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Notizie 16-31 ottobre 2015


Bahrein: l'Iran è una minaccia per gli Arabi tanto quanto Daesh

di Giusy Regina

Il sostegno dell'Iran alle sovversioni nei paesi arabi è una minaccia per la regione al pari di Daesh (ISIS). Lo ha affermato il ministro degli Esteri del Bahrein Sheikh Khaled bin Ahmed Al Khalifa durante una conferenza sulla sicurezza a Manama.
"Le azioni di Teheran non sono meno pericolose di quelle di Daesh per noi" ha detto, utilizzando l'acronimo arabo per il gruppo militante e accusando l'Iran di contrabbando di armi in Bahrain.
Al Khalifa ha aggiunto anche che i ribelli sciiti Houthi nello Yemen, che gli stati del Golfo stanno combattendo e accusano di essere sostenuti dall'Iran, possono avere un futuro nel Paese a patto che siano disarmati e partecipino ad una soluzione politica.
"Siamo in grado di lavorare con i nostri vicini nella regione, ma non a scapito della nostra sicurezza e stabilità", ha aggiunto il ministro.

(ArabPress, 31 ottobre 2015)


La saga dei Netanyahu. Yoni l'eroe e Benjamin il premier, due fratelli per Israele

Il primo ministro incarna il senso più grande e tragico della politica. La sua vita sarebbe stata diversa, dice, se l'altro Netanyahu non fosse morto sacrificandosi per il suo paese. Era il 1976, un aereo era stato dirottato.

di Michele Silenzi

 
I due fratelli
Qualche anno fa lessi un articolo che ricordava l'impresa di Entebbe del luglio 1976, quando un'unità scelta dell'esercito israeliano atterrò in piena notte nell'aeroporto della città ugandese per liberare più di cento ostaggi ebrei e israeliani tenuti lì da terroristi tedeschi e palestinesi dopo il dirottamento di un volo partito da Tel Aviv e diretto a Parigi. A fine agosto ho trascorso alcuni giorni in Israele per fare ricerca su un libro che ho curato per la casa editrice Liberilibri, "Le lettere di Jonathan Netanyahu". Ho avuto modo di conoscere e parlare con entrambi i suoi fratelli: Iddo, medico e autore teatrale, e Benjamin, il primo ministro, che ha avuto la cortesia di ricevermi nella sua residenza di Gerusalemme.
  Il blitz di Entebbe, un successo memorabile nella storia delle operazioni di salvataggio, era stato comandato da un giovanissimo tenente colonnello israeliano, Yonatan (Yoni) Netanyahu, unico caduto israeliano di tutta l'operazione. In quell'articolo riportavano anche dei brani dalle lettere che dai diciassette ai trent'anni, ovvero fino a pochi giorni prima di morire, Yoni aveva inviato ai suoi cari. Ne restai colpito per l'intensità, la durezza, la dolcezza e la profondità dell'analisi storico-politica. Ordinai il libro su Amazon (in quel momento ero a Londra e sembrava che nessuna libreria ne possedesse una copia né che fosse in grado di ordinaria). Dalle lettere emergeva una sorta di romanzo epistolare di formazione di un giovane che, dopo essere stato plasmato dalla storia del proprio paese, l'avrebbe a sua volta plasmato con l'eccezionalità della sua impresa e del suo carattere. Un percorso perfetto e brutale, mai dimenticato. Pochi giorni fa, infatti, visitando il cimitero militare di Gerusalemme, appoggiato su un fianco del monte Hertzl, la tomba di Yoni, una tra le tantissime tutte identiche alle altre, si staccava soltanto per la quantità di sassolini depositati sopra di essa, a testimonianza della quantità di persone passate di lì a dare il loro rispettoso saluto a questo giovane eroe.
  L'eroe, appunto. Terminato di leggere il libro fu quella la prima cosa a colpirmi. L'inequivocabilità di ciò che la sua figura rappresentava. Un eroe autentico, classico, epico. Un eroe di quelli che l'occidente, per anni, ha tentato di dimenticare, di deridere, di rimuovere attraverso l'oscenità brechtiana "beato il Paese che non ha bisogno di eroi" e sostituendo a questa epica dell'individuo eccezionale quella dell'''eroe normale", che poi non si capisce bene cosa significhi. Infatti c'è solo un eroe possibile, quello dietro cui un intero popolo si raccoglie, quello da cui un intero popolo trae senso di coappartenenza, l'eroe al cui funerale ogni singola mano di un'intera nazione idealmente accompagna il corpo, quello attorno a cui si crea un rito sia collettivo che individuale di emulazione. Per Israele, paese ancora umiliato dall'attacco arabo dello Yom Kippur e dalla quasi sconfitta che avrebbe significato annientamento, quell'impresa fu il momento decisivo da cui iniziare a rialzarsi.
  La sconfitta, per Israele, non ha mai avuto lo stesso significato che poteva avere per qualsiasi altro paese per cui una disfatta militare significa ridimensionamento dei confini o perdita di influenza. Per Israele la sconfitta ha sempre coinciso con l'annientamento, per questo è sempre stato costretto a vincere, e anche quando tutto sembrava perduto ha sempre trovato il coraggio disperato ma lucido per sopravvivere e andare avanti.
  L'eroe dunque, e la sua formazione. Nella corrisponcenza c'è il dipanarsi di questo racconto epico. Le lettere iniziano nel 1963, quando Yoni era con la famiglia negli Stati Uniti, dove il padre Benzion, grande storico, direttore dell'Encyclopedia Judaica e in precedenza assistente per anni di Jabotinski, uno dei padri della rinnovata idea dello stato d'Israele, si trovava per fare ricerca. La prima lettera la scrive dai sobborghi di Filadelfia a un suo ex compagno di classe di Gerusalemme. E da qui, come in tutte le altre lettere del suo anno americano, si sente un costante desiderio di fare ritorno in patria. Non importa se la famiglia, con cui pure era legatissimo, si trovava lì con lui. Era alla sua terra che Yoni voleva costantemente ritornare. Ritornare per difenderne l'esistenza. E questo accadrà l'anno successivo. Nell'estate del 1964 ritorna in Israele per iniziare il servizio militare. Sarà il momento che cambierà tutto.
  Dalle sue lettere non traspare mai uno spirito militarista, anzi, a volte si avverte il disagio per una vita che non sente interamente sua e, fino a pochi giorni prima della sua morte, fino alle sue ultime lettere, si troverà sempre il desiderio di questo giovanissimo colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità d'élite dell'esercito israeliano, di fare ritorno alla vita civile. Perché questo è il punto. Yoni non era uno studente qualsiasi. Era stato ammesso ad Harvard e aveva ricevuto lettere d'invito da Vale e Princeton. Finito il servizio militare obbligatorio per ogni israeliano maggiorenne avrebbe potuto far ritorno ad Harvard, dove aveva iniziato gli studi di matematica e filosofia per poi abbandonarli perché l'impulso a tornare nel suo paese per difenderne l'esistenza stessa superava ogni altra aspirazione. Un giovane che poteva avere davanti a sé una carriera splendida negli Stati Uniti, sceglie di tornare in uno dei luoghi più violenti e pericolosi al mondo, sceglie di vivere la difficile e poco remunerativa vita dell'esercito, per la necessità di abbracciare ciò in cui crede. Sceglie, con tutta la forza e la radicalità che questa parola implica, la propria strada.
  Quando, con Liberilibri, decidemmo di tradurre le lettere di Yoni in italiano, non ci stupì affatto che nessuno ci avesse pensato prima. L'atteggiamento dei paesi occidentali verso Israele è quello che si ha, quando va bene, verso un compagno di classe troppo agitato, uno che sembra non faccia altro che creare problemi. Altrimenti è un atteggiamento di disprezzo tout court, si guarda a Israele come a una forza di occupazione che piega sotto il suo giogo i palestinesi, o addirittura come il cancro originario che ha generato il radicalismo musulmano e la destabilizzazione del medio oriente di cui siamo testimoni ogni giorno. Del resto, mi sembra chiaro che il disprezzo in cui la maggior parte degli europei tiene Israele sia in parte dovuto a una buona dose di odio verso noi stessi e verso i nostri valori fondativi che sembriamo aver rimosso e che invece rappresentano la spina dorsale su cui si regge lo stato ebraico. Parlo dell'orgoglio di esistere e dell'orgoglio per la nostra storia e la nostra identità, la volontà di vivere e di progredire, la capacità di resistere, con tutti i mezzi necessari, agli attacchi di chi vuole privarci della nostra libertà e della nostra cultura. Israele, oltre ad avere tutti i canoni di un grande paese occidentale in termini di libertà e diritti, poggia solidamente su questi valori che l'Europa ha rimosso o tende a rimuovere perché troppo impegnativi, soffocandoli dentro la rete del politicamente corretto e del solito senso di colpa verso tutto ciò che non è occidente.
  La figura di Yoni e le sue scelte esemplificano perfettamente questi valori. Una terra come l'Europa, in cui non solo i governi ma gli individui sembrano aver perso completamente di vista questi valori, appare sempre di più come un luogo privo di identità e di rispetto di sé. Appare come una terra perfetta per essere conquistata, perché svuotata di qualsiasi tipo di identità propria.
  La rinuncia alle scelte difficili, di cui è la politica a farsi carico, non può però certo essere imputata alla politica stessa. Viviamo in un sistema rappresentativo, tutto ciò che viene fatto è lo specchio inevitabile delle scelte, o, per meglio dire, delle non-scelte dei singoli. Libertà e tolleranza, i valori essenziali e strutturali da cui derivano tutti gli altri, non vivono di vita propria. Sono strutture fragili e, come tali, vanno difese. Non può esistere la libertà a meno che non venga difesa, e quindi la domanda da porsi diventa molto semplice e radicalmente individuale: cosa sono disposto a fare per difendermi? Quando la risposta a questa domanda è generica o evasiva equivale a dire non sono disposto a fare niente. E vedere altri, in questo caso Israele, che invece scelgono con drammatica determinazione, ci mette con le spalle al muro, misura tutta la distanza che c'è tra ciò che dovremmo fare e ciò che non vorremmo dover fare.
  A Gerusalemme, Iddo, il terzo dei fratelli Netanyahu, ha avuto la gentilezza di farmi da guida. In uno di questi pomeriggi, mentre stavamo finendo il pranzo, gli è arrivata una telefonata dall'ufficio del primo ministro: avevano trovato una mezz'ora per farci incontrare il capo del governo. Terminati i lunghi controlli all'ingresso della residenza ufficiale, siamo entrati nel patio della villa e abbiamo atteso il suo arrivo su uno dei divani sotto i portici. Dopo poco, da una delle porte-finestre che affacciano sul patio, è comparso Benjamin Netanyahu. La cosa che più di ogni altra mi ha colpito è stata la drammaticità della sua figura, il peso che sembra portare addosso. E' un uomo che, in ogni momento, è chiamato a difendere dall'annientamento un'intera nazione e un intero popolo. Un uomo che con le sue scelte può scatenare una guerra di ricaduta mondiale. Un uomo interamente cosciente di questo suo ruolo e che ne porta sulle spalle il peso. Lo si vede nella sua figura, nei suoi passi pesanti, nella voce profondissima, baritonale, nelle parole che escono con calma, precisione ma con la pesantezza di pietre. Qui si coglie la politica nel suo senso più grande e tragico. Chi gestisce il potere e decide di farsi carico fino in fondo delle conseguenze delle proprie scelte, ne porta i segni anche sul corpo. Chi fa politica nel suo significato più profondo è un demiurgo della storia e, nel momento in cui questa è in atto, non è possibile giudicarla. La condanna di ogni grande politico è che sarà giudicato solo dal futuro, probabilmente quando non ci sarà più e dopo che in vita sarà stato per lo più vilipeso. Questa è la politica e Netanyahu ne sembra un'incarnazione perfetta.
  Dopo un saluto sbrigativo, ci siamo seduti e abbiamo parlato di Yoni e di come sia stato la figura essenziale che lo ha avvicinato alla vita politica con il preciso scopo di continuare a difendere Israele dopo aver servito, anche lui, nell'unità Sayeret Matkal. Mi dice che la sua vita sarebbe stata sicuramente diversa se il fratello non avesse perso la vita sacrificandosi per il suo paese. Che forse sarebbe arrivato comunque alla politica ma sicuramente non così presto come ha fatto.
  Gli chiedo poi se non pensi che la minaccia a cui oggi è sottoposto Israele sia inferiore a quella che invece aveva vissuto Yoni, quando quotidianamente il paese poteva aspettarsi un attacco da uno qualsiasi degli stati arabi circostanti. Mi risponde che non è assolutamente così. Che la minaccia oggi è molto maggiore, che un tempo non lanciavano razzi all'interno di Israele come invece riescono a fare oggi tanto Hamas quanto Hezbollah, entrambi ampiamente finanziati dall'Iran che adesso, con l'interruzione delle sanzioni, disporrà di una gran quantità di miliardi di dollari in più da investire sul terrorismo internazionale e su quello contro Israele in particolare. Per non parlare della minaccia ultima, quella definitiva, in grado di sconvolgere l'ordine mondiale oltre che mettere definitivamente a repentaglio l'esistenza stessa di Israele: la bomba atomica. Fare i conti giornalmente con la possibilità di essere letteralmente spazzati via è sufficiente a rendere Israele un luogo di assoluta eccezione e la determinazione di vivere e resistere un marchio di grandezza. Ma non è solo questo, c'è di più. La questione degli insediamenti è da sempre una delle più complesse per Israele e, dico al primo ministro, da sempre appare come una delle note più spinose sulla via della pace. Poi, però, nel momento in cui sono state fatte concessioni senza precedenti, sia da Ehud Barak nel 2000 che da Ariel Sharon nel 2005, niente ne è venuto, anzi, quelle concessioni sono state viste come un segno di debolezza, come un segno che Israele stesse battendo in ritirata, e i risultati in termini di sicurezza e di attacchi sono decisamente peggiorati. Netanyahu mi dice che gli insediamenti sono fondamentali per Israele e che spesso noi europei non riusciamo a coglierne il senso più profondo. Noi europei ragioniamo con i vecchi canoni del colonialismo: prendere possesso di una terra, anche se perlopiù disabitata e desertica come quella del West Bank, coincide automaticamente con un'occupazione. La cultura americana, invece, comprende molto meglio questo concetto. La terra, quando è vuota, è di chi riesce a trasformarla. Di chi riesce a trasformare un luogo del tutto inospitale e desertico in un prato verde che porta frutti grazie all'ingegno umano e all'innovazione di cui poi tutti possono beneficiare. Ho visitato diversi insediamenti israeliani nel West Bank e ho avuto modo di vedere questa cosa con i miei occhi. Lì non si vive nel lusso, non si fa una vita facile. Gli insediamenti sono interamente circondati da cancellate e filo spinato. Ogni ingresso è vigilato da guardie armate. L'ostilità verso i coloni, verso quello che fanno, non è altro che distanza ideologica verso un popolo che cresce, si espande e genera bellezza e benessere dove altro non ci sarebbe se non deserto.
  A questo punto chiedo al primo ministro come vede l'Europa nel futuro, le difficoltà che sta affrontando in particolare con l'immensa ondata migratoria che sta partendo dall'Africa e dal medio oriente. Dice che il problema essenziale era, rimane e sarà sempre di più in futuro l'islam radicale, perché accresce la sua influenza e la sua capacità di attrazione quanto meno lo si combatte, e la cosa più preoccupante è la sua straordinaria capacità di penetrazione anche in contesti europei. Mi dice che non è un caso se l'ondata migratoria degli ebrei europei verso Israele si fa ogni anno più intensa. Inoltre il problema è di tipo demografico, e qui Netanyahu cita Oriana Fallaci che aveva immaginato questo scenario. Un occidente privato del futuro dall'incapacità di creare ricambio generazionale è strutturalmente condannato a essere assimilato da chi invece di figli ne fa moltissimi, da chi cresce in numero e, perciò, in regime democratico, in influenza.
  Sulla via del ritorno in Italia, il tassista che mi ha portato da Tel Aviv all'aeroporto era di origine georgiana, aveva circa settant'anni ed era arrivato in Israele nel 1970. Aveva combattuto nella guerra del Kippur e aveva continuato a servire nell'esercito come riservista fino a cinquantacinque anni. Gli ho chiesto come vedesse la politica israeliana e dalle sue risposte sembrava uno di quei tassisti grillini che chiamano La Zanzara: i politici sono tutti ladri, a me non piace nessun partito, a me piacevano solo i leader del passato come Begin o Rabin. A quel punto gli ho chiesto cosa ne pensasse in generale dello stato d'Israele. Ha assunto un'aria di grande calma e mi ha risposto semplicemente che Israele era la cosa più importante della sua vita perché, ha detto, "non mi fa sentire più soltanto ebreo, mi fa sentire israeliano". Ho pensato a lungo a questa risposta, cercando di capirne bene il significato che però, in realtà, era tutto lì davanti. Israele significa la costruzione di uno stato basato su un'identità condivisa e su una storia in cui tutti gli ebrei del mondo, più o meno credenti, possono trovare un'identità data dalla nuova identità statuale e territoriale che prima si disperdeva all'interno delle varie comunità locali. Attraverso i confini, attraverso la costruzione di una nazione si è generata o, per meglio dire, si è definita un'identità da coltivare e da difendere.
  L'Europa, chiaramente, non può più essere questo. Gli stati nazionali in occidente stanno perdendo il loro senso. Non perché questo sia stato deciso da qualcuno, ma perché le istituzioni sono come organismi, tendono a evolvere, a modificarsi, ad adattarsi all'ambiente circostante. La mutazione nelle tecnologie e nella percezione del mondo da parte degli individui ha naturalmente portato all'abbattimento delle frontiere tra gli stati più avanzati e mutualmente pacifici generando, in modo spontaneo, la tensione verso un nuovo ordine. Un ordine che, però, non è ancora qui. Ed è proprio nel momento della mutazione, in quel momento di indefinitezza di identità, che si è più vulnerabili agli attacchi.
  L'Unione europea è un oggetto indefinito e senza forma. Viene percepita inevitabilmente, data la sua natura, come un corpaccione burocratico che aggiunge leggi, cavilli e imposizioni a quelle già fin troppo stringenti dei singoli stati. Tornare indietro, nella comfort zone della difesa delle frontiere nazionali, è semplicemente impossibile. Non si possono resuscitare cadaveri, per quanto pensarlo ci possa far stare bene. Ciò che bisogna fare è creare una nuova identità che prima era data dai confini locali ormai irrimediabilmente disintegrati e non disintegrati soltanto a livello politico ma a livello di percezione individuale. Su cosa allora ricominciare a costruire un'identità comune? Cosa ci sarebbe da difendere, cioè attorno a cosa ci si può stringere per trovare una nuova identità e quindi una vera unione? La risposta mi sembra che possano essere i valori condivisi e la loro difesa con tutti i mezzi, la certezza di essere ancora quella parte del mondo che, come scrive Cormac McCarthy in "The Road", porta il fuoco anche nella notte più buia. Per questo bisogna guardare a Israele e a figure come quelle di Yoni, che sono il massimo che la parola occidente possa esprimere in questo momento, come a un faro da seguire. Sta scritto nella Torah "E sceglierai la vita!" ma per farlo, per compiere la scelta e per sostenere la vita è necessario accettare la possibilità del suo perenne contraltare, la morte. In una lettera del 1963 Yoni scrive: "La morte, quella è l'unica cosa che mi disturba. Non mi spaventa, accende la mia curiosità. E' un puzzi e che io, come molti altri, ho cercato di risolvere senza successo. Non la temo perché attribuisco poco valore a una vita senza scopo. E se dovessi sacrificare la mia vita per raggiungere il suo scopo, lo farei volentieri."
  "Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo", scriveva Benedetto XVI in "Caritas in Veritate". Non avendo più un'identità definita, non avendo più un'identità fondante, non avendo più una verità su noi stessi su cui poggiare, si resta senza punti di riferimento. Allora si cerca una nuova base sociale nei buoni sentimenti. Ci si guarda e ci si contempla dicendo: quanto siamo buoni. E quello diventa il nuovo punto di riferimento. Il nuovo sostrato su cui basare ogni nostro giudizio a cui fare sempre riferimento. La razionalità e il realismo diventano oggetti estranei e mostruosi, categorie che dovrebbero essere quelle del politico scompaiono innanzitutto dalla politica, che viene sommersa e dominata dalle ondate popolari di emotività e umanitarismo un tanto al chilo venduto da tutti i più importanti mezzi d'informazione.
  Meriterebbe un intero articolo, se non un saggio, la foto di Aylan che viene paragonato al bimbo del ghetto di Varsavia con le mani alzate. Perché io non riesco a capire una cosa: chi sarebbero, in questo caso, i nazisti che puntano il fucile? La risposta, implicita in ogni articolo che cita questo esempio, è però chiarissima. Siamo noi! L'osceno occidente ricco e benestante che uccide con la propria indifferenza. Quanta tronfia solennità in queste affermazioni. Quanta cialtroneria parolaia.
Pochi giorni prima di leggere queste frasi del tutto prive di senso storico, ero stato allo Yad Vashem. Se volete fare un'esperienza, per quanto rarefatta, dell'orrore che gli atti di uomini contro altri uomini possano generare, vi consiglio una visita. Mettendo piede nel museo, o nel memoriale per il milione e mezzo di bambini assassinati durante l'Olocausto, sarà possibile misurare la distanza tra la realtà e la manipolatoria falsità storica propagandata da chi ha paragonato la tremenda fine di Aylan a quella del bambino con le mani alzate del ghetto di Varsavia. Ogni immagine non rappresenta solo se stessa ma tutta una storia. E la storia che sta dietro al nazismo e all'Olocausto e quella che sta dietro all'ondata di profughi che lasciano i paesi mediorientali dove l'occidente è stato incapace di usare la violenza necessaria a fermare i tagliagole dell'Isis, sono radicalmente diverse.
  E questo è il punto finale. La necessità della violenza e l'incapacità di riconoscere il male. Per questo una figura come quella di Yoni Netanyahu rappresenta tutto quello che si dovrebbe essere. Un giovane pienamente cosciente del suo ruolo, della sua drammaticità ma anche della sua assoluta necessità. L'idea che il male non si batte provando a rieducarlo, non si batte con il buon esempio, non si batte sentendo e propagandando un insensato senso di colpa, non si batte mostrandosi buoni. Il male si batte soltanto con un cosciente, per quanto drammatico, atto di violenza. Questo significa guardare in faccia la propria epoca con realismo e razionalità. Significa assumersi la responsabilità di agire su di essa e di piasmarla secondo quei valori che noi riteniamo giusti e da difendere. Per questo nulla è possibile, nulla cambierà finché non decideremo di smetterla di giocare con i buoni sentimenti e di tornare, con sguardo lucido e mente fredda, a pensare chi vogliamo essere. Altrimenti, come è giusto che sia, come capita a tutto ciò che smette di combattere per vivere, saremo sommersi e sostituiti.

(Il Foglio, 31 ottobre 2015)


L'antisemitismo ha i suoi lettori

Le pressioni pro boicottaggio sull'autrice di Harry Potter e i loro risultati.

La vulgata antisemita ha milioni di avidi lettori in tutto il mondo. Ennesima conferma ne è il trattamento riservato a Joanne Rowling, l'autrice britannica della fortunata saga di Harry Potter. Rowling, negli scorsi giorni, si era fatta promotrice di un appello a favore del mantenimento di un dialogo culturale con Israele. Apriti cielo, sul Guardian è arrivato un contrappello di 343 professori delle università inglesi a favore del boicottaggio dello stato ebraico, a partire appunto dall'accademia. Il Foglio ha dato conto di tutto ciò, segnalando anche la considerevole presenza di professori italiani tra i firmatari dell'appello al boicottaggio. Nelle ultime ore, tuttavia, si è assistito anche alla reazione di alcuni sedicenti lettori di Harry Potter in giro per il pianeta. Persone che si sono rivolte con lettere e messaggi via social network alla Rowling dicendo cose del tipo "hai distrutto la nostra adolescenza, non leggeremo più Harry Potter" oppure "Israele è come i Mangiamorte seguaci di Lord Voldemort".
   La Rowling si è sentita in dovere di rispondere, a più riprese, tenendo in sostanza il punto sulla sua personale contrarietà al boicottaggio della cultura israeliana, ma allo stesso tempo dovendo concedere qualcosa al lettorato antisemita: "La comunità palestinese ha sofferto un'ingiustizia indicibile. Spero che il governo israeliano sia chiamato a renderne conto. Comprendo che boicottare Israele è un'azione che ha la sua allure". Per uno scrittore, un giornalista o un commentatore, è più comodo restare in perfetta sintonia con le emozioni e le ragioni dell'opinione pubblica internazionale, quali esse siano oggi. Nutrire e ostentare la propria buona coscienza fa bene al cuore. Chi rompe un tabù, invece, deve pagarne il prezzo.


Così si diventa antisemiti: accorgendosi che è più popolare, meno problematico, più comodo manifestare pubblicamente la propria avversione allo stato sionista, in forma più o meno cruda a seconda dei temperamenti. Questo naturalmente non per cattiveria, ma per alte motivazioni morali. Quei poveri palestinesi.... M.C.

