseguenza di una “ubbidienza originale” a Dio
  La presenza del serpente nel giardino di Eden fa capire che la creazione è avvenuta sotto gli sguardi di Satana, capo di una ribellione angelica che ha prodotto una caduta precedente a quella dell’uomo. Al ribelle Satana Dio ha concesso di entrare nel giardino e rivolgere all’uomo una parola che avrebbe costituito per lui il decisivo test d’esame: Sì o No alla parola d’amore di Dio. Una “prova d’amore” dunque, espressa in parole, come fece Gesù con Pietro presso il mar di Tiberiade: “Simone di Giovanni, mi ami tu?” (Giovanni 21:1-9). Se Adamo, insieme a Eva, avesse risposto Sì a Dio, come poi fece Pietro con Gesù: la comunione d’amore che genera vita sarebbe fruttuosamente proseguita: la coppia avrebbe potuto accedere all’albero della vita, da cui avrebbero ricevuto entrambi vita eterna fisica, senza altri test aggiuntivi. E’ normale dire questo, perché come è bastato un unico No per provocare la caduta di tutto il programma di Dio, così sarebbe bastato un unico Sì per il mantenimento del programma originario nella forma prevista. Lo spirito che il Signore aveva soffiato nelle narici di Adamo per farlo vivere, sarebbe passato anche ai suoi discendenti di generazione in generazione. Come adesso diciamo che ogni bambino è malvagio fin dalla nascita, in quel caso si sarebbe detto che ogni uomo è buono fin dalla nascita, perché porta i segni della fedeltà a Dio dei suoi progenitori. E come oggi diciamo che anche se tutti nascono originariamente “cattivi”, non per questo tutti saranno dannati, così per il fatto che tutti sarebbero nati originariamente “buoni”, non per questo tutti sarebbero stati “salvati”, cioè mantenuti in eterna comunione con Dio.
  Se Adamo avesse risposto Sì a Dio, Satana avrebbe indubbiamente perso una battaglia, ma questo non sarebbe stata la sua definitiva sconfitta nella guerra con Dio. Sarebbe avvenuto il contrario di ciò che avviene al presente dopo la caduta. Oggi ogni uomo nasce malvagio, ma Dio gli concede, rivolgendogli la parola adatta nel momento opportuno, la possibilità di dire Sì a Lui ed essere salvato. Nel mondo scaturito dall’ubbidienza di Adamo a Dio, ogni uomo sarebbe nato buono, ma Satana avrebbe avuto la possibilità di rivolgersi all’uomo divenuto adulto e mettere in dubbio la verità della Parola di Dio ricevuta attraverso i suoi genitori: sarebbe stato dunque sottoposto a un test simile a quello per cui era passato Adamo. Se l’avesse superato, sarebbe stato mantenuto nella “santa società” in cui Dio dimora; in caso contrario sarebbe stato gettato fuori e consegnato nella mani di Satana, di cui aveva seguito il consiglio.
  La società voluta da Dio sarebbe stata dunque sempre costituita da tutti e soli santi; e quando fosse stato raggiunto il numero stabilito dal programma, Dio avrebbe condannato definitivamente Satana, in forme che non sappiamo e non dobbiamo immaginare.
  Alla fine di tutto si sarebbe realizzato l'obiettivo contenuto nel progetto originario di Dio, come espresso nelle parole dell’Apocalisse:

    «Ecco l’abitazione di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro; e essi saranno suo popolo e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio» (Apocalisse 21:3).

Quanto sopra immaginato, come puro esercizio letterario, può essere convincente o no, ma ha il solo scopo di far riflettere, per differenza, su ciò che poi si è effettivamente verificato nella storia biblica.

Ma Adamo ha detto No
  Adamo si è lasciato convincere dal serpente e ha detto No a Dio. In quel momento, avendo rotto la comunione vitale col suo Creatore, è spiritualmente morto. Avrebbe potuto continuare a vivere fisicamente, ma questo per lui avrebbe significato entrare definitivamente nella schiera di Satana, condividendone il destino eterno preparato da Dio. Per questo il Signore ha impedito ad Adamo di prendere del frutto dell’albero della vita: affinché non entrasse a far parte dell’esercito dei demoni, condividendone la sorte eterna.
  La morte fisica di Adamo è stata dunque una condanna preannunciata, ma nella forma in cui Dio l’ha eseguita è stata una grazia, perché Dio non ha voluto che l’uomo entrasse a far parte dell'esercito di Satana e il progetto creazionale dovesse essere definitivamente abbandonato.
  E’ da questo momento che si possono cominciare ad applicare le ben note parole del Vangelo di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo…”. Sì, perché Dio ha cominciato ad amare il mondo fin da quando l’ha pensato e progettato; e chi ama davvero, non si rassegna facilmente ad accettare che l’oggetto del suo amore si rovini con le sue mani, dicendo che “tanto è colpa sua, peggio per lui”; chi profondamente ama cerca in tutti i modi di salvare l’oggetto del suo amore, nel desiderio di poterlo riottenere, sia pure in condizioni diverse.
  Così ha fatto il Signore: ha tanto amato il mondo (in senso pieno: habitat-società-santuario) che per riaverlo ha “faticato” molto più di quanto avesse fatto nella prima creazione. Ma invece di riaverlo in forma rattoppata, alla fine lo riotterrà in una forma molto più gloriosa di quella originaria.
  Questo però a Dio è costato molto. Davvero molto:

    ‘Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).
Il chiunque di questo versetto sottolinea che ogni uomo può essere salvato, senza distinzione di qualsiasi tipo, ma non bisogna trascurare, tenendo presente l’intero messaggio biblico, che avere la vita eterna significa ottenere la grazia di entrare a far parte viva del glorioso progetto salvifico di Dio. Ed è appunto su questo che nel seguito vogliamo riflettere.

(2. continua)
(Notizie su Israele, 18 maggio 2025)


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Israele lancia l’operazione “Carri di Gedeone” su Gaza. Cosa sappiamo

di Anna Lombardi

TEL AVIV – Nuova notte di pesanti bombardamenti sulla striscia di Gaza, iniziati pochi minuti dopo il lancio di volantini con l’avvertimento alla popolazione: «Siete in zona pericolosa, evacuate immediatamente verso sud». Ad essere state colpite sono le aree di Jabalya e Beit Lahiya a nord e Deir al-Bala e Khan Younis al centro della Striscia. In mattinata, ulteriori attacchi in elicotteri sono stati segnalati sull’area meridionale di Rafah. Blindati delle Idf sono avanzando verso il sudest di Deir el-Balah, nel centro della Striscia, protetti da un pesante fuoco di copertura. Nelle ultime 24 ore ci sono stati almeno 115 morti, di questi 58 solo stanotte e almeno 10 stamattina. L’Idf annuncia: «È la prima fase dell’operazione Carri di Gedeone, abbiamo già preso il controllo di alcune aree».

Il nome
  Si tratta del piano approvato dall’esecutivo guidato da Benjamin Netanyahu a inizio maggio che prende il nome da un episodio biblico tratto dal Libro dei Giudici: quello dove il profeta (e leader militare) Gedeone riesce a terrorizzare e sbaragliare i nemici – i Medianiti - con uno sparuto gruppo di uomini armati di torce e vasi di coccio per farli sembrare di più. Simbolo della capacità di Dio di fare grandi cose anche con pochi mezzi. Un parallelo bizzarro visto che l’esercito israeliano di mezzi ne ha, eccome. L’escalation per ora consiste in massicci bombardamenti. Fino a poche settimane i ranghi militari si erano opposti: anche perché il piano richiede la mobilitazione di migliaia di riservisti. Ma in realtà gli ultimi dettagli operativi sono stati messi a punto già lo scorso 6 maggio da Eyal Zamir, capo di Stato maggiore dell'Idf e Ronan Bar, capo dello Shin Bet.Se proseguirà secondo i piani, è preliminare a una più vasta offensiva via terra mirata a distruggere definitivamente Hamas, prendere «il controllo operativo» della Striscia, concentrare la popolazione civile ulteriormente a sud. E, sia pur scivolata all’ultimo punto della lista d’intenti, liberare gli ostaggi.

