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Notizie 1-15 novembre 2017


Web tax, Israele prepara il conto per Google & Co.

In anticipo sulle mosse europee il paese invierà entro un anno la richiesta di pagamento delle tasse in linea con il prelievo richiesto a qualunque altra azienda con attività stabili in Israele: "Pronti a fare da apripista".

di Patrizia Licata

Il fisco israeliano prepara il conto per Google, Facebook e tutti i colossi di Internet: secondo quanto riporta il quotidiano TheMarker, Israele si allineerà alle strategie dei paesi dell'Unione europea e di altre parti del mondo determinati a porre fine a quella che viene considerata una vera elusione fiscale da parte dei giganti dell'online.
   Il presidente della Tax Authority, Moshe Asher, ha affermato che il fisco israeliano sta lavorando sul conto da presentare a Google & co: al momento sta cercando di capire come effettuare i calcoli per equiparare le Internet companies a qualunque altra azienda che produca fatturato nel paese. Fondamentalmente la Tax Authority deve decidere la percentuale di prelievo fiscale da applicare: l'imposta sulle aziende con sede stabile in Israele è del 24% ma con agevolazioni per i gruppi che fanno investimenti ingenti nel paese.
   "Le tasse saranno basate sulle attività condotte in Israele", ha confermato Asher a TheMarker. "Il nostro obiettivo è raccogliere più dati possibile, anche in base a documenti conservati all'estero. Nel giro di un anno presenteremo la richiesta di pagamento delle tasse a queste aziende".
   I paesi dell'Ocse stanno cercando una strategia comune di lotta all'elusione fiscale; di fronte a chi tentenna, l'Unione europea ha detto chiaramente che andrà avanti da sola e imporrà una forma di tassazione sulle Internet companies basata sul fatturato. Asher ha affermato che l'Ocse si sta muovendo; anzi, istituirà presto un comitato per le ispezioni fiscali.
   "Crediamo in questo processo e presto saremo in grado di inviare alle aziende di internet i conti da pagare al fisco: saranno cifre giustificate dal reddito", ha dichiarato Asher aggiungendo che Israele è pronta ad essere tra i primi paesi al mondo a livellare il terreno di gioco fiscale anche per Google & co.

(CorCom, 15 novembre 2017)


Visita a Perugia del rabbino capo di Roma Riccardo Shemuel Di Segni

Delegazione della comunità ebraica accolta dal sindaco Romizi

Il rabbino capo della comunità ebraica di Roma Riccardo Shemuel Di Segni ha incontrato a Palazzo dei Priori il sindaco Andrea Romizi, il presidente del Consiglio comunale Leonardo Varasano e l'assessore Dramane Wagué. L'ospite è stato accolto nella sala Rossa, alla presenza del dirigente Fabio Ricci, della presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello, della presidente della sezione perugina dell'Associazione Italia-Israele Maria Luciana Buseghin, della vice presidente Gabriela Sabatini e del presidente della sezione di Foligno.
La delegazione dapprima si era recata nel cimitero monumentale nella sezione ebraica e poi presso il cimitero ebraico vecchio di San Girolamo.
Il sindaco Romizi, a nome dell'intera Amministrazione, ha espresso apprezzamento per la presenza della delegazione a Perugia. Una visita che conferma la frequentazione assidua tra le due istituzioni e la volontà conseguente di portare avanti progetti condivisi.
Particolarmente apprezzabile, in questo contesto, è l'attività che sta svolgendo la sezione perugina dell'Associazione Italia-Israele che sta cercando di recuperare una parte importante della storia di Perugia, quella che fa capo alla comunità ebraica.
"Oggi abbiamo voluto partecipare fortemente alla visita ai due cimiteri per celebrare insieme un momento di grande commozione e di riflessione".

La presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello ha confermato che vi è la volontà di continuare ad intrattenere un rapporto tanto stretto con l'istituzione e la cittadinanza perugine perché l'interazione col territorio favorisce il dialogo e la crescita reciproca. A Perugia ci sono tanti ebrei cui, purtroppo, non può essere più garantita come un tempo la rappresentanza di un proprio rabbino capo; tuttavia la comunità di Roma, di cui Perugia è una sezione, resta a disposizione per ogni esigenza che dovesse manifestarsi.

Il Rabbino Di Segni, nel ringraziare l'Amministrazione perugina per l'ospitalità, ha tenuto a precisare che nell'organizzazione ebraica italiana Perugia è una circoscrizione facente capo alla comunità di Roma. "Siamo felici di essere qui per l'ennesima volta: spesso siamo stati presenti a Perugia per motivi di ordine culturale e commemorativo ed ogni volta è un grande piacere. Per questo manifestiamo la nostra disponibilità piena a portare avanti una collaborazione che finora si è dimostrata tanto efficace".

Il rabbino ha detto di aver apprezzato, in particolare, l'attenzione dell'Amministrazione per la manutenzione degli spazi ebraici presenti nei cimiteri cittadini ed ha rivolto un auspicio affinché in futuro si possa ulteriormente approfondire la storia degli ebrei di Perugia con l'obiettivo di valorizzare ulteriormente il territorio. Varasano ha confermato che ormai da tempo prosegue un percorso condiviso, avviato l'anno scorso con la cerimonia di conferimento della cittadinanza onorario a Piero Terracina. Si tratta di iniziative, principalmente rivolte ai giovani studenti, finalizzate a conservare valori fondamentali come la memoria e la pacifica convivenza.

Uno stretto rapporto lega l'Amministrazione comunale alla sezione perugina dell'Associazione Italia-Israele; questo connubio consentirà il prossimo anno di dar vita a molteplici iniziative tra cui quella in programma il 25-26 e 27 gennaio in collaborazione con Prefettura e Regione Umbria. All'incontro di oggi ha partecipato anche la presidente dell'associazione Italia-Israele di Perugia Buseghin; quest'ultima ha sottolineato che per la prima volta l'associazione si trova a vivere un rapporto così sereno e collaborativo con l'Amministrazione di Perugia. "Ciò ci dà speranza per il futuro per poter realizzare nel 2018 tutto il programma pensato per commemorare gli 80 anni dalle leggi razziali". Iniziative - ha detto la presidente - finalizzate a far capire quanto siano stati importanti gli ebrei per l'Italia e non solo per ricordarli per le tragedie subite.

L'incontro è stato chiuso dall'assessore Dramane Wagué, il quale ha ricordato come grazie all'impegno dell'attuale Amministrazione è stato possibile procedere tempo fa alla ripulitura e manutenzione dell'antico cimitero ebraico di San Girolamo, restituendo così l'area alla memoria della città. L'obiettivo ora è di continuare a garantire la manutenzione della zona, in collaborazione con l'associazione Italia-Israele che si occupa di curare l'accesso al cimitero. Infine Wagué ha ricordato che il prossimo 1 dicembre si terrà la cerimonia di inaugurazione della rotatoria, sita in via della Pallotta, ad Alessandro Seppilli, già sindaco di Perugia.

(Quotidiano dell’Umbria, 15 novembre 2017)


Presentazione del libro 'Perfidi giudei, fratelli maggiori'

PISA - Tutta la cittadinanze è invitata alla presentazione del volume di Elio Toaff 'Perfidi giudei, fratelli maggiori' (Il Mulino, 2017), che si terrà alle ore 10 del 23 novembre 2017 presso l'Aula Magna di Palazzo Matteucci.
L'introduzione sarà di Sergio Della Pergola.
Durante l'appuntamento ci saranno interventi di: David Gianfranco Di Segni e di Daniel, Miriam e Ariel Toaff, nonché da un'appendice di testi, tra cui spiccano la corrispondenza tra Elio Toaff e il fratello Renzo in Palestina e il discorso di commiato del Rabbino dalla Comunità romana..

(PisaToday, 15 novembre 2017)


Siria: incontro tra USA e Israele

Gli ufficiali del Consiglio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti sono arrivati in Israele per discutere con le proprie controparti israeliane in merito all'accordo sul cessate il fuoco in Siria, adottato da Stati Uniti e Russia, e sul ruolo dell'Iran nella regione.
   L'incontro si svolge dopo che, domenica 12 novembre, il presidente americano, Donald Trump, e il presidente russo, Vladimir Putin, avevano confermato il proprio impegno per stabilizzare la situazione in Siria. In un comunicato congiunto, emesso da Mosca e Washington sabato 11 novembre 2017, le due parti hanno confermato la loro determinazione nello sconfiggere lo Stato Islamico in Siria e hanno ribadito che la soluzione al conflitto siriano non sarà militare, ma politica e verrà raggiunta grazie ai negoziati di Ginevra. Trump e Putin hanno altresì sottolineato l'importanza delle zone cuscinetto, come passaggio necessario per ridurre la violenza in Siria, e la necessità di rafforzare l'accordo in merito al cessate il fuoco, che permette il passaggio degli aiuti umanitari e la realizzazione di una soluzione politica al conflitto. Infine, le due parti hanno ribadito l'importanza del Memorandum di principi, raggiunto l'8 novembre 2017 tra la Giordania, la Russia e gli Stati Uniti ad Amman, che prevede il potenziamento del cessate il fuoco, che include la riduzione progressiva delle forze straniere e dei foreign fighters presenti nel territorio, al fine di garantire una pace duratura nel Paese.
   Il 7 luglio 2017, a margine del G20, Stati Uniti, Russia e Giordania avevano raggiunto un accordo in merito a una tregua nella Siria meridionale. L'accordo prevedeva un cessate il fuoco che era iniziato a mezzogiorno - ora locale siriana - di domenica 9 luglio nelle province di Dar'a, Quneitra e Al-Suwayda. Si era trattato di un tentativo internazionale di realizzare la pace nel Paese, attraverso la mediazione tra il regime siriano e le forze di opposizione. Le tre province di Dar'a, Quneitra e Al-Suwayda costituiscono una delle quattro zone cuscinetto, o "zone di de-escalation", previste dal memorandum d'intesa firmato da Russia, Iran e Turchia a Astana il 5 maggio 2017. Le altre tre aree interessate comprendono la provincia di Idlib, le province di Latakia, Aleppo, Hama e Homs e la zona di Ghouta, a est di Damasco.
   In merito all'accordo stretto tra Russia e Stati Uniti, lunedì 13 novembre 2017, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva dichiarato che Israele non sarebbe stato vincolato dall'accordo. Nel suo discorso, Netanyahu aveva dichiarato: "Ho chiarito ai nostri amici a Washington e a Mosca che opereremo in Siria, compresa la Siria meridionale, in accordo con le nostre esigenze di sicurezza".
   L'asse Damasco - Teheran preoccupa notevolmente Israele, che teme che l'Iran stia trasformando la Siria in una fortezza miliare, come parte di un più ampio piano mirato a cancellare il proprio Stato, secondo quanto affermato dal Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, il 28 agosto 2017 a Tel Aviv, in occasione di un incontro con il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. Già il 13 agosto 2017, durante un incontro con il governo israeliano, il capo dell'intelligence israeliana (Mossad), Yossi Cohen, aveva rivelato che le forze iraniane avevano iniziato a occupare le aree da cui si era ritirato lo Stato Islamico sia in Siria sia in Iraq. Gli ufficiali della sicurezza israeliana temevano che Teheran potesse utilizzare la zona occidentale dell'Iraq e quella orientale della Siria come un "ponte" per unire l'Iran al Libano, permettendo il transito di combattenti e di armi tra i due Paesi.
   Venerdì 10 novembre 2017, una fonte dell'Intelligence aveva riferito alla BBC che l'Iran starebbe costruendo una base permanente in un luogo utilizzato dall'esercito siriano, vicino a El-Kiswah, situata a sud di Damasco, vicino al confine con Israele, mostrando alcune immagini che proverebbero l'affermazione.
   Per tutta risposta, domenica 12 novembre, il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, aveva dichiarato che Israele avrebbe risposto a qualsiasi provocazione o violazione della propria sovranità e aveva esortato il presidente siriano, Bashar Al-Assad, a trattenere tutte le parti attive all'interno del suo territorio. In tale occasione, il ministro aveva altresì minacciato la Siria di distruggere la base militare, affermando: "Non permetteremo all'asse sciita di utilizzare la Siria come base di prima linea".

(Sicurezza Internazionale, 15 novembre 2017 - trad. di Laura Cianciarelli)


Muore a 82 anni il rabbino Laras, figura chiave del dialogo ebraico-cristiano

Rav prof. Giuseppe Vittorio Laras è stato presidente emerito e onorario dell'Assemblea Rabbinica Italiana, dopo una presidenza più che ventennale, è stato dal 1980 al 2005 Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano

Rav Giuseppe Vittorio Laras
«Con tristezza immensa e con cuore infranto, comunichiamo, a nome della famiglia e dei Rabbini membri di questo Tribunale, la notizia della morte del nostro amato e venerato Maestro Rav prof. Giuseppe Vittorio Laras z.z.l. presidente del Tribunale Rabbinico del Centro Nord Italia, rabbino capo emerito di Ancona, Livorno e Milano, per decenni presidente dell'Assemblea Rabbinica Italiana. Sia il suo ricordo in benedizione». Il Tribunale rabbinico del centro nord Italia comunica la morte di Rav Laras, 82 anni, Laureato in legge e filosofia e pedagogia, è una figura chiave, assieme al cardinale Carlo Maria Martini e Paolo De Benedetti, del dialogo ebraico-cristiano e tra cultura laica e cultura religiosa a Milano e in Italia. Presidente emerito e onorario dell'Assemblea Rabbinica Italiana, dopo una presidenza più che ventennale, è stato dal 1980 al 2005 Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano. In precedenza è stato il Rabbino Capo di Ancona e, successivamente, di Livorno, nonché Presidente del Tribunale Rabbinico di Milano. "Figlio della Shoah", ha vissuto la sua infanzia e adolescenza a Torino. Si tratta di una delle maggiori autorità rabbiniche contemporanee in Italia e in Europa. Molti rabbini, italiani e non, hanno ricevuto da lui la semichah (laurea/ordinazione rabbinica). Vasta e variegata è stata la sua formazione accademica, conseguendo prima la laurea in Giurisprudenza (diritto penale) e, successivamente, quella in Filosofia (pensiero dell'Illuminismo).

 Le cariche
  Nato a Torino nel 1935, ha studiato al Collegio Rabbinico di Torino dove ha conseguito il titolo di "Maskil" nel gennaio 1956, e la "Semikhà" con il titolo di "Chakham" al Collegio Rabbinico Italiano di Roma nel 1959. È stato Rabbino Capo di Ancona dal 1959 al 1968, di Livorno dal 1968 al 1980, di Milano dal 1980 al 2005 e nuovamente di Ancona dal 2011. È stato Direttore del Collegio Rabbinico Italiano dal 1992 al 1999 e Presidente dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia fino al 2009. È stato Presidente del Bet Din - Tribunale Rabbinico di Milano dal 1980 al 2008 e Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia dal 2003.

 Le pubblicazioni
  Tra le sue pubblicazioni: «Ricordati dei giorni del mondo». Storia del pensiero ebraico dalle origini all'età contemporanea. Vol I-II (Edb, 2014); Il problema della teodicea. La Shoah tra teologia ed etica,Immortalità e resurrezione nel pensiero ebraico medievale, Le dispute giudaico-cristiane nel medioevo (Cuem 2013); La mistica ebraica (Jaca Book 2012); Onora il padre e la madre (Il Mulino 2010); Meglio in due che da soli. L'amore nel pensiero di Israele (Garzanti 2009).

(Corriere della Sera - Milano, 15 novembre 2017)


Dopo L'Olocausto: Le vendette delle Brigate Ebree

di Giovanna Fraccalvieri

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale molti ebrei giunsero alla consapevolezza della necessità di una vendetta; l'orrore dei campi di sterminio nazisti non poteva restare impunito. Per molti ebrei reduci dai campi di sterminio fare i conti con il passato era necessario per ricominciare a vivere.
  Già durante la Guerra, molti ebrei della Palestina si erano arruolati volontari nell'esercito britannico e il 20 settembre 1944 il governo di Londra aveva finalmente accettato di organizzarli in una Brigata autonoma sotto la bandiera di Davide; nacque così la cosiddetta Brigata Ebrea.
  Alla fine della guerra, nel maggio del 1945, i soldati della Brigata si imbatterono nei superstiti dello sterminio e videro con i loro occhi l'orrore dei Campi da poco aperti; questo rappresentò il primo vero contatto dei ragazzi della Brigata ebrea con la realtà del genocidio, esperienza che fece maturare sempre più in loro i propositi di rivalsa. Fu così che, nel segreto più assoluto, una piccola unità di soldati della Brigata decise di condurre in proprio una campagna di vendetta; l'obbiettivo era quello di dare la caccia ai nazisti che si erano rifugiati nella clandestinità e ucciderli. Il gruppo dei vendicatori prese contatti con i servizi segreti alleati e riuscì così ad ottenere una lista di ufficiali delle SS.
  I nazisti venivano rapiti, portati in una foresta, strangolati e gettati in un corso d'acqua. Tutto doveva essere fatto senza pietà e nella massima segretezza.
  Per comprendere meglio le azioni dei Brigatisti ebrei, però, è fondamentale inserirle nel difficile contesto storico che ne fa da contorno.
  I combattimenti erano terminati, ufficialmente, l'8 maggio del 1945, ma la guerra, che aveva fatto più di 25 milioni di morti, stava per avere un seguito nei mesi successivi. In questo periodo si farà giustizia di tutti i collaborazionisti in quasi tutti i paesi vittime dell'occupazione nazista; ci sarà anche la riconsegna a Stalin di tutti i russi prigionieri in Occidente, la loro eliminazione fisica o il loro internamento nei Gulag.
  Anche molti ex soldati della Wehrmacht saranno abbandonati a morire di fame, stenti e malattie nei campi di concentramento alleati. Non solo, ma anche dalle aule di Norimberga e di Tokyo la giustizia uscirà più tradita che vittoriosa: troppi responsabili di crimini orrendi contro l'umanità, infatti, si preparavano a restare impuniti.
  Proprio in questo clima era naturale che ci fossero superstiti del genocidio che decidevano di farsi giustizia da soli.
  Per la Brigata ebrea i responsabili del genocidio non furono solo i politici o gli aguzzini dei campi di sterminio, ma tutto il popolo tedesco e per questo bisognava avviare una vendetta indiscriminata.
  Alla fine del 1944 un gruppo di attivisti ebrei si incontrarono a Lublin, la prima città polacca liberata dalla morsa criminale dei nazisti; le questioni all'ordine del giorno furono due: riunire i superstiti e organizzare la vendetta.
  Abba Kovner, poeta e membro del movimento sionista, fu l'animatore del gruppo; era stato capo dei combattenti clandestini nel Ghetto di Vilnius e aveva comandato un gruppo di partigiani nelle foreste nei dintorni di Vilnius, impegnandosi in atti di sabotaggio e guerriglia contro i nazisti. Il carisma connaturato e l'eloquenza, combinato alla sensibilità e alla reputazione di combattente fecero di lui un leader indiscusso. Kovner diventò la forza unificatrice del gruppo e la mente del progetto.
  L'Europa nel 1945 era un continente nel caos, con milioni di profughi ebrei in marcia, strappati alle loro esistenze dalla furia nazista e alla ricerca di un posto in cui iniziare una nuova vita. All'inizio della sua attività il gruppo di Kovner organizzò la fuga di milioni di ebrei dall'Europa verso la Palestina; nessun ebreo doveva più restare in Europa, secondo il poeta bisognava "tirare fuori le radici dalla terra dei morti e ripiantarla nella terra dei vivi". Questa operazione di emigrazione di massa ebbe una sua prima tappa a Bucarest e fu chiamate dagli ebrei "L'esodo dall'Europa".
  Proprio qui, a Bucarest, molti ebrei rimasero colpiti dai progetti di vendetta della Brigata e, per questo, scelsero di collaborarvi.
  I progetti messi a punto furono due:
  Progetto A - Le risorse d'acqua in molte città della Germania sarebbero state avvelenate provocando così la morte di migliaia di tedeschi.
  Progetto B - L'avvelenamento di massa di SS prigioniere nei campi di concentramento degli alleati.
  Il progetto A fu abilmente progettato e perseguito, ma fu presto bocciato da diversi componenti dei vari gruppi sionisti che collaboravano con le Brigate.
  Il progetto B, invece, fu accettato e, dopo essersi recato in Palestina per avere il veleno necessario all'operazione di vendetta, Kovner ripartì, insieme a quattro agenti segreti, verso l'Europa; qualcuno però lo tradì e, durante il viaggio di ritorno, intuito l'inganno, Kovner cercò di liberarsi del "corpo del reato" facendo gettare a uno dei suoi complici il veleno in mare ma, nonostante ciò, fu comunque arrestato.
  Dopo l'arresto di Kovner, i componenti della Brigata decisero, malgrado tutto, di portare avanti il progetto B; per farlo era necessario insinuarsi in uno dei Campi in cui erano state imprigionate le ex SS naziste e monitorare la vita in quegli spazi. L'occasione favorevole arrivò a Dachau, l'ex campo di concentramento nazista vicino Monaco di Baviera in cui riuscirono a farsi assumere, sotto falsa identità, due brigatisti.
  Anche in un campo di Norimberga il gruppo riuscì a infiltrare due sue componenti scoprendo, qui, che le derrate alimentari venivano portate dagli americani che gestivano il campo e, in particolare, il pane proveniva da un forno della zona. Un brigatista cercò e ottenne lavoro proprio presso questo forno e qui si adoperò per contaminare il pane con un veleno prodotto da un chimico ebreo in Italia. La stessa operazione fu progettata per il campo polacco ma, ancora una volta, la delazione di un traditore fece saltare il progetto.
  Fu così che decisero di portare avanti il piano B solo nel campo di Norimberga dove migliaia di uomini delle SS mangiarono il pane avvelenato, ma il corpo medico americano mise a frutto tutta la sua esperienza per tentare di salvare loro la vita. I vendicatori appresero l'esito della loro operazioni dai giornali locali dove il numero esatto dei morti variava da un quotidiano all'altro rimanendo, ancora oggi, oscuro.
  L'operazione dunque, non ebbe grande successo, né sul piano materiale, dato che molte delle ex SS furono salvate dall'intervento dei medici americani, né sul piano simbolico, dato che l'episodio non venne ripreso né dai giornali nazionali né, tantomeno dalla Stampa internazionale per cui l'opinione pubblica ne rimase pressoché all'oscuro.
  Intanto, con il passare del tempo, le azioni di vendetta si fecero sempre più sporadiche fino a giungere, nel 1946 allo smantellamento definitivo della Brigata Ebrea. Si giunse alla consapevolezza che, ormai, era inutilmente pericolosa e priva di riscontri effettivi l'azione di ritorsione ebraica in Europa; nel giugno del 1946 il gruppo di vendicatori giunse in Palestina e, accolti da Kovner che, intanto era uscito di prigione, si riunirono in un Kibbuz per progettare la loro nuova battaglia per la nascita dello Stato di Israele. Era l'inizio di una fase inedita della storia ebraica.

(La Voce di Lucca, 15 novembre 2017)


Elezione del Presidente della Knesset

La Knesset elegge come Presidente la parlamentare Revita Swid, proposta dal Partito Laburista

La neo Presidente Revita Swid
«Onorevoli colleghi di questa assemblea, vi ringrazio per la vostra fiducia, farò del mio meglio per meritarmela in questi prossimi quattro anni. Essere presidente di questo Parlamento che rappresenta tutto il popolo di Israele è per me è un'onore, le nostre culture politiche sono differenti, ma tutte hanno in comune una cosa, il lavoro per il bene di questa nazione. la democrazia e la partecipazione politica sono i pilastri della nostra nazione. intendo rispettare questi pilastri perché solo attraverso la partecipazione di tutti i membri di questa assemblea possiamo fare il bene del popolo che qui rappresentiamo. Buon lavoro a tutti noi!»

(Power and Money, 15 novembre 2017)


Cieli bianco-blu

Dall'Europa all'Asia al mondo arabo, oggi molti paesi capiscono che i vantaggi della cooperazione con Israele superano le ripercussioni negative nei rapporti coi paesi musulmani estremisti

Jet della Luftwaffe che volano sopra il Negev, piloti di caccia polacchi che scendono sotto il livello del mare nella depressione del Mar Morto, forze speciali indiane che scambiano suggerimenti con i loro colleghi israeliani nelle basi aeree di Nevatim e Palmachim. Sono scene che fanno facilmente dimenticare le ricorrenti angosce circa il presunto isolamento diplomatico di Israele
Da domenica 6 novembre, Israele ospita una vasta esercitazione militare di undici giorni che vede riunite le forze aeree di Germania, Polonia, India, Francia, Italia, Grecia e Stati Uniti. Vi prendono parte cinque diversi tipi di aerei da combattimento in decine di esemplari, e più di mille militari. Nel quadro dell'esercitazione sono state effettuate centinaia di sortite aeree e sono state sperimentate decine di tattiche. Si chiama Blue Flag (Bandiera Blu) ed è l'esercitazione aerea più grande mai effettuata dalle forze aeree israeliane. In realtà, esercitazioni Blue Flag si sono tenute anche nel 2013 e nel 2015, ma l'edizione di quest'anno ha superato per qualità e dimensioni tutte le precedenti....

(israele.net, 15 novembre 2017)


Israele, le Two Cities in mostra a Milano: Tel Aviv e Gerusalemme

di Dorina Landi

Alla Mondadori di Piazza Duomo a Milano è stata accolta la mostra fotografica Two Cities One Break-Tel Aviv e Gerusalemme: per esploratori di luoghi e anime, che ha chiuso al pubblico martedi 14 novembre. Una selezione di fotografie, in tutto 20, che hanno portato le persone alla scopertà delle due città, con sette di queste scelte tra le 100 finaliste del concorso JerusaLens, realizzato nello scorso marzo in Israele per mostrare aspetti inediti di Gerusalemme, al quale hanno partecipato fotografi provenienti da ben 84 Paesi.
   «L'iniziativa, realizzata in collaborazione con l'Ufficio del Turismo Israeliano - ha sottolineato Francesco Riganti, direttore marketing di Mondadori Retail - rientra nella missione di Mondadori Store di offrire ai clienti, oltre alla proposta libraria, un'ampia gamma di servizi e prodotti dedicati alla cultura e alle emozioni. Oltre alla promozione online e sui social, ne prevede anche una speciale in oltre 30 punti vendita, selezionati in tutto il territorio nazionale. Fino al 16 novembre 2017, i clienti che effettuano un acquisto e si registrano sul sito www.2cities1breakmondadoristore.it, avranno la possibilità di vincere un viaggio per due persone per visitare le due città».
   «Da gennaio a settembre di quest'anno - ha detto Ilanit Melchior, direttrice per il turismo di Jerusalem Development Authority - abbiamo registrato un +28% nei soggiorni con quasi 10mila visitatori e pensiamo di chiudere l'anno con circa 13mila presenze».
   «La promozione Two Cities One Break sta andando molto bene e incontra la tendenza del mercato italiano a vacanze brevi - ha aggiunto Avital Kotzer Adari, direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo - Insieme a Gerusalemme, una delle più importanti destinazioni culturali e religiose del mondo, si unisce Tel Aviv, la città che non dorme mai, vivace e moderna, adatta come vacanza anche per i giovani con più di 1700 locali notturni e oltre 400 ristoranti di ogni tipo e tendenza».

(L’Agenzia di Viaggi, 15 novembre 2017)


Gaza: rinviata riapertura valico Rafah, delusione in citta'

La popolazione di Gaza ha accolto oggi con delusione la notizia che e' per il momento rinviata la riapertura del valico di Rafah, fra la Striscia e l'Egitto. Il terminal di Rafah - inoperativo da molti mesi - e' stato in queste settimane riordinato nel contesto degli accordi di riconciliazione fra Hamas e al Fatah ed e' adesso in grado di funzionare. Ma restano irrisolte questioni di sicurezza: sia nel Sinai egiziano - dove l'esercito e' impegnato in continue operazioni contro gruppi armati islamici - sia nella Striscia stessa dove, secondo l'Autorita' nazionale palestinese, ancora non e' stato possibile dislocare forze dell'ordine dell'Anp.
Le fazioni palestinesi hanno fissato per il 21 novembre al Cairo un incontro in cui intendono affrontare tutte le questioni rimaste aperte con il ritorno dell'Anp a Gaza, dopo 10 anni di assenza. Con tutta probabilita' si dovra' attendere a quella data per la riapertura del valico di Rafah: cosa che ha provocato reazioni di frustrazione fra quanti avevano gia' progettato viaggi di lavoro o di studio in Egitto.

(ANSAmed, 15 novembre 2017)


Kurdistan. per l'Occidente "Curdi usa e getta": sul terremoto sparisce la regione autonoma

di Shorsh Surme

I curdi avevano sfatato un loro detto secondo cui loro "al di fuori delle montagna non hanno amici": essi infatti avevano creduto che tutti i politici occidentali che si sono recati in Kurdistan dell'Iraq negli ultimi 7 anni e in particolare dal 2014, ovvero i vari Francois Hollande, Mateo Renzi e vari ministri sia dell'Unione Europea che degli Stati Uniti, rappresentassero un cambiamento dell'occidente circa la politica di complicità coi i governi occupanti del Kurdistan, cioè la Turchia di Erdogan, l'Iran degli ayatollah e l'Iraq degli sciiti. Invece, ahimè, non era cosi, ed andavano in Kurdistan soltanto per spingere i curdi al sacrificio e farsi difendere dal più grande gruppo terrorista che era lo Stato Islamico (Isis) attraverso i Peshmerga curdi.
Ora, che non c'è più Dahsh (Isis) o per lo meno che ha avuto una sconfitta militare completa, i curdi non servono più, come sempre.
Si è capito anche dalla tragedia del terremoto, dal momento che che quasi tutti i media hanno indicato la zona colpita come confine tra Iraq e Iran, come non ci fossero i curdi o come se fosse proibito nominare la parola Kurdistan. Tuttavia l'area più colpita è quella della città curda di Kirmaşan, in persiano Kermanshah, che ha avuto più di 600 vittime e 7mila feriti.
La comunità internazionale e in particolare l'occidente non devono dimenticare il Kurdistan e il sacrificio che ha fatto il popolo curdo contro l'Isis. Moltissimi giovani curdi hanno dato la loro vita per combattere i tagliagole del "Califfato", e se i valorosi Peshmerga non avessero fermato questi criminali, sicuramente avremmo avuto molti più di questi cosiddetti jihadisti qui in occidente di quelli che hanno colpito l'Europa in questi ultimi tre anni.
La verità è che in questo momento sia gli Usa sia Europa sono interessati solo a consolidare il loro legame con paesi come Arabia Saudita, Turchia e Iran. Il resto per loro non esiste.

(Notizie Geopolitiche, 15 novembre 2017)


Intesa per una zona cuscinetto sulle alture del Golan

DAMASCO - Un'intesa di principio è stata raggiunta da Stati Uniti, Russia e Giordania per la costituzione di una "zona cuscinetto" in Siria, a ridosso della linea di demarcazione con le alture del Golan controllate da Israele. Questa zona raggiungerà anche il confine con la Giordania.
Lo ha riferito ieri la televisione israeliana Canale 10, che ha però precisato che numerosi punti dell'intesa restano ancora da definire. L'obiettivo dell'accordo - che riguarda l'area a sud della città siriana di Quneitra - è di garantire che cessino tutti i combattimenti e che dalla "zona cuscinetto" escano le milizie delle varie fazioni.
Sabato scorso, sul Golan, un missile israeliano aveva abbattuto un drone che stava sorvolando la zona di confine. Secondo un portavoce militare, si trattava di un drone siriano in missione di perlustrazione.
Intanto, un convoglio di aiuti della Croce rossa internazionale è riuscito a entrare ieri nella parte orientale di Ghouta, la città sotto assedio alla periferia di Damasco.

(L'Osservatore Romano, 14 novembre 2017)


Ragazzi di Tehran: "Caro Alfano, se il Libano è disunito la colpa è di Hezbollah cioè dell'Iran"

In queste ore la Farnesina ha pubblicato un comunicato stampa ufficiale, in cui il Ministro degli Esteri Alfano esprime il sostegno italiano per un Libano stabile, unito, sovrano e indipendente. Ovviamente, si tratta di un comunicato che arriva come risposta a quanto sta accadendo in queste settimane in Libano, dopo le dimissioni del Primo Ministro Saad Hariri, annunciate non da Beirut, ma dall'Arabia Saudita.
Altrettanto ovvio è che la nuova Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman, abbreviato MbS, sia in estrema difficoltà nella sua guerra al regime iraniano, sia per l'impantanamento in Yemen, che per le rivalità interne al regime wahabita. Ecco allora che, la destabilizzazione del Libano, rientra nella strategia di colpire Teheran, sperando nell'ingresso diretto nella partita anche di Israele e degli Stati Uniti di Trump.
Detto questo, non è assolutamente possibile cominciare a parlare oggi dell'assenza di un Libano unito, stabile e sovrano. Se questo Libano non esiste, non lo si deve certo al trentenne MbS, ma alle politiche del regime iraniano dagli anni '80 del precedente secolo, ad oggi.
E' stato il regime iraniano, infatti, a creare Hezbollah, diventato un vero e proprio Stato nello Stato, non solo come partito, ma soprattutto come milizia paramilitare, agli ordini diretti dei Pasdaran iraniani. In questa veste, Hezbollah ha attaccato Israele nel 2006, provocato una guerra che ha sfiancato il Libano, rifiutato di disarmarsi nonostante un'apposita risoluzione ONU e deciso di entrare direttamente nel conflitto siriano.
Ecco allora che, rilette in questi termini, le parole del Ministro Alfano - per quanto formalmente corrette - risultano assolutamente parziali e incapaci di avere un effetto pratico. Se davvero la diplomazia italiana vuole un Libano stabile, sovrano e unito, non è dalle dimissioni di Hariri che deve iniziare a riflettere, ma dall'esistenza stessa di Hezbollah.
Senza ridimensionare Hezbollah, ovvero senza renderlo veramente una entità meramente politica, indipendente dal mostro che l'ha creato - ovvero l'Iran - non sarà mai possibile per il Libano definirsi Stato, almeno nel senso weberiano del termine…

(Galaitalia.com, 14 novembre 2017)


Perché il problema del Libano (e del Medio Oriente) è Teheran, non Riad

di Federico Punzi

I grandi media e i cosiddetti "esperti" dimostrano ancora una volta di avere la memoria molto corta. Dalle cronache di questi giorni sembra quasi che sia l'Arabia Saudita, con le sue ultime mosse (isolamento del Qatar, guerra nello Yemen, dimissioni del premier libanese Hariri), il principale fattore di destabilizzazione del Medio Oriente. E' vero che il giovane principe ereditario Mohammed bin Salman ha dato il via a un nuovo corso politico nel Regno caratterizzato da un attivismo senza precedenti, sia all'interno che all'estero. Riad ha iniziato a giocare duro, ma questo perché le attività destabilizzanti e le ingerenze iraniane nella politica e negli equilibri del mondo arabo, del tutto trascurate negli ultimi otto-dieci anni dall'amministrazione Obama e dai governi europei, per non compromettere l'accordo sul nucleare (e la ripresa dei commerci con Teheran), hanno raggiunto i livelli di guardia, lambendo le "linee rosse" sia dei sauditi che degli israeliani.
   Bisogna evitare di commettere l'errore di scambiare gli effetti con la causa. Per esempio, parlando come se il Libano fosse un paese pienamente indipendente minacciato oggi dalle mire dei sauditi che hanno preteso le dimissioni di Hariri, mentre è da anni nelle mani di Teheran. Non i sauditi, ma gli iraniani attraverso Hezbollah hanno trascinato il Libano nella guerra del 2006. Non i sauditi, ma Hezbollah (gli iraniani) ha ucciso l'ex premier Rafiq Hariri, padre di Saad. Il problema del Libano si chiama Teheran, non Riad.
   A infiammare il Medio Oriente (Siria, Libano, Yemen) è l'Iran attraverso i suoi proxy. Il fatto che nell'ultimo decennio l'America di Obama e l'Europa abbiano preferito voltarsi dall'altra parte e che siamo stati presi dalla minaccia dell'Isis, non cancella le attività destabilizzanti e terroristiche iraniane nella regione. Con l'Isis quasi sconfitto, i curdi sempre più isolati, Iraq, Siria e Libano sotto la sua influenza, l'Iran potrà presto aprirsi la sua via diretta al Mediterraneo. Attraverso Hezbollah sta già conducendo una vera e propria guerra per procura contro l'Arabia Saudita e il piccolo Libano potrebbe essere presto, come in passato, il campo di battaglia di una prossima guerra contro Israele. Sempre più ricco e influente, con le risorse incamerate grazie all'accordo sul programma nucleare può permettersi di fornire alle sue milizie tutte le armi (tranne l'atomica, almeno per il momento) necessarie per minacciare, sempre più da vicino, i suoi rivali regionali, Israele e Arabia Saudita, i quali cominciano a reagire con azioni commisurate all'entità e all'imminenza della minaccia. Il regime iraniano sta inoltre osservando molto attentamente cosa succede alla Corea del Nord, ormai dotata di armi nucleari, e avrà tutto il tempo di valutare la credibilità della deterrenza degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
   Spingendo alle dimissioni Saad Hariri i sauditi hanno voluto togliere la foglia di fico di un premier sunnita su un governo, e un paese, di fatto nelle mani di Hezbollah e, quindi, di Teheran. Durante il mandato di Hariri, Hezbollah ha consolidato il suo dominio sul paese dei cedri, stringendo la sua presa sulle strutture statali: le forze armate libanesi, le agenzie di sicurezza e di intelligence, il sistema giudiziario e amministrativo.
   L'Arabia Saudita cercava un contrappeso all'influenza iraniana in Libano, ruolo che Hariri non è riuscito a svolgere. La sua funzione era ormai diventata quella di fornire una copertura politica sunnita di facciata alla presa del potere da parte delle milizie sciite. Ma in realtà, i sauditi non si sono mai illusi né hanno mai sostenuto l'accordo politico di Hariri con Hezbollah. Hanno ritirato i loro aiuti alle forze armate regolari libanesi, ritenute ormai ausiliarie di Hezbollah, e il loro ambasciatore non è ancora tornato a Beirut. Sebbene probabilmente avrebbero fatto meglio a fermare l'azzardo di Hariri dall'inizio, ora hanno deciso di staccare la spina ad un compromesso disastroso per denunciare l'ingerenza iraniana prima che la situazione possa precipitare. Tra l'altro, Hariri domenica ha fatto sapere di poter lasciare l'Arabia Saudita quando vuole e che tornerà presto in Libano.
   Gli ultimi sviluppi dimostrano anche la fondatezza delle preoccupazioni di Israele per una minaccia iraniana che va ben oltre la prospettiva dell'atomica. Preoccupazioni snobbate come nevrosi dalle agenzie di intelligence americane durante gli anni di Obama alla Casa Bianca.
   Gli israeliani si chiedono "quando", non "se" dovranno di nuovo combattere contro Hezbollah. Più probabile di una nuova guerra coreana, o di un'invasione russa dei paesi baltici, ad oggi è un attacco missilistico contro Israele da parte di Hezbollah per procura iraniana e siriana, con un esercito di terroristi trincerato e fortificato per difendersi dalla ritorsione terrestre israeliana in Libano. Ma non sarebbe un semplice secondo tempo della guerra tra Israele e Hezbollah del 2006. Questa volta sarebbe, innanzitutto, una guerra tra Israele e Libano, visto il livello di penetrazione delle milizie filoiraniane nei glangli dello stato libanese. E perché questa volta, lungi dal condannare la reazione israeliana, sarebbero gli stati sunniti a chiedere a Tel Aviv di usare la mano pesante contro un nemico - l'Iran - che ritengono una minaccia maggiore rispetto allo Stato ebraico.
   Il ministro saudita per gli affari del Golfo, Thamer al-Sabhan, ha avvertito che Riad tratterà il governo libanese come un governo nemico che ha "dichiarato guerra", a causa del coinvolgimento di Hezbollah in operazioni contro le truppe e gli interessi sauditi nello Yemen o altrove. Ed è davvero difficile immaginare come il Libano possa non essere ritenuto responsabile per attacchi facilitati o addirittura condotti da un'entità come Hezbollah che controlla il governo e le forze armate del paese.
   Il premier israeliano Netanyahu ha definito il discorso di dimissioni di Hariri come un "campanello d'allarme" e avvertito che l'Iran sta replicando in Siria il modello grazie al quale è riuscito a dominare il Libano. Di questi giorni la notizia di immagini satellitari che mostrerebbero una base militare permanente iraniana in costruzione sul territorio siriano.
   Il Libano è già una provincia iraniana e presto lo diventerà la Siria di Assad. E' l'espansionismo iraniano, la sua crescente egemonia, finalizzata a cancellare Israele dalle mappe, cacciare gli Stati Uniti dal Medio Oriente ed esportare la rivoluzione khomeinista, la principale minaccia all'ordine regionale. Il presidente Trump ha pronunciato una strategia di contrasto delle mire iraniane. Ora è urgente metterla in pratica - a partire dal corridoio terrestre Teheran-Beirut, che sta per essere completato in Siria - prima che sia troppo tardi. Faster, please!

(formiche.net, 14 novembre 2017)


Teheran ha deciso: a Gaza ci deve essere una nuova guerra

Teheran punta dritto a un nuovo conflitto a Gaza. Ha bisogno che Israele sia impegnato sul fronte sud in modo da poter portare avanti il suo piano di posizionamento a ridosso del Golan

A Gaza ci deve essere una nuova guerra. A deciderlo questa volta non è Hamas, che forse in questo momento non ha molto interesse a scontrarsi militarmente con Israele ed è molto più interessato a sistemare le proprie questioni interne, ma è Teheran che attraverso il suo proxy a Gaza, la Jihad Islamica, ha portato il livello della tensione a livelli altissimi, livelli che non si vedevano dal 2014....

(Right Reporters, 14 novembre 2017)


Netanyahu vieta l'accesso ai politici francesi sostenitori del boicottaggio di Israele

Facevano parte di una delegazione che avrebbe voluto incontrare anche Marouane Barghouti, condannato a cinque ergastoli per la seconda intifada.

Il governo di Benyamin Netanyahu ha deciso di impedire a sette politici francesi di entrare in Israele perché ritenuti sostenitori del movimento ''Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni'', che contesta ulteriori insediamenti in Cisgiordania.
I destinatari del provvedimento sono il segretario nazionale del Partito comunista francese, Pierre Laurent; la deputata nazionale Clémentine Autain, gli europarlamentari Pascal Durand e Patrick Le Hyaric; i sindaci comunisti Azzedine Taibi (Stains), Eric Roulot (Limay) e Patrice Leclerc (Gennevilliers). Fanno parte di un gruppo di venti persone che, tra il 18 ed il 23 novembre, dovevano visitare Israele e territori palestinesi occupati.
I partecipanti alla visita, in particolare, speravano di incontrare Marouane Barghouti, il più famoso dei 6.200 detenuti palestinesi in Israele, condannato a cinque ergastoli per il suo ruolo nell'organizzazione di attacchi durante la seconda intifada. Volevano anche ascoltare l'avvocato francese-palestinese Salah Hamouri, che è in detenzione amministrativa in Israele dal 23 agosto. L'incontro con Hamouri sarebbe stato difficile in quanto il regime di detenzione amministrativa in Israele è estremamente restrittivo, non prevedendo, tra l'altro, un termine chiaro in termini di durata. Il Quai d'Orsay ha dichiarato di essere "preoccupato" della sua situazione.
"Non permetteremo l'accesso a coloro che attivamente invitano a prendersela con Israele, specialmente quando chiedono di incontrare e dare conforto ad un assassino come Barghouti, incoraggiando così il sostegno al terrorismo", ha detto il ministro israeliano della Sicurezza pubblica, Gilad Erdan.
La comunicazione del divieto di ingresso in Israele non è stata ancora ufficializzata, come ha detto Pascal Durand: "Non sono ancora stato informato. Se sarà confermato, è incomprensibile. Esiste un accordo di associazione tra l'Unione europea e Israele. Sono andato in delegazione con altri deputati un anno e mezzo fa e siamo stati accolti nella Knesset."
Pascal Durand è ancor più sorpreso dall'accostamento al movimento per il boicottaggio di Israele. "Non vi ho mai preso parte. Sono sempre stato un difensore della pace, della soluzione a due Stati e del ritorno alle frontiere del 1967''.

(globalist, 14 novembre 2017)


Il boom del kosher. Perché ci fanno gola i cibi della Bibbia

I prodotti realizzati come Dio comanda conquistano il mercato non ebraico. Sono diventati sinonimo di qualità. In un anno l'acquisto dei prodotti benedetti dai rabbini è cresciuto del 7,8%: sono diventati sinonimo di igiene e salute.

di Stefano Filippi

E' un vero mangiare da Dio, preparato, cotto, conservato e servito come l'Onnipotente comanda. I primi libri dell'Antico Testamento ci tramandano un lungo elenco di prescrizioni alimentari che i più osservanti nel popolo ebreo rispettano da tremila anni. Un insieme di regole che vanno sotto il nome di cibo kosher, cioè consentito, idoneo, conforme alla legge della religione ebraica. Ma non è soltanto per ossequio al Padreterno che la dieta kosher si sta facendo largo sulle tavole degli italiani. Secondo una ricerca dell'osservatorio Immagino della Nielsen, istituto specializzato nell'analisi su consumi e abitudini alimentari, l'acquisto di prodotti kosher nel 2016 è cresciuto del 7,8%. E non è che le sinagoghe italiane si siano riempite in misura analoga.
  Il prodigio del cibo divino - miracolo nel miracolo - è avvenuto in un periodo in cui la spesa degli italiani ristagna. Soltanto negli ultimi mesi del 2017 l'Ismea ha colto un'inversione di tendenza dopo cinque anni caratterizzati dal segno meno: l'incremento medio è del 2,5 per cento, con una prevalenza dei prodotti confezionati (+3,2 per cento) rispetto ai freschi (+1,1). È un indice di ripresa che segnala anche un cambiamento nel carrello della spesa, con acquisti più attenti e più consapevoli. L'andamento segue quello delle tendenze recenti, con una grande espansione dei cibi biologici, vegani, privi di intolleranze alimentari, e anche halal, rispettosi della tradizione islamica, e appunto kosher.
  Sono consumatori avveduti, a reddito alto, trasversali alle classi d'età. Per qualcuno può essere una moda, un ultimo trend da seguire; più spesso si tratta di persone che soffrono di qualche allergia, per esempio al lattosio o al glutine, e pensano di aggirare le restrizioni alimentari affidandosi a prodotti alternativi. Qualcuno è attratto dal richiamo spirituale: un nutrimento dell'anima oltre che del corpo. Per gli ebrei osservanti i precetti kosher sono definiti «statuti», ovvero leggi divine incomprensibili all'intelletto. E l'ossequio a un comando celeste senza capirne il motivo è un segno di abbandono a Dio. Ma soprattutto c'è molta gente per cui il cibo «free» è garanzia di igiene e salute.
  Gli alimenti kosher rispondono anche a queste esigenze. Sono conformi a regole codificate da secoli, molto scrupolose, che riguardano non soltanto le materie prime ma anche la loro preparazione, la cottura, la conservazione, la distribuzione: tutta la filiera è sotto il controllo delle autorità rabbiniche che devono rilasciare una certificazione tanto al prodotto quanto alla fase produttiva.

 Il rituale
  Che cos'hanno di così speciale i cibi biblici da raccogliere tutto questo successo al supermercato e in tavola? Sono privi di grassi animali e anche gli altri grassi, oltre agli additivi come coloranti e conservanti, sono sottoposti a controlli minuziosi. Seguono prassi dietetiche efficaci, come evitare carne e latticini (burro, besciamella, formaggi) nello stesso pasto, un abbinamento che renderebbe più problematica la digestione. Ma comunicano anche un senso di maggiore sicurezza alimentare. L'etichetta, per esempio, è completa e trasparente. L'animale macellato secondo i dettami della Torah dev'essere ucciso senza soffrire, interamente dissanguato e lavorato in cucina con utensili ( coltelli, pentole, forni) distinti da quelli usati per gli altri cibi.
  Il rituale kosher è un processo super controllato e igienicamente garantito. I mammiferi ammessi devono essere ruminanti e avere lo zoccolo fesso: bovini, capre, agnelli. Vietati maiale, cavallo, coniglio. Ammessi pollo, anatra, tacchino. Attenzione al pesce, che deve avere pinne e squame: proibiti l'anguilla, lo storione (e il caviale), il pesce spada, i frutti di mare. Devono essere certificati anche i prodotti che entrano a contatto con la pelle e possono essere ingeriti involontariamente o penetrare nel corpo, come cosmetici, detersivi per lavapiatti, detergenti per le pulizie di casa, piatti di plastica, spugnette.
  I profumi devono essere privi di alcol etilico derivato da cereali; creme e dentifrici non possono contenere grassi animali; i rossetti devono durare a lungo perché di sabato, giorno sacro per gli ebrei, è vietato truccarsi. Nel make-up va utilizzato un pennello per ogni colore per non mescolare i colori tra loro. I siti che vendono articoli kosher on line hanno un campionario sconfinato. Le prossime frontiere sono quelle della tracciabilità nelle aziende farmaceutiche che producono integratori alimentari e anche i colossi petrolchimici da cui si ricava la paraffina che può essere impiegata per produrre cosmetici. Ma anche in casa, e non solo all'interno delle aziende alimentari o cosmetiche certificate, vanno seguite regole precise per non rendere impuro ciò che si mangia: per esempio, lavare la lattuga foglia a foglia, setacciare la farina per eliminare i piccoli insetti, controllare che le uova non contengano tracce di sangue. E ci vuole attenzione anche alle etichette: non sempre segnalano dettagliatamente tutti gli ingredienti.

 Alta qualità
  Negli Stati Uniti un sondaggio ha rivelato che i consumatori comprano kosher perché è sinonimo di sicurezza alimentare, standard di qualità e controllo della filiera. Soltanto il 10 per cento ha alle spalle motivazioni religiose, compresi i musulmani che possono mangiare kosher, più rigido dell'halal (ma non viceversa). Il mercato kosher americano è uscito dalla cerchia dei supermercati di settore, ha conquistato le maggiori catene della grande distribuzione alimentare compresi i servizi di consegna a domicilio e così ha toccato i 200 miliardi di dollari quando una quindicina di anni fa, nei primi anni '90, non raggiungeva i 40. Significa che oggi un terzo dei cibi confezionati venduti dalla grande distribuzione Usa risponde ai rituali giudaici con 250mila tra alimenti e bevande, nonostante che gli ebrei ( 6,4 milioni di persone) rappresentino il 2 per cento dei 322 milioni di abitanti degli Stati Uniti, e i rigidi osservanti siano molti meno.
  La crescita in Italia è legata anche alla presenza di visitatori stranieri che chiedono ristoranti, fast food e piatti kosher. Se ne trovano soprattutto nelle capitali del turismo e nei quartieri ebraici. La convivenza spinge anche a elaborare nuove ricette e «meticciare» quelle tradizionali, come dolci senza lievito, hamburger senza maiale, le spezie usate per insaporire invece del sale, la pasta alla carbonara con carne secca di manzo soffritta al posto della pancetta e una bella grattugiata di parmigiano reggiano «chalav Yisrael».
  Esiste anche quello, assieme al salame senza maiale (ma con manzo e tacchino) e la gelatina senza cotenna: viene prodotto nel Parmense con latte (da bovini che non hanno subito interventi chirurgici), caglio (di vitello macellato come si deve), sale e l'intera procedura di lavorazione sotto supervisione rabbinica. Il caseificio che lo produce, Bertinelli di Noceto, ha decuplicato in fatturato in dieci anni e ora ha messo in vendita anche il formaggio vegetariano, privo di lattosio e di glutine.

 Affari planetari
  Per le aziende alimentari italiane ottenere la qualificazione kosher significa la possibilità di conquistare nuovi mercati all'estero e supermercati e ristoranti frequentati dai consumatori più attenti alla qualità. Sul portale Kosheritalianguide.it, promosso dal ministero dello Sviluppo economico con Federalimentare, Federbio, Unione delle comunità ebraiche e Centro islamico culturale assieme alle Fiere di Parma, risultano 177 aziende italiane certificate.
  «Un'azienda alimentare che voglia espandersi all'estero non dovrebbe rinunciare a certificarsi», dice Marco Mansueto, tra i referenti italiani dell'americana Orthodox Union (il maggiore ente certificatore al mondo) e autore del libro Conoscere il kosher. Ma in generale il bollo di garanzia ebraico è un business planetario, come prova la disputa che si accese quattro anni fa attorno all'assegnazione del suffisso «kosher» per i siti internet di vendita on fine di prodotti. Cinque organizzazioni, tra cui la stessa Orthodox Union, hanno fatto cartello contro la Kosher marketing assets Llc, agenzia rabbinica che ne aveva chiesto la titolarità. Il dominio è stato affondato, al contrario della concorrenza tra i certificatori.