(Il Foglio, 31 ottobre 2015)


Anniversario della deportazione degli ebrei, marcia di memoria insieme agli armen

FIRENZE - Dal 2013 la Comunità di Sant'Egidio ha inteso ricordare la deportazione degli Ebrei, avvenuta il 6 novembre del 1943, di Firenze attraverso un pellegrinaggio della memoria nelle strade del Centro storico, con un corteo che quest'anno, da via Guelfa, all'angolo con via San Gallo, raggiungerà la sinagoga.
  L'appuntamento, nel piazzale antistante la Chiesa Avventista, è legato alla presenza, un tempo, in questi luoghi, del monastero di San Basilio degli Armeni.
  Anche quest'anno, nel giorno del 5 novembre, la Comunità di Sant'Egidio, in accordo con la Comunità Ebraica, intende rinnovare questo gesto, al quale hanno preso parte con convinzione tante anime della realtà cittadina, tra le quali anche musulmani con l'imam Izzedin Elzir e, quest'anno, i rappresentanti della Comunità Armena che ricordano il Metz Yeghern, la deportazione e la morte di milione e mezzo di armeni in Turchia, tra il 1915 e il 1916.
  La marcia della memoria si colloca nel 2015 a 72 anni dalla prima deportazione degli Ebrei fiorentini e a 100 da quella degli armeni.
  Può essere utile ricordare alcuni dati.
  Il 6 novembre 1943 il comando nazista avviò a Firenze la cattura e la deportazione degli Ebrei fiorentini. Vennero arrestate oltre 300 persone. Il 9 novembre furono caricate sui treni diretti verso Auschwitz, dove arrivarono il 14 novembre. Solo 107 superarono la selezione per l'immissione nel campo: gli altri vennero immediatamente eliminati. Nell'elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884. I tedeschi avevano completato l'occupazione di Firenze nel settembre 1943. Qui i nazisti poterono contare per la razzia sul sostegno attivo dei fascisti, in particolare su quello della banda Carità. Degli Ebrei deportati nei lager dal 6 novembre del '43 in poi, solo 15 tornarono indietro: otto donne e sette uomini.
  La Comunità di Sant'Egidio ricorderà questa tragedia con un "pellegrinaggio della memoria" che percorrerà le vie del centro storico fino alla sinagoga.
  L'appuntamento è giovedì 5 novembre 2015, alle ore 17.30, in via Guelfa, angolo con via San Gallo, davanti alla Chiesa Avventista. Tragitto: via Guelfa, via degli Alfani, via dei Pilastri, via Faricni.
  Qui i partecipanti al corteo saranno accolti dai responsabili della Comunità Ebraica per una cerimonia nel piazzale della Sinagoga.

(#gonews.it, 31 ottobre 2015)


Expo2015 - Il padiglione di Israele premiato per il miglior design

di Maris Matteucci

L'Expo2015 è giunto al termine e il bilancio non può che essere positivo per il Padiglione Israele che fin dall'inizio della Esposizione Universale ha attirato un nutrito numero di visitatori. E in chiusura arriva anche un riconoscimento ufficiale: ad Expo2015, il padiglione Israele è stato premiato come il migliore tra tutti per il design.
A definire il padiglione di Israele il più bello almeno per quanto riguarda il design sono stati alcuni giudici di EXHIBITOR che hanno voluto premiare il coraggio di un team di esperti che, anche alla esposizione di Milano, ha voluto sfruttare l'atezza per il padiglione. Così come succede nella realtà, anche Fields of Tomorrow (questo il nome del padiglione di Israele, tradotto significa i campi di domani) ha sfruttato il verticale per ovviare un problema non indifferente, rappresentato dal fatto che buona parte del territorio israeliano è desertico e la coltivazione diventa dunque molto difficile in situazioni ben precise.
Con la costruzioni di giardini verticali curati dalla irrigazione a goccia, invece, Israele è riuscito ad aggirare l'ostacolo con buoni risultati che gli sono valsi anche un prestigioso premio. Ovviamente soddisfatto - e non avrebbe potuto essere altrimenti - il direttore del Padiglione, Josh Bendit, che ha ricevuto il premio è si è detto onorato per un riconoscimento prestigioso, frutto di un duro ed accurato lavoro di squadra in vista di Expo2015. Siamo orgogliosi e felici di accettare questo premio, è un grande onore per noi, ha detto a margine della premiazione. Un ottimo risultato raggiunto da un Paese in netta ascesa.

(MondoEcoBlog.com, 30 ottobre 2015)


"Gentili passeggeri, stiamo per atterrare in Palestina": scoppia il caso su un volo Iberia

L'annuncio prima della discesa su Tel Aviv innesca vivaci proteste in cabina e sui media

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - «Gentili passeggeri, stiamo per atterrare in Palestina, grazie di aver viaggiato con noi». E' il pilota del volo Iberia 3316, in arrivo a Tel Aviv da Madrid, a fare un annuncio che innesca vivaci proteste in cabina. Fra i passeggeri c'è Lior, israeliana, che appena atterrata contatta il Channel 2 della tv nazionale e ammette di «aver subito uno shock» nell'ascoltare la «falsificazione della destinazione di arrivo» visto che «l'aeroporto di Ben Gurion si trova in Israele e non nei Territori palestinesi».
Altri passeggeri hanno protestato, con l'equipaggio in volo e il personale a terra della compagnia di bandiera spagnola, spiegando che «si è trattato di una scelta intenzionale» perché «il pilota ha detto Palestina nell'annuncio in spagnolo ma non lo ha poi ripetuto parlando in inglese».
   L'episodio è avvenuto mercoledì ed oggi, a 48 ore di distanza, Iberia ha dato la propria versione dei fatti, spiegando che «c'è stata un'incomprensione» perchè in spagnolo il pilota ha detto «stiamo arrivando a destinazione» e la parola «destino» è stata scambiata per «Palestina». Ma è una tesi che non convince molti dei passeggeri, che hanno scritto lettere di protesta, si dicono «offesi» e assicurano che non voleranno più con Iberia fino a quando non riceveranno «le scuse».
   La terminologia adoperata dal pilota di Iberia tocca al cuore il conflitto israelo-palestinese, che è anche una questione di definizioni geopolitiche. «Palestina» è il termine con cui l'Impero romano rinominò l'antica Giudea e dopo il collasso dell'Impero Ottomano, al termine della Prima Guerra Mondiale, Londra esercitò un mandato coloniale sulla «Palestina» che nel 1947 venne divisa dall'Onu in due Stati: uno ebraico sul quale nacque nel 1948 Israele e l'altro arabo che venne in parte - la Cisgiordania - occupato dalla Giordania e in parte - la Striscia di Gaza - dall'Egitto. L'Assemblea generale dell'Onu ha riconosciuto nel 2012 come Stato non-membro la «Palestina» identificandolo nei territori di Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. L'aeroporto di Ben Gurion e la città di Tel Aviv si trovano all'interno dei territori che l'Onu nel 1947 assegnò allo Stato ebraico.

(La Stampa, 31 ottobre 2015)


Ospedale Israelitico: la Comunità ebraica di Roma prende le distanze

Gli episodi che hanno coinvolto l'Ospedale Israelitico di Roma hanno scosso tutti noi, portandoci a lunghe giornate di riflessione e di intenso lavoro".
È quanto si legge in una nota diffusa dal Consiglio della Comunità ebraica romana, che ne ha richiesto espressamente la pubblicazione e in cui lo stesso afferma di sentire "la responsabilità morale di ciò che sta accadendo".
"Quando un figlio sbaglia - scrivono i Consiglieri - anche se il genitore non è direttamente colpevole, è suo compito assumersene le responsabilità e agire di conseguenza. Se all'interno dell'Ospedale Israelitico sono stati commessi degli errori quel peso ricade anche sulle nostre coscienze. Siamo a disposizione dell'autorità giudiziaria, al fianco della magistratura, considerando la Comunità parte lesa. Abbiamo il dovere di continuare a offrire il servizio sanitario ai cittadini, salvare circa 800 posti di lavoro e, non ultimo, salvaguardare la nostra istituzione".
L'intenzione manifestata dal Consiglio è di "aprire un nuovo corso" e di "farsi parte attiva per la soluzione del problema".
Viene spiegato: "Dopo le dimissioni del Consiglio d'amministrazione dell'ospedale, motivate espressamente per permettere l'adozione di una gestione più agile, il Consiglio della Comunità ebraica di Roma, unitamente al Consiglio della Deputazione di assistenza ebraica, nominerà un commissario straordinario dell'ospedale in discontinuità con l'intero apparato dirigenziale e con chiunque abbia preso parte all'attività manageriale, nei confronti dei quali ci riserviamo di intraprendere ogni azione legale necessaria".
Un ulteriore rilievo è dedicato alla "strumentalizzazione della tragedia della Shoah e della piaga dell'antisemitismo" messa in luce da alcune intercettazioni pubblicate sulla stampa nazionale e locale. "Un pugno allo stomaco per tutti noi. Un abominio di fronte ai milioni di morti. Un reato morale che non possiamo tollerare", scrivono al riguardo i Consiglieri. "Prendiamo le distanze da chiunque abbia compiuto atti simili e se ciò è avvenuto dentro le mura dell'Ospedale Israelitico, al di là di quelle che saranno le sentenze dei tribunali, fin da oggi esprimiamo prima di tutti la nostra ferma e chiara condanna morale".

(moked, 30 ottobre 2015)


Descalzi da Netanyahu per colloqui sullo sviluppo del gas nel Mediterraneo orientale

ROMA - L'amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, ha illustrato "le importanti sinergie di un potenziale sviluppo congiunto del gas naturale nel Mediterraneo orientale" al primo ministro d'Israele, Benjamin Netanyahu, e al ministro delle Infrastrutture, dell'Energia e delle Acque, Yuval Steinitz. Lo ha reso noto la stessa azienda italiana attraverso un comunicato. "Mettendo a fattore comune le risorse future e le infrastrutture di trasporto e di export di Israele, Cipro ed Egitto, l'area potrebbe diventare un hub regionale del gas e fornire anche un importante contributo alla sicurezza energetica europea", si legge nel comunicato. L'incontro fa seguito ai precedenti che il numero uno di Eni aveva avuto sul tema con il presidente egiziano, Abdel Fatah Al Sisi, il 19 ottobre al Cairo, e con il presidente della Repubblica di Cipro, Nicos Anastasiades, il 10 settembre scorso a Nicosia. Eni è presente nell'area del Mediterraneo orientale a Cipro con attività esplorative e in Egitto con importanti interessi nell'upstream. Proprio nell'offshore egiziano, la società ha recentemente scoperto il giacimento di Zohr, il più grande ritrovamento a gas nel Mediterraneo.

(Agenzia Nova, 30 ottobre 2015)


A Gerusalemme i papaveri giganti che si aprono al passaggio, regalando ombra e luce

di Marta Albè

 
Un gruppo di architetti di Tel Aviv ha installato Warde, una serie di quattro sculture simili a papaveri rossi pronti a sbocciare. I papaveri aprono le loro corolle ogni volta che qualcuno passeggia al di sotto della loro struttura o nelle vicinanze. In questo modo, di notte si accendono al passaggio di qualcuno, permettendo di usare l'energia solo al bisogno.
Si tratta di vere e proprie sculture interattive ricche di colore e di energia che danno nuova vita alla piazza della città e che sono pensate per fornire illuminazione durante la notte e ombra di giorno, quando i petali dei fiori sono completamente aperti.
I quattro papaveri sono suddivisi in due coppie. La prima si trova all'ingresso della piazza del mercato della città mentre la seconda è situata nella vicina stazione dei tram. Le strutture dei papaveri reagiscono quando i pedoni passano vicino a loro o quando un tram si avvicina. Per creare ombra dispiegano il loro tessuto di 9 metri di ampiezza.
Secondo gli architetti che hanno realizzato il progetto, fino a questo momento la piazza non si trovava in buone condizioni, soprattutto dal punto di vista estetico, tra bidoni dei rifiuti e spazzatura che rischiava comunque di accumularsi per terra.
Il tentativo di Warde non è comunque quello di combattere il caos ma invece di provare a creare uno spazio urbano più vivibile attorno a degli elementi diversi dal solito. La novità sembra molto apprezzata sia dai cittadini che dai turisti che visitano Gerusalemme.
Speriamo solo che queste strutture siano di lunga durata e che gli architetti abbiano pensato a brillanti strategie di risparmio energetico per il loro funzionamento.
Come funzionano questi speciali papaveri giganti che adornano la città di Gerusalemme? Scopritelo guardando il video.

(greenMe, 31 ottobre 2015)


Cosa c'è dietro il dettaglismo snervante su Hitler e Gran Muftì
Articolo OTTIMO!


Le ragioni di Netanyahu nell'accostare il leader nazista e quello islamico sulla "soluzione finale".

di Antonio Donno

Perché le parole del premier israeliano Netanyahu hanno fatto tanto scandalo? Perché hanno toccato un nervo scoperto dei "progressisti" di tutto il mondo impegnati a "difendere il popolo ebraico da se stesso". Quanta ipocrisia. Tutti sanno che l'odio islamico verso gli ebrei data fin dalle pagine del Corano e non ha mai cessato di alimentare sentimenti di ostilità, disprezzo, distruzione nei confronti del popolo ebraico. Eppure, si discetta se il Gran Mufti suggerì o meno a Hitler la soluzione finale e da questo si costruisce artificiosamente una critica feroce verso Netanyahu. La realtà è che Netanyahu ha ragione e il suo discorso ha messo a nudo la falsità di coloro che continuano a ripetere il solito, nauseante mantra che i palestinesi si battono per la loro terra, che il loro movimento è di tipo nazionale. Certo, si battono per riprendere "tutta" la terra, buttando a mare gli ebrei dalla loro terra.
  Si legge che gli intellettuali "progressisti" sono impegnati a denunciare "il potere, l'oppressione e la violenza strutturale di Israele". La violenza strutturale di Israele! Dimenticano quante volte, dalla nascita
La violenza strutturale è contro Israele da parte del mondo islamico, niente di più, niente di meno. Contestare la falsità, la malafede di quanti accusano Israele di ogni nefandezza è un'operazione che snerva, perché l'antisemitismo supera ogni ragionevole confronto.
di Israele, gli arabi hanno tentato di distruggere lo stato ebraico, ricevendo dure lezioni dagli ebrei, "figli di porci e scimmie". La violenza strutturale è contro Israele da parte del mondo islamico, niente di più, niente di meno. Contestare la falsità, la malafede di quanti accusano Israele di ogni nefandezza è un'operazione che snerva, perché l'antisemitismo supera ogni ragionevole confronto. Sostiene lo storico Christiane Ingrao, in una intervista al Monde ripresa dal Foglio, che le truppe arabe che combatterono al fianco dei nazisti si aggiravano "al massimo attorno a qualche decina di migliaia di persone". Ma come si fa ad affermare queste cose senza neppure avere un po' di vergogna? Pochi o molti che fossero gli arabi al servizio di Hitler, il fatto è che il mondo arabo concordava in pieno con la politica della Germania nazista contro gli ebrei. In un discorso radiotrasmesso da Berlino diretto al mondo arabo, l'11 novembre 1942, il Gran Mufti sostenne: "Oggi il popolo arabo ha al suo fianco i potenti nemici del suo nemico. In questa guerra gli arabi non sono neutrali". Che importanza ha discutere se nel suo incontro con Hitler, il 28 novembre 1941, il Gran Mufti abbia o meno suggerito a Hitler di dare inizio al sistematico annientamento del popolo ebraico? Il fatto è che il Gran Mufti non avrebbe minimamente esitato ad accogliere una soluzione di questo genere. Sempre nello stesso discorso, l'arabo così disse: "Ma se, al contrario, l'Inghilterra perdesse e i suoi alleati fossero sconfitti, la questione ebraica, che per noi costituisce il massimo pericolo, avrebbe una soluzione finale (…)". Il 21 settembre 1944, il Gran Mufti - scrive Bernard Lewis, il grande studioso del medio oriente e dell'islam - parlò "di undici milioni di ebrei nel mondo; ossessionato com'era dal problema ebraico il mufti doveva ben sapere che nel 1939 esistevano al mondo circa diciassette milioni di ebrei: evidentemente tale differenza numerica nasconde una precisione che raggela il sangue".
  Il problema, dopo il discorso di Netanyahu, appare oggi ancora più drammatico. Le reazioni scomposte degli intellettuali "progressisti" occidentali sono la cartina di tornasole di quanto l'"antisemitismo degli intellettuali" (la forma più oscena di antisemitismo) abbia radici profonde. Ha fatto bene Giulio Meotti a riportare il giudizio di Elliot Abrams: "Stanno cercando di distruggere Israele per salvarlo". Non ce la faranno.

(Il Foglio, 30 ottobre 2015)


Gli inviti dei professori (anche italiani) a boicottare Israele: «Miopì e antisemiti»

di Paolo Conti

 
Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress
E' successo di nuovo. Un gruppo di accademici britannici (trecento, di cui molti studiosi italiani che lavorano negli atenei del Regno Unito) hanno firmato un appello pubblicato su una intera pagina del Guardian in cui annunciano di aver iniziato il boicottaggio di Israele e delle sue istituzioni accademiche. il progetto è rompere le relazioni con gli atenei israeliani, non accettare i loro inviti e non invitare accademici di Israele, definito una «potenza occupante» dei territori palestinesi. Qualcosa di molto simile accadde già nel 2007, sullo stesso quotidiano.
   Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress ha pacatamente definito «miope» l'appello britannico perché «qualunque boicottaggio è controproducente, la scienza dev'essere aperta a tutti e capace di condividere le scoperte dei migliori cervelli, siano essi israeliani, palestinesi o di altre parti del mondo». Le reazioni italiane sono più dure. Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica romana, si dice «inorridita» quando sente parlare di boicottaggio perché «è il preludio a una discriminazione inaccettabile, l'antisionismo è una bella maschera quando non ci si può dichiarare apertamente antisemiti». Vietor Majar, assessore alla Cultura e alla Memoria dell'Unione delle comunità ebraiche italiane propone un ragionamento: «C'è, in quell'appello, un equivoco terzomondista. Israele viene descritto come un gigante oppressore. Questione ridicola, visto che quegli stessi atenei britannici intrattengono ottimi rapporti con paesi antidemocratici e retti da dittature oppressive. Negli atenei israeliani insegnano docenti di tutte le nazionalità e di tutte le religioni. E Israele è una grande democrazia». Chissà se i firmatari di quell'ennesimo appello hanno riflettuto fino in fondo su questo passaggio che non è esattamente un dettaglio insignificante.

(Corriere della Sera, 30 ottobre 2015)


Amnesty, il Nobel per la Pace che trasforma Israele in aggressore

L'esercito israeliano è accusato dall'organizzazione non governativa di mettere i coltelli nelle mani dei terroristi.

di Giulio Meotti

ROMA - Durante la Seconda Intifada, Amnesty International accusò Israele di "crimini di guerra" a Jenin (accusa poi rivelatasi falsa). Nel 2006, durante la guerra di Libano in cui lo stato ebraico si difese dall'aggressione di Hezbollah, Am- DI Gluuo MEarn nesty produsse più documenti contro Israele che sul genocidio del Darfur allora in corso. Nei documenti di Amnesty, proteggere gli israeliani dai kamikaze con la barriera difensiva è diventato "apartheid". E durante la guerra a Gaza contro Hamas, Amnesty è arrivata a chiedere all'Amministrazione Obama di "sospendere immediatamente gli aiuti militari a Israele". Ma è durante questa Terza Intifada dei coltelli che il premio Nobel per la Pace, l'ammiraglia dell'umanitarismo occidentale con due milioni di iscritti e settanta sedi in tutto il mondo, ha forse raggiunto la vetta dell'assurdo.
   Amnesty ha condannato Israele per l'uccisione dei terroristi palestinesi che hanno attentato alla vita dei civili israeliani, definendole "esecuzioni extragiudiziali". Lo ha detto Philip Luther, direttore della sezione per il medio oriente della celebre ong. "L'uso letale della forza dovrebbe essere impiegato solo quando è assolutamente necessario per proteggere la vita", recita il rapporto di Amnesty. "Invece stiamo sempre più assistendo alle forze israeliane che hanno violato gli standard internazionali sparando per uccidere in situazioni in cui è del tutto ingiustificato. Le forze israeliane devono porre fine a questo modello di uccisioni illegali e trascinare tutti i responsabili di fronte alla giustizia". Amnesty accusa Israele persino di aver deliberatamente messo dei coltelli nelle mani degli attentatori palestinesi, citando anonimi "testimoni".
   Il dipendente di Amnesty responsabile di questa "ricerca" è Jacob Burns, già coinvolto nella "Piattaforma per Gaza" di Amnesty, che afferma che centinaia di terroristi uccisi a Gaza erano civili innocenti. Come spiega l'organizzazione Ngo Monitor, l'altra "ricercatrice" di Amnesty coinvolta è Deborah Hyams, il cui curriculum di attivista anti israeliana ha previsto anche la sua trasformazione in "scudo umano" a Beit Jala nel 2001. L'altra attivista, Saleh Hijazi, ha lavorato nell'ufficio relazioni pubbliche dell'Autorità palestinese e nella ong Another Voice, il cui slogan è stato "Resistere! Boicottare! Siamo l'Intifada".
   Ma non c'è soltanto Amnesty. E' l'intero apparato delle ong umanitarie ad aver trasformato Israele nell'aggressore e i terroristi palestinesi nelle sue vittime indifese. I dossier di queste ong sono sempre più decisivi nei rapporti contro Israele alle Nazioni Unite e le loro geremiadi portano spesso il timbro dell'Unione europea. Profondo è l'impatto che hanno avuto poi sulla campagna di disinformazione ai danni di Israele che ha dilagato su tutta la stampa europea. "Queste dichiarazioni sono fondamentali per la tattica delle ong politicizzate che cercano di criminalizzare l'auto difesa di Israele", ha scritto il professor Gerald Steinberg, presidente di Ngo Monitor. "Le campagne delle ong sono un altro esempio di false accuse che demonizzano Israele, nutrono il boicottaggio e preparano il terreno per casi legali, la lawfare"', ha aggiunto. Un gruppo di ong lautamente fmanziate dai paesi membri dell'Unione europea, tra cui B'Tselem, Adalah, Physicians for Human Rights e Yesh Din, ha appena denunciato "l'uso delle armi da fuoco per uccidere i palestinesi".
   Human Rights Watch, il cui pregiudizio anti israeliano è stato più volte denunciato, sostiene di aver "documentato l'uso illegale della forza da parte delle forze di sicurezza israeliane". Il suo direttore, Kenneth Roth, ha twittato: "Horrible deadly cycle: 'lone wolf' Palestinian attacks, excessively lethal Israeli response". Non ci dovrebbe essere bisogno di traduzione. Anche nel linguaggio perverso di un Nobel per la Pace che ha trasformato gli ebrei in aggressori e i terroristi in astanti inconsapevoli.
   
(Il Foglio, 30 ottobre 2015)


Firenze - Film anti Israele, l'ira del rettore

Niente stop, acceso confronto tra studenti e Tesi: «Vi tolgo l'aula autogestita».

Samantha Comizzoli: “Io ho una speranza, grossa, che gli ebrei smettano di essere vittime di israele e che fermino questo progetto folle, il più folle della storia, che è israele, perché (proprio nella storia) ha fatto e sta facendo troppe vittime.”
FIRENZE - Il rettore Alberto Tesi aveva chiesto agli studenti di non proiettarlo , ma ieri pomeriggio, allo spazio autogestito dell'Università di Novoli, quel documentario è stato fatto vedere lo stesso e l'evento si è tenuto regolarmente. Al centro della disputa tra il rettorato e un gruppo di studenti c'è un docufilm sul conflitto israelo-palestinese. Le polemiche sono esplose non tanto per i suoi contenuti - un racconto in presa diretta degli scontri nei territori palestinesi - quanto per il titolo: «Israele, il cancro». Per spiegare poi il contenuto si parla di «occupazione nazista israeliana della Palestina». Un titolo, secondo il rettore (contattato nei giorni scorsi anche dall'ambasciata israeliana), «estraneo a quel confronto fra prospettive e analisi differenti che viene riservato di solito alle iniziative, anche studentesche, organizzate negli spazi dell'Ateneo» .
   Per questo Tesi non ha escluso agli studenti la possibilità che lo spazio autogestito venga revocato. «Nel titolo del mio film non c'è scritto che Israele è il cancro - ha precisato la regista, presente alla proiezione di ieri - "Il cancro" del titolo si riferisce al cancro mentale provocato dall'occupazione mentale di Israele nei territori palestinesi». Per convincere gli studenti a non proiettarlo, il rettore si è presentato direttamente nella stanza della proiezione poco prima dell'inizio dell'evento.
   Insieme a lui, altri professori tra cui il sociologo Carlo Sorrentino, il preside di giurisprudenza Paolo Capellini e il direttore del dipartimento di Scienze per l'economia e le imprese Gaetano Aiello. Tutti concordi nel ritenere il titolo del documentario «offensivo nei confronti dello Stato di Israele», aldilà di quelle che possono essere le posizioni politiche e umanitarie sul conflitto. I cinquanta studenti presenti (tra loro anche un ragazzo israeliano), hanno invitato il rettore e gli altri professori a non giudicare il documentario soltanto dal titolo: «Guardate il contenuto del film, prima di impedirne la proiezione».
Il confronto tra studenti e Tesi, inizialmente pacato, si è leggermente acceso a poco a poco. Nel corso dell'animato confronto, gli studenti hanno invitato i professori ad unirsi alla visione, per poi discuterne tutti insieme. «Non si può bloccare l'evento soltanto perché il titolo del film può apparire provocatorio» hanno ripetuto gli studenti ai professori.
   Ma rettore e docenti, fermi sulle loro posizioni, hanno lasciato lo spazio autogestito, tra qualche fischio e qualche applauso sarcastico dei giovani universitari. «In questo modo - hanno detto i professori - viene meno il patto di fiducia che si è instaurato con gli studenti per la gestione di questo spazio. Avevamo diffidato gli studenti dal proiettare il film, ma sono andati avanti per la loro strada. È uno spazio pubblico e in un luogo pubblico anche la forma ha una dimensione di sostanza».
   Dopo che i docenti hanno lasciato definitivamente lo spazio autogestito, è partita la proiezione, dove si vedono i recenti scontri in Cisgiordania tra esercito israeliano e palestinesi. Nell'introduzione al film la regista Samantha Comizzoli ha raccontato la sua recente esperienza in Palestina, dove è stata arrestata per alcuni giorni dall'esercito israeliano (e poi espulsa da Israele) mentre stava manifestando assieme ad altre persone contro la presenza dell'esercito nei territori palestinesi.