L’operazione
  L’operazione ha preso il via, almeno nella sua fase preliminare appunto, subito dopo la partenza di Donald Trump dalla regione. E nonostante i negoziati di Doha siano ancora in corso, benché in evidente stallo. Continueranno fino a domani, ma la presenza israeliana, scrivono i giornali locali, è ormai «meramente formale». E una fonte interna ai negoziati ha detto ad Axios: «L'impressione è che gli israeliani siano venuti a Doha per ostacolare i colloqui e trovare una giustificazione per incrementare la guerra». Di sicuro, l’inviato americano Steve Witkoff ha lasciato il Qatar già ieri.

Le tensioni con gli Usa
  Cnn nota che la nuova offensiva israeliana si inserisce in un contesto di crescenti divergenze tra il governo americano e quello israeliano. Trump ha infatti dichiarato la settimana scorsa di voler porre fine alla «brutale guerra» di Gaza e non ha visitato Israele durante il tour in Medio Oriente di questa settimana: scelta che, come ha scritto Yedioth Ahronoth, ha sconcertato gli israeliani lasciandoli «confusi e offesi». Non solo. Il presidente americano ha anche ottenuto da Hamas il rilascio dell’ultimo ostaggio israeliano-americano la scorsa settimana. E gli Houthi hanno accettato di smettere di attaccare le navi americane nel Mar Rosso, continuando allo stesso tempo ad attaccare Israele con droni e razzi (finora sempre intercettati). Durante il tour Trump ha anche riconosciuto che la gente a Gaza sta morendo di fame e ha affermato che gli Stati Uniti si occuperanno della situazione nella Striscia, dove il nuovo blocco imposto da Israele lo scorso 4 marzo sta impedendo l’ingresso di aiuti da oltre un mese. In cosa consiste il piano americano, nessuno lo sa. Secondo una rivelazione di Nbc gli americani avrebbero un piano per spostare un milione di palestinesi in Libia e l’amministrazione ne avrebbe già discusso con le autorità libiche, offrendo in cambio lo sblocco di miliardi di dollari di fondi che gli Stati Uniti hanno congelato a Tripoli oltre un decennio fa. Nessun accordo formale è stato raggiunto e comunque un portavoce dell’amministrazione ha già smentito: «La situazione sul campo è insostenibile per un piano del genere».
Intanto, però, pure i media israeliani sottolineano da giorni quanto fra i due paesi si sia scavato un solco profondo. Tanto che Haaretz addirittura titola: «Il messaggio di Trump a Netanyahu: sei licenziato!». Notando che «ogni foto o dichiarazione del presidente Usa nei paesi arabi visitati, ha bruciato la carne di Netanyahu». Sempre secondo il quotidiano «Trump ha capito prima di essere rieletto che gli interessi dello Stato di Israele non coincidono necessariamente con quelli del suo premier». Per ora Netanyahu tace. E il Washington Post interpreta il suo silenzio come remota ultima possibilità di un accordo. Channel 12 in mattinata ha d’altronde pure affermato che “C'è un'apertura per le negoziazioni e la possibilità di interromperli in qualsiasi momento se ci fossero elementi che potrebbero far saltare l'accordo". La riunione di gabinetto di domani sarà il momento della decisione finale: affondo su Gaza o ulteriore attesa. Manco a dirlo, i familiari degli ostaggi ancora prigionieri nella Striscia si oppongono fermamente all’operazione: stasera torneranno a protestare a Tel Aviv.

(la Repubblica, 17 maggio 2025)

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Trump ha scaricato Israele?

Il corrispondente di Israel Heute parla della nuova politica mediorientale di Trump, degli accordi americani con Hamas, i ribelli Houthi e l'Iran, e dell'isolamento di Gerusalemme in politica estera.

di Itamar Eichner

L'isolamento della politica estera di Israele è particolarmente evidente in questo momento, con la visita del presidente degli Stati Uniti Donald Trump in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo.<
Nelle ultime settimane sono saliti alla ribalta due attori centrali in Medio Oriente: il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Insieme al presidente degli Stati Uniti, stanno tracciando la nuova rotta nella regione, sia attraverso la normalizzazione della leadership siriana sotto Ahmad al-Sharaa, sia attraverso i negoziati sul programma nucleare iraniano. Israele, invece, rimane completamente escluso. Completamente isolato.
Da un lato, Gerusalemme è alle prese con una crisi interna e una coalizione di governo sempre più fragile. Dall'altro, la guerra a Gaza si protrae, mentre cresce il dibattito sulla sua utilità: una parte crescente dell'opinione pubblica israeliana chiede la fine dei combattimenti.
Questo articolo pone la domanda: il presidente Trump ha scaricato Israele? La risposta è complessa e ambigua.

L’inizio sembrava promettente
  All'inizio del suo mandato, Donald Trump sembrava un presidente di sogno per Israele: aveva promesso di aprire “le porte dell'inferno” su Hamas, ma si è trattato solo di parole, come si è poi scoperto. Tuttavia, poco dopo la sua vittoria elettorale, con il suo aiuto è stata attuata la prima fase dell'accordo sugli ostaggi, che ha portato alla liberazione di 38 ostaggi, tra cui 25 ostaggi israeliani vivi, come Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, che erano già stati catturati prima della guerra, cinque soldatesse, Arbel Yehud, cinque ostaggi thailandesi e otto salme, tra cui quelle dei membri della famiglia Bibas.
Dopo il suo insediamento, Trump ha revocato l'embargo sulle armi contro Israele, ha posto fine ai finanziamenti statunitensi all'UNRWA, ha revocato le sanzioni contro i coloni israeliani e ha imposto sanzioni contro la Corte penale internazionale e il procuratore capo Karim Khan. Benjamin Netanyahu è stato il primo capo di Stato straniero ad essere invitato a un incontro alla Casa Bianca. In quell'occasione Trump ha avanzato la proposta di trasferire all'estero gli abitanti di Gaza, un sogno della destra israeliana. Si è diffuso l'euforia. I commentatori di destra hanno letteralmente ballato negli studi televisivi.

Le prime crepe
  La rottura è iniziata con i colloqui diretti tra il responsabile degli ostaggi di Trump, Adam Boehler, e Hamas, uno shock per Israele. Ufficialmente è stato poi dichiarato che Boehler aveva agito di propria iniziativa, era stato licenziato e che gli americani avevano riconosciuto il loro errore. Tuttavia, l'accordo di successo che ha portato al rilascio di Edan Alexander ha dimostrato a posteriori che Boehler agiva con il pieno mandato di Trump.
Israele è rimasto nuovamente sconvolto: un soldato israeliano è stato rilasciato dopo 584 giorni solo grazie alla sua cittadinanza statunitense. Anche se Israele non ha dovuto dare nulla in cambio, il messaggio è stato doloroso: gli altri ostaggi senza passaporto americano hanno meno valore?
Israele ha reagito prontamente: ha accolto calorosamente Edan Alexander e subito dopo ha ucciso Mohammed Sinwar, apparentemente insieme ad altri leader di Hamas, probabilmente il colpo più efficace dall'inizio della guerra. Precedenti uccisioni mirate avevano gravemente compromesso i negoziati per il rilascio degli ostaggi.