Il rabbino di Venezia

Il supervisore: «Facciamo controlli su tutto, persino sull'acqua frizzante»

Per saperne di più

Ecco perché gli alimenti kosher hanno successo nei negozi e a tavola.
1) Sono privi di grassi animali e anche gli altri grassi, oltre agli additivi come coloranti e conservanti, sono sottoposti a controlli minuziosi.
2) Seguono prassi dietetiche efficacì, come evitare carne e latticini (burro, besciamella, formaggi) nello stesso pasto, un abbinamento che renderebbe più problematica la digestione.
3) Comunicano un senso di maggiore sicurezza alimentare. L'etichetta, per esempio, è completa e trasparente. L'animale macellato secondo i dettami della Torah dev'essere ucciso senza soffrire, interamente dissanguato e lavorato in cucina con utensili (coltelli, pentole, forni) distinti da quelli usati per gli altri cibi

Rav Scialom Bahbout guida la cinquecentenaria comunità ebraica di Venezia: ha insegnato fisica per 35 anni alla facoltà di medicina della Sapienza ed è stato rabbino a Bologna, Napoli e Roma. Fa da supervisore a molte richieste di certificazione per Kosher Italy, una delle agenzie più autorevoli.

- Di che cosa si occupa un certificatore kosher?
  «Di tutto, dalla qualità della materia prima alla preparazione degli alimenti, secondo Le regole ebraiche dettate dalla Bibbia e dai testi successivi».

- Si reca di persona in macellerie e caseifici?
  «Non solo. Qualche giorno fa sono stato nell'azienda Pasta Cipriani, quella dell'Harry's Bar».

- Ci sono controlli particolarmente impegnativi?
  «La lavorazione dei formaggi va controllata fin dalla mungitura, anzi si deve verificare anche come il bovino è stato allevato. I formaggi kosher si ottengono con un caglio vegetale o microbico, non con il tradizionale caglio animale».

- Come si diventa certificatore di un cibo kosher?
  «Dopo un lungo percorso che è teorico e pratico. Occorre conoscere testi e regole e maturare un' adeguata esperienza. Il macellatore, che sia o no W1 rabbino, deve conseguire un diploma in accademie ebraiche».

- Ce ne sono in Italia?
  «Da noi si può studiare ma per fare esperienza bisogna andare all'estero. Nel primo libro della Bibbia è scritto che gli uomini non dovrebbero mangiare carne: è una concessione regolata».

- Che cosa s'impara?
  «L'animale macellato non deve soffrire, quindi va giugulato per recidere subito le arterie che portano il sangue al cervello. Il coltello dev'essere privo di intaccature. Il sangue va interamente eliminato, perciò la carne viene messa in acqua e poi sotto sale per assorbire i residui di sangue dai tessuti».

- Va certifìcato l'intero processo produttivo?
  «Ogni passaggio. Per questo esistono numerose agenzie di certificazione in tutto il mondo».

- Perché certificare anche i cibi «parve», cioè né latte né carne?
  «Un'acqua minerale frizzante potrebbe contenere additivi non ammessi. Nei vegetali possono annidarsi insetti e noi dobbiamo avere la garanzia che il prodotto esca dalla catena di lavorazione perfettamente lavato e pulito. Ogni alimento va controllato».

- Che durata ha un certificato?
  «Normalmente un anno. Non esiste rinnovo automatico, quindi ogni 12 mesi nelle aziende alimentari certificate svolgiamo un controllo, a volte anche 2 o 3 nell'arco dell'anno».

- Anche nelle aziende maggiori?
  «Non conta la dimensione di chi produce ma le garanzie di qualità offerte».

(il Giornale - Controcorrente, 14 novembre 2017)


In Israele la diseguaglianza sociale è in calo

Ma resta ancora una delle più elevate fra i Paesi dell’Ocse.

Dati raccolti di recente dall'Ufficio centrale di statistica (Cbs) indicano che la diseguaglianza sociale in Israele e' in calo continuo negli ultimi anni. Ieri alla Knesset (parlamento) il premier Benyamin Netanyahu ha indicato questo sviluppo come uno dei maggiori successi economici del suo governo. Nel 2016, dati raccolti dal Cbs hanno stabilito che l 'indice di diseguaglianza' fra gli strati sociali e' calato a 0.359: il tasso minore dal 2001. La diseguaglianza - riferisce il quotidiano laburista online Davar-Rishon - e' andata crescendo progressivamente nel periodo 1997-2006 (fino a raggiungere il tasso 0.390), mentre poi la tendenza si e' invertita. Ciononostante - osserva ancora il giornale - la societa' israeliana resta ancora una delle piu' polarizzate fra i Paesi dell'Ocse.

(ANSAmed, 14 novembre 2017)


I piedi in due boots

di Daniele Raineri

ROMA - Ora che lo Stato islamico non è più quella giunta militare estremista che controllava un terzo dell'Iraq nell'estate 2014 e che anzi è sull'orlo dell'estinzione come potenza territoriale (non ancora come gruppo terroristico, come non ci si può stancare di dire), per i partiti conservatori in Italia arriva il momento di un test sulla tenuta delle loro posizioni in politica estera. Ci sono larghi settori del centrodestra che sono strenui e naturali difensori di Israele, ma che al contempo simpatizzano con la triade che governa la Siria (Russia-Iran-governo di Bashar el Assad) e che talvolta strizzano l'occhio ai movimenti identitari che stanno ingrossando in tutta Europa.
  E' una contraddizione che non creava problemi fino a quando i terroristi sunniti erano una minaccia dal punto di vista militare ed erano in grado di conquistare città e di rovesciare governi arabi. Ma ormai adesso i tagliateste sono inseguiti dai droni in pezzi di deserto periferici, le cose che contano stanno diventando altre e tocca considerare alcuni cambiamenti un po' più da vicino. Partiamo dalla questione Siria. La notizia è che Mosca e Washington vedono di buon occhio un allargamento del cessate il fuoco del 7 luglio anche alla Siria meridionale, che confina con Israele. Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che sostanzialmente ignorerà questo clima di accordo: "Israele agirà in Siria, inclusa la Siria meridionale, secondo la nostra comprensione della situazione e secondo le nostre necessità di sicurezza". Tradotto: non importa se si parla di cessate il fuoco, per noi il conflitto contro le truppe iraniane e i combattenti di Hezbollah che hanno di fatto vinto la guerra civile e che infestano la Siria continua, anzi è soltanto all'inizio. Continueremo come abbiamo fatto finora, quindi a lanciare raid aerei per impedire ai nostri nemici mortali di radicarsi a pochi chilometri dalla linea di confine.
  Questa posizione politica e militare non è una novità: a partire dal gennaio del 2013, Israele ha lanciato moltissimi bombardamenti aerei contro le basi dell'esercito siriano - in media uno ogni diciassette giorni per cinque anni - che ospitano iraniani e Hezbollah. Tutte queste operazioni non fanno notizia, inclusa l'uccisione con un drone di un generale iraniano al confine - aveva commesso l'errore di accendere il telefonino - ma ci sono e potrebbero aumentare di intensità. Anzi, che aumentino d'intensità è quasi certo. C'è di più: secondo fonti israeliane, il governo di Gerusalemme vuole una linea di demarcazione dentro la Siria che dovrà segnare il punto massimo fino a cui le milizie filoiraniane possono spingersi. La linea comincerebbe cinque chilometri oltre il fronte dei combattimenti tra gruppi ribelli nel sud della Siria e forze assadiste, che si trova a una distanza variabile tra i cinque e i trenta chilometri dal confine israeliano. In pratica questa è la successione immaginata dagli esperti di sicurezza: confine israeliano, poi zona occupata dai ribelli, poi fronte dei combattimenti, poi cinque chilometri e soltanto allora milizie iraniane.
  Insomma, gli israeliani considerano il territorio ancora in mano ai gruppi ribelli come una zona cuscinetto e gli iraniani per loro devono arretrare di almeno altri cinque chilometri. Il calcolo militare è chiaro: i gruppuscoli siriani armati non rappresentano una minaccia esistenziale, gli iraniani - che intendono usare la Siria come una piattaforma per operazioni militari contro Israele - invece sì, hanno una tecnologia e un'organizzazione molto più avanzata. Di questo per ora in Italia si parla pochissimo. Intanto le prime sortite italiane a Damasco degli anni scorsi fatte da esponenti delle frange meno convenzionali della destra, tipo CasaPound e Forza nuova, lasciano progressivamente il posto a visite politiche sempre più rappresentative e strutturate. Ma la contraddizione irrisolta, il fatto che da una parte c'è Israele e dall'altra un governo che talvolta nella sua propaganda divide i suoi nemici in "ebrei interni" (i siriani che non stanno con il governo) e sionisti, non andrà via e anzi acquisterà sempre più importanza. C'è poi un altro rischio politico da valutare, e qui passiamo alla Polonia, dove domenica migliaia di manifestanti hanno celebrato la Giornata dell'indipendenza in un corteo che era dominato da due gruppuscoli di nazionalisti che chiedono che il paese sia purificato "dalla presenza dei musulmani e degli ebrei".
  Quella manifestazione non è che l'episodio più recente del nuovo clima politico in Europa che mescola vecchio e nuovo in modo preoccupante. La campagna in Ungheria contro George Soros, il miliardario accusato di essere l'organizzatore delle ondate migratorie, era soltanto una questione di protezione dei confini o c'entra il mai sopito antisemitismo? I successi elettorali di Jobbik Ungheria, e di AfD in Germania, del Front national in Francia, di Alba dorata in Grecia e dei partiti nazionalisti nei paesi scandinavi (successi nel senso che le percentuali sono cresciute di molto, non che sono arrivati a governare) raccontano una deriva preoccupante. La presenza di questi partiti non è più marginale e adesso impone una nuova necessità: quella di differenziarsi, di prendere le distanze. I tempi chiedono un plus di attenzione alla linea politica. Si può avere una posizione forte contro i terroristi dello Stato islamico o di al Qaida senza dimenticare che il partito Baath in Siria e gli alleati iraniani coltivano il sogno di una guerra definitiva contro Israele. Si può considerare l'immigrazione come un tema centrale delle campagne elettorali in tutta Europa - lo è senz'altro - senza per questo tralasciare di tenersi a debita distanza dai "purificatori" polacchi.

(Il Foglio, 14 novembre 2017)


Israele, Isis, debolezza dell'Europa e bugie smontate: a Torino un convegno da riproporre

di Riccardo Ghezzi

 
                                                    Bat Ye'or                                                                                              Georges Bensoussan
Grande successo per il convegno "1897, 1917, 1937, 1947, 1967: Gli anniversari, la Storia, la realtà di oggi - Un convegno su Israele e il Sionismo" svoltosi al Circolo della Stampa di Corso Stati Uniti a Torino. Nessun posto libero rimasto nelle due sale messe a disposizione, giusto premio per l'impeccabile organizzazione e la qualità dei relatori.
   Georges Bensoussan, Domenico Quirico, Bat Ye'or, David Meghnagi e, in collegamento video, Maurizio Molinari hanno tenuto incollato alle sedie il pubblico presente, non concedendo nulla alle esigenze di omertà e patetica cautela tipiche del mondo dell'informazione.
   Il merito va ad Emanuel Segre Amar del Gruppo Sionistico Piemontese, principale organizzatore e promotore dell'evento, alla Comunità Ebraica di Torino e al Keren Kayemeth LeIsrael che hanno contribuito alla realizzazione dell'evento.
   
Ha aperto i lavori il collegamento video con Maurizio Molinari, direttore de La Stampa, che ha analizzato l'attuale situazione in Medio Oriente: "I gruppi jihadisti pongono a Israele il problema di essere circondati da costante instabilità. Israele è costretto a dotarsi di una nuova dottrina di sicurezza", ha detto Molinari, che ha poi analizzato il contesto nel dettaglio. "La frammentazione negli stati sunniti ha fatto avvicinare ad Israele il grande nemico, la Repubblica Islamica dell'Iran, che è presente in Siria e ha un alleato chiave nei libanesi Hezbollah. C'è un posizionamento di milizie sciite fedeli all'Iran sui confini del Golan. Hanno sbaragliato l'Isis nel nord della Siria, si sono imposte nel nord dell'Iraq, c'è possibilità che si posizionino sul Golan". Lo scenario non è quindi tranquillizzante: "Da un lato i gruppi jihadisti, dall'altro il posizionamento in forze dell'Iran e dei suoi alleati ai confini di Israele".
   Molto applaudito l'intervento dello storico francese Georges Bensoussan, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi, che si è soffermato principalmente sulle umiliazioni subite dagli ebrei nel mondo arabo. Proprio partendo da questo, Bensoussan ha dimostrato che il sionismo non è un movimento di colonizzazione, bensì l'esatto contrario: un movimento di decolonizzazione. "La rinascita nazionale in Israele a partire dalla lingua ebraica è stata importante. Si tratta appunto di rinascita nazionale, non di un'importazione coloniale dall'esterno. E' un errore parlare di stato di Israele creato nel '48, perché in realtà si tratta di rinascita di una terra che ha sempre parlato ebraico". Una rinascita cominciata davvero a partire dalla seconda aliyah, nel 1904. "La prima aliyah (1882-1903 n.d.r.) avviene in una sorta di "empasse" coloniale sul modello algerino, con l'acquisto di terre e l'implantazione di vigneti. Vengono reclutati agricoltori arabi e beduini, a fronte di pochi proprietari terrieri ebrei". Il modello coloniale della prima aliyah sparisce con la seconda: "La seconda aliyah prende atto dell'empasse e promuove il lavoro ebraico, permettendo un focolaio di indipendenza. Si crea uno schema agli antipodi di quelli coloniali, con lo scopo pratico e non ideologico di promuovere lavoro ebraico per creare uno stato-nazione ebraico: lavoro solo ebraico e lingua solo ebraica. Principali promotori i socialisti emigrati dalla Russia dal 1904". Qui iniziano i primi problemi: "La seconda aliyah avvia contraddizioni gravi. E, presto, la violenza. Gli arabi non pensano di essere invasi, ma mezzadri e agricoltori arabi erano abituati a cambiare semplicemente proprietari, con gli ebrei però tutto questo cambia: la terra viene venduta a chi poi la coltiva. Non è una rivolta per questioni nazionali, ma una rivolta di piccoli mezzadri che avevano sempre coltivato queste terre. Non si è trattato però di un furto ma di un'acquisizione regolare e di piccole terre. Nel 1947 gli ebrei possedevano il 13% del terreno coltivabile". E queste terre venivano pagate due volte: prima al "grande proprietario latifondista, poi una seconda volta venivano pagati i braccianti arabi per farli andare via".
   Gli ebrei si installano e creano insediamenti, che paradossalmente attirano immigrazione di arabi in cerca di lavoro. E poi arriva una seconda immigrazione voluta dall'impero ottomano, per contrastare tanto gli ebrei quanto gli arabi.
   "C'è un rifiuto prima ottomano e poi arabo degli ebrei e della loro emancipazione". Gli ebrei sono considerati essere inferiori in quella che è di fatto una colonizzazione psicologica: gli arabi non accettano l'emancipazione ebraica. E qui arriva il punto: "Il movimento sionista è decolonizzatore, non colonizzatore. Si tratta di una decolonizzazione degli ebrei da ottomani e arabi. L'immagine che l'arabo ha sempre avuto dell'ebreo è di inferiorità, disprezzo. Impossibile accettare per loro un'emancipazione degli ebrei, che devono rimanere dei "dhimmi". C'era una visione profondamente coloniale dell'arabo sull'ebreo. Il mondo arabo non ha mai potuto sopportare la decolonizzazione psichica degli ebrei". Il sionismo, appunto.
   Efficace anche l'esempio fatto da Bensoussan della Grecia, una "nazione che rinasce con la riscoperta della lingua greca, sia pure in chiave moderna, dopo l'occupazione ottomana". Tante le affinità con Israele.
   Ha concluso il primo panel Domenico Quirico, giornalista de La Stampa, che si è soffermato principalmente sull'Isis e sui media occidentali che ci fanno "ingurgitare ottimismo". In realtà, secondo Quirico, il Califfato non è stato sconfitto: "Siria e Iraq non esisteranno più. L'innovazione del califfato, grazie ad indifferenza criminale con cui è stata accettata la sua nascita e il suo svilupparsi e in queste zone, è aver creato scenari di guerra che si protrarranno per i prossimi 50 anni: guerra tra curdi, turchi e iracheni; guerra tra Arabia Saudita e Iran; l'immissione violenta dei turchi nel territorio siriano per impedire la nascita dello stato curdo; la riesplosione del Libano. C'è da preoccuparsi per il prossimo mezzo secolo".
   Il Califfato, come ogni stato totalitario, divide i puri dagli impuri. "L'impuro - ebreo per i nazisti, borghese per gli stalinisti, non wahabita per il Califfato - deve essere ucciso. A cominciare dai musulmani "contaminati" da impurità, anche sunniti. Un mondo puro è solo quello in cui esistono i puri, cioè loro". Secondo Quirico "Gli Usa sono gli unici che avrebbero avuto la forza per fermarlo, ma dal 2014 l'hanno lasciato passare. Hanno permesso che tutto questo crescesse". Ed è ancora lontano dall'essere sconfitto: "Dopo il Califfato non ci sarà più nulla come prima. Ha perso Mossul e Raqqa, e allora? Ci saranno altri Mossul e Raqqa e la forza militare non è stata spazzata via. I curdi e gli sciiti non hanno interesse a combattere fino all'ultimo". E l'occidente ha rinunciato a farlo.
   Quirico ha poi raccontato la sua esperienza personale: "Ho vissuto 5 mesi come prigioniero di formazioni islamiste di Al Qaeda e Isis. So chi sono loro, fisicamente. Ho parlato con loro, sono stato picchiato da loro. Non molti sono tornati indietro, io sì. Posso testimoniare la forza totalitaria che mettono nel loro progetto. Il loro concetto di tempo è diverso dal nostro. Ragionano in termine di secoli. Vogliono riprendere pezzo per pezzo la totalità dei territori che costituivano antico califfato abasside. Lo Stato dell'Islam deve tornare all'Islam. Ci vorranno 300 anni? Che importa? Alla fine questo verrà, loro dicono". E perché tutto questo è cominciato nel 2014? "La Siria ha offerto una grande occasione, il potere non c'era più, c'era caos, si poteva entrare. Mai come oggi l'occidente - gli Usa, il resto per loro non esiste - è stato così debole. Non c'è nessuno oggi che sia in grado di spedire una generazione a crepare in Vicino Oriente".
   Nel secondo panel, la saggista Bat Ye'or ha parlato di "dhimmitudine" e di accordi tra Europa e mondo arabo a partire dalla guerra dello Yom Kippur con conseguente ricatto petrolifero dei paesi della Lega Araba nei confronti degli stati arabi. Tra le condizioni poste dagli arabi agli europei, all'epoca alleati di Israele: "il riconoscimento dell'esistenza dei palestinesi, l'islamizzazione di Gerusalemme, il ritiro di Israele entro le frontiere del 1948. Nove paesi della comunità europea hanno aderito, accettando queste condizioni". Condizioni antisioniste, cui l'Europa si è adeguata impegnandosi anche a garantire un dialogo euro-arabo. "I progetti per mettere in atto questi piani venivano realizzati da diversi organismi". Da lì il termine "Eurabia", che non è stato inventato dalla saggista ma era persino il nome di un giornale. Secondo Bat Ye'or, il progetto è quello di "una nuova identità europea basata su multiculturalismo e presenza musulmana che avrebbe facilitato la nascita di una civiltà musulmana ed eurocristiana, il giudaismo sarebbe scomparso insieme allo stato di Israele. La lotta comune per la Palestina contro Israele avrebbe riunificato cristiani e musulmani". Non solo. I paesi arabi hanno chiesto anche "la separazione dell'Europa dall'America. E che la questione palestinese fosse al centro dell'agenda della politica internazionale. L'Europa ha accettato docilmente richieste contro Israele".
   Ultimo, ma non meno importante, l'intervento del professore David Meghnagi, i cui numerosi spunti di riflessione sono stati apprezzati dal pubblico. Ad esempio, l'intuizione del concetto di "Nakba" (la cosiddetta "catastrofe" araba dopo la prima guerra vinta da Israele nel 1948) come vero e proprio furto della Shoah, nell'ambito di una retorica che vedrebbe gli arabi come i nuovi ebrei. E gli ebrei come i nazisti.
   L'ultima frase di Meghnagi è stata la più applaudita del convegno e ha commosso i presenti: "Continueremo la nostra lotta per trasformare il nostro nemico in amico".
   Ha moderato, brillantemente, entrambi i panel Vittorio Robiati Bendaud, coordinatore del Tribunale rabbinico del Centro-Nord Italia presieduto dal rabbino Giuseppe Laras.
   Un appuntamento da ripetere, in ogni città d'Italia. Ce n'è un gran bisogno.

(L’informale, 13 novembre 2017)


Israele - Palestina: sale la tensione al confine con Gaza

L'esercito israeliano ha iniziato un'ampia esercitazione militare al confine con la Striscia di Gaza.
Le operazioni di addestramento sono iniziate domenica 12 novembre 2017, dopo che le autorità israeliane, l'8 novembre, avevano dichiarato l'area situata vicino al confine con la Striscia di Gaza area militare chiusa, vietandone l'accesso ai civili. Secondo quanto riferito dal portavoce dell'esercito israeliano, l'obiettivo dell'addestramento è quello di verificare che le milizie israeliane siano pronte ad affrontare qualsiasi stato di emergenza.
   Israele teme attacchi a sorpresa da parte dei militanti di Hamas, in particolare dopo che, il 30 ottobre 2017, l'esercito israeliano aveva fatto esplodere un tunnel che collegava la Striscia di Gaza a Israele, causando la morte di 7 palestinesi e il ferimento di altri 12. Israele temeva che il tunnel costituisse un passaggio per i militanti di Hamas intenzionati a colpire il Paese. In tale occasione, un portavoce dell'unità delle Forze di difesa israeliane, che si è occupata della distruzione del tunnel, aveva giustificato l'azione di Israele, affermando che il passaggio sotterraneo avrebbe costituito "una violazione grave della sovranità di Israele".
   Le esercitazioni militari sono iniziate dopo che, domenica 12 novembre 2017, in occasione della riunione di Gabinetto settimanale, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva ammonito i gruppi palestinesi che si trovano nella Striscia di Gaza di non compiere vendette contro Israele.
   Nel suo discorso, Netanyahu aveva dichiarato: "Ci sono ancora coloro che giocano a provare nuovi attacchi contro Israele. Reagiremo energicamente contro chiunque tenti di attaccarci da qualsiasi parte. Intendo proprio tutti, le fazioni di ribelli, le organizzazioni, tutti" e ha aggiunto: "In ogni caso, riteniamo Hamas responsabile per qualsiasi attacco contro di noi, sia che provenga dalla Striscia di Gaza sia che vi sia stato organizzato". Secondo quanto riferito dal quotidiano The New Arab, le dichiarazioni del premier israeliano sarebbero giunte in risposta alle minacce espresse dal Movimento per il jihad islamico in Palestina, un gruppo militante palestinese, che, precedentemente, aveva dichiarato che avrebbe colpito Israele a causa della distruzione del tunnel.
   Stando a quanto riportato da Al-Jazeera in lingua araba, il Movimento avrebbe risposto alle minacce israeliane affermando di non esserne spaventato e le avrebbe descritte come: "Una dichiarazione di guerra a cui risponderemo".
- Traduzione dall'arabo e redazione a cura di Laura Cianciarelli

(Sicurezza Internazionale, 13 novembre 2017)


Sfida su due fronti per Israele, sale la tensione al confine con Gaza

Fin qui nulla si è mosso sulla linea del fronte con Hezbollah. Ma dopo aver distrutto un tunnel sul territorio israeliano, il ministero della difesa minaccia il gruppo della Jihad islamica attivo nella Striscia. In gioco c'è anche la traballante riconciliazione tra Hamas e Fatah.

di Federica Sasso

 
Il gen. Yoav Mordechai, incaricato delle relazioni fra il ministero della difesa e la controparte palestinese
GERUSALEMME - Visti da Gerusalemme, questi sono stati giorni di scambi di messaggi. Venerdì, parlando alla televisione libanese, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha accusato la leadership saudita di aver costretto il Primo ministro libanese Saad Hariri a dimettersi. Poi, dopo aver aggiunto che Riyad con questa mossa ha dichiarato guerra al Libano, Nasrallah ha avvisato Israele di non intervenire.
   Il fatto che la prossima guerra tra Israele ed Hezbollah scoppierà sembra una certezza, ma proprio adesso? La settimana scorsa, l'ex ambasciatore americano in Israele Dan Shapiro, dalle colonne del quotidiano israeliano Haaretz si chiedeva se le mosse dell'Arabia Saudita riguardo le sorti del Libano non stiano spingendo Israele a confrontarsi con le forze sciite di Nasrallah. Ma domenica mattina, Hamos Harel, l'analista militare dello stesso giornale faceva notare che Israele non si è pronunciato sulle dimissioni di Hariri e che il controllo lungo il confine a nord di Israele non è stato rafforzato. Secondo Harel questo fa pensare che l'esercito israeliano non stia preparando nessuna mossa imminente.
   L'instabilità della situazione sul versante libanese ha in qualche modo messo in secondo piano sia i rapporti tra Israele e Hamas che l'evoluzione dei rapporti fra Fatah e Hamas dopo la riconciliazione firmata al Cairo in ottobre. Ma sabato Israele ha lanciato un messaggio anche in quella direzione. Con un video postato su YouTube, il ministero della difesa israeliano ha messo in guardia il gruppo della Jihad islamica a Gaza dall'attaccare Israele. Parlando in arabo, il generale Yoav Mordechai, l'incaricato delle relazioni fra il ministero della difesa e la controparte palestinese, ha ricordato che il 30 ottobre l'esercito israeliano ha distrutto un tunnel costruito dalla Jihad islamica in territorio israeliano. Nell'attacco sono morti 12 palestinesi, 10 militanti della Jihad islamica e due membri del gruppo militare di Hamas. Si tratta dell'azione più importante lanciata da Israele dopo l'Operazione Margine di Protezione dell'estate 2014.
   Mordechai ha avvertito che pianificando attacchi come vendetta contro Israele, la Jihad islamica "sta giocando col fuoco, mettendo a rischio la popolazione di Gaza, gli sforzi di riconciliazione tra le fazioni palestinesi e la stabilità dell'intera regione". Mordechai ha consegnato un messaggio inequivocabile: "Ogni attacco da parte della Jihad islamica provocherà una risposta forte e determinata da parte di Israele. E questo vale anche per Hamas." La leadership della Jihad islamica ha dichiarato che non si tirerà indietro, riaffermando il proprio "diritto di rispondere a ogni aggressione".
   Domenica il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha aggiunto che "in ogni caso noi consideriamo Hamas responsabile per qualsiasi attacco pianificato o diretto verso di noi dalla Striscia di Gaza". In realtà Israele sa che Hamas sta tenendo a bada le fazioni presenti nella Striscia per non rischiare di affossare il processo di riconciliazione con Fatah, il tentativo più serio negli ultimi dieci anni. L'accordo siglato con la benedizione del governo egiziano prevede che Fatah riprenda il controllo della Striscia entro il primo di dicembre ma dopo qualche settimana i due gruppi si sono già scontrati sulla questione del disarmo dell'ala militare di Hamas.
   L'Autorità Palestinese ha già ottenuto il controllo dei due valichi, verso l'Egitto e Israele, ma la settimana scorsa, il capo della Polizia palestinese, Hazem Atallah, ha dichiarato a un gruppo di giornalisti stranieri i suoi dubbi sul fatto che l'accordo possa reggere. Per Atallah il disarmo di Hamas è una condizione imprescindibile, mentre Hamas considera non negoziabile la possibilità di cedere il suo arsenale e chiede che le migliaia di uomini che compongono la polizia nella Striscia vengano incorporate nelle forze di polizia gestite da Atallah.
   Il 21 novembre le due fazioni si incontreranno di nuovo in Egitto per riprendere i negoziati. Uno degli aspetti cruciali per Hamas è stata la riapertura del valico di Rafah, che consente l'arrivo di beni importati dall'Egitto. Dopo tre conflitti con Israele, il blocco dal lato egiziano e la tensione con Fatah - che nell'aprile scorso ha contribuito a innescare una grave crisi dell'elettricità, con ripetuti black out che hanno sfiancato la popolazione - la leadership di Hamas sembra non avere alternative al percorso di unità nazionale. Sabato migliaia di palestinesi si sono ritrovati a Gaza City per l'anniversario della morte di Yasser Arafat. Ed è la prima volta da quando Hamas ha cacciato Fatah prendendo il controllo della Striscia.
   Israele osserva e mantiene i suoi rapporti con l'Autorità Palestinese. Atallah, il capo della polizia in Cisgiordania, ha dichiarato che la cooperazione per la sicurezza con gli israeliani è di nuovo attiva, e il ministro dell'economia israeliano, Moshe Kahlon, a fine ottobre ha incontrato a Ramallah il premier palestinese Rami Hamdallah. Israele però continuerà a distruggere i tunnel che da Gaza minacciano la sua sicurezza, e ribadisce che non negozierà con un governo di unità nazionale palestinese che includa Hamas. Ma gli elementi in gioco sono tanti, come i possibili sbocchi di questa fase di transizione: da un ennesimo fallimento dell'unità palestinese fino al tentativo di avviare un piano di pace proposto dagli Stati Uniti con il sostegno dell'Arabia Saudita.

(EastWest, 13 novembre 2017)


Israele avverte i nemici: "Non scherzate col fuoco sulla pelle degli abitanti della regione"

Ma da Gaza la Jihad Islamica ribadisce le minacce contro "l'entità sionista", mentre l'Iran costruisce basi nella Siria meridionale

Il gruppo palestinese Jihad Islamica, che evidentemente ritiene suo insindacabile diritto scavare tunnel sotto il confine per infiltrare terroristi in Israele, ha definito "una vera e propria dichiarazione di guerra" i recenti avvertimenti di Israele contro "attacchi di vendetta" per il tunnel distrutto lo scorso 30 ottobre.
E' così che il gruppo terrorista islamista palestinese ha reagito domenica a un video pubblicato sabato sera su YouTube, in cui Yoav Mordechai, Coordinatore delle attività governative israeliane nei territori, lanciava in arabo questo messaggio:
"Due settimane fa Israele ha distrutto un tunnel terroristico all'interno del proprio territorio sovrano. Siamo a conoscenza delle trame che la Jihad Islamica palestinese sta progettando contro Israele: scherzano col fuoco a spese degli abitanti di Gaza, degli sforzi di riconciliazione palestinese [tra Fatah e Hamas] e della stabilità dell'intera regione. Che sia chiaro: qualunque attacco della Jihad Islamica susciterà una risposta forte e determinata da parte di Israele. E questo non vale solo per la Jihad Islamica, ma anche per Hamas. Suggeriamo alla dirigenza della Jihad Islamica a Damasco di esercitare cautela e di assumere il controllo della situazione. Ai capi della Jihad Islamica palestinese a Damasco, Ramadan Shalah e Ziad Nakhaleh, diciamo: prendete rapidamente il controllo delle cose, giacché voi siete quelli che dovrete risponderne"....

(israele.net, 13 novembre 2017)


Libano, Hariri lancia la sfida. "Sono libero, tornerò presto"

Il premier dimissionario parla in tv da Riad: non sono stato arrestato, fra pochi giorni sarò a Beirut, gli Hezbollah destabilizzano la nazione.

di Giordano Stabile

LE TAPPE DELLA VICENDA
Il 4 novembre Saad Hariri, capo del governo libanese e leader del movimento politico sunnita «Il Futuro», annuncia inaspettatamente le sue dimissioni da Riad. Si diffonde la convinzione che Hariri sarebbe stato costretto a dimettersi dalla famiglia reale saudita per frenare l'influenza sul Libano del movimento sciita Hezbollah. L'arrivo all'aeroporto di Riad sarebbe stato inusuale: nessun principe ad accoglierlo, cellulare confiscato e «arresti domiciliari» nella sua casa di lusso nella città saudita. Il 9 novembre il presidente libanese Michel Aoun si è rifiutato di accettare le dimissioni del governo finché Hariri non gli spiegherà di persona i motivi del suo gesto.

 
Saad Hariri parla in TV da Riad
BEIRUT - Il premier libanese Saad Hariri promette che tornerà «presto, a giorni» in Libano e che seguirà le «procedure della Costituzione» per formalizzare le sue dimissioni inusuali, annunciate sabato 4 dall'Arabia Saudita. Un modo, spiega in un'intervista alla emittente del suo partito, Future Tv, «per dare un choc positivo» al Paese, portare a un «risveglio» e dire la «verità sulla situazione». Dopodiché si impegnerà in «nuovi negoziati» per arrivare a un governo libero dalla «interferenze straniere», cioè dall'Iran.
   Hariri parla dalla sua residenza a Riad, dove si trova da una settimana, secondo la maggior parte dei libanesi e anche secondo il presidente Michel Aoun, con «una libertà ristretta». Seduto in modo informale a un tavolo davanti alla giornalista, l'anchorwoman di Future Tv Paula Yaacoubian, il primo ministro ribatte subito che «è libero di muoversi», se volesse potrebbe «partire domani», e insiste che le voci sul suo «sequestro» sono fra le tante speculazioni che circolano, comprese quelle sul perché non abbia usato il suo aereo personale, un dettaglio «insignificante».
   Hariri spiega poi perché si sia rifugiato in Arabia Saudita e ancora non abbia deciso una data precisa per il ritorno. «Sto valutando con gli apparati dello Stato - precisa - la situazione della sicurezza. Io voglio proteggere tutti i libanesi, sunniti, sciiti, drusi, cristiani, ma per farlo devo prima di tutto proteggere me stesso, perché rappresento tutto il Libano» ed evoca di nuovo la morte del padre Rafik, ucciso nel 2005.
   La sua sicurezza, e l'evitare che il Paese sia coinvolto in una guerra regionale, serve anche a proteggere «i 400 mila libanesi che vivono nei Paesi del Golfo». Un'allusione anche alle implicazioni economiche della crisi. Gli espatriati libanesi nel Golfo inviano ogni anno sette miliardi di dollari di rimesse nel Paese, oltre 1'8 per cento del Pii. I Paesi del Golfo, ribadisce, «amano il Libano, amano Beirut» ma ci sono parti politiche che hanno aperto la strada «alle interferenze straniere» e causato la crisi.
   Il riferimento è a Hezbollah e al suo coinvolgimento nelle guerre regionali, in Siria e nello Yemen, che mettono in pericolo la stabilità del Libano. Il premier insiste che era suo dovere «dire la verità al Paese», denunciare queste politiche pericolose per dare uno «choc positivo». Dice di aver fiducia in Aoun, che tutela la costituzione, e cerca di rassicurare i suoi cittadini: si impegnerà per cercare una soluzione politica, forse dopo le elezioni che dovrebbero tenersi in primavera.
   Poi attacca il suo avversario politico: «Hezbollah pensa che il Libano sia importante o no? Pensa che i legami del Libano con la comunità internazionale siano importanti o no?». La strada per uscire dalla crisi, suggerisce, è quella della «neutralità», cioè il movimento sciita dovrebbe diventare soltanto una forza nazionale, senza lasciarsi coinvolgere nella politica di espansione dell'Iran in Medio Oriente.
   L'intervista sembra però aver come obiettivo anche quello di rassicurare i connazionali sulla sua effettiva libertà di movimento. Ieri Aoun è tornato a denunciare che i movimenti del premier «sono limitati» e sono state «imposte condizioni riguardo i contatti che può avere, persino con membri della sua famiglia». La crisi libanese continua e sarà al centro della riunione della Lega araba di domenica prossima, chiesta con urgenza dall'Arabia saudita per discutere delle «violazioni» commesse dall'Iran nella regione.

(La Stampa, 13 novembre 2017)


Nel cuore di Beirut dove gli sciiti non temono la guerra

'Torna il nazionalismo' "Liberate il nostro premier"

di Giordano Stabile

Nel quartiere di Dahiya, lungo la superstrada che porta all'aeroporto, le scritte gialle e verdi «Ya Hussein» sulle bandiere nere degli sciiti sono ingrigite dall'incredibile inquinamento che tormenta Beirut, pure una città sul mare, benedetta dalla brezza in questi miti giorni di novembre.
   La giornata è ideale per una passeggiata o, per chi vuole, una corsa assieme ai ventimila che partecipano alla Maratona, la più suggestiva del Medio Oriente. La maggior parte delle famiglie però si accontenta di un gelato. Il Muharram, il mese del lutto per il massacro di Karbala, si è concluso da poco e il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, venerdì scorso ha esaltato i «14 milioni di fedeli musulmani» che sono andati in pellegrinaggio al santuario dell'imam Hussein in Iraq. Non li ha definiti «sciiti» ma musulmani.
   Un altro segno della lenta, impercettibile mutazione del Partito di Dio, che vuole apparire meno settario e per certi versi «nazionale», libanese. Il discorso di venerdì è stato per la gran parte incentrato sulla crisi scatenata dalle dimissioni del premier Saad Hariri. A Dahiya l'umore della gente non è molto diverso da quello nei quartieri a maggioranza sunnita o cristiana. «L'ultima cosa che vogliamo noi libanesi è un'altra guerra, ma non dipende da noi, le decisioni le prendono all'estero», spiega Hanadi Jabar, insegnante, due figli adolescenti: «La sensazione è che non scoppierà: i sauditi non sono in grado di attaccarci e anche Israele sa che Hezbollah è una delle più grandi forze in Medio Oriente, non gli conviene».
   Sul fatto che Hariri sia «prigioniero a Riad» nessuno ha dubbi. E questo ha risvegliato il debole sentimento nazionale libanese: «Anche se le sue idee politiche sono all'opposto delle nostre - è il concetto - è un libanese, un'aggressione a lui è un'aggressione a tutto il Libano». I beirutini sono sempre beirutini, di qualunque confessione. Un po' ci ricamano con la fantasia, un po' ci scherzano con l'ironia tagliente che li contraddistingue. All'opposto di Dahiya, nel quartiere armeno di Burj Hammoud, il clima è lo stesso. «Il principe pazzo», cioè Mohammed bin Salman, spiegano i commercianti nel mercatino lungo l'unica, polverosa, via pedonale, ha sequestrato il «povero Hariri» e vuole scaricare le sue frustrazioni sul Libano «dopo aver preso batoste in Siria e Yemen».
   Per Hezbollah, in questa comunità di discendenti dagli armeni sfuggiti al grande massacro del 1915, non c'è grande simpatia, ma gli sciiti non suscitano le paure ancestrali legate al fanatismo sunnita, incarnato dall'Impero ottomano o da qualche condottiero arabo. La lunga barba nera del «principe pazzo» ricorda troppo quella degli «sceicchi» sauditi, maghrebini o libici «mandati in Siria a imporre la sharia e a massacrare i cristiani». Su questo spartiacque fa leva la politica di Hezbollah, almeno dal 2009, quando il movimento sciita ha cambiato la sua carta fondamentale e ha aperto al «multiculturalismo e al multi-confessionalismo» come modello per il Libano.
   È stato il primo passo per un'alleanza strategica con i cristiani, culminata l'anno scorso con l'elezione del generale Miche) Aoun alla presidenza e la formazione del governo di unità nazionale guidato da Hariri. Gran parte del lavoro ideologico lo ha svolto Kamal El Hage, filosofo amico dell'imam Moussa Sadr, autore del concetto di «naslamiyya», una convergenza fra islam e cristianesimo. Hezbollah in questi giorni sta paradossalmente raccogliendo i frutti di una crisi che doveva metterlo con le spalle al muro. Il generale Aoun, un nazionalista cristiano che alla fine degli Anni Ottanta ha combattuto contro musulmani e siriani, ora incarna la nuova linea di unità, e martella le cancellerie arabe e occidentali: vuole che Hariri «venga restituito al Libano».
   La gente è con lui. Alla maratona gli striscioni erano tutti per il ritorno del premier: «Corriamo per te, torna a Beirut», «Rivogliamo il nostro primo ministro», in attesa dell'annunciata intervista alla tv Mustaqbal, Futuro, quella del suo partito. Ma nessuno sembra credere che il leader dei sunniti libanesi se ne stia in Arabia Saudita di sua volontà. «O è prigioniero o è ricattato», spiega Jeanine, una ragazza di Ashrafieh, il quartiere bene cristiano, in tutina e maglietta rosa per la corsa. Sui social invece si è scatenata la satira. Un tweet che va forte è quello della locandina di «Salvate il soldato Ryan» che diventa «Salvate il soldato Saad» con il presidente Aoun al posto del protagonista (interpretato da Tom Hanks) che sacrifica la sua vita per riportare a casa il giovane militare.
   L'altro concetto tutto beìrutino è «mesci al-alhal», le cose vanno avanti, «la vita continua». Un'altra vignetta sui social mostra un uomo che fuma beato il narghilè in riva al mare: sopra l'immagine con la scritta «prima» (della crisi con l'Arabia Saudita), sotto la stessa immagine, identica, con la scritta «dopo». Una città che andava a ballare anche sotto i bombardamenti durante la guerra civile, non cambia le sue abitudini. La maratona è stata affollata come se niente fosse, la corsa si è srotolata dal margine di Burj Hamoud attraverso i quartieri vicini al mare e poi lungo la Corniche, la passeggiata che culmina alle Rocce dei Piccioni, l'immagine iconica di Beirut. I tavolini dei locali si sono riempiti di gente che si è fermata a metà strada e ha preferito prendersi un aperitivo. «Tutti qui sono per la vita, non per la guerra», commenta una ragazza al trendy «Sud» di Mar Mikhail. Tutta la gente, «Kill nas», nell'accento libanese, considerato il «parigino» fra i dialetti arabi. Nel Golfo avrebbero detto «Kullu» con un tono un po' gutturale. Due mondi lontanissimi.

(La Stampa, 13 novembre 2017)


Il Paese dei Cedri palcoscenico di un conflitto per procura

di Rolla Scolari

 Come siamo arrivati alla crisi di queste ore in Libano?
  Il 4 novembre, durante un viaggio di routine in Arabia Saudita, il premier libanese Saad Hariri ha dato le dimissioni in diretta video da Riad. Hariri ha detto di temere per la propria vita e ha accusato le milizie sciite libanesi Hezbollah - e l'Iran che le sostiene - di destabilizzare la regione. Accadeva poche ore prima che a Riad prendesse il via una serie di arresti di principi, funzionari, uomini di affari sauditi. All'origine delle detenzioni ci sarebbe il giovane principe ereditario Mohammed bin Salman. Le autorità libanesi accusano Riad - e indirettamente l'erede al trono - di aver forzato allo stesso modo l'uscita di scena di Hariri. La sua colpa: essere alla testa di un governo in cui siede Hezbollah - assieme all'Iran sciita rivale dell'Arabia Saudita sunnita - senza contrastarlo abbastanza. I vertici sauditi negano pressioni sul premier libanese. Hariri è ancora a Riad e ha detto ieri che tornerà a Beirut a breve.

 Che ruolo gioca l'Arabia Saudita in Libano?
  La crisi attorno al premier Hariri rientra nella più vasta e antica faida per l'egemonia regionale tra l'Arabia Saudita sunnita e Iran sciita. La rimozione del premier sarebbe l'ennesimo tentativo di Riad di contrastare Teheran. Il Libano è uno dei teatri di scontro per procura di questa rivalità. Altrove, in Yemen, Siria, Iraq, il confronto è - attraverso milizie e gruppi paramilitari - anche apertamente armato. La sfida tra Riad e Teheran compromette ciclicamente gli equilibri del piccolo Paese levantino, già fragili a causa della variegata composizione religiosa del Libano, uscito da 15 anni di guerra civile nel 1990, e in cui convivono musulmani sunniti, sciiti e diverse confessioni cristiane. L'Iran appoggia il movimento sciita Hezbollah, che oltre a sedere nel governo e nel Parlamento libanesi è dotato di armi tanto da essere più forte dell'esercito nazionale. Ed è impegnato in Siria a fianco di milizie iraniane nel sostegno del regime di Bashar al-Assad. L'Arabia Saudita è alleata invece del campo sunnita alla testa del quale si trova la famiglia Hariri.

 Chi è la famiglia Hariri e perché è al centro della recente storia del Paese?
  Saad Hariri è il figlio dell'ex primo ministro Rafik Hariri, ucciso il 14 febbraio 2005 da un'esplosione a Beirut. Un tribunale dell'Onu ha accusato dell'attentato cinque membri del movimento Hezbollah, alleato dell'Iran e della Siria degli Assad. Rafik Hariri, uomo d'affari con interessi economici vasti a Riad, ha costruito un'alleanza con l'Arabia Saudita. La sua morte ha portato a una serie di manifestazioni contro la presenza militare nel Paese dei siriani, obbligati quell'anno a lasciare il Libano dove erano presenti dal conflitto civile. Da allora, le tensioni tra Hezbollah e gli Hariri - Saad è diventato allora erede politico del padre - non si sono mai sedate. Nonostante ciò, Hariri guidava fino a pochi giorni fa un governo dove siede anche Hezbollah, e alle critiche saudite che sostengono che il politico non contrasti abbastanza il movimento sciita, i suoi sostenitori replicano che l'obiettivo sono l'unità nazionale e la stabilità del Paese.

 Come ha reagito la popolazione alla nuova instabilità?
  L'annuncio delle dimissioni del premier Hariri - una figura che non trova un sostegno unanime in patria - ha creato una rara atmosfera di unità nel Paese. Per diversi motivi, i campi politici opposti chiedono il ritorno del primo ministro. Le ingerenze straniere che da sempre investono il Paese compromettendone la stabilità sono sempre più mal tollerate dalla popolazione. Nelle ultime ore, nella capitale Beirut sono apparsi cartelloni in sostegno di Saad Hariri: «Vogliamo indietro il nostro primo ministro», «Aspettiamo tutti il tuo ritorno», è scritto accanto a fotografie di Hariri, in alcuni casi ritratto in abiti sportivi mentre corre. Proprio ieri, l'annuale maratona di Beirut è stata trasformata in un evento in sostegno del premier, e sono stati distribuiti cappellini rossi con la scritta: «Corriamo per te».

(La Stampa, 13 novembre 2017)


Un deputato israeliano chiede un aumento salariale per Netanyahu

'Ingiusto che il capo della polizia guadagni di più''

La necessità urgente di garantire al premier Benyamin Netanyahu un significativo aumento di salario è stata sottoposta alla Knesset (parlamento) dal deputato del Likud David Amsalem, turbato dall'aver appreso che il capo della polizia Roni Alsheikh percepisce molto di piu' e dovrebbe anzi vedersi ridotto lo stipendio. Sulla stampa la indignazione di Amsalem ha però sollevato commenti ironici visto che in questi mesi la polizia ha indagato a più riprese Netanyahu. L'attacco allo stipendio di Alsheikh è stato da qualcuno interpretato come un tentativo obliquo di intimidazione. Ma dati alla mano il giornale Marker conferma oggi che ci sono sperequazioni fra il trattamento di Netanyahu - che riceve 48,8 mila shekel al mese (equivalente di 12 mila euro) - e quello del capo della polizia (82,7 mila shekel), il capo di Stato maggiore (84,4 mila shekel) e la presidentessa della Corte Suprema (93 mila shekel). Anche rispetto ad altri Capi di Stato Netanyahu appare in posizione arretrata. Donald Trump, secondo Marker, riceve 400 mila dollari all'anno. Seguono il canadese Justin Trudeau (345 mila euro), Angela Merkel (242 mila euro) ed Emanuel Macron (179 mila euro). Migliore della loro è la situazione del premier di Singapore Lee Hsien Loong che porta a casa ogni anno 2,2 milioni di dollari. Malgrado queste graduatorie, Marker ritiene che lo stipendio di Netanyahu non vada ritoccato perché praticamente non ha alcuna uscita. Vista poi la sua intimità con uomini d'affari facoltosi, scrive ancora Marker, proprio lo stipendio è l'ultimo strumento che aiuti a ricordargli che, in fondo, è solo un funzionario alle dipendenze del pubblico.

(ANSAmed, 13 novembre 2017)


L'esile intesa nella giungla siriana

Tra Stati Uniti e Russia

di Maurizio Molinari

 
La stretta di mano fra Trump e Putin al vertice Apec in Vietnam
I presidenti di Stati Uniti e Russia hanno raggiunto a DaNang, in Vietnam, un accordo minimo sulla Siria che punta a scongiurare il rischio incombente di un conflitto militare regionale di vaste dimensioni fra Iran e Arabia Saudita.
   Genesi, formulazione e testo del comunicato congiunto Casa Bianca-Cremlino evidenziano le difficoltà del momento. Donald Trump e Vladimir Putin hanno parlato a voce due tre volte, concordando - grazie al contributo del mediatore delle Nazioni Unite, Staffan de Mistura - un documento di pochi paragrafi che prevede tre impegni assai delimitati: continuare la guerra allo Stato Islamico (Isis), evitare scontri diretti fra i partner della coalizione anti-Isis, riprendere i negoziati a Ginevra per arrivare all'intesa sulla fine del conflitto mantenendo l'integrità della Siria.
Per comprendere il tipo di «scontri diretti» fra i partner della coalizione anti-Isis che Mosca e Washington vogliono evitare basta guardare a quanto sta avvenendo sul terreno siriano.
   Nell'Est, a cavallo dell'Eufrate si trovano a pochi km di distanza le unità curde-siriane sostenute da Washington, reduci dalla vittoria di Raqqa, e quelle siriane-iraniane sostenute da Mosca, protagoniste della liberazione di Deir ez/Zhor e Bukamal.
   A cavallo del confine siro-iracheno, attorno ad Al-Qaim, si fronteggiano le unità americane della «Task Force Lion» guidate dal colonnello dei Marines Seth Folsom e le milizie sciite irachene - le Forze di mobilitazione popolari - agli ordini del generale iraniano Qassem Soleimani, emanazione diretta del Leader Supremo di Teheran, Ali Khamenei.
Come riassume un veterano occidentale della campagna anti-Isis: «Se finora il conflitto era tutti assieme contro lo Stato Islamico, ora è diventato tutti contro tutti». La possibilità di scontri a fuoco fra le opposte milizie sostenute da Mosca e Washington è immanente e poiché entrambe le aviazioni militari operano nello stesso spazio aereo il rischio di corto circuito è nei fatti. Ma a rendere incandescente e reale il rischio che tutto ciò porti ad un conflitto regionale sono le mosse dei grandi rivali regionali: Teheran e Riad, rispettivamente alleate di Mosca e Washington nonché interpreti della frattura dell'Islam fra sciiti e sunniti che risale all'eredità di Maometto.
   L'Arabia Saudita di re Saiman è stata obiettivo di un attacco missilistico dei ribelli sciiti yemeniti sostenuti da Teheran contro il proprio aeroporto internazionale a oltre 1100 km dal confine ed ha parlato di «atto di guerra»: minacciando ritorsioni contro gli Hezbollah libanesi, perno strategico della coalizione militare filo-Assad in Siria, ed obbligando il premier di Beirut, Saad Hariri, alle dimissioni. Ovvero, Riad è pronta a estendere il conflitto per procura con Teheran dalla Siria al Libano per impedire che gli ayatollah riescano a realizzare la «Mezzaluna sciita» ovvero la continuità territoriale fra l'Iran e gli alleati in Iraq, Siria e Libano. La risposta di Teheran è arrivata con l'accusa a Riad di «aver commesso il più grande degli errori alleandosi a Israele», definendo per la prima volta con chiarezza lo scenario di un possibile conflitto fra due schieramenti: il fronte sciita guidato dall'Iran e quello sunnita guidato dai sauditi in crescente convergenza strategica con Israele. Lo Stato Ebraico in effetti teme quanto Riad una Siria nelle mani dell'Iran, ed a dimostrarlo sono le rivelazioni sulla costruzione di una base militare dei pasdaran ad Al-Kiswa, appena 13 km a Sud di Damasco. Nelle ultime settimane Israele ha fatto trapelare nomi e fotografie di alti ufficiali iraniani ed Hezbollah impegnati in Siria, avvalorando i timori sauditi sul progetto degli ayatollah di trasformare il regime di Assad in un possedimento.
   Se a ciò aggiungiamo che la Turchia di Erdogan punta a creare una propria enclave nella regione siriana di Idlib e minaccia l'intervento nel Rojava contro i curdi sostenuti da Washington non è difficile comprendere l'urgenza che ha spinto Trump e Putin ad inviare a tutti i contendenti in Medio Oriente un messaggio tanto essenziale quanto brusco: la guerra al Califfato jihadista ancora non è finita dunque non è il momento di iniziare altri conflitti. L'intento è esercitare assieme una inedita formula di deterrenza e guadagnare margini per cercare di concordare a Ginevra una fine della guerra civile in Siria capace di evitare lo scontro fra sauditi ed iraniani. Ma il tempo gioca contro la vulnerabile intesa Trump-Putin. In Medio Oriente infatti le percezioni contano più dei fatti ed in questo momento l'impressione prevalente è che Teheran e Riad siano in aperta rotta di collisione.