(Corriere fiorentino, 30 ottobre 2015)

*

Film contro Israele a Firenze: "Umiliante per il popolo ebraico e l'Università"

«Brutta pagina per la città di Firenze. Con amarezza apprendiamo che anche oggi avrà luogo l'ennesimo insulto al popolo ebraico ed all'Università. È davvero inaudita ed indecente la proiezione al Polo di Novoli di documentari di chi spalleggia il terrorismo militante». Lo dichiarano il capogruppo di Forza Italia in Consiglio comunale, Jacopo Cellai, assieme al Capogruppo al Quartiere 5, Guido Castelnuovo Tedesco, a proposito dell'annunciata proiezione del documentario "Israele - Il cancro", produzione indipendente di Samantha Comizzoli, estimatrice di Hamas e di altre organizzazioni palestinesi.
   «Ci sentiamo di ribadire che un simile documentario esprime tutta l'inopportunità e la grave faziosità nel voler delegittimare l'esistenza dello Stato di Israele e del suo popolo - spiegano Cellai e Castelnuovo Tedesco - e per mistificare anni di terribili conflitti, buttando così gratuitamente benzina sul fuoco in modo disdicevole e lesivo della dignità dell'Università di Firenze quale luogo d'incontro del sapere e della vita».
   «Avevamo apprezzato molto la posizione del Magnifico Rettore nel merito di questa vicenda - proseguono Cellai e Castelnuovo Tedesco - ed anche se ora come ora non ci risulta che si sia riusciti ad evitare una iniziativa i cui contenuti riteniamo essere gravi, vogliamo essere fiduciosi fino all'ultimo. E soprattutto chiediamo con forza che simili episodi non possano e non debbano più accadere».
   Gli esponenti azzurri rimarcano ancora come l'organizzazione terroristica Hamas, riconosciuta come tale a livello internazionale, di cui Samantha Comizzoli è dichiaratamente estimatrice, proponga la cancellazione dello Stato di Israele, professando altresì la "non esistenza di una soluzione alla questione palestinese se non nella Jihad", nonché il vergognoso negazionismo in merito all'Olocausto degli ebrei.
   «Esprimiamo la nostra solidarietà alla comunità ebraica fiorentina ed al popolo di Israele. Siano fiduciosi - concludono Cellai e Castelnuovo Tedesco - che non tutti la pensano come i Collettivi fiorentini e la signora Comizzoli, bensì apprezzano il confronto e non l'indottrinamento come solida base per coltivare una propria opinione, così come d'altronde è indispensabile quando si parla di conflitti così terribili ed annosi».

(#gonews.it, 29 ottobre 2015)


Eurolega: Dinamo ancora sconfitta. A Tel Aviv finisce 79-63 per il Maccabi

Abulica e assente nelle ultime due frazioni la Dinamo che ha realizzato appena 14 punti sia nel terzo che nel quarto tempo subendone 22 (in ciascun quarto) dal Maccabi che non è apparsa stasera la squadra irresistibile di una volta.
La squadra ha ancora una volta sofferto nell'attacco alla difesa schierata.
Ma nella prima metà del match la Dinamo aveva mostrato di poter competere alla pari riuscendo a recuperare anche alcuni momenti di defaillance dopo essere stata essa stessa in vantaggio anche di sette lunghezze.
Sorretta al tiro solo da Eyenga (21 punti per lui con 7/10 da 2 e 1/2 da 3), la Dinamo è mancata in alcuni uomini particolarmente attesi oggi.
Logan schiacciato da un marcamento asfissiante ha avuto pochi spazi per il tiro e alla fine ha realizzato 11 punti con un 0/2 da 2, 2/8 da 3 e 5/5 nei liberi; è mancato anche Alexander appena 8 punti per lui (3/12 da 2 e 0/3 da 3) e presto gravato dai falli.
Ancora assente anche Petway ( senza punti a referto) e deludente l'altro ex di turno, Haynes: per lui 7 punti con un 2/8 da 2 e 0/2 da 2.; mentre Varnado, schierato a sorpresa nel quintetto d'avvio ha chiuso con 11 punti (5/10 da 2).
Nel Maccabi grande prova di Smith (22 punti con 5/7 da 3 e 2/5 da 2); 12 punti per Randle, 11 per Landesberg e Mbakwe (15 rimbalzi); 10 per Ohayon (5/5 da 2).
La differenza i gialli di Tel Aviv l'hanno fatta poi nei rimbalzi sovrastando la Dinamo: 44 per il Maccabi, 29 per i sassaresi che sono attesi da un altra trasferta in Eurolega contro il Malaga.
Nella giornata odierna nel girone D della Dinamo successo del CSKA Mosca sul Bamberg per 83 a 77.
La Dinamo è ora l'ultima solitaria in classifica a zero punti.

(Unione Sarda, 29 ottobre 2015)


Arriva Rohani. L'ambasciatore israeliano: l'Italia non pensi solo ad affari

di Elisa Pinna

ROMA - Gli affari sono affari ma, nel caso della prima visita in Europa del presidente iraniano Hassan Rohani, Israele si augura che l'Italia - insieme agli altri Paesi europei - sappia mantenere una posizione politica "molto coerente" verso Teheran, non dimenticandosi il ruolo "destabilizzante" dell'Iran in Medio Oriente, le continue minacce di distruzione dello Stato ebraico e le violazioni dei diritti umani. Rohani sarà il 14 e il 15 novembre prossimi in Italia, prima tappa di un suo viaggio europeo che lo porterà poi anche a Parigi. A Roma, oltre al presidente Mattarella e al premier Renzi, incontrerà papa Francesco, come confermato oggi dall'ambasciata iraniana presso la Santa Sede, e sarà il secondo capo di Stato della Repubblica islamica - dopo Mohamed Khatami nel 1999 - a varcare il Portone di Bronzo vaticano. "Capisco il desiderio di ciascuno di fare affari, ma spero che in Europa ciascuno sia molto coerente", ha sottolineato l'ambasciatore israeliano a Roma Naor Gilon oggi in un Forum all'ANSA con il direttore Luigi Contu. L'Iran, ha spiegato Gilon, è un elemento "destabilizzante" in Medio Oriente e l'accordo sul nucleare iraniano aggrava "l'instabilità" in quanto, senza eliminare le capacità e le strutture degli ayatollah per costruire una bomba atomica, libera Teheran da pressioni economiche e militari.
   L'ambasciatore si è detto tra l'altro assolutamente contrario ad invitare l'Iran al tavolo delle trattative sulla Siria, come avverrà già domani a Vienna. "Ciò significa fra l'altro - ha detto - considerare Assad (sostenuto da Teheran, ndr) parte della soluzione, mentre è invece parte del problema". L'ambasciatore israeliano ha sottolineato poi come "ogni settimana" esponenti di alto livello iraniani ripetano che il loro obiettivo è la distruzione dello Stato ebraico, ha ricordato il ritmo di mille esecuzioni capitali all'anno in Iran, e la persecuzione di minoranze religiose, come i Baha'i, di cui non è tollerata l'esistenza. "Spero e mi aspetto che tutti questi temi siano posti nei colloqui con Rohani", ha sottolineato. Quanto al nuovo ciclo di violenza scoppiato in Israele e nei territori, Gilon ha affermato di ritenere che non si possa parlare di Terza Intifada e che, anzi, gli assalti e le aggressioni "siano sempre più limitati". "Nessuna delle parti in campo vuole una Terza Intifada", anche se rimane a suo avviso l'incognita di una nuova generazione di palestinesi cresciuta nella "cultura dell'odio" antiebraico: l'80% dei palestinesi "nutre sentimenti antisemiti", ha ricordato. "E quando lo scontro si trasforma in etnico e religioso, è molto più difficile trovare una soluzione". Solo nei luoghi controllati da Israele, ha aggiunto l'ambasciatore,"tutti possono pregare liberamente". Anche per tale motivo, Gilon ha criticato il tentativo dell'Unesco, "accantonato all'ultimo momento" ma "su cui l'Italia si stava astenendo", di passare una mozione per riportare lo status quo religioso di Gerusalemme a prima del 1967, ovvero a quando gli ebrei non potevano andare a pregare al Muro del Pianto, che era sotto controllo giordano. L'ambasciatore ha comunque ribadito che Israele si impegna a rispettare e a difendere il fatto che sulla Spianata delle Moschee possano pregare solo i musulmani.
   Gilon ha difeso, d'altro canto, l'esercito israeliano quando spara sugli accoltellatori. "Non c'è alternativa" per fermarli, ha spiegato. Del resto, "chi si appresta ad accoltellare un militare o un civile israeliano non può non prendere in considerazione la possibilità di non uscirne vivo". Tracciando infine un bilancio dei suoi anni di ambasciatore a Roma, Gilon ha parlato di "ottimi rapporti" tra Italia e Israele ed ha elogiato la collaborazione su Expo: "Tutto ha funzionato molto bene". "In Italia sono stato viziato. Sarà difficile scegliere un'altra destinazione per me", ha scherzato poi riferendosi alla scadenza del suo mandato nell'estate del 2016.
   Quanto a Fiamma Nirenstein, giornalista ed ex parlamentare del Popolo della Libertà indicata già come suo successore, Gilon si è limitato a dire che "la doppia nazionalità per un ambasciatore israeliano è permessa in molti Paesi. Non è niente di irregolare, come norma generale".

(ANSA, 29 ottobre 2015)


E' morto Franz Thaler, il sudtirolese che disse no al nazismo

Giovanissimo venne internato a Dachau. Il suo libro "Dimenticare mai" è considerato un classico. Aveva 90 anni, si è spento in casa di riposo a Sarentino. Era stato omaggiato dal presidente Mattarella e da Luis Sepulveda.

Franz Thaler
BOLZANO - Lutto in Alto Aduige. E' morto Franz Thaler, figura notissima in Alto Adige della lotta al nazismo. Aveva da poco compiuto 90 anni, si è spento serenamente nella casa di riposo di Sarentino. Decoratore e artigiano, giovanissimo era stato internato nel lager di Dachau per essersi rifiutato di optare per la Germania. Faceva parte dei cosiddetti "Dableiber", ovvero i sudtirolesi che si rifiutarono di giurare ad Hitler. Raccontò la sua esperienza nel libro "Dimenticare mai", considerato un classico della "letteratura concentrazionaria". Di recente il presidente della Repubblica Mattarella gli ha reso ufficialmente omaggio, sottolineando, come "Dimenticare mai riaffermi i valori di civiltà e umanità, che insegnano il ripudio dell'indifferenza e di ogni forma di estremismo". A Thaler, Luis Sepulveda ha dedicato un capitolo di un suo libro, e di lui ha detto: "Conosciamo la violenza della dittatura, condividiamo il medesimo sogno di pace e di fratellanza"
Lo scorso agosto aveva compiuto 90 anni. Ogni volta che veniva chiamato a raccontare la sua storia di resistente silenzioso e inflessibile, condannato minorenne a 10 anni di lager per aver rifiutato la chiamata alle armi nell'esercito di Hitler, abbassava i suoi occhi azzurri e sembra scusarsi di essere ancora lui il protagonista.
Franz Thaler è un esempio che andrebbe ricordato anche a Bolzano con la stessa ufficialità della nota quirinalizia. Ma non è stato così. Non che lo si dimentichi, quello no. Gli storici di "Politika" il giorno del suo compleanno lo hanno nominato cittadino dell'anno. Bolzano gli ha offerto la cittadinanza onoraria. A lui e a Mayr Nusser, l'altro sudtirolese che "disse no a Hitler".
Thaler tornò vivo, Mayr Nusser no. Ma adesso sembra che se ne ricordino solo i Verdi e in generale i sudtirolesi critici. È molto importante che lo facciano. Che tengano accesa la fiaccola. Ma sarebbe altrettanto importante che non restassero soli. E invece spesso lo sono. E' stato Florian Kronbichler a rendere pubblica per primo la lettera di Mattarella dedicata a Franz. È stato Poldi Steurer a ricordarlo nei suoi 90 anni. È il centro bolzanino per la pace a far rileggere ogni tanto il suo libro "Dimenticare mai". E invece lo si dimentica ogni tanto. Eppure è un esempio e non solo perché "fece la cosa giusta al momento giusto e poi tornò a casa sua a fare ricami" come scrisse Sepulveda.
Thaler è l'esempio di come il quotidiano, la semplicità dei valori e l'autenticità dei sentimenti umani possano essere anch'essi il luogo dove si compiono scelte decisive tra il male e il bene. La sua resistenza silenziosa è alla radice di ogni valore umano. Come quella di Mayr Nusser dei valori cristiani.
Thaler si colloca sul bivio allora (nel 1944) come ora, tra il Sudtirolo delle bandiere e delle ideologie, degli inflessibili confini mentali e fisici e quello del lavoro, della tolleranza e dell'accoglienza montanara, legato ad un cristianesimo profondo che privilegia il legame con la terra, il "suolo", rispetto a quello col sangue. Ha scelto il secondo Sudtirolo, Franz Thaler.

(Alto Adige, 29 ottobre 2015)


Calcio - Negli ultimi giorni l'Ajax è stata vittima di due episodi di carattere antisemita

Quanto avvenuto durante il match col Vitesse ha coinvolto anche Cruyff.

Nei giorni scorsi l'Ajax è stato vittima di due episodi di antisemitismo. Mercoledì sera, in occasione del match di Coppa d'Olanda contro il Feyenoord, il pullman della squadra dei Lancieri al suo arrivo nei pressi dello stadio 'De Kuip' è stato salutato dai tifosi avversari con slogan come "Gli ebrei al gas olè olè" o "Hamas, Hamas, gli ebrei al gas". L'Ajax e i suoi tifosi sono chiamati "gli ebrei" dagli avversari, per via del fatto che il club è originario della zona dell'antico ghetto ebraico di Amsterdam.
Ma un fatto simile avenuto qualche giorno prima ha avuto grande clamore anche in Spagna, perchè è stato 'toccato' Jordan Kruyff, una delle leggende del Barcellona e dell'Ajax. In occasione del match di campionato contro il Vitesse, nello scorso weekend, infatti, un tifoso della squadra avversaria ha esposto un cartello con la scritta "JHK", acronimo per "Joden Hebben Kanker".
"Gli ebrei hanno il cancro", questo il significato del cartello, un messaggio di chiaro stampo antisemita. E il riferimento era chiaramente a Cruyff, che nei giorni precedenti aveva reso noto di essere malato di cancro appunto.
Lo stesso Vitesse si è dichiarato esterrefatto dall'episodio e sta attivamente collaborando con le autorità per identificare l'autore del cartello incriminato. "Facciamo un appello ai nostri tifosi per aiutarci ad identificare questa persona", hanno dichiarato i dirigenti del Vitesse.

(Goal.com, 29 ottobre 2015)


"Mangiare all'ebraica". Storie di cibo e di luoghi

Documenti sul forno delle Azime e sullo jus di macellare la carne in ghetto Vendita di carne kasher agli ebrei e taref ai cristiani nelle varie botteghe.

 
L'antico ghetto di Ferrara
Nella sede dell'Archivio di Stato di Ferrara, in corso della Giovecca 146, l'esposizione "Mangiare all'ebraica. Produzione e consumo del cibo, a Ferrara e non solo", allestita in collaborazione con la Fondazione Meis-Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah. Inaugurata l'11 ottobre, in occasione dell'evento "Domenica di carta 2015", dall'arch. Cristina Sanguineti, direttore dell'Archivio di Stato, dall'ing Riccardo Calimani, presidente del Meis, e dall'arch. Carla Di Francesco, consigliere del Meis e dirigente Mibact, rimarrà aperta sino al 31 ottobre negli orari di apertura al pubblico dell'Archivio di Stato.
   Considerato l'interesse suscitato dall'esposizione - che racconta storie di cibo, persone e luoghi - è stata organizzata una seconda visita guidata per oggi alle ore 16.00. La visita verrà nuovamente effettuata dalle dott.sse Laura Graziani e Sharon Reichel, che rispettivamente per l'Archivio di Stato e per il Meis hanno curato la selezione di preziosi e in gran parte inediti documenti.
   Il percorso espositivo proposto dal Meis va dalle Haggadot di Pesach, la Pasqua ebraica, dove le famiglie si ritrovano a festeggiare l'uscita degli ebrei dall'Egitto e in cui i cibi consumati rivestono un forte carattere simbolico, alla festa di Sukkot (la Festa delle Capanne), in cui la condivisione della tavola è parte integrante della celebrazione, fino al francobollo che celebra l'ingegner Alfred Wiesner, inventore del sistema di produzione del gelato Algida.
   L'Archivio di Stato espone invece moltissimi documenti ferraresi sul forno delle Azime e sullo jus di macellare la carne in ghetto e la conseguente vendita di carne kasher agli ebrei e taref ai cristiani e, accanto ad essi, l'importantissimo appalto del tabacco, due studi con archivio, e botteghe varie, oltre a un'elaborazione grafica delle mappe catastali del 1828 e del 1877 che evidenzia l'evoluzione del fitto innervamento del commercio nell'area del ghetto.
Per informazioni e prenotazioni tel. 0532-206668, as-fe@beniculturali.it

(la Nuova Ferrara, 28 ottobre 2015)


Martusciello: sbagliato il boicottaggio degli accademici Gb contro Israele

NAPOLI - "L'appello pubblicato dal Guardian firmato da trecento accademici britannici che dicono di aver iniziato il boicottaggio di Israele e delle sue istituzioni accademiche è sbagliato e velleitario". Così Fulvio Martusciello, europarlamentare e presidente della Delegazione per le relazioni con Israele.
"Un boicottaggio dagli effetti pratici - aggiunge l'esponente di Forza Italia - che intende persuadere le istituzioni accademiche a rompere le relazioni con gli atenei israeliani, convincere gli accademici israeliani a non recarsi nello stato ebraico e a non pubblicare articoli su riviste israeliane. Quale sarà il prossimo passo di questo comitato: bruciare libri israeliani nella Bebelplatz?".

(ANSA, 29 ottobre 2015)


La Dinamo Basket Sassari a Tel Aviv per una notte da leggenda

Alle 20 grande sfida al Maccabi, chi perde resta da sola all'ultimo posto.

di Roberto Sanna

SASSARI - È il giorno dello sbarco in un'altra arena intrisa di leggenda, quella del Maccabi Tel Aviv. Uno dei fortini più celebri d'Europa, dove i fans sostengono strenuamente quella che è considerata la squadra di una nazione. Il Maccabi ha fatto anche la storia del basket europeo: 51 titoli nazionali, cinque vittorie in Euroleague (la prima nel 1977 in finale contro Varese) più una nella Suproleague del 2001, l'anno del grande scisma (con la Virtus Bologna che vinse l'Euroleague) prima della riunificazione della massima competizione del basket continentale.
Anche questo team è stato accompagnato per anni da un alone di leggenda grazie a giocatori come Miki Berkowitz, Motti Aroesti, Doron Jamchy, Earl Williams and Aulcie Perry, ma passata quell'epopea il Maccabi ha saputo sempre interpretare un ruolo di primo piano guidata da Sarunas Jasikevicius, Anthony Parker ("back to back" nel 2004 e 2005) vincendo il titolo due anni fa da assoluta outsider abbattendo nei quarti l'Armani Milano e poi nella Final Four del Forum il Cska Mosca e il Real Madrid. Quest'anno, come la Dinamo, ha perso le prime due partite ma non è mai una squadra che si iscrive all'Euroleague per il gusto di partecipare.

 Gli intrecci
  Questa è la partita degli ex: David Logan ha giocato nel Maccabi nel 2012/13, MarQuez Haynes e Joe Alexander appena lo scorso anno. Non solo: il play del Maccabi Taylor Rochestie nella stagione 2013/14 cominciò a Siena ma dopo 13 partite fu tagliato e al suo posto arrivò da Milano proprio MarQuez Haynes. E a proposito di Rochestie, l'anno scorso giocava a Novgorod e fu il migliore nelle due sfide contro la Dinamo in Euroleague. Anche uscendo dal generale ed entrando nel particolare, ci sono tante cose da raccontare oggi. Giusto restando al Maccabi, ci sono due ex italiani di grandw qualità: la guardia Devin Smith, che vinse da Mvp la Coppa Italia 2008 con l'Avellino. E il pivot Trevor nel 2013/14 viaggiava a 10 rimbalzi di media nella Virtus Roma dove aveva come compagno di squadra Lollo D'Ercole. Da segnalare anche un campione Nba, il play Jordan Farmar, che per anni ha fatto la spola tra i Lakers (anello nel 2010), i Clippers e i Nets e l'Europa.

 La partita
  Il Banco arriva sulla spinta della bella vittoria di Varese ed è il modo migliore per giocare in un palazzetto dove il fattore campo è sempre un fattore importante. Il match di lunedì potrebbe aver dato la spinta giusta ad Haynes, che ha giocato la miglior partita in maglia Dinamo, e ritrovare un giocatore così è fondamentale per la Dinamo. Resta sempre da verificare la tenuta della coppia Varnado-Petway, posto che Alexander il suo contributo lo assicura sempre e anche di qualità. Varnado, dopo la paura per la botta al costato che l'ha messo out a Varese dopo 6', dovrebbe essere disponibile. Petway resta un mistero: probabilmente gli serve la partita giusta per sbloccarsi, ma lui non manda segnali.
La mossa di farlo partire dalla panchina lunedì non era una punizione ma un modo per togliergli pressione, se questo davvero è il suo problema. Ha funzionato solo a metà, nel senso che a giovarne è stato Alexander che, in campo con maggiore continuità (vista anche l'assenza di Varnado) ha carburato alla grande. Petway è rimasto invece lo stesso e rischia di diventare un grosso problema perché, se per il campionato si può ragionare in termini di tempo differenti, in Euroleague i giochi si fanno fino alla fine di dicembre e ogni partita è preziosa. Il Banco cerca ancora la sua prima vittoria in una prima parte quasi tutta in trasferta e, dopo l'harakiri di Istanbul, deve provare a ritagliarsi un'altra chance. Tanto più che, perdendo, scivolerebbe da sola all'ultimo posto e non è mai una bella situazione.

(La Nuova Sardegna, 29 ottobre 2015)


Il nome di Sansal cassato dal Premio Goncourt

E' un grande romanziere ma un tantino "islamofobo".

di Giulio Meotti

Boualem Sansal
Molly Jong-Fast, la cui madre Erica ha fatto della letteratura scandalosa un mestiere, ha scritto che il politicamente corretto è un "nuovo maccartismo" nell'establishment letterario e richiede, per farsi prendere sul serio, "argomenti come i bambini che muoiono di fame in Africa". La conferma arriva dalla querelle attorno ai premi letterari comminati in queste settimane.
   "2084" è l'evento della rentrée letteraria parigina. Il romanzo, uscito per Gallimard, era dato favorito nei tre maggiori riconoscimenti letterari di Francia: Goncourt, Renaudot e Médicis. Ma l'autore, lo scrittore franco-algerino Boualem Sansal, alla fine è sparito misteriosamente da tutti e tre. Indegno di figurare persino tra i finalisti. Non gli ha portato bene il bacio di Michel Houellebecq, che ospite della trasmissione "On n'est pas couché" su France2 ha dichiarato che "scriverebbe qualcosa di peggio" di "Soumission" se dovesse ricominciarlo da zero, evocando "2084. La Fin du monde" di Sansal.
   Cento anni dopo la distopia orwelliana, Sansal ci presenta un mondo governato dagli islamisti, dove il Grande Fratello è sostituito da un nuovo dio, Yölah, e da un nuovo profeta, Abi. Nel suo regno, l'Abistan, non si critica più, non si ama più, non si pensa più, c'è "solo la Sottomissione". Dominano slogan binladenisti come "la morte è la vita". Tutto il vecchio mondo è scomparso, come in un Isis ante litteram: la lingua, i libri, i musei, le posate, i vestiti...
   Nella prefazione di "Quarto", Sansal ha scritto: "La mia vita personale è stata davvero devastata dagli islamisti". Nella sua casa a Boumerdès, sulla costa algerina, Sansal riceve ogni giorno lettere di minacce, come "ti faremo la pelle" e "non meriti di vivere". Sua moglie Naziha, che insegna matematica in una scuola di Boumerdès, viene accusata dai genitori degli alunni di "contaminare" i bambini con il suo "ebraismo". E' costretta a dimettersi. Scriveva ieri Le Point che "a settembre si mormorava nell'ambiente letterario che Boualem Sansal, l'autore di 2084', non avrebbe potuto ottenere il graal francese: il Goncourt. Alcuni studiosi considerano islamofoba' la sua favola politico-religiosa".
   Lo stesso succede in Germania ad Adonis, il più importante poeta arabo vivente, accusato di essere un "collaborazionista" di Assad e un "islamofobo". Il prossimo 20 novembre Adonis deve ricevere l'Erich-Maria-Remarque-Friedenspreis. Impressionante la campagna contro di lui di traduttori e giornalisti, come Navid Kermani, che ha appena ricevuto il prestigioso Friedenspreis, il "premio per la pace" degli editori, e che avrebbe dovuto tenere la laudatio di Adonis. Si è rifiutato di farlo.
   Sempre in Francia, Eric Zemmour, autore di "Le Suicide Francais", due giorni fa ha ritirato il Prix Chateaubriand, mentre fuori dalla mediateca di Combourg si manifestava contro di lui in nome dei "valori della Repubblica" e il presidente della giunta regionale, il socialista Jean-Luc Chenut, ritirava la sovvenzione al premio in segno di protesta. Jacques Schuster sulla Welt non avrebbe potuto sintetizzare meglio il volto di questo orrendo conformismo: "Chiunque creda che l'arte non debba contraddire la morale prevalente deve essere stato felice quando i talebani hanno distrutto i Budda di Bamiyan".

(Il Foglio, 29 ottobre 2015)


Expo Israele - Dal manager della memoria al social anti-solitudine, le 7 start up per anziani

di Alberto Magnani

A volte, l'età gioca degli scherzi. Pericolosi: negli Stati Uniti, secondo alcune stime, 125mila anziani perdono la vita ogni anno perché si sono dimenticati di assumere le medicine prescritte. E se ci fosse un "manager della memoria" che fa ricordare le scadenze ed evita i rischi delle amnesie? È lo spunto che ha ispirato "Mom", Memory Optimizing Manager: il progetto vincente tra i finalisti di Global Youth Startup Awards, il contest organizzato da Ernst&Young in collaborazione con Hype (Youth start up fondation). La sfida: individuare esperimenti di imprenditoria giovanile per l'inclusione sociale degli anziani. Un terreno che ha visto fronteggiarsi 36 scuole da 22 paesi, fino alla scrematura di sette concorrenti in arrivo da Israele, Italia, Macedonia, Montenegro, Romania e Stati Uniti.
  Il premio è stato consegnato da Donato Iacovone, managing partner di Ernst&Young per Italia, Spagna e Portogallo, al padiglione israeliano di Expo.