Cresce la confusione
  Gli Stati Uniti hanno dichiarato di aver liberato Edan Alexander perché era l'ultimo cittadino americano prigioniero a Gaza e che questo era l'inizio di un accordo più ampio. Ma in Israele crescono il nervosismo e lo scetticismo. Se nei prossimi giorni non verrà raggiunto un accordo sugli ostaggi basato sul piano Witkoff originale, Israele intende avviare l'offensiva terrestre “Gideon's Chariots” subito dopo la partenza di Trump.
Un altro segnale è stato il sorprendente invito di Netanyahu a un secondo incontro alla Casa Bianca. Ufficialmente si trattava dei dazi che Trump aveva imposto a Israele e che, nonostante tutte le contromisure, non sono stati ancora revocati. In realtà Trump ha approfittato dell'occasione per annunciare, al fianco di Netanyahu, l'avvio di negoziati diretti con l'Iran sul nucleare. Ancora una volta Israele è rimasto scioccato.
Inizialmente si diceva che gli Stati Uniti avrebbero consentito all'Iran un uso civile, tra cui l'arricchimento dell'uranio fino al 3,67%. Israele non si fidava delle promesse di Teheran. Poi è stato chiarito che si sarebbe insistito sullo smantellamento delle centrifughe. Ma le dichiarazioni sono rimaste contraddittorie. A volte Trump parlava di un possibile accordo, altre volte diceva che l'Iran doveva scegliere tra la diplomazia e le bombe.

Accordo con gli Houthi e omissione di Israele
  Reuters ha riferito che gli Stati Uniti sarebbero disposti a rinunciare alla normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita se quest'ultima ottenesse in cambio un programma nucleare civile. Sebbene durante la visita di Trump a Riad non sia stato firmato alcun accordo in tal senso, la notizia ha suscitato inquietudine. Forse si è trattato di una manovra mirata per sondare il terreno, forse di un tentativo di affossare i piani.
È seguito l'annuncio di Trump di aver concordato con i ribelli Houthi la fine degli attacchi alle navi statunitensi in cambio della sospensione dei raid aerei da parte degli USA. Israele era sbalordito: per i negoziati segreti, per l'accordo, per la mancata partecipazione. Il più stretto alleato dell'America non era stato informato. Ancora più scandaloso: l'accordo non prevedeva la fine degli attacchi contro Israele. Gli Houthi hanno quindi intensificato i loro attacchi, fino all'impatto vicino al Ben Gurion, che ha portato a massicce cancellazioni di voli. Da parte loro, gli Stati Uniti hanno dichiarato chiusa la questione.

Israele rimane fuori, visibilmente e simbolicamente
  Il viaggio storico di Trump in Medio Oriente lo ha portato in tre Stati del Golfo, ma Israele è stato ostentatamente escluso. Anche alla firma degli accordi a Riad, Doha e Abu Dhabi Israele era assente. Trump sembra accecato dal denaro e ha ignorato completamente la posizione di Israele.
Il punto più basso: l'incontro con il presidente siriano Ahmad al-Sharaa, un uomo che Israele bolla in tutto il mondo come estremista islamico. Trump ha revocato le sanzioni contro di lui e lo ha accolto come parte della “famiglia delle nazioni”.
In Israele si è cercato di minimizzare l'umiliazione: meglio che al-Sharaa si avvicini all'Occidente piuttosto che a Teheran. Sebbene vi fosse un tacito riconoscimento del suo moderato cambiamento di posizione, il colpo di mano degli Stati Uniti è stato possibile grazie al sostegno di due attori: Mohammed bin Salman e Recep Tayyip Erdoğan, i nuovi amici di Trump.

L’equilibrio militare in pericolo
  A ciò si aggiunge la disponibilità degli Stati Uniti a fornire aerei da combattimento F-35 all'Arabia Saudita e alla Turchia, una minaccia diretta alla superiorità militare qualitativa di Israele, che costituisce il fondamento del partenariato strategico con gli Stati Uniti. Trump sembra accecato dal denaro saudita. Sui social media, i suoi collaboratori hanno pubblicato video di palazzi del Golfo, entusiasti del marmo e dei lampadari di cristallo: una testimonianza imbarazzante di ammirazione superficiale. Che ne è dei valori comuni?

Trump: “Il mio viaggio rafforza Israele”
  Durante il volo di ritorno, i giornalisti hanno chiesto a Trump se le sue mosse non avrebbero danneggiato Israele. La sua risposta: “Al contrario, il mio viaggio rafforza Israele”.
Forse non ha tutti i torti. Da un lato, Trump sta conducendo colloqui diplomatici con Teheran, ma allo stesso tempo sta inasprendo le sanzioni, il che è sicuramente nell'interesse di Israele. Dall'altro, però, non riesce a chiamare Erdoğan a rispondere delle sue provocazioni contro Israele. Anche nei confronti del Qatar, Trump rimane sorprendentemente silenzioso, nonostante l'emirato sostenga Hamas, dia rifugio ai suoi leader e permetta ad Al Jazeera di diffondere impunemente propaganda antisemita. Trump ha persino accettato un aereo da 400 milioni di dollari dai qatarioti, nonostante l'evidente conflitto di interessi. Molti dei suoi collaboratori lavorano o hanno lavorato con enti qatarioti.

E che dire degli F-35?
La consegna alla Turchia non è imminente. Ankara vuole essere riammessa nel programma F-35, dal quale è stata esclusa sotto Biden, ma per farlo deve soddisfare numerose condizioni, il che rimane in discussione. Netanyahu ha dichiarato alla commissione per gli affari esteri e la sicurezza della Knesset che Israele sta lavorando attivamente per impedire questo passo.

Trump è un amico o no?
  Ufficialmente si dice che Trump è il miglior amico di Israele e che non abbandonerà Gerusalemme. Ma dal suo entourage si sentono voci diverse: delusione per Netanyahu, per la sua agenda personale e la sua mancanza di volontà di cogliere opportunità storiche come la normalizzazione con l'Arabia Saudita o un accordo sugli ostaggi. Si critica Israele per la sua lentezza nel reagire e per la sua incapacità di vedere il quadro generale. A Washington si dice che il treno di Trump è già partito. Chi vuole ancora salire, deve farlo adesso.
Nei prossimi giorni o settimane si vedrà se i colloqui con l'Iran porteranno a un accordo o finiranno con un fallimento. A quel punto potrebbe presentarsi per la prima volta una situazione di emergenza per Trump: agirà davvero e distruggerà militarmente il programma nucleare iraniano?
Se Trump scegliesse questa strada, Israele sarebbe di nuovo al suo fianco. Se si arrivasse a un accordo, Israele si troverebbe in una posizione difficile: se Netanyahu lo ritenesse pericoloso, difficilmente potrebbe opporsi pubblicamente, come ha fatto in passato con l'accordo di Obama. Trump lo sa e ignora le obiezioni di Israele.
Nell'entourage di Netanyahu, Trump viene trattato con estrema cautela. Nessuno osa criticarlo, perché Trump non è Biden. Ma la delusione è palpabile. Resta solo da sperare che sia Teheran stessa a far fallire i negoziati, in modo che Israele non si trovi di fronte a un nuovo accordo nucleare che rimanda la minaccia e trasforma l'Iran in una potenza emergente.

