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Notizie 16-30 novembre 2017


Trump vuole riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele

La Casa Bianca, con una mossa che potrebbe far infuriare i palestinesi e allontanare le speranze di pace in Medio Oriente, starebbe per dare il via libera a un piano che prevede il riconoscimento di Gerusalemme come "capitale indivisibile" di Israele e il trasferimento nella città dell'ambasciata americana. Lo riporta il Wall Street Journal citando fonti dell'amministrazione. Il piano sarebbe già stato notificato a tutti gli ambasciatori Usa Oltreoceano per poter permettere loro di spiegare la decisione ai governi alleati.

(ANSA, 30 novembre 2017)


Basket - Norris Cole trascina il Maccabi alla vittoria. Lo Zalgiris non riesce nel colpo esterno

Maccabi Fox Tel Aviv - Zalgiris Kaunas 81-74
(15-14/24-15/26-22/16-23)

Maccabi Fox Tel Aviv - Zalgiris Kaunas 81-74
Grande gara alla Menora Mivtachim Arena, dove il Maccabi Tel Aviv torna alla vittoria dopo lo stop in Catalogna. A trascinare i gialloblù un Norris Cole da cineteca. Lo Zalgiris perde la prima gara in trasferta dopo le due vittorie esterne contro Milano e Malaga, ma esce comunque a testa alta.
Inizio equilibrato tra le due squadre, che si danno battaglia per tutto il quarto. I botta e risposta sono protagonisti assoluti e, nonostante la coppia Davies-Pangos frutti tanti punti, a trascinare i padroni di casa è l'ex canturino Tyus, con 8 punti tra cui gli ultimi decisivi (15-14). Il primo acuto della gara è in assoluto dei gialloblù che, dopo il solito tira e molla iniziale, volano sulla doppia cifra di vantaggio grazie all'estro di Jackson, Parakhouski e Cole. Lo Zalgiris, dopo un inizio convincente, perde lucidità e non trova più la via del canestro, chiudendo il primo tempo nel peggiore dei modi (39-29).
Il bel periodo del Maccabi prosegue anche nella terza frazione. L'ex Miami Heat Norris Cole traina i suoi a suon di triple, per il +17 che taglia in due la disputa. Jankunas e White provano ad ammorbidire il plus-minus, riuscendoci solo parzialmente grazie anche ai canestri di Davies. Cole e Roll chiudono però il periodo con tripla e piazzato, allungando ulteriormente il parziale iniziale (65-51). Gli ospiti tentano il colpaccio nell'ultimo quarto, ripartendo in maniera decisa con Jankunas, Milaknis e il super break di 0-10 su un Maccabi immobile. Bolden interrompe il momentaccio dei padroni di casa, ma ora la gara è apertissima: il numero 21 lituano è mattatore assoluto, con le due triple del -3. Nel momento di difficoltà, gli israeliani ne escono con le piccole cose offensive, portate soprattutto da Jackson. Il canestro finale è però di Tyus, canestro che sancisce la vittoria numero 6 in stagione (81-74).

(Basket Universo, 30 novembre 2017)


Il nuovo straordinario acquario di Gerusalemme

Protagonisti i mari e i loro abitanti. Un suggestivo percorso di 6 mila metri quadri e 30 vasche, per insegnare il rispetto dell'ambiente e degli habitat naturali.

di Fabiana Magrì

I leoni, gli alpaca, le giraffe e le scimmie dello Zoo Biblico di Gerusalemme hanno acquisito dei nuovi vicini di casa, silenziosissimi. Sono i pesci del Gottesman Family Israel Aquarium (https://www.israel-aquarium.org.il), la nuova attrazione che, nelle intenzioni del Ministero del Turismo israeliano, colma un vuoto nell'offerta turistica della città. «Mancava una nuova proposta per il tempo libero delle famiglie» - aveva dichiarato il ministro Yariv Levin pochi mesi fa, annunciandone l'imminente apertura (l'acquario è un'eccellente risposta che completerà l'offerta turistica di Gerusalemme), un'esperienza che non ha uguali al mondo. Invito tutti a visitarlo.»
   L'Acquario di Israele, primo nel suo genere in tutto il Medio Oriente, si trova a un chilometro e mezzo dallo Zoo. Al momento ci si arriva solo in auto o a piedi, ma nuove linee di trasporto pubblico saranno presto messe in funzione. Il periodo di rodaggio, per un progetto così ambizioso, è lungo. Ci vorranno altri cinque anni prima che tutta la macchina funzioni a pieno regime ma la savlanut (pazienza, in ebraico), si sa, non è tra le caratteristiche principali degli israeliani, che hanno deciso di aprire i cancelli al pubblico offrendo intanto visite guidate su prenotazione a prezzi ridotti. Non c'è dubbio che valga già la pena di andare a conoscere, magari durante le feste di Hanukkah, il nuovo acquario dedicato alla conservazione degli habitat marini d'Israele, attualmente una grande sfida per il Paese.
   Mar di Galilea, Mar Morto, Mar Rosso e Mar Mediterraneo sono i quattro ecosistemi acquatici che bagnano la regione. L'acquario ha fra le sue priorità l'educazione alla sostenibilità e alla consapevolezza, senza tralasciare comunque l'aspetto ludico. C'è da giurare che i bambini resteranno a bocca aperta davanti alla vasca aperta con le razze (vietato toccarle o dare loro cibo, però!) e alla sala dedicata al camouflage, naso attaccato al vetro cercando di contare quanti più pesci possibili tra quelli mimetizzati e nascosti nel loro ambiente. Gli adulti saranno probabilmente più interessati alla galleria dedicata al passaggio tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, dove un filmato di quattro minuti racconta la storia del canale di Suez da un inedito punto di vista: l'impatto disastroso che questo importante progetto, prezioso dal punto di vista politico ed economico, ha in realtà causato sull'equilibrio biologico ed ecologico. Il nuovo canale ha, di fatto, offerto una nuova strada per la migrazione dei pesci, cambiando e devastando gli habitat naturali. La sala che sta più a cuore ai ricercatori dell'acquario non è forse la più divertente ma è fondamentale per la vocazione educativa della struttura. È la sala dedicata alla pesca e al suo eccesso, non solo un problema ambientale ma una lezione che può trasformarci in consumatori più consapevoli di pesce. Imparare a distinguere tra le specie locali e quelle sicuramente importante o allevate e le stagionalità dei pesci, ci consente di consultare con maggiore cognizione il menu del ristorante.
   C'è anche di che vantarsi, per un italiano in visita all'Acquario di Israele. La vasca più grande e più popolare, quella degli squali, è sigillata con un vetro alto cinque metri e lungo sedici, sei tonnellate di peso, valore di un milione di dollari, arrivato in un unico pezzo dall'Italia.
   Tra colonne di meduse e stelle marine, pesci tropicali allevati nei laboratori di acquacoltura dell'Arava e coralli salvati dalle zone a rischio nella barriera intorno a Eilat, si arriva alla fine della visita. Tutte le didascalie e i pannelli esplicativi sono in tre lingue, inglese, ebraico e arabo, una prova non solo di grande apertura ma anche di preparazione scientifica perché non sempre i termini tecnici o i nomi delle specie più rare di pesci esistono in tutte le lingue. Oppure, al contrario, uno stesso pesce può essere conosciuto con nomi diversi nei diversi dialetti arabi.
   Nota a margine: non a Tel Aviv, non a Haifa e non a Eilat. L'acquario di Israele si trova a 70 km di distanza dal mare, a 800 metri di altitudine. Sono sempre originali, questi israeliani!

(Shalom, novembre 2017)


Hamas e Al-Fatah posticipano il passaggio di consegne a Gaza

Le fazioni palestinesi hanno chiesto all'Egitto di posticipare il passaggio di consegne da Hamas ad Al-Fatah nella Striscia di Gaza.
   Secondo quanto si legge in un comunicato, emanato da Hamas mercoledì 29 novembre 2017, "Hamas e Al-Fatah hanno chiesto all'Egitto di posticipare il trasferimento degli incarichi di governo dall'1 al 10 dicembre, al fine di ultimare le misure per garantire il completamento dei passi verso la riconciliazione nazionale". La notizia è stata confermata ufficialmente da un rappresentante di Al-Fatah, poco dopo la conclusione di un incontro tra le due parti, che si è tenuto lo stesso giorno nella Città di Gaza.
   Il 12 ottobre 2017, durante un incontro al Cairo, Hamas e Al-Fatah avevano raggiunto un accordo sulla riconciliazione della Palestina. In tale occasione, i due movimenti avevano stabilito che il Governo di unità nazionale avrebbe assunto il controllo della Striscia di Gaza a partire dal 1 dicembre 2017. Più recentemente, il 21 novembre, 13 fazioni palestinesi si sono riunite nella capitale egiziana per discutere i passi per la realizzazione dell'accordo nazionale. In tale occasione, le parti hanno stabilito che le elezioni generali in Palestina si sarebbero tenute entro la fine del 2018.
   La richiesta di posticipare il passaggio delle consegne giunge dopo alcune tensioni tra Hamas e Al-Fatah. In particolare, mercoledì 29 novembre 2017, Hamas avrebbe impedito ad alcuni impiegati dell'Autorità Palestinese di tornare a lavorare nei Ministeri presenti nella Striscia di Gaza. Il giorno precedente, martedì 28 novembre 2017, l'Autorità Palestinese aveva ordinato ai suoi dipendenti riprendere il proprio posto all'interno dei Ministeri e degli organi governativi situati nel territorio conteso, per la prima volta in dieci anni. Quando Hamas aveva preso il potere nella Striscia di Gaza, l'Autorità Palestinese aveva intimato ai propri dipendenti di non recarsi al lavoro. Successivamente, Hamas aveva assunto nuovi impiegati che assumessero gli incarichi lasciati vacanti dai dipendenti dell'Autorità Palestinese. In merito a quanto avvenuto mercoledì 29 novembre 2017, un portavoce di Hamas avrebbe dato la colpa dell'accaduto all'Autorità Palestinese, affermando che essa sarebbe responsabile "di causare caos e confusione", violando in questo modo i termini dell'accordo. Da parte sua, un rappresentante di Al-Fatah, Azzam Al-Ahmad, ha accusato Hamas di aver causato "uno sciopero degli impiegati", affermando che l'avvenimento sarebbe stato "fatto per paralizzare il lavoro dei Ministeri".
   Altra questione spinosa per la realizzazione dell'accordo di riconciliazione nazionale è il disarmo di Hamas, in merito al quale, il 27 novembre 2017, il movimento ha dichiarato che la rinuncia alle armi costituisce "una linea rossa sulla quale non vi sono compromessi".
   Il trasferimento dei poteri da Hamas ad Al-Fatah metterà fine al decennio di governo del movimento nel territorio. A partire dal 2007, la Striscia di Gaza è stata governata da Hamas, dopo che il movimento aveva vinto le elezioni del 25 gennaio 2006.

(Sicurezza Internazionale, 30 novembre 2017)


Un Giro mai visto

Parte per la prima volta fuori dall'Europa, in Israele, l'edizione 101 della corsa rosa. Cairo: «Competitiva bella e bilanciata». Il colpo: al via anche sua maestà Froome. Gran finale: l'arrivo a Roma tra i Fori e il Colosseo. Passaggio a Rigopiano sul luogo della valanga

di Gaia Piccardi

Gerusalemme spot unico
Per Israele, che punta ad avere la propria Cyclìng Academy al via, il Giro è un'occasione storica. Di sport e promozione turistica, ma non solo. La Grande Partenza del 4 maggio con la cronometro di Gerusalemme è una prima assoluta per il ciclismo mondiale a certe latitudini: la prima maglia rosa dell'edizione 2018 sarà indossata (da un big forte a cronometro, l'identikit perfetto di Froome e Dumoulin) a due passi dalle mura della città vecchia, al termine di un percorso selettivo, tecnico e anche con qualche rischio di troppo per le tante curve. Le altre due tappe israeliane non sono certo una gita di piacere. A inizio maggio le temperature non saranno certo proibitive, soprattutto nella Haìfa-TelAviv che da nord ridiscende lungo la costa. Un po' diverso il discorso nella terza tappa, la Be'er Sheva-Eilat, perché i ciclisti attraverseranno zone desertiche (ieri a Eilat c'erano 30 gradi) con temperature più vicine a quelle di Tour e Vuelta.

MILANO - Un Giro così non si era mai visto. La partenza in Israele, il ritorno dello Zoncolan, il Colle delle Finestre come Cima Coppi (2.178 metri), il gran finale a Roma tra i Fori e il Colosseo: 3.546,2 km ben spalmati tra montagne, cronometro (due per un totale di 45 km contro i 75 di quest'anno), asfalto e sterrato (il vintage va di moda anche al Tour de France), tradizione e modernità, tappe della memoria (i passaggi sul luogo della valanga di Rigopiano e a Filottrano: si sfilerà sotto la casa di Michele Scarponi), cultura e arte. Ma non solo.
A fine giornata, dentro lo studio Rai di «Che tempo che fa» gremito di ospiti, ciclisti e totem, sul video appare il faccino bianco e smunto di Chris Froome, il keniano bianco, l'uomo dei quattro Tour in cinque anni, considerato il più grande corridore di corse a tappe contemporaneo: «Arrivederci sulla linea di partenza del Giro 2018 - dice -. Ho un legame speciale con l'Italia, ci ho vissuto per tre anni e conquistare la maglia rosa mi dà una motivazione del tutto nuova. Spero di fare qualcosa di grande e indimenticabile». Doppiare Giro e Tour, cioè, impresa che a un essere umano a due ruote non riesce da vent'anni (Marco Pantani, sempre lui, 1998). «La presenza di Froome è una bellissima notizia, ci aspettiamo presto l'adesione di tanti altri campioni - dice il presidente Rcs Urbano Cairo -. È un Giro bello, competitivo, ben bilanciato».
Eccola la sorpresa tra le sorprese, la pepita d'oro nella miniera del Giro numero 101 che si annuncia più memorabile di quello Cento, partito con la flemma di Matusalemme, carburato lento e poi finito nell'ordalia di Piazza Duomo con tre corridori (Dumoulin, Quintana, Nibali) racchiusi in 40 secondi in fondo a tre settimane di corsa. Alla terza partecipazione, dopo due flop (32o nel 2009, squalificato per traino irregolare nel 2010, al debutto in Sky), l'alieno accetta l'invito con un unico risultato ammissibile nel tascapane: la vittoria.
Deglutisce amaro Fabio Aru, che prova a ricostruire la sua stagione intorno al Giro d'Italia come quest'anno non gli è riuscito per colpa di una improvvida caduta in allenamento: al sardo, Froome lancia una sfida altissima. «Sarà una gara ancor più memorabile, però non è l'unico campione al via» ci tiene a precisare Fabietto con l'orgoglio di San Gavino Monreale. Prende tempo per pensarci Vincenzo Nibali, già due volte re in casa, questa volta assai più tentato dal Tour che dalla corsa rosa («Deciderò insieme alla squadra in ritiro, valuteremo anche in base alle caratteristiche del Mondiale») e nicchia anche Tom Dumoulin, il padrone in carica che, sazio dell'abbuffata di una stagione eccezionale (oro iridato a cronometro in Norvegia), ha una gran voglia di Francia («Il Giro mi piace ma è presto per dire che ci sarò»).
Il via il 4 maggio con la crono di Gerusalemme, l'arrivo il 27 nella Capitale. In mezzo, ventuno pagine del romanzo popolare più amato dagli italiani. Se la partenza in Israele - la prima fuori dall'Europa di un grande giro - è già un colpaccio (la mossa che ha contribuito, a livello economico e d'immagine, a sedurre Froome: «Una scelta importante per l'internazionalizzazione dell'evento» sottolinea il direttore Mauro Vegni), il meglio arriverà dopo.
Le tre tappe siciliane con Etna (ultimo italiano a imporsi sul vulcano Bitossi 50 anni fa) e Valle del Belice, il Gran Sasso alla nona, lo Zoncolan alla 14'! con i suoi cinque Gran premi della montagna ( «Converrà essere in forma dall'inizio perché a quel punto la corsa potrebbe essere già orientata» sottolinea il c.t. Cassani), l'ultima settimana con la crono di Rovereto, Prato Nevoso e l'aria sottile delle Finestre, la strada alla fine della strada. Una festa mobile, che vivrà in diretta Rai (ogni giorno Raisport dalle 10-45, Raidue dalle 14), dal sapore mediorientale prima di tornare gioiosamente nazional popolare. Come ci piace da 108 anni. Come natura crea.

(Corriere della Sera, 30 novembre 2017)


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Gli israeliani trascinati da Sbaragli sono pronti a riscrivere la storia

La lsrael Cycling Academy sarà la prima squadra professionistica locale a partecipare al Giro d'Italia. I suoi corridori, tra i quali l'empolese Sbaragli, hanno aperto la propria stagione rendendo omaggio al nostro "Ginettaccio" arrivando fin davanti al Muro dei Giusti della Città Santa.

di Adam Smulevich

 
Kristian Sbaragli
L'attesa sale, inesorabile. C'è trepidazione diffusa per un grande evento che comunque segnerà uno spartiacque, ma è anche radicata la consapevolezza di una possibilità davvero unica per lanciare un messaggio che andrà oltre la corsa in sé.
   Israele e la "Grande Partenza", l'amore sta sbocciando: tanto che ormai anche l'uomo della strada, in un paese che ha ben poco ciclismo nella sua cultura sportiva di base, sa cosa si cela dietro questa espressione. Gli occhi puntati su Gerusalemme e su una data in particolare, il 4 maggio 2018. Il giorno in cui il prossimo Giro d'Italia prenderà il via proprio da qua, con una cronometro dalle molte suggestioni che si concluderà nei pressi della Porta di Giaffa. Una sfida che nasce anche nel segno di Gino Bartali, che in Israele è molto più di un pluricampione di corse a tappe, lo storico rivale di Fausto Coppi, il protagonista di tante indimenticabili giornate a pedali tra sudore, folla entusiasta ai fianchi e montagne da scalare. Ad essere celebrato, a Gerusalemme e dintorni, è anche e soprattutto il suo lato umano. Il fatto di essersi messo a disposizione, nell'ora più buia del Novecento, per portare aiuto concreto agli ebrei perseguitati dal nazifascismo. E il fatto di aver compiuto tali azioni in silenzio, senza chiedere nulla in cambio. Non sorprende quindi che la Israel Cycling Academy, prima squadra professionistica locale, abbia aperto la propria stagione rendendogli omaggio davanti al Muro dei Giusti. E cioè il luogo all'interno del Memoriale dello Yad Vashem, pochi chilometri in linea d'aria dalla partenza del Giro, dove il suo nome è inciso a perenne ricordo tra i grandi dell'umanità. A meno di clamorose sorprese, la Academy sarà alla partenza del prossimo Giro grazie a una wild card. E lo farà con un italiano in squadra, l'empolese Kristian Sbaragli. Un corridore toscano, motivato e consapevole, nella squadra che per prima sarà chiamata a testimoniare l'immensa eredità di quella storia, di quelle scelte, di quel coraggio. Una scelta non casuale. Inaugurando negli scorsi giorni una scuola per aspiranti ciclisti a Beit Shemesh, la prima che nasce ufficialmente sotto l'egida della Academy, il team manager Ran Margaliot l'ha detto chiaramente: «Se ci sarà data la possibilità di correre questo Giro, lo faremo anche nel nome di Gino. Perché non è vero sport, se non trasmette dei valori profondi.

(Avvenire, 30 novembre 2017)


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Giro d'Italia, nodo risolto. "Gerusalemme, partenza storica"

di Adam Smulevich

Le prime tre tappe ormai non erano più una sorpresa: la Grande Partenza con la cronometro a Gerusalemme, e quindi Haifa-Tel Aviv e Beersheba-Eilat. L'attesa era tutta per le tre settimane successive e per come queste si sarebbero incastonate con l'inedito avvio in Israele. Il risultato è una corsa ricca di suggestioni, un Giro d'Italia 2018 che punta a emozionare il mondo con scenari nuovi, con omaggi dal significato profondo ma anche con leggende intramontabili che costituiranno il vero spartiacque per le ambizioni dei corridori più ambiziosi. Su tutti il mitico Zoncolan, per molti la salita più dura d'Europa.
Presentazione show ieri negli studi Rai di via Mecenate a Milano, con centinaia di giornalisti accreditati e l'attesa tipica dei grandi appuntamenti.
   All'entusiasmo iniziale è seguito però un clamoroso incidente diplomatico, che per qualche ora ha rischiato di compromettere il buon esito dell'iniziativa. Sul sito del Giro infatti, per indicare il luogo di partenza della corsa, è stato inizialmente usato il termine "West Jerusalem". Una denominazione fuorviante, è stato fatto notare quest'oggi in una nota dai ministri Miri Regev e Yariv Levin, perché "Gerusalemme è la capitale di Israele: non vi sono Est e Ovest". Anche per questo i due esponenti del governo avevano annunciato l'intenzione di Israele di sfilarsi dalla corsa, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per l'organizzazione. Ipotesi che però è durata appena poche ore: ogni riferimento a "West Jerusalem" è infatti subito sparito dal sito, e la frattura si è così ricomposta.
   Partenza il 4 maggio da Gerusalemme, con un cronometro che terminerà nei pressi della porta di Giaffa; arrivo il 27 dello stesso mese a Roma. Quattro grandi protagonisti del pedale come testimonial: l'ultimo vincitore del Giro, Tom Dumoulin; gli italiani Vincenzo Nibali e Fabio Aru; Alberto Contador, fresco di ritiro ma ancora legato al suo mondo. Mentre Chris Froome, il più forte ciclista in attività, conferma in un video: a questo Giro, a Gerusalemme, ci sarà anche lui. .
   Ha sottolineato ieri Mauro Vegni, direttore del Giro: "Sarà un Giro particolarmente avvincente, con frazioni spettacolari, otto arrivi in salita e tante tappe insidiose. La Grande Partenza da Israele, per la prima volta fuori dal Vecchio Continente, l'arrivo a Roma davanti al Colosseo e tutto il percorso saranno anche un grande veicolo di promozione non solo sportiva".
   Conferma il direttore generale di RCS Sport Paolo Bellino: "L'internazionalizzazione mediatica e la ricerca di nuove frontiere per le nostre manifestazioni, e in particolare per la corsa rosa, sono obiettivi che ci stimolano e che ci devono far guardare anche oltre i confini italiani senza mai dimenticare la nostra storia e la nostra nazione. Il Giro deve diventare ogni giorno di più una vetrina che racconta e promuove il Paese Italia nel mondo".
   Un Giro che nasce anche nel segno di Gino Bartali, il campione di pedali e umanità che è tra i "Giusti" dal 2013, cui sarà dedicata una delle tre tappe israeliane. In sala tra gli altri l'ambasciatore israeliano in Italia Ofer Sachs.

(moked, 30 novembre 2017)


Gli antisemiti, gli antisionisti, gli antisraeliani e la foglia di fico

Per tutti il nemico è Netanyahu. Ma in politica estera, sulla sicurezza e sulle condizioni di dialogo con i palestinesi, Israele è compatta.

di Ugo Volli

E' una mossa molto nota, che si riproduce continuamente da settant'anni in qua. Gli antisemiti, che non possono confessare il loro odio per gli ebrei senza esserne squalificati, dicono di essere antisraeliani e antisionistì, perché il sionismo, dicono, è un progetto coloniale se non peggio. Ma se non si è protetti dal palestinismo, che fa perdonare ogni cosa, anche il rifiuto di Israele è diventato progressivamente difficile da introdurre nel discorso pubblico, dato che si tratta di uno stato che da settant'anni fornisce un contributo importante alla scienza, alla cultura e all'economia mondiale. Del resto, chi oggi potrebbe dire di voler distruggere uno stato riconosciuto dalla comunità internazionale e sterminare i suoi abitanti? Allora si parla di una presunta illegalità degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria, che però col passar del tempo è un argomento sempre meno convincente, soprattutto se lo si confronta con i numerosi esempi internazionali di zone controverse e popolazioni davvero occupate. Allora si dice che il nemico non sono gli ebrei e nemmeno Israele come stato, ma il suo governo, e in particolare il primo ministro Bibi Netanyahu.
   "Sarà legittimo criticare un governo e le sue politiche, no?" chiedono gli antisemiti nascosti dall'antìsìonismo, mascherati dal rifiuto delle "politiche" dei governi. E certamente bisogna rispondere che è legittimo, che noi stessi critichiamo le politiche del governo italiano (e magari di quello tedesco) e che la vita democratica israeliana è ricca di questa critiche: vi è una vivace opposizione e in pratica tutti gli intellettuali e la grande maggioranza dei media sono abbastanza pregiudizialmente antigovernativi, essendo schierati a sinistra come in tutto il mondo.
   Ma il problema degli antisemiti/antisionisti/antigovernativi è che le "politiche" che combattono non sono affatto nuove e che critiche del genere si sentono per l'appunto da settant'anni. Tanto che, senza definire necessariamente antisemita HaAretz, circola la battuta che l'ultimo governo visto con favore dal giornale di culto della sinistra israeliana (altri dicono che si tratti piuttosto del più importante giornale palestinese scritto in lingua ebraica) fu quello del generale Alan Gordon Cunningham, ultimo governatore del mandato britannico fra il 1945 e il '48.
   Prendersela col governo Netanyahu è dunque per lo più semplicemente una foglia di fico per l'odio per Israele e per gli ebrei. Ma qualcuno può credere veramente che le "politiche" che critica dipendano da lui, per esempio l'opposizione all'armamento nucleare dell'Iran, il rifiuto di sgomberare gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria rendendo judenrein i territori pretesi dai palestinisti, come vorrebbe Abbas, la difesa dal terrorismo che implica fra l'altro il tentativo di limitare le importazioni di armi per Hamas e Hezbollah. C'è chi prende sul serio le furiose polemiche che caratterizzano la vita politica israeliana e pensano che rovesciando Netanyahu queste "politiche" cadrebbero anch'esse. Non è una posizione rara, sia Obama che l'Unione Europea hanno cercato di dare una mano ai nemici di Bibi durante le ultime elezioni e anche dopo, senza farsi limitare troppo dalla legalità internazionale. Ma, come sappiamo, non hanno combinato granché. Questo fallimento deriva dalla popolarità di Bibi e dai successi politici della sua azione internazionale. Ma anche dal fatto che le politiche di Israele non sono il frutto del capriccio di un leader, ma derivano da un consenso profondo maturato nel tempo, che, al di là delle polemichette ad uso della stampa coinvolgono lo "stato profondo", cioè i servizi, l'esercito, la diplomazia, che pure sono in genere a sinistra del governo guidato dal Likud, ecc. Israele non è avventurista, calcola con molta attenzione le sue mosse, sa bene che purtroppo il Medio Oriente è uno spazio politico pericoloso, dove non si può improvvisare come mostra il caso curdo e i profeti disarmati finiscono molto male.
   In queste ultime settimane sono accaduti degli episodi significativi, che dovrebbero far riflettere. Sia il nuovo leader laburista Gabbai, sia il vecchio ministro della Difesa Yaalon, che legittimamente aspirano entrambi a diventare premier dopo le prossime elezioni hanno trovato modo di dire cose assolutamente "alla Netanyahu": che non si può svuotare la Giudea e Samaria dei suoi cittadini ebrei, che la pace dipende da un fondamentale mutamento di atteggiamento da parte dell'Autorità Palestinese e dunque in questo momento è solo "un'illusione" (così Yaalon), che l'Iran e il suo armamento missilistico e nucleare sono un pericolo "esistenziale" per Israele, che non sarà certo possibile fare un governo con il sostegno determinante dei partiti arabi, il che implica anche nel caso attualmente molto improbabile di una vittoria della sinistra, un accordo col Likud e così via. Insomma, la sicurezza di Israele resta un tema condiviso, le cui linee fondamentali non cambieranno anche se Netanyahu fosse azzoppato, per esempio per via giudiziaria con quelle inchieste di cui si chiacchiera da anni con poco costrutto. Dunque non cambierebbe nulla in questo caso? La politica nei confronti dell'Autorità Palestinese, dell'Iran, di Hamas eccetera resterebbe certamente la stessa. La retorica forse cambierebbe, forse ci sarebbe qualche evento spettacolare (un incontro, l'inizio di una trattativa) per marcare la discontinuità. Certamente non si ritornerebbe alla politica dei ritiri e degli accordi in stile Oslo: il loro fallimento è sotto gli occhi del pubblico israeliano ogni giorno. E Israele perderebbe il suo leader più esperto e qualificato, una personalità che ha conquistato un'autorità importante nella politica mondiale. Gli elettori israeliani ne sono consapevoli e per questo hanno rieletto per tre volte Bibi a primo ministro, nonostante sondaggi e pressioni internazionali. E' probabile che lo rifacciano, se chiamati a nuove elezioni. Alla faccia dei nemici delle "politiche governative". che in realtà non sopportano Israele e gli ebrei.

(Shalom, novembre 2017)


Israele, accordo con la Cina: 300 milioni di dollari per la carne vegana

di Carlotta Jarach

 
Ebbene sì, carne vegana. No, non è il folle scherzo di un matto. Di origine animale, ma senza sfruttamento o allevamenti intensivi, si tratta infatti di un prodotto di laboratorio, creato fibra per fibra, in linea teorica quindi conforme ad alcune branche della filosofia vegana e vegetariana. Mentre scriviamo, otto aziende nel mondo stanno lavorando perché il prodotto diventi vendibile in scala. Tre di queste sono israeliane: SuperMeat, Future Meat Technologies e Meat the Future.

 Gli accordi con la Cina
  E anche la Cina, con i suoi oltre 10 miliardi di dollari di esportazione nel settore (dati dell'International Trade Center), si è interessata alle aziende high-tech israeliane, come dicono sul sito Quartz, notizia poi rimbalzata ovunque fino al World Economic Forum, e che noi ora riprendiamo.
  "Si tratta di un'opportunità colossale per il mercato", per usare le parole di Bruce Friedrich, a capo del GFI, il Good Food Institute, in prima linea per gli alimenti cosiddetti sostituitivi (alla carne). Un accordo da 300 milioni di dollari quello israelo-cinese, annunciato lo scorso 11 settembre, grazie anche all'intervento dell'Israel Innovation Authority del governo israeliano e all'Israel Export Institute. Grazie alla collaborazione, le aziende dell'estremo oriente avranno così la possibilità di veder drasticamente diminuite le proprie emissioni di gas serra: un ulteriore passo in avanti nei provvedimenti con altri leader, europei e non, nella lotta all'inquinamento.
  La realtà tecnologica israeliana è considerata da molti seconda solo alla Silicon Valley statunitense, la quale ospita altre realtà aziendali che propongono alternative alla carne, tra cui Impossible Foods e Hampton Creek. Ironia della sorte (forse) entrambe hanno ricevuto investimenti cinesi dal miliardario Li Ka-shing.
  Martedì 12 settembre, il China Science and Technology Daily, gestito dalle autorità governative cinesi, aveva sottolineato non sono l'importanza per ragioni ambientali della "carne in provetta", ma anche di sicurezza alimentare.
  La carne pulita infatti ha potenziali effetti benefici sulla salute pubblica sotto diversi aspetti: innanzitutto una diminuzione della resistenza agli antibiotici, per via anche dei numerosi controlli nella procedura di fabbricazione. E ancora, il motivo principe del suo nome, ovvero che sarà in generale più pulita e igienica: priva per esempio di cancerogeni, vedi arsenico, e di malattie associate come aviaria e simili.
  Staremo a vedere.

(Bet Magazine Mosaico, 30 novembre 2017)


Respinta la terrorista amica di Giggino

L'estremista palestinese Kbaled fermata a Fiumicino. Era attesa a Napoli da de Magistris

di Patricia Tagliaferri

ROMA - È stata respinta a Fiumicino la militante palestinese Leila Khaled, personaggio controverso per il suo passato da attivista con due dirottamenti alle spalle, uno nel 1969 e l'altro l'anno successivo.
   Considerata una terrorista dai movimenti pro Israele e un'eroina da quelli antisionisti, Khaled era attesa a Napoli, dove avrebbe dovuto parlare all'asilo Filangieri a un convegno sull'occupazione militare della Palestina e sul diritto alla resistenza, raccontando anche la sua esperienza personale. Un dibattito organizzato dagli attivisti del Comitato per la Palestina al quale era stato invitato anche il sindaco Luigi de Magistris, che in passato ha concesso la cittadinanza onoraria a un altro militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp ), Bilal Kayed, un estremista che ha trascorso 14 anni nelle carceri israeliane. La notizia dell'imminente arrivo in Italia della Khaled nei giorni scorsi aveva già sollevato polemiche e spinto anche la deputata Mara Carfagna, portavoce di Forza Italia, a presentare un'interrogazione parlamentare. Ieri Leila Khaled è atterrata ali' aeroporto Leonardo Da Vinci proveniente da Amman, dove risiede, appunto per prendere parte a una serie di incontri. Ma dai controlli è risultato che l'ex militante non aveva un visto di Schengen in corso di validità ed è stata respinta alla frontiera e subito imbarcata su un aereo diretto in Giordania. È stato lo stesso Fplp, organizzazione considerata eversiva dall'Unione europea, a dare notizia che all'ex terrorista palestinese è stato negato l'ingresso in Italia, parlando di «rabbiosa campagna» e di «decisione politica».
   Plaude alla decisione delle autorità italiane, invece, Mara Carfagna. «Impensabile - commenta l'ex ministro azzurro - che una terrorista che ha dirottato due aerei e non ha mai rinnegato quanto ha fatto possa venire a darci lezioni».
   La Carfagna si era già occupata della militante palestinese prima di ieri. Nei giorni scorsi, infatti, aveva rivolto un'interrogazione al ministro Marco Minniti in cui chiedeva se il Viminale fosse a conoscenza del «tour italiano» della Khaled e se non ritenesse di dover intervenire «per evitare che un esponente di una formazione terroristica parlasse in una struttura pubblica».

(il Giornale, 30 novembre 2017)


"Laureus Sport for Good", bambini israeliani e palestinesi insieme nel nome dello sport

Terra Santa: dai campi di battaglia ai campi sportivi, la missione di Laureus Sport for Good tra i giovani israeliani e palestinesi. Lo sport per sanare i conflitti. Bambini e ragazzi israeliani e palestinesi uniti nel nome dello sport: accade a Tel Aviv e a Gerusalemme dove il "Peres Center for Peace", fondato nel 1996 da Shimon Peres, premio Nobel per la pace e presidente di Israele dal 2007 al 2014 e "Laureus Sport for Good Middle-East", associazione sportiva che promuove la pace e l'amicizia attraverso il gioco del basket, portano avanti due progetti in ambito sportivo rivolto a colmare il divario tra le due comunità in conflitto da 50 anni. I progetti sono sostenuti dalla "Laureus Sport for Good", fondazione che promuove oltre 100 iniziative sportive in 35 Paesi del mondo per contrastare gravi fenomeni sociali quali criminalità giovanile, gang, violenza armata, discriminazione ed esclusione sociale. Per dare ulteriore sostegno ai due progetti la Laureus Sport for Good sarà a Tel Aviv e a Gerusalemme dal 4 al 6 dicembre. "La nostra missione - dichiara al Sir il presidente della Laureus World Sports Academy, un mito del rugby mondiale, il neozelandese Sean Brian Thomas Fitzpatrick - è usare lo sport come strumento per porre fine alla violenza, alla discriminazione e allo svantaggio". Lo sport, infatti, sostiene Fitpatrick, "può offrire anche delle ottime lezioni di vita, come il fare parte di una squadra, il rispetto delle regole, degli altri giocatori, degli arbitri, l'impegno per una causa, accettare la sconfitta nel modo giusto. Lo sport mi ha insegnato a lavorare sodo, essere concentrato e resiliente. Ho imparato come superare le sfide e a non mollare. Se lavori duramente e gareggi al meglio hai possibilità di farcela. Queste sono grandi lezioni per la vita". Il programma della visita prevede incontri con la stampa e con rappresentanti del "Peres center for peace" e dei "Laureus Sport for Good Middle-East", con i volontari dei progetti e con i giovani che ne prendono parte. A guidare il tutto sarà Jens Thiemer, vice presidente Marketing della Mercedes-Benz e membro di presidenza della Fondazione. Porterà, infine, la sua testimonianza la cestista americana Chamique Holdsclaw, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Sidney nel 2000.

(SIR Servizio Informazione Religiosa, 30 novembre 2017)


Perché gli amanti della pace non propongo di fare qualcosa di simile anche a Gaza? Usare il nome dell'altro Nome per la pace e lanciare l’idea di un “Arafat Center for Peace” in cui si trovino insieme “bambini e ragazzi israeliani e palestinesi uniti nel nome dello sport”. Potrebbe farlo il papa, e far vedere così che anche il Palestinismo è una religione di pace. M.C.


Gli ebrei sardi si appellano a Minniti: «Bloccate la terrorista palestinese»

Leila Khaled arriva a Cagliari. «E' contro la pace Israele-arabi».

di Antonio Grizzuti

Una petizione per chiedere al ministro degli Interni, Marco Minniti, di vietare l'ingresso di Leila , Khaled nel nostro Paese. E quello che chiede l'associazione Memoriale sardo della Shoah attraverso una petizione lanciata sul sito change.org e che nel giro di poche ore ha superato quota 1.100 firme.
   Come anticipato la scorsa settimana dalla Verità, Leila Khaled sarà protagonista domani a Cagliari di un incontro organizzato dall'associazione Amicizia Sardegna Palestina in occasione del settantesimo anniversario dell'approvazione del piano di partizione della Palestina. A infiammare gli animi proprio la presenza della Khaled, membro del Consiglio nazionale palestinese e dell'ufficio politico del Fronte popolare di liberazione della Palestina. L'attivista è nota per aver preso parte il 29 agosto 1969 al dirottamento del Boeing 707 della compagnia statunitense Twa in viaggio da Los Angeles a Tel Aviv. A seguito dell'episodio non ci furono vittime né feriti, ma l'aereo fu fatto esplodere dopo aver fatto sbarcare i passeggeri.
   L'anno dopo la Khaled tentò di dirottare un altro aereo in servizio fra Amsterdam e New York insieme a Patrick Arguello, un sandinista simpatizzante per la causa palestinese. Nell' operazione di polizia con la quale fu sventato il dirottamento, Arguello perse la vita. Grazie alle sue gesta, Leila Khaled è diventata un'icona della causa palestinese. E tra qualche giorno sarà ospite del nostro Paese, da sempre legato da forte amicizia con Israele.
   «Siamo assolutamente preoccupati che una iniziativa per la solidarietà al popolo palestinese veda la partecipazione, proprio fra tutti coloro che potevano essere chiamati ad intervenire sul conflitto arabo-israeliano e sui processi di pace, una dichiarata terrorista che da un lato si dice "non credente" nello strumento dei dirottamenti aerei (...) ma dall'altra non vuole neppure che vi siano accordi di pace fra Israele e gli stati arabi», si legge nel testo della petizione.
   «Sapevo che la signora Khaled sarebbe stata ospite in altre parti d'Italia, ma quando ho visto i manifesti dell'incontro di Cagliari sono rimasto sconvolto», racconta alla Verità Alessandro Matta, presidente dell'associazione locale che porta avanti la raccolta firme. Un gruppo impegnato soprattutto sul versante della memoria dell'Olocausto e che porta avanti tra i suoi progetti quello di un memoriale per ricordare l'orrore della Shoah. «Il danno non è rappresentato dal fatto che si organizzi una giornata di solidarietà verso un popolo che dice di essere oppresso, ma dalla scelta di ospitare una persona coinvolta in atti terroristici, cosa che di certo non aiuta la pace» incalza Matta. Da qui l'idea di lanciare la petizione rivolta al ministro, che sta raccogliendo il consenso della galassia delle associazioni vicine all'ebraismo ma anche di numerosi simpatizzanti.
   «Il problema è che si sta virando dall'antisionismo all'antisemitismo, e questo paradossalmente è un fenomeno che riguarda in misura maggiore l'estrema sinistra», spiega Mario Carboni, presidente dell'associazione Chenàbura - Sardos pro Israele (chenàbura, parola sarda che significa venerdì, pare rimandi alla cena festiva dello Shabbath). «Qui in Sardegna però,» osserva, «l'amicizia nei confronti di Israele è molto maggiore di quanto si possa immaginare. La cosa importante è che oggi nella nostra isola si assiste non solo a una rinascita della tradizionale amicizia verso Israele, ma anche della comunità ebraica», continua Carboni.
   Un segno importante è la grande partecipazione a iniziative come le giornate europee della cultura ebraica e la festa di Chanukkah, con l'accensione del lume che verrà ripetuta il prossimo 17 dicembre presso il ghetto ebraico. Dopo l'espulsione degli ebrei da Cagliari avvenuta oltre 500 anni fa, sembra che per questa comunità sia arrivato il momento della svolta.

(La Verità, 29 novembre 2017)


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Respinta alla frontiera l'ex terrorista palestinese Leila Khaled

È stato negato l'ingresso in Italia a Leila Khaled, ex militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, giunta il 28 novembre all'aeroporto di Fiumicino, «in quanto sprovvista di visto Schengen in corso di validità». Ne dà notizia il Dipartimento della Pubblica Sicurezza. «La cittadina giordana è giunta allo scalo aereo di Roma Fiumicino proveniente da Amman - prosegue la Polizia -. Le normali procedure di verifica sulla regolarità dei titoli necessari per fare ingresso nel territorio nazionale hanno evidenziato come la Khaled fosse sprovvista di un visto Schengen in corso di validità. Pertanto, così come previsto dalla normativa nazionale e internazionale Schengen, la donna è stata respinta alla frontiera e imbarcata su un aereo diretto ad Amman», conclude il Dipartimento. L'ex terrorista, nota per la sua partecipazione al dirottamento del volo TWA 840 del 29 agosto 1969, era attesa a Roma il 2 dicembre e a Napoli il 4 dicembre all'Asilo Filangieri.

(Il Mattino, 29 novembre 2017)


Lotta - Iraniano perde un match per evitare un israeliano

Ai Mondiali U23 obbedisce ai suoi tecnici: avanti 3-2 a un minuto dalla fine, cede 14-3

Ottavi di finale dei Mondiali Under 23 di lotta stile libero categoria 86 kg, in Polonia: l'iraniano Ali Reza Karimi Machiani sta battendo il russo Alikhan Zhabrailov per 3-2 prima di ricevere, a un minuto dalla fine del match, una chiamata dai suoi allenatori. Non gli arriva nessuna indicazione tecnica, ma solo un ordine tassativo. «Se vinci poi dovrai affrontare l'israeliano Kalashnikov (quando anche il cognome certe volte gioca brutti scherzi ... , ndr): non è una cosa possibile, quindi rientra e fai in modo di perdere». La richiesta della sconfitta volontaria sarebbe dovuta al fatto che l'Iran non riconosce lo stato di Israele e proibisce quindi ai suoi atleti di competere contro gli israeliani in occasione di eventi sportivi internazionali come è appunto il Mondiale Under 23. Karimi non si oppone all'ordine, e così quando rientra smette di combattere finendo per perdere nettamente, 14-3. «Mi è caduto il mondo addosso», ha detto alla fine alle agenzie di stampa Karimi che sui social però ha ricevuto anche tantissime critiche per la sua decisione di smettere di combattere (l'hashtag #youmustlose - tu devi perdere - è stato di tendenza lunedì in Iran), mentre invece il ministro dello sport iraniano lo ha elogiato per aver difeso «alti valori umani». La federazione lotta dell'Iran ha inoltre definìto Karimi «eroe», esaltando il suo «sacrificio» per aver perso l'incontro col russo.

 Curiosità
  Nonostante la sconfitta volontaria, Karimi avrebbe dovuto affrontare ugualmente Kalashnikov nel turno di ripescaggio, incontro naturalmente che non si è tenuto per la rinuncia dell'iraniano. C'è poi anche da sottolineare che il russo Zhabrailov ha vinto la medaglia d'oro, mentre a Kalashnikov
è andata la medaglia di bronzo.

(La Gazzetta dello Sport, 29 novembre 2017)


Israele, Zoncolan, Roma ma non solo. Il Girod'Italia ha in serbo la sorpresa Froome

Oggi a Milano la presentazione con Contador: «Chris può centrare la doppietta col Tour». Con Aru (confermato), Nibal (incerto) e il re in carica Dumoulin, anche il sindaco Raggi.

di Gaia Piccardi

Quattro cose che sappiamo del Giro d'Italia 2018.
  1. Avrà una partenza esotica, la tredicesima all'estero, la prima di un grande giro fuori dai confini del vecchio continente (mossa coraggiosa ed essenziale per piazzare la bandierina sui mercati stranieri ed alzare il valore economico del prodotto): tre tappe in Israele, dal 4 al 6 maggio, via col botto con una crono individuale a Gerusalemme.
  2. Riannoderà il filo con la tradizione dall'8 maggio in poi, dopo il giorno di riposo che servirà alla carovana per riguadagnare il territorio italiano, quando dalla Sicilia il groppone dei girini comincerà a risalire la penisola (il messaggio tra le righe è per Vincenzo Nibali, vincitore 2013 e 2016, messinese doc ancora indeciso tra Giro e Tour).
  3. Ci sarà lo Zoncolan, sparito dalle mappe dal 2014, la montagna il cui tratto più facile vale tutta la Grande Boucle (Gilberto Simoni dixit).
  4. Il gran finale sarà a Roma, domenica 27 maggio (ed ecco spiegata la presenza del sindaco Raggi).
Il resto, tutto il resto, lo scopriremo oggi a Milano negli studi Rai di «Che tempo che fa» (diretta su Raidue alle 17), dove il Giro numero 101 verrà scoperto tappa per tappa come le carte di una lunga mano di poker. Le tre siciliane (Etna incluso), Calabria, Campania, Toscana, Romagna e San Marino, l'omaggio a Scarponi a Filottrano, il tappone dolomitico di Sappada, la crono di Rovereto, il ritorno del Colle delle Finestre, la tappa di Cervinia. E infine il cast delle stelle. Già confermato Fabio Aru, che l'anno scorso fu costretto a dare forfeit per un infortunio al ginocchio, data per scontata la difesa del titolo del campione in carica olandese Tom Dumoulin, il Giro aspetta la conferma di Nibali e sogna il grande colpo: imbarcare Chris Froome, due volte alla corsa rosa (2009 e 2010, stagione del debutto in Sky) senza lasciare traccia prima di concentrare tutte le sue energie sul Tour (quattro vittorie dal 2013), che nel 2018 ha disegnato un percorso vintage (molto pavé, un pizzico di sterrato, un tappone di montagna estremo) allo scopo di disarcionarlo. All'alieno di Nairobi oggi tirerà la volata Alberto Contador, fresco pensionato e gradita guest star: «Ha una squadra forte, è capace di tutto, anche di centrare la doppietta in Italia e in Francia» dice il pistolero. De Telegraaf, in Olanda, si spinge oltre e garantisce che Froome è pronto a impegnarsi a tentare la doppietta Giro-Tour (miseramente fallita quest'anno a Nairo Quintana) vent'anni dopo Pantani. A Milano dal britannico è atteso un segnale forte: il cuoricino, che twittò dopo la presentazione del Giro di quest'anno, non basta.

(Corriere della Sera, 29 novembre 2017)


Gli ultimi marxisti di successo d'Europa

La guerra santa di Corbyn contro gli «zombie blairiani»

                                           Toni Blair                                                                             Jeremy Corbyn
Tempi duri per i blairiani, oggetto di purghe interne nel partito laburista che per quasi vent'anni avevano dominato. La loro ascesa alla fine degli anni Novanta, imitata in Germania da Gerhard Schroeder, siera basata su una conversione tattica al centro che aveva permesso di porre fine a un ciclo di vittorie conservatrici che sembrava infinito. Ma anche il loro tempo si è esaurito, e dopo l'era dei tories Cameron e May un futuro di potere per la sinistra più antistorica d'Europa non pare cosa impossibile.
   Mentre infatti in tutto il continente i partiti d'ispirazione socialista conoscono una crisi epocale, la sinistra radicale del segretario Jeremy Corbyn, un paleomarxista terzomondista ostile alla Nato e simpatizzante di gruppi terroristi come Hamas e l'Ira, ha secondo i sondaggi concrete speranze di vincere le prossime elezioni. Che sulla carta dovrebbero essere lontane anni, ma stante la debolezza del governo May potrebbero anche venire di molto anticipate.
   Circolano diverse teorie per cercare di spiegare l'appeal politico, soprattutto presso tanti giovani, di Corbyn, che è datatissimo non solo ideologicamente, essendo quasi settantenne. Un fenomeno simile a quello di Bernie Sanders negli Stati Uniti. Ma più interessante è osservare i suoi metodi per consolidare il potere all'interno del Labour Party. Strumento di questo consolidamento, ricorda il Times, è un gruppo di pressione di estrema sinistra chiamato Momentum.
   Sorto dopo l'elezione di Corbyn alla leadership laburista, pretende di essere l'alfiere di «un nuovo tipo di politica», ma è in realtà il portavoce di ammuffiti pregiudizi e luoghi comuni di una sinistra radicale ben più vecchia dello stesso Corbyn. Non ultimo un antisemitismo strisciante che confina ambiguamente con una palese ostilità verso Israele. Giustamente il Times osserva che simili porcherie non si sarebbero mai verificate con precedenti leader laburisti come Tony Blair o Gordon Brown. Ma come si diceva, il tempo dei centristi nel Labour è agli sgoccioli. Corbyn è stato eletto proprio per seppellire vecchi valori fondanti del partito come l'ancoraggio a Occidente e la netta distinzione tra movimenti politici di sinistra democratici ed eversivi. Momentum pretende di essere semplicemente un movimento di massa che ha portato nuova linfa al Labour. Ma sembra invece che si stia trasformando nel protagonista di manovre interne al partito destinate a radicalizzarlo a sinistra.
   In vista delle elezioni locali britanniche del prossimo anno, candidati dell'estrema sinistra sostituiscono sempre più spesso quelli centristi, che lamentano di essere fatti oggetto di «purghe aggressive» e di definizioni sprezzanti come «zombie blairiani». Se il Labour «normalizzato» da Corbyn uscirà vincitore in queste elezioni, avrà ottime carte in mano per chiedere l'anticipo delle legislative e magari per vincerle. Provocando nel Regno Unito uno scossone politico che preoccupa il mondo dell'economia molto più della già destabilizzante Brexit.