 Mom, il «manager per la memoria»... digitale
  Mom, ideato da un team di giovanissimi della St Clemente High School (Usa), è composto da una doppia anima hardware e software: la seconda, una app, si installa su smartphone o pc e "dialoga" con una serie di bottoni distribuiti per l'abitazione. Ogni volta che si avvicina una scadenza, da una visita medica all'assunzione di un farmaco, scatta un suono a ricordarlo. Dopo la vittoria nel concorso di E&y e Hype, l'iniziativa accederà a un programma di tutoraggio sostenuto dalla European Alliance for Innovation con la chance di entrare a contatto con una platea di investitori ed esperti di marketing.

 Il social anti-solitudine e la mano robot
  Il resto del podio è occupato dal team israeliano ed italiano, autori di due progetti dal titolo quasi identico: Hand N Hand e Handy Hand. Una coincidenza che non si rispecchia nei contenuti, del tutto diversi tra loro. Hand N Hand è un «social network dell'assistenza» che permette agli anziani di selezionare il volontario più adatto alle proprie esigenze da una app per smartphone. La griglia di parametri simile a quella di qualsiasi servizio on demand: vicinanza della postazione, disponibilità in una certa fascia oraria, tipologia di aiuto richiesto, come ad esempio la spesa o le pulizie domestiche. Come fidarsi di un estraneo, soprattutto se scelto da dispositivi che non appartengono sempre alla routine degli over 70? Il programma prevede un servizio di rating che permette di dare un voto al volontario, come le recensioni su BlaBlacar o Airbnb.
  Più ambizioso il disegno di Handy Hand, messo a punto dalla squadra italiana in corsa: si parla di una mano robotica, pensata come supporto per chi soffre di problemi di articolazione. Secondo la descrizione del team, non si tratta di «sostituire l'arto umano ma di rinforzarne la presa». Il dispositivo può essere impostato via wireless e, secondo le previsioni del progetto, dovrebbe aggirarsi su un prezzo di 200 euro. Il costo è ammortizzato dall'utilizzo di stampanti 3D per la realizzazione dei materiali. Le altre iniziative sbarcate alla "finalissima" di Milano? ChairWaze (Israele), un nuovo sistema per sedie a rotelle; Senior App (Romania), applicazione per evitare l'isolamento degli anziani con un sistema di comunicazione facilitato; Elderwatch, un "salvavita" a portata di polso realizzato dal team rumeno; Dan, un "robot amico" che può servire per l'assistenza 24 ore al giorno.

(Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2015)


Le telecamere di sorveglianza sulla Spianata delle moschee dividono re Abdallah e Abu Mazen

Per Amman si tratta di un «risultato importante», ma il presidente palestinese, in disaccordo con il suo ministro, parla di «re giordano caduto nella trappola israeliana».

di Maurizio Molinari

GERUSALEMME - Gerusalemme divide re Abdallah e Abu Mazen. Il motivo è l'intesa sul posizionamento di telecamere digitali sulla Spianata delle moschee, frutto della mediazione del Segretario di Stato Usa John Kerry fra Giordania e Israele. L'accordo prevede l'attivazione di un sistema di riprese, 24 ore su 24, sulla Spianata e dentro le moschee della Roccia e di Al Aqsa per vegliare sul «rispetto dello status quo» concordato fra Giordania e Israele nel 1967, in base al quale «i musulmani vi pregano e i non musulmani lo visitano».
Per Amman si tratta di un «risultato importante», Washington lo giudica «utile a calmare le violenze» e il premier israeliano Netanyahu assicura «piena collaborazione». «Le telecamere saranno attivate a giorni - affermano fonti di Amman - e le immagini saranno accessibili online». Ma il presidente palestinese Abu Mazen è in disaccordo e il suo ministro degli Esteri, Riad Malki, parla di «re giordano caduto nella trappola israeliana».
Per Saeb Erakat, capo negoziatore palestinese, «Israele userà le immagini per arrestare la nostra gente». Adnan Abu Odeh, consigliere della corona hashemita sin dai tempi di re Hussein, reagisce definendo «ingiuste, senza fondamento e inappropriate» le critiche palestinesi. Ma Ramallah insiste: «L'accordo sulle telecamere non ci convince». La vicenda mette in evidenza i contrasti fra il "Waqf" giordano - l'Ente religioso che ha la gestione civile della Spianata delle moschee - e l'Autorità nazionale palestinese.

(La Stampa, 28 ottobre 2015)


Madre di un terrorista palestinese in tv con un coltello: orgogliosa di mio figlio

 
Ha tirato fuori dalle sue vesti un coltello, brandendolo direttamente contro la telecamera dicendo di essere orgogliosa del figlio e di diventino tutti dei "martiri". E' una donna palestinese intervistata dalla tv libanese Al-Quds, madre di un terrorista ucciso nei giorni scorsi dopo aver accoltellato un soldato israeliano, tale Muhammad Shamasne. Nel corso dell'intervista la donna spiega che era al corrente di quanto stava per fare il figlio: "Non ne siamo pentiti, siamo orgogliosi di lui, non ho pianto per la sua morte, sono invece arrabbiata perché non mi ha portato con lui" dice la donna. Quando tira fuori il coltello, la giornalista si mostra evidentemente scioccata chiedendole di metterlo via immediatamente. La donna con il coltello in mano invia minacce varie ad Israele dicendo che quel coltello è per loro. All'inizio dell'intervista la donna aveva invece offerto delle caramelle alla giornalista.

(ilsussidiario.net, 28 ottobre 2015)


La spudoratezza dell'Unesco
Articolo OTTIMO!


di Maurizio Del Maschio

Alla mistificazione della storia non c'è limite. Una risoluzione di tipo politico, sfacciatamente critica nei confronti della politica israeliana riguardante Gerusalemme peraltro presentata in modo falso e pretestuoso, è stata votata il 21 ottobre scorso dall'Unesco, uno dei piccoli carrozzoni facenti parte del grande carrozzone che è l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Nel testo si chiedeva che il Muro Occidentale, detto "del Pianto" dai non ebrei, venisse considerato un'appendice facente parte integrante della Spianata delle Moschee, il cosiddetto Haram as-Sherif, il Recinto Nobile. Quindi, sotto la giurisdizione del Jerusalem Muslim Council. In realtà, esso costituisce il grande basamento fatto costruire da Erode il Grande per sorreggere la vasta area del Santuario di Gerusalemme da lui ingrandito ed abbellito fra il 19 e il 64. Da quando il Tempio fu distrutto dalle legioni romane di Flavio Tito, vincitore della prima guerra giudaica nel 70, il Muro è divenuto il luogo santo più venerato dagli ebrei, l'unico reperto rimasto dell'antico Santuario.
   Il testo, emendato della pretesa di sottrarre il Muro agli ebrei, è stato votato da 58 membri del Consiglio esecutivo dell'Unesco, con 26 voti a favore, 6 contrari, 25 astenuti e un assente. Stati Uniti, Germania, Regno Unito, Paesi Bassi, Repubblica Ceca ed Estonia sono i Paesi che hanno dato voto negativo, mentre la Francia è fra quelli che si sono astenuti.
   La risoluzione "condanna fermamente le aggressioni israeliane e le misure illegali limitanti la libertà di culto e l'accesso dei musulmani al sito sacro della Moschea Al-Aqsa". Deplora, inoltre, le "irruzioni persistenti di estremisti della destra israeliana sul sito" ed esorta Israele "a prendere le misure necessarie per impedire gli atti provocatori che violano la sua sacralità", ovviamente islamica.
   Il testo votato è stato emendato della richiesta palestinese di considerare il Muro Occidentale o "del Pianto" come parte integrante della Spianata delle Moschee. La pretesa, invece, faceva parte del primo testo stilato da Algeria, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Marocco e Tunisia e aveva suscitato
L'Unesco ha riconosciuto come parte del patrimonio musulmano due luoghi fondamentali della sto- ria ebraica: la Tomba di Rachele a Betlemme e quella dei Patriarchi
a Hevron. Una formulazione delirante.
l'opposizione di Israele e la preoccupazione della direttrice generale dell'Unesco, la bulgara Irina Georgeva Bokova. Nel testo era scritto: "la piazza al Buraq è parte integrante della Moschea Al-Aqsa". La stessa Bokova aveva reagito deplorando l'iniziativa come rischiosa, in quanto poteva essere "percepita come una modifica allo statuto della Città Vecchia di Gerusalemme e delle sue mura" e chiedendo al Comitato di "non prendere decisioni che avrebbero alimentato le tensioni sul territorio". Peraltro, l'Unesco ha riconosciuto come parte del patrimonio musulmano due luoghi fondamentali della storia ebraica: la Tomba di Rachele a Betlemme e quella dei Patriarchi a Hevron. Nel testo, sfacciatamente proposto dai summenzionati Stati arabi, i siti venivano etichettati come "palestinesi". Con 44 voti favorevoli, uno contrario e 12 astensioni, il Comitato dell'Unesco ha dichiarato che l'"Haram al-Ibrahim/Grotta dei Patriarchi e la moschea Bilal bin Rabah/Tomba di Rachele" sono "parte integrante dei territori occupati palestinesi", aggiungendo che "qualsiasi azione unilaterale delle autorità israeliane è da considerarsi una violazione del diritto internazionale".
   Una formulazione delirante, dal momento che nel primo è sepolta Rachele, la quarta delle madri del popolo ebraico, che con gli arabi non ha nulla a che fare e nel secondo sono sepolti, oltre ad Abramo padre di Ismaele considerato capostipite del popolo arabo, anche Isacco e Giacobbe, i patriarchi ebrei, oltre a Sara, Rebecca e Lea, tre delle quattro matriarche (dal momento che Rachele è sepolta a Betlemme). La mossa è stata vista da alcuni come una ritorsione alla decisione israeliana del febbraio scorso di includere la Grotta dei Patriarchi (a Hevron) e la Tomba di Rachele (fra Gerusalemme e Betlemme) in un elenco di siti del patrimonio storico nazionale destinati a ricevere finanziamenti aggiuntivi per necessari lavori di restauro e risistemazione nonché per la promozione di visite didattiche. Se la decisione di febbraio era stata spiegata dal primo ministro israeliano
   Benjamin Netanyahu come un modo per "ricollegare" gli israeliani alla loro storia, la decisione dell'Unesco viene ora denunciata dallo stesso primo ministro israeliano come un assurdo tentativo di "separare il popolo d'Israele dal suo patrimonio storico". Si è chiesto infatti: "Se non fanno parte del patrimonio ebraico i luoghi venerati da quasi quattromila anni come sepolture dei patriarchi e delle matriarche della nazione ebraica Abramo, Isacco, Giacobbe, Sara, Rebecca, Lea e Rachele, allora cosa mai ne fa parte?"
   Particolarmente assurda è la decisione riguardante la Tomba di Rachele. È solo da una quindicina d'anni che i palestinesi hanno "scoperto" l'importanza storica del sito dal punto di vista islamico. Fu nel giorno di Kippur dell'anno 2000, mentre veniva lanciata l'intifada delle stragi terroristiche, che il quotidiano palestinese "Al-Hayat al-Jadida" pubblicò un articolo in cui, allontanandosi spudoratamente dalla tradizione musulmana fino ad allora perfettamente coerente con quella ebraica, si sosteneva, senza alcuna prova concreta, che "la tomba è falsa, ed era originariamente una moschea musulmana" (in particolare una moschea costruita, in un imprecisato momento dopo la conquista araba, in onore di Bilal ibn Rabah, un etiope ritenuto il primo muezzin della storia islamica). Fino ad allora, tutti i riferimenti ufficiali dell'Autorità Palestinese al sito lo avevano riconosciuto, in linea con la stessa tradizione islamica, come "Qubbat Rakhil", la Tomba di Rachele. Una tattica simile venne già usata dopo le violenze arabe anti-ebraiche del
È un dato di fatto innegabile che l'area geografica nota come Cisgiordania, che comprende Hevron e Betlemme, fu la culla della storia ebraica. Tutto il "negazionismo" storico, tutte le risoluzioni dell'Unesco e tutti i tentativi palestinesi di cancellarne o negarne le tracce non potranno eliminare questo dato di fatto.
1929, culminate nel massacro di Hevron, per trasformare il Kotel, il Muro Occidentale del Tempio di Gerusalemme, fino ad allora indicato come il Muro "El-Mubki", del Pianto, nel "Hait al-Buraq", vale a dire il luogo dove il profeta Maometto avrebbe legato la sua cavalcatura alata, dopo il mistico volo notturno dalla Mecca. Indipendentemente dal fatto che si sia a favore o contro gli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria e che si sia a favore o contro la sottolineatura del carattere "ebraico" di Israele a fronte del suo carattere "democratico", è un dato di fatto innegabile che l'area geografica nota come Cisgiordania, che comprende Hevron e Betlemme, fu la culla della storia ebraica. Tutto il "negazionismo" storico, tutte le risoluzioni dell'Unesco e tutti i tentativi palestinesi di cancellarne o negarne le tracce non potranno eliminare questo semplice dato di fatto. Né vi è alcun dubbio che Israele si è comportato molto meglio, per quanto riguarda l'equo accesso di tutte le fedi ai luoghi religiosi sotto la sua amministrazione. Infatti, mai ai cristiani, da che i loro luoghi santi sono sotto il controllo israeliano, è stato interdetto l'accesso, mentre chi vi si recava prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967 non era sicuro di poter visitare il Santo Sepolcro. La Giordania, che ebbe il controllo su Hevron, Betlemme e Gerusalemme est dal 1949 al 1967, negò sempre agli Israeliani il libero accesso ai luoghi santi (compreso il Muro Occidentale della Spianata del Santuario o "delle Moschee" di Gerusalemme), alle istituzioni culturali e al cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi, anche se era esplicitamente previsto dall'Armistizio firmato fra i due Paesi nel 1949. Né ha fatto di meglio l'Autorità Palestinese subentrata a metà anni Novanta. Se non fosse per la presenza delle forze di sicurezza israeliane, la Tomba di Rachele, la Grotta dei Patriarchi e la Tomba di Giuseppe a Nablus in Samaria, più volte fatta oggetto di tentativi di distruzione da parte dei palestinesi, oggi sarebbero totalmente inaccessibili a tutti gli ebrei (e pure ai cristiani). Qualunque accordo territoriale verrà raggiunto in futuro con i palestinesi, sarebbe un'ingiustizia intollerabile e indifendibile se agli ebrei fosse impedito di accedere a luoghi di tale portata storica, culturale e religiosa. Il governo di Gerusalemme accusa l'Unesco di "unirsi ai piromani che cercano di appiccare il fuoco sui luoghi più sensibili dell'umanità". Ciò dimostra inequivocabilmente che sono gli arabi palestinesi a voler sovvertire lo "status quo" e non gli Israeliani. Questa strategia mira solo a impedire il legittimo rapporto dello Stato di Israele e degli ebrei con la loro terra e la loro storia.
   Allora, da dove nasce tanta protervia che se ne infischia pure della storia pur di avere il sopravvento? Su questo aspetto è opportuno ritornare, dal momento che l'ignoranza sull'islam wahabita, oggi imperante, regna sovrana nell'Occidente "progredito".

(Online News, 28 ottobre 2015)


Quello che nello Stato d'Israele non si tollera e che si vuole colpire è precisamente tutto ciò che lo collega a quella terra secondo il piano di Dio rivelato nella Sacra Scrittura e confermato dalla storia. Che gli atei, gli scettici, gli islamisti non siano affatto interessati a questa “pretesa” storica degli israeliani, anzi ne siano infastiditi, è comprensibile, ma che anche i cristiani, e in particolar modo i cristiani evangelici, che nella Bibbia dicono di avere la loro fondamentale fonte di autorità, si dimostrino disinteressati e in molti casi si uniscano agli increduli nella loro critica alle “pretese” degli ebrei israeliani, è uno scandalo. Sarà bene che gli evangelici che ne sono convinti comincino a dirlo apertamente. M.C.


Se l'Unione Europea permette ad Abu Mazen di continuare con la sua pantomima

Ripetiamolo nel modo più chiaro possibile: tutta questa situazione tragica e sanguinosa è costruita su una volgare menzogna.

Tre settimane. E ancora non si è sentita una sola parola di condanna da parte del presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) per gli accoltellamenti e omicidi a sangue freddo che hanno causato decine di morti e feriti israeliani, tra cui bambini e anziani.
Tre settimane. E non si vede la fine della campagna di istigazione all'odio e di menzogne sulla moschea di al-Aqsa in pericolo, una falsità che provoca morte e sofferenza a entrambe le parti.
Tre settimane. E ancora i leader dell'Unione Europea si rifiutano di biasimare Abu Mazen. Anzi, al contrario, è stato appena ricevuto con tutti gli onori, lunedì sera, nell'ufficio a Bruxelles del responsabile della politica estera dell'Unione Europea Federica Mogherini. Durante la conferenza stampa, che curiosamente non prevedeva una sessione di domande e risposte, ci sono state le onnipresenti foto e le calorose strette di mano, e una dichiarazione della signora Mogherini perfettamente enunciata per accusare allo stesso modo entrambe le parti all'insegna del politicamente corretto....

(israele.net, 28 ottobre 2015)


Gli ebrei ultraortodossi e WhatsApp per sfidare il divieto al web

di Diego Barbera

Nel 2014 il quotidiano in lingua yiddish, The Jewish Daily Forward, condannò pesantemente l'uso di WhatsApp perché deleterio sia in ambito famigliare - essendo citato come nessun'altro servizio/motivo scatenante nelle cause di divorzio - sia per la buona riuscita degli affari. A oggi, il software di messaggistica istantanea per smartphone e PC sta diventando anche molto "pericoloso" anche nelle giovani leve degli ebrei ultraortodossi, che sfidano il blocco imposto all'uso del web proprio con questa applicazione.
D'altra parte con WhatsApp non si può solo chattare, ma si può anche andare a condividere e esplorare notizie nelle conversazioni singole così come in quelle di gruppo. Ad esempio nella comunità hassidica di Brooklyn, è vietato utilizzare il web perché portatore di tentazioni morali, di promiscuità sessuale e di infedeltà, con poche eccezioni ad esempio nei permessi per chi deve necessariamente utilizzare smartphone o computer per i propri affari (e chi può non usarli al giorno d'oggi?). Tuttavia tutto ciò che non è necessario, come i social network, è bloccato da filtri e i bambini non possono accedervi.
   Tuttavia, soprattutto tra i più giovani membri della comunità, WhatsApp è diventato molto popolare e ha avuto la "fortuna" di muoversi in una sorta di vuoto di potere dato che era considerato sì un'app tecnologica, ma relegata a un numero ristretto di contatti, senza considerare il fatto che può in realtà diventare un surrogato piuttosto potente di un forum, blog, motore di ricerca, insomma del web stesso.
   Negli ultimi anni ci sono state molte proteste, comprese alcune con numerosi partecipanti che facevano sentire a gran voce la loro richiesta di poter accedere al ewb, ma finora poco si è mosso. Per fortuna c'è WhatsApp.
   Il professore di sociologia Samuel Heilman del Queens College CUNY, ha descritto i gruppi Hasidic su WhatsApp come "Vibranti forum dove si condivide di tutto, dalle barzellette ai nuovi account, ma soprattutto le notizie grazie a "moderatori" molto attivi e su gruppi con centinaia di partecipanti". Insomma, volente o nolente, la rete sta facendo breccia anche in questa "fortezza" inespugnabile.

(Nanopress.it, 28 ottobre 2015)


È morto l'anziano ebreo ferito a Gerusalemme in un attentato palestinese

In un ospedale di Gerusalemme è deceduto oggi Richard Leikin (76), un israeliano ferito due settimane fa in un attentato palestinese avvenuto in un autobus nel rione di Armon ha-Natziv. Lo ha riferito la radio militare. Nello stesso attentato erano stati uccisi a pugnalate a colpi di pistola due altri passeggeri ebrei, di 51 e 78 anni.
Secondo dati raccolti dal ministero degli esteri israeliano, fra l'inizio di ottobre e il 25 dello stesso mese 10 israeliani sono stati uccisi in attentati palestinesi; i feriti sono stati 127, quattordici dei quali registrati come gravi.
Nello stesso periodo si sono avuti 46 accoltellamenti, quattro attacchi con armi da fuoco e cinque casi di investimenti intenzionali di pedoni con automezzi vari.

(Corriere del Ticino, 28 ottobre 2015)


 Israele: tecnologia del "Cavallo di Troia" per uccidere le cellule tumorali

BioSight ha sviluppato una tecnologia che consente ai pazienti malati di leucemia di evitare gli effetti negativi della chemioterapia.
La Dott.ssa Ruth Ben Yakar, CEO di BioSight, ha commentato:

I nostri risultati intermedi di uno studio di pazienti affetti da leucemia, dimostra che con il nostro sistema si riesce ad ottenere la massima efficienza dalla chemio, ma con il minimo di tossicità. Non causa danni al cervello o indebolisce le cellule del sangue.

La tecnologia "Cavallo di Troia" di BioSight non funziona solo per i pazienti affetti da leucemia ma potrà essere utilizzato contro molti altri tipi di cancro.
Ben Yakar:

Questa potrebbe essere davvero la cura contro il cancro.

Spesso le sostanze chemioterapiche non hanno modo di distinguere tra le cellule sane e quelle malate, motivo per cui attaccano le deliberatamente tutte.
La soluzione potrebbe essere un farmaco sviluppato da BioSight chiamato Astrabine, una forma speciale di citarabina che contiene un aminoacido dannoso per le cellule leucemiche manon per le cellule normali.
Le cellule leucemiche dipendono da un aminoacido chiamato asparagine, ma non possono sintetizzarlo. Ecco perché è stata sostituita una struttura molecolare che le cellule leucemiche riconoscono come essere associata all'asparagine, ma che invece viene riempita di astrabine. Utilizzando una sorta di Cavallo di Troia, il metodo è in grado di distruggere le cellule cancerose preservando quelle sane.
Nonostante siano necessari ulteriori test, Ben Yakar è entusiasta sul fatto che la tecnologia riceverà il riconoscimento di Terapia Breakthrough (in grado di trattare i pazienti che non hanno altra risorsa medica).

(SiliconWadi, 28 ottobre 2015)


Descalzi in Israele per il super-hub del gas

L'Eni promuove nel Mediterraneo orientale un'intesa a quattro che coinvolge anche Egitto e Cipro.

di Maurizio Molinari

Claudio Descalzi
GERUSALEMME - Il ceo di Eni, Claudio Descalzi, è in arrivo a Gerusalemme per discutere con il premier Benjamin Netanyahu l'esportazione del gas naturale israeliano in Europa passando attraverso l'Egitto di Abdel Fattah Al-Sisi. «La visita di Eni testimonia l'interesse delle compagnie internazionali per le nostre risorse» afferma il ministro dell'Energia israeliano, Yuval Steinitz, secondo il quale «è possibile una stretta cooperazione fra Israele, Egitto, Cipro, Giordania e forse, in futuro, Grecia e Turchia».
   Il progetto a cui Descalzi sta lavorando è quello che lui stesso ha descritto a «Politico»: «Possiamo creare un hub nel Mediterraneo Orientale capace di ricevere gas naturale da varie nazioni del Medio Oriente e portarlo in Europa del Sud, in Italia e Spagna». È un orizzonte reso possibile dalla recente scoperta da parte di Eni dal mega-giacimento egiziano Zohr - stimato in 850 miliardi di metri cubi - che però nei prossimi dieci anni verrà sfruttato soprattutto per il fabbisogno del mercato interno del Cairo. Da qui il tassello israeliano del progetto ovvero la possibilità di esportare dallo Stato ebraico in Egitto il gas naturale prodotto nei giacimenti di Leviathan e Tamar grazie a un gasdotto sottomarino capace di raggiungere gli stabilimenti di liquefazione a Damietta, in Egitto, della spagnola Union Fenosa - controllata da Eni - per esportare da qui, via mare, verso l'Italia e dunque l'Europa continentale.
   È un progetto che nasce sulla base dell'intesa fra Netanyahu e il presidente del Consiglio Matteo Renzi - cementata durante l'incontro a Firenze - di cooperare nello sviluppo dell'energia e ha bisogno, per realizzarsi, dell'autorizzazione governativa israeliana a esportare il gas prodotto a Leviathan e Tamar dal consorzio guidato dai texani di Noble Energy e dagli israeliani di Delek. Di questo si parlerà nel colloquio fra Descalzi e Netanyahu in un'atmosfera segnata da «interessi coincidenti - osserva una fonte diplomatica - perché Eni vuole esportare in Europa il gas dei giacimenti israeliani e ciprioti mentre Israele ha due rotte facili per l'esportazione, l'Egitto e la Turchia, ma con Ankara i rapporti restano delicati mentre con il Cairo sono solidi».
   Una fonte israeliana aggiunge a I24News: «Per Gerusalemme sarebbe un sogno disporre di un gasdotto capace di esportare verso l'Europa e avrebbe geograficamente senso farlo attraverso l'Italia» in ragione delle difficoltà tecniche inerenti alla realizzazione di un percorso alternativo sottomarino attraverso i fondali di Cipro e Grecia. Restano tuttavia da sciogliere i nodi dei regolamenti del mercato del gas israeliano. La situazione al momento è in fase di stallo in attesa delle imminenti dimissioni del ministro dell'Economia Arye Deri destinate a mettere nelle mani del premier l'autorità per varare le normative mancanti.
   Una volta superato tale scoglio, toccherà al team del premier intervenire per favorire un'intesa fra il consorzio texano-israeliano ed Eni, facendo valere il ruolo del governo nell'assegnazione delle licenze di esportazione. Non si tratta di passaggi facili e Netanyahu li illustrerà a Descalzi. Ma il ministro Steinitz è ottimista, scommettendo sulI'impatto del mercato globale dell'energia» per superare i rimanenti ostacoli.
   In parallelo al progetto di Eni sull'hub del Mediterraneo Orientale si muove un'altra azienda italiana, Edison, interessata allo sviluppo dei giacimenti israeliani minori - Karish e Tanin - puntando a guadagnare quote importanti del mercato interno.