(Israel Heute, 16 maggio 2025 - trad. www.ilvangelo-israele.it)

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Qui gli ebrei non parlano

“A Torino si è superata una linea rossa. Contro di noi violenza fisica”

di Luca Roberto

“A Torino abbiamo vissuto il momento più basso nelle università italiane. In un anno e mezzo siamo passati dalle intimidazioni alla violenza fisica. Si è superata una linea rossa”. Il presidente dell’Unione dei giovani ebrei d’Italia (Ugei) Luca Spizzichino giovedì era al Campus Einaudi per partecipare a un evento sul Manifesto per il diritto allo studio. L’appuntamento però si è trasformato in un’aggressione a suon di “fuori i sionisti dall’università”. “Mi hanno strappato la spilletta per gli ostaggi, hanno cercato di farmi cadere. Io ho mantenuto la calma, ma è assurdo che non si riesca a porre argine a questa deriva aberrante”.
Nelle stesse ore in cui manifestanti pro Palestina cercavano di fare irruzione al Salone del libro, dall’altra parte di Torino a un gruppo di studenti apartitici veniva impedito di parlare di “diritto allo studio”. Pietro Balzano, studente della Statale di Milano e autore del Manifesto che quel diritto lo rivendica, al Foglio racconta l’aggressione subita. “Mi hanno strappato la camicia, mi hanno sputato addosso. Credo che quello che sia successo sia la conseguenza di quello cui abbiamo assistito nel giro dell’ultimo anno e mezzo. I violenti sanno di non essere puniti e alzano sempre di più la posta. Bastava davvero poco perché la situazione diventasse ancor più grave”. Già lo scorso marzo agli organizzatori dell’evento era stato impedito di tenerlo all’interno del Campus Einaudi dell’Università di Torino. “Siamo passati dalle intimidazioni alla cancellazione, fino al terzo step che è stata l’aggressione fisica. Mi chiedo: qual è la prossima tappa?”, dice ancora Balzano.
  La premeditazione dell’attacco, raccontano i due testimoni, la si evince anche dal fatto che all’ora in cui avrebbe dovuto prendere il via l’evento, l’aula assegnata dall’Università era già stata occupata dai collettivi. Per di più i vertici universitari hanno negato alla Digos l’ingresso nelle aule, “anche se un intervento delle forze dell’ordine per cercare di calmare le acque c’è stato ed è stato tempestivo”, spiega ancora Spizzichino. Da presidente dell’Ugei in questo anno e mezzo ha osservato l’evolversi della situazione negli atenei, “ma mai mi sarei immaginato di vedere le immagini che ho visto a Torino”, confessa con un certo sconforto. “Sono scene che per lo più abbiamo visto nei campus americani, in Francia, in Germania, nel Regno Unito. Eppure oramai pure da noi, anche perché queste derive non vengono affrontate come si deve, è stata completamente sdoganata la violenza fisica. Ora però chiediamo una reazione forte da parte delle università contro queste derive estremiste e antisemite. A partire dall’adozione della definizione di antisemitismo stabilita dall’Ihra. Ogni silenzio di troppo è una forma di complicità”. Non risulta che il rettore dell’Università di Torino Stefano Geuna abbia condannato quanto accaduto al Campus Einaudi. Eppure, come spiega ancora al Foglio il presidente dell’Ugei, “non abbiamo alcuna intenzione di indietreggiare. Alla violenza, agli schiaffi, rispondiamo con la calma della parola. Perché per noi è troppo importante contrastare queste derive fasciste con la compostezza e il rispetto dei valori democratici. Gli studenti ebrei continueranno a rivendicare il diritto di poter parlare, contro chi vorrebbe imporre metodi antidemocratici”. Anche Balzano, dal canto suo, nonostante lo choc per l’aggressione subita sta già stilando la lista delle prossime presentazioni del Manifesto. “I nostri eventi sono una specie di crash test sullo stato della democrazia italiana. A ora questi test li abbiamo falliti, visto che quanto successo a Torino non è degno di un paese civile come l’Italia. Ma non ci faremo spaventare e non ci fermeremo”. Anche la camicia strappata dai pro Pal lo studente della Statale se la terrà a mo’ di monito. “Spesso mi chiedono che c’entra il diritto allo studio con l’antisemitismo. Ma quello che abbiamo vissuto dimostra proprio che quando prevale l’odio, il diritto allo studio scompare”.

Il Foglio, 17 maggio 2025)

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Perché il Qatar non supera il “test di Tito”

di Seth Mandel

Durante i primi anni della Guerra Fredda, il maresciallo Josip Broz Tito fu un improbabile alleato per Harry Truman e l’Occidente anticomunista guidato dagli Stati Uniti. Tito salì al potere in Jugoslavia da comunista, ovviamente, e si comportò come tale: fattorie collettive, processi farsa paranoici e altri tratti tipici delle dittature comuniste arrivarono in Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Ma Tito voleva essere più di una semplice marionetta di Mosca, e Truman sfruttò la crepa nella sfera sovietica. Gli Stati Uniti fornirono a Tito armi e aiuti nonostante la sua leadership non democratica e il suo desiderio di essere corteggiato sia dall’Est che dall’Ovest perché, geograficamente, così facendo estendevano la sfera d’influenza della NATO e limitavano la prossimità sovietica. Considerando il ruolo che la NATO avrebbe svolto nel corso del successivo mezzo secolo, il compromesso di Truman era chiaramente difendibile, anche se costoso.
Gran parte del dibattito sull’attuale rapporto tra Stati Uniti e Qatar, un nemico-amico strategicamente posizionato ma in ultima analisi inaffidabile, riecheggia il discorso su Truman e Tito. Ma al Qatar manca l’ingrediente principale che rende un simile Stato degno di rischio: non offre alcun vantaggio evidente.
Ciò non significa che non ci siano vantaggi nei nostri rapporti con il Qatar. Ma la natura sproporzionata degli scambi commerciali implica che l’alleanza richiederà sempre una giustificazione. Non c’è bisogno di chiedersi perché abbiamo voluto porre la Jugoslavia sotto l’egida della sicurezza occidentale nel 1951. Bastava guardare una mappa.
Il Qatar, d’altro canto, cerca di rientrare in una categoria di alleati completamente diversa, composta da paesi che occasionalmente minano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ma non abbastanza da annullare il vantaggio di averli dalla nostra parte.
Si potrebbe sostenere, ad esempio, che questa categoria includa l’Arabia Saudita, sede della visita del Presidente Trump tre giorni fa. Abbiamo relazioni strategiche con ogni tipo di Stato, e non tutti condividono i nostri valori o necessariamente i nostri obiettivi strategici.
Ma questi stati hanno una cosa che manca al Qatar: la capacità di tenere a freno i problemi che causano. Il Qatar può occasionalmente aiutarci strategicamente, ma non è quasi mai in grado di controllare il caos che scatena. Il meglio che il Qatar possa fare è fermare (o mettere in pausa) i  problemi che è in grado di creare. Ed è lecito chiedersi se questo sia davvero sufficiente.
Ad esempio, considerate il sostegno del Qatar a Hamas. Il motivo per cui i leader israeliani credevano di potere convivere con una situazione in cui il Qatar garantiva che Gaza non rimanesse senza fondi era perché quei fondi avrebbero dovuto essere forniti con delle condizioni. Il Qatar avrebbe mantenuto a galla Hamas come costo per mantenere stabile il tenore di vita della popolazione di Gaza. (Se avete visto i post sui social media che dicevano “questo è ciò che Israele ha distrutto”, saprete che non solo Gaza non era una prigione a cielo aperto, ma aveva anche molto da perdere dall’invasione di Israele.)
In cambio, i qatarioti si sarebbero assicurati che il livello di terrorismo fosse mantenuto stabile a un livello gestibile. Sotto Hamas, Gaza non sarebbe mai diventata una colonia di pace, ma porre un limite alla minaccia di Hamas valeva il prezzo – almeno, questa era la scommessa.
Il 7 ottobre ha distrutto questa narrativa. A quanto pare, i qatarioti non stavano tenendo a freno l’estremismo di Gaza; stavano invece usando il denaro per tenere a galla Hamas mentre pianificava la massiccia violenza da pogrom di quel giorno.
Prima del 7 ottobre, si poteva dire: “Sì, i qatarioti finanziano Hamas, ma…”. Ormai non c’è più alcun “ma” nell’equazione.
Un altro esempio sarebbe l’inondazione di denaro da parte del Qatar nelle università d’élite americane. Queste donazioni a volte raggiungono cifre inimmaginabili e consolidano una certa tolleranza nei confronti dell’estremismo nei campus quando si tratta di Israele e degli ebrei. Ma si è scoperto – sebbene sicuramente molti in queste istituzioni si aspettassero gli eventi degli ultimi 18 mesi e molti di loro approvino le rivolte – che l’argomentazione accademica contro Israele era anche l’argomentazione accademica contro l’America. Anche gli studenti di Harvard vogliono che Harvard venga distrutta, e lo dicono apertamente. Lo stesso vale per la Columbia e le altre università.
Poi c’è la questione più ampia di cosa si possa controllare. Pianta una carota, dichiara Bellomy in The Fantasticks, e otterrai una carota. Ma il Qatar ha piantato tra le menti giovani e impressionabili i semi dell’odio per se stessi, dell’antisemitismo e del malcontento paranoico. Quel genio non tornerà nella bottiglia, nemmeno se il Qatar volesse ricacciarvelo.
I qatarioti non sanno come giocare al gioco della geopolitica. Hanno solo soldi e amano spenderli. Il caos che generano è molto più pericoloso per l’Occidente di qualsiasi risultato ottengano con i loro occasionali gesti di buona volontà.

