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Notizie 1-15 novembre 2015


Dalle Torri a "Charlie". Moriremo di distinguo

C'è chi pensa di poter gestire l'odio giustificando i nostri nemici. Ebrei, soldati, americani, vignettisti: alla fine le vittime se la sono cercata.

di Marco Zucchetti

All'obitorio di Parigi, sul cartellino appeso agli alluci di quei 129 disgraziati, ci scriveranno: «Causa del decesso: distinguo».
   Perché questa ecatombe è figlia del Califfo, ma anche figliastra della cultura giustificazionista che mezzo Occidente ha forgiato per disertare prima ancora che la guerra scoppiasse, perché l'idea che qualcuno si fosse messo in mente di diventare il nostro peggior nemico era insopportabile.L'hanno fatto quasi senza accorgersene, in pensieri e parole prima che in opere e omissioni, provando ogni volta a voltarsi dall'altra parte. Hanno scusato le stragi, compreso le ragioni dei jihadisti, cercato le nostre colpe vere o presunte e gentilmente omesso di definire «islamici» i terroristi. Come se chiudendo gli occhi poi tutto si potesse rivelare solo un brutto sogno. Ecco, buon risveglio a tutti.Ancora oggi l'11 settembre è messo in conto alla spregevole coscienza imperialista di George W. Bush e alla sua ossessione western per le armi. Voleva dominare il mondo e gli hanno demolito le Torri, azione e reazione, limpido. Come una querela dopo un'offesa, ognuno reagisce alla sua maniera, ci mancherebbe.Poi gli attentati nella metro di Londra e alla stazione di Atocha di Madrid, l'Europa che sente in bocca per la prima volta il gusto guasto del sangue: sono Blair e Aznar che pagano per le sue bugie sulle armi di distruzione di massa con cui ha avallato l'invasione dell'Irak. Sì, ma la metro che c'entra? Niente, ma c'entravano forse qualcosa le vittime collaterali a Baghdad? Erano innocenti, non come Lee Rigby. Lui era un soldato, quindi decapitarlo per strada nel 2013 ha fatto parte dell'ordine naturale delle cose.
   Cambiati i governi, scemata l'onda lunga della lotta contro «l'asse del male», il giustificazionismo ci rimane incrostato addosso. Così, quando Mohammed Merah nel 2012 fa una strage nella scuola ebraica di Tolosa, sono in tanti ad alzare un sopracciglio. Gli stessi che oggi hanno ottenuto le etichette sui prodotti delle colonie per boicottare Israele, sono convinti che chi semini vento in Palestina, poi debba raccogliere tempesta ovunque. In una scuola ebraica, in un supermercato kosher per mano dei fratelli Kouachi, davanti a un ristorante di Milano.L'idea che chi diventa bersaglio in fondo se la sia cercata ha attecchito ovunque. Non siamo stati tutti Charlie Hebdo, se pochi mesi dopo un comitato di scrittori ha protestato formalmente contro il premio alla libertà di stampa e se i media si sono guardati bene dal pubblicare anche una sola vignetta. Non siamo stati Charlie perché finché le pallottole piovevano su chi offendeva Maometto potevamo pensare che toccava a loro perché qualcosa si meritavano. Ebrei, soldati, americani, disegnatori sacrileghi, registi scomodi: la guerra è contro di loro, che sono altro. Noi, brava gente perbene, non definiamo i tagliagole in base alla loro fede e non facciamo di tutta l'erba un fascio. E pensiamo così di poter gestire l'odio instaurando l'era del distinguo.Ecco, provate a distinguere anche ora. Chi andava allo stadio se lo meritava perché apprezza uno sport violento, corrotto e razzista. Chi è stato giustiziato ad un concerto non si può lamentare, perché sul palco cantavano gli «Eagles of the Death Metal» e in nomen omen. Ma dove la trovate l'orrenda colpa in chi sorbiva zuppa al ristorante «Petit Cambodge»? A parte i campioni di ottusità che ancora oggi blaterano di inevitabile punizione per aver votato il governo guerrafondaio di Hollande, davvero non abbiamo capito che quei clienti sono morti solo perché qualcuno ha pensato che ammazzarli mentre mangiavano riso allo zenzero potesse far piacere a Maometto?Perché possiamo mettere tutti i puntini sulle «i» che vogliamo, ma una vittima è una vittima, un kalashnikov è un kalashnikov e «Allah akhbar» significa «Allah è grande». E a forza di distinguere, ora l'unica cosa che si può distinguere sono i morti: è facile, sono quelli sdraiati e immobili, mentre quelli in piedi si affannano a cercare nuovi alibi assurdi.

(il Giornale, 15 novembre 2015)


I servizi segreti israeliani aiutano i colleghi francesi nelle indagini sugli attacchi di Parigi

GERUSALEMME - I servizi di spionaggio israeliani stanno aiutando gli inquirenti francesi ad indagare sugli attacchi terroristi di venerdì scorso a Parigi. Lo riferiscono i media israeliani, secondo cui l'assistenza degli agenti israeliani riguarda in particolare la sorveglianza dei gruppi militanti in Siria e in Iraq. Secondo l'emittente "Channel 2", i servizi israeliani avevano girato delle informazioni ai colleghi francesi su alcuni militanti dello Stato islamico all'estero poche ore prima degli attentati. Senza fornire ulteriori dettagli, "Channel 2" ha spiegato che l'intelligence israeliana vede "un chiaro legame operativo" tra l'attentato nella capitale francese, gli attentati suicidi Beirut di giovedì e il disastro aereo dell'Airbus russo dello scorso 31 ottobre nel Sinai egiziano. La radio dell'esercito israeliano, nel frattempo, riferisce che i servizi di spionaggio che stanno monitorando la Siria e l'Iraq - dove i jihadisti dell'Is hanno conquistato fasce di territorio - potrebbero essere in possesso di importanti informazione d'intelligence sull'organizzazione degli attentati di Parigi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha detto ieri ai giornalisti di aver "istruito i servizi di sicurezza e di intelligence di aiutare i loro colleghi francesi e le controparti di altri paesi europei in ogni modo possibile".

(Agenzia Nova, 15 novembre 2015)


Parigi, Tel Aviv, Bagdad e Damasco

di Alberto Comuzzi

A 36 ore dai fatti di Parigi, chiusa la pausa del "non traiamo frettolose conclusioni", ci sentiamo autorizzati a fare qualche riflessione. Cominciamo dai commentatori e dai giornalisti stipendiati con il - nostro - canone Rai. Fino a giovedì sera, nei talk show, nei telegiornali e persino nei programmi d'intrattenimento, ci hanno stordito con parole, assunte a dogma, come "dialoganti comunque e sempre", "accoglienza innanzitutto", "macché invasione", "non fomentiamo l'insicurezza", "l'Italia non è il far west" e via discorrendo.
   Adesso, gli stessi "maître à penser" raccomandano di «non fare sciacallaggio politico» e avvertono, sempre dall'alto della loro dirittura morale, che non è il momento di «strumentalizzare a fini elettorali i morti di Parigi». Ammonimenti, ovvio, rivolti a chi, da anni, sostiene che è un pericolo oggettivo fare entrare in Europa e in particolare in Italia persone di cui poco o nulla si sa.
   Gli stessi "maestri di pensiero" stanno inoltre spiegando, soprattutto e sempre dai microfoni Rai, che "la paura è cattiva consigliera", che "la vita trionfa sulla morte", che i valori della libertà, dell'uguaglianza e della fraternità non saranno minimamente scalfiti dall'intransigenza islamica. Siamo oltre il grottesco; siamo alle comiche finali.
   Proprio oggi, quell'acuto sociologo che è Massimo Introvigne cita, su "La nuova bussola quotidiana", il pensiero di un popolare blogger saudita il quale ammette che «non tutti i musulmani sono terroristi. Ma oggi ho l'impressione che tutti i terroristi siano musulmani». Commenta Introvigne: «Neanche questo è vero - ci sono terroristi legati all'estremismo induista, protestante fondamentalista e perfino buddhista, o al narcotraffico - ma segnala un'altra verità scomoda. I terroristi sono parte dell'islam. Dire che "non c'entrano nulla con l'islam" non è meno infondato che sostenere che tutti i musulmani sono terroristi». A buon intenditor poche parole.
   Il 26 ottobre 2014, un anno fa, a Morbegno, al "cucchiaio" vicino piazza Sant'Antonio si era tenuto il «Presidio di pace e fratellanza», promosso dalle comunità islamiche della provincia di Sondrio, da Associazione islamica Bassa Valtellina, dal gruppo Giovani musulmani valtellinesi, dalle comunità e i cittadini musulmani di Tirano, Sondrio e Colico alla presenza delle bandiere della Cisl-Anolf, Associazione nazionale Oltre le frontiere. Nell'occasione i promotori dell'iniziativa avevano espresso «la ferma condanna per l'efferata violenza perpetrata nelle martoriate terre di Siria e Irak» e Usama El Santawi, uno dei promotori del presidio, aveva spiegato che l'Isis e il nuovo terrorismo islamico portano «morte, violenza, sopraffazione».
   Abbiamo citato questo caso perché avevamo dettagliata documentazione, ma sappiamo che in molti altri luoghi d'Italia si sono avute manifestazioni analoghe. Ecco, ci piacerebbe che proprio costoro, i musulmani moderati come si è soliti definirli, cominciassero ad impegnarsi, oltre che con le parole, in gesti concreti e documentabili, per esempio nell'aiutare i cristiani perseguitati nei loro Paesi d'origine (Irak, Siria, ad esempio) a tornare nelle loro case e riaprire le attività oneste con le quali si guadagnavano da vivere. La speranza è l'ultima a morire.
   Allo stato attuale delle cose, cinicamente dobbiamo concludere che i morti di Parigi stanno svegliando dal loro torpore le coscienze di tanti europei abituati a considerare il terrorismo come un fatto confinato al Medio Oriente o in altre zone remote del Pianeta o comunque non strettamente legato al Vecchio Continente. Forse, da venerdì sera, anche qualche intellettuale progressista "de noantri" ha cominciato a capire che cosa stanno patendo, dal 15 Maggio 1948, i cittadini di Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa o di un qualsiasi villaggio ebraico.

(Valtellinanews.it, 15 novembre 2015)


Emergenza terrorismo: a Trieste preoccupazione per Porto e Centro di fisica

Convocato in Prefettura il tavolo tecnico sull'emergenza terrorismo, la cui allerta è salita notevolmente dopo i drammatici fatti di Parigi. Obiettivi chiari: controlli a tappeto su tutti coloro che arrivano a Trieste da Stati musulmani, così come controlli sui cittadini musulmani che già vivono in città da anni.

Convocato in Prefettura il tavolo tecnico sull'emergenza terrorismo, la cui allerta è salita notevolmente dopo i drammatici fatti di Parigi. Obiettivi chiari: controlli a tappeto su tutti coloro che arrivano a Trieste da Stati musulmani, così come controlli sui cittadini musulmani che già vivono in città da anni.
Al tavolo, convocato, dal prefetto Maria Francesca Adelaide Garufi hanno partecipato gli amministratori pubblici e le Forze di Polizia competenti in materia. Nelle prossime ore verrà inoltre organizzato un incontro del Comitato ordine e sicurezza incentrato sul tema del terrorismo.
I controlli, già da ieri sono già un fase di intensificazione in città. Si sta valutando inoltre la possibilità di utilizzare nel corso delle diverse operazioni anche le forze speciali antiterrorismo (in punti particolari della città quali scuole, stazioni e chiese, luoghi quindi particolarmente affollati, utilizzando inoltre mezzi blindati), ma ogni decisione verrà demandata al Comitato ordine e sicurezza.
Al Viminale Trieste, per la sua particolare posizione geografica, è stata inserita tra le città a cui viene rivolta attenzione particolare, in special modo il Porto, il Centro di Fisica teorica di Miramare e la sinagoga cittadina.

(Triesteprima, 15 novembre 2015)


È il modello di israele: una vita sotto assedio

di Fiamma Nirenstein

Battere il terrorismo è un sentimento, una decisione profonda, una fede nella propria battaglia e nel proprio diritto alla vita. È anche la determinazione a battersi non violando, ma anzi difendendo i propri valori; è alzarsi la mattina sapendo che bisogna anche saper convivere con l'orribile bestia onorando la propria vita quotidiana.
   Una volta, durante la seconda Intifada col solito gruppo di donne facevamo ginnastica nella palestra dell'Ymca quando è arrivata la notizia di un autobus saltato per aria all'angolo. In tuta e sneackers, siamo tutte uscite di corsa fino all'angolo dove l'autobus era esploso. Abbiamo visto sgomberare i corpi senza vita. Dentro, ancora seduto, la testa reclinata, lo zaino in grembo, si intravedeva un corpo di una persona. Non ci lasciarono passare la transenna; dopo un poco siamo tornate in gruppo alla palestra, e abbiamo ripreso la lezione col cuore pesante quanto si può. «Brave - alla fine ci ha detto l'insegnante - ce l'avete fatta». Sei bravo, ma normale se durante un'ondata di terrore in Israele decidi di sederti al caffè con le amiche appena i locali vengono ricostruiti dopo un attentato con dozzine di morti, se vai al cinema comunque e ti siedi un po' indietro in caso si debba evacuare il teatro, in cui porti comunque i figli a scuola in macchina se puoi evitare il bus...
   La vita degli israeliani è tutta resistenza, esaltazione della vita normale, riuscire a mantenere i diritti delle tre religioni monoteiste a visitare ogni angolo di Gerusalemme in pace. È un obbligo morale prima ancora che pratico. Il terrorismo è sconfitto se si riesce a vivere senza paura, a restare nei kibbutz attaccati di continuo da Hamas sul confine di Gaza allontanandosi solo per le vacanze coi bambini se sono troppo stressati per poi riprendere il proprio posto, andare a fare la spesa al supermarket durante questa intifada dei coltelli e decidere dopo un giorno a casa di portare i bambini a scuola o a scuola di danza o di nuoto.
   A monte di questo sentimento c'è la determinazione che la propria civiltà, con tutte i difetti delle democrazie, non debba mai rinunciare a rispettare la libertà di movimento e di opinione, i diritti della persona stabiliti dalla legge: si sa bene che il pericolo proviene dal mondo palestinese, ma a nessuno viene in mente di cancellare i loro diritti. Negli ospedali medici e malati, letto a letto, parlano ebraico e arabo e le famiglie visitano i degenti. Alla Knesset, i parlamentari, a scuola gli alunni, nei negozi i clienti e i negozianti: tutti sono soggetti al medesimo regime legale e giudiziario, niente viene modificato. Il rispetto per il Mufti della Moschea resta anche quando è proprio una «Intifada delle Moschee» quella che si minaccia. Ma la passione per la propria civiltà deriva anche dal fatto che Israele conosce il suo valore, e lo difende con la vita. Innanzitutto, l'esercito addestra i giovani non solo alla guerra convenzionale, ma a difendere la gente dal terrorismo, e in questo periodo infatti utilizzato ampiamente nelle città attaccate. A ogni attacco missilistico di Hamas rispondono gli F16 che si alzano in volo e bombardano i siti dei lanciamissili; ogni ingresso dei grandi negozi e di edifici pubblici è controllato da persone e macchinari necessari; la Knesset rivede e corregge continuamente le leggi che definiscono la punizione al terrorismo, e ultimamente hanno passato un testo, ferocemente discusso, in cui anche chi dichiara solidarietà col terrorismo è condannabile, in cui ogni cittadino sopra i 12 anni può essere arrestato, i sospettati possono essere prevenuti dal lasciare il Paese, per alcuni casi si può sospendere di 48 ore il primo incontro coll'avvocato, sono diventate severissime le regole che prevengono il finanziamento del terrore, anche sotto forma di ONG e di associazioni caritative.
   Nel 2002, dopo che il 27 marzo un attacco a Netanya fece 23 morti fra gli anziani partecipanti alla cena rituale di pasqua, il Seder (e questo avvenne dopo parecchie decine di assassinati) Ariel Sharon lanciò una dura operazione militare in cui Arafat, ritenuto il mandante principale, fu assediato nel suo compound della Mukata a Ramallah. Furono rastrellate Tulkarem, Qalqilya, Betlemme, Nablus, l'operazione aiutò non poco a porre fine al grande attacco alla gente di Israele. Questo non impedì a Sharon di essere più tardi il promotore dello sgombero da Gaza.
   Come diceva Yzchak Rabin: combattere il terrore come se non esistesse trattativa, trattare come se non esistesse il terrore. Ovvero affrontare l'avversario su ogni terreno, con mezzi diversi, e soprattutto con la convinzione non solo della propria necessità di sopravvivere e restare se stessi, ma del fatto che essa sia indispensabile al genere umano intero.

(il Giornale, 15 novembre 2015)


Bataclan a rischio dal 2011: "I proprietari sono ebrei"

 
Il Bataclan
Questa volta c'è stata una carneficina. Ma il Bataclan - dove venerdì i terroristi hanno ucciso 89 persone - era già stato oggetto di minacce in passato da parte di gruppi an- ti- sionisti. Nel 2011 era emerso che il teatro (che da fine settembre appartiene al gruppo Lagardère, che ne detiene il 70%) era stato l'obiettivo di un progetto di attacco perché i proprietari erano ebrei. Lo aveva segnalato ai servizi francesi un miliziano del gruppo Army Of islam, vicino ad Al Qaeda, sospettato di aver commesso un attentato al Cairo nel 2009 in cui era rimasta uccisa una studentessa francese. Altre minacce risalgono al 2007 e al 2008 perché il locale ospitava regolarmente conferenze ed eventi legati all'ambiente ebraico, come il galà annuale del Magav, le guardie di frontiera che fanno parte della polizia di Israele. Non solo il luogo non era casuale, ma neanche il giorno. Venerdì infatti a esibirsi era stato il gruppo metal Eagles of Death Metal, che era stato in tour in Israele l'anno scorso nonostante gli appelli a boicottare i loro concerti. Ieri davanti al teatro del massacro gli agenti della polizia hanno cercato di disperdere i gruppetto di gente che si era affollata per rendere omaggio alle vittime. Le manifestazioni sono vietate fino a giovedì in tutta la regione di Parigi, ma le persone si raccolgono lo stesso nei luoghi del martirio. Posano candele e fiori ai piedi delle transenne, dei locali Le Carillon e Le Petit Cambodge, lì vicino, nella rue Bichat, come avevano fatto a gennaio per le vittime di Charlie Hebdo, a poche traverse da lì. Un pianista si è tirato a braccia il pianoforte con le ruote e le note di Imagine dei Beatles si sono diffuse sul boulevard dove Simenon aveva fissato l'indirizzo dell'ispettore Maigret.

 Una giovane posa un fiore
  Venerdì sera era seduta al tavolino del bar accanto al teatro con gli amici quando hanno sentito gli spari: "Ci siamo tutti nascosti dentro il caffè - ha raccontato - poi sono arrivati i poliziotti che ci hanno detto 'Restate giù e non uscite'. Poi la gente cominciava a uscire dal locale. Il caffè ha aperto le porte ai feriti. Abbiamo cercato di aiutarli, c'era sangue ovunque". Kelly era al concerto degli Eagle of Death Metal. Con una ventina di persone è rimasta nascosta due ore in una loggia: "Abbiamo chiuso la porta e spento la luce. Non vedevamo niente, ma sentivamo tutto, le grida dei terroristi. Alcuni ostaggi sono stati inviati a parlare con i poliziotti. 'Non fatevi avanti, dicevano, 'sennò ci uccidono, portano cinture di esplosivi'". In molti sono riusciti a scappare passando dalle finestre del teatro.
Parigi ieri si è svegliata a lutto: scuole e i musei sono rimasti chiusi, la Tour Eiffel non riaprirà fino a nuovo ordine. I grandi magazzini e diversi negozi del centro hanno lasciato le saracinesche abbassate. Tutti gli eventi culturali sono stati annullati. Un centro di accoglienza psicologica è stato improvvisato sin dalla notte di venerdì nelle sale del comune del XII arrondissement. Lo psichiatra Christophe Debien ha attraversato le vie della città in preda al panico alle prime luci dell'alba per recuperare le persone sotto choc. In poche ore ne ha accolto un'ottantina: "Ci raccontano degli orrori, scene di guerra. Non avevo mai visto niente del genere".

 All'ospedale
  All'ospedale della Pitié Sal- pétrière, uno dei cinque ospedali mobilitati per accogliere i 300 feriti, si è formata una lunga fila di persone venute a donare il sangue. C'è chi viene a cercare un familiare o un amico di cui non ha notizie. Una donna piange davanti alle telecamere di tutto il mondo mostrando una foto del figlio. Era al Bataclan con la moglie. Lei è riuscita a fuggire, ma di lui da allora non si hanno più notizie. È spagnola, ma parla in francese: "Aiutatemi mio figlio non è in nessun ospedale. Si chiama Fernando Alberto Gonzales Garrido".

(Pianeta Notizie, 15 novembre 2015)


La nuova strategia: "Portare la guerra civile nel cuore dell'Europa"

La guerra di Al-Baghdadi: "Non vivrete mal in pace nella capitale della prostituzione e del vizio"

di Maurizio Molinari

L'inizio di una tempesta jihadista sull'Europa e la volontà di precipitare la Francia in una guerra civile di stampo siriano: sono i messaggi con cui lo Stato Islamico (Isis) rivendica il massacro di Parigi, sovrapponendo strategia e propaganda.
  In genere il Califfo Abu Bakr al- Baghdadi affida le rivendicazioni degli attentati alle cellule che li realizzano - come avvenuto con la «Provincia del Sinai» in occasione della bomba sull'aereo russo decollato da Sharm - ma in questa occasione il testo viene dal quartier generale di Raqqa. L'intento è rivendicare al «Principe dei credenti» la paternità dell'attacco alla Francia e il motivo si evince dalle prime righe, lì dove si parIa di «inizio della tempesta».

 Le cellule autonome
  Se nel novembre 2014 al-Baghdadi aveva chiesto ai jihadisti di «far esplodere i vulcani sotto i regimi apostati e corrotti» chiedendo di far nascere cellule autonome in più Stati - come in effetti è avvenuto - ora parla di «tempesta» perché vede nell'assalto a Parigi un momento di svolta delle operazioni militari. L'attacco non è estemporaneo, si tratta di un'offensiva destinata a durare contro le «nazioni dei Crociati» che «combattono contro di noi»: «Non vivrete mai in pace». A 15 mesi dalla creazione del Califfato, al-Baghdadi porta la guerra in Europa ed è determinato a tenere aperto questo nuovo fronte.
  Il primo obiettivo è la Francia perché gli ha dato almeno mille «Foreign Fighters» e, come si legge nel testo criptato online, è guidata dall'«imbecille Hollande» e ha in Parigi «la capitale della prostituzione e del vizio», simbolo di degrado morale e quindi di debolezza. I passaggi sul massacro descrivono Parigi come un campo di battaglia con «obiettivi accuratamente scelti» inclusa la «partita fra le nazioni Crociate Germania e Francia» e il teatro Bataclan, che sin dal 2011 l'Esercito dell'lslam aveva nel mirino perché i proprietari sono di origine ebraica.
  Se il Califfo mette l'accento sugli «otto fratelli armati di fucili ed avvolti nell'esplosivo» che hanno avuto successo contro una Francia debole e corrotta è per spingere altri jihadisti a emularli e colpire. In un'audio diffuso separatamente un miliziano parla in francese, si rivolge ai «musulmani» residenti nell'Esagono e gli chiede di «infondere il terrore» nei concittadini: «Non si sentiranno sicuri neanche al mercato». Il richiamo è a «Gang of Islam», il pamphlet di Isis destinato ai «musulmani dell'Occidente» in cui gli si chiede di «non avere paura di polizia ed eserciti» organizzandosi a livello locale «attorno a leader carismatici» per «aiutare i bisognosi» e «sfidare gli oppressori».

 Spingere alla rivolta
  Sono queste gang jihadiste lo strumento che il Califfo ha in mente: gli attentati «che colpiranno la Francia e le altre nazioni che la seguono» hanno un obiettivo più ambizioso di scompaginare la coalizione anti-Isis in Siria, vogliono spingere alla rivolta gruppi locali di estremisti islamici. D'altra parte un'indagine di «Russia Today» attesta che «il 15 per cento dei musulmani francesi simpatizza con il Califfato» e la quota fra i giovani è assai più alta. La Francia è considerata il ventre molle dell'Europa, matura per l'aggressione, in maniera analoga a quanto il Califfo ha in mente nei Balcani. Per questo recenti video di Isis mostrano miliziani bosniaci e kosovari lanciare analoghi appelli ai «musulmani dei Balcani» affinché si «sollevino contro i Crociati».
  Il documento sulla «tempesta» è la dichiarazione di guerra all'Europa e Isis la suddivide in una miriade di twitter, diffondendola in più lingue a pioggia sul web, perché il fronte d'attacco digitale serve a reclutare.

(La Stampa, 15 novembre 2015)


L'intelligence ha fallito perché non sa ascoltare

Intercettazioni inutili, infiltrati doppiogiochisti e protocolli sbagliati. Le comunità delle banlieue sono omertose. I servizi vanno ridisegnati. Vale pure per l'Italia.

di Carlo Panella

Le intercettazioni non sono efficaci, gli infiltrati tra i terroristi non funzionano, i protocolli della polizia per le prese d'ostaggio sono sbagliati e infine, ma non per ultimo, le comunità islamiche in cui gli jihadisti si muovono, quantomeno a Parigi, sono omertose.
   Queste sono le terribili novità che vengono dal venerdì di sangue della Francia. Di queste dovranno fare tesoro d'ora in poi anche le forze di sicurezza in Italia.
   Proibito d'ora in poi parIare della difficoltà di individuare e prevenire le azioni isolate dei «lupi solitari»: a Parigi per mesi, decine di jihadisti, i kamikaze e gli addetti ai trasporti e alla logistica si sono procurati covi sicuri e armi, le hanno nascoste, hanno effettuato sopralluoghi, hanno pianificato i sei attacchi e le eventuali vie di fuga senza che risultasse dalle intercettazioni, senza che gli infiltrati ne avessero notizia, senza che nessuno nei quartieri in cui si sono mossi li denunciasse.
   Questo insieme di novità sconvolge e vanifica il 90% degli strumenti di prevenzione di cui dispongono i Servizi, inclusi quelli italiani. Le intercettazioni si basano non solo sulla sorveglianza di una rete di individui sospetti, ma anche su algoritmi che setacciano automaticamente decine, centinaia di migliaia di comunicazioni telefoniche (inclusi gli Sms e la rete) e allertano gli investigatori quando vengono impiegate centinaia di parole che indicano gli jihadisti. Non solo Hegira (la fuga di Maometto dalla Mecca in mano agli idolatri) che significa in realtà «clandestinità», Jihad e Shaid (martire) e Shahada (martirio), ma anche i loro infiniti sinonimi, così come i sinonimi delle armi.
   Ma nonostante le migliaia di messaggi interpersonali che hanno preparato l'azione di guerra di venerdì, nulla è risultato agli inquirenti. Questo significa che hanno comunicato senza utilizzare la tecnologia, a voce, di persona, o attraverso i «pizzini» che - per le stesse ragioni- usava il capo mafia Bernardo Provenzano. Veniamo agli infiltrati: da anni - e soprattutto dopo l'11 gennaio di Charlie Hebdo - i Servizi in Francia, come in Italia, hanno inserito nelle banlìeues, nelle bande dei trafficanti di droga e della prostituzione (indispensabili per procurarsi le armi), nelle moschee e nei luoghi di ritrovo degli immigrati (money transfert, rivendite di kebab) centinaia e centinaia di «gole profonde». Non è servito a nulla: nessuno di loro ha riportato l'enorme mole di traffici clandestini indispensabile all' organizzazione di questa complessa azione di guerra.
   Il fatto è tanto grave da suscitare un sospetto che probabilmente impedisce il sonno ai dirigenti dei Servizi francesi: ai livelli medio-bassi della rete francese di monitoraggio degli infiltrati c'è chi fa il doppio gioco, finge di infiltrarsi, ma in realtà depista, riporta informazioni devianti.
   Poi, la novità più scabrosa: i protocolli per gestire le prese d'ostaggi.
   La prima regola nei Paesi democratici è tentare una trattativa. Persino Amedy Coulibaly, che prese in ostaggio l'Il gennaio scorso i clienti ebrei dell'HuperKosher, parlò con la polizia e con un giornalista. Ma venerdì, applicando questo protocollo, come non potevano non fare, davanti al Bataclan, i Corpi Speciali hanno solo perso del tempo. Molto tempo, decine e decine di minuti, durante il quale i sequestratori hanno ucciso «uno per uno», come dicono i testimoni, decine e decine di ostaggi.
   A posteriori, è chiaro che a fronte dei kamikaze senza alcuna richiesta in cambio degli ostaggi, solo intenzionati a ucciderli, ma con lentezza, non a sventagliate di mitra, l'assalto avrebbe dovuto essere ordinato subito, per salvare vite umane dal macello. Si apre dunque qui un problema di procedure (che sono tutto, in questi casi) di drammatica complessità.
   Infine, l'omertà. È evidente che gli jihadisti si sono mossi per mesi «come pesci nell'acqua» nella banlieu di Parigi, senza che nessuno denunciasse il complesso lavoro di preparazione, a partire dal procurarsi (forse dalla malavita) tante armi e proiettili, così come il va e vieni dai covi di jihadisti stranieri.
   Gli autori della strage forse si sono tenuti lontani dalle moschee (che sanno infiltrate), ma è impossibile che nessuno non si sia stupito dell'anomalia dei loro complessi traffici preparatori. Di certo, qualcuno li ha notati, ma non ha parlato.
   Quella larga parte della banlieu di Parigi che si rifiutò di rendere omaggio alle vittime di Ciarlie Hebdo, ha coperto con la sua omertà la preparazione di un nuovo, enorme, crimine. E sciogliere questo nodo sarà drammatico. Forse, impossibile.

(Libero, 15 novembre 2015)


Quando boicottare prodotti e servizi è illegale

La Cassazione francese ha multato per 28.000 euro alcuni militanti filopalestinesi che incitavano a non acquistare prodotti provenienti da Israele.

In Italia si è discusso molto, in seguito al caso di Erri De Luca, se sia legale oppure no teorizzare la legittimità del sabotaggio di opere pubbliche e ferrovie e, eventualmente, sollecitare e propagandare azioni di sabotaggio.
In Francia, invece, è definitivamente stata sancita l'illegalità del boicottaggio di prodotti e merci, inteso come invito ai cittadini a non acquistare prodotti o servizi fabbricati in un certo Paese o da una particolare impresa o gruppo di imprese.
In particolare, la Corte Suprema francese ha confermato la condanna inferta dalla Corte d'Appello di Colmar a 14 attivisti del movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) che prevede il pagamento di 28.000 euro di danni alle parti civili e una multa di 1.000 euro per ogni attivista.
Queste persone sono state condannate per aver partecipato ad alcune manifestazioni (una il 26 settembre 2009 alcuni, l'altra il 22 maggio 2010) davanti al negozio Carrefour di Illzach, dove in quelle occasioni è stato istituito un «presidio per il boicottaggio di prodotti provenienti da Israele».
Il movimento BDS sta portando avanti la propria strategia in molti paesi (Gran Bretagna, Stati Uniti d'America, Belgio, Germania) attraverso inviti a boicottaggi commerciali, accademici o culturali per fare pressione su Israele.
I manifestanti indossavano magliette con lo slogan «La Palestina vivrà, boicottaggio di Israele» e distribuivano ai clienti volantini su cui era scritto: «Chi acquista i prodotti importati da Israele legittima i crimini a Gaza e approva la politica del governo israeliano». I militanti non impedivano con la violenza di accedere al Carrefour né usavano slogan antisemiti, azioni che sarebbero state punite dalle leggi francesi.
Per l'Alta Corte francese, quanto avvenuto davanti al negozio è comunque «costitutivo del reato di "incitamento alla discriminazione, all'odio o alla violenza contro una persona o un gruppo di persone a causa della loro origine o la loro etnia, nazione, razza o religione" (articolo 24 paragrafo 8 della legge sulla stampa)». Solo gli embarghi decisi dal governo francese possono essere legali.
Invece secondo Jean-Christophe Duhamel, ricercatore legale presso l'Università di Lille-II, «Il diritto degli altri è rispettato in quanto la chiamata al boicottaggio è una richiesta al consumatore di esercitare la sua libertà di scelta. Non è un'azione che, ad esempio, impedisce la consegna dei prodotti israeliani in negozio, e non ostacola la libertà economica del produttore israeliano».
Contro la sentenza francese gli attivisti di BDS ricorreranno alla Corte Europea per i Diritti dell'Uomo.

(Zeusnews, 15 novembre 2015)


Sicurezza, Israele tende la mano alla Francia

di Daniel Reichel

L'intelligence israeliana è a disposizione della Francia e darà tutto l'aiuto possibile alle forze di sicurezza transalpine. È quanto ha disposto il Primo ministro Benjamin Netanyahu alla luce degli attacchi terroristici a Parigi. "Israele è spalla a spalla con il presidente Francois Hollande e il popolo francese nella comune guerra contro il terrorismo - ha dichiarato Netanyahu - Porgo ai famigliari delle vittime il cordoglio di tutti gli israeliani e auguro ai feriti una pronta guarigione". Il Premier ha condannato gli attacchi "sistematici e deliberati" contro innocenti, sottolineando che non può mai esserci una giustificazione per il terrorismo e invitando tutti i governi ad impegnarsi nel combatterlo. "Il terrorismo islamico - ha continuato il Premier - attacca le nostre società perché vuole distruggere la nostra civiltà e i nostri valori".
   In queste ore migliaia di persone si sono riunite a Tel Aviv, nel celebre piazza Rabin, per dimostrare la propria solidarietà al popolo francese. "Tel Aviv è al fianco di Parigi", lo slogan della manifestazione con il municipio della città israeliana illuminato con i colori della bandiera francese. "Grazie per la vostra presenza - il saluto rivolto alla folla dall'ambasciatore francese in Israele Patrick Maisonnave - È una vivida testimonianza del fatto che la Francia non è sola in questa lotta".
   "Le democrazie non cercano vendetta ma giustizia - ha continuato l'ambasciatore - La lotta contro l'Islam radicale è la nostra lotta comune. Uniamoci attorno ai valori della liberté, égalité fraternité".
"Ricordiamo gli attacchi a Tolosa, all' Hypercacher, a Ilan Halimi. Ci hanno detto che sono solo attacchi contro gli ebrei. Abbiamo detto no, il terrorismo è terrorismo. Ieri in Francia - le parole del ministro dell'Interno Moshe Silvan dal palco - domani può accadere in altri paesi d'Europa".
   La preoccupazione di Gerusalemme, in queste ore di tensione e dolore, si è rivolta anche alla Comunità ebraica di Francia, con il mandato da parte del governo al ministero degli Esteri di collaborare e chiedere all'Eliseo di rinforzare la sicurezza attorno alle istituzioni dell'ebraismo transalpino così come all'ambasciata israeliana a Parigi.

(moked, 14 novembre 2015)


Parigi macello: è arrivata la guerra, hashtag porte aperte

di Mino Fuccillo

ROMA - Da settanta anni gli europei quando si svegliano al mattino non mettono più in conto la possibilità di essere uccisi mentre vanno o sono al lavoro o mentre pranzano o cenano o mentre sono in strada o a teatro, al cinema, in un negozio o in uno stadio. Da settanta anni gli europei non pensano ogni mattina che può anche essere che non arrivino al giorno dopo. Questa è la pace. La pace che è finita.
  E' arrivata invece la guerra perché questa è la guerra: non sapere ogni giorno se sopravvivi, mettere in conto che ti possono uccidere, magari mai, magari subito. Anche se non sei un soldato, anche se sei giovane o vecchio o donna o uomo o bambino. Ti possono uccidere in un qualunque giorno e in qualunque luogo. Questa è la guerra e la guerra è arrivata in Europa, correttamente il Corriere della Sera titola: "La guerra di Parigi".
  Nella notte della guerra di Parigi spontaneo, vivo un hashtag: porte ouverte. Porte aperte, serviva a comunicare a chi era in strada esposto alla guerra che c'erano case che avrebbero loro aperto la porta e dato rifugio. Hashtag venuto dai cittadini di Parigi, hashtag didattico e profetico suo malgrado. E' arrivata la guerra e dobbiamo aprire tutti tutte le porte. Dobbiamo fare fronte comune perché siamo tutti in unico fronte.
  Non c'è porta o portone dietro il quale barricarsi. Non vale, non viene rispettato, è falso qualunque io non c'entro. Porte aperte per aiutarsi, darsi assistenza, riconoscersi. E porte da aprire, se necessario da sfondare. Le porte del negare, non voler vedere, sottrarsi, sminuire, adattarsi…
  Nella notte della guerra a Parigi porte aperte. Ma da mesi e anni occhi chiusi nelle pubbliche opinioni europee. Occhi chiusi, occhi stanchi, occhi renitenti. Occhi che non vogliono vedere la guerra che c'è, non fino in fondo per quella che è. Non vogliono vedere perché una guerra, se c'è, si vince o si perde. Se si perde si paga il carissimo prezzo della sconfitta.
  Ma anche vincerla una guerra non è gratis: i governi e le famiglie, i cittadini e i lavoratori europei socchiudono gli occhi, non per cecità ma perché abbagliati, di fronte al prezzo del vincerla questa guerra. Prezzo in soldi e sangue e perfino pensieri. Se l'Europa vuol vincerla questa guerra deve destinare a combatterla parte significativa dei suoi soldi e deve accettare che sia sparso sangue dei suoi figli che la combattano. Umanissima, condivisibile, sacrosanta è la voglia di non vedere il sangue in guerra dei propri figli. Meschina e sempre mascherata da altro e nobile intento il rifiuto anche di un solo euro di tasca propria per armarsi quando c'è guerra.
  Il nemico in questa guerra è una ideologia armata. Viene in mente il nazismo per tre motivi. Il primo è che nella storia il nazismo è il termine di paragone più immediato e più spaventoso. E noi siamo spaventati di fronte alla enormità di ciò che accade e ci serve un riferimento storico enorme, enormemente mostruoso.
  Ma è il secondo il motivo che più concretamente avvicina il nemico dell'oggi al nazismo. Quelli che in un arco di novemila chilometri da Casablanca a Peshawar sotto varie sigle e organizzazioni tagliano teste, scacciano popolazioni, riducono in schiavitù gli infedeli, abbattono aerei, macellano città sono tutti sotto una unica bandiera, hanno un comune ideale: ammazzarci, ammazzare noi per quello che siamo.
  Per quello che siamo, come mangiamo, facciamo l'amore, crediamo in un dio, lavoriamo, creiamo arte, preghiamo, pecchiamo, vestiamo…per questo, per tutto questo è per loro lecito, dovuto, perfino santo l'ammazzarci. Essere meritevoli, passibili di morte per quello che si è. Il nazismo appunto aveva portato ai vertici questa ideologia e questa pratica: ammazzare umani di un certo tipo per quel che sono e proprio per quel che sono. I nazisti ammazzavano perché ebrei, omosessuali, comunisti, handicappati, zingari…L'Isis e i suoi satelliti ammazzano perché occidentali, cristiani, infedeli, scostumati, femmine non devote…
  La terza affinità col nazismo è il culto della morte. Adorano, implorano, cercano la morte, disprezzano coloro che come noi amano la vita. Quando uccidono e poi si fanno saltare in aria per noi è dramma e tragedia al limite dell'incomprensibile, per loro è liturgia. Per loro, va detto, fare fuori gli ostaggi indifesi uno a uno è come per i cristiani prendere un'ostia a messa o per i laici occidentali conseguire un master. Questo insegna la loro ideologia armata.
  Difendersi, prevenire, affidarsi alle polizie? Si deve ma si può fino a un certo punto. Contro chi mette in conto di morire, contro chi si gioca la propria vita non c'è misura di prevenzione che tenga. Nulla ci terrà al riparo da azioni di guerra come quelle di Parigi.
  Nulla che non sia la guerra, decisa quanto sofferta, portata là dove è il nemico. Una guerra per sconfiggerlo il nemico, non per frenarlo. Per annientarlo militarmente, non per impedire che si espanda. Nulla che non sia questo difenderà le città europee.
  Roma sarà la prossima ad essere attaccata? E' il più logico prossimo obiettivo. Però a differenza di Parigi qui il nemico non può contare su antiche e consolidate possibile "retrovie", insomma cittadini italiani che offrono la logistica all'azione di guerra. Quindi a Roma è più difficile, anche se per il nemico ora Roma è il target più ambito.
  Il nemico è una religione, il nemico è l'Islam? Il nemico è un monoteismo teocratico, insomma per dirla in breve una religione che si ritiene unica e assoluta e che vuole coincidere con uno Stato, l'unico Stato dei fedeli, dei puri, dei veri umani. Oggi questo monoteismo teocratico incistato nell'Islam pur non essendo tutto l'Islam e tutto l'Islam possibile. Sta ai musulmani d'Europa, ma non solo d'Europa, occuparsi e preoccuparsi delle condizione di convivenza con i non musulmani. Sta a loro non solo condannare gli atti di guerra ma non partecipare in alcun modo alla guerra, neanche parteggiando in silenzio. Perché in Europa ci saranno delle notti di guerra di Parigi effetti collaterali.
  Vinceranno le elezioni che verranno coloro che si mostreranno meno esitanti, reticenti, indulgenti, lenti man mano che la guerra arriva. Anche se non avranno ragione vinceranno loro. E le destre, la Le Pen in testa, sembrano quasi ovunque più attrezzate ad essere meno esitanti, reticenti, indulgenti…Sarà un brutto effetto collaterale perché le destre sembrano, ma non sono.
  La guerra contro il nemico la si vincerà non solo perché si hanno più aerei ed elicotteri o se e quando finalmente si avrà la consapevolezza di doverla combattere. La si vincerà perché il nostro modello di vita, diciamo pure civiltà, consente e produce in ogni campo migliore vita agli umani: libertà, benessere, consumi, cultura…Dall'altra parte c'è una colossale decrescita eternamente infelice, così infelice da anelare un paradiso altrove attraverso la porta benedetta di una svelta morte.
  Eppur potremmo perderla questa guerra: se ogni europeo penserà ai settanta anni di pace goduta come un diritto acquisito da reclamare e pretendere sì ma per il quale non spendere nulla, per il quale nulla più debba essere fatto e sofferto. Ecco allora potremmo perderla la guerra se dopo le notti di Parigi pensassimo ancora che la pace non va conquistata al fronte.

(blitz quotidiano, 14 novembre 2015)


Perché l'antisemitismo è un problema di tutti

di Stefano Jesurum

I nostri vecchi ci hanno insegnato a non avere paura, nonostante tutto. E noi, nonostante tutto, non abbiamo paura. E dopo di noi non avranno paura i nostri figli e i nostri nipoti. Figli e nipoti che mandiamo in scuole piantonate dai soldati, che ci accompagnano in sinagoghe guardate a vista dalle forze dell'ordine, che sanno di dover aspettarsi i blindati alle rassegne del cinema israeliano e perfino alle commemorazioni di Yitzhak Rabin. Noi andiamo avanti. Con la forza che ci viene dall'amore per la democrazia, dalla Memoria non rituale per ciò che è stato, da una identità, quella ebraica, che ci accompagna nella gioia e nel dolore e ci dà il coraggio di dire e di continuare a dire che noi non ci facciamo obnubilare dal terrore.
   Siamo preoccupati, certo, ma siamo un tutt'uno con il nostro Paese. Uniti e insieme legati indissolubilmente a chi sappiamo essere al nostro fianco. Adesso a Milano qualcuno ha voluto colpire un ebreo perché ebreo, proprio come eravamo abituati a leggere riguardo alla Francia o ad altri spicchi d'Europa. Sì, sappiamo che l'antisemitismo avanza, di nuovo. Sì, sappiamo che il razzismo è di nuovo all'ordine del giorno. Sì, sappiamo che dietro a chi odia Israele come fosse il Male assoluto non c'è alcuna «ideologia politica», soltanto una nuova forma di fascismo antiebraico. L'incertezza e il timore sembrano voler impadronirsi della nostra quotidianità, come spesso accade alle società in crisi. Sta a noi, a tutti noi, vincere su chi vorrebbe intimorirci.
   Lo dico: vorrei una grande manifestazione che urlasse no a ogni forma di razzismo, di fascismo, di xenofobia. I milanesi insieme, al di là del credo religioso, al di là delle diversità, al di là del colore della pelle, al di là dei distinguo. Senza bandiere, senza slogan, senza rabbia. Senza paura. Con in testa una verità troppo spesso dimenticata: l'antisemitismo non è un problema degli ebrei, di noi ebrei, è un grosso orribile problema degli antisemiti e di chi si volta dall'altra parte: loro e le loro coscienze sì che devono avere paura.

(Corriere della Sera, 14 novembre 2015)


Sinagoga, bar e scuole. Ora è massima allerta sugli obiettivi a rischio

Ieri il vertice straordinario in prefettura Sale la vigilanza per i luoghi di preghiera ma anche per gli esercizi commerciali.

di Paola Fucilieri

Ieri mattina il sindaco Giuliano Pisapia non ha mandato il suo assessore alla Sicurezza Marco Granelli, ma si è presentato di persona al Comitato per l'ordine e la sicurezza in prefettura convocato in forma straordinaria dal viceprefetto vicario Giuseppe Priolo. Piccoli gesti, cambiamenti solo all'apparenza formali, ma che testimoniano quanto il caso di Nathan Graff - l'ebreo 40enne accoltellato giovedì sera all'angolo tra viale San Gimignano e via Arzaga in piena zona ebraica (Bande Nere) da uno sconosciuto incappucciato che voleva eliminarlo - sia stato preso in seria considerazione. E come possa rivelarsi pericoloso nel caso in cui la pista antisemita prendesse veramente corpo. Così, alle 9, il primo cittadino e tutti i massimi rappresentanti delle forze dell'ordine riuniti a palazzo Diotti, hanno ricevuto i rappresentati della comunità ebraica.
   Anche se, in assenza di rivendicazioni, dal punto investigativo nulla può essere opzionato come ipotesi principale, la situazione resta di massima attenzione, di massima allerta. L'inchiesta è stata così presa in carico direttamente dal procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli, che coordina il pool antiterrorismo e di contrasto ai reati cosiddetti politici ed è appunto la squadra antiterrorismo della Digos a indagare.
   Nel frattempo dunque, come dispone una circolare del Dipartimento di pubblica sicurezza inviata ieri a questori e prefetti è stata disposta l'intensificazione ai massimi livelli del sistema di sicurezza generale, di prevenzione e di controllo del territorio e in particolare delle misure di vigilanza presso gli obiettivi ebraici o riconducibili allo Stato di Israele.
   L'invito a rafforzare il dispositivo di sicurezza, dunque, non riguarda solo il quartiere Bande Nere con la sede della Comunità ebraica di via Arzaga (a due passi da dove c'è stata l'aggressione), la scuola ebraica di via Sally Mayer o il ristorante Carmel, che si trova proprio in viale San Gimignano. E non riguarda nemmeno in esclusiva la sinagoga di via Guastalla e quella di corso Lodi o i luogo di culto degli ebrei ortodossi più modesti e meno conosciuti ai più. L'allerta riguarda anche attività commerciali gestite da ebrei, società, centri sportivi. Tutto il mondo ebraico, insomma. Nonchè la tutela «rinforzata» del consolato americano e di quello britannico, potenze da sempre molto vicine a Israele.
   Dal Viminale emerge che non sono ancora del tutto chiare le modalità e il movente dell'aggressione che, al momento, resta un tentato omicidio volontario. Tuttavia, se è vero che la vittima svolge un lavoro «particolare», che potrebbe esporlo a diverse antipatie - è un selettore alimentare, addetto al controllo dei vini che devono essere consumati dalla comunità ebraica milanese e italiana (ma anche da esportare) in conformità ai canoni imposti dalla religione - non si può certo soprassedere sulla sua posizione personale di ebreo ortodosso. Graff - uomo dall'esistenza specchiata, genero e cognato di rabbini (ha sposato la figlia del rabbino di origine afghana Hetzkia Levi, ndr ) - l'altra sera era arrivato in viale San Gimignano a bordo di un taxi e si era fatto lasciare all'inizio della strada per percorrere il breve tragitto verso casa a piedi. Indossava la kippah. E potrebbe essere la prima «vittima» europea di un fatto gravissimo che ultimamente a Gerusalemme e a Tel Aviv si ripete con frequenza e che molti non esitano ormai a definire la «seconda Intifada». Ovvero l'affermarsi di una componente islamica fra gli arabo-israeliani (il 20% della popolazione), vicina ai Fratelli Musulmani, in Israele sta ponendo infatti una nuova sfida alla sicurezza.

(il Giornale, 14 novembre 2015)


"Bisogna capire che Israele è democrazia. Chi sgozza sta dall'altra parte"

Walker Meghnagi, ex presidente della comunità ebraica di Milano, contro il boicottaggio: "Dov'era l'Europa quando si stupravano le yazide?"

di Matteo Matzuzzi

ROMA - Quel che è accaduto giovedì sera a Milano, il ferimento di Nathan Graff, "è un segnale che va ben al di là della strategia islamica degli accoltellamenti. La questione è tutta politica". Walker Meghnagi è stato presidente della comunità ebraica di Milano prima di essersi dimesso per contrasti con la "sinistra" interna su questioni di bilancio. Non vuole parlare di Intifada, sia perché "non siamo in Francia o nei paesi della Scandinavia e qui gli episodi sono sporadici" sia perché - come spiegato dagli inquirenti del pool anti terrorismo e reati politici ieri pomeriggio - "è presto per parlare di eventuali collegamenti con l'Intifada dei coltelli".
   Il premier Matteo Renzi ha sottolineato, al termine del Consiglio dei ministri di ieri, "tutto il nostro affetto, amicizia e vicinanza alla comunità ebraica". Non ci si deve stupire però, dice Meghnagi al Foglio, "se gli ebrei vengono presi di mira come secoli fa, attaccati da uomini incappucciati con il coltello in mano". L'episodio dell'altra sera non è che la coda di una sequela sempre più corposa della caccia all'ebreo: Parigi, Amsterdam, Copenaghen, perfino oltreoceano, a Brooklyn. Cambiano solo le modalità, le armi usate, ma il canovaccio e gli obiettivi sono i medesimi. "La responsabilità è di questa politica fatta a caso, senza considerare le conseguenze delle decisioni che si prendono. Penso al boicottaggio deciso in questi giorni dall'Unione europea", dice Meghnagi: "Ma di cosa stiamo parlando? L'Europa ha aperto all'Iran, permettendogli di fare tutto ciò che vuole, e si mette a marchiare i prodotti israeliani? Quando in Africa, tra il Sudan e i paesi circostanti, è scomparso un milione di cristiani, l'Europa dov'era? E quando venivano stuprate le donne yazide, cosa diceva François Hollande, dai suoi uffici all'Eliseo? E la Libia invasa da Nicolas Sarkozy senza tener conto di quel che sarebbe accaduto dopo?". "Io - dice l'ex presidente della comunità ebraica di Milano - non voglio parlare di Shoah. E' una ferita ben presente, che rimane, ma è il passato. Io voglio guardare al presente e al futuro. E non vedo nulla, in questa Europa. Il boicottaggio incide sull'1,4 per cento del prodotto interno lordo israeliano. Cosa si pensa di ottenere, con questa misura? E' solo ideologia, pura e vergognosa ideologia. Nient'altro. Azioni come queste fomentano i cani sciolti, siano o no musulmani". Proprio come accadde nell'ottobre del 1982, pochi giorni prima dell'attentato al Tempio di Roma che avrebbe causato la morte di Stefano Gay Taché, bimbo di tre anni: "Ricordo bene - e non lo dimenticherò - che Luciano Lama passò con una bara vuota davanti alla sinagoga". La colpa, quindi, "è solo politica. E' fondamentale capire che Israele è una democrazia, mentre il mondo non democratico sta dall'altra parte della barricata. Chi sgozza la gente - uomini e donne e vecchi e bambini - non è Israele, ma sta sempre dall'altra parte".
   Ragionamenti simili in passato hanno portato le autorità a rafforzare la sicurezza di Meghnagi, in particolare quando chiese pubblicamente agli imam residenti in Italia di prendere posizione contro chi decapita gli infedeli: "Non ho mai detto una parola contro la presenza di moschee in Italia, ma rimango convinto che esse debbano essere case di vetro, trasparenti, dove si sa quel che accade dentro". L'importante, anche davanti agli accoltellamenti, dice, "è andare avanti a testa alta. Uscire, non chiudere le scuole. Noi, come comunità, siamo tutti uniti. Pur nel timore. Non bisogna dargliela vinta".

(Il Foglio, 14 novembre 2015)


L'Europa sotto assedio. E ha fatto finta di niente

I segnali rimasti inascoltati. Non si tratta di semplici terroristi, ma di combattenti di una guerra santa.

di Pierluigi Battista

Pensavamo di cavarcela con una passeggiata di un milione di persone sui boulevard di Parigi, nel gennaio scorso, dopo la carneficina del Charlie Hebdo. Tutti insieme, tutti «Je suis Charlie» e dopo dimenticare, rimuovere, scusarsi: «Se la sono andata a cercare». Poi è successo a Copenaghen, quando un convegno sulla libertà d'espressione è stato attaccato da un commando armato, e abbiamo fatto finta di niente.
   Avevamo fatto finta di niente anche in Canada, quando ad essere assediato è stato il Parlamento. Ma il Canada era lontano, anche l'Australia era lontana. Anche l'Isis sembrava lontanissimo.
   E in Italia, cosa poteva accadere, mica che un ebreo sarebbe stato accoltellato a Milano all'uscita di un ristorante kosher, kosher come il supermercato dove, subito dopo la strage del settimanale che aveva osato pubblicare le vignette su Maometto, un altro massacro ha colpito gli ebrei francesi. E adesso l'apocalisse di ieri sera, di stanotte.
   Davvero era così imprevedibile? Davvero chi diceva che l'Europa stava diventando un campo di battaglia esagerava, fomentava la guerra di religione, seguiva le orme di Michel Houellebecq che pure è costretto a vivere blindato perché l'islamismo fondamentalista non gli perdona «Sottomissione»?
   L'Europa è al centro di questa guerra. E chi la conduce, spargendo sangue lutti e paura, non è un semplice terrorista, ma un combattente di una guerra santa che non conosce confini, così come lo Stato islamico non conosce i confini e le frontiere dei vecchi Stati, dall'Iraq alla Siria, disegnati con il crollo dell'Impero ottomano. Nel giorno della possibile, annunciata morte di Jihadi John, l'esercito dei combattenti fondamentalisti e integralisti che vogliono schiacciare il mondo peccaminoso e satanico degli infedeli fa dell'Europa un bersaglio oramai stabile. Parigi è l'epicentro. La Francia è il terreno molle dell'attacco. Qui hanno assaltato le sinagoghe e le scuole ebraiche. Qui reclutano i militanti dello Jihad globale. E contano sulla solidarietà molle e volubile del mondo nei confronti delle vittime. Solo dopo pochi mesi dal massacro di Parigi, in America un nutrito gruppo di scrittori molto alla moda, capeggiati da Joyce Carol Oates, ha protestato per l'assegnazione di un premio nel nome della libertà d'espressione alla testata di «Charlie Hebdo». Hanno detto che con quelle vignette avevano offeso la religione islamica. Magari non meritavano la morte, ma una sanzione per l'abuso della loro libertà doveva pur esserci. C'è da stupirsi se poi i vignettisti superstiti hanno dichiarato che mai e poi mai avrebbero disegnato altre vignette sull'Islam? C'è da stupirsi se, dopo aver scoperto che ragazzi inglesi erano andati a ingrossare l'esercito dell'Isis, nei musei di Londra hanno prudentemente nascosto quadri che raffiguravano, e non in modo offensivo, immagini del Profeta?
   Abbiamo fatto tutti finta di non vedere. Hanno decapitato un dirigente industriale davanti a uno stabilimento di Lione e hanno lasciato la testa lì, per terrorizzare, come hanno fatto con il povero archeologo che custodiva con cura i tesori di Palmira. Facemmo finta di niente quando in Olanda ammazzarono il regista Theo Van Gogh, il regista di un cortometraggio intitolato «Submission» come il romanzo di Houellebecq, prima sparandogli e poi colpendolo ritualmente con un coltello, con un foglio in cui si diceva che questo era il destino di chi avesse avuto la temerarietà di criticare l'oppressione della donna nei Paesi islamici. C'è bisogno di ricordare che nessun festival cinematografico ha voluto proiettare il cortometraggio di Van Gogh?
   Ci spaventiamo a morte per le bandiere nere del califfato che sventolano nella Libia oramai frantumata, un tratto di mare di distanza dalle coste italiane. Ma speriamo sempre che quello che accade nel cuore dell'Europa, sino alla catastrofe ultima di Parigi, non sia già il segno di un allargamento illimitato del conflitto. Speriamo sempre che la guerra non oltrepassi la soglia del pericolo. Speriamo che la distanza fisica non venga annullata dall'internazionale del terrore.
   Non capiamo perché sono presi a bersaglio simboli ebraici, esseri umani ebrei, luoghi di culto ebraici. Perché stentiamo a capire che l'«ebreo» è il nemico numero uno che secondo la visione dei fondamentalisti deturpa la purezza della terra sacra dell'Islam. E anche i simboli cristiani vanno colpiti. E le sale dove si tengono concerti, perché la musica è peccaminosa. E anche gli stadi, perché si permette alle donne di assistere alle gare senza velo. Non è una supposizione: è quello che dicono. Lo dicono in Francia, in Gran Bretagna, in Danimarca dove è partito il tumulto per le vignette su Maometto e dove un vignettista è stato raggiunto in casa da un gruppo di assalitori armati d'ascia. E quanta solidarietà aveva ricevuto Salman Rushdie quando il regime degli ayatollah decretò una fatwa ai suoi danni consentendo agli zelanti fedeli sparsi per il mondo di uccidere lo scrittore blasfemo, il bestemmiatore da punire senza pietà? Si poteva capire. Bastava non far finta di niente. Bastava capire perché vogliono colpire Londra, Amsterdam, Parigi. E Milano davanti a una pizzeria kosher.

(Corriere della Sera, 14 novembre 2015)


Il 14 ottobre di quest’anno, esattamente un mese fa, quando la romantica “intifada dei coltelli” contro i civili israeliani procedeva a pieno regime, dopo un un articolo di Giulio Meotti dal titolo “La lama del jihad sulla gola d’Israele” avevamo inserito la seguente dichiarazione:


Quando il mondo vede che Israele è colpito
cominci pure a tremare
perché presto qualcosa di peggio
si abbatterà su di lui.