(La Stampa, 12 novembre 2017)


Natalie Portman vince il 'Nobel ebraico'

Prima donna a ottenere premio. Cerimonia a giugno a Gerusalemme

Natalie Portman
ROMA,- Natalie Portman ha vinto il Genesis Prize, il cosiddetto Nobel ebraico. Il premio, da 1 milione di dollari, viene assegnato ogni anno a chi, per i risultati professionali e la dedizione ai valori ebraici, può essere d'ispirazione alle nuove generazioni di ebrei. A renderlo noto è Pagine Ebraiche, la rivista delle comunità ebraiche italiane. Portman, Oscar nel 2011 per Black Swan di Darren Aronofsky, regista e interprete di 'Sognare è vivere' (2015) tratto da 'Storia d'amore e ombra' di Amos Oz e girato interamente in ebraico, è stata premiata perché "rappresenta i tratti salienti del carattere ebraico e i valori del nostro popolo con la sua tenacia, il duro lavoro, la ricerca dell'eccellenza, la curiosità intellettuale e il desiderio sincero di contribuire a rendere il mondo un posto migliore" ha detto Stan Polovets, chairman e co-fondatore del premio. Portman, nata in Israele e cresciuta negli Usa, è la prima donna a essere insignita del Genesis Prize. La premiazione a giugno 2018 a Gerusalemme.

(ANSA, 12 novembre 2017)


Sciiti e sunniti corrono verso la seconda fase della guerra

Teheran e Riad capofila del nuovo conflitto che incombe sul Medio Oriente. Lo scacchiere include Libano, Siria, Iraq, Giordania e Israele

di Giordano Stabile

BEIRUT - L' accordo fra Donald Trump e Vladimir Putin può rendere meno cruenta l'ultima fase della guerra civile in Siria ma non risolve nessuno dei nodi che possono portare al prossimo conflitto in Medio Oriente. La distruzione del Califfato, nelle sue fasi finali, e l'emergere di forze militari che non rispondono agli Stati ma a logiche settarie, confessionali o etniche, hanno trasformato in profondità la Mesopotamia, o se vogliamo, quello spazio che gli arabi levantini chiamano il BiIad al-Sham, e che comprende Libano, Siria, Iraq e Giordania. Il nuovo assetto, estremamente fragile, coinvolge tutti questi Stati, e Israele. I due fronti principali, quello sciita e quello sunnita, più lo Stato ebraico, stanno già posizionando le loro pedine per la seconda fase della grande guerra mesopotamica cominciata nel 2011 sull'onda della Primavera araba. Vediamo come.

 L'autostrada sciita
  L'assetto è fragile prima di tutto perché il fronte sunnita, e tanto meno Israele, non accettano l'esito della prima fase della guerra. Arabia Saudita, Qatar e Turchia hanno giocato male le loro carte. Hanno puntato su una insurrezione sunnita per rovesciare il governo filo-iraniano di Bashar al-Assad e controbilanciare l'Iraq del dopo Saddam, diventato una potenza sciita legata a doppio filo a Teheran. La situazione è però sfuggita di mano, ed è emersa una forza jihadista sunnita, l'Isis, completamente fuori controllo e che è dilagata sia in Siria sia in Iraq. È stato necessario abbandonare man mano la ribellione anti-Assad, e l'Occidente si è ritrovato alleato obtorto collo dell'Iran e della Russia contro lo Stato islamico. Il risultato è che i sunniti sono stati annientati nel Bilad al-Sham, il raiss siriano saldo a Damasco, l'Iran sta costruendo la sua prima base permanente vicino alla capitale. Siria e Iraq ora sono uniti come non lo sono mai stati in 70 anni: fra il Mediterraneo e l'Iran, lungo la cosiddetta «autostrada sciita», sono libere di muoversi milizie sciite che contano su centinaia di migliaia di uomini e rispondono principalmente all'Iran.

 Il fronte libanese
  Al di là delle strette di mano fra Trump e Putin in Vietnam, le preoccupazioni degli alleati dell'Occidente nella regione sono a livello d'allerta. Sia per l'Arabia Saudita sia per Israele la priorità è tagliare in qualche modo l'autostrada sciita. Ma le due potenze più attive nel contrastare l'egemonia iraniana in Mesopotamia agiscono su binari diversi. Riad, con l'impulsività che sembra contraddistinguere il principe ereditario Mohammed bin Salman, ha puntato a far esplodere il Libano e a costringere Hezbollah e le altre milizie iraniane a dissanguarsi in una guerra civile. Ma finora il risultato è di aver rinsaldato la debole coscienza nazionale libanese, che pure esiste. Anche i partiti sunniti chiedono il ritorno del premier Saad Hariri a Beirut, e percepiscono come un affronto il fatto che sia trattenuto in qualche modo in Arabia.

 Il fronte Nord
  La visione israeliana, e delle forze armate americane, è più prudente. Una guerra in Libano avrebbe conseguenze negative anche in Israele. Per tagliare «l'autostrada sciita», in tempi più lunghi, il Pentagono ha posizionato le sue forze sia a Nord sia a Sud dell'asse Baghdad-Deir ez-Zour-Palmira-Damasco. A Nord operano con grande efficacia le Forze democratiche siriane, costituite in gran parte da guerriglieri curdi dello Ypg. Sono a pochi chilometri da Deir ez-Zour, e dalla città alla frontiera siro-irachena di AI-Bukamal, dove l'Isis ha organizzato l'ultima resistenza. Nei territori conquistati, il «Rojava», gli Usa hanno impiantato una dozzina di basi con circa 4 mila soldati. Il punto debole dello schieramento è l'ostilità totale della Turchia, Paese Nato, che considera lo Ypg nient'altro che il ramo siriano del Pkk. La pressione di Ankara si sta facendo sentire anche in Iraq, perché il presidente turco Recep Tayyip Erdogan chiede a Baghdad di occupare e chiudere il posto di frontiera di Fish Khabour, fra il Kurdistan iracheno e quello siriano, in modo da bloccare i rifornimenti ai curdi.

 Il fronte Sud
  Sul lato meridionale dello scacchiere l'America dispone di un alleato affidabile come la Giordania, restio però a imbarcarsi in avventure militari. I ribelli addestrati ad Amman dal Pentagono hanno dato scarse dimostrazioni di forza. L'unico obiettivo raggiunto è stato la conquista del posto di frontiera di Al-Tanf, fra Giordania, Siria e Iraq. E' una piccola base con qualche centinaio di uomini delle forze speciali. Una testa di ponte che però potrebbe allargarsi in caso di conflitto generalizzato. Una base di dimensioni simili è stata costruita anche sul versante iracheno, 20 chilometri a Sud della cittadina di confine di Al-Qaim. Lo scopo ufficiale di questi avamposti è di «supporto alla guerra all'Isis», anche perché gli islamisti si muovono ancora nelle zone desertiche a cavallo di Siria e Iraq e lanciano contrattacchi improvvisi. Ma in prospettiva queste sono le pedine che verranno mosse per prime contro «l'autostrada sciita».

(La Stampa, 12 novembre 2017)


Israele, laboratorio per la smart mobility

Il Paese vuole diventare una superpotenza del trasporto intelligente e si pone come hub di ricerca e investimenti.

di Francesca Cerati

 
Semafori che cambiano a seconda dello stato del traffico, autobus che si fermano in base al numero di persone in attesa, automobili che comunicano tra loro (v2v) per motivi di sicurezza o di gestione della circolazione, garage in cui i parcheggi si trovano, veicoli che frenano autonomamente per evitare un incidente, e anche - seppur non prima del 2030 - una transizione verso le vetture senza conducente.
   È questo il futuro che ci aspetta, quello in cui decine e centinaia di milioni di persone che vivono nelle grandi città non useranno più le auto di proprietà, ma "chiameranno" premendo semplicemente un pulsante, un'auto autonoma che arriverà in pochi minuti con o senza la "supervisione" di un guidatore, che li porterà a destinazione nel modo più breve, economico e green.
   Il trasporto intelligente è la tecnologia "disruptive" su cui Israele punta con l'intento di diventare una superpotenza, la Detroit del terzo millennio, ridisegnando il sistema dei trasporti. Del resto la "Startup nation" sulle rive orientali del Mediterraneo ha un netto vantaggio quando parliamo di tecnologie cloud avanzate, big data, intelligenza artificiale, cyber security e machine vision. A questo si aggiunge il fatto che il governo del paese, ispirato dai successi di Waze (acquistata per 1,1 miliardi di dollari da Google nel 2013), Moovit (l'applicazione numero uno al mondo per chi si muove con i mezzi pubblici) e Mobileye (comprata da Intel per 15,3 miliardi di dollari lo scorso marzo), ha deciso all'inizio di quest'anno di sovvenzionare con 250 milioni di shekel in 5 anni l'industria della smart mobility - che potrebbe valere più di 90 miliardi di dollari entro il 20 30 - tracciando una road map ben definita, le cui linee guida sono state stabilite dalla squadra del Fuel Choices and smart mobility initiative che fa capo all'ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu.
   Il piano ha 6 punti chiave: assegnare il territorio per la sperimentazione del trasporto; rendere accessibili tutti i database dei trasporti pubblici a coloro che desiderano sviluppare soluzioni tecnologiche; promuovere la cooperazione tra l'industria e il mondo accademico - creando un Mit israeliano che riunirà i dipartimenti di geografia, ingegneria, architettura, pianificazione urbana con l'Ufficio del Chief Scientist per promuovere le idee tecnologiche nel settore dei trasporti; cambiare la regolamentazione per consentire di condurre esperimenti di guida autonoma; sostenere programmi pilota; mappare in maniera completa ogni strada (crepe comprese), parcheggi, intersezioni e set di semafori esistenti in Israele.
   «Con una popolazione tecnofila e una mentalità da startup - commenta il ministro dell'Energia e dell'infrastruttura Yuval Steinitz nel corso del summit Fuel choices and smart mobility che si è appena concluso a Tel Aviv - il Paese è di fatto un laboratorio ottimale di innovazione per l'industria automobilistica globale, per dimostrare come la mobilità intelligente può ridurre gli ingorghi, gli incidenti, l'inquinamento, risparmiando energia e altri costi inutili. E diventare, di fatto, un faro anche in tema di regolamentazione del settore per tutti gli altri Paesi». I dilemmi morali, legali e di sicurezza sono infatti al centro del sistema di intelligenza artificiale e dell'auto autonoma. Prima di far guidare un veicolo a un robot, i regolatori dovranno "immergersi" nella tecnologia.
   Ma i veicoli autonomi non influenzeranno solo il campo delle responsabilità, la loro introduzione richiederà anche cambiamenti del design urbano: dalla segnaletica ai parcheggi, tutti andranno adattati se il trasporto intelligente diventerà la norma. Sforzi tutt'altro che banali e che richiedono la collaborazione di tutti: ministeri, agenzie, tecnici, avvocati, politici e accademici al fine di definire il modo migliore per andare avanti.
   «Il termine mobilità sta per essere riscritto e ridefinito a fronte del progresso tecnologico, delle modifiche normative e dei cambiamenti nel comportamento degli utenti - sostiene Anat Bonstein, direttrice del Fuel Choices and smartmobility initiative, all'apertura del summit a cui Nòva ha partecipato -. Questo cambiamento fondamentale permetterà a nuovi attori e modelli aziendali di entrate nel mercato e le società israeliane hanno un vantaggio competitivo, nonostante il paese non abbia una tradizione nella produzione di auto». Ma forse è proprio la mancanza di lobby da difendere che ha permesso di far crescere nuove aziende che guardano al settore da un'angolatura diversa: dalle lamiere al software.
   A oggi, in Israele sono all'attivo oltre 500 imprese (molte della quali sono startup) dedicate ai vari aspetti della smart mobility, che raccolgono facilmente investimenti anche da venture capitai internazionali, con un aumento del volume del capitale di rischio del 176% dall'inizio del decennio. Ma anche partenariati con le principali aziende automobilistiche, che qui investono e aprono nuove sedi, nella speranza di non perdere la partita con i nuovi competitor dell'auto come Intel, Apple, Samsung, Google, Uber. E più la tecnologia automobilistica si sposta nella direzione del software, più Israele diventa la terra promessa.
   «Non c'è dubbio che la tecnologia del trasporto intelligente sta cambiando radicalmente il modello di business dei produttori di automobili, degli operatori del trasporto pubblico e dei ministeri dei trasporti in tutto il mondo - precisa Israel Danziger, direttore generale del ministero della Protezione ambientale -.Tra i nostri obiettivi c'è anche quello di ridurre la percentuale di petrolio impiegato nel settore dei trasporti del 60% entro il 2025 attraverso l'implementazione di fonti alternative e soluzioni di smart mobility. Un esempio di ecosistema dell'innovazione "olistico" da esportare in tutto il mondo.

(Nòva, 12 novembre 2017)



Gesù, nostro sommo sacerdote

Avendo dunque un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i cieli, Gesù, il Figlio di Dio, restiamo fermi nella fede che professiamo. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovare grazia ed essere soccorsi al momento opportuno.

Dalla lettera agli Ebrei, cap. 4


 


Il Libano in crisi e i venti di guerra tra Hezbollah e Israele

di Davide Frattini

L'aereo di Saad Hariri è atterrato vuoto giovedì scorso all'aeroporto di Beirut. Il primo ministro (come ancora lo considerano i libanesi) è rimasto in Arabia Saudita, quei sedili senza passeggero hanno riportato a casa le paure dei quindici anni di guerra civile. Quando tra il 1975 e il 1990 il Libano è diventato la striscia più importante sulla mappa del Risiko sanguinoso giocato dalle potenze mediorientali. Vicini ingombranti che tornano a sfidarsi sulla costa del Mediterraneo, l'ultima volta hanno lasciato solo macerie. Gettate in mare e ripulite anche grazie ai soldi sauditi che hanno finanziato le ruspe e le imprese proprio della famiglia Hariri. Saad proclama (ma il Washington Post rivela che il discorso di dimissioni sarebbe stato dettato dai principi del Golfo) di non voler far la fine del padre, massacrato da un'autobomba il 14 febbraio del 2005. I sauditi assicurano i diplomatici occidentali di averlo trattenuto per proteggerlo, i libanesi (anche i compagni di partito) pretendono sia rimandato a casa, lo considerano un prigioniero politico. Ostaggio dello scontro che Mohammed bin Salman, il principe ereditario, è convinto di poter vincere: quello tra l'Arabia Saudita e l'Iran, tra i sunniti e gli sciiti, per la supremazia nella regione. Il giovane leader, 32 anni, spera che il lavoro sporco glielo facciano gli israeliani, anche se con loro non ha relazioni diplomatiche ufficiali (ma sempre più obiettivi comuni). La tensione innalzata dal caso Hariri (sarebbe la strategia) potrebbe spingere Hezbollah, che dell'Iran è il braccio armato e politico più potente in Libano, ad attaccare Israele. O il premier Netanyahu potrebbe vedere l'opportunità di far arretrare con un intervento l'espansione degli ayatollah sul confine nord. Un gioco pericoloso che ha spinto Dan Shapiro (fino a pochi mesi fa ambasciatore americano a Tel Aviv) ad avvertire il governo israeliano con un intervento su Haaretz: «Non si lasci manovrare dai sauditi in un conflitto prematuro, la decisione va presa al momento più giusto per combattere». Anche per altri analisti la prossima guerra tra Israele ed Hezbollah è solo questione di quando.

(Corriere della Sera, 12 novembre 2017)

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L'esperto israeliano: il Libano di nuovo sull'orlo della guerra civile

 
Meir Litvak, direttore del Centro di Studi iraniani dell'università di Tel Aviv
C'è un crescente rischio di un incidente che inneschi una nuova guerra fra Israele e la milizia sciita libanese filo iraniana Hezbollah sul duplice fronte del Libano e Siria, anche se le due parti non vogliono il conflitto. A dirlo è Meir Litvak, direttore del Centro di Studi iraniani dell'università di Tel Aviv, intervistato dall'Adnkronos sui nuovi scenari che si aprono in Medio Oriente con i nuovi sviluppi della guerra in Siria e della crisi in Libano.
   "La sensazione prevalente in Israele è che al momento Hezbollah non voglia una guerra con noi dal Libano, e neanche noi la vogliamo. Ma le cose potrebbero cambiare a causa di un incidente o un errore di calcolo", avverte il professor Meir. "C'è un crescente rischio di guerra per due ragioni", spiega, ricordando che Israele continua ad attaccare in Siria "i convogli che portano armi iraniane avanzate ad Hezbollah". "Assad si sente ora più fiducioso e i siriani cominciano a sparare ai nostri aerei. Inoltre il capo di stato maggiore iraniano, generale Baqeri, ha affermato che non subirà gli attacchi israeliani. Se colpirà i nostri aerei, o compirà una rappresaglia importante - nota Meir - potrebbe esserci una escalation". È un "fatto altrettanto grave, se non di più, che l'Iran ha delle milizie sciite in Siria le quali dichiarano apertamente la loro intenzione di lanciare attacchi contro di noi nel Golan. Al momento non sono a ridosso del confine, ma questo può cambiare".
   Meir si dice "certo che non vi sia stato un ruolo israeliano" nella crisi libanese. "Le ragioni - spiega - sono tre: ci siamo resi conto che intervenire nella politica araba, specie quella libanese, è troppo complicato per noi e può rivelarsi controproducente. In secondo luogo il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu è una persona molto prudente. Così come ha fatto attenzione a non intervenire in Siria sapendo che tale intervento avrebbe portato a importanti combattimenti, sono certo che ritenga che un intervento in Libano possa essere la causa di una futura guerra. Il terzo punto è che non abbiamo partner o alleati in Libano, tutti ci detestano o provano risentimento verso di noi".
   "La convinzione in Israele - dice ancora il professore - è che a breve termine sarà impossibile sloggiare Hezbollah dalla sua posizione di potere dominante nella politica libanese, per ragione demografiche (è il maggior gruppo), perché è l'unico gruppo armato e perché è sostenuto dall'Iran". Meir dice infine di non sapere se il primo ministro libanese Saad Hariri sia prigioniero a Riad. Ma aggiunge: "il fatto che non appaia in pubblico" da quando ha annunciato le dimissioni "potrebbe essere un segno che lo sia".

(Il Secolo d'Italia, 11 novembre 2017)


Ruth Dureghello: «Il problema non sono gli ultrà, ma chi non sa cos'è Auschwitz»

Cosa è maturato quasi ottanta anni dopo l'emanazione delle leggi razziali in Italia, cosa è rimasto di quella gigantesca tragedia nel tessuto della nostra società? Il nostro è un paese razzista? La voce ferma di Ruth Dureghello, 48 anni, sposata, tre figli, presidente della Comunità ebraica di Roma.

di Fabrizio Roncone

Ruth Dureghello
Forse è il caso di fare chiarezza: il problema non sono solo gli ultrà della Lazio che attaccano le foto di Anna Frank con la maglia giallorossa nella curva della Roma, o il presidente Lotito che poi porta una corona di fiori in Sinagoga pensando di fare una sceneggiata.

- Continui.
  Il problema è capire cosa è maturato quasi ottanta anni dopo l'emanazione delle leggi razziali in Italia, cosa è rimasto di quella gigantesca tragedia nel tessuto della nostra società.

- Poco, direi: è rimasto molto poco.
  Ecco: e allora è da qui che deve partire tutto il ragionamento. Perché la verità è che c'è un deficit. Enorme. E pericolosissimo. Aggiungo: la nostra Costituzione certi valori li contiene e difende. Ma, dobbiamo chiederci, quanto sono davvero radicati? E i giovani, soprattutto i giovani, quanto e come percepiscono il dramma del fascismo?

- Negli stadi si tifa con il braccio teso. La scritta Dux è un tatuaggio assai diffuso nelle palestre.
  Per questo credo sia opportuno chiederci che genere di pulsioni hanno i giovani e quanto rischiano di essere preda del reclutamento che le nuove destre organizzano, in modo militare, nel mondo delle tifoserie. Detto questo…

- Le leggi ci sarebbero.
  Infatti il tema della legalità è centrale. Perché o ci sono gli strumenti di legge per difendere certi valori, e allora si devono applicare; oppure, se manca qualcosa, si torni con urgenza nelle aule parlamentari.

- Io temo ci sia anche un problema legato alla magistratura che mal interpreta.
  Sono d'accordo. Spesso i magistrati tendono a valutare il braccio teso come un gesto violento ma qualunquista. Un errore grave. Perché non si può banalizzare e dire: sono solo due scemi.

- Lei non pensa che…
  Guardi: io penso che il tema di Anna Frank non sia un tema ebraico, ma un tema civile. Che deve preoccupare più lei, che me. Perché i fratelli dei miei nonni ci sono andati ad Auschwitz. Io lo so che cosa significa.

(Io Donna, 11 novembre 2017)


Israele-Siria. Lieberman: "Risponderemo a qualsiasi violazione della nostra sovranità"

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, ha detto oggi che Israele risponderà con forza a qualsiasi violazione della sua sovranità, dopo che il sistema Patriot in dotazione all'esercito ha abbattuto un drone sulle Alture del Golan. "Il regime siriano è responsabile di ogni attacco e violazione della nostra sovranità - ha detto Lieberman - e non permetteremo che sia creato un asse sciita in Siria come base di azione". Funzionari israeliani hanno riferito che il drone è stato abbattuto al confine tra i due paesi mentre cercava di entrare nello spazio aereo dello Stato ebraico. Le forze di difesa israeliane hanno annunciato questa mattina in una nota l'abbattimento del drone spia. "Sembra essere di fabbricazione russa e appartiene al regime siriano", ha detto il portavoce militare, colonnello Jonathan Conricus. "Si trattava di un drone da ricognizione e non di un drone da attacco, stiamo verificando se ci sia una connessione con l'Iran o con Hezbollah", ha aggiunto Conricus. Lo scorso 21 ottobre Israele ha colpito tre postazioni di artiglieria siriana in risposta al lancio di almeno cinque razzi caduti oltre le alture del Golan in territorio israeliano.

(Agenzia Nova, 11 novembre 2017)


Israele verso un'offensiva diplomatica contro l'Iran ed Hezbollah all'Onu

GERUSALEMME - Israele intende chiedere alle Nazioni Unite la rigida applicazione dell'accordo del 2006 sul cessate il fuoco nel Libano meridionale. Lo ha affermato Israel Katz, ministro per l'Intelligence del governo israeliano. Citato dal quotidiano locale "Jerusalem Post", Katz ritiene che, negli ultimi anni, il partito sciita libanese Hezbollah "abbia ampliato la sua attività in Libano in violazione sistematica delle risoluzioni dell'Onu". Katz ha parlato prima di un viaggio negli Stati Uniti, previsto tra qualche settimana. La visita prevede anche un incontro con il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres. In tale occasione, il ministro intende discutere dell'applicazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha posto fine al conflitto del 2006 tra Israele ed Hezbollah nel Libano meridionale. La guerra ebbe origine dalla rappresaglia dell'esercito israeliano per il rapimento di due suoi militari compiuto dal movimento sciita. La risoluzione dell'Onu chiede, tra l'altro, il disarmo delle milizie libanesi, tra cui Hezbollah, invita il governo di Beirut ad assicurare il controllo del territorio e prevede che la Forza di interposizione delle Nazioni Unite sia l'unica formazione armata a sud del fiume Litani.

(Agenzia Nova, 11 novembre 2017)


Hezbollah attacca: "Il premier libanese è prigioniero di Riad"

Solidarietà a Hariri contro i sauditi. Macron cerca una mediazione.

di Giordano Stabile

Saad Hariri ancora non torna in Libano e si moltiplicano le pressioni nazionali e internazionali, a cominciare dalla visita del presidente francese Emmanuel Macron a Riad, per disinnescare una situazione esplosiva. Ieri il presidente libanese Michel Aoun ha convocato nella sua residenza a Baabda, sulle colline di Beirut, il chargé d'affaires saudita, che fa le veci dell'ambasciatore, per ribadire che le dimissioni del primo ministro, annunciate dal territorio di uno Stato straniero, sono «inaccettabili». E infatti non le ha ancora accolte. Ma la vera bordata contro l'Arabia Saudita è arrivata dal leader di Hezbollah, il movimento sciita alleato dall'Iran.
   Hassan Nasrallah ha dedicato gran parte del discorso del venerdì alla crisi. Senza le remore diplomatiche di Aoun, ha denunciato che Hariri «è detenuto a Riad» e che le sue dimissioni sono state «imposte» e quindi sono «incostituzionali» perché pronunciate «sotto pressione». Un «complotto» organizzato dal principe ereditario Mohammed bin Salman per scatenare un altro conflitto settario in Libano. «Diciamocelo chiaramente - ha insistito -: è chiaro che l'Arabia Saudita ha dichiarato guerra al Libano. Ma i sauditi falliranno in Libano come hanno fallito su tutti gli altri fronti».
   Poi il leader religioso si è rivolto all'altro grande avversario, Israele. Ha accusato Riad di «incoraggiare» lo Stato ebraico ad attaccare il Libano. Un blitz, ha argomentato, non può essere escluso, «ma è improbabile perché Israele sa che pagherebbe un prezzo molto alto. Forse gli israeliani pensano che in questo momento siamo in difficoltà ma li avverto, non fate calcoli sbagliati e non cercate di approfittare della situazione perché ci sentiamo più forti che mai di fronte a ogni minaccia».
   L'offensiva saudita ha però avuto qualche effetto sullo schieramento militare di Hezbollah, che può contare su circa 40 mila combattenti, da 10 ai 15 mila in Siria. Alcune unità sarebbero state richiamate in Libano, anche se non ci sono conferme ufficiali. Segno che il «Partito di Dio» mette in conto un attacco. Anche perché il Segretario di Stato americano Rex Tillerson ieri si è schierato con gli alleati sauditi e ha ribadito che in Libano «non ci può essere posto per milizie o gruppi armati o forze straniere», cioè lo stesso Hezbollah ed eventuali consiglieri iraniani.
   La posizione europea sembra più prudente. Il presidente francese Emmanuel Macron, che si trovava già negli Emirati Arabi Uniti, ha fatto una tappa non prevista a Riad per incontrare Mohammed bin Salman. Parigi è storicamente una «protettrice» del Libano, in particolare della comunità cristiana. L'obiettivo della visita era «preservare la stabilità della regione» e ribadire «l'attaccamento francese alla sicurezza e alla sovranità» del Libano.
   Macron è andato incontro alle preoccupazioni saudite quando ha accusato l'Iran di aver fornito ai ribelli sciiti dello Yemen il missile che sabato scorso ha colpito l'aeroporto di Riad. Ma ha anche ribadito che non vuol vedere stracciato l'accordo fra l'Occidente e Teheran sul nucleare, per non trasformare la Repubblica islamica in «un'altra Corea del Nord». Il leader francese non ha però incontrato Hariri come sembra avesse chiesto. Anche se poi il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha precisato che il premier libanese «è libero di muoversi», il giallo non è del tutto risolto.

(La Stampa, 11 novembre 2017)


Israele abbatte un drone vicino il confine siriano

L'esercito israeliano ha abbattuto un drone vicino il confine con la Siria, si afferma in un comunicato dei militari dello Stato ebraico.
I militari non hanno specificato l'appartenenza e il tipo di velivolo che aveva cercato di entrare nello spazio aereo d'Israele presso le alture del Golan.
"Le forze di difesa d'Israele hanno intercettato un drone mentre cercava di entrare nello spazio aereo israeliano", si legge nel testo del comunicato.
Il velivolo è stato abbattuto dal sistema di difesa aerea Patriot.
Israele dichiara di non interferire negli eventi in Siria, tuttavia ammette di svolgere regolarmente operazioni militari in questo Paese. Le autorità israeliane spiegano queste azioni per impedire che armi moderne finiscano in mano a gruppi ostili allo Stato ebraico, in primo luogo Hezbollah. Il movimento sciita libanese sponsorizzato dall'Iran nel passato ha spesso combattuto contro le forze israeliane, tuttavia ora sta combattendo in Siria dalla parte delle forze del presidente Bashar Assad.

(Sputnik, 11 novembre 2017)


Napoli - Alla scoperta della sinagoga, tra storia della comunità e cultura ebraica

di Emanuela Sorrentino

La Sinagoga di Napoli
NAPOLI - Una domenica in visita alla Sinagoga: è la proposta della cooperativa Sire pensata per domattina. Un itinerario nello storico Palazzo Sessa (in vico Santa Maria a Cappella Vecchia) che inizierà alle 10. L'appuntamento è organizzato grazie alla disponibilità della Sinagoga di Napoli, tornata a nuovo splendore dopo i restauri effettuati con il contributo del ministero dei Beni culturali.
Anche se la presenza ebraica in città risale al I secolo, come dimostrano le numerose tracce presenti nel tessuto urbano della città e nella toponomastica, la Sinagoga attuale è testimonianza della rinascita ottocentesca della vita ebraica a Napoli. Fu, infatti, la famiglia di banchieri tedeschi Rothschild che, dopo il decennio francese, concesse un ingente prestito ai Borbone per permettere il rientro di Ferdinando sul trono di Napoli.
Dopo l'Unità d'Italia, essendosi molte famiglie ebree trasferite a Napoli, venne fondata la Comunità israelitica e presi in affitto i locali di via Cappella Vecchia per le funzioni religiose. Questo e molto di più sulla vita della comunità si scoprirà nel corso della visita, accompagnati da una guida che illustrerà la storia della Comunità, passata e contemporanea, fornendo contemporaneamente cenni di ebraismo. Su richiesta della Sinagoga i prenotati, al momento della visita, dovranno mostrare la carta di identità. Gli uomini, inoltre, saranno ammessi solo a capo coperto. Gli organizzatori per questo indicano ai partecipanti di portare con sé un cappello. Il raduno dei prenotati sarà alle ore 10 in piazza dei Martiri (lato palazzo Calabritto ), la visita guidata terminerà alle 12.30.

(Il Mattino, 11 novembre 2017)


Ma che fine hanno fatto gli ebrei siracusani?

SIRACUSA - Conosciamo tutti la Giudecca, storico quartiere ebraico siracusano. Le testimonianze dell' impronta ebraica sono molteplici; il più noto è il miqweh (ipogeo ebraico) in Via Alagona, ma non è l'unico. Infatti, nell'area sottostante le chiese di San Giovanni Battista meglio nota come San Giovannello e San Filippo apostolo, sorgono due miqweh.
Ma qual è la storia degli ebrei siracusani?
Essi si stanziarono in epoca romana nel quartiere Acradina, fuori le mura della città, perché - come in tutta Europa - la popolazione ebraica veniva discriminata, gli ebrei erano conosciuti come usurai e malfattori.
Nel '400 si stanziarono dentro le mura nel quartiere della Giudecca, rendendolo un vero e proprio ghetto ebraico, ma purtroppo neanche in questo modo trovarono pace: si continuò a discriminarli fortemente, finché il re Ferdinando non li obbligò ad una conversione forzata, accusandoli di aver finanziato i saraceni in guerra con i cattolici.
Gran parte della popolazione emigrò in Calabria, successivamente a Salonicco in Grecia, finché non vennero deportati.
Dei pochi rimasti a Siracusa si ha notizia fino agli anni '30 del secolo scorso, è cosa incerta se vennero deportati oppure emigrarono.
Ma che fine hanno fatto gli ebrei siracusani?

(I Fatti Siracusa, 11 novembre 2017)


Qualcuno sa rispondere?


Israele si addestra alla guerra contro l'Iran con aerei di Usa, Italia e Germania

L'aeronautica israeliana ha organizzato esercitazioni aeree non segrete con paesi alleati per simulare una eventuale guerra contro Hezbollah o l'Iran in cui potenzialmente potrebbero intervenire anche i caccia dell'aviazione russa.
Nella base aerea di Uvda, nel deserto del Negev, fino al 16 novembre sono state rischierate decine di aerei di Stati Uniti, Italia, Francia, Germania, Grecia, Polonia e perfino India, la superpotenza asiatica che è diventato un alleato sicuro di Israele dal punto di vista militare.
Le esercitazioni non sono state tenute segrete, ma anzi l'ufficio stampa dell IDF (Israeli defence forces) ha aperto ai giornalisti la base e ha permesso interviste con gli ufficiali. Un uso "politico" dell'esercitazione che comunque non fa passare in secondo piano la sostanza militare: 40 aerei stranieri e 30 jet israeliani si sono addestrati a partiti contrapposti ("blu" gli stranieri, "rossi" gli israeliani) in una simulazione che di solito segue impostazioni fornite dagli americani.
L'altra faccia della medaglia è la conferma che il clima in tutto il Medio Oriente sta peggiorando rapidamente.

(Imola Oggi, 10 novembre 2017)


Neturei Karta intervistato da "Islamshia"

Riportiamo questo articolo da un blog dichiaratamente antisionista. Si tratta di un'intervista a un noto, piccolo gruppo ebraico che per motivi religiosi si schiera appassionatamente contro lo Stato d'Israele. Non ignoriamo o sottovalutiamo questa posizione; riteniamo anzi utile renderla nota affinché chi legge possa valutarla e dire se è d'accordo o no. E perché. NsI

- E' vero che i Neturei Karta appoggiano la sovranità palestinese su tutta la Terra Santa?

  La nostra risposta è inequivocabilmente Si. Comunque la risposta ha bisogno di qualche precisazione. Noi siamo un'organizzazione ortodossa antisionista: la nostra opposizione al sionismo si articola su vari livelli.
1) L'ideologia sionista costituisce una trasformazione dell'ebraismo da religione e spiritualità a nazionalismo e materialismo.
2) Il sionismo si è macchiato di gravi colpe nel trattamento del popolo palestinese.
3) L'Onnipotente ci ha espressamente proibito di ricreare la nostra identità nazionale durante questo nostro esilio da Lui ordinato.
4) La creazione di uno stato in Palestina nega la natura Divina della punizione dell'esilio del popolo ebraico e cerca di porre rimedio a una condizione spirituale con mezzi materiali.
5) Il sionismo ha dedicato molte delle sue energie a sradicare la tradizionale fede ebraica.

- Qual'è la vostra posizione?
  Noi chiediamo, senza compromessi, lo smantellamento pacifico dello Stato di 'Israele'. La decisione di permettere o meno agli Ebrei di rimanere in Terra Santa dopo la conclusione di tale processo di smantellamento dipende interamente dai leader e dal popolo palestinese.

- Non temete le possibili conseguenze per gli Ebrei che vivono in Terra Santa?
  In realtà, noi temiamo di più per gli Ebrei che si trovano nella condizione attuale, una condizione senza speranza. Dopo quasi settant'anni, numerose guerre, continue azioni terroristiche e antiterroristiche, con la morte di civili innocenti da ambo le parti, non c'è alcuna soluzione in vista. Sia la destra che la sinistra israeliana hanno miseramente fallito nel loro tentativo di correggere questa situazione. Noi offriamo un'alternativa a quello che si è rivelato un tragico esperimento.

- Ma, gli Ebrei non hanno diritto a una loro patria?
  Nessun Ebreo fedele alla propria religione ha mai creduto, nei 1900 anni di esilio del nostro popolo, di doversi riprendere la Terra con un'azione militare. Tutti hanno creduto invece che, alla fine dei tempi, quando il Creatore deciderà di redimere l'umanità intera, allora tutti i popoli si uniranno per adorarLo. Sarà quello un periodo di fratellanza universale, che avrà il suo centro spirituale nella Terra Santa. Fino a quel momento il popolo ebraico ha un particolare compito durante l'esilio.

- E qual è tale compito?
  Accettare con fede il proprio esilio e, nelle parole e nei fatti, agire in modo da diventare modello di comportamento etico e di spiritualità, e il tutto con atteggiamento semplice ed umile. In altre parole, compiere la volontà dell'Onnipotente attraverso lo studio della Torah, la preghiera e un comportamento retto.

- Come vedete il popolo palestinese?
  E' la vittima della cecità morale del movimento sionista e del suo rifiuto ostinato di prendere in considerazione l'esistenza di altri popoli. I Palestinesi hanno diritto alla propria patria. E hanno diritto a un risarcimento finanziario per tutti i danni e le perdite subite negli ultimi decenni.

- Quali sono state le vostre azioni in tale ambito?
  Con l'aiuto dell'Onnipotente, noi spesso pubblichiamo dichiarazioni a sostegno di rivendicazioni palestinesi e in solidarietà con le loro sofferenze. Noi ci siamo uniti ai Palestinesi in proteste contro le violenze e gli abusi di cui sono stati vittime. Abbiamo cercato in genere di mantenere una presenza pubblica sia nel mondo ebraico che in quello islamico cosicché la venerabile tradizione ebraica di una opposizione religiosa al sionismo non fosse dimenticata. Per questo noi speriamo che, con l'aiuto dell'Eterno, la millenaria via della Torah possa ancora una volta prevalere in un futuro non lontano.

- Cosa pensate dei negoziati di pace, Annapolis, Road Map, accordi di Oslo e simili tentativi?
  Ogni sostegno per le sofferenze del popolo palestinese costituisce una piccolo vittoria ed è prova di una coscienza morale che ogni Ebreo dovrebbe avere. Tutti questi tentativi comunque, seppure dettati da buone intenzioni, sono destinati a fallire, in quanto agli Ebrei è proibito esercitare una sovranità politica sulla Terra Santa.
  Compito degli Ebrei è cercare la pace con tutti i popoli e non esercitare oppressione su nessun essere umano. Per tutte queste ragioni gli Ebrei sono obbligati a reintegrare i diritti dei Palestinesi e liberare la Palestina tutta. L'impresa sionista è destinata - a livello metafisico - a fallire sia sul piano morale che su quello pratico.

- Quale dovrebbe essere l'atteggiamento ebraico nei confronti del mondo islamico?
  Gli Ebrei debbono comportarsi in modo onesto e umano verso tutti i popoli. Il sionismo ha indotto molti Ebrei ad atti di aggressione contro il popolo palestinese. E' pertanto compito di tutti gli Ebrei correggere per quanto possibile questa situazione cercando la pace, la riconciliazione e il dialogo con il popolo palestinese e con il mondo islamico in genere. Questa è una delle grandi sfide spirituali del popolo ebraico: stabilire un rapporto morale con i propri fratelli musulmani.

- Realisticamente parlando, pensate che il vostro programma sia realizzabile?
  Per prima cosa va detto che il Creatore governa questo nostro mondo: a Lui tutto è possibile e verità e giustizia alla fine prevarranno.
  Secondo, esiste un profondo senso di disillusione e stanchezza fra gli Ebrei di tutto il mondo riguardo allo Stato d'Israele e al sionismo in generale. Molti si rendono conto che seguire i principi del sionismo porta a un vicolo cieco dopo l'altro. Si desidera una diversa soluzione. La nostra soluzione, che si fonda sull'antica tradizione ebraica, appare sempre più plausibile a molti e può, in un futuro non lontano - e con l'aiuto dell'Eterno - rivelarsi la soluzione decisiva.
  Fino a quel momento noi speriamo e preghiamo che non ci siano altri spargimenti di sangue, né tra gli Ebrei, né tra gli Arabi. Aspettiamo ansiosamente il giorno in cui molti arriveranno a comprendere che la via per la pace si trova nel ritorno del popolo ebraico alla propria missione nell'esilio, cioè servire l'Eterno e vivere con integrità ed onestà. Sarà quello il giorno in cui si realizzerà finalmente il sogno espresso nelle nostre preghiere: "Tutte le nazioni si uniranno per compiere il Tuo volere nell'integrità dei loro intenti" E, nelle parole del Salmista, (102: 23) "Nazioni e governi si uniranno per servire l'Onnipotente." Possa ciò accadere presto, durante le nostre vite. Amen.
  NKI è un Ente Morale (non-profit) ebraico religioso, impegnato a pubblicizzare le posizioni antisioniste degli Ebrei ortodossi di tutto il mondo, i quali si oppongono fermamente allo Stato d'Israele e alle sue azioni. I NKI viaggiano per il mondo allo scopo di partecipare a manifestazioni e conferenze, al fine di parlare in varie occasioni sulla opposizione di sionismo ed ebraismo. I portavoce dei NKI sono disponibili a parlare a convegni e presso università di tutto il mondo, come pure ad essere intervistati alla radio o alla televisione.

(Blog Maurizio Blondet, 8 novembre 2017, trad. Massimo Mandolini Pesaresi)


*

Presa di posizione sullo Stato d’Israele
  • Il popolo ebraico costituisce una nazione per un'esplicita volontà di Dio che non si è modificata con il tempo.
  • L'attuale Stato d'Israele, costituito sulla sua terra, non è il regno messianico promesso a Davide, ma esprime la precisa volontà di Dio di costituirlo in un futuro più o meno prossimo.
  • Dio non si aspetta che gli uomini edifichino il suo regno con le proprie mani, ma vuole verificare quale posizione ciascuno prende davanti alla manifestazione della sua volontà.
  • Con una serie di prodigi che possono soltanto essere chiamati miracoli, Dio ha fatto in modo che si ricostituisse sulla terra d'Israele la nazione ebraica.
  • Anche se per la ricostituzione di questa nazione Dio ha usato la sua potente autorità, ha voluto tuttavia che la fondazione dello Stato d'Israele avvenisse secondo gli usuali criteri di giustizia umana usati dalle nazioni affinché fosse evidente che chi vi si oppone è un ingiusto che vuole "soffocare la verità con l'ingiustizia" (Romani 1:18).
  • Dio ama tutti gli uomini, ma la Scrittura rivela che esiste una successione storica temporale che non può essere trascurata: Dio ama "prima il giudeo, poi il greco" (Romani 1:16), prima Israele, poi le altre nazioni, proprio come ogni uomo moralmente sano ama prima sua moglie, poi tutti gli altri. Si dovrebbe diffidare di chi dice di amare tanto il prossimo ma mostra di non essere capace di amare sua moglie.
  • Per il gentile che ha ottenuto il perdono dei suoi peccati credendo in Gesù come Signore e Salvatore, è - o dovrebbe essere - del tutto naturale sentirsi dalla parte d'Israele e schierarsi in sua difesa.
  • Poiché Gesù continua ad amare Israele e aspetta il momento di "ricondurre a Dio Giacobbe" (Isaia 49:5) , la comunione spirituale con Lui provoca - o dovrebbe provocare - sentimenti di solidarietà e particolare amore per i membri di quel popolo, indipendentemente da come reagiscono davanti alla testimonianza del Vangelo.
  • I veri credenti in Gesù devono aspettarsi, e accettare serenamente come parte del loro servizio di testimonianza, eventuali manifestazioni di anticristianesimo ebraico, ma devono essere del tutto intolleranti davanti a ogni forma di antisemitismo cristiano.
  • Il concetto di nazione ebraica è fondato giuridicamente sull'atto costitutivo della promessa di Dio fatta ad Abramo e costituisce un elemento fondamentale a sostegno dell'esistenza e dell'identità del popolo ebraico.
  • L'antisionismo, presentandosi come negazione del diritto degli ebrei ad avere una loro nazionalità, costituisce l'ultima forma di odio antiebraico. Il suo nome potrebbe essere "antisemitismo giuridico". Dopo l'antisemitismo teologico pseudocristiano e l'antisemitismo biologico pagano, quest'ultimo tipo di antisemitismo ha tutte le caratteristiche per diventare più esteso, più radicale, più viscido, e di conseguenza più pericoloso di tutti gli altri.



L'uomo che salvò gli ebrei

Roma - Alessandro Albertin in scena da martedì al Teatro India con «Perlasca. Il coraggio di dire no», testo sulla vicenda di Giorgio, Giusto tra le Nazioni.

di Laura Martellini

A stupire è la reazione dei ragazzi. Dapprima confusionari e distratti, pian piano vengono catturati dalla vicenda: a metà spettacolo non si sente più volare una mosca» racconta Alessandro Albertin, da martedì in scena al Teatro India con Perlasca. Il coraggio di dire no, una produzione dello Stabile con il Teatro De Gli Incamminati di Milano. Il titolo della fiction di successo con Luca Zingaretti del 2002 era Perlasca. Un eroe italiano. Qui la negazione contribuisce a farne una storia d'oggi. Spiega l'autore e interprete, diretto dalla sua compagna Michela Ottolini: «Perlasca era un macellaio. Negli anni della seconda guerra mondiale, si trovava in Ungheria a raccogliere carni da spedire in Italia per farne confezioni in scatola destinate ai soldati. Fascista convinto, rimase tutta la vita legato all'estrema Destra, ma, di fronte alla promulgazione delle leggi razziali e all'alleanza di Mussolini e Hitler, ebbe il coraggio di dire no».
   Si spinse anche oltre. Spacciatosi per il console spagnolo a Budapest, salvò dallo sterminio migliaia di ebrei, rilasciando permessi per le case protette dove sarebbero stati al riparo dalle incursioni delle Croci frecciate filonaziste. Solo in scena, Albertin ricostruisce l'epopea di Perlasca sconosciuta fino al 1988, quando alcuni ebrei superstiti lo scovarono a Padova dove lui, nativo del vicino comune di Maserà, era andato a vivere.
   «All'inizio rivolgo alcune domande al pubblico. Poi si entra nel vivo, attraverso il doppio meccanismo della narrazione in terza persona, e del dialogo fra gli attori della storia, tutti da me impersonati. Succede nei momenti cruciali: l'incontro con i gerarchi, il violento faccia a faccia con Eichmann, fra i maggiori responsabili della Shoah, la visita alle case protette. In scena solamente tre cubi di legno nero, che si trasformano in binari, in sedili. Alla scuola Paolo Grassi mi hanno insegnato che bastano un attore e una storia da raccontare». Ha tratto ispirazione della fiction tv? «Un lavoro bellissimo. Anch'io ho attinto dal libro di Enrico Deaglio La banalità del bene. Si contano sulle dita i libri dedicati a Perlasca. Sono originario degli stessi luoghi in cui crebbe. Mio padre è sepolto nel suo stesso cimitero. Ho sentito una spinta forte, anche personale, a riprendere in mano quel periodo. Luca Zingaretti mi è venuto a trovare durante una recita per le scuole, e oltre a complimentarsi ha provato un'autentica commozione».
   A dare una mano a Albertin anche la Fondazione gestita dal figlio di Giorgio, Franco, con la moglie Luciana Amodio. Prosegue l'attore: «Si domandava candido l'eroe comune da anziano: "Non avreste fatto lo stesso voi al posto mio di fronte ai morti ammazzati per strada?". Morì per niente ricco. Il vitalizio di due milioni di lire gli arrivò sei mesi prima della scomparsa. Dei premi quasi si lamentava. Troppi. Ma di uno in particolare andava fiero: il titolo di Giusto tra le Nazioni e l'alberello a lui dedicato allo Yad Vashem di Gerusalemme». Per i ragazzi «una lezione di vita che va oltre la Shoah: trovare lo slancio per passare all'azione, invece di postare mi piace su Facebook».

(Corriere della Sera - Roma, 11 novembre 2017)


"Crediamo in Trump per arrivare alla pace tra Israele e Palestina"

Malki, ministro degli Esteri dell'Anp: Obama si è fatto ingannare da Netanyahu. Anche l'Italia può diventare un partner importante per i negoziati futuri

«L'Arabia ha assicurato che non normalizzerà i rapporti con Israele prima della nascita di uno Stato Palestinese» «Noi e Israele siamo come gemelli siamesi: il loro Stato non resisterà a lungo senza la nascita di quello palestinese» «Non vedo una guerra tra sunniti e sciiti. Nella nostra regione se ne sta combattendo una contro il terrorismo»

di Francesca Paci

 
Il ministro degli Esteri palestinese Riad al Malki
Il ministro degli Esteri palestinese Riad al Malki, in carica da dieci anni, atterra a Roma per il summit intergovernativo con la Farnesina dopo un tour de force regionale insieme al presidente Abu Mazen. In Egitto ha ricevuto la benedizione alla riconciliazione nazionale, a Riad si è assicurato il rilancio del piano saudita per la pace con Israele, in Italia ha messo nero su bianco la collaborazione bilaterale sulla sicurezza, gli investimenti e la tutela del patrimonio culturale palestinese a cui al momento lavorano decine di gruppi archeologici italiani. La Stampa lo incontra al margine dell'incontro pubblico organizzato dall'Istituto Affari Internazionali.

- Ha visto re Salman durante le ore forse più critiche dell'Arabia Saudita. Com'è andata?
  «Molto bene per noi. So che c'erano grandi aspettative regionali perché siamo arrivati a Riad in contemporanea con i rappresentanti di altri Paesi, Libano e Yemen. In realtà l'Arabia Saudita ha voluto ribadire il suo impegno a fianco della legittima Autorità Palestinese e ci ha garantito che non normalizzerà i rapporti con Israele prima della nascita di uno Stato Palestinese indipendente sui confini del 1967 e con capitale Gerusalemme Est».

- Riad vi ha dato garanzie sul rilancio dell' Arab Peace lnitiative, il piano saudita adottato dalla Lega Araba nel 2002?
  «Ci siamo confrontati a lungo e su molte cose: la riconciliazione palestinese e gli insediamenti israeliani. Abbiamo ricevuto la garanzia che Riad lavorerà con l'amministrazione Usa affinché la soluzione della questione israelo-palestinese sia la precondizione per tutto il resto. Ci è stato assicurato anche un sostegno finanziario oltre che politico».

- Come legge il nuovo attivismo dell'amministrazione americana in Medioriente?
  «Sin dal suo ingresso alla Casa Bianca Trump ha mostrato impegno e entusiasmo per il rilancio dei negoziati. Ha incaricato alcuni suoi fidatissimi uomini di lavorare sul terreno, sembra intenzionato a fare presto. A settembre a New York ha parlato di due o tre mesi per creare le condizioni e un anno per iniziare a produrre qualcosa. L'ultima nostra delusione risale al 2014, quando Kerry cercò di portare a casa il risultato in extremis ma Netanyahu abbandonò il tavolo e non volle rilasciare i prigionieri politici palestinesi. Israele sembra non rendersi conto che il tempo sta finendo, che siamo come due gemelli siamesi e che lo Stato d'Israele non resisterà ancora a lungo senza la nascita di quello palestinese».

- Eppure si è detto ottimista. Perché oggi dovrebbe essere diverso rispetto al 2014?
  «Durante gli anni di Obama Netanyahu ha fatto il bello e il cattivo tempo, si è divertito. Obama è stato un leader esitante e Netanyahu, contando sull'appoggio del Congresso, lo metteva continuamente in difficoltà. Con Trump è diverso, il nuovo presidente ha il Congresso dalla sua e asseconda Netanyahu ma gli ha fatto anche capire che c'è un limite. Non so che tipo di road map abbia in mente Trump ma ce l'ha, e Netanyahu, a parte provare a dividerne lo staff, non potrà sfidare più di tanto la sua imprevedibilità».

- Non ha paura che la guerra sotterranea tra islam sunnita e sciita o anche la crisi in corso con il Qatar finiscano per mettere da parte il processo di pace?
  «Non vedo alcuna guerra tra sunniti e sciiti. Nella regione se ne combatte invece una contro il terrorismo e tutte le forze democratiche, sunnite e sciite, sono in campo per vincerla».

- Che ruolo gioca l'Egitto, dov'è stato prima di andare a Riad, in questa nuova stagione negoziale?
  «I due viaggi non sono collegati. L'Egitto è un partner importante per la pace ma non è l'unico. Anche l'Italia è benvenuta. Il conflitto israelo-palestinese tocca tutti. Il presidente Sisi sembra aver realizzato che si tratta del nodo chiave per la stabilità della regione e che per scioglierlo bisogna lavorare con noi».

- Nel quadro del nuovo revival sciita Teheran è ancora attivo a Gaza?
  «L'Iran è stato molto presente fino alla rottura di Hamas con Damasco nel 2011, ora sta tornando. Si fa garante del riavvicinamento tra Hamas e Hezbollah. Ma non funzionerà, siamo impegnati nel piano di riconciliazione nazionale».

- Perché ritenete che ci siano le condizioni per il ritorno dell'Autorità Palestinese a Gaza?
  «Questa decisione chiude il pessimo capitolo apertosi undici anni fa. Quella divisione fu un errore e l'abbiamo pagata cara. Hamas aveva priorità diverse dalle nostre, essendo il ramo locale della Fratellanza Musulmana ragionava in termini di Stato islamico più che di Stato palestinese. Adesso l'Egitto è sceso in campo e sono bastati due giorni per metterci d'accordo. Speriamo che regga. Sappiamo che alcuni a Gaza resisteranno ma stavolta andremo fino in fondo. Per questo è fondamentale la sicurezza, dobbiamo controllare Gaza al cento per cento perché non vogliamo ritrovarci come il Libano, quando per una scaramuccia Hezbollah occupò Beirut».