(il Giornale, 29 novembre 2017)


"Antisemitismo implicito" in Ungheria

Un professore ci racconta la discussa campagna anti Soros.

di Maurizio Stefanini

ROMA - "Sembra di essere tornati agli anni Trenta. Le immagini della campagna del governo ungherese contro George Soros sembrano davvero un ritorno a certi toni di antisemitismo degli anni Trenta". Nato in Slovacchia, Julius Horvath è un economista che insegna in quella Central European University di cui Soros promosse la fondazione a Budapest nel 1991, e che il governo di Viktor Orbàn ha preso duramente di petto - non soltanto con una legge che ne minaccia l'esistenza. Horvath si riferisce al fatto che è stata mandata alle famiglie ungheresi dal governo una lettera con la foto di Soros in cui si denuncia che il miliardario vorrebbe far venire in Ungheria un milione di migranti all'anno, da finanziare con l'equivalente di 30 mila euro di sussidi pubblici a testa. Dall'altra la stessa foto è apparsa in un manifesto con l'esortazione: "Non lasciate a George Soros l'ultima risata".
   "Il cosiddetto piano Soros in realtà non esiste", ricorda Horvath. E aggiunge: "Sebbene la campagna evochi chiaramente i toni della propaganda antisemita degli anni Trenta, non viene mai detto che Soros è ebreo". Si può anche ricordare che dopo le proteste della comunità ebraica ungherese e anche dell'ambasciata israeliana a Budapest il governo Netanyahu ha ricordato che anch'esso è in rotta con Soros, e il primo ministro israeliano è venuto in visita a Budapest. "Sì. Non si può parlare di antisemitismo puro, nel momento in cui il governo ha buone relazioni con Israele", riconosce Horvath. "Però allo stesso tempo il governo fa chiaramente appello ai sentimenti antisemiti di una parte della popolazione". Secondo la sua analisi, "all'inizio Orbàn ha acquisito popolarità opponendosi al Fondo Monetario Internazionale, con ricette di economia non ortodossa che effettivamente hanno aiutato l'Ungheria a risollevarsi. Poi ha tuonato contro la corruzione della sinistra. Ma adesso anche il suo partito è coinvolto in vari scandali, e la lotta alla corruzione è diventata la bandiera dello Jobbik. Era un partito di estrema destra, ora si è spostato al centro e sta addirittura trattando con la sinistra. A questo punto per recuperare Orbàn sta facendo chiaramente appello a un retroterra psicologico duramente antisemita. Quell'Ungheria profonda delle campagne che vede da sempre con rancore e sospetto la cosmopolita Budapest".
   Dunque, "la parola giusta è: ambiguità. Abbracci con Netanyahu assieme a messaggi che sono antisemiti in modo implicito ma non esplicito". Secondo Horvath, però, un po' tutta la retorica di Orbàn si basa sull'ambiguità. "Attacca l'occidente, però quando nelle interviste gli chiedono se vorrebbe allora uscire dalla Ue o dalla Nato risponde che non se lo sogna minimamente. Dice che la democrazia liberale è una realtà del XIX secolo ormai superata, loda la democrazia non liberale alla Putin o alla Erdogan, ma in Ungheria non ci sono prigionieri politici e anche la stampa è libera. Più che altro la presa del regime si percepisce nella occupazione della tv di Stato. E' anche singolare che con tutta la sua retorica xenofoba poi abbia costruito rapporti straordinariamente buoni con quei paesi vicini rispetto ai quali invece in passato l'ultranazionalismo ungherese si era sempre scontrato. Lui non se la prende con i croati o con gli slovacchi, ma con i democratici statunitensi, che sono lontani e neanche si accorgono di lui".
   Come ci racconta Horvath, "la Ceu fu creata per dare formazione in quelle materie dove l'insegnamento dato nel periodo comunista era diventato ormai completamente inadeguato alla nuova realtà. Infatti non insegna Fisica o Medicina ma Scienze Umane e sociali, Diritto, Public Policy, Business Managment, Scienze ambientali. È organizzata come un'istituzione accademica di stile americano, con il riconoscimento del New York State Education Department". In teoria la legge che il Parlamento ungherese ha approvato non menziona la Ceu. Però stabilisce che le università straniere possono operare in Ungheria solo a condizione di disporre di una sede anche nel paese di provenienza: e la Ceu sarebbe appunto l'unica istituzione a essere colpita". Come vivono nell'Università questa spada di Damocle? "Bah, noi che siamo cresciuti sotto il comunismo ci abbiamo più o meno fatto il callo a questo tipo di situazioni. Però vedo che i docenti che vengono dall'occidente o comunque da paesi sviluppati sono molto spaventati. Non riescono a capire come si possa essere considerati nemici dello stato da un momento all'altro".

(Il Foglio, 29 novembre 2017)


L'intellettuale arabo che dice: Israele è legittimo e degno d'ammirazione

Una posizione ancora oggi più unica che rara, a 70 anni dal rifiuto arabo della spartizione approvata dall'Onu e accettata da parte ebraica.

Nel settantesimo anniversario della risoluzione con cui l'Onu, il 29 novembre 1947, raccomandò la fine del Mandato Britannico e la creazione di due stati, uno ebraico e uno arabo (anniversario anche del violento rifiuto arabo che fu all'origine del confitto e di tutte le sue conseguenze), è interessante segnalare una recente intervista, alquanto insolita, nella quale lo scrittore kuwaitiano Abdullah Al-Hadlaq ha sollecitato il riconoscimento arabo dello stato di Israele come "legittimo stato sovrano indipendente" e degli israeliti come un popolo che ha diritto alla propria terra.
Intervistato lo scorso 19 novembre in Kuwait dall'emittente Alrai TV, Abdullah Al-Hadlaq ha affermato (secondo la traduzione fornita dal Middle East Media Research Institute), che nel caso di Israele "non c'è un'occupazione: c'è un popolo che è tornato alla sua terra"....

(israele.net, 29 novembre 2017)


I nostri troppi silenzi sui perseguitati di «serie B»

di Pierluigi Battista

Anche se il Papa non ha fatto nomi in Myanmar per ragioni diplomatiche, il popolo dei musulmani Rohingya si è riconosciuto nell'allusione papale all'«etnia» da rispettare, massacrata nella Bìrmanìa del Nobel San Suu Kvi.
   Di solito il destino dei Rohingya è il silenzio assoluto, con qualche blanda, timida dichiarazione dell'Onu, sulle stragi subite, sui villaggi devastati, sulle esecuzioni capitali a centinaia, sulla pulizia etnica che sta costringendo 600 mila esseri umani, compresi i bambini e gli anziani, a una fuga spaventosa verso il Bangladesh. I Rohingya sono i capofila dei profughi di serie B di cui in Occidente nessuno si cura. Sono i più sfortunati tra gli sfortunati, perché non una lacrima viene versata per loro. Sono le vittime di orribili massacri ma anche dell'indifferenza delle democrazie che esprimono solidarietà a singhiozzo, secondo le convenienze, paladine dei diritti umani a intermittenza. Uno spettacolo indecente di ipocrisia e di retorica magniloquente.
   Nessun senso di orrore, per dire, per le oltre trecento vittime dell'attentato terroristico di qualche giorno fa in Egitto contro i fedeli sufi di una moschea: qualche sbrigativo comunicato di condanna, e poi il silenzio. E i curdi? I curdi sono stati i nostri coraggiosi alleati per sconfiggere gli orrori dell'Isis. Ora non servono più, e per la legge crudele di una parodia di Realpolitik il loro destino viene affidato ai loro nuovi massacratori, anche qui nel silenzio imbarazzato. Del resto i curdi sono da sempre la vittima sacrificale per eccellenza da decimare e perseguitare nell'indifferenza delle democrazie, da quelli del Kurdistan turco (nella Turchia in cui è ancora proibito parlare del massacro degli armeni) alla popolazione gasata da Saddam Hussein quando Saddam, il tiranno dell'Iraq, non era ancora il pericolo numero uno.
   Ma è solo il gioco macabro della sorte a determinare come e quanto l'opinione pubblica mondiale debba interessarsi a qualche persecuzione? L'interesse per la sorte delle donne yazide rapite e stuprare in massa dai feroci guerrieri dello Stato islamico è stato mediamente molto tiepido. Un popolo chiamato «Uiguri» è pressoché sconosciuto e pochissimi sanno delle deportazioni a centinaia di migliaia di esseri umani imposte dalla Cina a prezzo di immani repressioni. Del massacro del popolo dei Montagnard da parte del regime comunista del Vietnam si è occupato in Italia soltanto Marco Pannella, anche qui, come al solito, nell'indifferenza generale. Non è lecito neanche parlare del milione di morti provocato nei decenni dall'occupazione cinese del Tibet, i monasteri devastati, i monaci torturati, il Dalai Lama che non deve essere ricevuto nelle cancellerie occidentali per non mettere a repentaglio le buone relazioni economiche con Pechino.
   A proposito del Darfur, malgrado lo sforzo di qualche star di Hollywood, nessuno si ricorda dei 400 mila morti e degli altri due milioni e mezzo di profughi causati dalla ferocia dei «janjawid», le milizie musulmane spalleggiate e foraggiate dal Sudan, di cui nessuno chiede l'isolamento internazionale. Isolamento che invece viene faziosamente invocato per lo Stato di Israele con una lettura distorta e faziosa del dramma palestinese, senza mai peraltro accennare agli oltre seicentomila ebrei cacciati dai Paesi arabi dopo la nascita dello Stato di Israele e da quest'ultimo accolti a braccia aperte, a differenza dei profughi palestinesi che hanno avuto vita durissima nei Paesi arabi.
   Oggi il dramma dei Rohingya viene messo alla luce dopo la visita del Papa. Domani sarà di nuovo buio. Il buio, il voltarsi dall'altra parte, lo sprofondare nell'ipocrisia occidentale, senza vergogna.

(Corriere della Sera, 29 novembre 2017)


«... il Papa ... per ragioni diplomatiche... nell'allusione papale...»


Israele: il 60% degli arabi israeliani ha fiducia nelle istituzioni statali

di Paolo Castellano

Il 22 novembre sono stati diffusi pubblicamente i risultati di un sondaggio sugli arabi israeliani condotto da importanti e autorevoli istituzioni d'Israele. Come ha riportato il Jerusalem Post, i risultati dell'indagine hanno prodotto degli esiti positivi sulla popolazione araba dello Stato ebraico. Ai cittadini arabi israeliani sono state poste una manciata di quesiti per sondare i loro pareri sulla nazione in cui risiedono e sulle sue istituzioni. Contrariamente ai pronostici, il 60% degli intervistati ha dichiarato di avere un'opinione favorevole di Israele, mentre il 37% ha invece detto di non essere favorevole.
   Il sondaggio è stato realizzato ad ottobre dal Konrad-Adenauer-Stiftung, un think-tank politico tedesco vicino all'Unione Cristiano Democratica, nell'ambito di un programma dedicato alla cooperazione tra arabi ed ebrei presso la sede del Dayan Center nell'università di Tel Aviv e da Keevon, un'azienda di ricerca, strategia e comunicazione. Per effettuare delle statistiche affidabili sono state raccolte 876 interviste a cittadini israeliani e 125 a residenti stabili della zona Est di Gerusalemme. L'intervista ha avuto un margine di errore del 2,25%. Il sondaggio, da un punto di vista religioso, dimostra che il 49% di coloro che si sono dichiarati musulmani ha un'opinione positiva dello stato rispetto al 48% che è invece avverso. Tra i cattolici intervistati, il 61% è favorevole allo stato rispetto al 33% che ha una visione negativa. Invece tra i Drusi, il 94% appoggia le istituzioni israeliane, mentre il 6% non la pensa così.
   Dal sondaggio però emerge la questione "razzismo". Il 47% degli intervistati ha detto di sentirsi "trattato iniquamente" in quanto cittadino arabo. La maggior parte del campione analizzato ha inoltre dichiarato che i cittadini arabi stanno subendo un'ingiusta distribuzione dei ricavi fiscali. Dal punto di vista di Michael Borchard, il direttore israeliano del Konrad-Adenauer-Stiftung, il risultato più significativo è quello relativo alla seguente domanda: "Quale termine ti descrive meglio?". Un ampio numero, il 28%, ha replicato "arabo israeliano". L'11% ha dichiarato "israeliano", il 13% si è definito "cittadino arabo di Israele", e il 2% ha detto "musulmano israeliano". Solo il 15% ha affermato "palestinese", rispetto al 4% che si identifica nel termine "palestinese in Israele", al 3% con "cittadino palestinese in Israele, e al 2% con "palestinese israeliano". L'80% degli intervistati ha però detto che preferirebbe identificarsi come "musulmano".
   Durante l'intervista è stato poi domandato agli intervistati di esprimere il loro grado di appartenenza allo Stato ebraico attraverso una scala di giudizio che va dal 1 al 10. Il 54% ha detto tra l'8 e il 10, il 17% tra il 5 e il 7, e infine il 35% tra l'1 e il 4. L'intervista ha poi rilevato che i cittadini arabi sono più interessati ai temi legati all'economia, al crimine e all'uguaglianza piuttosto che al problema palestinese. Alla domanda che chiedeva quale fosse la loro preoccupazione più grande, il 22% dei cittadini arabi ha indicato la sicurezza personale e il crimine; la stessa percentuale ha indicato il razzismo. Invece il 15% ha detto l'economia e il lavoro, mentre il 13% ha dichiarato di essere preoccupato dalla questione israelo-palestinese.

(Bet Magazine Mosaico, 28 novembre 2017)


La strana alleanza tra Putin e i sauditi per non aumentare la produzione

Ma l'Iran rema contro: dopo le sanzioni vuole recuperare terreno

di Giordano Stabile

Vladimir Putin e Mohammed bin Salam
La prima visita di un re dell'Arabia Saudita in Russia, il 5 ottobre, è stato un successo diplomatico di Vladimir Putin, quasi altrettanto importante del summit sulla Siria della scorsa settimana a Soci. Lo Zar ha l'ambizione di modellare il nuovo Medio Oriente, ma prima deve affrontare una questione più prosaica: il prezzo del petrolio. Per far ripartire l'economia e pareggiare il bilancio dello Stato ha bisogno di riportarlo a 70, meglio 80 dollari al barile. Sembrava un'impresa impossibile, tre anni fa, quando proprio i sauditi avevano aperto i rubinetti e il greggio era sceso fino a un minimo di 30 dollari a metà 2015. L'idea allora era quella di «ammazzare» l'estrazione di petrolio non convenzionale negli Stati Uniti, che ha costi fissi più alti. Ma alla fine a essere azzoppate sono state invece Russia e Arabia Saudita. E ne è nata un'inedita alleanza.
  Re Salman è stato accolto con il massimo sfarzo fra gli ori del Cremlino, che rivaleggiano con quelli dei palazzi di Riad (anche se molto più antichi). Sullo scacchiere geopolitico, però, Mosca e Riad giocano su due lati opposti: Putin sostiene l'Iran e Assad, i nemici acerrimi dei sauditi. In affari le cose sono diverse. Come la Russia, l'Arabia saudita ha bisogno di far salire il prezzo del greggio, e il suo punto di «pareggio» è stimato addirittura a 100 dollari al barile. L'anno scorso il deficit nei conti dello Stato ha toccato i110 miliardi di dollari, pari a un astronomico 17 per cento del Pil. Già lo scorso marzo Arabia Saudita, Emirati arabi uniti e Russia avevano deciso di spingere per tagli più drastici nella produzione. La volontà è stata ribadita a Mosca e ora di nuovo da Riad e Dubai. E sembra aver convinto, per adesso, i mercati. Il Brent oltre i 60 dollari non si vedeva da due anni e mezzo.

 Chi spinge in alto i prezzi
  Ma ci sono altri fattori nella ripresa dei prezzi. Prima di tutto geopolitici. La stretta contro la corruzione voluta dal principe ereditario Mohammed bin Salam, anche se ha come obiettivo la modernizzazione dell'economia saudita, ha fatto salire la percezione di rischio nel più grande esportatore di petrolio al mondo. Bin Salman ha anche lanciato un piano di riforme, la Vision 2030, che punta a rendere il Regno meno dipendente dal greggio ma ha bisogno di forti investimenti iniziali per sviluppare il settore del turismo e dell'industria militare. E quindi, paradossalmente, di più introiti dagli idrocarburi. L'idea è che quindi i sauditi riusciranno a imporre disciplina ai Paesi Opec.
  Un secondo fattore geopolitico è la crisi fra la Regione autonoma del Kurdistan e il governo centrale iracheno. Il blitz di metà ottobre delle forze federali ha riportato sotto il controllo di Baghdad i pozzi di Kirkuk, con una produzione stimata in 600 mila barili. Quel greggio veniva però esportato dal Kurdistan direttamente in Turchia e poi in Europa. Ora l'Iraq sta cercando di dirottarlo verso Sud, al porto di Bassora sul Golfo Persico. Allo studio c'è anche un oleodotto verso Iran, che potrebbe poi provvedere alle esportazioni.
  In ogni caso lo scontro su Kirkuk ha fermato la continua crescita della produzione irachena, che ha battuto tutti i record a partire dal 2016, fino a circa 4,5 milioni di barili al giorno. L'Opec non poteva imporre sacrifici a un Paese in guerra con l'Isis e distrutto da 15anni di conflitti settari. Ci ha pensato la crisi con i curdi a provvedere a tagli «non programmati». Fuori dalla regione mediorientale, ma dentro l'Opec, anche il Venezuela, con la crisi finanziaria che coinvolge la compagnia nazionale Pdvsa, è un fattore che spinge in alto le quotazioni, perché non si vede come possa incrementare le estrazioni nel breve periodo.

 Chi spinge in basso
  Alla fine, confrontando agosto 2016 su agosto 2017, si vede che l'Opec ha ridotto le sue estrazioni da 32,54 a 32,36 milioni di barili al giorno (l'Arabia Saudita da 10,4 a 10). Un taglio effettivo di 180 mila barili: non molto, ma i dati definitivi di ottobre dovrebbero mostrare una discesa più marcata. Nello stesso periodo il Nord America ha incrementato la produzione di 570 mila barili, a 19,91 milioni al giorno. Lo shale oil statunitense e le sabbie bituminose canadesi non sono andate in crisi come speravano russi e sauditi, ma non riescono a soddisfare tutto il surplus di domanda mondiale, oltre un milione di barili in più ogni anno.
  Due Paesi potrebbero aiutare i consumatori. Uno è la Libia. In una nazione allo sbando è emersa una figura di leadership. Non è un politico o un generale, ma il presidente della compagnia petrolifera nazionale, Mustafa Sanalla. In mezzo alla guerra civile fra Tripoli e la Cirenaica, fra attentati agli oleodotti di tribù del deserto e minacce dell'Isis, Sanalla ha fatto crescere la produzione da un minimo di 390 mila barili nel 2016 a 962 mila di ottobre 2017. Un miracolo. L'altro Paese che vuole aumentare l'offerta, a costo di far scendere i prezzi, è l'Iran. Uscito da un decennio di sanzioni ed esportazioni dimezzate, Teheran intende recuperare quote di mercato. Ha però bisogno di grossi investimenti per rimettere in efficienza gli impianti. Ci vorrà tempo.

(La Stampa, 28 novembre 2017)


Il cuore verde di Israele: Tel Aviv capitale mondiale dei vegani

Con i suoi quattrocento locali a tema tra bar, bistrot - e non mancano anche negozi di scarpe - oltre a una produzione di frutta e verdura da record, la città israeliana è considerata la regina mondiale del cruelty free.

di Irene Maria Scalise

 
Uno dei piatti del chiosco Anastasia
 
I ghiaccioli vegani del Caffè Kaymak
 
Uno dei piatti vegani del bistro Nanuchka
 
Uno dei dessert del negozio-bistrot Neroli
Adorata dai ragazzi di tutto il mondo, città di riferimento del popolo gay, inserita nella World Heritage List dell'Unesco e classificata da Lonely Planet come una delle tre metropoli più belle del mondo, Tel Aviv è considerata anche la capitale mondiale del veganesimo. Sono infatti più del 5% quelli che qui, nel piatto, non metterebbero mai pesce né carne. E se l'autorevole Time racconta di un'estate 2017 con un boom delle prenotazioni del 148% rispetto all'anno precedente e The Daily Meal, sito americano bibbia dei gourmet, l'ha incoronata meta preferita dai viaggiatori vegan, c'è da scommettere che sempre più turisti bio, ecofriendly ed animalisti, la sceglieranno ancora per la varietà di ristoranti dall'anima cruelty free.
  Come mai più di quattrocento ristoranti sono vegan friendly? Le ragioni sono molte, ma sicuramente ha il suo peso il fatto che Israele è infatti uno dei principali paesi produttori di frutta e verdura e il secondo fornitore di ortaggi dell'Unione europea dopo il Marocco. Di più. Ogni anno esporta oltre 180 mila tonnellate di succhi di frutta e vegetali non fermentati per un fatturato che ammonta a circa trecento milioni di euro. È facile capire perché il nuovo mantra di Tel Aviv sembra essere: l'orto in tavola. E lo dimostrano indirizzi come il ristorante vegetariano Meshek Barzilay, nel bel quartiere Neve Tzedek, che propone esclusivamente cibo biologico. "Quando mio padre è morto, nel 1998 - spiega il proprietario Merav Barzilay - ho deciso di fare un cambiamento radicale e lasciare il mio lavoro in un'agenzia di pubblicità per creare un piccolo caffè che vendesse prodotti bio, accanto a un orto coltivato seguendo metodi rigorosamente naturali. Nel 2013 ci siamo trasferiti nella nuova sede, conservando la filosofia degli alimenti sani e degli ingredienti bio. Questo permette ai nostri clienti di mangiare un pomodoro fresco lo stesso giorno che è stato raccolto nel campo".
  Ma anche ai ristoratori che non hanno la fortuna di avere e coltivare un orto personale, non è difficile garantire cibo freschissimo grazie ai numerosi mercati cittadini. Se il piccolo Levinsky Market è specializzato in frutta secca e noci, Carmel Market è considerato il più grande mercato di frutta e ortaggi di Tel Aviv. La sede principale è Carmel Street (il mercato è aperto tutti i giorni tranne il sabato) e fornisce quotidianamente la materia prima usata dal Cafè Kaymak, un minuscolo caffè vegetariano dal menù sorprendentemente vario. Ingredienti ottimi sono anche quelli usati da Trenat, caffè vegano che ha come specialità un morbido pane in cui avvolgere lenticchie, radici, barbabietole. Nanuchka è da molti considerato il miglior locale vegano di Tel Aviv. Oltre ai sapori e ai colori il suo segreto è l'atmosfera: ci sono pavimenti antichi, tavoli di design, stoviglie dipinte e un'illuminazione calda. In questo paradiso green non manca il classico salotto, un grande giardino coperto in inverno con una tenda nomade e un bar per feste private.
  Tel Aviv è nota per essere una città che non si ferma mai. Andarci in questo periodo può essere un'ottima idea. La spiaggia, che si estende per quattordici chilometri, è frequentata anche in inverno grazie al clima mite. Molto apprezzata dai surfisti, è costantemente attrezzata con ombrelloni e lettini. Sempre in spiaggia, è attivo un sistema comodo per fruire dei servizi: si paga un biglietto automatico in box simili a quelli della metropolitana (selezionando con un pulsante il numero di sdraio e ombrelloni desiderato) e si sceglie la postazione preferita. Durante la giornata i controllori-bagnini verificano se i bagnanti hanno il biglietto. Il prezzo? Economicissimo: l'equivalente di euro per una sdraio e di uno e mezzo per gli ombrelloni. Tra le spiagge più note c'è la Hilton Beach, che mette a disposizione libri in varie lingue nella fornitissima biblioteca da spiaggia. La Gordon- Frishman è conosciuta per i bar che offrono aperitivi al tramonto, dj set, campi da pallavolo e una piscina enorme recentemente rinnovata. Passeggiare sul lungomare è bellissimo, i ragazzi giocano a racchettoni con l'energia degna di una finale mondiale.
  Racchettoni a parte, il popolo di Tel Aviv è salutista e sportivo. Numerosissime le scuole di yoga aperte dal mattino presto e gestite da maestri noti a livello internazionale. Le bici, per pedalate indimenticabili lungo le piste ciclabili, possono essere affittate ovunque usando la carta di credito. E dopo l'allenamento la scelta è naturalmente vegana: tantissimi i succhi di frutta, le centrifughe e gli estratti venduti nei Kiosque con mix di frutta e verdura freschissima. I chioschi, una vera tradizione locale, sono spesso personalizzati secondo le tendenze del momento e alcuni sono stati promossi a veri e propri ristoranti. Tra le Ben Gurion e Dizengoff Street c'è Tamara, il regno della frutta e della verdura spremute, centrifugate e frullate. Cosa si può bere? Dal melograno al mango, dagli agrumi alle banane, dal sedano allo zenzero. E naturalmente il dattero, tamar in ebraico, che dà il nome al chiosco. Anastasia, in Frishman Street, è un bistrot vegano che offre anche la possibilità di acquistare prodotti bio.
  Ma non tutti sono appassionati di ristoranti. Per loro ha aperto Green Wave Market, il primo supermercato vegano all'interno di Carmel Market. Qui specializzati in alimenti naturali, sono Shorashim Store e Neroli, paradiso di succhi salutisti, verdure bio e integratori alimentari. E per gli appassionati di gelato vegan? L'indirizzo migliore a Tel Aviv è Gela, in Levinsky street. Non solo. Sempre più designer di moda offrono prodotti integralmente vegani. Tra gli altri Roni Kantor, specializzato in abbigliamento vintage, e Shani Bar, che ha un'ampia scelta di scarpe.
  Per dormire, infine, ovviamente tantissimi indirizzi. Meglio i boutique hotel, se non si amano gli albergoni che affacciano sulla spiaggia. Un'ottima alternativa, soprattutto per chi decide di trascorrere un periodo più lungo, sono le case. La catena Sweet Inn fondata nel 2014 per soddisfare questa nuova ondata di richieste garantisce i servizi di un hotel a 5 stelle. Nata dall'idea dell'imprenditore israeliano Paul Besnainou, che ha scelto di prendere in locazione gli appartamenti dai proprietari e arredarli con scelti mobili e arredi di design per inserirli nel circuito degli affitti brevi.


E' proprio vero che Israele non vuole farsi mancare niente. Nel bene e nel male.

(la Repubblica, 28 novembre 2017)


Festival Nessiah: mostra su Emanuele Luzzati a Pisa

PISA - La leggerezza, la semplicità, la 'magia dei colori' di Emanuele Luzzati. Si è aperta nella Gipsoteca di Arte Antica in piazza San Paolo all'Orto la mostra dedicata al grande artista figura centrale dell'ebraismo italiano: è proprio il Maestro Luzzati ad essere al centro della XXI edizione del Festival Nessiah, organizzato dalla Comunità Ebraica di Pisa. Domenica taglio del nastro per la doppia esposizione delle grandi sagome - scenograficamente 'mescolate' ai gessi della Gipsoteca - e dei disegni realizzati per "Il Pentolino Magico", libro che racconta la storia dell'umanità attraverso il cibo, e primo partecipatissimo concerto della rassegna con Yulzari's tres vozes.
Le due mostre in Gipsoteca sono visitabili fino al 17 dicembre, come le altre tre mostre in corso: le maquette teatrali nella Sala delle Grottesce di Palazzo Blu, i bozzetti del film Jerusalem alla sala Arsenale di vicolo Scaramucci e i costumi teatrali nella sala 2 di via San Martino. E' una sorta di caccia al tesoro per la città, alla ricerca dei segni lasciati da Luzzati.

(Pisa Today, 28 novembre 2017)'


Una Beslan infinita

Per l'islam radicale i figli di sufi, ebrei, yazidi e cristiani sono armenti da dare in olocausto al jihad

di Giulio Meotti

ROMA - La strage alla moschea sufi di al Rawda, nel Sinai egiziano, col suo numero impressionante di vittime, 305, è stata una sorta di Oradour-sur-Glane islamista. dal nome della cittadina francese dove i nazisti realizzarono in una chiesa uno dei più grandi massacri della Seconda guerra mondiale. Ma c'è un numero ancora più impressionante: i 27 bambini sufi uccisi a sangue freddo dai fondamentalisti islamici. Qualche giorno prima della strage nel Sinai, nel Sinjar iracheno, è stata scoperta un'altra fossa comune con i corpi di 73 yazidi, molte donne e bambini. Quindici i bambini uccisi nell'attentato di al Shabaab di poche settimane fa a Mogadiscio.
   Il terrorismo islamico ha compiuto un salto di qualità impressionante. La mattanza dei bambini ora è giustificata persino teologicamente. Poche settimane fa, un manifesto dell'Isis con la Tour Eiffel ha indicato nei bambini un obiettivo delle stragi: "Uccideremo i vostri figli". Un numero di Rumiyah, il magazine di propaganda del Califfato, ha legittimato l'uccisione dei bambini. Lo scorso 15 aprile, ad Aleppo, un kamikaze fece strage di 126 persone, fra cui 60 bambini. Nel giorno della Pasqua di un anno fa, in un parco a Lahore, 30 bambini cristiani furono assassinati da un attentatore suicida. Altri 132 bambini vennero uccisi a Peshawar, sempre in Pakistan. Ci sono i bambini palestinesi usati come scudi umani da Hamas.
   A Jabaliya, nella Striscia di Gaza, sotto le macerie di un bombardamento israeliano furono estratti il cadavere di Nizar Rayan, carismatico e letale leader islamista, assieme a quattro mogli e due figli. Rayan scelse il martirio anche per loro, nonostante sapesse del raid. Rayan aveva già inviato un altro figlio in missione suicida contro una colonia ebraica. Contro i bambini israeliani falcidiati a centinaia negli autobus e nelle pizzerie, come Sbarro a Gerusalemme. La loro morte è stata sanzionata da eminenti imam come Yusuf al Qaradawi, il guru della Fratellanza musulmana. E gli islamisti hanno ucciso bambini ebrei in Europa per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale (a Roma Stefano Taché e altri tre a Tolosa).
   Il massacro a Beslan nel 2004 il primo giorno di scuola è stato il punto di svolta, con la morte di 156 bambini. Un anno fa, a Minya, in Egitto, gli islamisti hanno ucciso dieci bambini cristiani copti su ventinove vittime. Il commando di islamisti sali sui pullman finendo chiunque desse segni di vita, bambini compresi. In Iraq, i gruppi islamisti hanno dispensato morte a migliaia di bambini, spesso presentandosi con caramelle e cioccolatini in mano. Nella strage di Nizza, dieci bambini rimasero uccisi e altri quaranta feriti. Poi la bomba a Manchester, dove venne uccisa Saffie Rose di otto anni. La guerra islamista contro l'occidente è diventata anche una guerra contro i bambini occidentali. Si è saldata la "logica algerina" del massacro di bambini con quella iraniana che li ha usati come vettori di morte durante la guerra contro Saddam Hussein, quando l'ayatollah Khomeini importò mezzo milione di chiavette da Taiwan e, prima di ogni missione suicida, ne diede a ciascun bambino. Avrebbero loro spalancato le porte del paradiso. Per l'islam fondamentalista, i bambini degli "infedeli" sono armenti da offrire in olocausto. E a migliaia - musulmani, ebrei, cristiani, sufi, yazidi e altri - sono ora offerti in sacrificio al dio del jihad.

(Il Foglio, 28 novembre 2017)


Israele: Italia selezionata per sviluppo titoli studio paese

L'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv
Il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca italiano (Miur) è stato selezionato dal Ministero dell'Educazione israeliano come ente che dovrà sviluppare il 'Quadro nazionale dei titoli di studio' in Israele.
Il progetto - che ha una durata di due anni con un valore complessivo di 1.800.000 euro finanziati dall'Ue ed è parte del Programma Twinning della Commissione Europea - è stato discusso con la controparte israeliana da Federico Cinquepalmi, Dirigente dell'ufficio per internazionalizzazione della formazione superiore del Miur. L'Italia, anche grazie al supporto di questa Ambasciata, ha prevalso in una selezione di altri 5 paesi europei: Croazia, Estonia, Finlandia, Germania, Polonia.
   Israele è uno dei paesi chiave "per le politiche di internazionalizzazione della formazione superiore Italiana, come indicato nel documento pubblicato congiuntamente dai Ministri dell'istruzione e degli esteri dedicato alla 'Strategia per la promozione all'estero della formazione superiore italiana 2017-2020'". "Nel settore della formazione superiore - dichiara la ministra Fedeli - l'Italia è una eccellenza riconosciuta a livello mondiale sia nello sviluppo, sia nell'applicazione delle politiche e degli strumenti collegati all'internazionalizzazione della formazione superiore e possiede gli esperti di punta in tale settore". L'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti ha sottolineato che "l'Italia risulta essere leader nell'affiancamento e nel supporto istituzionale allo sviluppo delle politiche collegate all'istruzione e questo successo è frutto di una intensa collaborazione a livello istituzionale, di relazioni consolidate a livello internazionale e di una chiara strategia di sistema, che è stata riconosciuta anche da un partner strategico e tecnologicamente avanzato quale è Israele ".
   Questo Twinning avrà un ruolo fondamentale nelle politiche di apertura del processo di Bologna verso il Mediterraneo, così come indicato dall'Italia nel suo programma per il segretariato della Europea Higher Education Area, responsabilità del Miur dal 2018 al 2020 fino all'organizzazione della riunione dei 48 Ministri di tale processo internazionale, conferenza che avrà luogo in Italia nel giugno del 2020.

(Ambasciata d'Italia, Tel Aviv, 24 novembre 2017)


Un viaggio tra le opere del Tel Aviv Museum of Art

Cari amici, oggi vi porto a fare una breve gita al Tel Aviv Museum of Art (Tama). Il museo venne concepito e fondato nel 1932 dal primo sindaco di Tel Aviv, Meir Dizengoff - al quale è dedicato uno dei corsi principale della città - nella sua residenza privata di Rothschild Boulevard.
Successivamente, cambiò location per espandersi significativamente. La collezione del museo, che all'inizio comprendeva soltanto una dozzina di opere, crebbe in modo costante e regolare, in gran parte grazie a delle generose donazioni di collezionisti e artisti e all'impegno di comitati internazionali e amici del museo, che è suddiviso in tre edifici....

(Vivi Israele, 27 novembre 2017)


Il ministro degli Esteri ucraino in visita ufficiale in Israele

 
Pavlo Klimkin e Benjamin Netanyahu
KIEV - Il ministro ucraino Pavlo Klimkin, che si trova in Israele per una visita di due giorni che includerà un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha sottolineato i legami storici esistenti tra i popoli dei due paesi. "Il ministro degli Esteri ha ringraziato il presidente per la calorosa accoglienza che ha ricevuto ed ha sottolineato che la coesistenza degli ebrei e degli ucraini nel corso dei secoli ha formato forti legami tra i popoli", si legge inoltre nel comunicato. Il presidente Rivlin l'anno scorso aveva suscitato alcune polemiche quando, nel proprio discorso davanti al parlamento ucraino, aveva dichiarato che la milizia popolare ucraina è stata complice delle atrocità naziste della Seconda guerra mondiale contro gli ebrei.

(Agenzia Nova, 27 novembre 2017)


Resta sulla carta l'intesa tra Hamas e Al Fatah

A pochi giorni dalla scadenza del primo dicembre, data indicata per la piena realizzazione dell'accordo di riconciliazione tra Hamas e Al Fatah, l'Autorità palestinese (Ap) controlla solo il cinque per cento della striscia di Gaza. Lo ha reso noto in un'intervista televisiva il ministro palestinese degli Affari civili Hussein Al Sheikh.
   Il passaggio di consegne era stato firmato dalle due fazioni al Cairo il mese scorso e prevede che tra quattro giorni termini, dopo dieci anni, il controllo dell'enclave palestinese da parte di Hamas. Le procedure sembrano però in ritardo e inoltre rimane aperto il problema della presenza delle milizie armate di Hamas nella striscia. In effetti, quello della smilitarizzazione di Hamas è un punto molto delicato e controverso del negoziato, sottolineano gli analisti.
   I ritardi nell'attuazione dell'accordo potrebbero avere gravi conseguenze. Il mancato controllo dell'Ap si concretizza nell'impossibilità di gestire gli aspetti «finanziari, amministrativi e di sicurezza» ha rilevato Al Sheikh. Questi ha inoltre denunciato che Hamas non avrebbe permesso ai funzionari dei ministeri dell'Ap di insediarsi nei loro vecchi uffici a Gaza e che migliaia di impiegati governativi al lavoro prima dell'assunzione del potere da parte di Hamas nel giugno del 2006 ancora non sono tornati ai loro posti.
   Il ministro palestinese ha anche specificato che l'Ap non è stata ancora in grado di attivare un trasparente sistema di riscossione delle tasse e ha anche criticato la gestione attuale dei valichi di frontiera della striscia.

(L'Osservatore Romano, 27 novembre 2017)


Viaggiare con Kuwait Airways? Se sei israeliano non puoi

di Barbara Pontecorvo

La distanza in linea d'aria dal centro geografico del Kuwait al centro geografico di Israele è di 1.229 km, colmabili con poco più di un'ora di volo aereo. Sono due Stati mediorientali vicini, con caratteristiche climatiche simili. Le differenze però sono marcate. Nella pagina ufficiale dello Stato del Kuwait, ad esempio, si spiega che secondo la legge islamica sono considerati crimini l'apostasia, l'assassinio, l'adulterio, la fornicazione, l'omosessualità e il furto. Viceversa, in Israele non sono reato la fornicazione, l'adulterio, l'apostasia e l'omosessualità. Le leggi penali israeliane sono laiche, quelle del Kuwait sono religiose.
   Il primo è uno Stato laico, il secondo teocratico. Fin qui, semplici differenze. Ma perché rimarcarle? La scorsa estate, un cittadino israeliano ha cercato di viaggiare da Francoforte a Bangkok con un aereo della Kuwait Airways, ma gli è stato impedito, a causa della sua nazionalità. Negato l'imbarco. Ha fatto causa in Germania, ma l'ha persa, perché il tribunale di Francoforte ha statuito che la legge tedesca non punisce la discriminazione basata sulla nazionalità. Tale discriminazione è però espressamente vietata dall'articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, cui la Germania appartiene, che però si applica soltanto laddove il diritto europeo è chiamato in causa.
   Il giudice tedesco ha evidentemente ritenuto di non richiamarlo, anche se - verrebbe da dire - il richiamo a un diritto fondamentale non sarebbe nemmeno da richiamare. Il giudice, poi, avrebbe potuto gettare un'occhiata al protocollo numero 12 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, laddove prevede all'articolo 1 un divieto generale di discriminazione, stabilendo che "il godimento di ogni diritto previsto dalla legge deve essere assicurato, senza discriminazione alcuna, fondata in particolare su sesso, razza, colore, lingua, religione, opinioni politiche o di altro genere. Sull'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione. Nulla, nessun richiamo nemmeno ai diritti umani.
   Il sindaco di Francoforte ha giustamente condannato l'accadimento, prendendo le distanze dalla propria Corte di Giustizia, affermando che una compagnia aerea che pratica la discriminazione e l'antisemitismo rifiutando un passeggero israeliano, non dovrebbe poter atterrare a Francoforte. Confida, anche lui, nel ricorso proposto dal passeggero negato.
   Comunque andrà il giudizio intrapreso, resterà la vergogna di un Paese liberato a caro prezzo dall'occupazione irachena, che ripaga con l'oscurantismo più bieco, vietando a chi ha la colpa di essere israeliano l'accesso ai propri aerei. Ah, dimenticavo, in Israele ci sarebbe l'apartheid.

(il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2017)


Politica, calcio e famiglie. La guerra dello Shabbat che sta spaccando Israele

L'ultimo caso: via il ministro ultraortodosso contrario al lavoro di sabato, giorno sacro

di Gaia Cesare

Raccolta firme
Petizione di 50 calciatori che chiedono di restare a casa con i parenti
A Gerusalemme
Battaglia nella città santa anche per l'apertura di negozi e ristoranti

 
Yaakov Litzman
Dopo una settimana di tira e molla, la guerra dello Shabbat lascia a casa il ministro della Salute Yaakov Litzman e minaccia la sopravvivenza dell'esecutivo di Benjamin Netanyahu. Membro di Ebraismo unito per la Torah, uno dei due partiti ultraortodossi del governo di coalizione israeliano, Litzman volta le spalle al primo ministro dopo la dura polemica sui lavori svolti durante lo Shabbat, il sabato di riposo che è uno dei punti fondamentali dell'ebraismo. Il dovere di astenersi da varie attività, tra cui l'impiego di macchinari, veicoli motorizzati, computer, ma anche semplicemente di dedicarsi alla scrittura, è stato interpretato alla lettera e non poteva essere altrimenti visto che il ministro è entrato per la prima volta, con il suo partito ultraortodosso, nell'esecutivo facendosi portavoce dell'ala che segue più alla lettera le leggi della Torah. Per giorni, Netanyahu lo ha invitato a restare ma Litzman ha chiuso la partita domenica su una questione che considera non negoziabile.
   Al centro del braccio di ferro ci sono i lavori di riparazione della ferrovia, svolti da alcuni operai ebrei proprio di sabato, anche per facilitare il rientro dai week-end in famiglia dei giovani militari in servizio. «Lo Shabbat è importante per il governo, come lo sono i bisogni di tutti i cittadini di Israele, compresi
quelli per un servizio di trasporti sicuro e continuativo» ha detto il premier dopo l'addio di Litzman. Il partito ultraortodosso sostiene ufficialmente di non voler lasciare la coalizione ma i timori che la mossa del ministro abbia ripercussioni sulla stabilità del governo non mancano.
   Al di là di come si evolverà la crisi politica, il casus belli è solo l'ultimo di una serie di scontri sullo Shabbat che da tempo dividono la componente laica della popolazione israeliana da quella più strettamente religiosa contraria a qualsiasi attività nel sabato sacro. Pure il calcio è entrato nella partita dopo che il campionato stava per bloccarsi - era il 2015 - a causa della polemica sul riposo ebraico. Allora intervenne il governo, solo verbalmente, chiarendo che il divieto di lavorare esclude i calciatori. Ma la polemica si riapre spesso. Solo il mese scorso, il centrocampista di serie A, Hen Ezra, ha firmato una petizione con altri 50 fra giocatori e allenatori, chiedendo a Netanyahu di non giocare durante lo Shabbat per poter trascorrere la giornata con le proprie famiglie.
   Proprio nelle ore in cui Litzman dava le sue dimissioni, il Comitato ministeriale incaricato di approvare i disegni di legge prima del voto in Parlamento, cancellava il dibattito su un provvedimento che avrebbe impedito ai negozi di alimentari di rimanere aperti il sabato. Una misura per annullare la decisione presa di recente dall'Alta Corte di Giustizia e che invece ha concesso a 165 negozi di Tel Aviv l'apertura nello Shabbat. Le due città sono il simbolo delle due anime del Paese, quella più religiosa e quella secolarista, che ci tiene a difendere le proprie libertà da condizionamenti religiosi.
   Ma è a Gerusalemme, non a caso abitata per un terzo da ebrei ortodossi, che la guerra dello Shabbat si sta combattendo in maniera più evidente. Nei quartieri abitati dalle frange più strettamente religiose, alcuni abitanti hanno costruito barriere metalliche per impedire la circolazione delle auto nel giorno sacro. Dall'altra parte, invece, c'è un gruppo di cittadini che si batte per ottenere un servizio di mini-bus attivo dal venerdì sera nella stazione ferroviaria della città e un piccolo centro commerciale disponibile per i passeggeri fino al giorno successivo. Nella guerra è finito inevitabilmente anche il sindaco, Nik Barkat, accusato di strizzare l'occhio agli ultraortodossi (il vice sindaco Yitzhak Pindrus è anche lui membro di Ebraismo Unito per la Torah) e di aver imposto, per compensare l' apertura di un cinema multisala il sabato, la chiusura di una serie di mini-market e altre attività durante lo Shabbat. Prima ancora, la battaglia contro la dissacrazione dello Shabbat ha toccato pure il bike sharing, il servizio di noleggio biciclette. «Faremo di tutto per impedirlo», disse il presidente di Torah Unita Eliezer Rauchberger. A Tel Aviv, le due ruote gratis sono uno dei servizi di maggior successo.

(il Giornale, 27 novembre 2017)


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Netanyahu chiude la "crisi dello shabbat"

Intesa raggiunta dopo le dimissioni di Katz. Il premier: "La coalizione è forte e stabile"

di Edith Driscoll

 
"La coalizione è forte e stabile, continueremo a lavorare per i cittadini di Israele". Benjamin Netanyahu chiude così la crisi di governo innescata dalle dimissioni del ministro della Sanità, Yaacov Litzman, che ha lasciato l'esecutivo dopo la polemica sul lavoro nelle ferrovie pubbliche durante lo shabbat.

 Intesa
  L'accordo - raggiunto la notte scorsa con i partiti religiosi di Shas e Torah Unita - è basato, secondo i media, sulla volontà di approvare leggi che permettano al ministro dei trasporti Yisrael Katz di "tenere in conto le tradizioni ebraiche quando autorizzerà i lavori nelle ferrovie". Inoltre, gran parte dei supermarket - secondo la richiesta dello Shas - resteranno chiusi nel paese durante il riposo sabbatico, tranne che a Tel Aviv. Infine, una delle leggi che dovranno essere approvate consentirà che anche un viceministro possa guidare da solo un dicastero.

 Polemica
  Katz, in ogni caso, resta sui suoi passi. A nulla sono valsi i tentativi di conciliazione messi in piedi dal premier e dallo stesso ministro. Questi ha ricordato che, in punta di dottrina, si può violare lo shabbat se è in pericolo la vita e che il nuovo sistema di segnalazione delle ferrovie serve proprio a salvare vite umane. A complicare ulteriormente le cose ci aveva pensato il ministro degli Interni, Arie Deri, ebreo ortodosso anche lui, non partecipando alla riunione in cui il governo avrebbe dovuto esaminare la legge sull'apertura di alcuni supermercati durante il sabato. Una misura contestata dai ministri religiosi, irritati dalla recente decisione della Corte Suprema di respingere una petizione sulla chiusura degli esercizi. Il governo Netanyahu si regge infatti su una coalizione di destra che allo stato attuale dispone di 67 seggi su 120. Se i due partiti religiosi (Shas e Torah Unita), 13 seggi insieme, si sfilassero dalla maggioranza, l'esecutivo resterebbe con 54 seggi, ben al di sotto della fatidica soglia di 60 più uno.

(In Terris, 27 novembre 2017)


Noemi Di Segni: "Sì ai due Stati, ma i palestinesi riconoscano a Israele il diritto ad esistere"

"Nelle loro cartine lo Stato ebraico neppure c'è. Ad Abu Mazen dico: le due realtà devono riconoscersi nel nome della pace globale".

di Gabriele Isman

ROMA - «Da tempo noi sosteniamo l'idea che in quella regione sia giusto avere due Stati autonomi che vivano in sicurezza». Noemi Segni è la presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane.
«Il tema, però, è che per arrivare a questa soluzione occorre prima un riconoscimento del diritto a esistere di Israele da parte palestinese» dice dopo aver letto l'intervista di Repubblica ad Abu Mazen, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, che si augura che «l'Italia riconosca lo Stato palestinese secondo le raccomandazioni espresse dal Parlamento tre anni fa».

- Presidente Di Segni, questo per lei è possibile?
  «Sì, ma vi sono delle precondizioni come il riconoscimento di Israele da parte palestinese a voce alta: nelle loro cartine geografiche Israele neppure c'è, ma invece le due realtà devono trattare senza intrusioni di altri Paesi e arrivare a riconoscersi nel nome della pace globale. L'Italia non può arrivare a un risultato prima che vi siano altri passaggi. Per il nostro Paese, ma anche per Israele, nel rapportarsi a quel tema c'è anche un altro problema: sappiamo che nel mondo palestinese vi sono divisioni interne, e quindi sarebbe utile sapere con quale parte si dialoga, sperando di parlare con chi si riconosce nei valori di convivenza e pace. In questi giorni in Italia ne abbiamo una dimostrazione diretta».

- A cosa si riferisce?
  «In questi giorni è stata invitata a parlare nel nostro Paese Leila Khaled (membro del Fronte Popolare per la liberazione della Palestina e prima donna, nel 1969, a partecipare a un dirottamento aereo, ndr). Io vorrei sapere cosa dice questa signora nei suoi interventi pubblici nel nostro Paese, mentre so per certo che da un oratore israeliano è difficile che escano parole d'odio viscerale e di proselitismo che in tempi come questi possono anche fomentare le tante teste calde che si sfogano nel web. Ecco, anche questo può essere un esempio di stile diverso e di maturità nel presentare la questione israelo-palestinese e la volontà di trattare per arrivare a una piena e sicura convivenza».

- La posizione sua e dell'Ucei per la formula "Due popoli due stati" è chiara. Ma pensa che sia davvero l'unica posizione degli ebrei italiani?
  «No, sappiamo bene che ci sono nostri correligionari italiani che di Palestina non vogliono nemmeno sentir parlare, come vi sono i favorevoli a qualsiasi accordo. Ma tutti gli ebrei aspirano alla pace e chiedono agli altri Paesi di restare vigili, di aprire gli occhi sul tema del Medio Oriente. Quindi dobbiamo essere pragmatici. Quanto avviene in Medio Oriente si riverbera necessariamente in Europa. La discussione quindi non è più dire sì o no alla Palestina, ma saper incorniciare il conflitto israelo-palestinese in un quadro più ampio. La preoccupazione e il vero disagio sono per la miopia dell'interlocutore europeo nel dimenticare che quanto accade in quel quadrante oggi più che mai può espandersi in scala più ampia anche nel nostro Continente. E anche le organizzazioni internazionali come l'Onu non devono lasciarsi strumentalizzare: l'Italia, nel riconoscimento palestinese da parte dell'Unesco, con le sue critiche ha assunto una posizione coraggiosa».

(la Repubblica, 27 novembre 2017)


Azienda israeliana sviluppa antibiotico innovativo per le infezioni ossee

 
PolyPid sta sviluppando un antibiotico a rilascio graduale per il trattamento delle infezioni ossee.
L'israeliana PolyPid Optimized Therapeutics, che sta sviluppando un antibiotico a rilascio lento per il trattamento delle infezioni ossee, ha annunciato l'approvazione da parte della Food and Drug Administration Qualified Infectious Disease Program (QIDP), un nuovo status per prodotti innovativi nel trattamento dei batteri resistenti agli antibiotici.
Il prodotto della PolyPid, è un impianto combinato di polimeri (plastica) e lipidi (grassi). Quando viene impiantato nell'osso, rilascia gradualmente ed in quantità misurate l'antibiotico, in sostituzione della somministrazione orale del farmaco.
Il prodotto sta per entrare nella Fase III per la prevenzione di infezioni post chirurgia cardiaca.
I primi risultati di uno studio di fase Ib / II in Israele, hanno mostrato completa prevenzione delle infezioni, tra i pazienti che hanno effettuato il trattamento per 3 mesi dopo l'intervento.
La ricezione dell'autorizzazione QIDP da parte della FDA rappresenta una tappa importante che accelera ed estende il percorso commerciale.
I ricercatori stanno testando ulteriormente il prodotto al fine di poter fornire dati aggiuntivi e utili alla ricerca entro la fine del 2017.

(SiliconWadi, 27 novembre 2017)


Anziani, uscire di casa può aiutarli a vivere più a lungo

Anche in terza età è importante uscire di casa. Farlo ogni giorno potrebbe aiutare gli anziani a vivere più a lungo, suggerisce una ricerca realizzata in Israele e pubblicata su Journal of the American Geriatrics Society.
I ricercatori dell'Hadassah Hebrew-University Medical Center di Gerusalemme hanno valutato l'associazione tra la frequenza alla quale gli anziani lasciavano la propria residenza domestica e la mortalità. I dati si riferivano a 3375 anziani fra i 70 e i 90 anni di età divisi in tre categorie: chi usciva ogni giorno (6-7 volte a settimana), chi lo faceva spesso (da 2 a 5) e, infine, raramente (fino a una volta a settimana).
Alla frequenza quotidiana i ricercatori hanno associato una riduzione del rischio di mortalità indipendentemente dai fattori sociali, ad esempio se gli anziani vivessero da soli o meno, o quelli relativi allo stato di salute. "Il migliore tasso di sopravvivenza è stato osservato anche tra le persone con un basso livello di attività fisica e persino tra quelli a mobilità ridotta", dice l'autore principale dello studio Jeremy Jacobs. Secondo i ricercatori fuori casa si ha l'opportunità di mettersi in relazione con il mondo esterno e di impegnarsi in diverse esperienze salutari.

(Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2017)


"Tocca alla Commissione Moro fare luce sulla morte di De Palo"

"Roma chieda ai palestinesi la verità sulla morte di Graziella". L'appello del fratello della giornalista sparita in un campo profughi palestinese.

di Massimo Numa

Graziella De Palo
Nata il 17 giugno 1956, nel 1980 arriva a Beirut per indagare su un traffico d'armi tra Italia e gruppi palestinesi. Il 2 settembre viene rapita insieme a Italo Toni e si perdono le tracce.
Italo Toni
Nato a Sassoferrato (Ancona) il 31 gennaio 1930 si occupava di Medio Oriente. Scoprì per primo l'esistenza dei campi di addestramento della guerriglia palestinese.