 

Guerra

di Deborah Fait

Che dire? Uno spera di passare una settimana tranquilla quando ecco che arrivano notizie su notizie, a raffica, giorno dopo giorno, un bombardamento implacabile di brutture. E adesso, proprio mentre scrivo, Parigi è sotto attacco terroristico. Tre o quattro attacchi in contemporanea al grido di Allahu Akhbar, due o più attacchi kamikaze, fino a questo momento si parla di 120 morti ma le notizie sono confuse, saranno forse di più e si può supporre che aumenteranno di minuto in minuto. PIù di 100 ostaggi rinchiusi nella sala da concerti Bataclan probabilmente destinati ad essere uccisi. Un ostaggio disperato riesce a mandare un tweet "stanno ammazzando gli ostaggi ad uno ad uno".
   Parigi è nel panico. Gli attacchi vanno avanti da ore con esplosioni e sparatorie mentre l'Isis, che ha rivendicato, esulta. E' guerra ed è appena incominciata. I terroristi islamici, come avevano promesso, stanno invadendo l'Europa, l'ospitale, tollerante e buonista Europa sempre pronta a giustificare e a dimenticare intenta com'è a prendersela con Israele. Ed è incredibile ma ancora adesso, nonostante quell' Allah è grande, nonostante la CNN abbia parlato di ashtag di rivendicazione dell'Isis, stanno mettendo in dubbio che i terroristi siano proprio islamici. "Non ne siamo certi, non sappiamo chi sono"... Incorreggibile Europa, così innamorata di tutto ciò che è islam da negare l'evidenza. Qualcuno dirà anche questa volta, come è accaduto l'11 settembre, che sono stati i servizi americani e il Mossad? Potrebbe darsi dal momento che la madre dei cretini è sempre incinta. Adesso la grande civiltà islamica, la religione di pace, presenta il conto.
   "La Francia sta chiudendo tutte le frontiere, dice alla Tv uno spaventatissimo Hollande, e ci difenderemo con le forze di sicurezza". Staremo a vedere se si difenderanno in modo sproporzionato... all'israeliana per intenderci, visto che ce lo rimproverano sempre... andando a bombardare in Siria. Intanto hanno neutralizzato, cioè ucciso, i terroristi del Bataclan che avevano ammazzato 100 ostaggi all'interno del teatro e questo porta forse a un bilancio complessivo di circa 150/160 morti nel nome di Allah, il numero esatto lo sapremo solamente nelle prossime ore.
   Tutto si sta avverando. Ricordate Oriana Fallaci "L'Occidente sta allevando una serpe in seno"? A Parigi, sì proprio a Parigi, fu processata e condannata per razzismo! "Oriana Fallaci razzista, odia l'Islam". Oggi più di qualcuno dovrebbe chiederle scusa. Ricordate le ammonizioni di Israele all'Europa? E infine ricordate quello che raccomandava Netanyahu, quello che molti di noi scrivevano... state attenti, dopo Israele toccherà all'Europa... venivamo insultati per questo, Netanyahu veniva deriso... Israele vede terrorismo dovunque, dicevano sarcastici.
   Prima di questa carneficina tutta l'Europa era occupata a fare la guerra a Israele, ed è proprio di questo che stavo scrivendo quando ha avuto inizio la notte di terrore a Parigi. Le ceneri di Auschwitz stanno turbinando nel vecchio, stupido e politicamente corretto continente che rincorre se stesso, a ritroso, come risucchiato dal suo torbido passato e incapace di evitare un futuro ancor più fosco e avvilente. La stella gialla è tornata con il marchio sui prodotti israeliani, sempre nel silenzio complice e odioso dell'opinione pubblica. La notizia delle marchiature arriva quasi in contemporanea con la cronaca delle commemorazioni della Kristallnacht, la Notte dei Cristalli quando, nella notte del 9 novembre 1938, orde di belve naziste distrussero e saccheggiarono migliaia di negozi e abitazioni di ebrei, ne deportarono oltre 30.000 nei lager e ne ammazzarono 200, il tutto in 24 ore. Ebbene alle commemorazioni di quella che fu l'inizio della fase più violenta delle persecuzioni degli ebrei questi ultimi, in alcuni casi, non sono stati invitati. Scandaloso? No, normale in Eurabia, normalissimo in quella che ormai è diventato lo zerbino dell'islam. In Svezia gli ebrei non sono stati invitati per "la loro sicurezza", è la spiegazione. La loro sicurezza? Gli ebrei svedesi sarebbero in pericolo persino nei giorni in cui si commemora la Shoah? Sì nella Svezia islamica e, guarda guarda, che sorpresa, in assenza della comunità ebraica, le autorità hanno approfittato per dedicare l'evento ai rifugiati musulmani. Dire quanto siano spudorati significherebbe essere generosi. In Danimarca invece è stata invitata Hanin Zoabi, una deputata araboisraeliana in fortissimo odore di neonazismo rosso. Ebbene la Zoabi e altri oratori hanno paragonato Israele ai nazisti. Nel 2009, sempre durante le commemorazioni della Kristallnacht, fu invitato un imam che accusò gli ebrei di preparare le azzime col sangue dei bambini musulmani.
   Scandaloso? No, in Eurabia, normalissimo. A Monaco si è celebrata la commemorazione insieme alla giornata dedicata al boicottaggio di Israele. Anche questo normalissimo, 77 anni fa urlavano "Non comprate dagli ebrei", oggi i nipotini dei boia di allora urlano "Non comprate da Israele". Mentre gli arabi si stanno appropriando, in Giudea, dei luoghi più significativi per l'ebraismo, in Europa musulmani e i loro compagnucci di merende si appropriano della Memoria, della nostra Memoria! "Entro 25 anni Israele non esisterà più" promette l'Iran cui l'Occidente oggi si prostra. E così via, di notizia in notizia, si va sempre di più verso il baratro... un giudice spagnolo emette mandato di cattura contro Netanyahu e sei ministri israeliani.
   A Roma, scrive l'agenzia AGI, un uomo va nel Ghetto, in una pasticceria di Portico d'Ottavia e dà degli "ebrei di m..." alla pasticcera che non gli aveva fatto lo scontrino. A Firenze una scuola decide di non portare i bambini a visitare l'esposizione "Bellezza divina" arte sacra nel Battistero "per non turbare i non cattolici". Falsi! Ipocriti! Ma non vi vergognate? "Non cattolici" significa solo musulmani! Quando mai, da quando esiste la scuola, qualcuno si è preoccupato di non offendere ebrei o buddhisti o atei? MAI! I ragazzi ebrei di famiglie osservanti, se restavano a casa per il digiuno di Yom Kippur, dovevano portare la giustificazione. Adesso tutti in ginocchio davanti all'islam, prostrati a baciare il selciato, al punto da privare i bambini di una scuola della gioia di ammirare opere meravigliose di artisti come Picasso, Chagall, Matisse per non turbare i loro compagni musulmani. Dhimmi senza un briciolo di orgolio, morti di paura, privi di libertà morale e intellettuale.
   E per concludere questa carrellata di orrori islamici e filoislamici, iniziata col massacro terrorista di Parigi, finiamo con l'accoltellamento di Milano dove un individuo ancora sconosciuto ha accoltellato un ebreo che andava per la sua strada. Nathan Graff, 40 anni, israeliano, colpito da 7 fendenti, è ricoverato al Niguarda. Lo so che è solo un sogno e che sarebbe troppo chiedere ai milanesi una botta di orgoglio ma mi piacerebbe vederli uscire di casa domani mattina indossando tutti la kippà, ebrei e non ebrei. Sarebbe bello non solo per solidarietà con Nathan ma anche per quanto è accaduto stanotte a Parigi: la vita, la libertà e il coraggio contro la barbarie, la morte e il fanatismo.

(Inviato dall'autrice, 14 novembre 2015)


Salvare Israele per salvare l'Europa dal terrore

L'Europa marchia i coloni israeliani, 24 ore dopo i terroristi ne uccidono due. Quali sono le ong responsabili dello stigma sulle merci israeliane.

di Giulio Meotti

ROMA - Quando una ong riceve una parte consistente del suo budget dai governi, non è più un'organizzazione non governativa, apolitica e della "società civile". Si deve parlare, invece, di intromissione da parte di governi esterni negli affari interni di un altro stato democratico.
   In questo caso a intromettersi sono i governi europei e lo stato democratico è Israele. Un caso da manuale è stata l'etichettatura e l'inizio del boicottaggio delle merci israeliane prodotte oltre la Linea Verde. Di tutte le regioni del mondo soggette a un conflitto di sovranità, l'Unione europea ha scelto di etichettare in modo discriminatorio soltanto i prodotti fabbricati in una zona di conflitto che riguarda lo stato ebraico. Il boicottaggio è una guerra politica, in cui Bruxelles non è imparziale o si limita a "etichettare", come pretende, bensì gioca attivamente. Sempre contro Israele. La decisione della Commissione Ue dell'11 novembre è il frutto della campagna di 22 organizzazioni non governative che dal 2012 hanno perorato la marchiatura dei prodotti israeliani, definita una "misura temporanea" prima di altre iniziative contro lo stato ebraico. Una politica di esclusione che non si limita ai prodotti oltre la linea del 1967. Nel mirino di queste ong ci sono Teva, società fondata nel 1901 a Gerusalemme e una delle più grandi società farmaceutiche del mondo; L'Oréal, presente in Israele già prima del 1967; Delta Galil, la più grande industria tessile manifatturiera israeliana; Sabra, la seconda industria alimentare in Israele che rifornisce anche l'esercito, fino ad aziende straniere come Hewlett Packard e Motorola.
   Il ministero degli Esteri israeliano calcola che ogni anno i governi europei stanziano 200 milioni di euro a queste organizzazioni antisraeliane.
   Il principale strumento dell'Unione europea per incanalare denaro è la "Partnership for Peace". Una delle più attive di queste ong è la svedese Diakonia, che riceve il novanta per cento del budget dal governo di Stoccolma. Questa ong ha fatto una campagna contro i rapporti commerciali fra Bruxelles e Gerusalemme, compreso l'utilizzo e la minaccia di azioni legali verso le aziende svedesi che fanno affari con Israele.
   Fondata dalla chiesa protestante svedese, Diakonia ha finanziato i programmi "per commemorare la Nakba", il termine palestinese per "catastrofe", che indica la fondazione di Israele nel 1948. Il suo programma "International Humanitarian Law" paragona la politica di Gerusalemme alla "apartheid" e al "genocidio". Il suo "Position Paper on Israel and Palestine" promuove, fra le altre cose, il "diritto a resistere" dei palestinesi, esattamente come fanno Hamas e le altre sigle del terrore islamico. C'è la ong Christian Aid, che nel 2015 ha ricevuto 14 milioni di sterline dal governo inglese. Sei milioni le sterline che la ong ha ricevuto dall'Ue negli ultimi due anni. La ong cattolica Cordaid ha ricevuto 357 milioni di euro dal governo olandese dal 2011 al 2015 e ha fatto pressione perché gli investitori del suo paese abbandonassero le partnership con gruppi israeliani. La sezione olandese di Pax Christi ha ricevuto sei milioni di euro dal governo dell'Aia e fa parte della "United Civilians for Peace", la principale iniziativa a favore del disinvestimento da Israele nei Paesi Bassi. La Interchurch Organization for Development Cooperation, creata in Olanda nel 1964 per iniziativa delle chiese locali, riceve per il novanta per cento del proprio budget fondi da entità governative: 82 milioni dal governo e cinque milioni dall'Ue. La ong Norwegian People's Aid è finanziata dal governo di Oslo e dall'Ue. Trocaire, la ong della chiesa cattolica irlandese, ha ricevuto 18 milioni di euro dal governo di Dublino nel 2013.
   Dietro la decisione della compagnia francese di telefonia Orange di lasciare Israele entro due anni c'è il rapporto di una ong francese, il Comité catholique contre la faim et pour le développement. Di 27 milioni di euro il finanziamento europeo anche a 24 organizzazioni non governative registrate in Israele e nei Territori palestinesi.
   "Una vasta gamma di queste ong e un certo numero di governi europei sono impegnati in un'impresa volta a diffamare e distruggere lo stato ebraico", scrive Denis MacEoin in un rapporto per il Gatestone Institute. "Utilizzano le questioni dei diritti umani per promuovere una visione costantemente negativa di Israele, del suo governo, delle sue leggi e delle sue forze di difesa".
   Shylock di Shakespeare e la sua libbra di carne hanno causato brividi a numerose generazioni di ebrei. Finanziando questa discriminazione e boicottaggio, l'Europa sta imponendo a Israele una nuova libbra di carne. Imbrattano di sangue le arance Jaffa. Ieri, islamisti palestinesi hanno assassinato due israeliani, padre e figlio, mentre viaggiavano in auto. Per l'Europa, due "coloni" da boicottare e marchiare. Per i terroristi, due ebrei da eliminare.

(Il Foglio, 14 novembre 2015)


L'Europa e quella marchiatura dei prodotti israeliani

Lettera a Beppe Severgnini

Caro Beppe,
il ventre molle e amorfo dell'Europa ha partorito l'ennesima vergognosa calata di braghe, con la marchiatura dei prodotti israeliani provenienti dalla West Bank (Cisgiordania), che fanno ricordare ben altre lugubri marchiature dei negozi ebrei… la storia non cambia, ha solo camuffato il suo passato antisemitismo con l'antisionismo. O più semplicemente, in un momento di forte immigrazione islamica, cerca un patetico arruffianamento per evitare minacce islamiste al suo interno, o non so per quale altra motivazione abbietta e vile accontenta i settori più radicalmente anti-israeliani! Ma che senso ha questa marchiatura, cosa credono di ottenere boicottando aziende israeliane che danno lavoro ai palestinesi danneggiando anche loro? Perchè ogni oscena menzogna palestinese (vedi Abu Mazen all'ONU), riscuote ascolto e credibilità, perché i media aprono dicendo"… l'esercito israeliano uccide due ragazzi palestinesi… "prima di spiegare che i suddetti hanno accoltellato dei passanti prima? Mettiamo che Israele per queste sanzioni liberi i territori, cosa si crede che cambierà?? Israele improvvisamente sarà riconosciuto e vivrà in pace? Ancora una volta l'Europa si dimostra pavida, meschina e senza spina dorsale, e io mi vergogno di essere europeo o, quantomeno, di essere rappresentato da questa élite di burocrati servili e smidollati. E per quel che mi riguarda, ora saprò quali prodotti acquistare!
Patrizio Giulioni

(Corriere della Sera, 14 novembre 2015)


Il 22 settembre di quest'anno avevamo riportato una presa di posizione dell'ambasciatore d'Israele Naor Gilon in cui, a proposito dell'etichettatura europea di prodotti israliani, diceva:
    "Contrariamente a quanto da loro sostenuto, si tratta di attività finalizzate non a colpire la produzione degli insediamenti, ma a stigmatizzare e delegittimare la stessa esistenza dell'unico Stato ebraico al mondo. Stride particolarmente nel momento in cui l'Ue coopera e promuove la decisione di etichettare i prodotti degli insediamenti, unico caso di etichettatura di prodotti su base politica. Non lo ha fatto in nessun altro territorio oggetto di contenziosi: non a Cipro Nord, né in Crimea, né nel Sahara occidentale. La mia famiglia è già stata marchiata una volta in Europa, ed era con una Stella di Davide gialla."
A commento di queste parole avevamo scritto:
    "L'Europa pagherà. Come ha pagato la Germania che ieri ha seguito l'antisemita Adolf Hitler, così pagherà l'Europa che oggi segue gli antisemiti burocrati di Bruxelles. Lo spauracchio dell'invasione dei migranti è solo l'inizio."
L'Europa sta cominciando a pagare. M.C.


«Estremisti di islam e sinistra uniti nell'odio contro di noi»

Parla l'assessore alla Cultura della Comunità ebraica: «Ora contestano anche memoria della Shoah e deportati».

Alberto Giannoni

Davide Romano, assessore alla Cultura della Comunità ebraica, come ha vissuto l'agguato di giovedì sera in via San Gimignano?
«Ero alla Bicocca con un comitato di quartiere per preparare il ricordo di una deportata ad Auschtitz. L'ho interrotto per seguire gli sviluppi. Sono rimasto colpito, non me l'aspettavo. Si pensa sempre che fatti del genere accadano altrove. In Francia, Belgio, in Israele. In Italia non siamo abituati».

- Non è mai successo?
  
«Spintoni, aggressioni verbali o fisiche, sì. Ma col coltello, all'arma bianca, questo ancora no. Però quando andiamo nelle scuole a parlare di Shoah oggi troviamo contestazioni. Prima non c'erano. Parlo di contestazioni ad alta voce di studenti, di origine magrebina».

- Percepisce ostilità?
  
«In Francia è già successo. Si è iniziato a contestare la shoah, poi non si è più parlato della shoah per evitarle. Poi sono arrivati gli attentati: Tolosa, Charlie Hebdo. La Francia è vicina. Un ragazzo che urla contro un deportato non può che essere manipolato. Anche qui ci sono cattivi maestri».

- Escludete che l'agguato abbia una matrice diversa dall'antisemitismo? Un gesto folle alla Kabobo?
  
«Non abbiamo certezze ma il clima e gli elementi inducono a pensare che sia antisemitismo. L'agguato nasce dal clima anti-israeliano. Può anche essere un pazzo. Ma che da 3-4 anni ci siano contestazioni alla shoah è un fatto».

- Ha parlato di studenti di origine magrebina. Come sono attualmente i rapporti col mondo musulmano?
  «Ci sono mille sfaccettature nell'islam. Ci sono gli amici del Coreis, Maryan Ismail, Dounia Ettaib e l'islam dialogante. Poi una galassia meno visibile che gioca sull'antisionismo. "Si può amare gli ebrei e odiare Israele" dice qualcuno. Ma il fanatico non distingue. Sa solo odiare».

- Ma il 25 aprile la Brigata ebraica è stata contestata da frange politiche estreme dei centri sociali.
  «C'è un'identità di vedute con islam radicale, attaccano Israele ma questo odio lo riversano contro gli ebrei. Anche gli ex deportati vengono contestati. In Francia c'è un atto antisemita al giorno e non ci sono ebrei che attaccano. È univoco. Integralismo islamico e di sinistra si toccano in questo odio. E infatti ci sono persone che si convertono dall'uno all'altro».

- L'obiettivo è Israele?
  «Non c'è differenza di vedute fra islam radicale e sinistra radicale. Vedono un pericolo nella democrazia. Ma la demonizzazione di Israele è ritenuta politicamente corretta».

- Oggi avete paura per la vostra sicurezza, della comunità, delle famiglie?
  «Ancora no. Se pure fosse un gesto antisemita è un fatto singolo per ora. E abbiamo grande fiducia nelle forze dell'ordine. Però sarebbe auspicabile nella politica più attenzione alla demonizzazione verso Israele, uno Stato vicino e amico che non sempre l'Europa contraccambia».

- A Milano sentite la vicinanza della politica?
  
«A livello milanese siamo soddisfatti, da Fdi al Pd abbiamo ricevuto grande solidarietà, anche il mondo cattolico e quello musulmano. Ma dobbiamo tenere le antenne dritte. Stare attenti. Vigilare. Dobbiamo affrontare in termini di insegnamento, nelle scuole, nelle famiglie e nelle moschee, questo problema. Questo nuovo antisemitismo».

- La soluzione milanese al caso moschee va nella direzione giusta?
  
«Al di là del bando, dipenderà dalla gestione delle moschee, che devono essere aperte a tutte le anime dell'islam, trasparente e partecipate dalle donne. Ci vogliono moschee di cui tutti possiamo essere orgogliosi».

(il Giornale, 14 novembre 2015)


I pregiudizi e l'odio nei confronti di Israele

di Pierluigi Battista

Un ebreo colpito da sei coltellate da un uomo incappucciato in periferia a Milano, davanti a una pizzeria kosher, è una notizia che sgomenta e allarma, anche in mancanza di particolari più circostanziati. Quella che viene definita l'«Intifada dei coltelli», del resto, non prevede nella sua carica di odio distinzioni, distinguo: si colpisce l'ebreo come incarnazione del «sionista», dovunque si trovi, per la sola colpa di esistere. In Europa, del resto, sono stati colpiti supermercati kosher, scuole ebraiche, sinagoghe, luoghi di ritrovo, singoli ebrei braccati e assaliti per strada. In Italia, che pure ha conosciuto nel 1982 l'attentato di fronte al Tempio Maggiore di Roma in cui perse la vita un bambino di due anni, speravamo che l'ombra lunga del terrore antiebraico non avrebbe insanguinato le nostre città. È ancora tutto da verificare quello che è accaduto ieri sera a Milano, la dinamica dell'aggressione, l'identità dell'attentatore, lo spunto da cui è partito l'agguato. Ma la comunità ebraica, e non solo quella di Milano, vive una sindrome terribile di paura. E l'Italia deve preoccuparsi, prendere atto che non esistono zone franche, soppesare le parole, capire che l'odio antiebraico, camuffato da odio antisionista, ha già provocato in Europa lutti atroci in questi ultimi anni. Un segnale, terribile, da non sottovalutare.
   Tutto questo avviene alla vigilia della visita in Italia del presidente iraniano Rouhani. Ogni accostamento con i fatti di Milano, beninteso, sarebbe arbitrario: chi lo sostenesse con leggerezza apparirebbe vittima di una furia propagandistica davvero irresponsabile. Eppure è da una parola carica di angoscia, «odio», che occorre partire per una riflessione che sia capace anche di inquadrare l'agguato all'ebreo accoltellato davanti a un ristorante kosher. Infatti il presidente iraniano Rouhani, nell'intervista esclusiva che ha concesso a Viviana Mazza e Paolo Valentino per il Corriere della Sera, ha detto, testualmente, di «amare l'ebraismo» e di rispettare le «religioni monoteiste». Un'apertura importante e significativa, quando anche in Europa gli ebrei vengono uccisi dai combattenti fondamentalisti dell'islamismo politico. Un'apertura tanto più importante perché può dare un segnale molto forte nella visita del presidente iraniano in Italia. Tuttavia c'è un «però» che raggela gli animi e torna a demonizzare l'esistenza stessa dello Stato di Israele proprio quando cittadini ebrei e israeliani sono colpiti dal odio degli accoltellatori, dai militanti del terrore che non fanno distinzione tra «ebrei» e «sionisti» . Il presidente iraniano dice di capire «l'odio» non per gli ebrei ma per lo Stato di Israele. Ma non si possono rispettare gli ebrei e odiare il fatto che gli ebrei abbiano un loro Stato: lo Stato di Israele è lo Stato degli ebrei, che la comunità internazionale ha sancito con una risoluzione dell'Onu.
   Ecco perché le parole di Rouhani, che pure sembrerebbero prendere le distanze dal pregiudizio antiebraico, ricadono nello stesso pregiudizio che ha sempre impedito e continuerà ad impedire la possibilità di una soluzione pacifica dei conflitti nel Medio Oriente. Quando Arafat e Rabin si sono stretti la mano con Clinton che faceva da paciere, il riconoscimento reciproco sembrava sul punto di offrire una soluzione storica a una guerra interminabile. Perché il riconoscimento della legittimità dello Stato di Israele è la precondizione della pace, ed è la premessa necessaria affinché anche lo Stato di Israele non possa che imboccare la strada maestra dei «due popoli, due Stati». L'alternativa è un «odio» imperituro, l'antiebraismo che si camuffa con l'antisionismo, una guerra che non avrà mai fine. E i fatti come quello di Milano, che aprono interrogativi angosciosi e impongono a tutti di soppesare le parole e di cancellarne per sempre una: «odio».
   
(Corriere della Sera, 13 novembre 2015)


Che la "strada maestra" per arrivare alla pace sia quella dei "due popoli, due stati" è convinzione che hanno anche molti amici di Israele come Pierluigi Battista. E' bello il pensiero che guida: bisogna parlare e lavorare sodo al fine di ottenere che si formino "due stati per due popoli che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza". Il processo salvifico sarà così compiuto e arriveremo finalmente alla pace.


*

Intervista al co-presidente della comunità ebraica di Milano

Spaventati, ma la scuola resta aperta.

di Rossella Minotti

MILANO - È teso, tesissimo. Il co-presidente della Comunità Ebraica di Milano, Milo Hasbani, è subito corso in ospedale a Niguarda per accertarsi delle condizioni del ragazzo accoltellato. Ecco le sue reazioni a caldo.

- Presidente, com'è la situazione?
  «Guardi, siamo qui che non si capisce se è giorno o notte, siamo sconvolti».

- Ha visto la vittima dell'aggressione?
  «E' di sotto sotto col medico, stanno guardando le ferite. Una è in faccia, è poco profonda ma devono verificare se non è stato toccato nessun nervo».

- Siete spaventati?
  «Sì siamo spaventati anche se io continuo a dire, a sperare, che si tratti di un episodio isolato. Qui a Milano non abbiamo mai avuto nessun problema. Infatti si era parlato di chiudere la scuola ebraica domani (oggi per chi legge, ndr) ma io ho deciso di lasciarla aperta e far venire ragazzi normalmente».

- Avete parlato con la Questura?
  «Sì, ci hanno detto che manderanno più agenti per i controlli, e poi continueremo a fare la vita che abbiamo sempre fatto».

- Cosa ha raccontato il ragazzo accoltellato?
  «Ha detto che era una persona, un uomo col volto coperto da un passamontagna. L'uomo lo ha seguito e quando ha visto che il ragazzo scappava gli è corso dietro e ha cominciato a infierire con un coltello. Lui, nell'intento di proteggersi si è girato e ha preso qualche coltellata in faccia».

- Non ha dato dettagli sull'aggressore?
  «Ha detto che era alto, 1,80 circa, ma che non ha parlato».

- Temete si tratti di un atto preordinato di antisemitismo?
  «Per ora non voglio dare giudizi di questo tipo».

(Il Giorno, 13 novembre 2015)


«E giusto uccidere ebrei nel nome di Allah»

«Non avrò pace fino a che non ucciderò qualche ebreo». Le intercettazioni nell'alloggio di Narouz.

di Silvia Fabbi

Mullah Krekar
BOLZANO - «È buono morire per Allah, qualsiasi cosa io faccia per Allah è come se non avessi fatto abbastanza. Non avrò pace fino a che non ucciderò qualche ebreo». L'intercettazione ambientale raccolta dagli inquirenti nell'abitazione di Merano riporta una conversazione fra Abdul Rahman Nauroz e Hasan Saman. il suo contenuto rivela quale fosse l'intenzione dei presunti terroristi scoperti dal Ros: arrivare al martirio. Ed è proprio Nauroz, nel cui appartamenti si tenevano incontri finalizzati al proselitismo, che definisce il martirio «la cosa più gratificante» per un jihadista e aggiunge: «un uomo deve tollerare la tortura». Sono sue le frasi più pesanti captate dagli inquirenti nel corso dell'operazione. «Se succedesse qualcosa a «Mamosta» Krekar ci sono alcuni uomini che possono far diventare la Norvegia come il Libano» aveva detto ancora nel corso di un altro incontro con i sodali dell'organizzazione. «Possono portare missili in Norvegia… ci saranno delle esplosioni» diceva Nauroz nei giorni successivi all'arresto di Krekar, Durante una conversazione con due persone che si trovavano in Gran Bretagna, Nauroz aveva possibilità di attaccare ambasciate occidentali fuori dall'Europa. «La soluzione è attaccare un'ambasciata a Baghdad o nel sud e in Iran, anche nei paesi arabi, ma non in Europa, e avere due o tre ospiti. Non torneranno mai in Norvegia finché vivranno» diceva Nauroz.
   «La morte per noi è il martirio ... e siamo pronti contro chiunque occupa il Kurdistan ... americani, russi o altri» era invece la lezione del Mullah Krekar, ritenuto a capo dell'organizzazione terroristica, intercettato in carcere in Norvegia a novembre 2012. «Per questi che hanno bruciato il Corano almeno cento persone sono pronte in Europa e Kurdistan a fare giustizia» aveva aggiunto Krekar, che esortava costantemente i suoi seguaci: «La nostra prossima fase, miei cari. Quello che dobbiamo fare come passo successivo è la persecuzione dei nostri avversari e nemici ovunque».
   L'effetto è sempre stato positivo, dal momento che numerosi seguaci si sono dichiarati disponibili ad «uccidere le persone che Krekar desidera». Uno dei membri, in particolare aveva anche chiesto a Krekar la possibilità di uccidere «uno scrittore blasfemo» offrendosi di raggiungere anche uno Stato estero per farlo. Si tratta di intercettazioni che, secondo gli inquirenti, proverebbero la determinazione e l'organizzazione del gruppo, composto da membri che in alcuni casi si sono anche dichiarati più volte in prima persona pronti allo jihad sul fronte siriano-iracheno e pronto al «martirio», a compiere atti violenti e anche a uccidere singoli «apostati», se ordinatogli da Krekar «che seguirebbe ovunque». «Abbiamo detto: quando veniamo oppressi a Erbil, a Sulaimaniyah, a Teheran, a Osio, negli USA, allora perché non unirei all'orgoglio e alla forza di penetrazione che Al Qaida possiede, così che anche noi diventiamo come quelli che operano in Iemen e Somalia e Mali?» si erano detti ancora gli appartenenti all'organizzazione in una conversazione del 2013.

(Corriere del Trentino, 13 novembre 2015)


Se il bollino vale solo per Israele

di Mattia Feltri

Ci sono pompelmi che vengono da Israele e pompelmi che vengono dalle colonie. Per noi sarà facile distinguere perché, per decisione dell'Unione europea, i pompelmi della seconda specie saranno di conseguenza etichettati. Chi intendesse danneggiare economicamente le imprese dei territori occupati avrà dunque buon gioco, anche se è difficile immaginare quale sarà la portata di un eventuale boicottaggio, spesso sollecitato dai nemici delle politiche sioniste su tutti i prodotti israeliani.
Semmai, come è stato segnalato, fa un pochino impressione che il bollino di democratica qualità venga applicato proprio alla vigilia del viaggio europeo di Hassan Rohani, presidente iraniano che sarà domani a Roma.
   Duemila esecuzioni di pena di morte dall'inizio dell'anno non ci impediscono di acquistare caviale iraniano nelle migliori gastronomie, se abbiamo i soldi, o i più economici pistacchi, esposti su tutti gli scaffali di supermercato. I rapporti economici dell'Occidente con Teheran sono fitti, a prescindere dai diritti umani: come ha scritto il «Wall Street Journal», il controllo e le restrizioni su Internet vengono bene grazie alla collaborazione della tedesca Siemens e della finlandese Nokia. L'Italia, poi, importa dall'Iran il petrolio e in fatto di energie ci tocca o ci è toccato di comprarne dalle più attive dittature: dalla Libia di Gheddafi, dall'Arabia Saudita dove, per i pochi che non lo sapessero, le donne vengono lapidate con pietre di dimensioni stabilite per legge, che non siano così piccole da fare poco male né così grosse da chiudere la pratica troppo rapidamente. E del resto non si è mai sentito uno smettere di essere tifoso del Milan perché è sponsorizzato dalla Fly Emirates: lì gli impulsi di giustizia s'annacquano.
   La contesa sui territori occupati da Israele dopo la guerra subita e vinta nel 1967 rimane per gli europei questione più stringente. Ogni santa volta che dall'Italia parte una delegazione diretta in Cina si aprono dibatti infiniti e infinitamente sterili su quanto sia eticamente tollerabile concludere affari con un regime liberticida. E non è il caso di elencare, nemmeno sommariamente, gli abiti, i giocattoli, le chincaglierie, i milioni di oggetti Made in China entrati nella nostra economia e nella nostra vita quotidiana. Eppure parlare di rapporti fra nazioni, fra democrazie e dittature, di questioni che corrono lungo i confini vale poco o niente in un mondo in cui la certificazione di provenienza dei prodotti indica soltanto l'ultimo di numerosi passaggi, di Paese in Paese, o di continente in continente. E piuttosto, ogni tanto, salta fuori la scandalosa notizia di multinazionali che sfruttano i bambini o devastano l'ambiente e dopo un giro di reportage e di commenti la cosa finisce lì. Non esiste nemmeno un sito o un elenco ufficiale (se c'è, è ben occultato) di multinazionali irrispettose delle più immediate regole di umana convivenza: esistono siti credibili (ma non affidabilissimi) in cui i marchi più familiari, di cui abbiamo la memoria e le dispense piene, sono accusati di sottopagare operai per orari impossibili, di reprimere i diritti sindacali, di sostenere regimi tirannici, di appoggiarsi a paradisi fiscali. Il problema è: come si combattono dittatori e multinazionali? Un po' più difficilmente che i pompelmi del Golan.

(La Stampa, 13 novembre 2015)


Boicottiamo i boicottatori. Comprate prodotti israeliani

Stellette di Davide no grazie. Il Foglio apre un comitato di solidarietà anti boicottaggio per promuovere la vendita di prodotti israeliani e invitare ad acquistare ciò che l'Europa vuole invece follemente marchiare.

Per la prima volta in settant'anni, l'Europa marchia i prodotti del popolo ebraico. La Commissione di Bruxelles ha intrapreso il primo passo verso il boicottaggio delle merci israeliane prodotte al di là della Linea Verde del 1967. Ci sono duecento contese territoriali nel mondo, dalla Crimea invasa dalla Russia al Tibet sotto dominio cinese fino a Cipro. Ma soltanto Israele subisce questo folle trattamento che mira ad aumentarne l'isolamento nell'opinione pubblica internazionale. Il danno che oggi Israele subisce è economicamente limitato, anche se a lungo andare ci potrebbero essere delle ripercussioni importanti sulla vita e la tenuta di alcune aziende, ma quello simbolico si può dire già che sia immenso. Si tratta di una forma di emarginazione, di intolleranza e di ostracismo che prende di mira Israele proprio mentre quel piccolo paese, unica vera democrazia in medio oriente, è alle prese con una campagna terroristica contro i suoi civili: la Terza Intifada dei coltelli. Questo boicottaggio è inoltre anche un ostacolo verso il raggiungimento di una pace stabile e duratura fra israeliani e palestinesi. Mira, invece, a trasformare Israele in uno stato paria. Per questo tutte le persone civili e coloro che hanno a cuore la sopravvivenza di Israele, pegno dell'Europa dopo la Shoah, dovrebbero mobilitarsi contro questo odioso boicottaggio.
Il Foglio, da oggi, darà vita a un'iniziativa di solidarietà per combattere la discriminazione antisionista acquistando prodotti israeliani e istituendo un comitato anti boicottaggio. Hanno dato le prime adesioni al Comitato promotore Claudio Cerasa, Giuliano Ferrara, Giulio Meotti, Paolo Mieli, Angelo Panebianco, Anita Friedman, Dario Nardella, Marco Pannella. Domani pubblicheremo le firme all'appello.
Per firmare mandate una e-mail qui.

(Il Foglio, 13 novembre 2015)


La guerra dell'Europa a Israele

La Commissione marchia i prodotti ebraici per la prima volta in settant'anni. Il primo passo di una più ampia campagna per strangolare Gerusalemme. Come nasce e cosa vuole il boicottaggio.

di Giulio Meotti

 
L'11 novembre 2015, il giorno dopo la commemorazione della Notte dei Cristalli, la Commissione Europea ha approvato una speciale marchiatura dei prodotti dello stato ebraico
L'11 novembre 2015 sarà ricordato come una data speciale nelle relazioni fra Europa e Israele. Il giorno dopo la commemorazione della Kristallnacht, la Notte dei cristalli nazista, a ridosso della visita in Europa del presidente iraniano Hassan Rohani, che proprio ieri si è augurato la scomparsa dell'"illegittimo" stato ebraico, in occasione del quarantesimo anniversario della risoluzione Onu che ha equiparato sionismo e razzismo, nel bel mezzo della "Terza Intifada" dei coltelli che ha già causato undici vittime fra gli israeliani, la Commissione europea ha approvato una speciale marchiatura dei prodotti dello stato ebraico. Non accadeva dai tempi di Hitler che le merci degli ebrei venissero discriminate con uno speciale stigma, un simbolo distintivo che ne ricorda un altro ben più sinistro.
   Siamo al punto più basso delle relazioni fra Bruxelles e Gerusalemme. L'ex ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, si è recato in un supermercato della capitale israeliana e, in segno di protesta, ha incollato stelle di Davide sulle merci israeliane e "made in Europe" su quelle del Vecchio Continente. L'azienda vinicola Bazelet sul Golan ha deciso di spedire le sue bottiglie in Europa avvolte da una bandiera israeliana, in segno di sfida. Studenti israeliani hanno assediato al grido di "never again" la casa di Lars Faaborg-Andersen, l'inviato Ue a Gerusalemme. Il presidente israeliano, Reuven Rivlin, intanto cancellava un viaggio in Europa, il ministro Uri Ariel vendeva la sua Citroèn per una Mazda giapponese e il premier, Benjamin Netanyahu, tacciava gli europei di essere senza "vergogna".
   L'11 novembre è stata una data storica per il movimento Bds: "Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni". Cos'è, come si è sviluppato, quali obiettivi si pone questa campagna globale per trasformare Israele in un paria? Ieri lo ha spiegato Ngo Monitor: "Dopo la marchiatura, passeranno all'esclusione dei prodotti israeliani". La decisione della Commissione Ue è il frutto della precedente di tre paesi che avevano iniziato a marchiare i prodotti israeliani (Belgio, Danimarca e Inghilterra) su pressione del Bds. Come spiega Ohad Cohen, che dirige la sezione commercio estero del ministero israeliano dell'Economia, la marchiatura Ue riguarda cento compagnie israeliane.
   "E' soltanto il primo passo" ha detto Oded Eran, ex rappresentante d'Israele all'Unione europea: "Il prossimo passo sarà che i parlamenti nazionali non consentiranno la circolazione delle merci dagli insediamenti". Ieri, il parlamentare della sinistra israeliana, Itzik Shmuly, ha ben spiegato che "gli abitanti di Amburgo o di Copenaghen non hanno idea di dove inizi e dove finisca la Linea Verde, per cui la decisione della Commissione finirà per tradursi in un boicottaggio generalizzato contro Israele in quanto tale. Purtroppo l'Europa ha vergognosamente deciso di rafforzare in questo modo coloro che conducono la campagna per il boicottaggio di Israele, il cui obiettivo è cancellare Israele dalla carta geografica e non certo promuovere la pace".
   Il maggiore quotidiano israeliano, Israel Hayom, sostiene che "il proprietario di un negozio di Tolosa non si preoccupa di distinguere fra un prodotto fabbricato a Beit El e uno fabbricato a Tel Aviv: per non avere rogne, semplicemente scarterà entrambi a favore di un prodotto fatto a Lisbona. Moralmente parlando, questo tipo di etichettatura dei prodotti è simile alla stella gialla di Davide dei tempi bui. E' il primo passo su una strada che non si sa fin dove può portare".
   Gli effetti pratici della marchiatura si sentono già. "Il danno è immenso" ha detto David Elhayani, capo del Consiglio della Valle del Giordano. "Oggi non spediamo quasi più nulla verso l'Europa occidentale". Edom, un importante produttore di frutta israeliana, ha detto al giornale economico The Marker: "Gli importatori europei ci dicono che non possono vendere prodotti israeliani. Tutti hanno paura di vendere frutta israeliana".
   Il primo caso di boicottaggio di Israele si registrò nel 1980 con l'Oreal, che aveva acquistato la Helena Rubinstein. Aveva floridi commerci in Israele, ed era suo interesse difenderli. Ma i regimi arabi minacciavano di troncare le lucrose relazioni con la multinazionale, se questa non avesse tagliato con gli ebrei. Anzichè rifiutare il ricatto, l'Oreal si piegò. Oggi non sono più gli stati arabi a guidare il boicottaggio, ma la società civile, le università, i sindacati, le ong, le chiese, le aziende. L'effetto è quello di una delegittimazione internazionale. Ufficialmente il Bds è stato lanciato a seguito della Conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo nel 2001. Fu lì che furono gettate le basi della "strategia Durban", una campagna condotta attraverso gli organismi delle Nazioni Unite, le organizzazioni non governative, il Forum Sociale Mondiale e l'Unione Europea, appunto.
   Fu allora che le ong e i militanti filopalestinesi decisero di marchiare Israele con l'accusa, falsa e demonizzante, di "apartheid" e di "occupazione". Fu lanciato allora lo slogan "Bds". Tre lettere capitali per indicare tre parole e piani di azione ben precisi. Esiste anche una app per Android, "Buy no evil", che guida il consumatore al boicottaggio delle merci israeliane.
   Ieri la ong palestinese Al Haq, che riceve finanziamenti da parte dei governi di Gran Bretagna, Germania, Svezia, Belgio, Olanda, Svizzera, Danimarca, Irlanda, Norvegia, Spagna e Nazioni Unite, ha dichiarato che l'etichettatura delle merci israeliana è un "misura temporanea" prima del completo divieto di tutti quei beni. Prima si etichetta, poi si boicotta.
   Il Bds sostiene di essere un movimento pacifico il cui obiettivo è quello di utilizzare "mezzi economici punitivi" per fare pressione su Israele e correggere i torti subiti nei Territori palestinesi. In realtà, Bds è una guerra asimmetrica per coordinare la strategia violenta dei "negazionisti" palestinesi, arabi e musulmani, che si sono rifiutati di fare la pace con Israele per settant'anni. Più e più volte, quando e dove è emerso, il Bds ha rapidamente espulso qualsiasi critica moderata delle politiche israeliane.
   Natan Sharansky ha scritto che il Bds non supera il test delle "tre D", usato per capire quando le critiche diventano odio: doppio standard (si prende di mira soltanto Israele fra oltre 200 contese territoriali nel mondo, dal Tibet all'Ucraina); demonizzazione (si distorcono le azioni dello stato ebraico per mezzo di paragoni con il nazismo e l'apartheid); delegittimazione (si nega il diritto di Israele ad esistere, unico fra tutti i popoli del mondo).
   Un anno fa l'Unione Europea ha siglato un accordo con il Marocco che sancisce il suo diritto di sfruttare le risorse del Sahara occidentale. Nessuna accusa, in questo caso, di "occupazione" o marchiatura speciale. Lo stesso accade con Cipro settentrionale, invaso dalla Turchia. Così, nessun Bds è stato lanciato contro la Cina che imprigiona gli accademici dissidenti; contro l'Iran, che condanna a morte gli accademici dissidenti; contro Cuba, le cui università non hanno accademici dissidenti; contro l'Autorità Palestinese, la cui università non permettono un dibattito libero e aperto sul conflitto israelo-palestinese. No: c'è un Bds unicamente contro lo stato ebraico, che vanta uno dei più alti livelli di libertà accademica del mondo.
   Il Bds vuole apparentemente correggere gli errori specifici compiuti da Israele nei confronti dei palestinesi, ma attacca le fondamenta di tutto Israele: tutti gli israeliani sono collettivamente colpevoli. Si boicotta l'unica società del medio oriente dove gli arabi leggono una stampa libera, manifestano quando vogliono, mandano i propri rappresentanti in parlamento e godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini. Il Bds alimenta una narrazione storica unilaterale che nega ogni responsabilità dei palestinesi per la distruzione di possibilità di pace e di riconciliazione, dalla fondazione di Israele nel 1948, per gli accordi di Oslo del 1993, per i colloqui di Camp David nel 2000, per il ritiro di Israele da Gaza nel 2005, fino ad oggi.
   Non solo, ma la decisione della Commissione colpisce anche le alture del Golan, che non hanno nulla a che fare con il contenzioso israelo-palestinese. Non c'è un solo palestinese che viva sulle alture del Golan. Ci sono invece numerose milizie di tagliatori di teste di là dal confine.
   Poiché il desiderio di punire Israele rappresenta economicamente una minoranza dell'opinione pubblica, il Bds collega il suo messaggio a università, chiese, aziende straniere, municipi. Storicamente, questa campagna usa strumenti come le petizioni (firmate da studenti, docenti e personale amministrativo) che invitano un college o una università a uscire da imprese che beneficiano Israele; incontri con gli amministratori del campus e i manager per suggerire il disinvestimento; picchetti.
Nel mondo accademico, la sequenza del Bds è familiare: gruppi di studenti e professori organizzano una conferenza come la "Israeli Apartheid Week", demonizzando Israele come il principale problema del medio oriente, usano parole d'ordine come "ampliare la gamma del dibattito accademico" e spesso si finisce con il boicottare un prodotto israeliano all'interno dei campus, come le macchine per l'acqua minerale Sodastream.
   Il Bds è una violazione dei più basilari valori che stanno alla base della convivenza civile: la libera circolazione delle idee e delle persone, la libertà religiosa e di coscienza, il rispetto della dignità della persona. Inoltre, il Bds si basa sulla falsificazione di un grande principio che anima Israele: la libertà di ricerca. L'ironia è che il Bds colpisce Israele la cui fame di cultura ne ha fatto il primo paese al mondo per numero di lauree pro capite, il primo paese al mondo per numero di musei pro capite e il secondo paese al mondo per numero di libri pubblicati pro capite.
   I docenti israeliani pro-palestinesi possono esprimere liberamente le loro opinioni sia nella didattica sia sui mass media. Lungo è l'elenco di centri universitari israeliani apertamente attivi nella cooperazione con i palestinesi. All'Università di Haifa, il venti per cento degli studenti appartiene alle minoranze israeliane, senza considerare che molti degli stessi capi del Bds, come Omar Barghouti (che mesi fa ha compiuto un tour delle università italiane), si sono formati nelle università israeliane. E i palestinesi costituiscono il 75 per cento dei lavoratori nelle "colonie" prese di mira dall'Unione Europea. Sono loro adesso a rischiare il proprio posto di lavoro.
   La prima volta accadde in Francia durante la Seconda Intifada. Mentre in Israele gli ebrei saltavano in aria sugli autobus e nei centri commerciali, al campus Pierre e Marie Curie dell'Università VI di Parigi, gli accademici adottarono una mozione che prevedeva la fine di ogni legame e cooperazione accademica con i centri di ricerca israeliani. Ventidue accademici francesi votarono a favore, sei si astennero e soltanto quattro votarono contro. Il premio Nobel per la Fisica, Claude Cohen Tannoudji, espresse la propria "vergogna per questi colleghi che osano gettare un anatema su degli altri colleghi a causa della loro nazionalità". Siamo alla terza di Intifada e il Bds è dilagato nelle università europee (alcuni giorni fa, 350 docenti inglesi hanno lanciato il boicottaggio accademico).
   Un ostracismo "silenzioso" che ha conseguenze pratiche terribili: impedire che ricercatori israeliani ottengano fondi di ricerca, fare pressione sulle facoltà per interrompere le relazioni con i dipartimenti israeliani, convincere i docenti europei a non visitare Israele, non invitare gli israeliani alle conferenze, prevenire la pubblicazione all'estero di articoli di ricercatori israeliani, negare raccomandazioni agli studenti che intendono fare ricerca in Israele e creare un cordone sanitario attorno alle riviste accademiche israeliane.
   L'accusa allo stato ebraico come "nuova apartheid" è la più efficace, in quanto evoca il precedente delle sanzioni contro il regime del Sudafrica. Nel settore delle ong e dei forum globali, sui media occidentali e nei suoi parlamenti, è quotidianamente stabilita l'equazione fra Israele e l'apartheid del Sud Africa. Famose personalità pubbliche, come l'arcivescovo e Nobel Desmond Tutu e l'ex presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, basano la loro campagna contro Israele su questa accusa di apartheid.
   L'analogia è ovviamente immorale e perfida. L'apartheid era un sistema totalitario di governo, in cui una minoranza bianca soggiogava la popolazione nera e ne violava tutti i diritti. In Israele, ebrei e arabi condividono spazi pubblici, autobus e scuole. In Israele, tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Gli arabi israeliani attualmente siedono alla Corte Suprema, anche i partiti arabi più ostili a Israele hanno dei saggi al Parliamento israeliano. In tutti gli ospedali di Israele, medici e infermieri, ebrei e arabi, lavorano fianco a fianco curando pazienti arabi ed ebrei.
   Il Bds può già vantare numerosi "successi", che non sono in grado da soli di piegare l'economia israeliana, ma che stanno alimentando un clima di sospetto e ostilità verso Israele in Europa. E' come se il "made in Israel" sia diventato un agente patogeno. Un infettante. Sodastream, il cui business principale sono le bibite gassate, ha chiuso la sua fabbrica in un insediamento. Agrexco, il più grande esportatore israeliano di prodotti agricoli, è entrato in liquidazione anche a seguito di una campagna di manifestazioni, lobbying dei supermercati e dei governi, boicottaggi popolari e l'azione legale in più di tredici paesi in tutta Europa. La più grande cooperativa in Europa, il Co-operative Group nel Regno Unito, ha introdotto una politica discriminante verso i prodotti provenienti dagli insediamenti. Ahava, la società di cosmetici israeliana, ha dovuto chiedere il suo flagship store e alcuni rivenditori a Londra, in Norvegia e Canada e la famiglia Disney ne ha dismesso gli investimenti. Una catena di supermercati irlandese, Supervalu, ha smesso di distribuire le carote israeliane. McDonald's si è rifiutata di aprire un fast food nella città israeliana di Ariel nei Territori. L'Università di Johannesburg ha reciso i legami con la Ben-Gurion University di Israele. Campagne contro la collaborazione finanziata dalla Ue con aziende israeliane private e le università israeliane sono spuntati nei campus di tutta Europa. Sindacati accademici nel Regno Unito e Canada, dai medici agli architetti, hanno votato per sostenere varie iniziative di boicottaggio. Decine di artisti - soprattutto musicisti e cineasti - e scrittori si sono rifiutati di esibirsi in Israele o hanno annullato le loro performance in seguito alle pressioni del Bds. La multinazionale francese Veolia è stata preso di mira in molti paesi a causa della sua fornitura di servizi a Israele. Il fondo pensione norvegese ha disinvestito da Israele.
   Alcune importanti organizzazioni sindacali in Europa stanno tagliando i legami con Histadrut, il sindacato israeliano. Deutsche Bank, la più grande banca tedesca, ha incluso la Poalim Bank israeliana in una lista di compagnie riguardo le quali gli investimenti sollevano "questioni etiche".?Lo stesso ha fatto la più grande banca danese, la Danske Bank. Vitens, azienda olandese leader dell'erogazione dell'acqua, ha tagliato con l'omologa israeliana Mekorot. E i casi non si fermano qui. E se in Norvegia i due maggiori importatori di verdure, Bama e Coop, non importano più frutta e verdura prodotte negli insediamenti, la Unilever, che realizza prodotti casalinghi come lo shampoo Sunsilk e la vaselina, ha venduto la propria quota del 51 per cento nelle fabbriche degli insediamenti.
   Le linee pre o post 1967, a cui fanno riferimento le etichettature previste dalla Commissione, sono soltanto un alibi. I sostenitori del Bds considerano Israele un'entità intrinsecamente illegale anche all'interno delle linee armistiziali del 1949. Una delle immagini simbolo del movimento mostra tutta la Palestina, pre e post 1967, circondata da filo spinato, come se fosse un unico gigantesco insediamento da abbattere.
   Gruppi e attivisti pro-boicottaggio non ne fanno mistero. Basta dare un'occhiata ai loro siti web, alle loro conferenze su YouTube, a tutto il loro materiale di propaganda contro Israele. In un'intervista fu chiesto a Omar Barghouti, uno dei fondatori del Bds: "La fine dell'occupazione porrà fine alla campagna?". "No", fu la sua risposta senza mezzi termini. In un'intervista lo storico americano Norman Finkelstein, grande sostenitore del movimento Bds, ha affermato che Israele ha ragione quando dice che il movimento vuole distruggerlo: "Si parla proprio di distruggere Israele, non intendo mentire". Finkelstein aggiunse: "Vengono chiamati i tre livelli: vogliamo la fine dell'occupazione, vogliamo il diritto al ritorno di milioni di profughi e discendenti di profughi dentro Israele e vogliamo la parità per gli arabi in Israele. Si sa benissimo qual è il risultato dell'attuazione di tutti e tre questi obiettivi: Israele non esiste più".
   Il Bds si basa su una serie di slogan politici molto semplici, come "stato di apartheid", "regime di occupazione", "violatore del diritto internazionale" e "repressivo". La natura della campagna è tale da fare appello ai sentimenti umanitari dei gruppi di base a cui indirizzare i loro sforzi - giornalisti, intellettuali, studenti nei campus, charities, dipendenti pubblici, partecipanti agli eventi culturali, enti commerciali che hanno rapporti con Israele. L'obiettivo è manipolare queste persone, instillando nelle loro menti un intrinseco pregiudizio contro Israele. Questo pubblico mirato può facilmente e sinceramente identificarsi nelle battaglie Bds contro la discriminazione, l'ineguaglianza, e il colonialismo.
   Questo movimento è composto da un numero relativamente piccolo di attivisti a tempo pieno e ben finanziati, come Omar Barghouti e Nabil Sha'att. Organizzano eventi per lo più in Europa e in Nord America, raccolgono fondi e organizzano seminari, conferenze e dimostrazioni a sostegno del movimento per isolare e boicottare Israele in ogni modo possibile.
   Il modo di operare del Bds include lo stalking del pubblico, le minacce di azioni legali contro aziende straniere che investono in Israele, manifestazioni di fronte a fornitori e negozi, la pressione nelle istituzioni accademiche, finché essi non si saranno dissociati da qualsiasi legame con Israele. L'istigazione, l'incoraggiamento e il sostegno attivo di questa campagna diretta alla delegittimazione di Israele nella comunità internazionale attraverso l'uso di strumenti legali, civili e politici è un'arma considerata ormai sempre diffusa e più accettabile per generare un più ampio sostegno nella comunità internazionale.
   Daniel Levy, direttore della sezione mediorientale allo European Council on Foreign Relations, ieri ha sintetizzato così quanto approvato dalla Commissione Europea: "Come minimo è un mal di testa, ma potrebbe avere un effetto devastante". Dopo l'approvazione della marchiatura da parte di Bruxelles, a cosa punta il Bds? Ecco alcune misure pratiche già al vaglio della Commissione Europea: le banche israeliane che offrono mutui ai proprietari di case in Cisgiordania potrebbe esporsi a ripercussioni; le catene di vendita al dettaglio che detengono negozi negli insediamenti potrebbero essere escluse dal mercato europeo; i produttori che utilizzano parti realizzate nelle fabbriche israeliane potrebbero anche loro subire speciali marchiature o sanzioni; gli israeliani che vivono negli insediamenti potrebbero perdere il privilegio che consente oggi ai cittadini israeliani di viaggiare in Europa senza visto; le università israeliane nei Territori si vedrebbero private del riconoscimento di Bruxelles e le squadre di calcio israeliane nei Territori (Ma'aleh Adumim, Ariel, Kiryat Arba, Bik'at Hayarden e Givat Ze'ev) potrebbero essere escluse dalla Uefa. E la lista delle misure europee contro Israele non si ferma qui.
   L'11 novembre 2015 si è passati dal nazista "Kauft nicht bei Juden", non comprate dagli ebrei, al "Kauft nicht beim Judenstaat", non comprate dallo stato ebraico. Allora lo slogan era "Geh nach Palästina, du Jud". Ebrei, andate in Palestina! Oggi il motto del boicottaggio è: "Ebrei, fuori dalla Palestina!".

(Il Foglio, 13 novembre 2015)


«Rouhani sa parlare all'Occidente Ma l'Iran è lo stesso di sempre»

L'ambasciatore di Israele Gilon: «Mi auguro una presa di posizione italiana».

Intervista di Daria Gorodisky

ROMA - Ambasciatore Naor Gilon, il presidente iraniano Hassan Rouhani non ha stigmatizzato il grido «morte a Israele» che tanto spesso riecheggia nelle preghiere islamiche; e ha dichiarato al Corriere che «il popolo iraniano può odiare Israele».
«Rouhani ha usato la distinzione artificiosa fra ebrei e sionismo. Una mistificazione che l'ex presidente Napolitano ha più volte definito come nuovo antisemitismo. E papa Francesco ha sostenuto che anche l'attacco deliberato contro lo Stato di Israele è antisemitismo. Infatti, con i media francesi Rouhani è stato ancora più esplicito, ha detto chiaramente che l'Iran non riconosce "la legittimità" dello Stato di Israele. Però non accettare l'esistenza di una Patria per gli ebrei significa anche rifiutare la soluzione due popoli due Stati».

- La posizione di Rouhani appare di tatto uguale a quella del suo predecessore, Mah-moud Ahmadinejad. E in sostanza appena ribadita dalla Guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei: «Entro i prossimi 25 anni Israele non esisterà più».
  «Rouhani lo dice in modo più raffinato, sofisticato. Lui e i suoi conoscono l'Occidente, la sua cultura, le sue lingue: sanno come parlare a questa parte di mondo. Ma è un gioco tattico, è pura fiction».

- Molti in Europa e negli Stati Uniti danno credito a questo «nuovo» Iran.
  «C'è chi crede che, aiutando il "moderato" Rouhani, si evitino politiche più estremistiche. Ma questi "moderati" non esistono. Basta pensare alla questione diritti umani, alle duemila esecuzioni capitali dell'ultimo anno. E poi l'ingerenza sempre più forte dell'Iran in Medio Oriente: in Libano, Siria, Iraq, Arabia Saudita, tentano anche in Israele con Hamas e Hezbollah. L'Iran destabilizza la regione, proprio il contrario dell'obiettivo occidentale».

- L'accordo con gli Usa sul nucleare iraniano legittima Teheran come partner economico e, dunque, politico.
  «Alcuni europei sono caduti nella trappola della "moderazione iraniana" per motivi economici. Ma l'accordo deve essere ancora implementato, per ora non è operativo. Quindi adesso il punto è questo: se l'Europa, e più in generale l'Occidente, ignorano qualunque principio etico e morale in cambio di vantaggi economici, l'Iran sarà in pratica autorizzato a ogni violazione dell'intesa stessa».

- L'Italia è il primo Paese europeo a ricevere il leader iraniano: è deluso?
  «Ma no, capisco l'Italia. Però domani Rouhani, dopo quell'accordo, arriva da trionfatore. E io mi auguro che tanto qui, quanto nella sua seconda tappa in Francia, ci siano dichiarazioni pubbliche contro le sue affermazioni su Israele».