- Da due anni Israele denuncia la ripresa degli attacchi terroristici contro i civili. Siete in grado di controllare i vostri giovani?
  «A Israele diciamo che rispondiamo del territorio che controlliamo, non siamo responsabili degli attacchi compiuti dove sono in carica le forze israeliane e non quelle dell'Autorità Palestinese».

- Anche la tappa romana è molto importante, si tratta del primo incontro inter-governativo tra Italia e Autorità Palestinese. Qual è il bilancio?
  «L'Italia è un partner importante, ma non è l'unico. I Carabinieri hanno fatto un grande lavoro di training sulla nostra polizia, hanno formato circa 1500 agenti in otto anni e continueranno. Ma abbiamo spiegato a Israele che non vogliamo un esercito, vogliamo un Paese demilitarizzato. Anche i rapporti economici con l'Italia sono buoni e ci aspettiamo molto dalla collaborazione culturale, abbiamo tutelato il nostro patrimonio artistico come garanzia della nostra identità, chiediamo all'Italia di continuare a sostenerci».

(La Stampa, 10 novembre 2017)


Roma: enogastronomia ebraica e cultura a Gusto Kosher 2017

di Alessia Dalla Massara

 
    
Nerina Di Nunzio, Direttrice dello IED Roma e Fondatrice di Food Confidential       Ruth Dureghello, Presidente della Comunità
      Ebraica di Roma
           Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma


Domenica 12 novembre a Roma avrete l'occasione di vivere un'esperienza a cavallo tra meraviglia e stupore nella suggestiva location del quartiere ebraico (Palazzo della Cultura in via del Portico d'Ottavia n.73): l'edizione 2017 di Gusto Kosher, appuntamento culturale ed enogastronomico organizzato da Lebonton Catering e il Creativity Lab ICPO in collaborazione con Food Confidential, vi consentirà di immergervi nei sapori e nei profumi tipici del deserto. Sarà proprio questo il tema ispiratore del festival. Il deserto come luogo dello spirito, come parte integrante del popolo ebraico e della sua storia, attraverso il quale raccontare la tradizione gastronomica ebraica e ripercorrere i tratti essenziali della cultura di questo magico paese. Si parte dalla tavola per tuffarsi nella storia della regione più estesa di Israele (BaMidbar), rappresentata dal deserto del Negev, un'area che si estende - da sud a nord - da Eilat sul Mar Rosso a Be'er Sheva e Arad, le due città bibliche della regione.
  Il Negev delle Meraviglie sarà il topos del Gusto Kosher, un modo per scoprire le molteplici sfumature del deserto, sdoganando la classica e diffusa accezione di aridità e inospitalità e focalizzando l'attenzione sulle attività turistiche e le tradizioni gastronomiche che ruotano attorno al cibo. Ad accompagnare i partecipanti del festival attraverso le maglie di questo eclettico percorso saranno le voci e i racconti dei tanti ospiti protagonisti, come Daniel Kornmehl, testimone della tradizione e dell'antico mestiere di allevare capre e produrre formaggi; Maayan Plaves Kitron con la sua visione all'avanguardia alla ricerca di soluzioni innovative, Ido Zarmi, quale sintesi della cucina e dei sapori antichi, e Susanna Sipione, patron e chef del ristorante Maisonette Ristrot di Roma. Insomma, un'edizione corale quella del Gusto Kosher 2017, in cui non mancheranno incontri e scambi con i grandi chef della cucina ebraica e non solo. Ecco, allora l'elenco dettagliato di tutti gli incontri, le degustazioni e le tavole rotonde assolutamente da non perdere.
  Nell'area MEZÈ DI GUSTO KOSHER per l'intera giornata - dalle 11.00 alle 19.00 - potrete degustare i menu di Le Bon Ton Catering e del guest chef israeliano Ido Zarmi: un'occasione per spaziare dalla tradizione gastronomica mediorientale con l'assaggio del mezè, antipasto tipico fatto di assaggi sfiziosi e prelibati, a quella giudaico-romanesca. Nello spazio dedicato al WINE TASTING potrete inoltre accompagnare il buon cibo con degustazioni gratuite tra le migliori cantine italiane e israeliane con certificazione kosher.
  Con LA ROTTA DEL GUSTO // IL NEGEV È SERVITO (dalle 11.00 alle 17.00, in gallerie e botteghe nell'Antico Quartiere Ebraico) potrete invece scoprire il Negev lungo un percorso di assaggi da esplorare attraverso i vicoli, gli spazi di arte e cultura e le numerose attività commerciali e di ristorazione della zona. Un tour alla scoperta di uno dei quartieri più belli e antichi di Roma e contemporaneamente dei sapori del deserto d'Israele.
  Ma GUSTO KOSHER sarà anche luogo di incontri e tavole rotonde dove scambiarsi idee ed esperienze con interessanti ospiti israeliani e italiani. Come da tradizione si inaugurerà con un primo incontro alle ore 11.00 dal taglio più spirituale e istituzionale: Il deserto del Negev: dalla dimensione dello spirito all'avanguardia contemporanea, in cui l'obiettivo sarà quello di comporre un quadro il più possibile completo sulle mille sfaccettature del deserto. I punti di vista che si alterneranno in questa rassegna di incontri saranno davvero tanti e diversi tra loro: dal Presidente Jerusalem Foundation Johanna Arbib al musicista e compositore Manuel Buda, dal Rabbino Capo di Roma Rav Riccardo Di Segni al Presidente Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello.
  Alle 15.00 sarà la volta del "Turning sand into land // Le coltivazioni di frontiera", un incontro divulgativo condotto da Nerina Di Nunzio, Direttrice dello IED Roma e Fondatrice di Food Confidential, con l'obiettivo di affacciarsi sui temi del presente attraverso le produzioni enologiche delle boutique wineries, dei formaggi delle farms e di percorsi escursionistici mozzafiato.
  Non mancheranno inoltre interessantissimi Cooking Show a tema, come quello che si terrà alle ore 17.30, firmato da Le Bon Ton Catering e dai Guest Chef stellati, dove si sveleranno i segreti per la preparazione di un perfetto mezè. Un momento privilegiato per ascoltare direttamente dagli chef le storie che hanno reso straordinari i loro piatti.
  Ma GUSTO KOSHER quest'anno oltre ad essere cibo e gastronomia, aprirà le sue porte anche ad angoli meditativi dedicati alla lettura. Nell'ANGOLO DEI LIBRI, - aperto dalle 11.00 alle 17:00 - a cura della libreria Kiryat Sefer, avrete a disposizione le migliori pubblicazioni sul tema della cucina ebraica e sulla kasherut, attraverso una rassegna degli autori più interessanti - ebrei ed israeliani - che hanno saputo raccontare le atmosfere e la suggestione del Negev.
  Largo spazio ai bambini in questa edizione 2017, dal carattere fortemente family friendly, con uno SPAZIO BAMBINI aperto dalle 11.00 alle 17:00, a cura di WorkInProject e del Dipartimento Educativo Comunità Ebraica di Roma, dove poter condividere il momento della merenda attraverso attività di gioco libero e laboratori in chiave artistica.
  GUSTO KOSHER è da sempre al fianco di Tsad Kadima - Un Passo Avanti, l'associazione israeliana che organizza e favorisce il percorso formativo dei bambini che soffrono di lesioni cerebrale. Quest'anno quindi sarà possibile trovare dalle 13.00 alle 14.00 le PROIEZIONI // TSAD KADIMA, in cui si ripercorreranno la storia, i successi e le testimonianze per celebrare i 30 anni di attività dell'associazione in Israele.
  E per concludere in dolcezza anche quest'anno GUSTO KOSHER terminerà in musica con NOTE DI GUSTO - a partire dalle ore 18.30 - grazie alla bravura di Manuel Buda, raffinato e sensibile compositore che, con il suo progetto Solo+Live electronics, è riuscito a fondere temi tradizionali e originali in un gioco dal risultato sorprendente.

(Il Messaggero, 9 novembre 2017)


Israele-Moldova - Grande potenziale per la cooperazione commerciale ed economica

 
Incontro Netanyahu - Filip
CHISINAU - Il primo ministro moldavo Pavel Filip ha incontrato oggi l'omologo israeliano, Benjamin Netanyahu, nell'ambito della visita di Filip a Gerusalemme. I due premier hanno scambiato opinioni sull'attuale stato delle relazioni bilaterali e sulle prospettive di sviluppo. Lo riferisce un comunicato del governo di Chisinau ripreso dall'agenzia moldava d'informazione "Moldpres". "Il dialogo bilaterale è molto buono, ma abbiamo un grande potenziale - ha detto Filip -. A questo proposito, è importante organizzare, nel prossimo futuro, una riunione della commissione mista intergovernativa per la cooperazione commerciale e economica", ha spiegato. L'iniziativa è stata sostenuta da Netanyahu, che ha affermato che l'economia si sviluppa attraverso forti connessioni tra i due paesi. "La liberalizzazione dello spazio aereo e l'operazione dei voli a basso costo tra la Repubblica di Moldova e lo Stato di Israele hanno un significato particolare. Ciò favorirà il commercio e i flussi di turisti provenienti da entrambi i paesi", hanno detto i primi ministri Filip e Netanyahu.

(Agenzia Nova, 9 novembre 2017)


Turismo - Due serate per la formazione di Israele

di G.Focone

Focus sugli agenti di viaggio per Israele che spinge sull'acceleratore della formazione con un appuntamento roadshow di due tappe, Roma (27 novembre) e Milano (28 novembre), in collaborazione con El Al e Adv Training/Turismo&Attualità, in calendario a fine novembre. "Gli agenti - le parole di Avital Kotzer Adari, consigliere per gli Affari turistici Ambasciata d'Israele - sono per noi interlocutori fondamentali, Isreale è una destinazione completa affascinante ma anche molto complessa, il nostro compito è di parlare con le agenzie per spiegare il prodotto che andranno a vendere alla clientela".
Intervista ad Avital Kotzer Adari
Una meta "moderna, sicura e vicina" come la definisce Avital Kotzer Adari e che si sta ritagliando un suo spazio importante sul mercato italiano: "I numeri ci sorridono, nei primi nove mesi del 2017 abbiamo registrato una crescita di arrivi pari al 25% per un totale di 73.000 turisti italiani ma il dato è destinato ad aumentare e le proieizoni di fine anno ci fanno ben sperare per un' ulteriore tendenza al rialzo". E le due serate di rodashow avranno come filo conduttore l'esperienza di viaggio in terra d'Israele: "E' una meta accessibile tutto l'anno, con una temperatura mite e che consente di vivere in un unico viaggio un universo di emozioni diverse ed uniche allo stesso tempo".
Diversi i drivers delle serate: "Riproponiamo il prodotto 'Two city one break' per una formula molto gradita al mercato azzurro che consente, grazie alle distanze minime, di visitare insieme Gerusalemme e Tel Aviv in un unico week end, presenteremo la bella Eilat, dove vivere una vacanza balneare tutto l'anno e accenderemo i riflettori sul deserto del Negev, situato nella parte meridionale del paese, che sarà uno degli elementi chiave della promozione 2018". Presentazione e Quiz Live per gli agenti animeranno le due serate israeliane, che vedranno la presenza di El AL.

(TATA Adv Training, 9 novembre 2017)


Israele chiude la zona attorno alla Striscia di Gaza

Dichiarata area militare per rischi alla sicurezza

GERUSALEMME - L'esercito israeliano ha dichiarato "zona militare chiusa" quella intono alla striscia di Gaza. Lo ha detto il generale Eyal Zamir, citato dai media, che ha motivato la decisione con "rischi per la sicurezza" a seguito del tunnel da Gaza fatto esplodere dall'esercito israeliano la settimana scorsa. Le autorità militari israeliane hanno ordinato agli agricoltori di non avvicinarsi ai recinti di demarcazione attorno alla striscia di Gaza ed hanno bloccato i lavori di costruzione di una barriera difensiva sotterranea nella stessa zona. Secondo i media, sono infatti giunte notizie che sembrano indicare l'imminenza di attacchi palestinesi contro civili o soldati a ridosso della zona di demarcazione con la striscia. Da Gaza si apprende che in cielo si notano numerosi droni ed elicotteri militari israeliani.

(ANSAmed, 9 novembre 2017)


Israele, in corso l’esercitazione "Blue Flag"

 
GERUSALEMME - Proseguono presso la base di Ovda, nel sud di Israele, le manovre aeree internazionali "Blue Flag", iniziate il 7 novembre. L'esercitazione durerà undici giorni e coinvolgerà oltre un migliaio di militari provenienti da diversi paesi, tra cui Stati Uniti, Italia, Germania, Grecia, Polonia e India. Per numeri e durata, l'esercitazione è la più grande mai condotta in Israele. "Blue Flag" prevede la simulazione di diversi scenari, con particolare attenzione alla cooperazione tra le forze aeree. L'obiettivo è facilitare l'integrazione di tecniche differenti, la cui esecuzione sarà successivamente oggetto di una relazione. Parte dell'addestramento annuale dell'aviazione di Israele, l'esercitazione verrà condotta in coordinamento con diverse istituzioni israeliane, tra cui l'Autorità aeroportuale, quella dell'Aviazione civile, i ministeri dei Trasporti e del Turismo e la municipalità di Eilat. Per non intralciare il traffico di aeroplani civili su Eilat, l'aviazione israeliana ha imposto dei limiti allo spazio aereo utilizzato per "Blue Flag" e ha stabilito un orario di svolgimento per le manovre.

(Agenzia Nova, 9 novembre 2017)


Israele - De Santis: "Raduno di consoli onorari, ho rappresentato Italia e Puglia"

BARI - Oltre 80 consoli onorari di Israele provenienti da tutto il mondo si sono incontrati dal 5 all'8 novembre scorsi a Gerusalemme e Tel Aviv per il terzo raduno internazionale: a rappresentare l'Italia l'unico console onorario del nostro Paese, Luigi De Santis, imprenditore edile di Bari e presidente Ance Giovani Puglia.
"Sono state tre giornate intense sotto ogni profilo culturale, imprenditoriale, turistico, economico" ha affermato De Santis di ritorno in Italia.
"Per me sono occasioni anche per intrecciare nuove relazioni istituzionali e, chiaramente economiche, che possono essere occasioni di crescita per il territorio - spiega De Santis, che aggiunge -, un territorio che per me non può che essere la mia Puglia. Nei giorni scorsi ho incontrato il viceministro dell'Ufficio del primo ministro Bibi Netanyahu, Micheal Oren, e il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, entrambi fortemente affascinati e interessati dalla nostra regione".

(Giornale di Puglia, 9 novembre 2017)


Israele, la missione UCEI-CSM

Ha preso il via in queste ore la visita a Gerusalemme di una delegazione del Consiglio Superiore della Magistratura, guidata dal vice presidente del CSM Giovanni Legnini e dal primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio. Al loro fianco, la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni. Primo appuntamento della delegazione, l'incontro, alla presenza dell'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti, al Ministero degli Affari Esteri con la direttrice del Dipartimento diritto internazionale Sarah Weiss Maudi e Amir Weissbrod, capo della divisione di Ricerca politica. Nei prossimi giorni, la delegazione incontrerà anche la Comunità degli Italkim alla sinagoga italiana di Gerusalemme nonché la presidente della Corte suprema israeliana Ester Hayut. La visita è anche l'occasione per proseguire l'iter che porterà alla firma di un memorandum tra Csm e gli organi di giustizia israeliani su diversi punti di cooperazione tra cui il terrorismo.

(moked, 9 novembre 2017)


Giovane ebrea fugge dal Marocco per realizzare il suo sogno: entrare nell'esercito di Israele

Chen ha 19 anni ed ora veste la divisa di Tsahal. E' scappata, con la madre e la sorella, da un padre diventato violento dopo avere scoperto l'origine israelita della moglie.

Chen Zrihan
E' felice Chen Zrihan, con addosso la divisa. Sorride come se, piuttosto che una camicia che le va abbondante ed un pantalone che è comodo, ma certo non elegante, lei stia indossando un capo firmato, l'ideale per andare ad una festa.
Ma Chen è felice così perché, dopo anni, è riuscita a fare diventare una realtà il suo sogno, entrare in Tsahal, l'esercito israeliano. Nulla da dire, se Chen fosse nata a Gerusalemme, Tel Aviv o in un kibbutz o in una colonia. perché, questa ragazza che le foto rimandano con un enorme sorriso, è invece nata nel pur tollerante Marocco, dove la modernizzazione imposta dal re Mohammed spesso si ferma sulla porta delle case di un popolo che ha tradizioni dure da sconfiggere.
Chen viveva a Casablanca con la famiglia, padre, madre ed una sorella. Una storia apparentemente normale, almeno sino a quando il padre non ha scoperto che la moglie era di origine ebraica. In un Paese come il Marocco questo non dovrebbe essere un problema (la comunità israelita è la sola, nei Paesi arabi, ad essere totalmente integrata).
Ma non per il padre di Chen che, forse sentendosi ingannato, ha fatto della vita della moglie e delle figlie un inferno, dove la violenza era una cosa quotidiana.
Anni di angherie che Chen ha sopportato, grazie alla speranza di potere raggiungere Israele ed entrare nell'esercito. Di Israele, dove vivevano alcuni parenti della madre, a Chen piaceva tutto, persino le canzoni che cercava di imparare a memoria, pur non conoscendo l'ebraico,
Poi è arrivata l'occasione cercata per anni e lei, con la sorella Yasmine e la madre, Najat, sono riuscite ad andare via da Casablanca, una vera e propria fuga, avendo come sola meta Israele.
E poi la lunga trafila per entrare in Tsahal. Chen Zrihan ha appena finito l'addestramento e sta aspettando quasi con trepidazione che le venga assegnata una destinazione. ''Il mio primo giorno nell'esercito - dice - è stato il più felice della mia vita. Un sogno che si realizzava. In Marocco tutti conoscono l'esercito israeliano e ho sempre saputo che volevo essere parte di esso. Mia madre è orgogliosa di me ". Certo non è stato facile perché, sottolinea, ''era una cultura a me estranea, e la mia mancanza di conoscenza dell'ebraico ha solo accentuato la difficoltà". Ma per integrarsi Chen era disposta a tutto, anche ad imparare l'ebraico. Cosa che ha fatto ed oggi, quando i media la intervistano per far raccontare la sua storia, risponde alle domande in un ebraico pressoché perfetto. Come quando le si chiede come vive la sua condizione di marocchina in Israele. "Oggi mi sento israeliana. Ogni giorno imparo di più sulla cultura israeliana, di come integrarmi nella società''. Il tutto accompagnato dal sorriso che l'ha fatta diventare una beniamina dei suoi commilitoni.

(globalist, 9 novembre 2017)


Salvarono una bambina ebrea. I coniugi Costa "Giusti tra le Nazioni"

Assegnata la medaglia alla memoria

Nell'inverno del 1943 ospitarono nella loro casa di Sauze d'Oulx, in Valle di Susa, una ragazzina ebrea facendola passare per l'insegnante di buone maniere dei figli. Un gesto di coraggio e di generosità che salvò quella ragazzina, oggi bisnonna, dalle persecuzioni antisemite. Un «messaggio di umanità», come l'ha definito la sindaca di Torino Chiara Appendino, per cui Dalmiro e Verbena Costa sono stati riconosciuti Giusti fra le Nazioni. La medaglia alla memoria è stata consegnata oggi da Rafael Erdreich, ministro consigliere dell'ambasciata di Israele, al figlio Giorgio.
La cerimonia in Comune, a Torino, alla presenza di Nedelia Tedeschi Lolli, la ragazzina salvata dalle persecuzioni. Per la sindaca Appendino, il loro esempio deve servire da «monito in tempi di rigurgiti razzisti e di intolleranza, in cui a tratti l'oscurità sembra molto vicina. Oggi, con il ricordo di Dalmiro e Verbena, celebriamo gli antidoti a quella violenza e indifferenza».

(La Stampa - Torino, 9 novembre 2017)


Riad, il terremoto di Salman per il Medioriente

L'Arabia Saudita minacciata dal ribasso del prezzo del petrolio e dalla ormai evidente crisi della «nazione araba», intraprende una nuova strada.

di Fiamma Nirenstein

Mohammad bin Salman Al Saud
Il messaggio è questo: i nemici avranno guerra, chi è avverso all'erede del re Salman è in galera, i corrotti finiscono male, la leadership sunnita splenderà di nuovo. L'Arabia Saudita minacciata dal ribasso del prezzo del petrolio e dalla ormai evidente crisi della «nazione araba», intraprende una nuova strada. È un terremoto interno accompagnato dalla ridefinizione generale degli interessi del Paese, e quindi del quadrante mediorentale.
   Il principe della corona ha fatto arrestare gran parte della nomenclatura locale. Undici principi, quattro ministri e una dozzina di ex ministri, diversi miliardari e dirigenti del settore petrolifero. Fra questi Alwaleed bin Talal, nipote del re, miliardario, padrone della società di investimento Kingdom Holding. La purga ha messo agli arresti il principe Ibrahim al Assaf, l'ex ministro delle finanze e membro del board del gigante petrolifero Saudi Aranco, e molti precedenti alleati di bin Salman. La purga, ammantata di accuse di corruzione e di sedizione, ha di fatto il carattere di un riposizionamento strategico. L'Arabia Saudita nella strategia del presidente Obama non era più un interlocutore privilegiato. In generale «la nazione araba» era stato sostituto da due poli che sono sembrate a Obama più promettenti: l'Iran con cui è stato forgiato l'accordo di tre anni fa, e la Fratellanza Musulmana, che era apparsa affidabile specie in Egitto con Mursi, che ha fallito, e in Turchia, dove tuttora detta legge con Erdogan. L'Arabia Saudita aveva sulle spalle il peccato originale del wahabismo, dei miliardi investiti in moschee estremiste e antioccidentali, dei terroristi dell'11 di settembre. Ma proprio là ha colpito Mohammed Bin Salman: mentre avviava nuove riforme, fra cui quella simbolica della patente alle donne, in settembre arrestava una trentina di intellettuali e di clerici wahabisti, mentre promuoveva altri religiosi, quelli che avevano espresso più tolleranza verso cristiani e ebrei.
   Intanto, sia in incontri segreti e palesi con Israele e in contatti con la nuova amministrazione Usa, i Sauditi mettevano al primo posto il rifiuto assoluto dell'espansione iraniana e degli Hezbollah in Medio Oriente in Iraq e in Siria, e della presa d'acciaio sul Libano. In Yemen, ormai sono due anni che fra l'Arabia Saudita e la Guardia rivoluzionaria iraniana è guerra. Sabato scorso, il colpo di teatro: parlando da Riad si è dimesso il primo ministro libanese Saad Hariri, dicendo che si era rifugiato presso i sauditi a causa di un tentativo iraniano di ucciderlo e denunciando la destabilizzazione, il terrorismo, l'odio che l'Iran esporta ovunque. Il padre di Hariri, Rafik, a sua volta primo ministro, fu assassinato nel 2005. È di questi giorni la minaccia di guerra agli Hezbollah e al Libano stesso del ministro degli affari del Golfo Thamer al Sabhan. Insomma il principe Mohammed riforma il potere saudita invecchiato, lo ripulisce, cerca la leadership araba contro l'Iran, sacrifica i wahabiti a una nuova alleanza con l'occidente, incluso Israele.

(il Giornale, 9 novembre 2017)


"Il Kurdistan ha bisogno di democrazia". L’appello all'Occidente

Dibattito sui curdi iracheni organizzato dall'associazione Italia-Israele

Ieri sera alla Fondazione Camis de Fonsecan è andato in scena «Non abbandoniamo il Kurdistan!», un dibattito sui curdi iracheni organizzato dall'associazione Italia-Israele, arricchito dalla proiezione di un video reportage e accompagnato dalle testimonianze di Giovanni Sartorio e Gianni Vernetti. Durante l'incontro si è discusso del referendum per l'indipendenza del 25 settembre, delle dimissioni del presidente Masoud Barzani e della tragedia che in questi ultimi mesi ha colpito il Paese: l'offensiva dell'esercito iracheno che si è ripreso quasi tutte le zone contese controllate dai curdi, inclusa la strategica Kirkuk.
   «Il Kurdistan è un'area che ha un infinito bisogno di democrazia» sostiene Giovanni Sartorio, medico torinese e attivista di International Help, una onlus che dal 1995 aiuta le popolazioni del mondo con interventi umanitari. «Negli anni più recenti, - spiega Sartorio - la pulizia etnica e religiosa operata da Daesh (comunemente conosciuto come Isis) ha causato lo spostamento di milioni di persone dalle zone occupate dai fondamentalisti verso il territorio curdo». Oltre 1.800.000 persone, tra sfollati e rifugiati dalla Siria sono attualmente ospitati dal popolo curdo (circa 5.000.000 abitanti) con grande umanità. Le frontiere di questo territorio sono difese da 100.000 combattenti peshmerga, che riescono a garantire pace e sicurezza ad abitanti e rifugiati. Nel maggio 2015 Vernetti e la sua squadra si sono recati in quei luoghi portando apparecchiature mediche, oltre a 2 tonnellate di vestiti raccolti alle Molinette. Dalla visita è nato un documentario sulle condizioni di vita della popolazione locale e dei rifugiati, proiettato anche in altre occasioni come strumento di sensibilizzazione verso il tema.
   L'intervento di Vernetti, politico torinese che nel 2011 ha sostenuto i ribelli contro Gheddafi, ha sottolineato come «Non abbandoniamo il Kurdistan!» sia anche un invito alle associazioni e alle istituzioni nazionali. (G.Por.)

(La Stampa - Torino, 9 novembre 2017)



"Tariq Ramadan si è infiltrato nelle democrazie per portarci l'islam politico"

Parla Caroline Fourest, accusatrice dell'islamologo sospettato di stupro

di Giulio Meotti

Caroline Fourest
ROMA - Non ostante le accuse di violenza sessuale arrivate da una decina di donne musulmane tra Francia, Belgio e Svizzera fossero già uscite sulla stampa da due settimane, l'islamologo Tariq Ramadan tre giorni fa si trovava a Rimini ospite del Centro Studi Erickson, importante pensatoio di sociologi ed educatori di Trento, a parlare al loro convegno su una "scuola inclusiva". Ramadan ha tenuto una lezione dal titolo "i requisiti educativi per insegnare e gestire la diversità" (fra gli ospiti, anche Eraldo Affinati e Benedetta Tobagi), "Non ho mai visto nessuno così talentuoso e machiavellico come Tariq Ramadan nel manipolare l'opinione pubblica", dice al Foglio Caroline Fourest, che a Ramadan ha dedicato il libro "Frère Tariq" e che ha fatto parte per anni della redazione di Charlie Hebdo (oggi scrive per Marianne). Mentre proliferano le accuse di violenza sessuale ai danni di Ramadan, che lui respinge al mittente parlando di "complotto" mentre Oxford lo sospende dall'insegnamento, nel mirino ci finiscono i "compagni di strada" dell'islamologo svizzero. Charlie Hebdo ne ha messo uno in copertina, Edwy Plenel, il direttore e fondatore di Mediapart, Il giornalista ha reagito evocando il "manifesto rosso" del regime di Vichy sulla condanna a morte di 23 resistenti, citando Romain Rolland: "Mi possono odiare, ma non saranno in grado di insegnarmi l'odio". Dunque i difensori di Ramadan sarebbero i nuovi "resistenti". Il 17 gennaio 2015 a Brétigny-sur-Orge Edwy Plenel e Tariq Ramadan apparvero in pubblico a fare causa comune contro l"'islamofobia", benedicendo la convergenza tra proletari e musulmani, lavoratori e immigrati. I francesi in quelle stesse ore stavano piangendo i loro morti, quelli di Charlie Hebdo, all'Hyper Cacher e la poliziotta a Montrouge, Due giorni prima, in milioni erano scesi per strada per difendere la libertà di espressione e protestare contro il terrorismo islamista. Ma Plenel e Ramadan "non erano Charlie".
   "Si deve distinguere fra la duplicità di Ramadan sull'islam e le accuse di stupro" prosegue Fourest al Foglio. "La cosa più scioccante oggi per me è questo silenzio di una parte della sinistra, è cecità ideologica. Plenel e Ramadan hanno fatto conferenze assieme, e Plenel ha attaccato come 'islamofobo' chiunque criticasse Ramadan. Ha negato ogni accusa a Ramadan. Oggi che sappiamo chi sia Ramadan, la sua risposta è dire che è una vittima dell'odio. E' una intellighenzia miserabile. Sono gli utili idioti di Ramadan, come Edgar Morin, che ha scritto due libri con Ramadan. C'è il direttore del Monde Diplomatique, Alain Gresh, e i sociologi che hanno difeso Ramadan e attaccato le persone che lo criticavano. In Belgio, in Svizzera, in Italia, in Marocco, Ramadan è stato in grado di insinuarsi in tutti gli ambienti che contano. E' stato un fondamentalista molto intelligente e abile. Su Press Tv, la tv del regime iraniano, aveva un suo programma. E ogni volta che perdeva un incarico in un paese, come a Rotterdam, si spostava in un altro".
   Ci si domanda quale sia il segreto del successo di Tariq Ramadan. "Viene da una lunga storia di islamisti dalla visione strategica, il nonno in Egitto, il padre in Pakistan. Tariq serve la 'dawa', sdoganare i Fratelli musulmani, convincere le élite, le istituzioni, i giornalisti, gli intellettuali" prosegue al Foglio la giornalista francese Caroline Fourest, grande accusatrice di Tariq Ramadan, cui ha dedicato libri e inchieste.
   Per Jacques Julliard, la "glaciazione islamica", di cui sarebbe espressione il sodalizio fra islamologi come Ramadan e una parte della gauche francese, è la terza "glaciazione intellettuale" della sinistra dopo la "glaciazione stalinista" e la "glaciazione maoista". Alcuni si domandano quali siano le differenze fra i casi Weinstein e Ramadan. "La differenza con Weinstein è che le vittime di Ramadan, che sono numerose quanto quelle di Weinstein, sono donne musulmane religiose che si sentono in colpa, che hanno paura di lui, è come una setta, perché Ramadan ha sottomesso anche psicologicamente le sue vittime" continua Fourest. "Molte ragazze ora parlano di minacce violente, intimidatorie, da parte del network della Fratellanza musulmana. Alla prima donna che ha denunciato hanno dato della 'puttana sionista'. C'è da aggiungere che è la prima volta che Charlie Hebdo riceve minacce di morte non per aver fatto delle vignette su Maometto, ma per aver ironizzato su Tariq Ramadan".
   Secondo Caroline Fourest, la responsabilità maggiore ricade sugli inglesi. "Oxford ha una grande responsabilità in questa storia. Sono atterriti dai fondamentalisti islamici e dai predicatori. Oxford ha dato a Tariq Ramadan la legittimità intellettuale che gli serviva e il Qatar ha pagato per il suo titolo accademico. Senza il Qatar quel dipartimento a Oxford non sarebbe mai esistito. E poi Ramadan è andato a inaugurare un dipartimento a Doha assieme a Yusuf al Qaradawi, l'imam della Fratellanza musulmana. In Inghilterra, Ramadan ha trovato ossigeno. Gli inglesi per anni hanno protetto i peggiori islamisti e jihadisti in nome del multiculturalismo, in cambio di una sorta di 'pace' sociale che avrebbe consentito loro di controllare le comunità islamiche. Tony Blair ha persino assunto Tariq Ramadan come consulente e, dopo il massacro di Charlie Hebdo, gli inglesi sono stati i più codardi".
   Fourest si felicita per la caduta di questa celebre icona per anni accolta nei salotti, nelle sale conferenze, sui giornali, nelle case editrici che contano, ma avrebbe voluto che Ramadan fosse stato sconfitto sul campo delle idee, non grazie alle accuse di molestie sessuali. "Io sono di sinistra, ho lavorato a Charlie Hebdo, e ho sempre detto che Ramadan era pericoloso per le sue idee e che era un islamista antisemita. Ma una parte della sinistra non voleva sentire e ascoltare. Vedremo se questa sarà la fine di Ramadan. Ci sono ancora molte vittime nell'ombra. Non penso che Ramadan avrà più la stessa capacità di manipolazione che ha avuto finora. Ma ha già di sicuro molti allievi pronti a continuare la sua opera di manipolazione. Tariq Ramadan ha un obiettivo: portare più e più islam nei paesi ospitanti, organizzare un Califfato non come quello dell'Isis, ma infiltrandosi nei paesi democratici, fino a che l'opinione pubblica sarà pronta ad accettare l'islam politico".

(Il Foglio, 9 novembre 2017)


Gran Bretagna - Incontri segreti con Netanyahu: si dimette la ministra Priti Patel

La segretaria di Stato per lo Sviluppo internazionale aveva chiesto scusa per i 12 faccia a faccia avuti in Israele durante le vacanze dello scorso agosto. Ma poi sono emersi dettagli di ulteriori due riunioni avvenute in settembre su cui aveva continuato a mantenere il riserbo. A quel punto la premier May l'ha costretta al passo indietro.

LONDRA - La ministra britannica per lo Sviluppo internazionale Priti Patel si è dimessa a seguito delle rivelazioni su incontri da lei avuti con politici israeliani, fra cui il premier Benjamin Netanyahu, dei quali non aveva riferito, in violazione del protocollo diplomatico.
In una lettera indirizzata a Theresa May, Patel si è scusata definendo il suo comportamento "al di sotto degli elevati standard richesti a un ministro". Se non si fosse dimessa, sarebbe stata di certo allontanata dal governo. Patel era finita inizialmente nel tritacarne a seguito della rivelazione degli almeno 12 incontri avuti con Netanyahu e altre autorità di Tel Aviv durante le vacanze dello scorso agosto, trascorse in Israele, di cui non aveva detto nulla alla premier e ai colleghi del governo. Patel aveva fatto pubblica ammenda, ma la sua posizione è diventata insostenibile nel momento in cui sono emersi dettagli di ulteriori due incontri israeliani, con il ministro per Pubblica sicurezza Gilad Erdan e con l'esponente del ministero degli Esteri di Tel Aviv Yuval Rotem, avvenuti a settembre e su cui aveva continuato a mantenere il riserbo. A quel punto Theresa May si è attivata per arrivare alla più naturale conclusione della vicenda.

(la Repubblica, 8 novembre 2017)


Anp pronta ad assumere controllo della sicurezza a Gaza

La polizia dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), dopo la riconciliazione tra Fatah e Hamas, è pronta ad assumere il pieno controllo della Striscia.
Resta però aperto "l'elemento più difficile da affrontare, quello della sicurezza", per la presenza a Gaza di milizie armate.
Hazim Atallah, capo della polizia di Abu Mazen, è stato chiaro incontrando oggi i giornalisti stranieri a Ramallah: "la nostra politica - ha spiegato - si basa su un linea: una sola autorità, una sola legge, una sola arma". Se l'obiettivo è questo "come posso fare sicurezza - si è chiesto - quando nella Striscia ci sono tutti quei razzi e armi. Come è possibile?".
Una domanda che dovrebbe avere una riposta il prossimo 21 novembre quando Fatah e Hamas si incontreranno al Cairo, sotto la mediazione egiziana, per affrontare proprio il tema delle milizie presenti ancora nella Striscia.
Intanto l'esercito israeliano ha dichiarato "zona militare chiusa" quella intorno a Gaza motivando la decisione con "rischi per la sicurezza" che hanno seguito l'esplosione del tunnel scoperto e fatto esplodere dai militari la settimana scorsa.
"A Gaza - ha sottolineato Atallah - applicheremo gli stessi metodi usati in Cisgiordania a partire dal 2007-2008 per riportare l'ordine nella regione". Per raggiungere questo obiettivo, Atallah da detto che intende avvalersi degli "8/9mila agenti locali che erano al servizio dell'Anp prima del 2007", quando Hamas assunse il controllo della Striscia.
Altra questione importante è il controllo dei valichi di frontiera e in particolare di quello di Rafah che unisce Gaza all'Egitto la cui apertura - ha ribadito - è prevista a metà novembre. "Ma - ha avvertito - le procedure di sicurezza non sono ancora definite. Tuttavia sono ottimista".
Sui rapporti con Israele, Atallah ha confermato che il coordinamento di sicurezza è ripreso in modo regolare dopo la parziale sospensione decisa dall'Anp lo scorso luglio. Il capo della polizia palestinese ha spiegato di riferirsi in particolare allo sforzo congiunto tra le due parti nel prevenire attacchi militari e non alla normale cooperazione contro i crimini che israeliani e palestinesi non hanno mai interrotto.
"Tutto adesso è coordinato e normale - ha sottolineato - le cose sono tornate quelle che erano prima dello scorso 14 luglio", quando il presidente Abu Mazen annunciò l'intenzione di congelare il coordinamento con Israele dopo le misure di controllo introdotte, a seguito di incidenti, sulla Spianata delle Moschee.

(swissinfo.ch, 8 novembre 2017)



Medicina rigenerativa, il premio Rita Levi Montalcini ad un ricercatore israeliano

 
Un gel composto al 98% di acqua che consente di creare un ambiente favorevole alla crescita di tessuti umani con importanti implicazioni per la medicina rigenerativa e dei biomaterali. E' il terreno in cui opera il professor Drod Seliktar, il ricercatore israeliano del Technion di Haifa insignito oggi del "Premio binazionale Rita Levi Montalcini per la cooperazione scientifica" dal sottosegretario agli esteri Vincenzo Amendola, dal Sottosegretario per l'Istruzione, Università e Ricerca, Angela D'Onghia e dal Rettore dell'Università Tor Vergata (in rappresentanza della Fondazione CRUI), Giuseppe Novelli, nel corso di una cerimonia tenutasi alla Farnesina . Tra i presenti alla premiazione anche l'Ambasciatore di Israele S.E. Ofer Sachs e l'Ing. Piera Levi-Montalcini.
   Il premio, finalizzato a promuovere l'interscambio di studiosi di prestigio tra Italia e Israele, è stato istituito nel 2015 e destina 40.000 euro l'anno per ciascuna delle due parti per finanziare il soggiorno di un ricercatore italiano in Israele e di uno israeliano in Italia.
   Introdotta dal Direttore Generale per la promozione del Sistema Paese del MAECI, Vincenzo De Luca, la cerimonia è stata anche l'occasione per fare il punto della cooperazione scientifico-industriale tra Italia e Israele. Il sottosegretario Amendola ha ricordato i rapporti strettissimi tra i due paesi e l'accordo bilaterale che risale a 15 anni fa e che ha consentito "un'intensa collaborazione in campo scientifico e per lo sviluppo dell'innovazione" . Una collaborazione per il progresso in un'area del mediterraneo, ha ricordato, in cui "segnali positivi servono a superare difficolta e crescenti tensioni". Ed i numeri parlano chiaro: 191 progetti congiunti di ricerca industriale e scientifica , sette laboratori congiunti già realizzati e due in fase di lancio, 149 eventi bilaterali. Insomma una promozione della cooperazione scientifica come strumento di sviluppo per affrontare sfide globali e legami tra paesi.
   Le strette relazioni con Israele sono "particolarmente importanti", ha ricordato la sottosegretaria del ministero dell'Istruzione Angela D'Onghia. In particolare nel 2017 la commissione mista Italia-Israele ha istituito due laboratori congiunti, uno nel campo dei materiali avanzati e l'altro della robotica medica. Sono state accolte 51 proposte progettuali per 800.000 euro e nel bando industriale sono stati finanziati sei progetti per 750.000 euro.
   Il professor Seliktar, spiegando la sua ricerca in una lectio magistralis sulle capacità rigenerative delle cellule coltivate fuori dal corpo umano, ha voluto ringraziare la professoressa Sonia Molino di Tor Vergata con la quale sta collaborando ed ha evidenziato come il premio ricevuto sottolinei lo stretto legame tra ricerca e applicazione pratica.
   Il professor Giuseppe Novelli ha ricordato l'importanza degli scambi tra ricercatori, "una pratica che serve a costruire ponti e non muri", e ha sottolineato come l'istituzione di corsi in lingua inglese abbia dato impulso alle iscrizioni nelle nostre università di studenti stranieri.

(Farnesina - Ministero degli Esteri, 8 novembre 2017)


Moldova: il premier Filip da oggi in visita ufficiale in Israele

CHISINAU - Il primo ministro della Moldova Pavel Filip inizia a partire da oggi una visita ufficiale di due giorni in Israele. Lo riferisce l'agenzia d'informazione "Moldpres", secondo un comunicato del governo di Chisinau. Secondo il comunicato, durante la visita, Pavel Filip incontrerà il primo ministro d'Israele, Benjamin Netanyahu, il vicepresidente della Knesset (parlamento israeliano), Tali Ploskov, ma anche diversi ministri del governo israeliano. Inoltre, il primo ministro Filip incontrerà la diaspora moldava nello Stato d'Israele e i rappresentanti della comunità ebraica originaria della Moldova.

(Agenzia Nova, 8 novembre 2017)


Al via la mostra fotografica Two Cities One Break - Tel Aviv e Gerusalemme

 
ROMA - Il percorso espositivo, curato da Denis Curti, invita il pubblico a scoprire attraverso 20 scatti le due città di Tel Aviv e Gerusalemme, i due volti di Israele.
  I visitatori saranno accolti in uno spazio che richiama la casa di un viaggiatore, sulle cui pareti sono affissi ricordi di un viaggio nelle due città: panorami mozzafiato, volti, angoli inaspettati di due città diverse e allo stesso tempo vicine.
  "Il viaggio è una porta attraverso la quale conosciamo nuove realtà. Da sempre una parte essenziale dell'offerta di Mondadori Store, che affianca alla proposta libraria un'ampia gamma di prodotti e servizi dedicati.
  Con questa iniziativa siamo felici di poter dare ai nostri visitatori un'occasione in più per scoprire da vicino due città come quelle di Tel Aviv e Gerusalemme, capaci di unire la tradizione e l'innovazione, in continuità con la nostra mission, quella di offrire un mondo di cultura ed emozioni al più ampio pubblico possibile", dichiara Francesco Riganti, Direttore Marketing di Mondadori Retail.
  "Un grande sforzo per accompagnare in un viaggio che va oltre il viaggio stesso: spiritualità, modernità, esperienza unica e indimenticabile. Questo è ciò che rappresentano Gerusalemme e Tel Aviv: due città che si toccano, che sanno emozionare ciascuna in un modo diverso, l'una attraverso storia e tradizione, l'altra attraverso ricerca e modernità.
  Tel Aviv e Gerusalemme rappresentano il viaggio della vita per tanti, per molti, noi speriamo per tutti, e con queste splendide immagini vogliamo regalare l'emozione a quanti vorranno scoprire una dimensione davvero inaspettata della destinazione" ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo.
  Tradizione, vita in città, luce, persone: queste le quattro tematiche sulla base delle quali sono state selezionate le immagini presentate nello store. La mostra presenta per la prima volta in Italia sette fotografie scelte tra le 100 finaliste del concorso JerusaLENS, realizzato lo scorso marzo in Israele e finalizzato a mostrare aspetti inediti ed originali della città di Gerusalemme.
  Al concorso hanno preso parte fotografi provenienti da tutto il mondo che hanno saputo così offrire prospettive personali e magnifiche vedute della città. 14.500 sono state le foto inviate da ben 84 nazioni la fase finale ha visto l'invio di non meno di 2.400.000 voti! Tra i fotografi scelti per la mostra milanese ricordiamo gli Israeliani: Michael Shmidt; Amir Ehrlich; David Mor; Yigal Dekel; Tomer Montilia; Vincent Kahkejian e Laura Ben-David.
  Oltre a loro anche il brasiliano Alexandre Siqueira e il filippino Romel Pineda. Un ringraziamento profondo deve essere poi riservato a Alon Wald, direttore operation e marketing, Ammunition Hill di Gerusalemme, per aver collaborato a far arrivare in Italia le foto del concorso. All'interno del percorso espositivo saranno presenti anche immagini scattate da artisti della fotografia che hanno realizzato negli ultimi anni servizi fotografici in collaborazione con l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, promotore dell'iniziativa: Giovanni Tagini; Daniele Pellegrini; Graziano Perrotti; Bruno Zanzottera; Alessandro Gandolfi;Vanda Biffani.
  Un'ampia parte delle immagine che saranno in mostra a partire dal 10 novembre p.v. sono state poi selezionate dall'agenzia fotografica di Mondadori Portfolio. Domenica 12 novembre, inoltre, lo spazio della mostra prenderà vita con la performance dal vivo della cantante Yevgenya Kimiagar che eseguirà musica israeliana accompagnata da Giovanni Iazzarelli al flauto e Daniele Quercia al contrabbasso; le esibizioni avranno luogo a partire dalle 15.30 fino alle 18.30 in differenti momenti all'interno dello spazio dedicato alla mostra. La mostra "Tel Aviv e Gerusalemme: per esploratori di luoghi e anime" è parte della partnership tra l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo e Mondadori Store, il più esteso network di librerie presente in Italia.
  Per un mese, dal 19 ottobre al 16 novembre, infatti, i clienti online e quelli di più di 30 punti vendita Mondadori Store selezionati hanno la possibilità di vincere un viaggio per due persone in Israele alla scoperta di Tel Aviv e Gerusalemme: per partecipare è sufficiente effettuare un acquisto e registrarsi sul sito www.2cities1breakmondadoristore.it L'iniziativa è promossa online, sui social e all'interno dei punti vendita Mondadori Store, su schermi e totem dove sarà trasmesso il video della campagna Two Cities One Break.
  I clienti dei negozi riceveranno poi in omaggio speciali segnalibri dedicati a Israele. Nella settimana della mostra, inoltre, una vetrina del Megastore Duomo sarà interamente dedicata a Israele e l'iniziativa sarà promossa sui ledwall esterni allo store.
  Tel Aviv e Gerusalemme sono le due anime di Israele: due città diverse, ma al contempo vicine. A meno di 4 ore di volo dall'Italia, le due città distano soltanto 45 minuti di auto l'una dall'altra: perfette da abbinare in un unico viaggio, tra cultura ed intrattenimento.

(Prima Pagina News, 8 novembre 2017)


Asse Israele-Arabia: Iran sempre più solo. Accuse sul missile

E' altissima la tensione in tutta la regione. Caos libanese, Hezbollah «è responsabile». Gerusalemme mette in allerta i suoi ambasciatori. L'America condanna. E il principe Mohammed insiste: il razzo dallo Yemen un «atto di guerra» voluto da Teheran.

di Camille Eid

Si delinea, sempre più chiaramente, l'asse Arabia Saudita-Israele in funzione anti-Iran e i suo alleati in Medio Oriente. Con il "beneplacito" di Trump, ovviamente. Dopo le indiscrezioni, trapelate nelle ultime settimane, circa una visita segreta in Israele di un «alto dignitario saudita» - molto probabilmente lo stesso erede al trono Moharnmed bin Salman (MbS) ecco il ministro degli Esteri israeliano diramare insolite istruzioni a tutte le sue ambasciate nel mondo al fine di sollecitare sostegni internazionali all'Arabia Saudita contro l'ingerenza iraniana in Libano e a favore della guerra lanciata da Riad contro i ribelli filo-iraniani nello Yemen.
   Lo ha rivelato la tv israeliana Channel 10, citando un rapporto ministeriale elaborato dopo le dimissioni del primo ministro libanese Saad Hariri, annunciate sabato scorso- guarda caso - proprio da Riad, la capitale saudita, assieme a un duro attacco contro la politica di Teheran nel suo Paese e contro l'Hezbollah sciita, definito «il braccio dell'Iran non solo in Libano, ma anche in altri Paesi arabi». Secondo Channel 10, nella direttiva, il ministero israeliano chiede ai suoi diplomatici di «contattare urgentemente il ministero degli Esteri ( del Paese ospitante) e altri funzionari governativi competenti» per sottolineare che le dimissioni di Hariri «illustrano ancora una volta la natura distruttiva dell'Iran e di Hezbollah e il pericolo che rappresentano per la stabilità del Libano e dei Paesi della regione». Ad accrescere la tensione la notizia che il principe Turki Muhammed bin Fahd, dopo gli arresti anticorruzione di domenica, ha chiesto asilo in Iran. Al pressing diplomatico sembra mancare solo il casus belli per lanciare una vasta offensiva militare sul territorio libanese (e forse anche siriano) contro Hezbollah. Nel tentativo di rimarcare i legami che uniscono le varie parti dell'asse del male, le autorità saudite hanno affermato che il missile balistico caduto sabato sera sull'aeroporto di Riad «era di fabbricazione iraniana, lanciato dal territorio yemenita sotto controllo houthi da uomini del Partito del Diavolo», come viene definito sui media sauditi Hezbollah, il Partito di Dio libanese. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sulla stessa lunghezza d'onda, aveva definito sabato le dimissioni di Hariri «un campanello di allarme per la comunità internazionale perché agisca contro l'aggressione iraniana che sta cercando di trasformare la Siria in un secondo Libano».
   In una dichiarazione pubblicata sul proprio account Twitter, il premier israeliano aveva aggiunto che «questa aggressione minaccia non solo Israele ma tutto il Medio Oriente» per cui «la comunità internazionale deve unirsi e affrontare questa aggressione». Intanto in Libano non accenna a diminuire la tensione. Dopo il Bahrein, anche gli Emirati Arabi Uniti - solidi alleati di Riad - hanno sconsigliato ai propri cittadini di recarsi in Libano. I quotidiani libanesi hanno sottolineato il «nuovo tono» dei responsabili con Beirut, con due ministri (Esteri e Affari del Golfo) che hanno messo i libanesi davanti all'alternativa «pace o guerra», minacciando di considerare il governo libanese un governo «di guerra» ostile all'Arabia Saudita se non cessa di proteggere l'Hezbollah. Un altro teatro del braccio di ferro è chiaramente lo Yemen. Fornendo missili ai ribelli in Yemen, l'Iran ha compiuto contro l'Arabia Saudita una «diretta aggressione militare», ha affermato ieri il principe ereditario "MbS" in una conversazione telefonica con il ministro degli Esteri britannico, Boris Johnson. E questo «potrebbe essere considerato come un atto di guerra», ha aggiunto il potente principe. Accuse condivise dall'ambasciatore Usa all'Onu Nikki Haley perché quella usata sabato scorso è «un tipo di arma non presente in Yemen prima del conflitto». E ieri i ribelli yemeniti Houthi hanno minacciato rappresaglie contro porti ed aeroporti degli Emirati e dell'Arabia Saudita, dopo che Dubai e Riad hanno chiuso le frontiere terrestri, marittime ed aeree dello Yemen.