Le tappe della vicenda

Il 22 agosto 1980 Graziella De Palo raggiunge in compagnia del collega Italo Toni, Damasco, in Siria. A organizzare il viaggio dei due giornalisti è Nemer Hammad, rappresentante dell'Olp in ltalia. Il 24 agosto Graziella e Italo passano la frontiera tra Siria e Libano e arrivano a Beirut. L'1 settembre avvisano l'ambasciata italiana delle loro intenzioni. Il 2 partono per un campo profughi e spariscono nel nulla.
«La speranza della mia famiglia è oramai solo quella di trovare i resti di mia sorella, trasferirli in Italia, portare un fiore sulla sua tomba e recitarle una preghiera». Parla Fabio De Palo, il fratello minore di Graziella De Palo, la giornalista freelance allora 24enne, sparita nel nulla assieme al collega Italo Toni, 50 anni, il 2 settembre 1980, mentre si trovavano in Libano per un reportage sui campi-profughi palestinesi organizzati dall'Olp.
È un appello, quello dei familiari di Graziella, dai toni misurati, senza odio, e anche il desiderio di conoscere ogni dettaglio di quella lontana missione finita nel modo più tragico s'è affievolito con il trascorrere inesorabile del tempo. E forse c'è ancora un uomo che sa qualcosa di quel lontano e tragico episodio. È un settantenne dall'aspetto giovanile, si chiama Bassam Abu Sharif. È stato il braccio destro di Yasser Arafat per decenni, ha fatto stabilmente parte degli organismi dirigenti del Fronte di Liberazione Nazionale della Palestina in ruoli di vertice. Un personaggio chiave negli intricati rapporti tra Palestina e governo italiano in quegli anni cruciali, quando si era appena consumato, nel '72, il sequestro e l'omicidio degli atleti israeliani da parte di terroristi palestinesi durante le Olimpiadi di Monaco di Baviera.
Bassam Abu Sharif è stato recentemente in Italia per testimoniare, in merito al caso Moro, davanti alla commissione parlamentare. «Ci siamo rivolti a tutte le fonti possibili - rievoca Fabio De Palo, magistrato nel Tribunale di Roma - e ora ci rivolgiamo anche a lui». È possibile che, negli anni successivi alla strage di Monaco del '72 e cinque anni prima del sanguinoso raid di Fiumicino e del sequestro in Mediterraneo della nave da crociera Achille Lauro, (con 23 morti in aeroporto, un attentatore palestinese catturato e ora all'ergastolo mentre sulla Achille Lauro fu ucciso un invalido di origine ebrea gettato in mare dai terroristi), il dossier su Graziella De Palo e Italo Toni sia stato esaminato anche dalla ristretta cerchia di collaboratori di Arafat. E Bassam Abu Sharif era uno di loro. «A lui vorremmo chiedere - concludono i familiari di Graziella De Palo - di aiutarci a trovare il luogo dove furono sepolti Graziella e Italo Toni». Non una parola di più.
   Secondo una recente testimonianza di un ex collaboratore del Sismi che prestò servizio sotto il comando del colonnello Stefano Giovannone, capocentro in Libano, la nostra Intelligence già nelle prime ore dopo la scomparsa dei due giornalisti era perfettamente a conoscenza di cosa era realmente avvenuto. L'allora ambasciatore a Beirut, Stefano D'Andrea, aveva infatti inviato un rapporto riservato alla Farnesina in cui erano indicati, in modo preciso e circostanziato, gli scenari di quello che veniva definito un sequestro concluso con una doppia «esecuzione». Rapporto volutamente archiviato in uno dei tanti «armadi della vergogna», in una istituzione allora infiltrata da elementi della P2 di Licio Gelli, ma acquisito nell'indagine giudiziaria del pubblico ministero Giancarlo Armati che aveva poi condotto all'arresto per depistaggio nelle ricerche dei due giornalisti dello stesso Giovannone.
   De Palo e Toni, una volta arrivati a Beirut il 28 agosto con un volo messo a disposizione dall'agenzia romana dell'Olp, avevano informato l'ambasciata che sarebbero andati a visitare un presidio avanzato dell'Olp e che, se non fossero rientrati entro l'ora convenuta, l'ambasciata avrebbe dovuto attivarsi per ritrovarli. Entrambi ospiti dell'albergo Triumph, che faceva parte della rete logistica dell'Olp, erano consapevoli dei pericoli che stavano correndo in seguito ai servizi pubblicati nei mesi precedenti su traffico d'armi dal Medio Oriente all'Europa e sull'esistenza di campi di addestramento di terroristi, tra gli altri, anche di Eta, Ira, Rote Armee Fraktion e Brigate Rosse. Si temeva avessero rapporti con i Servizi Usa e britannici. Il loro contatto, un addetto alla reception, si rivelò un miliziano del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp), il gruppo terrorista guidato da George Habbash.
   Tra le ipotesi in campo, la più probabile è che i rapitori fossero gli stessi miliziani che erano andati a prelevarli quella mattina, all'hotel Triumph. Furono trasferiti in un fabbricato che faceva da base alle frange militarizzate ed estremiste palestinesi, probabilmente interrogati e quindi uccisi. I loro corpi infine sepolti, secondo un'ipotesi recentemente confermata anche nella testimonianza dell'ex collaboratore del Sismi, in uno dei tanti cantieri edili che sorgevano a decine ogni giorno in quella città devastata da attentati e bombardamenti. Ma dove esattamente? «Nessuno è stato mai in grado di dirlo - commenta amaro Fabio De Palo - adesso, 37 anni dopo, con il probabile smantellamento di quelle formazioni, chi sa qualcosa del luogo di sepoltura di Graziella e Italo Toni, potrebbe finalmente rivelarlo, anche in forma anonima, attraverso ogni forma di comunicazione protetta. Nostra madre vive nella speranza di portare un fiore sulla tomba di Graziella e di riportarne i resti in Italia. Non vogliamo altro che questo».

(La Stampa, 27 novembre 2017)


Ugo Volli: «Trieste è sola»

Il semiologo arriva nel capoluogo giuliano per parlare di Israele e Palestina

di Mary B. Tolusso

Sono passati cent'anni dalla dichiarazione di Balfour, ovvero la possibilità di creare un "focolare ebraico" in Palestina. Un focolare che oggi conta otto milioni di abitanti. Certo la questione ebraica non conosce pace. Con la presidenza Obama è ritornata alla ribalta per le tensioni tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l'ex presidente americano.
Chi se n'è occupato è anche il semiologo triestino Ugo Volli, che lunedì sarà all'Associazione Italia-Israele di Trieste per un incontro proprio centrato sul centenario di Balfour.

- Dopo Obama, cosa si può prevedere dalle nuove logiche politiche ed economiche di Donald Trump?
  «A me sembra - risponde Volli -che le dichiarazioni di Trump siano le più favorevoli che si siano viste a Israele da molto tempo. In effetti anche l'opinione pubblica israelita è bendisposta. Non è ben chiaro però quello che farà l'amministrazione, nel senso che il Dipartimento di Stato e in parte anche il Pentagono sono rimasti sostanzialmente in mano alle stesse persone di prima. C'è insomma una tensione, un'attesa molto forte che è stata un po' delusa come il trasferimento dell'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme».

- Il sogno europeo sembra minacciato da una nuova ondata di antisemitismo. Dove, secondo lei, è maggiore il rischio di questa rinascita?
  «L'antisemitismo più importante e più pericoloso in questo momento è quello islamico. Nel senso che i morti più importanti e più numerosi sono stati fatti dagli arabi, dagli emigrati di origine araba, in parte di seconda generazione e questa è una cosa su cui dovremmo riflettere, dai residenti in Francia, Germania, Belgio. Ciò non vuol dire dimenticare quel tanto di neonazismo anche folcloristico che ogni tanto viene fuori, come la storia di Anna Frank, ma indubbiamente il pericolo più grande è l'altro».

- L'antisemitismo di matrice islamista è il più evidente, attraverso gli occhi della stampa, ma ci sono alcuni mass media cattolici che non esprimono proprio simpatia, nonostante in tutto il Medio Oriente la pratica cristiana sia libera…
  «Sono assolutamente d'accordo, nel senso che spesso le pagine dell'Avvenire o dell'Osservatore Romano assomigliano a quelle del Manifesto. Questo forse in parte deriva dall'illusione che si possa rabbonire un mostro feroce come l'islamismo attuale. Però al di là del giudizio morale è un'illusione che non funziona. Diciamo che l'esperienza storica aiuta a capire che una cosa sono quelli poco amici e altra quelli che ti sgozzano. Ed è una differenza che non va dimenticata»

- Da questo punto di vista l'Italia come si colloca? È un paese razzista secondo lei?
  «No, non credo che l'Italia sia un paese razzista. Credo che in Italia ci sia una buona quota di imbecilli, equamente divisi in tutti gli ambienti. L'Italia non è stata molto razzista neppure nei tempi durissimi della Shoah, Trieste in tal senso è stata un'eccezione, ma è una questione molto complicata. Direi invece che l'Italia di oggi è un paese in cui non si avverte un malanimo di massa nei confronti sia degli ebrei che di tutti gli altri. C'è nella cultura italiana una capacità straordinaria che è quella di pensare agli individui e non alle categorie».

- Lei è nato a Trieste ma vive a Milano. Che percezione ha della città di Saba?
  «Ho vissuto a Trieste a lungo, fino all'università, poi qui c'è la mia famiglia, ci torno spesso, per cui è una città che sento mia. Trieste per certi versi si è aggraziata nel senso che è meno scontrosa, ha fatto molti restauri, ha eliminato un bel po' di polvere. A me continua a sembrare una città seducente che in fondo cerca una sua missione. Per una certa fase si pensava potesse essere il ponte con i Balcani e poi ciò non è avvenuto, per cui credo che la città sia profondamente in difficoltà sul piano economico, ma che abbia grandi potenzialità»

- Oggi parlare di comunicazione è arduo. Come si inserisce il fenomeno dei social sulla questione?
  «I social fanno parte di un processo contemporaneo che è quello della disintermediazione, hanno rotto un certo monopolio della stampa e l'hanno fatto a volte in bene. In realtà i social hanno una dose di disinformazione e propaganda che è di poco superiore a quella che c'è nella stampa. Il problema è l'educazione, che la gente capisca come si usa Internet, come si possono riconoscere le fonti affidabili. Bisogna che tutti quanti, compresi i giornalisti, imparino a distinguere e a usarli perché sono strumenti ormai necessari».

(Il Piccolo, 25 novembre 2017)


Assad a Israele: zona demilitarizzata di 40 chilometri vicino al Golan

di Giordano Stabile

BEIRUT - Su pressione della Russia il presidente siriano Bashar al-Assad avrebbe accettato di ridurre la presenza militare di Hezbollah e dell'Iran vicino al confine con Israele. Secondo il giornale kuwaitiano Al-Jarida, che cita fonti anonime israeliane, il raiss avrebbe offerto, attraverso la mediazione russa, di costituire una zona demilitarizzata profonda 40 chilometri, lungo la frontiera sul Golan. L'offerta va incontro alle richieste israeliane, che il presidente americano Donald Trump ha sollecitato nella sua telefonata al presidente russo Vladimir Putin subito prima del vertice sulla Siria di Soci.

 Il colloquio a Soci
  Alla vigilia del vertice Assad è volato nella località sul Mar Nero e ha avuto un lungo colloquio con Putin. Ne sarebbe scaturita l'offerta che dovrebbe bloccare le obiezioni israeliani ai piani russo-turco-iraniani sul futuro della Siria. Russia, Turchia e l'Iran si sono ritagliati zone di influenza con l'invio di migliaia di militari ma il premier Benjamin Netanyahu ha detto esplicitamente che non accetterà mai un accordo finale che preveda la «presenza permanente» dei Pasdaran iraniani e del loro alleato libanese, Hezbollah.

 La mediazione di Mosca
  L'unica condizione posta da Assad a Israele è la fine della politica di «cambio di regime» nei suoi confronti. Assad, come il padre, appartiene alla minoranza alawita, associata agli sciiti e appoggiata dall'Iran. Oltre il 70 per cento della popolazione siriana è però sunnita. Israele è preoccupata dagli equilibri del dopo-Isis, con le forze sunnite in rotta e l'influenza iraniana che abbraccia ormai tutto il Levante, dall'Iraq al Libano. Sia la Russia che l'Iran hanno puntato su Assad per espandere la loro influenza nella regione. Mosca ha però mantenuto buone relazioni anche con lo Stato ebraico.

 Il fronte più caldo
  Il fronte del Golan è quello più esplosivo. Damasco rivendica i territori occupati da Israele dopo la Guerra dei Sei giorni nel 1967 e ribelli jihadisti si sono impadroniti nel 2014 della zona vicino al confine e delle aree demilitarizzate dal 1974. Durante i sei anni di guerra civile siriana Israele ha compiuto "centinaia di raid" contro convogli e depositi di armi iraniani e diretti a Hezbollah. Il governo Netanyahu ha anche minacciato di "bombardare il palazzo presidenziale di Assad" se la presenza delle milizie sciite non fosse stata ridotta.

(Il Secolo XIX, 26 novembre 2017)


«Israele guarda a Riad. Un'alleanza impensabile»

Ian Black, saggista inglese, analizza i nuovi scenari: il timore dell'espansione persiana genera convergenze inedite

di Lorenzo Cremonesi

«Non ci sarà una guerra diretta tra Arabia Saudita e Iran. Però tra loro continuerà il braccio di ferro indiretto e violento, fatto di sfide anche militari tramite i rispettivi alleati regionali, come abbiamo visto negli ultimi anni. Il Medio Oriente del dopo-Isis è destinato a essere pesantemente condizionato dallo scontro tra sciiti e sunniti, fazioni di cui Teheran e Riad sono rispettivamente le massime rappresentanti». Nella sua lunga carriera di giornalista e studioso britannico del Medio Oriente, Ian Black si è recato più volte nei due Paesi. E la «strana vicenda», come lui stesso la definisce, delle dimissioni del premier libanese Saad Hariri, annunciate dalla capitale saudita, è servita per ricordarci quanto destabilizzante sia per uno Stato minore, ma importantissimo qual è il Libano, la sfida irano-saudita.
  Black è stato corrispondente da Gerusalemme del «Guardian» dal 1980 e venne allora chiamato a seguire il conflitto tra Iran e Iraq. «I militari iracheni erano stupefatti dalle ondate di soldati iraniani che si immolavano negli attacchi all'arma bianca sui campi minati. Erano stati indottrinati da una totalizzante ideologia del martirio che mischiava religione e nazionalismo», ci ricordava pochi mesi fa. Diventato commentatore di punta del suo giornale, di recente è stato accolto tra i ricercatori del Middle East Center alla London School of Economics. La sua ultima opera Enemies and Neighbours («Nemici e vicini», Allen Lane) ricostruisce un secolo di storia del conflitto tra arabi ed ebrei, dalla Dichiarazione Balfour al recente avvicinamento tra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il 32enne principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman: «Un avvicinamento senza precedenti, che illumina quanto forte sia la nuova convergenza di interessi tra israeliani e sauditi nel tentativo di frenare la crescita della potenza iraniana, che dall'invasione americana dell'Iraq nel 2003 non ha fatto che consolidarsi».

- Cl sarà un conflitto aperto?
  «Lo credo impossibile per il fatto evidente che gli iranlani sono molto più forti. I sauditi non sono in grado di affrontarli in una guerra convenzionale».

- Eppure da anni Riad investe cifre enormi nei migliori armamenti americani. Come lo spiega?
«Non basta la qualità delle armi per vincere. Lo vediamo in Yemen, dove i sauditi hanno investito il meglio del loro esercito, compresa un'aviazione che costa miliardi. Eppure restano impantanati. Non vanno avanti contro forze molto meno armate. La guerriglia primitiva sostenuta dall'Iran delle tribù sciite Huthl, nel Nord del Paese, tiene duro. E, nonostante le gigantesche devastazioni e le sofferenze della popolazione civile a causa dei bombardamenti sauditi, addirittura avanza».

- Dunque?
  «I sauditi sono 20 milioni, gli iraniani oltre 80. Ma soprattutto le forze di Teheran hanno esperienza, conoscono l'arte sottile della guerriglia. Ci sono in Iran una cultura della guerra e una capacità di mobilitazione popolare che non esistono in Arabia Saudita. Lo hanno dimostrato le milizie sciite in Iraq, sostenute dall'Iran, contro Isis e altre formazioni estremiste sunnite. I loro alleati principali, raccolti nella milizia sciita libanese dell'Hezbollah, si sono dimostrati ottimi combattenti. Il regime di Bashar Assad in Siria non sarebbe mai sopravvissuto alla rivolta delle milizie sunnite seguita alla Primavera araba del 2011 se non ci fossero stati loro. Da allora la forza di Hezbollah non ha fatto che crescere. Pare disponga tra l'altro di migliaia di missili, in grado di colpire l'intero territorio israeliano».

- I sauditi non sono pronti a combattere?
  «Poco o nulla. Quando possono delegano ad altri, difficilmente s'impegnano in modo diretto. Lo abbiamo visto al tempo dell'invasione del Kuwait voluta da Saddam Hussein nel 1990. I sauditi si sentirono minacciati. Reagirono, condannarono, lanciarono appelli. Ma quando si trattò d'intervenire militarmente, furono ben contenti di ospitare l'esercito americano, che guidò la coalizione alleata dal loro territorio. La liberazione del Kuwait non fu affatto una guerra saudita, sebbene Riad la volesse più di tutti. Lo stesso avviene oggi per il braccio di ferro nucleare. Riad si è sempre opposta all'atomica iraniana. Ma ha delegato a Washington il compito di combatterla o almeno contenerla. E adesso a Riad ci si sente molto più forti con Donald Trump che minaccia di rinnegare il trattato sul nucleare iraniano, letto a suo tempo come un tradimento americano. I sauditi si erano visti abbandonati da Barack Obama».

- È possibile un'alleanza tra israeliani e sauditi?
  «Credo sia semplicemente inconcepibile. E vero che tra i due Paesi crescono gli interessi comuni. Trovo straordinario che in una intervista il capo di stato maggiore israeliano abbia offerto di lavorare assieme contro l'Iran. Ma finché resterà vivo il conflitto arabo-israeliano, un'alleanza ufficiale con Riad sarà impossibile».

- Riad ha commesso un errore spingendo Hariri alle dimissioni?
  «È presto per giudicare. Troppi aspetti sono ancora poco chiari. Anche se è una mossa che mi ricorda un po' quella volta a isolare il Qatar. Tanto rumore, ma risultati scarsi. Il Libano comunque è molto più debole del Qatar. Per condizionare l'egemonia interna dell'Hezbollah e spingere i partiti libanesi a limitarla potrebbero funzionare meglio le pressioni economiche».

- Il principe Mohammed bin Salman promette di incentivare un Islam moderato, lontano dai wahabiti fantastici che hanno fornito il terreno ideologico di Al Qaeda e Isis. Però, in nome della democrazia e della lotta alla corruzione, si mostra più intollerante e accentratore dei predecessori. Pare stia causando gravi danni all'economia saudita. Come lo giudica?
  «Per molti aspetti ci rassicura. Ha lottato per dare finalmente il diritto di guida alle donne, promette forti riforme interne contro l'estremismo islamico, intende svecchiare la gerontocrazia al potere, cerca il dialogo aperto con l'Occidente, vorrebbe ridurre la dipendenza dell'economia nazionale dall'export petrolifero. Però poi emergono lati oscuri sulle sue ricchezze personali. Si è comprato uno yacht da 500 milioni di dollari. Con che soldi? E quali garanzie democratiche dà alla stampa quando sappiamo che continua a censurare e ad arrestare gli oppositori? Chi ci assicura che non stia creando un regime anche più verticistico e intollerante del precedente? Sono domande ancora prive di risposte».

(Corriere della Sera, 26 novembre 2017)


Dopo la strage alla moschea dei sufi Al-Sisi cerca nuovi alleati nel Sinai

Il presidente tratta con Israele per aumentare la presenza militare nella penisola

di Giordano Stabile

 
Abd al-Fattah al-Sisi
BEIRUT - I morti sono saliti a 305, trenta bambini, nella più grave strage islamista da decenni, in Egitto. Un terzo della popolazione maschile della frazione di Al-Rawda è stato massacrato. La responsabilità dell'lsis, anche se tarda la rivendicazione ufficiale, è sicura. Testimoni sentiti dagli investigatori hanno detto di aver visto i terroristi sventolare le bandiere nere e gridare «Non c'è altro dio all'infuori di Allah». Una dichiarazione di fede che era anche una condanna a morte per i sufi, accusati di politeismo a causa del loro culto dei santi. Altri gruppi terroristici, a cominciare da Al-Qaeda, hanno preso le distanze dall'eccidio.
  Il giorno dopo ha portato nuovi elementi. I terroristi hanno ingannato le forze di sicurezza perché indossavano uniformi militari. La moschea di Al-Rawda era stata minacciata più volte, l'ultima la scorsa settimana. In un edificio di fronte i sufi si riunivano per i loro riti, ma di recente avevano deciso di rinunciare. La preghiera di venerdì aveva però assunto, agli occhi dei jihadisti, una sfumatura blasfema perché apriva dalla settimana del Mauled al-Nabi, il «compleanno di Maometto», una ricorrenza sempre più sentita nella masse musulmane, e in particolare fra i sufi. Per la corrente salafita si avvicina invece al «politeismo», poiché celebra il Profeta come «fosse un dio».
   I terroristi, fra i trenta e i quaranta, hanno cercato di bloccare tutte le via d'accesso al villaggio, poco più di duemila abitanti, una delle sei frazioni del comune di Bir el-Abed. Il massacro prevedeva l'eliminazione di tutti i maschi, bambini compresi. Un salto di qualità negli attacchi dell'Isis che ha portato le autorità del Cairo a elevare al massimo lo stato di allerta. Misure rafforzate sono state prese attorno a «luoghi di culto, commissariati, luoghi di raduno, cinema, teatri, ministeri». Il timore è che i terroristi possano tentare di raddoppiare, magari colpendo questa volta una chiesa, come nel passato.

 La vendetta di AI-Sisi
  Il ministero dell'Interno ha però cercato anche di rassicurare. In un comunicato ha sottolineato come l'Isis controlli in realtà solo «30 chilometri quadrati del Sinai, appena lo 0,003 per cento del territorio egiziano». Jihadisti hanno colpito la moschea «perché subiscono la pressione delle forze di sicurezza» e hanno dovuto scegliere un bersaglio «più facile».
  Il presidente Abdel Fatah Al-Sisi, nel discorso tv nella tarda serata di venerdì, ha sottolineato che l'eccidio puntava «a fermare i nostri sforzi per battere il terrorismo» ma che «le forze armate vendicheranno i nostri martiri e ristabiliranno la sicurezza con forza implacabile».
  Nei raid seguiti subito dopo «almeno 15 terroristi» sono stati uccisi e numerosi «depositi di armi» e mezzi sono stati distrutti. Ma il raiss egiziano punta a un'operazione molto più ampia e in profondità. Ci sono stati contatti con il governo e le forze armate israeliane per ottenere nuove deroghe agli accordi di Camp David, che regolano la presenza militare egiziana nel Sinai, per poter inviare migliaia di uomini in più. In realtà l'area grigia dove opera l'Isis nella penisola si estende per circa 6 mila chilometri quadrati.
  Il Cairo sta anche cercando di portare dalla sua parte le tribù Tarabin e Sawarka. Con i primi l'Isis ha avuto screzi per il contrabbando di sigarette, che vorrebbe proibire. Alcuni clan sono passati con il governo e hanno allestito check-point nella zona di Rafah. I Sawarka erano finora in gran parte dalla parte degli islamisti. Ma molte delle vittime di venerdì appartengono alla loro tribù. E ora potrebbero cambiare campo. Questo almeno spera Al-Sisi per ribaltare le sorti nella sua battaglia più difficile.

(La Stampa, 26 novembre 2017)



Voce di uno che grida nel deserto

Inizio del vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio.
Secondo quanto è scritto nel profeta Isaia: «Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero a prepararti la via... Voce di uno che grida nel deserto: "Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri"».
Venne Giovanni il battista nel deserto predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. E tutto il paese della Giudea e tutti quelli di Gerusalemme accorrevano a lui ed erano da lui battezzati nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di pelo di cammello, con una cintura di cuoio intorno ai fianchi, e si nutriva di cavallette e di miele selvatico. E predicava, dicendo: «Dopo di me viene colui che è più forte di me; al quale io non sono degno di chinarmi a sciogliere il legaccio dei calzari. Io vi ho battezzati con acqua, ma lui vi battezzerà con lo Spirito Santo».
In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato da Giovanni nel Giordano. A un tratto, come egli usciva dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito scendere su di lui come una colomba. Una voce venne dai cieli: «Tu sei il mio diletto Figlio; in te mi sono compiaciuto».

Dal Vangelo di Marco, cap. 1

 


Hariri: le mie dimissioni hanno rivelato le intenzioni di tutti

BEIRUT - La crisi scaturita dalle dimissioni del premier libanese Saad Hariri, poi ritirate, "ha rivelato le intenzioni di quegli attori che cercano di minare la stabilità del paese per i loro interessi". A dirlo è stato oggi lo stesso capo dell'esecutivo di Beirut nel corso di un incontro con esponenti del Consiglio islamico presso la sua residenza nella capitale libanese. Lo scorso 4 novembre Hariri aveva annunciato a sorpresa le sue dimissioni dalla capitale saudita Riad dando nuova linfa al conflitto regionale tra Arabia Saudita e Iran. Dopo un tour che lo ha visto ad Abu Dhabi, Parigi, Il Cairo e Nicosia, Hariri è rientrato a Beirut nella Giornata dell'indipendenza, lo scorso 22 novembre. Nel corso di un incontro con il capo dello Stato, Michel Aoun, Hariri ha deciso di ritirare le dimissioni.

(Agenzia Nova, 25 novembre 2017)


Israele aumenta le spese militari. Il nuovo scenario in Siria e Libano

di Lorenzo Vita

Avigdor Lieberman
I venti di guerra che solcano il Medio Oriente passano, inevitabilmente, anche per Israele. La guerra in Siria, come già ampiamente detto in questa testata, ha rappresentato una sconfitta strategica per lo Stato israeliano, che sperava di poter ottenere il massimo dalla caduta di Assad e dalla fine dell'asse sciita in Medio Oriente. Per Israele l'obiettivo continua a essere chiaro: contenere l'Iran, se non sconfiggerlo. Per farlo ha tre scenari su cui concentrarsi: Golfo Persico, Siria e Libano. Partendo dal Golfo Persico, l'obiettivo dichiarato è quello di convergere con l'Arabia Saudita, e le parole del capo di Stato maggiore dell'esercito israeliano sulla condivisione dei dati d'intelligence con Riad non sembra essere interpretabile se non nell'alleanza ormai sempre più solida fra questi due Stati. Sul fronte siriano, le questioni restano molteplici. In prima battuta, per Israele è chiaro che l'obiettivo primario sia allontanare il più possibile le forze iraniane e di Hezbollah dai propri confini, soprattutto dalle alture del Golan. La forza d'interposizione russa nelle de-escalation zones della regione non ha rassicurato per nulla Israele, che anzi ritiene questa la migliore arma di Teheran per rafforzarsi in Siria. C'è poi sempre il problema della guerra latente con l'esercito siriano, che pur non formalmente in conflitto con le forze israeliane, subisce raid dell'aviazione senza alcuna dichiarazione di guerra e che negli ultimi giorni ha ricevuto colpi di avvertimento da parte dell'artiglieria delle Idf. A questo si aggiunge il fronte libanese, che s'intreccia in modo quasi inestricabile con il fronte saudita e quello siriano, e che sembra dover trasformarsi, quasi in maniera ineluttabile, nel teatro di guerra del prossimo conflitto mediorientale.
  In questa situazione di conflittualità costante, non deve sorprendere che il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, abbia chiesto alla Knesset di aumentare le spese militari per circa 1.37 miliardi di dollari. Secondo il quotidiano The Times of Israel, Lieberman ha chiesto un aumento di investimenti rispetto al piano di spesa quinquennale con scadenza nel 2020, dicendo che la cifra decisa nel 2015 sia ormai divenuta del tutto insufficiente, "alla luce dei drammatici cambiamenti della guerra siriana e della regione". Sia nel 2016 che nel 2017, i bilanci annuali della difesa erano di circa 19,9 miliardi di dollari, di cui un quarto di essi proveniente dagli aiuti militari americani. Il ministro della Difesa israeliano ha indicato specificamente tre scenari per motivare la richiesta di aumento delle spese militari. Per Lieberman, la preoccupazione del governo israeliano si concentra su tre questioni: la forte presenza militare russa in Siria - e questo è un segnale interessante dell'evoluzione dei rapporti fra Israele e Russia -, l'afflusso di armi provenienti da vari gruppi terroristici e dall'Iran, la "drammatica accelerazione" dell'industria militare iraniana. E proprio sotto quest'ultimo profilo, non va per niente sottovalutato il discorso di Lieberman che ha definito l'Iran una preoccupazione crescente anche per la Lega Araba, quasi a voler di nuovo confermare l'assoluta convergenza d'interessi fra l'organizzazione internazionale araba - per quanto questa possa valere nei fatti - e Israele riguardo la questione iraniana. Una convergenza peraltro già evidente sia nell'ambito della guerra in Siria sia, per certi versi, nel blocco saudita contro il Qatar, quando Israele impose, seguendo la linea persica, la chiusura di Al Jazeera.
  La richiesta di aumento delle spese militari, in questo contesto, non può essere evidentemente considerata come acqua sul fuoco. Semmai dimostra, purtroppo, la possibilità sempre meno remota, di un confronto armato. Quantomeno sul confine settentrionale. Le esercitazioni militari che hanno coinvolto le forze Israeliane nel nord del Paese e quelle di giugnoa Cipro sembrano indicare come vi sia l'assoluta priorità di preparare l'esercito a uno scontro con Hezbollah. E anche nelle richieste di fondi di Lieberman, la possibilità della guerra è stata paventata come giustificazione alla richiesta di ampliamento del budget. Il ministro israeliano ha infatti parlato di carenze strutturali di rifugi antiaerei nel nord di Israele che devono essere al più presto colmate, in particolare sulla linea di terra che va da Tiberiade ad Haifa. E mentre queste parole scuotevano la Knesset, l'esercito del Libano ordinava lo stato d'allerta. La pace non sembra un obiettivo.

(Occhi della Guerra, 25 novembre 2017)


I tornado italiani si addestrano in israele

Dal 5 al 16 novembre quattro Tornado del 6o Stormo hanno partecipato all'esercitazione internazionale Blue Flag 2017 organizzata dall'Israeli Air Force.

 
I Tornado del 6o Stormo si addestrano alla Blue Flag 2017, in Israele. All'esercitazione, oltre agli assetti israeliani ed italiani, hanno preso parte anche le Forze Aeree di USA, Germania, Francia, Grecia, India e Polonia.

Due Tornado Interdiction-Strike (IDS), due Tornado Electronic Combat Reconnaissance (ECR) e circa 80 militari tra piloti, navigatori, personale tecnico e logistico: questi i numeri della partecipazione dell'Aeronautica Militare all'esercitazione internazionale "Blue Flag 2017", giunta alla terza edizione in un crescendo di Nazioni ed assetti partecipanti che hanno operato dalla Base Aerea di Ovda nel cuore del deserto del Negev.
   I velivoli italiani hanno effettuato 58 sortite addestrative su un totale di oltre 800 missioni di volo. In particolare, gli equipaggi del 6o Stormo si sono addestrati in uno scenario complesso, conducendo principalmente missioni "COMposite Air Operation" (COMAO) che hanno previsto attività di volo a bassa e bassissima quota (BBQ) operativa. Testate inoltre diverse tattiche e manovre evasive contro i sistemi Surface Air Missile (SAM) che hanno previsto l'impiego di contromisure elettromagnetiche.
   Il Comandante delle Forze da Combattimento, Generale di Divisione Aerea Silvano Frigerio, ha visitato, in rappresentanza del Capo di SMA, il contingente italiano in occasione del Distinguished Visitors Day, unitamente all'Ambasciatore italiano presso Tel Aviv, SE Gianluigi Benedetti. Le Autorità sono state ricevute dal Capo di Stato Maggiore della Israeli Air Force, Gen. Amikam Norkin.
   "Il ritorno addestrativo per i nostri equipaggi è stato elevatissimo" ha dichiarato nell'occasione il Generale Frigerio. "Abbiamo avuto una preziosa opportunità per condividere e mettere a fattor comune le esperienze nell'ottica di un continuo miglioramento, accrescendo nel contempo la capacità di operare in sinergia con partner internazionali di altissimo livello; le opportunità che ci vengono concesse in queste tipologie di scenari ci permettono di acquisire familiarità in ambienti operativi differenti da quelli in cui siamo abituati ad addestrarci e fondamentali per il mantenimento delle capacità d'impiego".

(Blog Before Flight, 25 novembre 2017)


Decodificate le lettere di un sopravvissuto di Auschwitz: ''Accompagnavo le persone a morire''

In una lettera di addio alla sua famiglia Marcel Nadjari, sopravvissuto ad Auschwitz, ha descritto ciò che ha visto e vissuto in quei terribili anni.

In una lettera di addio alla sua famiglia, messa in una bottiglia avvolta in una borsa di pelle e nascosta sotto il terreno, Marcel Nadjari, sopravvissuto ad Auschwitz, ha descritto ciò che ha visto e vissuto in quei terribili anni. La testimonianza dell'ex prigioniero del campo è molto importante, perché è una risposta ai negazionisti che definiscono l'Olocausto la "Bugia di Auschwitz".
  Ritrovate nel 1980, le pagine contenute nella bottiglia erano poco leggibili perché usurate dal tempo. Con l'aiuto della procedura multispettrale, lo storico russo Pavel Polian è riuscito a ricostruire il 90% delle testimonianze di quanto accadeva nei campi di concentramento.
  Nadjari fu deportato ad Auschwitz nell'aprile del 1944. Due anni prima, i suoi genitori e la sorella minore, Nelli, furono tra i primi deportati e poi uccisi. Ad Auschwitz è diventato un membro del Sonderkommando, gruppi speciali di deportati obbligati il cui compito era di portare i nuovi arrivati negli spogliatoi e farli spogliare. Nei suoi scritti trapelano le terribili condizioni dei prigionieri:
  "Dopo essersi spogliati venivano portati nella camera della morte, dove i tedeschi avevano messo delle tubature per fargli credere fosse un bagno. Le bombole del gas arrivavano sempre con una macchina della Croce Rossa tedesca e due uomini delle SS. Trascorsi sei o sette minuti nelle camere, iniziavano a morire. Mezz'ora dopo, iniziava il nostro lavoro: avremmo dovuto prendere i corpi di donne e bambini innocenti e portarli all'ascensore che portava nella stanza con i forni dove i loro corpi sarebbero bruciati senza combustibile, a causa del loro grasso".
  "Ciò che ho vissuto è impossibile da descrivere - ha poi aggiunto. Ho visto passare sotto i miei occhi circa 600.000 ebrei ungheresi, francesi e 80.000 polacchi di Litzmannstadt". Tormentato dai ricordi di ciò che ha visto e da ciò che era stato costretto a fare, l'uomo ha rivelato: "Mi sono chiesto spesso come avrei potuto uccidere altri ebrei e ho spesso preso in considerazione la possibilità di mettere fine a tutto questo. Ogni volta che qualcuno veniva ucciso mi chiedevo "Dio esiste?". Nonostante tutto questo, ho sempre creduto in lui. Continuo a credere che questa sia la volontà di Dio".
  Quando scrisse la lettera, Nadjari pensava non avrebbe vissuto a lungo perché i membri di Sonderkommando venivano uccisi e sostituiti da nuovi arrivati. Di fronte a morte quasi certa, nella sua lettera scrisse di "essere triste per non aver avuto la possibilità di vendicare la morte della mia famiglia". A differenza di quasi tutti gli altri membri di Sonderkommando, tuttavia, Nadjari è riuscito a fuggire dal campo di concentramento e a sopravvivere.
  Due giorni prima che l'Armata Rossa liberasse Auschwitz fu deportato in un altro campo in Austria e qui liberato. Tornò nella sua città, Salonicco, ed emigrò negli Stati Uniti con sua moglie, dove lavorò come sarto a New York. Morì nel luglio del 1971, a 54 anni.
  Solo cinque dei membri appartenenti al Sonderkommando hanno lasciato testimonianze scritte di ciò che hanno visto, ma l'unico ad essere sopravvissuto è stato Nadjari la cui testimonianza è segno ancora oggi del loro coraggio e di quanti orrori l'uomo sia stato capace di commettere.

(Palermomania.it, 25 novembre 2017)


Libano, la crisi vista dagli italiani della missione Unifil

Il portavoce esclude una corsa agli armamenti. E dice: «Qui nessuno vuole la guerra». La tensione al confine tra Hezbollah e Israele raccontata dal contingente dei 1.100 connazionali che mantengono la pace per l'Onu.

di Andrea Prada Bianchi

Più di 1.100 soldati italiani stretti in una delle fasce più calde del Medio Oriente post Califfato. Cuscinetto tra Israele e le milizie di Hezbollah, la missione Unifil dell'Onu in Libano rappresenta il più importante impegno dell'Italia all'estero. Il contingente internazionale, composto da 41 nazioni per un totale di 10.857 uomini, è presente nel Paese dei cedri dal 1978 per mantenere la pace tra il governo di Tel Aviv e il partito/milizia sciita e filoiraniano. Una pace da sempre traballante e negli ultimi mesi messa in discussione dalla crisi della regione. L'Italia ha dal 2006, anno dell'ultimo conflitto israelo-libanese, un numero di truppe sul terreno secondo solo a quello dell'Indonesia (più di 1.200). Dal punto di vista politico, la situazione si sta rapidamente scaldando.
  L'Iran, cui Hezbollah risponde direttamente, sta uscendo vincitore insieme alla milizia sciita dalla guerra civile in Siria e in Iraq. Teheran sta di conseguenza aumentando in maniera consistente la sua influenza sulla politica libanese, che si regge su un fragile equilibrio tra cristiani, sciiti e sunniti. Una situazione che preoccupa seriamente l'Arabia Saudita, sostenitrice del premier sunnita Saad Hariri, e soprattutto Israele. In funzione di questa paura comune, Riad e Tel Aviv sono ora di fatto alleati contro il regime degli ayatollah e contro Hezbollah. Se il "partito di Dio" dovesse acquisire troppo potere, non è escluso che i suoi avversari possano usare la forza per cercare di contenerlo.
«La situazione rimane stabile e continuiamo a lavorare in stretta collaborazione con le forze armate libanesi», ha detto a L43 il portavoce dell'Unifil, Andrea Tenenti, dopo che il comandante libanese generale Joseph Aoun aveva esortato l'esercito a rimanere «preparato a fronteggiare le minacce e le violazioni dell'esercito israeliano».

- Si rischia un nuovo conflitto tra Israele e Hezbollah?
  Nessuno ora vuole una guerra. Entrambi gli schieramenti vogliono preservare la stabilità che c'è stata in questi 11 anni di sostanziale pace. Il nostro ruolo è monitorare la cessazione delle ostilità e, possibilmente, passare da questa a un cessate il fuoco permanente.

- Tuttavia sembra che la situazione si stia scaldando.
  Nell'ultimo incontro tripartito tra Unifil e responsabili militari israeliani e libanesi, a metà novembre, le parti hanno confermato il loro impegno a mantenere la pace come previsto dalla risoluzione 1701.

- Le dichiarazioni accalorate sono solo una prova di forza politica?
  Sicuramente stiamo assistendo a un innalzamento dei toni da entrambe le parti, ma tra retorica e realtà c'è una grossa differenza.

- Una situazione già vista in quell'area.
  Io sono qui dal 2006. Abbiamo avuto moltissimi momenti politicamente difficili tanto quanto questo. Ci sono stati diversi casi in cui la guerra sembrava potesse riesplodere da un momento all'altro.

- Per esempio?
  Penso al 2010, quando c'è stato uno scontro a fuoco tra l'esercito libanese e quello israeliano solamente per il taglio di un albero. Ci sono stati due anni senza presidente in Libano. La situazione si è sempre mantenuta, anche e soprattutto grazie alla volontà libanese di preservare questa stabilità.

- Come vi comportereste se le due fazioni iniziassero uno scontro?
  È difficile prevedere cosa succederebbe, si dovrebbe in ogni caso passare come prima cosa dal Consiglio di Sicurezza, che dovrebbe cercare di valutare la situazione direttamente dal Palazzo di Vetro a New York. Il mandato della missione dovrebbe essere rivisto per valutare come agire per proteggere la popolazione civile.

- Come mantenete il controllo sul territorio?
  Conduciamo 400 attività e pattugliamenti al giorno nell'area di operazioni della missione con veicoli e attrezzature altamente tecnologiche.

- Hezbollah è accusato di accumulare armamenti al confine con Israele.
  Non abbiamo informazioni recenti di traffico di armi qui nel Sud. Questo non vuol dire che non ci siano, vuol dire però che non c'è una corsa agli armamenti. Per quello che riguarda la presenza di armi sul territorio possiamo assicurare che in 11 anni non abbiamo visto un aumentare delle scorte.

- I vostri uomini possono perquisire gli edifici?
  L'ispezione dentro case o proprietà private non può essere fatta dai Caschi Blu. Ma in caso di situazioni sospette chiamiamo le forze armate libanesi e ci coordiniamo con loro.

- I soldati sono autorizzati all'uso delle armi?
  L'uso delle armi è autorizzato solo in caso di grave pericolo per la sicurezza dei soldati Onu o per proteggere la popolazione civile. Una funzione fondamentale dell'Unifil è l'addestramento dell'esercito libanese, male armato e mal equipaggiato, ma che negli ultimi anni ha fatto un lavoro incredibile.

(Lettera43, 25 novembre 2017)


Seat, un team in Israele per l'innovazione tecnologica

Iniziative per sviluppare nuove soluzioni e modelli di business nel settore automotive. Accordo tra SEAT e Champion Motors per servizi legate alle auto connesse e alla mobilità intelligente.

 
ltzhak Swar (Presidente del Consiglio di Amministrazione della Champion Motors) e Luca di Meo (CEO di SEAT)
SEAT e Champion Motors, l'importatore del Marchio in Israele, hanno raggiunto un accordo per creare XPLORA, un team trasversale di esperti focalizzato su progetti di innovazione tecnologica nell'ambito di auto connessa e servizi di mobilità intelligente.
Lo scopo principale dell'iniziativa - spiegano le due aziende - è quello di promuovere le relazioni con startup e attori locali legati alla mobilità e identificare progetti innovativi che possano sfociare, in futuro, in nuove soluzioni e modelli di business.
XPLORA, che avrà sede a Tel Aviv e svolgerà le proprie attività in tutto il Paese, conterà inizialmente su una squadra formata da quattro esperti. SEAT ha previsto di includere per un anno nel progetto tre membri dell'Easy Mobility Team (gruppo di lavoro trasversale all'Azienda che ne sta guidando la trasformazione digitale), specializzati nel design UX, sviluppo elettrico e sviluppo del business, per coprire i bisogni dell'iniziativa e, nel contempo, individuare e sviluppare soluzioni più rilevanti per il settore.
Champion Motors Ltd. nominerà invece un Project Manager, incaricato del coordinamento e dell'esecuzione del progetto fin dalla sua fase iniziale.
Questo team di esperti, che inaugurerà i lavori con una fase di ricerca di start-up e progetti di interesse, selezionerà le innovazioni ritenute più rilevanti e, in collaborazione con i team SEAT a Martorell, effettuerà dei test pilota tanto in Israele, quanto a livello europeo.
Israele conta attualmente oltre 7000 imprese emergenti nel proprio territorio, una concentrazione di startup seconda solo alla Silicon Valley. Il 50% di queste sono impegnate in settori legati all'IT o software per Internet. Il Paese vanta inoltre oltre 100 acceleratori di start-up, e la maggior parte delle incubatrici aziendali è gestita dalla locale Autorità per l'Innovazione. Negli ultimi anni in Israele si è registrato un rilevante aumento delle startup legate al settore automobilistico e alla mobilità intelligente. Nel 2013 si contavano 87 aziende, mentre oggi le nuove imprese sono 520.

(macitynet.it, 25 novembre 2017)


Un attacco ad al Sisi e all'islam moderato

di Fiamma Nirenstein

L'attacco di ieri dell'Isis è un attacco all'Egitto, una scelta strategica e programmatica tesa a minare alle fondamenta il potere del presidente al Sisi, un'affermazione tracotante e decisa: «Credevate di averci sconfitti, sarete voi a morire».
   Una ambiziosa scelta di sovversione rispetto alle nuove alleanze antiterroriste che comprendono Egitto, stati arabi moderati e tutto l'Occidente compreso Israele. Allineati e coperti alla bell'e meglio, morti a centinaia mentre recitavano la preghiera del venerdì alla moschea di Bir al Abd a Razwa, poco lontano da Al Arish, a metà strada simbolicamente fra il Cairo e Gerusalemme, ieri sono state massacrati in numero abnorme, 235 più 190 feriti, i poveri sufi egiziani. Abituati con i copti a soffrire della loro debolezza numerica e della loro mitezza religiosa, oggi sono le vittime della guerra vigliacca che l'Isis dopo la sconfitta territoriale si ingegna a proseguire. L'Isis ha senz'altro perso il suo territorio, quella porzione di Siria e Iraq che gli aveva fornito una popolazione di otto milioni di persone, banche, armi, pozzi di petrolio, business criminali di vario genere, un'industria di comunicazione da fare paura, con blogger, twitter, film didattici. Ma non è morta e sta elaborando una strategia che gli consenta di terrorizzare il mondo intero sovvertendolo col suo esercito segreto diffuso.
   Il Sinai è tuttora una zona di grandi risorse terroristiche, il suo territorio è sotterraneamente parte del dominio dell'Isis dal 2014 quando la sua sezione Ansar bait al Maqdis dichiarò fedeltà a Abu Bakr al Baghdad. Prima, da quando il presidente eletto, capo della Fratellanza Musulmana, fu deposto nel 2013 da Abdel Fattah al Sisi, la forza eversiva sempre strisciante nel Sinai, con le sue staffette cammellate, i suoi armati provenienti anche da Gaza, ha cominciato un attacco contro al Sisi stesso, che ha tutte le caratteristiche di una guerra. È da allora che quella magnifica penisola di sabbia e palme ornata dal mare azzurro è inzuppata del sangue dei moltissimi agguati alle forze di sicurezza egiziane, ma anche ai civili e ai turisti, ritenuti portatori del virus edonista dell'Occidente corrotto. Nell'ottobre del 2015 un aereo dell'aviazione russa che doveva riportare a casa 224 persone esplose nell'aria col suo prezioso carico.
   Dal luglio del 2013 ad oggi si calcola che siano stati uccisi ben 1000 membri delle forze di sicurezza egiziane, le ultime 16 in ottobre. I copti e tutti i cristiani nelle chiese sono uno dei bocconi favoriti quando si parla di civili. Ma anche i musulmani se non sono del tipo che piace all'Isis vengono ammazzati senza pietà.
   Ieri da parte di Israele sono venute parole di particolare solidarietà all'Egitto. Giusto quarant'anni fa il suo presidente Anwar Sadat tenne il suo famoso discorso alla Knesset in cui si disegnò la pace. Sadat ha pagato con la sua vita la grandissima impresa a causa di gruppi islamici estremisti la cui fede collegata alla Fratellanza Musulmana li spinge a sognare per l'Egitto un ruolo estremista e di Islam incontaminato, a capo della guerra sunnita contro l'Occidente. Sisi sembra avere intenzioni completamente diverse, è parte di uno schieramento che con l'Arabia Saudita fa parte di un antiterrorismo con un rapporto indispensabile con l'Occidente, gli Usa e in particolare con Israele. Per l'Isis dunque la presenza eversiva, grandiosa nei suoi risultati letali, la sfida diretta a Sisi e chiaramente diretta a minarne la forza internazionale e locale, è il tentativo di portare all'eversione un popolo spaventato.

(il Giornale, 25 novembre 2017)


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Strage in Sinai. La cena a Roma dei servizi di Egitto e Israele per la guerra all'Isis

Almeno 235 morti in un attentato jihadista. I dettagli di un vertice confidenziale tra emissari israeliani ed egiziani sulla sicurezza.

di Daniele Raineri

ROMA - Ieri uomini a bordo di quattro veicoli hanno attaccato con bombe e raffiche di mitra una moschea sufi, a ottanta chilometri a ovest di al Arish, la città più grande del Sinai, e hanno ucciso 235 persone. I sufi sono considerati un bersaglio dallo Stato islamico perché praticano una versione mistica dell'islam che li rende "eretici", così come un bersaglio sono i cristiani che-secondo il Wilayat Sainà, come si fa chiamare il gruppo qui, in arabo vuol dire "provincia del Sinai" - a partire dall'anno scorso non possono più avere nemmeno lo status di sottomessi all'islam, come vorrebbe la visione del mondo degli islamisti, ma devono essere uccisi ovunque sia possibile perché "collaborazionisti del governo del tiranno al Sisi". il presidente egiziano. Ma forse c'era un altro motivo per attaccare quella moschea: lo Stato islamico ha voluto punire con brutalità i Bani Sawarka, un clan beduino locale che assieme ad altri aveva cominciato a fare resistenza contro i terroristi.
   In teoria gli egiziani non potrebbero operare nel Sinai con armi pesanti ed elicotteri da guerra, perché è una zona demilitarizzata dopo i conflitti arabo-israeliani, ma lo fanno grazie a un nuovo accordo con il governo di Gerusalemme. La settimana scorsa una delegazione del Mossad israeliano s'è incontrata in un ristorante vicino a Roma con una delegazione dei servizi segreti egiziani per un incontro al vertice - secondo quanto risulta al Foglio. O meglio, l'incontro non era proprio al vertice, perché non erano presenti i direttori, ma era appena sotto perché c'erano i loro vice. Delegazione asciutta per gli israeliani, quattro persone, e molto nutrita invece per gli egiziani, dodici, che alla fine hanno voluto pagare il conto. Questo tipo di incontri confidenziali in paesi terzi, e l'Italia è una destinazione scelta spesso, fanno parte di quella diplomazia sotterranea tra i paesi arabi e Israele che negli ultimi tempi sta facendo parlare di sé più del solito, soprattutto da quando l'Iran ha conquistato una posizione dominante in medio oriente e l'Arabia Saudita è diventata più attiva. Ma uomini d'intelligence egiziani e israeliani sono vecchie conoscenze e sono in contatto da molto prima dell'attuale fase convulsa e quella sera erano a cena assieme per fare il punto della situazione su altri fronti che hanno in comune, due in particolare. Uno è la Striscia di Gaza, dove il gruppo islamista Hamas sta progressivamente cedendo il controllo ai rivali politici di Fatah in virtù di un accordo di riconciliazione nazionale palestinese firmato il 12 ottobre che è molto delicato perché potrebbe rompersi da un momento all'altro per tanti motivi. L'altro fronte-che non è slegato da quello che succede a Gaza - è appunto la lotta contro lo Stato islamico nella penisola egiziana del Sinai, che confina sia con Israele sia con la Striscia. Gli egiziani hanno mandato l'esercito per sradicare il gruppo terrorista con una campagna militare molto dura, e a tratti è sembrato che funzionasse e fosse vittoriosa. Poi però arrivano rappresaglie terribili, come ieri. Il ruolo degli israeliani non si limita a questo permesso di effettuare massicce manovre militari contro i terroristi: ci sono casi di bombardamenti con i droni da parte di Israele contro lo Stato islamico nel Sinai, e sono certamente concordati con gli egiziani.

(Il Foglio, 25 novembre 2017)


'Acqua: risorsa e problema. Cultura, tecnologia, spiritualità'

Due giorni di studio e incontri a Pitigliano e Sovana con archeologi, architetti e diplomatici. 26 e 27 novembre 2017. Un’occasione per far conoscere le radici culturali che uniscono questa parte di Maremma con Israele e in particolare con Gerusalemme.