- Che cosa si aspetta?
  «Il presidente del Consiglio italiano ha dichiarato che Israele deve esistere e deve resistere. Quindi spero che adesso qualcuno dica pubblicamente che è inaccettabile delegittimare e chiedere la distruzione di un Paese membro dell'Onu, quale è Israele. In luglio, durante una visita in Iran, il ministro dell'Economia tedesco Sig-mar Gabriel non ha avuto problemi a dichiarare apertamente: "La sicurezza di Israele è per noi di grande importanza"».

- La Francia ha rifiutato di bandire il vino da quello che sarebbe dovuto essere un pranzo ufficiale con Rouhani, così quell'appuntamento a tavola è saltato...
  «Rispetto chi, per motivi religiosi, non beve alcool. Però non credo che si possa impone "io non bevo, quindi non puoi farlo neanche tu"; a maggior ragione quando si è ospiti. Credo che la Francia voglia dimostrare che non si arrende a questo modo di pensare. Spero che sia un messaggio».

- Intanto, però, l'Unione europea ha stabilito che le merci prodotte in Giudea, Samaria e Golan vengano etichettate come provenienti dai «territori occupati». Una decisione che arriva proprio quando si moltiplicano le chiamate al boicottaggio contro Israele e i suoi cittadini.
  «È paradossale: mentre si tolgono le sanzioni all'Iran e Rouhani grida vittoria, l'Europa prende una decisione molto discriminatoria contro l'unica democrazia di tutto il Medio Oriente. Non è stato fatto nulla di simile in altre 200 situazioni di territori contesi: a partire da Cipro del Nord. E l'Europa addirittura paga il Marocco per il diritto a pescare lungo le coste del Sahara occidentale (occupato dal Marocco stesso, ndr). Questa decisione significa lavorare contro la pace».

- In che senso?
  «Se i palestinesi possono contare sul sostegno internazionale, non avranno più motivo di negoziare. Questo boicottaggio, come qualunque altra sua forma, è uno strumento contro la soluzione dei due Stati. Oltre tutto non è intelligente: non danneggia Israele, che esporta da quelle zone circa l'i% del totale verso l'Europa, bensì la maggior parte delle persone che producono quelle merci e che potrebbero perdere il lavoro. Il 100% del lavoro».

(Corriere della Sera, 13 novembre 2015)


Alto Adige, crocevia di jihadismo

Riceviamo da uno dei nostri lettori:

Abdul Rahman Nauroz, uno degli arrestati nel blitz dei Ros, è risultato "particolarmente attivo nell'attività di reclutamento", "sia attraverso internet, sia attraverso 'lezioni' che teneva nel proprio appartamento di Merano, luogo di riunioni segrete e crocevia di aspiranti jihadisti" secondo quanto spiegano gli investigatori.
Non più di un anno fa io e il Presidente dell'Associazione Italia-Israele Alto Adige, Markus Cuel, in qualità di rappresentanti della Federazione Italia-Israele sul territorio altoatesino avevano evidenziato il pericolo che l'Alto Adige fosse utilizzato come crocevia per le attività di reclutamento e preparazione dello jihadismo internazionale. Il nostro è un territorio di confine e i segnali che avevamo captato attraverso il web e i social erano a questo proposito allarmanti.
Avevamo segnalato alle Forze dell'Ordine alcuni soggetti che sui social promuovevano contenuti riconducibili al fondamentalismo islamico, sostenevano l'Isis e incitavano all'odio contro Israele.
Oggi, i Ros rendono appunto noto, dell'esistenza di una cellula jihadista deputata al reclutamento di aspiranti terroristi che venivano addirittura formati per le più terribili attività terroristiche in un appartamento di Merano, ci complimentiamo con le Forze dell'Ordine e li ringraziamo per l'importante lavoro svolto e per i risultati raggiunti.
Rinnoviamo infine il nostro appello affinché la popolazione segnali alle Autorità di pubblica sicurezza ogni episodio che possa ricondurre al fondamentalismo islamico e potenzialmente al terrorismo, nonché rinnoviamo l'invito a tutti a mantenere alta la guardia, perché anche l'Alto Adige, come abbiamo visto, non è immune alla minaccia jihadista.
Sempre maggiore dev'essere anche l'attenzione per i punti sensibili come le Chiese e la Sinagoga di Merano, nonché per chi si impegna per la sicurezza in provincia.
Cordiali saluti,
Alessandro Bertoldi
Membro Direttivo nazionale
Federazione Italia-Israele

(Notizie su Israele, 12 novembre 2015)


Tutti alla festa del presidente iraniano a Roma

Lettera a Furio Colombo

Caro Furio Colombo, se ne parla poco, ma il fatto è clamoroso: il presidente iraniano Rouhani, l'uomo che sembrava il pericolo pubblico numero uno fino a un momento fa, adesso è l'amico di tutti (o meglio, tutti sono amici di Rouhani), viene a Roma. Dettaglio interessante: siamo il primo Paese d'Occidente (si dice ancora?) a ricevere una simile visita. Che significa?
Marcello



Significa che l'Italla, grande Paese con tutte le doti e le qualità e le speciali bravure menzionate spesso dal presidente e dal primo ministro, è molto attenta agli affari. Dice di essere schierato con A, ma è bravo a spostarsi con l'agilità di un mimo nei pressi di B, se c'è una buona ragione per farlo. C ome dice la pubblicità di un supermercato, la nostra forza è la convenienza. Se pensate che stia esagerando,pensate ai rapporti strani fra Italia e Russia. Noi siamo sempre dalla parte giusta. Ma anche della Russia. Ci attrae la vibrante energia di quel Paese. Ai tempi dei figli dei fiori si sarebbe parlato di good vibrations (buone vibrazioni). Bene, quelle vibrazioni adesso sono molto forti in area iraniana. Tutto è più facile perché specialmente adesso che Rouhani ha fatto la pace con tutti, e tanti non vedevano l'ora di fare la pace con Rouhani. Tutto perdonato? L'America ha fatto passi da gigante, su questa strada, dimenticando, per amor di pace, i suoi diplomatici in ostaggio e la sua vita da "grande satana" per decenni, agli occhi di tanti che,purtroppo, non dimenticano con la velocità dei diplomatici. E allora penso che anche dalla parte che giustamente festeggia la non guerra, si dovrebbe tenere accesa qualche luce di memoria. Il nostro amico Iran - dico agli speaker che lo accoglieranno proclamando che l'Italia è sempre vicina a quel grande Paese petrolifero - che pure non soffre di amnesie, dovrebbe essere aiutato a ricordare di avere chiesto formalmente e ufficialmente la cancellazione di Israele dalla faccia della terra, dal mappamondo, dalle carte geografiche e dai libri di scuola e persino dalla memoria collettiva. Ora tutti sappiamo che chi vuole cancellare la memoria degli altri ha ottima memoria. E su questa memoria contiamo non per dire: ricordatevi. Ma per esigere che la richiesta formale di cancellare Israele sia formalmente cancellata. Potete dire quello che volete di Renzi, ma su questo punto (non l'Iran, ma Israele) Renzi è stato chiaro: "La vostra vita - ha detto a Gerusalemme - è la nostra". Ben detto. Ma la visita di Rouhani a Roma, proprio perché è la prima in Occidente, richiede di essere chiaro, noi e loro. Se l'Iran entra, e si mette a circolare come fra amici, deve lasciar fuori la sua minaccia per sempre. O cosi, o niente. Naturalmente l'avviso non è per Rouhani, di cui non sappiamo niente. L'avviso, non nel senso della minaccia ma nel senso della legittima speranza, è per il presidente Mattarella e per il premier Matteo Renzi.

(il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2015)


«Morte a Israele»

Il Corriere della Sera pubblica oggi una lunga intervista al presidente iraniano Hassan Rouhani. Riportiamo soltanto le domande degli intervistori senza le risposte dell'iraniano, a cui non attribuiamo alcun valore tranne una.
Domande fatte al presidente iraniano:
  • Quali passi ha iniziato a fare l'Iran per applicare l'accordo nucleare? Gli americani stanno facendo del loro meglio per rispettarlo?
  • E se il Congresso Usa ne imponesse di nuove?
  • In che modo l'accordo nucleare cambierà le relazioni tra l'Iran e gli Stati Uniti? Nelle manifestazioni si continua a gridare «Morte all'America» e la Guida suprema, l'ayatollah Khamenei, chiama ancora gli Usa «il Grande Satana». Lei considera l'America il Grande Satana?
  • Diversi cittadini americani sono stati di recente arrestati in Iran, fra questi anche un giornalista. Molti vedono questi episodi come azioni ostili da parte di coloro che si oppongono a ogni miglioramento nelle relazioni con Washington. Cosa ci può dire in merito?
  • Ma lei immagina di poter vedere un giorno un'ambasciata americana a Teheran e una iraniana negli Stati Uniti?
  • Lei ha criticato alcuni media iraniani, accusandoli di agire come una «polizia segreta». Il capo della magistratura le ha anche risposto a tono, respingendo le sue critiche. È il segnale di un grande scontro in atto all'interno del Paese sulla via da seguire? Le sue riforme sono in pericolo?
  • Lei aveva promesso più democrazia, libertà di espressione e una rete Internet senza filtri. Perché non è successo?
  • Due anni fa lei promise di liberare i leader riformisti del Movimento Verde, Mousavi e Karroubi. Manterrà la promessa?
  • Per la prima volta l'Iran è stato invitato a unirsi agli sforzi diplomatici per risolvere la crisi in Siria insieme a Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita e altri Paesi. Qual è per l'Iran una soluzione possibile, efficace e accettabile?
  • L'Iran accetterebbe un compromesso che preveda l'uscita di scena di Assad?
  • Oggi Russia e Iran sono unite nella lotta all'Isis e nell'appoggio ad Assad. È un'alleanza di necessità o una partnership strategica?
  • L'Iran ha il numero pro capite di esecuzioni capitali più alto al mondo, incluse quelle pubbliche. Lei crede che la pena di morte sia un modo efficace per combattere il crimine?
  • “Morte a Israele” è ancora un grido popolare nelle preghiere del venerdì. Non sarebbe ora di farla finita con simili slogan?
    «Rispettiamo tutte le religioni monoteiste, comprese quella ebraica e cristiana. Nel nostro libro sacro si parla molto di Mosè, che è il profeta degli ebrei, e il Corano loda Mosè, che sia benedetto. il popolo ebraico ha sempre vissuto e vive in Iran pacificamente. Gli ebrei hanno i propri rappresentanti nel Parlamento iraniano, possono praticare la loro religione liberalmente. Ma questo è diverso dalle politiche del sionismo, che è cosa diversa dall'ebraismo. Noi condanniamo le politiche perseguite dal regime sionista nella regione, inclusa l'uccisione dei palestinesi. E condanniamo le politiche americane quando appoggiano unilateralmente questo regime. Voglio dire che il popolo iraniano può odiare Israele e le politiche sioniste, ma allo stesso tempo può amare l'ebraismo, i suoi profeti e il Libro».
Solo come ultima domanda gli intervistatori hanno pensato di far intervenire il tema “Israele”, come se fosse un’ultima precisazione da non far mancare per completezza; e alla risposta ricevuta non hanno pensato di dover aggiungere qualche altra domanda. Preso atto che “il popolo iraniano può odiare Israele e le politiche sioniste”, l’intervista può considerarsi conclusa.
Questo significa due cose:
  1. che per il resto del mondo la “questione ebraica” espressa oggi dall'esistenza di Israele costituisce soltanto un impaccio che sarebbe molto meglio non avere tra i piedi al fine di mandare avanti in modo scorrevole gli affari internazionali e raggiungere la mondiale pace economica;
  2. che dall’atteggiamento iraniano si conferma chiaramente il fatto che l’antisemitismo oggi ha preso il volto dell’antisionismo. L’Iran tollera bene gli ebrei religiosi, anche al suo interno, ma non sopporta, all’esterno, l’esistenza di uno stato ebraico.
E le Nazioni Unite, a cui appartengono sia Iran sia Israele, non hanno niente da dire. M.C.

(Notizie su Israele, 12 novembre 2015)


Kansas - Strage al centro ebraico: condannato a morte un leader del Ku Klux Klan

Condannato alla pena capitale un suprematista bianco: l'anno scorso, Frazier Glenn Miller aveva aperto il fuoco uccidendo tre persone.

NEW YORK - Un giudice in Kansas ha condannato a morte un suprematista bianco riconosciuto colpevole di aver ucciso lo scorso anno tre persone davanti due centri ebraici nello Stato americano. AFrazierGlenn Miller Jr« Cross», 74 anni, verrà praticata l'iniezione letale. «Il suo tentativo di seminare odio in questa comunità, di portare il tenore, è fallito», ha dichiarato il giudice distrettuale della contea di Johnson, Thomas KellyRyan. Miller ha reagito alla sentenza urlando «heil Hitler», prima di essere trascinato fuori dall'aula. L'imputato ha scelto di difendersi da solo durante il processo. Nel corso delle udienze ha ammesso di aver ucciso nell'aprile dello scorso anno William Corporon, 69 anni, ed il nipote di lui, Reat Griffin Underwood, 14, davanti al Jewish Community Centre di Overland Park, Kansas. Terri LaManno, 53 anni, è stato ucciso davanti ad un altro centro ebraico. Miller ha detto ai giurati che «sapeva» che lo avrebbero messo nel braccio della morte ma che non gli importava. Era deciso ad uccidere ebrei prima di morire perché - ha sostenuto - detengono troppo potere. «Cross» era già noto per aver fondato i Carolina Knights del Ku Klux Klan, di cui era stato "gran dragone": In un'intervista radiofonica del 2010 aveva dichiarato che, tra ebrei e afroamericani, odiava di più i primi: «Gli ebrei, mille volte di più. In confronto al problema che abbiamo con gli ebrei, tutti gli altri problemi sono solo distrazioni».

(Avvenire, 12 novembre 2015)


L’odio contro gli ebrei ha molte forme, quella del leader del Ku Klux Klan è una, quella degli accoltellatori palestinesi è un’altra, quella di coloro che li comprendono e li appoggiano un’altra ancora. Ed è la più nefasta. M.C.


L'Ue boicotta gli ebrei, ma colpisce i palestinesi

Bruxelles impone di segnalare i prodotti importati dalle colonie ebraiche (dove lavorano molti arabi). Per criminalizzare gli israeliani

di Carlo Panella

L'Europa apre le porte al boicottaggio delle merci di Israele, richiesta dissennata di alcuni movimenti filo-palestinesi dalle conseguenze nefaste, incluso l'incremento dell'antisemitismo. Boicottaggio approvato da un Abu Mazen che non riesce a trovare l'accordo con Hamas, che quindi si presenta alle trattative con Israele con la prospettiva di consegnare il futuro Stato Palestinese a chi intende usarlo solo per lanciare missili e che ha scelto la strada dei «gesti dimostrativi» che mai porteranno ad una pace. Naturalmente, l'Europa non ha il coraggio delle proprie azioni e maschera la decisione di impone l'etichetta «made in Cisgiordania», sui prodotti lavorati nei Territori, al posto del «made in Israel» come scelta «puramente tecnica». Ma che sia una scelta politica e discriminatoria, risalta inequivocabilmente: questa nuova etichettatura riguarda solo Israele e i prodotti dei Territori.

 Due pesi e due misure
  Non riguarda ad esempio i prodotti che la Turchia esporta nell'Ue e che provengono da Cipro Nord, che la Ue non riconosce, la cui esistenza è garantita da un corpo militare della Turchia, la cui sovranità è rivendicata dalla Repubblica di Cipro, membro della Ue.
  Durissime le reazioni di Israele, che ha sospeso i rapporti con la Ue su temi politici e dei diritti umani, così formulate dalla ambasciata di Roma, ricalcando le parole del premier Netanyahu: «Ci dispiace che l'Ue abbia scelto, per ragioni politiche, di fare un passo così eccezionale e discriminatorio, ispirato dal movimento di boicottaggio, soprattutto in questo momento in cui Israele sta affrontando un'ondata di terrorismo ovunque e contro tutti i suoi cittadini. È sconcertante e persino irritante che l'Unione europea decida di applicare un doppio standard per quanto riguarda Israele, ignorando che ci sono più di 200 altre dispute territoriali in tutto il mondo, comprese quelle che si verificano all'interno dell'Ue o alle sue porte».
  È così: il provvedimento discriminatorio dell'Ue, spudoratamente, riguarda e colpisce solo Israele, là dove, per fare un esempio, nessuno si è mai sognato di pretendere l'etichettatura «made in Tibet» per i prodotti provenienti da quella regione occupata dalla Cina (che li etichetta «made in China») e men che meno di pretendere l'etichetta «made in Kashmir» per i tessuti che l'India esporta in Europa con l'etichetta «made in India».
  La valenza tutta politica, la sciagurata sbandata filo-palestinese, che intralcia e non aiuta le trattative ira Netanyhau e Abu Mazen, è ancora più evidente se si guarda alla entità del fenomeno, che riguarda circa un quinto della produzione delle colonie israeliane nei Territori, stimato intorno ai 200-300 milioni di dollari all'anno; solo 1'1%, rispetto ai circa 30 miliardi annuali di esportazioni di beni e servizi da Israele verso l'Ue.

 Le vere vittime
  Ma non basta: a pagare il costo della diminuzione delle esportazioni (a causa delle campagne di boicottaggio di questi prodotti, così facilitate) saranno le migliaia di lavoratori palestinesi impiegati nelle aziende israeliane, le uniche che hanno investito nella industrializzazione della Palestina. Vergognosa - e da citare perla sua ipocrisia - la risposta del vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis alle critiche del governo israeliano: «Con il via libera all'etichettatura su alcuni prodotti realizzati negli insediamenti israeliani nei territori occupati la Commissione europea non sostiene in alcun modo il boicottaggio e le sanzioni nei confronti di Israele. La misura approvata è una parte essenziale della legislazione perla protezione dei consumatori; è una questione tecnica e non politica, chiesta da alcuni Stati membri».
  Un particolare illustra poi la demenza burocratica della Ue: il provvedimento non riguarda il vino prodotto in Israele, ma con uvaggi provenienti dal Golan occupato. Si colpisce la produzione, non la provenienza della materia prima! Sta di fatto che, grazie all'Ue, la campagna per il boicottaggio di tutti i prodotti israeliani prenderà quota. E migliaia di lavoratori palestinesi perderanno il lavoro.

(Libero, 12 novembre 2015)


L'Ue è ancora una volta contro Israele

Le etichette "made in settlement" sono una discriminazione.

Dopo tre anni di esitazioni, la Commissione europea ieri ha ceduto alla lobby anti Israele e ai boicottatori anti-semiti adottando una "nota interpretativa" per imporre l'etichettatura di alcuni prodotti importati nell'Unione europea dagli insediamenti israeliani. Da oggi il "made in Israel" non potrà più essere usato per i prodotti agricoli e i cosmetici che vengono da fuori i confini del 1967: i coltivatori e gli industriali israeliani che operano in Cisgiordania dovranno appiccicare la dicitura "insediamenti" sulle merci vendute nell'Ue. Se non lo faranno, toccherà a supermercati o negozi europei farlo, quando la Commissione ha sufficienti informazioni sulla provenienza.
   L'esecutivo comunitario si è difeso spiegando che si tratta di una questione "tecnica". Ma la mossa ha un profondo significato politico in un'Ue sempre più tentata dalla politica unilaterale del riconoscimento della Palestina. Il premier israeliano Netanyahu ha detto che l'Ue dovrebbe "vergognarsi" per la "discriminazione" che punisce "la parte che è sotto attacco del terrorismo". Il Marocco non è costretto a etichettare il pesce "Sahara occidentale". Il "made in Taiwan" non è stato cancellato dalla politica di "una sola Cina". Le merci di Cipro nord, occupata dalla Turchia, sono una questione interna per l'Ue. Paradossalmente, le vittime collaterali rischiano di essere i palestinesi. La decisione riguarda uva, datteri, vino, miele, olio d'oliva e cosmetici per un valore di 50 milioni di dollari: una goccia nel mare dei 30 miliardi di dollari di scambi tra Israele e l'Ue, ma una fonte di reddito significativa per i palestinesi che lavorano nelle aziende agricole della Cisgiordania.

(Il Foglio, 11 novembre 2015)


La rabbia di Israele per le etichette. Netanyahu: "Una decisione vergognosa dell'Ue"

Il ministro della Giustizia Ayelet Shaked tuona contro Bruxelles: «Un chiaro approccio anti ebraico. Avvieremo azioni legali».


di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - «Una decisione carica di odio contro Israele e gli ebrei, che allontana la pace con i palestinesi»: il governo di Gerusalemme tuona contro la decisione dell'Unione Europea di differenziare nelle etichette i prodotti provenienti da Cisgiordania e Golan, minacciando «azioni legali» per bloccarla.
È il ministro della Giustizia, Ayelet Shaked, a reagire al passo di Bruxelles definendolo «frutto di un'ipocrisia europea che ha superato ogni limite» perché "nulla del genere è stato mai fatto nei confronti di prodotti provenienti da Cipro Nord o dal Sahara Occidentale che l'Europa considera anch'essi occupati". Tale differenza di comportamento «tradisce un approccio anti-Israele ed antiebraico» che ha portato il ministero degli Esteri a convocare il rappresentante dell'Ue in Israele per esprimere «la più dura delle proteste». Shaked afferma che «stiamo valutando passo legali nei confronti dell'Ue» per bloccare il provvedimento, destinato «ad ostacolare il negoziato con l'Autorità palestinese perché la spinge ad avere posizioni estreme».
Netta anche la condanna del premier Benyamin Netanyahu: «La Ue deve vergognarsi. Una decisione ipocrita e che rivela un doppio atteggiamento: si applica - ha spiegato - solo a Israele e non ad 200 conflitti nel mondo».

(La Stampa, 11 novembre 2015)


Naor Gilon: "Sulle etichette nuovo atto europeo contro il processo di pace"

È durissimo il commento di Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, sull'approvazione da parte dell'Unione europea dell'etichettatura dei prodotti provenienti da insediamenti israeliani. Una decisione che il governo israeliano considera un "vergognoso boicottaggio".

«È una vergogna - afferma l'ambasciatore Gilon in un intervento esclusivo su HuffPost - che l'Europa decida di etichettare prodotti israeliani provenienti da Giudea e Samaria (Cisgiordania). È una vergogna che l'Europa discrimini consapevolmente lo Stato d'Israele per via di una disputa territoriale con i palestinesi, mentre sceglie di ignorare, altrettanto consapevolmente, altri circa 200 conflitti territoriali nel mondo [...]».

La 'guerra delle etichette' è scoppiata oggi, dopo l'approvazione di una "nota interpretativa" alle linee guida pubblicate ad aprile 2013 per l'etichettatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati dal 1967. La nota era stata sollecitata ad aprile da 16 governi Ue, compresa l'Italia. Per questi prodotti, è prevista l'indicazione di provenienza 'da insediamenti'.
Secondo l'ambasciatore israeliano a Roma, "è una vergogna che, nell'era della democrazia in ritirata, di organizzazioni e regimi totalitari o fanatici in Medio Oriente, l'Europa democratica scelga di etichettare e colpire proprio Israele, unica roccaforte democratica in Medio Oriente, che con essa condivide valori comuni e garantiti anche di fronte a sfide senza precedenti riguardanti sicurezza".
Continua Gilon:

«È una vergogna che l'Europa agisca con ipocrisia, motivando le proprie decisioni con pretesti di carattere "giuridico", mentre le reali intenzioni sono politiche: stigmatizzare Israele, dando di fatto manforte agli appelli al boicottaggio dello Stato degli ebrei. È una vergogna che l'UE si renda in tal modo complice delle organizzazioni BDS, le quali non riconoscono l'esistenza di Israele, si oppongono alla soluzione dei due stati, e il cui unico obiettivo è la delegittimazione di Israele. È una vergogna che dopo 70 anni l'Europa ricorra a metodi di "marcatura" per distinguere fra negozio e negozio, prodotto e prodotto, persona e persona».

L'ambasciatore israeliano definisce la decisione dell'Europa "una follia che mina di fatto il processo di pace fra Israele e palestinesi, poiché essa tenta di imporre delle soluzioni a Israele, in contrasto con i principi fondamentali dello stesso processo di pace, fissati con gli Accordi di Oslo, e in base ai quali ogni questione deve essere risolta mediante negoziati diretti fra le parti. Proprio passi come questo dell'UE hanno fatto sì che l'ANP si sia rifiutata di sedere con Israele al tavolo dei negoziati negli ultimi anni", prosegue Gilon.
Secondo l'ambasciatore, la decisione dell'Europa colpisce prima di tutto i lavoratori palestinesi, "che costituiscono la stragrande maggioranza delle persone che vivono di quel lavoro e di quelle industrie". In ballo, per Gilon, c'è anche "quel poco che resta della credibilità dell'Europa agli occhi degli israeliani". Una credibilità che, secondo il diplomatico israeliano, rischia di rasentare lo zero:

«È una follia che l'Europa distrugga ciò che resta della sua credibilità agli occhi dei cittadini dello Stato d'Israele, rendendosi ancor meno rilevante ai fini di qualsiasi influenza sul processo di pace fra Israele e palestinesi.
Difficile stabilire se il processo di etichettatura europeo sia più una vergogna oppure una follia, ma certamente esso, più che segnare prodotti israeliani, segna una perdita di pudore e di buon senso in Europa».


(L'Huffington Post, 11 novembre 2015)


L’etichettatura dei prodotti israeliani non è sabotaggio, ma semplice “misura tecnica”, dicono i parlamentari europei. Certo, gli ordini procedurali vanno rispettati. Rigorosamente. E’ una questione di serietà. Lo dicevano anche i nazisti al processo di Norimberga: “Ho solo ubbidito agli ordini”. M.C.


Israele sospende dialoghi con l'Unione Europea

Israele ha deciso di "sospendere alcuni dialoghi diplomatici" con l'UE dopo la mossa di Bruxelles sulle etichettature dei prodotti degli insediamenti nel Golan e in Cisgiordania. Secondo la tv Canale 10, la sospensione riguarda temporaneamente "temi politici e i diritti umani". La viceministra degli Esteri, Hotovely: "Agli europei preme essere coinvolti nel conflitto israelo-palestinese e tenere con noi un dialogo in merito. Ma, alla luce dei loro comportamenti, abbiamo deciso di sospendere i colloqui".

(RaiNews, 11 novembre 2015)


L'europarlamentare Fitto esprime solidarietà al governo israeliano dopo le etichettature UE

Roma - L'europarlamentare Raffaele Fitto, leader del blocco Conservatori e riformisti ha espresso in una nota la sua solidarietà al governo e al popolo israeliano dopo la decisione da parte dell'Unione Europea di mutare la sua politica delle etichettature sui prodotti provenienti da insediamenti in Cisgiordania, Gerusalemme est e Alture del Golan. Per Fitto "è grave, e perfino provocatorio, che l'Ue arrivi ad utilizzare il tema della etichettatura dei prodotti per attaccare in modo ideologico Israele". Secondo l'europarlamentare, rispetto alla valanga di altri conflitti nel mondo, "non risulta altrettanto zelo da parte dell'Europa". Fitto ha aggiunto: "Per noi Conservatori e riformisti questa brutta pagina è un'altra prova di quanto profondamente questa Europa vada cambiata".

(Agenzia Nova, 11 novembre 2015)


Ala di Stura: cittadino onorario l'avvocato che salvò duecento ebrei

di Gianni Giacomino

Massimo Ottolenghi
«Nessun altro riconoscimento mi sarebbe stato altrettanto gradito, perché io sono diventato alese a 10 anni, quando ho imparato a correre per i prati, a cacciare le vipere e a cercare i minerali. Ala di Stura mi ha dato la vita e io l'ho amata». E si commuove l'avvocato Massimo Ottolenghi quando riceve dal sindaco di Ala Mauro Garbano, la pergamena con le motivazioni del conferimento della Cittadinanza onoraria. Mezzo consiglio comunale è sceso dalle Valli di Lanzo per consegnare l'attestato a Ottolenghi, un secolo di vita e una memoria prodigiosa. Che ricorda episodi e scorci della Resistenza, a cui fin dall'inizio prese parte quale esponente del Partito d'Azione con il nome di battaglia di «Bubi». Infatti, si legge sull'onorificenza: «La motivazione più alta di questa unanime deliberazione del Consiglio comunale è da attribuirsi, in particolare, all'impegno personale da lui profuso, con coraggiosa tenacia ed abnegazione, nella creazione e nel coordinamento di una fitta rete di informatori e collaboratori intelligentemente mobilitati nell'aiuto ai membri della Comunità Israelitica, vittime della persecuzione razziale nazifascista, «Per noi e per la nostra storia l'avvocato resterà una persona davvero importante, un esempio da far conoscere alle nuove generazioni» spiega Garbano. Il giovane Ottolenghi scendeva a Lanzo, ritirava da un sarto i documenti falsi e ripartiva.
   Lui e «la rete» che si era creata protessero circa 200 ebrei. «E nessuno di loro venne mai denunciato, nonostante le allettanti ricompense previste per ogni segnalazione» spiega Marco Castagneri, storico del centro studi «Giorgio Catti», che si occupa di Resistenza e che ha proposto l'iniziativa al Comune di Ala. Nella rischiosissima impresa si era impegnato a fondo anche il suo amico e noto filatelico torinese Giulio Bolaffi, sfollato con i figli a Mondrone, che avrebbe poi costituito, in Val di Viù, la famosa Brigata autonoma «Stellina». «Noi quella valle la chiamavamo la piccola Ginevra - rammenta Ottolenghi che, insieme all'avvocato Alessandro Re, sta per dare alle stampe il libro "L'alveare della resistenza. La cospirazione clandestina delle toghe piemontesi 1929 -1945" - sapevamo che ci potevamo fidare della gente del posto, nessuno ci ha mai tradito».
   Anche lui ha un dono per gli alesi. Rari francobolli «clandestini» appiccicati sulle lettere spedite per comunicare tra i ribelli e gli sfollati. L'utente era sempre Bendetto Cerutti, il nome con cui gli operai chiamavano il duce: «Ed era un modo per fare girare le palle ai fascisti che impazzivano per cercare di capire da dove arrivasse quella corrispondenza». Ricordi? Tanti. Ma «Bubi» ripesca dalla memoria quello che, forse, gli ha fatto più male. «Ero un ufficiale dell'Esercito, camminavo sotto i portici di via Cernaia e vidi che al muro era incollato un manifesto con i nomi di diversi professori, "gente che doveva essere ammazzata". C'era anche quello di mio padre e io stavo andando da lui. Al ritorno non volevo passasse da lì. Lui, invece, ci passò, lesse i manifesti e mi disse: "Che stupidi"».

(La Stampa, 11 novembre 2015)


Gusto Kosher: l'enogastronomia ebraica celebra la mamma

E' Gusto Kosher 2015, l'evento che si tiene all'interno del Palazzo della Cultura in via del Portico d'Ottavia, che ha per tema Polpette e hutzpà. Elogio della jewish mama.
   "Le madri di Israele - Sara, Rebecca, Lea e Rachele - sono, al pari degli omologhi uomini, il fondamento della storia e della cultura ebraica"spiega la scelta del tema Giovanni Terracina, fondatore di Lebonton Catering con il fratello Daniele Terracina e l'amico Dario Bascetta, che da trent'anni sostiene e promuove la cultura gastronomica ebraica. "Cuoca sopraffina, ossessivamente presente con i figli, pettegola e pungente soprattutto - neanche a dirlo - nei confronti della nuora, la madre ebrea è una figura eroica e romantica cui sono stati dedicati film, opere teatrali e letterarie, musiche, strisce di fumetti e molto altro".
   Saranno presenti due grandi chef israeliani: Tom Franz, un avvocato tedesco convertito all'ebraismo, ora cittadino israeliano, che ha vinto 'Master Chef Israele' nel 2013, primo in tutto il mondo a vincere il titolo con un'offerta culinaria kosher e Charlie Fadida nato e cresciuto a Gerusalemme da una famiglia marocchina, è head chef di un grande albergo di Tel Aviv, e conduce lo show televisivo "Campioni in cucina" sul food channel israeliano. Restando sui temi affrontati durante l'Expo si parlerà di "Comfort food all'ebraica, quando il cibo è nutrimento per l'anima".

(Radio Colonna, 11 novembre 2015)


Uno spot antisemita

Da Amsterdam a Monaco, in tutta Europa si ricorda la Notte dei cristalli in chiave antisraeliana.

di Giulio Meotti

ROMA - Qualche anno fa, al culmine di una guerra a Gaza, la scrittrice americana Cynthia Ozick propose all'Europa di eliminare la Giornata della memoria per l'Olo- causto. Era diventata uno spot ipocrita per sfogare passioni antiebraiche. Aveva ragione. Quest'anno, la giornata della Notte dei Cristalli, che commemora il pogrom nazista del 10 novembre 1938 è stata una grande messinscena per demonizzare Israele.
   In Svezia, la giornata del ricordo è stata organizzata senza invitare le vittime di allora: gli ebrei. Carrine Sjöberg, capo della comunità ebraica, è rimasta scioccata quando ha saputo che gli ebrei non erano stati chiamati. Jan Hägglund del partito socialista Arbetarpartiet ha detto che non avrebbe potuto garantire la loro "sicurezza". Secondo Sjöberg, invece, è stata una decisione politica: "La vera ragione era che volevano che l'evento si concentrasse sui rifugiati musulmani. Ai miei occhi, si tratta di una distorsione storica scandalosa. Si ignora la memoria della Shoah". La conferma arriva dallo stesso Hägglund, che ha dichiarato ai media svedesi: "Negli anni precedenti, abbiamo avuto bandiere palestinesi e striscioni dove la bandiera israeliana è stata identificata con una svastica. La comunità ebraica non è stata invitata perché abbiamo pensato che potesse essere a disagio". Ad Amsterdam, al ricordo della Kristallnacht indetto dalla piattaforma "Fermiamo il razzismo" che organizza queste commemorazioni dal 1992, è intervenuta la parlamentare arabo-israeliana Haneen Zoabi, che ha detto: "Oggi, quando le chiese e le case palestinesi vengono bruciate, le persone sono bruciate vive, la maggioranza degli israeliani rimane in silenzio". La commemorazione è stata interrotta dalla protesta dei membri della comunità ebraica olandese che hanno suonato lo shofar, il corno della tradizione, per interrompere il discorso di Zoabi.
   Ma il caso più grave ha avuto luogo a Monaco di Baviera, dove il comune ha concesso di celebrare la Kristallnacht con una giornata dedicata al boicottaggio di Israele. Il sindaco socialdemocratico, Dieter Reiter, ha concesso la sala conferenze Gasteig al boicottaggio, mentre Ilse Aigner, ministro dell'Economia della Baviera, volava a Teheran ad aprire un ufficio per l'interscambio commerciale con gli ayatollah iraniani. Durissima Charlotte Knobloch, sopravvissuta all'Olocausto che guida la comunità ebraica di Monaco di Baviera: "E' il motto nazista aggiornato a 'non comprate dallo stato ebraico'". Efraim Zuroff del Centro Wiesenthal ritiene che sia ormai un problema endemico della coscienza tedesca. "L'ironia è che si svolge alla vigilia della Notte dei cristalli". E' anche la grande ipocrisia di usare il ricordo degli ebrei morti come alibi per attaccare gli ebrei vivi e l'erede dell'Olocausto, Israele.

(Il Foglio, 11 novembre 2015)


Rohani in Italia, Israele avverte: "Renzi rispetti i suoi impegni"

Il governo israeliano: "Sia coerente con il discorso tenuto alla Knesset". Le preoccupazioni su Olocausto, diritti umani e guerra in Siria.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - «Ci aspettiamo coerenza sull'Iran»: è il messaggio che il governo israeliano ha recapitato a Palazzo Chigi in vista dell'imminente vista in Italia del presidente Hassan Rohani. La scelta del premier Matteo Renzi di accogliere Rohani non viene apertamente contestata nelle comunicazioni diplomatiche arrivate da Gerusalemme negli ultimi giorni ma si esprime l'augurio che Palazzo Chigi colga l'occasione per esprimergli posizioni «coerenti con l'intervento fatto dal presidente del Consiglio davanti alla Knesset» in occasione della visita di fine luglio.
  Sono fonti diplomatiche israeliane a sottolineare che per «coerenza» si intende «l'auspicio che le più alte cariche istituzionali italiane facciano presente a Rohani la necessità di riconoscere l'esistenza dello Stato di Israele, di cessare di sostenere il terrorismo e promuovere la destabilizzazione in Medio Oriente, di cessare di negare l'Olocausto di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti e di rispettare i diritti umani».

 I rapporti personali
  I rapporti personali e politici fra Netanyahu e Renzi non potrebbero essere più stretti ed è proprio in tale cornice che Gerusalemme ha fatto conoscere a Roma l' «attesa» per i contenuti della visita del presidente della Repubblica islamica dell'Iran. Poiché si tratta della prima visita in Europa di Rohani dopo l'intesa di Vienna sul nucleare, Israele è convinta che l'Italia può «dare l'esempio ad altri Paesi» sull'approccio da avere a Teheran.
  Nei due ultimi incontri fra Renzi e Netanyahu, a Gerusalemme e Firenze, entrambi scelsero il basso profilo sulle divergenze in merito all'intesa di Vienna ed anche ora il focus dei messaggi israeliani a Roma non è sul nucleare: «È importante che un Paese come l'Italia esprima a Rohani la necessità di riconoscere l'esistenza dello Stato ebraico - spiega una fonte diplomatica - rifacendosi a quanto disse Renzi alla Knesset» in merito al fatto che «Israele non ha il diritto ma il dovere di esistere» mentre Teheran «lo nega in ogni occasione».

 Basi sul Mediterraneo
  Ma non è tutto perché Yuval Steinitz, ministro dell'Energia e stretto collaboratore del premier, aggiunge un altro messaggio: «Non possiamo accettare che la Siria divenga una zona di insediamento di forze iraniane nel Mediterraneo». È quanto Netanyahu ha detto a Barack Obama, nell'incontro di lunedì alla Casa Bianca, e Steinitz, ex ministro dell'Intelligence, lo riformula alla volta dell'Europa: «Teheran ha già migliaia di soldati in Siria, vuole sfruttare la guerra civile per pilotare una soluzione che gli consenta di trasformarla in una base per disporre, a Tartus e Latakia, di porti nel Mediterraneo ma ciò significa una minaccia diretta non solo per Israele e i sunniti ma per l'intera Europa».
  Poiché il negoziato sulla Siria accelera, Israele fa presente - a Washington come a Roma - la «propria posizione sul futuro del Paese» ovvero «Teheran deve cessare intromissioni nei Paesi della regione perché generano instabilità, terrorismo e guerra». Alti funzionari israeliani sottolineano che «questi messaggi all'Italia sono stati formulati con chiarezza».

(La Stampa, 11 novembre 2015)


Grazie Obama

Riceviamo da uno dei nostri lettori:

Grazie Obama per l'aumento di 1,9 miliardi di dollari in armamenti, ma la nostra speranza è che novembre 2016 arrivi presto in modo che tu possa uscire di scena e che tu possa continuare la tua giusta battaglia sul clima è sulla salvaguardia del nostro pianeta e ti veda protagonista nei prossimi anni, ma la politica estera, la geopolitica non è tuo pane, hai dimostrato una impreparazione ma soprattutto un'avversione verso Israele senza pari, che tu esca di scena, è l'unica notizia positiva per i prossimi mesi per chi ama Israele. Di positivo che hai fatto per Israele e il suo popolo? aver aumentato, in questi giorni da 3,1 a 5 miliardi di dollari gli aiuti americani verso Israele, questa somma che dovrà essere spesa per buona parte in tecnologia militare negli Stati Uniti, servirà all'Aviazione, all'esercito Marina e servizi di sicurezza vari ad essere ancora più preparati e tecnologicamente avanzati contro stati e soggetti canaglia del Medio Oriente, alla fine un grazie ad Obama glielo dobbiamo pur dare!!!
Angelo Micheletti
Pescara

(Notizie su Israele, 11 novembre 2015)


Il ministro della difesa di Israele annuncia il richiamo riservisti

 
Il Ministro della Difesa israeliano, Moshe Yaalon
GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Moshe Ya'alon, ha dichiarato oggi la volontà di richiamare i riservisti dell'esercito a partire dall'inizio del 2016 al fine di aumentare la sicurezza dei cittadini israeliani di fronte all'ondata di attacchi da parte dei palestinesi. Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano "Jerusalem Post", Ya'alon ha sottolineato che la situazione attuale potrebbe continuare ancora per molto tempo. "Tutti gli attacchi sono stati effettuati da singole persone", ha dichiarato il ministro, secondo cui anche se al momento nessuno degli attacchi è imputabile ad una singola organizzazione palestinese non è escluso che tale situazione possa mutare in futuro. "Un'azione più significativa è una possibilità", ha avvertito Ya'alon, ricordando che Hamas e altre organizzazioni stanno cercando di organizzare sparatorie e attentati in Cisgiordania e in Israele, ma hanno finora fallito grazie al lavoro dell'intelligence israeliana. "Quindi per il momento ci ritroviamo con attacchi condotti da lupi solitari". Ya'alon ha ricordato che l'attuale ondata di terrorismo è iniziata lo scorso 11 settembre dopo il tentativo da parte di manifestanti palestinesi di impedire la visita della Spianata delle Moschee (Monte del Tempio per gli ebrei) a cittadini di religione ebraica, lanciando contro di loro pietre e bombe molotov. Il ministro della Difesa ha ribadito che Israele non sta mutando lo status quo nel sulla Spianata delle Moschee, tesi utilizzata dai palestinesi per giustificare l'attuale ondata di tensione e violenza.
  Il responsabile della difesa di Israele ha riconosciuto gli sforzi dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) e del presidente Mahmoud Abbas nell'attenuare l'incitamento all'odio, mossa che però non sarebbe sufficiente dato che ormai la popolazione si indottrina sui siti internet. "Immagini di omicidi promossi dallo Stato islamico in Iraq e Siria stanno profondamente influenzando i giovani palestinesi", ha sottolineato Ya'alon, denunciando inoltre la natura ideologica del sistema educativo palestinese che non preparerebbe le nuove generazioni alla coesistenza pacifica. Parlando ai media il ministro ha dichiarato che per il momento Israele ha evitato di imporre una chiusura della Cisgiordania: "Stiamo salvaguardando la routine economica per i palestinesi, questo è, naturalmente, il nostro interesse". Ya'alon ha inoltre precisato come nonostante il clima di tensione, Hamas continui a mantenere il cessate il fuoco grazie soprattutto al sistema di deterrenza israeliana. Grazie a tale situazione tra gli 800 e 900 camion provenienti da Israele entrano nella Striscia di Gaza ogni giorno attraverso il valico di Kerem Shalom trasportando merci e materiali per la ricostruzione. Il ministro ha inoltre fatto notare che responsabile del lancio di razzi avvenuto in questi giorni è una piccola organizzazione salafita, che avrebbe compiuto il gesto dopo una serie di arresti compiuti dal regime di Hamas. Per Ya'alon Israele continua a ritenere Hamas responsabile di tutti gli incidenti derivanti dalla Striscia di Gaza, ed è per questo motivo che l'aviazione ha condotto un raid contro alcuni obiettivi legati al gruppo islamista.
  "È stata creata una situazione in cui Hamas non ha alcun interesse a dare il via ad un'escalation a Gaza, ma è invece interessata a scatenare violenze a Gerusalemme, in Giudea e Samaria", ha notato Ya'alon. Infatti per il ministro "Hamas non è d'accordo con le dimostrazioni degli abitanti di Gaza al confine con Israele, anche se le tollera, e inoltre non condivide il lancio di razzi e proiettili contro le forze di sicurezza israeliane", ma al momento il governo israeliano starebbe lavorando anche per evitare questi incidenti. In ultima analisi per il ministro della Difesa la politica di Israele resta quella che prevede la punizione dei terroristi, permettendo alla popolazione palestinese di vivere la sua vita con dignità. Ya'alon ha espresso i suoi dubbi sulla possibilità di raggiungere un accordo di pace fra Israele e l'Anp, assicurando però che il governo si asterrà da atti che possano minare un eventuale negoziato in futuro.

(Agenzia Nova, 10 novembre 2015)


Sottomarino soccorso da 300 militari: super-esercitazione italo-israeliana nel Mediterraneo

Il maggiore Hermon: «Abbiamo simulato un incidente simile a quello del Kursk del 2000».

GERUSALEMME - Marinai italiani soccorrono un sottomarino israeliano in avaria a tremila metri di profondità sui fondali del Mar Mediterraneo: è l'esercitazione avvenuta nelle acque di Haifa con la partecipazione di oltre 300 militari di entrambi i Paesi. «La preparazione ha preso molti mesi - spiega il maggiore Ben Hermon, comandante israeliano dell'esercitazione - ed abbiamo simulato un incidente simile a quello del Kursk nel 2000, per poterlo prevenire nel Mediterraneo».
Il "Kursk" è il sottomarino russo che, bloccato sui fondali del Mare di Barents, affondò con i suoi 118 uomini di equipaggio. I marinai della nave "Anteo" hanno sperimentato su un "Dolphin" israeliano due possibili tipi di soccorso per fronteggiare simili incidenti: calare in profondità un mini-sub V-10 capace di attaccarsi al portello del sottomarino e far uscire chi vi si trova intrappolato oppure una "campana di salvataggio", allo stesso fine.
«Il V-10 è un sistema che assomiglia all'attracco nello spazio della navicelle alla Stazione orbitante internazionale - spiega Hermon - gli italiani sono maestri in questa tecnica e l'abbiamo testata con successo». L'Italia non è l'unica nazione Nato a disporre di mini-sub "V-10" ma la Marina israeliana ha scelto il nostro Paese per l'esercitazione «per due motivi», conclude Hermon, ovvero «la vicinanza geografica e le similitudini nell'approccio al mare».

(La Stampa, 10 novembre 2015)


Iran: riceveremo S-300 russi entro la fine del 2015

MOSCA - Teheran riceverà i missili russi S-300 per la difesa aerea entro la fine del 2015, secondo l'iraniana PressTV. Il canale cita il ministro della Difesa iraniano Hossein Dehqan. Il contratto per fornire sistemi di difesa aerea S-300 all'Iran è entrato in vigore ieri, dopo anni di contese dovute principalmente all'embargo contro Teheran, che l'intesa sul nucleare promette ora di allentare sensibilmente.
Il passo, a suo modo storico, è stato annunciato lunedì dal numero uno della compagnia russa statale Rostec Sergei Chemezov al Dubai Airshow-2015. "Il contratto per la consegna degli S-300 all'Iran non è stato solo firmato dalle parti, ma è già entrato in vigore", ha detto, annunciando inoltre che l'Arabia Saudita ha mostrato interesse per i più recenti sistemi di difesa aerea russi S-400, ma finora soltanto la Cina ha firmato per aggiudicarseli.
Quanto a Mosca e Teheran, l'affare del valore di 800 milioni di dollari per gli S-300, risale al 2007. Numerosi strascichi, dovuti alle sanzioni Onu contro l'Iran avevano provocato ritardi e poi nel 2010 la sospensione da parte russa. Finchè nel 2011, l'Iran si è rivolto alla Corte arbitrale di Ginevra, citando una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Inoltre Teheran intende concludere a una riunione della commissione intergovernativa russo-iraniana il 12 novembre circa sei accordi su settore bancario e minerario, agro-alimentare e visti, in base a quanto dichiarato dal presidente di Asadullah Asgaroladi dell'Iran-Russia Business Council.
L'Iran si è impegnata a ritirare le sue accuse in tribunale contro la Russia per la mancata consegna non appena saranno soddisfatte le fasi iniziali del contratto, secondo Chemezov. Il presidente russo Vladimir Putin ha revocato il divieto di fornitura degli S-300 nel mese di aprile 2015, poco dopo che il gruppo P5 + 1 dei negoziatori internazionali e l'Iran ha raggiunto un primo accordo, che prospettava la revoca di tutte le sanzioni economiche contro Teheran, in cambio della promessa di garantire che tutte le ricerche nucleari nel Paese saranno per scopi pacifici. Poi, a luglio, l'intesa definitiva.

(askanews, 10 novembre 2015)


A Bari il primo consolato di Israele

Luigi de Santis, 31 anni, è da oggi il più giovane console.

BARI - Per la prima volta in Italia lo Stato d'Israele individua un console onorario, punto di riferimento per gli israeliani nel nuovo Posto Consolare che sarà aperto a Bari:la scelta è ricaduta su Luigi De Santis,31 anni, presidente Gruppo Giovani imprenditori edili Ance Bari e Bat e fondatore della delegazione barese dei Giovani Fondo Ambiente Italiano. De Santis è da oggi il più giovane console onorario di uno Stato straniero nominato in Italia.E' stato individuato dall'Ambasciatore d'Israele Naor Gilon.

(ANSA, 10 novembre 2015)


Budapest, alla scoperta della metropoli ebraica

Un viaggio a Pest, nel VII distretto della capitale ungherese, dove nell'Ottocento vivevano duecentomila israeliti. Tra le sinagoghe più grandi d'Europa, edifici ottocenteschi, botteghe e ristoranti kosher e cortili nascosti.

di Anna Maria De Luca

 
Nel cuore di Pest, tra via Kiràly e via Ràkóczi, tra sinagoghe, caffè, negozi kosher e musei risuonano i ritmi klezmer e l'intensa musica popolare ebraica. Arricchita dagli antichi folclori magiari, bulgari, boemi e transilvani, racconta il presente e il passato di una delle più grandi comunità ebraiche d'Europa. E'un'atmosfera di altri tempi, un viaggio che inizia nel Trecento - antichi documenti attestano una sinagoga nel 1307 - e continua nella quotidianità delle oltre centomila persone che vivono nella Budapest ebraica, nei profumi di Dob utca (al Caffè Spinoza, ogni settimana, nel corso di performances klezmer locali, vengono serviti piatti della antica tradizione ebraica) e dei tanti piccoli ristoranti kosher di via Kazinczy.
   Il VII Distretto rispecchia nel suo elegante quartiere residenziale lo sviluppo industriale promosso dagli ebrei. Nel 1873, infatti, dopo l'unione di Buda, Pest e Óbuda, la comunità ebraica contava duecentomila persone e ben centoventicinque sinagoghe. Nel 1900 il 25 per cento della popolazione apparteneva alla comunità. E' dunque naturale che sia qui la sinagoga più grande d'Europa, terza al mondo dopo quelle di New York e Gerusalemme: la monumentale Dohàny, (dal nome della strada in cui si trova) costruita tra il 1854-59 su progetto di Ludwing Förster e restaurata negli anni Novanta. Stile bizantino-moresco, con mattoni colorati e decorazioni in ceramica all'esterno, sormontati da due alte torri (43 metri) con cupole a cipolla. Non meno spettacolare è l'interno, ripartito in gallerie a due piani in legno (una per gli uomini, una per le donne), con vetrate artistiche e ricche decorazioni della volta.
   Il nazismo, come noto, privò la comunità ebraica ungherese di ben seicentomila persone. Una storia ben raccontata nel Museo Ebraico, che conserva una ricca collezione di oggetti religiosi e di uso quotidiano degli Ebrei d'Ungheria: la sala della Shoah, attraverso immagini e testi, ripercorre l'eccidio della comunità ungherese. Nel giardino alle spalle della Grande Sinagoga riposano migliaia di ebrei morti nel ghetto durante l'inverno 1944-45 e qui si trova il famoso albero della vita, scultura di Imre Varga raffigurante un salice piangente sulle cui foglie è impresso il nome di quei martiri. Tra le molte memorie della tragedia ebraica, una delle più toccanti resta il monumento "Scarpe sul Danubio" che allinea sessanta paia di scarpe di bronzo sul Lungodanubio, vicino al Parlamento, per ben 40 metri, in memoria delle persone fucilate sul fiume nel 1944-45: le costrinsero a camminare per circa due chilometri a piedi sulla neve, completamente nude, legate per i polsi a due a due, le fecero inginocchiare sulla riva e poi le uccisero con un colpo alla nuca.
   Provate a seguire le tappe della Budapest di Giorgio Perlasca, l'uomo che nell'inverno del 1944-1945 riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di religione ebraica. Aveva l'ufficio al sesto piano dell'Hotel Astoria ma abitava alla Kék Duna Pànzió. In quel periodo, le case spagnole raccoglievano circa tremila persone protette e si trovavano a Légràdy Kàroly utca 25-33-44, Pannónia utca 44- 48, Nàvay Lajos utca 4, Fönix utca 5, Szent Istvàn Park 35. Ora il suo nome si trova a Gerusalemme, tra i Giusti fra le Nazioni, e un albero a suo ricordo è piantato sulle colline che circondano il Museo dello Yad Vashem. All'hotel New York sono state girate molte scene del film "Perlasca".

(la Repubblica, 10 novembre 2015)


"Ritrovare Gerusalemme a Palermo": passeggiata nella Giudecca

Ad organizzarla è l'associazione Archikromie.

Domenica 15 novembre dalle 9:30 sarà possibile essere guidati in un percorso nella Giudecca di Palermo.
Il raduno è previsto alle 9:30 a piazza Casa Professa. Il percorso prenderà avvio da piazza Casa Professa in compagnia dell'architetto Francesca Aiello che farà una rapida inquadratura sulla tipologia del segno-simbolo del quartiere ebraico di Palermo. Si percorrerà la Mesquita e la Guzzetta, si parlerà del cibo kasher, dell'antica sinagoga descritta da Obadia de Bertinoro, del bagno rituale, della shechitah, del significato del tempio di Gerusalemme per il popolo ebraico e di ciò che nei simboli troviamo ancora oggi nelle chiese cristiane della città.
A conclusione, sul piano di Palazzo Marchesi, sarà declamata una significativa sintesi dell'editto di espulsione degli Ebrei dalla Sicilia nella versione ufficiale siciliana promulgata nella città di Palermo con pubblico bando e comandamento il 18 giugno 1492.

(La Gazzetta Palermitana, 10 novembre 2015)


Hamas: "Sosterremo Intifada col nostro sangue"

Hamas inneggia alla Intifada dei coltelli che sta sconvolgendo Gerusalemme e la Giudea-Samaria e ha già provocato morti tra israeliani e palestinesi. Secondo Fathi Hammad, uno dei boss dell'Hamastan, "questa intifada continuerà fino alla liberazione di Gerusalemme, della Cisgiordania e della intera Palestina. Sosterremo l'intifada di Gerusalemme col nostro lavoro e col nostro sangue". E ancora frasi del tipo "Allah è grande e il coltello vincerà". Altri dirigenti del gruppo terrorista hanno inneggiato a una intifada armata che vada oltre i coltelli, spiegando che bisogna rispondere con le armi agli israeliani. Il rischio e' una nuova campagna di attacchi bomba e kamikaze come nelle pagine più buie del conflitto israelo-palestinese. Di recente, l'Isis ha pubblicato sul web un video intitolato "Messaggio ai Mujaheddin di Gerusalemme, decapitate gli ebrei".

(l'Occidentale, 10 novembre 2015)


Donna palestinese tenta di accoltellare una guardia israeliana

Da quando lo scorso settembre è riesplosa la violenza tra le due comunità a Gerusalemme, il bilancio dei morti è di 11 israeliani (uccisi quasi tutti a coltellate) e di 74 palestinesi.

di Adriano Palazzolo

Le autorità israeliane hanno rilasciato un video dove si può vedere una donna palestinese che cerca di accoltellare una guardia israeliana in pieno giorno.
L'attacco è avvenuto all'ingresso di una filiale bancaria della West Bank a Beitar Illit, a sud di Gerusalemme.
Nel filmato si vede come, mentre la guardia è intenta a controllare i documenti della donna, questa continua a cercare qualcosa all'interno della propria borsa. In un attimo di distrazione, mentre l'uomo non la sta osservando, la palestinese tira fuori un coltello e tenta un attacco.

Tentato accollamento in pieno giorno

Fortunatamente l'uomo è riuscito a schivare il fendente, mentre la donna è stata ferita con un colpo di arma da fuoco per poi essere trasferita in ospedale.

(il Giornale, 10 novembre 2015)


«L'Europa asservita all'islam cadrà come Costantinopoli»

La studiosa Bat Ye'or denuncia la «dhimmitudine» del Continente: una sottomissione alla fede musulmana, che ha portato a legittimare il jihad e a collaborare coi movimenti radicali. La Francia, seguita dalla Germania, si è alleata col mondo arabo

di
Riccardo Pelliccetti

L'Europa rischia di cadere come l'impero bizantino, viviamo già in uno stato di dhimmitudine e la storia si sta ripetendo». Bat Ye' or non nutre dubbi sulla minaccia che incombe. Scrittrice e studiosa di islam, cacciata dall'Egitto nel 1957 perché ebrea, oggi vive in Svizzera. Più del suo nome sono i libri che ha scritto a essere famosi, nei quali ha coniato i termini Eurabia e dhimmitudine, cioè la sottomissione all'islam per essere protetti e tollerati, che hanno ispirato anche ariana Fallaci. Nel suo ultimo libro Comprendere Eurabia (Lindau) sottolinea l'islamizzazione dell'Europa e i rischi che stiamo correndo.

- Lei descrive un'Europa anticristiana, antisemita, antioccidentale e fa risalire questa politica alla fine degli anni '60.
  «È stata la Francia a intraprendere questo cammino seguita dalla Germania. L'obiettivo era allearsi con il mondo arabo: a condurre il gioco erano quelli che avevano collaborato con il nazismo e che quindi odiavano gli ebrei. Lo dimostrano le loro dichiarazioni durante gli incontri e le conferenze nei paesi arabi, che ho trovato riprodotte nelle pubblicazioni della Lega Araba ma che non sono mai uscite sui media occidentali».

- Che cosa ha spinto i leader europei a imboccare questa strada?
  
«Cercavano di rappacificarsi con il mondo arabo dopo la colonizzazione e allo stesso tempo avevano bisogno di stabilità e sicurezza per ottenere le risorse energetiche. Così politici e intellettuali hanno influenzato la politica europea, accettando le condizioni della Lega araba: il riconoscimento dell'Olp di Arafat, quindi la legittimazione del terrorismo palestinese e del jihad contro Israele».

- I musulmani possono integrarsi in paesi non musulmani?
  «Quelli che vogliono possono farlo e lo hanno fatto, ma il Corano lo vieta esplicitamente. Nell'islam c'è odio e rigetto verso le altre religioni, concetto inesistente nel buddismo, cristianesimo, induismo, ebraismo ... Poi, in Occidente le istituzioni e le leggi sono create dall'uomo mentre per i musulmani la fonte del diritto sta nella sharia, perché è dettata da Allah. Ecco perché i governi europei hanno scelto il multiculturalismo: consente a tutti di vivere in un paese europeo senza integrarsi».