(L'informale, 16 maggio 2025)

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La settimana in Israele: la visita di Trump in Medio Oriente

di Ugo Volli

Gli incontri
  L’evento più significativo per l’intero Medio Oriente negli ultimi giorni è stata la visita del presidente americano Trump che ha toccato l’Arabia Saudita (13-14 maggio), il Qatar (14 maggio) e gli Emirati Arabi Uniti (15 maggio), ma non Israele (né l’Egitto, la Giordania e altri alleati storici). Oltre che con i governanti dei paesi ospiti (il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani e il principe ereditario di Abu Dhabi Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan), Trump ha parlato il 14 maggio a Riad,con il leader siriano Ahmed al-Sharaa detto Joulani e in videoconferenza con Erdogan. Era previsto anche un incontro con il leader dell’Olp Mohammed Abbas, di cui però non si è avuta conferma.

Gli accordi evitati e quelli conclusi
  Questa assenza dell’Olp dal calendario degli incontri è particolarmente significativa, perché alla vigilia del viaggio presidenziale si era diffusa l’ipotesi che Trump intendesse riconoscere unilateralmente uno stato palestinese, contraddicendo tutta la politica sua e delle amministrazioni americane precedenti e suscitando forti timori in Israele. Ciò non è avvenuto. Altri due temi che preoccupavano Israele erano stati presentati come oggetto delle trattative con l’Arabia: innanzitutto l’assenso alla realizzazione del suo progetto nucleare (civile, ma come sempre in questi casi, potenzialmente trasformabile in militare), senza che fosse concessa in cambio la normalizzazione con Israele; e poi un piano condiviso per la pacificazione di Gaza che escludesse il controllo israeliano. Per quel che se ne sa essi non sono stati trattati o almeno non se ne è avuto notizia. Altri temi critici sono stati invece portati a termine: innanzitutto una vendita senza precedenti di armi all’Arabia (ma sembra senza gli F35, negati anche alla Turchia, cioè senza intaccare la superiorità strategica dell’aviazione israeliana) e la rimozione delle sanzioni alla Siria, che in cambio si sarebbe impegnata a non prestarsi ad attacchi a Israele, a rispettare le minoranze (alawiti e drusi che sono stati perseguitati duramente dal nuovo regime) e ad aderire agli accordi di Abramo, “appena consolidato il potere” (così ha dichiarato Trump).

Le ragioni del viaggio
  Il viaggio era dedicato soprattutto ai temi economici, che stanno molto a cuore a Trump. Molti ironizzano su questa concezione “affaristica” dei rapporti internazionali, e accusano spesso a torto o a ragione il presidente di interesse personale. Ma essi non si rendono conto che Trump è stato eletto presidente (degli Usa, non di Israele o dell’Europa) per rimettere a posto una situazione economica che preoccupa moltissimo i suoi elettori: la deindustrializzazione e la burocratizzazione degli States, il debito pubblico gonfiato a dismisura, il controllo cinese su risorse essenziali. Il piano di Trump è di raddrizzare questa deriva nel giro di alcuni anni, anche a costo di peggiorare il disequilibrio a breve, come sta accadendo. I dazi servono a questo, a riportare il lavoro in America e anche i contratti di molte centinaia di miliardi di euro che il presidente ha ottenuto in questo viaggio vanno nella stessa direzione. Il che non significa che la strategia politica non gli interessi, o che non intenda proteggere Israele; ma che la sua priorità sono i problemi economici americani. Inoltre Trump è sincero nella sua volontà di evitare le guerre o di concluderle, se sono in corso, è davvero un pacifista; ma in maniera estremamente realistica, non ignorando i rapporti di forza e gli obiettivi di potenza.

I negoziati
  Questo vale per le due trattative aperte che riguardano il Medio Oriente: quella con Hamas e quella con l’Iran. In entrambi i casi Trump non ha scrupoli a parlare con quelli che considera nemici e anche a fare scambi con loro. È così che ha ottenuto da Hamas la liberazione dell’ultimo rapito americano ancora in vita Edan Alexander (che è anche il primo soldato di Israele rapito il 7 ottobre e rilasciato da Hamas). Ma ora i terroristi si lamentano di non aver ricevuto in cambio né rifornimenti né concessioni sul futuro di Gaza (e infatti la trattativa è ferma a causa della loro pregiudiziale inaccettabile per Israele di una fine della guerra senza resa né consegna delle armi). E anche l’altra trattativa, quella sul nucleare iraniano, è ferma, perché tra molte voci contraddittorie, è chiaro che gli ayatollah non intendono disarmare, cedere il loro uranio e le loro centrifughe, impegnarsi a non aggredire gli altri paesi, il che naturalmente è assai lontano dalle loro intenzioni.

La distruzione del vertice di Hamas a Gaza
  Vedremo presto se alla conclusione del viaggio alcuni di questi risultati saranno cambiati o addirittura rovesciati: Trump è maestro nell’arte della comunicazione, almeno se la si intende come tener fissa su di sé l’attenzione dei media e del pubblico. Intanto bisogna dire che non ha avuto obiezioni di fronte al “tentativo” (probabilmente riuscito, ma finché non ci sono le prove materiali bisogna dire così) dell’aeronautica israeliana di eliminare l’attuale capo di Hamas a Gaza, Mohammed Sinwar, il fratello minore di Yahya Sinwar e degli altri comandanti terroristi che gli stavano vicino. Se è riuscito come sembra, questo è un colpo importante che decapita di nuovo l’organizzazione terroristica. Bisogna dire anche che Sinwar e gli altri si nascondevano, tanto per cambiare, in un tunnel scavato sotto un ospedale di Khan Yunis, cioè cercavano di usare pazienti e malati come scudi umani. Tutti coloro che continuano a parlare di crimini umanitari di Israele a Gaza non tengono minimamente conto che innanzitutto questo uso di ospedali, scuole, moschee ecc. è tecnicamente un crimine di guerra.