(La Stampa, 28 ottobre 2015)


Ospedale Israelitico: bisturi "facile" per far lievitare i rimborsi

Incisioni inutili per avere più soldi dalla Pisana. Medico intercettato: «Ditemi cosa fare, io non ho problemi». Le minacce velate di Mastrapasqua a Riccardo Pacifici: «Non ho più niente da perdere, parlerò della comunità».

di Sara Menafra

 
 L 'accusa
  Far fruttare al massimo ogni intervento eseguito all'interno dell'ospedale, fino al punto di fare "tagli" col bisturi anche quando non necessario pur di inserire alcune operazioni nei livelli superiori di rimborso previsti dalla Regione Lazio. E' l'ultima mossa attuata dai vertici dell'ospedale Israelitico, finiti tutti ai domiciliari la scorsa settimana, a cominciare dal direttore generale ed ex presidente dell'Inps Mastrapasqua. A settembre del 2014, i dirigenti dell'ospedale vengono intercettati dai carabinieri del Nas mentre discutono di mantenere in "core biopsy" (con taglio e non con l'ago aspirato) sia la biopsia alla mammella, sia quella alla tiroide. Mirella Urso, responsabile dell'ufficio controllo cartelle cliniche, dice ad un medico: «Per la mammella è stata fatta la linea guida in cui si dice di usare il codice di biopsia a cielo aperto, non c'è una linea guida per la tiroide». Il medico: «Vogliamo usare un artifizio? Un piccolo taglietto con il bisturi?» Urso temporeggia, «Adesso sentiamo» risponde. E il medico: «A me dovete solo dire quello che devo fare, non ho problemi». Quando l'inchiesta della procura di Roma e dei Nas (coordinati dal capitano Dario Praturlon) è ormai sui giornali, sempre nell'autunno 2014, Mastrapasqua diventa impaziente. Racconta di aver quasi minacciato il presidente della Comunità ebraica Pacifici: «Riccardo, gli ho detto, io, Antonio Mastrapasqua, oggi è uno che non c'ha più nulla da perdere...fino a adesso so stato buono, zitto, la strategia della Comunità l'hai fatta te così, ma da domani parlo anch'io, eh?...cioè, se se è (borbottii)...tana libera tutti, ma la faccio pure io, gli ho detto, eh?». Mastrapasqua, riassumono i Nas «afferma di aver detto a Pacifici che se chiudono loro Pacifici ne uscirà come il peggior presidente della comunità».

 Il vertice
  Venerdì scorso la Regione ha sospeso l'accreditamento dell'Israelitico e ora si è aperto il fronte del futuro dei pazienti e dei dipendenti. Ieri pomeriggio si è svolto un vertice tra il prefetto Franco Gabrielli e il presidente Nicola Zingaretti. Si lavora sul commissariamento, che però appare assai complicato senza l'intesa con la proprietà. I nuovi ricoveri sono stati bloccati, così come le prestazioni specialistiche: delle prenotazioni dovranno farsi carico le strutture dell'Asl Roma D, ma non sarà semplice visto che da oggi fino al 31 dicembre in totale all'Israelitico vi sono 350 pazienti in attesa di un intervento in day hospital e 100 di un intervento con ricovero. Bisognerà assicurare anche la continuità delle cure oncologiche. C'è il rischio di una bomba occupazionale: in 400 tra interni e consulenti lavorano all'Israelitico, ma si arriva a 700 se si calcola anche l'indotto (ad esempio gli operatori delle pulizie).

(Il Messaggero, 28 ottobre 2015)


Leviatano, volpe e leone: la specificità italiana per il gas israeliano

di Robert Hassan

Le recenti scoperte energetiche in Medio Oriente hanno entusiasmato operatori economici, governi e stampa intercontinentale.
  Vertici istituzionali lavorano affinché l'Italia ricopra sullo scacchiere un ruolo centrale, anche infrastrutturale, quale ponte tra Medio Oriente ed Europa.
  Ma quale è e cosa può dare può dare la specificità italiana a players e stakedolders (interni ed esterni) coinvolti nel complesso scenario geopolitico medio orientale, all'interno della partita relativa alle nuove scoperte energetiche israeliane?
  In alcuni casi si è parlato anche di "energy for peace", ovvero la capacità del comparto industriale, di assicurare a governi e popoli coinvolti, una pacificazione dell'area.
  Una finalità "etica consociativa" che l'impulso economico commerciale sarebbe in grado di portare con sé e che sottointende una linea politica di gestione dei conflitti identitari, presenti prima di tutto all'interno dei singoli Paesi coinvolti, diretta ad un risultato accettato o accettabile da strutture pubbliche, negli interessi privati, come dalle formazioni sociali.
  Indubbiamente l'enorme capacità di forza generabile dalle strutture protagoniste in campo, potrebbe essere in grado di ottenere qualsiasi risultato, indipendentemente dal contesto che (per le sue presenze storiche e contemporanee) al contrario potrebbe richiede altro, più che la sola astratta potenza di persuasione.
  E può succedere che alle organizzazioni industriali, per forzare le barriere soggettive degli interessi coinvolti, venga proposto dalle agenzie di marketing d'impostazione statunitense, l'uso massiccio dell'informazione, attualmente possibile con una pluralità di mezzi.
  Ma oggi le cose non sembrano poter stare particolarmente comode dentro questi termini:
  In nessuna parte del globo nessuna situazione è così irrigidita in strutture di potere, da potersi permettersi di eludere l'attenzione alla complessità delle opinioni, agli interessi non contrattabili. E, soprattutto, il raggiungimento di macro obiettivi spesso dipende da micro azioni di ascolto, quale segno di comportamento, verso pubblici che, già da tempo, si sono affacciati come portatori d'interessi sulla questione. E ciò è proprio il risultato generato dalla complessità delle situazioni locali in reazione alle visioni globali; dalla polverizzazione dei centri potere; dalla potenza del potere privato pari a quello pubblico; dall'ambivalenza delle tecnologie nei loro possibili utilizzi.
  C'è dunque un'effettiva, storica e culturale, specificità italiana che potrebbe e dovrebbe accompagnare l'interesse all'obiettivo industriale nell'area ed in particolare in Israele, culturalmente più vicino a noi.
  Alcuni anni fa un ristretto gruppo di persone, profetizzando le dinamiche socio-politiche attuali e la non incisività della comunicazione omogenea, elaborò modalità di analisi e strategie d'influenzamento nei sistemi identitari.Ovvero come ottenere risultati di comportamento nel conflitto tra presenza d'interessi soggettivi e obiettivi globali.
  Non è un caso che le persone che animarono ed elaborarono quelle teorie e pratiche, innovative per la comunicazione, provenissero dai vertici delle aziende e delle maggiori organizzazioni petrolifere, dove avevano sperimentato e raffinato in anticipo tali modalità e strumenti (trasmessi poi ad un ristretto gruppo di allievi che, ancora oggi, le custodisce, arricchisce e pone in pratica).
  L'energia è infatti il principale tema entro il quale si mescolano visioni soggettive/conflitti/identità/obiettivo globale e scontro locale.
  La particolarità di tali analisi proposte e delle prassi attuate, si basavano in sostanza sull'eguaglianza tra relazioni interpersonali e relazioni industriali, ed oggi trovano proprio nella società israeliana due elementi rilevanti: da un lato Israele nella sua storia non ha mai vissuto la disponibilità di risorse energetiche e la conseguente necessità di gestione delle differenti posizioni che questa genera all'interno della struttura sociale e sullo scenario globale quotidiano; dall'altro e allo stesso tempo, lo Stato Ebraico è oggi la più grande fucina di pluralismo, di opinioni collettive, di interessi irriducibili non contrattabili, così come il centro della globalizzazione tecnologica. In sostanza Israele è la società pluralista, contraddittoria e all'avanguardia, per eccellenza.
  Lo snodo fondamentale che l'Italia deve far accompagnare al comparto imprenditoriale interessato è dunque frutto di tali forti elaborazioni: la capacità di convocazione delle opinioni collettive coinvolte all'interno dell'ambiente nel quale si interviene con potenza e know how industriale, quale segno di comportamento, per un obiettivo effettivo, reale, più che meramente apparente.
  Si tenga a mente che nelle dinamiche delle società pluraliste questa impostazione non è il risultato di un principio etico, ma è strategia per il perseguimento dell'obiettivo, che nel caso energia-Israele è fondamentale: la scelta e azione di coalizione con gli interessi irriducibili dell'ambiente, ha valore di comportamento immensamente superiore all'approccio pacificatore globale.
  Non è un tema che è possibile affrontare con il sostegno dell'informazione omogenea, perché per ottenere un'effettiva comprensione tra posizioni conflittuali, il ruolo efficace lo svolge la comunicazione dei comunicatori del pluralismo. Coloro che all'obiettivo globale danno risposte differenziate: individuano il conflitto, selezionano gli interlocutori, agiscono per costruire coalizione, propongono un progetto di comunicazione reale.
  È qui che risiede l'etica della linea politica: nel coordinare la pluralità degli effetti dell'informazione, per ottenere un risultato sociale complessivo.
  Il riferimento della specificità italiana è quindi Machiavelli, prodotto dell'intelligenza politica e dell'esperienza pratica italiana, rimasto per secoli il faro globale per la gestione delle relazioni di potere e, oggi rapportabile nell'uso dell'informazione omogenea versus la comunicazione di coalizione: prima di essere "lione" occorre essere "golpe" e saper presentare l'uso della forza (lione) attraverso l'interesse al destinatario. Se si sostituisce al potere del Principe di allora, la disponibilità dell'informazione globale di oggi, il risultato non cambia: ad un principe è necessario avere "el populo amico"; altrimenti non combina nulla.
  Questo è il vero ponte economico, politico e culturale tra Italia e Israele che può portare innovazione e che le imprese coinvolte all'interno di un nuovo assetto geopolitico energetico sarebbe utile portassero con sé nel bagaglio.

(L'Huffington Post, 28 ottobre 2015)


Expo - Al Padiglione di Israele premi Youth for the Elderly

Sette team finalisti da tutto il mondo per Youth for the Elderly

MILANO, 27 ott - Al Padiglione di Israele un premio dedicato ai giovani che realizzano progetti innovativi dedicati ai più anziani. E' il premio 'Youth for the Elderly' assegnato insieme a Ernst&Young e Hype (Youth Startup Foundation) alle start up più innovative nel campo di progetti dedicati alle persone più anziane. Sette i team finalisti della competizione provenienti da Italia, Usa, Macedonia, Montenegro, Israele e Romania. Tra le start up valutate da una apposita giuria solo una si aggiudicherà il premio finale.
A contendersi il podio per il progetto più innovativo il Managery Otimizing Memory ideato dal team degli Stati Uniti (un sistema pensato per le persone anziane per ottimizzare la memoria), la mano robotica Handy Hand realizzata dal team italiano, ChairWaze (un sistema innovativo per le sedie a rotelle) e Hand N Hand, un nuovo social network, sviluppati da due team israeliani, la SeniorApp dedicata ai più anziani per facilitarne la comunicazione disegnata dal team rumeno, Elder Watch, l'orologio tecnologico per le emergenze pensato dal team macedone e infine il robot amico Dan della squadra montenegrina. La premiazione del vincitore il 27 ottobre (ore 17) a Padiglione Israele.

(ANSA, 27 ottobre 2015)


Netanyahu ribadisce gli accordi sulla spianata e richiama all'ordine il suo viceministro

Il premier israeliano ribadisce la validità degli accordi sulla Spianata delle moschee e riporta all'ordine il suo vice ministro che aveva detto: "Sogno la bandiera di Israele su Al Aqsa".

 
Tzipi Hotovely
 
Tzipi Hotovely e la bandiera di Israele
ROMA - Tensione altissima in Medio Oriente. Dopo che ieri due aerei israeliani hanno colpito due obiettivi di Hamas nei pressi di un campo profughi, nel sud della Striscia di Gaza, il premier israeliano Benjamin Netanyahu èdovuto intervenire oggi per ribadire il rispetto dello status quo sulla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme e riportare all'ordine un esponente del suo goverono.
   La precisazione è arrivata dopo la bufera scatenata dalle dichiarazioni del suo viceministro degli Esteri Tzipi Hotovely: "È il mio sogno di veder sventolare la bandiera di Israele sulla moschea di Al Aqsa", aveva dichiarato la Hotovely alla tv via cavo della Knesset, aggiungendo che il luogo sacro a musulmani ed ebrei è "il centro della sovranità israeliana, la capitale di Israele".
   "Dovremmo issarvi la bandiera", aveva insistito la Hotovely, esponente della destra del partito del premier, il Likud, "questa è la capitale di Israele" e il Monte del Tempio è il luogo più sacro per il popolo ebraico". Dichiarazioni che sono come benzina sul fuoco in questo delicatissimo momento in cui le diplomazie internazionali stanno faticosamente lavorando per un accordo che possa consentire una convivenza pacifica fra i due popoli.
   Netanyahu ha ribadito l'impegno a rispettare lo status quo che permette ai musulmani di pregare nel luogo santo e agli ebrei di visitarlo ma senza pregarvi. "La politica del governo israeliano sul Monte del Tempio è stata espressa dal primo ministro sabato sera e nulla è cambiato", è stato spiegato in una nota, "il premier ha già chiaro che si attende che tutti i membri del governo vi si attengano".
   La Hotovely a quel punto si è allineata, precisando di aver espresso "opinioni personali che non riflettono la linea del governo". "Sono impegnata ad applicare la politica affermata dal primo ministro che ha dichiarato che non modificheremo lo status quo", ha aggiunto.

(Rai News, 27 ottobre 2015)


Iran: "tra 25 anni non esisterà un solo ebreo, pronti a mantenere la parola del nostro leader"

di Franco Iacch

"Se Israele dovesse compiere una qualsiasi mossa ostile, mostreremo la potenza dei missili a lungo raggio della Repubblica islamica. Siamo ansiosi di metterci al servizio del nostro leader supremo e mantenere la sua parola". E' quanto ha affermato poche ore fa sul canale arabo iraniano Al-Alam, il comandante delle forze terrestri, il generale di brigata Ahmad Reza Pourdastan.
"Il nostro leader supremo, l'Ayatollah Seyed Ali Khamenei, ha affermato che tra 25 anni Israele non esisterà più. Ebbene noi siamo pronti a dimostrare le sue dichiarazioni il più presto possibile e possiamo entrare in azione immediatamente".
Pourdastan ha sottolineato che l'Iran non inizierà una guerra. "Anche se rappresentano una minaccia, non daremo il via ad una guerra contro Israele né contro nessun altro paese straniero, ma restiamo vigili e pronti ad attaccare qualsiasi nazione che possa minare i nostri interessi e la nostra sopravvivenza".
Il nove settembre scorso, l'Ayatollah Khamenei descrisse Israele come un "regime fasullo". Disse Khamenei a Teheran. "I sionisti, analizzando i negoziati sul nucleare fra Teheran e le potenze mondiali, hanno sollevato preoccupazioni sul futuro a medio termine. Ma non sarà un loro problema, perché tra 25 anni non esisteranno più sulla faccia della terra e, con la grazia di Dio, la loro falsa nazione sparirà per sempre. Nel frattempo lo spirito jihadista islamico dei combattenti musulmani, non lascerà i sionisti tranquilli".
Infine, il solito monito contro gli Stati Uniti. "Dobbiamo vigilare contro i complotti statunitensi. Niente potrà impedire a Teheran di continuare a crescere".

(Difesa Online, 27 ottobre 2015)


L'appello accademico inglese per boicottare Israele. Firmato da molti italiani

In un documento trecento professori britannici, docenti e ricercatori, dicono di aver iniziato il boicottaggio di Israele e delle sue istituzioni accademiche. La scrittrice J. K. Rowling si oppone.

di Giulio Meotti

La scrittrice J. K. Rowling
ROMA - "Non accetteremo inviti dalle istituzioni accademiche israeliane, non saremo referenti in alcuno dei loro eventi, non parteciperemo a conferenze da loro finanziate, organizzate o sponsorizzate, né coopereremo con loro". Ieri il Guardian ha pubblicato una pagina intera firmata da trecento accademici britannici, docenti e ricercatori, che dicono di aver iniziato il boicottaggio di Israele e delle sue istituzioni accademiche.
  I firmatari, tra cui accademici dell'Università di Cambridge, della Queen University di Belfast e della London School of Economics, parlano di "violazioni intollerabili dei diritti umani inflitte a tutto il popolo palestinese". Fra gli accademici ci sono nomi di fama mondiale come Tom Kibble, fisico teorico dell'Imperial College di Londra; Timothy Shallice, già direttore dell'Institute of Cognitive Neuroscience all'University of College di Londra; Iain Borden, già preside della Bartlett School of Architecture, e Richard Seaford dell'Exeter University, che si è rifiutato di recensire un libro per la rivista israeliana Scripta Classica Israelica. Un boicottaggio dagli effetti pratici, che intende persuadere le istituzioni accademiche a rompere le relazioni con gli atenei israeliani, convincere gli accademici a non recarsi nello stato ebraico, non invitare israeliani alle conferenze e non pubblicare articoli su riviste specializzate israeliane.
  A firmare l'appello del Guardian anche molti studiosi italiani che lavorano nelle università del Regno Unito. Per citarne alcuni Carlo Morelli della Dundee University, Alberto Toscano del Goldsmith College e Alessandra Mezzadri della London University. Gli accademici italiani ormai spiccano in quasi tutti gli appelli culturali per il boicottaggio di Israele. Come fra i cinquecento antropologi che hanno denunciato "il potere, l'oppressione e la violenza strutturale" di Israele. Fra i firmatari Silvia Posocco e Tommaso Sbriccoli della London University, Mara Benadusi dell'Università di Catania, Alessia Prioletta dell'Università di Pisa, Riccardo Putti dell'Università di Siena, Simona Taliani dell'Università di Torino e Angela Zito della New York University. L'appello chiede che "non si collabori a progetti o eventi ospitati o finanziati da istituzioni accademiche israeliane, non si insegni o si partecipi a conferenze di tali istituzioni, e non si pubblichi in riviste accademiche basate in Israele". Trentacinque gli accademici italiani provenienti dalle nostre maggiori università che hanno firmato invece l'appello al Commissario europeo della Ricerca, Màire Geoghegan-Quinn, per chiedere l'esclusione delle istituzioni "complici delle violazioni israeliane del diritto internazionale" dai programmi di ricerca finanziati dall'Unione europea. C'è anche Domenico Losurdo.
  Ieri sulla pagina degli editoriali del Washington Post hanno lanciato il boicottaggio d'Israele anche Steven Levitsky, professore a Harvard, e Glen Weyl, assistente di Economia e Diritto all'Università di Chicago. I due accademici dicono di "amare Israele" e di boicottarlo per salvarlo da se stesso. Ha risposto loro, sempre dalle colonne del Post, Elliott Abrams: "Stanno cercando di distruggere Israele per salvarlo, da Cambridge e da Chicago, mentre gli israeliani affrontano pericoli ogni giorno. Un tale pericolo è il terrorismo. Un altro, come possiamo vedere, sono questi professori stupidi le cui pretese intellettuali li portano a ignorare la storia e a infantilizzare i palestinesi".
  Ma a castigare questi accademici è stata soprattutto la celebre scrittrice inglese J. K. Rowling, l'autrice della saga di romanzi di Harry Potter, che ha invece lanciato un appello per la "Cultura per la coesistenza" apparso alcuni giorni fa sempre sulle pagine del quotidiano inglese Guardian. Tra i firmatari anche la scrittrice inglese Hilary Mantel, lo storico scozzese Niall Ferguson e Simon Schama, docente alla Columbia University. "Stiamo cercando di informare e incoraggiare il dialogo su Israele e i palestinesi in una comunità culturale e creativa più ampia", recita il contrappello della Rowling. "I boicottaggi culturali che vogliano isolare Israele sono divisivi e discriminatori, e non favoriscono la pace". Ovviamente i fan della serie del maghetto hanno inondato la Rowling di lettere di protesta. Brutta sionista.

(Il Foglio, 27 ottobre 2015)


Al padiglione di Israele presentato il Parmigiano Reggiano Kosher

Prodotto da Bertinelli di Parma, è il primo Parmigiano Reggiano certificato secondo la legge ebraica. La produzione sarà di 5 mila forme all'anno.

 
Il Parmigiano Reggiano kosher presentato a Expo
E' stato presentato a Expo il primo Parmigiano Reggiano totalmente "Kosher", ovvero prodotto in stretta osservanza dell'insieme di regole religiose degli ebrei osservanti. Lo speciale Parmigiano Reggiano è stato presentato il 27 ottobre al padiglione di Israele a Expo 2015. La forma è stata prodotta nel 2014 dall'azienda agricola Bertinelli di Parma, che ne produrrà circa 5 mila forme all'anno. La prima annata, tra l'altro, è già stata completamente venduta.
La conformità alla legge ebraica è stata certificata dalla Ok Kosher Certification di New York, uno dei più autorevoli enti in materia. «E' ora acquisita un'attenzione e un rispetto di norme che vanno oltre i semplici aspetti culturali. Contemporaneamente si aprono nuovi spazi di vendita e consumo tra gli ebrei osservanti, ma anche tra quei milioni di persone che, soprattutto negli Stati Uniti, già hanno scelto cibi Kosher in quanto molto salubri o per scelte alimentari e di salute specifiche», ha affermato Giuseppe Alai, presidente del consorzio di tutela.
«Siamo partiti da un'alimentazione delle bovine secondo principi assolutamente naturali, già stabiliti dal disciplinare del Parmigiano Reggiano», ha spiegato Nicola Bertinelli, amministratore delegato della Bertinelli: «Le norme di allevamento e mungitura, così come di impianti e strutture, hanno comportato importanti adeguamenti che sono monitorati dalla figura di un Rabbino».
«Ospitiamo con molto piacere a Expo questo evento, che segna un ulteriore punto di contatto tra il saper fare italiano e la cultura ebraica e israeliana», ha dichiarato Elazar Cohen, commissario generale del padiglione israeliano ricordando anche i numerosi progetti per l'innovazione scientifica e tecnologica così come i progetti umanitari in ambito agricolo e alimentare.

(Milano Today, 27 ottobre 2015)


Bibi cita il Mufti per svelare l'atavico odio anti ebraico (dispiacendo ai liberal)

Il primo ministro israeliano Netanyahu ha fatto qualcosa di importante la scorsa settimana: ha ricordato al mondo che la guerra araba contro Israele è la continuazione della guerra nazista contro gli ebrei.

di Seth Lipsky

Il primo ministro israeliano Netanyahu ha fatto qualcosa di importante la scorsa settimana: ha ricordato al mondo che la guerra araba contro Israele è la continuazione della guerra nazista contro gli ebrei. Le parole da lui espresse mercoledì, per le quali fu il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al Husseini a suggerire a Hitler l'idea di sterminare gli ebrei, hanno scatenato un putiferio. Il primo ministro ha fatto riferimento a un noto incontro tra il Mufti e Adolf Hitler che avvenne nel novembre del 1941, due mesi prima che i nazisti pianificassero la cosiddetta soluzione finale nella famigerata conferenza di Wannsee. "All'epoca Hitler non voleva sterminare gli ebrei, ma solo espellerli", ha detto Netanyahu al Congresso sionista, per poi affermare che fu il Mufti ad avvertire Hitler che se avesse proceduto con le espulsioni degli ebrei, quest'ultimi avrebbero finito con l'andare tutti in Palestina. "Cosa dovrei fare con loro?", chiese allora Hitler, secondo la ricostruzione fatta da Netanyahu. "Bruciali", avrebbe risposto il Mufti.
  Gli attaccabrighe liberal si sono infuriati, sostenendo, con una certa faccia tosta, che Netanyahu abbia voluto riabilitare il Führer. "Una difesa di Hitler", l'ha definita addirittura il giornale Forward, mentre la Casa Bianca ha liquidato le parole di Netanyahu come "provocazioni". Anche l'illustre studiosa dell'Olocausto Deborah Lipstadt ha qualificato Netanyahu come "revisionista". Questo suo giudizio a me è parso immeritato e, in ogni caso, improprio, anche nell'ipotesi in cui il leader israeliano avesse sbagliato a citare le parole precise utilizzate da Hitler e il Mufti. Nessun documento afferma che il Mufti abbia suggerito a Hitler di "bruciare" gli ebrei. Ma alcune testimonianze dimostrano che i proclami di Hitler sulla loro uccisione ottennero un entusiastico apprezzamento da parte del Mufti. Quest'ultimo, secondo gli appunti dell'interprete di Hitler (il colonnello delle SS Eugen Dollmann, ndr), aprì l'incontro ringraziando Hitler per la sua vicinanza "agli arabi e in particolare alla causa palestinese". Erano amici naturali, scrisse Dollmann, perché avevano gli stessi nemici in comune. Gli arabi palestinesi, di conseguenza, "erano pronti a cooperare con la Germania con tutto il loro cuore, e pronti a partecipare alla guerra". Gli arabi, predisse il Mufti, "potrebbero essere utili come alleati più di quanto possa apparire a prima vista". "Gli obiettivi della mia battaglia sono chiari", furono le parole di Hitler, riportate dal Mufti nei suoi diari. "Come prima cosa, sto combattendo gli ebrei senza tregua, e questa battaglia include quella contro la cosiddetta casa nazionale ebraica in Palestina". L'interprete di Hitler registrò nelle sue note che il Führer impose al Mufti di racchiudere "nelle più alte profondità del suo cuore" la battaglia nazista per "la totale distruzione dell'impero giudaico-comunista in Europa". Poi il tiranno nazista volle lanciare al mondo arabo il messaggio per cui "era arrivato il momento della sua liberazione", e che l'unico obiettivo della Germania sarebbe stata "la distruzione di ogni elemento ebraico nella sfera araba".
  Netanyahu potrebbe aver sbagliato nell'affermare che lo sterminio degli ebrei fu un'idea del Mufti (le uccisioni erano già iniziate); ma non ha sbagliato in nulla nel dire che l'idea dello sterminio fu avallata dal Mufti. Il punto cruciale è che i nazisti e il leader della Palestina araba erano allora dalla stessa parte. Durante la Seconda guerra mondiale i popoli dovettero fare una scelta: gli ebrei scelsero il mondo libero, gli arabi palestinesi scelsero Hitler. E' sicuramente questo il punto che intende rimarcare il primo ministro israeliano. Egli vuole rendere tutti consapevoli che Israele, oggi, è sotto attacco proprio dagli eredi di quel patto col diavolo compiuto tra il Mufti e il Führer. Quindi perché tutto ciò ha sconvolto la sinistra? Cosa importa che il Mufti abbia o meno avuto una parte di responsabilità nei crimini compiuti da Hitler? Una risposta può essere rintracciata in un editoriale del New York Times che ha definito le parole di Netanyahu vergognose perché "danno l'impressione" che la resistenza degli arabi palestinesi "sia dovuta solamente a un odio di lunga data nei confronti degli ebrei, e non invece all'occupazione compiuta da Israele o a qualunque altra controversia". Come se ciò non fosse vero. Il Mufti e gli altri leader arabi odiavano gli ebrei prima che ci fosse Israele. Se Israele domani scomparisse, i fondamentalisti islamici continuerebbero comunque a disprezzare gli ebrei. La sinistra dovrebbe smetterla di screditare Netanyahu, perché egli sta solo evidenziando la scomoda verità per la quale, nei riguardi degli ebrei, l'ideologia araba è la stessa di quella nazista. E come può qualcuno difenderla?