- Siamo passati dall'Olp ad Al Qaida fino all'Isis. 40 anni di terrorismo islamico e l'atteggiamento dell'Europa non è cambiato. Non ha compreso la minaccia o fa finta di non capire?
  
«La capiscono, la conoscono meglio di noi, per questo hanno scelto la dhimmitudine e collaborano con i musulmani radicali invece dei moderati. L'Europa ha scelto di appoggiare l'integralismo, dai terroristi palestinesi in poi, sperando di avere protezione. Così non abbiamo aiutato i musulmani riformisti. Un grave errore, anzi, un crimine».

- All'attuale destabilizzazione del Mediterraneo ha contribuito l'appoggio dell'Occidente alle primavere arabe. La folle idea di esportare la democrazia si è rivelata un boomerang?
  
«America ed Europa volevano appoggiare i Fratelli musulmani. Credevano che mettendoli al potere avrebbero potuto controllarli ed evitare il jihadismo. Obama pensava di farsi nuovi amici, ma ha fallito».

- La Russia ha rotto gli indugi scendendo in campo contro l'Isis. Perché Obama non collabora con Mosca nella lotta al Califfato e continua ad affidarsi ad alleati ambigui come l'Arabia Saudita e la Turchia?
  
«Obama si affida ad alleati ambigui perché ha adottato la politica dei Fratelli musulmani e si è circondato di consiglieri che condividono questa politica. Lui ha frequentato anche delle scuole islamiche e non ha la sensibilità di un cristiano ma di un musulmano. L'ambizione del mondo islamico è che riprenda la lotta tra Occidente e Russia. Ci sono documenti che rivelano questo sentimento: la guerra fredda è stata un periodo d'oro per lo sviluppo dell'islamismo. L'Occidente lo ha incoraggiato con la scusa di combattere l'ateismo comunista. Dopo la caduta del Muro, il mondo islamico ha spinto e continua a spingere per dividere ancora i due blocchi».

- Lei sostiene che in Europa è stata tessuta una ragnatela che influenza la politica, il mondo dell'informazione, la cultura, le università. Come ci sono riusciti?
  
«Questa politica è stata imposta dalla Commissione europea con la propaganda, dalla tv al cinema, e su indicazione della fondazione Anna Lindh che controlla tutto ciò che si scrive in Europa sul mondo islamico. La fondazione Anna Lindh è la rete delle reti. Quelli che parlano del jihad sono isolati, rischiano il posto, con la minacce, con la paura. Oggi possiamo parlare di pensiero unico. La cultura ha bisogno di libertà e non c'è totale libertà di pensare e di scrivere. I nemici del jihad e gli amici di Israele sono stati finora molto coraggiosi a resistere nonostante le umiliazioni, le privazioni e le enormi pressioni della politica europea».

- Di questo passo l'Europa soccomberà.
  
«Com' è accaduto all'Impero bizantino, che è stato islamizzato dall'interno e dall'esterno. Da un lato, i continui attacchi ai villaggi cristiani, con saccheggi e uccisioni: una sorta di terrorismo che ha creato un generale senso di insicurezza spingendo Costantinopoli a pagare un alto tributo ai sultani ottomani per evitare il jihad. Così facendo hanno svuotato le casse, privandosi delle risorse per mantenere un esercito efficiente. Dall'altro lato, la corruzione delle élites bizantine, che promuovevano l'islamismo nell'impero, e le rivalità tra i principi bizantini, che chiedevano sostegno ai turchi per combattere gli avversari interni ed erano poi costretti a ripagarli».

(il Giornale, 10 novembre 2015)


Usa-Israele: Netanyahu, necessario garantire il rispetto dell'accordo con l'Iran

Il contrasto sull'Iran resta forte, ma per la prima volta il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato della necessità di garantire l'applicazione dell'accordo con Teheran.
"C'è un interesse comune a impedire che l''Iran violi l'intesa", ha detto Netanyahu dopo l'incontro con il presidente statunitense Barack Obama.
"Credo siano necessarie tre cose - ha affermato il premier israeliano ospite del think tank American Enterprise Institute - mantenere la pressione sull'Iran, sostenere gli alleati, questo alleato innanzitutto e distruggere la rete del terrore. Ecco quanto ho da dire sull'Iran".
Netanyahu e Obama si sono incontrati per la prima volta dopo la firma dell'accordo sul nucleare iraniano, considerato "un errore storico" dal premier israeliano, che a marzo, in un discorso al congresso statunitense, aveva duramente criticato Obama.

(euronews, 10 novembre 2015)

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Incontro d'affari fra Obama e Bibi. Un abisso ormai li separa

Obama ha gettato ponti all'islam politico, mentre per Netanyahu è la causa dei mali. Sull'Iran non c'è compromesso". Parla il columnist Barnea.

di Giulio Meotti

ROMA - Si sono sempre ricambiati il favore. Lo scorso febbraio, a rafforzare la campagna elettorale del Labour israeliano contro Benjamin Netanyahu, a Gerusalemme arrivò Jeremy Bird, già direttore della campagna di Barack Obama. Domenica "Bibi" è arrivato a Washington per incontrare dopo un anno il presidente americano e ha portato in dote il suo nuovo media advisor, Ran Baratz, che prima della nomina (ora traballante) definì Obama "un antisemita" e John Kerry "un comico da cabaret". Susan Rice, consigliere per la Sicurezza della Casa Bianca, lunedì al New York Times ha detto che Netanyahu ha usato ogni parola per descrivere Obama, "tranne la parola 'N'". Negro. "A pain in the ass", rompicoglioni, è il modo in cui Obama ha definito Netanyahu, oltre a "chickenshit", cagasotto. Circola, infine, fra gli amici di Bibi, una battuta per connotare la differenza con Obama sulle rispettive gioventù: "Obama smoked drugs while Netanyahu smoked terrorists".
 "Netanyahu a Washington è andato per un incontro d'affari", dice al Foglio Nahum Barnea, settantenne decano del giornalismo israeliano. "Obama pagherà il debito ai senatori democratici in cambio dei voti per il deal con l'Iran e che comprende aiuti militari a Israele. Netanyahu aveva promesso alla Casa Bianca che il discorso contro l'accordo sull'Iran all'Onu sarebbe stato l'ultimo e ha mantenuto la parola". Cosa c'è nella "shopping list" di Israele del valore di tre miliardi di dollari? Uno squadrone di caccia F-15 e gli Osprey V-22, bestioni volanti della Bell Boeing che atterrano come elicotteri, si muovono come aerei e possono trasportare i commando israeliani in Iran. Mezzi che Obama rifiutò a Gerusalemme nel 2012, quando Netanyahu fu sul punto di lanciare uno strike. Ma per Barnea, resta un abisso fra i due. "Politico: con l'intervento di Netanyahu nella campagna di Mitt Romney. Bibi lo accolse come vincitore, anziché come candidato. Obama vide in Bibi un 'agente repubblicano'". Strategico: "Per Obama, il deal atomico è un successo storico, per Netanyahu l'Iran è come il nazismo. Non può esserci compromesso. La relazione fra i due ha superato il punto di non ritorno. E' un disprezzo reciproco: per Netanyahu, Obama è un disastro per Israele; per Obama, Netanyahu pure". Culturale: "Obama ha guardato con comprensione a un miliardo e mezzo di musulmani, gettando ponti all'islam, mentre per Netanyahu l'islam politico è la causa di tutti i mali, dall'Isis all'Iran".

 Il prof. Steinberg: "Hobbes e Kant li dividono"
  Secondo il professor Gerald Steinberg, docente di Scienze politiche all'Università Bar Ilan di Tel Aviv, Netanyahu viene da Marte mentre Obama da Venere. "Obama ha sempre rimandato l'uso della forza fino a che non era troppo tardi per evitare il disastro, come in Siria", dice Steinberg al Foglio.
 "La sua visione politica si basa sul mito della comprensione e della compassione come soluzione dei problemi. Lo disse nel discorso al Cairo nel 2009 e non è cambiato. Netanyahu invece è un realista politico per il quale il conflitto e il terrore non sono legati alla fiducia. Netanyahu è un pessimista che vede i pericoli di ciò che Thomas Hobbes ha descritto come 'la guerra di tutti contro tutti' nell'anarchia politica internazionale. La sopravvivenza di Israele dipende da un potente esercito in grado di sconfiggere tutte le minacce. Obama è un democratico liberale come Kant. Ha posto fine al ruolo militare degli Stati Uniti in Iraq. Obama punta sui negoziati, mentre Netanyahu ha detto che 'le parole da sole non fermeranno l'Iran'. Il realismo politico spiega anche la prudenza di Netanyahu sui palestinesi". Una volta Netanyahu scandì dieci parole a un diplomatico americano che gettano luce sul cuore dello scontro anche con Obama: "Tu vivi a Chevy Chase, non giocare col nostro futuro".

(Il Foglio, 10 novembre 2015)


Gli Stati Uniti si allontanano in modo forse irreversibile da Israele e si avviano a diventare irrivelanti nella scena politica internazionale. In accordo con le profezie bibliche. M.C.


Blitz da film ad Aleppo: le forze speciali d'Israele salvano gli ultimi ebrei

Presi dalle case e portati in auto in Turchia. L'azione coordinata da un uomo d'affari.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Gli ultimi ebrei di Aleppo sono fuggiti con una spericolata operazione top secret coordinata da un uomo d'affari israelo-americano. E il «Jewish Chronicle» londinese a svelare la vicenda, avvenuta all'inizio dell'anno, che ruota attorno a Moti Kahana, tycoon americano nato a Gerusalemme con forti legami con i ribelli anti-Assad.
  Kahana viene a sapere che ad Aleppo vive ancora una famiglia ebraica - l'ultima dei «Halabi», una delle comunità più antiche della Diaspora - composta da Mariam, un'anziana donna di 88 anni, le figlie Sara e Gilda, il marito musulmano di Gilda, Khaled, e i loro tre bambini. Sono alcuni ribelli a far sapere a Kahana che i jihadisti di Isis hanno scoperto la loro esistenza e dunque rischiano il rapimento o la morte. Kahana riesce a mandare un messaggio alla famiglia sull'intenzione di soccorrerli ma loro reagiscono esprimendo paura. Il resto avviene quando un pulmino bianco si ferma davanti alla casa della famiglia di Mariam, scendono alcuni uomini e bussano forte alla loro porta. Sono le 12 in punto, l'ora della preghiera pomeridiana che coincide con una tregua de facto fra le fazioni che consente di muoversi in città. Mariam e gli altri aprono temendo il peggio. Gli viene detto «avete pochi minuti per fare le valigie e venire via» e quando salgono sul pulmino ricevono passaporti siriani nuovi di zecca.

 Verso Istanbul
  «Andiamo a New York», gli dice l'autista, iniziando un viaggio via terra verso il confine con la Turchia che dura 36 ore, attraversando zone di combattimento, disseminate di posti di blocco e cecchini. Vengono fermati da un gruppo islamico e al miliziano che controlla i documenti uno degli uomini del pulmino spiega che si tratta di «una famiglia di rifugiati che va verso Nord». Il miliziano gli crede, aprendogli la strada verso il confine, da dove raggiungono Istanbul dove Kahana li accoglie portandoli alla locale «Sochnut», l'Agenzia ebraica per l'immigrazione in Israele.
  L'intento è farli partire in fretta ma non tutto fila liscio: per Mariam e Sara non ci sono problemi e in pochi giorni raggiungono Ashkelon, dove oggi risiedono, mentre Gilda non può immigrare perché per sposare Khaled si è convertita all'Islam e dunque per lei l'immigrazione non può essere istantanea. Serve tempo per superare l'ostacolo ma Gilda e Khaled, dopo la partenza di Mariam e Sara, scelgono di tornare in Siria. E Kahana si scaglia contro l'Agenzia ebraica, accusandoli di «aver mandato tutto all'aria». Resta l'interrogativo sull'identità degli autori del blitz ad Aleppo: da New York a Gerusalemme si rincorrono le voci sulla partecipazione di «agenti segreti» e «truppe speciali» israeliane sovrapponendosi allo scenario di «contractors privati» assoldati dal tycoon. Protagonisti di una trama simile a un film d'azione.

(La Stampa, 10 novembre 2015)


Fiere di Parma porta 15 aziende a Kosherfest in Usa

 
PARMA - Fiere di Parma porta 15 aziende agroalimentari italiane alla 27esima edizione del Kosherfest, in programma domani e dopodomani presso il Centro Espositivo di Secaucus, nel New Jersey. Il Kosherfest, spiega una nota, e' la piu' importante fiera al mondo per i prodotti alimentari in possesso di certificazione Kosher e quest'anno vede la partecipazione di 325 espositori con la previsione di oltre 6.000 visitatori.
Fiere di Parma, nell'ambito di un progetto di promozione delle certificazioni agroalimentari del made-in-Italy promosso dal Ministero dello Sviluppo Economico, ha organizzato la presenza di Agribosco, Agromonte, Carioni Food & Health, Casa Vinicola Leuci, Del Verde, La Rustichella Tartufi, Miele Sant'Agata, Molino Pasini, Oleificio Gabro, Oleificio Speroni, Pallini, Pastificio Fabianelli, Societa' Agricola Bertinelli, Tradizioni Padane, Vivoo.
L'Azienda Agricola Bertinelli proporra' il suo Parmigiano Reggiano Kosher, la cui prima forma e' stata tagliata a fine ottobre in Expo, in un evento ospitato dal Padiglione di Israele con la partecipazione del Consorzio del Parmigiano Reggiano.
"Kosherfest rappresenta la porta di ingresso piu' importante per raggiungere il gruppo dei consumatori Kosher", spiega il Ceo Nicola Bertinelli. "Ringrazio quindi Fiere di Parma, che coordina questa partecipazione, e, per suo tramite, il Ministero dello Sviluppo Economico, promotore del progetto nell'ambito del quale si iscrive la nostra presenza a questa manifestazione: gli Usa sono un mercato chiave per il successo del nostro Parmigiano Reggiano Kosher. Cito semplicemente qualche dato: gli americani di fede ebraica sono 5,2 milioni e nei supermercati Usa sono presenti oltre 125mila prodotti Kosher. Ad acquistarli sono 12,1 milioni di consumatori: e non si tratta esclusivamente di ebrei osservanti. Circa 3 clienti su 5 comprano prodotti alimentari Kosher per ragioni salutistiche, perche' la certificazione kosher e' anche garanzia della qualita' e della salubrita' di un prodotto. Come Bertinelli, con i nostri formaggi Kosher puntiamo a consumatori sempre piu' esigenti e attenti alla qualita' di cio' che servono in tavola".

(Corriere della Sera, 9 novembre 2015)


Calcio - Campionato israeliano: duo in testa. Zahavi capocannoniere

Hapoel Be'er Sheva e Maccabi Tel-Aviv al comando in Israele. Vittoria per entrambe le squadre: i primi superano di misura l'Hapoel Haifa con una rete a dieci minuti dalla fine di Arbeitman. Ancora in gol Eran Zahavi per il Maccabi Tel-Aviv che vince 2-1 contro il Maccabi Netanya. Per l'ex Palermo nono gol in campionato e primo posto solitario nella classifica marcatori.
Classifica dopo 10 giornate:
Hapoel Be'er Sheva e Maccabi Tel-Aviv 22;
Beitar Gerusalemme 18;
Ironi Kiryat 15;
Hapoel Ra'anana e Bnei Yehuda 14;
Maccabi Petah Tikva e Hapoel Acre 13;
Bnei Sakhnin e Hapoel Tel-Aviv 12;
Hapoel Haifa 11;
Hapoel Kfar Saba 10;
Maccabi Haifa 9;
Maccabi Netanya 7.

(TUTTOmercatoWEB, 9 novembre 2015)


Tornino i discendenti degli ebrei scacciati

Cinque secoli dopo l'inquisizione in Spagna e Portogallo. Una legge che riguarda il nostro Sud.

di Maria Pia Scaltrito

La notizia è apparsa sulla stampa internazionale, mentre in Italia ha ottenuto rilievo soltanto su «Pagine Ebraiche», periodico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Eppure si tratta di un fatto storico notevole anche per l'Italia. Il ministero degli Esteri portoghese ha comunicato recentemente di aver concesso i primi tre passaporti ai discendenti degli ebrei espulsi nel 1492 dalla Spagna e nel 1496 dal Portogallo. In applicazione di una legge a dir poco straordinaria che il Portogallo ha emanato il 1 marzo scorso. Presto seguito dalla Spagna che ha completato un identico atto legislativo a giugno: a partire da questo mese di ottobre ed entro tre anni, Madrid restituirà la cittadinanza a chi ne farà richiesta e potrà dimostrare di discendere da quelle famiglie ebraiche cacciate dall'Inquisizione. Quella temibile che perfezionò in terra iberica fra il Tre-Quattrocento le idee medievali di «rana» e di «purezza di sangue». Per costruire un profilo di nobiltà e di casta al potere che doveva escludere proprio i mori e gli ebrei. Idee che cammineranno in Europa fino ad esplodere nel Novecento nel pensiero fascista e nazista.
   Tra le 200 domande giunte a Lisbona e le quasi 5000 giunte a Madrid da ventitré Paesi diversi, il primo beneficiario della «Legge del Ritorno» portoghese si chiama Alfonso Paredes Henriquez, panamense. Egli ha dimostrato di discendere da rabbi Eliah Abraham Lopez, spagnolo, e da Rachel Nunes da Fonseca, portoghese. Il suo nome ora, dopo cinque secoli, rientrerà con «onore e dignità» nella storia del Paese da cui la sua famiglia venne scacciata. I Parlamenti spagnolo e portoghese hanno ritenuto con questo atto di emendare una colpa gravissima di cui si sentivano macchiati da fine Quattrocento: l'espulsione dalla Penisola Iberica di circa 200.000 uomini, donne e bambini ebrei che non avevano voluto accettare il battesimo forzato.
   Ebbene, si dirà, ma perché questi atti coinvolgono anche l'Italia? Perché in quel fatale 31 marzo 1492, data dell'Editto di espulsione firmato all'Alhambra, la Sicilia e la Sardegna erano sotto il controllo dei sovrani spagnoli Ferdinando e Isabella. L'Editto fu reso pubblico il 18 giugno del 1492 a Palermo, il 28 settembre a Cagliari. A nulla valsero le preghiere della popolazione siciliana e dei notabili che spiegavano ai sovrani le perdite economiche e i disastri sociali che sarebbero giunti!
   Dalla sola Sicilia fuoriuscirono oltre 6300 famiglie che non vollero subire le acque del battesimo «in piedi»: un esodo, pare cronaca di oggi, dai 35 ai 50mila ebrei. Dove erano diretti costoro? La gran parte entrò nel Regno di Napoli, ossia nelle terre di Ferdinando I che aprì le frontiere e li accolse con magnanima visione.
   Non immaginando nessuno quello che di li a pochi decenni, nel 1541, il 31 di ottobre, sarebbe avvenuto. Quegli Spagnoli, che si erano già divorati come «bocche di cerbero» il Regno di Napoli, avrebbero terminato l'opera di pulizia religiosa iniziata in Spagna anche nel grande Meridione d'Italia. Non solo le famiglie ebraiche qui giunte dalla Spagna e dal Portogallo, ma anche le famiglie ebraiche italiane per diritto naturale, che dimoravano nel Sud Italia da sedici secoli, furono costrette alla scelta: o il battesimo o l'espulsione. Quel 31 ottobre 1541 taglia come lama affilata la civiltà e la storia ebraica nell'Italia Meridionale. Via i libri, via le accademie, via i poeti, via la più varia borghesia cittadina: una ricchezza materiale e immateriale che svuota il Sud. A vantaggio del feudo! Non si hanno ancora conteggi certi. Ai circa 50.000 ebrei italiani regnicoli, vanno aggiunti il doppio tra spagnoli e stranieri. Dove andarono? Molti restarono in Italia. A Nord. Scelsero Ferrara, Livorno, Venezia. Finanche Roma, sotto il mantello pesante dei papi che preparavano nuovi lacci (1555, il Ghetto di Roma). Altri preferirono Rodi, Corfù, Salonicco, Costantinopoli, Damasco, Gerusalemme, la Galilea.
   Anche l'Italia dunque ha, fra le tante, due o tre colpe precise. La più grave è l'aver eliminato la storia di questi sedici secoli di civiltà e storia ebraica italiana dai libri scolastici: conoscere la Shoah e il Novecento non basta. La seconda è nel debito contratto con i discendenti di quelle famiglie.
   Una proposta di legge omologa a quella spagnola e portoghese è stata depositata presso la Camera dei Deputati lo scorso luglio. II rabbino capo di Venezia Scialom Bahbout, già rabbino di Napoli e del Meridione, e la Federazione dei Comuni che ospitavano comunità ebraiche del Sud Italia ne hanno ispirato il disegno. Riusciranno i nostri deputati di Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna, Molise, Campania, Abruzzo, dopo un auspicabile viaggio nella storia sconosciuta del Sud ebraico, a farsi padri di questo atto di ammenda? A riportare onorevolmente «in patria» i figli di quegli antichi? Non basta dire che erano «fra-teli». Bisogna dire che sono italiani.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 9 novembre 2015)


"Brigata Ebraica, lezione per l'Europa"

di Adam Smulevich

 
Il cimitero militare di Piangipane
 
La cerimonia
Avrebbero potuto rimanere al di fuori del conflitto e astenersi dall'intervenire in quell'Europa che li aveva traditi e che stava perpetrando l'assassinio di milioni di fratelli. E invece agirono, impartendo al mondo una lezione di generosità e di altruismo.
   Cimitero di guerra alleato di Piangipane, Ravenna. Annuale appuntamento per rendere omaggio alla memoria dei caduti della Brigata Ebraica, il corpo combattentistico formato da oltre 5mila volontari giunta dall'allora Palestina mandataria che, agli ordini del brigadiere canadese Ernest Frank Benjamin e in affiancamento ai gruppi Cremona e Friuli, ebbe un ruolo decisivo nello sfondamento della Linea Gotica, costringendo l'esercito tedesco a retrocedere e aprendo la strada per la liberazione dell'Italia del Nord.
   "Oggi siamo qui per scolpire nei nostri cuori i nomi dei valorosi che caddero in battaglia e attraverso il loro ricordo rendere omaggio a tutti coloro che lottarono contro la barbarie. Questo - ha spiegato Renzo Gattegna, presidente UCEI - l'altissimo messaggio che ci perviene da questo cimitero, nel quale riposano soldati di tutte le nazionalità e di tutte le fedi religiose".
Presenti numerose delegazioni ebraiche locali. Da Ferrara il presidente Andrea Pesaro, il rav Luciano Caro, la Consigliera UCEI Eileen Cartoon. Da Bologna il presidente del museo ebraico Guido Ottolenghi e la Consigliera Ines Miriam Marach (presente anche per l'Adei). Da Verona il presidente Bruno Carmi e il rav Yosef Labi. Per l'ambasciata israeliana l'addetto militare Kobi Regev, con al fianco l'ex combattente della Brigata Avraham Yayin.
   "Siamo qui - ha proseguito Gattegna - anche e soprattutto per impedire che questi fatti storici cadano nell'oblio, pericolo sempre incombente come è stato dimostrato allorché alle manifestazioni in ricordo della Liberazione, il 25 aprile di ogni anno, la Brigata Ebraica è stata oggetto di inqualificabili offese e aggressioni da parte di alcuni manifestanti, per fortuna una esigua minoranza, che nulla sa della storia, della Resistenza e della Liberazione".
   Anche per questo, ha concluso il presidente dell'Unione, "siamo stati lieti di apprendere ed esprimiamo la più forte approvazione" alla proposta di legge portata avanti dai deputati del Parlamento Lia Quartapelle ed Emanuele Fiano, e sostenuta tra gli altri dall'onorevole Marco Di Maio, presente alla cerimonia, per onorare la memoria della Brigata attribuendole la medaglia d'oro al valore militare per la Resistenza.
   "L'Europa tutta ha un debito di riconoscenza verso la Brigata, le cui azioni ci dimostrano, al pari di quanto avvenuto con i Maccabei o con gli eroi del Ghetto di Varsavia, la necessità che si presenta talvolta nella Storia di prendere le armi contro iniquità e violenza", sottolinea rav Caro. Che poi aggiunge: "Se viviamo in democrazia lo dobbiamo anche a loro". La Consigliera UCEI Cartoon scandisce i nomi dei caduti, uno per uno, mentre una piccola bandiera con la Stella di Davide viene piantata vicino al luogo del loro riposo. Rav Yayin, al primo appuntamento pubblico dal giorno del suo insediamento, legge un salmo e invita all'impegno collettivo per il raggiungimento di pace e fratellanza tra gli esseri umani. "Ai reduci abbiamo fatto una promessa: non vi dimenticheremo", si commuove Romano Rossi dell'associazione Reduci del Gruppo di Combattimento Friuli. Mentre Martina Monti, 28enne assessore del Comune di Ravenna, dice: "Il testimone del ricordo passa a noi giovani. Dobbiamo essere all'altezza".

(moked, 9 novembre 2015)


Il pogrom della notte dei cristalli il 9 novembre 1938

di Giulia Mammoliti

Il 9 novembre 1938 andò in scena la notte dei cristalli (così denominata in segno di scherno visto che fa riferimento alle vetrine distrutte), un massacro antisemita che portò all'uccisione di circa 90 ebrei in tutta la Germania, alla distruzione di oltre 7500 negozi e di un centinaio di sinagoghe, senza contare che furono circa 30mila le persone deportate nei campi di concentramento. Ad innescare questa violenza contro gli ebrei fu la morte di Ernst von Rath, un diplomatico tedesco che si trovava nell'ambasciata tedesca parigina e al quale un ragazzo ebreo sparò.
   I primi attacchi iniziarono già il 7 novembre, ma quello fu solo l'inizio. La sera del 9 novembre Hitler incontrò diversi funzionari del partito per festeggiare il 9 novembre 1923 (Putsch di Monaco, tentativo colpo di Stato organizzato da Hitler e altri leader del Kampfbund che fallì) e intorno alle 22 Joseph Goebbels, ministro della Propaganda nazista, pronunciò un discorso in cui diede la colpa della morte diplomatico agli ebrei. Ma non si limitò a questo. Aggiunse che non avrebbe ostacolato eventuali azioni antisemite organizzate dal partito e così diede il via libera alle SA di mettere in atto il massacro contro la comunità ebraica. Una volta ricevuti gli ordini, i membri delle SA distrussero e incendiarono molte sinagoghe, saccheggiarono e distrussero negozi e appartamenti e ricorsero alla violenza (non mancarono casi di stupri) nei confronti degli ebrei che ebbero la sfortuna di ritrovarsi faccia a faccia con loro. Ufficialmente furono 91 le vittime - questo quanto scritto in una lettera inviata da Göring l'11 novembre 1938 -, ma si crede fossero molte di più.

(NewsGo.it, 9 novembre 2015)


L'Iran avrà i suoi S-300 entro dicembre, Israele pretende altri F-35

di Franco Iacch

L'Iran avrà i suoi S-300. I contratti con Mosca, sebbene ancora non formalmente ratificati, sono già in vigore. La notizia è stata ripresa dai principali organi di informazione russi.
"Uno dei più sofisticati sistemi antiaerei del mondo, giungerà in Iran con nove anni di ritardo". Il contratto da 800 milioni di dollari per cinque sistemi difensivi S-300 era stato siglato nel 2007. La fornitura fu poi congelata a seguito delle sanzioni imposte dalle Nazioni Unite alla Repubblica Islamica. Fornitura rimessa nuovamente in discussione dopo gli accordi sul nucleare siglato lo scorso aprile tra le potenze mondiali e l'Iran.
S-300
  Lo scorso agosto, commentando la vicenda 'S-300', il vice Ministro degli Esteri Mikhail Bogdanov, dava per certa la consegna dei sistemi antiaerei entro la fine dell'anno. L'accordo finale è stato siglato nelle ore scorse. Superati, quindi, anche "i dettagli tecnici" che fino a pochi mesi fa, impedivano la consegna dei sistemi S-300.
  La tempistica è comunque curiosa. L'accordo infatti, giunge poche ore prima l'incontro tra il primo ministro Benjamin Netanyahu ed il presidente degli Usa Barack Obama, a Washington, sul prossimo programma decennale di assistenza militare. Proprio Israele ha cercato, invano, di bloccare la vendita dei sistemi S-300. Il motivo è facilmente intuibile: una linea difensiva, schierata a ridosso degli impianti nucleari di Teheran (ritenuti i primi obiettivi in caso di attacco israeliano), provocherebbe quasi certamente delle pesanti perdite. Se gli S-300 dovessero entrare in possesso degli Hezbollah, la supremazia aerea regionale di Israele verrebbe messa in discussione.

 Gli S-300 iraniani
  Il missile 9M82M conosciuto come "Antey-2500", (nome in codice NATO SA-23 Gladiator \ Giant) è specificatamente progettato per la difesa tattica contro missili balistici a medio raggio o velivoli nemici. Può seguire fino a 100 bersagli, potendo ingaggiarne 12/24 ad una distanza di 200 chilometri (124 miglia) e ad altezza di 27 chilometri (circa 17 miglia). Il SA-23 è ritenuto immune alla maggior parte delle contromisure ECM occidentali con una tangenza operativa di trentamila metri. L'Antey, una volta messo in linea, non richiede manutenzione per almeno dieci anni, mentre le sue testate sono ritenute in grado di sconfiggere anche i più moderni missili balistici occidentali. E' guidato da un sistema inerziale con aggiornamento radio a metà percorso, mentre nella fase terminale si affida ad un radar semi attivo. Probabile la consegna di almeno un sistema 'V4', con una gittata di 400 km. Per i russi, non esiste velivolo (compresi il B-2, l'F-22 e l'F-35) in grado di affrontare impunemente un sistema S-400.

 La lista della spesa di Israele
  Israele ha già acquistato più di 30 F-35: potrebbe arrivarne ad averne fino a 75 (o meglio così sperano dalla Casa Bianca). Ma le forze aeree israeliane vogliono altri F-15. Israele ha in linea circa 65 Eagle tra le versioni A/B/C/D e trenta F-15I "Ra'am". L'IAF vuole proprio altri "Tuoni" come cavallo di battaglia delle forze aeree israeliane. Gli Stati Uniti hanno anche approvato la fornitura degli Osprey, convertiplano in grado di raggiungere l'Iran. Completa la "lista della spesa" nell'inventario USA, il Massive Ordnance Penetrator, la bomba da 14 mila chili in grado di polverizzare i bunker corazzati che si trovano in profondità. L'amministrazione Usa è principalmente interessata a finanziare i sistemi di difesa antimissile di Israele, mantenendo l'efficiente ma costosissimo Iron Dome. Il potenziamento missilistico prevede una nuova linea difensiva per contrastare le minacce provenienti dalla vicina Gaza, dal sud del Libano, dalla Siria e dall'Iran. Il nuovo asse iraniano-russo, impone il potenziamento di quello israelo-americano.

 Cinque sistemi S-300 possono rappresentare un "game changer?"
 
F-35
  I sistemi S-300 (e S-400) rappresentano la punta più alta dei sistemi di difesa terra-aria russi. Sono progettati per proteggere le aree di importanza strategica. Ogni batteria può attaccare più di una mezza dozzina di obiettivi simultaneamente. La differenza principale rispetto alla precedente generazione SAM strategica, è che l'S-300 è un sistema mobile. Non solo: gli S-300 sono collegati in rete. Ciò significa che in un sistema integrato di difesa aerea, gli S-300 rappresentano una sfida impossibile da vincere per tutti i velivoli di quarta generazione esistenti. F-15, F-16 e F/A-18: avrebbero ben poche speranze di uscire indenni da un'area protetta dagli S-300.
  L'opzione migliore sarebbe quella di ricorrere alla "Global Strike Task Force": una task force combinata di F-22 e B-2. La seconda opzione, invece, prevede un massiccio attacco di missili JASSM-ER (dove ER sta per Extended Range) in un contesto che richiederebbe la presenza degli EA-18G Growler. Il problema, nella seconda opzione, è precaricare i target dei missili. Il nemico, infatti, potrebbe spostare gli S-300 rilevando il lancio dei missili.

 F-35 vs S-300
  Partiamo dal presupposto che un simile paragone potrà farsi tra qualche tempo. L'F-35 raggiungerà parte della sua maturità 'Warfighting' tra cinque-sei anni. L'S-300, invece, non ha mai sparato un solo colpo contro un nemico vero. Quindi, al momento, solo speculazioni. Dei due sistemi conosciamo "quasi" ogni cosa. Teoricamente l'F-35 dovrebbe avere qualche vantaggio. In linea teorica, lo JSF è stato progettato con il materiale radar assorbente (RAM) più affidabile della storia. A differenza delle superfici dell'F-22 realizzate in alluminio e poi rivestite, quelle dell'F-35 sono state costruite in fibra di carbonio composita. Il rivestimento RAM, quindi, non è applicato bensì già insito nella struttura del caccia. Ciò dovrebbe ridurre la sua RCS e diminuire le probabilità di essere intercettati dai radar nemici. Ma la chiave per la sopravvivenza dell'F-35 dovrebbe proprio essere il suo radar AESA, 'Active Electronically Scanned Array, in grado di mappare centinaia di bersagli in direzione diverse e migliaia di volte al secondo. Così come, infine, la sua capacità di guerra elettronica. Restano comunque speculazioni sulla carta.
  Per i russi nessun velivolo di quinta generazione USA può operare in uno spazio aereo controllato dagli S-300/S-400. Per gli Stati Uniti, invece, l'F-35 dovrebbe riuscire a sconfiggere la minaccia S-300 (anche senza il supporto globale).

(Difesa online, 9 novembre 2015)


Tutti gli israeliani sono 'coloni'

La caccia all'ebreo nelle strade delle città d'Israele, scatenata da arabi-israeliani, dimostra che non vi sono più ragioni politiche o contese territoriali: è solo e puro odio antisemita.

di Pierpaolo P. Punturello

La percezione della vita quotidiana in Israele, nell'ultimo mese, ha seguito un crescendo di ansia e paura dovuto alla violenza quotidiana di quella che qualcuno ha definito "l'intifada dei coltelli". Giovani, giovanissimi palestinesi vanno in giro armati di lame, di coltello, persino di cacciavite alla ricerca dell'ebreo da colpire: a Gerusalemme, come a Tel Aviv, come ad Afula come a Hevron, rompendo quindi il ripetuto e falso schema che la violenza palestinese sia una risposta "alle colonie in espansione."
  È davvero storicamente e geograficamente complicato definire la città di Afula una "colonia", così come Gerusalemme ovest e così come Tel Aviv. Ma è anche decisamente difficile interpretare l'assassinio di Rav Eitam e Naama Henkin, trucidati in macchina davanti ai loro piccoli figli, scampati per miracolo ai mitra di Hamas come una azione "contro l'occupazione".
  In realtà tutti gli israeliani si sono scoperti "coloni": mentre sono in casa loro, mentre camminano per strada, mentre bevono un caffè, mentre aspettano l'autobus e mentre vanno a pregare al Kotel, uno dei luoghi santi nella città vecchia, così come lo sono quelli musulmani e quelli cristiani. In una nazione dove tutti i cittadini sono colpevoli per il solo fatto di esistere, la qualità della vita quotidiana ha subito profondi cambiamenti e la realtà pone ad ogni israeliano quesiti di non facile soluzione. Chi sono i giovani che ammazzano o tentano di ammazzare, anche a prezzo della loro vita, gli ebrei israeliani? La retorica di un certo mondo risponderebbe d'istinto i "palestinesi", ma la retorica di quel mondo ha spesso fallito guardando ad Oriente. Le mani armate che girano per le strade di Israele, non sono quelle palestinesi e non sono figli di un progetto "statale" palestinese, ma sono spesso mani di arabi israeliani, cittadini dello Stato di Israele che colpiscono altri cittadini dello Stato di Israele. Questa realtà apre le porte a nuove ansie e nuove e necessarie riflessioni.
  Lo scenario drammatico di questo nuovo quotidiano vede ogni ragazzo, ogni lavoratore, ogni donna ed ogni bambino di Gerusalemme Est, dei quartieri arabi di Beit Hanina, di Issawya o di una qualsiasi villaggio arabo del nord del paese come un potenziale terrorista, mentre obbliga ogni israeliano, uomo, donna o bambino ad essere necessariamente più attento alla propria sicurezza ed alla propria difesa. Il fatto che poi a colpire altri cittadini siano altri cittadini dello stesso Stato, solo di cultura, religione e lingua diversa, mina il senso democratico del paese, rendendo difficili, se non impossibili ogni possibile azione o riflessione politica sui giorni che viviamo. Perché se a colpire è la mano di un cittadino che gode di ogni libertà e di ogni diritto al pari di ogni altro cittadino di Israele, ogni teoria, ogni retorica buonista perde il proprio senso e lo stesso stato democratico rischia di perdere la propria essenza democratica e la propria identità pluralista, mentre i cittadini perdono la loro serenità.
  Così mentre ogni gesto di ovvia vita normale diventa blindato, mentre i bambini non escono più da soli, mentre i gruppi scout o del Benè Akiva organizzano i loro pomeriggi con l'accompagnamento di genitori armati e mentre lo stesso sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ha chiesto ad ogni cittadino in possesso di arma da fuoco di uscire con essa, la democrazia deve ritrovare se stessa per non morire. Non è facile vivere perennemente in tensione, sotto il potere di una psicosi che ha trasformato l'orgoglio della democrazia di Israele nella sua più grande debolezza. Ma di questa debolezza non possiamo farne a meno, perché non si deve mai smettere di essere civili.
  Intanto, mentre nel cielo di Gerusalemme vola costantemente un elicottero predisposto alla sicurezza, il quartiere di Armon HaNatziv, ad est del quartiere gerosolomitano di Talpiot, è stato separato con un muro dal vicino quartiere arabo di Jabel Mukaber, una separazione che durerà "temporaneamente" ha affermato la portavoce della polizia Luba Samri, "almeno fino a quando non cesseranno le violenze", facendo riferimento al costante lancio di bottiglie molotov dal quartiere arabo al quartiere ebraico della città.
  La psicosi e la paura dell' "altro" che fino a ieri non era un nemico armato, è fonte di una tensione sociale che ha espresso il proprio lato peggiore dopo l'attentato alla stazione degli autobus di Beer Sheva che è costato la vita di un giovane soldato israeliano in divisa, Omri Levi di 19 anni ed altre sette persone sono rimaste ferite. Negli attimi tragici che sono seguiti all'attentato, nella spasmodica ricerca dell'attentatore, la folla ha assalito un giovane eritreo al grido di "Arabi via! Morte agli arabi!" ferendolo in maniera fatale e causandone la morte dopo che era stato ferito alle gambe ed immobilizzato da un agente di polizia che lo aveva creduto un attentatore, mentre il vero attentatore correva via. Tragici momenti come questo di Beer Sheva dimostrano che non stiamo vivendo una nuova intifada, stiamo vivendo un guerra civile che mina l'esistenza di maggioranze e minoranze in Israele, che costringe la popolazione ad uscire armata, che fa alzare nuovi muri necessari, che crea atmosfera di isteria omicida. Una guerra che è stata ideata e concepita dai leader dei movimenti islamici come Raed Salah, lui stesso in possesso di cittadinanza israeliana. Una guerra che ha i propri riferimenti nei movimenti islamici del resto del Mediterraneo e che usa ogni strumento, in primis la democrazia, per distruggere la democrazia stessa. Una guerra che è tanto più tragica perché cammina nelle nostre strade, nuota nelle nostre piscine, studia nelle nostre università e che non avrebbe nessuna difficoltà ad essere ripetuta tra le democrazie europee. La domanda è se anche in quel caso sarebbe definita "intifada dei coltelli" o guerra civile.

(Shalom, novembre 2015)


La collera della gioventù palestinese… secondo Padre Ibrahim Faltas

Ci è capitato di leggere un articolo sul periodico marsalese, IL VOMERE, testata storica siciliana e primo periodico italiano nato prima del 1900, dal titolo "La collera della gioventù palestinese - Gerusalemme ottobre 2015".
Lo speciale, firmato dal religioso francescano Ibrahim Faltas, economo di una confraternita denominata Custodia Terrae Sanctae, lascia molto perplessi.
Innanzi tutto è assolutamente fuorviante l'affermazione secondo cui l'economia turistica è stata messa in ginocchio. A smentire questa affermazione ci sono i dati dei flussi turistici verso Israele che indicano nel 2014 un boom turistico importante e quello italiano è aumentato del 28% rispetto al 2013.
La frequentazione dei luoghi della cristianità ha avuto un calo poiché rispetto al passato Israele non è più vista come una meta solo religiosa e oltre il 51% del turismo è interessato a Israele come paese turistico e non solo religioso. E questo è un dato incontrovertibile.
Riguardo ai "ghetti" di cui riferisce il francescano, c'è da rilevare che Gerusalemme è di per sé una città multietnica e multireligiosa e non risultano operazioni di ghettizzazione degli arabi. Israele garantisce la plularità delle confessioni e l'accesso alla Spianata delle Moschee è regolato per evitare quello che Faltas definisce la rabbia della gioventù palestinese ma che nella realtà è semplicemente teppismo se non vero e proprio terrorismo.
Faltas ricorda che l'accordo firmato tra Arafat e Rabin lascia irrisolto lo status di Gerusalemme.
In realtà non c'è alcun accordo o discussione da fare su Gerusalemme il cui status di "capitale unica ed indivisibile" dello Stato di Israele è ben definito.
Quanto alla supposta provocazione di Sharon che ha visitato la spianata, Faltas forse dimentica che la spianata delle Moschee è in Israele e quindi giuridicamente appartiene allo stato ebraico. Sharon aveva tutto il diritto di visitare, nel rispetto della sacralità del luogo, la spianata.
E' come se al Presidente del Consiglio italiano venisse vietato visitare la zona dove insiste la Moschea di Roma.
E' grave che un religioso cattolico riferisca di provocazioni e violazioni. Così si asseconda la propaganda di Hamas, subìta dall'Autorità palestinese, che predica la distruzione dello stato di Israele.
Sbaglia Faltas quando riferisce che gli attacchi agli israeliani da parte dei palestinesi sono giovani interessati alla pace. Innanzi tutto gli attacchi terroristici e gli attacchi con i coltelli sono diretti per la maggior parte contro civili e non contro militari e non c'è nulla di eroico in questi atti. Basta leggere le cronache degli ultimi giorni per avere conferma di ciò.
Si tratta di terrorismo puro e non c'è nulla di eroico e romantico nella pura violenza contro inermi. Se si vuole lottare per la pace, la pace bisogna volerla e non distruggerla con la violenza. Non si ride o si festeggia sulla morte. Purtroppo Hamas e i palestinesi ne hanno fatto motivo di orgoglio.
Quanto alla libertà negata, basterebbe che Faltas guardasse con occhi disinteressati il problema e si accorgerebbe che la libertà se la negano proprio i palestinesi, sia quelli che seguono la dottrina di Hamas, sia quella dell'AP che spesso (l'ultima volta il 28 Ottobre scorso) parla di cancellazione dello stato di Israele.
Israele terra negata ai palestinesi? Niente di più errato. Sono i palestinesi che hanno respinto la risoluzione dell'ONU che ha creato due stati. Sono stati i palestinesi con gli stati arabi ad attaccare Israele subito dopo la proclamazione dello stato di Israele rifiutando la partizione.
Affermare che ai palestinesi viene negata la libertà e la terra è un falso storico e la distorsione della realtà.
Lo speciale in conclusione, appare come un documento che sposa "semplicemente" la causa palestinese e condanna, senza appello, di Israele.
Forse, ma è una nostra opinione, prima di pubblicare certi speciali si farebbe un grande servizio all'informazione se si verificassero i fatti da fonti indipendenti.
La questione è molto complessa e non può certo essere liquidata con affermazioni come quelle di Faltas, e se i palestinesi aspirano veramente alla pace dovrebbero cominciare a ragionare e non pensare solo come eliminare Israele.
Abu Mazen a Ginevra, nel corso della riunione per i diritti umani dell'ONU, si è dichiarato davanti al mondo finto pacifista.
Ha pronunciato frasi inequivocabili che parlano di distruzione dello stato di Israele e di occupazione.
Discorso ufficiale trasmesso dalla TV palestinese:
Signor Presidente… signori e signori, vi siete mai chiesti per quanto tempo durerà questa protratta occupazione israeliana della nostra terra? Pensate che possa che possa durare e che giovi al popolo palestinese?
Gioca contro la storia Abu Mazen e dimentica che la terra che lui oggi chiama "tutta" Palestina, ha subito nei millenni varie occupazioni, dai romani agli inglesi passando per l'impero ottomano e la Giordania ma l'unico popolo che vi ha vissuto sin dalle origini è il popolo di Israele.
E' questo l'uomo della pace con cui Israele deve parlare ?

(Osservatorio Sicilia, 8 novembre 2015)


Parlare di "collera", di "rabbia" dei "giovani" palestinesi è già un linguaggio che rivela dove si vuole indirizzare la simpatia. Sono arrabbiati, i giovani. E chi li fa arrabbiare, i giovani? Non ci vuole molto a capirlo: il perfido stato, lo stato che non dovrebbe esistere, il cancro delle nazioni. E sono talmente arrabbiati, questi giovani, che arrivano al punto di accoltellare una vecchia di ottant'anni. La rabbia è rabbia, bisogna capirli, i giovani palestinesi. E bisognerà continuare a capirli se un giorno, mischiati ai profughi che arrivano anche in Italia, arrabbiati prima contro lo stato d'Israele, ma poi anche contro lo stato italiano che non provvede alle loro necessità in modo giudicato soddisfacente, cominceranno a dare pugnalate a destra e a sinistra per dare sfogo alla loro comprensibile rabbia. I profughi potrebbero anche non essere palestinesi, ma se guardando alla gioventù palestinese avranno capito che con le coltellate si ottiene dal mondo comprensione e simpatia, arriveranno a pensare che proprio questo è il modo giusto per provare a risolvere i propri problemi. E continueranno. M.C.


Gusto Kosher a Roma festeggia 15 anni con due chef in arrivo da Israele

Loro sono Charlie Fadida e Tom Franz, e insieme rappresenteranno la cucina di Tel Aviv al Palazzo della Cultura del Ghetto di Roma, dove va in scena Gusto Kosher. Ecco il programma.

 Gusto Kosher. La storia
 
Hummus Gusto Kosher
  Nasceva 15 anni fa come degustazione di etichette kosher d'eccellenza, ma da qualche anno ha acquistato un respiro più ampio, trasformandosi in appuntamento gastronomico e culturale a tutto tondo. La filosofia di Gusto Kosher affonda le radici tra i saperi e i sapori della tradizione enogastronomica ebraica antica e contemporanea, per tracciare un quadro completo di quella cultura kosher con cui l'Italia ha ancora poca dimestichezza, nonostante il ruolo importante della comunità ebraica sul suolo nazionale. Il 15 novembre 2015 la manifestazione capitolina celebra il suo quindicesimo compleanno (curioso l'allineamento numerico) offrendo alla platea romana riunita al Palazzo della Cultura di via del Portico d'Ottavia - nel cuore del Ghetto di Roma - un ricco calendario di approfondimenti, che spazieranno dalla sostenibilità interpretata in chiave kosher allo sguardo sulle varianti internazionali della cucina ebraica, frutto di interessanti contaminazioni apprezzate dalla cucina d'autore.

 Edizione 2015. Programma e ospiti
  Ma ci sarà spazio anche per le ricette più popolari della tradizione giudaico romanesca, in omaggio alla città di Roma, che ha saputo preservare un'eredità tramandata da secoli dalle famiglie del Ghetto. E si parlerà anche di due mondi a confronto, due universi culinari legati alla cultura kosher che fanno capo a città complesse come Roma e Tel Aviv: radici comuni, ma espressioni distanti tra religione, tradizione, gusto e contemporaneità. L'appuntamento per tutti è domenica, dalle 11 alle 19 (a ingresso gratuito), con la partecipazione straordinaria di due celebri chef israeliani, che offriranno alla platea il menu ideato per l'occasione, tra cucina ashkenazita, sefardita e giudaico-romanesca (in abbinamento una selezione di vini kosher). Loro sono Charlie Fadida (executive chef dell'Hotel Sheraton di Tel Aviv) e Tom Franz (ex avvocato e vincitore di MasterChef Israele), che si presenteranno al pubblico capitolino già giovedì 12 novembre durante l'incontro dedicato alla cucina kosher ospitato presso la scuola di Pentole Agnelli. Qui i due chef si esibiranno in una performance a quattro mani che precederà la cena degustazione per gli ospiti del corso. Il tema di questa edizione è Jewish Mama, una figura chiave della cultura ebraica che mette tutta la sua sapienza in cucina, tra polpette e hutzpà.
Gusto Kosher - Roma, Palazzo della Cultura, via del Portico d'Ottavia, 73 - 15 novembre, dalle 11 alle 19.

(Gambero Rosso, 8 novembre 2015)


Yitzhak Rabin

di Michele Steindler

Leggendo i numerosi commenti e interventi in ricordo di Yizhak Rabin z.l., ho fatto una serie di scoperte interessanti:
  1. ho scoperto che Yigal Amir avrebbe avuto una forte rete di protezione, eppure io sapevo che si trova in carcere condannato all'ergastolo.
  2. Ho scoperto che in Israele la democrazia è sofferente e zoppicante, eppure io ho partecipato a libere elezioni e nella cabina elettorale potevo scegliere tra decine di partiti.
  3. Ho scoperto che Bibi è succeduto a Rabin e domina questo paese da venti anni, eppure io ero convinto che nello stesso periodo fossero stati primo ministro anche: Peres, Barak, Sharon e Olmert.
  4. Ho scoperto che Israele non ha fatto alcuna concessione eppure io ero convinto che Sharon avesse deciso in modo autonomo il disimpegno israeliano da Gaza.
  5. Ho scoperto infine che il processo di pace - ammesso e non concesso che sia mai esistito - è fermo per colpa d'Israele, eppure io ero convinto che a rifiutarsi di firmare gli accordi con Barak sotto l'egida di Clinton fosse stato Arafat, che poi ha scatenato la seconda intifada.
Insomma ho fatto una serie di scoperte incredibili… A proposito, mi viene da chiedere ai vari autori di questi articoli: in quale realtà vivete? Io in Israele, voi non so…

(moked, 8 novembre 2015)


Usa e Israele: bagagli ai raggi X fino all'imbarco

di Leonard Berberi

All'aeroporto internazionale «Ben Gurion» di Tel Aviv (quasi 15 mili oni di passeggeri nel 2014 ) i bagagli in stiva vengono fatti passare ai raggi X non solo durante il loro percorso tradizionale, ma anche quando sono pronti all'imbarco. Non si sa mai. In alcuni scali sul versante atlantico degli Stati Uniti, invece, è in funzione un sistema di identificazione delle valigie «lavorate»: il software è in grado di memorizzare forma e peso di quelle in entrata (dopo il check-in) e le confronta con quelle in uscita (verso i velivoli in partenza): se, per esempio, nota che sta per essere caricata a bordo una non «vista» all'ingresso invia la segnalazione. A quel punto questa viene presa in consegna ed esaminata. Finora si è sempre trattato di borsoni che nei vari passaggi hanno assunto forme diverse. Oppure finiti per sbaglio in altri percorsi. Questi esempi — unitamente a un controllo costante di chi arriva e di chi parte — a oggi sono classificati come i migliori e da imitare. Si tratta però di meccanismi costosi: i software vanno costantemente aggiornati per stare al passo con chi realizza materiale pericoloso sempre più sofisticato. E questo spesso non avviene negli aeroporti piccoli, fuori dall'Europa, orientati solo al turismo. I sistemi di accesso alle aree sensibili, poi, dovrebbero essere più elaborati: meglio una scansione biometrica dell'iride che la combinazione di badge e codice alfanumerico. Ecco, a proposito di codici: passare il tesserino magnetico (per accedere al settore bagagli) e premere «12345» mostrando la combinazione ai passeggeri — increduli — seduti vicino non è il massimo della sicurezza. Ma è successo, poche settimane fa, in un aeroporto dell'Europa del Nord.

(Corriere della Sera, 8 novembre 2015)


Gerusalemme, le prostitute che abbatterono il Sultano

Nel pieno della Grande guerra alcune di loro entrarono in una rete creata per carpire i segreti dell'Impero ottomano accelerandone la fine e evitando agli ebrei il massacro subito dagli armeni. La ricerca di uno storico israeliano.

di Maurizio Molinari

La Sinagoga di Hessed VeRahamin
GERUSALEMME - Nel bel mezzo della Prima guerra mondiale era un network di prostitute a Gerusalemme la spina nel fianco dell'Impero ottomano, e a gestirlo era un ebreo bielorusso al servizio dell'Italia e della Gran Bretagna. Ad alzare il velo su uno degli episodi meno conosciuti nella storia della città è Ori Katzir, lo storico israeliano che ha dedicato le proprie ricerche a ricostruire il ruolo avuto dalle prostitute nella vita di Gerusalemme: fecero infuriare Benedetto XV, infiltrarono l'esercito del Sultano, dilagarono ai tempi dell'Impero britannico, si sono moltiplicate nel quartiere dove è cresciuto Amos Oz e ora sono invisibili, lavorando in anonimi uffici in edifici di avvocati e medici.
  Le prostitute emergono come un tassello degli ultimi cento anni della città a cominciare da quando, sotto dominio ottomano, a cavallo fra Ottocento e Novecento, il mercato del sesso mette radici a seguito delle politiche del Sultano. E il periodo in cui gli uomini vengono reclutati con la forza per l'esercito, la povertà degenera in fame e, quando nel 1915 arriva dall'Egitto l'invasione delle locuste, le famiglie sono flagellate al punto da spingere le donne a scegliere la professione più antica per cercare di sopravvivere.

 «Cinquecento di quelle»
  «A Gerusalemme ce ne sono almeno 500» dice Haim Weitzman, leader del movimento sionista, intervenendo a una conferenza nel novembre 1918. E lo stesso numero che il primo governatore britannico della città, generale Ronald Stores, rende pubblico in un incontro a Roma con papa Benedetto XV che aveva espresso pubblicamente «grande sconcerto» per «le condizioni di degrado di Gerusalemme, Città Santa» in occasione dell'entrata delle truppe britanniche nel 1917 che riconsegnavano a una potenza cristiana il controllo dei luoghi della vita di Gesù. Ciò che Weitzman e il generale Stores non dicono, ma sanno, è che alcune di queste prostitute hanno svolto un ruolo non secondario nell'abbattimento dell'Impero ottomano. Il merito è di Alter Levin, un ebreo bielorusso immigrato all'inizio del Novecento che usa lo pseudonimo di Assaf Halevi, pubblica poemi e recluta prostitute per creare una rete di spie che mette al servizio prima del Regno d'Italia e poi di Sua Maestà britannica. Lo storico Eliezer Tauber, dell'Università di Gerusalemme, ha trovato a Istanbul il diario di Aziz Bey, capo dell'intelligence militare turca durante la Prima guerra mondiale, nel quale si legge che «Levin aderì all'intelligence italiana nel 1911, quando l'Italia invase la Libia, e in seguito venne reclutato dai britannici».
  Levin opera da un palazzo biancastro all'angolo dell'odierna Zion Square, raccoglie le notizie di prostitute che hanno per clienti gli ufficiali ottomani e lavorano non solo a Gerusalemme, Jaffa e Haifa, ma anche a Beersheba, Amman, Damasco, Beirut, Beirut, Zahle, Tripoli, Homs, Latakia, Aleppo e Iskadron. La polizia segreta turca scopre il network di Alter Levin durante l'irruzione in un bordello al «Russian compound» di Gerusalemme - dove oggi c'è la sede della polizia - perché una delle prostitute arrestate, Lydia Simanovich, ne rivela l'esistenza. Gli arresti che seguono portano i turchi a scoprire l'imponente rete nemica nel cuore dell'Impero, Levin viene condannato a morte e rinchiuso nella fortezza di Aleppo, ma sfugge alla condanna per l'avvicinarsi delle truppe alleate.

 II mercato del sesso
  Lo storico gerosolomitano Katzir, laureato all'Università Ebraica con una tesi sulla prostituzione in Alaska e Yukon durante la corsa all'oro nel 1896, spiega che «Levin era abile e spregiudicato, ma aveva un'idea chiara, accelerare la fine dell'Impero ottomano per impedire agli ebrei di fare la stessa fine degli armeni che erano stati massacrati dai turchi pochi anni prima solo perché Istanbul dubitava dei cristiani». I segreti ottomani strappati dalle prostitute della spia italo-britannica aiutano il generale Edmund Allenby a varcare la Porta di Jaffa, entrando in una città in cui il mercato del sesso si concentra soprattutto a Nahalaot, il quartiere di ebrei poveri a ridosso di Agrippas Road, la strada dove i mercanti fanno tappa per vendere i prodotti, a metà percorso tra la Città Vecchia e Deir Yassin.
  Nahalaot è divisa in due: a Miskeret Moshe ci sono gli ashkenaziti, d'origine Est-europea, e a Ohel Moshe i sefarditi, provenienti dai Paesi arabi. I residenti di entrambi i quartieri scrivono a più riprese al governatore britannico chiedendo di mettere fine alla presenza di «donne sconce e uomini ubriachi che sostano nei cortili davanti agli occhi dei nostri figli e delle nostre figlie» - come recita un documento dell'epoca trovato da Katzir - ma gli effetti sono assai scarsi e nel luogo dove oggi sorge una delle sinagoghe più caratteristiche - la Hessed VeRahamin - allora c'era un pub che offriva, al secondo piano, donne di qualsiasi fede e colore della pelle.

 Un quartiere a luci rosse
  Poco lontano da Nahalaot, il quartiere dove nel 1939 nasce lo scrittore Amos Oz, lungo la centrale King George Street ci sono le prostitute per chi può permettersi prezzi più alti. Ricevono nell'area che va dall'Hotel Bristol all'Hotel San Remo, a cavallo di Yafo Street, creando un vero e proprio quartiere a luci rosse che si allunga in due enclave separate, di cui i britannici accettano la presenza: nella casa «Shlomo I loro luoghi nella Città Santa Lo storico israeliano Ori Katzir in un cortile di Nahalat Shiva, a Gerusalemme, dove vivevano le prostitute negli anni del mandato britannico Milner», nell'area ebraica ortodossa dell'odierna Mea Sharim, e nel cortile di Nahalat Shiva, dove le prostitute risiedevano dai tempi degli ottomani. E una geografia della prostituzione che, tra Nahalat Shiva, l'Hotel San Remo e Nahalaot, si alimenta con i commerci portati dai britannici, una clientela di ebrei e arabi, e ragazze che fanno di tutto per essere accettate nei bordelli al fine di mantenere genitori e famiglie.