La prossima operazione di terra
  Per quel che ne sappiamo Trump non ha fatto neppure obiezioni all’operazione “Carri di Gedeone” che dovrebbe iniziare subito dopo la sua partenza dal Medio Oriente. Si tratta finalmente della presa di tutta di Gaza usando le forze di terra: un’operazione che coinvolge decine di migliaia di soldati ed è concepita per distruggere sistematicamente e definitivamente le infrastrutture e le truppe di Hamas, lasciando alla popolazione civile scampo in una zona di sicurezza al confine dell’Egitto, dove saranno anche forniti i rifornimenti alimentari in modo che i terroristi non possano impadronirsene. Se sarà possibile condurla fino in fondo, questa sarà davvero la liquidazione dei gruppi terroristici a Gaza. Per ora le cronache parlano di un’intensificazione delle operazione preliminari come i bombardamenti sulle fortificazioni sotterranee individuate.

(Shalom, 16 maggio 2025)

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Palestina? Gaza? Parliamone con il Diritto internazionale alla mano

Dopo gli ultimi assalti antisemiti dei pro-Hamas è bene fare un briciolo di chiarezza sui numeri e su quello che dice il Diritto Internazionale sull'esistenza della Palestina

di Maurizia De Groot Vos

A prescindere dal fatto che condivida o meno la linea attualmente tenuta dal Governo Netanyahu nella guerra contro Hamas, dopo gli ultimi assalti antisemiti al grido di “Palestina libera” o addirittura “Gaza libera” mi sento il dovere di evidenziare alcuni elementi fattuali e di Diritto internazionale. Sarò lunga.
Partiamo dagli elementi fattuali e numerici. Siccome si parla tanto spesso della “innocente popolazione di Gaza” cerchiamo di capire se è davvero così.

L’innocente popolazione di Gaza
  Il web del dopo massacro del 7 ottobre 2023 era pieno di video nei quali si vedeva con chiarezza le manifestazioni di giubilo della popolazione di Gaza per il pogrom e massacro appena compiuti. Oggi molti di quei video, dove addirittura si oltraggiavano cadaveri, sono spariti dalla circolazione ma sono tutti ben chiari nella mente di chi come me rimase basito da tanta collettiva crudeltà. Qualcosa sfuggita alla censura lo troviamo qui. Difficile affermare che la popolazione di Gaza fosse innocente.
Prima del 7 ottobre 2023 nella Striscia di Gaza operavano circa mille ONG, un numero davvero incredibile di operatori umanitari. Oltre a questi, vi erano ben 36 ospedali (TRENTASEI). Ora, è possibile che tra queste mille ONG nessuno si sia accorto che Hamas stava costruendo centinaia di Km di tunnel sotto Gaza? È possibile che nessuno si sia accorto che sotto ognuno dei 36 ospedali Hamas stesse costruendo grandi centri operativi e di comando? Ma poi, possibile che su due milioni di persone nessuno abbia sentito i lavori della “metropolitana di Gaza”? E dopo il sequestro degli ostaggi, possibile che nessuno di queste due milioni di persone abbia visto dove li nascondevano e si sia fatto avanti? Nemmeno uno? Davvero?
Lasciamo stare il numero delle vittime di cui conosciamo solo quello proveniente da una fonte: Hamas. Ma possibile che siano solo donne e bambini? Gli uomini dov’erano? E i miliziani? L’IDF, ben più attendibile di Hamas, afferma di aver ucciso circa 30.000 terroristi ma di questi nei numeri di Hamas non vi è traccia. E tra i bambini che Hamas dice essere stati uccisi, ci sono anche i bambini soldato di Hamas? E a proposito di quelle mille ONG di cui sopra, nessuna di loro ha mai detto niente di questi bambini soldato. Come mai?
Hamas ha dichiarato guerra a Israele, nel modo più crudele e vigliacco possibile. La popolazione di Gaza non ha mai rinnegato la leadership di Hamas. MAI. Non è innocente.
Per questo sono d’accordo con l’attuale linea del Governo Netanyahu? NO, ma questo è un altro discorso.

Il Diritto internazionale
  I veri confini di Israele secondo il Diritto Internazionale
Chi oggi contesta Israele farneticando di Diritto internazionale violato, parlando di occupazione e di liberare la Palestina dovrebbe sapere che:
La Convenzione di Montevideo del 1933 delinea quattro criteri per la statualità:

  1. Popolazione permanente: Israele ha una popolazione definita e continua, con comunità ebraiche e arabe residenti nel suo territorio fin dalla sua fondazione.
  2. Territorio definito: i confini di Israele furono stabiliti dal Mandato britannico sulla Palestina del 1922, che includeva l’odierno Israele, la Cisgiordania e Gaza. Questi confini furono ereditati ai sensi dell’uti possidetis juris (discusso di seguito).
  3. Governo efficace: Israele ha mantenuto un governo stabile e democratico sin dal 1948, con il controllo del suo territorio e la capacità di stipulare trattati (ad esempio, accordi di pace con Egitto e Giordania).
  4. Capacità di relazioni estere: Israele intrattiene relazioni diplomatiche con 165 stati ed è membro dell’ONU, dell’OMC e dell’OCSE.

Israele soddisfa tutti i criteri per la sovranità ai sensi della Convenzione di Montevideo ed è stato riconosciuto da 165 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite a dicembre 2020. I suoi confini, fondati sul Mandato britannico del 1922 e confermati dalle Nazioni Unite nel 1949, sono giuridicamente incontestabili.
Al contrario, la Palestina non soddisfa i requisiti fondamentali per la sovranità, non gode di un ampio riconoscimento internazionale e non ha mai esercitato una sovranità effettiva su alcun territorio. Andando nel dettaglio:

  1. Mancato rispetto dei criteri di Montevideo
  2. Nessun territorio definito: i confini rivendicati dalla Palestina (Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est) non sono mai stati concordati a livello internazionale. Il Piano di spartizione delle Nazioni Unite del 1947 (Risoluzione 181) non era vincolante e fu respinto dagli stati arabi.
  3. Nessun governo efficace: Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese sono entità reciprocamente ostili. Gaza è sotto il controllo di Hamas dal 2007, mentre l’autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania è subordinata alla cooperazione israeliana in materia di sicurezza.
  4. Mancanza di sovranità: la Palestina non ha mai controllato i propri confini, il proprio spazio aereo o la propria valuta. Rimane economicamente e militarmente dipendente da Israele e dagli aiuti esteri.

Per farla breve, a livello di Diritto internazionale la Palestina non esiste
   La Palestina è un’aspirazione politica, non una realtà giuridica. La recente revisione della Corte Penale Internazionale (aprile 2025) sulla posizione della Palestina sottolinea questa distinzione: la sovranità di Israele non può essere costruita con la retorica o le risoluzioni delle Nazioni Unite. La comunità internazionale deve riaffermare la sovranità di Israele e respingere i tentativi di delegittimarla attraverso false narrazioni sulla sovranità palestinese.
Concludendo, i cosiddetti pro-pal (o pro-Hamas) chiedono la libertà di uno stato che non esiste né sulla carta né a livello di Diritto internazionale. La Palestina è una aspirazione, non una realtà. Parlano di un genocidio che non c’è usando a sproposito la parola “genocidio”. Prendono per oro colato numeri non verificabili che hanno come unica fonte un gruppo terrorista islamico. Non condannano mai Hamas, nemmeno quando mette nero su bianco che usa vecchi, donne e bambini come scudi umani e che lo fa apposta per mettere in difficoltà Israele.
Come osservato da eminenti esperti di Diritto Internazionale, l’autodeterminazione non equivale automaticamente alla sovranità nazionale – una lezione che i palestinesi e i loro sostenitori devono ancora comprendere.