(Avvenire, 8 novembre 2017)


Bologna - La scoperta del cimitero medievale degli ebrei

Resti umani, gioielli, sepolture. Le tombe profanate di via Orfeo. L'Ateneo condurrà una serie di analisi ed esami sui resti per ricostruirne la storia

di Marina Amaduzzi

 
È il più grande cimitero ebraico medievale noto in Italia ed è venuto alla luce nel corso delle indagini archeologiche per la realizzazione di un nuovo complesso residenziale. Se ne era persa ogni traccia alla fine del '500 e ora con le sue 408 sepolture potrà svelare un pezzo della storia di Bologna e della sua comunità ebraica.
   Il tesoro era sepolto vicino al monastero di San Pietro Martire, nell'isolato compreso tra le vie Orfeo, de' Buttieri, Borgolocchi e Santo Stefano. Proprio di fianco all'ex caserma Masini. L' «eccezionale scoperta», perché questi sono i termini, sarà il fulcro di un progetto di studio e valorizzazione grazie alla collaborazione tra Soprintendenza, Università, Comunità ebraica con il supporto del Comune e il sostegno di alcuni sponsor, tra cui la Fondazione del Monte, come ha annunciato ieri Daniele De Paz, presidente della Comunità. Una collaborazione tra istituzioni «non scontata», ha sottolineato il rettore Francesco Ubertini. «La comunità ebraica aveva una forte centralità in tutto il territorio nazionale - spiega De Paz -, questo ritrovamento ne definisce anche il ruolo sociale che aveva in città e come in poco tempo sia stata letteralmente eliminata». Perché proprio questo è avvenuto.
   Le fonti d'archivio riportano che quell'area, nota come contracta sancti Petri Martiris, fu acquistata nel 1393 da «Elia l'hebreo, per farne un cimitero», come racconta l'antropologa culturale Valentina Rizzo. Questa funzione permane fino al 1569 quando l'emanazione di due Bolle papali condanna le persone di religione ebraica ad abbandonare le città dello Stato Pontificio e a essere cancellate. Papa Pio V dona l'area alle suore della vicina chiesa di San Pietro Martire, accordando loro «di disseppellire e far trasportare, dove a loro piaccia, i cadaveri, le ossa e gli avanzi dei morti: di demolire o trasmutare in altra forma i sepolcri costruiti dagli ebrei, anche per persone viventi: di togliere affatto, oppure raschiare e cancellare le iscrizioni e altre memorie scolpite nel marmo». Una damnatio memoriae che riesce solo in parte visto che nei registri degli anni successivi quell'area continua a essere indicata come «Orto degli ebrei».
   Lo scavo archeologico, che si è svolto tra il 2012 e il 2014, ha riportato alla luce 408 sepolture perfettamente ordinate in file parallele, con fosse orientate est-ovest e capo del defunto rivolto a Occidente. Ma ha reso palese anche gli effetti sconvolgenti dei provvedimenti papali. Circa 150 tombe volontariamente manomesse per profanarne la sacralità, nessuna traccia delle lapidi che dovevano indicare il nome dei defunti. «Proprio da questa area vengono probabilmente le quattro splendide lapidi ebraiche esposte al museo civico Medievale», rivela il soprintendente Luigi Malnati.
   Ora tutto il materiale recuperato, quindi resti umani ma anche oggetti di ornamento, saranno studiati approfonditamente. Gli archeologi analizzeranno sia le sequenze stratigrafiche dell'area che i materiali recuperati tra cui i numerosi gioielli medievali. «L'approccio interdisciplinare - spiega una nota della Soprintendenza-, con l'integrazione delle metodologie di studio archeologico, antropologico e demo-etno-antropologico, permetterà di fare luce sulle dinamiche storiche e sociali della comunità bolognese, rileggendo il patrimonio culturale ebraico come esperienza di vita della collettività ebraica dal Medioevo a oggi».
   Non meno rilevante lo studio antropologico sugli inumati che sarà condotto dal laboratorio di Bioarcheologia e Osteologia forense dell'Alma Mater, diretto da Maria Giovanna Belcastro. «Faremo la ricostruzione del profilo biologico dei singoli individui e della comunità nel suo complesso - spiega la docente -, ne valuteremo anche lo stato di salute e nutrizionale attraverso l'esame di tutte le alterazioni e patologie ossee e dentarie». Saranno svolte perfino indagini microbiologiche e molecolari sul tartaro per ricostruire il microbiota orale (l'insieme di microorganismi simbiontici che convivono con l'organismo umano) e integrare così i dati dietetici. Saranno coinvolti ricercatori di altre università italiane (Firenze) ed europee (Cambridge e Dublino), oltre ai diversi laboratori dell'Alma Mater. Perfino quelli di fisica e astronomia che effettueranno tomografie e microtomografie computerizzate grazie alle quali potranno essere virtualmente ricostruiti i resti umani consentendo non solo di ampliare lo studio antropologico ma anche di restituire alla comunità ebraica le spoglie mortali seppellite. Uno studio titanico che per caratteristiche rappresenta un unicum che non ha confronti in Italia e pochi in Europa.
   Poi che ne sarà di tutto ciò dopo la fase di studio che secondo Belcastro «potrebbe durare due anni, speriamo di non andare oltre»? «Chiedo al sindaco un pezzo di terreno per dare sepoltura a queste povere salme oltraggiate», dice il rabbino capo Alberto Sermoneta. «Saranno i Beni culturali a decidere dove andranno invece gli oggetti recuperati - conclude Malnati -, a mio parere la sede più logica è il museo Ebraico di Bologna, perché mi piacerebbe che il materiale restasse vicino al territorio dove è stato scavato. Ma c'è anche il Museo nazionale dell'ebraismo di Ferrara. Non sarò solo io a decidere».

(Corriere di Bologna, 8 novembre 2017)


L'apocalisse dell'Italia

Da un articolo di The Washington Times (2/11)

di Daniel Pipes

ROMA - Quando si pensa ai migranti e all'Islam, l'Italia non è un paese che viene in mente.
Al contrario dei suoi vicini nordeuropei, l'Italia non ha avuto un miracolo economico che richiedesse l'importazione massiccia di manodopera. Non ha un legame profondo con grandi fonti di immigrazione, come l'Asia meridionale per la Gran Bretagna. Non è stata colpita da gravi atti di violenza di matrice jihadista come la Francia. A differenza della Svezia, non si sente parlare di folle acquiescenza e contrariamente al Belgio non esistono "no-go zones" parziali. Diversamente dai Paesi Bassi, non è emerso nessun politico dichiaratamente anti-islamico paragonabile a Geert Wilders e, a differenza della Germania, nessun partito anti-immigrazione è diventato una forza politica rilevante.
   Ma come le sue controparti nordeuropee, l'Italia merita attenzione perché sta subendo massicci cambiamenti. Cambiamenti che forse sono ancor più pressanti, profondi e negati che nei paesi meglio conosciuti.
   Innanzitutto, c'è la geografia. Non solo il famoso "stivale" dell'Italia si staglia nel Mar Mediterraneo, rendendo il paese una destinazione allettante per i migranti illegali che arrivano via mare, ma il territorio italiano si estende verso il Nord Africa: la piccola isola di Lampedusa, con una popolazione di 6 mila persone, si trova a soli 113 km dalle coste della Tunisia e a 300 km da quelle della Libia. Nel 2016, sono entrati in Italia 181 mila migranti, quasi tutti illegalmente, quasi tutti via mare.
   La Libia e l'Italia sono ora la principale autostrada percorsa dagli africani per raggiungere l'Europa.
   L'immigrazione era già una grande sfida quando il leader libico Muammar Gheddafi gestiva a proprio piacimento i flussi migratori, strappando così concessioni da parte dell'Italia, in un gioco che anticipava ciò che sta ora facendo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan con la Germania. Ma con la deposizione di Gheddafi, avvenuta nell'ottobre 2011, l'anarchia in Libia presenta problemi ancora maggiori. Almeno Gheddafi bastava pagarlo per ottenere i risultati desiderati, invece oggi è molto più difficile negoziare con una miriade di leader locali e trafficanti di esseri umani.
   Ad aggravare ulteriormente la tendenza verso ciò che l'intellettuale francese Renaud Camus definisce una grande sostituzione dei popoli, 285 mila italiani hanno lasciato il loro paese nel 2016, un aumento notevole rispetto agli anni precedenti.
   E poi c'è la storia. La presenza musulmana in Sicilia durò quasi cinque secoli (827-1300) e anche se è meno celebrata di quella in Andalusia, gli islamisti sono memori di quell'epoca e vogliono riprendersi la Sicilia. Roma, la sede della Chiesa Cattolica, rappresenta un simbolo fondamentale della collera e delle ambizioni islamiste, il che rende altamente probabile che la capitale sia un obiettivo della violenza jihadista.
   I trend demografici sono addirittura peggiori di quelli dell'Europa settentrionale, con un tasso di fecondità totale [TFR, in inglese, N.d.T.] (numero di figli per donna) di 1,3, ben al di sotto della vicina Francia (2,0). Il giornalista Giulio Meotti mi dice che il TFR dei migranti è di quasi 2,0 mentre quello degli italiani è di circa 0,9. Alcune cittadine rischiano l'estinzione. Uno di questi paesi, Candela, dove il numero degli abitanti è passato dagli 8 mila del 1990 ai 2.700 di oggi, ha risposto alla tendenza offrendo denaro per indurre i migranti economicamente produttivi a stabilirsi lì. Il ministro della Salute italiano, Beatrice Lorenzin, ha definito il trend demografico "un'apocalisse".
   Se combinati, questi fattori mostrano una crisi di civiltà per l'Italia. Ma il muro della negazione è quasi completo. Sì, la Lega Nord e il Movimento 5 Stelle si oppongono all'immigrazione sfrenata, ma questo non è il loro obiettivo. Per quanto nel Nord Europa il dibattito sull'immigrazione e l'islamismo sia asimmetrico e sprezzante, in Italia è peggiore. Le voci che hanno affrontato questi temi dieci anni fa, come Magdi Allam, Oriana Fallaci, Fiamma Nirenstein, Emanuele Ottolenghi e Marcello Pera non si sentono più. La negazione prevale.
   Papa Francesco ha assunto il ruolo di principale sostenitore dell'immigrazione libera e dell'accoglienza indiscriminata dei migranti, rendendo il delicato dibattito sul tema ancora più difficile. Oltre alla deriva politica, lo sprovveduto governo del premier Paolo Gentiloni promuove i cliché abituali della sinistra, riconoscendo a malapena il cambiamento tettonico in corso.
   Dopo aver visitato dodici città in Italia, ho l'impressione che per la maggior parte degli italiani la crisi sia davvero terribile da affrontare. (I lettori americani potrebbero paragonare questo alla riluttanza dei loro connazionali ad affrontare la minaccia di radiazioni elettromagnetiche.) Mi torna alla mente un'immagine che ho visto in un parco di Padova: una statua circondata da quattro panchine. Sette donne anziane si stringono attorno a una panchina, mentre otto africani occupano le altre tre. Questa scena dimostra sia il reciproco disprezzo sia il cospicuo senso di superiorità dei migranti.
   Cosa ci vorrà perché gli italiani si sveglino e inizino ad affrontare la catastrofe demografica e sociale che minaccia la loro cultura straordinariamente affascinante? La mia ipotesi: un grosso attacco jihadista a Roma.

(Mailing List di Daniel Pipes, 8 novembre 2017 - trad. Angelita La Spada)


A Oxford si oscura la mezzaluna di Ramadan, seduttore islamico dei borghesi

Einaudi, Corriere della Sera, governi. Aveva conquistato tutti.

di Giulio Meotti

 
Tariq Ramadan
ROMA - Cosa sarebbe successo se Harvey Weinstein, accusato di molteplici stupri e molestie sessuali, avesse gridato al "complotto antisemita", se l'Academy lo avesse lasciato al suo posto e i colleghi si fossero esposti a sua difesa, dicendo che Weinstein era pur sempre "un insigne produttore"? E' quello che stava per succedere con Tariq Ramadan, il celebre islamologo svizzero accusato da diverse donne di stupri e molestie sessuali.
   Adesso altre quattro nuove accuse arrivano dalla Svizzera, dove alcune ex studentesse dicono di essere state abusate da Ramadan. Riporta la Tribune de Geneve che una di queste donne dice di aver fatto sesso con Ramadan quando aveva quindici anni nel retro di un'auto. E cosa avevano pensato di fare gli accademici di Oxford dove Ramadan insegna? Ovviamente lasciargli la cattedra.
   Una militante inglese per i diritti delle donne, Aischa Ali-Khan, aveva raccolto le firme per cacciare Ramadan dalla prestigiosa università. "Nelle due settimane precedenti, un certo numero di donne ha denunciato le aggressioni sessuali e la condotta inappropriata del professor Tariq Ramadan. Le ultime accuse mostrano che il professor Ramadan ha abusato della sua posizione facendo sesso con almeno tre delle sue studentesse, una delle quali era minorenne. Chiediamo a Oxford di sospendere immediatamente il professor Ramadan fino a che queste e le precedenti accuse fatte in altri paesi siano completamente chiarite. Mentre crediamo nella massima che si è innocenti fino a prova contraria, l'Università di Oxford non può semplicemente continuare a mettere a rischio il benessere dei suoi studenti".
   Dalla prima accusa di stupro due settimane fa, gli studenti riferiscono che Ramadan aveva tenuto un seminario a Oxford e che era stato visto "ridere" con i membri delle facoltà. In risposta alle richieste degli studenti e alla raccolta delle firme, i senior della facoltà avevano così organizzato una riunione "per affrontare le implicazioni per il benessere degli studenti derivanti dalle accuse".
   La risposta ufficiale era arrivata dal direttore del Centro per il medio oriente, Eugene Rogan, che aveva detto: "Non si tratta solo di violenza sessuale. Per alcuni studenti è solo un altro modo per gli europei di combattere contro un insigne intellettuale musulmano. Dobbiamo proteggere gli studenti musulmani che credono e si fidano di lui". Sì, abbiamo letto bene.
   Ieri è arrivata la decisione dell'università: "Congedo". La mezzaluna di Tariq Ramadan si sta dunque oscurando in quella prestigiosa università che, dal 2009, gli aveva dato il maggior lustro. La cattedra di Ramadan a Oxford era stata finanziata dal Qatar, che soltanto nel 2015 aveva donato undici milioni di sterline per rinnovare il college di Oxford dove insegna Ramadan. Una storia che rischia di affondare uno dei grandi barconi multiculturali europei.
   Ramadan, infatti, è stato a lungo il conferenziere amato dalla gauche francese, il consulente di Tony Blair e David Cameron, l'affabulatore della gioventù delle periferie, il maestro nell'arte di séduire le bourgeois, il moralizzatore del velo e del "pudore" islamico, l'imbonitore che voleva "discutere" della lapidazione, il terzista che non si disse Charlie, l'islamologo pubblicato con i blasoni editoriali (Einaudi in Italia) e che, un anno fa, dalle colonne del Corriere della Sera predicò "la regione al servizio di Allah". Mentre al proprio di servizio pare ci mettesse un po' di concubine.

(Il Foglio, 8 novembre 2017)


1897, 1917, 1937, 1947, 1967. Gli anniversari, la Storia, la realtà di oggi

Un convegno del Gruppo Sionistico Piemontese in collaborazione con la Comunità Ebraica di Torino su Israele e il Sionismo

Domenica 12 novembre
Circolo della Stampa Corso Stati Uniti 27 - Torino

Temi e oratori
  • Come è cambiato il Medio Oriente dal 1967, Domenico Quirico
  • Analisi del periodo 1882-1914 e del conflitto tra mondo ebraico e mondo arabo; il sionismo non fu un’impresa coloniale, Georges Bensoussan
  • I luoghi comuni del conflitto mediorientale e i caratteri del nuovo antisemitismo dei nostri giorni, David Meghnagi,
  • ll conflitto del 1967 fu la svolta che diede l'avvio all'alleanza tra la Comunità Europea e la Lega araba nel sostegno dato ad nuovo popolo palestinese contro Israele, Bat Ye’or
Introduce e modera: Vittorio Robiati Bendaud

Programma

(Gruppo Sionistico Piemontese, 8 novembre 2017)


Pardès Falastin di Marinella Peyracchia

Alle 15,30 di domenica 12 alla Comunità ebraica di Casale

Ancora una presentazione letteraria per il prossimo appuntamento culturale alla Comunità ebraica di Casale Monferrato. Dopo "Presidenti" in cui la scorsa settimana si è ripercorsa la storia di Raffaele Jaffe, fondatore del Casale Calcio, alle ore 15,30 di Domenica 12 novembre in vicolo Salomone Olper si sfoglia il romanzo "Pardès Falastin" di Marinella Peyracchia.
   Pardés è la parola ebraica che definisce il giardino, il paradiso di pace, appunto, della terra coltivata e produttiva. Luogo idilliaco e felice. Nel pardés è stato creato il primo uomo. Dal pardés è stato scacciato con dolore. In pardés il popolo di Israele spera di veder rifiorire la Terra di Sion, la terra che Dio gli ha promesso e a cui, ogni ebreo, anela tornare. Falastin è invece una parola araba che definisce la terra in cui, per duemila anni, il popolo palestinese ha vissuto, coltivato, costruito villaggi. Nome che è poi diventato Palestina quando i romani occuparono la Terra di Canaan, dopo averla sottomessa. Un nome inviso al popolo di Israele, perché deriva da genti nemiche, i filistei. Un nome in cui, però, si riconosce il popolo che la nascita dello Stato di Israele sembra aver condannato a esilio e miseria. "Pardés Falastin" è quindi una terra che non esiste, un semplice sogno di pace che ebrei e palestinesi devono trovare il modo di condividere.
   In questo luogo si muovono i due protagonisti del romanzo, due uomini assai diversi per cultura, identità e posizione sociale, che vivono a Gerusalemme e che si ritroveranno a fare i conti con la realtà dolorosa del conflitto tra Israele e Palestina. Seppure entrambi credano nella convivenza pacifica dei due popoli, le loro vite s'intrecciano su uno sfondo crudele, che li pone inevitabilmente su opposti fronti. A un passo dall'ostilità e dalla diffidenza reciproca, finiranno invece per ritrovarsi solidali e amici, accomunati dalla fatica quotidiana di resistere all'orrore di un conflitto che divora le generazioni e sembra togliere sempre più la speranza di un futuro normale.
   A parlare del romanzo (Conti Editore) sarà la stessa autrice Marinella Peyracchia, nata in Valle Varaita, nel 1958. Ha studiato Architettura a Torino e Geografia Umana Grenoble. Nel 2013 ha pubblicato Il bambino blu, storia di viaggio in Patagonia. Accanto a lei la Elisabetta Massera studiosa di Storia Contemporanea ed esperta di didattica della Storia.

(Il Monferrato, 8 novembre 2017)s



Il ricordo di Leonard Cohen ad un anno dalla sua scomparsa

di Emanuel Segre Amar

Leonard Cohen
Hallelujah  
"I've seen the future, baby, It is murder" scriveva nel 1992 Leonard Cohen, morto a Los Angeles il 7 novembre 2016.
  Nato a Montreal da padre polacco e da madre lituana, a sua volta figlia di uno scrittore talmudico, Cohen sentì profondamente, e per tutta la vita, la propria appartenenza al mondo ebraico. Anche durante il periodo in cui si avvicinò al buddismo, fino a vivere per molti anni in un monastero buddista in California, non si allontanò mai dall'ebraismo. Diceva: "Non sto cercando una nuova religione. Sono molto felice con la vecchia". E anche in quel periodo continuò a rispettare il sabato.
  Cohen iniziò giovanissimo a scrivere poesie e il critico Robert Weaver ritenne che Leonard fosse probabilmente il migliore giovane poeta contemporaneo del Canada anglofono. Dopo aver pubblicato anche un romanzo di successo, The favorite game, nel 1963, pubblicato in Italia da Longanesi nel 1975 e poi da Fazi nel 2002, e il successivo Beautiful losers, nel 1965, romanzo che almeno inizialmente non incontrò i favori della critica ed ebbe vendite deludenti, Cohen passò al mondo musicale e nel 1967, a 33 anni, pubblicò il suo primo disco, Songs of Leonard Cohen.
  Si trattò di un album dove l'autore si impegnò nella scrittura sia della musica che dei testi, ma solo due anni più tardi, nel 1969, con l'album Songs from the Room raggiunse il successo anche negli USA e in Gran Bretagna sull'onda del quale, nel 1970, tenne i suoi primi concerti negli USA, in Canada, in Europa e, nel 1972, in Israele.
  In Israele ritornerà nel 1973, durante la guerra del Kippur, per esibirsi di fronte ai soldati israeliani persino nel bel mezzo del deserto del Sinai. There Is a War sarà direttamente ispirata dal suo pellegrinare nel Sinai devastato dai bombardamenti e per tutta la vita mantenne contatti personali con alcuni soldati che conobbe durante questa guerra.
  Fu probabilmente Suzanne, del 1966, la canzone che ne decretò il successo internazionale, ma Halleluja, poco compresa alla sua uscita a causa dei riferimenti biblici al re Davide, a Betsabea ed a Sansone, divenne la canzone di maggior successo.
  Con The Future, del 1992, si aggiudica il disco di platino in Canada e d'argento in Inghilterra; la canzone però non venne forse mai trasmessa dalle radio statunitensi a causa di alcuni passaggio ritenuti troppo osé.
  Vale comunque la pena rileggerne alcuni versi, forse drammaticamente profetici, in cui elenca alcune delle peggiori cose del passato che portarono morte, ma che sarebbero forse meglio di ciò che egli vedeva nel futuro:

    Things are going to slide, slide in all directions
    Won't be nothing
    Nothing you can measure anymore
    The blizzard, the blizzard of the world
    Has crossed the threshold and it has overturned
    The order of the soul
    When they said repent repent
    I wonder what they meant
    ….
    You don't know me from the wind
    You never did, you never will,
    I'm the little Jew
    Who wrote the Bible.
    I've seen the nations rise and fall
    I've heard their stories, heard them all
    But love's the only engine of survival
    Your servant here, he has been told
    To say it clear, to say it cold
    It's over, it ain't going
    Any further.
    And now the wheels of heaven stop
    You feel the devil's riding crop
    Get ready for the future
    It is murder

    Give me back the Berlin wall
    Give me Stalin and St. Paul
    Give me Christ
    Or give me Hiroshima
    Destroy another fetus now
    We don't like children anyhow
    I've seen the future, baby
    It is murder
Ricordiamo, tra le tante, la canzone Who by Fire, ovviamente ispirata dalla famosissima composizione, Untané Tokef, che si recita nelle preghiere di Rosh HaShanah e Kippur, le più importanti festività del calendario ebraico.
  Composizione solenne con melodie struggenti, molto sentita nel mondo ashkenazita perché riferita ai massacri di Magonza quando decine di migliaia di ebrei vennero trucidati, spesso bruciati vivi nelle sinagoghe, dai crociati in partenza per Gerusalemme.
  Il suo ultimo album, You Want it Darker è probabilmente il più celebre e può essere considerato il suo testamento musicale.
  Cohen si sentiva profondamente ebreo (in gioventù studiò a lungo la Bibbia, il Talmud e i precetti della religione ebraica). Non è quindi un caso se cantò questo brano nella Sinagoga di Montreal accompagnato dal coro.
  Il cantante israeliano Matti Casoi, che lo frequentò, racconta che
    "si sentiva ebreo, e viveva il suo ebraismo alla sua maniera, fuori dai sentieri battuti. A lui non piaceva affrontare in pubblico queste tematiche perché il suo giudaismo faceva parte della sua intimità. Per questo ha sempre rifiutato di farne un argomento di pubblicità o un soggetto di dibattito".
Il Canada gli concesse la più alta onorificenza, l'Ordine del Canada, e nel 2011 ricevette il Premio Principe delle Asturie per la letteratura, a dimostrazione della sua mente poliedrica.
  Cohen ebbe due figli, Adam, anche lui cantautore, e Lorca. I due, purtroppo, non hanno saputo cogliere lo spirito che animò il loro padre per tutta la sua esistenza e, a dimostrazione di ciò, hanno invitato a cantare Elvis Costello al concerto che si terrà in sua memoria.
  Questa scelta è molto discutibile visto che Costello nel 2010, quando Cohen era ancora attivo sulle scene, cancellò due concerti che avrebbe dovuto tenere in Israele. Costello motivò la sua decisione in questo modo:
    "There are occasions when merely having your name added to a concert schedule may be interpreted as a political act that resonates more than anything that might be sung and it may be assumed that one has no mind for the suffering of the innocent. "I must believe that the audience for the coming concerts would have contained many people who question the policies of their government on settlement and deplore conditions that visit intimidation, humiliation or much worse on Palestinian civilians in the name of national security.
    I am also keenly aware of the sensitivity of these themes in the wake of so many despicable acts of violence perpetrated in the name of liberation.
    It is a matter of instinct and conscience.
    I cannot imagine receiving another invitation to perform in Israel, which is a matter of regret, but I can imagine a better time when I would not be writing this.
    With the hope for peace and understanding.
    Elvis Costello."
Appunto, proprio per "una questione d'istinto e di coscienza", come dice Costello, se io fossi stato un figlio del grande Leonardo Cohen non avrei invitato un membro attivo del BDS.

(Progetto Dreyfus, 7 novembre 2017)


Israele è il laboratorio delle auto a guida autonoma

di Luigi Ferro

La scena è occupata dai big dell'automotive e dai colossi della Silicon Valley che in collaborazione e in concorrenza fra loro portano avanti i programmi sulle auto a guida autonoma.
  Dietro di loro però ci sono altre aziende che nel silenzio lavorano per fornire le tecnologie essenziali per il funzionamento delle driverless.
  Israele è, manco a dirlo, la terra di elezione, di queste startup. Negli ultimi anni, il numero di aziende che lavorano sul veicolo autonomo è esploso. Nel 2013, l' associazione di categoria Ecomotion contava 87 startup attive nel settore del trasporto intelligente, il 35% delle quali specializzato in veicoli autonomi. Oggi ne esistono 520.
  La maggior parte di queste società si concentra nell'ambito BtoB e sviluppa tecnologie di guida autonome, sensori e sistemi di visione computerizzati che consentono al veicolo di orientarsi nello spazio o nelle soluzioni di cybersecurity.
  Li vendono poi a coloro che provano veicoli autonomi o cominciano a integrare l'autonomia nei loro veicoli di produzione: case automobilistiche, aziende tecnologiche e Oem come Bosch, Magna o Delphi.

 La tecnologia driverless di Mobileye
 
 
  Il nome più noto è Mobileye. Sviluppa sensori e tecnologie di visione computerizzate per sistemi di assistenza alla guida e veicoli autonomi. Intel ha acquistato l'azienda nel marzo 2017 per 15 miliardi di dollari, di gran lunga la più grande acquisizione nella storia di Israele. Amnon Shashua, co-fondatore, presidente e direttore tecnico di Mobileye, è stato nominato alla guida dell'intero programma di auto autonoma di Intel, ora basato in Israele. Mobileye, fondata nel 1999, è un player particolarmente maturo, ma anche startup più giovani stanno sviluppando forti relazioni con l'industria automobilistica.
  Innoviz sta sviluppando una nuova generazione di Lidar, uno dei sensori necessari per una guida autonoma più economica e compatta rispetto alle versioni precedenti. La startup, il cui primo prodotto dovrebbe essere lanciato all' inizio del 2018, ha ricevuto investimenti da Magna e Delphi. Questi società stanno già utilizzando i sensori di Innoviz per testare i loro veicoli autonomi e integreranno i suoi prodotti nelle loro offerte alle case automobilistiche. Sullo stesso modello di collaborazione con produttori di apparecchiature, Adasky prepara una termocamera, in grado di rilevare da altri sensori quando sono inefficaci (notte, cattivo tempo...).
  Altre startup da citare sono Cognata, che sviluppa software per simulare i viaggi dei veicoli autonomi al fine di addestrare la loro intelligenza artificiale, i sistemi di comunicazione tra i veicoli e alla smart city di Autotalks, così come gli specialisti in cybersecurity di Karamba Cybersecurity e Argus Cybersecurity. Per avvicinarsi a questo ecosistema innovativo, Renault, Daimler e Gm hanno aperto centri di ricerca e sviluppo in Israele. La maggior parte degli altri produttori hanno anche stabilito una presenza nel paese per identificare talenti e aziende da acquisire. Come Ford, che l' anno scorso ha messo le mani su Saips e la sua tecnologia di visual computing.

 Non sappiamo fare automobili
 
 
  La cosa più interessante di questo germogliare è che storicamente il settore automobilistico in Israele è stato quasi inesistente. Come si spiega questo successo? Prima di tutto perché Israele è abituato a questo tipo di mercato", dice Dror Meiri, vice presidente di AdaSky responsabile dello sviluppo del business.
  "L'industria tecnologica israeliana ha una vasta esperienza nella fornitura di tecnologie BtoB all'avanguardia alle aziende internazionali. E nell'industria automobilistica, tutta l' innovazione oggi si basa sulla tecnologia. Inoltre, non abbiamo un patrimonio industriale da proteggere: non sappiamo fare automobili come Detroit e Stoccarda".
  Tutte queste competenze provengono dallo stesso luogo: l'esercito israeliano e le sue potenti unità tecnologiche. Il co-fondatore di Innoviz Oren Rosenzweig ha trascorso sette anni in un'unità tecnologica d'élite di Tsahal (l'esercito israeliano), dove ha incontrato gli altri fondatori della società. "È probabilmente la migliore scuola israeliana per la progettazione di sistemi elettro-ottici. Ci ha aiutato molto nello sviluppo del nostro sensore Lidar".
  La situazione delle imprese di autotrasporto autonome è un po' simile a quella del settore israeliano della cibersicurezza, spinto dalle esigenze militari del paese, conferma Oren Rosenswzeig. "Questi sono ingegneri alla ricerca di applicazioni civili per ciò che hanno imparato nell' esercito". Adasky, i cui due leader hanno un background tecno-militare, è un buon esempio. L'avvio è stato il risultato di uno spin-off di un' azienda che aveva già sviluppato termocamere per l' industria militare, prima di realizzare il loro potenziale nel veicolo autonomo.
  Le startup israeliane sono quindi ben posizionate per catturare parte del valore di mercato dei veicoli autonomi. "Alcuni, come Mobileye e Argus, sono maturi e cresciuti al punto da poter rifornire l' industria automobilistica in tutto il mondo", afferma Mathieu Noèl. "Le start-up autonome di autopilota competono con le soluzioni offerte da produttori di apparecchiature come Bosch e Valeo".
  A volte riescono a fare a meno dei produttori di apparecchiature e vendono le loro tecnologie direttamente ai produttori, ma spesso ne hanno ancora bisogno", dice il consulente. "Questi giovani germogli non hanno la capacità di integrare i loro sistemi nei veicoli come fanno gli Oem". Il tempo dirà se gli israeliani diventeranno attori influenti nell' industria automobilistica o semplicemente il loro laboratorio di ricerca e sviluppo.

(01net., 7 novembre 2017


Visita in Spagna del presidente israeliano Rivlin

Rivlin: re Felipe simbolo di unità

Il presidente israeliano Reuven Rivlin, in visita di stato in Spagna, ha esaltato l'unità del paese iberico. "La Spagna per noi - ha detto incontrando il re Felipe - è un'unica nazione e sua Maestà il re è il simbolo di questa unità. Tutti i cittadini spagnoli ci sono cari e speriamo e preghiamo che ogni conflitto sia risolto con mezzi pacifici".
L'intervento di Rivlin, pur non nominando la Catalogna, sembra discostarsi in qualche modo - hanno sottolineato i media in Israele - dalla posizione assunta dal ministero degli esteri a Gerusalemme sulle vicende che hanno travagliato la Spagna.
"Israele spera - si affermava in quella dichiarazione - che la crisi interna in Spagna sia risolta rapidamente e in modo pacifico, attraverso un vasto consenso nazionale".

(ANSA, 7 novembre 2017)


Intellettuali contro l'antisemitismo del Labour

Traduzione della lettera che tre saggisti inglesi hanno inviato ieri al Times di Londra, denunciando l'antisemitismo strisciante nel Labour di Jeremy Corbyn.

Mentre ricorre il centenario della dichiarazione Balfour siamo turbati per il tono e la direzione che il dibattito su Israele e il sionismo sta assumendo nel Partito laburista. Ci allarma il fatto che negli ultimi anni la critica costruttiva nei confronti del governo israeliano si sia trasformata in qualcosa che è molto simile all'antisemitismo, coperto dal mantello di quello che viene chiamato antisionismo. Non mettiamo in discussione le lecite critiche al governo di Israele, ma queste sono cresciute a tal punto da essere diventate indistinguibili dalla demonizzazione del sionismo, il diritto del popolo ebraico ad avere una patria e la stessa esistenza dello stato ebraico. Sebbene gli antisionisti sostengono di essere scevri di intenti antisemiti, l'antisionismo prende spesso in prestito le diffamazioni tipiche dell'odio antisemita. Le accuse sulla cospirazione ebraica internazionale e sul controllo dei media hanno fatto riemergere la falsa equiparazione del sionismo al colonialismo e all'imperialismo e la promozione di parallelismi viziosi e fittizi con il genocidio e il nazismo. In questi casi, come è possibile distinguere l'antisionismo dall'antisemitismo? Questi argomenti e questo linguaggio sono diffusi ali 'interno del partito di Jeremy Corbyn. Finora la reazione della leadership dei laburisti è stata irrisoria. Non è sufficiente denunciare ogni tipo di razzismo se questo specifico fardello si diffonde a macchia d'olio. Il sionismo - il desiderio di un popolo disperso di tornare a casa - è stato una parte costante e preziosa della vita ebraica sin dal settanta dopo Cristo. Nella sua forma moderna, il sionismo è stato una risposta ai secoli di persecuzioni, espulsioni e omicidi di massa sia nel mondo cristiano sia in quello musulmano, iniziati nel Medioevo e andati avanti fino alla metà del Ventesimo secolo. La sua rinascita è stata un'asserzione del diritto di esistere davanti una crudeltà unica nella storia. Noi non vogliamo né dimenticare né negare che i palestinesi abbiano una storia e una cultura altrettanto legittime in Palestina, né che siano stati vittime di errori che devono essere sanati. Speriamo che uno stato palestinese possa esistere in pace insieme a Israele. N on cerchiamo di minimizzare la loro sofferenza, né il ruolo svolto durante la creazione dello stato d'Israele. Tuttavia cercare giustizia per una nazione non vuoI dire demonizzarne un'altra. Il sionismo è il diritto del popolo ebraico ad autodeterminarsi. Noi crediamo che l'antisionismo, con le sue caratteristiche di antisemitismo, non abbia spazio nella società civile.
Howard Jacobson, Simon Sebag Montefiore, Simon Schama

(Il Foglio, 7 novembre 2017)


Ritrovato il cimitero ebraico medievale di Bologna, distrutto cinque secoli fa

E’ il più grande d’Italia, se ne era persa ogni traccia

 
Veduta parziale dell'area di scavo
Ritrovato il cimitero ebraico medievale di Bologna distrutto nel 1569, se ne era persa ogni traccia: con le sue 408 sepolture è il più grande finora noto in Italia. È la più vasta area cimiteriale medievale mai indagata in città, testimone di eventi che hanno radicalmente mutato la storia e la vita di una parte della popolazione bolognese tra il XIV e il XVI secolo. Per 176 anni è stato il principale luogo di sepoltura degli ebrei bolognesi ma dopo le bolle papali della seconda metà del Cinquecento - che autorizzano la distruzione dei cimiteri ebraici della città - sopravvive per secoli solo nel toponimo di "Orto degli Ebrei". Ritrovato nel corso degli scavi archeologici del 2012-2014, il cimitero ebraico medievale scoperto in via Orfeo a Bologna non è solo il più grande finora noto in Italia ma un'opportunità unica di studio e ricerca. Sono state scavate 408 sepolture di donne, uomini e bambini, alcune delle quali hanno restituito elementi d'ornamento personale in oro, argento, bronzo, pietre dure e ambra. Un gruppo di lavoro composto da Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Bologna, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Comunità Ebraica di Bologna e ricercatori indipendenti, con il supporto del Comune di Bologna, cercherà di ricomporne le vicende storiche, ricostruendo le dinamiche insediative e l'evoluzione topografica e sociale dell'area. Uno degli obiettivi primari del Progetto è l'elaborazione di un piano di recupero della memoria e la valorizzazione del patrimonio culturale ebraico e della storia della comunità bolognese.
   Tra il 2012 e il 2014, l'area che si è poi rivelata essere il "perduto" cimitero ebraico medievale di Via Orfeo è stata oggetto di uno scavo archeologico stratigrafico estensivo, condotto dalla Cooperativa Archeologia in relazione alla costruzione di un complesso residenziale. Il sepolcreto si colloca nei pressi del Monastero di San Pietro Martire, nell'isolato compreso tra via Orfeo, via de' Buttieri, via Borgolocchi e via Santo Stefano. Le fonti d'archivio riportano che quest'area fu acquistata nel 1393 da un membro della famiglia ebraica dei Da Orvieto per poi essere lasciata in uso agli Ebrei bolognesi come luogo di sepoltura.
   Questa funzione permane fino al 1569, quando l'emanazione di due Bolle Papali condanna le persone di religione ebraica ad abbandonare le città dello Stato Pontificio e ad essere cancellate dalla memoria dei luoghi dove avevano vissuto e operato. Uno degli effetti più violenti di queste persecuzioni è l'autorizzazione a distruggere i cimiteri e a profanare le sepolture ebraiche presenti in città. Una damnatio memoriae che riesce solo in parte visto che negli atti e registri degli anni seguenti, ma soprattutto nella consuetudine orale, quell'area continua ad essere indicata come "Orto degli Ebrei". Con il Breve del 28 novembre 1569, Pio V dona l'area del cimitero ebraico alle suore della vicina chiesa di San Pietro Martire, accordando alle monache la facoltà "di disseppellire e far trasportare, dove a loro piaccia, i cadaveri, le ossa e gli avanzi dei morti: di demolire o trasmutare in altra forma i sepolcri costruiti dagli ebrei, anche per persone viventi: di togliere affatto, oppure raschiare e cancellare le iscrizioni ed altre memorie scolpite nel marmo".
   Lo scavo archeologico ha riportato in luce gli sconvolgenti effetti di questo provvedimento: circa 150 tombe volontariamente manomesse per profanare la sacralità delle sepolture, nessuna traccia delle lapidi che dovevano indicare il nome dei defunti, forse vendute o riutilizzate. Proprio da via Orfeo vengono probabilmente le quattro splendide lapidi ebraiche esposte nel Museo Civico Medievale di Bologna. L'area cimiteriale di via Orfeo ha restituito 408 sepolture a inumazione perfettamente ordinate in file parallele, con fosse orientate est-ovest e capo del defunto rivolto a occidente. La razionale organizzazione planimetrica delle tombe e la presenza di oggetti d'ornamento di particolare ricchezza sono peculiarità difficilmente riscontrabili nei cimiteri coevi. Ulteriori ricerche consentiranno di analizzare le conseguenze del passaggio di proprietà del terreno al Monastero di San Pietro Martire, verificando l'eventuale presenza anche di sepolture cristiane inserite nell'area del precedente cimitero ebraico.
   Gli studi archeologici analizzeranno sia le sequenze stratigrafiche, che attestano una frequentazione dell'area dall'Età del Rame all'età moderna, sia i materiali recuperati nello scavo, avvalendosi anche del confronto con alcuni contesti cimiteriali ebraici scavati in Inghilterra, Francia e Spagna. Tra i oggetti rinvenuti negli scavi, un approfondimento sarà dedicato ai numerosi gioielli medievali, di cui verranno studiate caratteristiche stilistiche, tecniche di realizzazione e significati delle incisioni presenti. L'approccio interdisciplinare, con l'integrazione delle metodologie di studio archeologico, antropologico e demo-etno-antropologico, permetterà di fare luce sulle dinamiche storiche e sociali della comunità bolognese, rileggendo il patrimonio culturale ebraico come esperienza di vita della collettività ebraica dal Medioevo a oggi e come elemento costitutivo dei Beni Culturali della città. Partendo dal cimitero di via Orfeo, il Progetto intende diffondere la conoscenza del patrimonio ebraico e valorizzare i luoghi simbolici della storia della comunità bolognese, al fine di contribuire al processo di costruzione di una memoria cittadina attiva e partecipata.

(trc.tv, 7 novembre 2017)



Anne Frank non è ebrea, non è stata uccisa ma sta in un ménage à trois.

E' una pièce olandese. De Winter: ''Ecco i peggiori antisemiti"

di Giulio Meotti

ROMA - La manipolazione di Anne Frank è uscita dallo Stadio Olimpico per entrare nei teatri d'Olanda. Ma se il mese scorso l'oltraggio è arrivato da un gruppo di ultras (fra cui un ragazzino di tredici anni), stavolta lo scandalo ruota attorno all'opera di uno dei più blasonati scrittori olandesi. Si tratta di "Achter het Huis", dietro la casa, l'opera di Ilja Pfeijffer che cancella l'identità ebraica di Anne Frank così come i suoi carnefici nazisti, ambientando la storia dell'autrice del "Diario" ai nostri tempi, per farne la parabola di un litigio domestico, sessuale e famigliare. Nella pièce, Anne non viene uccisa e tutto ruota attorno alle molestie sessuali di Fritz Pfeffer ai danni di Margot Frank, la sorella di Anne. Pfeffer è il dentista ebreo che si nascose con i Frank e che morì nella Shoah. Il quotidiano Volkskrant rende noto che al drammaturgo Ilja Pfeijffer ha fatto causa l'Anne Frank Fonds, l'organizzazione svizzera creata dal padre di Anne, Otto Frank.
   A complicare le cose ci sono anche le passate dichiarazioni di Ilja Pfeijffer contro gli ebrei. Un anno fa, il drammaturgo ha scritto di Leon de Winter, forse il più celebre narratore ebreo olandese e lui stesso autore di un'opera sulla famiglia Frank: "Se tutti gli ebrei fossero come Leon de Winter, vedrei la ragione dell'antisemitismo". L'accusa venne dopo la decisione di De Winter di lasciare il suo editore per aver fatto scrivere un autore belga, Dyab Abou Jahjah, un sostenitore di Hezbollah che ha incitato alla violenza contro gli israeliani e che ha parlato della "sensazione di vittoria" a seguito degli attacchi dell'11 settembre. Troppo, per De Winter. Nel 2015, Pfeijffer ha poi pubblicato un poema in cui fa parlare un palestinese che ha perso la casa e la cui figlia è stata uccisa "da ebrei che hanno calpestato la nostra terra santa con stivali che non possono fare alcun male perché sono di ebrei, a causa di quello che è accaduto prima" (nella Shoah, ndr).
   "Pfeijffer vuole mostrare che la storia di Anne Frank è una parabola della crudeltà, con due famiglie che litigano in una casa", dice al Foglio Leon de Winter. "Questi scrittori toccano l'apice della perversione e del fanatismo antisionista. Per questa gente non c'è limite. E' la fine della santità dei fatti, tutto quello che di nuovo si crea diventa vero. Non ci sono limiti alla manipolazione della storia. E' Goebbels più i social media. Così si mette una kefiah al collo di Anne Frank. Per me questa è la forma più pura di antisemitismo. Oggi si dice ad esempio che non ci fu alcun Tempio ebraico a Gerusalemme o che i moderni ebrei non discendono dagli ebrei biblici ma da una tribù del Caucaso. E ora questa pièce sui Frank. Si elimina l'ebraismo dalla storia. Si usa la Shoah contro Israele. Gli ebrei diventano i nuovi oppressori. 'Guarda cosa fanno ai palestinesi', 'guarda quelle due famiglie che litigavano dentro la casa di Anne'. Ora la menzogna è entrata nei principali teatri olandesi. Questa pièce è parte del mainstream. Al Met di New York hanno messo in scena una pièce su Leon Klingohffer (l'ebreo ucciso durante il sequestro dell'Achille Lauro, ndr) totalmente manipolatoria. La menzogna ora viene dal mondo artistico progressista, Da Gerusalemme ad Anne Frank, la storia è usata contro il popolo ebraico. E' qualcosa di sardonico, di malefico". Se un grande drammaturgo che accosta gli ebrei israeliani ai nazisti può applicare il Judenrein all'autrice del "Diario" inserendola in un ménage à trois alla Harvey Weinstein, allora il volto di Anne Frank poteva starsene anche sugli adesivi della Lazio senza che gli indignados si ergessero a difensori e il suo nome campeggiare sul treno che la Deutsche Bahn vorrebbe dedicarle. Il "treno Anne Frank". L'Olocausto sembra diventato come il dibattito sulle fake news. Oggetto di ridicolo.

(Il Foglio, 7 novembre 2017)


Parigi premia due libri sui nazisti

Il Goncourt e il Renaudot assegnati a Vuillard e Guez

di Leonardo Martinelli

 
Eric Vuillard e Olivier Guez
PARIGI - La conquista del potere da parte dei nazisti in un caso. E, nell'altro, la miserevole fine di uno di loro, l'aguzzino di Auschwitz. C'è un fil rouge che unisce i due libri premiati ieri dal Goncourt, il riconoscimento più importante per la letteratura di lingua francese, e il Renaudot, pure di grande prestigio. Il Goncourt è andato a Eric Vuillard, 49 anni, per L'ordre du jour, edito da Actes Sud: la sua pubblicazione è già prevista in Italia nell'autunno 2018 da parte di El O. Mentre Olivier Guez, 43 anni, ha ricevuto il Renaudot per La disparition de Josef Mengele, pubblicato da Grasset.
   Nessuno dei due, a differenza di quanto accade normalmente, è un romanzo. Ma la rivisitazione letteraria di fatti realmente accaduti. Vuillard narra l'ascesa di Hitler al potere in Germania, l'appoggio assicurato dalle grandi industrie tedesche e l'Anschluss, l'annessione dell'Austria. «Il libro è una lezione di letteratura attraverso la sua scrittura - ha sottolineato Bernard Pivot, presidente dell'accademia del Goncourt - e rappresenta una lezione di morale politica». L'autore, che è anche un regista, ha ammesso di aver scritto il grosso delle 160 pagine del libro, mentre risiedeva nel Ghetto di Roma. «Sono uno scrittore itinerante - ha detto - e l'Italia è molto importante per me ».
   Quanto a Guez, gli sono stati necessari tre anni di ricerche e di scrittura per partorire il suo libro su Mengele. Ne ha seguito (anche fisicamente) la fuga attraverso il Sudamerica, fino alla piccola fattoria dove morì anonimo in Brasile. «È stato complicato coabitare con lui - ha ammesso lo scrittore -. Ma a un certo momento bisogna salire sul ring. E affrontarlo».

(La Stampa, 7 novembre 2017)


In Francia Mélenchon scarica le amicizie antisemite, ma ormai è tardi

Danielle Obono e gli "anti sionisti" del Pir

di Mauro Zanon

Parigi. Jean-Luc Mélenchon, leader della France insoumise (Fi), è da maggio il nuovo santino della sinistra terzomondista francese. E' coccolato da Libération, adulato dagli intellettuali della gauche parigina, e i suoi toni tribunizi infiammano i giovani ribellocrati (copyright Philippe Muray) in cerca di un oppositore al presidente Macron. Ma l'ex ministro dell'Istruzione del governo Jospin ha anche alcuni amici e compagni di banco all'Assemblea nazionale di cui ci si vergogna, ora, in seno alla Fi, quando invece durante la campagna presidenziale era tutto un esaltare gli splendori della diversité. La più spinosa di queste amicizie è quella con Danielle Obono, deputata di origini gabonesi, che si definisce sobriamente "altermondialista, afrofemminista, antimperialista, antirazzista, antiliberale e antislamofoba", passa il suo tempo a denunciare "l'ideologia neocoloniale, schiavista e razzista della Francia", e domenica, in diretta su Radio J, ha preso le difese della "camarade", così l'ha chiamata, Houria Bouteldja, portavoce del partito antisemita Indigènes de la République (Pir). La Bouteldja, nota per aver organizzato, ad agosto, un "campo estivo decoloniale" vietato ai bianchi, al fine di formare le persone all"'antirazzismo politico", aveva affermato, nel marzo 2015, che "gli ebrei sono gli scudi, i tiratori scelti della politica imperialista francese e della sua politica islamofoba". Sono dichiarazioni razziste? "Non lo so", ha risposto la Obono ai giornalisti della radio ebraica di Parigi. La "compagna" della deputata mélenchonista si è fatta fotografare poco tempo fa accanto a un cartello con su scritto "I sionisti nei gulag!", ma nonostante ciò, la Obono ha tenuto a ricordare a Radio J i suoi trascorsi accanto alla Bouteldja. "Rispetto la militante antirazzista. E' nel movimento antirazzista che l'ho conosciuta. E' per quelle lotte che ci siamo battute", ha detto.
   Del resto la francogabonese - che qualche settimana fa aveva minimizzato il problema della radicalizzazione islamica in diretta su Bfm.tv - si era già mostrata solidale con figure ideologicamente vicine al Pir, firmando su Libération una petizione contro il "pericoloso concetto di razzismo anti bianchi", e un'altra per manifestare il suo sostegno al rapper Saidou, autore della canzone "Nique la France", fotti la Francia. Due anni fa, pochi giorni dopo gli attentati jihadisti di Charlie Hebdo, la Obono aveva anche scritto sul suo blog che non aveva pianto per la strage di Charlie, bensì per le sue "caricature razziste", solidarizzando con il comico antisemita Dieudonné, vittima di una "censura di stato". "Le dichiarazioni di Danielle Obono su Houria Bouteldja non hanno alcun rapporto con il progetto della Fi. Dunque, sono a titolo personale", ha twittato Thomas Guénolé, intellettuale organico della Fi. "Non sostengo Houria Bouteldja, portavoce del Pir, partito razzista, antisemita e comunitarista opposto ai valori della République", ha aggiunto Djordje Kuzmanovic. Ora la scaricano, insomma.
   Eppure quando Manuel Valls aveva denunciato il "nuovo antisemitismo" di cui sono complici alcuni "ìslamogoscisti'' della Fi, a partire dai legami torbidi tra la Obono e il Pir, erano stato i primi a difenderla, accusando l'ex primo ministro di menzogne. Mélenchon, dal canto suo, aveva attaccato in una lettera "la prossimità di Valls con l'estrema destra israeliana", sostenuto dai suoi militanti, che sui social network diffondevano una foto dell'ex premier accanto al ministro della Giustizia di Israele, Ayelet Shaked. "Queste persone non si rendono conto, o forse se ne rendono conto e fanno finta di nulla, che l'antisemitismo e l'antisionismo, il nuovo antisemitismo di oggi, rappresentano il cuore della matrice ideologica totalitaria dell'islamismo radicale", aveva tuonato Valls. Tra queste persone, c'è anche Clémentine Autain, autrice sul Monde di un articolo intitolato: "Boicottare Israele significa lottare per una pace giusta". Un'altra amica antisemita che Mélenchon ha premiato con un posto da deputata.

(Il Foglio, 7 novembre 2017)


False Flag, arriva la nuova Homeland

Dal 7 novembre su Fox la serie israeliana ispirata a un fatto di cronaca

ROMA - La fiction israeliana colpisce ancora: dopo serie celebri come Homeland, versione Usa di Hatufim, e In Treatment ispirata, da Be Tipul, arriva False Friends, prima serie tv israeliana da esportazione. Presentata in anteprima al Festival di Berlino, va in onda dal 7 novembre in prima serata su Fox (canale 112 di Sky).
    Tra drama, giallo e thriller politico, la serie è ispirata a un fatto di cronaca, la vicenda di Mahmoud Al-Mabhouh, colonnello di Hamas che nel 2010 venne ucciso a Dubai da un gruppo di agenti del Mossad che viaggiavano con identità rubate a cittadini israeliani con doppia nazionalità. La storia di False Flag (in italiano operatività sotto falsa bandiera) è quella di cinque cittadini israeliani - tutti con doppia nazionalità - che guardando il tg scoprono di essere sospettati di aver progettato e orchestrato il sequestro del ministro iraniano della difesa avvenuto a Mosca. La divulgazione da parte dei media dei loro nomi e delle loro foto stravolgerà per sempre le vite dei protagonisti. Essi faranno di tutto per dimostrare la loro estraneità ai fatti, ma non saranno creduti né dalle autorità né dai loro cari. Sullo sfondo della crisi mediorientale, False Flag appare come un giallo di portata globale con un gruppo di persone 'incastrate' in un caso politico dall'esito molto pericoloso.
    La serie è stata accostata a Homeland e ai suoi doppi giochi geopolitici: "E' un gran complimento, ma Homeland mette al centro del racconto dei professionisti", sottolinea il creatore Amit Cohen. "False Flag parte invece dal punto di vista di persone normali che non sanno nulla del mondo dello spionaggio.
    Non ci sono terroristi o agenti segreti protagonisti: noi guardiamo alla società israeliana di tutti i giorni per raccontare una spy story da una prospettiva nuova".

(ANSA, 6 novembre 2017)


Balfour e la nascita (in ritardo) d'Israele

E' sotto attacco da parte dei revisionisti storici

Scrive il Jerusalem Post (24/10)

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si recherà a Londra ai primi di novembre per partecipare alle cerimonie che commemorano il centenario della Dichiarazione Balfour. Ci si augura che gli eventi riflettano la cruciale importanza della Dichiarazione Balfour come primo significativo successo diplomatico del movimento sionista nella sua campagna per assicurarsi il riconoscimento internazionale del diritto del popolo ebraico a costituire uno stato nella sua patria storica. Purtroppo molti (alcuni anche in Israele) screditano la Dichiarazione di Balfour dipingendola come un documento per nulla fondamentale nella storia della creazione di Israele, mentre altri lo considerano addirittura una manifestazione della perfidia del colonialismo britannico nonché causa di un'ingiustizia permanente nei confronti dei palestinesi, per la quale gli inglesi non dovrebbero celebrare bensì scusarsi ufficialmente. Come è stato ricordato in un saggio dello storico Martin Kramer sulla rivista online Mosaic, la Dichiarazione di Balfour fu il risultato della portentosa attività diplomatica di Nahum Sokolow. Essa riflette nientedimeno che una dichiarazione congiunta sostenuta per iscritto e in dichiarazioni pubbliche da Stati Uniti, Francia, Italia e Vaticano. Come osserva Kramer, se la Dichiarazione Balfour non fosse stata altro che una lettera confidenziale ai leader sionisti che non avevano ancora dato il loro sostegno alle forze alleate nella prima guerra mondiale, non sarebbe mai entrata far parte a pieno titolo del Preambolo del Mandato Britannico sulla Palestina varato dalla Società delle Nazioni nel 1922, e la Gran Bretagna l'avrebbe completamente rinnegato nel giro di pochi anni. Più deleterio del tentativo di screditare l'importanza della Dichiarazione Balfour o di presentarla come frutto di un governo britannico sotto l'influenza di "fondamentalisti cristiani" (una tesi che non trova alcun riscontro nei fatti documentati), è il tentativo in corso di denigrare la Dichiarazione Balfour come un atto criminale commesso contro il popolo indigeno (arabo) palestinese. Se c'è qualcosa che ci ha insegnato la storia del XX secolo, è che il vero "crimine" commesso dalla Gran Bretagna fu quello di rinviare a lungo la creazione dello stato di Israele. Se nel 1939 non fosse stato promulgato il Libro Bianco britannico, che impediva quasi del tutto l'immigrazione ebraica in Terra d'Israele proprio nel momento in cui la Germania nazista si apprestava a scatenare la "soluzione finale", milioni di ebrei che a quel tempo vivevano in Europa si sarebbero potuti salvare. Sei anni più tardi, dopo che erano stati assassinati sei milioni di ebrei, gli inglesi rimasero assolutamente risoluti nell'opporsi all'immigrazione ebraica in Terra d'Israele. Oggi, più di settant'anni dopo, quando le spaventose dimensioni della Shoà sono note a tutti, c'è chi vorrebbe convincerci che la Dichiarazione di Balfour è qualcosa di cui ci si dovrebbe vergognare. Ma furono le scelte disastrose dei palestinesi e i fallimenti dei loro capi che li lasciarono senza uno stato, non la Dichiarazione Balfour. L'unica tragedia della Dichiarazione Balfour è che non venne implementata prima. Questo è ciò che si dovrebbe ricordare a Londra la prossima settimana".