 Dopo la spartizione
  La spartizione della Palestina da parte dell'Onu nel 1947 lascia i quartieri a luci rosse nell'area Ovest, assegnata agli israeliani, mentre a Est, dove nel 1948 arrivano i giordani, aprono i locali di danza del ventre, come il Victoria dentro la Città Vecchia che offre spogliarelli per tutti e extra a ehi A rliannstn a napare Un cortile interno di Nahalat Shiva. ngovernatore britannico Ronald Stores negli Anni Venti spiegd a Benedetto XV che questo quartiere era uno dei due soli luoghi dove la prostituzione era consentila a Gerusalemme La guerra d'indipendenza di Israele ridimensiona di molto il business dei bordelli, perché la città ebraica è isolata, assediata. Per il ritorno della prostituzione bisogna aspettare la fine degli Anni Settanta con l'arrivo degli immigrati dall'Urss nella Gerusalemme riunificata dopo i11967.
  Ma i vecchi hotel Bristol e San Remo oramai hanno chiuso, i bordelli a Mea Sharim e Nahalot sono diventati sinagoghe e scuole religiose. A prendere piede è un'industria del sesso di stile occidentale, con contatti via telefono e - più tardi - Internet per concordare prezzi e prestazioni. E quando la polizia israeliana inizia, a partire dal 2001, a effettuare raid a raffica scopre che le nuove «case chiuse» sono uffici come gli altri, apparentemente innocui, a pochi metri dalla stessa Zion Square, dove Alter Levin aveva il quartier generale.

(La Stampa, 8 novembre 2015)


L'Ambasciatore d'Israele in Italia in visita a Cori

 
La chiesa di Sant'Oliva a Cori
Visita di piacere a Cori (LT) per l'Ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon, accompagnato dalla moglie e dalla figlia. Ad accoglierli, sabato mattina, c'erano il sindaco Tommaso Conti e il suo vice Ennio Afilani. Con una certa frequenza il diplomatico israeliano si reca sui Monti Lepini, e nella città d'Arte in particolare, apprezzandone molto i paesaggi incontaminati, la cultura millenaria e la rinomata enogastronomia.
   Era invece la prima volta che entrava nel Museo della Città e del Territorio di Cori, di cui aveva sentito un gran parlare. Una delle guide dell'Associazione Culturale 'Arcadia' ha accompagnato la delegazione alla scoperta dei tesori storico-artistici ed archeologici custoditi al suo interno, che narrano trentacinque secoli di storia del territorio lepino, dalla preistoria all'età moderna.
La visita guidata in lingua inglese è iniziata dalla medievale Chiesa di Sant'Oliva, dove i graditi ospiti hanno potuto ammirare la magnifica Cappella del SS. Crocefisso e i suggestivi resti del Tempio Romano. Sono poi entrati nel Convento agostiniano, attraversando il caratteristico chiostro circondato da logge affrescate nel Seicento, soffermandosi infine davanti ai capitelli marmorei quattrocenteschi del secondo piano.
   Oltre all'oggettiva bellezza di quanto visto, l'Ambasciatore ha apprezzato soprattutto lo stato di conservazione dell'intero Complesso Monumentale di S.Oliva, riconoscendo all'istituto culturale museale il merito di una positiva gestione che vede impegnati da diversi anni l'Amministrazione comunale e la Direzione scientifica del Museo, unitamente alle associazioni culturali 'Arcadia' e 'Amici del Museo'.
   Prima di riprendere la strada verso l'ambasciata di Roma, dove si è insediato nel 2012, Naor Gilon ha fatto tappa all'Azienda Agricola Biologica Marco Carpineti. Ad attenderlo nella moderna cantina una degustazione di prodotti tipici locali abbinati ai suoi vini di qualità, frutto del recupero di antichi vitigni autoctoni, valorizzati da metodi di lavorazione biologici e biodinamici. Shalom alla prossima volta che, c'è da scommettere, sarà molto presto.

(h24 notizie, 8 novembre 2015)


L'imam mente se dice che rappresenta l'islam

di Magdi Cristiano Allam

Mercoledì 4 novembre al Hemingway Caffè a Villalba di Guidonia, in provincia di Roma, in uno spazio per gli incontri culturali dove stavo presentando il mio nuovo libro «Islam. Siamo in guerra», ho dovuto scontrarmi con un gruppo di sedicenti imam, intesi genericamente come guide religiose islamiche. Uno di loro, con un italiano approssimativo che attesta il sostanziale rifiuto di integrarsi, ha preso la parola per dire «Magdi Allam è ignorante, tutto ciò che dice dell'islam è falso», «l'Isis non c'entra nulla non l'islam», «l'islam è una religione di pace come il cristianesimo», «islam e cristianesimo credono nello stesso Dio e negli stessi profeti». Poi ha giustificato il suo intervento censorio nei miei confronti: «A me l'islam è caro. Io rappresento l'islam». Dopo averlo sfidato a dimostrare l'infondatezza delle prescrizioni violente di Allah nei versetti coranici e delle atrocità perpetrate da Maometto che avevo evocato, ho controbattuto sulla questione cruciale della rappresentatività dell' islam: «Tu non rappresenti l'islam, sei solo un impostore». Si tratta di un nodo fondamentale nel rapporto dello Stato con l'islam. Perché l'imam, che in arabo significa «colui che sta davanti», è in realtà un fedele che guida la preghiera collettiva all'interno della moschea, svolgendo una funzione che è intercambiabile, nel senso che oggi l'imam può farlo Tizio e domani Caio. L'imam pertanto potrebbe essere considerato un «funzionario» religioso, nel momento in cui dovesse svolgere regolarmente la guida della preghiera collettiva. Ma non può essere concepito come una «autorità» religiosa. Il sacerdote o il pastore fondano la loro autorità religiosa o sull'investitura dall'alto laddove, come nella Chiesa cattolica, è presente una gerarchia che fa capo a un Papa, o sulla scelta da parte della comunità dei fedeli, come nelle Chiese evangeliche. Viceversa l'attribuzione del titolo di imam è auto-referenziale, arbitraria e menzognera. È sufficiente che un musulmano intraprendente apra un luogo di culto, che sono quasi tutti mascherati sotto forma di «centri culturali islamici», si auto-attribuisca il titolo di imam affinché venga riconosciuto alla stregua di autorità religiosa, sia dai fedeli che lo frequentano sia dalle istituzioni civili e religiose non musulmane. È ormai diventata consuetudine che all'inaugurazione di un «centro culturale islamico» partecipino, al fianco del sedicente imam, il sindaco e il vescovo o un loro rappresentante. Essere imam di una moschea si traduce inoltre in una fruttuosa attività imprenditoriale, perché consente di guadagnare lautamente raccogliendo le offerte dei fedeli nella principale preghiera collettiva del venerdì, in aggiunta alla zakat, uno dei cinque pilastri dell'islam che corrisponde ad una tassa annuale sulla propria ricchezza, nonché alle donazioni elargite dagli stati islamici e, infine, alla possibilità di beneficiare dei fondi pubblici e privati destinati alle attività culturali. Periodicamente scopriamo che i sedicenti imam sono in realtà dei predicatori d'odio. In Italia sono stati espulsi decine di imam, sia «moderati» come quello della Grande Moschea di Roma Abdel-Samie Mahmoud Ibrahim Moussa, sia radicali come quello della moschea di viale Jenner a Milano Abu Imad. Ebbene è ora di smetterla di farci raggirare da degli impostori pur di rispettare l'islam costi quel che costi, anche se è intrinsecamente incompatibile con le nostre leggi e nemico dichiarato della nostra civiltà.

(il Giornale, 8 novembre 2015)


Dietro l'attacco a Charlie Hebdo un burattinaio dall'estero

Rivelato uno scambio di mail e sms: dimostrerebbero che a guidare Coulibalye i fratelli Kouachi ci sarebbe un terrorista del Califfato.

di Paolo Levi

PARIGI - Telecomandati dall'estero come automi: a dieci mesi dagli attentati jihadisti di Parigi emergono nuovi inquietanti dettagli su quelle giornate di sangue che costarono la vita a 17 persone. Altro che lupi solitari, una serie di mail inviate da un mandante basato all'estero lasciano ipotizzare che l'attacco dei fratelli Kouachi contro Charlie Hebdo, il 7 gennaio, e quello di Amédy Coulibaly all'Hypercacher, il 9, fossero coordinati da un misterioso burattinaio, del terrore. Redatte nel linguaggio telegrafico degli sms - il francese sintetico di chi deve agire in fretta -le istruzioni del mandante suonano come ordini di guerra.

 Visione generale
  Soprattutto illustrano una chiara visione d'insieme degli attentati come se ad orchestrarli fosse stato una sola mente. «Ok, fai quello k devi fare oggi ma tranquillo, torna a dormire, poi ti nascondi, verifichi indirizzo 1 tutti i giorni: presto indicazioni per recuperare amici per aiutare te. Sbarazzati della carta sim, poi passa a indirizzo 1, con indirizzo 2 finito»: il messaggio in codice è stato inviato a Coulibaly alle 14 del 7 gennaio. Due ore prima al cosiddetto «indirizzo 2» - la sede di Charlie Hebdo - i Kouachi portavano a termine la loro impresa di morte, con undici persone crivellate dalla pioggia di fuoco dei kalashnikov, tra cui otto giornalisti del settimanale e Ahmed Mehrabet, l'agente in bici freddato in un viale poco distante. Altro messaggio alle 12:48, questa volta l'ignoto coordinatore - che al momento è impossibile localizzare esattamente - consulta un messaggio inviatogli da Coulibaly due giorni prima della spedizione al supermarket ebraico.
  In allegato una serie di file nominati «Inventaires» con l'elenco del suo arsenale: «Ho un Ak74 con 275 cartucce. Sei tokarev con 69 cartucce. Tre gilet antiproiettile militari e tre gilet tattici, due spray lacrimogeni e a gas, due grossi coltelli e una pistola Taser», Gli scambi non solo dimostrano che il jihadista francese di origini maliane fosse manovrato come un burattino ma lasciano anche supporre lo scenario più temuto dagli 007 transalpini. Quello di attacchi jihadisti simultanei, ancora più devastanti, con un esercito di «pedine» scagliate al tempo stesso contro molteplici obiettivi.

 Azione coordinata
  L'ipotesi di un'azione coordinata in diversi luoghi sensibili, probabilmente fallita all'ultimo minuto, emerge tra le righe di un'altra mail inviata 1'8 gennaio, alle 17:21: «1) Non è possibile amici lavorare da soli 2) Se possibile trovare e lavorare bene con zigotos 3) Se possibile spiegare in video k tu dato armi a zigoto in nome di D, precisare quali». Per «Zigotos» vanno intesi i fratelli Kouachi che quel pomeriggio dell'8 gennaio erano ancora in fuga. La «D» starebbe invece per «Daesh», un altro degli appellativi per indicare l'Isis. Che il killer dell'HyperCacher avesse armato i Kouachi è già convinzione degli inquirenti.
  Ufficialmente i due fratelli hanno rivendicato l'attacco contro il giornale satirico in nome di Al-Qaeda nella Penisola araba (Aqap). Nel video postumo con Kalashnikov, tunica bianca, e bandierina nera dell'lsis - Coulibaly dichiara invece di aver agito per lo Stato islamico. «Quale individuo francofono - si chiede Le Monde - può avere dunque l'esperienza, il percorso, la rete per essere informato allo stesso tempo del progetto dei Kouachi in nome dell'Aqap e quello di Coulibaly in nome dell'Isis?», Due organizzazioni tanto criminali quanto «concorrenti». Insomma, chi tramava dietro all'oscuro indirizzo lawrence 122007@gmx .com? Una cosa è certa. Coulibaly era profondamente legato al suo burattinaio. In un mail gli espresse anche gli ultimi auspici testamentari, affidandogli la moglie: «Voglio che viva secondo le regole dell'Islam. Voglio che impari l'arabo, il Corano, la Scienza religiosa ... che Allah vi assista».

(Il Secolo XIX, 8 novembre 2015)


"Vietato boicottare Israele", almeno in Francia

PARIGI - "Vietato boicottare Israele", almeno in Francia, dove due sentenze della Corte di cassazione dello scorso 20 ottobre hanno stabilito che l'appello al boicottaggio sui prodotti israeliani non solo è illegale ma punito dalla legge. Le due sentenze, dello scorso 20 ottobre, sono passate pressoché inosservate, fatta eccezione per le associazioni militanti e i giuristi specializzati.
Oggi però a dare spazio alla notizia è il quotidiano Le Monde. Per il giornale, la decisione fa della "Francia uno dei rari Paesi al mondo, e l'unica democrazia, in cui si vieta l'appello al boicottaggio da parte di un movimento associativo o cittadino per criticare la politica di un altro Stato".
In concreto, l'Alta Corte ha confermato la condanna della Corte d'appello di Colmar contro 14 militanti del movimento 'Boycott, désinvestissement, sanctions (BDS)'. Tra il 2009 e il 2010 questi avevano partecipato a una manifestazione in un supermercato di Illzach, vicino Mulhouse, chiedendo ai consumatori di non acquistare i prodotti provenienti da Israele.
Tra gli slogan della protesta, pacifica e senza danneggiamenti, "Palestine vivra, boycott Israel". Per la corte però si tratta di reato per "incitamento alla provocazione, odio, o violenza nei confronti di un gruppo di persone in funzione di origine o appartenenza a una determinata etnia, nazione, razza, religione".
In Francia solo il boicottaggio deciso dallo Stato, vale a dire l'embargo sui prodotti di un Paese terzo, è considerato legale. Ma a Parigi c'è chi contesta la decisione appellandosi alla libertà d'espressione.

(Corriere del Ticino, 7 novembre 2015)


Affari kosher

La novità è il parmigiano reggiano per le comunità ebraiche. Il fatturato è arrivato a 18,5 milioni. Che saliranno a 20 nel 2016. Export 28%.

di Stefano Catellani

Tutte le prime 500 forme di parmigiano reggiano sono state acquistate sulla carta (prima della produzione) e per Nicola Bertinelli che ha ottenuto, unica al mondo, la certificazione da Ok Kosher Certification si apre un mercato che vale nel mondo 150 miliardi di dollari e cresce del 15% all'anno. «Siamo in grado di produrre 5 mila forme l'anno di parmigiano reggiano Kosher», spiega Nicola Bertinelli, «e certamente le regole di produzione che ci hanno imposto per gli ebrei osservanti aprono opportunità anche per consumatori con particolari intolleranze alimentari e vegetariani» La svolta della Bertinelli che ha sede a Medesano sulle colline parmensi è legata alla diversificazione e all'innovazione rispetto alle tradizionali aziende agricole della food valley padana. Opera in quattro aree di business che valgono un fatturato di 17 milioni, che nel 2016 dovrebbe salire a 18,5, per toccare quota 20 nel 2016. L'export incide per il 28%. I mercati esteri principali sono Giappone, Francia, Benelux e Svezia. «Nell'arco di un'annata, con l'avvio della commercializzazione del Parmigiano reggiano Kosher», spiega Bertinelli, «l'incidenza dell'export sul fatturato passerà al 60%. I nuovi mercati di riferimento saranno Usa, Israele, Uk, Francia e Brasile». L'evento di presentazione del parmigiano reggiano Kosher rappresenta il passo conclusivo di un percorso avviato oltre un anno fa, con l'adeguamento di tutto il processo produttivo alla Kasherut, la normativa ebraica sul cibo basata sull'interpretazione della Torah, e con la nascita in caseificio delle prime forme. «Siamo di fronte», sottolinea il presidente del Consorzio di tutela, Giuseppe Alai, «a una realtà nuova per il parmigiano reggiano, perché è ora acquisito il risultato di una attenzione e di un rispetto di norme che vanno oltre i semplici aspetti culturali e, contemporaneamente, si aprono nuovi spazi di vendita e di consumo tra gli ebrei osservanti, ma anche tra quei milioni di persone che, soprattutto negli Stati Uniti, già hanno scelto cibi kosher». Ai 13,5 milioni di persone di fede ebraica che vivono in tante parti del mondo (40 mila in Italia) si aggiungono in tal senso, i 12,5 milioni di consumatori di prodotti kosher presenti negli Stati Uniti, dove questi alimenti rappresentano quasi il 30% di quelli venduti nei supermercati.

(Milano Finanza, 7 novembre 2015)


L'insostenibile leggerezza dell'opinione pubblica palestinese

Cosa può spingere un nipote palestinese di 19 anni a pugnalare alla schiena una nonna ebrea di 80 anni?

Come è possibile che così tanti giovani palestinesi si svegliano al mattino, afferrano un coltellaccio dalla cucina di famiglia e vanno per strada ad aggredire degli ebrei, un gesto che il più delle volte procura loro la morte? Cosa può spingere un nipote palestinese di 19 anni a pugnalare alla schiena una nonna ebrea di 80 anni? Questi terroristi adolescenti vengono spesso descritti come "lupi solitari", perché la loro violenza appare spontanea e priva dell'organizzazione che era tipica degli attacchi terroristici passati, come gli attentati esplosivi suicidi. Ma questa classificazione non coglie l'ampio sostegno di cui gli attentatori godono nella società palestinese, senza contare la loro ferma convinzione che saranno premiati per le loro azioni in cielo, e anche in terra con strade, piazze e campi sportivi intestati a loro nome in onore del loro "sacro martirio"....

(israele.net, 6 novembre 2015)


Non è un "reset"

La tregua calcolata fra Obama e Netanyahu per non farsi troppo male dopo l'accordo con l'Iran.

di Mattia Ferraresi

 
NEW YORK. "Reset" è una parola a tal punto sventurata e carica di accenti deludenti che nessuno alla Casa Bianca ha il coraggio di riutilizzarla, specialmente quando si parla di Benjamin Netanyahu, alleato che non ha trovato il feeling con Obama nemmeno prima che si firmasse l'accordo nucleare con l'Iran. Durante il primo mandato di Obama il principale motivo politico della freddezza fra i due è stato il disaccordo sulla costruzione nei settlement; nel secondo la questione iraniana ha sovrastato qualunque altro tema in agenda, portando Bibi a criticare apertamente la decisione di Obama e a scatenare una campagna di lobbying al Congresso che per poco non ha fatto naufragare l'accordo con gli ayatollah (accordo che nel frattempo è già stato umiliato nei modi più diversi da Teheran, dai test missilistici in contravvenzione alla risoluzione Onu fino agli arresti e alle condanne di cittadini americani in Iran). A questo va aggiunta la schietta e ormai leggendaria antipatia personale fra i due leader, sottolineata da sberleffi, telefonate gelide e ore d'anticamera.
   Non è per un "reset", dunque, che Netanyahu sbarca domenica a Washington e lunedì mattina si presenta alla Casa Bianca, piuttosto si tratta di stabilizzare e ricucire con realismo un rapporto compromesso da una catena di disaccordi culminata del disaccordo supremo dell'Iran, un'opera di normalizzazione che è nell'interesse di entrambi i paesi. "Non sarà un incontro caloroso e generico, piuttosto si tratterà di ciò che abbiamo bisogno per difenderci e per esercitare la deterrenza sull'Iran", ha detto l'ex ambasciatore Michael Oren, che è stato per anni l'uomo di Bibi a Washington. In questo incontro d'affari, scondito di apparenze diplomatiche, Netanyahu mette sulla scrivania di Obama una richiesta di incremento degli aiuti militari, fino ad arrivare alla cifra di 4,5 miliardi di dollari l'anno.
   E' questo il prezzo minimo che Bibi chiede a Obama per onorare almeno le parole affidate a Jeffrey Goldberg - la bocca giornalistica dei rapporti fra America e Israele - a maggio: "Nessun presidente americano è stato tanto deciso nel garantire che Israele possa difendersi". Il primo viaggio in Israele del generale Joseph Dunford, capo delle Forze armate americane, sottolinea la volontà di Washington di riallacciare i rapporti a livello militare per rassicurare l'alleato indispettito. Netanyahu vuole trattare personalmente la questione, e non l'ha affidata al ministro della Difesa, Moshe Yaalon, che di recente è stato in visita nella capitale americana.
   La nomina di Ran Baratz come nuovo portavoce del primo ministro di Israele sembra pensata per indispettire gli americani: il consigliere è noto per avere accusato Obama di essere antisemita e John Kerry di avere il cervello di un preadolescente, ed era inevitabile che il dipartimento di stato emettesse una reprimenda ufficiale per le affermazioni "insultanti e preoccupanti", ma è anche un gioco delle parti inscritto nel canovaccio del "bad cop" di Netanyahu. In modo meno esplicito, il premier ha fatto almeno un paio di manovre che indicano la volontà di ricalibrare e distendere i rapporti con Obama. Primo: l'accordo milionario con la compagnia americana Noble Energy per lo sfruttamento del giacimento di gas Leviathan, a poche miglia dalle spiagge di Haifa. Secondo: il sostanziale congelamento delle costruzioni nei Territori palestinesi, precondizione fondamentale dell'accordo di pace che Obama era convinto di riuscire ad agevolare durante la presidenza, e che è fallito per l'ennesima volta sotto lo sguardo impotente di Hillary Clinton.
   Nel briefing in preparazione alla visita, un funzionario della Casa Bianca ha confermato che da qui alla fine del mandato di Obama una soluzione a due stati non è raggiungibile: "Questa è la prima volta dall'Amministrazione Clinton che la prospettiva di un negoziato non è sul tavolo". L'ultimo indizio dell'intento calcolato e conciliante della trasferta di Bibi è nel ritrovato spirito bipartisan di Washington sulla questione. Il Congresso pro Israele che ha accolto Netanyahu a marzo, nella visita in cui ha snobbato Obama, ora invoca unanime una qualche forma di riconciliazione. E il premio che riceverà lunedì dal think tank conservatore American Enterprise Institute è stato bilanciato con un invito dell'ultimo minuto del Center for American Progress, il centro studi più vicino a Obama.

(Il Foglio, 7 novembre 2015)


Il caos di Sharm specchio di un'Europa inerme

L'attentato nel Sinai e il senso d'impotenza dell'Occidente: a decine di migliaia bloccati in Egitto. Pure la Russia sospende i voli in Egitto, annullato l'aereo per Malpensa. Fontefrancese: nelle scatole nere sisente uno scoppio.

di Carlo Panella

IL caos che regna in questi giorni nell'aeroporto di Sharm el Sheik è lo specchio drammatico e triste dell'ignavia di un'Europa che del Medio Oriente pare conoscere a fondo soltanto le vacanze low-cost, e che d'altro canto finge di non capire che le spiagge bianche, i coralli e i pesci da acquario si trovano ai confini di una terra in cui scorrazzano indisturbati gli jihadisti, e non tiene conto che, se dichiara guerra all'Isis, questi risponde a modo suo con la sua abituale e infida guerra: gli attentati contro i turisti.

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Un'Europa in infradito e bermuda, dunque, che non si rende conto di dover in qualche modo imporre ai caotici egiziani di difendere in armi non solo le mura dell'immenso compound turistico, in cui già una cinquantina sono state le vittime di attentati negli anni scorsi, ma anche di garantire la sicurezza degli imbarchi e degli sbarchi in un aeroporto che è invece sempre un disordinato suk. Un'Europa che continua a affermare di voler fare la guerra allo Stato Islamico, ma che - seguendo le solite strampalate strategie di Barack Obama - si limita a inutili bombardamenti dall'aria (ieri François Hollande ha inviato la portaerei Charles de Gaulle davanti alle coste della Siria) che non impediscono al Califfato di radicarsi, tanto che sinora non l'hanno fatto arretrare di un chilometro. Un'Europa che ha visto due giorni fa due suoi autorevoli leader - il premier inglese David Cameron e il presidente russo Vladimir Putin - litigare al telefono perché il primo sosteneva che sabato scorso l'aereo russo è stato dilaniato da una bomba, mentre il secondo gli urlava che non lo può affermare, perché l'inchiesta è ancora in corso. Tesi insostenibile, ma che Putin voleva tenere perché ha il problema di tutti i leader europei: non sa e non vuole spiegare ai suoi cittadini che se fai la guerra a qualcuno, poi ne devi subire le conseguenze, anche le più sanguinose e ingiuste.
   Ieri però, dopo che l'ambasciatore inglese ha comunicato al Cremlino i riscontri dei servizi segreti inglesi (MI5) e della Cia, che hanno intercettato nei giorni precedenti jihadisti della regione di Sharm el Sheik che parlavano chiaramente dell'attentato - lo stesso Obama ha rimarcaato come ci sia «la possibilità di una bomba a bordo dell'aereo precipitato nel Sinai e la stiamo valutando seriamente» - Putin ci ha ripensato e ha ordinato non solo l'immediata sospensione dei voli dalla Russia per il Sinai, ma anche di «organizzare il rientro in patria dei villeggianti russi, finché non sarà stato stabilito di nuovo il necessario livello di sicurezza». E' evidente che, passando all'estremo opposto, il presidente russo teme nuovi attentati a Sharm, in terra o in volo. Il problema tragicomico è però che oggi a Sharm i turisti russi sono 40.000, o forse addirittura 50.000, e che ci vorrebbe un mese per imbarcarli tutti. Gli egiziani infatti non riescono neanche a far ripartire i 20.000 turisti inglesi di cui Cameron ha disposto l'immediato rientro in patria. Nel caos dell'aeroporto di Sharm infatti, Easy Jet è riuscita a far decollare solo 8 dei 18 voli previsti per la giornata. Ma quello che sarebbe dovuto atterrare a Malpensa è stato annullato, e gli italiani che sarebbero dovuti rientrare in patria sono rimasti in Mar Rosso, mentre in tanti restano malamente accampati nelle hall, perché le autorità egiziane sostengono di non potere farli partire tutti nell'arco di 24 ore. L'unica, insufficiente, misura di sicurezza messa in atto dagli egiziani è far partire i passeggeri - quelli che ci riescono - solo col bagaglio a mano, mentre le altre valigie saranno imbarcate su aerei-cargo con controlli speciali. Esempio lampante di un Egitto in cui il presidente al Sisi continua a sostenere che non è stato un attentato solo perché teme il calo delle presenze turistiche, fondamentali per il bilancio dello Stato, dando però prova di un'inefficienza e di una mancanza di serietà persino più gravi di quelle europee.
   Intanto, dai primi esami della prima scatola nera dell'aereo, è emerso che l'Airbus avrebbe subito un improvviso distacco della coda dalla fusoliera: nei primi 23 minuti di volo i sistemi del velivolo funzionavano correttamente, ma poi si è verificato un evento improvviso, dopo il quale la registrazione di ogni parametro di volo s'è interrotta simultaneamente. Un'esplosione non legata alla rottura del motore: a riferirlo è stata la tv France2, citando una fonte investigativa anonima. «ll suono di un'esplosione che ha avuto luogo durante il volo può essere ascoltato sulle registrazioni della scatola nera» ha detto la fonte al canale tivù. Secondo l'investigatore «il rumore non è stato causato da un guasto al motore». Ma forse è stato causato da una bomba. Appunto.

(Libero, 7 novembre 2015)


Boicottaggio, un mostro

Anche lo scrittore Amos Oz presta il fianco all'esclusione di Israele. La prossima linea rossa.

di Giulio Meotti

ROMA - Il boicottaggio di Israele ha forse incassato la sua vittoria più grande. Non la chiusura di una fabbrica Sodastream. Non un docente di Oxford che taglia i ponti con il Technion. Non una banca di Oslo che sospende gli accordi con una di Tel Aviv. No, Amos Oz, il più grande scrittore israeliano vivente, che annuncia un boicottaggio silenzioso delle istituzioni israeliane quando presenta i suoi libri.
   Racconta Haaretz che Oz ha informato il ministero degli Esteri che da qualche mese non accetta più di partecipare a eventi associati al governo. "Amos Oz capisce che può essere interpretata come giustificazione del boicottaggio", ha spiegato una fonte vicina a Oz. "Se il più grande autore israeliano non vuole apparire a eventi in cui il governo è coinvolto, che cosa vuol dire?". Già, che cosa vuol dire? Che questi scrittori dimenticano che il boicottaggio colpisce anche loro, come è successo a Oz quando è in visita in Italia. E che il boicottaggio è un mostro che ambisce a divorare, pezzo dopo pezzo, ogni legittimità di Israele, fino ad arruolare anche Oz, a ricattarlo al punto di fargli delegittimare le istituzioni del suo stesso paese, che in Israele coincidono, da sempre. Il gesto non viene da un salonnier, un letterato che pontifica dall'estero, ma dall'Ulisse della sinistra israeliana, il grande narratore del kibbutz che, finora, si era sempre mosso all'interno di una cornice di fedeltà ultima al suo piccolo paese assediato.
   Adesso Oz supera la linea rossa e presta il fianco al boicottaggio. Significa, forse, che questa denigrazione planetaria che spopola fra la bella gente è destinata al successo e che, delegittimando Israele, giustifica un ulteriore passaggio della storia ebraica, quella in cui sarà cosa buona e giusta farlo scomparire. La prossima linea rossa è già stata varcata ieri da Peter Beinart, un altro sponsor del boicottaggio, che ha detto che Israele merita il terrorismo e che "raccoglie ciò che semina". Questa settimana, per la prima volta dai tempi del nazismo, l'Europa è tornata intanto a marchiare i prodotti ebraici. Scende nuovamente una pioggia acida sulla testa degli ebrei.

(Il Foglio, 7 novembre 2015)


La solitudine degli ebrei

di Giacomo Kahn.

È un dato di fatto, una realtà con la quale dobbiamo convivere, il silenzio del mondo sulla nuova fase del terrorismo palestinese a 'bassa' intensità, ma ad alta brutalità, che ormai da mesi colpisce ogni giorno la popolazione civile israeliana.
   E' un fatto doloroso constatare che quegli stessi mezzi di informazione, quegli stessi opinionisti e leader politici che parlano sempre in difesa delle ragioni e dei diritti del popolo palestinese, tacciono e sono silenziosi davanti alla quotidiana violenza che insanguina le strade delle città israeliane.
   Salvo pochissime e rare eccezioni, vi è una cappa di silenzio, c'è un assoluto rifiuto a prendere le distanze dall'estremismo arabo e a criticare un fanatismo palestinese che di politico, di rivendicazione territoriale, non ha più nulla, radicalizzandosi solo come puro odio anti ebraico e anti israeliano. E' incredibile constatare come la quotidiana incitazione palestinese all'odio contro gli ebrei (definiti come maiali, stupratori e come mangiatori di sangue) cresca ogni giorno di più. La politica educativa palestinese del rifiuto al dialogo e al riconoscimento dell'altro, che per anni è stata riversata a piene mani nelle moschee, sui libri di testo delle scuole di Ramallah e di Gaza e nei programmi televisivi per bambini della tv palestinese, ha trovato da pochi anni un nuovo e più potente mezzo di diffusione attraverso internet e i social media. Alcune pagine di Facebook non hanno nulla da invidiare alle peggiori campagne antisemite ideate dal ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels. Il paragone non deve apparire esagerato: contro gli ebrei è in corso una nuova campagna di antisemitismo, nella forma di un nuovo nazismo degli anni 2000 che si chiama estremismo islamico e che come il nazismo di 70 anni fa, aspira alla conquista del mondo e ad un pensiero totalitario. È così macroscopica la campagna antisemita che ben 20.000 israeliani hanno deciso di fare causa a Facebook con l'accusa che la piattaforma social abbia "intenzionalmente ignorato la diffusa istigazione e gli appelli all'omicidio di ebrei postati sulle sue pagine da palestinesi", ma soprattutto con l'accusa di aver rifiutato di rimuovere "l'ondata di video estremisti, affermazioni e fumetti postati dai palestinesi che incoraggia l'attuale violenza".
   Negli accoltellamenti di civili israeliani, nella deliberata volontà di ucciderli con le auto o con le pietre, o con le molotov, non c'è più alcuna "disperazione", non c'è la "povertà", vi è solo "barbarie" che dovrebbe essere condannata senza se e senza ma. Ed invece non solo vi sono i soliti tentennamenti dell'informazione e della politica mainstream, ma anzi contro gli israeliani si muove l'accusa di eccesso di violenza, di abuso nell'uso della forza per fermare i giovani terroristi. Dovrebbe risultare persino banale ripetere quello che recentemente ha detto l'ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon: "Chi si appresta ad accoltellare un militare o un civile israeliano non può pensare di uscirne vivo. Non vi è alternativa a sparare ad un aggressore".
   Nessun distinguo, nessuna minimizzazione, nessun compromesso troveremmo se la stessa violenza, gli stessi accoltellamenti, avvenissero nelle strade di Parigi, Londra o New York. Ma quando l'assassinio a sangue freddo e a tradimento avviene nelle strade di Gerusalemme ecco che sui giornali scatta una cronaca retorica che parla di "spirale" di violenza, e che pone sullo stesso piano i terroristi suicidi e le loro vittime. Questo è l'isolamento che vive Israele. Questo è il silenzio che alimenta l'isolamento.

(Shalom, novembre 2015)


Taqyyia, ovvero l'arte della dissimulazione

di Deborah Fait

Un ministro siriano dell'educazione scrisse nel 1968: " L'odio per gli ebrei con cui indottriniamo le menti dei nostri figli fin dalla loro nascita è sacro". Questo è il succo che ha avvelenato tutta la storia di Israele e degli ebrei, il nocciolo della propaganda islamica che l'occidente non capisce: la programmazione all'odio attraverso la taqyyia, la menzogna permessa, anzi caldamente consigliata, purché porti bene all'Islam.
  La simulazione della verità, negarla e sostituirla con vagonate di fandonie è il segreto del successo palestinista nel mondo occidentale che, volentieri, ci casca come una peracotta. Diciamo sempre che gli arabi sono bravissimi nell'arte della propaganda. E' vero, ma la loro bravura si basa tutta sulle bugie che raccontano, sull'assoluta impudenza e mancanza di coscienza che li distingue e sulla vigliaccheria tipica di chi vuole fare del male fingendosi vittima e gettando sulle vere vittime la colpa di ogni cosa.
  Da sempre il rapporto tra arabi ed ebrei si basa sulla Taqyya e sulla propaganda mortale. Uccidere gli ebrei è un sogno che esiste da sempre, da molto prima che fosse fondato il moderno Stato di Israele, ma, per meglio desensibilizzare la gente in modo che non abbia rigurgiti di coscienza, questi vengono trasformati in non-persone, cioè ebrei scimmie e maiali, animali impuri che se li ammazzi verrai premiato. Le 72 vergini in attesa del paradiso islamico sono un gran bel premio. Questa è stata anche la tecnica usata dai nazisti per desensibilizzare i soldati, le SS, i guardiani dei campi della morte: ridurre gli ebrei da persone a numeri, li cancelli ed è finita lì, oppure a insetti da schiacciare, semplicemente. Per i nazisti niente vergini in attesa del martire/eroe, ma forse la soddisfazione di ripulire il mondo ariano da numeri astratti o da insetti immondi era sufficiente affinché facessero molto bene il loro lavoro.
  E avanti con le menzogne: ci hanno rubato la terra, i palestinesi esistevano 3000, che dico, 30.000 anni fa, gli ebrei-scimmie-maiali sono invasori, vanno uccisi, vanno gettati in mare, avvelenano l'aria che respiriamo (questa fu detta da Suha Arafat a Illary Clinton), ci infettano con virus costruiti in laboratorio, ci mandano uccelli e pesci spie, vogliono distruggere Al Aqsa, ammazzano i nostri bambini, usano il loro sangue per preparare le azzime... L'ultima grande invenzione: i corpi dei terroristi uccisi vengono riconsegnati senza organi, persino senza bulbi oculari. Questa è recentissima, detta ieri all'assemblea dell'ONU davanti a un incredulo ambasciatore di Israele che non sapeva se ridere o piangere o mandarli semplicemente al diavolo.
   Abu Mazen ha battuto questi tasti, instancabile, per mesi, fino a far scoppiare la jihad dei coltelli (per poi chiedere aiuto al mondo perché Israele osava reagire). Lo sceicco Muhammad Ahmed Hussein gli ha dato una gran mano assicurando la popolazione che Al Aqsa è stata costruita da Adamo, sì, quello di Adamo ed Eva, proprio lui, e che gli ebrei-scimmie-maiali la vogliono radere al suolo per costruirvi il loro Tempio. La stessa tecnica della fandonia , 'Gli ebrei vogliono distruggere Al Aqsa', fu usata dal Gran Mufti, Amin al-Husseini, sì proprio l'amico di Hitler, per scatenare i pogrom del 1929 e del 1936 quando furono massacrate le comunità ebraiche di Hebron, Yavne, Gerusalemme, Shchem. Questo gli valse una fama mondiale nel mondo islamico che, nel 1931, lo elesse presidente dei Luoghi Santi dell'Islam, e nel mondo nazista che gli affidò il comando delle SS musulmane in Bosnia, nel 1941.
  E così avanti, di menzogna in menzogna, di taqyya in taqyya, scatenano contro ebrei innocenti giovani arabi imbevuti di odio e di propaganda, servita a pranzo, cena e colazione. Ma non basta, incitano contro Israele il mondo intero e così abbiamo Amnesty (Amnesy) International che inverte le colpe e condanna Israele che difende i propri cittadini dagli accoltellatori arabi. In un mese 48 accoltellamenti, 5 investimenti con automobile, sparatorie e sassaiole a non finire, 11 israeliani morti, 132 feriti, un'infinità di persone sotto stress e Amnesy incolpa Israele perché ammazza gli attentatori. Il capo di Amnesy, Philip Luther, ha avuto il coraggio disgustoso di insinuare che l'IDF " mette apposta i coltelli in mano ai palestinesi uccisi". A proposito di accoltellamenti, a Santa Clara, in Minnesota, un giovane arabo di nome Feisal Mohammad, ha voluto imitare i suoi fratelli palestinisti prendendo a fendenti e ferendo gravemente cinque studenti. La polizia lo ha ucciso. Non ho sentito Amnesy condannare la polizia americana né accusarla di aver messo il coltello in mano al povero innocente Feisal per giustificarne l'uccisione.
  Le menzogne palestiniste contro gli ebrei hanno il potere di innescare ondate di odio in tutto il mondo: su un aereo in Etiopia un sudanese ha tentato di strangolare un passeggero israeliano urlando "Allah Akhbar". A Roma un gruppo di filopalestinisti ha fatto un blitz al ristorante "La stazione di posta" al Testaccio, urlando e sventolando bandiere palestiniste perché lo chef è accusato di essere "amico dei sionisti e complice del colonialismo israeliano". A costoro e a tutti gli ammiratori dei terroristi arabi , BDS, Centri sociali, Salam i ragazzi dell'olivo e a tutte le organizzazioni neo naziste( sia rosse che nere) suggerisco di fare un viaggetto a Gaza dove vi sono ben due negozi "Hitler". Il primo (aperto 3 anni fa) ha riscosso un tale successo che ne hanno appena inaugurato un secondo, Hitler2, dove si trovano bellissimi jeans di marca "Hitler Jeans". Con soli 17 euro i filopalestinisti potranno fare un figurone ogni volta che andranno a manifestare contro Israele. Quasi dimenticavo, i manichini di questi due negozi hanno tutti in mano un bel coltello... il consumismo va bene, niente da dire, ma non bisogna dimenticare il dovere di ogni bravo palestinista, piantare un coltello nella schiena di qualche ebreo.
     Ma il più grande risultato della Taqyya è senz'altro la marchiatura dei prodotti israeliani al di là della linea verde. Una vergogna tutta europea, un vizio che l'Europa non ha mai dimenticato. Anni e anni di propaganda bugiarda e battente, anni e anni di vittimismo e di accuse false a Israele hanno risvegliato negli europei l'odio antico , l'ossessione da cui non si sono mai liberati, il virus che infetta le menti e i cuori da millenni. A volte mi chiedo come sia possibile che un'Europa cupa che odia così tanto, per così lungo tempo, che ha avuto per secoli il desiderio di uccidere una parte, la più pacifica, dei suoi abitanti, possa aver generato un Michelangelo, un Leonardo, un Beethoven. Che siano stati momenti di distrazione?

(inviato dall'autrice, 7 novembre 2015)


Perché mente spudoratamente?

Quanto va dicendo il gran mufti islamico sulla storia del Monte del Tempio è come minimo sconcertante, e sicuramente molto molto preoccupante.

Il più autorevole giureconsulto islamico a Gerusalemme, il gran mufti Muhammad Hussein, ha recentemente affermato che il primo uomo, Adamo, forse con l'aiuto degli angeli, costruì l'odierna Cupola della Roccia, il santuario islamico di milletrecento anni fa che sorge sulla sommità del Monte del Tempio, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Pertanto, ha detto il mufti, il sito è una moschea islamica "da tremila anni fa, e da trentamila anni fa".
Hussein ha fatto queste affermazioni durante un'intervista in arabo alle news dell'emittente israeliana Canale Due. Come già altre volte in passato, Hussein ha negato con veemenza che il sito sia mai stato la sede dei Templi dell'ebraismo, né il primo attribuito a re Salomone, né il secondo ristrutturato da Erode il Grande. Secondo lui, infatti, il sito è sempre stato un luogo sacro esclusivamente islamico "sin dalla creazione del mondo"....

(israele.net, novembre 2015)


Perché Facebook non c'entra niente con l'"Intifada dei coltelli"

Il New York Times scrive che gli accoltellamenti di ebrei in Israele sono ispirati dall'incitamento alla violenza sui social network. Ma i terroristi palestinesi nemmeno avevano.

di Gabriele Carrer

Non è, come spesso gli esperti hanno sostenuto, l'Intifada dei social network. Gli attacchi con coltello a cittadini israeliani iniziati a Gerusalemme a fine settembre sono spesso stati spiegati come il risultato dell'odio che imperversa sulla rete, e Facebook è stato accusato di essere il principale mezzo di istigazione e di coordinamento dei terroristi. Ma secondo i rapporti degli investigatori israeliani citati dal Times of Israel, quella che i media palestinesi hanno definito "al Quds intifada", l'Intifada di Gerusalemme, si è sviluppata secondo schemi più tradizionali: la comunicazione interpersonale e le televisioni.
   Lo scorso 3 novembre il New York Times ha pubblicato un op-ed dell'imprenditore israeliano Micah Lakin Avni, figlio di Richard, ucciso in un attentato terroristico nella parte sud di Gerusalemme est, mentre viaggiava a bordo di un autobus pubblico. Nell'op-ed, intitolato "The Facebook Intifada", Lakin si chiede cosa può aver spinto due giovani palestinesi ad attaccare il padre e un autobus pieno di civili. Il padre Richard, un ebreo americano emigrato in Israele, aveva dedicato la vita alla causa di riconciliazione israelo-araba, insegnando inglese imparato a bambini israeliani e arabi e ispirandosi a Martin Luther King, nelle cui manifestazioni marciò negli anni Sessanta.
   Oggi, ha scritto Lakin, i leader mondiali che hanno un maggiore impatto nella situazione del medio oriente non sono Ban Ki-moon o Benjamin Netanyahu, ma Mark Zuckerberg di Facebook, Jack Dorsey di Twitter e i ceo dei social network della Silicon Valley. Secono Lakin ormai i social network sono il principale luogo di reclutamento, organizzazione e incitamento al terrorismo per i giovani palestinesi, e chi gestisce Facebook e Twitter ha il dovere di attuare politiche più dure contro l'odio e la violenza che viaggiano in rete.
   Ma secondo un'inchiesta del Times of Israel, i social network non hanno quel ruolo primario nell'espansione della violenza che gli altri media tendono ad attribuirgli. Molti dei terroristi palestinesi, scrive il giornale israeliano, non hanno nemmeno un account su Facebook. Certo, i social sono l'arena degli sfoghi dei giovani palestinesi e una delle piattaforme attraverso cui Hamas veicola i suoi messaggi d'odio. Ma se circa la metà dei giovani palestinesi che vive nelle città è su Facebook, lo stesso non si può dire per chi abita nei villaggi e nei campi profughi. Nell'area di Hebron, ad esempio, in buona parte delle abitazioni non arriva la corrente elettrica
   Secondo il Times of Israel, più che i social network sono le televisioni palestinesi come Al Aqsa Tv che contribuiscono a dare ai terroristi il "senso della missione". A questo si aggiungono strumenti di mobilitazione tradizionali, che spesso contribuiscono a concentrare diversi attacchi in poche ore, come il fenomeno chiamato in arabo fazaah, un allarme o grido che guidi il popolo ad attaccare. Il caso di una giovane donna di un villaggio nei pressi di Nablus è esemplare. La ragazza, che vive in una zona che non ha energia elettrica continua, ha detto agli investigatori di essersi convinta ad attaccare quando ha sentito parlare di una donna palestinese uccisa da un soldato israeliano a Hebron mentre preparava un accoltellamento. Un racconto udito per le strade della città che l'ha portata a vendicare una donna che neanche conosceva.

(Il Foglio, 6 novembre 2015)


Israele: un attentato ogni quattro ore

I palestinesi hanno dato il via libera ad una guerra di 'basso profilo', che si svolge nelle strade delle città israeliane, usando come armi macchine, bottiglie incendiarie, coltelli e pistole. Obiettivo: eliminare la presenza ebraica.

di Ugo Volli

Nel momento in cui scrivo questo articolo, l'impressione generale alimentata dai media è che Israele si trovi nel punto culminante di un'ondata terroristica senza precedenti dopo la cosiddetta "seconda intifada", la campagna di attentati suicidi che devastò autobus, locali pubblici, mercati e stazioni di Israele fra il 2000 e il 2003. Quest'impressione, come ho scritto, è alimentata dai media e non è del tutto esatta. L'ondata terroristica non è un momento puntuale dell'ottobre 2015, ma è montata almeno da tre mesi prima.
  Dai dati del Meir Amit Intelligence and terrorism Center risulta che in luglio in Giudea, Samaria e Gerusalemme c'erano stati 105 attacchi terroristici "duri" (cioè esclusi i lanci di pietre, dunque spari, bombe molotov, accoltellamenti, investimenti automobilistici ecc): in media 3,5 attacchi al giorno. E' una quantità notevolissima. In agosto sono stati 168, cioè 5,5 al giorno, poco meno di uno ogni quattro ore, giorno e notte. All'inizio dell'autunno gli attentati sono aumentati di numero e hanno avuto anche conseguenze più gravi, uccidendo 5 israeliani fino al 10 ottobre. Ma vale la pena di ricordare che fra
Tutte queste azioni hanno lo scopo di eliminare la presenza ebraica in Eretz Israel e restaurarvi un dominio musulmano. La forma politica non conta, quel che conta, e che è scritto esplicitamente in tutti i documenti programmatici delle organizzazioni palestinesi, è l'eliminazione degli ebrei dalla Palestina
settembre e novembre dello scorso anno c'era stata un'altra ondata terrorista, che aveva ucciso 11 israeliani, fra cui le vittime dell'atroce attentato della sinagoga di Nar Hof, a Gerusalemme. E prima, a giugno, c'era stato il rapimento e l'uccisione dei tre studenti del Gush Etzion, il bombardamento dei razzi da Gaza, l'operazione per farli cessare, altri attentati in tutto il paese. Insomma non si tratta di un fenomeno improvviso, come l'ha presentato la stampa. Se vogliamo guardare a un quadro più grande, dai pogrom degli anni Venti, Trenta e Quaranta domati a malapena dagli inglesi, alle guerre con gli eserciti arabi, agli attentati dei fedayn e dei militari arabi che furono definiti "guerra d'attrito", ai grandi attentati internazionali contro gli aerei, le navi, gli atleti e i singoli cittadini israeliani e i centri comunitari ebraici, fino alle "intifade" di un movimento che aveva incominciato a definirsi "palestinese", e all'ultima guerriglia diplomatica e legale, c'è una qualche differenza di metodi e di tattiche ma una perfetta continuità di obiettivi. Tutte queste azioni hanno lo scopo di eliminare la presenza ebraica in Eretz Israel e restaurarvi un dominio musulmano. La forma politica non conta, può essere la Grande Siria, il regno di Giordania o l'Egitto (occupanti della "Palestina" contro cui i "palestinesi" non hanno mai protestato) o piuttosto il Califfato o un impero arabo unito. Quel che conta, e che è scritto esplicitamente in tutti i documenti programmatici delle organizzazioni palestinesi, è l'eliminazione degli ebrei dalla Palestina - almeno dalla Palestina, perché nella tradizione musulmana vi è più di un elemento apocalittico che fa della distruzione del popolo ebraico da tutto il mondo la condizione per la vittoria nella battaglia finale. Coloro che indicano la crisi delle trattative di pace, naturalmente dovuta all'insufficiente arrendevolezza di Israele, come causa delle violenze, ignorano questo dato di fatto elementare: questi attentati sono una fase di una guerra ininterrotta che gli arabi hanno scatenato circa un secolo fa, quando si sono accorti che la comunità ebraica - fino ad allora piuttosto piccola, anche se non trascurabile, ma soprattutto tradizionale e dunque sottomessa al predominio islamico, chiusa nel ruolo servile dei dhimmi - stava crescendo, rafforzandosi, modernizzandosi, arricchendosi, radicandosi nell'agricoltura; insomma che cambiava l'equilibrio politico e sociale verso quella grandissima modernizzazione che sarebbe diventata poi lo Stato di Israele. Che ci fossero o no le "colonie", che Giudea e Samaria e Gerusalemme fossero sotto il dominio turco, inglese, giordano o israeliano; che ci fosse o no lo Stato di Israele non ha avuto alcuna influenza sulla determinazione a "uccidere gli ebrei" che è anche la sostanza degli ultimi attentati.
  Che questi siano condotti soprattutto da ragazzi piuttosto giovani per lo più privi di appartenenza formale a un gruppo terrorista, invece che, come accadde 15 anni fa, dai Tamzim guidati da quel Bargouti che la politica di sinistra considera una reincarnazione di Mandela, anche se è responsabile di decine di omicidi; che le masse degli arabi di Giudea e Samaria siano poco mobilitate e lo siano di più invece gli arabi israeliani e i residenti arabi di Gerusalemme, che l'arma prescelta sia soprattutto il coltello (ma senza ignorare pietre sulle macchine, bombe molotov) e raramente le armi da guerra vere e proprie o le cinture esplosive, sono senza dubbi fatti significativi, che potrebbero essere indizi della dissoluzione delle
Che cosa può fare Israele per scongiurare questa minaccia terroristica parzialmente rinnovata? In primo luogo, come ha sempre fatto, adattare le proprie tattiche, imparare a rendere complicate e costose le nuove modalità del terrorismo, come aveva fatto a suo tempo stringendo accordi con la Giordania.
organizzazioni palestinesi e del loro progetto politico, verso quella forma di anarchia per bande che sembra prevalere in buona parte del mondo arabo; ma la cosa più importante è la continuità. Che cosa può fare Israele per scongiurare questa minaccia terroristica parzialmente rinnovata? In primo luogo, come ha sempre fatto, adattare le proprie tattiche, imparare a rendere complicate e costose le nuove modalità del terrorismo, come aveva fatto a suo tempo stringendo accordi con la Giordania o entrando nel Libano contro la minaccia di un esercito dell'Olp stanziato ai confini; e poi rafforzando la sicurezza degli aerei, sviluppando Iron Dome contro i missili di Hamas, erigendo la barriera di sicurezza contro gli attentatori suicidi. Qui si tratta di controllare giovani che evitano la barriera perché spesso si procurano i coltelli in Israele o abitano già al di qua dei controlli. Ma comunicano coi social media, hanno un profilo sociale assai preciso e sono ben identificabili dalla sicurezza anche se per aspetto talvolta possono non essere facilmente distinguibili a occhio. Non è un compito al di là dei mezzi e dell'esperienza delle forze dell'ordine di Israele - soprattutto se la percezione del pericolo e la volontà di contrastarlo è chiara. E già è chiara la percezione che i terroristi quando assalgono i civili spesso non riescono a ucciderli, ma inevitabilmente sono catturati o uccisi; insomma questo tipo di terrorismo non è così conveniente per chi lo pratica, soprattutto se la comunità internazionale si rassegnerà a condannarlo pur essendo in generale anti-israeliana, se non altro per evitare l'effetto di imitazione che potrebbe suscitare.
  Sul piano politico, quel che non deve fare Israele è seguire le vecchie ricette dei nostalgici dell'ambiguità: riprendere le trattative, promettere all'Autorità Palestinese cessioni di territorio che, come si è visto, servono solo da basi per nuovo terrorismo, subire il ricatto dell'Europa e dell'Amministrazione Obama che vogliono il ritorno ai "confini di Auschwitz", come Abba Eban definì la linea verde degli armistizi del '49 che l'Autorità Palestinese (e l'Europa e l'Amministrazione Obama con essa) vorrebbe stabilire come frontiere internazionali.
  Al momento in cui scrivo, la spinta del "terrorismo a bassa intensità", come alcuni dicono, o della "Resistenza popolare" come la chiamano palestinesi e loro amici europei, è ancora forte, ma sembra tutt'altro che irresistibile. Non ha contagiato le masse, come ho detto, anche perché la condizione economica dei sudditi dell'Autorità Palestinese non somiglierà a quella degli abitanti del Qatar, ma certo è infinitamente migliore a quella dei vicini della Giordania, della Siria e dell'Egitto; è limitata a ragazzi indottrinati dalla nascita, e non sembra controllata efficacemente dai movimenti tradizionali come Fatah e Hamas, anzi sembra indicare la loro disgregazione. E' possibile che tali impressioni non siano confermate al momento in cui leggerete queste righe, ma è anche possibile che per allora l'ondata si smorzi. In ogni caso Israele ha la prospettiva di chi si difende in una lunga guerra d'attrito: deve resistere, non cedere, non illudersi sulle intenzioni dei suoi nemici, essere consapevole della propria forza e del proprio buon diritto, crescere e svilupparsi come un grande albero dei boschi piantati dai primi pionieri, cent'anni fa.

(Shalom, novembre 2015)


Goebbels? Un dilettante

di Fiamma Nirenstein

Joseph Goebbels sarebbe invidioso dell'uscita del capo della delegazione palestinese all'Onu Riyad Mansour che ha scritto al presidente del consiglio di sicurezza inglese Matthew Rycroft per affermare che organi dei terroristi uccisi in questo periodo sono stati asportati dagli israeliani. Un vero è proprio blood libel, una teoria del sangue simile a quella per cui gli ebrei uccidono i bambini e ne prendono il sangue per mescolarlo alle loro azzime. Il mufti della Moschea di Al Aqsa l'ha detto a giugno. Del resto i palestinesi hanno una tradizione molto efficace di balle sesquipedali: per restare in tempi recenti, in marzo accusavano gli ebrei di diffondere la droga fra i loro giovani; ad aprile, di avvelenare i prigionieri delle carceri israeliane con esperimenti «degni del dottor Mengele», poi a giugno di aver pianificato l'incendio della Moschea di Al Aqsa; a luglio di aver organizzato gli attentati in Egitto (quelli dell'Isis e simili) con dozzine di morti; poi il consigliere di Abu Masen Mahmud el Abbash ha individuato il piano della conquista del Medio Oriente «dall'Eufrate al Nilo»; e poi è venuta la grande bugia parallela all'ondata terrorista dei coltelli ovvero che gli israeliani si inventano la balla del terrorismo per uccidere i giovani a sangue freddo. Di quando in quando si rinfresca l'idea che gli ebrei siano dietro all'11 settembre americano, e che avvelenino le acque di Gaza. Qualcuno forse si ricorda che una stupefatta Hillary Clinton in visita udì questa accusa già da Suha Arafat. L'avvelenamento dei pozzi è un tipico "topos" dell'antisemitismo classico. Goebbels diceva: « Se ripeti abbastanza una grande bugia, alla fine la gente ci crederà». Aggiungeva che la bugia si può mantenere col controllo stretto e deciso dei mezzi di comunicazione che regolano l'opinione pubblica. Aveva ragione, purtroppo.

(il Giornale, 6 novembre 2015)


Nel centro di Gaza vanno a ruba gli Hitler jeans nel negozio che porta lo stesso nome

Questa settimana per un giorno anche i manichini hanno impugnato coltelli

 
Con il modico importo di settanta shekel (17 euro) i giovani di Gaza possono adesso fare un figurone comprandosi pantaloni alla moda: sono gli 'Hitler jeans', lanciati sul mercato da un paio di intraprendenti e spregiudicati commercianti di abiti che attraversano una fase di espansione delle proprie attività. Al negozio 'Hitler' aperto tre anni fa nel rione di Sheikh Radwan hanno adesso affiancato, in pieno centro di Gaza City, anche 'Hitler-2'. Hanno pure tentato di cavalcare a loro modo l'ondata di emozione che fa fremere i giovani di Gaza di fronte alla 'intifada dei coltelli' che da ottobre investe la Cisgiordania ed Israele. Questa settimana per un giorno anche i loro manichini, in un gesto di solidarietà politica, hanno impugnato coltelli dalle lunghe lame. La foto ha però avuto risonanza internazionale e ai gestori di 'Hitler-2' è stato vivamente consigliato di rimuovere i coltelli. Oggi i loro manichini esprimevano in maniera un po' meno marcata il sostegno ai giovani in rivolta a Gerusalemme est e in Cisgiordania: avevano il volto coperto da 'keffye' e sciarpe con i colori nazionali palestinesi. Ma nessun genere di arma. Varcata da non molto la soglia dei 20 anni, i fratelli Hassan e Ahmed Radwan sono ormai commercianti affermati. Tre anni fa, quando erano ancora alle prime armi, si erano dovuti ingegnare per trovare un nome adeguato al loro modesto negozio di abbigliamento. La ispirazione giunse a sorpresa dall'India dove - avevano letto su internet - il gestore di un negozio era stato obbligato dalle autorità a rinunciare al 'brand' Hitler per i propri prodotti. Ma nelle strade di Gaza evidentemente ci sono problemi più assillanti per cui i due fratelli sfruttarono la trovata fino in fondo. Esposero in vetrina manichini vestiti con abiti in stile Anni Trenta; alcuni erano in posa adeguata, col braccio destro elevato. Presto la stampa locale si accorse del negozietto, ed il successo commerciale non tardò ad arrivare. Mille volte e' stata rivolta la stessa domanda e mille volte Hassan Radwan ha risposto allo stesso modo: ''Noi non abbiamo nulla a che spartire con la politica. Siamo solo commercianti, e vogliamo vendere. Piaccia o no, questo e' il nostro marketing''. E a quanto pare ai giovani della Striscia il richiamo al Führer non disturba. Anche oggi a Hitler-2 alcuni si sono fatti i 'selfie' fra i manichini dell'intifada dei coltelli.