(Rights Reporter, 16 maggio 2025)

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I veri neofascisti all’assalto degli ebrei: torna l’odio razziale in Italia

di Stefano Piazza

Da quando Giorgia Meloni ha assunto l’incarico di Presidente del Consiglio, le opposizioni – in difficoltà e prive di una chiara direzione – non perdono occasione per agitare lo spettro «del ritorno del fascismo». Al loro fianco si schiera un eterogeneo insieme di sedicenti intellettuali, ex capi di governo, deputati, senatori, celebrità del mondo dello spettacolo, giornalisti e ampie porzioni dell’informazione mainstream, che offrono regolarmente spazio a figure come Alessandro Di Battista e Rula Jebreal, contribuendo alla diffusione di falsità su Israele e sul conflitto innescato da Hamas il 7 ottobre 2023. La parola d’ordine come da precise direttive di chi ha orchestrato e pagato questa gigantesca operazione di propaganda è: «Genocidio». Come osserva l’esperta di comunicazione Elisa Garfagna «L’accusa di genocidio da parte di Hamas è una mossa retorica che si ripete da 20 mesi e che è volta a delegittimare Israele e a suscitare la condanna internazionale. L’uso strumentale del termine “genocidio” inoltre rischia di sminuire la gravità di questo crimine contro l’umanità come ad esempio la Shoah. In maniera del tutto speculare, l’accusa di “politica della fame” serve a dipingere Israele come responsabile della crisi umanitaria, omettendo il ruolo fraudolento di Hamas nella gestione degli aiuti e nel conflitto. Ormai è chiaro che la guerra via terra è affiancata da una guerra di parole difficile da smontare, anche a causa della viralità che tale propaganda assume sui canali sociali». In questo clima di follia collettiva si è arrivati all’assurdo che, in alcuni Comuni – come nel caso di Lodi – venga richiesto, per accedere a spazi pubblici, di firmare una dichiarazione in cui si attesta «di non essere fascisti». Una contraddizione evidente, perché oggi in Italia esiste una forma aggressiva di neofascismo che si manifesta proprio attraverso l’intolleranza dell’estrema sinistra, dei centri sociali e dei movimenti pro-Hamas, che da oltre un anno agitano le piazze con cortei in cui si tollera ogni eccesso e dove le forze dell’ordine vengono sistematicamente aggredite nell’indifferenza generale. In molte università, attivisti filo-Hamas hanno conquistato spazi decisionali grazie alla passività – o alla complicità – di rettori e docenti, impedendo la libera espressione e minacciando chiunque esprima opinioni divergenti.
  Per Celeste Vichi, avvocato e Presidente dell’Unione Associazioni Italia Israele: «È nella connivenza complice dei rettori e di tutta quell’accademia che boicotta il libero pensiero e censura persino la parola antisemitismo nei convegni, nei corsi, nei rapporti scientifici con Israele. È anche dover presentare un libro accompagnati dalle forze dell’ordine perché messo all’indice.Sono gli stessi che accusano gli ebrei nel mondo di fare abiura, chiedendo loro di rinnegare lo Stato ebraico. Israele e la sua esistenza rappresentano oggi la nuova colpa da espiare. È la summa divisio tra ebrei buoni ed ebrei cattivi: abiura e ti salverai, convertiti e vivrai. Non è cambiato niente nella storia: ideologie diverse, modalità di coercizione identiche. Il nazifascismo è qui, e se non ripariamo al più presto, ne pagheremo tutti le conseguenze».

Un giorno nero per Torino
  Ieri, al Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si è verificato un nuovo grave episodio di aggressione preordinata contro la libertà di parola e i principi fondanti dell’università e della democrazia. L’incontro dal titolo “Per le Università Come Luogo di Democrazia e di Contrasto all’Antisemitismo”, promosso da diverse sigle aderenti al Manifesto Nazionale per il Diritto allo Studio — tra cui l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, Studenti per le Libertà, Studenti Liberali e Studenti per Israele — è stato interrotto con violenza da un gruppo strutturato di sostenitori di Hamas. Gli aggressori hanno fatto irruzione nell’aula dove l’iniziativa era prevista, gridando slogan come “Intifada” e puntando a impedire agli studenti ebrei e a chi li sostiene di prendere la parola, attraverso insulti, minacce, sputi e persino aggressioni fisiche. Alcuni degli organizzatori dell’evento sono stati persino colpiti, intimiditi e pubblicamente offesi. È stato inoltre rubato un telefono cellulare, gesto che denota la volontà non solo di intimidire, ma anche di cancellare eventuali prove della violenza commessa. E’ normale tutto questo? No ed è ora di dire basta.
  Ogni tentativo di confronto civile è stato annientato fin da subito da atti di prepotenza, trasformando un luogo di apprendimento e confronto in uno scenario di coercizione, dove la violenza ha messo a rischio la sicurezza fisica di studenti, relatori, organizzatori e partecipanti che desideravano semplicemente assistere in modo pacifico alla conferenza. Il volto del nuovo totalitarismo si manifesta oggi nelle fila dei militanti pro-Hamas, che rimuovono le spille in favore degli ostaggi e che da mesi strappano gli striscioni che ne chiedono il rilascio. Un gesto che non è solo simbolico: è l’espressione di un clima di odio che si nutre della retorica antisionista, spesso presentata come distinta dall’antisemitismo, ma che nei fatti ne riproduce le stesse dinamiche e gli stessi obiettivi.
  Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI) ha così commentato l’accaduto: «Ai nostri ragazzi abbiamo trasmesso entusiasmo per lo studio e fiducia nel sistema universitario, nel quale coltivare amicizie e alimentare dialogo rispetto ai temi che ogni generazione si trova ad affrontare. Con questo spirito, i rappresentanti dei giovani ebrei italiani si sono recati oggi all’Università di Torino, con la kippà in testa e con l’intento di svolgere un sereno incontro e dibattito sui temi del diritto allo studio, della democrazia all’interno delle università e dell’antisemitismo. Sono stati invece aggrediti e cacciati, con violenza e veemenza. A loro va il nostro abbraccio e incoraggiamento a riprendere fiato dopo l’aggressione subita e a continuare ad avere fiducia nel dialogo.Un Paese democratico, una sede universitaria, un salone del libro – luoghi preposti allo studio e al confronto delle idee – non possono ospitare e legittimare persone che, con violenza e soprusi, negano ad altri di manifestare il proprio pensiero in nome della difesa di diritti e della pretesa di democrazia.Ribadiamo ancora una volta che la sicurezza non potrà mai essere sufficientemente garantita, pur con tutto il supporto delle forze dell’ordine, se ogni generazione non farà propria la cultura della convivenza, eliminando qualsiasi forma di prevaricazione e indifferenza». Sempre ieri, altri simpatizzanti di Hamas si sono ritrovati davanti all’ingresso del Lingotto per contestare la presentazione del libro di Nathan Greppi, ma sono stati allontanati. Ma il fatto stesso che il giornalista abbia dovuto presentare il suo libro «La cultura dell’odio» addirittura sotto scorta e con la presenza delle forze dell’ordine in assetto antisommossa rappresenta la conferma più eloquente delle tesi illustrate nel suo volume.