(Il Foglio, 6 novembre 2017)

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L'inganno britannico

Un'inaspettata conferma dell'inganno perpetrato dalla Gran Bretagna ai danni del popolo ebraico si può trovare nelle parole di David Lloyd George, il Primo Ministro britannico sotto il cui governo è stata stilata la Dichiarazione Balfour. Nel 1939 Lloyd George votò contro il MacDonald White Paper, e giustificò la sua posizione in una solenne dichiarazione che fece alla radio sei giorni dopo l'approvazione dell'infame documento. Sono parole che gli fanno onore, ma disonorano la nazione di cui è stato Primo Ministro. Le abbiamo tradotte e ne riportiamo la lettura nell'audio che si trova in calce. Anticipiamo la frase finale, che dovrebbe essere presa in seria considerazione da tutti coloro che con leggerezza parlano di pace:

Non si può costruire la pace nel mondo
se non sulla base della buona fede internazionale.




Il discorso radiofonico di Lloyd George

(Notizie su Israele, 6 novembre 2017)


Missile balistico diretto a Riad, per l'Arabia Saudita l'Iran è responsabile

di Paolo Fernandes

RIAD - Secondo la coalizione militare araba impegnata in Yemen, l'Iran sarebbe responsabile del lancio di un missile balistico diretto verso la capitale saudita Riad esploso nella serata di sabato sera. Per il portavoce della coalizione, "i missili Houthi sono stati prodotti dall'Iran e non sono parte delle munizioni dell'esercito yemenita".
Per Riad è stato "un atto flagrante di aggressione militare", quasi paragonabile ad un vero e proprio "atto di guerra" quello dell'Iran di fornire missili balistici ai ribelli Houthi in Yemen.
Stando all'analisi dei rottami dei missili, sarebbe indubbio il coinvolgimento dell'Iran nella fabbricazione ed il conseguente contrabbando con i ribelli. Il comando della coalizione si è dunque arrogato il "diritto legittimo" di difendere il territorio e le persone dell'Arabia Saudita secondo la Carta dell'Onu.
Nel medesimo comunicato, il comando della coalizione ha inoltre annunciato che "si riserva il diritto di rispondere all'Iran nei tempi e nelle forme appropriate, in conformità con il diritto internazionale e sulla base del principio di legittima difesa".
Gli Houthi sono un gruppo armato a prevalenza sciita, che opera sul territorio yemenita. Nella serata di sabato le forze armate saudite hanno intercettato ed abbattuto un missile balistico nei pressi della capitale Riad, proveniente dallo Yemen e lanciato dai ribelli.

(InfoOggi, 6 novembre 2017)


Le dimissioni di Hariri svelano la totale subordinazione del Libano all'Iran

Mentre gli incidenti sul fronte nord confermano l'instabilità dell'area, generata dai successi dell'asse Teheran-Damasco-Hezbollah.

L'annuncio delle dimissioni del primo ministro libanese Saad Hariri ha suscitato grande sorpresa, ma forse non ce n'era motivo. Né dovrebbe stupire la sua condanna del coinvolgimento dell'Iran in Libano attraverso la sua succursale Hezbollah. Il Libano è diventato un protettorato iraniano già da bel po' di anni: uno stato vassallo controllato sotto tutti gli aspetti dall'Iran attraverso Hezbollah, il gruppo terroristico più potente dell'intero Medio Oriente. L'Iran e Hezbollah, insieme alla Siria di Bashar Assad, sono i responsabili dell'assassinio del padre di Saad Hariri, Rafik Hariri, ucciso nel febbraio 2005 solo pochi mesi dopo essersi dimesso da primo ministro. Evidentemente il figlio non vuole fare la stessa fine. L'unica cosa veramente sorprendente nel comportamento di Saad Hariri è che aveva accettato di essere nominato primo ministro, lo scorso dicembre. È difficile capire cosa passasse per la testa di Hariri quando accettò la richiesta di Michel Aoun, il presidente libanese filo-Hezbollah, di assumersi il compito di formare un governo. Hariri sapeva perfettamente chi erano i responsabili dell'assassinio di suo padre e che la sua stessa vita sarebbe stata in pericolo se non avesse fatto ciò che vuole Hezbollah. Capiva anche che il gruppo terrorista sciita controlla praticamente ogni aspetto dello stato libanese e che il suo campo politico, l'Alleanza del 14 marzo, stava diventando una minoranza perseguitata in un sistema interamente dipendente dai voleri dell'Iran....

(israele.net, 6 novembre 2017)


Un libro ricorda Cesare Jarach, economista allievo di Einaudi

Si tiene alle 21, al Centro Sociale della Comunità Ebraica, piazzetta Primo Levi, la presentazione del volume «Cesare Jarach (1884-1916), un economista ebreo nella Grande Guerra» a cura di Alberto Cavaglion e Francesco Forte, editore Zamorani. Con gli autori interviene Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Introduce il presidente della Comunità Ebraica, Dario Disegni, nipote di Jarach. Il libro ricorda, a poco più di un secolo dalla scomparsa, il brillante economista allievo di Luigi Einaudi, caduto in giovane età nella Prima Guerra Mondiale. Nel volume, Francesco Forte analizza il lavoro scientifico di Jarach economista, impegnato in ricerche innovative e tuttora di grande interesse. Alberto Cavaglion ne traccia invece un ritratto come intellettuale ebreo italiano nel suo impegno civile di partecipazione alla vita dello Stato, fino alle posizioni di interventismo liberale di stampo risorgimentale, e diretto risultato di un pensiero largamente diffuso nell'ebraismo italiano dei decenni post-unitari, di fare parte di un corpo statale unito e non frazionabile sulla base dell'identità religiosa. Nel volume, anche il testo di Einaudi che descrive la figura di Jarach all'indomani della sua morte in combattimento sul Carso nel novembre del 1916.

(La Stampa - Torino, 6 novembre 2017)


Israele, viaggio nel cuore del fintech mondiale

A Tel Aviv sessanta startup, riunite in uno dei tanti poli della "siliconwadi" finanziato dalla banca americana citigroup, si sono specializzate nel settore che mette insieme innovazione tecnologica e finanza.

di Flavio Bini

TEL AVIV - Al decimo piano dell'ufficio di Citigroup, ormai nota come Citi, a Tel Aviv, Assaf Frenkel mostra le funzionalità della società di cui è vicepresidente. CallVu è una delle 60 startup passate dall'acceleratore che la banca americana ha lanciato alla fine del 2013 nella città israeliana. Il primo nel Paese dedicato interamente al fintech, il settore che mette insieme innovazione tecnologica e finanza, catalizzatore di crescenti interessi da parte del mondo bancario. L'applicazione di Assaf promette di rivoluzionare l'assistenza clienti per molte società, istituti di credito compresi. Una normale chiamata a un call center fa scattare la ricezione di un messaggio con un link. Chi vuole, può proseguire direttamente online, interagendo quindi soltanto con un computer e non più con un essere umano in carne e ossa. Si può persino chiedere un mutuo, compilando il form in tempo reale e scattando la foto da allegare alla domanda. Sorge un dubbio: non è che così l'algoritmo è in grado di misurare la mia affidabilità creditizia sulla base dei tratti somatici? Assaf è categorico, non coglie fino in fondo lo spirito della provocazione: «No, niente del genere». Non c'è neanche il tempo di sorridere che punta il dito poco distante, indicando un collega dall'altra parte della sala: «La sua startup però fa qualcosa del genere».
  Tutto - o quasi - è possibile nella "Startup Nation". Così Israele è stata ribattezzata da alcuni anni: un ecosistema pensato per far crescere il tessuto imprenditoriale delle giovani imprese che investono sull'innovazione. «Se lanci un sasso a Tel Aviv - ha scritto il direttore di TechCrunch Europe, Mike Butcher - molto probabilmente colpirai un imprenditore hi-tech». Numeri alla mano, non sembra affatto un'esagerazione. La città israeliana ha il più alto numero di startup al mondo in rapporto alla popolazione residente: una ogni 290 abitanti, e un totale di 5890 aziende in tutto il Paese. A Tel Aviv - cuore pulsante della Silicon Wadi, altra felice definizione del Paese che rimanda alla Silicon Valley californiana - un cittadino su dieci lavora nell'industria hi-tech.
  Non sorprende che le grandi imprese puntino lo sguardo qui. Soprattutto per i propri centri di ricerca e sviluppo. Ultimo in ordine di tempo, il gigante cinese dell' e-commerce Alibaba che ha annunciato poco meno di un mese dalla decisione di aprire un ufficio proprio a Tel Aviv. In questi anni sono arrivate già aziende come Google, Facebook, Amazon, Samsung, Coca-Cola, Ibm e Renault. Il risultato è che nel Paese la disoccupazione è ai minimi storici, 4,1 % l'ultima rilevazione, e a TelAviv, città di 438mila abitanti, il tasso è ancora più basso.
  Anche la finanza ha messo da tempo gli occhi sulla città e sulla sua vitalità tecnologica. Oltre a Citi, Barclays ha attivato in città un acceleratore di startup, con un occhio di riguardo proprio per il fintech, mentre la stessa banca americana a Tel Aviv dal 2011 ha aperto un innovation lab che oggi dà lavoro a quasi 200 persone, impegnati su tutte le principali sfide tecnologiche che si affacciano sul sistema bancario, primo fra tutti il tema dell'intelligenza artificiale.
  German Vornov, capo del dipartimento Nlp (Natural Language Processing) dell'Innovation Lab di Tel Aviv di Citi mostra una tabella che aiuta in pochi secondi a trasformare un'idea un po' astratta - l'intelligenza artificiale applicata al mondo finanziario - in qualcosa di molto concreto. È uno studio condotto da Juniper Research che simula l'impatto sul business in diversi settori dell'introduzione massiccia di chatbot, gli assistenti virtuali in grado di sostituire l'interazione con un essere umano per funzioni semplici, in aree come l'assistenza clienti. Le banche sono il settore in cui questo strumento potrebbe avere i risvolti più dirompenti, con risparmi annuali che passano dai 15,2 milioni del 2017 ai 4,4 miliardi di dollari entro nel 2022.
  Intanto sulla Silicon Wadi continua a piovere denaro dall'estero. E non sempre si tratta di applicazioni lontane dalla vita di ogni giorno. Quattro anni fa ad esempio, quando Apple rilevò la startup israeliana PrimeSense per una cifra intorno ai 350 milioni di dollari, l'acquisizione - una delle più rilevanti nella storia della Mela fino ad allora - aveva catturato l'attenzione prevalentemente degli appassionati del settore. Solo gli addetti ai lavori sapevano che PrimeSense era l'azienda che ha sviluppato i sensori per Microsoft Kinect, la prima console con cui è stato possibile utilizzare il corpo come joypad, registrando i movimenti del giocatore e trasformandoli in azioni all'interno del gioco. Quattro anni più tardi, l'azienda di Cupertino ha messo sul mercato un prodotto -l'iPhone X - che ha come punta di diamante il sistema di riconoscimento facciale, sfruttando anche i sensori e la tecnologia sviluppati dalla startup israeliana.
  A marzo invece, con l'acquisto da parte di Intel per 15 miliardi di dollari, Mobileye, startup I00% made in Israele, è diventata protagonista dell' operazione più grande che abbia coinvolto un'azienda tecnologica del Paese. Fondata nel 1999 e con il quartier generale a Gerusalemme, l'impresa ha sviluppato una delle tecnologie più avanzate al mondo per lo sviluppo dei veicoli a guida autonoma e ha siglato un patto con Bmw che si esteso anche a Fca. «L'obiettivo - spiega Udi Remer, giovanissimo direttore dello sviluppo commerciale dell'azienda - è portare sul mercato il primo veicolo a guida completamente autonoma entro il 202I». Non si tratta di prototipi o veicoli per pochissimi privilegiati. Il consorzio punta al mercato di massa in quella che è destinata a diventare la rivoluzione per il settore automotive. «La sfida non è su chi arriva prima - rimarca Remer - ma su chi arriva prima con un veicolo sicuro».
  Numeri importanti anche per Waze, app israeliana di navigazione stradale acquistata nel 2013 da Google per oltre un miliardo di dollari. Grazie alle segnalazioni continue della sua vastissima comunità da oltre 65 milioni di utenti attivi, permette a Google Maps di avere aggiornamenti quasi in tempo reale sullo stato del traffico e sulla modifica delle strade. All'orizzonte c'è la sfida a Uber, con cui il colosso di Mountain View è in rotta di collisione dopo l'accusa di furto di tecnologie sul progetto di guida autonoma. Con il servizio Waze Carpool, gli utenti possono sfruttare i posti vuoti nelle auto dei normali guidatori urbani, beneficiando di "passaggi" a costi molto più bassi di quelli offerti da Uber. Una sorta di BlaBlaCar, ma per brevi spostamenti. Per ora I' opzione è attiva in Israele e in California e si prepara a partire anche in Brasile. In un futuro neanche troppo lontano potrebbe sbarcare anche in Europa. Tassisti permettendo.

(la Repubblica, 6 novembre 2017)


«Trovi la gentilezza dove non ti aspetti»

A David Grossman il premio Primo Levi. Lo scrittore: «L'aiuto ci può arrivare da qualsiasi persona» «Se ripeti che il razzismo è male, la gente si stanca. Però, se non lo fai, le conseguenze saranno immediate»

di Giuliana Manganelli

Cerimonia oggi alle 2l

Oggi alle 21, nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale di Genova, con ingresso libero, fino a esaurimento posti, sarà consegnato allo scrittore e saggista David Grossman il Premio Internazionale Primo Levi 2017. Il riconoscimento è stato attribuito all'autore di "Applausi a scena vuota" per l'impegno politico e civile per la causa della democrazia nel suo Paese e per il ruolo Importante, svolto anche attraverso la sua opera, nel favorire quel processo di pace e convivenza tra israeliani e palestinesi a cui guardano milioni di uomini e donne in tutto il mondo. In collaborazione con Centro Culturale Primo Levi.

 
David Grossman, nel discorso di accettazione del premio Primo Levi oggi parlerà di Lorenzo, l'umile operaio, uno sconosciuto, che dando il suo pane a Levi gli salva la vita nel Lager, l'unica persona che senza controparte appoggia uno sguardo benevolo, umano nel luogo dove è concentrato tutto il male del mondo. In "Un tram che si chiama desiderio" di Tennessee Williams, Bianche Dubois dice "amo la gentilezza degli sconosciuti".

- E lì la salvezza?
  «Forse tutti noi siamo più colpiti, più commossi se qualcuno che non conosciamo è buono e gentile con noi. Non sono sicuro di saper rispondere se è qui la salvezza, ma un aiuto potrebbe arrivarci dal più inaspettato dei luoghi o persone. E poi c'è un fatto, chi usa una cortesia si sente gratificato, perché sa di poter agire contro la costituzione del mondo che è distacco, straniamento, indifferenza. È talmente facile restare indifferenti, così comodo non sentirsi obbligati ad assumersi responsabilità».

- Alcuni anni fa proprio a Genova lei disse che la vita nell'Europa occidentale vista da israeliani e palestinesi sembrava una fiction, un mondo di pace, di solidarietà. Ora le cose sono cambiate, terrorismo, nazionalismi, xenofobia, antisemitismo, migliaia di profughi morti nel Mediterraneo. Niente più fiction.
  «Bisogna dire che abbiamo avuto qualche decennio di grazia, no, direi di vergogna! La gente si vergognava dopo la Shoah, dopo la seconda guerra mondiale, a dichiararsi antisemita, razzista o xenofoba a viso aperto perché l'ombra dell'Olocausto era ancora incombente. Ora, dopo 70 anni questi sentimenti che temo siano radicati negli esseri umani, stanno riemergendo in superficie e sarà sempre così. E ogni volta che questo accade dobbiamo sforzarci di trovare argomenti validi che li contrastino, dobbiamo pazientemente affrontare queste esplosioni di inciviltà e ripartire. È una guerra continua, ma se ti fermi sei finito: le altre forze avranno il sopravvento. A volte quando ne parli, quando ricordi alle persone che il razzismo è male, l'antisemitismo è male, il nazionalismo è male, la xenofobia è male, ti accorgi che la gente si è stufata di ascoltarti, non ha voglia di sentirsi ripetere le stesse cose. Però se non lo fai ci saranno immediate conseguenze».

- Non faremo mai a meno di costruire qualcuno da odiare. Odio quindi esisto?
  «Uno dei modi migliori per definire la nostra identità è elencare chi odiamo e chi ci odia. Ma soprattutto abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi con benevolenza».

- Come nel romanzo "Applausi a scena vuota"? Tra il pubblico c'è una "sconosciuta" che conosceva il comedian Doveleh nella sua infanzia e che con grande dolcezza gli dice "Ma tu allora eri un bravo bambino". È la svolta della storia.
  «Sì, ognuno di noi ha bisogno di almeno una persona in questo mondo che ci guardi e ci veda belli dentro. Qualcuno che ci ricordi, anzi, che forse riveli a noi stessi che potremmo essere persone migliori di quello che crediamo e che forse abbiamo dimenticato di essere, o che nessuno ci ha mai detto. Che ci faccia credere che esiste un'altra opzione per provare a rialzarci. La piccola donna del romanzo non capisce come quel bambino abbia accumulato su di sé tutti quegli strati di volgarità, cinismo e cattiveria. Basta una piccola parola e la corazza di Doveleh si spacca di colpo.

- In "Caduto fuori dal tempo, una straziante Spoon River in cui i genitori sono tutti sopravvissuti ai loro figli, ci sono due padri-scrittori, lo Scriba e il Centauro. Con quale dei due Grossman si identifica?
  «Lo Scriba si ritaglia una posizione più comoda, fa la cronaca delle storie degli altri e non si concede il privilegio doloroso di esporre la propria. Il Centauro invece sperimenta qualcosa che io ho vissuto quando ho perso mio figlio Uri in guerra. Non riuscivo a scrivere questo dolore e per questa situazione insostenibile il Centauro è fisicamente inchiodato al suo tavolo, è per metà scrittore e per metà scrivania. Congelato. Anche questo romanzo ruota attorno al pensiero magico, al desiderio di spingersi il più lontano possibile, fino al luogo in cui i vivi possano toccare i morti».

- Molti scrivono per nascondersi. Grossman dichiara che quando scrive vuole esporsi, non presentarsi con il biglietto da visita, ma con il vero se stesso, disarmato, nudo.
  «Ci sono talmente tante situazioni nella vita di ogni giorno in cui ci troviamo sommersi da coperte su coperte uno strato sopra l'altro, armature e scudi tra di noi e il nostro vero io che finiamo per non sapere bene chi siamo davvero. L'unica ricchezza che abbiamo è il nostro io, va preservata. E poi non siamo isole, non siamo soli. Anche gli altri contribuiscono a fare di noi quello che siamo, dandoci o non dandoci, insegnandoci o non insegnandoci. Ho due nipotine piccole e vedo come hanno bisogno di relazionarsi, pi imparare, di stare insieme. E sempre meraviglioso vedere come noi umani siamo creature sociali.

- Scrittore oggi, attore radiofonico per molti anni da quando aveva 16 anni. Il pubblico radiofonico non si vede. L'attore come Doveleh è visto e può guardare negli occhi il suo pubblico. Chi scrive romanzi non vede chi li leggerà.
  «Adoravo lavorare in radio, ancora oggi ascolto più radio di quanto guardi la televisione. Beh per la radio c'era almeno il tecnico, quando vedevo che smetteva di leggere il copione e si metteva ad ascoltarmi capivo di avere fatto centro. Quando scrivo sono totalmente solo e mi piace moltissimo. Un messaggio nella bottiglia che spero qualcuno raccoglierà».

(Il Secolo XIX, 6 novembre 2017)


Il governo del Bahrein chiede ai suoi connazionali di lasciare il Libano

MANAMA - Il governo del Bahrein ha chiesto ai suoi cittadini di evitare di recarsi in Libano e a coloro che già si trovano nel paese di lasciarlo immediatamente a causa dei rischi per la loro sicurezza. In una circolare del ministero degli Esteri di Manama diramata il giorno dopo l'annuncio delle dimissioni da parte del premier Saad Hariri e le crescenti paure di violenze tra sunniti e sciiti in Libano, il governo del regno del Golfo ha chiesto ai suoi cittadini di lasciare il paese, invitando chi ha in programma di recarsi a Beirut a non partire per evitare "rischi per la propria sicurezza". Nel comunicare le sue dimissioni sabato, Hariri ha accusato il movimento armato sciita Hezbollah e il suo alleato iraniano di "tenere in ostaggio" il Libano e ha detto di temere per la propria vita.

(Agenzia Nova, 6 novembre 2017)


David Grossman alla marcia silenziosa per ricordare la deportazione degli ebrei genovesi

 
GENOVA - Una marcia silenziosa da galleria Mazzini fino alla Sinagoga di via Bertora per ricordare l'agguato dentro la Sinagoga che il 3 novembre 1943 diede il via alla deportazione degli ebrei genovesi, in tutto 261 persone, solo 20 i sopravvissuti. La Comunità ebraica, la comunità di Sant'Egidio, il centro culturale Primo Levi hanno organizzato la marcia, alla quale hanno partecipato 900 persone, per ricordare una delle pagine più buie della vita della città, c'erano lo scrittore David Grossman, a Genova per ricevere il premio Primo Levi, il rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano, il sindaco Marco Bucci, il responsabile della comunità di Sant'Egidio Andrea Chiappori il presidente della comunità ebraica di Genova Ariel dello Strologo e il coro Shlomot.

(la Repubblica - Genova, 5 novembre 2017)


Gaza: Israele recupera corpi di cinque miliziani nel tunnel

Israele ha recuperato i corpi dei cinque miliziani della Jihad islamica morti nell'esplosione del tunnel - che sfociava in territorio dello stato ebraico - fatto saltare dai militari la scorsa settimana. Lo ha fatto sapere il portavoce militare.
Nei giorni scorsi Hamas aveva chiesto l'intervento della Croce Rossa perché Israele consentisse il recupero delle salme, possibile solo entrando nella zona di sicurezza al confine.
Ma il ministro della difesa Avigdor Lieberman aveva respinto la richiesta in quanto Hamas si rifiuta da tempo di restituire civili israeliani, sconfinati per caso nella Striscia, e i corpi di due soldati dello stato ebraico, morti nel confitto con Gaza del 2014.

(tv svizzera.it, 5 novembre 2017)


Libano, il premier Hariri si dimette e punta il dito su Iran e Hezbollah

L'accusa: c'è aria di complotto come quando uccisero mio padre, temo per la mia vita. Ora il rischio è che la guerra superi i confini siriani e raggiunga il Paese dei cedri

di Giordano Stabile

Un colpo di scena. Un discorso drammatico alla tv Al-Arabiya, la voce del governo saudita, in diretta da Riad. Il premier libanese Saad Hariri si è dimesso così con un atto d'accusa durissimo contro l'Iran, e il suo alleato in Libano Hezbollah. «S'immischiano negli affari degli Stati arabi, portano il caos nella regione». Poi ha spiegato il suo gesto: «Sento aria di complotto attorno a me, la stessa aria di quando è stato assassinato mio padre, la mia vita è in pericolo». E sempre secondo Al Arabiya, due giorni fa, le forze di sicurezza libanesi avrebbero sventato un attentato che come obiettivo aveva proprio Saad Hariri.

 L'agguato
  Il riferimento è all'assassinio di suo padre, Rafik Hariri, anche lui primo ministro, assassinato il 14 febbraio 2005 con una potentissima autobomba nel pieno centro di Beirut. I sospetti sono sempre stati rivolti alla Siria di Bashar al-Assad, come mandante, e a Hezbollah come esecutore. Un tribunale internazionale ha cercato di fare luce e messo sotto accusa alcuni esponenti del Partito di Dio ma senza una sentenza definitiva.
  Hariri figlio sembrava però aver archiviato lo scontro sanguinoso con il movimento sciita. Alla fine dell'anno scorso ha preso la guida di un governo di 30 ministri, rappresentanti di tutte le anime politiche libanesi, compreso Hezbollah. Il suo esecutivo, arrivato subito dopo l'elezione a presidente della repubblica del cristiano maronita Miche! Aoun, aveva aperto una nuova pagina, con la speranza di una piena riconciliazione fra le fazioni settarie che dal 1975 al 1990 si erano combattute al prezzo di oltre centomila morti.
  Proprio il ricordo dell'immenso prezzo pagato nella guerra civile avevano spinto Hariri, a capo della parte sunnita, Aoun, leader dei cristiani, ed Hezbollah ha siglare la pace. Ma l'equilibrio è andato in frantumi sotto la tremenda pressione dello scontro regionale fra Iran e Arabia Saudita. Il fatto che le dimissioni siano arrivate da Riad, durante un viaggio non programmato, lascia intendere la forte influenza del regno sulla decisione di Hariri, accusato dagli sciiti libanesi di essere «teleguidato» dai sauditi.

 La guerra all'lsis
  La fine dell'Isis in Siria e Iraq, ormai imminente, sta sconvolgendo gli equilibri in Medio Oriente. Teheran in questo momento è il grande vincitore. Ha mantenuto Assad al potere contro l'insurrezione sunnita, con l'invio di decine di migliaia di miliziani sciiti che hanno rovesciato le sorti della guerra. In Iraq la vittoria contro l'estremismo sunnita è arrivata grazie all'appoggio sia americano che iraniano al premier Haider al-Abadi. Ma le ultime mosse di Baghdad, l'offensiva contro il Kurdistan da sempre alleato degli Stati Uniti, mostrano quanto l'Iraq sia sotto l'influenza dell'Iran e delle centinaia di miliziani sciiti addestrati da Teheran.
  Questo nuovo equilibrio in Mesopotamia è visto come una minaccia mortale dall'Arabia Saudita. Il principe ereditario Mohammed bin Salman, l'uomo forte del regno, ha cercato di rafforzare l'alleanza con Washington e con gli altri Stati sunniti del Golfo, ma è incappato in una guerra in Yemen senza sbocchi e in una crisi con un'altra, piccola ma influente potenza sunnita, il Qatar. A questo punto non poteva che giocare la carta libanese, per cercare una controffensiva.
  Il Libano è nettamente diviso fra un campo filosciita, rappresentato da Hezbollah e dal presidente Aoun, che dopo averli combattuti alla fine degli Anni Ottanta si è riappacificato con i siriani, e un campo filosunnita, con Hariri in testa, ma anche alcuni leader cristiani, come Amin Gemayel e Samir Geagea. La premiership di Hariri non è riuscita a colmare il fossato.

 La sconfitta
  Il premier ha spiegato il suo fallimento con l'azione di Hezbollah che «nei decenni passati è riuscito a imporre la sua realtà con la forza delle armi dirette ai petti dei siriani e dei libanesi». «Sono andato al governo - ha continuato - con la promessa che avrei messo fine alle divisioni politiche in Libano, in base al principio dell'autodeterminazione, ma non ci sono riuscito, nonostante i miei sforzi, l'Iran continua ad abusare del Libano».
  Poi, con un cambio di tono, ha promesso che «gli artigli dell'Iran sulla regione saranno tagliati». Ma per il momento dovrà lavorare ai nuovi equilibri del Libano. Il presidente Aoun, avvertito all'ultimo momento al telefono delle decisione, starebbe già lanciando le consultazioni per un nuovo esecutivo. In ambienti sciiti si fa addirittura il nome del presidente del Parlamento Nabih Berri, uno sciita. Sarebbe una rottura impensabile della spartizione dei poteri che ha retto il Libano sin dalla sua indipendenza nel 1943: presidente della Repubblica cristiano maronita, presidente del Parlamento sciita, premier sunnita. Ma in questo momento in Medio Oriente le vecchie regole non valgono più e tutto è possibile.

(La Stampa, 5 novembre 2017)


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Ci siamo persi anche il Libano

Beirut quasi una provincia di Teheran. Si dimette il premier Saad Hariri: «L'Iran mi ha minacciato di morte»

di Carlo Panella

Le drammatiche e inaspettate dimissioni del premier del Libano Saad Hariri confermano che il paese dei Cedri sta precipitando verso una nuova stagione di sangue. Hariri ha annunciato questa sua decisione dall'Arabia Saudita, dove ha probabilmente scelto di rifugiarsi, perché ha detto di avere la certezza che in Libano si prepari un attentato alla sua vita esattamente come avvenne il 14 febbraio del 2005 contro il padre: «Viviamo in un clima simile a quello che ha preceduto l'assassinio del martire Rafìk Hariri», Non solo, Hariri ha anche denunciato con nettezza che queste chiare minacce alla sua vita vanno attribuite non solo ad Hezbollah ma vanno collegate alla «egemonia» politico-militare che l'Iran esercita su un'area che va dal Mediterraneo al Pakistan. Per comprendere la drammaticità di questa denuncia bisogna ricordare che Hariri ha iniziato il suo secondo governo nel dicembre del 2016 proprio grazie a un patto con Hezbollah, che partecipa al suo governo. Ma in 10 mesi Hariri ha verificato - come ha fatto Israele - che Hezbollah ha modificato la sua stessa natura. Non è più un movimento militare e politico radicato in Libano, ma ormai è il fulcro delle Brigate Internazionali sciite ai diretti ordini di Teheran, tramite il comando del generale dei pasdaran Ghassem Suleimaini, che controllano manu militari anche la Siria e l'Iraq. Una forza dirompente e aggressiva in tutto il Medio Oriente. A questa nuova dimensione internazionale di Hezbollah si è aggiunta la fornitura, da parte di Teheran, di sofisticati armamenti di guerra, i missili russi SAS, utili solo per una guerra classica. Con i suoi miliziani e i suoi missili, Hezbollah ora minaccia Israele non solo dal Libano, ma anche dalla Siria, dalle alture del Golan.
   In buona sostanza, secondo Hariri questo è il piano di Hezbollah e di Teheran: ucciderlo, prendere il potere in Libano e scatenare su due fronti, dal Libano e dalla Siria, un nuovo conflitto con Israele. Identiche le analisi di Israele, tanto che lo stesso Netanyahu ha giorni fa avvisato Putin, sponsor dell'Iran, che non si farà trovare impreparato e gli ha chiesto di intervenire per bloccare gli ayatollah, e quindi Hezbollah.
   Drammaticamente pericolosa in questo contesto, è la presenza dei mille soldati italiani del contingente Unifil nel sud del Libano. Una presenza ormai totalmente priva di motivazioni (il compito di Unifil era di disarmare un Hezbollah che invece ha moltiplicato il suo armamento) e che rischia di vedere presto nostri militari schiacciati tra l'incudine di Hezbollah e il martello di Israele.

(Libero, 5 novembre 2017)


Gli ebrei secondo Rembrandt

Per venticinque anni il pittore fiammingo abitò ad Amsterdam nel quartiere yiddish facendo ritratti di soggetto biblico.

di Massimo Firpo

 
Ritratto di vecchio ebreo - Rembrandt, 1654, Museo Ermitage, San Pietroburgo
L'autore di questo libro è un professore di filosofia statunitense cui si debbono importanti studi su Baruch Spinoza, il cui Tractatus theologico-politicus del 1670 è un vero e proprio inno alla tolleranza e alla libertà di coscienza che vigeva in Olanda. Eppure, discendente da una famiglia di ebrei sefarditi rifugiatasi ad Amsterdam, egli era stato espulso dalla sinagoga nel 1656 a causa delle «azioni malvagie» da lui commesse e delle «eresie abominevoli» da lui professate, con la proibizione per chiunque di avvicinarsi «a lui più di quattro cubiti». Studiare Spinoza comporta quindi l'esigenza di immergersi nella vita pulsante di quella fiorente comunità ebraica, ricostruendone le vicende, la cultura, i cambiamenti, i conflitti interni, le rivalità che ne segnarono la storia.Ed è quanto avviene in questo libro, apparso per la prima volta nel 2003, il cui raffinato sapere si stempera nel gusto narrativo e nell'empatia con cui Nadler si immerge nel fervido mondo dei suoi antichi correligionari rifugiatisi nella città olandese.
   Cacciati dalla penisola iberica tra Quattro e Cinquecento, ovunque discriminati, espulsi e perseguitati, i sefarditi trovarono qui un'accoglienza dapprima diffidente e non priva di restrizioni, ma poi sempre più ampia, facilitata anche dai successi economici e commerciali che consentirono loro di diventare «l'élite ebraica d'Europa», orgogliosa della propria identità così come del proprio benessere. Le solenni cerimonie con cui nel 1675 fu inaugurata la nuova e grandiosa sinagoga, la cosiddetta Esnoga, visitata da sovrani e principesse, celebrata in versi e in immagini che la ponevano sotto la protezione della città, furono anche l'evento simbolico di una tolleranza religiosa ormai diventata accettazione sociale.
   Molte altre sinagoghe esistevano allora ad Amsterdam, in particolare quelle ashkenazite (la principale delle quali si trovava proprio di fronte all'Esnoga), in cui si riunivano gli ebrei giunti nei Paesi Bassi con la nuova e corposa ondata migratoria proveniente dall'Europa continentale devastata dalla guerra dei Trent'anni (tedeschi, polacchi, lituani), che fece salire la componente giudaica della popolazione dallo 0,25 del 1610 al 3,7% del 1672, quando la città contava circa 200.000 abitanti.
   Gli ashkenaziti erano tuttavia molto diversi dai sefarditi: meno colti e raffinati, più poveri e talora poverissimi, ma anche più religiosi e fedeli alle tradizioni, parlavano yiddish, celebravano riti differenti e guardavano ai sefarditi con profondo disprezzo, da essi ricambiati con ugual moneta.
   A guidare la comunità sefardita furono rabbini illustri, come Leone Modena, Saul Levi Mortera, Isaac Aboab de Fonseca, Uriel Acosta, Menasseh ben Israel, assurti talvolta a grande fama per la loro vastissima cultura che alimentava in tutta Europa gli studi sul giudaismo e sulla Bibbia, quotidiana lettura dei calvinisti olandesi che ad essi non potevano non interessarsi.
   Nell'ambito della pur ristretta schiera di quei rabbini non mancavano aspri conflitti personali e ideologici tra diverse anime ebraiche, tra atteggiamenti diversi nei confronti della kabbalah, per esempio, tra diverse concezioni del destino ultraterreno, tra diversi modi di vivere l'attesa del Messia e della fine dei tempi, tra i diversi modi di guardare alla meteora di Sabbatai Zevi, proclamatosi il Messia nel 1665 nella lontana Turchia, che ebbe ad Amsterdam numerosi seguaci.
   Ci si chiederà che c'entra tutto questo con Rembrandt? In realtà c'entra, perché il filo conduttore del libro sono i riflessi figurativi della florida comunità ebraica olandese, studiati in due capitoli dedicati rispettivamente all'Esnoga e al cimitero di Beth Haim all'Ouderkerk autorizzato dalla città nel 1612, di cui alcuni straordinari dipinti di Jacob van Ruisdael ci restituiscono l'immagine, e altri tre al sommo pittore fiammingo. Per venticinque anni, infatti, prima che la disperata miseria in cui finì i suoi giorni lo costringesse a trasferirsi altrove, Rembrandt abitò sulla Breerstraat, la strada degli ebrei, nel quartiere di Vlooienburg che pullulava delle loro case e dei loro magazzini. Il suo invadente vicino (e creditore) era Daniel Pinto, ricco esponente della Naçào portoghese, mentre Manasseh ben Israel, di cui probabilmente fece il ritratto, abitava a pochi isolati di distanza, e forse fu lui a insegnargli a riprodurre con grande esattezza in alcuni suoi quadri i caratteri della lingua ebraica, che egli ignorava. I molti dipinti rembrandtiani di soggetto biblico raffigurano schiere di ebrei veri, sefarditi o ashkenaziti che fossero, facce, vestiti, cappelli autentici: quelli che ogni giorni egli vedeva intorno a sé e alla sua casa.
   Non stupisce del resto che tra i committenti dei suoi straordinari ritratti (peraltro non di rado di difficile identificazione) ci fossero persone che abitavano nel suo quartiere, tra le quali è lecito annoverare alcuni di coloro che da lui acquistarono dipinti di soggetto veterotestamentario per appenderli alle pareti delle loro abitazioni. «Una delle più marchiane e diffuse falsità sul giudaismo è il suo totale rifiuto delle arti visive», scrive Nadler, pur sottolineando una tradizionale diffidenza per il ritratto. Gli ebrei, infatti, anche se di modesta o modestissima condizione, amavano comprare quadri che rammentavano la storia del popolo eletto: episodi della vita di Abramo, di Giuseppe e Giacobbe, di Saul e David, di Mosè, di Aman, di Ester, di Agar, di Daniele, di Mardocheo ecc.
   Ma ad essere appassionati cultori di quegli episodi biblici e ad acquistarne le narrazioni dipinte non erano solo gli ebrei, ma anche molti olandesi, che in essi trovavano un precedente in cui identificare se stessi e la loro storia, la loro conquista della libertà e della terra promessa attraverso le sofferenze e i sacrifici dai qual era nata la loro patria, la repubblica delle Provincie Unite, sottrattasi al dominio spagnolo con una rivolta iniziata nel lontano 1566 e protrattasi per ottant'anni di guerre pressoché ininterrotte fino alla pace di Westfalia del 1648, per poi riprendere poco dopo con l'invasione dell'Olanda da parte del re di Francia Luigi XIV.
   In questa prospettiva, per fare un esempio, Leida salvata dalla pioggia e dall'acqua trovava un precedente illustre nel Mar Rosso che aveva sommerso il faraone. Sono pagine di grande interesse, che ancora una volta ci insegnano non solo come la storia consenta di capire l'arte, ma anche come l'arte consenta di capire la storia.
- Steven Nadler, Gli ebrei di Rembrandt, Einaudi, Torino, pagg. - 278, € 32

(Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2017)


La mlnaccia degli ultimi dittatori

Le armi di Kim e Assad

di Maurizio Molinari

Se le democrazie sono in affanno gli ultimi dittatori in circolazione godono di ottima salute e collaborano fra loro sulle armi di distruzioni di massa. Il nordcoreano Kim Jong-un e il siriano Bashar Assad tengono salde le redini dei brutali regimi ereditati dai rispettivi genitori, usano la violenza più efferata contro gli oppositori, disprezzano la vita dei propri cittadini e, secondo almeno due rapporti dell'Onu negli ultimi sei mesi, sono protagonisti di una intensa cooperazione militare sulla proliferazione di armi proibite.
   A fine agosto è stato consegnato al Consiglio di Sicurezza dell'Onu un documento sul tentativo ripetuto da parte nordcoreana di consegnare al regime di Bashar Assad armi chimiche. Si tratta di due spedizioni che sono state intercettate, contenevano materiale proibito sulla base delle vigenti sanzioni, e vengono attribuite da esperti Onu ai legami fra il super segreto «Syrian Scientific Studies and Research Centre», a cui Assad ha assegnato lo sviluppo di armi non convenzionali, e la società nordcoreana «Korea Mining Development Trading Company», presente in Siria con propri agenti e da otto anni sotto sanzioni. Le indagini del Consiglio di Sicurezza Onu su trasferimenti di armi chimiche, balistiche e convenzionali da Pyongyang a Damasco spiegano perché Hamish de Bretton Gordon, ex capo del centro di ricerca militare britannico sulle armi non convenzionali, affermi che «negli ultimi anni la Nord Corea ha accresciuto gli sforzi per vendere il proprio arsenale sul mercato nero globale».
   E così è aumentato anche il rischio che «alcune armi di distruzione possano finire nelle mani di gruppi terroristi». In settembre un altro rapporto Onu ha rilevato la presenza di «cittadini nordcoreani in Africa, Medio Oriente e soprattutto nella Repubblica araba di Siria impegnati a sviluppare traffici di componenti missilistiche» avvalorando il sospetto che Pyongyang sia impegnata a creare un network clandestino per vendere armi proibite al fine di garantirsi risorse economiche a dispetto delle sanzioni. David Asher, ex inviato del Dipartimento di Stato Usa sulla Nord Corea, afferma che «è piuttosto evidente come Pyongyang non abbia mai cessato di rifornire Damasco con armi proibite» dando vita al patto fra dittatori che portò alla costruzione dell'impianto nucleare di al-Kibar - identico a quello di Yongbyon - distrutto da un blitz aereo israeliano nel 2007 che uccise un numero imprecisato di tecnici nordcoreani.
   Il legame fra i due regimi dittatoriali risale al 1966 quando allacciarono relazioni diplomatiche su spinta dell'Unione Sovietica - che forniva a entrambi armi e missili - e in seguito piloti e carristi nordcoreani hanno combattuto nei ranghi siriani nelle guerre del 1967 e 1973 contro Israele, sempre definito da Pyongyang come uno «Stato invasore». È stato durante le amministrazioni Usa guidate da George W. Bush e Barack Obama che Washington ha registrato un'intensificazione delle forniture non convenzionali dai Kim agli Assad, portando il segretario di Stato Hillary Clinton a scrivere nel 2009 in un memorandum al summit di Rio de Janeiro contro la proliferazione balistica: «Prevediamo la continuazione della dipendenza della Siria dalle forniture di armi chimiche e missilistiche nordcoreane». Ciò che accomuna in queste settimane i governi di Washington, Tokyo, Seul, Gerusalemme, Abu Dhabi e Riad è il timore che Kim Jong-un e Bashar Assad abbiano deciso di intensificare la cooperazione non-convenzionale puntando ad ottenere mutui benefici: economici per la Nordcorea, militari per la Siria. Quale che sia l'entità della cooperazione in corso la sola ipotesi di un patto d'azione fra il regime asiatico che ha da poco testato una bomba all'idrogeno e la dittatura araba responsabile dell'uso di armi chimiche contro i propri cittadini suggerisce l'entità della minaccia portata alla comunità internazionale dagli ultimi despoti.

(La Stampa, 5 novembre 2017)


Anpi, Nespolo alla presidenza. "Una svolta importante"

L'Associazione Nazionale Partigiani ha un nuovo presidente. Carla Nespolo, 74 anni, piemontese, laurea in pedagogia e una lunga esperienza istituzionale alle spalle. Dal 1976 al 1979 è stata infatti segretaria della commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, presieduta da Nilde Iotti. Nelle due legislature successive, sia alla Camera che al Senato, vice-presidente della Commissione Istruzione. Dall'87 al '92, al Senato, vice-presidente della commissione ambiente. È stata inoltre relatrice della legge per la riforma della scuola secondaria superiore, membro della Commissione di Vigilanza Rai e relatrice di numerose proposte di legge sui diritti delle donne.
Scrive in un messaggio la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni: "Desidero esprimere, a nome di tutti gli ebrei italiani, le più vive felicitazioni alla nuova presidente nazionale Anpi Carla Nespolo. È importante e anche commovente questa svolta storica: per la prima volta sarà alla guida dell'associazione una donna, figlia della seconda generazione, erede di chi ha vissuto in prima persona la lotta partigiana, impegnata nella salvaguardia dei valori della Resistenza da cui presero le mosse l'Italia repubblicana e la Costituzione. Sarà certamente in grado di cogliere la sfida di creare il raccordo tra i protagonisti di quella stagione e le molte persone, anche giovani, che oggi desiderano impegnarsi in questo progetto di vita per il nostro Paese e l'Europa tutta".
Aggiunge Di Segni: "Colgo l'occasione di questo messaggio per estendere alla nuova presidente la nostra disponibilità massima a cooperare per iniziative e momenti centrali che assieme all'Anpi abbiamo sempre difeso e promosso, specialmente in vista del prossimo 25 aprile più che mai significativo".

(moked, 5 novembre 2017)



«Accoglietevi gli uni gli altri»

Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'aver fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù, affinché d'un solo animo e d'una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Accoglietevi dunque gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio. Poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri; mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i le nazioni e salmeggerò al tuo nome. Ed è detto ancora: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino. E di nuovo Isaia dice: Spunterà la radice di Iesse, Colui che sorgerà a governare le genti; in lui spereranno i Gentili. Or l'Iddio della speranza vi riempia d'ogni gioia e d'ogni pace nel vostro credere, affinché abbondiate nella speranza, per la potenza dello Spirito Santo.
Dalla lettera dell'apostolo Paolo ai Romani, cap. 15

 


Una start-up di alta tecnologia

A Nazaret convivenza e collaborazione interreligiosa in una scuola per disabili e a Gerusalemme un'industria tecnologica realizza apparecchi per ipovedenti e autistici.

di Guido Capizzi

GERUSALEMME - Una sosta a Nazareth, suggerita dalla collega Cristina Uguccioni del quotidiano "La Stampa", alla Holy Family Center. Qui lavorano quasi duecento persone: cristiane, musulmane ed ebree. Qui per dieci ore ogni giorno arrivano quasi duecento bambini e ragazzi, il 90% sono musulmani e gli altri sono cristiani. Nazareth ha 80.000 abitanti, 50.000 sono musulmani, gli altri sono cristiani. Questi ospiti hanno da 1 a 21 anni e soffrono di gravi forme di disabilità: autismo, sindrome di Down, spina bifida. La scuola ha 42 anni e fu inaugurata dai missionari dell'Opera Don Guanella, invitati a costruirla dalla "Custodia di Terra Santa". Un primo stabile fu il riadattamento dell'ex convento delle Clarisse, poi nel 1992 vennero aggiunti quattro nuovi grandi padiglioni.
   Ascoltando padre Marco Riva, 53 anni di cui 25 vissuti in Israele, si scopre la volontà e l'impegno, perché la vita di questi giovani sia "dignitosa", "bella" e "serena", nonostante la grave disabilità ed il contesto di guerra e di occupazione permanenti. Nella prospettiva umana vuole anche dire offrire prestazioni ineccepibili e instaurare relazioni personali importanti. Così la professionalità degli operatori deve essere unita alla dimensione affettiva fatta di sensibilità, attenzione, delicatezza, disponibilità, capacità di sacrificio e di dedizione profonda. Quasi uno slogan: qui ci si prende cura dell'umano anche con il gioco e lo sport accanto all'apprendimento e alla riabilitazione. Bambini e ragazzi hanno a disposizione aule per l'attività didattica, una piscina per l'idroterapia, un grande area verde per la giardino-terapia, un laboratorio di arte e di falegnameria, una sala per la musicoterapia, due sale multisensoriali, una per l'informatica e spazi riservati allo sport e al gioco.
   Haya Chahada, musulmana, ha 31 anni, è nubile e lavora come logopedista nel Centro. Ha studiato in una scuola cattolica e la sua migliore amica è cristiana. Per lei, come per le sue colleghe e i suoi colleghi di religione musulmana e per i lavoratori cristiani della Holy Family Center, nell'edificazione di una società giusta nei confronti dei disabili vanno combattuti i tanti pregiudizi e le errate credenze che qui come altrove ancora proliferano. E per queste giovani vite destinate a morire presto, giovani vite richiedenti accoglienza e amore, le differenze culturali, religiose, politiche non hanno peso. L'unità tra persone di diverse religioni che lavorano insieme è spinta e garantita da bambini e ragazzi, meglio dotati per spingere il visitatore "a tenere i piedi per terra, a capire cosa conta veramente nella vita, a ridimensionare i problemi". Incrociare un disabile, il suo sguardo, il suo affetto, i suoi bisogni primari, fa capire subito l'alleanza che si vive qui.
   Si svolgono regolari incontri per i genitori dei giovani disabili per offrire sostegno, informazioni e coinvolgimento nel percorso che i loro figli sono aiutati a seguire. La frequenza alla scuola non ha un costo, perché tutte le spese sono a carico dei donatori, incluso lo stato di Israele, che ha una legislazione molto attenta nei confronti delle persone con disabilità. Studenti universitari di Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme prendono parte alle giornate di studio sulla disabilità organizzate periodicamente a Nazareth, in questo Centro.
   Passando a Gerusalemme alla sede della OrCam Technologies si apprende che è in arrivo anche in Italia OrCam MyEye, una tecnologia israeliana in grado di supportare nella vita di tutti i giorni persone non vedenti, ipovedenti, dislessiche o con patologie significative che impediscono una corretta lettura di parole e messaggi. OrCam MyEye è una piccola fotocamera collegata a un computer/batteria dalle dimensioni di uno smartphone. La foto camerina si fissa all'asticella degli occhiali che riceve informazioni visive raccontate in tempo reale a chi le indossa.
   Tutto nasce nel 2010 quando il professore di informatica Amnon Shashua con l'imprenditore Ziv Aviram fondano la OrCam Technologies, considerata oggi a livello internazionale pioniere nel settore tecnologico destinato all'assistenza di persone non vedenti o con problematiche della vista. Attualmente l'azienda conta 150 persone che lavorano nel quartier generale di Gerusalemme e ha sedi a New York e Londra. Tra le professionalità di alto profilo che fanno parte dell'equipe ci sono anche non vedenti, ipovedenti e con disabilità visive che grazie alla loro esperienza portano un valore aggiunto alla mission di questa azienda. Dunque OrCam MyEye arriva anche sul mercato italiano. "La nostra mission aziendale è di dare supporto alle persone che presentano problematiche alla vista e di lettura, aiutandole ad acquisire una maggiore autonomia nelle loro attività quotidiane" ci spiega Ziv Aviram, Co-founder e CEO di OrCam. Le avanzate funzionalità di OrCam MyEye permettono "a chi usa il device di leggere testi da libri, quotidiani, menu, computer, schermi di smartphone e di riconoscere agevolmente gli amici e le persone care, tutto in tempo reale". Per rendere tutto questo possibile, è stato fondamentale lavorare sul design di OrCam MyEye così da rendere il device wearable discreto e semplice da utilizzare.
   Il dispositivo è stato sottoposto a numerosi test dall'Unione Italiana dei Ciechi e Ipovedenti. "E' uno strumento in grado di realizzare quello che promette" ci dice il Direttore Generale di Uici Salvatore Romano. Vuol significare che il riconoscimento dei testi è eccellente, la messa a fuoco del testo è semplice anche per un utente completamente privo della vista. La memorizzazione dei volti e degli oggetti, pur non essendo immediata come la lettura dei testi, dopo i passaggi preliminari per salvare le varie informazioni garantisce un riconoscimento perfetto. Una opinione importante questa di Salvatore Romano che aggiunge "l'uso del dispositivo appare semplice e intuitivo". Il dispositivo si attiva, secondo i casi, con la punta di un dito oppure il movimento degli occhi per la lettura di testi, etichette di prodotti e banconote: per leggere testi, sia stampati che in formato digitale, su qualsiasi superficie sia piana che curva. L'utente deve semplicemente puntare il dito su ciò che desidera visualizzare e OrCam trasmette verbalmente le informazioni raccolte attraverso un auricolare.
   L'impressione nel dialogare con chi prende a cuore un problema e nel vedere la passione che pone nel fare materialmente qualcosa è sentirsi meglio.

(la Città futura, 4 novembre 2017)


«Qui lavorano quasi duecento persone: cristiane, musulmane ed ebree. Qui per dieci ore ogni giorno arrivano quasi duecento bambini e ragazzi, il 90% sono musulmani e gli altri sono cristiani. Nazareth ha 80.000 abitanti, 50.000 sono musulmani, gli altri sono cristiani.» Ma non dicevano che in Israele c’è l’apartheid?