Pitigliano
PITIGLIANO - "Acqua, risorsa e problema" è il tema della Due Giorni di incontri e convegni a Pitigliano e Sovana il 26 e 27 novembre prossimi, nell'ambito del Progetto Culturale Pitigliano-Gerusalemme, che vede insieme Diocesi di Pitigliano - Sovana - Orbetello, Comuni di Pitigliano e Sorano, Ambasciata di Israele in Italia, Associazione "La Piccola Gerusalemme" di Pitigliano, "Associazione Italia-Israele" della Maremma, Museo di Palazzo Orsini di Pitigliano.
A discutere sul tema dell'acqua sotto ogni aspetto, in un contesto di cambiamenti climatici che inducono a riflettere su una risorsa necessaria, a volte scarsa come nelle siccitose estate e primavera 2017 a volte eccessiva come in occasione dell'alluvione che ha messo in ginocchio la Maremma alcuni anni fa, saranno intellettuali, esperti e diplomatici che lunedì 27 Novembre alle 14:30 animeranno una conferenza nella Sala Ildebrando di palazzo Orsini a Pitigliano. Dopo il saluto del Vescovo diocesano Mons. Gianni Roncari e del Sindaco Giovanni Gentili, di "Acqua risorsa e problema" parleranno Giorgio Della Longa (Architettura dell'acqua) con riferimento agli sviluppi architettonici degli acquedotti, Renzo Ricciardi funzionario del Genio Civile (Regimazione e bonifica dal Granducato di Toscana ad oggi) e Ofer Sachs (L'acqua in Israele). Concluderà gli interventi il Ministro plenipotenziario Enrico Granara del Ministero italiano degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
   Particolarmente atteso l'intervento di Sachs, ambasciatore dello Stato di Israele in Italia, esperto della materia. Il rapporto tra Israele - e la cultura ebraica - e l'acqua è particolare e significativo sotto ogni aspetto: vitale, culturale ed economico. La risorsa acqua in Israele essendo scarsa è considerata preziosa e attorno ad essa si muove scienza, economia e geopolitica. Sono stati gli israeliani ad inventare i sistemi di irrigazione a goccia per razionalizzare l'uso dell'acqua in agricoltura e sono ancora oggi le università e le aziende di quel Paese a studiare e cercare le soluzioni più innovative per la ricerca e l'uso del liquido più prezioso dell'Umanità.
   Al termine della conferenza si terrà un momento di spiritualità all'interno della sinagoga con il vescovo diocesano Mons. Gianni Roncari ed Elena Servi, presidente dell'Associazione La Piccola Gerusalemme, che leggeranno e dialogheranno sui Salmi. Infine una interpretazione in canto delle pagine bibliche e concerto breve eseguito dalla corale "I Madrigalisti di Magliano in Toscana" diretti dal Mo Walter Marzilli.
   La Due Giorni di incontri a Pitigliano e Sovana sarà anche l'occasione per far conoscere le radici culturali che uniscono questa parte di Maremma con Israele e in particolare con Gerusalemme, come testimonia lo stesso Progetto Pitigliano-Gerusalemme. Per secoli Pitigliano è stata piccola capitale dell'ebraismo italiano (da qui il nome "La Piccola Gerusalemme" con cui Pitigliano è conosciuta fin dal Rinascimento), luogo di accoglienza per i cittadini di religione ebraica, in cerca di un posto dove vivere e prosperare, che nel corso del tempo sono divenuti un'unica realtà civile con i cittadini di religione cattolica, pur mantenendo proprie sensibilità e identità. Le antiche vestigia ebraiche ancora esistenti a Pitigliano - benché di ebrei stabilmente residenti ne siano rimasti solo tre -, come il quartiere ebraico e la sua deliziosa sinagoga, ne sono prova ancora tangibile.
   Per questo aspetto di natura più culturale e spirituale domenica 26 novembre a Sovana nel comune di Sorano, altro splendido borgo a pochi chilometri da Pitigliano, nella cattedrale romanica di San Pietro che farà da cornice, si terrà un interessante dibattito sul tema dell'acqua e della cultura dell'incontro. Dopo i saluti del Direttore dell'Ufficio diocesano Beni Culturali don Marco Monari e del Sindaco di Sorano Carla Benocci, ad animarlo saranno gli interventi della professoressa e ricercatrice Cecilia Luschi dell'Università degli Studi di Firenze (L'Acqua e l'Architettura: due passi dal Sacro) e l'archeologo il professore Dan Bahat di Gerusalemme (Acqua e archeologia sacra a Gerusalemme e dintorni), al termine del quale si terrà un concerto del violinista Franco Scozzafava e un assaggio di prodotti locali gentilmente curato e offerto dall'Associazione "Sovana Aperta".
   A integrazione della manifestazione, domenica 26 è prevista la visita del Parco Archeologico guidata dal direttore Lara Arcangeli, mentre lunedì 27 è prevista una visita guidata nel centro storico di Pitigliano, ghetto, museo di cultura ebraica e Sinagoga nonché l'inaugurazione della mostra dedicata a Giovanni Dupré nel 200o anno dalla nascita, all'interno del maestoso Palazzo Orsini, che rimarrà esposta fino al 4 gennaio 2018.

(MaremmaNews, 25 novembre 2017)


Roma - Terrorista al convegno, scoppia il caso

La pasionaria palestinese Leila Khaled a Porta Maggiore. Dirottò due aerei di linea.

di Rinaldo Frignani

L'arresto
Nel 1970 fu bloccata a Londra con due bombe a mano
Questura
Allo studio un piano per il 2 dicembre.

Per i movimenti antisionisti è un'eroina. Il simbolo della lotta palestinese, ma anche la prima dirottatrice di aerei di linea del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Per quelli pro-Israele, e non solo, ma anche per l'Unione europea - che ha inserito il Fplp nella lista delle organizzazioni eversive -, Leila Khaled è tuttora una terrorista. Vedute decisamente opposte, che sono però sufficienti per scatenare adesso le polemiche sulla partecipazione della settantenne pasionaria della causa palestinese a una serie di convegni in Italia, organizzati per il cinquantesimo anniversario della fondazione del Fplp.
   Dopo aver preso la parola a fine settembre proprio al Parlamento europeo nell'ambito dell'evento «Le donne nella lotta palestinese» (organizzato da un movimento di estrema sinistra), Khaled - attualmente membro dell'Ufficio politico del Consiglio nazionale palestinese - sarà a Roma sabato prossimo all'hotel Porta Maggiore per un incontro dell'Udap, l'Unione democratica arabo-palestinese, al quale parteciperanno anche le comunità e le organizzazioni palestinesi europee, e i «rappresentanti delle forze amiche del popolo palestinese». Fra i temi che affronterà ci dovrebbero essere l'occupazione della Palestina e il diritto alla resistenza, con il racconto della sua esperienza personale.
   Silenzio, almeno per ora, da parte della Comunità ebraica romana per un appuntamento sul quale la Questura sta comunque mettendo a punto un servizio di vigilanza. La questione infatti appare già delicata. A Napoli, dove Khaled sarà il 4 dicembre, c'è stata una sollevazione bipartisan (Forza Italia e Pd), con un'interrogazione della consigliera azzurra Mara Carfagna al ministro dell'Interno Marco Minniti, dopo che il sindaco Luigi De Magistris (che ha concesso la cittadinanza onoraria a Bilal Kayed, militante del Fplp detenuto per quindici anni) è stato invitato al convegno all'ex Asilo Filangieri, edificio comunale gestito dai giovani di un centro sociale.
   Abbandonata la lotta armata e successivamente residente prima nel Regno Unito e poi in Giordania, Khaled ha ispirato canzoni e anche un film sulla sua storia di dirottatrice. Sulla Rete non mancano i commenti contrari alla partecipazione di Khaled ai convegni organizzati dai movimenti di estrema sinistra e viene ricordato il ruolo dell'allora terrorista in un paio di dirottamenti aerei, uno dei quali con scalo a Fiumicino (il volo Twa Los Angeles-Tel Aviv dell'agosto 1969, seguito l'anno successivo da quello dell'El Al New York-Amsterdam, nel quale un complice di Khaled rimase ucciso e lei catturata con due bombe a mano in tasca). Ma viene anche sottolineato che sempre al Parlamento europeo Khaled ha esaltato nel suo discorso l'azione terroristica che proprio quel giorno aveva portato all'uccisione di tre poliziotti israeliani in un villaggio di Har Adar, alle porte di Gerusalemme.

(Corriere della Sera - Roma, 25 novembre 2017)


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Terrorismo - Carfagna denuncia: «Chi ha dato visto in Italia a Khaled?»

 
                                           Mara Carfagna                                                                                      Leila Khaled
«Riteniamo sbagliato e pericoloso che una dirigente del Fronte Nazionale di Liberazione della Palestina, che è una organizzazione inserita nell'elenco delle associazioni terroristiche dall'Unione europea, possa partecipare ad iniziative pubbliche senza che vi sia un controllo, che possa fare proseliti in luoghi pubblici o addirittura di proprietà comunale». Così Mara Carfagna, portavoce dei deputati di Forza Italia e consigliere comunale a Napoli, commenta la partecipazione di Leila Khaled a tre incontri pubblici a Napoli, a Roma e a Milano.
«È ancora più grave dal momento che Leila Khaled - continua Carfagna - non è una esponente del Fplp qualunque, ma è nota per essere stata la prima donna a lasciarsi coinvolgere in una forma di terrorismo spaventosa quale il dirottamento aereo, cosa che ha fatto per ben due volte. In Spagna c'è un ordine di cattura internazionale a suo carico: chi le ha concesso il visto per entrare in Italia?» «Ho presentato nei giorni scorsi una interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno, Marco Minniti, per chiedere se il Viminale sia a conoscenza di questi incontri, se non li consideri gravi in un momento così delicato per la lotta contro il terrorismo internazionale e se non ritenga di dover intervenire per evitare che un esponente di una formazione terroristica possa parlare in una struttura pubblica, che è di proprietà comunale seppur concessa in gestione ad una associazione, come l'Asilo Filangieri di Napoli», conclude Carfagna.

(Il Mattino, 25 novembre 2017)


Viaggio EDIPI di Hanukkà

Comunicato stampa

Il viaggio EDIPI di Hanukkà dal 7 al 14 dicembre è sui blocchi di partenza e di proposito è stato realizzato in concomitanza alla Festa delle luci per far finalmente luce su una vicenda rimasta per troppo tempo al buio!
  Si tratta della Storia di Ettore Castiglioni che per salvare decine di Ebrei verso la fine della seconda guerra mondiale, ci rimise la vita morendo congelato. Marco Albino Ferrari ha scritto un libro sulla vita di Castiglioni e ci accompagnerà nel viaggio unitamente a due responsabili della casa editrice Hoepli che recentemente ha pubblicato i diari di Ettore Castiglioni sempre con la supervisione di Marco Albino Ferrari: il libro è "Il giorno delle Mèsules" e sarà presentato in due serate a Gerusalemme lunedì 11 nella sede di Keren Hayesod e a Tel Aviv il giorno dopo presso il Centro di Cultura Italiano di Tel Aviv,
  Per quanto riguarda la serata di Tel Aviv alle ore 19:30 di martedì 12 ci sarà il giornalista David Lazarus di Israel Today.
  Di particolare interesse sarà la giornata di domenica 10 alle 14:30 in cui avremo un incontro speciale allo Yad Vashem con la dott.ssa Susanna Kekkonen direttrice di "Christian Friends of Yad Vashem" per illustrare la figura di Ettore Castiglioni.
  Per entrare nel dettaglio le serate dedicate ai libri saranno entrambe alle 19:30, la prima a Gerusalemme nella sede di Keren Hayesod in cui Marco Albino Ferrari presenterà i libri "Il Giorno delle Mèsules" e "Storia di Ettore Castiglioni" e in questa occasione verrà consegnato un importante riconoscimento dell'operato di Castiglioni da consegnare in Italia al nipote.
  L'indomani presso la sede del Centro di Cultura Italiano dell'Ambasciata d'Italia a Tel Aviv oltre ai libri verrà proiettato il film documentario "Oltre il confine" in prima visione mondiale, previa autorizzazione dei registi padovani.
  Interverrà anche la dott.ssa Cinzia Klein dell'Archivio Santo Stefano dove sono depositati i diari originali di Ettore Castiglioni, recentemente editi da Hoepli con la supervisione di Marco Albino Ferrari.
  Oltre alle due serate dedicate al ricordo e al riconoscimento di Ettore Castiglioni il tour prevede nella giornata di lunedì 11 l'escursione archeologica a Gerusalemme con il famoso archeologo Dan Bahat.
  Domenica 10 alla sera inoltre, presso la sede della comunità Maronita di Gerusalemme, avremo l'incontro: "Tevah - il mistero delle due arche: dall'Ararat a Israele attraverso l'Armenia" con Azad Vartanian e Dan Bahat. Oltre ai rappresentanti della comunità Maronita saranno presenti anche quelli della comunità Armena di Gerusalemme e i rappresentanti dei Cavalieri dell'Ordine di Malta.

(EDIPI, novembre 2017)


Pankina: un kasher-gourmet al centro di Tel Aviv

Nel quartiere di Dizengoff c'è un ristorante italiano che coccola i suoi clienti con la cucina italiana di pesce, rispettando alla lettera le regole della cucina ebraica.

Un mix vincente di grinta ed esperienza che ha conquistato il cuore pulsante di Tel Aviv. Il quartiere di Dizengoff, a due passi dal mare, di giorno affollato di turisti, di notte animato dalla movida dei giovani israeliani. È qui che c'è un particolarissimo angolo d'Italia: il ristorante Pankina, punto di riferimento per chi vuole mangiare una cucina di pesce (freschissimo vista la vicinanza con il porto) che rispetti i dettami della Kasherùt, l'insieme di regole e tradizioni alla base della cucina ebraica.
La scintilla nasce dalla perfetta combinazione di tre soci: due chef, Emanuele Diporto (con esperienza pluriennale nelle cucine dei grandi ristoranti romani), Raffi Fadlun (ex proprietario della Taverna del Ghetto a Roma) e Scialom Zarug, con un lungo passato da Mashgiach, la figura che certifica la qualità kasher in stabilimenti e ristoranti ebraici....

(Eccellenze Italiane, 25 novembre 2017)


JCiak - Gal Gadot batte Thor

di Daniela Gross

Gal Gadot
Dopo aver trionfato al box office, l'israeliana Wonder woman sconfigge Logan, Thor, Spider man e tutti i supereroi piazzandosi al primo posto nella celebre lista di Rotten Tomatoes "50 Best Superhero Movies of All Time". L'elenco è rimbalzato sui media di mezzo mondo. Non è la notizia del secolo, ma fa riflettere che - mentre nel mondo del cinema dilagano le notizie di molestie sessuali - sia una signora, mamma di due bimbe, a conquistare il titolo di supereroe in un film campione d'incassi diretto da un'altra donna.
Nella lista di Rotten Tomatoes, popolare sito americano che aggrega informazioni sui film a recensioni di critici e del pubblico in un doppio punteggio, Wonder Woman diretto da Patty Jenkins spunta il 108,569 per cento contro il 107,976 di Logan (2013) di James Mangold con Hugh Jackman e il 106,313 del Cavaliere oscuro (2008) di Christopher Nolan con Christian Bale. Spider Man finisce al quarto posto, mentre all'ultimo c'è L'incredibile Hulk (2008) di Louis Leterrier con Edward Norton.
Rotten Tomatoes è spesso finito nel mirino per i criteri utilizzati nelle votazioni. I film più recenti vantano in genere punteggi migliori di quelli più vecchi (il sito è stato lanciato nel 1999) e qualcuno contesta il sistema usato per le votazioni. Il sito somma infatti le opinioni della critica a quelle del pubblico per poi suddividerle in tre fasce - rotten green tomato (il peggio), fresh red tomato e certified fresh (il meglio) - che potrebbero risultare troppo influenzate dai fan.
Ciò detto, il sito resta una guida veloce e divertente per chi va al cinema. E, nei panni di Wonder woman, l'israeliana Gal Gadot rimane la campionessa, con incassi che hanno ormai superato i 400 milioni e un'interpretazione che perfino i critici più severi non hanno esitato a definire carismatica.

(moked, 24 novembre 2017)


Netanyahu: "Non accetteremo forze di Teheran in Siria o nei paesi vicini"

GERUSALEMME - Israele non accetterà lo stazionamento permanente di forze iraniane in Siria o altrove nelle sue vicinanze. Lo ha detto ieri il primo ministro di Gerusalemme Benjamin Netanyahu, citato dal quotidiano israeliano "Times of Israel". Le dichiarazioni del premier giungono durante il suo discorso a una commemorazione di David Ben Gurion, il primo capo del governo israeliano, presso il kibbutz di Sde Boker nel deserto del Negev, circa 170 chilometri a sud di Gerusalemme. "Chiunque vuole metterci in pericolo di essere annientati, mette la sua stessa vita in pericolo", ha aggiunto Netanyahu, riferendosi alla retorica anti-israeliana dell'Iran.
   Per quanto riguarda le relazioni con gli stati arabi, come l'Arabia Saudita, il primo ministro israeliano si è detto fiducioso nella loro maturazione, che "darà frutti in un circolo di pace sempre più ampio". L'avvicinamento tra Israele e il regno degli Al Saud, tra cui sono assenti le relazioni diplomatiche, per ostacolare la politica iraniana in Medio Oriente è stato recentemente manifestato dal capo di Stato maggiore della Difesa israeliana, Gadi Eisenkot. In un'intervista rilasciata al quotidiano saudita online "Elaph" il 16 novembre scorso, Eisenkot ha dichiarato che Israele è pronto a "condividere esperienze con l'Arabia Saudita e con altri Stati arabi moderati e a condividere informazioni di intelligence per affrontare l'Iran". L'alto ufficiale ha affermato che "vi sono molti interessi condivisi tra noi e l'Arabia Saudita". Il capo di Stato maggiore della Difesa israeliana ha parlato delle nuove alleanze regionali. "Con il presidente Usa Donald Trump, c'è un'opportunità per formare una nuova alleanza internazionale nella regione. Dobbiamo creare un piano strategico ampio e comprensivo per fermare la minaccia iraniana", ha affermato Eisenkot. Secondo l'ufficiale, "il piano iraniano è controllare il Medio Oriente attraverso due assi sciiti. Il primo corre dall'Iran attraverso Iraq, Siria e Libano, il secondo nel Golfo dal Bahrein allo Yemen e al Mar Rosso. Dobbiamo impedire che ciò avvenga.

(Agenzia Nova, 24 novembre 2017)


Miss Germania cambia: c'è la prima ragazza ebrea

In lizza al concorso di bellezza anche una 21 enne che ha studiato la Torah. Dopo un viaggio in Israele, porterà in passerella la memoria del genocidio.

di Ilaria Pedrali

Tamar Maroli
Berlino presto potrebbe avere la sua prima miss Germania dì religione ebraica. Tamar Morali, infatti, è la prima ragazza ebrea tedesca a partecipare a un concorso dì bellezza in Germania, con il sogno dì poterlo vincere. A partire da domenica prossima si potrà cominciare a votare la più bella ragazza tedesca dell'anno. Al momento Tamar è tra le 20 finaliste, ma le votazioni online che dureranno un paio dì mesi potrebbero farla schizzare tra le prime 10 che si sfideranno nella serata finale in programma per il prossimo febbraio, e consacrarla reginetta dì bellezza più amata e apprezzata dai tedeschi. Per giunta ebrea.
   Tamar ha 21 anni ed è una studentessa. Bella, mora, capelli lunghi, occhi scuri, eleganza innata. Un prototipo dì bellezza un po' lontano da quello teutonico, ma è tedesca a tutti gli effetti. È nata a Karlsruhe, in Germania, da una famiglia dì ebrei osservanti che desideravano crescere i loro figli nel rispetto della tradizione ebraica. Non essendoci in città una comunità molto numerosa, hanno pensato dì trasferirsi in Austria perché lì le cose sarebbero state più facili. A Vienna Tamar ci è arrivata all'età dì otto anni, e insieme ai suoi fratelli ha studiato in una scuola ebraica, ha imparato la lingua e una volta raggiunti i 17 anni ha deciso dì prendersi un anno sabbatico prima dì continuare gli studi. Sì è recata in Israele in uno dei tanti viaggi del movimento giovanile ebraico sionista Bneì Akiva, che organizza soggiorni nello stato ebraico che prevedono un'attività nei kibbutz religiosi e lo studio della Torah. Grazie a questo viaggio Tamar sì è innamorata della terra dei suoi padri e ha deciso dì portare alto il suo nome in giro per il mondo, in Germania in particolare. Ma Israele le è rimasto nel cuore e per questo, una volta terminato il liceo, ha deciso di tornarci per frequentare l'università. Oggi è all'ultimo anno e sta per conseguire una laurea in comunicazione e business presso il Centro Interdisciplinare di Herzliya, una delle università migliori al mondo, che mira a formare i leader del futuro e che ha come fondamento quello dì spronare i suoi studenti ad avere un forte impegno sociale e partecipare alla vita di Israele, anche all'estero. La sua passione per la moda e la naturale bellezza che madre natura le ha donato hanno fatto il resto e Tamar ha cominciato sfilare, vincendo il premio «Look Style» alla recente Vienna Fashion Week.
   Ma mai prima d'ora in Germania un'ebrea si era spinta così in là. Tamar Morali ha rotto, con la sua partecipazione, quel tabù che molti ebrei ancora nutrono nei confronti della Germania, memori del passato nazista. Per anni moltissimi ebrei hanno rifiutato di suonare e ascoltare la musica di Wagner, uno dei compositori prediletti da Hitler che faceva suonare il suo Parsifal nel lager del Reìch, mentre la gente veniva gasata. Ora Tamar è l'esempio che vuole dire agli ebrei dì tutto il mondo che si può andare avanti, senza dimenticare.
   Intervistata dal Jerusalem Post, Tamar non ha nascosto la sua gioia per l'importante traguardo raggiunto, che va al dì là del semplice piazzamento tra le finaliste dì Miss Germany. «Guardo alla mia candidatura non solo come risultato personale, ma come al risultato per Israele e il popolo ebraico nella diaspora» ha confidato Tamar. «La Germania è un paese che ha una storia molto complicata nei confronti del popolo ebraico, qui gli ebrei hanno vissuto orrori incredibili». Ma lei è orgogliosa del suo essere ebrea e tedesca e ha sottolineato che il passato doloroso della Germania nazista non va dimenticato, ma che bisogna mostrare anche la forza della comunità ebraica che oggi è presente in Germania. «Voi [i nazisti] avete cercato dì distruggerci, ma noi siamo ancora qui, abbiamo una voce e collaboriamo anche con i tedeschi» ha dichiarato, precisando che bisogna «trovare un modo in cui tutti possiamo vivere in pace, e penso che questo sia un buon inizio». È anche molto contenta si suscitare, per la sua identità ebraica, interesse e curiosità tra gli organizzatori e le altre concorrenti. Non resta che augurarle buona fortuna, anzi, mazal tov, Tamar!

(Libero, 24 novembre 2017)


Palestina in festa per lo storico sorpasso a Israele nel ranking Fifa

Per la prima volta da anni la Nazionale di calcio palestinese ha sorpassato quella israeliana nella classifica internazionale della Fifa: 1'82o posto contro il 98o. Un salto, considerato storico, messo in risalto anche da un lungo servizio mandato in onda dalla tv pubblica israeliana. A far scattare il ranking Fifa sarebbe stato 1'8-1 con cui i palestinesi hanno regolato i conti con la rappresentativa delle Maldive la settimana scorsa a Jenin, in Cisgiordania.
   Ma il cambio di passo è in atto da tempo: basti pensare che fino a pochi anni fa, e prima che il generale Jibril Rajoub - alto esponente della leadership palestinese - diventasse presidente della Federcalcio locale, la Nazionale era al 152o posto.
   Va però detto che per motivi politici le due squadre giocano in due mondi diversi e di differente caratura calcistica: Israele è inserita nel circuito europeo, i palestinesi in quello asiatico. Basti pensare, ad esempio, che nelle ultime qualificazioni mondiali, Israele era nello stesso girone di Spagna e Italia. Ma questo - come ha sottolineato la stessa tv israeliana - non ridimensiona i risultati positivi dei palestinesi avvenuti in pochi anni e che hanno portato la Nazionale ad incontrare alla pari squadre come quelle degli Emirati, della Giordania e dell'Arabia Saudita con disponibilità economiche di gran lunga maggiori. A portare linfa finanziaria nuova sarebbe l'ingresso nel calcio palestinese di uomini d'affari locali assieme all'Autorità nazionale palestinese (Anp) e ad entità internazionali.
   Ma se gli stipendi dei giocatori sono ancora bassi (da 6 a 10mila shekel al mese, 1500/2500 euro) a essere sempre pieni di pubblico entusiasta sono gli spalti degli stadi.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 24 novembre 2017)


Terrorista a Napoli, interrogazione al ministro Minniti

Forza Italia e Pd all'attacco del sindaco che potrebbe partecipare all'iniziativa

 
   Leila Khaled
Leila Khaled conferma la sua presenza a Napoli il 4 dicembre ed è subito polemica. La ex militante del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, protagonista di due dirottamenti aerei nel 1969 e nel 1970, sarà in città all'ex Asilo Filangieri, edificio di proprietà del Comune di Napoli e gestito da un collettivo, per un convegno sui temi dell'occupazione militare in Palestina, del diritto alla resistenza e per raccontare la storia di Leila. «Bisogna contestualizzare i momenti nei quali Khaled dirottò gli aerei. Parliamo degli anni '70, ed era un modo per far sentire la propria voce, infatti non ci sono state vittime civili. Sono stati due eventi simbolici» spiega Luca, uno degli organizzatori. La notizia, apparsa ieri sul Corriere del Mezzogiorno, racconta anche dell'invito fatto al sindaco de Magistris. «Valuteremo se invitare il primo cittadino - sottolineano dall'organizzazione - al momento non è stato ancora invitato nessuno».
   Da Palazzo San Giacomo ribadiscono: «L'appuntamento non è in agenda», il che non esclude la partecipazione di de Magistris all'iniziativa. Il pm è solito prendere parte ad iniziative alle quali tiene particolarmente, a prescindere dalla sua agenda. Intanto però la miccia è stata accesa e la bomba pronta ad esplodere. «Mentre in città, in questi anni, si è impedita più volte la libera espressione di pensiero a svariati esponenti politici che sono stati bollati come nemici del popolo, il 4 dicembre prossimo all'Asilo Filangieri, struttura di proprietà del Comune, la ex terrorista Leila Khaled, autrice di due dirottamenti aerei, sarà ospite di un convegno e tra gli invitati risulta esserci anche de Magistris» tuona Valeria Valente, deputata e consigliere comunale del Pd. «Lo stesso sindaco - incalza Valente - che non ha preso le distanze da coloro che non hanno permesso a Camusso e a D'Alema di parlare all'università».
   Mentre l'altra deputata e consigliera comunale di Fi, Mara Carfagna, ha scritto un'interrogazione parlamentare al ministro dell'Interno. «Leila Khaled, nell'ambito del suo tour italiano, sarà ospite a Napoli - scrive Carfagna - il prossimo 4 dicembre, di una iniziativa che si svolgerà presso l'Asilo Filangieri, edificio di proprietà del Comune, per raccontare la sua esperienza politica e discutere in merito alla irrisolta e drammatica questione palestinese; all'iniziativa sarebbe stato invitato anche il sindaco de Magistris, ma non si sa ancora se parteciperà». E chiede al ministro «se è a conoscenza dei fatti, in un momento storico così delicato in cui la lotta al terrorismo e la garanzia delle sicurezza dei cittadini dovrebbero ricoprire una posizione strategica fondamentale nell'azione politica» e come «sia permesso ad un esponente di una formazione terroristica di poter parlare in una struttura pubblica concessa in gestione ad una associazione privata».

(Il Mattino, 24 novembre 2017)


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Quella nemica della pace accolta da eroina e l'odio per Israele

di Pierluigi Battista

 
Una lottacontinuista contro Israele
Un'intervista che piacerà agli antisionisti di sinistra
Che poi, perché accogliere con tanto entusiasmo una militante diventata famosa per aver dirottato aerei come arma letale di lotta politica per distruggere lo Stato di Israele, insomma una terrorista ancora convinta delle sue scelte? Perché, come ha fatto il sindaco di Napoli e come ha fatto il Parlamento europeo e altre istituzioni che saranno incontrate in un tour promozionale, celebrare le gesta di Leila Khaled, che nemmeno due mesi fa ha legittimato l'assassinio di tre cittadini israeliani come guerra santa contro l'odiato «sionismo»?
   Perché questo è il punto. Non tanto impedire l'ingresso in Italia di chi ha fatto del terrorismo e dell'appoggio alle organizzazioni palestinesi ancora oggi più estremiste il suo credo, perché comunque la libertà di parola e di circolazione non può mai essere messa in discussione. Ma accogliere al pari degli eroi una nemica dichiarata della pace e della convivenza tra israeliani e palestinesi, quale oscurità ideologica nasconde?
   L'odio per Israele abbraccia anche organizzazioni politiche e gruppi accademici che hanno eletto la democrazia israeliana a bersaglio di ogni invettiva, non molto lontana dagli stilemi del più vieto antisemitismo, e a un boicottaggio che non ha eguali in un mondo in cui pure spadroneggiano le più feroci dittature. Ma perché le istituzioni che sono di tutti i cittadini debbano sponsorizzare gruppi e personalità che teorizzano e praticano la guerra totale contro Israele, questo è davvero incomprensibile. O meglio, è comprensibile solo alla luce di una persistente, coriacea, inscalfibile sopravvivenza di pregiudizi culturali in cui nemmeno ci si accorge della presenza di veleni antiebraici camuffati da proclami antisionisti. Per cui è più che giustificata la preoccupazione delle comunità ebraiche, allarmate non dall'attacco a uno Stato come quello di Israele ma dai motivi ideologici e culturali che quell'attacco trascina inesorabilmente con sé. Ed è ingiustificabile invece l'accondiscendenza delle istituzioni, a cominciare dal governo di Napoli, nei confronti di figure come quella di Leila Khaled, terrorista non pentita, sostenitrice dei mezzi più violenti nella guerra contro Israele.

(Corriere della Sera, 24 novembre 2017)


Antisemitismo a Londra, aggredita donna ebrea

Una 70enne è stata aggredita da un uomo che le ha sbattuto la testa contro il muro.

Pericolo antisemitismo a Londra, dove una donna di 70 anni è stata aggredita da un uomo che le ha sbattuto la testa contro il muro al grido "zyd", ebreo in lingua polacca. L'episodio è avvenuto a Stamford Hill, quartiere a nord della città: lo stesso dove nel marzo scorso, a pochi passi dalla sinagoga, era apparso un cartello a forma triangolare - come quelli di pericolo - al cui interno era ritratto un ebreo ortodosso: chiaro segnale per indicare di fare attenzione agli ebrei.
In quell'occasione i media si erano divisi tra chi sosteneva che l'episodio dovesse essere etichettato come antisemita e chi, invece, la riteneva una bravata, vista la presenza di altri cartelli simili che non riguardavano gli ebrei ritrovati in zona.
Sempre a Londra si è verificato in questi giorni un altro episodio spiacevole che ha visto protagonista, suo malgrado, un adolescente ebreo di 12 anni, studente della Jewish Community Secondary School, istituto scolastico che si trova nel borgo londinese di Barnet, aggredito da un gruppetto di quattro ragazzi. Il 12enne ha riportato ferite gravi ed è stato ricoverato in ospedale.
Sull'aggressione avvenuta a Primrose Hill, a nord di Londra, vicino all'ingresso di Regents Park, sta indagando la polizia. Il sergente investigativo Steve Masterson ha dichiarato allo Standard:
"La vittima in questo caso ha riportato un grave infortunio che continua a essere classificato come serio. È fondamentale rintracciare e arrestare i responsabili di questo attacco senza motivo e codardo e faccio appello a chiunque si trovasse nel parco alle 9:30 circa. chi ha visto un gruppo di maschi contatti la polizia".
Il Community Security Trust, un'organizzazione senza scopo di lucro che aiuta a proteggere le istituzioni ebraiche britanniche, ha detto di non ritenere che l'attacco vada classificato come episodio antisemita.
Rimane il dubbio. Perché la situazione in Europa per gli ebrei va tenuta sotto controllo.
In Francia, molti ebrei sono stati costretti a lasciare il paese per trasferirsi in Israele a causa del dilagante antisemitismo.
In Polonia durante le celebrazioni dell'indipendenza, 60 mila persone hanno sfilato gridando frasi antisemite, senza che il governo di Varsavia prendesse una posizione chiara in merito.
In Inghilterra (nel caso specifico a Londra) accadono episodi quanto mai discutibili…

(Progetto Dreyfus, 24 novembre 2017)


In Inghilterra si cacciano dalle università le femministe contrarie al gender

Quello che è stato vero per secoli oggi è eresia

di Giulio Meotti

ROMA - Gli studenti di Medicina del King's College di Londra avevano chiesto a Heather Brunskell-Evans, ricercatrice nella facoltà e portavoce del Women's Equality Party, di tenere una conferenza su "pornografia e sessualizzazione delle donne". Ma pochi giorni dopo aver parlato alla radio, la facoltà ha fatto sapere a Brunskell-Evans che l'evento era stato cancellato a causa delle "preoccupazioni" che le sue opinioni sui transessuali avrebbero violato la politica dello "spazio sicuro" in vigore nelle accademie britanniche. L'accademica aveva sostenuto che gli adulti transgender si possono definire "in qualsiasi modo vogliano", ma che sui bambini serve prudenza: "Se un bambino decide che è un astronauta, ci si può giocare sopra, ma chiaramente il bambino non è un astronauta".
   "La vigliaccheria della risposta istituzionale è più che riprovevole", ha poi detto Brunskell-Evans al Times, sostenendo che le istituzioni accademiche stanno silenziando il dibattito per paura di offendere la comunità transessuale. "Nessuno parlerà. Le brave persone stanno indietro, non fanno niente, come altre vengono messe alla berlina. Le organizzazioni e gli individui sono pietrificati dall'idea di essere viste come portatori di idee che non sostengono in modo inequivocabile la dottrina transgender. E' davvero scioccante". Il King's College di Londra aveva da poco assunto dei "marescialli dello "spazio sicuro" per fare la guardia a eventi universitari cui prendono parte ospiti controversi. Il sindacato studentesco dell'Università ha chiesto a questi "ufficiali", pagati dodici sterline all'ora, di vigilare su eventi dove esiste un potenziale di offesa per i membri del pubblico.
   Non è la prima volta che celebri femministe sono messe a tacere nelle università inglesi perché dissentono sulla questione transgender (ne è una madrina Camille Paglia). Germaine Greer, icona del movimento femminista, aveva detto che i trans "non sono donne" e che "il messaggio è che un uomo che si impegna così tanto per diventarlo, sarà una donna migliore di qualcuno che è nato donna". Era così partita una petizione per cacciare Greer dall'Università di Cardiff.
   Fino a oggi, la civiltà è progredita attorno all'idea che il sesso biologico fosse definito alla nascita. "Questa è l'eresia ora" ha scritto il direttore del magazine libertario inglese Spiked, Brendan O'Neill. "Non importa che la maggior parte della gente lo creda, o che la società sia stata organizzata su questa base per secoli: dall'oggi al domani è diventato inammissibile. Stiamo coltivando una nuova generazione che si aspetta che ogni proprio istinto sia rispettato istantaneamente e peggio che le infrastrutture sociali, dai bagni alle politiche, si muovano attorno ai loro istinti".
   Il mese scorso, un'altra femminista di primo piano si è vista ritirare l'invito all'Università di Cambridge, tra le preoccupazioni che gli attivisti transgender si sarebbero opposti alla sua presenza. Linda Bellos era stata invitata dalla Beard Society al Peterhouse College annunciando che avrebbe "messo in discussione pubblicamente alcune 'transpolitiche"'. Linda Bellos è una donna, nera, ebrea, lesbica e femminista. Ma per i nuovi standard del politicamente corretto, non basta più. Deve anche essere accondiscendente sui trans. E domani?

(Il Foglio, 24 novembre 2017)


Siracusa - Il Mikveh di Ortigia, traccia di un passato ebraico

di Lucilla Efrati

Il Mikveh di Ortigia
Da piazza Archimede scendi lungo via della Maestranza, la seconda a destra è via della Giudecca. A ora di pranzo le stradine di Ortigia sono deserte, piove, il quartiere sembra addormentato. Ascolto i miei passi lungo la strada, mentre immagino quello che deve essere stato questo posto prima della cacciata ordinata da Isabella e Ferdinando II d'Aragona, re di Spagna, nel 1492.
Si ipotizza che all'epoca a Siracusa vivessero circa 5000 ebrei e che nel quartiere ebraico vi fossero botteghe, un ospedale, il mercato, il macello, 12 sinagoghe e 3 Mikweh, il più importante dei quali, scoperto solo 25 anni fa dalla marchesa Amalia Danieli Di Bagni durante i lavori di ristrutturazione dell'Hotel all'interno del quale è situato.
Gli ebrei siracusani erano completamente autosufficienti, dediti al commercio. Nel quartiere ebraico c'era anche il forno. Mi lascio andare lungo i vicoli e le case di pietra bianca, quasi a perdermi per le stradine dove mi sembra di sentire le voci allegre dei bambini che giocano nei cortili e sulle piazzette. Immagino le donne intente a stendere i panni o impegnate nella cucina e gli uomini a vendere al mercato. Immagino scene di vita spazzata via da un editto, che costrinse tutta la popolazione a lasciare le case o a convertirsi lasciando quel quartiere nel silenzio.
Senza rendermene conto sono arrivata a via Alagona.
È tardi, il Mikwe è chiuso, mi spiegano.
Devo essere riuscita a impietosire il signore alla reception perché poco dopo la signora Danieli mi accoglie ospitale, con un mazzo di chiavi in mano. Non mi sembra vero.
Nei 52 scalini che seguono per scendere i 18 metri che mi separano dal Mikwe, la signora mi racconta la storia di questo luogo unico. "Stavo facendo i lavori di ristrutturazione del palazzetto - spiega - e non ero riuscita ancora a dare risposta a un quesito: attaccato a un piccolissimo cortile c'era una costruzione senza alcun accesso". Fu forse la curiosità irresistibile o un'intuizione, ma qualche giorno dopo la signora, assistita da un vecchio muratore, fece fare un buco nel muro della costruzione al di là del quale una piccola stanzetta piena di materiali e detriti lasciò scorgere una interminabile scala: quella che ora sto percorrendo io.
Ci vollero 156 camion per svuotare la stanzetta e riportare alla luce l'antico Mikwe ebraico, una sala quadrata con quattro grandi colonne quadrate, tutto intorno un sedile scolpito nella pietra. Fra le quattro colonne tre vasche poste a trifoglio, poi altre due piccole stanzette attigue, con altre due vasche di acqua limpida. Gioielli scavati nella pietra. Mi guardo intorno incredula ed emozionata osservando una riga nera che segna il livello in cui arrivava l'acqua nei giorni di "piena" e mi sembra un miracolo che dopo 500 anni tutto questo sia tornato a vivere testimone di un tempo magico e lontano, ma riaffiorato ora più forte che mai.

(moked, 23 novembre 2017)


Critica il Memoriale della Shoah a Berlino e gliene costruiscono una copia sotto casa sua

Björn Höcke, leader della Afd in Turingia, aveva definito l'opera "un monumento della vergogna". In risposta, il Centro per la Bellezza Politica ha realizzato una riproduzione del monumento nei pressi dell'abitazione dell'esponente del partito di destra.

 
Morius Enden e Jenni Moli del collettivo Centro per la Bellezza Politica
Parlando del Memoriale dell'Olocausto costruito a Berlino, Björn Höcke, del capo in Turingia del partito di estrema destra AfD, lo aveva definito "un monumento della vergogna". Il collettivo Zentrum für Politische Schönheit (ZPS) (Centro per la Bellezza Politica) ha deciso di riprodurre il monumento dedicato agli ebrei vittime del genocidio nazista sotto casa del politico, installando 24 lastre di cemento nel giardino accanto alla sua abitazione.

 L'impresa del Centro per la Bellezza Politica
  Come riporta Deutsche Welle, Höcke abita a Bornhagen, un piccolo villaggio al confine tra Turingia e Assia con 270 abitanti. Durante la notte di mercoledì 22 novembre un team guidato dal direttore artistico di ZPS, Philipp Ruch, con il favore della notte e la nebbia, ha installato 24 lastre di cemento che replicano in piccolo l'impianto del monumento nella capitale tedesca, che ne conta 2.700. Il "Memoriale agli ebrei assassinati d'Europa" è stato installato in un giardino nei pressi dell'abitazione di Höcke. "Stiamo facendo il nostro dovere di buoni vicini - ha spiegato Ruch al Frankfurter Rundschau -. Speriamo che gradisca la vista ogni giorno guardando fuori dalla finestra".

 Una protesta sostenuta dal crowdfunding
  Le forze dell'ordine erano a conoscenza dell'operazione. Il collettivo nei giorni precedenti al 22 novembre aveva preso in affitto la proprietà confinante con la casa di Höcke a seguito delle dichiarazioni rilasciate a Dresda lo scorso gennaio, per metterlo faccia a faccia con la gravità delle sue dichiarazioni. ZPS ha poi lanciato una campagna di crowdfunding per finanziare la campagna di protesta per almeno due anni. Al momento è stato raggiunto l'obiettivo iniziale di 28.000 euro. Ora si spera di arrivare a 54.000 euro per mantenere l'installazione per almeno 5 anni. "Höcke dovrà affrontare il fatto che ha dei vicini che non considerano il Memoriale dell'Olocausto un monumento della vergogna, ma che cercano di ricordare che cosa è successo per impedire che accada di nuovo", ha sottolineato Ruch.

 Le dichiarazioni di Björn Höcke
  Lo scorso gennaio Björn Höcke aveva dichiarato che la Germania deve smetterla di sentirsi colpevole e cambiare il modo di ricordare il periodo nazista. Come riporta Deutsche Welle, il politico dell'AfD, terza forza politica in Germania, aveva parlato del monumento all'Olocausto di Berlino, il memoriale dedicato agli ebrei assassinati in Europa inaugurato nel 2005, definendolo un "monumento della vergogna". Per il politico l'idea di storia che sta alla base della coscienza tedesca contemporanea" è un piano di rieducazione cominciato nel 1945 e volto a tagliare le nostre radici... ci sono quasi riusciti... il nostro stato mentale continua ad essere quello di un popolo sconfitto".

(TG24, 23 novembre 2017)


Putin, Rohani e Erdogan: la strada per la pace in Siria è aperta

 
Il "Congresso del Dialogo Nazionale della Siria" a Sochi
SOCHI - Il presidente russo Vladimir Putin al centro con a destra il collega iraniano e a sinistra quello turco: così si presentavano in una conferenza stampa congiunta a Sochi, i tre leader che hanno annunciato che la strada verso la pace per la Siria è stata aperta.
La diplomazia russa prende ora il centro della scena dopo che l'aviazione e l'esercito di Mosca sono riusciti a difendere le posizioni di Bashar al Assad. "Prendo atto con soddisfazione che i presidenti di Iran e Turchia hanno sostenuto l'iniziativa di convocare un forum generale - il Congresso del Dialogo Nazionale della Siria", ha affermato il leader russo. La Russia, l'Iran e la Turchia hanno adottato una dichiarazione congiunta che definisce le aree prioritarie per la cooperazione sul processo di pace siriano, come ha detto il presidente russo Vladimir Putin dopo i colloqui. Come sottolineato da Vladimir Putin, il ministero degli Esteri, i rappresentanti dei servizi speciali, i dipartimenti della difesa sono stati incaricati di lavorare ulteriormente sulla composizione e sui tempi del congresso a Sochi. I capi di stato hanno anche concordato di lavorare sulla tempistica e la composizione del congresso per il dialogo nazionale siriano a Sochi. Poco prima, Putin all'incontro con le sue controparti turche e iraniane nella città russa di Sochi, ha detto che la dissoluzione della Siria è stata impedita: "Le operazioni militari su larga scala contro le bande terroristiche in Siria stanno volgendo al termine. Vorrei sottolineare che, grazie agli sforzi di Russia, Iran e Turchia, lo scioglimento della Siria, il suo sequestro da parte dei terroristi internazionali e il disastro umanitario sono stati prevenuti… I militanti in Siria hanno subito una sconfitta devastante e c'è una reale possibilità di porre fine a questa lunga guerra civile", ha detto Putin.

(Pars Today, 23 novembre 2017)

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Siria - Putin vuole stravincere. E prepara un piano di pace

Dopo la missione impossibile con cui ha messo fine alla guerra, colloqui con Iran e Turchia per decidere il futuro.

di Gian Micalessin

La Gioconda russa
Una previsione fattasi ancor più verosimile due mesi dopo, quando la Turchia di Erdogan abbatté un aereo russo. Invece Vladimir Putin ha fatto il miracolo. In poco più di due anni ha realizzato un'autentica missione impossibile mettendo fine - grazie alla sconfitta dell'Isis e degli altri gruppi jihadisti - a un conflitto costato oltre 320mila vite. Un'impresa suggellata martedì dell'abbraccio con il presidente siriano Bashar Assad arrivato in gran segreto a Sochi per dare il pieno assenso al suo piano negoziale. Un assenso scontato visto che solo l'aiuto di Putin gli ha permesso di sopravvivere a chi voleva fargli fare la stessa fine di Gheddafi e Saddam Hussein. Ma la missione di Putin non è finita. Non pago di aver tenuto in sella Assad vuole ora far siglare un ambizioso piano di pace ai protagonisti diretti e indiretti del conflitto diventando così il vero ago della bilancia degli equilibri meridionale. Non a caso ieri a Sochi sul Mar Nero ha guidato i colloqui tra il presidente iraniano Hassan Rouhani - principale alleato militare di Bashar Assad - e il suo omologo Recep Tayyp Erdogan, grande protettore di una rivolta anti Assad nata e cresciuta nei santuari disseminati oltre la frontiera turca. Ma non solo. Mentre Rohuani ed Erdogan concordavano con Putin un piano per garantire la permanenza al potere di Bashar Assad e lo svolgimento di nuove elezioni, a Riad il re saudita Salman e suo figlio Mohammed Bin Salman mettevano in atto un altro capitolo del piano proposto da Mosca.
  Proprio ieri l'«Alto Comitato per i Negoziati» - la rappresentanza dei ribelli siriani responsabile delle trattative convocata a Riad - annunciava le dimissioni del suo attuale responsabile Riyad Hijab e di altri dirigenti legati ai gruppi jihadisti più radicali. Ai negoziati guidati da Mosca parteciperà così, con la benedizione saudita, una delegazione ripulita di tutte quelle componenti radicali restie ad accettare una pace concordata con il regime di Bashar Assad. L'imminente «pax Russa» contiene però anche molte incognite. La prima è senza dubbio il ruolo dell'America di Donald Trump. Martedì, dopo una lunga telefonata con il suo omologo russo il presidente statunitense si è detto pronto ad appoggiare il piano di Mosca.
  Il primo a guardare con estrema preoccupazione allo smarcamento statunitense è un Israele preoccupato dalla legittimazione negoziale di un Iran sempre più minaccioso, sempre più vicino alle sue frontiere e capace in futuro di sfoderare l'arma nucleare. Un nemico che Israele potrebbe decidere di contenere con operazioni preventive contro lo stesso Iran o contro i suoi alleati. Ancor più preoccupati sono però i curdi siriani. Utilizzati dagli americani come carne da cannone nella lotta contro l'Isis a Raqqa e dintorni rischiano ora di venir sacrificati nel nome della realpolitik, ovvero di un accordo a quattro tra Mosca, Ankara, Damasco e Teheran. Ma in questo scenario anche il sì di Trump appare quanto mai temporaneo. Nel lungo periodo l'eventuale sostegno di Washington alla trattativa russa equivale infatti a un autoemarginazione dai giochi mediorientali. Un'autoemarginazione che regala a Putin lo scettro d'indiscusso dominus della regione. E c'è da chiedersi quanti a Washington e al Pentagono siano disposti ad accettarlo.