(Panorama, 16 maggio 2025)

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Israele si qualifica per la finale dell’Eurovision

Tra contestazioni e discriminazione dei conduttori

di Ludovica Iacovacci

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Yuval Raphael durante l’esibizione alla seconda semifinale dell’Eurvision 2025

Israele si classifica per la finale dell’Eurovision Song Contest 2025. Yuval Raphael, la rappresentante di Israele sopravvissuta alla strage del 7 ottobre, accederà alla finale dell’Eurovision in onda il 17 Maggio alle ore 21 in diretta da Basilea, Svizzera. In Italia, la trasmissione potrà essere seguita su Rai 1.
La presenza di Yuval Raphael alla competizione canora aveva suscitato polemiche fin dalla vigilia: al suo arrivo a Basilea era stata contestata e aggredita tra la folla, dove sventolavano una dozzina di bandiere palestinesi ed è stato anche mimato un gesto di sgozzamento nei suoi confronti. Critico anche Nemo, vincitore dell’Eurovision 2024, che ha sostenuto la richiesta di escludere dalla gara Israele: “Le sue azioni contraddicono profondamente i valori che l’Eurovision dovrebbe difendere, di pace, unità e diritti umani”, aveva affermato il cantante.
Durante la seconda semifinale svoltasi la sera di giovedì 15 maggio, l’esibizione della cantante israeliana, la quattordicesima in gara, è stata caratterizzata da diverse contestazioni rivolte contro l’artista. Urla, schiamazzi, fischi contro la rappresentante dello Stato ebraico, e una persona si è elevata rispetto alla folla alzando verso di lei la bandiera della Palestina. La stessa bandiera da cui Yuval sfuggì, quando il 7 ottobre 2023 riuscì a salvarsi dai terroristi palestinesi fingendosi morta sotto altri cadaveri durante il massacro del Nova Musica Festival.
La pagina Wikipedia di Yuval Raphael – adesso corretta – sembrava un fake: c’era scritto che lei “essendo un’ottima terrorista israeliana, il suo hobby preferito è andare a rave organizzati fuori dai campi di concentramento, in cui vengono uccise ogni giorno centinaia di persone dallo Stato ebraico”, un riferimento capovolto della strage perpetrata da Hamas ai danni del sud di Israele.
Già l’anno scorso la rappresentante israeliana Eden Golan aveva subito insulti, fischi e attacchi prima e durante l’esibizione, in un clima di odio mai visto alla kermesse canora.

La parzialità dei conduttori italiani
  L’esibizione di Yuval è stata diversa rispetto alle altre non solo per gli insulti ricevuti prima e durante la performance, ma anche per il comportamento dei conduttori italiani. A commentare l’edizione italiana dell’Eurovision Song Contest 2025 ci sono Gabriele Corsi e Big Mama. Quest’ultima è rimasta silente, dall’inizio alla fine, durante la presentazione e la partecipazione di Yuval alla competizione. Big Mama si è astenuta non solo dal fare commenti ma anche dal ruolo per cui era stata chiamata: presentare. Gabriele Corsi, pertanto, ha fatto il minimo indispensabile da solo. I conduttori italiani hanno riempito tutti gli altri artisti di complimenti. Hanno rivelato curiosità, commentato gli outfit, hanno sempre espresso gradimento e parole gentili per tutti. Per tutti, tranne che per Yuval. Con lei si sono limitati ad una presentazione essenziale, la stretta necessaria.
Il silenzio è stato notato e apprezzato dagli utenti propal sui social. Una pioggia di commenti ne è scaturita, come “Big Mama in lutto durante la presentazione di Israele, we feel you”, “Big Mama non ha detto più nulla per tutto il tempo in cui c’era Isram***a” oppure “Brava Big Mama che non si è proprio filata la sionista di me****”. Ancora: “Il fantastico silenzio di Big Mama prima e dopo l’esibizione di Israele”. Infine: “Bellissimi i mancati commenti di Gabriele e Big Mama sull’esibizione di Israele. Siamo con voi ragazzi!”.
Un clima d’odio, discriminazione e razzismo caratterizza anche quest’anno la partecipazione di Israele all’Eurovision Song Contest. Ma Yuval ha una risposta per tutti: “I love you! Thank you, merçi, todà”, come ha detto alla fine della sua esibizione. E manda una marea di cuoricini anche per chi le augura la morte, da cui è riuscita brillantemente a sfuggire durante la strage del 7 ottobre 2023 proprio ad un festival musicale celebrando la più grande passione della sua vita, quella con cui oggi rappresenta Israele

(Bet Magazine Mosaico, 16 maggio 2025)

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I viaggiatori israeliani devono prestare attenzione

L'aereo è il mezzo di trasporto più sicuro. Tuttavia, per i passeggeri con passaporto israeliano o destinazione Israele, valgono particolari considerazioni di sicurezza per i viaggi aerei internazionali. In particolare, le rotte aeree che attraversano paesi che non riconoscono Israele o che sono in tensione politica con il paese possono diventare problematiche per i viaggiatori. In caso di condizioni meteorologiche estreme, un problema tecnico o un'emergenza medica, l'aereo potrebbe essere costretto ad atterrare in uno Stato ostile.
  In tali situazioni, gli esperti, come il responsabile della sicurezza aerea della compagnia aerea Arkia, Gadi Amal, raccomandano cautela. I passeggeri con passaporto israeliano o identità ebraica dovrebbero comportarsi con discrezione, non mostrare documenti in ebraico e, se possibile, contattare direttamente l'ambasciata israeliana o il ministero degli Esteri. In caso di emergenza, è possibile anche un intervento diplomatico tramite paesi terzi, come la Svizzera o la Germania.

Le compagnie aeree israeliane evitano gli “Stati nemici”
   Il punto di partenza di un recente dibattito su questo tema in Israele è, tra l'altro, una scena della serie televisiva israeliana “Teheran”. In essa, una coppia israeliana viene prelevata con la forza dalle forze di sicurezza dopo un atterraggio di emergenza in Iran. Anche se si tratta di finzione, il problema di fondo rappresentato è estremamente reale.
  Infatti, le compagnie aeree israeliane evitano di sorvolare paesi che non riconoscono lo Stato di Israele e sono ufficialmente considerati “Stati nemici”. Tra questi figurano l'Iran, la Siria, l'Iraq, lo Yemen e il Libano. Le rotte delle compagnie aeree israeliane sono pianificate con un software speciale che tiene conto fin dall'inizio delle zone politiche soggette a restrizioni.

Cautela con le compagnie aeree straniere
   La situazione è diversa per molte compagnie aeree straniere, in particolare quelle asiatiche, arabe o africane. Le loro rotte attraversano regolarmente spazi aerei critici.
  Per i passeggeri israeliani che viaggiano con un secondo passaporto, ad esempio europeo, questo non è sempre immediatamente evidente. In passato si sono verificati casi isolati in cui i passeggeri si sono resi conto solo durante il volo o durante uno scalo non previsto di trovarsi nel territorio di uno Stato ostile a Israele.
  L'esperto di sicurezza aerea Amal raccomanda in linea di principio di viaggiare con compagnie aeree israeliane. Per i viaggiatori che decidono comunque di volare con una compagnia aerea straniera, è consigliabile verificare in anticipo la rotta prevista. Applicazioni come Flightradar24 o FlightAware consentono di tracciare le rotte storiche di voli simili per evitare spiacevoli incidenti.

(Israelnetz, 16 maggio 2025)

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