(ANSA, 6 novembre 2015)


Questo è lo “stato” accanto al quale Israele dovrebbe vivere “in pace e sicurezza”.


Alcune cose utili per capire Israele

Non tutti sanno che...

Ci chiediamo come può Israele scendere a patti con i palestinesi quando Abu Mazen governa assieme ad Hamas, che ha come primario scopo la distruzione di Israele. Come può dialogare Israele con coloro che invece di usare i milioni di euro che arrivano da ogni parte del mondo per la ricostruzione di Gaza, aiutare la popolazione che muore di fame o per costruire ospedali, case ed asili, usano i soldi per rifornirsi di armi, costruire tunnel per entrare a colpire il popolo ebreo, con missili? Quanti sanno che «Boko Haram» in nigeriano significa «L'educazione occidentale è peccato»? Israele è l'unico baluardo anti/Iran e della sua politica di espansione nucleare, autentico pericolo per tutta l'umanità! Quanti sanno che Israele è leader mondiale per la conservazione dell'acqua e per l'energia geotermica e grazie agli studi di ricerca effettuati dall'Università Ben Gurion la sabbia ed i sassi sono stati trasformati in alberi e giardini? Israele ha solo una colpa avere rotto la regola della sharia che non accetta nessuna presenza estranea alla propria religione sul territorio islamico.
Susanna Boscaro, Sergio Celin
Padova

(il Giornale, 6 novembre 2015)


Il turismo colpito e affondato, la prima vittoria del Califfato

I terroristi islamici attaccano i vacanzieri per uccidere l'economia dell'Egitto, a un passo dall'oscurantismo.

di Magdi Cristiano Allam

 
Sharm el-Sheikh
In parallelo all'apertura di un fronte di guerra islamico contro la Russia di Putin, che avrebbe il suo battesimo di sangue con la morte di 224 persone nell'esplosione in volo nel Sinai dell' Airbus 321 della Kogalymavia, bisogna ricordare che la guerra del terrorismo islamico contro i turisti c'è sempre stata. La preoccupazione dei Paesi occidentali per la sorte delle decine di migliaia di turisti rimasti bloccati a Sharm el-Sheikh è legittima.
   L'Egitto, al pari dell'Italia, potrebbe vivere di turismo. È probabilmente il più bel museo a cielo aperto del mondo, oltre a beneficiare di coste e di un clima che lo rendono una delle mete turistiche più gettonate. Ma, a differenza dell'Italia, è in guerra perenne con i terroristi islamici, che condannano a morte i turisti in quanto incarnazione del male, di valori e di costumi denunciati come contrari alla sharia, alla legge di Allah.
   Forse non sapremo mai la verità sulla tragedia dell'aereo russo. Così come è già successo con il Boeing 737 della compagnia privata egiziana Flash Airlines, precipitato in mare poco dopo il decollo da Sharm el-Sheikh il 3 gennaio 2004 con 148 persone a bordo, di cui 133 francesi. Nessun superstite. Nove mesi dopo, il 13 ottobre 2004, il capo della commissione d'indagine Shaker Kelada disse che sulla tragedia c'era il buio totale: «È assai prematuro dire che si sia trattato di un errore umano perché le indagini sono ancora in corso». La verità è che l'Egitto ha tutto l'interesse a nascondere la verità qualora si tratti di attentato terroristico, perché le conseguenze economiche sarebbero pesantissime, in termini di blocco della macchina del turismo che crea occupazione per decine di altri comparti imprenditoriali, per il mancato introito di valuta pregiata, per il crollo del tenore di vita della popolazione che alimenterebbe il malcontento nei confronti del governo, in un contesto dove il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
   Il turismo è stato il bersaglio privilegiato dei terroristi islamiei. Il 17 novembre 1997 sei terroristi falcidiarono a raffiche di mitra 58 turisti occidentali e una decina di poliziotti nella Valle delle Regine a Luxor, prima di suicidarsi. Per circa un anno il turismo, che costituisce la locomotiva trainante dell'economia, si arrestò. Da allora il turismo in Egitto è stato blindato, le strutture turistiche sono state militarizzate. Il 7 ottobre 2004 a Taba, località balneare sul Mar Rosso, un'autobomba dilaniò l'Hotel Hilton, 29 1e vittime, di cui 13 israeliane, e due sorelle italiane, Jessica e Sabrina Rinaudo. Il 231uglio 2005 due autobombe e una serie di esplosioni, sembra provocate da 5 terroristi suicidi, provocarono a Sharm el-Sheikh 83 morti.
   I turisti vengono uccisi non per ciò che fanno, ma per ciò che sono. Non è sempre stato così. Ricordo come negli anni Cinquanta e Sessanta le donne musulmane non avevano remore a frequentare le spiagge in costume da bagno, mentre oggi si immergono nell'acqua completamente vestite. Colpire il turismo corrisponde anche ad affondare l'Egitto sempre più nelle tenebre dell'oscurantismo islamico.

(il Giornale, 6 novembre 2015)


Israele introduce il "Visto Innovazione" per startup e lavoratori stranieri

Israele sta introducendo un nuovo visto per i lavoratori stranieri specificamente orientato verso l'high-tech ed il settore delle startup.
Un primo gruppo di circa 50 cosiddetti "Visti Innovazione" sarà dato ai professionisti stranieri alle dipendenze di un gruppo selezionato di aziende. 12 è il numero delle prime aziende che beneficeranno di questi visti. Nel frattempo il programma è destinato ad aumentare per consentire ai titolari di Visto la possibilità di creare in futuro nuove imprese.
Avi Hasson, Chief Scientist del Ministero dell'Economia israeliana, commenta:

Ci aspettiamo una risposta immensa da parte degli imprenditori, perché questo programma aiuta a sviluppare le idee e a creare startup uniche.

Le norme sui visti attuali sono rigorose, per questo motivo un nuovo tipo di visto potrebbe essere un valido strumento per attrarre esperti di tecnologia dall'estero e per continuare gli investimenti.
I titolari di visto che vogliono rimanere in Israele avranno la possibilità di ripristinare o effettuare un "upgrade" per farlo diventare un "Visto Expert", se hanno intenzione di lanciare nuove imprese all'interno dei confini israeliani.

(SiliconWadi, 6 novembre 2015)


L'ennesima figuraccia dell'Onu. Leon pagato dagli amici di Tobruk

Mentre stava trattando per la pace in Libia l'ex inviato firmava un contratto da 50.000 euro al mese per un incarico negli Emirati Arabi. Tripoli: è un'offesa.

di Carlo Panella

Bernardino Leon
L'inviato dell'Onu per la Libia Bernardino Leon, mentre trattava la pace tra le parti libiche, ha firmato un contratto siderale come direttore della Accademia Diplomatica di 1.540 dollari al giorno (50.000 dollari netti al mese) da una delle parti, dal governo di Abu Dhabi, la cui aviazione, quella degli Emirati Arabi Uniti, ha spesso bombardato le milizie di Tripoli. Un'indecenza e uno scandalo che distruggono definitivamente la già scarsa credibilità dell'Onu e che rendono impossibile la mediazione del suo successore, il tedesco Martin Kobler, la cui parola e le cui proposte non avranno nessun peso, perché Tobruk come Tripoli vedranno dietro ogni sua mossa un possibile contratto milionario dalla controparte. Uno scandalo che mette inoltre in grave, enorme, imbarazzo il governo Renzi, che ha sempre tentato in tutti i modi la strada dell'accordo, che però ha riconosciuto legittimità solo al governo di Tobruk (il cui sponsor degli Emirati Arabi Uniti ha assunto Leon) e che ha sempre sostenuto a spada tratta la strada della unica strada percorribile: "la mediazione politica" tentata, appunto, da questo improbabile Leon.
   Ma non basta, l'autorevole Guardian, aggiunge particolari raccapriccianti circa il doppio gioco - a favore solo delle proprie tasche - di Leon. Ha infatti pubblicato una mail inviata da Leon sul proprio account personale il 31 dicembre 2014, 5 mesi dopo aver ottenuto l'incarico Onu, al ministro degli Esteri di Abu Dhabi Abullah bin Zayed (che ora lo ha assunto) in cui dichiarava la propria assolta parzialità a favore di Tobruk: «Non intendo lavorare ad un piano politico che includa tutti e ho una strategia per delegittimare completamente il General National Congress, il Parlamento di Tripoli».
   A sugello di questo tradimento formale e sostanziale del mandato Onu, in difesa dei propri futuri e consistenti emolumenti personali, nella mail Leon afferma: «Tutte le mie mosse e proposte sono state confrontate con - ed in molti casi messe a punto - dal Parlamento di Torbuk e con l'ambasciatore libico negli Emirati Aref Nayed e l'ex premier libico ora residente negli Emirati Mahmud fibril». Incontenibile, spudorato e affetto da grafomania di un dilettante (è ovvio che le sue mail sarebbero state hackerate), Leon ha rassicurato il suo futuro datore di lavoro: «Io posso aiutare a controllare il processo mentre sono qui. Tuttavia, come lei sa, non penso di restare qui a lungo. Sono considerato come sbilanciato a favore di Tobruk, ho consigliato gli Usa, il Regno Unito e l'Ue di lavorare con voi».
   Messo di fronte a queste prove schiaccianti, Leon ha accampato una scusa risibile e ha ribattuto che questo testo non significa nulla e di averne scritti di simile alle altri parti perché «il mio obiettivo era conquistare la fiducia» di tutti gli attori in gioco. Ma, come si dice a Milano, «el tacòn è peggiore del buso». Innanzitutto, perché compito di un mediatore non è dare ragione alle due parti (tecnica da magliaro), ma trovare un punto d'intesa. Poi, la palese falsità di questa linea di difesa di Leon è nei fatti, perché la fiducia ottenuta dalla parte - gli Emirati - che sostiene Tobruk, ora gli frutta un contratto milionario.
   Durissima la reazione del governo di Tripoli che ha sempre accusato Leon di parteggiare per Tobruk e ora ne ha la più indecente prova. Il presidente del Parlamento di Tripoli, Nuri Abu Sahimin, ha scritto a Ban Ki Moon: «Approvare ora la proposta di governo di unità nazionale di Leon, alla luce del suo nuovo lavoro negli Emirati e delle rivelazioni del Guardian, equivale a offendere i "martiri" della rivoluzione libica. La tempistica di questa nomina di Leon ad Abu Dhabi, mentre ai libici viene chiesto di accettare e approvare le sue proposte del mediatore, rappresenta un'offesa al sangue versato dal popolo libico e ai sacrifici fatti durante la rivoluzione del 17 febbraio. Questa nomina è un colpo per la sua imparzialità e neutralità».
   Dunque, ora la crisi libica arretra verso il baratro. Leon ha concluso il suo mandato senza essere riuscito a fare approvare la bozza di accordo dai due Parlamenti e ora non si vede chi e come possa recuperare una trattativa seria. Forse è il caso che il governo Renzi, che avrà i maggiori danni dal-l'impazzimento della crisi libica, si faccia avanti e usi di questo episodio per comunicare all'Onu che è bene che si metta da parte e si assuma in prima persona il compito di tentare un accordo serio tra Tobruk e Tripoli. L'ormai ex inviato speciale Onu per la Libia, lo spagnolo Bernardino Leon.

(Libero, 6 novembre 2015)


Così le guerre in Medio Oriente chiudono i corridoi del turismo

Dal Nord Africa all'Afghanistan sempre più aree non sorvolabili. Per aggirare i pericoli nascono nuove vie e alleanze inaspettate.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - La decisione di Londra di sospendere con effetto immediato tutti i voli da Sharm el-Sheikh conferma che il Sinai è «zona proibita» per le grandi compagnie aree a causa del rischio di attentati terroristici, con bombe o missili. Le «zone proibite» compongono una mappa dell'«alto rischio» per i voli commerciali aggiornata in tempo reale dall'Ente federale Usa per l'aviazione civile.

 Le aree a rischio
 
  Si tratta di una cartina del Grande Medio Oriente, dall'Afghanistan alla Libia, che include «aree rosse» e «aree gialle»: nelle prime viaggi, sorvoli e soste sono del tutto vietati, nelle seconde sono fortemente sconsigliati. Da Est verso Ovest sono «gialli» i territori dell'Afghanistan teatro della guerriglia dei taleban, dell'Iran a causa dei rapporti ancora in bilico con l'Occidente, di Siria e Yemen per le guerre civili, del Kenya per le minacce dei jihadisti somali e del Congo per le violenze che ne infestano gran parte della superficie.
Sorvolare queste «aree gialle» comporta particolari rischi e accorgimenti che solo alcune compagnie accettano di assumersi: ad esempio sui cieli della Siria volano gli aerei delle compagnie giordane e libanesi che collegano Amman e Beirut.
Nel caso delle «aree rosse» invece il divieto è assoluto per la convinzione degli Stati Uniti che vi operino gruppi terroristici in possesso di missili terra-aria tipo Stinger o Sa-7 capaci di abbattere un aereo in fase di decollo o atterraggio. Si tratta dunque di «cieli proibiti» per il traffico commerciale e civile: lo sono sulla Somalia degli shabaab jihadisti fedeli al Califfo dello Stato Islamico, sulla Libia in preda alla guerra fra fazioni armate che hanno svaligiato gli arsenali di Gheddafi dove si trovavano almeno 5000 missili a spalla, sull'Etiopia settentrionale teatro della guerra mai del tutto sopita con l'Eritrea, sull'Ucraina dell'Est e sulla Crimea dove si combattono nazionalisti e filo-russi, sull'Iraq controllato in vaste regioni dai jihadisti di Isis (ma con l'eccezione del Kurdistan, a Nord, considerato sicuro) e sul Sinai egiziano ora divenuto off-limits. In concreto ciò significa che le rotte ancora considerate sicure attraverso il Medio Oriente hanno spazi ben definiti: passano sopra gli Emirati del Golfo, l'Arabia Saudita, la Giordania, il Libano, Israele e il territorio egiziano ad Ovest del Canale di Suez.

 Nuove cooperazioni
  È una nuova mappa del traffico aereo nata per l'impatto dei conflitti locali e dell'estensione dei territori controllati da gruppi jihadisti. Ed è interessante notare come questo nuovo assetto dei cieli regionali vede generare conseguenze opposte ovvero la tendenza a cooperare come finora non è avvenuto. Un esempio a tale riguardo viene dal volo della Royal Jordanian che martedì era partito da Dubai diretto ad Amman ma, a causa di una tempesta di sabbia, è stato dirottato su Tel Aviv.
Gli aerei di linea giordani atterrano regolarmente al «Ben Gurion» ma questa volta il volo aveva a bordo passeggeri arabi cittadini di Paesi ancora in guerra con lo Stato Ebraico. L'aereo è atterrato, il personale del «Ben Gurion» ha portato dolci ai passeggeri a bordo e il tutto si è concluso con uno scambio - informale - di messaggi fra autorità israeliane, giordane ed emiratine. D'altra parte da alcuni mesi è stata rivelata l'esistenza di un volo «privato» che decolla ogni settimana dal «Ben Gurion» verso una misteriosa capitale del Golfo: non figura su nessun registro ma è affollato di uomini d'affari che fanno la spola fra Tel Aviv e i diversi Emirati. Così cambiano i cieli del Medio Oriente in tempo di guerra: le rotte agibili si restringono, le zone «proibite» si estendono e nei corridoi «sicuri» avvengono senza troppo clamore una buona dose di fatti insoliti.

(La Stampa, 5 novembre 2015)


Sordità negli anziani: Israele studia una soluzione

Secondo uno studio israelo-americano, l'assenza di una specifica proteina causa il processo di perdita di udito, che colpisce quasi il 50% delle persone a partire dall'età di 70 anni. Questo studio è stato condotto in collaborazione con il Dott. Rani Elkon, specialista in bioinformatica presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Tel Aviv, e due ricercatori della Facoltà, il Dott. Ronna Hertzano, ora direttore del Laboratorio di Ricerca sulla Sordità dell'Università del Maryland ed il Dott. Eliyahu Efrat, capo del laboratorio della Facoltà di Medicina presso il Mount Sinai Hospital di New York.
Lo studio è stato pubblicato il 15 ottobre 2015 sulla prestigiosa rivista Nature Communications ed apre la strada per il trattamento medico per il ripristino dell'udito tanto nelle persone anziane quanto per quelle che soffrono di malattie.
Il Dott. Elkon spiega:

Il fenomeno ben noto della perdita di udito negli anziani è dovuto principalmente al deterioramento delle cellule ciliate, ovvero quelle che attivano il nervo uditivo nell'orecchio interno. Il buon funzionamento di queste cellule dipende dalle proteine necessarie per la loro specifica attività e a quelle le proteggono dalla morte cellulare. Quindi per sapere che cosa causa la perdita delle cellule ciliate nell'orecchio, è stato necessario identificare i geni all'origine della formazione delle proteine responsabili del loro corretto funzionamento.

A tal fine, i ricercatori hanno isolato in laboratorio diverse cellule dalle orecchie di topi e le hanno sottoposto ad un processo sperimentale.
Questo processo ha permesso loro di identificare quali geni del topo si siano specificamente attivati nelle cellule dell'orecchio. Questa fase del lavoro è stata eseguita presso il Centro di Ricerca del Genoma dell'Università del Maryland, sotto la direzione del Dott. Hertzano ed i risultati sono stati presentati al Dott. Elkon dell'Università di Tel Aviv.
Dallo studio è emerso che una particolare proteina svolge un ruolo specifico importante nelle cellule che comporta il corretto funzionamento dell'udito.
Le ipotesi sono state successivamente convalidate da ulteriori esperimenti condotti in laboratorio dal Dott. Hertzano il quale ha confermato i risultati dello studio: in assenza della proteina RFX, le cellule ciliate dell'orecchio muoiono nello spazio di 2 settimane.
I ricercatori credono che la comprensione del meccanismo con cui le cellule muoiono in assenza della proteina RFX possa sviluppare in futuro terapie per ripristinare l'udito.

(SiliconWadi, 5 novembre 2015)


Israele, Egitto, l'Eni e l'epopea del gas nel mediterraneo

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non ha alcuna intenzione di perdere la sfida energetica per il Mediterraneo ingaggiata con alcuni paesi dell'area, Egitto in primis.

di Gabriele Moccia

 
L'ex ministro dell'Economia israeliano Aryeh Deri
ROMA - Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non ha alcuna intenzione di perdere la sfida energetica per il Mediterraneo ingaggiata con alcuni paesi dell'area, Egitto in primis. Per questo motivo ha silurato in questi giorni il suo ministro dell'Economia, Aryeh Deri, dopo aver dato l'annuncio dello sblocco di un accordo da diversi miliardi di dollari con la compagnia energetica Noble, responsabile dello sviluppo dei giacimenti di gas di Tamar e Leviatano.
  Deri, insieme ad una pattuglia di deputati della Knesset, era infatti il principale ostacolo all'intesa, fervido accusatore della Noble per i suoi comportamenti anticoncorrenziali e monopolistici che non ha mai mancato di denunciare, anche pubblicamente. Qualche giorno fa l'epilogo, in una tesissima riunione di gabinetto, Netanyahu - forte anche del recente incontro con l'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi - ha annunciato le sue dimissioni. Secondo alcuni si tratta di una vera forzatura, per procedere all'accordo per lo sviluppo dei giacimenti offshore con la Noble, i poteri del dicastero all'economia verranno trasferiti direttamente al primo ministro, soprattutto quelli in materia di antitrust che bloccavano le attività della compagnia americana. Netanyahu ha poi parlato dell'avvio di un piano ventennale che prevede l'esborso di parecchi miliardi di dollari.
  L'obiettivo finale è sbloccare il potenziale di Leviatano, pari a 450 miliardi di metri cubi di gas, e del secondo giacimento di Tamar (300 miliardi circa). Secondo i tecnici della Noble, che lavora in tandem con una società israeliana la Delek, ci vorranno 4 anni per rendere operativo il giacimenti, ma i problemi legati alla sua messa a regime non riguardano solo le greppie legali e la battaglia messa in campo dall'ormai ex ministro Deri. Leviatano e Tamar sono pozzi complessi, molto profondi. Le difficoltà tecniche ci sono. Ma l'amministratore delegato della Noble, David Stover, si è dimostrato fiducioso e, nell'incassare la vittoria anche finanziaria (a seguito delle decisioni di Netanyahu le azioni della società Usa hanno guadagnato l'8 per cento), ha fatto capire di essere pronto a nuovi investimenti.
  La cacciata di Deri è il segnale che lo scontro energetico nel Mediterraneo Orientale è salita di livello. Nonostante i principali attori internazionali lavorino affinché si arrivi ad una cooperazione nell'area, Israele sembra aver innescato una gara per raggiungere presto i successi egiziani e per non farsi fregare il pallino dell'iniziativa. A Tel Aviv non sono piaciute le recenti dichiarazioni libanesi sullo sfruttamento della propria zona economica esclusiva, da sempre contesa con Israele. In questo scenario l'Italia diventa una pedina importante. Non si sta fermando l'attivismo della principale compagnia energetica italiana, l'Eni. Descalzi, dopo la tappa a Gerusalemme, e volato in queste ore ad Algeri, per incontrare il primo ministro, Abdelmalek Sellal, il ministro dell'Energia, Salah Khebri e Amine Mazouzi il presidente della società nazionale di idrocarburi, la Sonatrach. A fronte di un rapporto industriale dalle radici profonde, a palazzo Mattei sembra emergere con forza l'esigenza di rendere il Mediterraneo un grande sistema energetico, un polo alternativo alla rivoluzione dello shale gas negli Usa da un lato e all'ormai decadente cartello dell'Opec dall'altro.

(Il Foglio, 5 novembre 2015)


Ebrei barricati in una sinagoga

Un centinaio di persone protesta contro l'abbattimento del luogo di culto.

GERUSALEMME - Un centinaio di ebrei israeliani si sono barricati la scorsa notte in una sinagoga di Pisgat Zeev (un insediamento a Nord di Gerusalemme) nel tentativo di impedirne la demolizione. Lo ha riferito la radio militare.
Oggi la Corte Suprema di Gerusalemme dovrà stabilire in maniera definitiva se l'edificio sia stato eretto su terre private palestinesi e, se confermato, quando vada demolito. Su una parete esterna della Corte Suprema, informa la polizia, è stata scoperta stamane la scritta: "Le sinagoghe non si distruggono. Vogliamo uno Stato ebraico". A quanto pare si tratta di un tentativo di esercitare pressione in extremis sui giudici.
Nel frattempo gli attivisti che si sono barricati nella sinagoga Ayelet ha-Shahar di Pisgat Zeev hanno lanciato un appello ai soldati e agli agenti di polizia affinché si rifiutino di obbedire gli ordini se la demolizione dell'edifico dovesse essere confermata.

(Fonte: tio.ch, 5 novembre 2015)


«lo filosofa ebrea contro l'utero in affitto»

Per Rivka Weinberg, studiosa californiana, è inaccettabile anche la cessione gratuita di un figlio: «Non si può regalare qualcosa che non si possiede».

di Elena Molinari

La maternità surrogata dal punto di vista filosofico, analizzata sulla base delle norme etiche accettate dalla società occidentale e orientale, senza il filtro di categorie religiose. È il compito che si è dato Rivka Weinberg, giovane docente di filosofia presso lo Scripps College di Claremont, in California, che ha dedicato buona parte della sua carriera a studiare le implicazioni della procreazione, naturale o assistita. Una ricerca sfociata nel suo ultimo libro sull'etica procreativa, «Il rischio di una vita», della Oxford University Presso Weinberg, che lavora al Dipartimento di Studi su femminismo, gender e sessualità, affronta prima la maternità surrogata "a pagamento", chiedendosi perché venga criticata. La conclusione è che trattare una persona come un oggetto di contratti commerciali contraddice una visione accettata da più di due secoli secondo la quale le persone vanno considerate esseri con fini e dignità a sé stanti, non piegabili agli scopi altrui. «Un'altra forte obiezione alla maternità surrogata commerciale - spiega la filosofa californiana - è che sfrutta le donne. La realtà osservata in molti Paesi poveri, come l'India, è che se le donne coinvolte avessero un'alternativa la sceglierebbero, perché avere un bambino conto terzi è un lavoro difficile e rischioso, che non viene pagato bene. Ma la vulnerabilità di queste donne deriva dal fatto che nella loro società non hanno molte opzioni per guadagnare». In pratica, fa notare la filosofa di origine ebrea, le società ricche stanno dando in outsourcing la riproduzione, allo stesso modo in cui hanno trasferito all'estero i loro centri di servizi ai clienti.
  I difensori della maternità surrogata obiettano che nel caso di donne che donano il loro utero ad amici in modo altruistico - senza chiedere denaro in cambio - queste osservazioni non reggono perché si tratterebbe di una pratica equiparabile alla donazione di organi o all'adozione, discutibili solo quando portate a termine per interesse. La donazione di rene è il caso più noto. «La vendita di reni è vietata - evidenzia Weinberg - perché le possibilità di sfruttamento sono ovvie: in alcune aree dove il mercato nero è radicato i creditori considerano il rene come una garanzia: se il debitore non paga, la cessione di un rene elimina il problema». Ma la maternità surrogata "altruista" può essere considerata come una forma analoga di donazione? «In questo caso - spiega la filosofa - il prodotto finale è un bambino che merita rispetto e protezione. L'analogia non regge perché una persona ha bisogni molto più complessi e una dignità che un singolo organo non ha». Molti invece considerano la maternità surrogata alla stregua dell'adozione. È un paragone sensato? «L'adozione è una soluzione al problema di un bambino bisognoso che non ha adulti in grado di soddisfare le sue esigenze - risponde Weinberg -. Permettere ad altri adulti di crescerlo con amore e competenza è il meglio che possiamo fare in questa situazione. Ma la maternità surrogata è procreazione con l'intento di cederne il frutto. È come rimanere incinta deliberatamente per dare il bambino in adozione»,
  Anche in questo caso si torna al punto filosoficamente più problematico della maternità surrogata, sia gratuita che commerciale: «Non si può trattare una persona come una cosa, anche se la si scambia gratis». L'esempio che la filosofa cita è semplice: «Se io fossi vittima di un'amnesia e non sapessi più di essere sposata, mio marito potrebbe cedermi? Le leggi e le norme etiche delle società occidentali non lo permettono, perché subentra il concetto di proprietà e di responsabilità». In altre parole, non si può vendere o regalare qualcosa che non si possiede. Dall' abolizione della schiavitù in avanti, le persone non possono essere possedute da altri.
  Il concetto della responsabilità dei genitori è più sottile ma ancora più profondo, a detta della filosofa di estrazione laica. Se la funzione della responsabilità dei genitori è di fare in modo che il bambino sia curato e guidato fino all' età adulta, non può essere abbandonata e trasferita semplicemente sulla base delle preferenze o dei desideri degli adulti senza considerare a fondo le implicazioni biologiche e psicologiche per il bambino. «È un principio giuridicamente accettato - conclude Weinberg - che si applica anche nelle adozioni e nei casi di custodia».

(Avvenire, 5 novembre 2015)


Quelle etichette sui prodotti sono un marchio anti-Israele

L'Ue imporrà diciture che indicano la provenienza dai Territori occupati. Un pregiudizio evidente nei confronti dello Stato ebraico sotto attacco.

di Fiamma Nirenstein

 
È davvero sconcertante pensare che in questi giorni l'Unione Europea, mentre il Medio Oriente è percorso da ondate continue di barbarie che si infrangono solo contro i confini dell'unico Stato che rispetta i diritti umani dell'area, sia tutta intenta, con lavorio incessante, a preparare le «linee guida» per etichettare, sugli scaffali dei negozi, i prodotti di Israele provenienti dai Territori oltre la Linea Verde.
   Le direttive dovrebbero essere applicate dal primo di gennaio, e una lista di norme dirà ai vari stati come applicare la loro «stella gialla», che sarà tale anche se certo avrà un'apparenza diversa, su frutta, verdura, prodotti tecnologici provenienti dalla Giudea e dalla Samaria.
   Perché l'Ue si sta affrettando verso questo passo? È una specie di sindrome, di ossessione che possiede l'Unione, e che è difficile davvero collegare a un virtuoso disegno di pace. Checché ne abbia detto l'ambasciatore europeo in Israele, Lars Faaborg Andersen, la decisione non è affatto una «questione tecnica» che discende dalla dichiarazione del Parlamento Europeo che considera illegali gli insediamenti, e che quindi spingerà per forza avanti il processo di pace. Chi può veramente credere che, una volta che nei supermarket alcuni prodotti israeliani porterano i marchio d'infamia che l'Ue vuole imporgli, la pace avrà fatto un passo avanti? Si tratta di un passo invece improntato a cinismo, illegalità, ipocrisia e a una persistente antipatia nei confronti dello Stato d'Israele spinto avanti dalle Ong promotrici del Bds, il movimento di «disinvestimento e boicottaggio» che si dedica strategicamente a questo dai tempi della conferenza antisemita dell'Onu a Durban nel 2001 e preme le istituzioni. È una strada inventata nel 1948 dagli Stati arabi che stabilirono di boicottare Israele fin dalla sua fondazione. Il cinismo europeo colpisce le migliaia di famiglie palestinesi che resteranno senza fonte di guadagno quando le imprese saranno costrette a chiudere; e colpisce il cittadino israeliano, e in particolare quello che vive nei «territori», che piange i morti dell'ondata di terrorismo di queste settimane. Proprio mentre continua l'incitamento a uccidere, l'Unione Europea dovrebbe far sentire ai palestinesi che uno Stato si deve meritare, che il prezzo dell'indipendenza è la rinuncia al terrorismo. Il labeling è l'anticamera di un boicottaggio di Israele non solo nei suoi prodotti, ma nella sua esistenza in assoluto. Invece di spingere avanti il processo di pace lo impedisce, facendo credere ai palestinesi che non ci sia bisogno di negoziato sui Territori, ma che essi gli appartengano come appartenevano alla Giordania prima del '67. Invece le risoluzioni dell'Onu stesse stabiliscono che un accordo sia da stabilirsi tenendo conto della sicurezza di Israele, e non creando una situazione tipo quella di Gaza, sgomberata gratis per far posto a missili e terroristi in assetto di guerra. L'Ue sa benissimo che oggi i palestinesi non offrono a Israele nessun riconoscimento dello Stato Ebraico, anzi, lo rifiutano, e allora perché pretendere lo sgombero? Inoltre, se l'Ue avesse davvero una politica che segnala i prodotti delle zone occupate, marchierebbe anche quelli del Sahara Occidentale occupato dal Marocco, e della parte di Cipro invasa dalla Turchia. Ma neanche ci pensa, come non lo fa per decine di altre zone contestate. E se solo Israele è nel mirino, la decisione dell'Ue è una decisione politica, tanto più odiosa dato che tutti ricordano come nella storia, dopo il labeling dei prodotti ebraici, sia venuto il labeling delle persone.

(il Giornale, 5 novembre 2015)


"...
perché pretendere lo sgombero?" Semplice, perché questo indebolirebbe Israele al punto tale da rendere possibile invaderlo e affrettarne la scomparsa. Che questa sia l'intenzione dei nemici di Israele, è comprensibile. Dovrebbe essere allora comprensibile anche l'intenzione di Israele di non favorire la sua scomparsa. Ma Ban Ki-moon, Barack Obama e Federica Mogherini insistono nel dire che la scelta dei due stati, di cui uno si propone di distruggere l'altro, è la soluzione ideale per ottenere la pace nel mondo. Infatti, non dicono forse alcuni (e pensano molti) che il mondo senza Israele sarebbe più tranquillo e vivrebbero tutti molto meglio? M.C.


Aereo caduto, la Cia: è stata una bomba dell'Isis. Così il Califfato apre il fronte dei cieli

Per la prima volta Al Baghdadi ha colpito un aereo. L'ordigno era contenuto in una valigia caricata allo scalo da un infiltrato. Londra sospende i voli per Sharm.

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Il primo aereo civile distrutto dal Califfo della Jihad porta con sé il timore che lo Stato Islamico (Isis) si sia impossessato dei miniesplosivi ad alto potenziale di Ibrahim al-Asiri, l'ingegnere di Al Qaeda in Yemen. A 17 mesi dalla proclamazione del Califfato, Abu Bakr al-Baghdadi cambia strategia: affianca il fronte dell'aria a quello terrestre per sorprendere il nemico che più di altri vuole colpire, Vladimir Putin, artefice dell'intervento in Siria.
  Sulla carta Isis e Al Qaeda sono in competizione, ma proprio la guerra in Siria, i recenti appelli di Ayman al-Zawahiri - successore di Osama bin Laden - all'«unità dei jihadisti contro Usa e Russia e la decomposizione dello Yemen consentono di ipotizzare che il terrorista saudita più ricercato del Pianeta sia passato - da solo o con degli allievi - al servizio del Califfato. Al-Asiri, classe 1982, è l'uomo che ha confezionato le microbombe con cui Al Qaeda ha sfiorato per due volte devastanti attentati aerei: nel 2009 è lui ad aver confezionato la sostanza al plastico che il kamikaze nigeriano porta dentro le mutande sul volo Northwest Airlines 253 senza riuscire a farla esplodere sul cielo di Detroit nella notte di Natale e l'anno seguente sono due microbombe da 300 grammi, sempre al plastico, inviate su altrettanti aerei cargo dallo Yemen agli Stati Uniti ad essere scoperte all'ultimo minuto.
  L'idea dei microesplosivi viene da Anwar al-Awlaki, l'ex imam del New Mexico divenuto leader di Al Qaeda in Yemen e anch'egli eliminato dai droni Usa, che la sperimenta affidando ad Abdullah al-Asiri - fratello di Ibrahim - un ordigno nascosto nel retto anale con cui nel 2009 tenta di eliminare Mohammed bin Nayef, allora capo della sicurezza saudita e oggi principe ereditario del regno. Le microbombe sono l'impronta di Al Qaeda da quando lo «Shoe-Bomber» Richard Colvin Reid nel dicembre 2001 tenta di darsi fuoco alle scarpe sul volo Parigi-Miami ma Al-Asiri le porta a un livello di sofisticazione tale da obbligare gli Stati Uniti e Israele - i Paesi più a rischio - a posizionare negli aeroporti i particolari «body scanner» che vedono sotto i vestiti, nelle cavità corporee, cercando micro-sostanze capaci di essere combinate e fatte esplodere, sommando competenze chimiche e vocazione al martirio jihadista.

 Niente body scanner
  Uno degli allarmi dell'intelligence Usa, nel 2013, riguarda i seni al silicone perché in un documento di Al Qaeda vi si fa riferimento come possibile «vettore di esplosivo» praticamente impossibile da scoprire per l'antiterrorismo. I «body scanner» negli scali dell'Europa continentale esistono, ma vengono usati raramente, nel mondo arabo sono assenti e anche Sharm el-Sheikh ne è sprovvisto. Da qui il timore dell'intelligence Usa e britannica che Al-Asiri, o un suo discepolo, finito nei ranghi del Califfato, abbia messo il proprio «know how» a disposizione di uno «shahid jihadista», riuscendo a far disintegrare il volo russo sul Sinai assieme ai suoi 224 passeggeri. Per punire l'intervento russo in Siria.
  È l'ipotesi che l'intelligence occidentale teme di più ma non è l'unica perché a ben vedere ve ne sono altre: dal precedente del 2004, quando i jihadisti ceceni hanno fatto esplodere due jet in una notte, alla bomba di Lockerbie che non si è mai trovata. L'aereo della Pan Am esplose nel 1988 sui cieli scozzesi a causa di un ordigno nascosto in una valigia - spedita da Malta -, ma quasi 30 anni di indagini non hanno consentito di arrivare a una certezza assoluta in merito. Tanto che appena dieci giorni fa Londra ha inviato una task force di investigatori in Libia per «cercare nuovi elementi di prova» su quanto avvenne allora in Scozia. O forse perché già si aveva sentore della scelta del Califfo di portare il terrore nei cieli.

(La Stampa, 5 novembre 2015)


Lo Stato islamico dichiara guerra a Putin

L'Isis rivendica l'abbattimento dell'aereo e minaccia Mosca. Londra sospende voli per Shann. In Sudan cade un altro velivolo russo.

di Carlo Panella

 
Dopo il danno, la beffa. Con un comunicato canzonatorio, l'Isis ha confermato ieri di avere fatto esplodere in volo l'aereo sul Sinai e ha sfidato russi ed egiziani a provare con le loro macchinose inchieste tecniche, che dureranno mesi, che l'aereo è caduto da solo, per poi smentirli in modo clamoroso: «Non abbiamo alcun obbligo di spiegare come l'aereo è stato buttato giù. Prendete il relitto e analizzatelo, prendete le vostre scatole nere e analizzatele, e diteci i risultati della vostra inchiesta. Provate che noi non l'abbiamo abbattuto, e come è caduto. Noi preciseremo come è venuto giù nel momento che sceglieremo». Ancora una volta uno stile di comunicazione diretto e moderno, ben lontano dalle litanie islamiche del periodo in cui Al Qaeda era egemone nel mondo jihadista, e una sfida aperta agli avversari. Con la precisazione che l'aereo è stato abbattuto nel 17mo giorno del mese di Muharram del calendario lunare, primo anniversario dell'adesione all'Isis del ramo egiziano dell'organizzazione jihadista, attiva nel Sinai.
   Dunque, siamo con tutta probabilità ad una svolta gravissima nel confronto tra l'Isis e il resto del mondo. Questo attentato è infatti il primo che colpisce direttamente e sanguinosamente una intera nazione, la Russia, che ha appena dichiarato guerra al Califfato nero e che bombarda le sue basi. Non è opera di "lupi solitari", come i precedenti in Europa (incluso Charlie Hebdo), né colpisce indistintamente "infedeli e fornicatori" occidentali come era avvenuto sulla spiaggia di Sousse ad opera di un piccolo gruppo tunisino. L'attentato sul Sinai - come ormai è ovvio che sia, come hanno anche cofermato i servizi Usa che parlano di una valigia-bomba - e le rivendicazioni che l'accompagnano sono una dichiarazione di guerra aperta e formale dell'Isis contro la Russia, a cui seguiranno sicuramente altri colpi. Una reazione che con tutta evidenza Vladimir Putin non aveva messo nel conto. Lo prova il fatto che un minimo di prudenza avrebbe imposto al Cremlino di alzare al massimo livello le operazioni di prevenzione e sicurezza su tutti i velivoli da e per la Russia, come d'altronde fa da anni - col massimo successo - Israele, piccolo Stato che ha impedito ormai da decenni attentati non solo sui velivoli della El Al, ma anche su tutti quelli delle compagnie aeree che collegano Tel Aviv col resto del mondo. Una mancanza di prudenza che rischia di costare cara a un Putin che si trova ora nella scabrosissima situazione di dovere spiegare al suo popolo vorace di vacanze all'estero e di consumismo sfrenato, che può capitare a ogni passeggero russo la triste sorte toccata alle 232 vittime russe del volo deflagrato sul Sinai.
   Scabrosa, anche la posizione del presidente egiziano Fattah al Sisi, che martedì ha annunciato con un solenne messaggio televisivo al popolo egiziano con cui ha negato l'ipotesi di un attentato e ha dichiarato: «La situazione del Sinai è totalmente sotto controllo delle nostre Forze Armate». La smentita è arrivata nel giro di poche ore, ieri infatti un commando suicida dell'Isis ha attaccato ancora una volta militari egiziani ad el Arish, la capitale amministrativa del Sinai, uccidendone sei. Col che, le vittime militari egiziane dell'Isis assommano a più di 200 nell'arco di 12 mesi, a cui si aggiungono decine di vittime civili. Un quadro del Sinai disastroso. Al Sisi, peraltro, continua a dare disposizione di depistare le indagini. Ieri infatti una «fonte tecnica del Cairo», anonima, ha sostenuto che «l'aereo è precipitato per l' esplosione di un motore». Ma non si vede come un jet possa esplodere, semmai va in panne, al massimo inizia lentamente a bruciare, non può innescare una quantità sufficiente di carburante per produrre una esplosione, perché una infinità di accorgimenti tecnici impedisce questo innesco. Non ci crede nessuno infatti, tanto che la Gran Bretagna e l'Irlanda hanno preso la decisione di sospedere tutti i voli per e da Shann. Un duro colpo per l'economia egiziana. Da registrare infine l'incidente in cui è precipitato un cargo russo subito dopo il decollo da Khartoum, in Sudan. Nessuna rivendicazione e il forte sospetto che l'aereo, uno scassato Antonov ("Inadatto al volo", secondo la stessa casa costruttrice) vecchio di ben 45 anni che trasportava una quarantina di passeggeri, pur essendo un cargo, sia precipitato nella fase più critica del volo, o per un errore del pilota o per un ovvio cedimento della spinta dei motori usurati.

(Libero, 5 novembre 2015)


Trovati i resti di un'antica fortezza a Gerusalemme

A Gerusalemme gli archeologi ritengono di avere trovato un luogo un tempo fulcro e centro del potere:

Gli esperti archeologi sono al lavoro in un sito dove si ritiene si trovino i resti di un'antica fortezza greca, fuori dalle mura della Città Vecchia di Gerusalemme.
Dopo un secolo di ricerche, ritengono di avere trovato un luogo un tempo fulcro e centro del potere.

(MeteoWeb.eu, 5 novembre 2015)


Perché i palestinesi non vogliono telecamere sul Monte del Tempio

GERUSALEMME - Perché l'Autorità palestinese si oppone alla proposta della Giordania di installare telecamere di sorveglianza presso il Monte del tempio a Gerusalemme, luogo sacro a cristiani, musulmani ed ebrei? Questa è la domanda che si pongono in molti in Giordania alla luce del recente accordo con Israele raggiunto sotto l'egida del segretario di Stato Usa John Kerry. L'idea è stata avanzata per la prima volta da Re Abdullah di Giordania nel tentativo di alleggerire le tensioni nel sito sacro nella Città Vecchia di Gerusalemme. Il governo di Tel Aviv ha accolto favorevolmente la proposta, mentre l'Autorità palestinese l'ha sbrigativamente etichettata come una "nuova trappola". Il ministro degli Esteri di Ramallah, Riyad al-Maliki, ha affermato che Israele ricorrerebbe alle telecamere per "arrestare i palestinesi con il pretesto dell'incitamento alla violenza". Nel corso degli ultimi due anni, l'Autorità palestinese e altre parti, tra cui Hamas e il Movimento Islamico di Israele, stanno conducendo una campagna contro le visite ebraica al Monte del tempio. La campagna sostiene che gli ebrei pianificano la distruzione della moschea di al-Aqsa. In diverse occasioni - scrive la "Jerusalem Post" - i musulmani mobilitati dall'Anp e dal Movimento islamico sono già stati ripresi mentre insultano e aggrediscono civili e forze di sicurezza israeliane. Secondo il quotidiano, proprio la volontà di celare la reale situazione presso il Monte del Tempio è la ragione che spinge l'Autorità palestinese a respingere la proposta di telecamere di sorveglianza presso il sito.

(Agenzia Nova, 4 novembre 2015)


Rimosse le barriere fra i quartieri israeliani e palestinesi di Gerusalemme est

GERUSALEMME - I blocchi di cemento erano stati allestiti a metà ottobre presso gli ingressi di diversi quartieri di Gerusalemme est teatro di diversi assalti condotti da palestinesi contro cittadini israeliani di religione ebraica, costati la vita a cinque persone. Secondo quanto riferito dalle forze di sicurezza nel comunicato, la decisione di rimuovere i blocchi da alcune aree della città "avviene in seguito al raggiungimento di una certa stabilità e sicurezza, situazione che consente l'allentamento di misure prese in precedenza". La polizia ha aggiunto, tuttavia, che in caso di una ripresa di attacchi e tensione in grado di porre in pericolo la pace nella capitale "le misure verranno ripristinate". Le barriere finora rimosse hanno caratterizzato l'area di Jebl Mukar, che confine con il quartiere di Armon Hanatziv, dove sono avvenuti diversi attacchi costati la vita a tre persone. Nonostante la rimozione dei blocchi la polizia ha comunque rafforzato la presenza di agenti nelle aree oggetto di assalti e scontri.

(Agenzia Nova, 4 novembre 2015)


L'arte della Shoah è un tesoro da difendere

di Roberto Malini

 
ROMA - Nel mese di novembre 1937 il popolo tedesco dedicò la massima attenzione alla mostra "Entartete Kunst" (Arte degenerata), che era iniziata nel luglio dello stesso anno, con il proposito di denigrare e ridicolizzare l'arte degli ebrei e quella che, secondo i nazisti, era stata ispirata dal "perverso spirito ebraico".
Presto la mostra si sarebbe spostata in altre città della Germania e dell'Austria, diffondendo i germi dell'antisemitismo. Oggi l'antisemitismo riaffiora in misura inquietante ed è per questo che la raccolta dedicata all'Arte della Shoah, che ho realizzato in tanti anni di ricerche e acquisizioni, in tutto il mondo, e successivamente donato allo Stato italiano per il Museo Nazionale della Shoah di Roma, assume un significato di enorme importanza per la civiltà. "Lo spirito di noi ebrei, i sei milioni e i sopravvissuti," mi disse la grande artista e testimone dell'Olocausto Tamara Deuel nel 2006, quando le resi visita a Tel Aviv, "sarà sempre vicino a questa tua impresa, che ha restituito alla memoria dell'umanità tante opere d'arte provenienti dal mondo degli ebrei perseguitati e massacrati in Europa. Mi auguro, Roberto, che l'Italia e l'Europa sappiano riconoscere che tesoro inestimabile sia la collezione che ora si trova a Roma e come debba essere difesa e preservata per le generazioni future".

(Dazebao News, 4 novembre 2015)


A proposito di Amin Al-Hussayni

di Maurizio Del Maschio

Sulla nostra stampa, il recente accenno del Primo Ministro israeliano Benyamin Netanyahu riguardo all'amicizia con Adolf Hitler di Amin Al-Hussayni, che fu Gran Mufti di Gerusalemme dal 1921 al 1948, ha destato reazioni scomposte e inadeguate. Vale la pena di ripercorrere le tappe fondamentali della vita di quel dimenticato e malefico personaggio che iniziò la sua carriera come ufficiale dell'esercito turco ottomano impegnato nel genocidio degli Armeni con la consulenza di ufficiali tedeschi. Nel 1933, anno dell'ascesa al potere in Germania del Nazionalsocialismo hitleriano, gruppi politici arabo-nazisti sorsero in tutto il Medio Oriente. In Egitto si formò il Giovane Egitto, guidato da Gamal Abd el-Nasser, membro dei Fratelli Musulmani e futuro Presidente dell'Egitto a seguito di un colpo di Stato che rovesciò il regime monarchico deponendo il re Ahmad Fuad II. Il loro slogan, "un popolo, un partito, un capo (rais)" era ispirato a quello dei nazisti: "ein volk, ein reich, ein Führer", un popolo, un impero un capo. In Siria sorse il Partito Socialista guidato da Antoun Saadeh, più noto come "il Führer di Siria". In quello stesso anno, Hitler ottenne l'appoggio e la simpatia di molti esponenti del mondo arabo.
  Nel 1936 il banchiere svizzero del Terzo Reich, François Genoud, si recò in Palestina per incontrare Al-Hussayni. La loro amicizia continuò fino agli anni Sessanta dello scorso secolo. A quella visita seguì una nuova ondata di disordini in Palestina. Al-Hussayni fu il principale regista di quelle rivolte. Organizzò squadroni di suicidi che utilizzò per eliminare le autorità locali a lui ostili. Applicò il metodo nazista dello "sterminio sistematico" di ogni arabo sospetto di non essere allineato con la visione pan-islamica dei "Fratelli musulmani". Furono eliminati anche molti intellettuali musulmani e cristiani, così come diversi capi e uomini di culto islamici non allineati. Si instaurò un regime di terrore mirante a imporre l'ideologia wahabita.
  Tra il 1936 e il 1938 furono assassinati dai gruppi di Al-Hussayni: lo Shaikh Daoud Ansari, Imam della moschea Al-Aqsa, lo Shaikh Ali Nur el Khattib, lo Shaikh Nusbi Abdal Rahim, membro del Consiglio della locale Corte Islamica, lo Shaikh Abdul el Badoui di Akko, lo Shaikh El Namouri di Hevron e Nasr El-Din Nasr, sindaco di Hevron. Tra il febbraio del 1937 e il novembre 1938 furono trucidati 11 mukhtar (capi di villaggi) e le loro famiglie. Nel 1937 Al-Hussayni si recò in visita al consolato tedesco a Gerusalemme. Incontrò l' Hauptscharführer delle SS Adolf Eichman e l'Oberscherführer delle SS Herbert Hagen per discutere la "questione ebraica", ricevendo finanziamenti dalla Germania nazista.
  Nel 1941 Al-Hussayni si recò a Roma, dove incontrò Benito Mussolini, responsabile dei genocidi attuati in Etiopia . Mussolini promise di aiutarlo nella sua battaglia contro gli ebrei di Palestina. A Roma, Al-Hussayni lanciò una fatwa contro l'Inghilterra. Nello stesso anno, incontrò a Baghdad Rashid Ali Al-Qailani, leader del golpe nazista del 1941 al quale parteciparono pure volontari palestinesi guidati da Khairallah Talfah il suo referente in Iraq. Talfah era zio materno e suocero di Saddam Hussein e suo consigliere e sostenitore. Il golpe ordito contro gli Inglesi fallì. In quell'anno Hitler concepì il progetto di deportare gli ebrei europei in Palestina, ma Al-Hussayni vide l'intenzione come una minaccia al suo potere in Palestina e si adoperò per evitare la deportazione e optare per lo sterminio. Egli fu determinante per l'opzione hitleriana dello stermino degli ebrei secondo l'ideologia della "soluzione finale" e fu pure lo stratega dell'offensiva nazista in Bosnia. L'alfabeto cirillico, usato dai Serbi fu dichiarato fuorilegge. I Serbi cristiani, furono costretti ad indossare una fascia blu e gli ebrei dovettero indossarne una gialla. In quell'opera nefasta sta la radice del recente conflitto serbo-bosniaco. Al Hussayni incontrò pure i nazisti croati Andrija Artukovic e Mile Budak.
  Durante il suo soggiorno bosniaco, Al-Hussayni si autoproclamò "Protettore dell'islam". 100.000 Bosniaci musulmani si unirono alle armate naziste e fu creato pure un reparto di SS formato da Bosniaci musulmani. In tal modo, sperava di ottenere l'approvazione tedesca alla formazione di un protettorato autonomo nazista per i musulmani bosniaci. Al-Hussayni approvò e sostenne il piano ideato da Bedri Pejani per lo sterminio della popolazione serba cristiana ed ebraica. La Germania ufficialmente si rifiutò di appoggiare il piano, ma furono comunque sterminati 200.000 Serbi cristiani ortodossi, 22.000 ebrei e 40.000 zingari. Nel 1942, furono catturati 10.000 bambini ebrei. Al-Hussayni intervenne personalmente presso l'alto comando tedesco affinché rifiutasse l'offerta della Croce Rossa di scambiare i 10.000 bambini ebrei con prigionieri di guerra tedeschi. Morirono tutti nelle camere a gas. Nel 1943 Al-Hussayni creò la "Hanzar Division" delle SS bosniache da lui definite orgogliosamente "la crema dell'islam". Formata da 26.000 uomini, partecipò attivamente al genocidio di Serbi cristiani ed ebrei. Il termine turco "hanzar" identifica il pugnale in dotazione ai Giannizzeri, la guardia personale dei sultani di Istanbul. Heinrich Himmler, capo delle SS, preparò un documento con cui si attestava che la divisione bosniaca nazista era sottoposta al comando nazista tedesco. Al-Hussayni divenne Primo Ministro di un "Governo pan-arabo" creato del regime nazista. Il suo quartier generale era a Berlino. Pianificò la costruzione di campi di sterminio a Nablus per favorire la "soluzione finale" degli ebrei di Palestina. Il Gran Mufti divenne amico personale di Himmler e con lui visitò il lager di Auschwitz, ottenendo di presenziare alle operazioni di gassificazione e cremazione di ebrei europei. Lo stesso Himmler fondò e finanziò , insieme a Al-Hussayni, l'Islamische Zentralinstitut (Istituto Centrale islamico) a Dresda, con lo scopo di creare una generazione di capi islamici nazisti per il XXI secolo.
  L'1 marzo 1944 Al-Hussayni pronunciò a Berlino un discorso indirizzato alle truppe SS nazi-musulmane nel corso del quale affermò: "Sterminate gli ebrei ovunque li trovate. Questo fa piacere a Dio , alla religione, alla storia. Questo salva il vostro onore, Dio è con voi". Il 22 marzo dello stesso anno, egli fu uno dei fondatori della Lega Araba con l'obiettivo di rafforzare l'unità panislamica. I Paesi fondatori furono l'Egitto, l'Iraq, la Transgiordania, il Libano, l'Arabia Saudita, la Siria e lo Yemen e Al-Hussayni ne fu membro influente. Nel 1946 fu processato dagli Inglesi. Amnistiato, poté tornare in Palestina. Divenne il leader carismatico della "Fratellanza Musulmana" a Gerusalemme. L'islam wahhabita divenne l'ideologia utile al Gran Mufti per portare avanti la pulizia etnica. Egli si batté per un mondo Judenfrei, libero dagli ebrei, come dicevano i nazisti tedeschi. Yasser Arafat incontrò Amin Al-Husseini quando aveva 17 anni e subito divenne suo discepolo e lavorò per lui. Al-Hussayni era presumibilmente uno zio di Arafat, il cui vero nome era Mohammed Abder Rauf Arafat Al-Kudwa Al-Hussayni. Si sparse la voce che Arafat abbia accorciato il suo nome per eliminare qualsiasi legame con Al-Hussayni che, in quel periodo, lo aveva incaricato di procurare armi e soldi per le forze irregolari del Gran Mufti, i cosiddetti "santi combattenti". Nel 1948 Israele divenne uno stato riconosciuto dall'ONU. La Lega Araba dichiarò la Jihad, la Guerra Santa contro Israele. Egitto, Iraq, Siria, Arabia Saudita e Giordania immediatamente attaccarono Israele e lo invasero. In quella circostanza Al-Hussayni affermò: "Dichiaro la Guerra Santa, Fratelli Musulmani! Uccidete gli ebrei, uccideteli tutti." La Lega Araba ha dichiarato le 4 guerre contro Israele (1948, 1956, 1967, 1973) ed ha favorito e sostenuto tutte le Intifadat, le rivolte degli arabi palestinesi contro Israele, nel 1987, nel 1993 nel 2000 e nel 2015. Fra il 1949 e il 1952 operò la cosiddetta "Rete di Odessa" per proteggere la fuga dei capi nazisti dall'Europa. Fu l'occasione per i nazisti di riorganizzarsi. L'Egitto, casa della Fratellanza Musulmana e la Siria assunsero molti nazisti nei loro organismi militari, strategici e di propaganda.
  Al-Hussayni fu direttamente impegnato ad ospitare criminali nazisti nelle terre musulmane. Il contatto arabo fu ancora una volta stabilito tramite Genoud, il banchiere svizzero di Hitler, che finanziò pure la "Rete di Odessa" con il denaro rubato agli ebrei sterminati da Hitler. Genoud fece più volte visita a Al-Hussayni a Beirut, al Cairo ed a Tangeri. Egli costituì società di import-export, come la Arabo-Afrika, per fornire una copertura alla propaganda antiebraica e aprì nella Swiss Bank conti degli eserciti di liberazione del Marocco, della Tunisia e dell'Algeria. Nel 1962 i fondamentalisti islamici si attivarono per rendere Judenfrei (libere dagli ebrei) tutte le terre musulmane così come Hitler aveva cercato di fare in Europa. Si intensificarono allora le persecuzioni di tutte le comunità ebraiche del Nord Africa e del Medio Oriente. Centinaia di migliaia di ebrei vennero uccisi o costretti ad emigrare. Molti di essi ripararono in Israele. Nel 1965 Al-Hussayni incontrò in Egitto Albert Friedrich Armand - nome mutato in Ahmed dopo la conversione all'islam avvenuta nel 1962 - Huber, direttore bancario svizzero amico di Genoud, un personaggio il cui antisemitismo, unito all'avversione agli Stati Uniti, lo spinse a fondare la Avalon Gemeinschaft, la Comunità di Avalon, un'organizzazione anti-americana ed antiisraeliana. In breve, egli divenne il maggior finanziatore del pan-arabismo e del terrorismo arabo. Dopo la sua partecipazione alla lotta per l'indipendenza algerina dalla Francia, divenne consulente del presidente egiziano Nasser. A seguito del trattato di pace stipulato nel 1979 dal suo successore Anwar al-Sadat con Israele, Huber divenne sostenitore dell'Ayatollah iraniano Ruollah Khomeini e fu sospettato di essere stato fomentatore e finanziatore dei movimenti negazionisti iraniani. Al-Hussayni morì nel 1974 a Beyrouth, dove si era rifugiato a causa della sconfitta araba nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Il suo desiderio di essere sepolto a Gerusalemme non fu accolto dalle autorità israeliane per tutto il male da lui provocato nel corso della sua vita instancabilmente votata alla causa dello sterminio ebraico. E pensare che c'è ancora qualcuno, evidentemente per ignoranza o malafede, che minimizza la contiguità con il nazismo di questo campione del Wahabismo fanatico e intollerante. Non c'è da meravigliarsi se la sua memoria, per gli ebrei e anche per non pochi arabi, è in esecrazione per le nefandezze commesse nei confronti degli ebrei e dei suoi stessi fratelli di fede.

(OnlineNews, 4 novembre 2015)


150 investitori cinesi mirano a sostenere le startup israeliane

 
150 investitori hanno incontrato i rappresentati di 50 imprese dell'alta tecnologia in un vertice d'investimento che si è tenuto a Haifa.
Nel corso degli ultimi anni sono sempre di più gli investitori cinesi che stanno investendo nel settore high-tech israeliano. Lo scorso lunedì 150 investitori sono arrivati nel Paese per partecipare al China-Israel Hi-Tech Investment Summit tenutosi all'hotel Dan Carmel di Haifa.
Dafna Linenberg, fondatrice della società di consulenza YHT che ha ospitato la conferenza, ha commentato:

Al momento è difficile per le aziende israeliane irrompere nel mercato cinese senza un partner locale strategico. Il mercato cinese è complicato, complesso e stratificato ed è molto difficile operare là. Se siete una piccola società israeliana, non si hanno le risorse per operare lì senza un partner locale

Gli investitori si sono concentrati su circa 50 aziende high-tech focalizzando ulteriormente l'attenzione su: tecnologie pulite, dispositivi medici, telecomunicazioni e media.