Articolo tratto dal New York Sun, traduzione di Ermes Antonucci

(Il Foglio, 27 ottobre 2015)


Di mufti in mufti, così si negano la storia e le prove del passato ebraico di Gerusalemme

Mentre tutti accusano Netanyahu di negazionismo, in un'intervista televisiva l'attuale guida della moschea di Al Aqsa ha detto che il Monte del Tempio ospita una moschea sin "dall'origine del mondo".

di Gabriele Carrer

 
                      Mohammad Ahmad Hussein                                                    Mohammad Amin al-Husayni
Se Netanyahu è stato accusato di negazionismo per le parole sul gran mufti di Gerusalemme e la Shoah, per il successore dell'alleato e consigliere di Hitler sarà pronto lo stesso bollino certificato dagli intellò occidentali? Sempre i primi quando si tratta di inveire sul premier israeliano nonostante le loro lacune storiche, quelli che il direttore del New York Sun Seth Lipsky ha chiamato "attaccabrighe liberal" tacciono ora sulle parole dello sceicco Muhammad Ahmad Hussein. La guida della moschea di Al-Aqsa, intervistata dall'emittente israeliana Channel 2, ha sostenuto che mai è esistito un tempio ebraico sulla cima del Monte del Tempio. Quello sarebbe, secondo la vulgata dell'attuale guida islamica di Gerusalemme, il sito di una moschea sin "dall'origine del mondo". Considerato il terzo luogo santo dell'Islam e il più sacro per gli ebrei, il Monte del Tempio sarebbe lo strumento attraverso il quale Israele mette in atto la sua guerra culturale con l'unico obiettivo di cancellare dalla Città santa le identità araba ed islamica, diffondendo l'idea di un falso tempio e altre fantasie bibliche.
  Il legame tra l'attuale gran muftì Hussein, in carica dal luglio 2006 su nomina di Abu Mazen, e il predecessore riportato agli onori delle cronache dalle parole di Netanyahu al recente Congresso sionista appaiono fortissimi. Dal momento dell'insediamento ad Al-Aqsa, illuminato dallo spirito dell'antesignano, i suoi attacchi contro Israele si sono moltiplicati, dal sostegno agli attentatori suicidi palestinesi glorificati e martirizzati fino ai ripetuti inviti alla ribellione contro gli occupanti israeliani. Lo scorso maggio il predicatore si è recato assieme ad alcuni esponenti religiosi libanesi sulla tomba di Haj Amin Al-Husseini lasciando fiori sul sepolcro dell'uomo che spalleggiò Hitler nella decisione della soluzione finale per la questione ebraica, come documentato dagli appunti dell'interprete di Hitler, il colonello delle SS Eugen Dollmann, e dai diari del mufti stesso.
  Oggi al centro delle tensioni tra Israele e i palestinesi, nella Guerra dei sei giorni del 1967 il Monte fu riconquistato dopo circa vent'anni di controllo giordano dai paracadutisti israeliani guidati da Mordechai Motta Gur, il colonnello che entrò nella Città vecchia di Gerusalemme esclamando "Il Monte del Tempio è nelle nostre mani. Ripeto: il Monte del Tempio è nelle nostre mani". Sotto pressioni internazionali, il controllo religioso del sito passò però presto nelle mani del Waqf islamico di Gerusalemme, guidato dal gran mufti. Oggi la preghiera è permessa solo ai fedeli musulmani che godono anche della massima libertà per l'accesso al sito (a parte casi straordinari di violenze), mentre gli ebrei devono sottostare a forti restrizioni con giorni, orari e porte d'ingresso limitati oltre che al divieto di preghiera al Monte del Tempio. Questo nonostante una sentenza dello scorso marzo di un tribunale israeliano che ha dato ragione al rabbino Yehuda Glick, allontanato per due anni dal Monte dopo aver pregato nel luogo sacro per la sua religione. La decisione della corte ha inoltre stabilito l'obbligo per la polizia di garantire il culto agli ebrei sul Monte del Tempio. Questi sarebbero gli abusi degli israeliani che controllano il sito.
  Durante la sua intervista al canale israeliano, il gran mufti Hussein ha negato qualsiasi tipo di testimonianza contraria alla sua visione negazionista rispetto all'esistenza di un luogo di culto ebraico. Anche documenti musulmani. Come quelli dello storico del decimo secolo al-Muqaddasi che ha raccontato del sito voluto fortemente da re Davide e realizzato da Salomone. O come la guida alla moschea pubblicata dal Waqf nel 1924 che faceva riferimento alla presenza nell'antichità di due templi ebraici sulla cima di Gerusalemme. Non bastassero ci sono le iscrizioni del Tempio di Erode distrutto dai romani nel 70 dC che confermano la presenza del tempio ebraico.
  Dopo aver inneggiato alla distruzione dello stato di Israele e all'eliminazione di ogni ebreo sulla faccia della terra, è ora il turno della devastazione e del negazionismo del principale luogo di culto per la fede ebraica. Intanto gli intellò, dopo aver bollato di negazionismo Netanyahu dimostrando sì la loro vicinanza alla causa palestinese ma anche ignoranza storica, sembrano ammutoliti al cospetto del gran mufti che brucia ogni prova del passato ebraico. Come fece Hitler.

(Il Foglio, 27 ottobre 2015)


Ventimila israeliani fanno causa a facebook

Circa ventimila cittadini israeliani hanno intentato causa al gigante del web Facebook con l'accusa che la piattaforma social abbia "intenzionalmente ignorato la diffusa istigazione e gli appelli all'omicidio di ebrei postati sulle sue pagine da palestinesi".
Lo dice l'Ong israeliana 'Shurat ah-Din' secondo cui i querelanti hanno sostenuto che il rifiuto di Facebook di rimuovere "l'ondata di video estremisti, affermazioni e fumetti postati dai palestinesi incoraggia l'attuale violenza".

(swissinfo.ch, 27 ottobre 2015)


"Su Israele puntati 150 mila missili"

Parla l'ex consigliere di Bibi, il generale Amidror, già capo del National Security Council. "I palestinesi fermi al 1948". L'arsenale di Hezbollah a disposizione dell'Iran.

di Giulio Meotti

Yaakov Amidror
ROMA - Alcuni giorni fa il Wall Street Journal ha ricostruito i giorni convulsi della preparazione dello strike israeliano alle installazioni atomiche dell'Iran. L'articolo "Spy vs. Spy" rivela che, nel 2012, l'aviazione d'Israele ha violato lo spazio aereo iraniano in una operazione tesa a dimostrare la possibilità di un attacco. Yaakov Amidror, consigliere per la Sicurezza nazionale di Israele, vola poi a Washington per preparare l'incontro fra il premier Benjamin Netanyahu e il presidente Barack Obama. Amidror è alla Casa Bianca a colloquio con la sua omonima, Susan Rice, che gli comunica che Obama avrebbe compiuto il passo storico di chiamare il presidente iraniano, Hassan Rohani. Amidror disse alla Casa Bianca che Israele aveva identificato i voli che trasportavano i negoziatori americani a Muscat, nell'Oman, che in quei giorni ospitava i colloqui segreti fra Washington e Teheran. Amidror fece anche sapere che era un insulto pensare di "andare in Oman senza considerare la nostra intelligence". Adesso Amidror è a colloquio con il Foglio per fare il punto sulla sicurezza in Israele. Il generale è l'ex capo del National Security Council, scelto da Netanyahu nel 2011 e rimasto in carica per tre anni. "Quando parliamo con i nostri vicini si capisce che per loro il problema non è la guerra del 1967 o i Territori palestinesi, ma l'esistenza stessa di Israele in terra araba", dice al Foglio il generale. "Non è una questione territoriale, in gioco c'è la stessa presenza ebraica. Per i palestinesi, non può esistere uno stato ebraico. Un accordo senza il riconoscimento di Israele come 'stato del popolo ebraico' non è degno quindi della carta su cui è scritto. Questo è necessario per chiudere la questione del 1948".
  Il generale Yaakov Amidror, il cui posto come consigliere per la Sicurezza nazionale è stato preso da Yossi Cohen, invita a non drammatizzare sull'attuale escalation terroristica. "Questa Terza Intifada è differente dalle prime due, prima di tutto perché non ci sono ancora migliaia di manifestanti nelle strade. E' diversa anche la minaccia, perché non ci sono più gli attacchi kamikaze ma gli attentati con armi bianche. Inoltre, sono ancora poche le cellule terroristiche, quanto singoli individui che una mattina si alzano, escono per strada e accoltellano gli ebrei, a causa dell'incitamento all'odio. I palestinesi non hanno illusioni per quanto riguarda il potere immenso dell'esercito israeliano in medio oriente in generale e di fronte a loro in particolare. Alcuni di loro sono disposti a morire combattendo l''occupazione'. Un fatto deve essere ribadito: siamo noi, gli ebrei, a essere sovrani. Siamo il partito più forte in questa lotta, e nessuna ondata di terrorismo, terribile come può essere, cambierà questo elemento fondamentale nell'equazione. Durante il mandato britannico, quando il governo si è spesso schierato con i rivoltosi arabi, i gruppi di resistenza ebraici dell'Irgun e del Lehi avevano ragione a montare una risposta forte contro gli omicidi. Ora, non abbiamo più nulla da dimostrare".
  Il mainstream israeliano è diviso fra chi pensa che la nascita di uno stato palestinese vada a beneficio di Israele e chi invece lo ritiene una minaccia. Ieri il premier Netanyahu ha dichiarato di non volere uno stato binazionale, ma che "per ora dobbiamo controllare tutto il territorio". "Ci sono due questioni contraddittorie", continua Amidror, che ha alle spalle una lunga carriera militare che lo ha visto tra l'altro occupare la posizione di capo della divisione ricerche del servizio intelligence delle Forze armate. "La prima è la sicurezza di Israele: è impossibile affermare con sicurezza se un eventuale stato palestinese costituisse nel lungo termine una minaccia allo stato ebraico. Dall'altro lato c'è la questione demografica, ovvero la difficoltà per Israele di inglobare altri due milioni di arabi. Serve un equilibrio fra le due questioni. A oggi, i palestinesi non hanno mai accettato un compromesso. Israele ha fatto enormi passi verso i palestinesi, mentre i palestinesi non si sono mossi di un centimetro. Su alcuni argomenti, hanno persino fatto passi indietro. Se fossimo fuori dai Territori di sicuro oggi avremmo una situazione per la sicurezza ancora più difficile, perché non ci sarebbe più neppure la barriera di sicurezza antiterrorismo. Oggi molti attentati sono compiuti da palestinesi con la residenza a Gerusalemme est".

 "Minimizzare il danno del deal con l'Iran"
  Ieri l'ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, ha detto che la guerra civile in Siria vedrà presto una de-escalation e che Hezbollah allora dirigerà le sue mire sullo stato ebraico. "La minaccia di Hezbollah è come una Nato senza l'America", ci spiega Amidror. "Parliamo di 150 mila missili, è la potenza di fuoco di cinque paesi europei messi assieme. Oggi Hezbollah però non è una organizzazione per sé, ma prende ordini da Teheran. Un'eventuale guerra con Israele sarebbe quindi il frutto di più vaste decisioni regionali". Sullo sfondo c'è il deal fra Teheran e le potenze occidentali. Amidror ha fatto parte, assieme a Uzi Arad e Amos Gilad, di un ristretto cerchio di militari e analisti che ha formulato i piani per l'attacco, mai realizzato, alle installazioni atomiche iraniane. In questa veste era la controparte di Tom Donilon, allora consigliere per la sicurezza di Obama.
  "L'accordo nucleare fra Iran e occidente è un fatto. Oggi Israele deve imparare a convivere con esso, andando oltre la discussione se sia positivo o negativo. Adesso si tratta soltanto di minimizzare il danno. C'è un accordo fra Israele e Stati Uniti secondo cui dobbiamo mantenere la nostra superiorità in qualsiasi circostanza".
  E' ottimista sul futuro dello stato ebraico? "Molto. Mia madre ha 99 anni e continua a ripetermi, 'guarda cosa abbiamo oggi e guarda cosa avevamo noi', quando lei arrivò nel 1921. Viviamo sotto attacco da oltre un secolo".

(Il Foglio, 27 ottobre 2015)


Firenze, l'ateneo contro il film della Comizzoli

Netta presa di distanza dell'ateneo fiorentino in merito alla proiezione del documentario dell'attivista anti-israeliana Samantha Comizzoli "Israele, il cancro" organizzata per il pomeriggio di giovedì, in uno spazio autogestito, dal collettivo di scienze politiche. "L'ateneo precisa che l'iniziativa non è organizzata da alcuna struttura direttamente o indirettamente collegabile all'ateneo stesso" dichiara il rettore uscente Alberto Tesi, le cui parole sono oggi riportate dal Corriere Fiorentino.
Il rettore Tesi, interpellato tra gli altri da ambasciata d'Israele e Comunità ebraica di Firenze, annuncia di aver scritto ai referenti del collettivo "diffidandoli dal realizzare un'iniziativa che già dal titolo appare del tutto estranea a quel confronto fra prospettive e analisi differenti che viene riservato di solito alle iniziative, anche studentesche, organizzate negli spazi dell'ateneo".
Diversamente da quanto si lascia intendere nell'articolo la proiezione - stando a informazioni sopraggiunte in seguito - sarebbe stata nel frattempo annullata.

(moked, 27 ottobre 2015)


Sempre più consumatori dicono "Kosher is better"

Anche se non di religione ebraica, i consumatori di varie parti del mondo comprano cibo conforme ai dettami della Torah perché lo giudicano più sicuro e salutare.

Fabio Di Todaro

 
Salutismo religioso. O, più semplicemente, eccesso di attenzione a ciò che portiamo a tavola? La massima attenzione che i consumatori rivolgono all'etica del cibo e alla sua salubrità è alla base del successo del cibo kosher, ovvero conforme ai dettami della Torah. Un insieme di regole che impone ai prodotti alimentari di non contenere nulla di dannoso per la salute e che sta diventando il nuovo credo del pianeta. Così salute, fede, fiducia e purezza si stanno mescolando nel piatto.

 Le ragioni del successo
  "Kosher is better" è il motto che si sente ripetere a tutte le latitudini degli Stati Uniti, dove gli ebrei rappresentano l'un per cento della popolazione. Un dato che non spiega come mai un cittadino americano su tre oggi compri alimenti conformi alla kasherut, ovvero la legge ebraica. Secondo uno studio condotto dal governo canadese, i cui risultati sono qui consultabili, la spiegazione è da ricercare in diversi aspetti: maggiore qualità e sicurezza del prodotto, benefici per la salute riconosciuti come certi, motivazioni religiose. Tutti questi aspetti sarebbero alla base del boom del cibo kosher, che inizia a riscuotere consenso anche in Italia. «Siamo in pieno cortocircuito tra religione e alimentazione - afferma Marino Niola, docente di antropologia all'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli -. Oggi in molti casi si crede a un'autorità religiosa più di quanto si faccia rispetto a un parere espresso da un'istituzione alimentare».

 Alimenti buoni per tutte le "tribù"
  Il salto di qualità del "kosher food" nella grande distribuzione è giunto negli ultimi dieci anni. Il boom, non sempre tale, della celiachia, di allergie e intolleranze alimentari e la contaminazione tra etnie avvenuta ha permesso di fare conoscenza con abitudini gastronomiche diverse. Così, per esempio, musulmani e induisti si rifugiano negli alimenti adatti agli ebrei quando non trovano quelli che fanno per loro. E celiaci, intolleranti al lattosio e consumatori vegetariani fanno lo stesso perché si fidano di prodotti che superano minuziosi controlli, prima di arrivare tra gli scaffali dei supermercati. Pane azzimo, falafel, carne senza sangue e sali senza additivi vengono controllati tanto nelle aziende quanto nei ristoranti (Roma è la città italiana che ne conta di più) e sono una garanzia per i consumatori di rispetto per la salute e per gli animali (nel caso dei piatti a base di carne). Le conseguenze sono più economiche che legate alla salute. Vive una fase di moltiplicazione la "tribù" di chi desidera "kosherizzare" i propri cibi e di conseguenza è in aumento anche il gruppo dei "controllori", rabbini specializzati nel verificare l'adesione dei produttori alle rigide norme contenute nella Torah (la revoca della certificazione può avvenire in qualsiasi momento). C'è anche chi, nella facoltà di agraria dell'Università del Mississippi, ha iniziato a insegnare ai futuri agricoltori le diverse tecniche di macellazione: in modo da far contenti cattolici, ebrei e musulmani.

 Cosa accade in Italia?
  Per quanto in Italia manchi un'autorità centrale che certifichi il "kosher food", sono diverse le aziende che hanno già esteso le loro produzioni agli ebrei e a tutti gli altri cultori di questo credo: da Mulino Bianco a Pavesi, da Uliveto a Ferrero, da De Cecco a Yomo . Anche alcuni prodotti tipici, come olio e aceto, si sono poco alla volta adeguati alle nuove esigenze dei consumatori. Un fenomeno che non deve stupire più di tanto se, come scrive Niola nel suo ultimo "Homo Dieteticus" (Il Mulino, 152 pagine, 13 euro), «divieti, prescrizioni, digiuni, astinenze hanno sempre avuto una funzione duplice, materiale e rituale, etica e dietetica». È per questo che un mondo terrorizzato da ogm, mucche pazze, pesticidi, glutine e lattosio non ha potuto far altro che trovare sicurezza in un'entità superiore, anche a tavola.

(Wise Society, 26 ottobre 2015)


Trieste - Convegno internazionale sui compositori e musicisti ebrei italiani durante il fascismo

di Roberto Toffolutti

"Bisogna continuare a indagare sulle persecuzioni antiebraiche del fascismo e del nazismo, e non solo dal punto di vista dell'approfondimento storiografico, ma tenendo conto anche della realtà di oggi". Lo ha sottolineato l'assessore regionale alla Cultura del Friuli Venezia Giulia Gianni Torrenti che ha aperto questa mattina al ridotto del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste il convegno internazionale I compositori e i musicisti ebrei italiani durante il fascismo.
Il convegno è stato organizzato nell'ambito del Festival Viktor Ullmann, promosso dall'Associazione Musica Libera e dedicato alla musica Concentrazionaria, composta dai deportati nei campi di concentramento o nei ghetti nazisti, e alla musica Proibita nell'Italia fascista e nella Germania nazista perché considerata decadente e contraria ai canoni razziali imposti dai due regimi.
Il convegno è stato sostenuto dalla Regione, assieme al Dipartimento di Studi Umanistici (DiSU) dell'Università di Trieste e al Teatro Verdi. "Abbiamo fortemente voluto questa iniziativa - ha detto l'assessore Torrenti - per affiancare alla proposta musicale una riflessione non episodica, che sia l'inizio di un percorso che duri nel tempo capace di apportare un primo mattone alla conoscenza su questi fatti".
All'apertura dei lavori hanno portato il loro saluto, assieme a Torrenti, l'assessore alla Cultura della Comunità ebraica di Trieste Mauro Tabor, il direttore del DiSU Lucio Cristante e il sovrintendente del Teatro Verdi Stefano Pace.
Come ha spiegato uno degli ideatori del convegno, Alessandro Carrieri della Monash University di Melbourne, è necessario "sanare una lacuna storiografica, ma anche una ferita". Non mancano studi, per esempio, sui docenti universitari ebrei costretti a lasciare l'insegnamento in seguito alle leggi razziali, annunciate nel 1938 da Mussolini proprio a Trieste, ma non si sa quasi nulla dei musicisti e dei compositori espulsi dai teatri di tutta Italia, compreso il Verdi, e poi perseguitati dal fascismo.
Nel corso dei lavori si confrontano studiosi di Università italiane e internazionali in due sessioni, dedicate rispettivamente ai temi La musica di fronte all'antisemitismo e alla persecuzione e Musica e resistenza.

(Trieste All News,26 ottobre 2015)


Il muftì di Gerusalemme: "Nella spianata delle moschee non c'è mai stato un tempio ebraico"

In un giorno in cui non sono mancate aggressioni agli ebrei in Cisgiordania - due gli attacchi - lo scontro politico ruota ancora una volta intorno alla Moschea di al-Aqsa.
   "Nella spianata delle moschee di Gerusalemme non c'è mai stato alcun tempio ebraico", ha affermato il muftì di Gerusalemme, sceicco Muhammad Ahmad Hussein, in un'intervista alla televisione israeliana riferita dal sito Times of Israel.
   Quella spianata - sacra anche agli ebrei, che la chiamano 'monte del tempio' - è sempre stata una moschea, secondo il Muftì, "fin dalla creazione del mondo". "Era una moschea tremila anni fa, e lo era anche 30mila anni fa", ha detto il religioso.
   E oggi era anche la giornata commemorazione, secondo il calendario ebraico, del ventesimo anniversario dell'assassinio di Yitzak Rabin. Il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha parlato in pubblico a Gerusalemme, in occasione delle celebrazioni. "Non ci battiamo soltanto contro chi perpetra atti di terrorismo ma anche contro chi diffonde bugie", ha affermato il primo ministro.
   Netanyahu ha poi ribadito che il suo governo non intende alterare lo status quo del sito che per i musulmani è la Spianata delle Moschee e per gli ebrei il Monte del Tempio. Israele ha deciso di installare telecamere nel luogo santo dopo gli sforzi diplomatici esercitati dal segretario di Stato Usa, John Kerry, per cercare di allentare le tensioni tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme.
   Il complesso, che ospita la moschea di al-Aqsa e la Cupola della Roccia, il terzo luogo sacro per i musulmani, è anche venerato dagli ebrei come il luogo di installazione dei templi biblici di Salomone e di Erode, causando così tensioni tra le due comunità. Il custode giordano del patrimonio musulmano o "Waqf, che gestisce la Spianata, ha fatto sapere che una squadra Waqf "era al lavoro per installare le telecamere quando la polizia israeliana ha interferito e ha interrotto il lavoro". E ha aggiunto di condannare fortemente l'interferenza di Israele: "Quello che è successo dimostra come Israele voglia installare telecamere solo per i propri interessi, non per mostrare la verità e la giustizia", si legge in un comunicato rilasciato dall'istituzione.
   La polizia israeliana ha risposto che "la questione è in discussione a livello diplomatico". L'ufficio del primo ministro israeliano ha riferito oggi in un comunicato che "secondo gli ultimi accordi, la posizione delle telecamere sulla Spianata delle Moschee, concordata tra Israele e la Giordania e gli Stati Uniti, avrebbe dovuto essere coordinata da organismi professionali". "Le telecamere pertanto saranno installate in conformità con gli accordi conclusi tra le parti. Israele ha già espresso il proprio consenso ad avviare il processo il più presto possibile", si legge nella nota."

(Rai News, 26 ottobre 2015)


Dopo le reazioni scandalizzate dei media alle parole apparse imprecise di Netanyahu, vediamo che cosa si dirà di quest’ultima sparata islamica. Chi darà lezioni di storia al Mufti musulmano? Ci sarà qualcuno che chiederà ad Abu Mazen di prendere posizione pubblica su queste affermazioni? M.C.


A MondoMerlot gran finale con i vini di Israele

La 16a edizione si è chiusa con degustazioni e il concerto della banda

Federico Steinhaus
Si è conclusa con il concerto della Banda Sociale di Aldeno la 16a edizione di MondoMerlot, che anche nell'ultima giornata, quella di ieri, ha proposto moltissimi appuntamenti sia agli amanti del nettare di Bacco sia alle persone che hanno apprezzato le prelibatezze sfornate dalle locande allestite nei cortili del paese, nonché dagli chef che hanno curato il Baccanale di sabato e la cucina d'autore di domenica.
Il programma si era aperto in mattinata con la degustazione delle eccellenze enologiche di Israele, organizzata nell'aula consiliare del Comune di Aldeno.
Alla presenza dell'ex presidente della comunità ebraica del Trentino Alto Adige Federico Steinhaus, Marco Larentis e Francesco Spagnolli hanno accompagnato una nutrita schiera di degustatori alla scoperta di sette vini dello stato mediorientale.
Eccellenze per nulla conosciute alle nostre latitudini, figlie di un'agricoltura che ha mosso i primi passi appena negli anni Ottanta e che lo ha fatto anche grazie ai preziosi insegnamenti degli agronomi italiani e trentini, segnatamente quelli dell'Istituto Agrario di San Michele.
I Merlot presentati ieri sono quelli prodotti in Galilea, Samaria, sopra Gerusalemme, a Samson e nel deserto del Negev, vini in grado di competere sui mercati di tutto il mondo.