Perché così tanti ebrei da Israele tornano in Germania

Sono quasi 30mila gli israeliani che hanno deciso di vivere nella capitale che fu del Führer. Ne abbiamo incontrati alcuni, per capire cosa li abbia spinti a tornare.

di Wlodek Goldkorn

 
Celebrazione della festa di Channukah a Berlino
Berlino, Kreuzberg, quartiere fino al 1989 a ridosso del Muro, nelle strade insegne di negozi con nomi islamici; in un salotto di un elegante appartamento, tra buoni vini e ottimi cibi forniti da un ristorante di proprietà di una greca fuggita dalla parte della Cipro occupata dai turchi, c'è una dozzina di israeliani. Non sono ebrei della Diaspora, russi e ucraini, approdati nella capitale tedesca nel quadro del progetto della ricostruzione di una Germania multiculturale per dar testimonianza della solidità della democrazia nel Paese che fu di Hitler.
  La dozzina degli astanti sono invece persone nate in Israele; cresciute fra Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme e kibbutz vari. La proprietaria della casa, la scrittrice Lizzie Doron, figlia di una donna scampata ad Auschwitz (e che la memoria e la follia della madre ha trasformato in letteratura) dice: «Quelli che venivano da qui, in Israele erano considerati "coloro che arrivano dall'Inferno". Eccoci invece tornati all'Inferno».
  Non nelle fiamme attizzate dai diavoli, ma con piattini di moussaka e bicchieri di Falanghina in mano, c'è un businessman del ramo immobiliare, un avvocato internazionale e il suo compagno di vita artista affermato; c'è un maestro di yoga; un musicista che suonava con Daniel Barenboim (anche lui israeliano a Berlino) e poi un ex attivista politico, una funzionaria della Knesset in pensione e via elencando.
  Fa un effetto straniante confrontare le loro comode vite (nessuno qui è povero) con il primo soggetto della conversazione: i passaporti e le ambasciate. Dunque, gli austriaci sono ora di manica più larga dopo decenni di tirchieria, ai discendenti dei sudditi dell'ex Impero in certi casi ridanno la cittadinanza; i romeni invece no; i polacchi se hai avuto un genitore nato lì, i documenti te li rilasciano, ma bisogna insistere; se vuoi diventare maltese devi spendere denaro.
  Qualcuno confessa: «Io comunque il passaporto tedesco l'ho preso». Ma come? Cittadini di una nazione che doveva porre fine ai duemila anni di erranza dei senzapatria parlano come se fossero ebrei in fuga, da queste parti, negli anni Trenta del secolo scorso? Ecco, ce ne sono oggi, nessuno sa il numero preciso, almeno 20 mila, ma c'è chi dice 30 mila israeliani nella capitale che fu del Führer, di Goering e Himmler e Goebbels e dove vennero concepite Auschwitz e Birkenau, Treblinka e Sobibor. Paradossi della storia? Vedremo. Ma intanto, perché sono qui? E la loro permanenza ha qualcosa da insegnarci sui corsi e ricorsi della storia e sulla libertà di scelta di noi umani?
  
Per tentare di dare una risposta a queste (e altre) domande spostiamoci al Museo ebraico, a due passi dal Reichstag. Quando la Germania venne riunificata i politici tedeschi sentirono la necessità di assumersi la memoria del popolo assassinato (ci torneremo) e così nel pieno centro della capitale sorse il memoriale alle vittime della Shoah costruito da Peter Eisenmann, una selva di pietre, e il Museo appunto, disegnato da Daniel Libeskind, dalle pareti e pavimenti inclinati in modo da creare una sensazione di instabilità. Ma la cosa che più colpisce è la scala all'entrata.
  Il visitatore, prima ancora di vedere le sale in cui si narrano gli splendori dell'ebraismo tedesco tra banchieri, poeti, filosofi, uomini e donne dell'Illuminismo, scienziati di fama ed editori di pregio; ecco prima di vedere tutto questo il visitatore sale una ripida scala che finisce non con un'apertura verso gli spazi dell'esposizione, ma con un muro di grezzo cemento armato. È un modo per dire: tutto quello che vedrai sono cose di prima della fine del mondo; dopo c'è solo un muro e anzi, la Germania non è altro che un muro contro cui sbattere, se non si sta attenti.
  E allora, forse quei 20 o 30 mila israeliani venuti qui non per fuggire dalla miseria dell'Est post-comunista, ma arrivati da un Paese ricco, forte, dotato da una cultura stupenda, sono in realtà persone che hanno deciso che anche il muro di Libeskind andasse demolito. C'è qualcosa di strano nella memoria degli israeliani. Fania Oz-Salzberger, storica e figlia dello scrittore Amos ha vissuto un anno qui, per via di una borsa di studio. Nel libro che ha prodotto sugli israeliani nella capitale tedesca dice fin dalle prime pagine che Tel Aviv è figlia di Berlino. E cita i padri e le madri della letteratura israeliana che qui, prima dell'avvento del nazismo, ma già sionisti convinti, hanno trascorso anni formativi e fondamentali; dal premio Nobel Shmuel Agnon alla struggente e intelligentissima poetessa Lea Goldberg. Ecco, Berlino è una città anche israeliana. Uno strano intreccio e abbraccio della storia.
  Tal Alon è giornalista. Ha 42 anni e dirige "Spitz" (apice), «la prima rivista in ebraico a Berlino dopo la Shoah», come ama sottolineare. I suoi nonni giunsero in Palestina negli anni Trenta, dall'Europa centrale. La sua è una storia lunga è complessa, è arrivata a Berlino seguendo suo marito, tedesco cresciuto fin da bambino in Israele. Ma comunque (e la cosa la raccontano un po' tutti gli interlocutori) il paesaggio, tra boschi e odori, di questa parte del Vecchio Continente le è familiare, come se stesse da sempre qui.
  Forse certe memorie in famiglia appunto, anche visive e di olfatto, passano per osmosi. In ogni caso, di "Spitz" sono usciti venti numeri su carta stampata, e sottolinea, «proprio qui a Berlino è importante la materialità della carta». Sorride e riflette sulla distanza da Israele che rende alcune cose più comprensibili, o forse più normali: «Non voglio essere tedesca», dice, «preferisco restare ospite, ma qui sto bene. Solo qui ho capito, guardando i miei figli e i loro compagni di scuola, quanto strano fosse che in Israele io non avessi neanche un amico arabo o musulmano».
  E la memoria? La domanda è insidiosa, e implica l'ipotesi per cui la normalità è solo un'apparenza e anche un po' perversa. E per essere espliciti: il fatto che al centro della capitale ci siano monumenti dedicati alle vittime non finisce paradossalmente per integrare la memoria degli assassinati, nella narrazione (democratica e liberale) dei discendenti degli assassini? Insomma, non è che i tedeschi abusino degli ebrei morti nei Lager, mettendo in mostra la propria cura per la loro memoria e tutto questo per legittimare se stessi? Alon riflette a lungo; poi da donna nata 40 anni dopo la liberazione di Auschwitz e ormai terza generazione in Israele dice pragmaticamente: «Preferisco l'eccesso della memoria alla sottrazione. Perché in quell'eccesso c'è l'assunzione della responsabilità. Ed è per questo che un'israeliana può tranquillamente sentirsi di casa a Berlino, senza essere tedesca».
  Scrive, nel suo bel libro Fania Oz-Sulzberger: «Qui si riesce a misurare la nostalgia dell'Europa degli israeliani, il suo fascino e la sua forza d'attrazione». Insomma, Berlino, la nuova Terra promessa, altro che Inferno. Dell'inferno, ricordiamocelo ha parlato Lizzie Doron, la padrona del salotto di Kreuzberg («ci vediamo ogni due mesi») e che per chi frequenta una certa letteratura richiama l'associazione con un altro salotto berlinese, di Rahel Varnhagen, intellettuale ebrea a cavallo tra il Settecento e l'Ottocento, convertita al cristianesimo cui dedicò un libro Hannah Arendt.
 
Una famiglia prepara il pane del sabato per un festival di cibo kosher
  E allora, che cosa ci fanno gli israeliani a Berlino? La prima risposta è sorprendente: «Molti vengono con l'idea, "ci spetta, dopo quello che i tedeschi hanno fatto a noi"». Poi confessa: «Io sono qui perché, da scrittrice, per tutta la vita ho voluto capire i motivi per cui la gente odia i propri simili». Precisa: «Qui l'odio non ha più luogo, in nessun'altra città e in nessun altro Paese i miei libri hanno avuto tanto successo e sono stati così ben compresi come qui». Doron, l'abbiamo già detto, ha pubblicato romanzi-memoir dedicati ai ricordi di Auschwitz di sua madre (in Italia con Giuntina). Ora ha scritto un libro sui rapporti coi palestinesi ("Cinecittà", sempre Giuntina), un testo duro e brutale. «In Israele nessuno lo ha voluto pubblicare», si arrabbia, «mi hanno detto: il tuo tema è la Shoah, continua a raccontare i Lager e la memoria. E io rispondo: ma dopo 50 anni di occupazione militare come faccio a non parlarne, come faccio a non riflettere sull'odio, in questa versione della storia?». Ecco, Berlino, racconta Doron, le ha permesso di vivere da persona libera, che può narrare quel che vuole. E anche: «Mia mamma, reduce di Auschwitz diceva: meglio avere due patrie che una sola. Per me Berlino è il luogo dell'anima».
  Ferma l'eloquio, guarda negli occhi l'interlocutore, cerca le parole giuste: «Il grande pregio dei tedeschi, rispetto ai francesi o polacchi o austriaci, è che qui tutti (forse ad eccezione del pubblico della destra dell'Afd, ma in fondo sono pochi) riflettono sul passato non per assolversi ma per capire l'origine universale dell'odio». Confessa: «Ho cercato una donna delle pulizie. L'ho chiesto a un'amica tedesca discendente di una famiglia dei nazisti. Lei mi disse che va in giro a pulire le case degli ebrei; è la sua espiazione». E allora? «E allora, in quell'abbraccio tra noi, gli israeliani (e parlo più da israeliana che da ebrea) e i tedeschi, bisogna stare attenti a un ineffabile limite, che non va oltrepassato. Ma comunque qui sto di casa».
  Di casa sta a Berlino anche Oz Ben-David, un nome è un cognome che rimandano a un Israele dei suoi primi anni, quando ai cittadini in missione all'estero il governo imponeva di assumere nomi e cognomi appunto che fossero espressione dell'idea dell'ebreo nuovo, creato in Terra dei Padri e che ha rotto i legami con il passato diasporico; o forse a certa letteratura, in cui le spie del Mossad si presentavano così. Oz Ben-David significa Forza Figlio di Davide. Lui ha 37 anni, un passato di destra, truppe scelte dell'esercito, e di colono ad Ariel, città israeliana in mezzo alla Cisgiordania palestinese.
  A Berlino, assieme a un palestinese, Jalal Dabit, ha aperto un piccolo ristorante che serve l'hummus (purea di ceci) più buono dell'universo mondo. Cibo come progetto politico (e lui conferma), ma poi c'è la location. Il ristorante, Kanaan, si trova a Prenzlauerberg, un quartiere dell'Est. L'arredamento e anche la baracca (perché sta in una baracca) sono sempre quelli dei tempi del comunismo, precisa. Attorno un ambiente che richiama gli anni Cinquanta. Una passerella sopra la ferrovia ed edifici dall'intonaco scrostato, con nei mattoni segni delle pallottole dei soldati dell'Armata rossa, in marcia verso il bunker del Führer (nel frattempo suicida).
  Dice Dan Diner, storico tedesco e israeliano, fine intellettuale spesso interpellato dall'Espresso: «Gli israeliani che vengono qui sono, per usare un termine di Walter Benjamin, dei flâneur nel tempo». Spiega: «In questa capitale, e solo in questa, a differenza di tutte le altre in Europa, convergono la semantica e i simboli dei passati diversi. A causa del Muro, qui il tempo restò congelato». Continua: «In Israele il passato è un racconto astratto, narrazione dei genitori, lettura dei libri, qualche foto o filmato. Ma il Paese è nuovo. Qui a Berlino invece la memoria si traduce in oggetti e edifici, che appunto per decenni sono rimasti intatti, perché qui era l'epicentro dello scontro Est-Ovest e tutto doveva restare come era».
  E anche: «Gli israeliani che vengono qui, non mettono radici. Sono dei perfetti viandanti; avanguardie della condizione post-moderna di tutti gli esseri umani». Tradotto in parole semplici: la post-modernità ha prodotto la figura del nomade, che a differenza della modernità non sceglie una sola e solida identità (ci riflettano gli oppositori dello ius soli); e per uno strano e mostruoso caso della storia, quella condizione arriva alla sua massima e più chiara definizione nella situazione dei 20 o 30 mila israeliani a Berlino.
  Il resto è solo una serie di commenti: Shai Ordan, l'avvocato internazionale, poco più che quarantenne, sesta generazione di persone nate in Terra d'Israele, con antenati dalla parte materna da 400 anni ad Amburgo, dice che era arrivato qui a seguito del suo compagno di vita («aveva una borsa di studio di un anno, pensavo di stargli accanto per sei mesi») e invece è rimasto. Apprezza due cose: «la prima, da avvocato mediatore di famiglie composte da persone di varie nazionalità, ho capito che il futuro dell'umanità sta non in una specie di melting pot o di amalgama (come si pretende in Israele) ma nel rispetto anche conflittuale delle diversità».
  La Terra promessa e i tempi del Messia sono solo espressioni utopiche. E la seconda? «Riguarda la cultura gay, ma non solo. In Israele, considerato un specie di paradiso degli omosessuali, non siamo, a causa dell'occupazione, della minaccia esistenziale vera e del razzismo altrettanto vero, in grado di riflettere sulle cose profonde. Ci fermiamo in superficie Da noi, il gay è ancora un giovane bello e atletico. Qui a Berlino, non più. Qui i gay sono come tutti gli altri».
  Efrat Alony, 42enne cantante jazz la vede forse un po' diversamente degli altri. Intanto, lei nata a Haifa, famiglia proveniente dall'Iraq, a Berlino vive da una ventina di anni. E con questo potremmo concludere, se non richiamando (ancora una volta) Oz Sulzberger, che a sua volta cita Nathan Alterman, un poeta amatissimo da suo padre e uno dei creatori del mito dell'uomo nuovo sionista . Alterman, scrive Fania Oz-Salzberger, considerava le città commerciali come «sorde e dolorose».
  Le persone nate e cresciute nella città ideale di Alterman, in una città sorda e dolorosa come Berlino, hanno invece trovato voce e conforto. All'uscita dal museo di Libeskind, c'è un video sul processo ai boia di Auschwitz, a Francoforte a metà anni Sessanta. Hannah Arendt, elegantissima, seduta in poltrona spiega: «Tutto quello non sarebbe dovuto succedere». Rimpianto di un'illuminista e viatico per la generazione dei futuri viandanti nel tempo.

(L’Espresso, 2 novembre 2017)


Giovani e servizio civile, al lavoro per gli altri

 
Ritrovarsi e raccontarsi un po' in italiano e un po' in ebraico. E approfittarne per dare una mano agli altri. Tra i tanti momenti di ritrovo organizzati da Giovane Kehillà, gruppo dei giovani italiani in Israele, le attività di volontariato rappresentano una priorità. Fondata nell'autunno 2015 su impulso dell'attuale presidente Michael Sierra, che siede anche nel Consiglio della Hevrat Yehudei Italia be-Israel, l'associazione organizza regolarmente ritrovi per trascorrere insieme lo Shabbat, gite fuori porta, ed è attiva nel mondo dell'associazionismo giovanile, in Israele e non solo, coinvolgendo decine di ragazzi. Però uno dei suoi punti di forza sta proprio nell'offrire supporto, compagnia, aiuto concreto a chi ne ha bisogno. Così in occasione della recente festa di Sukkot un gruppo di ragazzi ha realizzato progetti artistici e trascorso una serata in Sukkah con persone affette dalla Sindrome di Down, mentre a fine ottobre, come già lo scorso anno, ci si è ritrovati per la Challah Challenge in una Casa di Riposo a Gerusalemme per impastare insieme agli anziani. A proposito di impastare, dopo una cooking class guidata dalla chef italiana Giulia Punturello, Giovane Kehillà ha venduto i cibi preparati donando il ricavato a favore delle vittime degli incendi di Haifa, che lo scorso anno hanno devastato boschi ed edifici nel nord d'Israele. E questo per citare solo alcuni esempi degli eventi realizzati dall'organizzazione. "Ovviamente la prima ragione che spinge un giovane a frequentare le attività della Giovane Kehilà resta il divertimento, c'è chi partecipa per gli Shabbatonim e per la compagnia, chi per l'occasione di utilizzare il proprio italiano, chi per le gite o le feste, chi cerca un consiglio sulla Tzavah, l'università, il lavoro - ha scritto Michael Sierra sul numero di Luglio-Agosto di Kol Ha-Italkim, il giornale della Hevrah - In un mondo dove la maggior parte dei giovani è occupata con video giochi, reality show e altri passatempi dilettevoli, vedere giovani che investono tempo nelle loro radici e tradizioni, che parlano di attualità e che si impegnano in attività di volontariato per la loro società non è banale". I ragazzi della giovane Keillah hanno poi incontrato i dieci giovani (nell'immagine), provenienti da tutta Italia, partiti per Israele per svolgere dieci mesi di servizio civile. Due i progetti di servizio civile all'estero di Spes, Centro di servizio per il volontariato del Lazio: uno è "Merkaz Horim - La casa dei nonni" in cui sette volontari si occupano di assistere anziani fragili con disabilità (fisica e mentale), con esigenze particolari (Hiv, tossicodipendenti) o con alle spalle precedenti penali. Il servizio viene svolto nelle città di Akko e Nahariya, nel Distretto Nord di Israele, all'estremità settentrionale della baia di Haifa. L'altro è legato alla tutela del mare: tre volontari contribuiranno a tutelare e migliorare l'ambiente sottomarino, prestando servizio nel centro di osservazione sottomarino di Eilat, sul Mar Rosso.
E a novembre torna l'occasione di ritrovarsi a Gerusalemme per uno Shabbaton, da tutta Israele. E un po' anche da tutta l'Italia. r.t.

(Pagine Ebraiche, novembre 2017)


Possibili profili degli ebrei italiani

ldentikit sociologico di una piccola minoranza: diversi contributi, raccolti nel volume 'Ebreo chi?'

di Jonatan Della Rocca

E uscito un volume "Ebreo chi?" edito da Jaca Book che raccoglie i contributi di esperti e studiosi sulla comunità ebraica italiana, in cui trovano spazio risposte sulla composizione sociale, gli equilibri interni delicati che vertono sulla variabilità della pratica religiosa, la natura giuridica che regola i rapporti con lo Stato e testimonianze personali di percorsi individuali verso l'identità ebraica. Vista la diversità degli interventi, specialistici per il loro contenuto, è un'opera preziosa per cogliere il fenomeno ebraico italico sotto diverse sfaccettature. Nelle trecento pagine viene percepita la complessità di un gruppo sociale che, sebbene l'interazione quotidiana e costante con la società circostante, ha saputo mantenere distinto e vitale il proprio patrimonio religioso. E balza agli occhi del lettore la preziosa natura eterogenea del pensiero ebraico italiano.
   Aprono gli interventi, Enzo Campelli e Sergio Della Pergola che si confrontano, ciascuno in un proprio saggio, con gli effetti di una ridotta entità numerica della popolazione in oggetto. Secondo i dati del 2014 gli iscritti alle comunità ebraiche in Italia ammontavano a 23.901 unità, la maggior parte distribuita a Roma, Milano, Firenze, Torino e Trieste con le seguenti cifre, rispettivamente, di 13.016, 5973, 906, 858, 525. Numeri orientativi perché va tenuto conto della doppia iscrizione e delle aliyot crescenti degli ultimi anni. I due accademici, considerando diverse variabili identitarie, approfondiscono alcuni indicatori raccolti nelle ultime indagini e tracciano modalità comportamentali esistenti nell'ebraismo italiano. Seguono i contributi di Roberto Della Rocca e Anna Foa che, dalla loro diversa formazione e competenza professionale, approfondiscono alcuni fattori che caratterizzano la trasmissione identitaria nelle comunità odierne. Nelle loro descrizioni vengono individuati fenomeni educativi e culturali che vivono nel contesto dinamico con la tradizione talvolta arrivando a un processo di abbandono e/o riavvicinamento frutto del percorso storico e secolarizzato presente nell'ultimo secolo.
   Ugo G. Pacifici Noja, curatore del volume insieme a Giorgio Pacifici, affronta nel suo saggio l'inquadramento storico-giuridico dell'ebraismo italiano. E' un percorso che l'autore fa partire dalla Legge Rattazzi del 1857, dedicando molte righe alla Legge Regia del 1930 che istituì l'Unione delle Comunità Israelitiche, fino ad arrivare alla legge dell'8 marzo, attualmente vigente, che reca le norme tra lo Stato e l'Ucei. E' una disamina articolata e approfondita di come vengono disciplinati i diversi punti legislativi, ponendo osservazioni in merito e proposte di come potrebbero essere messe in atto delle integrazioni, a seguito dei cambiamenti sorti nelle politiche comunitarie, rabbiniche e amministrative negli ultimi trent'anni.

(Shalom, ottobre 2017)


L'esercito israeliano: pronti ad aiutare i drusi in Siria

L'esercito israeliano potrebbe intervenire in Siria per proteggere il villaggio druso di Hader, dove ieri nove persone sono rimaste uccise in un attacco suicida. «L'esercito è pronto ad aiutare gli abitanti del villaggio per impedire danni o una occupazione», hanno dichiarato le forze armate israeliane. Da Londra, dove si trova in visita, il primo ministro Netanyahu ha sottolineato «l'amicizia che proviamo verso i nostri fratelli, i drusi». Al centro della crisi vi è il villaggio di Hader, a tre chilometri dal confine con Israele, a ridosso della zona cuscinetto del Golan fra Siria e lo Stato ebraico. Controllato da milizie leali al presidente siriano Assad, il villaggio è stato attaccato dagli jihadisti di un gruppo collegato ad Al Qaeda. Ieri l'esercito israeliano ha dovuto fermare decine di drusi che volevano attraversare il confine in soccorso dei loro «fratelli siriani». Finora Israele ha limitato gli interventi in Siria a raid aerei contro convogli di armi della milizia libanese Hezbollah o a rispondere a tiri d'artiglieria arrivati sul Golan.

(La Stampa, 4 novembre 2017)


Hamas cede il controllo delle frontiere di Gaza

All'Autorità palestinese i punti di passaggio con Egitto e Israele

di Giovanni Galli

I ritratti di Abdel Fattah al-Slssl e Mahmoud Abbas da mercoledì decorano la frontiera tra la Striscia di Gaza e l'Egitto
Nella Striscia di Gaza è passato di mano, mercoledì, il controllo dei tre valichi che la collegano con l'Egitto e Israele. Il movimento islamista Hamas, che controlla la Striscia di Gaza da una decina d'anni, ha consegnato all'Autorità palestinese (Anp) le frontiere di Rafah (con l'Egitto) e quelle di Erez e di Kerem Shalom (con Israele), come previsto dall'accordo di riconciliazione firmato al Cairo il 12 ottobre, grazie all'importante regia dell'Egitto, tra le due principali forze politiche della Palestina, Hamas e al-Fatah di Mahmoud Abbas, presidente dell'Anp. Mercoledì si è svolta la cerimonia che ha visto l'autorità palestinese schierare i suoi al punti di attraversamento liberati da Hamas: Erez, tra la Striscia di Gaza e Israele e Rafah, alla frontiera con l'Egitto che riaprirà il 15 novembre dopo quattro anni di blocco quasi permanente imposto dai militari egiziani.
   I dettagli finali del trasferimento sono stati negoziati fino all'ultimo momento. Mercoledì mattina è iniziato lo smantellamento del punto di attraversamento controllato da Hamas nell'estremo nord della Striscia di Gaza, a Erez, alla frontiera con Israele. I computer e i dossier sono stati portati via, mentre i prefabbricati che ospitavano i dipendenti civili e gli agenti di polizia sono stati smontati e caricati sui camion. Chiamato Arba'a Arba'a» (4-4, in arabo), il valico ha simboleggiato per dieci anni l'influenza del movimento islamico sull'enclave costiera. Danneggiato dai bombardamenti israeliani durante la guerra dell'estate 2014, era stato ricostruito. I palestinesi che si recavano in Israele, considerati alla stregua di traditori potenziali, erano sottoposti ad interrogatori della sicurezza interna. I visitatori che volevano entrare dovevano sottoporsi ai controlli minuziosi dei bagagli da parte degli uomini della dogana in cerca di bottiglie di alcol e altre merci vietate dai governanti di Gaza. Da mercoledì i palestinesi possono attraversare «Arba'a-Arba'a» senza fermarsi.

(ItaliaOggi, 4 novembre 2017)


Negazionismo di sinistra

di Giovanni Cerro

Il negazionismo di sinistra non ha mai destato un'attenzione sistematica da parte della storiografia in quanto è stato in genere considerato un fenomeno minoritario, di fatto circoscrivibile all'Italia e alla Francia nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Ottanta e legato ad alcune frange radicali dotate di scarsa influenza sul dibattito politico. II denso saggio Negazionismo a sinistra. Paradigmi dell'uso e dell'abuso dell'ideologia (Trieste, Asterios, 2017, pagine 174, € 18) che ora Francesco Germinario, noto per le sue ricerche sulle fonti dell'antisemitismo europeo e sulla cultura politica dell'estrema destra, dedica al tema, costituisce una preziosa eccezione in questo panorama, segnalandosi per acutezza interpretativa e lucidità di analisi.
   L'intento di Germinano consiste nell'indagare il fenomeno nella sua specificità, senza tentare di ricondurlo all'ampia galassia del negazionismo di destra. In comune i due negazionismi hanno senza dubbio l'obiettivo polemico, costituito dalla politica antifascista, a cui si imputava la responsabilità di aver creato ad arte il "mito di Auschwitz" e il "mito delle camere a gas". Tuttavia, i negazionisti di sinistra non miravano tanto a riabilitare il nazismo e a darne un'immagine positiva, ma tendevano a leggere l'accanimento contro gli ebrei utilizzando in modo superficiale categorie tradizionali del pensiero marxista. Lo sterminio, notevolmente ridimensionato nella sua portata quando non rifiutato tout court, era cosi interpretato come il frutto delle circostanze della guerra, delle condizioni oggettive di vita nei campi o come il riflesso della lotta politica tra stalinisti e trozkisti.
   In tal senso, un punto di riferimento era rappresentato dalle opere di Paul Rassinier, un ex comunista di tendenze anarchiche che aveva partecipato alla resistenza francese ed era stato deportato per motivi politici a Buchenwald e Dora, secondo il quale le responsabilità naziste andavano attenuate (non si avevano prove certe dell'esistenza di un piano di sterminio) e le testimonianze dei sopravvissuti non erano sempre attendibili, dal momento che non si era mai dimostrato un utilizzo delle camere a gas come strumento di morte.
   I campi, per Rassinier, erano luoghi di internamento nei quali si erano riproposte le stesse dinamiche sociali e politiche del mondo esterno: l'elevata mortalità sarebbe stata il risultato delle violenze e delle torture perpetrate dai deportati comunisti sui loro avversari. A parte Rassinier, più in generale il vero nemico dei negazionisti di sinistra era rappresentato dal capitalismo e dai suoi alleati", rei di voler affossare il proletariato servendosi di tutti gli strumenti teorici e pratici a disposizione.
   Come mostra bene Germinano, alcune di queste "spiegazioni" si basavano su un altro falso storico (come del resto era accaduto con i Protocolli dei savi Anziani di Sion), un articolo pubblicato nel 1960 sulla rivista «Programme communiste» dal titolo Auschwitz ou le grand alibi.
   Lo scritto era stato erroneamente attribuito (o più probabilmente attribuito in modo voluto, per dare legittimità alle affermazioni in esso espresse) a uno dei padri del comunismo italiano, Amadeo Bordiga, ma in realtà il suo autore era Jean-Pierre Axelrad, un fisico austriaco, emigrato nel 1938 a causa delle sue origini ebraiche e vicino alle posizioni bordighiste. Nello scritto Axelrad proponeva una fantasiosa ricostruzione dell'origine e dello sviluppo dell'antisemitismo europeo nel corso del Novecento. La sua argomentazione - se così la si vuole definire, anche se si tratta della giustapposizione di dichiarazioni apodittiche - si basava su due presupposti.
   Da una parte, in età contemporanea gli ebrei erano arrivati a costituire una parte significativa delle classi medie, collocandosi prevalentemente nella piccola e nella media borghesia; dall'altra, l'antisemitismo era l'ideologia di quei settori della piccola borghesia che intendevano difendersi dagli effetti della crisi economica e sociale che aveva colpito la Germania tra gli anni Venti e Trenta e sfuggire così all'imminente «proletarizzazione..
   La piccola borghesia, sosteneva Axelrad, aveva «gettato gli ebrei ai lupi per alleggerire la propria slitta e così salvarsi., facendo indirettamente gli interessi del capitalismo. Secondo questa lettura, l'antisemitismo corrispondeva a un'illusione ideologica del ceto medio, che aveva creduto di poter sopravvivere all'estinzione, ma in realtà era destinato a essere sconfitto definitivamente dalla Storia, per mano di quel processo irreversibile rappresentato dalla concentrazione della proprietà e del capitale. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale la piccola borghesia era cosi progressivamente uscita di scena nella lotta contro gli ebrei a favore del capitalismo, che aveva assunto un ruolo sempre più dominante: gli ebrei «furono ritirati dalla circolazione, raggruppati e concentrati. al fine di sfruttarne la forza-lavoro fino allo sfinimento fisico e psichico. Axelrad comunque non nascondeva che in alcuni casi vi fosse stato un «assassinio puro e semplice».
   Dal momento, però, che i deportati «non morivano abbastanza in fretta, si decise di massacrare quanti non erano più in grado di lavorare e quindi risultavano "inutili" per il sistema produttivo. Nel dopoguerra, il capitalismo aveva saputo sfruttare nuovamente lo sterminio a proprio vantaggio, strumentalizzando la violenza nazista per far apprezzare al proletariato «la vera democrazia, il vero progresso, il benessere. di cui finalmente poteva godere e al tempo stesso per distoglierlo dai veri «orrori», quelli cioè della «vita capitalistica».
   L'articolo, ristampato e discusso negli ambienti del negazionismo fino ad anni recenti, costituisce un esempio di come sia possibile combinare propaganda politica e spirito rivoluzionario e apre il campo a una riflessione approfondita sul ruolo assunto dalle ideologie nel corso del Novecento. L'obiettivo di Axelrad era infatti piegare la realtà storica ai modelli semplificati delle proprie posizioni ideologiche, proiettando sul passato la propria scala gerarchica di (dis)valori. Ciò che non si adeguava a modelli predeterminati e idealizzati e a una visione complessiva della storia era forzatamente costretto a rientrarvi o, peggio, intenzionalmente escluso dalla ricostruzione.
   Vi era quindi un'assenza completa di problematizzazione, dal momento che le risposte precedevano sempre le domande, anzi le indirizzavano e le guidavano. Contro questo modo di procedere, torna allora alla mente la nota affermazione di Norberto Bobbio, richiamata dallo stesso Germinano nel suo libro: «La storia dà lezioni solo a chi riesce a interrogarla, spregiudicatamente, a scandagliarla, con la paziente analisi dei fatti».

(Osservatore Romano - il Settimanale, 4 novembre 2017)


Il Ministro degli Esteri armeno sarà in Israele il 6-7 novembre

Il ministro degli Esteri armeno, Edward Nalbandian
EREVAN - Il ministro degli Esteri armeno, Edward Nalbandian, si recherà per due giorni di visita in Israele. Lo riferisce con un comunicato il ministero degli Esteri armeno, citato dall'agenzia di stampa "Armenpress". "Il ministro Nalbandian si recherà in visita il prossimo 6-7 novembre dopo l'invito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu", si legge nel comunicato. Secondo quanto reso noto dal ministero armeno, Nalbandian incontrerà rappresentanti delle autorità nazionali, deputati del parlamento e l'arcivescovo del Patriarcato armeno di Gerusalemme Nourhan Manougian.

(Agenzia Nova, 4 novembre 2017)


Europa in ginocchio dagli Ayatollah per salvare gli affari miliardari

All'Europa non interessa se gli Ayatollah si stanno fagocitando Iraq e Siria e se stanno finanziando i peggiori gruppi terroristici al mondo, l'importante per gli europei è non mettere in pericolo gli affari con Teheran

A guardare la rassegna stampa estera questa mattina c'è veramente da rabbrividire. Su 45 articoli apparsi sui news feed delle principali agenzie di stampa ben 32 riguardano l'Iran in quella che sembra una offensiva mediatica iraniana volta a rilanciare il ruolo dell'Iran in Europa con il beneplacito dell'Unione Europea, una offensiva che ormai va avanti da diverso tempo e che invece di scemare cresce.
Si parte dalla notizia che riguarda i rapporti tra Italia e Iran. Ieri il Governo italiano ha reso noto che nella legge di bilancio ci sarà un capitolo dedicato al sostegno delle imprese italiane che intendono investire in Iran, sostegno che passerà per Invitalia, la quale fornirà alle aziende italiane intenzionate a fare affari con gli Ayatollah le necessarie garanzie economiche volte a tranquillizzare le aziende del belpaese preoccupate dalle sanzioni unilaterali americane verso l'Iran annunciate dal Presidente Trump. Ne danno trionfale annuncio le agenzie stampa iraniane....

(Right Reporters, 4 novembre 2017)


Israele-Siria, sale l'allerta sul Golan

di Davide Frattini

A metà settimana i comandanti dell'esercito hanno deciso di rinviare il test periodico delle sirene d'allarme-missili per non scuotere i nervi già tesi degli israeliani. Perché i due fronti - a sud verso la Striscia di Gaza e a nord verso la Siria - nel giro di pochi giorni sono passati dalla calma relativa allo smottamento: non è ancora una frana verso il conflitto - assicurano gli analisti militari - di certo i segnali hanno spinto i generali ad alzare il livello di allerta. Per la prima volta la strategia di non intervento nella guerra civile siriana sembra doversi riadattare a quel che sta succedendo dall'altra parte del confine. L'attentato del gruppo terroristico Al Nusra contro il villaggio druso di Hader - un'autobomba ha ucciso ieri mattina nove persone tra civili e soldati del regime di Bashar Assad - ha costretto Gadi Eisenkot, il capo di Stato Maggiore israeliano, a minacciare di inviare le truppe per proteggere quelli che il premier Benjamin Netanyahu chiama «i nostri fratelli drusi». I rappresentanti delle comunità sul Golan si sono radunati a centinaia vicino alla frontiera e hanno cercato di superare il reticolato, i soldati li hanno riportati indietro: poco lontano è possibile vedere il fumo dei colpi di mortaio e sentire risuonare i botti della battaglia, poco lontano vivono i cugini o i fratelli, i parenti siriani dei drusi d'Israele intrappolati nel caos che ormai va avanti da sei anni e mezzo. Il generale Eisenkot - commenta il quotidiano Haaretz - spera che le intimidazioni siano sufficienti a tenere gli estremisti di Al Nusra lontani da Hader e soprattutto lontani dal confine.
   I veri nemici in Siria sembrano restare gli iraniani e i miliziani di Hezbollah che si muovono ai loro ordini. Netanyahu ha ribadito più volte a Vladimir Putin di non essere disposto ad accettare questa presenza a pochi chilometri dalle città israeliane. Mosca è alleata di Teheran nel sostegno ad Assad e allo stesso tempo per ora sta garantendo ai jet di Tsahal libertà di movimento aereo per le sortite che colpiscono i trasferimenti di armi organizzati dall'Iran verso il gruppo libanese.

(Corriere della Sera, 4 novembre 2017)


A Domodossola la prima volta insieme del pianista Prosseda e del violonista Mintz

 
DOMODOSSOLA - Suonano per la prima volta insieme, stasera - sabato 4 novembre - a Domodossola, due dei massimi interpreti contemporanei di musica classica: il pianista laziale Roberto Prosseda, 42 anni, e il violinista russo Shlomo Mintz, 60 da pochi giorni, nato a Mosca ma cresciuto in Israele. Un concerto di gala quello che inizierà alle 21 nella chiesa collegiata e che segna la ripresa degli eventi organizzati dalla associazione Mario Ruminelli dopo la pausa per la morte di Paola Ruminelli, figlia del maestro, che nel nome del padre aveva continuato a proporre concerti di grande spessore.
   Da tempo i due artisti miravano a un concerto insieme: l'occasione si è presentata a Domodossola, dove aprono gli eventi dell'associazione Ruminelli offrendo alla città un appuntamento internazionale. Il programma parte con brani di Mendelssohn: Prosseda è uno dei più grandi interpreti del compositore tedesco del quale ha presentato più di venti brani inediti in prima esecuzione mondiale, con cui ha conquistato la fama. Mintz non è da meno, con l'esordio appena undicenne nell'Orchestra filarmonica d'Israele e a 16 alla storica Carnegie Hall a New York. Del violinista israeliano - che è anche direttore di orchestra - sarà proposta la «Sonata in do maggiore» oltre a un brano del compositore belga César Franck. L'ingresso al concerto è gratuito.

(La Stampa, 4 novembre 2017)


Hamas riaccende la violenza: l'Olp è vecchia, ci penseremo noi…

Le istituzioni nazionali palestinesi sono affette da "uno stato di impotenza, fiacchezza e vecchiaia", in particolare "l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp)". E' quanto ha dichiarato l'ex capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Mashaal, che ieri ha parlato in occasione del quinto Congresso della sicurezza nazionale palestinese organizzato dall'Accademia di studi politici a Gaza. Durante l'evento, che coincide con le celebrazioni del centenario della dichiarazione di Balfour e reca il titolo Balfour 100 anni dopo: la questione palestinese, sfide e speranze, Mashaal ha fatto appello ad "accelerare la riconciliazione palestinese, a lavorare per curarne le cause e a non perdere questa opportunità", così come ad "alleviare l'assedio alla Striscia di Gaza ed eliminare le sanzioni" che gravano su questa zona. "La divisione interna non è stata una scelta del movimento Hamas, che vi è stato condotto, suo malgrado, dalle circostanze", ha detto Mashaal, esortando a "lavorare insieme per ricostruire le istituzioni nazionali" palestinesi e criticando gli appelli a instaurare uno Stato "prima di liberare la Palestina". Mashaal ha poi messo in guardia da "quelle parti arabe" che intendono "convocare una conferenza internazionale per legittimare le relazioni segrete con Israele", esprimendo perplessità anche sulle iniziative del presidente Usa Donald Trump, che sarebbero "solo progetti immaginari che mirano a far fuori la causa palestinese". Piuttosto, i palestinesi devono concentrarsi sul rilancio del loro progetto nazionale, e questo avviene "attraverso un consenso su una visione comune, l'unità delle file palestinesi e delle sue istituzioni nazionali, e un accordo su una gestione unificata della battaglia con l'occupazione, rendendo tutti partecipi del processo decisionale politico", ha detto Mashaal, affermando che "Hamas è pronto a praticare la resistenza popolare in Cisgiordania e Striscia di Gaza per spazzare via l'occupazione". A proposito del centenario della dichiarazione di Balfour, Mashaal ha messo in evidenza come "i britannici si vantano di un crimine, anziché scusarsi per questo errore e correggere il percorso storico. Ma noi non aspetteremo che loro correggano la storia - ha concluso - bensì prenderemo l'iniziativa e correggeremo da noi la storia"
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(Il Secolo d'Italia, 4 novembre 2017)


Insulti e minacce a Parigi. Ebrei in fuga dalla banlieue

Scritte inneggianti a Hitler sui muri e lettere con i proiettili. E' antisemita un atto razzista su tre. E la comunità ha paura.

di Leonardo Martinelli

PARIGI - La prima di quelle lettere arrivò in aprile: all'interno minacce di morte, qualche «Allahu Akbar» e una pallottola calibro 9 mm. Paul (non è il suo vero nome) abitava in questa villetta di periferia da diciassette anni, a Noisy-Ie-Grand, a Est della capitale francese: lui e la moglie ebrei, con quattro figli. Rimasero interdetti, sospesi tra paura e delusione. Già il giorno dopo una nuova missiva: «Siete proprio voi il nostro obiettivo, siete già morti». E un bossolo di kalashnikov.
   Paul avvertì la polizia e una videocamera fu installata davanti a casa. Ma poi tolta in luglio. E subito sgradevoli scritte cominciarono a comparire sul muro di cinta: «Viva Isis», «Vi elimineremo», «Ebrei, vi fotteremo». E ancora pallottole nella cassetta delle lettere: non finiva mai. Finché lo scorso 5 ottobre qualcuno ha tentato di sfondare la porta del garage. «In quella casa, al minimo rumore, non si dormiva più - ha ammesso Paul -. Siamo andati via». A vivere altrove, almeno per il momento. Lui ha raccontato la sua esperienza ai giornalisti di Le Monde: è un antisemitismo quotidiano e ordinario, in crescita a Parigi, soprattutto nelle banlieues più popolari.
   In Francia vive la più grossa comunità ebraica d'Europa, circa 550 mila persone. E l'antisemitismo non è una novità di oggi. In un sondaggio che era stato realizzato da Fondapoi tra gli ebrei di diversi Paesi alla fine del 2013, già emergeva che la situazione era peggiore che altrove: ad esempio, il 60% temeva di essere aggredito fisicamente perché ebreo nell'anno a venire contro il 17% nel Regno Unito, il 18% in Svezia e il 34% in Germania. Quanto agli atti antisemiti ufficiali e denunciati, «hanno rappresentato uno su tre di quelli globalmente razzisti registrati in Francia nel 2016, nonostante gli ebrei siano meno dell'1% della popolazione», si legge nell'ultimo rapporto del Servizio di protezione della comunità ebraica (Spcj).
   A dire il vero nel 2014 era andata ancora peggio, uno su due. Ma quest'apparente miglioramento è compensato in misura negativa proprio dal lievitare di un subdolo antisemitismo ordinario, che spesso non viene fuori dalle statistiche. «Sono ormai numerose le vittime di aggressioni verbali per strada o di violenze leggere che non le denunciano più alla polizia», si legge ancora nel rapporto del Spcj. È quanto conferma Alain Bensimon, presidente della sinagoga di Garges-Iès-Gonesse, a Nord di Parigi. «Gli ebrei non denunciano questi soprusi - dice -, perché hanno l'impressione che non serva a niente». Lo scorso 17 settembre, in occasione di una festa ebraica, un gruppo di ragazzini tra i 15 e i 18 anni sono entrati nel cortile della sinagoga e hanno gridato «sporchi ebrei». Si sono presi a botte con alcuni giovani della comunità. Sono quei fatti che non finiscono neanche sui giornali. «Ma negli ultimi anni almeno sette famiglie ebraiche hanno lasciato Garges», ammette Bensimon. Fuggono dalla zona di Parigi oppure, all'interno dell'agglomerato, si concentrano in alcune aree, dove si sentono più protetti, come Le Raincy, Comune più ricco in mezzo alla periferia Nord più problematica.
   Questo nuovo antisemitismo, forte soprattutto fra i giovani e giovanissimi, è nato intorno al 2000, con la seconda intifada in Palestina e i suoi riflessi sulle popolazioni di origini arabe delle banlieues. Da allora si segnalano anche fatti particolarmente efferati. Nel gennaio 2006, a Bagneux, a Sud di Parigi, quella che poi fu soprannominata «la gang dei barbari» sequestrò Han Halimi, un giovane ebreo: lo tennero prigioniero per 24 giorni, torturandolo fino alla morte, sperando che la famiglia (per forza ricca nella loro testa, perché ebraica) pagasse un generoso riscatto. Proprio due giorni fa, una lapide che ricordava l'eccidio di Han in un parco di Bagneux è stata divelta e imbrattata con scritte inneggianti a Hitler. Ieri, invece, la Corte d'Assise di Parigi ha condannato a 20 anni di reclusione Abdelkader Merah, considerato istigatore del fratello Mohamed, che nel 2012 fece una strage presso una scuola ebraica a Tolosa, uccidendo anche tre bambini. Le scuole confessionali della comunità, però, hanno registrato negli ultimi anni un aumento degli iscritti. Oppure gli studenti ebrei vanno comunque in quelle private, considerate più al riparo rispetto alle pubbliche da questo nuovo e insidioso male della società francese. Che è l'antisemitismo di ogni giorno.

(La Stampa, 3 novembre 2017)


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L'altra fuga degli ebrei. Così in Francia l'antisemitismo sta cambiando il volto alle città

Dalla Francia non vanno solo in Israele. Lasciano le periferie per trovare riparo negli arrondissement.

di Giulio Meotti

 
Cimitero ebraico in Francia
ROMA - Ieri, nella banlieue parigina di Bagneux, è stata vandalizzata la lapide in memoria di Han Halimi, il giovane ebreo che nel 2006 venne rapito, torturato e ucciso dalla "banda dei barbari". "Fofana libero", hanno scritto i vandali sulla targa, dal nome del capo del gruppo che uccise Halimi. Fu il primo clamoroso caso di antisemitismo omicida in Francia negli ultimi anni. Dopo vennero la strage alla scuola di Tolosa e l'assalto all'Hyper Cacher di Parigi. Ma come raccontava ieri il Monde in una inchiesta agghiacciante, ogni giorno l'antisemitismo bussa alla porta degli ebrei francesi, generando un impressionante fenomeno migratorio interno alla Repubblica. "Gli atti contro le sinagoghe o le scuole per la prima volta sono ora diretti alle persone, in strada o a casa", scrive il Monde.
   Una prima lettera è arrivata nella cassetta della posta della famiglia di Paul a Noisyle-Grand. Conteneva minacce di morte, "Allahu Akbar" e il proiettile di una nove millimetri. Il giorno dopo una seconda lettera: "Morirete tutti". Questa volta il proiettile di un kalashnikov. Poi le scritte sulle mura di casa: "Daech" e "vi elimineremo". Il Monde parla di "un antisemitismo del quotidiano" che ha messo sotto pressione tante famiglie ebraiche. "Un atto razzista su tre commesso in Francia è diretto contro un ebreo, mentre gli ebrei rappresentano meno dell'un per cento della popolazione", recita nel suo ultimo rapporto il Servizio di protezione della comunità ebraica. Ma queste cifre, basate sui rapporti della polizia, non raccontano tutto, perché "molte vittime di violenze antisemite non presentano denuncia". A Garges-lès-Gonesse (Val-d'Oise), alcuni giovani che avevano costruito la succà nel cortile della sinagoga sono stati attaccati e insultati dai altri del quartiere al grido di "sporchi ebrei, vi faremo la pelle". Nel loro libro "Il prossimo anno a Gerusalemme?", Jéròme Fourquet e Sylvain Manternach raccontano dello svuotamento degli storici quartieri ebraici. E le scuole si adattano: i bimbi ebrei lasciano le scuole pubbliche a favore di quelle private.
   Uno studio dalla Fondazione per l'innovazione politica, pubblicato a settembre, ha quantificato la violenza antisemita in Francia. Ci sono stati 4.092 attacchi nel periodo 2005-2015, con il sessanta per cento degli ebrei che afferma di essere "preoccupato di essere attaccato fisicamente in strada in quanto ebreo". Il Bureau national de vigilance contre l'antisémitisme lo chiama "antisemitismo soffocato".
   Accanto all'emigrazione ebraica in Israele (5.000 partenze nel 2016, 7.900 nel 2015), c'è ora la "mobilità elevata", generalmente dalla parte orientale a quella occidentale di Parigi. 60 mila ebrei hanno lasciato l'Ile-de-France negli ultimi dieci anni verso il XVI e XVII arrondissement di Parigi. Si svuota Sarcelles, Val-d'Oise, 60 mila abitanti, la "Piccola Gerusalemme", che secondo il suo ex sindaco, François Pupponi, è oggi "sopraffatta da richieste di trasferimento, decine al mese. Le vittime dell'antisemitismo tendono a raggrupparsi". Nel sudest di Parigi, Saint-Mande, 22 mila abitanti, è ancora segnata dall'assalto all'Hyper Cacher nel gennaio 2015. Un mese dopo l'attacco, il Concistoro ha pubblicato un annuncio, esortando a fare aliyah a Limoges.
   Secondo uno studio condotto dall'Ifop, "l'esposizione alla violenza antisemita è altamente correlata al portare una kippah". Così il copricapo ebraico scompare da molte zone della Francia. Nella Seine-Saint-Denis, il 40 per cento degli abitanti è di fede islamica. Risultato? Le storiche comunità ebraiche come La Courneuve, Aubervilliers, Stains, Pierrefitte-sur-Seine, Trappes, Aulnay-sousBois, Le Blanc-Mesnil e Saint Denis si stanno "de-ebraicizzando". A causa della mancanza di sicurezza, in posti come la Courneuve in cui c'erano da 600 a 700 famiglie ebree, ora ce ne sono meno di cento. Per molti di questi ebrei è una seconda fuga. Il 70 per cento del circa mezzo milione di ebrei in Francia è sefardita, arrivarono in Francia tra il 1956 e il 1962, quando Algeria, Marocco e Tunisia ottennero l'indipendenza. Come i due vincitori francesi del premio Nobel per la fisica, Claude Cohen-Tannoudji (1997), nato ad Algeri, e Serge Haroche (2012), nato a Casablanca.
   Un altro esempio è Kremlin-Bicétre, un sobborgo a sud di Parigi. Su 25 mila abitanti, il 25 per cento oggi è musulmano. Fino al 1990, il dieci per cento della popolazione era ebraica, oggi appena il cinque. L'antisemitismo sta cambiando la geografia e la demografia della Francia.

(Il Foglio, 3 novembre 2017)


Pitigliani Kolno'A Festival - Ebraismo e Israele nel cinema

Torna dal 18 al 23 novembre 2017 alla Casa del Cinema di Roma e presso il Centro Ebraico Italiano il Pitigliani - a entrata gratuita fino a esaurimento posti - il Pitigliani Kolno'a Festival - Ebraismo e Israele nel cinema, giunto alla dodicesima edizione, dedicato alla cinematografia israeliana e di argomento ebraico.

Con 20 anteprime italiane, prodotto dal Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani e diretto da Ariela Piattelli e Lirit Mash, il PKF2017 propone per la consueta sezione "Panorama sul nuovo cinema israeliano" opere che hanno riscosso successo sia in Israele che all'estero, e che rappresentano la varietà e il multiculturalismo che compone la società israeliana di oggi. Film di inaugurazione, Holy Air di Shadi Srour - ospite al festival con il produttore Ilan Moskovitch - presentato in anteprima italiana, una commedia che mostra un inedito spaccato delle diverse culture che convivono in Israele.
Tra i numerosi titoli in programma, per la prima volta sarà presentato al pubblico italiano The Legend of King Solomon, l'ultima opera del Maestro dell'animazione israeliana Hanan Kaminski - anche lui tra gli ospiti del festival - dedicata a Gerusalemme e alla storia del Re Salomone. Quindi, Harmonia, di Ori Sivan, adattamento moderno della storia di Abramo, Sarah e la giovane Hagar. Nel film Sarah è arpista nella Filarmonica di Gerusalemme, Abramo è il suo "onnipotente" direttore e Hagar una giovane musicista di Gerusalemme Est. Tra i documentari, l'avvincente On the Map di Dani Menkin, prodotto da Nancy Spielberg, che racconta una delle pagine più importanti della storia e dello sport israeliano. Lunedì 20 novembre si terranno due panel: il primo, alle ore 18:15, preceduto dalla proiezione dei primi 3 episodi di "Your Honor" e dedicato alle serie tv israeliane dal titolo "Non solo In Treatment", con interventi di Massimiliano Panarari, editorialista e docente universitario, Ram Landes, produttore di "Your Honor"e Giovanna Koch, Segreteria e membro del board WGI - Writers Guild Italia.
A seguire, alle ore 19:00, il secondo panel, dal titolo "Raccontare il Medio Oriente attraverso il documentario ", incontro a due voci tra Itai Anghel e il direttore de La Stampa, Maurizio Molinari. Il panel sarà seguito dalla proiezione del doc Invisible in Mosul, in cui lo stesso Anghel si unisce con coraggio ai corpi speciali dell'esercito iracheno che avanzano verso Mosul sotto il fuoco nemico dell'ISIS e dei suoi terroristi suicidi. Durante la kermesse si svolgerà anche la prima edizione del Premio Emanuele (Lele) Luzzati, che premierà la migliore opera considerata meritevole da una giuria composta da intellettuali e artisti di rilievo.