(il Giornale, 23 novembre 2017)


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Occhio, in Siria è sparito l'equilibrio

di Daniele Raineri

Due notizie scomparse dalla guerra siriana: la minaccia contro Israele e la vittoria americana contro l'Isis L'Iran cita Trump: "Lo Stato islamico è una creatura americana, l'abbiamo battuto"

ROMA - Ci sono almeno due storie che non appaiono quasi mai nella conversazione corrente sulla guerra in Siria - dire "guerra in Siria" ormai è un eufemismo, quello che succede investe tutto il medio oriente e oltre - e però sono molto importanti. La prima: la Difesa nazionale di Israele si basa su un'architettura di sicurezza molto studiata e che prende in considerazione in modo attentissimo la geografia della zona. Israele è un paese molto piccolo, 135 chilometri di larghezza al massimo - meno del tratto autostradale che collega Torino e Milano - e questa scarsità di territorio è il motivo degli infiniti negoziati con i palestinesi sulle linee di confine. Se Israele cede troppo terreno, mette in crisi la difesa nazionale perché lo spazio di manovra finisce subito. Non c'è più margine per bloccare le aggressioni via terra, non c'è più il tempo di intercettare gli attacchi via aria, non c'è più il tempo di reazione minimo contro eventuali missili. Questo spazio varia a seconda degli scenari di guerra. Per esempio il gruppo Hamas nella Striscia di Gaza riesce a lanciare verso Israele razzi esplosivi perlopiù di tipo rudimentale, ma se ci fosse un avversario più avanzato dal punto di vista tecnologico allora il problema sarebbe più urgente perché, come abbiamo detto, per un missile o un aereo attraversare lo spazio aereo israeliano è questione di pochi minuti (che è la ragione per la quale talvolta l'aviazione israeliana quando si deve esercitare lo fa verso il Mediterraneo,
Prima del 2011 c'era un governo siriano che non desiderava un confronto militare diretto con Israele, ora quello schema è saltato per sempre.
altrimenti non avrebbe i chilometri necessari a un volo di addestramento). Ora, la guerra civile in Siria ha sfasciato quest'architettura di sicurezza. Dove prima del 2011 c'era un governo siriano che non desiderava un confronto militare diretto con Israele - e anzi era impegnato in colloqui riservati con Gerusalemme, tramite la mediazione turca del presidente Recep Tayyip Erdogan - ora quello schema è saltato per sempre: a partire dal 2012 il governo di Bashar el Assad ha avuto bisogno dell'aiuto militare del gruppo libanese Hezbollah per non soccombere nella guerra civile e partire dal 2013 ha avuto bisogno dell'aiuto militare diretto da parte dell'Iran. Hezbollah e gli iraniani sono riusciti - assieme ai russi - a rovesciare la situazione e a portare Assad in vantaggio definitivo sui suoi oppositori (mentre l'America si occupava dello Stato islamico: ci torniamo fra poco), ma ora non possono essere rimandati a casa, sono in credito enorme e però di fatto hanno un'idea tutta loro della Siria e non è restituirla com'era nel 2011. Considerano Assad alla stregua di un vassallo e considerano la Siria come una piattaforma militare da non abbandonare. Sia Hezbollah sia l'Iran sono nemici acerrimi di Israele e qui entra in gioco il fattore geografico. Prendiamo cos'è successo a giugno, quando lo Stato islamico ha tentato di attaccare con un gruppetto di attentatori il Parlamento a Teheran. Undici giorni dopo le Guardie della rivoluzione hanno lanciato quattro missili balistici modello Zulfiqar (è il nome della spada data a Maometto dall'arcangelo Gabriele) contro le postazioni dello Stato islamico attorno a Deir Ezzor, in Siria. E' stato un volo di circa 670 chilometri. Prendiamo, per fare un altro esempio, il missile che il 4 novembre gli Houthi hanno sparato dallo Yemen contro l'aeroporto internazionale della capitale saudita Riad. E' stato un lancio di circa 800 chilometri, due anni fa gli Houthi non ci riuscivano ma ora - secondo il Pentagono - hanno a disposizione anche loro missili fabbricati dall'Iran.
  Ora trasliamo queste capacità sul confine tra Israele e Siria: la distanza tra al Quneitra, la città siriana appena oltre le alture del Golan, e Tel Aviv è di 150 chilometri. Gli iraniani sono molto interessati a Quneitra: nel gennaio 2015 un drone israeliano ha ucciso un generale iraniano che era lì a fare un sopralluogo. Ci si aspetta che la Russia dia garanzie forti a Israele che non succederà nulla di grave, ma queste rassicurazioni non sono ancora arrivate. Le richieste non ottengono nulla di concreto. A leggere l'asciutta nota del Cremlino, si vede che martedì dopo la notizia dell'incontro tra Putin e Assad c'è stata una telefonata di mezz'ora tra Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla presenza degli iraniani in Siria; la telefonata è stata fatta "su iniziativa israeliana".
  A Gerusalemme considerano ogni minaccia potenziale come una minaccia reale e non sono i soli a fare i conti dei chilometri, succede anche tra i paesi arabi del Golfo, e questo fatto - di avere un nemico in comune - spiega l'improvviso clima di idillio e i suoni di violini che arrivano dalla diplomazia arabo-israeliana. La settimana scorsa il capo di stato maggiore di Israele, Gadi Eisenkot, ha dato la prima intervista a un sito saudita per dire che "serve un piano comune". Due giorni fa un ex ministro della Giustizia saudita ha dato un'intervista al quotidiano israeliano Maariv per dire che "attaccare Israele non è da bravi musulmani". Domenica uno scrittore kuwaitiano in un'intervista alla tv di stato ha detto che "Israele è uno stato legittimo, non è un occupante". Non è il trionfo dell'amore, è il trionfo dell'Iran.
  In questo mondo rovesciato, c'è un altro fatto trascurato nella conversazione corrente: l'America ha schierato contro lo Stato islamico un apparato misto militare e d'intelligence che nessun altro paese poteva schierare e ha smantellato pezzo per pezzo la struttura dello Stato islamico, ha dato la caccia ai capi, li ha individuati, li ha scovati, li ha uccisi. Senza quell'apparato, non ci sarebbe stata la disfatta dello Stato islamico. Le recenti vittorie del fronte assadista appoggiato dai jet russi nell'est della Siria arrivano soltanto dopo che il meccanismo della Coalizione impegnato nell'operazione Inherent Resolve ha devastato le capitali dello stato islamico in Iraq, Libia e Sirte. E' successo anche nelle battaglie assadiste: come
Russi, Hezbollah e iraniani non avevano come priorità la sconfitta dello Stato islamico, avevano come obiettivo urgente la messa in sicurezza di Assad.
scordare che la prima volta che l'esercito siriano liberò la città di Palmira fu dopo un accordo di resa con lo Stato islamico grazie a cui i terroristi si tennero le armi pesanti, cannoni e carri armati? Prima della seconda riconquista, di nuovo da parte dell'esercito siriano, furono gli aerei americani a distruggere quei pezzi bellici uno a uno. Russi, Hezbollah e iraniani non avevano come priorità la sconfitta dello Stato islamico, avevano come obiettivo urgente la messa in sicurezza di Assad. Non è scandaloso dirlo, nessuno è tenuto a combattere al di fuori dei propri interessi nazionali, ma basta vedere l'ordine delle battaglie per averne conferma: prima la piana di Rama e la città di Aleppo, dove lo Stato islamico non c'è (da gennaio 2014) e dove c'erano altri gruppi (tra cui Jabhat al Nusra, divisione siriana di al Qaida, che ora ha cambiato nome in Hayat Tahrir al Sham) e dopo, soltanto dopo, c'è stata la spinta verso lo Stato islamico che occupava la Siria orientale. Di questa campagna americana anti-Stato islamico fanno parte eventi molto ampi, come l'alleanza strategica con i curdi delle Unità di difesa (Ypg) per liberare il nord-est della Siria e Raqqa, e fatti particolari che quasi sono passati inosservati, come l'uccisione di capi leggendari del gruppo (Abu Ali al Anbari e Amr al Absi, marzo 2016; Omar al Shishani, luglio 2016; Abu Mohammed al Furqan, leader del settore media, l'uomo dietro alla maggioranza dei video terribili che abbiamo visto, settembre 2016). Non è questione di Amministrazione Obama o di Amministrazione Trump, tanto che l'uomo che ha diretto lo sforzo, il consigliere speciale Brett McGurk, è uno dei pochi che ha tenuto il suo posto nel cambio di presidenti: è che quando si è messo in moto il meccanismo americano l'utopia del Califfato che soggioga il mondo ma senza difese aeree è crollata. Senza dimenticare il lato oscuro dell'operazione militare: un'inchiesta del New York Times ha appena scoperto che il numero di vittime civili uccise nei raid contro lo Stato islamico è 31 volte superiore a quello ufficiale dichiarato dal Pentagono. Per questo, è stato paradossale leggere due giorni fa la lettera che il generale della Guardie rivoluzionarie iraniane, Qassem Suleimani, ha mandato all'ayatollah Khamenei, per celebrare la vittoria finale contro lo Stato islamico. La prima metà della lettera elenca gli orrori dei fanatici e poi spiega: "Tutti questi crimini sono stati pianificati e realizzati dai capi americani, come ha riconosciuto l'ufficiale più alto in grado degli Stati Uniti che al momento è il presidente (è un riferimento a quando in campagna elettorale Donald Trump disse che Hillary Clinton ha creato lo Stato islamico); questo schema è ancora portato avanti con qualche modifica dagli attuali leader americani".

(Il Foglio, 23 novembre 2017)


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Improvvisazioni e intemperanze. L'irrilevanza degli Usa in Siria

Dov'è finita l'America? La retorica del ritiro e dell'interesse nazionale "first'' ha generato un effetto perverso.

di Paola Peduzzi

Paola Peduzzi
MILANO - Chi vince la guerra organizza le conferenze di pace e i piani di ricostruzione, difende i propri interessi di vincitore e mostra più o meno magnanimità nei confronti degli sconfitti. Per la Siria, la conferenza di pace è organizzata da Russia e Iran, quindi è chiaro chi sono i vincitori, pure se - ed è un "pure se" enorme - lo Stato islamico non è stato battuto dalla Russia né dall'Iran né tantomeno dal beneficiario assoluto di questa alleanza, l'highlander siriano Bashar el Assad. "Dopo la nostra vittoria sul terrorismo, siamo pronti a dialogare con quelli che vogliono veramente una soluzione politica", ha detto il rais siriano dopo aver abbracciato il presidente russo, Vladimir Putin, a Sochi, ma quella "nostra vittoria sul terrorismo" non è del regime siriano né di quello russo né di quello iraniano: è degli Stati Uniti d'America. La lotta comune al terrorismo ha fatto da alibi all'alleanza Mosca-Teheran-Damasco per molti anni: mentre gli americani investivano uomini, risorse, capitale politico per "distruggere" lo Stato islamico - infine riuscendoci - gli altri lavoravano per distruggere i nemici interni di Assad e per allargare le proprie aree di influenza in Siria e nella regione. Questa è la vittoria che oggi rivendicano Putin e i suoi alleati, questa è la vittoria che permette loro di riunire altri leader per decidere insieme del futuro della Siria e di concedere all'America (e a Israele) soltanto una telefonata - lunga però, tutti lo sottolineano per mitigare l'effetto contentino - di ricognizione. Gli americani che hanno battuto lo Stato islamico, il nemico comune, restano spettatori, alla meglio informati dei fatti, ma probabilmente nemmeno quello.
  La guerra in Siria, che è iniziata, è sempre utile ricordarlo, con una rivolta del popolo siriano contro il suo dittatore sull'onda delle primavere arabe, è stata scandita da molti paradossi e immense ipocrisie: la vittoria scippata all'America è il gran finale. Ha pesato, e parecchio, sulla comprensione di questo conflitto, l'alibi di cui sopra, la lotta comune contro il terrorismo, che ci ha fatto a lungo credere che ci fossero margini di collaborazione efficaci e duraturi tra gli Stati Uniti e la Russia, sia di intelligence, sia militari, sia strategici. Ancora adesso si sente parlare di piani decisi assieme, ma è sempre più evidente che non c'è nulla di condiviso se non qualche patto di non-attacco diretto che ha impedito - per fortuna - incidenti che avrebbero avuto conseguenze molto gravi. Ma gli interessi tra Russia e Stati Uniti sono divergenti, lo sono da sempre, lo sono nello specifico e lo sono a livello ideologico: l'Amministrazione Trump è straordinariamente anti iraniana, e l'Iran è il primo partner di Putin nella missione di "salvare la Siria dal collasso". Ci sarebbe anche un altro capitolo da aprire che riguarda tutti coloro che si scagliano contro l'imperialismo americano e contro le guerre-fatte-per-il-petrolio degli americani e che neppure si sognano di denunciare l'imperialismo russo: ma è un capitolo ampio, se ne riparlerà.
  Intanto l'America sparisce dalla gestione del futuro della Siria che, come si sa, è anche gestione di un'intera regione. Tale sparizione non è dovuta esclusivamente a Donald Trump: i leitmotiv della politica estera dell'ex presidente Barack Obama erano "ritiro" e "leading from behind". Dopo l'interventismo dell'Amministrazione Bush, l'America ha iniziato un processo di disimpegno e di rafforzamento delle forze locali e regionali: ma l'irrilevanza no, non era tra gli obiettivi perseguiti.
  Gli Stati Uniti hanno investito uomini e risorse in Siria, ma dal punto di vista diplomatico e di immagine, anche per assecondare un'opinione pubblica spazientita dalle guerre in posti lontani apparentemente non rilevanti per la sicurezza nazionale (vedi la Libia), hanno lasciato la regia ad altri paesi. Ci sono stati momenti d'improvvisazione al limite della comicità: nel settembre del 2013, quando ancora aleggiava l'ipotesi di un blitz guidato dagli americani contro Assad, che aveva usato le armi chimiche violando la famigerata "linea rossa" stabilita da Obama (abbiamo scoperto dopo che anche questa linea fu un'improvvisazione in diretta tv), l'allora segretario di stato John Kerry rispose a una domanda in conferenza stampa a Londra. C'è modo per la Siria di evitare un attacco americano? "Certo. Può consegnare ogni pezzo del suo arsenale chimico alla comunità internazionale entro la prossima settimana, ma non lo farà". Mentre rientrava a Washington, Kerry fu contattato dal ministero degli Esteri russo: stiamo per fare un annuncio. Mosca aveva detto a Damasco di consegnare le armi e di fare entrare gli ispettori, Damasco aveva accolto l'offerta. E' così, dopo una risposta frettolosa e sarcastica, che i russi hanno iniziato a prendere la regia della gestione del regime di Assad, il quale utilizza tutt'oggi, quattro anni dopo, armi chimiche che evidentemente non sono state mai consegnate. Ci sono altri episodi come questi, più deprimenti, come la noia di Obama che mastica nicorette scrollando lo schermo del BlackBerry mentre si decide se armare i ribelli siriani, e se sì quali. C'è anche, e qui si arriva a Trump, un tentativo di mettere fine alla carneficina voluta da Assad contro il suo stesso popolo: ad aprile, l'America ha lanciato 50 missili contro una base militare siriana vicino a Damasco. Un blitz che fece enormemente discutere, di cui oggi ci siamo quasi dimenticati. Perché nella retorica dell'America First, nella retorica del disimpegno, del lasciare fare agli altri, dell'occuparsi di sé e non del mondo, quel blitz è sembrato un'intemperanza del presidente, uno sbotto d'ira o di ripugnanza verso azioni criminali, non una decisione politica e strategica. E nel vuoto, poi, ci si perde, di più: si perde anche quando si aveva vinto.

(Il Foglio, 23 novembre 2017)


Gino Bartali e il Gran Mufti di Gerusalemme

Comunicato stampa

Un gruppo di palestinisti, quelli stessi che volevano proiettare al Liceo Michelangiolo l'infame documentario antisemita "Israele il cancro", pretende di dimostrare in Piazza della Signoria, sabato prossimo 25 novembre, contro l'effettuazione in Israele, in occasione del 70o anniversario della fondazione dello Stato, delle prime tre tappe del Giro d'Italia.
Questi signori sono abituati a manipolare la storia ma non possono cancellare il fatto che la presenza del Giro d'Italia in Israele è dedicata alla memoria di Gino Bartali, dichiarato "Giusto tra le Nazioni" dallo Yad Vashem di Gerusalemme, l'istituzione israeliana che ricerca e riconosce coloro che hanno aiutato e salvato gli ebrei durante il periodo della Shoah, come fece appunto, con il rischio della propria vita, il campione di Ponte a Ema.
In quello stesso periodo l'ispiratore riconosciuto dei palestinisti nostrani, il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, viveva a Berlino ospite di Adolf Hitler e conduceva un'attiva propaganda a favore dell'Asse. Tacciano quindi, questi poveri ignoranti, e cerchino piuttosto di studiare un po' la storia che potrebbe aiutarli ad uscire dalla loro confusione mentale.

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 23 novembre 2017)


Hariri ritorna e sorprende: niente dimissioni

di Davide Frattini

Agli sbandieratori che l'hanno celebrato davanti a casa promette «non ho intenzione di lasciarvi soli». E per ora Saad Hariri non ha neppure intenzione di dimettersi. Tornato a Beirut nelle ore delle celebrazioni per il giorno dell'Indipendenza, il primo ministro libanese ha accettato la richiesta del presidente Michel Aoun: il governo - nato solo undici mesi fa - resta in carica, il Paese evita almeno per qualche tempo di riaffondare nel vuoto politico.
   A settantaquattro anni dalla fine del mandato francese, il Libano deve ancora lottare per garantirsi la sovranità, per non diventare - come ai tempi della guerra civile tra il 1975 e il 1990 - il campo di battaglia per sfide che si giocano al di là dei suoi confini. Strategie macchinate in questa crisi nei palazzi dei principi sauditi, dove Hariri è stato ospite - «detenuto» secondo gli avversari - e da dove il 4 novembre aveva annunciato le dimissioni. Di quel discorso restano le accuse all'Iran di voler distruggere gli Stati arabi e a Hezbollah - che di Teheran è il braccio armato e politico in Libano - di tenere in ostaggio il Paese. Adesso ripete di voler «proteggere il Libano dalle guerre circostanti e da tutte le loro ramificazioni». I miliziani di Hezbollah combattono in Siria per garantire a Bashar Assad di restare al potere, un obiettivo che ormai i russi e gli iraniani (alleati nel sostegno al dittatore) considerano raggiunto. Insieme proclamano vittoria.
   I sauditi vogliono contrastare l'espansionismo sciita, chiamano a raccolta le altre nazioni sunnite della regione, Hariri sarebbe diventato una pedina in questo scontro per l'egemonia in Medio Oriente. Riad vuole isolare Hezbollah - quattro suoi ministri siedono nel governo libanese - e pretende che il premier agisca con più forza contro l'organizzazione, con la fermezza che al padre Rafik è costata la vita, massacrato da un'autobomba nel 2005.

(Corriere della Sera, 23 novembre 2017)


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Il premier libanese Hariri ha temporaneamente sospeso le sue dimissioni

Lo scorso 4 novembre il primo ministro si era dimesso mentre si trovava in Arabia Saudita, provocando una crisi politica in Libano

 
Il primo ministro libanese Saad Hariri con il presidente Michel Aoun
Il primo ministro libanese Saad Hariri ha "sospeso temporaneamente" le sue dimissioni, annunciate oltre due settimane fa durante una visita in Arabia Saudita. Hariri, che è tornato in Libano la sera del 21 novembre, ha detto di aver presentato le dimissioni al presidente del Libano Michel Aoun, che tuttavia gli ha chiesto di sospenderle in vista di ulteriori consultazioni.
  I due leader hanno avuto un colloquio dopo che il premier Hariri ha fatto ritorno a Beirut. Aoun aveva insistito che Hariri presentasse le sue dimissioni personalmente, dal momento che quando le ha avanzate si trovava in Arabia Saudita, dove avrebbe potuto essere oggetto di pressioni.
  "Ho presentato oggi le mie dimissioni al presidente Aoun, che mi ha chiesto di aspettare e rimandarle per ulteriori dialoghi sulle sue ragioni e sulla situazione politica. Io ho accettato la sua richiesta", ha detto Hariri in un messaggio televisivo.
  Mercoledì 22 novembre il primo ministro ha partecipato alle celebrazioni per la festa dell'indipendenza nella capitale libanese. Alla parata militare nel centro di Beirut sono presenti anche Michel Aoun e il presidente del parlamento Nabih Berri.
  Nel weekend, dopo un intervento della Francia sulla crisi libanese, Hariri è partito da Riad per andare a Parigi.
  Prima di rientrare in Libano, il premier è andato al Cairo a incontrare il presidente Abdel Fattah al-Sisi. Dopo il summit, ha detto che avrebbe annunciato "la sua posizione politica" una volta tornato in Libano.
  Hariri è poi partito per Beirut da Cipro, dove si è fermato per un incontro di 45 minuti con il presidente Nicos Anastasiades.
  Le dimissioni improvvise di Hariri lo scorso 4 novembre hanno portato il Libano a una crisi politica e all'aumento della tensione con l'Iran, che sostiene il movimento sciita libanese di Hezbollah. Nel suo discorso di dimissioni, il premier ha parlato del timore di essere assassinato e dell'ingerenza dell'Iran sul mondo arabo.
  Hezbollah ha accusato l'Arabia Saudita di aver dichiarato guerra al Libano e di aver costretto il primo ministro Hariri a dimettersi per destabilizzare il paese. Secondo gli sciiti, il primo ministro libanese era detenuto a Riad.
  Hariri è il politico sunnita più influente in Libano ed è vicino al regno saudita. Da dicembre 2016 è alla guida dell'esecutivo libanese e la sua coalizione di governo comprendeva anche Hezbollah.
  L'annuncio delle sue dimissioni ha fatto tornare in Libano la forte contrapposizione tra i sunniti sostenuti dall'Arabia Saudita e gli sciiti appoggiati dall'Iran.
  Domenica 5 novembre il presidente del Libano Michel Aoun aveva detto che non avrebbe deciso se respingere o accettare le dimissioni di Hariri fino a quando il primo ministro non fosse ritornato in Libano dall'Arabia Saudita. Dopo diversi giorni, Aoun aveva detto che l'assenza di Hariri poteva essere giustificata solo con una sua detenzione da parte dell'Arabia Saudita.

(TPINews, 22 novembre 2017)


«Israele all'avanguardia per innovazione. Ispira modelli sostenibili»

di Marcella Ruggeri

MESSINA - L'Agenzia Nazionale per i Giovani abbraccia, da oggi - 22 novembre fino al 24, Gerusalemme, su invito del Comune, con input e spirito di sviluppo per trattare dei progetti avanzati e di politiche rivolte alle nuove generazioni nell'ambito del Programma Europeo Erasmus+. Gli appuntamenti sono e saranno anche incentrati con lungimiranza sull'allestimento di una partnership che si articolerà nel 2018 sul tema dell'innovazione e dell'autoimprenditorialità giovanile.
"Israele - sottolinea Giacomo D'Arrigo, Direttore generale dell'Agenzia Giovani - è uno Stato all'avanguardia nel settore della social innovation e della nascita di imprese e per noi è importante sviluppare iniziative concrete che possano aiutare i giovani italiani, grazie a Erasmus+, a imparare modelli positivi e sostenibili. L'invito ufficiale da parte della municipalità di Gerusalemme è un importante riconoscimento internazionale per l'Agenzia e testimonia la leadership maturata in questi anni in politiche di integrazione, inclusione e occupazione nel Mediterraneo rivolte ai giovani under 30".
L'Agenzia si occupa infatti, nell'ambito di Erasmus +, anche di attività rivolte all'Area del Mediterraneo. In 10 anni di attività, sono oltre 11.000 i giovani coinvolti in progetti con Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Marocco, Palestina, Siria e Tunisia con un investimento di oltre 17 milioni di euro. L'Agenzia ha inoltre favorito il processo di empowerment delle organizzazioni giovanili dell'area mediterranea supportando il loro accreditamento per potere organizzare progetti di Servizio Volontario Europeo.

(Messina Oggi, 22 novembre 2017)


Assad abbraccia Putin perché ha vinto la Prima guerra. Ne arriva un'altra?

A Sochi i presidenti di Russia, Iran e Turchia decidono il futuro della Siria. Americani tenuti fuori. Israeliani sul piede di guerra. "C'è ancora chi non capisce".

di Daniele Raineri

ROMA - Tre giorni dopo l'inizio dei bombardamenti della Russia in Siria, nell'ottobre 2015, l'allora presidente americano, Barack Obama. disse in una conferenza stampa alla Casa Bianca che "ogni tentativo iraniano o russo di salvare Assad e di pacificare la popolazione è destinato a finire in un quagmire e non funzionerà". Quagmire è la parola diventata famosa durante i primi anni della guerra americana in Iraq, quando una soluzione rapida al conflitto cominciò a diventare un doloroso miraggio, non c'era alcun progresso e le truppe erano insabbiate in una situazione senza sbocchi: un quagmire, appunto. Il tentativo iraniano e russo invece ha funzionato. Ieri il Cremlino ha fatto circolare la notizia e le foto di un incontro di lunedì pomeriggio fra il presidente russo Vladimir Putin e quello siriano Bashar el Assad, avvenuto in segreto per ragioni di sicurezza. E' soltanto la seconda volta in sette anni di guerra che Assad lascia la Siria, la prima fu nell'ottobre 2015 e anche quella volta si trattò di una visita riservata a Mosca per incontrare Putin. Questa volta il bilaterale è stato a Sochi, sulla costa del mar Nero, e si è aperto con un abbraccio che di fatto sancisce la fine della guerra in Siria. Nessun contendente sul terreno ha adesso la forza di minacciare il potere territoriale e militare del complesso Assad-russi-iraniani e il presidente siriano, che negli anni scorsi rischiava di essere travolto assieme al suo establishment molto chiuso e diffidente, oggi ha la vittoria finale garantita. Lo Stato islamico devastato da tre anni di bombardamenti americani - e molto meno dagli alleati di Assad, più concentrati su altri fronti - ha abbandonato una dopo l'altra le città che controllava e ora sta per essere cacciato anche dagli ultimi chilometri che controlla, a est, vicino al confine iracheno. I gruppi dell'opposizione armata confinati nella "riserva indiana" di Idlib a nord-ovest, possono al massimo provare a difendersi, non hanno alcuna speranza di attaccare; la fazione dominante fra loro inoltre è un gruppo terrorista ostile allo Stato islamico ma legato ad al Qaida (a dispetto dei dinieghi) e questa scelta suicida bloccherà ogni idea di aiuto dall'esterno fino alla completa estinzione. A nord-est ci sono i curdi, che sognano più autonomia ma non vogliono finire come i cugini iracheni, che hanno provato a parlare d'indipendenza e sono finiti schiacciati. Un altro paio di enclave ribelli fuori dal controllo del governo, una vicino a Damasco e l'altra al confine sud, resistono agli assalti - ma dal punto di vista militare l'esito è scontato, soprattutto se si ragiona sul lungo termine, anni e non mesi. Assad, protetto da un doppio cerchio di difesa fatto da milizie filoiraniane a terra e dai jet russi in cielo, ha superato la crisi. La Russia si occupa anche di fare ostruzionismo alle Nazioni Unite, mette il veto contro le indagini per crimini di guerra e venerdì scorso ha fatto sciogliere la commissione che indagava sui massacri con le armi chimiche compiuti dagli assadisti: il presidente siriano ha ogni ragione di abbracciare Putin.
   Ma se Sochi è il giro della vittoria di Assad nella prima guerra siriana, non è da escludere che ce ne sia presto una seconda. Oltre alle tensioni con i curdi, c'è Israele che ogni giorno ricorda che in questo momento le condizioni sul terreno in Siria - quindi la presenza in massa di militari iraniani e di milizie Hezbollah - sono una minaccia esistenziale e quindi equivalgono a una dichiarazione di guerra. "C'è ancora chi non vuole capire - ha detto la settimana scorsa il ministro della Difesa israeliana, Avigdor Lieberman, in visita sul Golan - ma è così". Per vincere la guerra civile con l'aiuto iraniano, Assad ha creato un motivo potenziale di conflitto con Israele e con gli altri paesi dell'area che non sopportano gli iraniani, su tutti quelli del Golfo.

(Il Foglio, 22 novembre 2017)


Netanyahu: i tentativi iraniani di ottenere un punto d'appoggio in Siria sono inaccettabili

Il Premier d'Israele Benjamin Netanyahu ha dichiarato in una telefonata col presidente russo Vladimir Putin che i tentativi dell'Iran di stabilire un punto d'appoggio in Siria sono inaccettabili, riporta mercoledì RIA Novosti.

La telefonata riguardo alla problematica siriana è avvenuta ieri dopo l'incontro di Putin con Bashar Al-Assad a Sochi e prima dell'incontro tripartito con i presidenti di Iran e Turchia.
"Il Premier difende la propria posizione in difesa degli interessi per la sicurezza di Israele e di non accettazione delle posizioni dell'Iran in Siria" ha detto un interlocutore dell'agenzia aggiungendo che il discorso si è protratto per mezzora.
Israele accusa l'Iran di voler trasformare la Siria in una caserma con decine di migliaia di guerriglieri controllati dalle milizie sciite, con basi terrestri, marine e aeree. A Gerusalemme promettono di combattere contro questo e se necessario con le armi.
Putin prima ha condotto delle telefonate con i leader dei paesi chiave del Medio Oriente e con il presidente USA Donald Trump.
Secondo il servizio stampa del Cremlino, ha informato Netanyahu sull'esito dei colloqui con Assad e gli obiettivi del vertice tripartito dei paesi garanti del processo di Astana: Russia, Iran e Turchia; hanno discusso "delle prospettive per lo sviluppo della situazione nella regione del Medio Oriente, principalmente nel contesto della fase finale della lotta contro il terrorismo internazionale in Siria". Uno degli argomenti della conversazione sono state "questioni pratiche legate alla situazione nella zona meridionale di de-escalation in Siria" nel quartiere della parte delle Alture del Golan controllate da Israele.

(Sputnik, 22 novembre 2017)


Un Nick Cave da incorniciare contro i bulli boicottatori di Israele

ROMA - Sarà anche il poeta oscuro del rock ma la sua posizione è limpida: domenica scorsa Nick Cave ha accusato il movimento anti israeliano BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) di cercare di dividere i musicisti, "bullandoli" e "imbavagliandoli", e ha detto di aver preso una "posizione di principio" scegliendo di esibirsi in Israele. L'artista australiano, uno dei più influenti e carismatici interpreti della musica contemporanea, è molto popolare nella piccola democrazia mediorientale, e i suoi due prossimi spettacoli a Tel Aviv sono già sold out. In una conferenza stampa tenuta l'altro ieri, Cave ha parlato della pressione esercitata sui cantanti da parte di quei "noti movimenti internazionali anti israeliani", che fanno "pressioni" sugli artisti, sulle corporation e sulle istituzioni accademiche legate allo stato ebraico. Il mese scorso, "Artists for Palestine" aveva scritto una lettera aperta a Cave, per esortarlo a evitare di esibirsi nel paese "dove persiste un regime di apartheid". Brian Eno aveva chiesto tre anni fa a Cave di aggiungere la sua firma alla lista del movimento BDS, che incassò un primo rifiuto. "A un livello molto intuitivo non volevo firmare quella lista, c'era qualcosa che mi puzzava", ha detto Cave. Ma c'è di più: i musicisti che si esibiscono in Israele sono costretti a "passare attraverso una sorta di umiliazione pubblica da parte di Roger Waters" e altri. La decisione di esibirsi a Tel Aviv è quindi "una posizione di principio contro chiunque tenti di censurare e silenziare i musicisti". Nick Cave, in pratica, ci sta spiegando che esiste un gruppo molto influente, fatto di personaggi pubblici e dello spettacolo, della moda, del cinema e della musica, che attraverso "lettere aperte" e social network chiama al boicottaggio di un artista che decide di andare a suonare in Israele, dove il suo pubblico lo aspetta. Che cos'è questa se non censura?
   Del resto, il gruppo BDS conta migliaia di volontari in tutto il mondo, e da tempo è guidato dal quasi settantenne cofondatore dei Pink Floyd, Roger Waters, ormai monomaniaco della causa. Waters ed Eno martedì hanno criticato pubblicamente la scelta di Cave: "Nick, con tutto il dovuto rispetto, la tua musica è irrilevante in questo problema, così come la mia, così come quella di Brian Eno, così come quella di Beethoven", ha scritto Waters. "Non si tratta di musica, ma di diritti umani". "E' improvvisamente diventato molto importante per me per prendere posizione contro queste persone, contro questo bullismo", ha detto il cantautore, fregandosene della mole di insulti che nel frattempo si era attirato sui social.
   Ma Cave non è solo. Se il politicamente corretto anti-israeliano nel mondo della musica va per la maggiore, ultimamente sono sempre di più gli artisti che decidono di ignorare le pressioni dei "potenti". L'ultimo, in ordine di tempo, è stato Thom Yorke, che come Cave aveva polemizzato pubblicamente con Waters e il regista Ken Loach, un altro votato alla causa anti israeliana (suonare in un paese non è appoggiare le sue politiche. Ora che non vi piace Trump siete pronti a rinunciare al mercato americano?, era stata la risposta esemplare di Yorke).

(Il Foglio, 22 novembre 2017)


E’ incredibile come molti non riescano a vedere che tutto questo accanito, tenace, monodirezionale anelito di giustizia di alcuni personaggi pubblici non sia altro che puro e semplice odio. Contro chi? Naturalmente non contro gli ebrei, ci mancherebbe, ciascuno di loro certamente ha qualche amico ebreo. Ma contro il governo dello Stato di Israele, è evidente - dicono -, perché di tutte le ingiustizie al mondo ai loro occhi non ce n’è una più grave, più disastrosa, più scandalosa di quella del governo ora diretto da Benjamin Netanyahu. Ai loro occhi, ma non solo ai loro, la cosa è evidente. Ad altri occhi invece è evidente che si tratta della sindrome di un incontenibile odio che deve assolutamente trovare qualche forma per esternarsi. M.C.


Il grande esodo degli ebrei di Parigi. «Ci aggrediscono, costretti a fuggire»

Minacce e attacchi violenti nelle periferie a maggioranza araba della capitale. Dei 350 mila residenti nella regione, 60 mila sono andati via. Molti si stanno trasferendo nel XVII arrondissement, accanto alla nuova sinagoga.

di Stefano Montefiori

 
Manifestazione anti-Israele a Parigi
PARIGI - Poco lontano dal celebre ristorante kasher tunisino Nini e dallo Schwartz's Deli di ispirazione newyorchese, sta nascendo in rue de Courcelles il grande «Centro europeo dell'ebraismo», uno spazio di 5000 metri quadrati che ospiterà una sinagoga da 600 posti e sale per spettacoli ed esposizioni. Il centro aprirà entro la Pasqua ebraica e sancisce il ruolo del XVII arrondissement di Parigi, nel nordovest della capitale, come nuovo cuore dell'ebraismo francese ed europeo accanto all'antica presenza nel Marais. Dei 350 mila ebrei della regione parigina, circa 60 mila negli ultimi anni hanno traslocato. Molti hanno abbandonato i quartieri più difficili delle periferie per trasferirsi nella nuova «piccola Gerusalemme» del XVIIème, o nel triangolo d'oro Le Raincy-Villemomble-Gagny appena fuori la capitale.
  Un esodo interno discreto, qualche volta segno di successo e ascensione sociale, più spesso provocato dagli atti di antisemitismo che a Saint Denis, Bondy, La Courneuve, Sarcelles, Stains e altri comuni del Grand Paris sono cominciati con la seconda Intifada dei primi anni Duemila e si sono intensificati dopo le stragi di Merah a Tolosa e gli attentati islamisti a Parigi.Tanti ebrei francesi spinti dall'insicurezza hanno fatto la loro aliya e sono andati a vivere in Israele: nel 2015 sono stati oltre 8000, i più numerosi al mondo per il secondo anno consecutivo. Molti altri che continuano a considerare la Francia come il loro Paese scelgono di cambiare zona e di vivere raggruppati. La vitalità ebraica del XVIIesimo e di altri quartieri è frutto anche di una realtà drammatica: violenze e aggressioni costringono gli ebrei francesi a vivere sempre più tra di loro, per proteggersi, 500 anni dopo la nascita a Venezia del primo ghetto al mondo.
  «Siete ebrei quindi siete ricchi», ripetevano i tre aggressori che l'8 settembre sono entrati nella casa della famiglia Pinto a Livry-Gargan, nel dipartimento Seine-Saint-Denis, quel «93» simbolo suo malgrado della banlieue degradata. «Avrebbero potuto derubarci mentre non c'eravamo, perché abbiamo passato l'estate fuori Parigi — dice Roger Pinto, 78 anni, al telefono da Israele —. Invece sono arrivati proprio il giorno dopo il nostro rientro. Mi hanno buttato per terra prendendomi a calci fino a farmi svenire, gridavano "se non ci date i soldi vi ammazziamo, lo sappiamo che li avete, ebrei"». Roger, la moglie Mireille e il figlio David forse si trasferiranno nel XVIIesimo, «ma resteremo in Francia — dice Pinto, presidente dell'associazione Siona —. Sono in terapia dallo psicologo, appena starò meglio rientreremo. Il governo francese deve garantire la nostra sicurezza».
  Dopo che il terrorista islamico Amedy Coulibaly il 9 gennaio 2015 scelse il supermercato kasher di Vincennes per uccidere quattro ebrei, «la protezione è aumentata e gli attacchi contro le sinagoghe, le scuole e i centri culturali sono diminuiti», dice Sammy Ghozlan, un commissario di polizia in pensione a capo del Bnvca (Bureau national de vigilance contre l'antisémitisme). «L'operazione Sentinelle con i militari di pattuglia funziona per i luoghi pubblici, ma le violenze hanno cambiato bersaglio e ora colpiscono i privati cittadini, soprattutto in certe parti del dipartimento Seine-Saint-Denis, dove il radicalismo islamico è più forte».
  La mattina del 13 maggio 2017, poco dopo le 7, la signora Françoise (il nome è stato cambiato su sua richiesta) è scesa di casa con la figlia a Romainville. In un caffè di Les Lilas, il comune poco lontano dove abita adesso, mostra alcune fotografie. «Sulla portiera della mia Opel c'erano strisce bianche, per istinto ho provato a toglierle con la mano ma mia figlia se ne è accorta subito: "Mamma, è una scritta"». La grande parola «Juif», ebreo, incisa sulla fiancata. Con l'auto così marchiata Françoise ha comunque percorso la tangenziale per andare a lavorare, tra i colpi di clacson degli altri automobilisti. «Appena due mesi prima eravamo stati rapinati in casa mentre dormivamo». Cinquant'anni, un marito e tre figli, la signora lavora come hostess di accoglienza negli studi tv. «È stata la polizia a dirci di traslocare: "Vi hanno preso di mira, fareste meglio ad andarvene"». Al collo Françoise porta una stella di David, «ma quando prendo la metropolitana ormai la nascondo».
  Gli atti di delinquenza comune e le liti di vicinato si mescolano all'antisemitismo. Geneviève (nome cambiato), sefardita, arrivata quarant'anni fa dal Marocco, a La-Celle-Saint-Cloud fa amicizia con la vicina algerina finché un giorno si sente dire «eppure assomigli a una ebrea». «Da allora mi perseguita, mi lancia cose dal terrazzo, lei e il figlio mi chiamano "sporca ebrea", danno colpi alla porta per spaventarmi». Geneviève teme di fare la fine di Sarah Halimi, ebrea 65enne, che il 4 aprile a Belleville è stata aggredita in casa dal vicino passato per il terrazzo. Sarah è stata picchiata per un'ora al grido di «Allah Akhbar», poi gettata dal terzo piano. «Ho ucciso sheitan! (il diavolo in arabo, ndr)», gridava Kobili Traoré prima di essere internato.
  Davanti alla stazione di Le Raincy incontriamo Alain Benhamou, ingegnere in pensione del gruppo Italcementi, che ha vissuto per 41 anni con la moglie a Bondy. Hanno aggredito sua figlia a scuola insultandola perché ebrea. Ha finito per trasferirsi a Villemomble dopo essere stato rapinato e avere dormito per giorni con una mazza da baseball accanto al letto. «Con il rossetto di mia moglie hanno scritto sul muro "Sporco ebreo, viva la Palestina". A Bondy eravamo 400 famiglie ebree, ne restano 100». «Le sinagoghe chiudono, gli ebrei hanno paura di prendersi sputi e sassate e rinunciano a mettersi la kippa», dice Ghozlan. Solo un terzo degli ebrei francesi ormai mandano i figli alla scuola pubblica, preferiscono gli istituti ebraici o cattolici dove non subiscono intimidazioni. Accanto al sogno giusto e un po' retorico del «vivere insieme», crescono l'antisemitismo e il rischio che la società francese si divida in comunità a sviluppo separato.

(Corriere della Sera, 22 novembre 2017)


La filosofia del sopravvissuto 93enne scampato a cinque campi di sterminio

di Ugo Leo

Il polacco Julian Gartner è sopravvissuto all'Olocausto e a cinque campi di concentramento. A 93 anni, sorride nonostante la sofferenza e in Brasile porta avanti la sua "missione": "perpetuare" ciò che è realmente accaduto nel più grande genocidio del XX secolo.
Figlio di ebrei, Gartner ha perso i suoi genitori in un campo di concentramento e intorno ai venti anni emigrò in Brasile, dove per alcuni anni ha collaborato con il Museo dell'Immigrazione ebraica. "La mia filosofia di vita è vedere le cose dal lato positivo, non negativo." dice Gartner. "Ci è voluto molto tempo, ma sono tornato ad una vita normale. Sorrido, piango. Non piango, perché le lacrime si sono asciugate molto tempo fa, ho tutti i sentimenti normali di un essere umano."

(La Stampa, 22 novembre 2017)


L'Aia ora indaga gli americani in Afghanistan. Una Corte inutile e pericolosa

di Giulio Meotti

ROMA - "I prossimi anni ci diranno se la Corte penale internazionale sarà stato un successo o un fallimento", aveva dichiarato nel 2007 Juan E. Méndez, presidente dell'International Center for Transitional Justice. "Se finisce con un paio di processi e una ventina di mandati di cattura, la fame di giustizia internazionale svanirà completamente". A questa previsione rivelatasi esatta allo scadere dei dieci anni, Méndez non avrebbe potuto immaginare che le forze statunitensi sarebbero finite sotto indagine all'Aia per "crimini di guerra", al fianco dei talebani.
   Il pubblico ministero della Corte, Fatou Bensouda, ha appena avviato un'indagine sull'Afghanistan. Il personale militare statunitense potrebbe essere incriminato, insieme ai talebani, per aver commesso "crimini contro l'umanità". E' la prima volta che accade dall'11 settembre 2001. Sotto inchiesta sono i talebani e la rete Haqqani, le forze di sicurezza afghane, le Forze armate statunitensi e la Cia. Quest'ultima sarà anche ritenuta responsabile degli atti commessi nei centri di detenzione segreti situati in Lituania, Polonia e Romania, nonché sul territorio afghano. Gli Stati Uniti non hanno mai ratificato il Trattato di Roma che li avrebbe resi membri della Corte, affermando che avrebbero dovuto affrontare procedimenti giudiziari e politici. Avevano visto giusto. Ma non per questo gli Stati Uniti saranno immuni. Il mandato della Corte è applicato sul territorio di tutti gli stati che lo hanno ratificato, come l'Afghanistan. Richard Dicker, direttore dell'International Justice Program di Human Rights Watch, ha affermato che se Bensouda avrà successo, "sarà la prima volta che, potenzialmente, cittadini americani potrebbero essere soggetti a questo tribunale".
   Già il precedente procuratore, Louis Moreno Ocampo, aveva aperto a inchieste sull'operato delle forze americane in Afghanistan: "Studierò possibili crimini di guerra commessi da soldati statunitensi", aveva detto il magistrato argentino. George W. Bush nel 2002 fu costretto a promulgare l'American Service Members Protection Act, noto come "L'invasione dell'Aia", per proteggere soldati americani dai mandati d'arresto della Corte. Nel frattempo, gli Stati Uniti dovettero siglare cento accordi bilaterali al fine di proteggere ufficiali e soldati americani.
   Sul Wall Street Journal ieri l'ex ambasciatore americano all'Onu, John Bolton, ha scritto che "per la Corte è diventato troppo difficile resistere dal perseguire Washington (avendo già indagato su Israele, che è ancora una volta il canarino nella miniera). L'America dovrebbe accogliere l'opportunità, come nella linea di Churchill sul bolscevismo, di strangolare la Corte nella sua culla. Al massimo, la Casa Bianca dovrebbe rispondere alla signora Bensouda con una nota concisa: 'Gentile Signora Procuratore: lei non esiste per noi. Cordiali saluti, gli Stati Uniti"'.
   Quando nel 2002 a Roma centoventi paesi votarono la nascita della Corte, scene di giubilo scandirono questo momento umanitarista e multilaterale. Si disse: "I genocidaires non avranno scampo". Per la prima volta, oltre ai casi ad hoc (ex Yugoslavia e Ruanda), un organo super partes avrebbe agito a livello planetario contro il male. Benjamin Ferencz, che contribuì a far incriminare i gerarchi nazisti a Norimberga, proclamò che "la Corte dell'Aia è figlia dei processi di sessant'anni fa". Quindici anni dopo la sua fondazione, i genocidaires come il tiranno sudanese Bashir sono tutti a piede libero, mentre all'Aia si aprono inchieste sulle democrazie che combattono il terrorismo islamico. Una Corte non soltanto inutile, ma anche pericolosa.

(Il Foglio, 22 novembre 2017)


Francia: i musulmani dentro e gli ebrei fuori

di Giulio Meotti
  • I sobborghi si sono trasformati in uno dei segni più visibili dell'islamizzazione della Francia. L'antisemitismo sta divorando la Repubblica francese.
  • Mentre i simboli ebraici scompaiono dalla Francia, quelli islamici proliferano, dal burkini sulle spiagge al velo nei posti di lavoro. Gli ebrei che hanno lasciato la Francia stanno cercando di diventare "invisibili".
  • Le banlieue francesi stanno rapidamente diventando delle società dell'apartheid. L'odio contro gli ebrei è l'inizio del cammino che porta alla "France soumise" - alla sottomissione della Francia.
I sobborghi ("banlieues") - distanti dagli eleganti boulevard e bistrot parigini - costituiscono "l'altra Francia". Sono la "Francia periferica", come li definisce il geografo Christophe Guilluy in un importante libro. Sono i luoghi in cui "la convivenza" tra comunità è stata davvero messa alla prova.
  Negli ultimi vent'anni, questi sobborghi francesi non sono soltanto diventati "concentrazioni di povertà e isolamento sociale", ma sono passati dall'essere alcune delle aree ad alta densità di popolazione ebraica a "territori perduti della Repubblica", come scrive il grande storico Georges Bensoussan nel suo libro, Les territoires perdus de la République.
Queste banlieue si sono trasformate in uno dei segni più visibili dell'islamizzazione della Francia.
L'antisemitismo è tornato a essere uno dei peggiori mali dell'Europa. La Francia ospita la più grande comunità ebraica d'Europa, e gli ebrei hanno lasciato le periferie per emigrare o trasferirsi nei quartieri residenziali delle città, dove si sentono più protetti. Quello che succede agli ebrei avrà conseguenze di vasta portata sull'intero continente.
  Nella banlieue parigina di Bagneux, qualcuno ha di recente vandalizzato la lapide in memoria di Ilan Halimi, un giovane ebreo che nel 2006 era stato sequestrato, torturato e ucciso dalla "banda dei barbari", solo per essere ebreo. Fu il primo caso di antisemitismo omicida in Francia negli ultimi anni. Dopo gli islamisti hanno colpito gli ebrei in una scuola di Tolosa e in un supermercato kosher di Parigi.
  Come ha riportato Le Monde, in una inchiesta agghiacciante, ogni giorno l'antisemitismo bussa alla porta degli ebrei francesi, generando un impressionante "fenomeno migratorio interno" alla Repubblica.
 
Soldati francesi sorvegliano una scuola ebraica a Parigi
  Gli ebrei francesi non vengono soltanto minacciati nelle sinagoghe e nelle scuole, ma anche nelle loro abitazioni. Una famiglia ebrea è stata recentemente tenuta in ostaggio, picchiata e derubata in casa, nel sobborgo di Seine Saint-Denis. Prima di questo episodio, una insegnante e dottoressa in pensione, Sarah Halimi, era stata picchiata, accoltellata e defenestrata mentre era ancora viva, nel quartiere parigino di Belleville. L'uomo che l'ha uccisa, urlando "Allahu Akbar" ("Allah è il più grande", era un vicino di casa musulmano. Due fratelli ebrei sono stati aggrediti in strada a Parigi da alcuni uomini armati di sega al grido di "Sporco ebreo! Ti ammazzo".
  Recentemente, "Paul" ha ricevuto una lettera contenente minacce di morte, nella cassetta della posta a Noisy-le-Grand. La missiva diceva: "Allahu Aknar" e conteneva un proiettile di una nove millimetri. Il giorno dopo è arrivata una seconda lettera: "Morirete tutti". Questa volta il proiettile di un kalashnikov. Molte famiglie ebree, avverte Le Monde, sono sotto pressione. A Garges-lès-Gonesse (Val-d'Oise), alcuni giovani che avevano costruito la sukkà nel cortile della sinagoga sono stati attaccati e insultati da altri del quartiere al grido di "Sporchi ebrei".
  Gli storici quartieri ebraici sono stati svuotati. Jérôme Fourquet e Sylvain Manternach, nel loro libro "L'an prochain à Jérusalem?" ("L'anno prossimo a Gerusalemme?"), affermano che i bimbi ebrei lasciano le scuole pubbliche a favore di quelle private. Le organizzazioni hanno aiutato 400 famiglie ebree a trasferire i loro figli in scuole private, per maggiore sicurezza.
  Tra il 2005 e il 2015, ci sono stati 4.092 attacchi antisemiti in Francia. Secondo uno studio della Fondation pour l'innovation pubblicato a settembre, il 60 per cento degli ebrei francesi afferma di essere "preoccupato di essere attaccato fisicamente in strada in quanto ebreo".
  Dopo gli attacchi terroristici di Parigi del 2015, un think tank affiliato all'Agenzia ebraica ha preparato un piano per aiutare 120 mila ebrei francesi a emigrare in Israele. Nel 2016, ci sono state 5 mila partenze e 7.900 nel 2015. Oltre ai 20 mila ebrei che hanno abbandonato la Francia negli ultimi tre anni per Israele, c'è stata anche una "elevata mobilità" interna, dalla parte orientale a quella occidentale di Parigi, in genere verso il XVI e il XVII arrondissement. Negli ultimi dieci anni, "60 mila dei 350 mila ebrei hanno lasciato l'Ile-de-France", secondo Sammy Ghozlan, presidente del Bureau national de vigilance contre l'antisémitisme.
  Il governo francese ha avviato una operazione per proteggere 800 sinagoghe, scuole e centri comunitari. Ma come spiega Le Monde, c'è poco da fare per proteggere gli ebrei in strada e nelle loro case.
L'antisemitismo islamico sta divorando la Repubblica francese.
Secondo uno studio condotto dall'Ifop, "l'esposizione alla violenza antisemita è altamente correlata al portare una kippah". Il copricapo ebraico è scomparso da molte zone della Francia. A Marsiglia, un leader della comunità ebraica locale ha esortato gli ebrei, per la loro sicurezza, a evitare di indossare in pubblico simboli ebraici. Se questi ultimi scompaiono, quelli islamici proliferano dal burkini sulle spiagge al velo nei posti di lavoro. Gli ebrei che hanno lasciato la Francia stanno cercando di diventare "invisibili".
  Fino al 2000, il comune parigino di Bondy "era bello e tranquillo, con 250-300 famiglie ebree e con le sinagoghe affollate di sabato. Ora, circa un centinaio di famiglie ebree continua a vivere lì", ha detto Alain Benhamou, un residente locale, che ha lasciato la cittadina dopo aver visto sui muri la scritta "Sporchi ebrei".
  Le famiglie ebree sono andate via anche da Tolosa a causa dell'antisemitismo. L'ex premier Manuel Valls ha parlato di "apartheid territoriale, sociale ed etnica". I sobborghi francesi stanno rapidamente diventando delle società dell'apartheid.
  Pochi giorni fa, le autorità francesi hanno condannato Abdelkader Merah, il fratello del terrorista che uccise quattro ebrei a Tolosa, a venti anni di prigione perché ritenuto colpevole di associazione criminale a scopo terroristico. Il processo è stato definito da uno studioso francese di Islam, Gilles Kepel, una "biopsia" della "altra Francia": la Francia islamizzata, de-giudaizzata e periferica. "È sconcertante che dopo decenni trascorsi in Francia, la madre [di Merah] parli ancora male il francese e che occorra chiamare un interprete in tribunale", ha affermato Kepel.
  A Seine-Saint-Denis, il 40 per cento degli abitanti è di fede islamica. Risultato? Le storiche comunità ebraiche come La Courneuve, Aubervilliers, Stains, Pierrefitte-sur-Seine, Trappes, Aulnay-sous-Bois, Le Blanc-Mesnil e Saint Denis stanno scomparendo. A causa della mancanza di sicurezza, in posti come la Courneuve in cui c'erano da 600 a 700 famiglie ebree, ora ce ne sono meno di cento. Per molti di questi ebrei è una seconda fuga.
  Il 70 per cento di circa mezzo milione di ebrei in Francia è sefardita - quelli che furono espulsi dalla Spagna nel 1492 e fuggirono in Medio Oriente, Nord Africa e Turchia, piuttosto che in Europa. Arrivarono in Francia tra il 1956 e il 1962, quando Algeria, Marocco e Tunisia ottennero l'indipendenza - come fecero, ad esempio, i due vincitori francesi del premio Nobel per la fisica, Claude Cohen-Tannoudji (1996), nato ad Algeri, e Serge Haroche (2014), nato a Casablanca, in Marocco.
  In un sobborgo a sud di Parigi, Kremlin-Bicêtre, con una popolazione di 25 mila abitanti, il 25 per cento oggi è musulmano. Fino al 1990, il dieci per cento della popolazione era ebraica, oggi appena il cinque.
  L'antisemitismo ha rivoluzionato la Francia: la sua geografia e la demografia. L'odio contro gli ebrei è l'inizio del cammino che porta alla "France soumise" - alla sottomissione della Francia.