Esistono molte società israeliane che sono disposte a creare joint venture con aziende cinesi invece di fare raccolta di capitali, come avviene sempre.

 Perché i cinesi sono interessati alle startup israeliane?
  Linenberg spiega che il cambiamento significativo e la disponibilità che offre il mercato israeliano ha attratto gli investitori cinesi. Gli israeliani hanno sempre preferito un mercato statunitense o europeo. Ma l'approccio è cambiato, e gli israeliani si sono resi conto che la Cina ha bisogno di essere parte della loro strategia di mercato.
Linenberg anche sottolineato il cambiamento che si sta verificando all'interno della Cina:

Negli ultimi anni, la parola "innovazione" è stato spinta dal governo cinese. C'è un crescente incoraggiamento da parte del governo cinese sul fronte della tecnologia, al fine di rendersi innovativi. La Cina si sta muovendo dal "Made in China" all' "Innovate in China". Non vogliono più essere la fabbrica del mondo, vogliono possedere le tecnologie. Nel momento in cui il governo incoraggia l'innovazione e non le esportazioni, il mercato risponde in modo appropriato.

(SiliconWadi, 4 novembre 2015)


Il governo israeliano dà il via libera a investimenti per lo sviluppo di giacimenti gas offshore

GERUSALEMME - Israele si appresta a dare il via allo sviluppo del giacimento di gas Leviathan a cinque anni dalla sua scoperta nel 2009. Lo scorso primo novembre il ministro dell'Economia israeliano Aryeh Deri ha annunciato le dimissioni per aprire la strada al governo nella firma di un accordo da diversi miliardi di dollari con il gigante energetico statunitense Noble Energy. Secondo quanto riportano i media israeliani le dimissioni del ministro dell'Economia sono giunte dopo forti pressioni da parte del primo ministro Benjamin Netanyahu e di altri membri contrari al braccio di ferro con i deputati contrari ad un accordo che andrebbe contro le regole sul rispetto della concorrenza e porterebbe la società statunitense ad agire come monopolista nell'ambito dello sviluppo e della futura gestione del gas. "Il ministro Deri mi ha annunciato la sua intenzione di dimettersi", ha sottolineato lo scorso primo novembre il premier in una nota, aggiungendo che per procedere all'accordo per lo sviluppo dei giacimenti di gas offshore con Noble i poteri del ministero verranno trasferiti al primo ministro. Netanyahu ha precisato che in seguito a questa mossa lui darà il suo via libera all'accordo con la compagnia Usa. Nella riunione di gabinetto avvenuta lo scorso primo novembre, Netanyahu ha sottolineato che "il gas naturale è la principale fonte di approvvigionamento per la crescita economica in Israele nei prossimi anni", precisando che l'investimento di miliardi di dollari nel progetto stimolerà la crescita economica attraverso la creazione di nuove industrie e posti di lavoro.
  "La fornitura di gas contribuirà a ridurre l'elevato costo della vita in Israele, e farà diminuire il prezzo dell'energia oltre a fornire l'indipendenza di Israele nel campo dell'energia", ha aggiunto il primo ministro, secondo cui il paese non sarà "più dipendente da fonti estere per l'energia". Netanyahu ha inoltre sottolineato che il progetto vedrà l'afflusso di diversi miliardi di dollari di finanziamento in un piano ventennale. Ieri la compagnia ha annunciato che una decisione sull'investimento relativo ai giacimenti di gas israeliani dovrebbe essere intrapresa entro un anno. Per l'amministratore delegato della compagnia, David Stover, l'annuncio inoltrato dall'ufficio del primo ministro è un'ulteriore indicazione dell'impegno ad andare avanti con lo sviluppo del gas. In seguito all'annuncio da parte di Netanyahu le azioni di Noble sono cresciute di circa l'8 per cento in questi giorni, dopo il parziale crollo avvenuto lo scorso agosto in concomitanza con la scoperta del megagiacimento di gas Zohr, in Egitto, da parte della compagnia italiana Eni. Secondo l'accordo quadro con il governo raggiunto in agosto la compagnia Usa Noble e l'israeliana Delek avranno il controllo del più importante giacimento di gasi israeliano che verrà gestito attraverso la creazione di un consorzio ad hoc guidato da entrambe le compagnie. Il giacimento, la cui scoperta ufficiale è stata comunicata nel 2010, ha una capacità di 450 miliardi di metri cubi e inizialmente la sua produzione era prevista intorno al 2018. Tuttavia, lo sviluppo è stato ritardato a causa dell'opposizione dell'antitrust israeliana che ha di fatto bloccato per anni l'accordo con il governo israeliano.
  Secondo l'Ad di Noble, saranno necessari dai 3 ai 4 anni per rendere completamente operativo il giacimento. Noble possiede anche una partecipazione di grandi dimensioni nel giacimento di Tamar, un altro campo offshore situato sulla costa mediterranea nella zona economica esclusiva di Israele la cui produzione è iniziata nel 2013, con riserve stimate intorno ai 307 miliardi di metri cubi. Lo scorso 13 settembre la Knesset (il parlamento israeliano) ha approvato con 59 voti a favore e 51 contrari il controverso accordo quadro sul gas naturale fra Israele e due società commerciali, Noble Energy e Delek Group, incaricate dello sviluppo del giacimento Leviathan. Tuttavia fino ad oggi, il governo non ha avuto la maggioranza di voti necessaria per trasferire il dossier sul gas dal parlamento al governo, situazione che si è sbloccata solo oggi con le dimissioni di Deri, profondamente contrario al piano, e il trasferimento temporaneo del ministero al premier.
  Nel corso degli ultimi anni, le scoperte di idrocarburi nel Mediterraneo orientale hanno condotto ad un riallineamento strategico fra importanti attori della regione quali Egitto, Israele, Cipro, Libano, Turchia e Grecia. Secondo gli analisti nonostante la situazione di tensione nella regione l'unica alternativa per poter sfruttare a pieno il potenziale energetico è la cooperazione fra i paesi detentori della preziosa risorsa. Dal 2009 al 2011 l'area è stata teatro della scoperta di ben tre importanti giacimenti di gas: Tamar e Leviathan (Israele) e Aphrodite (Cipro). La presenza di campi contenenti idrocarburi è stata certificata anche nella zona economica esclusiva del Libano, dove secondo il governo di Beirut vi sarebbero fra i 15 e i 20 di miliardi di metri cubi di gas, ma ad oggi a causa dell'impasse politico non sono ancora iniziate esplorazioni effettive. Alle serie di importanti scoperte di entità tale da poter trasformare il Mediterraneo orientale in uno dei principali hub per la produzione e l'esportazione di gas nella regione europea, nord africana e mediorientale, si è aggiunto di recente il ritrovamento del giacimento di Zohr in Egitto, da parte della compagnia energetica italiana Eni. Secondo gli analisti proprio il ritrovamento dell'importante campo di gas è alla base delle future dinamiche di cooperazione dei paesi dell'area caratterizzati da storiche rivalità politiche.
  La scoperta di Zohr da parte di Eni ha mutato radicalmente i piani di sfruttamento dei giacimenti che avrebbero dovuto sopperire il gap energetico dell'Egitto e per il quale erano già stati firmati accordi preliminari per la realizzazione di due gasdotti da parte di Cipro e Israele, aumentando però le spinte per una ulteriore collaborazione fra i tre paesi. Il campo Zohr è il più importante mai scoperto nel del Mediterraneo e secondo un rapporto di Eni produrrà tra i 30 e 35 miliardi di metri cubi all'anno di gas e tra i 70 e 80 milioni di metri cubi al giorno. Prima delle rivolte del 2011 l'Egitto era un esportatore netto di gas naturale, con forniture inviate soprattutto verso Israele attraverso il gasdotto nel Sinai, ma negli anni è divenuto un importatore a causa della crescita dei consumi e il progressivo esaurimento dei giacimenti di gas. Il ritrovamento di Zohr potrebbe permettere il ritorno del Cairo come esportatore e consentire allo stesso tempo di raggiungere gli obiettivi di crescita economica annunciate dal presidente Abdel Fatah al Sisi. Lo scorso 29 ottobre l'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha illustrato "le importanti sinergie di un potenziale sviluppo congiunto del gas naturale nel Mediterraneo orientale" al primo ministro d'Israele, Benjamin Netanyahu, e al ministro delle Infrastrutture, dell'Energia e delle Acque, Yuval Steinitz. "Mettendo a fattore comune le risorse future e le infrastrutture di trasporto e di export di Israele, Cipro ed Egitto, l'area potrebbe diventare un hub regionale del gas e fornire anche un importante contributo alla sicurezza energetica europea", ha sottolineato Descalzi.
  L'incontro del 29 ottobre fa seguito ai precedenti che il numero uno di Eni aveva avuto sul tema con il presidente egiziano, Abdel Fatah Al Sisi, il 19 ottobre al Cairo, e con il presidente della Repubblica di Cipro, Nicos Anastasiades, il 10 settembre scorso a Nicosia. Nell'incontro con Descalzi il primo ministro israeliano ha dichiarato di considerare "di grande importanza la cooperazione con l'Italia nel settore dell'energia". Secondo quanto riportato dopo l'incontro da un comunicato del governo israeliano "il primo ministro e il signor Descalzi hanno discusso dei nuovi sviluppi nei giacimenti di gas del bacino del Mediterraneo orientale, tra cui la nuova scoperta di Eni nella zona economica esclusiva dell'Egitto", precisando che è stato affrontato anche il futuro sviluppo dei giacimenti di gas nelle acque di Israele". Netanyahu e Descalzi "hanno convenuto che alla luce della crescente domanda di gas naturale nella regione, e al fine di continuare a promuovere gli interessi comuni dei paesi e delle grandi aziende di energia nella regione, è necessario esplorare ulteriori possibilità di cooperazione, compreso lo sviluppo congiunto o il trasporto di gas naturale a diversi clienti".

(Agenzia Nova, 4 novembre 2015)


La Comunità ebraica di Roma: «Solidarietà per lo chef Martini»

Allo chef Marco Martini vittima insieme al suo staff del blitz di un gruppo di attivisti palestinesi, arriva la solidarietà di Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma: «La Comunità Ebraica di Roma esprime piena solidarietà e amicizia allo chef Marco Martini e a tutto lo staff del ristorante Stazione di Posta a Testaccio, che hanno subito un vile attacco da parte di un gruppo di attivisti palestinesi. Questo episodio d'intolleranza a cui hanno assistito coloro che erano presenti nel locale, clienti compresi, è la dimostrazione che il clima di pace e di dialogo pacifico che tutti ricerchiamo è minato da gesti che fomentano la violenza e che rientrano nell'obiettivo di boicottare lo Stato di Israele in ogni modo. La scelta di Martini di partecipare al Round tables tour, evento culinario che si svolge a Tel Aviv, non pub essere oggetto di critiche da parte di chi non condivide le scelte politiche israeliane. La Comunità Ebraica di Roma, che rappresenta valori secolari, non pub restare indifferente di fronte a tali situazioni e chiede che cib non si ripeta più sul nostro territorio».

(Il Messaggero, 4 novembre 2015)


Gindi Tel Aviv Fashion Week 2015

Dalla sfilata dello Shenkar College agli Upcoming designers, la moda in Israele è una fucina di talenti, un inno alla gioia e alla creatività.

di Giulia Pacella

La sfilata di Yaron Minkowski alla Gindi Tel Aviv Fashion Week 2015
Si è svolta all'interno di un cantiere in costruzione la Gindi Tel Aviv Fashion Week 2015. E da quel cantiere su cui sorgerà un nuovo shopping mall, la città più cool e frizzante di Israele ha mostrato tutta la sua energia e creatività, concentrate in una serie di sfilate che hanno racchiuso il meglio della scena fashion di Israele: dagli stilisti più affermati a livello locale fino alle nuove leve del prestigioso Shenkar College, quinta scuola di moda al mondo per importanza e prestigio (quella da cui è uscito fuori Alber Elbaz, per intenderci!).
   Del resto era proprio questa l'intenzione del suo produttore, Motty Reif, quando ha deciso di lanciare la Settimana della moda israeliana: mostrare al mondo il volto più dinamico, giovane e intraprendente di Tel Aviv. Con una speranza, da coltivare con un lungo lavoro, fare in modo che del suo Paese se ne parli sempre di più non soltanto in termini politici o sociali. Ma anche come un posto in cui coltivare il talento e la creatività, come una terra in cui le tante influenze culturali sanno convivere, germogliare e dare linfa vitale a stilisti e collezioni made in Israele. Che sfilano sulla passerella come un inno alla gioia e alla vita!
   E' questo l'approccio della giovane stilista Shani Zimmerman: "Per me la moda è gioia!" ci dice. Ma è anche rigore, studio e professionalità coltivate fino all'estremo. Come insegna Leah Perez nel prestigioso Shenkar College, fiore all'occhiello nazionale riconosciuta a livello mondiale, in cui promettenti studenti e giovani talenti in erba si preparano ad affrontare la moda come un vero mestiere. In cui creatività e tecnica vanno di pari passo. Non è un caso quindi se durante la Gindi Tel Aviv Fashion Week 2015 a colpirci più di ogni altra cosa, siano state proprio le creazioni degli studenti dello Shenkar College. Un perfetto connubio tra ispirazioni pop, mondi digitali, fashion inspirations e citazioni celebri abilmente veicolati su capi ben realizzati, come se fossero già pronti ad essere collezione. Ed è proprio da loro che partiamo con questa gallery, che racchiude il meglio delle sfilate e della moda israeliana viste a Gindi Tel Aviv Fashion Week 2015. Tra tendenze e nuovi talenti. Questo è solo l'inizio: parola di Motty Reif.

(Elle, 4 novembre 2015)


Accoglieremmo i nostri fratelli d'Israele?

di Guido Ceronetti.

ISRAELE nella sua interezza è stato ferito a morte dai demoni della nazione tedesca; frau Merkel lucidamente lo sa e se ne cruccia; l'Europa dell'Unione no; l'America di Obama neppure; la Francia antidreyfusarda incurabile no. L'eccezionale vittoria dei Sei giorni opera di straordinari strateghi ne ha indossata la mortalità. L'atomica di Dimona fu una vocazione a una morte suicida lontana. Ci vogliono, come una rana esopica, far ingoiare un miliardo di maleamati Africani, ma una Europa molto più razionale che si preoccupi del suo sempre attuale problema ebraico di vita e di morte lo ha rimosso, non ci riguarda.
   Qualche buco bisognerà che lo lasciamo libero per i nostri fratelli ebrei di Israele se saranno costretti a tornare alle nazioni d'origine e a quell'America ipnotizzata da Putin e dovremmo dare uno spazio dove rifondare l'Erez perché i loro ragazzi caparbi e vocati militarmente possano rifondare una patria da Dan a Beersheba. È impossibile che tutti vogliano morire per la pianura delle moschee o dar fuoco alle micce di Dimona.
   Dirà la futura archeologia: qui un piccolo popolo sperimentò le più ardite utopie dei secoli moderni, la comunità kibbutzista, una libera società socialista. Qui ripetiamo, dirà triste l'archeologo alzando gli occhi dai manoscritti del Mar Morto, come l'odio più selvaggio e frenetico di tutto questo sogno ha soffocato il respiro. E, più degno di rimpianto, l'intreccio delle relazioni tra generazioni di una cultura coranica lievitante, in grado di rompere l'uniformità immobile del pensiero islamico per intraprendere insieme all'eterno pensiero biblico un irresistibile moto di ricerca di Dio comune.
   L'Europa d'oggi è una tana enorme di antisemiti che s'ignorano o si mascherano. Quando si trattasse di accogliere i nostri fratelli israeliani profughi le porte spontaneamente aperte sarebbero poche; le molte cristiane e atee chiuse farebbero il ripugnante gesto della quenelle di Dieudonné. I preti si affannano per accogliere islamici da tutta l'Africa, ma non so quanti parroci e vescovi per il controesodo degli Ebrei che scegliessero la via della nuova Golah si muoverebbero. Nello stesso tempo non ci sarebbe nessun ritorno a una Palestina indipendente come predicano i nostri intellettuali: non ci sarebbe che un immenso vuoto. Israele di cento anni dopo insediato dalla fine del secolo XIX e l'entità Palestina sono due siamesi: se li separi li uccidi: Intendersi o morire. Gaza di Hamas esulterebbe, forse, Teheran avrebbe raggiunto il fine insensato di Khomeini, ma Gerusalemme non pullulerebbe che di focolari spenti, di fornelli con ragnatele.
   Léon Poliakov al termine della sua storia dell'antisemitismo, scriveva che stanco di rappresentare il destino umano, Israele si era cercato un angolo nella terra delle lontane origini per tirarsi fuori dagli orrori e dagli inesorabili abissi della storia. Ma non poteva essere così per un popolo destinato proprio a rappresentare carnalmente e spiritualmente il destino umano e al di là di questo di essere un'idea trascendente dell'Essere. Il popolo palestinese senza più accanto Israele, ("il resto d'Isai") maledirebbe i suscitatori d'odio che li hanno spinti alle Intifade e creato abissi d'odio dove avrebbe dovuto fiorire l'amore.
   Dovremmo essere come Europa e Italia protettori costanti di Israele; ma li proteggeremmo davvero o li ghettizzeremmo di nuovo? Vedendo l'esercito nostro sorvegliare le porte delle sinagoghe mentre vanno o escono da scuola frotte di scolari uguali a quelle di tutto il mondo, mi riempio di tristezza e di angoscia. Quando finirà questa umiliazione alla civiltà inferta dall'antisemitismo, come possiamo accettarla? Facciamo che il crimine (Deus avertat ) venga a verificarsi; che la testa di Medusa si fissi su una di quelle porte dove sono scritte lettere in una lingua arcana uscita cento anni fa da un lunghissimo sonno, lettere d'ombra e di lamento, quante voci di genitori cristiani e islamici si unirebbero per cacciare fuori quei poveri bambini ebrei anziché accoglierne altri da oltremare? L'Intifada dei coltelli non perseguiterebbe l'Israeliano che risbarcasse sulla sponda nord del Mediterraneo? Di più enigmatico, di più incendiario dell'antisemitismo non c'è al mondo nessun altro veleno. Arriva e coglie dovunque… Ebrei, campanella di lebbrosi… Dappertutto, inguaribile Europa.
   Ci pensiamo in Europa a non digrignare miserabilmente i denti, a non ricalcitrare oscenamente all'idea di un controesodo ebraico prima che il quadratino dell'Erez sia regolato da un silenzio spaventoso dove ora è il deserto fecondato e là invisibilmente si rialzi per nuove guerre senza fine la testa orrenda del Leviatano?

(la Repubblica, 4 novembre 2015)


Israele bloccata dalla foschia, sospesi tutti i voli interni

Tutti i paesi, in questi giorni, sembrano nel caos più totale. Ieri è toccato ad Israele, che continua ad essere coperta da una coltre di foschia dovuta all'eccessivo calore, tanto che le compagnie aeree Arkia e Israir sono state costrette a sospendere i voli per la scarsa visibilità. Nonostante non vi siano stati problemi all'aeroporto internazionale di Ben Gurion, sono stati chiusi gli aeroporti di Eilat all'estremo sud del paese e quello di Sde Dov a Tel Aviv.
Le autorità hanno rilevato anche alti livelli di inquinamento, ma le prossime piogge dovrebbero ristabilire la situazione.

(MeteoWeb, 4 novembre 2015)

Tesoro, mi si sono ristretti gli insediamenti!

Per qualche istante abbiamo temuto che Haaretz, il quotidiano arabo stampato in Israele in lingua ebraica ed inglese, avesse cambiato mission, sotto i colpi degli hacker che ieri hanno preso possesso del suo profilo Twitter. Ma una rapida occhiata ha confermato il mantenimento dello status quo: permane l'atmosfera di acredine, di sentimenti antisionisti, di manipolazione della verità, di vagheggiamenti elitari e proliferano le ospitate di odiatori di Israele.
Non c'era bisogno che un gruppo di buontemponi alterasse la home page di Twitter: bastava lasciarvi le considerazioni di Lara Friedman e Hagit Ofran, attiviste di Peace Now, che ivi riversavano tutta la loro frustrazione per le recenti dichiarazioni del primo ministro israeliano il quale, dati alla mano, ha dimostrato come l'attività edilizia nei territori contesi del West Bank non possa essere la causa delle violenze palestinesi, poiché la costruzione degli insediamenti in realtà si è ridotta durante il mandato di Netanyahu, rispetto a quello dei sui predecessori (laburisti inclusi)....

(Il Borghesino, 4 novembre 2015)


Israele: class action contro Facebook

di Dimitri Buffa

Mark Zuckerberg
Facebook ha delle ben strane sensibilità: posti un nudo o una scena erotica e sei bannato, metti un incitamento a sterminare gli ebrei, come fanno molte pagine che fanno riferimento ad organizzazioni arabe e palestinesi e non ti succede niente.
  Per questo motivo, e per l'indifferenza finora dimostrata da Mark Zuckerberg verso il problema dell'incitamento all'odio religioso attraverso i social network, ben 20mila cittadini israeliani hanno promosso lo scorso 26 ottobre una class action davanti alla Corte suprema dello Stato di New York per imporre al più importante e gettonato dei social network a livello mondiale di rimuovere le pagine, i gruppi ed i profili che fanno dell'odio antisemita la pressoché unica ragione di essere.
  Un'iniziativa che sui media italiani non ha avuto pressoché alcun risalto, anche se il sito "Progetto Dreyfus" curato dalla comunità ebraica romana ha subito dato la notizia in tempo reale. Nella memoria dei legali dei cittadini ebrei israeliani viene richiesta solo "l'immediata rimozione di tutte le pagine, gruppi e singoli post che contengono incitamenti all'omicidio degli ebrei; un monitoraggio attivo per evitare che tali incitamenti raggiungano i terroristi e tutti quelli pronti a diventarlo; smetterla di agire come matchmaker fra terroristi, organizzazioni terroristiche e chi incita a commettere attentati". Mentre nessun risarcimento monetario è stato richiesto nei confronti del social di Palo Alto. Cosa che rischia di mettere in imbarazzo ancora maggiore il padrone e fondatore di Facebook. Per la cronaca, a condurre la class action è Richard Lakin, un uomo di 76 anni che venne ferito gravemente da un terrorista palestinese armato di pistola e coltello mentre era su un bus a Gerusalemme il 13 ottobre scorso. Nello stesso attentato, altre 20 persone sono rimaste ferite e due sono morte. Tra gli avvocati che si occuperanno della class action anche Nitsana Darshan-Leitner, direttrice di "Shurat Hadin", la quale ha dichiarato ai giornalisti americani che "Facebook esercita un potere enorme, dovrebbe garantire che gli estremisti palestinesi che invocano l'uccisione di israeliani o che glorificano i terroristi non siano autorizzati a farlo sulla loro piattaforma".
  Da parte sua, la Associated Press scrive che Twitter e Facebook sono la maggiore fonte di informazione fra i giovani palestinesi. Ad esempio, "Quds News Network", una pagina collegata alla Jihad Islamica, raccoglie circa 3 milioni e mezzo di seguaci."Shehab News Network", che fa invece riferimento ad Hamas, vanta un pubblico maggiore: ben 4 milioni di persone. Le suddette due pagine Facebook, insieme ad "Urgent From Gaza", nei giorni scorsi hanno inondato il web di propaganda antisemita. Postando anche tantissime immagini di palestinesi morti, nonché vignette che incitano alla violenza. Spesso le immagini erano accompagnate dall'hashtag #stab (accoltella) o #al- aqsaisindanger. Come a significare che Al Aqsa, la moschea, è in pericolo. Per colpa degli odiati ebrei israeliani.
  Si attende adesso la risposta di Zuckerberg, di origine ebraica anche lui. Non gli si chiedono soldi, ma concrete opere di bene per prevenire questa campagna di istigazione all'odio che già tanti morti è costata alla cittadinanza israeliana.

(L'Opinione, 4 novembre 2015)


Sudanese tenta di soffocare un israeliano di 54 anni su un volo internazionale

Il tentativo di assassinio è avvenuto su un volo della Ethiopian Airlines dal Ciad all'Etiopia. Provvidenziale l'intervento di un uomo libanese e dell'equipaggio. La compagnia si è scusata per l'accaduto, l'attentatore è stato arrestato.

TEL AVIV - Le autorità etiopi hanno arrestato un uomo sudanese di imprecisata età con l'accusa di tentato omicidio ai danni di un altro passeggero di nazionalità israeliana.. Il tentativo di omicidio è avvenuto durante un volo della Ethiopian Airlines proveniente dal Ciad e diretto ad Addis Abeba, in Etiopia, Giovedi scorso.
Il Ministero degli Esteri ha confermato la notizia questa sera, secondo quanto riferisce la testata israeliana Ynet News. "Siamo consapevoli del fatto e l'ambasciata israeliana a Addis Abeba ci ha aggiornato con i dettagli", hanno riferito rappresentanti del ministero.
Arik Zenouda, 54 anni, lavora in una società di comunicazione israeliana operante in Africa. Era diretto in Israele con scalo nella capitale etiope. "Circa 20 minuti prima che l'aereo iniziasse la procedura di atterraggio, il passeggero seduto dietro di me mi ha identificato come israeliano ed ebrae", Zenouda ha raccontato ad Ynet News. A quel punto, "è arrivato da dietro il mio sedile e ha iniziato a soffocarmi con un sacchetto con forza", a tal punto da impedirne una reazione.
Per ottenere il risultato, l'attentatore - identificato come Ahmed Mohamed - ha colpito in testa Zenouda con un vassoio di metallo, gridando nello stesso momento "Allah Akbar" (Allah è grande, in arabo, ndr), insieme a una frase significativa: "massacro l'ebreo".
Solo dopo pochi secondi, poco prima di perdere i sensi, l'uomo è riuscito a richiamare l'attenzione di un assistente di volo, "che ha visto quel che stava succedendo, chiamando i suoi colleghi", ha raccontato ancora la vittima dell'aggressione, secondo il quale la maggior parte dei passeggeri del volo semivuoto ha evitato di farsi coinvolgere.
Tra i pochi intervenuti in soccorso del cittadino israeliano, un uomo libanese di imprecisata età, che ha evitato l'assassinio. Dopo essere stato sottratto dalle grinfie dell'attentatore, Zenouda è stato condotto nella parte posteriore dell'aereo, mentre il sudanese veniva bloccato e fermato dal personale di volo e messo nelle condizioni di non nuocere fino all'arrivo ad Addis Abeba, dove l'aereo è arrivato in situazione di emergenza come da prassi.
Particolare agghiacciante: l'attentatore sudanese, nonostante fosse stato bloccato, ha incitato gli altri passeggeri a linciare il cittadino israeliano.
In una dichiarazione rilasciata sull'incidente, la Ethiopian Airlines ha dichiarato che l'attentatore non aveva "mostrato segni di violenza, durante le fasi di imbarco del volo" e la prima parte del viaggio. "Ha attaccato non solo il cittadino israeliano, ma anche altri passeggeri e membri dell'equipaggio", continua la nota, che precisa come sia ancora in "stato di detenzione" in attesa di giudizio.
"Il passeggero israeliano è stato condotto presso il centro medico dell'aeroporto", si conclude la nota della Ethiopian Airlines, e poco dopo dimesso". Zenouda è stato in grado di continuare per Tel Aviv come previsto. "Ci scusiamo per l'incidente e faremo tutto il possibile per evitare ulteriori simili attacchi sui nostri clienti israeliani", precisa la nota della compagnia aerea.
Ecco il frutto della campagna di odio del jihadismo islamico contro gli israeliani e gli ebrei.

(The Horsemoon Post, 3 novembre 2015)


Anche questa è disperazione?


Mondiali 2018: "No a Ramallah", salta Palestina-Arabia Saudita

RIAD - L'Arabia Saudita ha deciso che la propria nazionale di calcio non si rechera' a Ramallah per disputare la gara di qualificazione ai Mondiali 2018 contro la Palestina, in programma giovedi'. Lo ha comunicato un portavoce della Federazione Adnan al-Moaibed. La squadra del Paese arabo, che non ha rapporti diplomatici con Israele, aveva chiesto di giocare la gara su un campo neutro per "circostanze eccezionali". Per entrare nei Territori, la squadra sarebbe dovuta passare per un checkpoint israeliano. La richiesta era stata accettata dalla Fifa, ma a quel punto la Federazione palestinese aveva rifiutato di adeguarsi alla decisione, giudicandola un "pericoloso precedente".

(AGI, 3 novembre 2015)


Il tabù antisemita

Il caso Bensoussan agita Parigi. Lo storico denuncia l'odio per gli ebrei e la gauche chiede la sua testa.

di Giulio Meotti

 
Georges Bensoussan
ROMA - Trasmissione "Repliques" su France 2. Ospite lo storico di origini marocchine Georges Bensoussan, direttore editoriale del Mémoral de la Shoah e della Revue d'histoire de la Shoah, docente sorboniano e fra i massimi studiosi di antisemitismo in Francia (i suoi libri sono pubblicati in Italia da Einaudi). Si parla di fallimento dell'integrazione nelle banlieu: "Non ci sarà alcuna integrazione fino a quando non ci libereremo di questo antisemitismo atavico", dice Bensoussan. "Un sociologo algerino, Smain Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia, anche se nessuno vuole dirlo, l'antisemitismo arriva con il latte materno". Bensoussan, che sul fallimento dell'integrazione ha scritto il libro "Les Territoires perdus de la République", è stato subito travolto dalle accuse e dalle polemiche. Il Mrap, il Movimento contro il razzismo e per l'amicizia fra i popoli che ha già fatto processare Oriana Fallaci e Michel Houellebecq, ha annunciato che lo trascinerà in tribunale per istigazione all'odio razziale: "Il Memoriale dell'Olocausto è un patrimonio comune che nasce dall'orrore dello sterminio degli ebrei", ha spiegato il Mrap. "E' quindi scandaloso e atroce che Georges Bensoussan, responsabile editoriale del Mémorial, abbia usato parole antiarabe e razziste in un servizio pubblico. Chiediamo anche ai responsabili del Memoriale di prendere le distanze dal suo direttore editoriale che ha promosso un razzismo biologico dei più abietti". Il Mrap si avvale di una legislazione repressiva, accreditando una pratica a dir poco pericolosa: concedere libertà di circolazione solo a idee o a parole che si ritengono giuste e tollerabili.
  La stampa goscista si è subito buttata su Bensoussan. Le Monde ha castigato lo storico paragonandolo al premier israeliano Benjamin Netanyahu, che aveva appena addossato parte della responsabilità sulla Shoah al Muftì di Gerusalemme: "Nel giro di pochi giorni, due dichiarazioni roboanti di rappresentanti di spicco delle istituzioni ebraiche hanno confermato che in materia di propaganda tutto, o quasi tutto, è consentito". Libération chiede misure "pratiche" per punire il reprobo: "Il Memoriale della Shoah, finanziato dallo stato repubblicano e partner della Pubblica istruzione, che organizza molte gite scolastiche ad Auschwitz ogni anno nel quadro della prevenzione dell'antisemitismo e del razzismo, deve prendere pubblicamente le distanze dalle dichiarazioni del suo direttore editoriale". Si chiede anche al ministro dell'Istruzione, Najat Vallaud-Belkacem, di esonerare Bensoussan dal Memoriale. Edwy Plenel e i giornalisti di Mediapart hanno invece accusato Bensoussan di "razzismo biologico" e hanno chiesto che venga interdetto anche dal Consiglio Superiore per gli audiovisivi. "Che queste parole provengono da uno storico coinvolto nella missione educativa del Memorial è veramente sconcertante", scrive il magazine di Plenel.
  Un contrappello a favore di Bensoussan è stato firmato invece da numerose personalità pubbliche francesi. "Il silenzio sembra essere l'obiettivo di questa nuova polizia del pensiero", recita l'appello. "Le opere, i libri e gli insegnamenti di Bensoussan sono radicalmente estranei a qualsiasi razzismo. Dobbiamo affermare il nostro pieno sostegno a Georges Bensoussan, salutando il suo coraggio intellettuale e la sua libertà di parola. I suoi calunniatori sono contenti di accusare, denunciare, diffamare e minacciare. L'odio verso gli ebrei è parte della strategia". Fra i firmatari anche la filosofa Elisabeth Badinter, Bernard-Henri Lévy, il Gran Rabbino di Francia Haim Corsia e il regista Jacques Tarnero. Nessun collega di Bensoussan ha voluto apporre la propria firma, lasciandolo solo di fronte al linciaggio. Lo storico adesso rischia il posto come direttore editoriale del Mémorial de la Shoah. Colpevole di aver detto in una trasmissione pubblica che nella vasta banlieu francese domina la legge di Allah e non quella di Marianna e che "les juifs" non sono i benvenuti.

(Il Foglio, 3 novembre 2015)


Pacifici: la storia insegna il significato del boicottaggio degli ebrei

Missione di solidarietà del Cer per israeliani vittime di attentati

di Massimo Lomonaco

"La storia ci insegna quale significato ha avuto il boicottaggio degli ebrei e cosa ha preceduto. Non bisogna dimenticarlo". Riccardo Pacifici, ex presidente degli ebrei romani ed ora membro del comitato esecutivo dell''Israeli Jewish Congress' ci tiene a sottolinearlo specialmente ora che la Ue pubblicherà il prossimo 11 novembre le linee guida sull'etichettatura dei beni prodotti in quelli che la comunità internazionale definisce "insediamenti illegali" ebraici in Cisgiordania, una definizione contestata da Israele. La mossa è stata denunciata dallo stato ebraico come "discriminatoria" e che "incoraggia l'atmosfera di boicottaggio" nei confronti di Israele. "Non solo - aggiunge Pacifici - il boicottaggio di fatto è un danno alla stessa economia palestinese, come si è visto in molti casi, ed alimenta il conflitto". Pacifici si trova in Israele a capo di una 'Missione di solidarietà' della Comunità ebraica romana (Cer) con le vittime degli attentati palestinesi del'ultimo periodo. A cominciare dai quattro figli della coppia Hankin, due israeliani uccisi ai primi di ottobre in un attentato nei pressi di Itamar, un insediamento ebraico a pochi chilometri di distanza da Nablus in Cisgiordania. La 'Missione di solidarietà' è stata accompagnata nel viaggio anche da Nati Rom fondatore di 'Lev Haolam' un gruppo che offre "sostegno finanziario e morale" a chi vive negli insediamenti distribuendo i loro prodotti in tutto il mondo in modo "da bypassare il boicottaggio" internazionale. I figli della coppia degli israeliani uccisi vivono ora con la nonna a Pedu'el, insediamento in Cisgiordania.
   E a Pedu'el (che in ebraico significa 'Riscattati da Dio') si producono anche alcuni di quei beni che la Ue sottoporrà a etichettatura. La nascita della colonia, nel 1984, ha avuto però anche una ragione legata alla sicurezza di Israele, come ha spiegato Yossi Dagan capo del Consiglio regionale della Samaria.
   "Da qui si può comprendere bene il perchè", ha detto Dagan rivolto agli ospiti italiani della Missione appollaiati su una collinetta al limite dell'insediamento. Sotto, l'aeroporto Ben Gurion dista non più di 10 chilometri e subito dopo si alzano i grattacieli di Tel Aviv e ancora più in la' la città di Natanya.
   "Da dove siamo - ha insistito Dagan - basterebbe un vecchio Katiuscia per colpire l'aeroporto e gli aerei o raggiungere Tel Aviv". Le colline dirimpetto sono punteggiate da villaggi arabi e se si alza lo sguardo si scorge in fondo Gerusalemme. "Pedu'el - ha aggiunto ancora - e' stata fondata anche per questo: per difendere Israele". Nella casa dei figli degli Hankin, Pacifici ha offerto alla nonna degli orfani il contributo raccolto e si è impegnato per ogni altra esigenza di cui dovesse avere bisogno la famiglia. "Il nostro - spiega all'uscita dell'incontro - è un messaggio di vicinanza e affetto della Comunità ebraica di Roma con la famiglia. Nelle parole della signora, nel suo doloroso racconto del trauma subito dai figli che erano in macchina durante l'attentato ai genitori, non ho trovato odio nè rancore nonostante quanto è accaduto. Ed è questo ciò che più mi ha colpito e che voglio portare indietro per tutte le nostre comunità non solo in Italia".

(ANSAmed, 3 novembre 2015)


Il generale israeliano Benny Gantz: "Per la nostra sicurezza è importante riaprire i negoziati"

di Daniel Reichel

Non si fa illusioni l'ex capo di Stato maggiore israeliano Benny Gantz sul futuro del suo paese: "Se vivremo per sempre con a fianco la spada? Sì, sicuramente. Non credo che i nostri figli o i nostri nipoti non saranno soldati. Dobbiamo cercare di impegnarci a non vivere solo con la spada ma ne avremo sempre una al nostro fianco", le parole di Gantz, intervenuto a una conferenza sulla sicurezza nazionale a Sderot, nel Sud d'Israele. Ma secondo l'ex capo dell'esercito il fatto che il Paese non potrà deporre le armi tanto presto, viste le minacce che lo circondano, non significa non tentare nuovamente di sedersi al tavolo con i palestinesi. "Non so se una iniziativa diplomatica possa portare a qualcosa - ha dichiarato Gantz - ma credo sia molto importante. Anche se non dovesse funzionare, le nostre future generazioni sapranno con tutta onestà che c'è stato davvero un tentativo di fare le cose diversamente".
   Figura considerata molto popolare, Gantz è stato accostato dai media come possibile candidato alla guida del partito laburista, che nel maggio del 2016 dovrebbe indire le primarie per scegliere se confermare o meno l'attuale leader Isaac Herzog. In realtà, l'ex generale non ha mai espresso chiaramente la sua posizione politica, seppur siano noti i suoi diverbi con il Premier Benjamin Netanyahu, tra cui la critica al capo di governo sulla gestione dell'accordo nucleare iraniano e dei rapporti con gli Stati Uniti. Durante la conferenza a Sderot c'è chi lo ha interrogato sulla sua possibile entrata in politica ma Gantz non ha voluto commentare. Si è invece soffermato, a un anno di distanza, sul conflitto a Gaza contro Hamas, difendendo l'operazione Margine Protettivo da lui guidata. "È stata la cosa giusta da fare al momento giusto", ha dichiarato, aggiungendo che "il primo ministro (Netanyahu), il ministro della Difesa (Moshe Yaalon), lo Shin Bet e il comando militare hanno gestito bene la situazione, nonostante i rumori di sottofondo". Nonostante una valutazione positiva dell'operazione militare a Gaza della scorsa estate, Gantz ha affermato di "non esserne innamorato".

(moked, 3 novembre 2015)


Raid contro lo chef: «Amico di Israele»

Irruzione in un ristorante di Testaccio di un gruppo di attivisti palestinesi. Lasciati alcuni volantini di accuse a Marco Martini. Gli uomini non erano armati, urlavano e sventolavano bandiere. Chiedevano al cuoco di boicottare un evento culinario a TeI Aviv.

di Ilario Filippone

 Le minacce
 
Il locale contro cui è avvenuto l'assalto dei filopalestinesi
Lo chef Marco Martini
  Il blitz è scattato domenica all'ora di pranzo. Un gruppo di attivisti palestinesi ha fatto irruzione nel ristorante "La stazione di posta", al Testaccio, creando scompiglio fra le coppie e le famiglie sedute ai tavoli. Nel mirino della protesta, lo chef romano Marco Martini, accusato «di essere complice del colonialismo israeliano» per avere assicurato la sua presenza al "Round tables tour", l'appuntamento culinario che si terrà a Tel A viv dall'1 al 22 novembre. Il cuoco non era nel locale, sono stati i camerieri a lanciare l'allarme. Al suono delle sirene, i palestinesi si sono dileguati in strade diverse. Gli agenti della Digos hanno trovato dei volantini. «Oltre 130 gruppi per i diritti umani in tutto il mondo - recita il testo - hanno scritto a Martini e agli altri chef per chiedere che si ritirino. L'evento culinario è sponsorizzato dalla Galan Heights Wirney, che opera in una colonia illegale, e dal governo israeliano, responsabile di politiche di oppressione e apartheid». Per gli inquirenti si tratta di «piccoli segnali d'allarme in vista del Giubileo». Un'ora prima, la polizia di Stato aveva evacuato piazza Cairoli per una borsa sospetta abbandonata sui gradini della chiesa San Carlo ai Catinari, di fronte al Centro russo di scienza e cultura. L'allarme è rientrato a stretto giro, lo zaino custodiva abiti dismessi.

 I testimoni
  Il ristorante "La stazione di posta" si trova in largo Dino Frisullo, all'interno della Città dell'altra economia. A quell'ora, c'erano anche famiglie con bambini. Gli investigatori hanno sentito alcune delle persone presenti. Secondo le testimonianze raccolte, non ci sarebbero stati scontri, la protesta è andata avanti per mezz'ora, senza provocare incidenti o danneggiamenti. Gli uomini entrati nel ristorante, stando a una prima ricostruzione, non erano armati, agitavano cartelli e sventolavano bandiere palestinesi. Sono partiti in gruppo, al grido «Martini, amico degli oppressori israeliani». Quando sono arrivati gli agenti della Digos, sono fuggiti.

 L'evento
  «Ho sentito urlare e visto bandiere sventolare, ma non ero dentro il locale», dice il signor Marcello. Abita nel quartiere Testaccio. Quando è scattata l'irruzione, si trovava nei paraggi. «Cucinare nei ristoranti chic di Tel Aviv - è scritto sui volantini seminati per strada dai palestinesi - vuol dire rendersi complici delle violazioni israeliane dei diritti umani e della perpetuazione dell'occupazione, dell'apartheid e del colonialismo. Chiediamo ai partecipanti di boicottare l'evento». Il testo esordisce con uno slogan: «Fuori l'apartheid dal menù», E ancora: «Ai cuochi - si legge - chiediamo di sostenere l'appello della società civile palestinese e di boicottare il "Round tables tour", come mezzo non violento per esercitare pressioni su Israele». Marco Martini è stato premiato come miglior chef emergente per il centro Italia. La sua partecipazione al "Round tables tour" è l'ennesimo riconoscimento. L'evento di portata internazionale coinvolge tutti i big della cucina.

(Il Messaggero, 3 novembre 2015)


In Italia è questo il volto dell’antisionismo filopalestinese. In "Palestina" invece il volto è quello dei coltelli (ved. articolo sotto). Si assomigliano. Un giorno forse vedremo agitare i coltelli anche fra noi. Ma capiremo: sarà per disperazione, naturalmente. M.C.


Boutique 'Hitler' a Gaza. 'Collezione Terrorista' autunno-inverno 2015-2016

L'agenzia di stampa palestinese Shehab News Agency e un fotoreporter palestinese pubblicano su Facebook la foto di un negozio di abbigliamento nella Striscia di Gaza con un nome evocativo e con manichini significativi…

ROMA - I palestinesi vogliono la pace con Israele, è Israele e Netanyahu che sabotano ogni pacificazione. Questa la vulgata corrente, in prevalenza di sinistra (ma non solo), propalata per denunciare gli israeliani come sabotatori del processo di pace in Terra Santa.
Una menzogna, ovviamente, perché i palestinesi sono immersi nella cultura dell'odio. Probabilmente non i palestinesi in quanto tali, ma la dirigenza palestinese spinge per amplificare e diffondere la cultura della morte e dell'odio anti-israeliano e anti-ebraico.
Però fa un certo effetto vedere la fotografia di un negozio di abbigliamento di Gaza City denominato 'Hitler'. In una foto che riassume tanti significati e una moltitudine di messaggi.
Le foto sono state pubblicate su Facebook dall'agenzia di stampa palestinese Shehab, nella versione inglese, e dal photoreporter Mohammed Asad. Successivamente, l'agenzia Shehab l'ha rimossa, probabilmente comprendendo la gravità della testimonianza. Ma chi osserva sul web ha sempre il tempo per uno snapshot, prima della rimozione.
Non passa giorno che in Israele cittadini inermi non siano accoltellati da attentatori che spesso cadono sotto i colpi degli agenti di sicurezza, in una spirale di sangue e morte alimentata dai cultori dell'odio di Hamas e del Jihad Islamico.
Oggi, una donna di 80 anni e un uomo di 71 sono stati accoltellati. Evidentemente costituivano una minaccia incombente per la pace e la comune convivenza con i palestinesi…
Invece, queste foto dimostrano che i jihadisti di Hamas e del Jihad Islamico tengono in ostaggio anche i palestinesi perbene, che vorrebbero vivere in pace con gli israeliani, sulla base di principi comuni di civiltà.
In un posto dove un negozio chiamato 'Hitler' fa furore, al momento però non c'è alcuna speranza di pace.

(The Horsemoon Post, 2 novembre 2015)


Lo scandalo antisemita dei "Quaderni neri"

Documenti in uscita in Italia il primo volume degli scottanti diari cominciati nel 1931. Il giudizio sulla Shoah: «L'autoannientamento degli ebrei non si concluse definitivamente solo per l'intervento degli americani».

di Cesare Sughi

BOLOGNA - Alla metà degli anni '70, nella cittadina di Marbach, sede dell'archivio della letteratura tedesca, vengono depositati 34 quaderni rilegati in tela cerata nera, contenenti i diari, i pensieri, come uno zibaldone, che Martin Heidegger è venuto annotando fin dal 1931. Ecco dunque i famigerati "Quaderni neri", che secondo la volonta dell'autore, espressa al momento della consegna all'archivio di Marbach, sarebbero dovuti uscire solo dooo la sua morte. Prima ancora, ricorda il figlio Hermann, titolare di tutti i diritti editoriali sull'opera del padre, l'idea di Heidegger era che nessuno avrebbe mai dovuto leggerli, come fossero un segreto insondabile. Il rallentamento nella pubblicazione degli scritti paterni, induce lo stesso Heidegger junior ad ammetterne la pubblicazione.
   In Germania, tra l'anno scorso e quest'anno, vengono pubblicati i quaderni dal 1931 al '41 e quelli relativi al periodo 1942-'48, mentre ora Bompiani annuncia per questo giovedì la serie dei quaderni relativi al periodo 1931-1938.
   Che cosa rende così scottanti queste pagine, da far concludere a Peter Tramwy, uno dei curatori, che «c'è un antisemitismo onto-storico nei testi di Heidegger che sembra contaminare non pochi aspetti del suo pensiero»? Non è dunque, a bruciare, il tema dell'adesione al nazismo, nei cui confronti Heidegger ebbe anche espressisoni critiche (quello che egli chiama il «nazionalsocialismo volgare»). Sul tappeto c'è il nodo, mai risolto per il pensatore, del rapporto, da lui dichiarato in questi fogli, tra ««giudaismo mondiale e degradazione tecnologica dell'essere», della Shoah come «autoannientamento degli ebrei che non si concluse definitivamente solo per l'intervento degli americani».
   Nel 1941 Heidegger annota: «Il genere più alto e l'atto più alto della politica consiste nel manovrare con il nemico per metterlo in una situazione in cui si trova costretto a procedere al proprio autoannientamento». E aggiunge che bisogna condurre «le possibilità fondamentali dell'essenza della stirpe originariamente tedesca verso la dominazione». La «comunità giudaica» gli pare predisposta alla «criminalità planetaria». Le parole sono nette E intanto, dentro efluori la sua baita, l'ex rettore dell'ateneo di Friburgo rimpiange il mancato inizio che egli, come alcuni colleghi, si aspettava da un Reich a misura di filosofia.

(Nazione-Carlino-Giorno, 3 novembre 2015)

*


A Friburgo, nella Germania meridionale, in un'elaborata cerimonia pubblica, con gesto dimostrativo, uno dei più stimati professori di filosofia dell'intero Paese aveva aderito al partito nazista. Si era iscritto lo stesso giorno di Carl Schmitt e aveva ricevuto la tessera numero 3125894. La data, stabilita di comune accordo con le autorità naziste, era una scelta simbolica: il Primo maggio, «festa nazionale della comunità popolare». L'invito diramato a studenti e docenti era «nello stile di una cartolina precetto». Nel suo discorso il celebre professore annunciò che il Terzo Reich avrebbe portato alla «costruzione di un nuovo mondo spirituale per il popolo tedesco». La costruzione del nazionalsocialismo, dichiarò, «diventa compito fondamentale dell'università tedesca». Poi proseguì elogiando gli obiettivi di Hitler e salutando la nazificazione delle università come «compito nazionale, nel senso e al livello più elevato».
Il quotidiano nazista locale tributò il massimo rispetto al famoso pensatore: «Sappiamo che [il professore], con il suo alto senso della responsabilità morale, con la sua premurosa sollecitudine verso il destino e il futuro del popolo tedesco, è nel cuore del nostro movimento». Lo stesso giornale ne tesseva le lodi a non finire, affermando che «per anni ha sostenuto attivamente il partito di Adolf Hitler nella dura lotta per l'esistenza e il potere [... ] nessun nazionalsocialista ha mai bussato invano alla sua porta».
Il filosofo in questione era Martin Heidegger, professore all'Università di Friburgo e luminare fra i più eminenti in Germania. Aveva una mente vulcanica, idee folgoranti: ecco un «superuomo».

da "I filosofi di Hitler" di Yyvonne Sherratt



Per Abu Mazen, tutto Israele è una "occupazione" destinata a scomparire

Lo ha detto al Consiglio Onu per i diritti umani, ma l'agenzia di stampa palestinese ha cancellato la frase.

Dalla pagina Facebook di Fatah, 25.10.15. La pubblicistica palestinese presenta sempre tutto Israele come "Palestina occupata" da liberare con la cancellazione dello stato ebraico dalla carta geografica
Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha rivelato la sua vera posizione su Israele, parlando la settimana scorsa al Consiglio Onu per i diritti umani a Ginevra. Il rifiuto di Abu Mazen del diritto di Israele ad esistere entro qualsiasi linea di confine è apparso chiaro nel momento in cui il presidente palestinese ha ripetutamente denunciato quelli che ha definito "i 67 anni di occupazione", vale a dire una "occupazione" che coincide con la creazione di Israele nel 1948. In altri termini, secondo Abu Mazen l'esistenza stessa di Israele costituisce una "occupazione", ed è in quanto tale illegittima.
L'Autorità Palestinese insegna sistematicamente ai suoi figli a considerare tutto lo stato di Israele come una "occupazione" destinata presto o tardi a scomparire. Ma è abbastanza raro che il presidente Abu Mazen lo affermi in prima persona intervenendo in un consesso internazionale. Ecco cosa ha detto esattamente:...

(israele.net, 3 novembre 2015)


l sentiero della libertà incontra, a Casoli, il campo di concentramento

di Ezio Pelino

                              Rita Rosani                                                                     La targa in suo onore presso la Sinagoga di Verona
SULMONA, 3 novembre - Ce lo dissero a Casoli, quando vi giungemmo per la prima volta con "Il sentiero della liberà", che lì, proprio all'ingresso del paese, c'era stato un campo di concentramento per ebrei. Ora, dal recente libro di Livio Isaak Sirovich , "Non era una donna, era un bandito", possiamo saperne di più. Possiamo conoscerli. Possiamo conoscere il giovane triestino Giacomo Nagler, qui recluso con il padre e una cinquantina di ebrei italiani.
   E conoscere la straordinaria storia della sua fidanzata, Rita Rosenzweig, nome italianizzato in Rosani, medaglia d'oro della Resistenza, unica donna che non fu staffetta partigiana, ma fu, scrive Furio Colombo:
    "Coraggiosa e tenacissima partigiana della Brigata Aquila, in un piccolo distaccamento che cade nelle mani di un vasto rastrellamento congiunto di militi fascisti e di soldati tedeschi, e viene subito uccisa, mentre è già ferita, da un ufficiale italiano".
La storia di Rosa e della sua famiglia è quella comune a tanti ebrei. I suoi genitori dovettero lasciare la Moravia sul finire dell'Ottocento per sfuggire ai pogrom antisemiti. Riparano a Trieste. Nel 1920 nasce Rita Rosenzweig. Con il fascismo al potere, non era opportuno portare cognomi stranieri. Il padre di Rita diventa il signor Rosani. Le leggi razziali rendono la vita impossibile. L'odio si diffonde anche nelle scuole e nei circoli sportivi. Rita, amante dell'escursionismo, socia del CAI, viene scacciata. Quasi la metà dei 5400 membri della comunità ebraica di Trieste lascia la città e l'Italia. La famiglia di Rita resta in città. La ragazza si fidanza con Giacomo Nagler, detto Kubi.
  Con l'entrata in guerra dell'Italia, vengono arrestati a Trieste cinquantuno ebrei, fra questi anche il giovane Kubi. E' internato prima in un campo di concentramento in una zona malarica della valle del fiume Crati, in Calabria, poi, in Abruzzo, nel campo di concentramento di Casoli. Il rapporto fra i due fidanzati diventa epistolare. La corrispondenza, violata dall'occhio poliziesco, arriva aperta, lacerata, con la scritta "verificato dalla censura". L'intimità è negata e offesa. La persecuzione di regime continua. Bocciata a scuola con la media del sette (!), a Rita è interdetta la scuola statale. Frequenta la scuola magistrale privata. Scrive, fra l'altro, a Kubi:"Vado spesso in bicicletta, ma non si possono più portare i calzoncini corti. Se tu sapessi quante multe hanno fatto alle signorine che non hanno obbedito agli ordini prefettizi".
  Le lettere di Rita si sono salvate mentre quelle di Kuby sono andate perdute, sicuramente quando dopo l'8 settembre le loro case furono saccheggiate. La persecuzione di regime continua con la proibizione dell' espatrio e, persino, dell' ascolto della radio, di cui si arriva a sigillare le manopole. Rita scrive a Kubi che è andata per curiosità a vedere un film, "Suss l'Ebreo", ma l'esperienza è stata terribile." Ho sofferto le pene dell'inferno, durante la proiezione c'è stato un lancio di manifestini dalla galleria con la scritta a caratteri cubitali MORTE AGLI EBREI". Viene tolta la cittadinanza alla sua famiglia e imposto il vecchio nome ebraico di Rosenzweig. La persecuzione del regime non conosce sosta. Ora è il lavoro obbligatorio. Rita è precettata per lavori di ufficio. La sinagoga viene incendiata e danneggiata la memorà, altrove viene distrutta l'arca con i rotoli della Torah. Dopo tre anni di separazione, la corrispondenza con Kubi finisce per sfilacciarsi e interrompersi .
  Dopo ancora un altro anno, una svolta nella sua vita: conosce un uomo più maturo, un quarantenne. Un eroe pluridecorato, fascinoso, che, capo di Stato Maggiore della divisione Pasubio, ha combattuto da tenente colonnello in Russia. Kuby marcisce nel campo. L'unico conforto, qualche chiacchierata con il parroco. Ormai le storie dei due fidanzati si dividono, ma entrambi troveranno una tragica morte. Kubi ad Auschwitz. Rita da eroina, combattendo insieme al suo uomo divenuto capo partigiano. Aderiscono alla banda "L'Aquila" che agisce sul monte Comun. Rita rifiuta il ruolo femminile di staffetta, vuole essere un partigiano combattente. Attivano contatti con il CLN di Verona. Per tutti, la maestra ventitreenne e il quarantenne capo partigiano sono moglie e marito. E' un periodo breve, ma felice. Rita si sente finalmente libera, vive l'amore. Sono solo un brutto ricordo le diaboliche persecuzioni fasciste. E la guerra è finalmente la sua guerra di liberazione dai suoi persecutori di tanti anni. Quelli che le hanno strappato il fidanzato e le hanno fatto dell'età più bella della vita, l'adolescenza e la prima giovinezza, un inferno. Ora gode la libertà dei monti, la bellezza del paesaggio e delle passeggiate. All'alba del 17 novembre1944, vigilia di Rosh Hashanà, capodanno ebraico del 5705, un gruppo di centotrenta militi fascisti e tedeschi rastrella, risalendo, la valle. Alla baita si lancia l'allarme. Anche Rita prende il moschetto e si unisce agli altri e spara. Dopo una decina di minuti cominciano a scarseggiare le munizioni. Ricca dà l'ordine di ritirarsi. Ma , racconterà il partigiano Gatto, Rita risponde in triestino:"Gavè voia de schersar!" e, pancia a terra, continua a sparare. Ricca la prende per la spalla e le dice che devono scappare. Ma Rita risponde con una frase enigmatica:"non ne posso più" e continua a sparare.
  Paolo Rumiz scrive:"Cosa pensò Rita, la giovane maestra ebrea dai capelli rossi, quando nel mirino del moschetto vide i nazifascisti venirle addosso? Perché era rimasta indietro a sparare, mentre gli altri partigiani, incluso il suo uomo, si erano dati alla fuga? Aveva forse saputo che il suo ex fidanzato era stato ammazzato ad Auschwitz? Non voleva più vivere nell'Italia avvelenata dalle leggi razziali?" Il parroco ricorda che, sulla porta della canonica, aveva udito un milite della Repubblica di Salò che, rivolgendosi al suo ufficiale, aveva detto:"Adesso, Signor tenente , come farà che ha ucciso una donna?" E che l'ufficiale rispose:" Era nostro dovere, non era una donna, era un bandito". Nel processo in Corte d'Assise un testimone, un camerata, sostiene che il Comandante della Compagnia, trovando resistenza nella donna già ferita ad una gamba, la colpiva sotto il seno, quando stava per rialzarsi, e, dopo aver detto "m'arrendo", la colpiva con una pallottola alla fronte".
  Si era, quindi, trattato di un assassinio. L'amnistia di Togliatti chiuse il caso come tanti altri. Sul monte Comun un monumento ricorda la sua morte eroica e quella di un altro partigiano. La città di Verona, nel dopoguerra, tributerà onoranze speciali a Rita. Al suo nome sarà dedicata la via della sinagoga e, successivamente, le verrà assegnata la medaglia d'oro. Alla cerimonia in piazza Bra, ci sarà il Presidente dell'Assemblea Costituente, Umberto Terracini, con tutte le autorità e le rappresentanze dei Gruppi partigiani.
  Ora che la sofferenza del campo di concentramento di Casoli non è più anonima, ma ha il volto di Kubi, di suo padre Salo e di tutti gli altri, "Il sentiero della libertà" dovrà sostare davanti al Campo per un momento di riflessione e di partecipazione. Essi non hanno avuto il loro sentiero di libertà. Finirono tutti ad Auschwitz per essere eliminati.

(Corriere Peligno, 3 novembre 2015)


Etichette sui prodotti dei coloni
, Israele si scaglia contro la mossa Ue

La nuova politica dell'Unione europea secondo cui i supermercati europei etichetteranno i prodotti provenienti dagli insediamenti in territorio palestinese entrerà in vigore l'11 novembre, ma secondo il governo israeliano sarà un premio al terrorismo.