(Lo Speciale, 3 novembre 2017)


«La mia vita in un hummus»

Lo chef israeliano Yotam Ottolenghi si racconta e lancia in Italia il suo libro «Plenty more». Sono 150 ricette: dagli edamame per i figli agli amati fritti.

di Gabriele Principato

«Le mie ricette raccontano la parte più intima di me stesso», spiega l'anglo-israeliano Yotam Ottolenghi, lo chef-filosofo, come l'ha definito Jane Kramer sul New Yorker, simbolo di una nuova cucina vegetariana che propone sia nei suoi quattro ristoranti a Londra che nei suoi libri e nella sua rubrica sul Guardian. «Dentro - dice - ci sono le sensazioni provate durante i miei viaggi, i piatti di quando ero bambino, quelli che oggi preparo con il mio compagno Karl e i nostri figli Max e Flynn, con spezie come coriandolo, tamarindo, cardamomo, peperoncino, perché il loro gusto significa "casa"». Come le lenticchie di Puy con tahini e cumino. «Una variante del hummus arabo uno dei sapori della mia infanzia, oggi lo faccio con lenticchie e pomodori e lo servo con pane tipo pita, è il piatto adatto a dare energie sufficienti per affrontare una giornata impegnativa o per concluderla».
   Queste ricette del cuore - 150 in tutto - sono raccolte e raccontate in «Plenty More», pubblicato poche settimane fa in Italia per Bompiani, seguito ideale del successo editoriale rappresentato da «Plenty» (2014).
   Quello che differenzia quest'opera è il metodo di classificazione delle ricette. In «Plenty More» le preparazioni vengono suddivise per metodo di cottura o tipologia di preparazione. «Da mescolare» comprende tante fresche insalate.
   «Da rompere» è una variazione sul tema uova. «Da brasare» dimostra che le verdure possono offrire la stessa croccante soddisfazione della carne. «Da friggere» conduce invece in un universo casalingo fatto di frittelle e polpette. «Voglio far capire che nella preparazione dei vegetali - racconta Ottolenghi - sono le tecniche a fare la differenza. La temperatura con cui cuoci le verdure, se usi olio o acqua, se fai marinare o no qualcosa, porta a dei risultati del tutto diversi, capaci di far risplendere le verdure come stelle. Voglio dimostrare che vegetariano non vuol dire per forza "leggero" o "punitivo", perché c'è molta più varietà nel trattare vegetali che carne o pesce».
   Nel libro ci sono ricette che oltre a essere gustose, rappresentano momenti di unione, come i broccoli da ricacci e insalata di edamame con foglie di curry gommosi fiocchi di cocco. «Spaccare una noce di cocco è una divertente sfida di famiglia alla quale i bambini adorano partecipare. Da lontano, per carità», dice. Come tante delle ricette che compongono il suo ultimo libro uscito in Gran Bretagna, «Sweet», dedicato al mondo della pasticceria. Un'apoteosi di torte, gelati, crostate, biscotti e altre delizie, tutte realizzabili facilmente a casa dai genitori con i loro figli, in cui spezie esotiche e aromi complessi come petali di rosa, zafferano, anice, fiore d'arancio, pistacchio e cardamomo.
   
(Corriere della Sera, 3 novembre 2017)


In mostra a Bonn e Berna le opere rubate agli ebrei dal «ladro di Hitler»

Esposti 450 quadri ritrovati cinque anni fa in una cavità segreta. Migliaia di capolavori furono «confiscati» in tutta Europa in quanto «arte degenerata».

di Luigi Offeddu

 
"Il ponte di Waterloo", uno dei quadri della serie dipinta da Claude Monet
L'artista fallito di nome Adolf, che respinto dall'accademia incendiò un giorno il mondo, era assai fiero dei «suoi» quadri e delle «sue» sculture: centinaia, migliaia di capolavori rubati dagli esperti-ladri di Hitler, in tutta l'Europa occupata, o «confiscati» ad istituzioni pubbliche in Germania come «arte degenerata».
   Da ieri, e per la prima volta, sono in parte visibili a tutti, testimonianza di una cultura depredata dalla violenza di un regime, e dell'ingiustizia patita dalle vittime del grande saccheggio: sono infatti in mostra circa 450 di oltre 1.400 opere, valore complessivo sul miliardo di euro, ritrovate 5 anni fa in una cavità segreta dietro la parete di un appartamento, e ora suddivise in due esposizioni fra il Museo d'arte di Berna in Svizzera e la Galleria federale di Bonn, in Germania. Fra loro ci sono meraviglie come «Lussuria», la donna accovacciata scolpita da Auguste Rodin, o «Il ponte di Water- 100» di Monet, e poi opere firmate da Picasso, Matisse, Chagall, Lucas Cranach, Dürer, e così via. La cavità segreta era nell'appartamento di Cornelius Gurlitt, figlio del gallerista nazista Hildebrand, «Il ladro di Hitler» (uno dei 4 esperti più fidati del Führer), a Monaco di Baviera, e altri quadri erano in un altro suo appartamento a Salisburgo in Austria.
   Secondo quanto dichiarato da Cornelius fino alla sua morte nel 2014, lui non aveva mai pensato che quei quadri fossero frutto di rapina. Ora, le due esposizioni si propongono anche di «ricordare con rispetto le vittime degli espropri e dei furti oltre che gli artisti, collezionisti e mercanti d'arte perseguitati dal regime», tutti o quasi ebrei. Ma solo pochissimi fra loro sarebbero stati rintracciati, e per sole 5 opere: l'ultimo caso, di appena un mese fa, riguarda il «Ritratto di una giovane donna seduta» di Thomas Couture, appartenuto a Georges Mandel, politico ebreo francese assassinato nel 1944. Cornelius Gurlitt aveva lasciato per testamento 150 delle opere accumulate dal padre al museo di Berna, che le ha esposte ora sotto il titolo «Arte degenerata confiscata e venduta». E spiega: «Sappiamo da quali musei provengono. Abbiamo preso solo opere di cui eravamo sicuri al 100% che non fossero state rubate a privati».
   Invece all'esposizione di Bonn - «Il furto d'arte nazista e le sue conseguenze» - si ammette che di almeno metà dei quadri si ignora del tutto l'origine. Una fondazione appoggiata dal governo tedesco «lavora per garantire che ogni opera rubata a proprietari ebrei sia restituita ai loro eredi». Ma finora, appunto, ha rintracciato solo 5 persone: «Ci sono musei e collezioni - ha dichiarato al giornale Die Zeit Ronald Lauder, presidente del Congresso ebraico mondiale - che non fanno ricerche sulla provenienza delle opere, e purtroppo gli archivi non sono ancora accessibili come dovrebbero. Alcune istituzioni preferiscono nascondersi dietro i regolamenti sulla protezione dei dati».

(Corriere della Sera, 3 novembre 2017)


Netanyahu a May, migliorare l'accordo sul nucleare senza annullarlo

GERUSALEMME - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non pensa di annullare l'accordo sul nucleare iraniano, ma migliorarlo. E' quanto dichiarato dal capo dell'esecutivo di Tel Aviv nel corso dell'incontro a Londra con la premier britannica Theresa May. La visita di Netanyahu nel Regno Unito in occasione del centenario della Dichiarazione Balfour. "L'obiettivo che ho in mente non è mantenere od eliminare l'accordo, ma migliorare l'accordo correggendo i suoi numerosi difetti", ha affermato Netanyahu parlando del Piano globale d'azione congiunto (Jcpoa) sottoscritto nel luglio 2015 a Vienna da Teheran e dai paesi del gruppo 5+1 (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti più la Germania). "Penso che coloro che vogliono mantenere l'accordo dovrebbero cooperare per correggerlo", ha aggiunto il premier israeliano, che per la prima volta ha "alleggerito" la sua opposizione nei confronti dell'accordo. L'esecutivo israeliano si è sempre opposto all'accordo sul nucleare iraniano temendo possibili ripercussioni sulla sicurezza dello Stato ebraico.

(Agenzia Nova, 2 novembre 2017)


Basket, Eurolega - Milano reagisce tardi, a Tel Aviv arriva un altro ko

L'Olimpia cade in casa del Maccabi 79-68, incassando la quarta sconfitta su cinque gare di regular season sin qui disputate. Gli israeliani dominano a rimbalzo e piazzano l'allungo decisivo nel terzo periodo

Maccabi Tel Aviv - Olimpia Milano 79-68
TEL AVIV - Tel Aviv si conferma parquet avaro di soddisfazioni per l'Olimpia. Milano cade 79-68 in casa del Maccabi e non riesce a dare continuità al successo ottenuto contro Barcellona. La squadra di Pianigiani incassa così la quarta sconfitta nelle cinque uscite di regular season sin qui disputate, al termine della peggiore prestazione di questo primo scorcio di Eurolega, e vede complicarsi la sua situazione di classifica. L'AX Armani Exchange soffre la fisicità della compagine israeliana, che domina sotto canestro (49-30 il computo finale dei rimbalzi) e piazza il break decisivo per incanalare dalla sua parte la sfida a cavallo tra il secondo e il terzo periodo. Un generoso finale di partita non basta all'Olimpia per evitare il ko esterno, undicesimo su 14 sfide complessive disputate in casa del team israeliano.
  Nel primo quarto Milano risponde puntualmente a tutti i tentativi di allungo del Maccabi e solo nelle battute finali gli uomini di coach Spahija riescono a mettere tra sé e l'Olimpia due possessi di vantaggio, grazie a un mini parziale di 4-0 (18-14). La spinta dei padroni di casa prosegue anche in avvio di secondo periodo: la difesa dell'AX Armani Exchange è in difficoltà e Tel Aviv, nonostante la pessima mira dall'arco (0/7 all'intervallo) tocca il +13 (31-18). Milano prova a reagire, ma non riesce ad andare a riposo sotto la doppia cifra di svantaggio (39-29).
  L'affondo decisivo il Maccabi lo piazza al ritorno sul parquet. L'allungo dei padroni di casa è irresistibile e gli uomini di Pianigiani non sanno tenere il ritmo: Milano segna solo sette punti in quasi cinque minuti e mezzo, mentre Tel Aviv sfoggia un dominio incontrastato a rimbalzo e trova la via del canestro con estrema facilità. Parakhouski fa volare il Maccabi sul 60-40 e nel finale di periodo Milano accorcia di appena due lunghezze (60-42). Nell'ultimo quarto l'Olimpia ritrova ritmo e fluidità offensiva, ma la forbice è ormai troppo ampia per essere colmata. La squadra di coach Spahija continua a segnare con sufficiente regolarità e archivia la sfida in proprio favore con il punteggio di 79-68. Una prestazione che, sommata alla brutta battuta d'arresto in campionato contro Sassari, suona come un preoccupante campanello d'allarme per l'Olimpia.

 Pianigiani: ''E' la prima partita che sbagliamo''
  "Sapevo che non eravamo a posto ad esempio con qualche acciaccato - le parole del coach dell'Olimpia Simone Pianigiani -. E così la differenza di energia ad esempio a rimbalzo d'attacco è stata evidente. In una notte come questa dovevamo resistere giocando con intelligenza ma oggi abbiamo sbagliato tutto mentalmente, concedendo facili canestri in contropiede mentre noi a partire dai playmaker e guardie fino ad arrivare alla tenuta a rimbalzo abbiamo avuto palle perse, chiamate sbagliate e perso il controllo della partita. Non credo onestamente che il Maccabi sia così più forte di noi ma stasera lo è stato perché aveva più energia di noi. Noi non stiamo bene ma in una stagione così lunga può succedere. E bisogna resistere lo stesso".

(Repubblica Sport, 2 novembre 2017)


Gli sterili tentativi di cancellare la Dichiarazione Balfour

Le manifestazioni inscenate dai palestinesi non hanno alcun valore pratico: servono solo a ribadire che non riconoscono legittimità alla presenza ebraica in Terra d'Israele nonostante tutto il parlare che si fa di due stati per due popoli.

Spudoratamente, ma con premeditazione, l'Autorità Palestinese ha chiesto al primo ministro britannico Theresa May di scusarsi per la Dichiarazione Balfour, il cui centesimo anniversario cadeva giovedì. Sia Yasser Arafat che il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) hanno compreso che sminuire il legame storico tra ebrei e Terra d'Israele fa il gioco dei palestinesi nel conflitto tra i due popoli. Parte del contenzioso ruota attorno al diritto alla terra, che deriva dalla sovranità sull'eredità dei nostri antenati. Nella sua autobiografia Trial and Error, Chaim Weizmann scrisse che Arthur James Balfour gli aveva chiesto perché non si potesse creare uno stato ebraico in Uganda. "Signor Balfour - rispose Weizmann - supponga che io le offrissi Parigi al posto di Londra: accetterebbe? "Ma dottor Weizmann - replicò il ministro degli esteri britannico - noi abbiamo già Londra". "E' vero - ribatté Weizmann - ma noi avevamo Gerusalemme quando Londra era una palude". Questa è la ragione dell'ostinata pretesa di Arafat, che al vertice di Camp David del luglio 2000 sostenne che non è mai esistito un Tempio ebraico sul Monte del Tempio di Gerusalemme. E' la stessa logica che guida oggi Abu Mazen nel denigrare la Dichiarazione Balfour, che rappresenta il punto di partenza del vasto riconoscimento internazionale del diritto degli ebrei a una sede nazionale in Terra d'Israele....

(israele.net, 2 novembre 2017)


Incontri e riscontri

di Rav Alberto Moshe Somekh

Rav Alberto Moshe Somekh
Ogni evento ha le sue cause e i suoi effetti: è contemporaneamente conclusione di un passato e creazione di un futuro. "Potrebbero due camminare insieme se non si fossero prima incontrati?" si domanda il Profeta Amos (3,3). Lincontro apparentemente fortuito fra due persone rientra nei Piani Alti del nostro mondo. Tutto sta venirne a conoscere il significato. La radice del verbo "sapere" (y.d'...) e del verbo "darsi appuntamento" (y'...d.) in ebraico sono una l'anagramma dell'altra. Voglio condividere due incontri casuali del recente passato che hanno lasciato il segno.
   Il primo si è verificato a Torino alcuni mesi fa. Una mattina mi trovavo nei pressi della Comunità quando a una certa distanza, sul marciapiede davanti a me, notai un uomo piuttosto distinto che parlava al cellulare in modo concitato. Avvicinandomi mi capitò di origliare mio malgrado la conversazione e di capirne gli estremi. "Ospedale M.? Sono il chirurgo dottor X. Avvertite per favore il primario dottor Y che questa mattina non potrò presentarmi in sala operatoria. Poco fa sono stato derubato dell'automobile. Avevo lasciato dentro anche il borsello e ora non ho più né documenti, né soldi!". Conosco il primario di chirurgia di quell'ospedale e i dati corrispondevano: compresi che il malcapitato stava dicendo la verità. Come si dice in ebraico: nikkarin divrè emet, "affermazioni veritiere si riconoscono". Istintivamente ho messo mano al portafogli e ne ho estratto tutto quello che portavo con me: una banconota da venti euro. Mi avvicinai al medico e gliela porsi. Si schermì.
   A quel punto insistetti: "Lei è un chirurgo - argomentai - lo ho l'obbligo di darle questi soldi e lei ha il dovere di accettarli. Non ho la minima idea di chi sia il paziente che questa mattina la attende in ospedale per essere operato da lei, né di quali siano le sue condizioni di salute. So soltanto che se è in pericolo di vita e Lei non interviene, entrambi porteremo sulla nostra coscienza la responsabilità dell'omissione di soccorso. Non voglio essere colpevole della morte di chicchessia". A quel punto l'uomo accettò e mi disse: "Chi devo ringraziare?" "La Comunità ebraica", risposi prontamente. Allontanandomi riflettei a quel punto sul ladro. Il disgraziato autore del reato avrà pensato che sottrarre un'automobile non è un atto poi così grave. Per una bravata del genere non muore nessuno. In realtà nessuno può prevedere fino in fondo le conseguenze dei propri atti, specie se già nefasti in partenza. I nostri Maestri dicono 'averah goreret 'averah, "una trasgressione ne trascina dietro di sé un'altra". Chi pensa di limitarsi a rubare potrebbe provocare un omicidio senza saperlo.
   Ed ora passo al secondo episodio. Anche a me capita, come a molti, di fare incontri interessanti nella metropolitana. Qualche tempo fa a Milano, fra le stazioni di Cairoli e Cordusio, mi sentii apostrofare: "Signor Rabbino, Shalom". Alzai gli occhi e rividi per la seconda volta lo stesso suonatore di armonica a bocca con cui avevo avuto una dotta discussione teologica alcune settimane prima, sempre su un treno della "rossa". Anche allora mi aveva notato per primo e mi aveva chiesto se in ebraico la parola Amen si scrive con la Taw. Inizialmente l'avevo guardato stupito, ma poi capii cosa intendeva. Gli spiegai che Amen non contiene la Taw, ma la parola affine Emet ("verità") sì. Soggiunsi che la parola "verità" si scrive con la prima, la mediana e l'ultima lettera dell'alfabeto, perché la verità è tale in quanto sa abbracciare tutto. Mi benedisse. Gli lasciai un euro fiammante di mancia e si allontanò soddisfatto. Al nuovo incontro gli domandai io dove avesse studiato teologia. Mi rispose che in Romania, il suo paese d'origine, questi studi sono obbligatori. Questa volta mi benedisse citando Bereshit 12,2: "E benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno". Gli feci notare che la seconda parte del versetto inverte i termini: "e coloro che ti malediranno Io maledirò". Gli spiegai che D. benedice sempre prima di chiunque altro, ma non maledice mai i malvagi prima che questi non abbiano maledetto a loro volta. "Che D. benedica Israele", mi disse, accompagnando le parole con un vistoso inchino. Purtroppo questa volta non feci in tempo a estrarre il portafogli. Fra una parola di Torah e l'altra il treno era ormai giunto a Duomo, dove dovevo scendere. Mi è francamente rincresciuto.
   "Il filo tre volte ritorto non si spezza facilmente" (Qo. 4,12). Che cosa gli dirò qualora ci fosse un terzo incontro? Non mi limiterei a porgergli il denaro che si aspetta di ricevere. La saggezza di quell'uomo merita molto di più. Tornerei a ringraziarlo delle sue benedizioni, forse facendogli notare che il valore numerico di tutte tre le lettere b.r.kh (rispettivamente 2, 200, 20) che in ebraico formano la radice del verbo "benedire" esprime dualità. I Maestri d'Israele insegnano infatti che "chi benedice, si benedice". Due sono i destinatari di ogni benedizione. Chi benedice altri vedrà prima o poi la benedizione avere affetti positivi anche su lui stesso.
   La vita può riservare difficoltà, ma la dignità dell'uomo si vede dal modo con cui sa affrontarle. Due personaggi, due modi diametralmente opposti di misurarsi con la propria povertà: chi si concede al crimine con conseguenze potenzialmente immani e chi, con una sola parola, si acquista un mondo intero.

(Pagine Ebraiche, novembre 2017)


Balfour: May a Netanyahu, fieri d'aver fatto nascere Israele

La Gran Bretagna deve essere "fiera del suo ruolo da pioniera nella creazione dello Stato d'Israele". Così la premier conservatrice Theresa May in occasione dei cento anni della Dichiarazione Balfour.
Si tratta del documento diplomatico col quale l'Impero britannico riconobbe per la prima volta le aspirazioni sioniste per "un focolare ebraico" in Palestina.
Nel discorso che verrà pronunciato oggi durante una cena alla presenza del premier israeliano Benyamin Netanyahu, anticipato da Downing Street, May rivendica poi "il sostegno a Israele" del suo governo.
Allo stesso tempo indica tuttavia la necessità di rilanciare i negoziati per arrivare alla creazione di quello Stato palestinese, i cui diritti la Dichiarazione Balfour - contestata oggi dall'Anp - pure in qualche modo evocava. "Un accordo di pace - sottolinea la premier - è nell'interesse di tutti e deve essere basato sulla soluzione dei due Stati: con un Israele prospero e sicuro accanto a uno Stato palestinese sostenibile e sovrano".
May condanna anche "l'odio per gli ebrei" sotto qualsiasi forma, sostenendo che "non ci sono scuse per l'antisemitismo...come non ce ne sono per l'odio contro i musulmani o i cristiani".

(swissinfo.ch, 2 novembre 2017)


Abraham Yehoshua: "La Rivoluzione ha fallito ma alcune sue idee reggono"

Lo scrittore israeliano ebbe una breve esperienza nel kibbutz: "Al contrario del socialismo, il comunismo non può andare d'accordo con la democrazia".

di Francesca Paci

Abraham Yehoshua
Correvano i tumultuosi Anni 50, Israele aveva visto la luce da poco, il comunismo seduceva come altrove i più idealisti tra i giovani, soprattutto nel movimento kibbutzim. Il grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua era un ex militare pieno di sogni civili, segnato dalla Shoah ma proiettato verso il futuro. Dall'appartamento di Tel Aviv, dove ha traslocato per godersi i sei nipoti rinunciando all'amata Haifa, ripensa a quella stagione contraddittoria, una metafora del complesso rapporto tra il suo Paese e l'utopia sociale figlia della Rivoluzione d'Ottobre.

- Quanta Unione Sovietica c'è nei primi kibbutz?
  «Parte degli ebrei russi, laici e sionisti giunti in Israele prima della rivoluzione e quelli che arrivarono subito dopo riuscirono ad adattare i valori del comunismo alla nuova realtà sociale d'Israele. Non parlo solo dei kibbutz del "da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo le sue necessità", alcuni dei quali sono ancora allineati. Ma penso agli altri, quelli che hanno optato per la privatizzazione e sono rimasti fedeli ad alcune idee socialiste. Fino alla destalinizzazione di Krusciov si consumò un duro scontro ideologico tra i kibbutzim di estrema sinistra che chiamavano l'Urss "seconda patria" e i meno ortodossi. Anche i socialisti israeliani, alla guida del Paese fino al 1977, vedevano positivamente i princìpi dell'Urss nonostante le delusioni avute. Poi, negli anni, con il rafforzamento dei legami tra Israele e l'America, il tema ha diviso i partiti socialdemocratici da quelli più estremisti fino a indebolire i movimenti operai e spianare la strada alla destra nazionalista e religiosa».

- Conosce l'esperienza dei kibbutz?
  «Appena lasciato l'esercito andai a stare a Hatzerim, nel Negev, un kibbutz di successo ma, secondo lo stile dell'epoca, molto rigido nell'organizzazione interna. Non faceva per me, né sul piano individuale né su quello sociale, ero giovane e volevo studiare, mentre lì la priorità era il lavoro. Durai pochi mesi. Anche il comunismo non mi ha mai sedotto, ho sempre sentito che, diversamente dal socialismo, non poteva andare d'accordo con la democrazia».

- Fin quando si è sentito in Israele l'eco della rivoluzione del 1917?
  «Sono del 1936 e sin dall'adolescenza ho provato grande ammirazione per l'Urss, l'Armata Rossa ci aveva liberato da Auschwitz e aveva salvato l'Europa da Hitler. La repressione, di cui pure si sapeva, pesava meno. Inoltre negli Anni 50 le democrazie erano poche, l'orrore era "meno orribile". Avevamo buoni rapporti con l'Urss, il suo sostegno alla nascita d'Israele nel 1947 era stato per noi una sorta di riparazione all'antisemitismo patito in Russia per secoli. All'epoca poi Mosca non s'interessava al Medio Oriente e tra i comunisti si contavano pochi arabi, soprattutto cristiani. Per questo il fatto che all'apice della Guerra fredda il ministro degli Esteri russo Gromyko si spendesse per noi all'Onu servì da base ideologica perché anche il cauto partito comunista palestinese accettasse il piano di spartizione tra ebrei e arabi del' 48».

- C'erano molti ebrei tra i bolscevichi, Trockij compreso. Come spiega la successiva ostilità del regime sovietico?
  «È comprensibile che gli ebrei russi, vissuti sotto la discriminazione zarista, promuovessero la rivoluzione comunista. L'involuzione successiva ha diverse ragioni. Gli ebrei non erano un popolo territoriale come gli altri, perciò non disponevano di un contesto concreto entro cui integrarsi culturalmente nell'ambito dell'Urss. Erano legati sul piano religioso agli ebrei sparsi nel mondo e recavano dunque a priori quel marchio di cosmopolitismo che divenne presto uno dei reati peggiori. Nel nome dell'oppio dei popoli Mosca fece guerra alle religioni, ma dato che quella ebraica era per molti la base dell'identità nazionale lo scontro fu più aspro. Infine, la chiusura delle frontiere sovietiche gravò doppiamente sugli ebrei dell'Europa orientale che scappavano in Occidente sin dal XIX secolo: quando la Germania invase il Paese si trovarono in trappola. È stato un rapporto duro. Secondo voci affidabili Stalin, prima di morire, progettava una sorta di "soluzione finale", voleva esiliare gli ebrei in Siberia».
Quando è cominciato l'esodo degli ebrei dall'Urss verso Israele? «A metà degli Anni 50 ero segretario generale dell'Unione mondiale degli studenti ebrei a Parigi e mi battei perché potessero emigrare. Prima non c'erano informazioni su quanto avveniva oltre-Cortina e gli stessi ebrei russi non volevano partire, non erano sionisti, si sentivano grati all'Urss. Iniziarono ad arrivare intorno al 1960, poi sempre di più. Ma nonostante l'esodo non ricordo critiche nei confronti dell'Urss in Israele, resisteva il mito antinazista, enfatizzammo la causa degli ebrei ridimensionando un po' gli altri oppressi».

- Il passaggio dell'Urss al fronte arabo nel 1967 influenzò l'allontanamento delle sinistre mondiali da Israele?
  «Il '67 cambiò tutto. Ma più dell'Urss, sui partiti comunisti occidentali pesarono l'occupazione israeliana e le colonie. Tra l'altro una parte della sinistra internazionale era sempre stata antisionista, penso a Primo Levi e Natalia Ginzburg».

- Cosa resta a cento anni dall'assalto al Palazzo d'Inverno?
  «Se il comunismo voleva creare nel mondo un ordine nuovo, ha fallito. Ma se lo esaminiamo come un'istanza ideologica nata per rimediare alla condizione sociale instauratasi in Europa dopo la Rivoluzione francese, beh, allora mantiene un valore. Le idee fondamentali del comunismo, esulando dai Paesi dove l’hanno imperato come dittatura, reggono. Mi chiedo se rispetto al capitalismo globale e senza limiti, al radicalismo religioso in espansione ovunque o al post-modernismo privo di valori dell'estrema sinistra nichilista, non convenga forse tornare ad alcuni vecchi e umani valori presenti nell'originale solidarismo comunista».

(La Stampa, 2 novembre 2017)


«Gli ebrei tollerati sono solo quelli dei campi di sterminio?»

Lettera a La Stampa

Il comportamento di un gruppo di cialtroni fascistoidi antisemiti, compresi i tre ragazzini ideatori del fotomontaggio con l'immagine di Anna Frank, ha causato la unanime reazione della stampa e della politica fino ai più alti livelli. Però mi pare giusto mettere in evidenza che quando l'Università di Torino ha votato il boicottaggio di Israele, quando i cinquestelle hanno definito Israele "una piaga", quando l'Anpi ha invitato i palestinesi alla sfilata del 25 aprile estromettendo di fatto la "brigata ebraica", non solo non c'è stata analoga reazione ma a volte un esplicito consenso a queste iniziative. Cosa si deve pensare? Che gli ebrei tollerati sono solo quelli morti nei campi di sterminio? Sarebbe bene chiarirsi le idee.
Gaetano Benatti

(La Stampa - Torino, 2 novembre 2017)


Come si consolida fra Russia e Iran l'alleanza anti-americana

di Emanuele Rossi

Mercoledì il presidente russo Vladimir Putin era a Teheran, dove non solo ha incontrato membri del governo e il suo omologo Hassan Rouhani, ma anche Ali Khamenei, la Guida Suprema iraniana. Nel Paese degli ayatollah il potere è in mano a una teocrazia, a dispetto della definizione che l'Iran si dà di Repubblica islamica, e la Guida Suprema Khamenei è, appunto, la guida suprema (quanto di più simile, in un'immagine: un Papa). Incontrarlo è un privilegio che viene riservato soltanto a pochissimi dei politici che visitano il Paese, anche in questi anni in cui la riqualificazione internazionale post-Nuke Deal ha riaperto le porte della Persia a governanti di tutto il mondo (maggiormente interessati al petrolio e agli asset di Teheran, più che convinti che dare un'opportunità all'Iran sia cosa giusta, visto la generale postura aggressiva che il regime perpetra sugli affari regionali).

 Isolare gli Stati Uniti
  Secondo la Tv di Stato (che è un'arma di propaganda del potere iraniano tra le più affilate), Khamenei avrebbe detto a Putin di stringere la cooperazione russo-iraniana per "isolare" gli Stati Uniti e trovare una loro stabilità in Medio Oriente. È un'affermazione che preoccupa Washington tanto quanto i palazzi di Riad e Gerusalemme. L'Arabia Saudita è in una fase di complicata ristrutturazione generale che passa anche attraverso l'ammansire le voci più feroci che calcano l'annoso terreno della divisione settaria intra-islamica. Gli ayatollah sciiti sono accomunati con i sunniti sotto poco aspetti politici, uno di questi è l'odio per gli ebrei, e Israele ha mandato un messaggio immediato a questo programma lanciato da Khamenei: mercoledì caccia dell'aviazione hanno di nuovo colpito in Siria, territorio che gli iraniani stanno usando come proxy perfetto per vendersi da credibili nemici del terrorismo (alla pari dei russi) mentre difendono gli interessi propri alle spalle del regime filo-sciita di Bashar el Assad. Gli israeliani bombardano la Siria come piano politico: là gli uomini della Repubblica islamica hanno piazzato il loro principale asset per la diffusione dell'influenza regionale, le milizie-partito sciite, che si muovono sotto gli ordini dei Guardiani della Rivoluzione, il corpo militare teocratico di Teheran, e dunque in definitiva sotto Khamenei. Tra queste, per esempio, c'è Hezbollah, gruppo politico libanese considerato in Occidente un'entità terroristica, fiore all'occhiello del sistema di micro-satelliti politici armati diffusi dall'Iran in tutto il Medio Oriente, tecnicamente ancora in guerra dal 2006 con Israele, foraggiato di armi dagli ayatollah (in passaggi coperti proprio dal caos del conflitto siriano).

 Il terrorismo, il volto buono
  "La nostra cooperazione ha aiutato la lotta al terrorismo nella regione […] Insieme possiamo stabilire la pace e la sicurezza regionale" ha detto Rouhani nella conferenza stampa congiunta (presente anche il presidente azero Ilham Aliyev, contorno geopolitico al vertice). Rouhani usa il pragmatismo che gli è tipico; focalizza l'attenzione sul counter-terrorism; nomina i gruppi armati del conflitto siriano, che sono quasi tutti sunniti, mentre le sue milizie sono paragonate a forze di pacificazione (in realtà, è notissimo, sono realtà settarie che spesso seguono derive jihadiste del tutto analoghe a quelle dei miliziani sunniti estremisti). Ma è chiaro che l'obiettivo di questo ulteriore avvicinamento pubblicamente annunciato non è solo questo.

 Contro Trump
  Quando il presidente americano Donald Trump ha annunciato l'intenzione di passare nelle mani del Congresso la decisione del ritiro definitivo degli Stati Uniti dal sistema internazionale che ha prodotto e garantisce l'accordo con cui nel 2015 è stato congelato il programma nucleare iraniano, Putin ha visto un ulteriore spiraglio. Il disimpegno americano è stato criticato dagli alleati occidentali, è considerato uno scossone alla stabilità, è stato seguito dalle polemiche aggressive di Teheran: ora il russo e l'iraniano dicono che insieme, tagliando fuori l'America, si potrebbe meglio costruire la pace nella regione più calda del pianeta. "Ci opponiamo ad ogni cambiamento unilaterale nell'accordo nucleare multilaterale" è il virgolettato che sempre la Tv di Stato riporta dal colloquio tra Putin e Khamenei (la frase è di Putin).

 Un interesse reciproco
  La Russia è uno dei Paesi che, insieme a Francia, Regno Unito, Cina, Germania e Stati Uniti, hanno firmato il deal nucleare, e Putin gioca da honest broker promuovendosi - con l'obiettivo di far risplendere la propria immagine internazionale - come una sorta di garante dell'accordo. In difesa dell'interesse internazionale, e del suo partner. Anche se in realtà il rapporto tra Mosca e Teheran non è stato sempre idilliaco durante gli anni di guerra siriana (gli ultimi due, soprattutto, da quando nel settembre 2015 la Russia ha reso pubblico il proprio coinvolgimento). Ai russi non piace la deriva settaria spinta dagli ayatollah tramite l'iniezione delle milizie sciite, ma sanno che queste sono fondamentali per puntellare il regime alleato, che senza di loro sarebbe inerme dal punto di vista della fanteria. Più in generale, l'Iran è un alleato scomodo, è molto discusso per come infiamma le divisioni religiose in Medio Oriente, questione che mal coccia con il nuovo feeling putiniano con sauditi e israeliani. Ma Teheran è pur sempre un alleato, in un momento che partner al fianco di Mosca non abbondano (notare che, in larga misura, per Putin essere alleati significa essere qualcosa da sfruttare). L'Iran, che nonostante l'inizio della riqualificazione è di fatto ancor più isolato della Russia, d'altronde ha poche altre carte da giocare se non il link russo.

(formiche.net, 2 novembre 2017)


Hamas lascia all'Anp le porte di ingresso di Gaza

Ieri la cerimonia di consegna dei valichi, il primo atto del governo di riconciliazione. Abu Mazen elimina le sanzioni imposte negli ultimi mesi.

di Michele Giorgio

 
GAZA - «Tirate li su, ancora più su, ora sistemateli in fondo all'autocarro». Dalle prime luci del giorno Abu Saleh, impiegato all'ex ministero dell'interno di Hamas, dirige il lavoro dei manovali incaricati di portare vie scrivanie e armadietti da edifici e caravan di «Arbaa Arbaa», il posto di controllo del movimento islamico a nord di Gaza, nei pressi del valico di Erez con Israele. Sugli automezzi gli uomini di Abu Saleh hanno caricato un po' di tutto, a cominciare dai faldoni stracolmi appartenenti alla polizia e ai servizi di sicurezza.
   Documenti sui movimenti in entrata e uscita da Gaza accumulati negli ultimi tre anni. Quelli dei periodi precedenti furono ridotti in cenere dai bombardamenti israeliani del 2008, del 2012 e del 2014.
   Prima del trasloco si è svolta la cerimonia del passaggio delle consegne tra i funzionari del movimento islamico e quelli del governo dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) che ieri ha ripreso, dopo più di 10 anni, il controllo dei valichi con Israele e l'Egitto. Si tratta del primo decisivo passo nell'attuazione dell'accordo di riconciliazione nazionale palestinese siglato il 12 ottobre al Cairo tra Hamas e il partito Fatah del presidente Abu Mazen che ha di nuovo autorità su tutta la Striscia. Ma solo sulla carta perché sul terreno il suo potere a Gaza resta astratto.
   E, proprio per guadagnare consensi, ha abolito le pesanti sanzioni che aveva imposto prima dell'estate contro Gaza e con i «dazi doganali» e altre tasse imposte dai governi di Hamas in questi anni.
   In poche ore è scomparso «Arbaa Arbaa», uno dei simboli del controllo di Hamas su Gaza. Gli edifici vuoti ospiteranno, ci spiegavano ieri, la «dogana» dell'Anp. Proseguiranno le ispezioni dei bagagli ma non ci sarà più il controllo dei passaporti e delle carte di identità. Fino a due giorni fa, per entrare a Gaza era obbligatorio mostrare i documenti a tre autorità diverse in poco più di tre chilometri: al terminal israeliano di Erez dove chi non è autorizzato dai militari non entra, alla piccola postazione dell'Anp e infine ad «Arbaa Arbaa» dove in particolare i cittadini stranieri erano tenuti ad esibire un'autorizzazione del ministero dell'interno di Hamas richiesta in anticipo. Sono terminate le restrizioni ai movimenti imposte dagli islamisti ma restano in vigore quelle ben più pesanti di Israele che continua ad avere l'ultima parola sugli ingressi a Gaza, di palestinesi non residenti nella Striscia, stranieri, operatori umanitari, diplomatici e funzionari delle Nazioni Unite.
   Ieri, nelle stesse ore, all'altro capo di Gaza, Hamas ha sgomberato il suo posto di controllo al valico commerciale di KaremAbu Salem (Kerem Sha- 10m) dove un funzionario governativo ha sostituito quello del movimento islamico.
   La cerimonia più importante, sotto poster giganti di Abu Mazen e del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, però, si è svolta al terrninal di Rafah, fra Gaza e il Sinai, dove a metà mese riprenderà il transito regolare di persone e merci sotto la sorveglianza della guardia presidenziale palestinese e, pare, anche del contingente europeo di osservatori Eubam. Dovrebbe perciò tornare in vigore l'accordo per la gestione della frontiera di Rafah raggiunto da Anp, Stati uniti, Israele ed Egitto nel 2005, dopo l'evacuazione unilaterale da Gaza di coloni e soldati israeliani decisa dal governo di Ariel Sharon.
   La musalaha, la riconciliazione, va avanti. È alle spalle, almeno a parole, il bagno di sangue (almeno 700 morti) del giugno 2007, seguito ai tentativi dietro le quinte di rovesciare il governo di Hamas uscito vincitore dalle elezioni del gennaio 2006, che si concluse con la presa del potere degli islamisti a Gaza a danno di Fatah e le forze di sicurezza di Abu Mazen.
   «La consegna dei valichi di Gaza è un passo importante, il movimento di persone e merci sarà sotto la responsabilità del governo di riconciliazione nazionale», ha commentato Azzam al Ahmad, responsabile di Fatah per i negoziati con Hamas. «Abbiamo finito la prima fase della riconciliazione. Ora andremo a discutere (il 21 novembre al Cairo, ndr) dei problemi più grandi», ha aggiunto il leader di Hamas, Ismail Haniyeh.
   Restano da sciogliere nodi importanti, a partire dal ruolo della milizia del movimento islamico, le Brigate Ezzedin al Qassam, di cui Hamas esclude categoricamente il disarmo. Sullo sfondo, il blocco israeliano che soffoca Gaza da oltre 10 anni e il rifiuto del governo Netanyahu di accettare la riconciliazione tra Hamas e Fatah.

(il manifesto, 2 novembre 2017)


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Alfano: soddisfazione per il ritorno dei valichi sotto il controllo dell'Autorità palestinese

ROMA - Il ministro degli Esteri e della Cooperazione internazionale, Angelino Alfano, ha espresso soddisfazione per il ritorno sotto il pieno controllo dell'Autorità palestinese dei valichi di transito con la Striscia di Gaza. In una nota diffusa dalla Farnesina, il responsabile della diplomazia italiana ha dichiarato: "Esprimo soddisfazione per il ritorno oggi sotto il pieno controllo dell'Autorita' Palestinese (Ap) dei valichi di transito con la Striscia di Gaza. Si tratta di una prima concreta manifestazione del ripristino del governo dell'Autorità guidata dal presidente Abbas (Mahmoud Abbas) sulla Striscia di Gaza, nonché un passaggio significativo anche in vista dell'auspicato riavvio del negoziato israelo-palestinese". Alfano ha proseguito sottolineando che "l'Italia sostiene il ritorno dell'Ap a Gaza nelle sue piene funzioni di Governo, incluso nel comparto della sicurezza".

(Agenzia Nova, 1 novembre 2017)


Basket - Grissin Bon battuta in volata da Hapoel Gerusalemme

I biancorossi di Menetti non imparano dagli errori e come in campionato si fanno rimontare nel finale, grazie al solito Dyson. Finisce 63-61 per gli israeliani

di Paolo Cavazzoni

REGGIO EMILIA - Torna l'Eurocup, ma non la vittoria per la Grissin Bon Pallacanestro Reggiana che comanda a lungo, tiene bene il campo, ma deve cedere l'onore delle armi ad un Hapoel Gerusalemme più cinico e con il solito Dyson (ricordate lo scudetto perso contro Sassari?), che quando vede Reggio non fa sconti. I biancorossi non hanno comunque sfigurato, anche se, al solito, nella ripresa il calo è stato evidente con i soli 26 punti segnati. Dal punto della classifica nulla cambia, ma questa sera, rispetto alle altre partite di coppa si è fatto un passo indietro, dato che si è visto un film già visto, come contro Pesaro e Capo d'Orlando. Da valutare l'infortunio di Nevels.

(Reggionline, 1 novembre 2017)


Basket - Una formazione israeliana ricca di ambizioni europee e di talenti

Nata nel 1943 l'Hapoel Bank Yahav Gerusalemme ha in bacheca un paio di titoli nazionali, 4 coppe di Israele e 4 coppe di Lega oltre ad una Eurocup conquistata nel 2004.
Buona parte dei titoli è arrivata nel nuovo millennio.
Altro indizio delle ambizioni del club è stata la firma lo scorso anno della stella americana Stoudemire e in estate sono arrivati colpi importanti come Austin Daye che si è aggiunto ad altri giocatori importanti come Curtis Jerrells e Jerome Dyson, tutte vecchie conoscenze del nostro campionato.
Stoudemire e Jerrells hanno abbandonato la squadra (il primo in estate, il secondo poche settimane fa) quindi il leader negli esterni è Jerome Dyson che viaggia a 10 punti e 3 assist in campionato.
Al suo fianco Yogev Hoayon e Stratos Perperouglou , più pericoloso in penetrazione il primo, più tiratore dalla distanza il secondo che ha alle spalle una brillante carriera in Grecia.
Sempre sul perimetro troviamo l'ala piccola Yotam Halperin che trova più spazio in campionato dove segna 8.8 punti di media con 2.8 assist ed il tedesco Bar Timor, anche lui più utilizzato nella competizione nazionale dove è il miglior assistman della squadra con 3.8 di media. Molto forti i lunghi: Austin Daye è il miglior marcatore con 19 punti tirando con ottime percentuali sia da 2 sia da 3 (dall'arco 10/17). Alen Omic è un centro Slovacco
di 216 cm da 9.7 punti e 4.3 rimbalzi in Eurocup ma può essere mandato in lunetta con fiducia (7/17) così come Richard Howell che però su azione segna 14 di media con 5.5 rimbalzi in coppa, addirittura 8 in campionato.A completare il roster Ram Elias-Pour e Lior Elihau.(r.b.)

(Gazzetta di Reggio, 1 novembre 2017)


Udine - Il violino di Mintz per gli amici della musica

Sarà il celebre virtuoso israeliano ad aprire martedì 7 la 96a Stagione Concertistica al Palamostre

Shlomo Mintz
UDINE - Cresce l'attesa per la serata di martedì 7 novembre, quando al Teatro Palamostre, per la serata inaugurale della Stagione Concertistica degli Amici della Musica di Udine, arriverà il grande violinista israeliano Shlomo Mintz. Si tratta di uno dei maggiori violinisti del nostro tempo, accompagnato per l'occasione dal pianista olandese Sander Sittig.
   Mintz si esibisce regolarmente con le orchestre e i direttori più importanti della scena internazionale, tenendo recital e concerti di musica da camera in tutto il mondo. Nato a Mosca, emigra in Israele con la famiglia due anni dopo, dove inizia a studiare con Ilona Feher. Enfant prodige, all'età di undici anni debutta con l'Orchestra Filarmonica di Israele e a quindici è invitato da Zubin Mehta ad eseguire il Primo Concerto di Paganini per sostituire Itzhak Perlman. Bruciando le tappe, a sedici anni debutta alla Carnegie Hall di New York con la Pittsburgh Symphony Orchestra, invitato da Isaac Stern e dall'American Israel Cultural Foundation. In seguito studia con Dorothy DeLay alla Juilliard School e contemporaneamente intraprende la carriera di direttore d'orchestra, guidando importanti compagini in tutto il mondo. È stato direttore musicale della Israel Chamber Orchestra e direttore artistico e direttore ospite principale della Maastricht Symphony Orchestra. Ha vinto numerosi premi di prestigio, come il Premio Accademia Musicale Chigiana di Siena, Diapason d'Or, Grand Prix du Disque, Gramophone Awards ed Edison Awards. E' tra i fondatori del Keshet Eilon International Violin Mastercourse in Israele, e tiene masterclass in tutto il mondo. Membro di importanti concorsi internazionali di violino, è direttore artistico del Sion Valais International Music Festival e presidente di giuria al Sion Valais International Violin Competition. Il programma di martedì è vario e attraente.
   Si parte con la Sonata in si bemolle maggiore K454 di Mozart, scritta per la virtuosa mantovana Regina Strinasacchi, all'epoca acclamata violinista nelle corti europee. Un brano che farà subito emergere un fresco equilibrio fra gli strumenti, tra espressive serenate e dialoghi brillanti. Il pubblico potrà poi ascoltare la più nota delle composizioni del parigino Ernest Chausson, il Poème Op.25, seguìto da una pagina di grande lirismo: la Sonata n.3 in re minore op.108 di Brahms. Chiuderanno il programma due brani di Pablo Sarasate: il Capriccio basco e la travolgente Carmen Fantasy. La stagione è realizzata grazie al contributo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, della Regione Fvg, della Fondazione Friuli e del Comune di Udine, con il patrocinio di Osce e Plovidiv Foundation e il sostegno della Banca di Udine Credito Cooperativo, accanto alle già consolidate sinergie con l'Università di Udine, l'Ert, la Fondazione Renati, la Società Filologica Friulana, l'Unesco e Tx2. Il concerto inizierà alle ore 20,30.

(Udine Today, 1 novembre 2017)


Iraq: il parlamento vota una legge per punire il sostegno a Israele

BAGHDAD - La Camera dei rappresentanti irachena (il parlamento monocamerale di Baghdad) ha votato ieri una legge che criminalizza chiunque promuova il "sionismo" o sventoli la bandiera israeliana in Iraq. Ad annunciarlo è stato il presidente del parlamento iracheno Salim al Jabouri. La legge, che dovrà essere approvata dal presidente dell'Iraq Fuad Masum, è un tentativo di punire il sostegno ad Israele mostrato da alcuni manifestanti curdi durante i festeggiamenti per la vittoria del referendum per l'indipendenza del 25 settembre, quando tra le bandiere e i simboli curdi comparvero anche quelli israeliani. Il parlamento ha inoltre votato una misura per vietare l'apertura di uffici di sicurezza e la presenza di forze di sicurezza non legate al governo federale nella provincia di Kirkuk e nelle aree controverse.

(Agenzia Nova, 1 novembre 2017)


Gli ebrei a Molfetta: dalla Contrada Valascia alla Chiesa di Santo Stefano

Tante le testimonianze della loro presenza in città

di Mirella Cives

 
Il porto di Molfetta
La storia della presenza ebraica a Molfetta si apre con un atto notarile avente ad oggetto l'acquisto di un uliveto, effettuato nel maggio 1197 dall'ebreo tranese Seniore di Giacobbe. A questi anni dovrebbe risalire il costituirsi della "Closoria Iudeorum", un esteso oliveto situato in contrada Valascia, sulla strada per Bitonto. Nei primi anni del Quattrocento, l'uliveto della Valascia non si trovava più in possesso degli ebrei, ma si ignorano le modalità di passaggio in mani cristiane. Forse fu lasciato dagli stessi ebrei quando, alla fine del XIII secolo, gli Angioini li costrinsero ad una scelta: o abiurare la fede ebraica, o andare in esilio. Ma è più probabile che nel corso dei secoli essi continuassero ad avere la proprietà del terreno, essendo in realtà divenuti loro stessi cristiani. Un'altra testimonianza della presenza in quegli anni degli ebrei a Molfetta, è provata dalla esistenza nella campagna molfettese di un palmeto, denominato "Lo palmeto de li Iudei".
  Nel periodo Svevo-Angioino gli ebrei esercitarono attività di commercio o di prestito di denaro nella nostra città e successivamente a motivo dell'intolleranza cristiana, si allontanarono dalla Puglia, salvo poi nuovamente ritornare a fine 1300. Ma fu sotto gli Aragonesi, subentrati nel 1442 agli Angioini, che riacquistarono la piena libertà di immigrazione e di movimento. Di un ebreo che visse a Molfetta vi è notizia in un documento del 1490. Vi si narra la storia di mastro Salomone di Leone Origer, in fuga da Arles con la sua famiglia dopo le ultime rappresaglie contro gli ebrei, che si rivolse al re Ferrante per ottenere la facoltà di esercitare la professione di medico nel Regno, chiedendo di essere esaminato proprio a Molfetta. Il re acconsentì alla sua richiesta, ricordando che "se gli errori giudaici dovevano invece essere rigettati dai cattolici, i giudei dovevano essere invece accolti per i vantaggi che in molte cose apportavano, utili alla salute del corpo e per nulla nocive a quelle dell'anima". Venne dunque permesso al medico molfettese Antonello de Lacertis, di esaminare Salomone di Leone Origer che fu interrogato sui vari trattati di medicina. Egli superò brillantemente la prova, ed ottenne così la licenza e la piena autorità di esercitare la professione di medico in tutto il Regno. Successivamente altri due ebrei che provenivano dal Mezzogiorno della Francia, diventarono cittadini molfettesi: si trattava di Isac de Largentière e suo figlio Iacob, mercanti e prestatori di denaro. Non sempre riuscivano a riscuotere i crediti, e spesso la cosa era assai ardua visti i tempi difficili, come quelli che accompagnarono la discesa di Carlo VIII re di Francia nel Regno di Napoli. La nostra città infatti chiese una proroga di quattro anni per il pagamento dei debiti contratti da non pochi cittadini presso "molti iudei habitanti in Molfetta et in altre parti del regno". Re Federico accolse la richiesta, ma in parte: la dilazione dei debiti sarebbe dovuta avvenire in due anni, non in quattro.
  All'inizio del XVI secolo gli spagnoli e i francesi si contesero il regno di Napoli, che si erano segretamente spartiti con l'accordo di Granata dell'11 novembre 1500. I legati dell'Università di Molfetta si presentarono allora davanti al comandante delle truppe spagnole, Consalvo di Cordoba, per domandare la conferma dei capitoli e dei privilegi fino allora goduti. Uno di questi riguardava i cristiani novelli (gli ebrei convertiti) di Trani, venuti ad abitare a Molfetta e si chiedeva che questi ultimi continuassero a dimorare nella nostra città. I capitoli vennero approvati ed i cristiani novelli, assieme agli ebrei, rimasero a Molfetta. Ottennero inoltre che i re cattolici, nel caso avessero deciso di espellerli - come era accaduto in Spagna - concedessero loro quattro mesi di tempo per predisporli a uscire, senza molestia per le persone e i beni. In seguito allo scoppio della guerra tra spagnoli e francesi, molti ebrei e cristiani novelli si convinsero ad abbandonare la Puglia per recarsi altrove, specialmente in Turchia, salvo poi farvi ritorno dopo qualche anno. Nel 1510 difatti, si contavano a Molfetta sette nuclei ebraici. Nel 1541 però, gli ebrei furono definitivamente cacciati dall'Italia meridionale, ed ebbero il permesso di rimanere solo i discendenti di antichi ebrei, che divenuti cristiani, avevano dato buona prova di essere rimasti fedeli al cattolicesimo. Tuttavia questi cristiani continuavano ad essere denominati "cristiani novelli" nonostante fossero trascorse diverse generazioni dalla conversione dei loro avi. Ciò accadde anche alla nobile famiglia molfettese, i de Buctunis, nel 1600, sebbene il loro albero genealogico contasse anche dei sacerdoti.
  Nel 1700, dopo Il tentativo fallimentare di Carlo di Borbone di riammettere gli ebrei nel Regno, un altro ebreo fu ospite a Molfetta, protagonista di un episodio curioso avvenuto proprio nella nostra città. Si chiamava Israele Coen, ed era un ragazzo ebreo di Trieste di ventotto anni. Nel 1760 fu ricoverato d'urgenza nell'ospedale di Molfetta, e avendolo i medici dato per spacciato, il cappellano, il parroco di Santo Stefano e il gesuita irlandese P. Lorenzo Mac Egan, gli stavano per conferire l'unzione degli infermi. Il Coen rivelò di essere ebreo, ma i tre sacerdoti invece di desistere, cercarono di dissuadere l'uomo nel continuare a professare la religione ebraica, chiedendogli di abbracciare la fede cristiana. Alla fine "convinto dagli evidentissimi argomenti e pervaso di luce divina", il ragazzo chiese di essere battezzato. La sua richiesta fu subito esaudita e gli furono imposti i nomi di Giuseppe Maria Pietro Fortunato. Con grande meraviglia di tutti, subito dopo essere stato battezzato, il Coen cominciò a stare meglio. Trascorse la convalescenza a Molfetta e poi una volta guarito del tutto, riprese il suo cammino per Napoli, per esercitare il mestiere di orefice e incisore di gemme.
  Per ulteriori approfondimenti, consiglio la lettura del lavoro di Cesare Colafemmina "Presenza e attività di ebrei a Molfetta nei secoli XII-XVIII".

(Molfetta Viva, 1 novembre 2017)


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