(Gatestone Institute, 21 novembre 2017 - trad. Angelita La Spada)


Ebrei a Perugia, dal 'ghetto', ai primi Monte di Pietà, alla Sinagoga di Palazzo Ajò

La storia del quartiere dell'Arco Etrusco, dove un tempo sorgeva una Sinagoga

di Alessia Chiriatti

 
Un piccolo quartiere, in realtà compreso in un dedalo di strade a ridosso del famoso Arco Etrusco. Dell'animo ebraico di quel luogo rimane ben poco, se non il nome della Piazzetta della Sinagoga. Storia vuole che proprio in uno di quei palazzi che oggi si affacciano sul largo dove oggi sorge anche la sede della Soprintendenza cittadina (a Palazzo Brutti) si trovasse appunto una sinagoga, costruita nel 1300. Lì, tra via Ulisse Rocchi e via di Pozzo Campana, per alcune centinaia di anni, abitarono alcune famiglie ebree (pare fossero 7 le più importanti). Non più di 200 di loro lo popolavano già nel 1300, per una storia fatta di 'cacciate' e accoglienza e scandita, come vuole tutto il passato di Perugia, dalla presenza dello Stato Pontificio e dell'emanazione di alcune bolle papali.
  Nei secoli non si è mai parlato di un vero e proprio ghetto canonico. Tanto che si ha notizia della presenza di ebrei anche nella zona di via Maestà delle Volte e di Sant'Ercolano. A ben guardare le case che si sviluppano a ridosso della zona dell'Arco Etrusco, su via Pozzo Campana, si nota come gli edifici si sviluppino in altezza. Sembra questa sia la reale testimonianza di come la comunità ebraica si concentrasse in quella zona di Perugia data l'impossibilità (in alcuni casi per indisponibilità di denaro, in altri per costrizione) di acquistare nuovi appartamenti. I piani delle case venivano così costruiti sopra gli altri. Al loro interno, in base ad alcuni lasciti testamentari di cui si ha notizia, delle stanze con arredi preziosi.

 Le prime memorie
  E' il 7 agosto 1262: è la data del primo documento attestante la presenza di un gruppo di ebrei a Perugia. Fu allora che il Minor Consiglio del Popolo dibatté il problema della liceità della loro presenza in città. Un 'problema' perché si trattava perlopiù di usurai, tanto che si decise di espellerli. E fu proprio per contrastare l'usura che nacque a Perugia uno dei primi Monte di Pietà in Italia, datato 1462 (dopo quello di Ascoli Piceno del 1458), quando alcuni frati francescani lo istituirono per limitare i prestiti al popolo minuto effettuato dagli ebrei anche a persone povere. Il Monte, dove i debitori lasciavano un oggetto di valore in pegno, spesso ricomprato dagli stessi ebrei, fu poi chiuso agli inizi del 1500 da Papa Leone X Medici, il quale introdusse un basso tasso di interesse per la restituzione dei prestiti.
  Altri ebrei erano però anche medici (tanto da essere stati ingaggiati per curare dei Pontefici), farmacisti e venditori di libri. Si trattava di mercanti, trasferitisi da Roma a Perugia così come nel resto dell'Umbria. Già nel 1200 era vivido lo stereotipo dell'ebreo usuraio: a loro erano infatti precluse altre attività, come il possesso fondiario, mentre la Chiesa vietava ai Cristiani ogni mestiere che implicasse il rapporto col denaro, ritenendolo peccato.
  Lo stesso Comune di Perugia si fece prestare molti soldi dalla comunità ebraica nel corso della seconda metà del 1200. Denaro che servì a quanto pare per ristrutturare la città, in guerra con i Comuni vicini (si parla in particolare di Trevi). Per riuscire ad ottenere questi soldi, fu garantito l'impegno di alcuni cittadini influenti, che a loro volta garantirono la restituzione del debito contratto. Ad una condizione: ossia che gli ebrei potessero rimanere in città solo fino alla restituzione del prestito in questione, e cioè per circa due mesi.

 Dalle tasse alte alla coccarda gialla
  Certo nessuno gli garantì un buon trattamento: le loro tasse erano di certo molto più alte rispetto a quelle pagate dal resto della cittadinanza. Erano obbligati a pagare del denaro anche per entrare in città, tanto che nel corso del 1500 gli ebrei ne uscirono impoveriti, nonostante il loro denaro provenisse perlopiù dalla mercanzia. Un inasprimento morale li colpì già prima, ed esattamente nel 1340, quando i bambini dagli 8 anni in su furono obbligati ad indossare la coccarda gialla. Le bambine invece dovevano portare l'anello alle orecchie. E ancora: nel 1349 gli fu proibito di toccare la frutta, così come di macellare la carne e comprare il vino. Non potevano vendere alla comunità perugina le lasagne, nota che compare nei documenti più e più volte. Né tantomeno potevano fungere da nutrici per le donne perugine.

 Braccio Fortebracci
  La storia degli ebrei a Perugia incontra anche quella di Braccio Fortebracci, capitano di ventura. Quando quest'ultimo attaccò la città nel 1416, il Comune impose un nuovo prestito forzato agli ebrei, sotto pena di una multa decuplicata rispetto alla somma chiesta. Ma Fortebraccio riuscì a conquistare la città e ne fu signore fino al 1424. Anche lui dovette fare ricorso alla comunità ebraica per richiedere un ingente prestito. Fu poi Bernardino da Siena nel 1425 a fare degli ebrei il capro espiatorio per il clima di violenza e anarchia in cui versava Perugia, tanto che lo stesso anno vennero redatti i cosiddetti "Statuti di San Bernardino".

 Dalla cacciata fino alle leggi razziali
  La loro storia continua tra l'impoverimento generale della popolazione ebraica perugina, la clandestinità delle loro attività di prestito di denaro dopo l'istituzione del Monte di Pietà, fino alla bolla papale di Paolo IV, nel 1555, quando tutti gli ebrei furono scacciati dallo Stato Pontificio, poi rafforzata dalla "Caeca et obdurata" di Clemente VIII del 1593. Degli ebrei a Perugia, alla fine, non si ha traccia per tutto il '600 e il '700. Tornarono poco prima dell'Unità d'Italia, quando grazie allo Statuto Albertino si videro riconoscere maggiori libertà.
  Fu invece negli anni immediatamente successivi all'Unità d'Italia che gli ebrei a Perugia ebbero maggiore espansione. Il censimento del 1901 contava 186 presenze in città. Famiglie importanti a Perugia, appartenenti alla borghesia, furono i Servadio, Ajò e Coen. Proprio a palazzo Ajò, sul centralissimo Corso Vannucci, c'era probabilmente un'altra sinagoga. Degli anni '30 è anche il cimitero ebraico, costruito perché con l'aumento della popolazione nel decennio post-unitario il cimitero di via San Girolamo era ormai diventato troppo piccolo.
  Nel 1938, infine, quando furono varate le leggi razziali del regime fascista, a Perugia si contano 167 ebrei. Le misure restrittive e persecutorie portarono all'emigrazione e al licenziamento anche di noti intellettuali perugini: Cesare Finzi, Gino De Rossi, Dino Levi De Veali, direttore della Ferrovia Centrale Umbra, Eugenio Alphandery, dirigente del lanificio di Ponte Felcino per citare alcuni nomi. Fino alla vicenda del 1944, quando Don Ottavio Posta, parroco di origini passignanesi, con l'aiuto di alcuni pescatori di Isola Maggiore, salvò dalla morte 30 ebrei confinati nel Castello Guglielmi. Ma questa è ancora un'altra storia.

(Tuttoggi, 19 novembre 2017)


L'intesa tra Israele e Arabia Saudita nel segno dell'Iran

Spinti dalla necessità di contenere l'espansionismo di Teheran, i due Paesi potrebbero presto avviare anche nuovi rapporti diplomatici

di Luciano Tirinnanzi

La realpolitik, il nemico comune. Su questo, e su una nuova infornata di politici, si basa la recente intesa tra Israele e Arabia Saudita. Messo a fattor comune il rischio che la guerra in Siria e in Iraq porta con sé un Iran sempre più forte e aggressivo, Gerusalemme e Riad hanno convenuto - sia pur senza accordi ufficiali tra governi - che la strategia da seguire d'ora in avanti è tutta nella proverbiale frase "il nemico del mio nemico è mio amico".
  Anche Egitto e Giordania sono stati coinvolti in questo piano d'azione e, da par loro, entrambi i governi hanno offerto un'efficace triangolazione diplomatica ai due Paesi al fine di farli riavvicinare, nella prospettiva di arginare lo strapotere iraniano di qui ai prossimi anni.
  Vale la pena ricordare che l'Arabia Saudita, a differenza di Egitto e Giordania, ancora non riconosce ufficialmente lo Stato di Israele e che, dunque, non ha veri rapporti diplomatici o ambasciate. Ma la riapertura dei canali di comunicazione, in realtà iniziata già dalla prima guerra del Golfo, è stata sufficiente a consentire all'erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, di visitare in segreto Israele all'inizio dello scorso settembre.

 Tutto passa per il futuro monarca saudita
  Il giovane Salman è l'astro nascente di casa Saud. Appena trentenne e già ministro della guerra, è considerato il futuro dell'Arabia Saudita, e il suo peso politico continua a crescere di giorno in giorno.
  Basterebbe dire che è la prima volta in assoluto che un re saudita nomina come proprio erede un parente sotto i settant'anni, per capire quanto radicale e drammatica sia la svolta impressa da re Salman a questo paese retrogrado e assolutista.
  Il vecchio monarca sa fin troppo bene che la guerra per il controllo della Siria e dell'Iraq è perduta, con Baghdad ormai saldamente in mani sciite e con Damasco attraversata dalle scorribande degli Hezbollah libanesi che, in ultima analisi, rispondono direttamente a Teheran. Così come è consapevole che le riserve di petrolio del suo Paese da sole non possono garantire prosperità e stabilità a lungo termine. Specie se il concorrente diretto si garantirà un corridoio che da Teheran raggiunge Beirut, passando per Damasco e Baghdad.
  Da qui nasce la necessità di nominare un uomo forte e dalla lunga prospettiva di vita, tale che possa arginare nel tempo l'espansionismo iraniano e al contempo riesca a sviluppare un piano per diversificare l'economia saudita, come lo stesso giovane Salman ha definito nell'ambizioso progetto economico chiamato Vision 2030.
  Complice l'ascesa di Donald Trump, re Salman ha puntato anche sulla ritrovata intesa con gli Stati Uniti d'America, dopo gli anni difficili di Barack Obama durante i quali è stato siglato l'accordo sul nucleare, che ha assestato un colpo ferale alle speranze di quanti volevano un Iran isolato dal resto del mondo.

 La svolta dell'accordo sul nucleare
  L'aver sollevato Teheran dalle sanzioni economiche ha tolto i freni alle ambizioni degli ayatollah, che da quel momento hanno potuto estendere il proprio ruolo politico ed economico nella regione, complici la guerra e l'implosione dei confini territoriali.
  Il governo iraniano si è spinto fino allo Yemen, dove ha ordito un piano per destabilizzare la penisola arabica in funzione anti-saudita, e grazie al suo ritrovato peso economico ha attratto a sé persino l'emirato sunnita del Qatar. Inoltre, ha letteralmente comprato i governi di Baghdad e Damasco, e offerto loro le milizie indispensabili per non collassare sotto il fuoco incrociato delle variegate armate sunnite.
  L'Iran ha anche fatto da apripista alla Russia di Vladimir Putin ed è riuscito a gestire il potere in Libano, coordinando una war room con l'intero asse sciita, cosa che ha permesso di imprimere una svolta alla guerra civile, particolarmente fruttuosa nel teatro iracheno.
  I tempi dunque sono cambiati, e la politica si deve adeguare. Per questo, il riavvicinamento tra Riad e Gerusalemme, alleato di ferro di Washington, si è reso indispensabile.
  Al contrario dell'Arabia Saudita, però, preoccupata dello svantaggio economico nei confronti del competitor iraniano, Israele teme soprattutto un progressivo accerchiamento militare.
  Per tutto questo, e per le positive aperture sulla Palestina e sui diritti umani da parte di Riad, il rapporto tra Israele e Arabia Saudita è cresciuto nel segno dell'interesse comune. Non appena il volto all'apparenza più moderato di casa Saud, Mohammed Bin Salman, sarà salito al trono, l'entente cordiale tra Israele e Arabia Saudita potrà prendere quota e misurarsi in nuovi rapporti diplomatici che, oltre alle collaborazioni politiche, certamente riguarderanno da vicino anche le strategie da intraprendere per quanto concerne Siria e Libano.

(Panorama, 21 novembre 2017)


Sopravvissuto alla Shoah, a 102 anni incontra il nipote per la prima volta

«Li credevo tutti morti»

di Federica Macagnone

 
Eliahu Pietruszka ha vissuto quasi 80 anni con un'unica certezza: essere l'unico sopravvissuto della sua famiglia barbaramente sterminata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Mai avrebbe potuto ipotizzare, a 102 anni, che nella sua casa di riposo in Israele sarebbe entrato un uomo che avrebbe stravolto la sua vita. Lo ha guardato avanzare e, quando ormai era vicino, si è accasciato su di lui sciogliendosi in un abbraccio commovente durante il quale trattenere le lacrime è stato impossibile. Ha rispolverato il russo, una lingua che non parlava più da tanto tempo, e ha guardato negli occhi Alexandre, quel 66enne che è la copia esatta di suo fratello, anche lui sopravvissuto all'orrore, ma del quale aveva perso ogni traccia.
  Eliahu aveva 24 anni quando fuggì da Varsavia nel 1939, dirigendosi verso l'Unione Sovietica e lasciandosi alle spalle l'intera famiglia: il padre, la madre e i fratelli gemelli Volf e Zelig, di nove anni più giovani di lui. I suoi genitori e Zelig furono deportati dal ghetto di Varsavia e uccisi in un campo di sterminio nazista, ma Volf riuscì a fuggire. Per un periodo i due si sono scritti, poi Volf fu portato in un campo di lavoro in Siberia e Eliahu lo ha creduto morto. Con la morte nel cuore ha tentato di portare avanti la sua vita, si è sposato in Russia e, pensando di non avere più una famiglia d'origine, è emigrato in Israele nel 1949 per ricominciare da capo.
  Solo due settimane fa, suo nipote, Shakhar Smorodinsky, ha ricevuto una email da un cugino canadese che sta lavorando per ricostruire il loro albero genealogico: gli ha comunicato di aver scoperto una pagina di testimonianza sullo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele che, mettendo a disposizione il database delle vittime e condividendo le storie dei sopravvissuti, ha permesso in tutti questi anni di mettere in contatto parenti e familiari che si erano perduti. La storia, scritta nel 2005, era quella di Volf, che dopo essere sopravvissuto all'Olocausto si stabilì a Magnitogorsk, una città industriale nei Monti Urali. Smorodinsky ha rintracciato il suo indirizzo e ha tentato di mettersi in comunicazione con quel pezzo della sua famiglia per scoprire che Volf è morto nel 2011, ma Alexandre, suo figlio, aveva una incredibile voglia di rimettere al loro posto tutti i tasselli del suo passato.
  Pochi giorni fa Alexandre è salito su un aereo ed è volato fino in Israele per incontrare lo zio: quando si sono visti si sono abbracciati a lungo. L'emozione ha preso il sopravvento ed Eliahu si è sciolto in un pianto. «Mi rende così felice che almeno una parte di mio fratello sia qui, questo è suo figlio - ha detto all'Ap - Dopo tanti anni mi è stato concesso il privilegio di incontrarlo. Nel mio cuore ho sempre sentito che Volf non era più vivo». Zio e nipote hanno iniziato a parlare in russo senza celare l'emozione. «Sei una copia di tuo padre - ha detto Eliahu, scuotendo la testa incredulo - Non ho dormito per due notti per aspettarti». Dal canto suo Alexandre ha parlato di miracolo.

 Yad Vashem
  L'incontro è stato possibile grazie al database di Yad Vashem, il cui obiettivo è raccogliere e commemorare i circa 6 milioni di ebrei vittime del genocidio nazista. Ha una missione principale: raccogliere i nomi di tutti i morti, commemorando ogni singolo individuo e non parlando solo di numeri. Il progetto è iniziato nel 1954, ma nel corso di mezzo secolo sono stati raccolti meno di 3 milioni di nomi, soprattutto perché il progetto non era molto conosciuto e molti sopravvissuti si astenevano dal riaprire ferite dolorose oppure si aggrappavano alla speranza che i loro parenti potessero essere ancora vivi. Dal 2004 il database è stato pubblicato online e ha fornito un facile accesso immediato alle informazioni in inglese, ebraico, russo, spagnolo e tedesco. Grazie a un'intensa campagna per farlo conoscere e agli sforzi di Yad Vashem che sono andati porta a porta a intervistare i sopravvissuti anziani, il numero è salito a 4,7 milioni di nomi. Il tutto ha permesso a diversi familiari sparsi per il mondo di riunirsi, anche se ovviamente, con il passare degli anni, i sopravvissuti sono diminuiti. Ma Alexander Avram, il direttore del database, ha una certezza: «Non è troppo tardi per stilare pagine di testimonianze».

(Il Messaggero, 20 novembre 2017)


Gli scrittori ebrei italiani non si accorgono dell'odio che monta contro Israele

Ebraismo e cultura. un problema di identità

di Emanuele Calò

Libri su libri su libri su libri. Una mia compagna della nostra scuola elementare sudamericana - con WhatsApp e Facebook si torna al passato remoto - mi domanda da Israele, dove è andata per il Bat Mitzvah della nipote ex sorore, se anch'io sia ebreo. La domanda mi sbilancia e mette in crisi la mia stessa identità. Vabbè, sì, sono ebreo: ma come Harrison Ford o come Moni Ovadia? Come Paul Newman o come Gad Lerner? Come Noam Chomsky o come Alan Dershowitz? Eppoi, non so una parola di ebraico. Però sono ebreo, un poco come sono romanista, ossia orgogliosissimo di esserlo. Il punto è che sono tanti, nel mondo, ebrei compresi, a dubitare che esistano gli ebrei italiani, per via della loro scarsa consistenza numerica. Io stesso inizio a dubitare della nostra esistenza, perché il fenomeno letterario/editoriale ci conduce in una dimensione mistica e finanche irreale. Un poco come Asterix, il personaggio ideato da un ebreo, il quale autore sarà finito per entrare nei fumetti assieme al suo personaggio, percorrendo la via inversa rispetto alla Rosa purpurea del Cairo; anziché passare dalla finzione alla realtà, qui è il mondo del reale a diventare cliché. Sarebbe impegnativo elaborare delle statistiche sui libri editi in Italia ad argomento ebraico; è una valanga incontenibile, ondate e ondate di volumi in cerca di lettori per un popolo, come quello italiano, che non legge moltissimo. Qualche fesso, però, dovrà pur esserci, perché non è possibile assumere che tutti gli editori siano votati al martirio. Eppoi, sì, l'argomento sarà pure interessante, ma né può essere l'unico né si può diventare ebreo-centrici. E invece così non è, perché quasi ogni volta che trovo un qualche cosa di così originale da rasentare la bizzarria, finisco per imbattermi in un correligionario. Che avesse ragione Paul Johnson, quando paragonava gli ebrei al lievito? Giacomo Debenedetti, nel suo saggio sul 16 Ottobre 1943, mette in luce la sostanziale ingenuità degli ebrei: diffidenti nelle cose piccole, disastrosamente ingenui in quelle grandi. Perché gli ebrei italiani che scrivono e scrivono, che recensiscono e recensiscono, non sembrano capire che accanto al fiume blu di libri a tema ebraico scorre il fiume nero dell'odio che finalmente ha trovato in Israele l'alveo dove scaricare la sua geometrica brigatistica potenza. Quel fiume nero non annulla il fiume blu, ma lo rende disinvoltamente ancillare, ponendolo al proprio servizio, contrapponendo la soave cultura diasporica, subdolamente bundista, alla furiosa vitalità israeliana, il cui paragone coi vicini scuote l'oriente medio. Non so se, e in quale misura, si abbia piena contezza che si tratta di una contrapposizione fra morti e vivi, che trova la sua Epifania nel Giorno della Memoria, dove non dovrebbe onorare i morti chi demonizza i vivi. E intanto il fiume blu continua a scorrere, tanto placido quanto inutile.

(Il Foglio, 21 novembre 2017)


"... la sostanziale ingenuità degli ebrei: diffidenti nelle cose piccole, disastrosamente ingenui in quelle grandi". Da non ebreo, concordo. La conferma si trova anche nella storia, se si guarda bene. E' ammirevole la disponibilità degli ebrei ad accogliere con gratitudine le manifestazioni di interesse e simpatia verso di loro, ma spesso non si accorgono della pericolosità minacciosa che sottende certe esposizioni in pubblico. Verrebbe voglia di avvertirli, ma non serve. Tanto più che la diffidenza potrebbe essere estesa anche a chi scrive. Un enigmatico intoppo. M.C.


Il tunisino Saïd cacciato dal festival del cinema per i legami con Israele

di Giulio Meotti

 
Saïd Ben Saïd
ROMA - Lo scorso settembre, il regista libanese Ziad Doueiri, il cui attore Kamel el Basha aveva appena vinto al Festival del cinema di Venezia il premio come miglior attore protagonista nel film "L'Insulto", fu atteso dalla polizia libanese all'aeroporto di Beirut di ritorno da Venezia. Doueiri venne arrestato e interrogato per tre ore dal tribunale militare, accusato di "collaborazionismo con Israele". La sua "colpa" fu di aver girato alcune scene della pellicola in territorio israeliano.
   Adesso qualcosa di simile succede a un grande produttore cinematografico tunisino. Saïd Ben Saïd aveva lavorato con David Cronenberg, Roman Polanski, Brian De Palma e Paul Verhoeven, fra gli altri. Per questo, onorando una lunga carriera, a Saïd Ben Saïd avevano offerto la direzione del Festival del cinema di Cartagine, in Tunisia (dal 4 all'11 novembre). Un incarico poi annullato a causa del liberalismo e del pluralismo professati e praticati da Saïd Ben Saïd. Ovvero la sua collaborazione con il regista israeliano Nadav Lapid ed essere un membro della giuria del Festival del cinema di Gerusalemme.
   Saïd Ben Saïd ha così scritto sul Monde un articolo di denuncia che costituisce uno dei più clamorosi atti d'accusa verso il mondo arabo-islamico. "Sono nato in Tunisia, sono cresciuto in una famiglia musulmana praticante e oggi affermo con lo stesso entusiasmo di essere musulmano, francese e tunisino" scrive sul Monde. "Nel mio paese e nel mondo arabo in generale c'è una ostilità (quando non odio) contro Israele. Nessuno può negare la sfortuna del popolo palestinese, ma dobbiamo ammettere che il mondo arabo è, nella sua maggioranza, antisemita e che l'odio degli ebrei ha raddoppiato in intensità e profondità non a causa del conflitto arabo-israeliano, ma dell'ascesa di una certa visione dell'islam. Certo, molte persone sono persuase che, essendo semiti, gli arabi non possono essere antisemiti. Ma niente è più sbagliato. Il termine 'antisemita', inventato in Europa nel Diciannovesimo secolo, non ha mai riguardato gli arabi. Ha designato esclusivamente gli ebrei".
   Saïd Ben Saïd poi ha accusato direttamente l'islam: "La lettura letterale del Corano, priva di qualsiasi contesto storico, è delirante sugli ebrei. Gli ebrei sono, per noi, traditori, falsificatori, immorali, cattivi, ecc. E, soprattutto, questi versi erano la parola di Dio. In una monarchia del Golfo Persico, ad esempio, oggi si legge nei libri di testo che gli ebrei discendono dalla scimmia". Anche l'età d'oro della condizione ebraica nel mondo arabo è un mito. "Gli ebrei vivevano in una situazione migliore rispetto a quella degli ebrei europei con periodi di relativa tolleranza, ma nel complesso, dal Marocco all'Iraq, sono stati disprezzati, vittime di bullismo e umiliati quando non massacrati in modo che non avevano altra scelta che lasciare le terre dei loro antenati per stabilirsi in Europa o in Israele". E' nel mondo arabo, infine, che i Protocolli dei savi anziani di Sion continuano a godere del loro più grande successo di vendite e pubblico. Conclude Saïd Ben Saïd; "L'antisemitismo degli arabi oggi è lo stesso del vecchio antisemitismo europeo". Un mix letale esploso proprio in Francia, la patria d'adozione di Saïd Ben Saïd.

(Il Foglio, 21 novembre 2017)


Destra israeliana scatenata contro il presidente Rivlin

Sul web circolano fotomontaggi del capo di stato coperto da una kefiah, gli stessi che furono riservati al'ex premier Rabin, ucciso da un estremista nel 1995

di Sara Volandri

La destra israeliana letteralmente scatenata contro il presidente Reuven Rivlin additato come nemico del popolo e sodale degli odiati palestinesi. Perché tanto livore? Rivlin è finito nel mirino dei nazionalisti per aver negato la grazia all'ex militare il 21enne Elor Azaria, condannato per aver ucciso nel 2016 un palestinese ferito, Abdel Fattah al Sharif a Hebron in Cisgiordania. Azaria aveva subito un'aggressione da al Sharif con un coltello, ma l'uomo era stato prontamente ferito e immobilizzato dai militari di Tel Aviv. Nessuna legittima difesa dunque: Azaria lo ha ucciso a sangue freddo con un colpo di rivoltella alla testa dalla distanza di due metri. La terribile sequenza era stata ripresa con un telefonino da un attivista di una Ong israeliana, B'Tselem, che è presente nei territori palestinesi per verificare il comportamento dell'esercito e proteggere i diritti dei cittadini arabi che vivono sotto occupazione. Il video ha fatto rapidamente il giro del web, inchiodando il giovane soldato di Tsahaal, considerato dal tribunale del tutto capace di intendere e di volere quando ha premuto il grilletto.
   A gennaio Azaria è stato riconosciuto colpevole di omicidio volontario e condannato a 18 mesi di reclusione in un carcere militare, considerando tutte le attenuanti. La pena gli era stata ridotta di 4 mesi dal capo di stato maggiore dell'esercito, Gadi Eizenkot. ll premier Benjamin Netanyahu ed altri politici di spicco avevano chiesto apertamente il perdono per Azaria.
   La mancata grazia ha aperto il vaso di Pandora di insulti e minacce nei confronti del presidente Rivlin che non ha perdonato il caporale Azaria per non scatenare una rivolta nei territori palestinesi, un gesto saggio considerando la lieve entità della pena, ma che sta mandando su tutte le furie la destra più radicale (e non solo).
   La polizia israeliana ha ieri aperto un'indagine dopo la comparsa di alcune immagini ritoccate con photoshop che ritraggono Rivlin con una kefiah, il tipico copricapo arabo, simbolo anche del nazionalismo palestinese. Questo tipo di fotomontaggi sono considerati tabù nella società israeliana, dopo che immagini simili che avevano per soggetto il premier Yitzhak Rabin vennero diffuse dagli estremisti di destra israeliani, prima del suo assassinio nel 1995. Un clima deleterio che lo stesso premier Natanyahu, pur favorevole alla grazia, è stato costretto a condannare: «In una democrazia chiunque può essere criticato. L'unica richiesta affinché queste critiche siano rilevanti e rispettose è che siano senza kefiah, senza corde da impiccagione e senza uniformi naziste», ha dichiarato.
Il rifiuto della grazia da parte di Rivlin, che è un esponente del Likud, il partito al governo, ha messo fine ad una vicenda giudiziaria che ha profondamente diviso Israele e che con ogni probabilità continuerà a farlo.

(Il dubbio, 21 novembre 2017)


L'India annulla un contratto di 500 milioni di dollari con Israele per l'acquisto di missili

NUOVA DELHI - L'India ha cancellato un accordo multi-milionario con Israele per l'acquisto di missili. Lo riferisce oggi il quotidiano indiano "The Indian Express". Secondo i media di Gerusalemme, l'annullamento del contratto del valore di circa 500 milioni di dollari rappresenta un duro colpo alle fiorenti relazioni israelo-indiane. Ad essere stato annullato è un accordo risalente al 2014 che prevedeva l'acquisto di oltre 300 missili anticarro Spike, prodotti dall'israeliana Rafael. Nel 2014 Nuova Delhi aveva scelto Rafael per la commessa, preferendola al sistema di difesa antimissile Javaelin, delle società statunitensi Raytheon e Lockheed Martin. In seguito alla commessa da parte del governo indiano, la Rafael aveva aperto una fabbrica di produzione nel paese asiatico insieme ad una società locale. La decisione della cancellazione sarebbe stata presa sulla base della considerazione che l'importazione di un missile anticarro straniero avrebbe un impatto negativo sul programma di sviluppo interno di tecnologie militari e armamenti di cui è responsabile l'agenzia pubblica Defence Research and Development Organisation (Drdo).
La notizia dell'annullamento dell'accordo giunge a pochi mesi dall'annuncio dell'acquisto da parte di Nuova Delhi di sistema di difesa navale Barak 8, prodotto dall'Industria aerospaziale israeliana (Iai). A testimonianza delle floride relazioni tra i due paesi, a gennaio 2018 è prevista la visita del premier israeliano Benjamin Netanyhu in India. La visita del capo dell'esecutivo israeliano, se confermata, avverrebbe circa sei mesi dopo quella dell'omologo indiano Narendra Modi nello Stato ebraico dello scorso luglio. Netanyahu dovrebbe arrivare il 14 gennaio e ripartire il 16, dopo essere stato ricevuto da Modi. Sarebbe il secondo premier israeliano in visita ufficiale in India dopo Ariel Sharon (2003). Il governo indiano si sta preparando per l'incontro bilaterale, sui temi del commercio, dell'innovazione, dell'agricoltura e della gestione delle risorse idriche. In agenda anche la difesa: i due paesi, infatti, stanno lavorando a una proposta riguardante il velivolo da ricognizione comandato a distanza Heorn Tp o Iai Eitan, prodotto dall'Industria aerospaziale israeliana (Iai). Gli scambi commerciali, escludendo la difesa, ammontano a circa cinque miliardi di dollari, al di sotto del potenziale secondo fonti governative indiane, che puntano a un accordo di libero scambio.

(Agenzia Nova, 21 novembre 2017)


Conferenza "Medicina e cultura ebraica in Puglia nel tardo antico e basso medioevo”

TRANI - Conferenza "Medicina e cultura ebraica in Puglia nel tardo antico e basso medioevo"che si terrà domani, 22 novembre alle ora 17.30 in biblioteca, organizzata dall'Assessorato alle Culture in collaborazione con l'A.M.M.I. (Associazione Mogli Medici Italiani) - Sezione di Andria, Barletta, Bisceglie, Canosa, Corato, Trani.
   Si parlerà dei paradossi della storia, in particolare sulla lunga e perdurante ambivalenza che ha investito gli Ebrei e i loro rapporti con il potere laico e religioso per secoli, nelle terre europee bagnate dal Mediterraneo.
   Una ambiguità che si è deteriorata con maggiore evidenza di fatti in tre grandi tornanti: dopo il Mille, intorno al secolo XIV e poi dal XVI in avanti verso la catastrofe del Novecento. Da una parte si firmavano decreti regi o papali di restrizioni e di espulsioni; dall'altra si corteggiavano i medici ebrei ed averli come medici personali era l'ambizione di qualunque re, feudatario, vescovo e persino papa. Come scrive Elia Benamozegh, grande erudito cabalista e rabbino livornese dell'Italia risorgimentale, "L'ebraismo non è solo una religione, una politica, una legislazione e una letteratura, ma è la cura sostanziale, un'arte e una scienza salutare tanto del corpo quanto dello spirito. […] È soprattutto opera di conoscenza e prevenzione verso le malattie."
   Nella seconda parte dell'incontro ci terrà la presentazione del libro "In viaggio per sinagoghe e giudecche" (Adda, 2017) di Maria Pia Scaltrito, storica della Filosofia, membro della Società di storia patria per la Puglia e collaboratrice de La Gazzetta del Mezzogiorno per la storia e la cultura ebraica, che converserà con Luisa Derosa, storica dell'Arte e docente di Storia dell'Arte medievale presso l'Università degli Studi di Bari. Il libro è un viaggio alla scoperta delle storie di un Sud ancora sconosciuto, storie a volte compiute, più spesso spezzate e finanche misteriose. Ma anche di sinagoghe. Da Bari a Lecce a Copertino a Trani a Venosa. Giungendo al ritrovamento dell'ultima: la sinagoga medievale di Andria che nelle pagine appare in assoluta anteprima.

(Puglia live, 21 novembre 2017)


Riad e Gerusalemme si parlano in chiave anti-Iran

di Emanuele Rossi

Il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz
Domenica il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, è stato il primo funzionario del gabinetto di governo a rivelare apertamente che Gerusalemme e Riad si parlano in funzione anti-Iran. Questo coordinamento è destinato a segnare i futuri equilibri nella regione più turbolenta del mondo, il Medio Oriente, con potenziali ricadute globali; vedere per esempio la mediazione francese sulle dimissioni del primo ministro libanese, vicenda che si allinea all'interno di questa scia di polarizzazione che vede Israele e gli stati sunniti del Golfo - capitanati dai sauditi - contro l'Iran e i satelliti regionali della repubblica sciita.

 Contatti e condivisioni strategiche
  Intervistato dalla radio dell'esercito, alla domanda perché questi contatti finora erano stati tenuti segreti, Steinitz ha ricordato che formalmente i due paesi non hanno relazioni diplomatiche (c'è enorme distanza culturale tra il paese che conserva i luoghi sacri islamici e lo stato ebraico, formalmente sfociata nella questione palestinese) e ha aggiunto: "Abbiamo legami che sono in effetti parzialmente coperti con molti paesi musulmani e arabi, e di solito [noi siamo] la parte che non si vergogna. È l'altra parte che è interessata a mantenere i legami tranquilli. Con noi, di solito, non c'è alcun problema, ma rispettiamo il desiderio dell'altro lato", però ha sottolineato che "i legami si stanno sviluppando, sia con l'Arabia Saudita che con altri paesi arabi o altri paesi musulmani, e c'è molto di più, [ma] noi li teniamo segreti". O tenevamo, forse. La scorsa settimana il capo delle forze armate israeliane, il potentissimo generale Gadi Eisenkot, si è fatto intervistare da un sito d'informazione saudita (abbastanza) indipendente con base a Londra e ha proposto l'inizio di una condivisione di informazioni di intelligence tra Riad e Gerusalemme con l'obiettivo di contrastare l'espansionismo di Teheran, nemico esistenziale comune. Questo genere di dichiarazioni non escono da un sistema di governo come quello israeliano senza un coordinamento ai massimi vertici, e dunque le parole del generale sono spin politico internazionale.

 La benedizione sulla partnership
  Questa partnership diventa ancora più interessante se si pensa che il collante tra i due mondi finora (in realtà i contatti sono iniziati da anni) distanti è Washington. L'amministrazione Trump, anche per segnare un'altra discontinuità col predecessore, ha ristretto i rapporti con i due alleati storici nella regione, precedentemente raffreddati dalla spinta propulsiva che Barack Obama diede all'accordo sul nucleare iraniano (che la Casa Bianca, appunto, ha deciso di decertificare poche settimane fa). Ora i più alti funzionari della Casa Bianca, come Jared Kushner, hanno costruito rapporti personali con le autorità israeliane e soprattutto vanno e vengono dalle corti del Golfo, principalmente quelle di Riad e Abu Dhabi, dove regnano due capi di stato giovani con la volontà esplicita di schiacciare politicamente l'Iran. Una visione condivisa anche dall'amministrazione americana. Teheran è il fulcro del Medio Oriente post-Califfato in costruzione, perché ha accumulato crediti in Siria, difendendo il regime di Damasco durante la guerra civile, anche attraverso il suo più affilato elemento di politica estera, le milizie-partito sciite mobilitate da (e su) tutta la regione.

 Il contesto regionale
  Quelle che hanno conquistato un ruolo di primo piano a Damasco col beneplacito russo, hanno lo stesso imprinting politico-ideologico della altre che hanno già potere a Beirut e Baghdad; e non va dimenticato che gli iraniani giocano un ruolo nella rivolta in Yemen, proiettando la loro presenza/influenza in tutta l'area mediorientale. "Dal Golfo Persico al Mar Rosso e dal Libano all'Iran", Teheran sta "cercando di prendere il controllo della regione", con la costruzione di questa "mezzaluna sciita", aveva detto il generale Eisenkot: "Dobbiamo evitare che questo accada". Sempre la scorsa settimana, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha effettuato una visita improvvisa al nord, dove il paese confina con la Siria: quella è un'area fortemente critica, perché è lì che lo stato ebraico è entrato in contatto col conflitto siriano. "Non permetteremo che la Siria diventi una base per l'Iran e degli sciiti contro Israele", ha detto Lieberman, e sono parole come queste che aprono lo scenario strategico. Gerusalemme non vuole la presenza di una minaccia esistenziale appicciata ai propri confini, sia in Siria che in Libano. Domenica il segretario generale della Lega Araba, Ahmed Aboul Gheit, ha parlato apertamente di una riunione di emergenza guidata dai sauditi e tenutasi al Cairo per estrapolare i punti chiave di questo contrasto all'Iran. I sauditi si stanno facendo da portavoce per costruire all'interno della Lega una posizione unitaria contro Teheran e far combaciare il tutto con le posizioni israeliane.

(formiche.net, 20 novembre 2017)


Israele: 40 anni fa la visita di Sadat cambiò la regione

Retroscena, il viaggio fu preceduto da scenari allarmanti

di Aldo Baquis

 
Menachem Begin accoglie Anwar Sadat, novembre 1977
TEL AVIV - Quaranta anni fa il Medio Oriente voltò pagina quando Anwar Sadat atterrò all'aeroporto di Tel Aviv dove era atteso dal premier Menachem Begin e da Golda Meir. Israele si stava ancora riprendendo dalla traumatica guerra del Kippur (1973) ed ora, per la prima volta dalla fondazione, lo Stato ebraico stava per accogliere il presidente dell'Egitto, Paese guida nel mondo arabo.
Quando i motori del velivolo tacquero, il 19 novembre del 1977, gli occhi si puntarono sul portellone, che però per lunghi istanti rimase vuoto. ''La tensione era al massimo'', ha ricordato Yona Klimowitzky, la segretaria personale di Begin.
''C'era infatti chi temeva che dall'aereo potesse spuntare Yasser Arafat'', il leader dell'Olp. I cecchini erano appostati sul tetto dell'aeroporto Ben Gurion. Altri scenari di emergenza, ha rivelato oggi la radio militare, paventavano un nuovo 'Cavallo di Troia'. Ossia che dall'aereo egiziano balzasse a sorpresa un commando determinato a massacrare i leader di Israele schierati lungo il tappeto rosso.
Nel Sinai, in quelle ore, l'esercito israeliano era in massima allerta. In mattinata lungo il canale di Suez erano stati notati spostamenti di truppe come quattro anni prima, alla vigilia del blitz militare siro-egiziano che innescò la guerra del Kippur. Infine Sadat usci', sorridente, e subito scatenò l'entusiasmo degli israeliani.
''Noi comunque eravamo persuasi che da parte sua non ci fosse alcun inganno'', ha commentato oggi Arie Naor, allora segretario del governo israeliano. ''Nei mesi precedenti, Begin si era rivolto nel massimo segreto ai dirigenti di Stati Uniti, Romania, Iran e Marocco per garantire il successo della visita''. E nel 1978, a Camp David, Israele ed Egitto raggiunsero intese di pace. Begin fu costretto a smantellare nel Sinai la citta' di Yamit ed una ventina di colonie ebraiche.
''Per quella rinuncia avrebbe sofferto per il resto della vita - ha detto oggi Klimowitzki. - Ma comprendeva che la pace richiedeva un prezzo''. Sadat pagò un prezzo maggiore ancora nel 1981 quando, nell'anniversario della guerra del Kippur, fu assassinato da un terrorista islamico.
Quello di Sadat, ha osservato il premier Benyamin Netanyahu - ''fu un passo coraggioso e da allora, con alti e bassi, il trattato di pace ha tenuto''. ''Oggi - ha proseguito - Egitto ed Israele, cosi' come altri Paesi, sono fianco a fianco nella stessa barricata in una lotta ostinata all'Islam radicale''. Ieri alla Knesset si e' tenuta una commemorazione ufficiale.
L'Egitto era rappresentato dall'ambasciatore Hazem Khairat.
Secondo i media locali, tutti i tentativi di ospitare a Gerusalemme esponenti politici egiziani di rango non hanno avuto successo.

(ANSAmed, 20 novembre 2017)


Quegli ospedali israeliani che curano i siriani

ROMA - Ogni giorno, in Israele, civili siriani - uomini, donne e bambini - varcano i confini di un'antica inimicizia per trovare assistenza e cura negli ospedali israeliani. Poi vengono riaccompagnati segretamente oltre il confine, spesso forniti di protesi e presidi necessari per la riabilitazione.
Il tutto svolto nella più assoluta riservatezza agli occhi dei media internazionali.
L'Associazione Medica Ebraica, in collaborazione con l'Ambasciata di Israele in Italia, ha organizzato una serata per parlarne con i testimoni diretti.
A partire dal 2013, queste pratiche di sicurezza e sanità israeliane sono entrate a far parte anche della realtà italiana. Grazie al progetto "Abruzzo 2020 Sanità Sicura", la Regione Abruzzo ha dato il via alla creazione di un Centro di Addestramento e Formazione Permanente per l'intervento nelle grandi emergenze in collaborazione con il National Center for Trauma & Emergency Medicine Research del Gertner Institute for Health Policy.
Alla serata interverranno:
  • Min. Pl. Ofra Farhi Vice Capo Missione Ambasciata di Israele
  • Min.Cons. Rafi Erdreich Addetto agli Affari Pubblici Ambasciata di Israele
  • Dott. Gabriele Rossi Direttore Abruzzo 2020 Sanità Sicura Cooperazione Sociosanitaria Italia Israele
  • Prof. Franco Marinangeli Direttore Corso Emergenze Medico Chirurgiche Facoltà di Medicina e Chirurgia Università dell'Aquila
Circolo Montecitorio
Via dei Campi Sportivi 5, Roma
20 novembre 2017, ore 20

(AllEvents.in, 20 novembre 2017)


Marxista tendenza Groucho

L'uomo che sapeva troppo come divertire l'umanità. Del suo "rivale" Charlie Chaplin diceva: "È un tipo molto strano, per certi versi non ha nemmeno un barlume di senso dell'umorismo". Tornano in libreria l'autobiografia e le lettere, cariche di irresistibili menzogne, di un genio della comicità.

di Pietro Citati

Non saprei precisamente quando sia nato il cosiddetto umorismo ebraico, che ormai, almeno negli Stati Uniti, è la forma principale di comico. Bisogna attendere sedici o diciassette secoli dopo l'inizio dell'era cristiana: i tempi di Lurija e soprattutto quelli del chassidisrno, tra le plebi orientali sul punto di partire per gli Stati Uniti. Lì nacque, almeno in parte, il riso disperato e sottilissimo di Kafka. Gli ebrei ridevano e insieme piangevano: ridevano e piangevano perché le "Sefìrot", le emanazioni divine, erano sparse nel nostro mondo, in mezzo a noi, sotto i nostri occhi, vittime e prigioniere, ed essi potevano liberarle, lavorando amorosamente e precisamente la pietra od il cuoio, o qualsiasi oggetto. Oggi l'editore Adelphi ripubblica due bellissimi libri: Groucho ed io (traduzione di Franco Salvatorelli, pagine 316, euro 12) e Le lettere di Groucho Marx (traduzione di Davide Tortorella, pagine 376, euro 20): Groucho è il terzo dei cinque fratelli Marx, vissuto tra il 1890 e il 1977 negli Stati Uniti. Sono due libri deliziosi, follemente divertenti, che invito a leggere tuffandosi ora nella realtà più minuziosa ora nell'assurdo più inverosimile - le due strade che l'immaginazione ebraica ha sempre percorso. Sono impareggiabili giochi di teatro, scritti per venire recitati davanti al complice pubblico ebraico di New York: percepiamo quasi il suono di ogni battuta, il movimento di ogni gesto, e le risa che salgono irresistibili dalla platea.
  Con infinito piacere, Groucho Marx racconta. Racconta i tempi del proibizionismo e la crisi del 1929: a tratti, sembra di leggere Fitzgerald. Un giorno il suo consulente finanziario gli disse: «Groucho, la festa è finita». I suoi amici si gettavano dai grattacieli: i gangster impazzavano per le strade; e lui fu travolto dall'insonnia. I Marx erano una famiglia povera, venuta dalla Germania yiddish: la madre «da un Paese di circa trecento anime, comprese quattro vacche, che c'erano arrivate per sbaglio». A Brooklyn Groucho si trovò amorosamente e ferocemente avvolto dalla famiglia: nessuna famiglia è più avvolgente ed amorosa di una famiglia ebraica. Aveva uno zio pieno di debiti: ottantaquattro dollari soltanto con suo padre: possedeva una palla di biliardo numero nove (rubata), una scatola di pasticche per il fegato e uno sparato di celluloide; viveva a sbafo, e fece di Groucho il suo unico erede. Un altro zio era pedicure: dopo essersi invitato a pranzo, asportava con garbo i calli accumulati dal padre di Groucho battendo i marciapiedi in cerca di lavoro: il suo onorario era modesto; venticinque cents per entrambi i piedi. Un terzo zio, che ebbe uno straordinario successo, stirava pantaloni in una ditta di Manhattan.
  Come si conviene a un ebreo di Brooklyn, il padre faceva il sarto: o meglio immaginava di fare il sarto: non prendeva mai le misure a nessun cliente: gli bastava guardarlo; e i risultati delle sue previsioni erano più o meno esatti come le previsioni di Chamberlain sul conto di Hitler. Era facile riconoscere i suoi clienti: andavano in giro con un calzone più corto dell'altro, una manica più larga dell'altra, e il bavero della giacca incerto su dove posarsi. Non aveva mai due volte lo stesso cliente: doveva andare di continuo a caccia di clienti nuovi - sempre più lontano, a Hoboken, Pasaic, Nyact e altrove, finché molte settimane la spesa del tram superava il guadagno, e i suoi calli erano duri come pietre. Con la promessa di un gelato alla crema, Groucho era incaricato di consegnare il vestito, la domenica mattina, in tempo per la Pasqua, sulla Prima Avenue. Il reddito del padre oscillava tra diciotto dollari alla settimana e niente: Groucho non sapeva bene se se ne affliggeva; ma se si affliggeva non lo dava mai a vedere. Era un uomo felice: pieno della joie de vivre della sua Alsazia nativa. Amava ridere. Spesso rideva per una barzelletta che non capiva, e dopo che gliel'avevano spiegata rideva di nuovo fragorosamente. Sempre in attesa di miracolosi colpi di scena, un giorno, sfogliando la Bussola del sarto, vide l'annuncio di un nuovo tipo di macchina per stirare i calzoni. La comprò: era velocissima: stirava un paio di calzoni in quindici secondi, ed era pronta ad accogliere valanghe di calzoni. Soltanto che il padre non aveva clienti.
  Questa parte dei due libri è bellissima, per verità, saggezza e divertimento. I libri vanno a zig zag, avanti e indietro, indietro e avanti, perché Groucho non ha la più pallida idea, come Sterne, che un libro debba portare a una fine e a una conclusione. Quello che gli importa è raccontare menzogne: menzogne e menzogne; una più grande dell'altra; perché non c'è nessuna differenza tra verità e menzogna o tra i suoi libri e quelli copiati dagli altri. Scriveva rapidamente: molto rapidamente, come i gesti e le frasi dei film di Chaplin, che adorava, e al quale credeva di assomigliare. Fu felicissimo il giorno in cui Chaplin, vincendo la propria abituale avarizia, lo invitò a pranzo: gli disse di non essere ebreo, sebbene gli sarebbe molto piaciuto esserlo. Era scozzese, inglese, gitano: non lo sapeva nemmeno lui; odiava gli inglesi ma sperava che vincessero la guerra. «È un tipo molto strano - disse Groucho - per un certo verso non ha nemmeno un barlume di senso dell'umorismo». Alla fine del pranzo avvenne qualcosa di sbalorditivo: Chaplin afferrò il conto (ammontava a trenta dollari), e lo pagò di tasca sua.
  Sempre velocissimamente Groucho Marx parla di tutto. I libri che ha letto: Piccolo campo di Caldwell, Piccole donne di Louisa May Alcott, Ben Hur, Via col vento: Rembrandt, Beethoven e Van Gogh. Conosceva perfino Finnegans Wake: non era meno lontano dalla vita di quanto lo fosse Joyce. T. S. Eliot gli scrisse per mandargli un ritratto, «che faceva la sua debita figura accanto a quelli di altri amici - W. B. Yeats e Paul Valéry»: naturalmente la lettera di Eliot era falsa. «Quando ti chiamo Tom, vuol dire che sei un misto di peso medio-massimo, un gattaccio randagio e il terzo presidente degli Stati Uniti». «Eliot ed io abbiamo tre cose in comune: 1) la passione per i buoni sigari. 2) I gatti. 3) Un debole per le freddure - un debole che io cerco di vincere da molti anni, mentre Eliot è uno spudorato, un orgoglioso freddurista».
  Non smetterei mai di citare Groucho Marx, con lo stesso piacere con cui ricordo le battute delle commedie di Shakespeare. Il varietà della sua giovinezza gli piaceva moltissimo: era molto più assurdo e svitato di quello moderno. Adorava far ridere: «a paragone dell'impresa di far ridere, le parti drammatiche del teatro sono come una vacanza di due settimane in campagna». Una volta la posizione dell'attore nella società era una via di mezzo tra una zingara chiromante e un borsaiolo. Poi il varietà scomparve, ucciso prima dal cinema, poi dalla televisione: mentre lui avrebbe voluto tornare ad immergersi nella meravigliosa e rarefatta atmosfera dell'antica Broadway.
  Allora, in vetta a tutto, c'erano i fratelli Marx: Chico, Harpo, Groucho, Gummo e Zeppo. Groucho faceva gite ciclistiche al supermercato: appariva due volte alla settimana in televisione: scriveva lettere e, chissà perché, si faceva grattare i piedi. Gli altri lo descrivevano come uno sbragato pagliaccio, pronto a qualsiasi bassezza pur di strappare una risata. «In verità - diceva Groucho - io sono uno studente invecchiato, che ambisce alla conoscenza e alla solitudine, e conduco una vita esemplare e solitaria in un'atmosfera libresca e coltissima».
  Della sua vita Groucho ricorda specialmente un evento. Un giorno, a Chicago, camminava per la State Street quando una coppia di mezza età gli venne incontro e si mise a girargli intorno. Fecero due o tre giri, guardandolo come se fosse una cometa venuta dallo spazio. Poi la donna gli si avvicinò titubante e chiese: «È lei, vero? È Groucho?». Egli annuì. Allora gli toccò timidamente un braccio e disse: «Per favore, non muoia, continui a vivere». Nelle ultime righe del libro, Groucho commenta: «si può desiderare di più?», Certo, non si può desiderare di più.

(la Repubblica, 20 novembre 2017)


Re saudita abdicherà a giorni? Conseguenze economiche dirompenti

Mohammed bin Salman diverrebbe sovrano saudita a giorni. L'impatto sull'economia mondiale si farebbe sentire subito.

di Giuseppe Timpone

 
Mohammed bin Salman
Il Daily Mail ha riportato sabato scorso una notizia a dir poco sensazionale: Re Salman dell'Arabia Saudita abdicherà questa settimana in favore del figlio Mohammed bin Salman (MBS), già suo vicario e di fatto uomo più potente del regno a soli 32 anni. L'attuale sovrano manterrebbe solamente il titolo di "Custode delle Moschee Sacre". A riferirlo alla stampa britannica è stata una fonte vicina alla famiglia reale, anche se non esistono commenti ufficiali sul tema, se non la smentita da parte di altre fonti vicine al sovrano. Se la notizia fosse vera, saremmo a un passo da uno stravolgimento geopolitico nel Medio Oriente, le cui conseguenze sull'economia mondiale si farebbero sentire sin da subito.
  MBS ha iniziato la caccia contro decine tra ministri, alti funzionari, principi e sceicchi con l'accusa di corruzione. Tra questi è finito agli arresti il magnate Alwaleed bin Talal, accreditato di un patrimonio tra i 18 e i 32 miliardi di dollari, nonché membro della stessa famiglia reale, essendo nipote di Re Ibn Saud, fondatore del regno. L'ondata di arresti punta certamente a reprimere ogni forma di dissenso e di minaccia all'ascesa al trono di MBS, ma avrebbe cause anche molto economiche.
  Il giovane principe punta a sganciare l'Arabia Saudita dall'eccessiva dipendenza del petrolio con la sua "Saudi Vision 2030". Le riforme già parzialmente varate si pongono, in effetti, l'obiettivo di accrescere le entrate fiscali non petrolifere, che quest'anno stanno già registrando un boom dell'80%. E dall'anno prossimo sarà introdotta l'IVA del 5%, mentre vengono già tassati alcoolici e tabacchi. Per diversificare l'economia, MBS sta anche accelerando sulla concessione di maggiori diritti alle donne, come quello di guidare dal giugno dell'anno prossimo. In questo modo, spera di aumentare l'occupazione femminile dal 22% attuale, potenziando il settore privato non petrolifero.