La Ue sembra aver rotto gli indugi ed è pronta a varare la settimana prossima le linee guida sull'etichettatura dei prodotti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Secondo quanto anticipato da fonti israeliane ad Haaretz, le regole - più volte annunciate e contrastate con grande forza dal governo di Gerusalemme - saranno pubblicate da Bruxelles mercoledì 11 novembre. Israele ha replicato alla notizia in maniera dura: la pubblicazione delle linee guida, hanno commentato fonti diplomatiche, «incoraggia l'atmosfera di boicottaggio nei confronti di Israele», oltre a essere «in questo momento un bonus per la violenza palestinese e per il rifiuto a negoziare».

 Il rischio tensioni
  Una mossa quella dell'Ue - di cui al momento si ignorano i dettagli - che rischia di inasprire le relazioni tra l'Europa e Israele. Il viceministro degli Esteri Tizpi Hotovely ha preannunciato per martedì alla vigilia della sua trasferta a Madrid, una conferenza stampa sulla vicenda. Al suo fianco, tra gli altri, Yossi Dagan, capo del Consiglio della Samaria, come Israele chiama una parte della Cisgiordania. La notizia giunge mentre Israele anche lunedì ha visto due nuovi attentati palestinesi, ritornati al centro del Paese, con quattro israeliani accoltellati: tre a Rishon Le-Zion, piccolo centro non distante da Tel Aviv, e uno a Netanya, città a nord sulla costa. Preceduti questa mattina da un tentato accoltellamento di un soldato israeliano al check point di Jalama, nei pressi di Jenin, in Cisgiordania. Una situazione che da settimane attanaglia il paese e che - secondo alcuni analisti - non sembra destinata a spegnersi rapidamente.

 La dura replica di Israele
  La decisione è stata presa dalla Commissione europea mesi fa, in una politica destinata a proteggere la soluzione a due Stati in Medioriente, di fronte alla colonizzazione israeliana del territorio destinato al futuro Stato palestinese. Secondo Israele, le nuove misure «non contribuiranno al processo di pace». Ma «al contrario, le disposizioni europee in questo momento sono un premio al terrorismo e al rifiuto palestinese» di dare il via a negoziati, hanno affermato le fonti.

(Corriere della Sera, 2 novembre)


"Miss Jerusalem", di Sarit Yishai-Levi

Recensione di Elisabetta Bolondi

Miss Jerusalem di Sarit Yishai-Levi
ed. Sonzogno
trad. Ofra Bannet e Raffaella Scardi    
pp. 496, € 19.00
 
Sarit Yishai-Levi
L'autrice israeliana Sarit Yishai-Levi scrive un romanzo nel quale rivive con immediatezza, crudo realismo, profonda ironia, consapevolezza delle grandi difficoltà nelle quali gli ebrei hanno vissuto dagli anni Trenta, sotto la dominazione degli "inglisi", la storia di una famiglia di origine spagnola, gli Hermosa, che a Gerusalemme hanno fondato un piccolo negozio che nel corso degli anni diverrà un apprezzato luogo di raffinatezze alimentari,
Attraverso quattro generazioni ci viene raccontata una sorta di epopea familiare, nella quale emergono soprattutto le figure femminili, a partire da Luna, che dà il titolo al libro, che l'autrice fa narrare in prima persona alla figlia di lei, Gabriela.
Ma la ragazza, la cui mamma Luna è severa e distante, mentre in casa si respira una atmosfera pesante dati i continui litigi fra i genitori, si rifugia spesso dalla nonna Rosa, che le rivela segreti di famiglia che turbano la ragazzina... C'è una sorta di maledizione che accomuna il destino delle donne Hermosa, e la stessa Rosa, una trovatella sposata giovanissima al bel Rafael Hermosa, al quale ha dato tre figlie femmine, ma dal quale non è mai stata amata, rivela alla nipote che a suo marito era stato imposto dalla madre Merkada il matrimonio con la povera Rosa per sfuggire ad un sortilegio a cui il giovane e ricco Rafael era stato colpito in seguito all'incontro con una donna dagli occhi azzurri, bellissima, ma che non rispettava i canoni delle famiglie giudeo spagnole.
Matrimoni infelici, rapporti obbligati, gli zii emigrati a New York, uno zio che si aggrega ad una fazione violenta, una guerra che porta fame e distruzione, la violenza terrorista: ecco il clima nel quale vivono le famiglie di cui gli Hermosa di Gerusalemme appaiono un prototipo.
Luna, bellissima ed elegante, sventata e frivola, interessata ad abiti, rossetti, scarpe, è la preferita di suo padre, ha pessimi rapporti con sua madre Rosa, e difficilissimi con la figlia Gabriela: invidiata e corteggiata, avrà un destino di grande infelicità e sofferenza; legatissima alle sorelle Rachelika e Beki, meno belle ma più sagge, affiderà a loro i suoi figli.
La trama del libro passa attraverso gli anni e la storia difficile di un popolo che cercava la propria terra ma si trova dapprima sotto la dominazione inglese, coprifuoco ed attentati quotidiani a scuoterne la vita, poi in conflitto perenne con gli arabi, che è storia giunta purtroppo fino a noi.
Il racconto della vita giornaliera dei diversi personaggi, però, ci restituisce uno spaccato di vita intima, dove i modelli culturali di riferimento sono quelli di una famiglia patriarcale dove si parla e si mangia giudeo-spagnolo, dove le donne, le madri soprattutto, sono potentissime: Merkada distrugge la vita affettiva di suo figlio Gabriel, Rosa è trattata come un oggetto da suo marito che invece adora la figlia primogenita Luna, alla quale tutto permette, rendendola viziata ed odiosamente arrogante. Rachelika e Beki devono sopperire alle mancanze della sorella, il cui destino sarà segnato, e si prenderanno cura della nipote, la narratrice Gabriela, che tenterà di sfuggire al destino che perseguita le donne Hermosa fuggendo a Londra. Siamo ormai negli anni '60 e la capitale inglese è il mito della gioventù di tutto il mondo; Gabriela è sul punto di perdersi, fra droghe e alcol, in compagnia di capelloni sballati, quando giunge a riportarla a casa la buona Rachelika, che le restituirà dignità e le svelerà la vera storia di sua madre e della loro grande e sfortunata famiglia. Il cerchio si chiude, perché un ragazzo innamorato di Gabriela l'attende con "paciencia", la parola spagnola che il padre della ragazza gli suggerisce per conquistarne l'amore, finalmente quello vero e liberamente scelto.
Il libro è lunghissimo, commovente, divertente, insolito, coinvolgente, capace di indagare nell'intimo dei cuori dei singoli protagonisti senza mai tralasciare il contesto storico e le traversie che stravolgono da troppo tempo quella "terra promessa" che è diventata da oltre settanta anni il crocevia della violenza. Miss Jerusalem si mette lo smalto rosso sotto le bombe, va al bar per l'aperitivo, al cinema, quasi a ribadire che la vita normale è un diritto più forte della violenza degli uomini. Raramente nella letteratura di ambiente ebraico avevo visto tanta ricchezza nel raccontare la vita intima, la sessualità, i pregiudizi familiari, i vincoli all'interno di microcosmi così ben caratterizzati.

(SoloLibri.net, 2 novembre)


Marcia in ricordo della deportazione degli ebrei di Genova

Era il 3 novembre 1943 quando - con un agguato improvviso e brutale dentro la sinagoga di Genova - iniziò la deportazione degli ebrei della Superba.
Solo in quella retata (e negli arresti immediatamente successivi) vennero deportate 261 persone, di cui solo 13 tornarono a casa.
La Comunità Ebraica di Genova, il Centro Culutrale Primo Levi e la Comunità di Sant'Egidio ricordano questo episodio organizzando una marcia della memoria perché tutti - soprattutto i più giovani - non dimentichino l'orrore dell'olocausto. Alla marcia parteciperanno anche alcuni profughi ospitati nelle strutture genovesi, simbolo vivente delle ferite della guerra e - talvolta - dell'inaccoglienza.
L'appuntamento è martedì 3 novembre alle 17,30 con la marcia che partirà da Galleria Mazzini (lato Carlo Felice) per arrivare fino alla sinagoga di via Bertora.
Interverranno il rabbino capo di Genova, Giuseppe Momigliano, Ariel Dello Strologo, presidente Comunità Ebraica di Genova, il sindaco di Genova Marco Doria e il reponsabile della comunità di Sant'Egifio di Genova Andrea Chiappori.

(Genova Today, 2 novembre 2015)


Shiru shir laShalom, Cantate la pace

di Deborah Fait

Eravamo là, io e la mia famiglia, in un' abitazione del console italiano vicinissima a Piazza Malkei Israel, Piazza Re di Israele, per salutare un caro amico che stava partendo per Washington, quando arrivò una telefonata. Fu come se, all'improvviso, si fosse spenta la luce. Abbiamo sentito Rafi fare una specie di grido soffocato, lo abbiamo visto accasciarsi, stringendo il cellulare quasi fosse un'ancora di salvezza, sul soppalco del pavimento. "Hanno sparato a Rabin" è stato tutto quello che riuscì a dire. Siamo rimasti ammutoliti, che dire? Che fare? Non era possible, non poteva succedere, non in Israele. Eravamo come su una barca sbattuta da onde enormi da cui non sapevamo come difenderci. Le onde erano i nostri pensieri, il nostro terrore, la nostra disperazione. Avevano sparato a Itzhak Rabin, non era possibile, poco prima eravamo là, sul lato della piazza, ad applaudire e ridere in mezzo a migliaia di persone.
 
  Dopo poco, un tempo che ci sembrò infinito, ecco la seconda telefonata. Itzhak Rabin era morto. Avevano ucciso il Primo Ministro di Israele e l'assassino era un ebreo. Nel giro di pochi secondi eravamo tutti in strada, in lacrime, correndo incontravamo altre persone che come noi, disperate e incredule, piangevano. Ci guardavamo, ci abbracciavamo con degli sconosciuti. Come, cosa è accaduto? Perché? Ricordo un papà che portava in braccio il suo bambino che si guardava intorno ed era spaventato perché vedeva tutti piangere, compreso suo padre. Gridava, "Lama, Aba? Perchè Papà?" Non capiva, abituato com'era a vedere a Tel Aviv la gioia, i balli e i canti, persone sorridenti, non capiva il perché di tutte quelle lacrime e di tutta quella gente che si muoveva in modo disordinato come se non sapesse dove andare. Gruppi di ragazzi stretti gli uni agli altri, quasi a sorreggersi, che singhiozzavano, si fermavano per abbracciare tutti quelli che incontravano e gridare anche loro - Lama, perché? - .
  Non lo dimenticherò mai. E' stata un'emozione fortissima, ci sentivamo traditi, orfani, privati di ogni sicurezza, terribilmente spaventati, direi che eravamo terrorizzati, travolti da una tragedia da cui, fino a pochi momenti prima, ci sentivamo immuni. Chi avrebbe mai potuto immaginare che un ebreo israeliano avrebbe potuto uccidere il suo, il nostro Premier, quello che tutti noi consideravamo un padre, un amico, uno di noi, un uomo legato intimamente al suo popolo come solo in Israele può accadere. Pensavamo che non ci saremmo mai più ripresi, che era finita.
  Oggi, a distanza di vent'anni, sento dire che se Rabin fosse vissuto avremmo avuto la pace. Io dico di no e non posso essere d'accordo con gli amici della sinistra israeliana che continuano a vivere con quell'illusione. Neanche Rabin avrebbe potuto fare la pace per un motivo semplice: non si può fare la pace da soli, se si ha un nemico bisogna saperla fare in due. Il nostro nemico era Arafat che, la sera stessa in cui strinse, davanti a un soddisfattissimo Bill Clinton, la mano a Rabin, telefonò a Re Hussein di Giordania per dirgli "Abbiamo fatto il primo passo per arrivare a Haifa, Tel Aviv e Ashkelon". Arafat voleva la guerra, l'ha sempre voluta e lo ha ampiamente dimostrato rifiutando ogni offerta e ogni dialogo negli anni a venire. Arafat voleva solo una cosa e lo aveva promesso più e più volte: "Mandare gli ebrei a bere l'acqua del Mediterraneo" . Lo stesso Rabin sapeva che sarebbe stato tutto inutile, andò a Oslo con grande scetticismo e non si preoccupò di nasconderlo, infatti poco tempo prima aveva detto queste precise parole:"Finché gli arabi otterranno quello che vogliono con il terrorismo non faranno mai la pace". E' giusto ricordarle perché non era un illuso, non era un ingenuo, era un soldato, era un generale di Zahal e sapeva con chi aveva a che fare (notammo, sorridendo, quanta fatica gli costò stringere, a Washington, la mano del raiss palestinese, sembrava portare tonnellate di dubbi sulle spalle).
  So che quello che sto per scrivere mi attirerà delle critiche ma sono abituata a dire quello che penso. Itzhak Rabin è stato assassinato qui, a casa sua, in mezzo al suo popolo, in una sera di festa, anche a causa della vergognosa politica europea e delle continue insistenze a fare la pace concedendo ai palestinesi, inventati nel 1967 per opporsi all'esistenza di Israele, tutto quello che volevano e che chiedevano con la violenza e il terrorismo. Rabin è stato assassinato anche perché l'Europa ha sempre trattato Arafat come un bimbetto viziato al quale concedere tutto. Faceva attentati e davano la colpa a Israele, ammazzava e davano la colpa a Israele. "Non dovete stare là, ci dicevano, non è casa vostra, ci dicevano". E lui, Arafat, il peggior terrorista della storia moderna, faceva stragi a Roma, Parigi, Anversa, Vienna, sull'Achille Lauro, Israele, decine e decine di morti innocenti e i "pacifisti" lo portavano in trionfo ad Assisi e il Papa lo riceveva con tutti gli onori in Vaticano e il Governo italiano lo proteggeva nascondendolo addirittura alla Polizia Internazionale.
  Credo che quello sia stato uno dei periodi più sporchi della politica europea del dopoguerra. Oggi gli ipocriti pacifondai europei parlano di Rabin come e fosse un santo, fingono di non ricordare che, quando era Capo del governo, lo criticavano, lo insultavano e lo detestavano come hanno sempre fatto con tutti i governanti di Israele. A quelli che urlavano "A morte Israele, Saddam, Saddam" non è mai interessato se governava la destra o la sinistra, il loro grande fastidio era l'esistenza stessa del Paese degli odiati ebrei. Se l'Europa fosse stata, solo un po', dalla parte di Israele, anzichè coccolare i terroristi, forse oggi la situazione sarebbe diversa, non ci sarebbe stata la pagliacciata di Oslo che ha prodotto solo terrorismo e che ha fatto uscire Arafat dal covo di Tunisi per essere accolto con baci e abbracci in tutto l'Occidente. E più il terrorismo diventava barbaro, più lui veniva onorato dai governi vigliacchi d'Europa.
  Nel 1992, Rabin chiese alla CEE di rispondere fermamente con una politica comune al boicottaggio dei paesi arabi contro Israele. Nel 2015 è l'Europa che boicotta Israele e marchia, come un tempo i nazisti, i suoi prodotti di esportazione a dimostrazione che il tempo passa, gli uomini e i governi cambiano ma l'odio resta immutato e implacabile. Quell'antico odio europeo per Israele, l'illusione pacifista di una pace impossibile, l'aver ceduto inutilmente terre che sono state per millenni il cuore del popolo ebraico, hanno contribuito ad armare la mano di uno scellerato assassino che, dimenticandosi di avere valori morali, ha privato Israele del suo Premier e ci ha resi più vulnerabili. Israele, nonostante queste tragedie, sa trovare dentro di sé forza, speranza, motivi per gioire e per continuare a cantare, cocciutamente, Shir la Shalom. La canzone della Pace. Ieri sera erano in centomila a Kikar Rabin (ex Malkei Israel) a ricordare la tragedia di vent'anni fa, perché la speranza e Zahal sono le uniche cose che ci permettono di sopravvivere circondati, come siamo, da chi ci vuole distruggere.

(Inviato dall’autrice, 2 novembre 2015)


L'ambasciatore di Israele: «Ci ha aiutato alla Fifa e l'ha fatto senza paura»

Naor Gilon: "A Carlo Tavecchio abbiamo chiesto aiuto e lui ce l'ha dato. Sul resto, non entro nel merito".

di Daria Gorodisky

 
Carlo Tavecchio
ROMA - Quando l'ambasciatore di Gerusalemme a Roma, Naor Gilon, difende il presidente della Figc, fa riferimento a un fatto preciso: «A Carlo Tavecchio noi di Israele abbiamo chiesto aiuto al Congresso Fifa, lui ce l'ha dato e non ha avuto timore a dirlo pubblicamente. Sul resto, non entro nel merito».
   Le cose erano andate così. In vista del 65 congresso della Fifa a Zurigo, i palestinesi avevano chiesto l'espulsione di Israele dalla Federazione stessa: un ennesimo tentativo di boicottaggio portato avanti, questa volta, con l'accusa che lo Stato ebraico ostacolava il calcio palestinese limitando il movimento dei suoi giocatori tra Gaza e la Cisgiordania o nelle trasferte all'estero.
   L'ordine del giorno sarebbe dovuto andare ai voti il pomeriggio del 29 maggio, giorno di apertura dei lavori. La tensione è alta: davanti alla sede Fifa si raduna una piccola manifestazione di palestinesi e un gruppo di militanti fa irruzione nei locali del congresso.
   Ma la diplomazia calcistica continua a cercare strade alternative per evitare la conta. Qualche giorno prima il presidente della Fifa, Joseph Blatter, era andato a incontrare Abu Mazen e Benjamin Netanyahu per risolvere la situazione. Ottiene delle proposte. Non bastano ancora. Riunioni e colloqui proseguono fuori e dentro il palazzo. Molti presidenti di associazioni calcistiche partecipano, si schierano: tra loro c'è anche Tavecchio. La mediazione va in porto proprio all'ultimo momento.
   Il presidente della Palestinian Football Association, Jibril Rajub, sale sul podio e annuncia il ritiro della richiesta di espulsione di Israele dalla Federazione. Per i suoi è una sorpresa, e Rajub giustifica a latere la sua decisione con le «pressioni» ricevute. Dopo di lui prende la parola il presidente della Israeli Football Association, Ofer Eini: «Lasciamo la politica ai politici, mentre noi giochiamo a calcio il meglio che possiamo», dice con soddisfazione all'assemblea di delegati. Intanto Israele fa sapere che, nonostante le precauzioni dovute a motivi di sicurezza, garantirà a giocatori e allenatori palestinesi procedure più veloci per i passaggi di frontiera, e fornirà aiuti alle spese per lo sport. Mentre i palestinesi dichiarano una certa apertura sullo status di cinque squadre israeliane basate in località della West Bank.
   Fra i risultati, c'è anche l'istituzione di una commissione israelo-palestinese che si deve riunire periodicamente, insieme con rappresentanti Fifa, per risolvere eventuali controversie.
   II tavolo si è aperto il 26 agosto a Zurigo, con la stretta di mano fra Eini e Rajub e il loro impegno a una «forma di cooperazione». E il 2 ottobre scorso c'è stato il primo meeting in Medioriente, a Tel Aviv. Il prossimo appuntamento, invece, è previsto per questo mese a Ramallah.
   
(Corriere della Sera, 2 novembre 2015)


Chi per motivi morali s’indigna sulle parole di Tavecchio forse dovrebbe, sempre per motivi morali, dire qualcosa sul modo in cui quelle parole sono state ottenute e sui motivi per cui sono state diffuse. Il motore di tutto certamente non è l’amore per gli ebrei. M.C.


Clamoroso all'ONU: l'Egitto vota a favore di Israele!

È passato un po' inosservato l'ingresso di Israele nella prestigiosa agenzia ONU incaricata di promuovere la cooperazione internazionale per l'impiego pacifico dello spazio extraterrestre: la United Nations Office for Outer Space Affairs (UNOOSA). Al di là dei compiti di questa agenzia del Palazzo di Vetro, e del significativo apporto tecnologico che il piccolo stato ebraico potrà ora fornire, ciò che colpisce di questa cooptazione è il voto con cui è stata approvata alle Nazioni Unite: dove diversi stati arabi e musulmani - Qatar, Tunisia, Siria, Arabia Saudita, Yemen, Kuwait, Iraq e Algeria - si sono astenuti; e dove addirittura l'Egitto ha votato a favore dell'ingresso di Gerusalemme nell'organismo internazionale.
Il voto di venerdì da parte del Cairo costituisce un precedente assoluto, sin dalla creazione del moderno stato di Israele del 1948. Prima del voto, il portavoce del ministro degli Esteri egiziano si è rifiutato di rilasciare dichiarazioni. In seguito all'ingresso di Israele nell'UNOOSA, ha minimizzato rilevando che la decisione si rendeva necessaria per favorire il contestuale ingresso di altri stati arabi nell'Agenzia. Diversi politici in Egitto hanno aspramente contestato la decisione, presumibilmente benedetta invece dal presidente al-Sisi.
È il caso di ricordare che, benché nel 1979 sia stato sottoscritto un trattato di pace fra Israele ed Egitto, che tra l'altro ha comportato il ritorno a quest'ultimo dell'intero Sinai, con tutti i suoi fruttiferi giacimenti petroliferi, fra Gerusalemme e Il Cairo i rapporti non sono mai stati idilliaci; e hanno conosciuto una esasperazione con la breve quanto infelice parentesi governativa da parte dei Fratelli Musulmani, a più riprese sollecitati a disconoscere il gli Accordi sottoscritti fra Begin e Sadat.

(Il Borghesino, 2 novembre 2015)


Oltremare - Gatti

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Ho controllato, e ieri era il Primo novembre, non il Primo di aprile. Non che al ministro dello Stato d'Israele Uri Ariel la cosa possa importare, perchè lui, da buon ebreo, vede solo il calendario ebraico, e le sue priorità nella vita e nella politica sono dettate esclusivamente dalla Halakhah, la legge ebraica. Io invece, nella mia natura imperfetta di cittadina doppia, con passaporti multipli e multiple nazionalità, ho pensato che il suo ministero dell'Agricoltura avesse fatto un bel pesce d'aprile fuori stagione. Invece no, pubblicato con sigilli e firme ufficiali: siccome l'esuberanza riproduttiva di gatti (e cani) in Israele costringe ad atti di crudeltà quali la castrazione chimica, che secondo opinioni rabbiniche sono contro la Halakhah, propone di "trasferire" i suddetti animali in un paese estero che ne accetti la transumanza. Proposte? Non pare che ci sia la fila di ambasciatori fuori dal ministero.
Ci vorrebbe altro che un Oltremare per studiare la proposta. Vero: il creatore ha incoraggiato le sue creature a moltiplicarsi e riempire la terra appena creata. Guai a chi volesse limitare questo comandamento. Vero anche: i gatti sono i veri padroni del Medio Oriente, se mai si organizzassero in un esercito addio, ci spazzerebbero via come nessuna invasione da stato arabo potrebbe mai. Ho provato ad immaginarmi aerei riempiti di gatti, che volano felici verso paesi in cui i gatti scarseggiano e servono a qualcosa di fondamentale che non sia solo fare compagnia e rovinare divani.
Ed è arrivata l'illuminazione: nessun aereo, al massimo autobus. Con i lavori per la metropolitana leggera, si narra che eserciti di ratti, topi e pantegane siano stati liberati dalle relative profondità telavivesi. Lo dico contro il mio interesse essendo allergica: che si riempiano di gatti colonne di autobus, e li si rovescino a fare da cacciatori lungo i lavori che già bloccano tutta la città. Ai bambini diremo che sono Tom e Jerry, nella realtà una guerra senza quartiere in cui tiferemo fortemente per i gatti, salvati dal "trasferimento" coatto e dalla fantasia geopolitica del ministero dell'Agricoltura.


(moked, 2 novembre 2015)


Expo 2015 - A Israele e Angola il premio Class Heritage

Premiato anche Padiglione Zero

MILANO - I padiglioni di Israele e Angola, e il padiglione Zero hanno vinto il premio "Class Heritage Awards", per i contenuti esposti e l'efficacia dei loro messaggi.
Il premio è stata riconosciuto da una giuria di studenti internazionali e di figure conosciute a livello internazionale tra cui figurano anche Letizia Moratti, Romano Prodi, il presidente di Caritas Internationalis, Luis Antonio Tagle, il premio nobel per l'Economia Eric Maskin. "E' per noi un onore ricevere questo premio - ha commentato il commissario del Padiglione di Israele, Elazar Cohen -. Ciò che abbiamo voluto portare da Israele a Expo è stata la nostra determinazione a superare le sfide con creatività. Ma anche il nostro impegno a condividere conoscenza e tecnologia per un futuro migliore, più sostenibile. Ci fa molto piacere che il nostro messaggio sia stato ricevuto e apprezzato composta per lo più da studenti internazionali". "Siamo molto orgogliosi per questa premiazione - ha dichiarato Albina Assis Africano, Commissaria del padiglione Angola -. Per il mio Paese è un privilegio, una ricompensa per la nostra presenza in Italia, un riconoscimento del progresso della nostra Nazione".

(ANSA, 1 novembre 2015)


Netanyahu: "Il gas naturale darà a Israele l'indipendenza in campo energetico"

Le dimissioni di Deri da ministro dell'economia aprono la strada all'accordo del governo per lo sfruttamento del più grande giacimento finora scoperto nelle acque territoriali israeliane.

Il ministro israeliano dell'economia Aryeh Deri (Shas) si è dimesso dal suo incarico, aprendo al governo la strada per dare luce verde ad un accordo sul gas off-shore con il gigante energetico americano Noble Energy.
"Il ministro Deri mi ha comunicato la sua decisione di dimettersi - ha annunciato domenica il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu - Al fine di procedere con l'accordo, l'incarico ministeriale sarà trasferito a me e io darà via libera allo schema di accordo con una conglomerata dell'energia per lo sviluppo di giacimenti di gas off-shore".
Le dimissioni a lungo attese pongono fine a una vicenda estenuante che aveva visto il ministro Deri rifiutarsi di sottoscrivere la sospensione della normativa antitrust per quanto riguarda l'accordo in questione. Deri ha evitato di dare l'okay, ma ha anche detto che non intende essere d'ostacolo ad un accordo sull'energia che, secondo Netanyahu, potrebbe valere centinaia di milioni di shekel...

(israele.net, 1 novembre 2015)


Quando il vicino trova un giacimento di gas

di Aviram Levy, economista

Quando nei mesi scorsi l'amministratore delegato dell'Eni ha annunciato che l'azienda aveva scoperto un colossale giacimento sottomarino di gas naturale al largo delle coste egiziane, era risultato subito evidente agli osservatori che questa scoperta era un'ottima notizia per t'economia egiziana e per l'azienda italiana ma lo era molto meno per il settore del gas israeliano.
   Le dimensioni del nuovo giacimento egiziano sono in effetti ragguardevoli: [' equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio, sufficienti a partire dal 2017 a soddisfare i consumi dell' Egitto per almeno 10 anni, eliminando per questo paese la necessità di importare gas dall'estero.
   La scoperta di questo giacimento e il raddoppio del canale di Suez, inaugurato pochi mesi fa, forniranno uno stimolo importante alI'economia egiziana, caratterizzata negli ultimi anni da una bassa crescita, elevati disavanzi della bilancia dei pagamenti e da un'alta disoccupazione.
   Purtroppo la scoperta del gas egiziano ha messo in grosse difficoltà il progetto israeliano di estrarre gas dal giacimento Leviatan, le cui dimensioni sono del 30% inferiori a quelle del giacimento egiziano. Le trivellazioni per l'estrazione del gas da Leviatan non sono ancora partite a causa delle divergenze tra il governo e il parlamento israeliano riguardo alla scelta delle società a cui affidare la concessione (attualmente le imprese assegnatarie sono l'americana Nubel e l'israeliana Delek) nonché il prezzo "equo" per l'assegnazione di quest'ultima, un prezzo che da un lato consenta alle società estrattrici di effettuare gli ingenti investimenti necessari e dall'altro assicuri che gli utili vadano nelle casse dello Stato, a beneficio dei contribuenti e non di aziende private.
   Quand'anche le autorità uscissero dall'impasse politica che sta bloccando Leviatan, rimarrebbe il problema di trovare acquirenti alternativi per il gas israeliano: il progetto di fattibilità industriale del giacimento di Leviatan poggiava infatti sulla possibilità di vendere circa metà della produzione di gas all'Egitto. Le autorità israeliane hanno dichiarato che confidano di trovare acquirenti alternativi (oltre alla Giordania, che rimane tra i potenziali acquirenti ma potrebbe fare dietrofront per motivi di politica interna), ma il forte calo delle quotazioni di Borsa delle azioni Noble e Delek e, più in generale, la sovrapproduzione di gas a livello mondiale lasciano pensare che tale ricerca non sarà facile. Il candidato naturale ad acquistare il gas di Leviatan sarebbe l'Europa, per vicinanza geografica e facilità di trasporto.

(Pagine Ebraiche, novembre 2015)



"La via del Signore non è retta"

Ma la casa d'Israele dice: "La via del Signore non è retta". "Son proprio le mie vie quelle che non sono rette, o casa d'Israele? Non sono piuttosto le vie vostre quelle che non sono rette? Perciò, io vi giudicherò ciascuno secondo le vie sue, o casa d'Israele!" dice il Signore, l'Eterno. "Tornate, convertitevi da tutte le vostre trasgressioni, e non avrete più occasione di caduta nell'iniquità! Gettate lungi da voi tutte le vostre trasgressioni per le quali avete peccato, e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo; perché dovreste morire, o casa d'Israele? Io infatti non ho alcun piacere nella morte di colui che muore", dice il Signore, l'Eterno. "Convertitevi dunque, e vivete!"

dal libro del profeta Ezechiele, cap. 19

 


Mondiali di windsurf: i primi ori vanno in Israele

Yoav Cohen e Katy Sphychacov vincono il titolo nella categoria under 17.

CAGLIARI, 31 ott - Gli israeliani Yoav Cohen e Katy Sphychacov sono i nuovi campioni del mondo Techno 293 per la categoria Under 17, rispettivamente maschile e femminile. Sono i primi verdetti del Mondiale di windsurf dedicato alla tavola giovanile propedeutica a quella olimpica che, dopo sei giornate di regate, si conclude oggi nelle acque del Poetto. Un trionfo, quello dei due surfisti israeliani, che fin dalle prime prove hanno dimostrato di avere davvero una marcia in più rispetto agli avversari.
Yoav Cohen ha conquistato nella penultima regata della flotta "gold", un quarto e un secondo posto per avere la matematica certezza di aver vinto con una giornata d'anticipo il titolo iridato. L'israeliano ha staccato di ben 26 punti in classifica generale lo spagnolo Fernando Lamadrid Trueba. Superlativa anche la prestazione della sua connazionale Katy Sphychacov, che ieri ha fatto l'en plein aggiudicandosi le uniche due prove disputate sotto un leggero maestrale che ha raggiunto a malapena i 10 nodi d'intensità.

(Fonte: La Nuova Sardegna, 1 novembre 2015)


Meno coltelli al bar della Knesset

Il clima di tensione in Israele per la 'intifada dei coltelli' palestinesi ha contagiato anche la Knesset, nella cui caffetteria e' adesso piu' difficile reperire coltelli di metallo. E cio' nell'intento di ridurre il pericolo che qualcuno tenti di pugnalare deputati.
Secondo Maariv il carrello con le posate per il self service e' stato spostato. In precedenza era a portata anche di centinaia di ospiti. Adesso si trova invece accanto alla cassa, e c'e' chi vigila sulle posate.
A questo siamo arrivati!


(ANSA, 1 novembre 2015)


Expo 2015 - Israele: la foto con il saluto simpatico del padiglione a Milano

Il padiglione d'Israele si è superato salutando l'Expo 2015 di Milano con un messaggio davvero simpatico e in italiano.

L'Expo 2015 di Milano ha chiuso i battenti dopo aver regalato mesi di emozioni, sia in positivo che in negativo. Un'esperienza sicuramente unica da vivere nel nostro paese, nonostante la disperazione di chi ha scelto di spendere la propria giornata per entrare nel padiglione del Giappone (leggi le scritte sul legno in fila). Una manifestazione unica, a cui ha voluto dare un saluto epico il padiglione di Israele. Già particolarmente apprezzato negli scorsi mesi, il paese mediorientale saluta l'Italia prima con una scritta in inglese e poi con un enorme "Ciaooonee". I visitatori sbigottiti hanno guardato ridendo la scritta, che è diventata immediatamente virale facendo il giro del web.

(meltybuzz, 1 novembre 2015)


Troppo in alto per un missile portatile. Ma è presto per escludere l'attacco

Incidente o attentato: resta il dubbio.

di Maurizio Molinari

ISTANBUL - II disastro aereo nel Sinai ancora non ha una spiegazione tecnica e tanto basta a far aleggiare lo spettro del terrorismo jihadista sulla morte dei 224 passeggeri del volo Kogalymavia decollato da Sharm el-Sheik per San Pietroburgo. I soccorritori egiziani nella zona di Hasana, luogo dell'impatto, si sono trovati davanti ad un aereo spaccato in due con molte vittime ancora allacciate ai sedili: in attesa del verdetto delle scatole nere nessuna ipotesi può essere esclusa. Tanto più che lo Stato Islamico (Isis) rivendica la strage parlando di «vendetta contro la Russia che ci bombarda in Siria». I terroristi potrebbero aver colpito con un missile terra-aria, se l'aereo è sceso di quota perché in difficoltà, o con un kamikaze. I dubbi spingono Lufthansa ed Air France a sospendere i sorvoli sul Sinai, un deserto ad alto rischio perfino nei cieli. Attorno al dubbio fra incidente o attentato ruotano sette interrogativi a cui proviamo a rispondere.

- Come è caduto l'Airbus russo?
  Per la compagnia aerea si sarebbe trattato di «problema tecnico» e fonti egiziane parlano di un aereo «spaccato in due» con la coda separata dal resto della cabina passeggeri ma Isis afferma di averlo abbattuto. I soccorritori egiziani sul luogo del disastro descrivono i morti «ancora legati ai sedili». Per Patrick Smith, analista Usa di «Ask the Pilot» sui disastri aerei, «sulla base degli elementi che finora abbiamo a disposizione non possiamo escludere che l'aereo sia stato abbattuto».

- Quanto è credibile la rivendicazione di Isis?
  Isis è una feroce organizzazione terroristica abile nell'uso dei media, che adopera per rafforzarsi e reclutare. La rivendicazione gli consente di vantarsi di avere inferto un duro colpo alla Russia per punire il suo intervento in Siria. Il video che ha postato online non contiene elementi specifici per avvalorare la rivendicazione ma la rapidità con cui le immagini - da doppia angolazione - sono state diffuse, poco dopo il disastro, lascia intendere un livello di pianificazione non indifferente. II video non dimostra la paternità dell'attacco ma conferma l'efficienza di Isis.

- Ma le armi a disposizione dell'Isis sono in grado di abbattere un aereo di linea?
  Isis dispone di missili terra-aria che possono essere lanciati a spalla o da pick-up per colpire un aereo a circa 7000 metri di altezza. In luglio Isis ha mostrato un video in cui aveva gli S-18 «Manpads»: è adoperando un ordigno simile che ha colpito una nave egiziana ad Al-Arish. Se l'aereo russo era davvero a 10 mila metri, come la compagnia afferma, non poteva essere colpito perché Isis non dispone di missili come l'S-11 che ha abbattuto il volo malese MH17 sui cieli dell'Ucraina nel 2014. C'è però un'altra ipotesi: Isis può aver fatto salire sul volo un kamikaze. Nel 2004 i ceceni in questa maniera fecero esplodere due aerei. Resta nel Sinai il pericolo dei «Manpads»: dal rovesciamento di Gheddafi nel 2011 ne sono scomparsi dagli arsenali libici almeno 5000, fra S-7 e S-24, di fabbricazione russa. Egitto e Usa temono siano stati venduti ai jihadisti. E il pericolo di tali missili che ha spinto Lufthansa e Air France a sospendere i sorvoli sul Sinai.

- Perché Isis avrebbe scelto un obiettivo russo?
  Lo spiega nella rivendicazione postata online: «Come voi uccidete con i vostri aerei in Siria così venite uccisi, per volere di Allah, non sarete mai sicuri nelle terre musulmane e neanche nei cieli». Isis e Al Nusra - emanazione di Al Qaeda - hanno subito duri colpi dai raid iniziati dal Cremlino il 30 settembre ed hanno reagito minacciando rappresaglie apocalittiche. Per illustrare cosa hanno in mente hanno postato online l'immagine della Cattedrale di San Basino, sulla Piazza Rossa, avvolta dalle fiamme aggiungendo promesse come «la Siria diventerà un vostro cimitero come è stato l'Afghanistan». La volontà dei ribelli islamici di colpire i russi è dimostrata dai recenti colpi di mortaio contro loro postazioni a Latakia nei quali sarebbero stati uccisi almeno tre militari.

- Come possono difendersi gli aerei di linea dalla minaccia dei missili a spalla?
  Le fasi più a rischio sono decollo e partenza perché si vola bassi. La difesa è nel montare sugli aerei civili dei sistemi anti-missile. La compagnia israeliana El Al lo ha fatto su tutti gli aerei dal 2002, quando Al Qaeda tentò di abbattere un suo volo in fase di decollo da Mombasa, in Kenya, con un missile S-7. Si tratta di una protezione molto costosa, che alcune compagnie Usa hanno esaminato, anche perché richiede un particolare addestramento del pilota. Alcuni aerei privati, di capi di governo e vip, lo hanno adottato.

- Quanto è presente Isis nel Sinai?
  I jihadisti di Baiyt Al Maqqdis nell'autunno del 2014 hanno aderito a Isis diventando Wilayat Sinai - la Provincia del Sinai - a cui l'intelligence egiziana attribuisce circa 600 miliziani che possono contare sulla corruzione di molte tabù beduine.

- Cosa sta facendo l'Egitto per combattere Isis?
  Al Sisi ha inviato nel Sinai almeno 30 mila uomini, sostenuti da jet e navi da guerra, con un'offensiva massiccia soprattutto nel Nord Sinai, dove Isis ha le roccaforti, ma senza riuscire a sradicare i jihadisti. La cui forza viene dai legami coi beduini.

(La Stampa, 1 novembre 2015)


In Israele pochi dubbi: l’Airbus A321 è stato abbattuto da un missile

di Michael Sfaradi

TEL AVIV • Non solo voci e dubbi, ma quasi s certezze in Israele. Sia a Gerusalemme che a Tel Aviv fin dai primi momenti dopo l'incidente del Airbus A321 della Metrojet russa si dava alta la possibilità che l'aeromobile fosse stato abbattuto da un missile terra-aria lanciato dai ribelli affiliati ad Al Qaeda o al Califfato.
Anche se smentita dalle autorità egiziane la notizia resta attendibile: esistono precedenti di missili del tipo 9K32 Sire-la russi o AIM 92 Stinger statunitensi lanciati contro aerei civili in attentati terroristici. Uno degli esempi più eclatanti è del 28 novembre 2002 quando due Strela furono lanciati contro un aereo passe ; eri israeliano della compagnia ARKIA in partenza da Nairobi in Kenia che fortunatamente non colpirono l'aereo.
Ci sono poi altri indizi. Il direttore generale dello Scudo di David Rosso (la croce rossa israeliana) ha immediatamente preso contatto con il suo omologo egiziano della Mezza Luna Rossa per mettere a disposizione dei soccorritori una trentina di ambulanze, mentre l'aeronautica militare israeliana, per aiutare nella ricerca dei resti dell'aereo, ha offerto appo o all'esercito egiziano con droni e con aerei equipaiati per la ricerca al suolo.
Quello che salta agli occhi è che in questo caso la procedura usata nell'offerta di supporto intemazionale non è quella tradizionale, lo Scudo di David Rosso e la Mezzaluna Rossa hanno avuto contatto diretto, o tramite la Croce Rossa Internazionale, senza passare per i ministeri degli Esteri, e anche gli accordi fra i due eserciti sono stati presi con contatti diretti tra i comandi militari che non hanno interessato i ministeri di competenza. Un modus operandi inusuale.
Anche l'utilizzo dei Droni per la ricerca al suolo dei pezzi dell'aereo precipitato è inusuale, il loro impiego potrebbe essere di tutt'altra natura. Ad aumentare i dubbi c'è anche la decisione della Lufthansa e di Air France che non faranno più volare i loro aerei sul Sinai fino a quando non saranno accertate le cause del disastro. Le due compagnie aeree avrebbero potuto semplicemente avvertire i piloti di cambiare le rotte: che abbiano comunicato le loro intenzioni in maniera così palese è sicuramente un segnale diretto a tutte le altre compagnie .

(Libero, 1 novembre 2015)


Tv - Ha-paytan, musica per l'anima

di Rachel Silvera

 
Inquadratura su Gerusalemme, musica liturgica di sottofondo e poi zoom su un gruppo di ragazzi ultraortodossi che esce di fretta dalla Yeshivah e cammina rasente i muri. Si apre così la puntata di Ha-paytan, il talent show che ha stregato Israele. Le regole sono simili alle decine e decine di format televisivi di tutto il mondo: chi partecipa deve cantare sfidando un avversario, viene giudicato da quattro giudici e se vince passa alla fase successiva del programma.
   Trasmesso sul canale 20 dedicato all'ebraismo e all'identità d'Israele, Ha-paytan ha però un elemento distintivo che lo fa essere un unicum: è il primo show in cui ad essere protagonista è la "neshama", l'anima ebraica. O per lo meno si propone di esserlo.
   I cantanti in gara sono infatti ebrei osservanti e si esibiscono interpretando canzoni tipiche della liturgia da sinagoga, scegliendo brani intensi spesso dedicati all'accoglienza dello Shabbat. Ad essere al centro della scena sono i concorrenti che raccontano al microfono il loro legame con la religione e condividono i valori trasmessili dalla famiglia.
   Molti di loro spiegano come la passione del canto sia stata alimentata da un parente che faceva da hazan, cantore, in sinagoga e poco prima di esibirsi incontrano il proprio avversario in una piccola stanza. Un elemento che sovverte qualsiasi codice della competizione: presentandosi, i due cantanti si scambiano con tranquillità qualche parola e immediatamente riconoscono un senso di appartenenza comune, uno di loro, per esempio, prima di bere l'acqua pronuncia la benedizione e l'altro in automatico risponde 'amen'.
   Per rispettare le regole che vietano alle donne ortodosse di esibirsi di fronte agli uomini, inoltre, il talent è riservato solo agli uomini: tra questi spiccano concorrenti piuttosto eterogenei, di origine sefardita o ashkenazita, con kippoth in testa diverse a seconda della corrente religiosa seguita, del nord o del sud di Israele, da piccole città o da metropoli come Tel Aviv e Gerusalemme ma con un comune senso di devozione per l'ebraismo e trasporto per la musica ebraica, che per molti di loro è diventata un lavoro, portandoli ad esibirsi ai matrimoni e bar mitzvah.
   Fa da cornice, un pubblico suggestivo che immortala la varietà d'Israele, dei giudici, vecchie glorie della musica popolare israeliana che un turista avrà sentito distrattamente almeno una volta nella vita salendo sopra un taxi, e guest star inaspettate: per intenderci, il giudice d'eccezione nei quarti di finale è stato Moshe Kahlon, l'attuale ministro della Finanza e vero e proprio ago della bilancia nella formazione del governo dopo le elezioni dello scorso marzo.
   Nelle esibizioni di Ha-paytan le tradizioni si mescolano, riti yemeniti incontrano quelli dell'Europa dell'Est per un risultato, scrive il giornale americano Tablet, che ha uno straordinario potere "calmante" per la propria neshama, anima.

(moked, 1 novembre 2015)


Roma - Truffa all'Israelitico, la Regione vuole riavere otto milioni di euro

La Regione, ora, intende recuperare 8 milioni di euro dall'ospedale Israelitico. Una cifra calcolata dall'ente di via Cristoforo Colombo a partire dal 2006 a metà del 2013 per delle prestazioni sanitarie giudicate «inappropriate» o che «non hanno superato la verifica dei controlli», come spiegano dalla Regione. Che si muove dopo aver «terminato una lunga istruttoria sulle cartelle cliniche inviate negli anni passati dalla struttura sanitaria, alla quale i soldi sono già stati erogati dalle amministrazioni precedenti». Un recupero di 8 milioni, uno per ogni anno, che la Regione ha messo nero su bianco sottoscrivendo, venerdì sera, un decreto ad hoc firmato tra gli altri dal governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, dal sub-commissario alla sanità Giovanni Rissoni e dalla direttrice regionale Flori Degrassi.
   La vicenda risale agli anni che vanno dal 2006 a metà del 2013. Complessivamente le risorse erogate dall'ente di via Cristoforo Colombo, per tutte le prestazioni sanitarie effettuate in quegli anni, sono state pari a 257,967 milioni di euro. Ma dopo i controlli, avvenuti alcuni mesi fa, il riconosciuto, sempre secondo la Regione, è invece pari a 250 milioni. Sette milioni e 967 mila euro devono, quindi, «essere restituiti», aggiungono dall'ente. L'importo è da suddividere tra la Asl RmD, che deve recuperare 7,2 milioni, e la RmaA alla quale spetterebbero, dunque, 853 mila euro.
   Intanto sulla vicenda dell'Israelitico (l'ospedale finito nella bufera giudiziaria qualche settimana fa), il prefetto Franco Gabrielli ha convocato per lunedì 9 novembre le organizzazioni sindacali. Il tavolo dovrà affrontare — o iniziare a farlo — la questione dei posti di lavoro: a rischio, infatti, ci sono circa 800 persone che, a vario titolo, sono impiegate direttamente o indirettamente nella struttura sanitaria.
   E se nei giorni scorsi la Regione ha revocato l'accreditamento per le prestazioni sanitarie sull'ospedale israelitico pesa anche l'ombra del commissariamento.
   Un nodo già affrontato dalla comunita israelitica romana che due giorni fa ha pubblicato sul suo sito (romaebraica.it) una lunga lettera sul «nuovo corso dell'ospdeale» nella quale, tra gli altri argomenti (tra cui la salvaguardia dei posti di lavoro, e la posizione presa sulla vicenda come "parte lesa") ha parlato di un commissario straordinario per l'ospedale.
   
(la Repubblica, 1 novembre 2015)


Tra il califfo e l'ayatollah. Doppia minaccia per l'Europa

Sunniti e sciiti sono in guerra tra loro ma entrambi mirano a espandersi. L'Occidente continua a illudersi . Estratto dal libro Il califfo e l'ayatollah di Fiamma Nirenstein (Mondadori, pagg.144, euro 18).

di Fiamma Nirenstein

Anzitutto, si tratta di capire dov'è il fronte. In realtà, esso è molto vasto e frastagliato: in una parola possiamo dire che esistono due forze islamiche che, come uno schiaccianoci, cercano di afferrare la nostra testa, per frantumarla (be', spesso siamo noi stessi a porgergliela: mi appare come in un film la testa bionda di Federica Mogherini, Alto rappresentante Ue per gli Affari esteri, molto gentile e sorridente, che si protende verso la faccia soddisfatta di Muhammad Zarif per siglare l'accordo, mentre lui la guarda con un'espressione da lupo cortese: «Per mangiarti meglio, bambina mial»), ripromettendosi la nostra cancellazione. Anzi no, prima la nostra sottomissione. La parte sunnita, maggioritaria nel mondo islamico (i sunniti sono circa 1'80 per cento dei musulmani), ricca e potente grazie al petrolio, ha dato vita, fra le tante altre organizzazioni (la Fratellanza Musulmana anzitutto, un travestimento dell'estremismo islamico mangiatutto) all'Isis dopo Al-Qaeda, i talebani, Jabhat al-Nusra, Hamas, Boko Haram ... : un mondo grande, suddiviso in molte realtà. Invece gli sciiti, che pure dispongono di varie milizie (Hezbollah, houthi...) e parecchie sotto branche, sono e si sentono una minoranza ed esigono un risarcimento per essere stati a lungo le vittime di un fratello maggiore che li giudica con evidente disprezzo e anche, molto spesso, come nemici mortali. Consideriamo come oggi l'Isis si avventi con crudeltà cannibalesca contro i propri fratelli sciiti: la prima cosa che fa quando occupa un villaggio o un edificio, è di domandare chi sia sciita. Costoro saranno uccisi per primi, mentre a chi afferma di essere sunnita vengono richieste, a conferma, prove, nomi, indirizzi, ricordi, la recita di preghiere. Dopo questo sommario processo, se non credute, le vittime subiscono spesso l'orribile sorte riservata agli idolatri e ai corruttori della propria religione: la morte nel terrore, in ginocchio, dopo aver chiesto perdono e aver giurato fedeltà al nemico che sta per decapitarli o sparare loro alla nuca. Gli sciiti hanno sofferto molto per mano dei loro compagni di fede in Allah e nel suo profeta Muhammad, e a volte ci si chiede come una differenza dottrinale come quella che li distingue dai sunniti possa provocare il maggiore fra tutti gli attuali spargimenti di sangue del mondo. Eppure la differenza consiste in questo: il Profeta morì nel 632 e i suoi compagni scelsero come successore Abu Bakr, che divenne il primo califfo, senza alcun ruolo religioso fondamentale, ma con il dovere di garantire la continuità della marcia vittoriosa del Profeta sui territori circostanti e oltre. Un ruolo politico e militare, insomma: il leader era un guerriero che doveva indicare la strada per vincere e conquistare il mondo alla luce delle regole del Profeta.
  Invece il gruppo avverso, gli sciiti appunto, ritenne che il genero di Maometto, Ali, dovesse diventare il capo, nonché la guida spirituale che doveva condurre l'Islam alla conquista del mondo e, per ottenerla, alla palingenesi violenta. A Karbala, nell' attuale Iraq, nel 680 una coalizione di omayyadi e yazidi sconfisse le truppe di Hossein, secondogenito di Ali. L'Islam si scisse tra i seguaci dei califfi e i seguaci del «casato di Ali», shiat' Ali, cioè gli sciiti. Hossein è considerato il primo martire della storia, e il martirio occupa una posizione centrale nella dottrina teologica sciita. I seguaci di Ali furono perseguitati, cacciati dai territori arabi e col tempo si insediarono nell'Impero persiano, che si convertì interamente allo sciismo all'inizio del XVI secolo. A Karbala gli sciiti continuano da secoli ad andare in pellegrinaggio, maturando la rabbia e la volontà di vendetta contro gli usurpatori sunniti. La maggioranza degli sciiti appartiene alla corrente dei duodecimani, perché crede nella sequenza di dodici imam succeduti a Maometto. Secondo gli sciiti, dopo lo scisma, il dodicesimo imam, Muhammad ibn Hossein al-Mahdi, nato nell'869 e diretto discendente di Ali, a 72 anni è sparito d'un tratto misteriosamente per sfuggire ai nemici. Nel suo «divino nascondìmento» egli prepara il suo ritorno e la venuta del giorno del giudizio. In ogni epoca il ritorno del Mahdi è sempre stato annunciato come vicino. Oggi lo si ritiene imminente. Quindi, ci siamo, e mal ce ne incoglie. Anche se le differenze teologiche sono minime, gli sciiti hanno sviluppato pratiche diverse e differenti interpretazioni dei testi sacri, che agli occhi dei sunniti sono un'eresia punibile con la morte. Inoltre considerano gli imam, i loro leader religiosi, come uomini ispirati da Dio. Il loro grido di vendetta è stato però messo a tacere, ed essi hanno sviluppato nei secoli il concetto di taqiyya (tradotto in idtirar per il mondo sunnita), la dissimulazione, che permette di contravvenire ai precetti islamici e, in sostanza, di mentire per la salvezza della propria vita e per il bene superiore della comunità, un atteggiamento che richiama la politica dei leader iraniani oggi ... Relegati a minoranza perseguitata, loro che credono di essere i veri eredi di Muhammad, gli sciiti hanno sempre coltivato la dottrina della jihad. Ma le condizioni storiche tenevano i leader religiosi lontani dalla politica, assegnando loro solo il ruolo di guide spirituali e giurisperiti del potere politico. È Khomeini che cambia tutto e riporta il potere politico nelle mani degli ayatollah, delle guide religiose, sconvolgendo l'intero Islam e promettendo la rivincita sciita sul mondo islamico. Una rivincita destinata a stravolgere la supremazia sunnita che aveva perseguitato e umiliato gli sciiti ovunque e cui gli sciiti aspirano ancora con la lotta per la guida dell'Islam.
  L'attesa del ritorno del Mahdi ha aiutato gli sciiti a sopravvivere alle più terribili sofferenze e all'oppressione esercitata dalla maggioranza sunnita, che li ha sempre ritenuti traditori del Corano e idolatri dei loro imam; li ha ispirati direttamente nelle loro scelte politiche dal 1979 in avanti, quando la rivoluzione islamica ha preso il sopravvento in Iran e Khomeini si è autodefinito il rappresentante del Mahdi nel primo governo di Allah nel mondo; e li ha aiutati a organizzarsi e a restare uniti, talvolta con grande successo. Anche questo è un disegno che si ripresenta nel tempo: accadde la stessa cosa, per esempio, con la presa del potere della dinastia safavide in Persia, nel 1500, grazie alla quale l'antica nazione, divenuta Iran, si fece per sempre Paese sciita per eccellenza. Gli sciiti sanno che le loro sofferenze avranno fine, insieme a tutte le ingiustizie che gravano sul mondo, quando il Mahdi verrà. E i segni dicono che bisogna prepararsi, che la sua venuta è vicina. Lo spiegano nei dettagli l'ayatollah Khamenei e Hassan Nasrallah, il capo degli sciiti libanesi e leader di Hezbollah, le due personalità destinate a guidare la preparazione dell'avvento. Il Mahdi apparirà, ha ripetuto più volte Ahmadinejad, «quando il mondo sarà caduto nel caos e divamperà la guerra fra razze umane, senza ragione». Cioè, per far ricomparire il Mahdi ci vuole una conflagrazione mondiale, e gli studiosi spiegano quindi con chiarezza che la Repubblica Islamica dell'Iran cerca con grande determinazione di creare una situazione esplosiva. Non si preoccupa affatto, come faremmo noi, di un'eventuale guerra, tanto meno di una guerra atomica, pur di realizzare le condizioni dell'avvento del Mahdi. Anzi, si adopera per favorire quelle condizioni. Non tutta la leadership iraniana ci crede, ma l'influenza del mahdismo è grande.

(La Stampa, 1 novembre 2015)


Aspetti della questione ebraica nel Ponente ligure (1936-1940)

di Pierluigi Casalino

"Quando a Sanremo, durante la celebre conferenza del 1920, si discusse anche del focolare nazionale da assegnare al popolo ebraico, nessuno poteva prevedere che una questione ebraica si aprisse di lì a poco con drammatica rilevanza in Europa, interessando anche il Ponente ligure e la stessa Città dei Fiori.
  Tra il 1936 e il 1940 migliaia di ebrei passarono da Sanremo, Bordighera e Ventimiglia destinazione Francia. Circostanza, inizialmente cominciata in sordina e poi sempre più apertamente, suscitando le reazioni allarmate della stampa francese e delle stesse autorità d'Oltralpe che videro in tale spostamento un fenomeno di crescente pericolo per la sicurezza e la pubblica salute non solo da Mentone a Nizza, ma anche più in profondità in territorio francese. Un rapporto dell'ambasciatore di Parigi a Roma spinse le nostre autorità ad intensificare i servizi di vigilanza al confine ligure. Da anni gli ebrei stavano già emigrando verso la Palestina da ogni parte del Vecchio Continente e persino dalla Russia e da altre località del Vicino Oriente. Un aiuto ad essi venne dalle autorità iraniane, che, all'epoca del manifestarsi delle prime persecuzioni naziste (considerata la presenza millenaria di ebrei in Persia a partire da Ciro il Grande), fornirono sostegno diplomatico e organizzativo per accogliere e proteggere cittadini ebrei.
  Un diplomatico iraniano a Parigi era in contatto con gli organismi ebraici in Liguria, Piemonte e Costa Azzurra per assicurare ad essi un esodo fortunato. Come gli attuali passeurs, tuttavia, esistevano in quei giorni personaggi senza scrupoli che, dietro richieste da strozzini, favorivano l'espatrio di ebrei. Tra questi ci fu anche Walter Benjamin, che a Sanremo aveva trovato una felice terra d'asilo, prima di fuggire in Francia e morire suicida alla frontiera spagnola (vedi il mio 'Presenze ebraiche nel Ponente ligure: Walter Benjamin e altri', sempre su Sanremonews, 2013). A Sanremo presso il Caffè del Viaggiatore, a Bordighera presso il Caffè Giardino e a Ventimiglia al Caffè Posta, come narrano le memorie di testimoni oculari e di autorevoli racconti di storia locale.
  Le condizioni in cui vivevano coloro (ad esempio nel campo di concentramento di Mille in Provenza) che non venivano respinti con l'annullamento degli eventuali permessi di soggiorno rilasciati precedentemente erano veramente disumane e certamente suonavano a disonore per una nazione famosa per essere meta di esuli. I valichi della Penna (oggi in Francia), di Olivetta e del passo di Grammondo erano sorvegliati, ma restava difficile controllare o fermare tale esodo. Ci sarà, a dire il vero, ad un certo punto, una controtendenza, soprattutto dopo l'occupazione italiana di Mentone e dintorni, dopo il 1940, dal momento che, com'è noto, le forze italiane (e pure, paradossalmente e in larga misura, i paramilitari fascisti) non rispettavano i diktat nazisti sulla sorte degli ebrei: un vecchio amico di Dolcedo, ora scomparso, diceva sempre, in proposito, che a Mentone e dintorni si faceva spesso a gara per salvare ebrei anche con la collaborazione del clero cattolico.
  A Ventimiglia, tra il 1936 e il 1940, per concludere, si era, comunque, già creata una diversa e commovente catena di solidarietà in aiuto degli ebrei, attraverso mense e collette, data la drammaticità del caso e ciò nonostante il giro di vite del governo italiano per non avere problemi con i francesi. Le leggi razziali dell'Italia fascista non facilitavano tali operazioni, ma la traccia di una così lodevole prova di umanità non potrà mai essere cancellata. Ed è bello lasciarsi cullare da questa dolce rivisitazione della storia locale che ci fa ammirare quei 'santi' alla buona che si prestarono senza fine di lucro, ma di vivo cuore, a porgere una mano fraterna a chi soffriva.

(Sanremo news, 1 novembre 2015)


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