Nel pomeriggio il testimone è passato nelle mani del manager enoico Luciano Rappo, che ha proposto ad un altro gruppo di appassionati l'assaggio di otto Merlot: i degustatori dovevano cercare di collocarli geograficamente in maniera corretta.
Nei calici sono finiti due vini trentini, due friulani, uno veneto, uno toscano ed uno laziale, insieme ad un intruso francese. Il tema ha sviluppato un dibattito vivace, che ha permesso ai presenti di apprezzare tutte le qualità dei Merlot esplorati.
Nel centro di Aldeno, nel frattempo, tante persone hanno visitato gli stand dedicati ai prodotti trentini e molte altre hanno frequentato il teatro per sorseggiare Merlot di qualità, fino al momento finale nella piazza di Aldeno, dominato dalle note della banda.
Si è chiusa così una delle edizioni meglio riuscite di questa manifestazione, che sarà ricordata per l'esordio di vini prodotti un paese straniero ospite, per l'allestimento delle locande nei cortili di Aldeno e anche per il record di etichette presenti, ben 115, caratterizzate da un livello qualitativo medio molto elevato.

«Sono tanti i motivi di soddisfazione in sede di bilancio - spiega il direttore tecnico Damiano Dallago -, in primis il successo del Concorso Nazionale, uno dei più selettivi, rigorosi e prestigiosi d'Italia, che ha ci ha poi portato alle premiazioni e alle degustazioni di Palazzo Geremia, una cornice che i nostri ospiti hanno apprezzato moltissimo.
«Così come quella offerta da Palazzo Piomarta a Rovereto, che ha portato sotto i riflettori un'enologa di fama come Barbara Tamburini. Interessante l'approfondimento legato ai Merlot israeliani, significativi per il territorio gli abbinamenti fra i vini della Cantina di Aldeno e i piatti della tradizione italiana. Siamo tutti molto stanchi, ma soddisfatti.»

(L'Adigetto, 26 ottobre 2015)


India e Israele: cooperazione nel settore idrico

 
La rapida industrializzazione e la crescita demografica degli ultimi anni hanno messo pressione alle limitate risorse idriche dell'India. Il recente annuncio della Cina, che vuole costruire una mega-diga sul fiume Brahmaputra, il quale attraversa anche la parte orientale dell'India, ha fatto riemergere tensioni tra i due paesi asiatici.
  Negli ultimi anni, Israele è diventato il primo partner dell'India nella gestione dell'acqua e delle tecnologie pulite. Durante la storica visita in Israele del Presidente indiano, i due paesi hanno stretto uno straordinario accordo di cooperazione volto ad espandere questa collaborazione tecnologica bilaterale.
  Il sito web di notizie indiane Boom Live ha descritto come la scarsità d'acqua rafforzi ulteriormente la cooperazione con Israele nel settore della tecnologia dell'acqua.
  L'India si trova di fronte alla prospettiva allarmante di avere a disposizione poca acqua entro il 2025. […] Un paese che si trova a dover fronteggiare il medesimo problema è Israele. Si tratta di un paese che ha soli 67 anni, ed ha un topografia estremamente arida. Hanno solo tre fonti di acqua naturale: Mar di Galilea, falde acquifere sotterranee ed il deflusso delle acque piovane.
  Durante la sua campagna elettorale dello scorso anno, il Primo Ministro Modi ha fatto una promessa ovvero ripulire le acque del fiume Gange. La sua promessa di migliorare la qualità dell'acqua è ampiamente considerata come un fattore importante della sua schiacciante vittoria elettorale dello scorso anno, perché il Gange è sacro per gli indù e passa attraverso 29 principali città indiane. Israele ha offerto assistenza tecnica per aiutare il governo a mantenere la sua promessa.
  La Ide Technologies sta costruendo diversi impianti di dissalazione in India, l'impianto più grande di questa serie è operativo dal 2013 e fornisce ogni giorno fino a 100 milioni di litri di acqua pulita e potabile alla città di Chennai, con una popolazione di circa 5 milioni di persone.
  La tecnologia dell'irrigazione a goccia israeliana sta svolgendo un ruolo fondamentale nel migliorare la produttività agricola, trasformando terre aride in terre coltivabili. La Netafim ha legato con una università indiana per studiare l'impatto dell'irrigazione a goccia nelle piantagioni di riso, un alimento base per la maggior parte degli indiani.
  La sola azienda israeliana Netafim ha posto 1,5 milioni di acri di terra sotto il proprio sistema di irrigazione a goccia dando beneficio a oltre mezzo milione di famiglie in tutta l'india.

(SiliconWadi, 26 ottobre 2015)


Le energie rinnovabili potrebbero gonfiare le bollette elettriche degli israeliani

Il crollo del prezzo delle attrezzature fotovoltaiche potrebbe costare agli utenti israeliani fino a 1,5 miliardi di shekel (375 milioni di dollari); tutto a causa dei tassi elevati che il governo ha accettato di pagare a due società che si occupano della costruzione e della gestione di parchi fotovoltaici. Lo rivela "TheMarker". Il problema risale a tre anni fa, quando le due aziende - Shari Arison Houisng & Construction Limited e Ic Green, una controllata di Idan Ofer Israel Corporation hanno ottenuto l'impegno scritto del governo israeliano a pagare tariffe relativamente elevate per l'energia generata dai parchi solari. Le tariffe dovevano rappresentare una sorta di compensazione per gli ingenti costi impiegati nella costruzione degli impianti solari, in particolare quelli termodinamici. Ma da allora, il costo di costruzione di un impianto è precipitato. Deutsche Bank, per esempio, stima che i costi dei pannelli fotovoltaici delle principali aziende solari cinesi sia sceso del 60 per cento passando da circa 1,31 dollari a watt nel 2011 a circa 50 centesimi nel 2014, ed è probabile che il prezzo scenderà ulteriormente nei prossimi anni.

(Agenzia Nova, 26 ottobre 2015)


«La mia intelligence israeliana per fare fuori i vostri sprechi»

Yoram Gutgeld, consigliere economico del premier: «I miei genitori sono sfuggiti a Hitler per un soffio A Tel Aviv ero nel reparto "cervelloni" dell'esercito. Adesso taglierò le spese per Renzi»

di Luca Telese

Yoram Gutgeld
«Sono nato a Tel Aviv, nel 1959: la città aveva mezzo secolo, prima del 1909 c'erano solo paludi e malaria. In questa storia di fondazione c'è tutta la storia di Israele». Yoram Gutgeld è il commissario alla spending review, ma anche - e soprattutto - uno dei principali cervelli economici renziani. È deputato, lavora a palazzo Chigi, per quasi tutta la sua vita di economista è stato senior partner in McKinsey, una delle più importanti società di consulenza organizzativa e strategica del mondo. Ha un carattere gioviale, si considera «un marziano nel mondo della politica», è sposato con una ex collega (Maria Antonietta) ha un figlio talentuoso, leader studentesco (Federico, ne parleremo tra poco), è uno dei padri degli «80 euro», della manovra sull'Imu e del taglio dell'Ires 2017: «Lo so che Libero è scettico e ci farà le pulci. Fa bene. Ma a chi dubita dico: il taglio ci sarà. È già in questa legge di stabilità».

- Onorevole Gutgeld: lei ha radici polacche, anagrafe israeliana, formazione americana, identità adottiva italiana. Chi è davvero?
  «Qualcosa in queste identità si assomiglia. Israele ha un po' dell'Italia e un po' dell'America».

- In che senso?
  «È un paese informale, poco gerarchico. La caratteristica più importante, come per l'Italia, è la creatività».

- La prima lezione che le arriva dalla storia della sua famiglia?
  (Sospiro amaro) «Potrei dire il tempismo».

- In che senso?
  «L'1 settembre 1939 Hitler invade la Polonia. Mio padre e i miei fratelli pensano che per gli ebrei stia arrivando la catastrofe, partono immediatamente. E si salvano. Le mie zie invece ... »

- Non volevano andar via?
  «Pensando ai figli, alle difficoltà alle loro vite, esitarono sui tempi. Decisero di seguire i fratelli, ma ritardarono di quattro giorni».

- Solo quattro?
  «Già. Ma in quel tempo erano la differenza tra la vita e la morte».

- Le frontiere si chiusero?
  «Esatto. Le mie nonne, le mie zie, tutti quelli che non partirono subito finirono sterminati tra i fili spinati del ghetto di Varsavia e i camini di Auschwitz».

- È vero che nella sua famiglia c'è una sorta di Oskar Schindler?
  «Sì, un personaggio straordinario: Roslan, l'autista di mio nonno decise di salvare i miei cugini nascondendoli in casa. Una storia bellissima, in parte tragica».

- Cosa accadde?
  «Roslan aveva un figlio coetaneo dei tre ragazzi. Un mio cugino e questo figlio si ammalarono di polmonite. Ma i miei cugini non potevano andare in ospedale! Le medicine erano razionate, i due bimbi ammalati si divisero le dosi di uno per sopravvivere».

- Incredibile.
  «Sì: dimezzando l'efficacia del trattamento morirono entrambi».

- Un'altra lezione?
  «Il massimo della ferocia del secolo, e il massimo della generosità di un uomo. Adesso Roslan ha un albero nel giardino dei Giusti: ogni volta che posso, ci vado».

- I lutti continuarono a segnare anche la sua vita.
  «Perdo mio padre a sei anni. Mia madre nove anni dopo. A 15 anni sono orfano di entrambi i genitori».

- Che famiglia erano i Gutgeld? Ricchi o poveri?
  «Classe media. Mio bisnonno era eletto nel parlamento polacco. Mio padre si era reinventato avvocato in Israele, con successo. Difendeva, tra gli altri, Moshe Dayan, l'eroe di guerra».

- Lei è un matematico?
  «Sì. Mio padre era matematico, la matematica oggi è il mio pane. I miei zii sono matematici, i miei figli hanno uno spiccato talento per i numeri. Evidentemente nel nostro Dna c'è la matematica».

- Il senatore Gotor, suo compagno di partito, scherzando con lei, la punzecchia: "Alla spending rewiew c'è un agente del Mossad".
  «Non le dico cosa rispondo a Miguel».

- Però è vero che lei era in un'unità speciale che si occupa di intelligence, la 8200.
  «In Israele l'esercito è il pilastro della società, luogo di formazione della classe dirigente: nasce dal kibbutz comunista, come idea di protezione collettiva. La nostra idea di esercito è diversa da quella europea: progressista, "napoleonico", segnato da una lunga leva».

- Un esempio?
  «In Italia, se eri potente, ottenevi l'esenzione dalla leva. In Israele se non sei stato nell'esercito sei un appestato».

- Addirittura?
  «Prima domanda nei colloqui di lavoro: "Dov'eri irrigimentato?" Se non hai vestito la divisa sei uno smidollato, ti cacciano».

- Una volta, in Versilliana, lei definì la sua ex unità, la 8200, "il reparto cervelloni" ...
  «È così: nell'8200 si studia la tecnologia applicata all'intelligence. Negli ultimi mille brevetti di Tlc registrati nel mondo, diversi vengono da quel reparto. Io, purtroppo o per fortuna, finiti i primi tre anni di leva, non firmai per il rinnovo a 5: a 23 anni andai a studiare in America».

- Però, molti anni più tardi, quando fondò la sede israeliana di McKinsey, ritrovò sulla sua strada la 8200
  «Accadde questo: alcuni dei ragazzi talentuosi che avevo assunto per aprire la filiale, furono tra coloro che nell'8200 realizzarono l'attacco hackeristico che rallentò il programma nucleare iraniano. Ragazzi svegli. Evidentemente avevamo scelto bene».

- Lei studia quattro anni in America, poi nel 1989 arriva in Italia, dove alla McKinsey conosce la donna della sua vita, Maria Antonietta Di Benedetto. Sceglie l'Italia per amore?
  «È così! Conosce la battuta preferita di mia moglie?»

- Temo di sì…
  «Noi abbiamo casa a Forte dei Marmi. La Santanché a Pietrasanta. Durante gli sbarchi Daniela diceva in ogni tv: "A sinistra, se sono coerenti, l'extracomunitario se lo prendano a casa!"».

- Un grande classico di Daniela.
  «Da allora Maria Antonietta ripete a tutti gli amici: "Sono l'unica che l'extracomunitario se lo è preso davvero!". Ah ah ah!».

- L'extracomunitario sarebbe lei.
  «Tecnicamente ineccepibile: anche se ormai, oltre al passaporto israeliano, ho pure quello italiano».

- Parliamo del suo incarico. Prima di lei sono saltati sette commissari alla spending rewiew, senza riuscire a ridurre la spesa!
  «Non è del tutto vero. Comunque noi la spesa la stiamo riducendo, 20 miliardi in 2 anni, e andremo avanti».

- Il suo predecessore, Carlo Cottarelli prendeva 250mila euro l'anno. Lei quanto costa agli italiani?
  (Congiunge pollice e indice in cerchio) «Zero! Ho rinunciato a qualsiasi paga. Mi basta lo stipendio da parlamentare».

- Entrando nella «Casta» si è arricchito o impoverito?
  «Per fare politica mi sono dimesso da McKinsey».

- Guadagnava 3 milioni di euro l'anno, Ora trenta volte di meno ...
  «Però non ho rimpianti».

- Lei è un progressista al cubo, un laburista, ma stima Bibi Netanyau, "il Berlusconi israeliano". È vero?
  «Per anni per me era il fratello di Yoni, unica testa di cuoio morta a Entebbe nel 1976, nel raid per liberare gli ostaggi. Poi l'ho conosciuto molto bene, a Tel Aviv. È un cervello sottile, un politico abilissimo».

- Un grande pregio della società israeliana che vorrebbe importare?
  «Il diritto al dissenso. E poi una sorta di spirito collettivo, in questo simile agli Usa: "Si può fare"».

- Mi faccia un esempio.
  «Negli Usa ho lavorato da esperto di teoria di giochi alla Rand, una società che, tra l'altro, si occupa di strategia perl'esercito americano».

- Teoria dei giochi, come Vaorufakis?
  (Ride) «Con più successo di lui, direi... Ma torno all'esempio: per sviluppare lo stesso carro trasporto-truppe corazzato, gli Usa ci hanno messo 15 anni e Israele tre».

- Perché?
  «Israele fa di necessità virtù: ha svi1uppato il sistema anti-razzo, contro quelli lanciati da Gaza, in soli tre anni: sembrava impossibile».

- Suo figlio è un leader studentesco, organizza proteste contro la riforma della scuola del suo governo. Come la mettiamo?
  «In Italia le colpe dei padri ricadono sui figli e viceversa: viene considerato sconveniente. Ricordo un titolo cult di Libero su noi due: "Gutgeld di lotta e di governo". Ne abbiamo riso per mesi».

- Perché?
  «Federico è un'intelligenza brillante: discutere con lui, soprattutto quando è critico, è per me un enorme arricchimento. Ricorda "il diritto al dissenso"? Lo pratico anche a casa».

- Chi le ha presentato Renzi ?
  «Un ex collega di McKinsey, Daniel Ferrero, uno che come imprenditore ha reinventato il marchio Venchi. Un genio».

- Amore a prima vista?
  «Per me sì. Matteo è brillante: impara, capisce e decide in un secondo. La caratteristica dei leader».

- Nel 2012 David Allegranti, sul «Corriere», la citò per primo: «Ecco Gutgeld, Mr. 100 euro». Ne ha persi 20 per strada?
  «L'idea originaria era una cifra tonda. Poi abbiamo quadrato i conti. Tutti dicevano: "È una balla", ma come vede sono ancora lì, promessa mantenuta».

- Mi dice una caratteristica di Renzi?
  «Spingere sempre, sempre, sempre, per ottenere di più. Se ho rinunciato al mio stipendio è perché può fare la differenza per l'Italia».

- Lei da economista criticava la politica della destra, da politico ora difende l'aumento del limite sui contanti.
  «Mai creduto che l'evasione si combatta con strumenti polizieschi. I raid della finanza a Cortina sono stati inutili e scellerati».

- Lo pensava anche prima?
  «Sì. Se sei terrorizzato evadi lo stesso. Ma forse non compri il suv! Il governo Monti aumentando tasse su barche e auto di lusso ha ricavato pochi soldi danneggiando interi settori di attività economica come i porti turistici».

- Come si combatte l'evasione?
  «Controlli incrociati, autocertificazioni. Con la reverse charge e il solit payement pensavamo di recuperare 2 miliardi, ne abbiamo incassati 3!».

- L'Europa vi ha fermato, però.
  «Solo una delle quattro proposte. Funziona il meccanismo. Con i controlli incrociati recupereremo altri 5 miliardi».

- È un governo amico delle banche, avete cancellato la portabilità dei mutui della Bersani.
  «Provi a vedere quanto sono incazzate per la tassazione delle quote di rivalutazione di Bankitalia!».

- Ma la centrale unica degli acquisti funzionerà mai?
  «Eccome. Centralizzeremo 15 miliardi di acquisti dello Stato quest'anno, molti di più nei prossimi».

- Il direttore di «Libero» è pronto a scommettere che non farete il taglio dell'Irpef nel 2018.
  «Con Belpietro scommetto quel che vuole, ci vediamo tra due anni. Se perde, però ... gli taglio lo stipendio eh eh».

(Libero, 26 ottobre 2015)


Italia e Israele sul podio dello Smallmovie Festival

 
CALCINAIA (PI) - Israele e Italia sul podio dello Smallmovie Festival 2015. Sono stati Naor Meningher e Antonio Losito i registi vincitori della quarta edizione della Rassegna Internazionale di Cortometraggi che da anni fa di Calcinaia il quartier generale dei piccoli film per il grande schermo.
   È stata ardua la competizione che ha visto concorrere ben 26 corti provenienti da tutto il mondo, selezionati su un totale di 250 opere pervenute. Qualità, originalità e respiro internazionale sono state le parole d'ordine di questa edizione. A valutare gli short-movies è stata una giuria d'eccellenza formata da cinque esperti del settore, tra giornalisti, blogger, attori e scrittori. Ma a divertirsi e godere dell'altissimo livello dei corti proiettati è stata una platea ben più ampia e di tutte le età, che ha letteralmente saturato Sala Don Angelo Orsini durante i due giorni di Sabato 24 e Domenica 25 Ottobre, in cui il Festival si è articolato.
   A conquistare il primato nella categoria "Horror" è stato cortometraggio dal titolo "The Rat's Dilemma", realizzato nel 2014 dall'artista israeliano Naor Meningher. Un'opera che tratta il tema dell'Olocausto in maniera innovativa, capace di incontrare l'apprezzamento unanime dei giurati e tenere sulle spine il pubblico. Molto gradito anche il messaggio di ringraziamento dell'autore, registrato in italiano e proiettato in sala.
   Per la sezione "Tema Libero" la vittoria è stata di un regista italiano. Si tratta di Antonio Losito, regista del corto "Il Sarto dei Tedeschi", girato nel 2015 in Toscana. Scritta da Cristiano Mori, l'opera racconta la storia di un sarto di paese che si trova, suo malgrado, a prestare servizio a un generale nazista. "L'idea di questo corto - ha affermato il regista, presente in sala per l'occasione insieme ad alcuni attori - è nata dalla ricerca delle mie radici familiari, che affondano proprio in terra toscana".
   E infine una menzione speciale, attribuita a "La smorfia", cortometraggio realizzato nel 2015 dal regista italiano Emanuele Palamara.
   Grande successo per lo special guest del Festival, l'attore e scrittore Michael Segal, intervistato in esclusiva da Giacomo Lucarini, presentatore della due giorni.
   "Il Comune di Calcinaia - ha dichiarato l'assessore alle politiche giovanili, Beatrice Ferrucci - è onorato di ospitare e patrocinare una rassegna tanto importante come lo Smallmovie Festival. Il ringraziamento va dunque all'associazione promotrice Smallmovie, a tutti gli sponsor e ai partecipanti che hanno inviato i loro corti da tutto il mondo. Una simile partecipazione dimostra come ormai l'International Short Film Competition di Calcinaia sia divenuto un appuntamento fisso, la cui fama va decisamente oltre i nostri confini nazionali".

(#gonews.it, 26 ottobre 2015)


Dan Bahat: "L'archeologia biblica di Gerusalemme"

Evangelici d'Italia per Israele (EDIPI), in collaborazione con la Chiesa Evangelica locale organizza a Como, sabato 14 novembre, l'incontro: "L'archeologia biblica di Gerusalemme", oratore sarà Dan Bahat.

Di fronte al furto della cultura ebraica che l'Unesco ha recentemente perpetrato con l'ufficializzazione della Tomba di Rachele e quella dei Patriarchi, come parti integranti della cosidetta "palestina", riconoscendoli come siti islamici e non più ebraici, EDIPI ha pensato di organizzare una giornata intera di archeologia biblica con un oratore che non ha bisogno di presentazioni: Dan Bahat!
  Sabato 14 novembre in collaborazione con la chiesa evangelica di Como del pastore Gianni Digiandomenico (peraltro socio fondatore di EDIPI) si svilupperà l'argomento di Gerusalemme Archeologica in risposta anche al subdolo tentativo promosso all'Unesco con una mozione tendente a far passare anche il Muro del Pianto come parte archeologica della Moschea di Al Aqsa.
  La giornata prevede in mattinata, dalle 10:00 alle 13:00, il tema di Gerusalemme nell'Antico Testamento e al pomeriggio dalle 15:00 alle 18:00 il periodo del Nuovo Testamento.
  Nell'occasione verrà presentato il viaggio di archeologia biblica che EDIPI ha in programma di organizzare nel aprile/maggio 2016 proprio con Dan Bahat in veste di guida. Il programma è in fase di definizione e verrà ufficializzato durante il XIV Raduno Nazionale EDIPI di Caserta del 27-29 novembre 2015. Orientativamente Dan Bahat ha proposto una settimana intera a Gerusalemme articolata in 6 tappe giornaliere:
  1. giorno: la città di Davide;
  2. giorno: Monte Zion, la Cittadella e Primo Muro;
  3. giorno: Secondo Muro, Porta di Damasco, Garden Tomb, Area Archeologica dell'Ecole Biblique con            le tombe del 1o Tempio;
  4. giorno: Area Archeologica del Quartiere Cristiano;
  5. giorno: Monte degli Ulivi e Valle del Cedron;
  6. giorno: Spianata del Tempio, Muro del Pianto e Tunnel.
  7. Il viaggio comprende altri due giorni destinati a arrivi, partenze e tempo libero per gli acquisti.
Per informazioni sul viaggio: 3475788106, info@edipi.net, www.edipi.net
Per l'incontro di Como: 3421518368 - Chiesa Cristiana Evangelica Emmanuel - via Borgo Vico 22.

(EDIPI, 26 ottobre 2015)


La tecnologia israeliana salva vite alla faccia del terrore

L'attuale situazione in Israele spinge le startup legate alla sicurezza a cambiare il proprio business model.
Le tecnologie create da numerose aziende della Startup Nation potrebbero salvare la vita ed aiutare a fronteggiare questa continua ondata di violenza, in corso nelle ultime tre settimane, che ha visto regolari attacchi terroristici ai danni degli israeliani. L'attuale situazione ha senza dubbio avuto un impatto sulle startup israeliane.
Amir Elichai, CEO e fondatore di Reporty Homeland Security, ha detto al Jerusalem Post che l'attuale situazione d'allarme, lo ha spinto a cambiare il modello di business e ad accelerare il lancio del suo prodotto.
Il sistema Reporty cerca di creare una rete globale delle relazioni, fornendo in pochi secondi a chi dirige le operazioni di emergenza tutte le informazioni necessarie per intervenire tempestivamente. Con un semplice click, la piattaforma consente agli utenti di trasmettere video dal vivo e registrazioni audio direttamente dalla scena dell'emergenza. Inoltre, permette di geolocalizzare la scena, permettendo agli operatori di sicurezza di individuare l'esatta posizione....

(Progetto Dreyfus, 26 ottobre 2015)


Oltremare - HaTikwa

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Quest'anno hanno iniziato prestissimo, già a inizio anno ebraico, in corrispondenza con l'inizio delle violenze, di quella che viene chiamata "Intifada dei coltelli" o "Intifada dei singoli", o "Non chiamatela Intifada!", a seconda di chi parla o scrive. Il ventesimo anniversario dell'assassinio di Yitzhak Rabin è iniziato prima di metà settembre, ma le cerimonie, di stato o di piazza, sono di questi giorni. Tutti a dire quanto ci manca, tutti a contare gli anni e a ricordarsi dove si era, che cosa si stava facendo, quel sabato sera del 4 novembre di vent'anni fa.
E sembra un po' contraddittorio, con la corsa alla bomboletta di spray al pepe, pensare che il 31 ottobre decine di migliaia di persone si ritroveranno come ogni anno in Kikar Rabin. L'estate scorsa, in un momento di altrettanta mancanza di sicurezza, le manifestazioni erano state vietate. All'epoca, il motivo era che in caso di sirena antimissile, chi era in piazza non avrebbe avuto abbastanza tempo per correre in un rifugio. A pensarci oggi, paiono passati decenni, e lo stesso viene la pelle d'oca.
Durante la crisi attuale non ci sono sirene da allarme rosso, non si contano i pezzi di missili caduti nei giardini e davanti alle scuole, ma la sicurezza personale non è in condizioni migliori. Eppure in piazza ci si va, esattamente come si va a teatro o al cinema, e ci si siede nei ristoranti, che, come sa chiunque sia stato in Israele, sono composti molto più da dehors che di sale interne. Anche questa è resistenza.
Quindi fra una settimana la Kikar si riempirà di nuovo. Parleranno i politici, canteranno i cantanti. Nessuno applaudirà, come sempre quando si tratta di una commemorazione. Alla fine tutti canteremo "Shir la-Shalom", pensando al foglio insanguinato che si può vedere oggi nel Museo Rabin. E quando suonerà l'"Ha-Tikva", può darsi che per allora un qualche genere di speranza si sia prodotta, almeno in quelli che sono in piazza.
È lei, che ci manca, la speranza, in questi giorni, ma possiamo anche chiamarla Yitzhak Rabin.