 Lo scenario bellico
  La necessità di sganciarsi gradualmente dal petrolio si è palesata con il crollo delle quotazioni a partire dal 2014. In quell'anno, l'89% delle entrate fiscali era generato dal greggio, percentuale già scesa intorno ai due terzi. MBS ha anche assecondato la strategia di sostenere la risalita delle quotazioni con un accordo interno all'OPEC e con la Russia per tagliare la produzione, anche con il fine di massimizzare il valore di Aramco, la compagnia petrolifera statale, che entro la fine dell'anno prossimo sarà quotata in 2-3 borse mondiali, Riad inclusa, per il 5%.
  Quale impatto avrebbe sugli equilibri geopolitici ed economici l'ascesa al trono di MBS? Il giovane è acerrimo nemico dell'Iran e ha già avallato una "proxy war" nello Yemen, combattendo i ribelli Houthi, sostenuti da Teheran. Gli analisti temono che diventando sovrano forse a giorni, una guerra diretta tra i due storici nemici nel mondo mussulmano diverrebbe inevitabile. In più, Riad punterebbe a un'alleanza con Israele per eliminare i terroristi di Hezbollah dal Libano, promettendo a Tel Aviv "miliardi di finanziamenti diretti". A tale proposito, si pensi a quanto stia accadendo da giorni sulla vicenda che riguarda l'ex premier libanese Hariri.
  Ora, l'ascesa al trono di MBS avrebbe quale impatto immediato un aumento delle quotazioni di greggio e oro, in quanto il mercato sconterebbe con ogni probabilità un surriscaldamento delle già elevate tensioni geopolitiche nell'area. Si consideri che tra Iran e Arabia Saudita ballano oltre 13,5 milioni di barili al giorno di produzione e che dallo stretto yemenita di Bab el Mandeb transitano quotidianamente 3,8 milioni di barili. Un confronto bellico che impedisse le estrazioni anche solo in alcuni pozzi dei due paesi o che rendesse impraticabile il suddetto stretto provocherebbe uno shock dell'offerta, con relativa impennata delle quotazioni e con ripercussioni anche sull'oro. Infatti, un barile più caro implica in sé aspettative più elevate di inflazione tra le economie importatrici e aldilà di ciò, le stesse tensioni geopolitiche spingerebbero parte del mercato a rifugiarsi nei beni-rifugio, tra cui il metallo.

 Lo scenario di medio termine
  Nel medio termine, tuttavia, resta ambiguo l'impatto del nuovo possibile sovrano saudita sui mercati? Il principe è fautore proprio della linea riformatrice e studia il modo di guidare Riad verso un futuro senza petrolio o senza che esso sia vitale per l'economia nazionale. Per questo, intende mettere in campo investimenti per 100 miliardi a sostegno delle infrastrutture e ha presentato di recente il suo progetto "Neom", dal nome della città futuristica da 500 miliardi, che vorrebbe creare al confine con Egitto e Giordania per attirare capitali stranieri, garantendole uno status autonomo.
  In sostanza, Re MBS sarebbe interessato a sostenere le quotazioni del petrolio per qualche altro anno, il tempo di risanare il bilancio statale e di varare l'IPO di Aramco, la più grande di sempre. In un secondo momento, però, la diversificazione dell'economia saudita gli consentirebbe di gestire il settore petrolifero con margini di manovra ben maggiori, anche se la transizione all'era post-petrolifera non sarà facile, come dimostrano i dati di questi mesi: deficit in calo e potenzialmente in linea con il target inferiore ai 200 miliardi di rial per l'intero anno, ma pil in contrazione nel secondo trimestre, a causa della sfilza di tasse e dei tagli ai sussidi per la popolazione.
  Con MBS ufficialmente a capo del regno, le purghe di queste settimane potrebbero cessare, anche se centinaia o migliaia di conti bancari e patrimoni sarebbero intaccati, in conseguenza del baratto in corso tra arrestati e funzionari del regno, basato sullo scambio tra libertà e 70% degli assets in loro possesso. Anche questa appare una misura estrema per fare cassa e far guadagnare allo stato tempo prezioso per gestire la transizione economica.

(Investire Oggi, 20 novembre 2017)


Trump pensa al riconoscimento della Palestina

Sarà uno Stato indipendente accanto ad Israele ma non necessariamente lungo i confini del 1967

Il piano di pace attribuito all'amministrazione di Donald Trump sarà basato sul riconoscimento Usa di uno Stato palestinese indipendente accanto ad Israele ma non necessariamente lungo i confini del 1967.
Questo, secondo la tv israeliana "Israel news", uno dei punti basilari del piano in via di definizione a Washington anche se fonti Usa - riferite dai media - hanno già smentito le indiscrezioni. In base al piano, Trump intenderebbe proporre ai palestinesi di dichiarare la propria indipendenza e subito scatterebbe il riconoscimento Usa del nuovo stato al quale andrebbero robusti finanziamenti nell'ordine centinaia di milioni di dollari da parte degli stati arabi sunniti.
Gli Usa - secondo le indiscrezioni - accetterebbero il principio dello scambio di terre ma non necessariamente in base ai confini del 1967 e senza che nessun palestinese o ebreo debba lasciare le attuali abitazioni. Il piano fornirebbe a Israele le massime garanzie per la propria sicurezza e per ora sarebbe congelato il trasferimento dell'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme.

(tio.ch, 19 novembre 2017)


Nick Cave: «Sono qui in Israele per ribellarmi a chi cerca di censurare gli artisti»

Nick Cave - "Let it be"
TEL AVIV - Tra la sera di oggi, domenica 19 novembre, e quella di domani, Nick Cave terrà due concerti alla Menorah Mivtachim Arena di Tel Aviv, in Israele: la scelta del cantautore australiano di esibirsi nel paese mediorientale era stata contestata da artisti come Roger Waters e Thurston Moore, che - contestando la politica adottata dal governo presieduto da Benjamin Netanyahu nei confronti della questione palestinese - aveva invitato il leader dei Bad Seeds a cancellare i due appuntamenti con il pubblico israeliano.
Qualche ora prima di salire sul palco per il primo dei due concerti, Cave ha tenuto una conferenza stampa dove ha spiegato le ragioni della sua decisione: "Non vengo in Israele da vent'anni: sento un forte legame con questo paese, che non riesco a esprimere a parole". L'artista ha giustificato la sua prolungata assenza con l'insuccesso, sul mercato locale, del suo album del 1997 "The Boatman's Call", ma non solo: "Andare in tour è logorante, e - come se non bastasse - alla fine devi anche fare fronte alla pubblica umiliazione da parte di artisti come Roger Waters e compagnia".
"A nessuno piace venire umiliato pubblicamente. Credo, e me ne assumo la colpa, di non essere venuto in Israele per vent'anni per questa ragione", ha proseguito Cave, spiegando come a fargli cambiare idea in proposito sia stato il tentativo - da parte di Brian Eno - di coinvolgerlo nella campagna "Artisti per la Palestina": "C'era qualcosa che mi puzzava, in quell'iniziativa. Così ho deciso di non aderirvi, senza però suonare in Israele. E questa mia scelta credo sia stata molto codarda".
"Ci ho pensato molto. Poi ho chiamato il mio staff e gli ho detto: 'Andremo in tour in Europa e in Israele'. Perché, improvvisamente, ai miei occhi è diventato molto importante prendere posizione contro chi cerca di censurare, di usare prepotenza e ridurre al silenzio gli artisti. Alle fine, le ragioni per le quali sono qui sono due: la prima è che amo Israele e la sua gente, la seconda è che voglio prendere una chiara posizione contro chi vuole censurare e ridurre al silenzio i musicisti. Per certi versi si può dire che sì, sia stato il BDS a farmi suonare in Israele".

(Fonte: rockroll, 19 novembre 2017)


Negato il perdono ad Azaria, Rivlin nella bufera

Il presidente è stato attaccato dalla frangia nazionalista del governo

Il presidente israeliano Reuven Rivlin si è trovato al centro di una bufera politica dopo aver annunciato oggi di aver rifiutato il perdono a Elor Azaria.
Il caporale è stato condannato in prima istanza da un tribunale militare a 18 mesi di carcere per aver ucciso un assalitore palestinese già ferito mentre era impotente a terra.
Alcuni mesi fa il capo di Stato maggiore gen. Gady Eizenkot ha ridotto la pena a 14 mesi, ma il ministro della difesa Avigdor Lieberman si è dissociato sostenendo che il soldato meritava il perdono presidenziale e la liberazione immediata dal carcere militare dove È recluso.
Rivlin (Likud) ha invece concordato con il gen. Eisenkot: ha sostenuto che un ulteriore gesto di clemenza potrebbe essere malinteso ed avere in definitiva effetti nocivi sullo spirito dei soldati di Israele.
La decisione di Rivlin ha sollevato immediatamente le reazioni negative di alcuni ministri nazionalisti. Lieberman ha ribadito che Azaria, in quanto «soldato eccellente impegnato a colpire un terrorista giunto per uccidere» meritava la libertà.
Il ministro dell'istruzione Naftali Bennett ha pure criticato Rivlin e ha telefonato alla famiglia Azaria per confortarla. La ministra della cultura Miri Reghev ha accusato il Capo dello Stato di aver «abbandonato il soldato sul terreno» e di aver «perso l'occasione della sua vita» per fare buon uso del perdono presidenziale.
Sul web intanto, specialmente in siti di estrema destra, si moltiplicano gli insulti verso Rivlin. Alcuni analisti avvertono che «stanno raggiungendo un livello di guardia».

(tio.ch, 19 novembre 2017)


Perché Washington vuole chiudere la sede consolare dell'Anp?

L'avvertimento di Trump ad Abu Mazen

di Paolo Mastrolilli

L'amministrazione Trump vuole chiudere la missione consolare dell'Autorità palestinese a Washington, se non si impegnerà nei negoziati di pace con Israele. Una minaccia a cui il ministro degli Esteri dell'Autorità, Riyad Malki, ha risposto accusando il segretario di Stato Tillerson di ricatto, mentre il leader Abu Mazen ha detto di non essere disposto a cedere. E in serata Saeb Erekat, fedelissimo di Abu Mazen, ha minacciato di congelare i contatti con gli Usa. L'Autorità non ha una vera ambasciata a Washington, ma una missione consolare che serve a gestire passaporti, visti e altre pratiche dei palestinesi che vivono negli Usa. Il suo permesso di operare deve essere rinnovato ogni sei mesi, e stavolta Tillerson ha deciso di non farlo. La ragione sta in un cavillo di legge che impone la chiusura del consolato, se l'Autorità chiede alla Corte penale internazionale di processare cittadini israeliani per reati contro i palestinesi. Abu Mazen avrebbe violato questa regola durante il suo intervento all'Assemblea generale dell'Onu. In quella occasione aveva chiesto alla Corte di «aprire un'inchiesta e processare i funzionari israeliani per il loro coinvolgimento nella attività relative agli insediamenti e le aggressioni contro il nostro popolo». Per Tillerson queste parole costituiscono una violazione della legge, e ora Trump ha 90 giorni di tempo per decidere se chiudere il consolato. Una maniera per evitare il provvedimento sarebbe la ripresa dei negoziati di pace con Israele, sulla base delle linee generali a cui hanno lavorato negli ultimi tempi il genero del presidente, Jared Kushner, e l'inviato speciale Jason Greenblatt. Se i palestinesi avvieranno «trattative dirette e concrete con Israele», l'ufficio americano potrà restare aperto. Malki ha parlato di «ricatto», aggiungendo che non ha intenzione di piegarsi. Nabil Abu Rudeineh, portavoce di Abu Mazen, ha aggiunto che si tratta di «una minaccia pericolosa che fa perdere agli Usa lo status di mediatore. Dà un colpo agli sforzi per promuovere la pace, e un premio a Israele, che sta cercando di deragliare le iniziative Usa con gli insediamenti e opponendosi alla soluzione dei due stati. Noi non abbiamo ricevuto alcuna idea o documento dagli Usa riguardo i negoziati, nonostante i molti incontri avuti».

(La Stampa, 19 novembre 2017)


De Magistris sigla la pace con Israele

Il sindaco di Napoli promette il suo impegno per intitolare la strada ad Ascarelli

di Pietro Treccagnoli

Gaetano Azzariti
Il Comune ha provveduto a fare cambiare il nome alla strada del Borgo Orefici intitolata al giurista che fu il presidente della Commissione sulla Razza del regime fascista e che contribuì alla persecuzione degli ebrei italiani.
Giorgio Ascarelli
Il sindaco si è impegnato a far discutere rapidamente la petizione di Italia-Israele per far intitolare una strada cittadina all'imprenditore ebreo che negli anni Venti fu tra i promotori della fondazione del Calcio Napoli.

 
Ha provato ad aprire una nuova pagina e ha raccolto applausi convinti e prolungati, prima e dopo il suo intervento. Il sindaco Luigi de Magistris nella ricca giornata pubblica, è andato a salutare i partecipanti al 28mo Congresso nazionale della Federazione delle associazioni ltalia-Israele che ha aperto i lavori ieri mattina all'Hotel Renaissance (a pochi passi dal Municipio), alla presenza dell'ambasciatore Ofer Sachs, e che ancora oggi proseguirà con relazioni e dibattiti. De Magistris, al netto dei dieci minuti di stringata analisi ad ampio raggio sul Medio Oriente e sul Mediterraneo, è andato a porgere il ramoscello d'ulivo. In questi anni, alcune sue posizioni, accompagnate da scelte schierate, avevano creato malumori e polemiche fortemente divisive: la cittadinanza onoraria al presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, e la presenza nella lista del suo movimento, alle ultime elezioni comunali, di candidate sempre pronte ad aspre critiche verso lo Stato di Israele.
   De Magistris non ha fatto finta di niente, anzi ci ha tenuto a illustrare e chiarire. «A me non sfugge» ha detto «che alcune mie dichiarazioni e alcune mie posizioni (al di là delle strumentalizzazioni politiche e mediatiche) possano essere state equivocate e non siano state gradite. E non ho difficoltà a dire che sono disposto a compiere altri atti concreti, come invece in passato, al di là delle parole, non hanno fatto amministrazioni più vicine a voi che, a differenza di me, non hanno cancellato il nome della strada al Borgo Orefici intitolata a Gaetano Azzariti, giurista sì, ma anche presidente della Commissione sulla razza del regime fascista».
   Un atto concreto che il sindaco spera di poter ripetere presto. Da tempo l'associazione Italia-Israele e la Comunità ebraica di Napoli stanno raccogliendo firme per una petizione a favore dell'intitolazione di una strada a Giorgio Ascarelli, l'imprenditore ebreo che negli anni Venti fu il promotore principale della fondazione del Calcio Napoli. A lui era intitolato il primo stadio dove giocavano gli azzurri, e che fu distrutto durante la seconda guerra mondiale. Il suo nome continua a identificare il rione poi edificato nella zona in cui sorgeva lo stadio. Quando la petizione sarà pronta, De Magistris è impegnato a portarla immediatamente all'esame della Commissione toponomastica del Comune.
   Per il resto il leader arancione ha esposto diffusamente le proprie convinzioni abbastanza condivise, ma che non saranno di certo gradite a chi nella sua maggioranza vede come il fumo negli occhi la stessa esistenza dello Stato di Israele, quasi come se fosse un tema centrale nell'attività consiliare e che l'aula di via Verdi fosse una succursale della Farnesina. «Non dobbiamo rinunciare all'idea che un giorno possiamo festeggiare la coesistenza di due Stati, quello di Israele e quello della Palestina» ha dichiarato, nell'apprezzamento dei convegnisti, «uno accanto all'altro in sicurezza, con rispetto reciproco e in autonomia». Aggiungendo: «Non se ne possono occupare solo i governi, verso il cui operato non sono ottimista, ma soprattutto i popoli». Un altro importante passaggio, pure questo largamente condiviso, stavolta persino da chi potrà sentirsi in disaccordo con le parole mielate verso Israele, è stato quello sui rigurgiti antisemiti. «Non mancherà la mia solidarietà» ha sottolineato il primo cittadino «quando si proverà ancora a scrivere pagine di revisionismo o a riaprire stagioni che sono state cancellate per sempre, perché sta da tempo soffiando un vento di filo spinato, di muri, di rancore».
   Per il resto, de Magistris ha abbondato nell'abituale rivendicazione della costruzione di una città-rifugio «dove chiunque possa sentirsi a casa», perché Napoli è «una capitale che non alza mai bandiere pregiudiziali contro nessuno», perché prevale la convinzione che «le diversità siano una ricchezza», augurando che «il Mediterraneo sporco di sangue diventi mare di pace e di pescatori».
Il convegno napoletano, coordinato da Giuseppe Crimaldi, è poi proseguito con i lavori che hanno affrontato anche il Bds (boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni), sigla di un movimento popolare che ha come obiettivo la discriminazione di Israele e la sua delegittimazione. Per questa mattina è prevista, tra le altre, la partecipazione del filosofo e politologo Biagio De Giovanni e di Ilan Brauner. La due-giorni si concluderà con una visita alla sinagoga e al quartiere ebraico, a cura di Daniele Coppin.

(Il Mattino, 19 novembre 2017)


Nick Cave conferma il tour in Israele: «Sono contrario al boicottaggio»

Nick Cave
«Suono in Israele perché sono contrario al boicottaggio». Dopo settimane di polemiche e appelli, alla fine il cantante australiano Nick Cave ha deciso di suonare nello stato ebraico. Cave ha spiegato le sue ragioni in una conferenza stampa, dove ha detto che si esibirà anche e soprattutto «a causa del Bds», il movimento che chiede il boicottaggio di Israele.
Nick Cave mancava da Israele da 20 anni e ha spiegato di aver compreso che «non avrebbe firmato» la petizione degli "Artisti per la Palestina" che lo invitava a non suonare nello stato ebraico. All'appello si erano uniti anche Roger Waters dei Pink Floyd e alcuni registi come Ken Loach e Mike Leigh, che avevano detto a Cave di non andare «finché rimarrà l'apartheid» e di «schierarsi con la libertà».
«Non voglio connettermi a questo - ha sottolineato Cave - e non mi piacciono le liste». «Questo - ha concluso - mi avrebbe fatto sentire un vigliacco e così ho programmato il tour. Per me era importante schierarmi contro questo zittire gli artisti. Amo gli Israele e gli israeliani ed era importante fare qualcosa di sostanza contro questo».

(Il Messaggero, 19 novembre 2017)


Ecco come re Mohammed cambierà l'Arabia

Salman, sul punto di abdicare, prenota il trono per il figlio che vuole investire sull'agricoltura e abbandonare il petrolio

di Carlo Panella

Mohammed bin Salman di 32 anni, si appresta a diventare il più giovane sovra - no del pianeta e a governare con pugno dispotico le immense ricchezze dell'Arabia Saudita. Voci concordanti da Ryad confermano infatti che re Salman si appresta ad abdicare a favore suo, che è suo figlio. Una svolta clamorosa perché è stata preparata da Mohammed bin Salman con feroce determinatezza, facendo saltare uno per uno tutti i bizantini equilibri che reggono da 60 anni la corte saudita.
   Nulla si comprende dell'irresistibile ascesa di questo spregiudicato principe trentenne se non si tiene presente un dato di fatto, con la morte di Re Abdullah e la salita al trono di re Salman, nel 2015, si è esaurita la possibilità di una successione «orizzontale», di fratello in fratello, al trono di Ryad. Il fondatore del regno, Abdulaziz al Saud, morto nel 1953, aveva costruito la solidità del suo regno nel talamo nuziale: una dopo l'altra, aveva sposato e poi ripudiato (ricoprendole d'oro) tutte le figlie di tutti i capi tribù della penisola arabica. Decine e decine i suoi figli e figlie, sì che una nutrita serie di eredi era in grado di passarsi il trono di fratello in fratello, meccanismo che ha funzionato per cinque volte (Saud, Feysal, Khalid, Abdullah e Salman).
   Ma questa dinamica, a causa della tarda età e delle morti dei figli del fondatore del regno, si è esaurita. Così il Consiglio della Corona, che stabilisce la successione attraverso regole imperscrutabili e non formalizzate, ha deciso nel momento in cui Salman è salito al trono nel 2015, di inaugurare una discendenza regale in «diagonale». Il suo successore è stato quindi indicato in Mohammed bin Najaf, figlio di Najaf, fratello di Salman ed erede predestinato, ma morto tre anni prima. Così si sarebbe evitato che uno dei figli del fondatore del regno eliminasse dalla successione al potere tutti i discendenti dei propri fratelli e imponesse la nascita di una dinastia, intronizzando il proprio figlio.
   Mohammed bin Salman ha fatto saltare questa logica e ha letteralmente conquistato con la forza prima la discendenza diretta e domani il trono con due «colpi di palazzo». Col primo, il 21 giugno scorso, approfittando del suo controllo sulle forze armate quale ministro della Difesa, ha arrestato e minacciato fisicamente il cugino Mohammed bin Najaf, erede designato al trono, obbligandolo a dimettersi. Divenuto primo in linea di successione, Mohammed, il 5 novembre scorso, ha effettuato la seconda mossa, decisiva: ha arrestato 11 principi sauditi, suoi cugini, e decine di ministri ed ex ministri. In più, altri due principi sono morti in circostanze violente ma misteriose.
   Due i suoi obiettivi: eliminare gli oppositori alla sua ascesa al trono (tra questi il multimiliardario Al Waleed, già socio di Berlusconi e Murdoch) e anche obbligarli con la forza, accusandoli di corruzione, a trasferire decine, centinaia di miliardi di dollari dalle loro tasche alle casse del regno, in crisi a causa della caduta del prezzo del greggio, con pesanti ricadute sul welfare, base del consenso popolare.
   Mohammed bin Salman ha così dimostrato di essere straordinariamente capace di muoversi nel ginepraio della immensa corte saudita (5.000 principi parassiti). Ma ha dimostrato una capacità ancora più importante: la scalata al potere gli può assicurare un grande consenso popolare, e non solo perché compiuta nel nome di una lotta alla corruzione. La sua strategia ha infatti due obbiettivi che affascinano i sudditi. Il primo è attuare il programma Saudi Vision 2030, cioè, investire ben 2.000 miliardi di dollari nell'industria e nell'agricoltura moderna, per fare sì che la produzione del petrolio diventi secondaria nell'economia del Paese (forse già dal 2020). Il secondo obbiettivo è contrastare con energia l'egemonia crescente dell'Iran sciita in Medio Oriente. Vedi la guerra in Yemen e un domani, forse, in Libano.
   Il suo problema è che questa strategia lo obbligherà a introdurre radicali riforme democratiche e partecipative, a passare dal feudalesimo alla democrazia. E qui può fallire.

(Libero, 19 novembre 2017)


I ceramisti in fuga da Hitler

Antonio Porcellino racconta l'epopea di Max e Flora Melamerson che portarono a Vietri la cultura delle avanguardie del Novecento, illudendosi di potersi salvare dall'antisemitismo.

di Susanna Nirenstein

Il partito nazista avanzava. Oltre trecentomila dei settecentomila ebrei tedeschi se ne andarono ai quattro angoli del globo. In Italia ne arrivarono cinquemila. Tra i primissimi - era il 1926 ma l'aria berlinese era già offuscata dalla propaganda antisemita - Max e Flora Melamerson, da poco sposati. Obiettivo, la costiera amalfitana, Vietri: in quel paradiso terrestre lontano dai rumori di ogni attualità avrebbero ridato spazio e vita agli ideali rivoluzionari di bellezza e creatività che avevano coltivato nella loro Berlino dell'espressionismo e del Bauhaus. E così fecero. La ceramica innovativa che presto inondò i migliori salotti internazionali nacque dalla loro passione.
   I due personaggi che Antonio Forcellino - architetto, storico dell'arte e grande esperto del Rinascimento, restauratore di alcuni dei più preziosi tesori del patrimonio italiano, come il Mosè di Michelangelo - da buon vietrese ha rintracciato negli archivi e nelle testimonianze e ha raccontato ne La ceramica sugli scogli sono straordinari, commoventi, tragici. La loro avventura inizia ad Amburgo. Max, nato nel 1881 da una famiglia religiosa in uno shtetl lituano, andato in Svizzera a studiare giurisprudenza, nel 1906 si trasferisce nella seconda città tedesca e conosce Flora Haag, dove Haag in quel momento e fino al nazismo vorrà dire grandi magazzini Wagner, ricca borghesia ebraica assimilata, patriottica. Flora, la più libertaria della famiglia, frequenta le avanguardie artistiche e studia disegno. Max e Flora si sposano nel 1910. Nel 1911 si trasferiscono a Berlino, ed è nella capitale al vertice della sua modernità che Melamerson si impegnerà insieme a Max Reinhardt nella costruzione di un teatro rivoluzionario per forme architettoniche e progetto drammaturgico, il Grosses Schauspielhaus. Flora segue un corso di ceramica. Conducono una vita frenetica, bruciante. Ma i tempi cambiano. L'antisemitismo avvelena tutto. Max fallisce. E la coppia decide di partire per una nuova pagina creativa.Nel Sud d'Italia, tra i profumi, in un paesaggio immobile da secoli, apparentemente senza questioni ebraiche di mezzo.
   Pare di leggere - ha ragione Forcellino - la stessa illusione di integrazione degli ebrei berlinesi raccontata da Israel Singer nella Famiglia Karnowski. Eccoli a Vietri, dove nel giro di tre mesi aprono la più grande fabbrica della Marina. Esaltano il talento degli artigiani locali sotto la guida di Flora e secondo l'insegnamento Bauhaus. Max crea uno smalto mielato per le nuove forme che avranno un successo straordinario, finiranno nei negozi di Milano e New York, sulle tavole di casa Savoia, sui pavimenti di Palazzo Venezia. Il sogno di una nuova vita sembra realizzato. Ma è un sogno, appunto. L'impreparazione con cui Max e Flora, mentre aiutano i parenti a fuggire dalla Germania nazista, accolgono le leggi razziali del '38 è totale. Increduli, si vedono espropriare l'azienda e aspettano anche il giorno in cui vengono a prelevarli per la deportazione nel campo di concentramento di Fossoli. Fortunatamente tornati a Vietri troveranno la fabbrica e la casa saccheggiati dai paesani.
   Un nipote continua ancora oggi a raccogliere in giro per la zona quel che resta dei Melamerson, fantastici piatti, vasi, dipinti, cocci di due vite così geniali, coraggiose e trascinate nel vortice nero della Storia. Se non fosse stato per Forcellino, sarebbero state dimenticate.

(Repubblica Robinson, 19 novembre 2017)



Chi cercate?

Dette queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là dal torrente Chedron, dov'era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Giuda, che lo tradiva, conosceva anche egli quel luogo, perché Gesù si era spesso riunito là con i suoi discepoli. Giuda dunque, presa la coorte e le guardie mandate dai capi dei sacerdoti e dai farisei, andò là con lanterne, torce e armi.
Ma Gesù, ben sapendo tutto quello che stava per accadergli, uscì e chiese loro: «Chi cercate?» Gli risposero: «Gesù il Nazareno!» Gesù disse loro: «Io sono». Giuda, che lo tradiva, era anch'egli là con loro. Appena Gesù ebbe detto loro: «Io sono», indietreggiarono e caddero in terra.
Egli dunque domandò loro di nuovo: «Chi cercate?» Essi dissero: «Gesù il Nazareno». Gesù rispose: «Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me, lasciate andare questi». E ciò affinché si adempisse la parola che egli aveva detta: «Di quelli che tu mi hai dati, non ne ho perduto nessuno».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la prese e colpì il servo del sommo sacerdote, recidendogli l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Ma Gesù disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero; non berrò forse il calice che il Padre mi ha dato?»

dal Vangelo di Giovanni, cap. 18


 


L'ambasciatore israeliano: non permetteremo alle forze iraniane di avvicinarsi al confine

NAPOLI - Israele non permetterà "alle forze iraniane in Siria di avvicinarsi al confine". E' quanto ha affermato l'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs, in occasione del Congresso nazionale dell'associazione Italia-Israele in corso oggi a Napoli. "L'Iran è più democratico sotto qualche aspetto rispetto ad altri paesi della regione, ma ha un regime fanatico che sta creando un corridoio diretto che collega Teheran e Beirut", ha spiegato l'ambasciatore israeliano. "Sicuramente - ha aggiunto - ho parlato di democrazia in maniera sarcastica. La situazione ora è semplice: Teheran vuole creare il corridoio sia per aumentare il controllo nella regione, sia per avere nuove opportunità economiche per far fronte alle sfide degli ultimi anni. L'Iran - ha spiegato Sachs - ha identificato subito questa opportunità nella Siria dove dopo anni di guerra civile si è aperta un'occasione per questi progetti, mentre gli Stati Uniti hanno deciso di ritirare la loro presenza nella regione creando un varco all'Iran e alla sua presenza. Abbiamo poi Hezbollah che è semplicemente un'emanazione dell'Iran. Un altro attore ha identificato l'opportunità nel vuoto che si è verificato, ed è la Russia, unica potenza internazionale presente in Siria".

(Agenzia Nova, 18 novembre 2017)


La 'sposa del Mossad' parla con Ofcs: "Vi racconto la mia storia"

Shalva Hessel, moglie di un agente segreto israeliano, si rivela in un libro autobiografico

di Maria Grazia Labellarte

Shalva Hessel
La vita di Shalva Hessel è un romanzo di spionaggio, esattamente ciò che ha scritto nel suo libro dal titolo "Married to the Mossad". Un resoconto, "leggermente velato", della sua stessa vita di moglie di un alto funzionario del Mossad, il servizio segreto estero israeliano, e dei suoi anni trascorsi con lui, sotto copertura, in un paese nemico. Il libro è una storia di coraggio, passione e intelligenza. Prima che fosse pubblicato è stato censurato per un decennio dalla comunità di intelligence israeliana. Finalmente uscito, però, ha ottenuto un enorme successo popolare, collocandosi nella lista dei "Best Sellers". Shalva Hessel è un ingegnere informatico, un'imprenditrice di successo, una leader coraggiosa e una Public Speaker internazionale

- Signora Hessel, vuole raccontarci come ha conosciuto suo marito?

  "All'epoca ero un ingegnere informatico. Mio marito, invece, stava frequentando un master a Londra. Durante una vacanza in Israele è venuto a trovare i suoi amici nel posto in cui lavoravo. Dopo quell'incontro, siamo usciti insieme per 3 giorni e una volta tornato a scuola in Inghilterra (io avevo quasi 19 anni), abbiamo iniziato a scriverci delle lettere e ho capito che lui era il mio uomo. Davvero bello, molto intelligente. Ho deciso di non lasciarmelo scappare, così sono andata a Londra e ho lasciato Israele per la prima volta nella mia vita. Una volta arrivata in Inghilterra, dopo una settimana che ero lì e ho visto tutte le donne corrergli dietro, gli ho chiesto di sposarmi subito altrimenti sarei tornata in Israele. Decise, quindi, di non lasciarmi andare via e di sposarmi".

- Quando ha capito che il suo matrimonio non sarebbe stato ordinario?
  "A quell'epoca eravamo a Londra e mi disse che lavorava part time per un' azienda che promuoveva Israele. Dopo aver vissuto con lui per alcune settimane, ha iniziato ad uscire a notte fonda o al mattino presto e nei fine settimana per vari incontri. Ho iniziato a sospettare che avesse un'altra donna e quindi non ha avuto altra scelta che dirmi dei legami con il Mossad. Nessuno credeva che il nostro matrimonio sarebbe durato. Non è facile essere sposati con un agente del Mossad, ma a suo tempo decisi di essere una "compagna a tempo pieno" nella sua vita e di prendere parte alle sue "avventure". Ero molto giovane allora, ma "Dio ha le sue vie". Ho iniziato a lavorare, ho trovato un buon lavoro come ingegnere informatico. Abbiamo iniziato a incontrare persone interessanti e vivere una doppia vita. Al mattino avevo una vita normale con i miei colleghi e quando non lavoravo appartenevo ad un altro mondo, una vita diversa con mio marito. Può leggere tutti i dettagli nel mio libro Married to the Mossad".

- Di recente ha scritto un articolo sul "NY Daily News" il cui titolo è molto interessante: "Perché le donne sono particolarmente adatte alla lotta contro il terrorismo". Cosa intende?
  "Credo profondamente che le donne siano indispensabili e senza di loro non possiamo vincere la lotta contro il terrorismo. Ad esempio, le donne possono accedere a zone che sono vietate agli uomini e pensano diversamente da loro. Dovrebbero prendere parte a tutti i livelli alle decisioni della comunità d' intelligence, come ad esempio accade nel Paese in cui sono nata e cresciuta, Israele. Qui le donne svolgono un ruolo importante di "decisori" nella comunità d' intelligence. Sappiamo tutti che al giorno d'oggi ci sono molte donne terroriste e per combattere quel mondo abbiamo bisogno di conoscerlo dall'interno. Innanzitutto, non hanno la mentalità dei paesi occidentali, è completamente diversa dalla nostra. Nel loro mondo, ad esempio, le mogli non godono di molta considerazione, ma le madri sono, invece, molto importanti. Sappiamo tutti che nessuna madre vuole che suo figlio sia un "attentatore suicida". Nella cultura del terrore, al contrario, una volta che un figlio compie un attentato facendosi esplodere viene considerato un eroe, quindi le donne musulmane istruite e intelligenti, che vivono nel mondo occidentale e che hanno una mentalità occidentale, dovrebbero cercare di influenzare le "sorelle" nei loro Paesi nel cambiare la mentalità, per difendere i loro diritti".

- Ha mai partecipato assieme a suo marito alle sue missioni segrete per il Mossad?
  "Nel mio libro Married to the Mossad, racconto di un'operazione che ho gestito io. In realtà, il libro è un thriller basato sulla mia vera storia. Vivere nel Mossad ti dà un profondo sentimento missionario, pieno di eccitazione e soddisfazione. Il Mossad non è un "posto di lavoro" ma un modo di vivere! Significa fare cose che hanno ripercussioni dirette sullo sviluppo e sulla sopravvivenza della nazione ebraica, in Israele e in tutto il mondo. Significa proteggere la sicurezza del mio Paese e proteggere la democrazia e la libertà nel mondo. Lavorare nel Mossad ha due facce: i benefici di avere nuovi e interessanti contatti, così come nuove e interessanti amicizie, viaggiare per il mondo e operare per il bene del mondo. Ma c'è un prezzo personale da pagare, rischi personali da correre,allontanarsi dalle persone che ami e correre continui pericoli. Gli agenti del Mossad devono essere persone con dei valori, devono saper lavorare con persone molto intelligenti e devono autodisciplinarsi, essere oneste, ordinate e avventurose".

- Per quale motivo ha scritto il suo libro "Married to the Mossad"?
  "Ho impiegato otto anni per scriverlo. Molti non volevano che lo pubblicassi: mio marito, il Mossad e altre persone coinvolte. Ho, comunque, deciso che era molto importante per me scrivere e dimostrare che "tutti possono compiere cose che sono più grandi di loro" e mostrare che una persona comune può compiere cose straordinarie che possono cambiare la vita degli altri. Mentre lo scrivevo, non potevo credere di aver vissuto quelle esperienze incredibili e situazioni pericolose. Non sono un James Bond o una Gal Gadot, la star del film "Wonder Woman", ma dopo aver scritto il mio libro, improvvisamente, ho pensato che forse sono portata per quel tipo di situazioni, perché sono coraggiosa, non ho paura, riesco ad improvvisare e trovare soluzioni sotto pressione".

- Signora Hessel, ha paura?
  "Ho ipotizzato diciotto regole che mi aiutano ad avere il controllo delle mie paure, tra le quali: scegliendo la fede sulla paura le persone crederanno in ciò che dirai, con una forte motivazione puoi ottenere qualsiasi cosa, nessuna missione è impossibile. Tutti hanno una missione nella vita e dovrebbero perseguirla, scegliere la vocazione e non un lavoro, solo quelli che osano possono avere successo, senza disciplina nulla di eccezionale è possibile. In Married to the Mossad, volevo dimostrare che se riesci a vivere al di sopra di te stesso (e non essere egoista ) e dei tuoi interessi personali, puoi ottenere qualsiasi cosa".

- Ha qualche rimpianto nella vita?
  "Niente affatto! Penso davvero di aver avuto e di avere ancora una vita piena, grazie ai miei contatti internazionali e ai miei legami con il Mossad. Insieme alla mia esperienza in paesi stranieri e il set di competenze che ho accumulato nel corso degli anni, ho costruito un unico gruppo di amici e contatti, in tutto il mondo. Al momento ho una società investigativa, credo una delle migliori al mondo nella soluzione dei casi sottoposti. Le persone mi contattano ogni giorno, anche se non lo pubblicizziamo. Mi piace risolvere molte dispute tra le aziende, tra le persone e rincorrere i "cattivi".

(Ofcsreport, 18 novembre 2017)


Riaperto il posto di frontiera di Rafah, fra Gaza e l'Egitto

Ha riaperto il valico di Rafah, fra l' Egitto e la Striscia di Gaza . La misura fa parte dell'accordo con Hamas che ha portato l' Autorità nazionale palestinese ad assumere il controllo amministrativo delle frontiere a partire dal primo novembre. Non succedeva dal 2007 e centinaia di persone si sono ammassate alla barriera.
Dice una donna: Chiedo a Dio di permettere che la frontiera rimanga aperta, così potrò farmi curare e poi tornare a casa dalla mia famiglia.
Negli ultimi mesi il ministero dell'interno palestinese ha registrato circa30mila richieste di uscita verso l'Egitto. Le autorità egiziane dovrebbero consentire l'accesso tre volte a settimana e sotto strette misure di sicurezza. Le fazioni palestinesi torneranno ad incontrarsi al Cairo il 21 novembre.

(euronews, 19 novembre 2017)


Italia-Israele: partnership in emergenza e disastri

A Cuneo incontro con il direttore regionale della maxi-emergenza e il presidente degli Amici del Maghem David Adom

di Vanna Pescatori

CUNEO - Martedì (21 novembre), alle 21, lo Spazio Incontri della Fondazione Crc, in via Roma 15 a Cuneo, ospiterà Mario Raviolo, direttore della maxi-emergenza «118» della Regione su invito dell'associazione Italia-Israele, che nell'ambito delle manifestazioni per i 25 anni della costituzione, ha programmato un calendario di iniziative, fra cui quella che si è tenuta l'8 novembre, davanti a un numeroso pubblico, nel Salone d'onore del municipio.
Il nuovo appuntamento affronterà il tema «Italia-Israele. Partnership in emergenza e disastri» (terrorismo compreso), attraverso la relazione di Raviolo la cui struttura intrattiene rapporti di stretta collaborazione con le omologhe strutture israeliane, leader negli interventi in caso di disastro. Alla serata interverrà Simi Sisa, presidente degli Amici del Maghem David Adom, la struttura israeliana di pronto soccorso che equivale alla Croce rossa. L'ingresso è libero.

(La Stampa, 18 novembre 2017)


L'aggressività di Teheran spezza i nervi dei sunniti. E Trump non ha un'idea

Oggi a Parigi il primo ministro dimissionario del Libano Saad Hariri incontrerà Macron.

di Fiamma Nirenstein

Macron ha estratto (intervenendo personalmente) Hariri da Riad, dove dal 3 novembre risiedeva in un esilio dichiarato volontario insieme alla famiglia. Ora afferma che dopo un giro per i Paesi arabi tornerà a Beirut a dimettersi di persona. Hariri, sunnita figlio di Rafik Hariri, anche lui primo ministro quando fu assassinato con un immane attentato probabilmente dagli Hezbollah, spiegò alla tv saudita che era stato deciso che era venuto il suo turno. E accusò direttamente l'Iran del caos sanguinoso e della sua tela di ragno sulla sovranità libanese. Erano parole preparate con i sauditi? Probabilmente, ma comunque erano vere.
   Subito la reazione del Libano, Paese piagato dallo scontro sciiti-sunniti, ha dimostrato che l'abbandono di Hariri poteva essere l'inizio di un caos contagioso, e il coro di richieste di tornare si è fatto assordante, insieme all'accusa di aver rapito il primo ministro. Certo le dimissioni portano il segno dell'attivismo diplomatico della famiglia regnante: dice che l'imperialismo iraniano di recente conio ha spezzato i nervi sunniti. Gli arabi non lo possono sopportare dai persiani, nemici storici. Hariri fonda, volente o meno, una svolta saudita pansunnita (nel Paese in cui per altro ha grandi business edilizi) e la Francia stessa ha qui dovuto interessarsi alla causa sunnita di Hariri e dei sauditi, pena il caos. Sempre il 3 novembre un missile balistico di fabbricazione iraniana è stato sparato contro l'aeroporto Re Khalid.
   C'è una vera guerra in corso, e l'Arabia Saudita compie passi decisi: un'altra mossa è l'intervista uscita su un giornale saudita (non israeliano, quindi fuori dall'abitudine di vantare buoni rapporti con gli arabi) a Gabi Eisenkot, capo di Stato maggiore dello Stato d'Israele. Eisenkot spiega di «essere pronti a condividere esperienze con l'Arabia Saudita e altri Paesi arabi moderati e informazioni di intelligence per fronteggiare l'Iran». E aggiunge che «sotto la presidenza Trump c'è la possibilità di formare una nuova alleanza nella regione... un piano strategico per fermare la minaccia iraniana».
   Insomma, la conclusione di questa fase della guerra siriana dei 6 anni, che lascia l'Iran con gli Hezbollah in posizione di forza senza precedenti, sul confine di Israele, con le gambe saldamente piantate in Siria, Libano, Iraq, Yemen... crea una situazione esplosiva per cui i Sauditi sentono di doversi dare un daffare senza precedenti. Sullo sfondo dell'intervista si intravede il piano di pace saudita, che Trump vorrebbe caldeggiare: l'atteggiamento benevolo di Eisenkot fa intuire che se ne parla. Ma martedì il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dichiarato che la presenza iraniana in Siria è legittima, aggiungendo che la Russia non ha mai promesso agli Usa che le forze iraniane o loro alleate lascino la Siria. Ciò che ha scosso i sauditi e anche Israele è che l'amministrazione americana non ha espresso nessun parere. L'impressione in casa saudita è quindi che quei tappeti rossi su cui Trump ha camminato nella sua visita in maggio siano stati consumati invano.

(il Giornale, 18 novembre 2017)


Gli Usa avvisano l’Olp che chiuderanno il loro ufficio

Il segretario di Stato Usa Rex Tillerson
L'amministrazione Trump ha avvisato i palestinesi che chiuderà il loro ufficio a Washington a meno che non avviino seri negoziati di pace con Israele. Lo riferisce l'Ap, citando dirigenti Usa.
Il segretario di Stato Usa Rex Tillerson ha stabilito che i palestinesi hanno violato una oscura previsione di una legge Usa secondo cui la missione dell'Olp deve essere chiusa se i palestinesi tentano di appellarsi alla Corte penale internazionale per perseguire gli israeliani per crimini contro i palestinesi.
Un dirigente del Dipartimento di Stato ha riferito che in settembre il presidente palestinese Abu Mazen ha varcato questo limite. Ma la legge consente una via di uscita al presidente, quindi la dichiarazione di Tillerson non significa necessariamente che l'ufficio chiuderà.
Ora Trump ha 90 giorni per valutare se i palestinesi sono "in negoziazioni dirette e significative con Israele". Una leva di pressione che potrebbe essere usata dal presidente Usa per riprendere il processo di pace, ma che potrebbe anche irritare i palestinesi.

(tvsvizzera.it, 18 novembre 2017)


Kuwait Airways: "No a israeliani". La Germania gli dà ragione

"Il verdetto rappresenta una vergogna per la democrazia", ha detto il legale del passeggero.

di Tonia Mastrobuoni

BERLINO - Gli israeliani non appartengono ad alcuna razza o religione o minoranza etnica e dunque la discriminazione nei loro confronti non esiste. Questa incredibile sentenza è stata espressa ieri da un tribunale tedesco, dopo che un cittadino israeliano, Adar M., aveva fatto ricorso contro la Kuwait Airways che si era rifiutata di imbarcarlo su un suo volo per Bangkok che faceva scalo in Kuwait.
La corte regionale di Francoforte ha dato ragione alla compagnia aerea perché non considera discriminante il fatto che un cittadino venga bandito da un aereo per il suo passaporto. Neanche se è israeliano. Neanche in Germania.
L'avvocato del passeggero, Nathan Gelbart, ha detto di essere «profondamente scioccato» di un verdetto che «rappresenta una vergogna per la democrazia e la Germania» e ha annunciato ricorso. Gelbart ha anche ricordato che ricorsi simili si sono sempre conclusi a favore dei passeggeri, negli Stati Uniti e in Svizzera.
Il Consiglio centrale degli ebrei tedeschi ha fatto appello al governo Merkel perché «esamini tutte le possibilità per evitare, per il futuro, casi di discriminazione del genere in Germania».
Il viceministro degli Esteri, Michael Roth, ha già fatto sapere che l'ambasciatore tedesco è stato investito del compito di chiedere spiegazione alle autorità kuwaitiane dell'accaduto. «Per me è incomprensibile - ha detto il politico socialdemocratico - che nella Germania di oggi un cittadino non possa salire su un aereo semplicemente in base alla sua nazionalità». E lo stesso ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, ha promesso di aumentare la pressione sul governo di Kuwait City.
Anche il sindaco di Francoforte è scandalizzato: Uwe Becker si è spinto sino a dire che «a una compagnia aerea che discrimina e si mostra antisemita rifiutandosi di imbarcare passeggeri israeliani non dovrebbe essere consentito di atterrare o partire da Francoforte», che è uno degli scali più grandi d'Europa.
Il caso era scoppiato perché Adar aveva prenotato un volo per la Thailandia che faceva scalo in Kuwait. In base a una legge del 1964 che vieta accordi con cittadini israeliani, la compagnia aerea ha cancellato il volo. Kuwait non ha mai riconosciuto Israele. Per il Consiglio degli ebrei «il boicottaggio kuwaitiano ricorda le peggiori fasi della persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti». Ma la Corte di Francoforte non la pensa così, pensa che sia legittimo bandire le persone in base al loro passaporto, neanche quando il bando puzza di antisemitismo.

(la Repubblica, 18 novembre 2017)


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I giudici tedeschi per il boicottaggio di Israele

Se sei israeliano non puoi volare con Kuwait Airways, dice la libera Germania.

Il boicottaggio di Israele sembra abbia appena acquistato un altro eccellente alleato: la Germania. Quantomeno i suoi giudici. Ieri una corte di Francoforte ha rigettato il ricorso di un cittadino israeliano al quale lo scorso anno, benché avesse un regolare biglietto, era stato impedito di salire su un volo della Kuwait Airways Francoforte-Bangkok. Il motivo? Una legge del 1964 del Kuwait, che impedisce alle aziende del paese di fare affari con i cittadini israeliani. E siccome, secondo i giudici tedeschi, un tribunale tedesco non può questionare su una legge di un paese altrui, allora la discriminazione subita dal libero cittadino israeliano in un paese dell'Unione europea è legittima. Ma non solo: il cittadino non è stato nemmeno compensato del costo del biglietto, perché la legge anti discriminazione tedesca, si legge su Haaretz, si applica soltanto sulla base di motivazioni di razza, di religione e di etnia, non di nazionalità. L'assurdità è che se un domani una compagnia aerea decidesse di non far salire sui propri aerei persone dalla pelle scura o di religione musulmana, la compagnia - giustamente - sarebbe sanzionata e probabilmente chiuderebbe dopo una manciata di minuti. Ma quando si tratta della discriminazione e del boicottaggio di un cittadino israeliano nessuno protesta. Nemmeno nella liberissima e apertissima Germania. A parte le motivazioni contestabili dei giudici tedeschi, c'è una riflessione da fare: quanto è forte, oggi, nel mondo del business, la legittimazione del boicottaggio di Israele? Di questo passo, fino a dove si può arrivare?

(Il Foglio, 18 novembre 2017)


Il Pitigliani Kolno'a Festival a Roma

ROMA - Commedie, drammi, documentari, panel con professionisti dell'animazione, del giornalismo documentario e della serialità televisiva, ospiti e anteprime italiane. Queste alcune delle varie anime del Pitigliani Kolno'a Festival - Ebraismo e Israele nel cinema, che, giunto alla dodicesima edizione, torna a Roma dal 18 al 23 novembre 2017. Consuete le location - Casa del Cinema e Centro Ebraico Italiano il Pitigliani - della kermesse a entrata gratuita fino a esaurimento posti e dedicata alla cinematografia israeliana e di argomento ebraico. Tra gli ospiti del festival, sarà presente Yonatan Peres figlio del Premio Nobel per la pace Shimon Peres, in rappresentanza del Centro Peres per la pace e l'innovazione.
  Con 20 anteprime italiane, prodotto dal Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani e diretto da Ariela Piattelli e Lirit Mash, il PKF2017 propone per la consueta sezione "Panorama sul nuovo cinema israeliano" opere che hanno riscosso successo sia in Israele che all'estero, e che rappresentano la varietà e il multiculturalismo che compone la società israeliana di oggi. Film di inaugurazione, Holy Air di Shadi Srour - ospite al festival con il produttore Ilan Moskovitch - presentato in anteprima italiana, una commedia che mostra un inedito spaccato delle diverse culture che convivono in Israele. Tra i partecipanti alla serata inaugurale - Bruno Sed Presidente de Il Pitigliani, Yonatan Peres rappresentante Fondazione Peres e figlio Premio Nobel Shimon Peres, Ofer Sachs Ambasciatore di Israele a Roma Nicola Zingaretti Presidente Regione Lazio, Noemi Di Segni Presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane, Rav Riccardo Di Segni Capo Rabbino Comunità Ebraica Roma, Mons. Dario Edoardo Viganò Prefetto Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, Ariela Piattelli e Lirit Mash Direttrici del PKF.
  Tra i numerosi titoli in programma, per la prima volta sarà presentato al pubblico italiano The Legend of King Solomon, l'ultima opera del Maestro dell'animazione israeliana Hanan Kaminski - anche lui tra gli ospiti del festival - originale versione della storia di Re Salomone, che affronta i temi della convivenza tra culture diverse e del passaggio dalla giovinezza all'età adulta. Un film che ha impegnato 12 anni il regista israeliano che riceverà il Premio alla Carriera, per la prima volta assegnato dal festival. Quindi, Harmonia, di Ori Sivan, adattamento moderno della storia di Abramo, Sarah e la giovane Hagar. Nel film Sarah è arpista nella Filarmonica di Gerusalemme, Abramo è il suo "onnipotente" direttore e Hagar una giovane musicista di Gerusalemme Est. Altro film a stelle e strisce, The Pickle Recipe, di Michael Manasseri, commedia 'gastronomica' sul segreto dei cetriolini sottaceto di nonna Rose. Una ricetta alla cui caccia si mette Joey Miller, dj e re indiscusso delle feste a Detroit… Altra commedia, Longing, di Savi Gabizon, presentata alla recente Mostra del Cinema di Venezia, dove un uomo benestante e senza figli, riceve una telefonata da quella che vent'anni fa era la sua fidanzata, per un viaggio negli aspetti nascosti della paternità. An Israeli Love Story, di Dan Wolman, la vera storia d'amore tra Pnina Gary e Eli Ben-Zvi, figlio di Rachel Yanait e Yitzhak Ben-Zvi, il secondo presidente dello Stato d'Israele, si dipana invece sullo sfondo della fondazione dello Stato di Israele.
  Molto variegata la scelta dei documentari. Tra questi, l'avvincente On the Map di Dani Menkin, prodotto da Nancy Spielberg, che racconta una delle pagine più importanti della storia e dello sport israeliano, la partita di basket tra Maccabi Tel Aviv e la squadra dell'armata rossa CSKA Mosca nel Campionato Europeo di Pallacanestro del 1977, in piena Guerra Fredda. Due i documentari che raccontano gli ebrei d'Italia: Iom Romi, di Valerio Ciraci, prodotto dal Primo Levi Center di New York, che racconta uno spaccato della vita della Comunità ebraica di Roma e Shalom Italia, di Tamal Tan Anati, che racconta di tre fratelli ebrei israeliani, di origine italiana, in viaggio attraverso la Toscana, in cerca della caverna in cui da piccoli si erano nascosti per scappare ai nazisti.
  Quindi #uploading_holocaust, di Udi Nir e Sagi Bornstein racconta, attraverso le immagini realizzate con gli smartphone dai liceali israeliani in Polonia, il punto di vista della nuova generazione sulla Shoah e un'immagine commovente e inquietante del modo in cui la memoria collettiva si forma nell'era del web. E sempre Israele è protagonista di Ben Gurion, Epilogue, di Yariv Mozer. Il regista ha ritrovato una lunga e inedita intervista al padre dello Stato di Israele, per anni rimasta sepolta nell'Archivio Spielberg di Gerusalemme. Ormai fuori dalla scena politica, il grande statista guarda alla storia e agli eventi che lo hanno visto protagonista, tracciando la sua visione sul futuro di Israele.
  La sezione del festival dedicata alla fiction, "Serie TV da Israele", prevede - lunedì 20 novembre a partire dalle ore 18:15 - il panel "Non solo In Treatment. Serie TV da Israele: un fenomeno globale". Un vero e proprio dialogo aperto che vuole indagare l'incredibile exploit di esportazione di format e serie televisive israeliane degli ultimi anni, da In Treatment a Homeland, presentando tre serie drama alcune delle quali acquistate all'estero negli ultimi anni: Shtisel, sul mondo ultra-ortodosso di Gerusalemme; il medical drama Yellow Peppers, su un bambino autistico e Your Honor. Il panel vedrà al tavolo l'editorialista e docente universitario Massimiliano Panarari e Ram Landes, produttore e ideatore di molti format israeliani, che presenta al festival Your Honor (Kvodo), la serie da lui prodotta, che sarà adattata per l'Italia. Oscuro, affascinante e moralmente complessa, la serie racconta di un brillante giudice vicino a una importante promozione, il cui figlio adolescente fugge dopo essere stato coinvolto in un incidente automobilistico di cui è l'autore. Il panel è organizzato in collaborazione WGI - Writers Guild Italia, una delle più importanti organizzazioni di sceneggiatori, che sarà rappresentata da Giovanna Koch.
  A seguire, alle ore 19:00, il secondo panel, dal titolo "Raccontare il Medio Oriente attraverso il documentario", incontro a due voci tra Itai Anghel - il più grande reporter di guerra israeliano - e il direttore de La Stampa, Maurizio Molinari. Il panel sarà seguito dalla proiezione del docInvisible in Mosul, fresco vincitore del Premio per il Miglior Documentario in cui lo stesso Anghel si unisce con coraggio ai corpi speciali dell'esercito iracheno che avanzano verso Mosul sotto il fuoco nemico dell'ISIS e dei suoi terroristi suicidi. Anghel, infatti, è l'unico giornalista israeliano ad aver documentato la guerra in Iraq sino a spingersi nelle prime linee dei combattenti contro l'ISIS a Mosul. Per riservare un posto in entrambi i panel, scrivere a eventi@pitigliani.it
  Durante la kermesse si svolgerà anche la prima edizione del Premio Emanuele (Lele) Luzzati,che il 22 novembre presenterà in una 'non-stop' le opere finaliste e il 23 novembre premierà l'opera considerata meritevole da una giuria composta da intellettuali e artisti di rilievo.
  Per ricordare i 50 anni dall'arrivo degli ebrei libici in Italia, il festival chiude al Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani con Libia, l'ultimo esodo di Ruggero Gabbai.

(Roma Daily News, 17 novembre 2017)


Egitto, riapre per tre giorni il valico di Rafah con Gaza

DOHA - L'ambasciata palestinese al Cairo ha annunciato che le autorità egiziane apriranno a partire da oggi per tre giorni il valico di Rafah con la Striscia di Gaza. Dopo più di 100 giorni di chiusura sarà possibile attraversare il confine tra Gaza e il territorio palestinese da entrambe le direzioni. Si tratta della prima riapertura del valico dopo che l'Autorità nazionale palestinese è tornata nella Striscia in base agli accordi di riconciliazione nazionale firmati dai partiti di Fatah e Hamas al Cairo. Sono più di 20 mila le persone che si sono prenotate per attraversare il confine, in particolare per motivi medici e di studio.

(Agenzia Nova, 17 novembre 2017)


C'è un'idea italiana applicata in Israele per salvare le api (e quindi il mondo intero)

Così gli israeliani stanno applicando a passi giganti quel concetto di "Agricoltura di Precisione" che è stato al centro dell'Expo di Milano

di Maurizio Stefanini

"Il paese dove scorre il latte e il miele" è definita la Palestina nell'Esodo. Di api ce ne erano talmente tante, che Sansone trovò un favo nel cranio di un leone morto, e Giovanni il Battista poteva nutrirsi solo di locuste e miele selvatico. Oltre tre millenni sono passati, ma tuttora Israele è una delle nazioni che sta meglio sostenendo quella misteriosa sindrome Ccd (Colony Collapse Disorder) che dal 2007 ha già ucciso l'80 per cento delle api statunitensi e che anche nel resto del mondo sta facendo stragi. Il motivo è che anche all'apicoltura gli israeliani stanno applicando a passi giganti quel concetto di "Agricoltura di Precisione" che è stato al centro dell'Expo di Milano. Apicultura di Precisione dunque, e start up per l'Apicoltura di precisione, visto il ruolo che le start up hanno nell'economia israeliana: oltre il 4,3 per cento del pil investito nell'innovazione! A sorpresa, però, gli israeliani un'eccellenza in questo campo l'hanno trovata proprio in Italia. Si chiama infatti 3bee Hive-Tech la startup che col suo sistema per monitorarle e curare le api che ha vinto la competizione per essere la partecipante italiana all'evento per Startup in corso a Gerusalemme dal 5 all'11 novembre.
  L'idea è stata di tre ragazzi 28enni: Niccolò Calandri, dottorando in Elettronica al Politecnico di Milano; Riccardo Balzaretti, biologo; Elia Nipoti, tecnologo alimentare. Sono stati da poco premiati dall'Ambasciatore d'Israele in Italia, Ofer Sachs, al Luiss Enlabs di Roma, dove la loro idea ha prevalso su altre due: Goseemba, una mobile business platform che aiuta le piccole e medie imprese a sbarcare sul web; e Manet Mobile, un service provider per il settore della ricezione alberghiera. Ma prima ancora erano stati premiati dalla Fondazione Barilla: proprio in quel 2016 in cui la raccolta di miele aveva segnato in Italia un record negativo. "L'alveare tecnologico capace di valutare lo stato di salute delle api aiutando l'apicoltore a migliorare la gestione del proprio apiario e permettendogli di proporre un miele di qualità, 100 per cento Italiano", è la presentazione sul loro sito. "Siamo partiti da un dato di fatto: l'apicoltura attuale è fatta di trattamenti chimici più o meno invasivi e le api non riescono più a vivere senza questi sistemi", spiegano. Ma spesso questi interventi, pur necessari, sono fatti in maniera sbagliata, finendo per recare più danno che vantaggio: ecco spiegata l'attuale crisi mondiale del miele. L'Apicultura di Precisione di 3bee Hive-Tech ha messo a punto un innovativo sistema di monitoraggio elettronico che si applica all'alveare, e rileva lo stato di salute delle api all'interno. Tempestivamente comunicati all'apicoltore, danno modo di intervenire in modo rapido e efficace. E a parte il caso concreto, il sogno della start up è quello di creare un database mondiale per creare algoritmi di predizione delle malattie e delle cause di morte delle api, capire quali sono i parassiti che più le attaccano, elaborare le strategie per proteggerle". Miele e cera a parte, i tre promotori spiegano che le api sono un indicatore di quanto sia salutare l'ambiente che ci circonda, e che l'80 per cento della frutta e della verdura che mangiamo è prodotta grazie al loro lavoro di impollinazione. "150 milioni di miliardi di fiori impollinati dalle api giornalmente", è pure scritto nel loro sito. "30 per cento di perdite di colonie d'api nel 2016". "30 milioni/kg anno di miele importato in Italia non controllato". E ricordano quel che scrisse nel 1901 il Nobel per la Letteratura Maurice Maeterlinck nel suo celebre "La vita delle api": "Se l'ape scomparisse dalla faccia della terra, all'uomo non resterebbero che quattro anni di vita".
  Il bello è che la tecnologia 3bee funziona con l'energia del sole e delle vibrazioni prodotte dagli stessi insetti. Oltre che a professionisti e ricercatori il dispositivo 3bee Hive-Tech si rivolge anche agli hobbisti alle prime armi, che grazie a un apposito Starter Kit possono imparare a produrre il proprio miele e ad allevare api sane. Ai consumatori, poi, si offre la possibilità di "adottare un alveare" il cui andamento potrà essere monitorato da smarthphone, tablet e pc, e da cui a fine stagione potranno ricevere i vasetti di miele così prodotti. Utilizzando la tecnologia 3bee sarà possibile analizzare la qualità dell'ambiente grazie al capillare e costante lavoro di impollinazione delle api: volando di fiore in fiore le api raccoglieranno infatti le eventuali sostanze nocive che successivamente verranno analizzate della tecnologia Hive-Tech.

(Il Foglio, 16 novembre 2017)


"Italia-Israele, legame stretto"

Quale lo stato dei rapporti tra Italia e Israele? È stato il tema di un incontro tenutosi al Bet Chabbad Bene Romì di Netanya. All'incontro, nato in seguito a un'idea di rav Roberto Della Rocca, direttore dell'area Cultura e Formazione dell'UCEI e organizzato dalla Comunità italiana di Netanya in collaborazione con l'Irgun Olei Italia e la Giovane Kehilà, ha partecipato anche l'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti.
Dopo il saluto dello shaliach della Comunità italiana di Netanya, rav Aaron Leotardi, Dario Di Cori, presidente della Comunità di Netanya e vicepresidente dell'Irgun Olei Italia, ha illustrato come è nata la Comunità. "Da un piccolo gruppo di amici siamo diventati una grande Comunità. Una realtà significativa per gli italiani in Israele" ha spiegato Di Cori indicando la sala piena. "Manteniamo la nostra tradizione millenaria ed il rito romano in Erez Israel" ha aggiunto.
L'ambasciatore Benedetti ha approfondito il tema "prospettive nel settore economico e tecnologico", illustrando i progetti dell'ambasciata italiana in Israele per rafforzare i rapporti economici, culturali e tecnologici, sottolineando l'importanza dell'investimento nei giovani e nel settore accademico.
Rav Roberto Della Rocca, parlando delle prospettive di collaborazione tra UCEI e Comunità italiana in Israele, si è collegato alla parasha di Chayei Sarah interogandosi sul perché Eliezer si definisce sia straniero e sia residente e perché Mosè chiama il proprio figlio Gershom. "Questa è la condizione ebraica di sempre" ha spiegato il rav. "Abbiamo sempre sognato di Eretz Israel e anche quando siamo qui in Israele abbiamo un collegamento con le tradizioni italiane" ha aggiunto.
Infine Michael Sierra, presidente della Giovane Kehilà, il movimento giovanile della comunità italiana in Israele, è intervenuto sul tema "sfide comuni dei giovani in Italia e in Israele" raccontando come è nata la Giovane Kehilà, come assiste e rappresenta i giovani ricordati già dall'ambasciatore e come preserva le tradizioni ebraiche italiane ricordate da rav Della Rocca e Di Cori.
All'incontro hanno partecipato anche 15 ragazzi del progetto di Ye'Ud, corso di leadership dell'UCEI.

(moked, 17 novembre 2017)



Due tipi di scrittori

Gli scrittori si suddividono in due categorie:
  1. quelli che scrivono per informare o istruire gli altri;
  2. quelli che scrivono per far sapere agli altri quanto sono bravi loro.
I primi fanno un servizio, i secondi fanno carriera.
La suddivisione è presente anche fra coloro che scrivono su Israele.

 


Spunta un patto tra Israele e Sauditi: «Scambio di informazioni anti-Iran»

L'annuncio del Capo di Stato Maggiore di Gerusalemme

ROMA - Prima le voci su una visita segreta in Israele dell'erede al trono saudita Mohammed bin Salman, poi le indiscrezioni su un viaggio a Riad di un emissario di Netanyahu. Infine, ieri, un'intervista del capo di Stato Maggiore israeliano, Gady Eisenko, a un giornale saudita. I rapporti tra Israele e Arabia Saudita, in funzione anti Iran, sembrano essere sempre più stretti. E anche se a Gerusalemme non si parla di un vero e proprio «asse», l'intervento del generale al sito "Elaph" rappresenta una novità assoluta. «L'Iran progetta di controllare il Medio Oriente con due "mezzelune sciite" - dice nell'intervista Eisenko - la prima dall'Iran, attraverso l'Iraq, fino in Siria e in Libano, e la seconda dal Bahrein attraverso lo Yemen fino al mar Rosso. Su questa faccenda noi e il regno dell'Arabia Saudita, che non è mai stato nostro nemico e con cui non abbiamo mai combattuto, concordiamo completamente». Il capo di stato maggiore israeliano ha quindi sottolineato che «occorre dar vita a un grande piano strategico per bloccare il pericolo iraniano».

 Le dichiarazioni
  Stando alle dichiarazioni del generale, e qui probabilmente c'è la novità più importante, Israele sarebbe pronto «a condividere informazioni con Paesi arabi moderati, comprese informazioni di intelligence, pur di far fronte all'Iran». Si tratta, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, che ha rilanciato l'articolo, della prima intervista mai rilasciata da un alto ufficiale israeliano ad un mezzo stampa saudita. Riferendosi alla situazione in Siria, Eisenkot ha ribadito che Israele insiste perché gli Hezbollah libanesi, nonché l'Iran e le milizie sciite alleate lascino quel Paese. «Non accetteremo che l'Iran si stabilisca in Siria, in modo speciale ad ovest dell'asse Damasco-Sueida ( cioè a circa 50 chilometri dalle alture del Golan, ndr). Non consentiremo alcuna presenza iraniana, e abbiamo già messo in guardia dalla costruzione di sue industrie o di basi militari». Quanto al Libano, il generale ha assicurato che Israele non ha alcuna intenzione di lanciare un attacco contro gli Hezbollah.

(Il Messaggero, 17 novembre 2017)


E' una lsrael Academy multietnica. Sogna il Giro

Un po' d'Italia nel team (24 atleti di 16 Paesi): Sbaragli e bici De Rosa

di Adam Smulevich

GERUSALEMME - E' notte fonda tra le colline attorno a Gerusalemme, quando un urlo squarcia la quiete: «Sveglia!». Volti smarriti, che vagano nel buio. Pochi hanno la giusta reattività. Poi, al secondo urlo, più o meno tutti escono dalle tende in pochi istanti. Nessun pericolo imminente, tutt'altro: di fronte un carico di lavoro non preventivato, e piuttosto sfiancante. Esercizi fisici durissimi, sul modello di quelli delle forze di sicurezza locali. E poi, dopo un paio d'ore, di nuovo tutti a nanna. Ma hai voglia a riaddormentarti dopo una scarica di adrenalina così.

 Per il giro
  Sogna la wild card al prossimo Giro d'Italia, che partirà proprio da Gerusalemme, la Israel Cicyling Academy, prima squadra professionistica d'Israele. Il raduno convocato per preparare la prossima stagione, la più importante nella storia di questo giovane team, è l'occasione per sperimentare tecniche non convenzionali lontano da questo fazzoletto di terra cui il mondo guarda ormai da millenni con interesse, coinvolgimento, preoccupazione.

 Sedici nazioni
  La lsrael Cycling Academy vuol tenere alto il nome di un Paese intero, e cercherà di farlo avvalendosi del contributo di atleti di 16 nazioni, cinque continenti, quattro religioni. La «squadra del dialogo», l'ha definita qualcuno. Non sorprende pertanto che a interessarsi alle vicende del team sia stata una delle realtà più significative ad operare nel rafforzamento di progetti che provano a far incontrare e convivere identità diverse: il Centro Peres per la Pace, la onlus nata con l'ex statista Shimon Peres in vita e che ancora oggi difende i suoi sogni.

 Con Sbaragli
  I 24 corridori della Academy sono stati convocati ieri pomeriggio per ricevere il certificato di «ambasciatore di pace». Il primo è stato un italiano, Kristian Sbaragli, che ha da poco firmato con gli israeliani. A consegnarglielo è stato l'ambasciatore «vero» da queste parti, Gianluigi Benedetti. Kristian ha sorriso, ma sa di avere le sue responsabilità. E questo perché è molto più di italiano, è toscano. E qua a un toscano in particolare vogliono molto bene: Gino Bartali dal 2013 «Giusto tra le nazioni» per il ruolo avuto nel salvataggio di molti ebrei sotto il nazifascismo. Sono andati a trovarli tutti insieme, Gino, allo Yad Vashem. I corridori della Academy sono arrivati fino alla collina dove si trova il Memoriale. Prima la visita al museo che racconta la deportazione e l'abisso della Shoah. Poi una lunga sosta davanti al muro dei Giusti, il nome di Bartali in testa a una colonna di eroi. «Siamo qua per ricordarci che lo sport è pure questo: trasmissione di valori positivi, in ogni sede» sottolinea Ran Margaliot, il manager che s'è letteralmente inventato da zero la squadra con l'imprenditore Ron Baron. Principi solidi, ma anche l'ambizione di far parlare di sé attraverso i risultati. In sella tra l'altro alle italianissime De Rosa, nuove bici del team.

(La Gazzetta dello Sport, 17 novembre 2017)


Roma e Vaticano nel mirino dell'Isis: "Vi aspetta un Natale di sangue"

Nessun rischio concreto, solo propaganda sul web secondo il Vaticano, ma nelle scorse ore molti media internazionali riportando il manifesto di San Pietro hanno ricordato che negli anni passati l'Isis ha più volte diffuso proclami sulla "conquista di Roma".

 
La sequenza è molto inquietante. Si vede un terrorista islamico intento a guidare un'auto su via della Conciliazione, nel cuore di Roma, diretto verso la Basilica di San Pietro, con un mitra e uno zainetto appoggiati al sedile anteriore, a fianco del conducente.
Lo specchietto retrovisore riflette un uomo con un passamontagna nero. In alto una grande scritta sovrasta l'immagine diffusa da Wafa Media Foundation, un'organizzazione ritenuta dagli analisti vicina all'Isis: Christmas blood, ovvero Natale di Sangue.
Nessun rischio concreto, solo propaganda sul web secondo il Vaticano, ma nelle scorse ore molti media internazionali riportando il manifesto di San Pietro hanno ricordato che negli anni passati l'Isis ha più volte diffuso proclami sulla "conquista di Roma".
Un messaggio, solo un invito. Ma nulla che possa essere sottovalutato.
L'inquietante scenario ricalca i canoni già utilizzati dal Daesh nel corso degli ultimi due anni, con minacce ricorrenti proprio in prossimità delle festività di fine anno.
Ma quello che colpisce, in sede di analisi, è la corrispondenza dell'armamentario del miliziano con quella degli attentatori di Belgio e Francia, ovvero, dei terroristi che colpirono Bruxelles e Parigi nel 2015 con attacchi coordinati e effettuati in contemporanea da diverse squadre di operativi.

(Today, 17 novembre 2017)


«Israele, il cancro», brivido antisemitismo nel liceo occupato

Retromarcia. Sul documentario dietrofront dei ragazzi. L'associazione Italia Israele aveva protestato.

di Antonio Passanese

FIRENZE - Proteste dell'associazione Italia-Israele dopo l'annuncio di alcuni studenti del liceo classico Michelangiolo di voler proiettare a scuola il documentario «Israele, il cancro». La proiezione, che sarebbe dovuta avvenire ieri nell'ambito delle iniziative organizzate in occasione dell'occupazione dell'istituto, è stata poi annullata dagli stessi ragazzi, dopo un colloquio con la preside Patrizia D'Incalci.
   Nella lettera inviata alla dirigente, il presidente dell'associazione Italia Israele di Firenze, Valentino Baldacci, definisce il documentario «un lavoro intriso del più ripugnante antisemitismo». Ieri, quindi, sono stati gli stessi studenti del Miche, venuti a conoscenza della natura del documentario, a decidere di non proiettarlo. «Non eravamo al corrente dei contenuti - spiega uno dei ragazzi che partecipano all'occupazione - cercavamo qualcosa che trattasse della questione israelo-palestinese».
   Sulla vicenda è intervenuta anche la vice sindaca di Firenze Cristina Giachi: «Bene la decisione dei ragazzi. La leggerezza con la quale di recente si è fatto riferimento alla vicenda di Anna Frank, così come altri episodi di violenza nazifascista rendono necessaria una vigilanza attenta, soprattutto con i più giovani, su ogni ricostruzione revisionista o che comunque possa aprire a interpretazioni antisemite». Intanto, il comitato studentesco del liceo di via della Colonna fa sapere che l'occupazione finirà domenica: «Lo abbiamo già comunicato alla preside - dicono i ragazzi - E dopo esserci confrontati con i docenti, abbiamo anche deciso di non bloccare la didattica: chi vuole seguire le lezioni può farlo senza alcun problema».

(Corriere Fiorentino, 17 novembre 2017)


La foto tra Miss Iraq e Miss Israele sta dividendo il mondo

C'è chi le critica e chi parla di un passo importante nei rapporti fra i due Paesi. Le due ragazze non immaginavano una reazione simile per il loro selfie.

Miss Israele (a sinistra) e Miss Iraq
Cosa accomuna Sarah Eedan e Adar Gandelsman? Sono entrambe more, bellissime, si trovano a Las Vegas e partecipano alle finali di Miss Universo. Quindi di sicuro ora vi chiederete: cosa ci può essere di tanto anomalo in una innocentissima foto postata sui social dalle due giovani?
Eppure un semplice selfie in cui le ragazze posano insieme ha fatto fioccare le critiche, ma anche la speranza di un futuro in cui la pace superi i conflitti di cultura e religione.
Quando hanno scattato la foto, forse Sarah e Adar non immaginavano di scatenare tali reazioni. Ma se Miss Iraq si fa fotografare con Miss Israele, non c'è da meravigliarsi che poi in Rete succeda un parapiglia. Migliaia di persone commentano, generano polemica, applausi e rullo di tamburi.
Conosciamo un po' meglio queste reginette: Sarah Eedan, Miss Iraq, è la prima a rappresentare il suo Paese a Miss Universo da 45 anni, mentre Adar Gandelsman gareggia con la fascia di Miss Israele.
Nello scatto incriminato sorridono felici, in vista delle finali del concorso.
«Pace e amore» è la didascalia che correda la foto.
Ecco le reazioni: una YouTuber twitta «Quest'immagine non rispetta la sensibilità di tutti»;
«La reginetta di bellezza irachena posta con la regina dell'occupazione e della brutalità» è il pensiero di un professore. E via discorrendo, nel consueto bla bla bla del web.
A rispondere alle critiche è proprio la Miss irachena, raccontando: «Miss Israele si è avvicinata, mi ha chiesto di fare una foto insieme e mi ha detto di sperare che ci sia presto la pace fra i nostri due popoli».
Un tentativo di calmare gli animi arriva da un portavoce del governo israeliano, il quale ha parlato di «un grande messaggio di speranza per tutta la regione. La pace inizia dalle persone».
Popolo del web, diamoci una calmata. Visto che la gara prevede l'incoronazione di una reginetta per le sue qualità estetiche e non per la provenienza geografica, non è il caso di fasciarsi la testa prima del tempo.

(105.net, 17 novembre 2017)


«Il corpo è un mirabile dono di Dio. Ma l'età mi sta fiaccando ... »

Questo testo è una parte dell'articolo che rav Giuseppe Laras ha scritto per il numero di "Luoghi dell'Infinito" in uscita il prossimo 5 dicembre e dedicato al tema "Attesa e grazia". Consegnato pochi giorni fa, è l'ultima testimonianza dell'ex rabbino capo d Milano. Si tratta di una lunga riflessione autobiografica che, oggi ancora di più, appare come condotta con lo sguardo sul limite della morte. Laras rievoca quando bambino aveva dovuto vivere da sfollato e in incognito tra i monti, il tradimento che condanna la madre al lager e, nonostante tutto, la bellezza della vita famigliare e dell'essere umano, la bellezza esteriore e quella, ancora più forte, interiore: una bellezza che però è vanitas vanìtatum, pronta a dissolversi nella morte. Solo la fede si oppone, nella certezza di un ritrovarsi di ogni cosa in Dio.

di Giuseppe Laras

Rav Giuseppe Laras
I miei ricordi di bambino sono stati traumatizzati dalla guerra e dalla persecuzione. Ricordo di aver vissuto, nascosto e braccato, in luoghi estremamente belli, in cui i colossi montani si stagliavano in tersi cieli color indaco oppure tra plumbee nubi. Si trattava delle magnifiche vette della Val Grande di Lanzo, con i loro picchi e declivi, boschi e radure, fieri rapaci e simpatici animaletti. Ricordo che avevo imparato a raccogliere i funghi, distinguendoli correttamente, inoltrandomi là dove gli alberi erano più folti. Ricordo anche che mi piaceva quella vita rustica ed essenziale.
   Purtroppo, per mia madre e me era sì un luogo di ricovero, ma era al contempo un posto estremamente pericoloso, irto di difficoltà. Richiedeva mille attenzioni, mille sotterfugi e nascondimenti. Eravamo ostaggio di infinite paure, che spesso si concretizzavano. I nazisti rastrellavano anche lassù ebrei e partigiani, di intesa con i loro molti complici italiani, non meno spietati. Lì iniziai ad apprendere che viltà e spietatezza sono spesso compagne e complici. Ho dei ricordi di quel che fu la mia famiglia e il nostro focolare domestico: l'essere amato da chi ti ha generato, la presenza di mia mamma, l'amore tra i miei genitori, la mamma di mia mamma che condivideva da vicino la nostra vita familiare. Ricordo la bellezza di tutto questo, una bellezza intima e discreta, tenera ed essenziale, romantica ma non sdolcinata, sincera e mai sfacciata. Ricordo quando le due SS italiane bussarono seccamente alla porta, dopo che la nostra devota portinaia, tante volte beneficata dalla mia famiglia, aveva venduto mia madre e mia nonna per cinquemila lire ciascuna. Ricordo la strada fatta a piedi, a sera inoltrata, per arrivare alla sede torinese della Gestapo. Ricordo l'ultimo rapido sguardo con mia mamma, che mai più rividi, e ricordo la corsa disperata, sconvolto, per trovare un luogo sicuro per nascondermi. Ricordo che rimasi muto per oltre sei mesi. Era bella mia madre, era la mia mamma. Era bella la nostra famiglia, con l'enormità di vita che è dolcemente ascosa e sintetizzata dalla parola "famiglia" Era bella la fanciullezza. Il due ottobre del 1944, a nove anni, persi tutto questo. Fu una perdita irreversibile. Quando sono molto agitato e sotto pressione mi capita ancora, mentre dormo, di sentire bussare forte alla porta, svegliandomi di soprassalto. Anni dopo, assieme a mia moglie, iniziammo l'edificazione della nostra famiglia. Pur con gli spettri del passato sempre presenti, ho goduto della bellezza intensa della vita familiare, con alti e bassi, con angosce e speranze, con entusiasmi e amarezze, come chiunque.
   L'età sta fiaccando il mio corpo e l'essere stato per alcune decadi un fumatore indefesso ha dato inoltre abbrivio a una serie di patologie respiratorie che rendono evidenti fragilità e rischi. Il corpo umano è meraviglioso: un prodigio di bellezza mirabile, che ti permette di accarezzare chi ami; di dare luce e spessore alle persone che incontri e che trascorreranno con te parti più o meno estese della tua e della loro vita; di assaporare l'aria fresca della pioggia che ha momentaneamente sconfitto la canicola estiva; di annusare i balsami delle piante e i manicaretti preparati da mani amorevoli. Il corpo umano ci attrae, catalizza la nostra attenzione e rende vera e concreta la nostra esistenza. Certuni cosiddetti "religiosi" hanno diffuso l'odiosa bestemmia per cui si ravvisa erroneamente nel corpo una prigione per l'anima e nella materialità un inganno. Bisogna diffidare dai pietisti che minimizzano - o, peggio ancora, sviliscono - questo dono di Dio, facendo del piacere fisico una tentazione e non una fondamentale espressione di umanità e potenzialità spirituali, del vigore del corpo un'insolenza e della malattia una benedizione. Mi trovo in una fase della vita, quella della senescenza ormai lambita e avviata, in cui si esperisce chiaramente, tangibilmente, che anche questa bellezza è destinata a esaurirsi.
   Esiste anche una bellezza interiore e nascosta, che riguarda silenziosamente noi stessi, tuttavia continuamente esposta sia alle parole sia al disordinato vociare del mondo esterno. E tutti abbiamo contezza di quanto ciascuno di noi abbia contribuito a inquinare la propria bellezza riposta e intima, peccando contro sé. Nel migliore dei casi, quando riusciamo a emendarci, a restaurare ciò che è andato infranto e a ricuperare le posizioni perdute, resta tuttavia la memoria, non certo entusiasmante, di quanto comunque occorso. E non è nemmeno detto che, drammaticamente, questo ricordo assurga a monito e che, d'altro canto, il monito poi funzioni al suo scopo dissuasivo. Ancora una volta una bellezza, che sappiamo riconoscere con certezza come tale, che va facilmente dissipandosi.
   La Bibbia, nel suo originale ebraico, ha un'unica parola per "buono" e "bello", sintetica e orientativa: "tou'. Il peccato di Adamo, secondo molti Maestri di Israele, fu proprio quello di aver scelto di comprendere e giudicare secondo criteri meramente apparenti ed estetizzanti e non secondo criteri "etici", ossia esistenziali e concreti.
   Ma che ne è della speranza in relazione alla fragilità e all'erosione della bellezza? Vi sono speranze personali e collettive, umane e messianiche, universali e particolari: le une sono avvinte alle altre, ma non confuse. Nulla può definitivamente fermare la morte in questo mondo, ma il progresso medico, tecnologico e scientifico ha saputo spesso arginarne con efficacia le manifestazioni più crude e grossolane. La bellezza può essere violentata e dissolta dalla morte, ma la medicina ha un certo margine d'azione per medicare, rinfrancare e risanare. La tecnologia è una speranza perché risponde a un'esigenza e a un compito posti dal Creatore nell'intimo dell'essere umano. La conoscenza è certamente responsabilità, ma l'ignoranza è sempre lontananza ulteriore da Dio e, più spesso di quanto si voglia ammettere o indulgere, una colpa molto grave. Nessuno in questo mondo ha il potere di ridare vita a mia madre e di restituirmela. Noi con ferma fede crediamo e speriamo, come da lettera biblica, che il Signore Dio «faccia morire e faccia vivere», ovvero che faccia risorgere i morti. Noi abbiamo però il potere e il comandamento di procreare, il che significa non consegnare completamente noi stessi alla morte, arrendendoci, lasciando che la cultura della morte, così triste eppur apparentemente così ragionevole e suadente, abbia l'ultima parola. La mia speranza sono i miei figli, i loro figli e i figli dei loro figli. La mia speranza sono i miei allievi, gli allievi dei miei allievi, chi insegna e chi apprende la Torah.

(Avvenire, 16 novembre 2017)


Università di Tel Aviv: due centri innovativi per il campo delle neuroscienze

 
La Scuola di Neuroscienze dell'Università di Tel Aviv ha lanciato due centri internazionali di ricerca e di imprenditorialità per permettere ai giovani ricercatori di sviluppare e realizzare le loro idee pionieristiche nel campo del trattamento delle malattie del cervello. Il centro è il primo in Israele e in tutto il mondo.
  Il primo è il BrainBoost, un centro imprenditoriale per la risoluzione dei problemi del sistema nervoso, si concentrerà sullo sviluppo di nuovi strumenti per il trattamento di varie malattie del cervello.
  Il secondo è Minducate, un centro il cui focus è la ricerca e l'imprenditorialità nel campo delle scienze di apprendimento, istituito su iniziativa del TAU on-line, il centro per l'innovazione nell'apprendimento dell'Università di Tel Aviv, guidato da Yuval Shraibman. L'obiettivo del centro è quello di esplorare l'interrelazione tra istruzione, apprendimento, cognizione e Neuroscienze.
  Questo il commento del Prof. Joseph Klafter, presidente dell'Università:
Crediamo che l'università sia la fonte più prolifica di sviluppo di tecnologie rivoluzionarie che hanno il potere di cambiare il futuro. Ma fino ad ora, le idee più innovative nate nei laboratori di ricerca sono in grado di sfuggire o rimanere intrappolate tra le mura dell'università.
  Per affrontare questa sfida e creare un ponte vitale tra il mondo accademico, industria e società, la Dott.ssa Dana Baron, Direttrice del settore dello sviluppo delle relazioni della Facoltà di Neuroscienze dell'Università di Tel Aviv, ha costruito un modello innovativo, pionieristico in Israele e nel mondo, basata sull'incoraggiamento dei ricercatori verso una imprenditoria giovanile nel capo delle neuroscienze all'interno dell'università stessa.
  I due nuovi centri, creati sulla base di questo modello incoraggeranno i giovani ricercatori, subito dopo il loro dottorato, a diventare imprenditori e trasformare le loro idee in prodotti e soluzioni reali.
  Dei 65 ricercatori provenienti da 28 paesi di tutto il mondo che hanno presentato proposte al centro BrainBoost, 5 sono stati selezionati nei settori del trattamento del morbo di Parkinson, delle lesioni derivanti da ictus, depressione, autismo e Alzheimer.
  I 10 giovani ricercatori selezionati (7 donne e 3 uomini) avranno accesso alle numerose risorse dell'Università:
  • 1.500 ricercatori;
  • 150 laboratori di ricerca in 8 facoltà;
  • Tutti gli ospedali affiliati;
  • Circa 30 aziende industriali israeliane ed internazionali.
(SiliconWadi, 17 novembre 2017)


Siamo noi che accusiamo l'Onu: insulta Israele e coccola i dittatori

Per le Nazioni Unite siamo troppo duri con gli immigrati. Lo dice un organismo che è in mano ai tiranni e in un giorno ha fatto 9 risoluzioni contro Gerusalemme.

di Giovanni Sallusti

Se volesse replicare con nerbo alle accuse di "disumanità" scaraventate addosso all'Italia dalle Nazioni Unite (ma ci rendiamo conto si tratti di un periodo ipotetico dell'irrealtà), il ministro Alfano in missione diplomatica a New York avrebbe una caterva impressionante di argomenti.
  E parliamo di questioncine assai più sostanziali di un accordo con la Libia per la gestione del flusso migratorio nel Mediterraneo (che al massimo è da approfondire, non certo da smantellare). L'Alto commissario per i diritti umani, il principe giordano Zeid Rad al-Hussein, dice che «la comunità internazionale non può continuare a chiudere gli occhi davanti agli orrori inimmaginabili sopportati dai migranti in Libia»? Benissimo, ecco una serie di casi in cui l'Onu gli occhi li tiene serrati, o peggio li muove con feroce strabismo.

 Le bastonate
  L'assemblea generale ha appena bastonato in un solo giorno lo Stato d'Israele con 9 risoluzioni di condanna. Nella stessa seduta, il resto del mondo si è beccato complessivamente 6 risoluzioni: una a testa per Paesi non propriamente fondati sulle libertà individuali come Corea del Nord, Iran, Siria e Myanmar. Una alla Crimea, e poi un grande classico, la censura agli Stati Uniti per l'embargo prolungato a Cuba (la censura a Cuba per i dissidenti torturati nelle carceri castriste anche questa volta si farà la prossima). Perché questa palese persecuzione dell'unica comprovata democrazia liberale esistente in Medio Oriente, perché Israele peggio di artisti della "disumanità" come Kim Jong Un e gli ayatollah di Teheran? Sarà mica che all'Onu scorrazza liberamente uno dei virus più "disumani" del pianeta, l'antisemitismo? Perché, esimio principe al-Hussein, la maggioranza nel Consiglio per i Diritti Umani (27 membri su 45) è saldamente in mano al blocco delle dittature, o comunque dei Paesi "parzialmente liberi" (grazioso ossimoro per alludere a quei luoghi dove lo Stato può farti sparire dalla sera alla mattina)?
  Guarda caso, questo Consiglio tramutato in ritrovo di tiranni è lo stesso che vuole inquisire Israele per crimini di guerra, e che ha stabilito la simmetria legale e morale tra lo Stato ebraico e i suoi nemici, i terroristi islamici di Hamas e altri praticanti della jihad.
  Ancora: perché da due anni la presidenza del Comitato per i Diritti Umani è appannaggio dell'Arabia Saudita, un Paese campione di "disumanità" dove puoi essere condannato alla decapitazione per i seguenti reati: consumo di stupefacenti, contrabbando, omosessualità, falsa profezia, apostasia, adulterio, stregoneria e magia?

 I campi di lavoro
  Perché al fianco dei sauditi in questo nobilissimo consesso siede la Cina, che tiene tuttora aperti più di 1400 laogai, campi di lavoro forzato e di rieducazione dove i prigionieri sono abitualmente seviziati con scariche elettriche, incatenati in posizioni dolorose, picchiati con bastoni e bruciati con sigarette, privati di cibo e sonno, mutilati anche negli organi genitali, e siede perfino il Qatar, conclamato apprendista stregone del terrorismo islamico più "disumano", vedi alla voce Isis? I piromani del diritto incaricati di stabilire quando esso brucia, a questo siamo?
  Infine, carissimi burocrati de luxe alloggiati al Palazzo di Vetro che vi scandalizzate se l'Italia accenna una timida reazione all'invasione incontrollata delle sue coste, la domanda delle domande: perché tollerate che esista una Dichiarazione islamica dei diritti umani alternativa a quella (non più) universale del 1948, in cui si dice che le libertà fondamentali valgono finché rimangono nel quadro dei limiti generali previsti dalla legge islamica, ovvero non valgono?
  La libertà al guinzaglio della sharia, è stata promulgata il 19 settembre 1981 in sede Unesco, agenzia delle N azioni Unite, la stessa da cui Donald Trump ha appena ritirato gli Stati Uniti in quanto infestata dal "pregiudizio antisraeliano": perché?
  È ora che rispondiate a queste domande, perché avete ragione, «non possiamo più chiudere gli occhi davanti agli orrori».

(il Giornale, 17 novembre 2017)


Shifra Hom narratrice di Israele

Ogni anno l'associazione Donne Ebree d'Italia, l' Adei-Wizo, assegna un premio letterario: l'israeliana Shifra Horn (1951) è entrata nella terna delle finaliste 2017 con "Scorpìon Dance" (Fazi editore, traduzione di Silvia Castaldi), e sarà oggi alle 18 alla Libreria Zanichelli, su invito della Comunità Ebraica di Bologna, proprio per parlare del libro assieme a Miriam Rebhun, Daniele De Paz e Ines Marach. Racconta la storia di Orion, un ragazzo che ha perso il padre durante la guerra dei Sei Giorni, senza poterlo conoscere, e che viene cresciuto da due donne nel quartiere di Old Katamon, a Gerusalemme. E affondando nel dolore dall'Olocausto all'attualità, racconta di un pappagallo dai sentimenti umani e di una nonna tedesca, Johanna, che parla un pessimo ebraico e odia la Germania.

(la Repubblica - Bologna, 16 novembre 2017)


Israel Cycling, ambasciatori di pace

Presentato l'organico, il team israeliano punta a correre il Giro d'Italia

 
Il roster della Israel Cycling Academy 2018 è stato presentato oggi: si tratta della formazione più forte di sempre del giovane sodalizio israeliano che spera in una wild card per il Giro d'Italia del 2018, che partirà da Gerusalemme.
  La prima e unica squadra ciclistica professionista d'Israele, è unica nel mondo degli sport professionistici: essendo un team no-profit, i suoi valori, la sua etica e l'impegno per il cambiamento sociale lo distinguono dai team rivali.
  Tra i membri della squadra ci sono quattro campioni nazionali tra cui Ahmet Örken, campione turco 2017. La sua presenza in seno al team israeliano è una ulteriore prova della capacità dello sport di abbattere le barriere. Tra le novità ci sono lo spagnolo Ruben Plaza e l'italiano Kristian Sbaragli che hanno vinto tappe del Tour de France e della Vuelta a Espana e cinque dei migliori ciclisti israeliani, tra cui il campione nazionale Roy Goldstein.
  In riconoscimento di questi valori, il Peres Center for Peace ha conferito ai membri del team Israel Cycling Academy, ai team manager e ai fondatori della squadra - Sylvan Adams e Roni Baron - il titolo di "Ambassador for Peace". Il premio, consegnato da Chemi Peres, presidente del Consiglio di amministrazione del Peres Center for Peace and Innovation, è una attestazione forte di quanto lo sport possa fare per la pace nel mondo.
  Ahmet Örken, campione nazionale turco della cronometro, spiega: «Per me, l'opportunità di vestire questa maglia è un grande onore e una grande sfida professionale. Nessun ciclista turco ha mai corso per un team di questo livello. Ma al di là di questo, non mi vedo solo come un ciclista. Insieme, abbiamo l'opportunità di emozionare le persone e cambiare il mondo che ci circonda. Il fatto che un ciclista turco gareggi fianco a fianco con i ciclisti israeliani e altri provenienti da tutto il mondo, lottando per gli stessi obiettivi, rappresenta per tutti un messaggio di convivenza e pace a tutti».
  Sylvan Adams, co-proprietario della Israel Cycling Academy e Presidente onorario di "Big Start Israel", ha dichiarato: «Nonostante l'attenzione per la crescita del ciclismo israeliano, ICA è una delle squadre ciclistiche più internazionali, con corridori di 16 nazioni diverse di 5 continenti. I nostri atleti sanno di essere in una squadra israeliana e quindi ambasciatori di questo Paese».
  Roni Baron, fondatore e co-proprietario della Israel Cycling Academy, a sua volta aggiunge: «La visione e l'obiettivo principale della squadra è quello di infondere amore per il ciclismo tra i giovani israeliani di ogni provenienza. Proprio ieri, il team ha annunciato la firma di un ciclista druso di 18 anni, Sanad Abu Faris per la nostra squadra giovanile. Crediamo che in un futuro non troppo lontano l'Accademia aprirà a ciclisti arabi e palestinesi».
  Chemi Peres, presidente del consiglio di amministrazione del Peres Center for Peace and Innovation, ha spiegato: «Mio padre (Shimon Peres, ndr) credeva nella capacità dello sport di gettare un ponte tra nazioni, culture e religioni. Amava dire "Quando sei in campo, sei un giocatore di una squadra, non un musulmano, un ebreo o un cristiano". Lo sport non conosce confini, parla una lingua internazionale che ci unisce tutti. Gli atleti hanno il potere di essere ambasciatori per la pace e di servire come modelli per le nuove generazioni».

IL ROSTER

Edwin Alvila (Colombia, 27)
Guillaume Boivin (Canada, 28)
Zak Dempster (Australia, 30)
Jose Manuel Diaz (Spain, 22)
Nathan Earle (Australia, 29)
Sondre Holst Enger (Norway, 23)
Omer Goldstein (Israel, 21)
Roy Goldstein (Israel, 24)
Ben Hermans (Belgium, 31)
August Jensen (Norway, 26)
Luis Lemus (Mexico, 25)
Krists Neilands (Latvia, 23)
Guy Niv (Israel, 23)
Ahmet Örken (Turkey, 24)
Ben Perry (Canada, 23)
Ruben Plaza (Spain, 37)
Mihkel Raim (Estonia, 24)
Guy Sagiv (Israel, 22)
Kristian Sbaragli (Italy, 27)
Hamish Schreurs (New Zealand, 23)
Daniel Turek (Czech Republic, 24)
Dennis van Winden (Netherlands, 29)
Tyler Williams (USA, 22)
Aviv Yechezkel (Israel, 23)


(tuttobiciweb.it, 16 novembre 2017)


L'ultima lettera del rabbino Laras: non inariditevi

Guidò la comunità milanese per 25 anni. «Credeva nel confronto in tempi di scontro»

di Paola D'Amico

Si è congedato con una lunga lettera testamento dalla sua Comunità milanese, il rabbino Giuseppe Laras. Consapevole della malattia che avanzava, l'ha richiamata a pensare «a un'architettura nuova», di fronte ai due pericoli di oggi: il sorgere di una «nuova ondata di antisemitismo, del tradimento delle sinistre, del rapido declino intellettuale e morale della civiltà occidentale» e la fase «consunzione e inaridimento» dell'ebraismo.
   Milano piange rav Laras, morto ieri a 82 anni, che fu rabbino capo dal 1980 al 2005 e con il cardinale Carlo Maria Martini - torinese come lui - fu promotore del dialogo di pace tra le religioni e tra credenti e non credenti, come ricorda Milo Hasbani, uno dei due presidenti della Comunità ebraica milanese. Rav Laras è stato un'autorità tra i rabbini europei. E ha dedicato buona parte della sua vita allo studio, la filosofia medievale e rinascimentale, il pensiero di Maimonide, fino alla Summa plurimillenaria del pensiero ebraico, dalla Bibbia a Hanna Arendt. Il Rav sarà sepolto in Eretz Israel, in Terra di Israele, come aveva chiesto. Dopo una cerimonia di commiato, oggi alle 13, nella sinagoga di via della Guastalla. Il sindaco Giuseppe Sala ha ricordato come Laras sia stato «una figura chiave nel dialogo ebraico-cristiano a Milano e in Italia». Si stringe alla Comunità anche la
   Casa della Carità che «è stata voluta dal cardinale Martini proprio come luogo di confronto, dove la parola è centrale. Per questo - scrive don Virginio Colmegna - in un tempo in cui spesso il confronto cede il passo allo scontro, la perdita del rabbino Laras ci addolora e interroga tutti noi». E lo ricorda Stefano Parisi, di Energie per l'Italia: «La sua scomparsa priva l'Europa di un maestro. Milano, che è stata la città elettiva di Laras, ha il dovere di promuovere la conoscenza del suo insegnamento». Nella sua lettera-testamento rav Laras ricorda che «la distruzione degli ebrei d'Europa ha sfiorato la mia esistenza, segnandola per sempre». Aveva nove anni: nel 1944 i fascisti bussarono alla porta della nonna, a Torino, dove con la mamma si era rifugiato. Si salvò per miracolo. «Con lui se ne va un maestro che ha vissuto da protagonista gli ultimi anni della nostra storia», conclude Davide Romano, assessore alla Cultura della comunità.

(Corriere della Sera - Milano, 16 novembre 2017)


«Mia madre, la signora dello zoo di Varsavia ha salvato tanti ebrei solo perché era giusta»

Teresa Zabinska è la figlia di Antonina, interpretata nel film da Jessica Chastain: «Non era un'eroina, ma una donna perbene».

di Francesca Nunberg

Una storia di speranza nel buio della Shoah, un'ambientazione insolita ma straordinariamente cinematografica e il coraggio nascosto nei dettagli quotidiani. «Jessica ha voluto sapere com'era mia madre, come si vestiva, le ho raccontato che non portava mai i pantaloni anche se lavorava con gli animali, che usava sempre il rossetto, che quando i tedeschi sparavano alle cornacchie per divertirsi, lei le raccoglieva e ne faceva conserve di carne per nutrire i suoi ospiti.;». Non erano ospiti qualsiasi quelli che a Varsavia dal 1939 al '45 si nascosero nella casa di Antonina e Jan Zabinski e di cui oggi la loro figlia Teresa parla ancora con commozione. Lei all'epoca era piccola e i suoi ricordi risalgono al dopoguerra, ma negli anni ha ascoltato e riascoltato queste storie. E Jessica Chastain le ha volute conoscere da lei prima di calarsi nel personaggio di Antonina Zabinski. Esce oggi, distribuito da M2 Pictures, La signora dello zoo di Varsavia diretto dalla regista neozelandese Niki Caro e interpretato da Jessica Chastain e Johan Heldenbergh nel ruolo di custodi dello zoo e Daniel Brühl in quello dello zoologo nazista.

 Animali in fuga
  Teresa Zabinska, che ha 73 anni e fino a 10 ha continuato ad abitare nella "villa" del giardino zoologico, è a Roma per la presentazione del film tratto dal best-seller di Diane Ackerman, a sua volta basato sui diari di Antonina. Quello che soprattutto tiene a dire è che i suoi genitori «non erano eroi ma persone oneste che hanno fatto solo quello che ritenevano giusto, e che ogni volta che qualcuno ha bisogno di aiuto abbiamo il dovere incondizionato di darglielo».
  Questa la storia: siamo nella Polonia del '39 invasa dai nazisti, le bombe su Varsavia non risparmiano lo zoo gestito da Antonina e Jan Zabinski. Elefanti, zebre e giaguari scappano (gli animali di scena sono tutti veri, tranne un elefantino appena nato) e la coppia si ritrova a salvare le poche bestie sopravvissute, nonché a subire le nuove politiche del capo zoologo del Reich, Lutz Heck, attratto dalla bella Antonina. Quando comincia la persecuzione degli ebrei, i due coniugi decidono di collaborare con la Resistenza: le gabbie e le gallerie sotterranee degli animali possono servire a nascondere fuggiaschi, così mettono in atto un piano per salvare gli ebrei del ghetto di Varsavia. Jan è autorizzato a entrare con un camion, nasconde i bambini sotto l'immondizia e li porta fuori, Antonina sistema i poveretti nei sotterranei, li accudisce, suona il piano come segnale di pericolo, mettendo a rischio la vita sua e dei suoi figli, il maschietto Ryszard e la piccola Teresa.
  «Non si sa esattamente quante persone riuscirono a salvare - spiega Teresa, che fa un piccolo carneo all'inizio del film - si parla di 300 ebrei, ma non erano solo ebrei, anche disabili e membri della resistenza polacca - Il numero è impreciso, alcuni stavano poche ore in attesa di documenti falsi, altri giorni, altri mesi. Comunque, tutti gli ospiti dello zoo si salvarono. Nonostante i tedeschi avessero proprio lì un magazzino di armi e fossero sempre di guardia». Dopo la guerra lo zoo ha riaperto, la villa degli Zabinski è diventata un museo, Antonina e Jan sono stati nominati da Israele "Giusti tra le Nazioni".

(Il Messaggero, 16 novembre 2017)


“Israele il cancro” colpisce ancora

Riceviamo e diffondiamo

Alla c.a. della Preside Prof. Patrizia D'Incalci

Gentile Preside,
siamo stati informati che oggi verrà proiettato nel Liceo Michelangiolo da Lei diretto il documentario "Israele il cancro". Si tratta di un lavoro intriso del più ripugnante antisemitismo, la cui proiezione è stata in molte occasioni bloccata dai responsabili delle istituzioni pubbliche presso le quali si voleva presentarlo. Ricordo in particolare l'intervento del Rettore dell'Università di Firenze Luigi Dei nell'autunno 2016, presso il Polo delle Scienze Sociali, che impedì la proiezione pubblica dell'ignobile documentario. Siamo certi che Lei farà tutto quanto in suo potere per impedire che di fronte ai giovani si metta in atto questo tentativo di incitamento all'odio razziale.
Con stima,
Prof. Valentino Baldacci
Presidente dell'Associazione Italia-Israele di Firenze

(Associazione Italia-Israele di Firenze, 16 novembre 2017)


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