(moked, 26 ottobre 2015)


Tanto clamore per una non notizia

Lettera a "il Resto del Carlino"

Trovo sconcertante che si dia tanto risalto a una non notizia, quella sulla supposta frase di Netanyahu su Hitler, subito smentita dalle dichiarazioni successive nei siti che seguono le drammatiche vicende del terrorismo arabopalestinese e della jihad in atto contro Israele. Spiace che altrettanto spazio non sia stato dato allo stillicidio di attentati contro civili, famiglie, ragazzi, bambini israeliani nella quotidianità e ai proclami di Hamas e Abu Mazen che incitano i giovani arabopalestinesi contro gli ebrei. Netanyahu forse voleva evidenziare una realtà inoppugnabile, ma che in Occidente si vuole scordare. Il Mufti di Gerusalemme al-Husseini, pare della stessa famiglia di origine di Arafat, era un fervente nazista e partecipò alla guerra contro gli alleati in M.O. ma soprattutto contro gli ebrei. In ogni caso, stupisce l'accanimento di molti media italiani su Israele. Sembra quasi che per dire la verità su Israele e sul suo popolo, Paese e popolo che hanno difetti e virtù come gli altri, ci voglia una dose maggiore di coraggio e di obiettività. Spero che il 'Carlino', che ha avuto il coraggio di pubblicare di recente la verità sul lodo Moro, si adoperi per portare chiarezza sulla unica, vera democrazia del M.O.
Antonella Celletti, Bologna

(il Resto del Carlino, 26 ottobre 2015)


Haniyeh: nessuna potenza al mondo può fermare l'Intifada

BEIRUT - Nessuna potenza al mondo può fermare l'Intifada in corso contro Israele. Lo ha dichiarato quest'oggi il numero due del movimento islamista palestinese di Hamas, Ismail Haniyeh, ribadendo il proprio sostegno a quella che ha definito "l'Intifada di al Quds", ovvero la "sollevazione di Gerusalemme". "Siamo pronti per l'unità politica e popolare a tutti i livelli e vogliamo aderire a una strategia nazionale comune per proteggere l'Intifada, rivendicare i diritti dei palestinesi e gli inalienabili principi nazionalistici", ha affermato Haniyeh durante una dimostrazione a Beirut, ripreso dall'agenzia di stampa palestinese "Ma'an".

(Agenzia Nova, 25 ottobre 2015)


I dirigenti palestinesi, che si nascondono sotto terra nei bombardamenti e non si espongono mai a rischi reali, vogliono che i giovani continuino a uccidere e a farsi uccidere. E a loro la comunità internazionale non chiede mai conto di quello che dicono e fanno. M.C.


Israele e Giordania trovano un accordo: telecamere sulla Spianata delle Moschee

Il segretario di Stato Usa, John Kerry ha annunciato che Israele e la Giordania hanno trovato un accordo su nuove misure per ridurre le tensioni alla moschea di al Aqsa, a Gerusalemme. Kerry ha incontrato ieri ad Amman il re giordano Abullah II e il presidente palestinese Abu Mazen ad Amman in Giordania. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha acconsentito ad installare delle telecamere di sicurezza sulla Spianata delle Moschee (Monte del Tempio per gli ebrei, ndr) di Gerusalemme, operative 24 ore su 24, per dimostrare che Israele non sta modificando lo status del luogo sacro e non sta attuando misure punitive contro le moschee. Il segretario di Stato Usa John Kerry ha anticipato che Netanyahu annuncerà ulteriori provvedimenti, a conferma dell'intenzione israeliana di voler mantenere lo status del luogo. Tutte le misure, ha precisato Kerry secondo quanto riporta la stampa israeliana, sono state accettate dal governo giordano.
   Israele è anche d'accordo per «rispettare pienamente il ruolo particolare» della Giordania, guardiana dei luoghi santi, secondo lo status quo del 1967, ha aggiunto il segretario di Stato americano. Secondo Kerry, «Israele non ha intenzione di dividere la Spianata» e si «felicita della accresciuta collaborazione fra le autorità israeliane e giordane» che devono riunirsi «prossimamente» per rafforzare il dispositivo di sicurezza su questo luogo santo divenuto attualmente uno dei punti caldi del conflitto israelo-palestinese. Il segretario di Stato Usa, John Kerry, si è detto quindi «speranzoso» all'inizio del colloquio ad Amman con il presidente dell'Anp, Abu Mazen, per cercare di abbassare la tensione in Israele e Cisgiordania. «Abbiamo sempre la speranza», gli ha fatto eco il leader palestinese, «non abbiamo perso la speranza». Kerry è impegnato in una girandola di contatti che in settimana lo aveva anche portato a incontrare a Berlino, Benjamin Netanyahu.
   Un palestinese è stato ucciso nei pressi di Jenin, in Cisgiordania dopo aver tentato di accoltellare guardie della sicurezza israeliana di un checkpoint. Il presidente palestinese ha chiesto al segretario di Stato Usa, John Kerry, di sostenere l'invio di una forza internazionale «per proteggere il popolo palestinese» durante i colloqui in corso ad Amman. Kerry ha a sua volta sollecitato Abbas a «convocare una conferenza internazionale che porti alla creazione di uno Stato palestinese indipendente con i confini del 1967».

(il Giornale, 25 ottobre 2015)


Il sionista Spinoza

Il filosofo ebreo, mai «scomunicato» dai rabbini, vedeva nella Bibbia le origini della democrazia e ipotizzava la nascita di un nuovo Stato d'Israele.

di Donatella Di Cesare

 
Baruch Spinoza
Può capitare di salire su un autobus, fermo alla stazione di sosta, e di imbattersi in un autista immerso nella lettura di un libro. La sorpresa aumenta quando si riesce a scorgere il titolo. Il libro è l'Etica di Baruch Spinoza, la stazione degli autobus è quella di Tel Aviv.
   Ma che ci fa Spinoza in Israele? Non è stato forse «scomunicato», espulso dal popolo ebraico già secoli fa? Come mai il suo spettro si aggira nel cuore della società israeliana? Per rispondere occorre ripartire proprio dal mito di quella «scomunica» che continua a essere divulgato in modo acritico. Secondo la versione più diffusa, il 27 luglio 1656 le autorità rabbiniche della comunità di Amsterdam avrebbero «scomunicato», con tanto di cerimonia lugubre, celebrata sotto la volta della sinagoga dello Houtgracht, Bento Spinoza, registrato con il nome ebraico di Baruch. La scena assume un valore emblematico: è l'apice dello scontro fra il libero pensiero e la rigida ortodossia ebraica, tra l'apertura della scienza e l'intolleranza della religione. La condanna di Galilei e la «scomunica» di Spinoza segnerebbero la fine di un'epoca buia, inaugurando la modernità.
   Descritta talvolta con dovizia di particolari, tra candele nere, voci accorate, suono dello shofàr, la scena della «scomunica» non si è mai verificata. Frutto di una immaginazione, per nulla innocente, è la «scomunica» stessa. Da che cosa avrebbe dovuto essere «scomunicato» Spinoza? L'ebraismo non ha, a differenza della Chiesa, né un'autorità centrale né un dogma teologico, sulla cui base si possa impedire la «comunione» di sacramenti. Secondo le ricerche condotte negli ultimi anni si può dire che, in una saletta attigua alla sinagoga, i pamassim, le autorità laiche, i capi riuniti nel ma'amad, il consiglio della comunità, diedero lettura di un testo in ebraico, andato perduto, di cui depositarono una copia in portoghese: per via delle sue horrendas heregias, «orrende eresie», si vietava ai membri della comunità di Amsterdam di avere ancora rapporti con Bento Spinoza.
   Il divieto non fu rispettato. Dal canto suo Spinoza, che non era presente alla lettura, per difendersi inviò un testo in spagnolo, la Apologia, di cui non resta traccia, ma che dovette confluire nel suo celebre Trattato teologico-politico. L'evento non ebbe risonanza. La comunità prosperò e fiorì senza il giovane ribelle, il quale continuò a frequentare gli amici di prima e a sviluppare le sue «idee eretiche».
   Oscuro resta il motivo concreto del provvedimento: forse Spinoza aveva deciso di disfarsi dell'eredità del padre, un cumulo di debiti, forse non aveva pagato le quote alla comunità, forse fu colto in flagrante mentre, insieme a Iuan de Prado, violava apertamente lo Shabbat. Ma Spinoza, per carattere, era riservato e introverso; non amava la bagarre. La serena intimità dei quadri di Vermeer non deve ingannare: tra i canali del quartiere di Vlooienburg, nella «Gerusalemme olandese», i conflitti erano all'ordine del giorno. I vecchi marrani, che avevano resistito alle persecuzioni in Spagna e Portogallo, erano convinti di aver conservato in segreto l'ebraismo. Non ne avevano, però, che un pallido ricordo. L'impatto con la tradizione, che si era mantenuta viva negli altri Paesi europei, fu dunque traumatico. Giunsero da Venezia rabbini famosi come Rabbi Saul Levi Mortera, per insegnare a quegli ex conversos che Purim non era, come loro immaginavano, la festa di Santa Ester.
   Fioccavano perciò i provvedimenti di cherem, di bando dalla comunità. Lo storico Yosef Kaplan ne ha contati almeno 40 nel periodo tra il 1622 e il 1683. Il cherem poteva durare anche solo un paio di giorni. La tensione era alta anche all'esterno. I capi della comunità dovevano dimostrare alle autorità olandesi che gli ebrei, oltre a seguire l'ortodossia, si guardavano bene dal sostenere idee politiche troppo radicali. Che fare con il giovane Spinoza, strenuo difensore della democrazia e della sovranità popolare? il cherem ebbe, dunque, un valore politico. Ma a che scopo alimentare il mito della «scomunica», come hanno fatto già i primi biografi, Johan Colerus e soprattutto Jean-Maximllien Lucas, che riportano notizie tendenziose e apocrife?
   Ha parlato, senza mezzi termini, di «antisemitismo» Richard Popkin, tra i maggiori studiosi del filosofo: sulla scia di precedenti illustri, Spinoza è stato dipinto come un martire per gettare discredito sulla comunità di Amsterdam e su tutto il mondo ebraico.
   Eppure Spinoza è rimasto sempre ebreo. In veste geometrica e in lingua latina ha articolato la tradizione ebraica, inserendola nella riflessione europea. Di qui la straordinaria complessità della sua opera. Né ricchezza, né onore, né piacere sono beni certi. Eppure li inseguiamo ogni giorno, lasciando la nostra vita in balia di passioni e sbalzi morali che la turbano. Questo patetico amore per il bene effimero non è che idolatria. Chi è eticamente libero non teme la sorte avversa né attende ricompensa nell'aldilà.
   Per spezzare le catene della schiavitù etica occorre amare ciò che è infinito, eterno, perfetto. Solo l' «amore intellettuale di Dio» è fonte di «letizia» - e nella laetitia riecheggia l'ebraico simchà. Che cosa significa, d'altronde, l'emendazione dell'intelletto, di cui Spinoza parla nel suo primo trattato? A chiarirlo è l'ebraico tikkùn, riparazione. Emendare l'intelletto vuol dire ricondurlo al Sommo Bene. Perfino la formula Deus sive natura, secondo cui Dio è natura, non è la negazione della trascendenza, ma proviene - come ha mostrato il noto studioso Moshe Idei - dalla Kabbalà. 10 aveva già detto, d'altronde, in un saggio del 1864, il grande rabbino di Livorno Elia Benamozegh.
   Il mondo ebraico non ha mai dimenticato Spinoza. Certo, ha guardato con qualche sospetto quel primo grande intellettuale della modernità. Tracce di ciò si rinvengono nel breve racconto di lsaac B. Singer Lo Spinoza di via del Mercato. Nahum Fischelson, un filosofo in pensione, viveva nella quieta solitudine del suo piccolo appartamento di Varsavia, lontano dalla comunità. Di tanto in tanto gettava un'occhiata sulla via del Mercato, poi tornava beato a leggere l'Etica di Spinoza. Ma improvvisamente si ammalò. Una vicina, Dobbe la nera, fu presa allora da pietà; superato il timore per l'«eretico», andò ad accudirlo. Sbocciò l'amore e, inatteso, si celebrò il matrimonio. Durante la prima notte di nozze, l'anziano filosofo, finalmente felice, si affacciò alla finestra. «Aspirò profondamente l'aria della notte, poggiò le mani tremanti sul davanzale e mormorò: "Divino Spinoza perdonami. Sono diventato uno sciocco"».
   Ma l'immagine deU'eretico, riflessa dall'esterno, non ha mai fatto presa nel mondo ebraico, screditata e confutata da un approfondito dibattito sul Trattato teologico-politico. Di solito quest'opera è letta come un attacco all'ebraismo. Vengono omessi, a questo scopo, due lunghi capitoli dedicati alla «Repubblica degli ebrei».
   Spinoza può allora essere presentato come il pioniere del pensiero secolare, come appare nella versione addomesticata che ne dà Steven Nadler. Come mai Spinoza si sofferma sulla costituzione del popolo ebraico? Non sono stati i greci a introdurre la democrazia. Spinoza punta !'indice contro Platone e Aristotele. Non solo hanno affiancato la democrazia all'aristocrazia e alla monarchia, non solo hanno visto nel potere dei più una forma deteriore di governo, ma hanno persino tollerato al margine la schiavitù. Dove c'è schiavitù, però, non ci può essere democrazia. Per Spinoza è stato il popolo ebraico a introdurre per la prima volta la democrazia nella storia del mondo. In una pagina magistrale situa quell'istante all'uscita dall'Egitto. Liberati dall'oppressione, gli ebrei seguirono il richiamo del Dio sovversivo che fece uscire il popolo «con braccio teso».
   Furono finalmente cittadini, non più sudditi. Una volta riconquistato il proprio diritto, avrebbero potuto conservarlo ciascuno per sé, o trasferirlo ad altri. Invece presero una decisione che li distinse da tutti gli altri popoli. Con le parole di Spinoza: «Decisero di non trasferire il proprio diritto a nessun mortale, ma soltanto a Dio e, senza esitare, promisero tutti ugualmente a una voce», uno clamore.
   
Nel patto teologico-politico che stringono non ci può essere dominio di un essere umano sull'altro. Se ci fosse, verrebbe meno l'eguaglianza di tutti. La forma politica di Israele è la teocrazia. Anzi, theocratia è la traduzione greca dell'ebraico Israel, «che Dio regni!», il «Regno di Dio». Il potere di Dio garantisce che non ci sia comando, dominio di un essere umano sull'altro.
   Martin Buber e lacob Taubes parleranno perciò di «teocrazia anarchica» di Israele o Nella visione radicale di Spinoza la teocrazia è però sospesa non appena il popolo ebraico riconosca un altro potere. L'ebreo divenuto cittadino della Repubblica d'Olanda non è tenuto più a osservare lo Shabbat, che ha anche un eminente valore politico. Della teocrazia ebraica resta allora il «braccio teso» del popolo, gesto di libertà, simbolo di uguaglianza, promessa di democrazia, esempio per tutti gli altri popoli, impegno di Israele nel futuro.
   Che ne sarà allora della «Nazione ebraica» in esilio? Per Spinoza l' «elezione» degli ebrei, legata alla storia, è politica, motivata dalla loro forma di governo. E scrive: «Potrei assolutamente credere che, se si presentasse la possibilità, gli ebrei ricostruiranno un giorno il loro Stato e Dio li eleggerà di nuovo».
   Spinoza è stato il primo sionista? L'aveva già riconosciuto con chiarezza Moses Hess nel suo scritto del 1862 Roma e Gerusalemme. D'altronde Spinoza è stato anche il primo vero linguista dell'ebraico. Il suo Compendio di grammatica ebraica è lo studio pionieristico dell'ebraico vivo, la dimora che, per Spinoza, attendeva la nazione ebraica in esilio.
   Ahinu attà, «sei nostro fratello!». Il 21 febbraio 1927 Yosef Klausner pronunciò un discorso ufficiale all'Università ebraica di Gerusalemme in cui toglieva il bando e rivendicava Spinoza alla cultura ebraica. Quando mai aveva contato quel cherem? - commentò caustico Gershom Scholem. Nel 1953 Ben Gurion proclamò che era venuta l'ora di riparare al torto e tradurre Spinoza in ebraico. Emmanuel Levinas criticò dapprima Ben Gurion, ma poi a sua volta scrisse Avete riletto Baruch? L'edizione delle opere in ebraico ha prodotto una rinascita di studi. Fondato da Yirmiyahu Yovel nel 1984 il Jerusalem Spinoza lnstitute è solo uno dei centri universitari dove si discute, non senza toni accesi, l'eredità del grande filosofo. Poco note sono ancora in Italia le ricerche dell'ultimo decennio su Spinoza e, più in generale, sul pensiero politico ebraico.

(Corriere della Sera, 25 ottobre 2015)


Israele: caccia alla Jihad Islamica e agli operativi di Hamas

Si teme una "competizione" tra gruppi terroristici per accreditarsi come "vera resistenza palestinese". Hamas e Jihad Islamica si contendono lo scettro a suon di attentati e rivendicazioni.

Giovedì mattina, un adolescente palestinese ha accoltellato un soldato nella cittadina di Gush Etzion a sud di Gerusalemme. Il giorno dopo due palestinesi di 20 anni hanno accoltellato un uomo israeliano dopo aver tentato invano di salire su uno scuolabus pieno di bambini nella città di Beit Shemesh (Israele centrale). Tutti e tre i terroristi venivano dal villaggio palestinese di Surif e i due che hanno tentato una strage di bambini cercando di salire sullo scuolabus avevano addosso magliette con scritto "Izz ad-Din al-Qassam", il braccio armato di Hamas. Tutto questo fa propendere le autorità israeliane a non credere alla teoria dei "lupi solitari" ma piuttosto ad azioni coordinate direttamente da Hamas....

(Right Reporters, 25 ottobre 2015)


Maajid Nawaz: "Noi musulmani liberali dobbiamo solidarizzare con atei oppressi dalla sharia"

"Immaginate di essere scuri di pelle, atei ex musulmani con un nome musulmano. Questa forse è la 'minoranza dentro una minoranza' più perseguitata nel mondo oggi": a dirlo è Maajid Nawaz, in passato estremista islamico e da anni musulmano laico attivo nel contrasto all'integralismo.
   Su The Daily Beast invita i suoi correligionari a prendere coscienza di un problema spesso taciuto: l'intolleranza e la violenza islamiste diffuse nel mondo contro liberi pensatori, atei e laici. "C'è una guerra sanguinosa portata avanti contro l'ateismo. Ed è giunto il momento di mostrare noi tutti — specialmente noi liberali e musulmani — quella forma di solidarietà che ci aspettiamo giustamente dagli altri", afferma.
   Denuncia quindi la degenerazione del multiculturalismo: la "lodevole preoccupazione liberale" di tutelare le minoranze "è stata sfruttata da voci organizzate della comunità, che hanno l'interesse garantito per legge a mantenere una identità di gruppo tribale che sostengono di rappresentare". Questi "capi tribù del ghetto" hanno "accecato" coloro che "si considerano progressisti": questi ultimi "sono diventati i più devoti difensori di pratiche sociali e politiche regressive", in nome della tolleranza culturale.
   Una delle conseguenze è "soffocare le voci dissidenti dentro le minoranze". Nawaz ha scritto a quattro mani con Sam Harris, esponente del "new atheism" noto in passato per posizioni molto dure verso la religione musulmana, Islam and the Future of Tolerance: i due intellettuali si confrontano anche per mettere in discussione una narrativa vittimistica che riduce ogni critica a quella religione a "islamofobia", "bigottismo" (se non razzismo).

(UAAR, 24 ottobre 2015)


A Expo il Parmigiano Reggiano è kosher

La prima forma di formaggio prodotto in stretta osservanza con le regole ebraiche sarà aperta il 27 ottobre nel padiglione di Israele.

REGGIO EMILIA - Spicca sicuramente tra le novità di Expo 2015 e sarà protagonista dell'evento in programma martedì nel padiglione di Israele: si tratta della prima forma di Parmigiano Reggiano "Kosher", prodotta in stretta osservanza dell'insieme di regole religiose (denominate Kasherut) che da tremila anni, ispirandosi alla Torah, governano l'alimentazione degli ebrei osservanti in tutto il mondo.
Prodotta un anno fa dall'azienda agricola Bertinelli di Parma, la forma che sarà aperta ad Expo fa parte della produzione marchiata pochi giorni fa dal Consorzio del Parmigiano Reggiano (operazione che non può avvenire prima di 12 mesi di stagionatura), ed è stata certificata "Kosher" (ossia "conforme alla legge" ebraica) da uno dei più autorevoli enti in materia: OK Kosher Certification, con sede a New York, dove vive una delle più importanti comunità ebraiche del mondo.
L'ordine di grandezza dell'interesse e dei possibili scambi commerciali che ruotano attorno al Parmigiano Reggiano "Kosher" emergono da cifre che parlano di 13,5 milioni di persone di fede ebraica nel mondo (40.000 in Italia), ma anche di milioni di consumatori che acquistano prodotti Kosher come simbolo di particolare rigore su qualità e processi produttivi: negli Stati Uniti, ad esempio, si tratta di 12,5 milioni di persone, con i prodotti Kosher che rappresentano quasi il 30% degli alimenti venduti nei supermercati.
L'evento in programma il 27 ottobre ad Expo - promosso dal Consorzio del Parmigiano Reggiano e dal padiglione israeliano ad Expo - prevede, come si è detto, l'apertura della prima forma di Parmigiano Reggiano "Kosher" alle 11 nel Padiglione di Israele ad Expo 2015, alla presenza del Commissario generale del padiglione, Elazar Choen, del presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano, Giuseppe Alai, dell'amministratore delegato dell'Azienda Bertinelli di Parma, Nicola Bertinelli, e del Rabbi Yeshaya Prizant, rappresentante dell'ente certificatore OK Kosher.

(Reggio Sera, 24 ottobre 2015)


La colonna sonora violenta dell'Intifada palestinese

Le canzoni militanti spopolano tra i giovani, tra radio e social network.

di Lucio Di Marzo

Ad accompagnare le violenze in Israele e nei Territori palestinesi c'è una colonna sonora fatta di canzoni militanti e spesso esplicitamente violente, che vanno a ruba nei negozi che le distribuiscono su cd e spopolano pure sui social network.
Brani dai testi espliciti come "Pugnala, pugnala", prodotti come il cd "Gerusalemme sanguina" che accompagnano le aggressioni e sono raccontati da un reportage del New York Times, che spiega come nell'ultimo periodo la richiesta sia aumentata enormemente e gli scaffali dei negozi si svuotino in fretta.
Dietro alle canzoni della rivolta ci sono persone come Adnan Balaweneh, autore che dice di avere sentito il bisogno di "scrivere un brano che fosse di ispirazione per l'intero popolo palestinese". Da lì è nato "Continua l'Intifada", un successo da subito, come i molti inni violenti che ogni giorno finisco online su YouTube,

(il Giornale, 24 ottobre 2015)


Shoah, gli ebrei se la prendano anche con Stalin

di Paolo Guzzanti

La polemica sulla frase del premier israeliano Netanyahu sul Gran Muftì di Gerusalemme che convinse Hitler a «bruciare» gli ebrei anziché espellerli, è stucchevole.
Hitler aveva già deciso. Basta leggere Mein Kampf. Ciò non toglie che il Gran Muftì riverisse la svastica nazista implorando l'assassinio di tutti gli ebrei. Tuttavia la vera «ingegnerizzazione» della Shoah - camere a gas e forni - fu ispirata ai gulag sovietici dove erano già stati eliminati milioni di cadaveri. Rudolf Hess costruì Auschwitz dopo aver studiato le tecniche di sterminio comuniste e il giornalista Bertrand Jouvenal nelle sue memorie ricorda di aver incontrato a Mosca già nel 1935 tecnici nazisti che fotografavano i gulag.
Quando era alleato di Stalin, Hitler spedì altri tecnici a Mosca, visto che crescevano le esigenze. Tornarono frustrati: «Li stipano sui vagoni, nudi a -30o e li scaricano nelle fosse. Lo chiamano crematorio bianco ma non fa per noi». Così, si perfezionò la catena di smontaggio del popolo ebraico negli stabilimenti targati «Arbeit macht Frei». Hitler creò stazioni radio naziste in arabo che ispirarono la nascita di tutti i partiti (nazional) socialisti arabi a cominciare dal Baath di Saddam Hussein e di Assad padre. Dov'è la polemica?

(il Giornale, 24 ottobre 2015)


Incontro nel segno dell'arte fra Berlino e Gerusalemme

Cinque mostre volute e promosse da James Snyder, direttore del più popolare museo dello Stato ebraico, per celebrare il 50 anniversario delle relazioni diplomatiche.

di Maurizio Molinari

 
Il quadro di Lotte Larenstein "Pomeriggio su Postdam" dipinto nel 1930, mostra apatia e rassegnazione dei giovani tedeschi rispetto alla bufera in arrivo. Si richiama alla Cena degli Apostoli di Leonardo
GERUSALEMME - Berlino incontra a Gerusalemme al Museo d'Israele e per Udo Kittelmann, direttore della "Nationalgalerie", si tratta di una sfida alla "distruzione della Cultura" promossa oggi dai jihadisti dello Stato Islamico (Isis) come negli anni Trenta facevano i nazisti. L'incontro nel segno dell'arte fra Berlino e Gerusalemme avviene grazie all'inaugurazione nel Museo d'Israele di cinque mostre volute e promosse da James Snyder, direttore del più popolare museo dello Stato ebraico, assieme a Michael Eissenhauer, direttore generale del "Staatliche Museen zu Berlin" ovvero dell'Ente che riunisce tutti i musei della apitale tedesca.
   L'iniziativa avviene in coincidenza con il 50o anniversario delle relazioni diplomatiche fra Germania e Israele e cinquanta è il simbolico numero di quadri dell'Espressionismo tedesco che la "Nationalgalerie" espone a Gerusalemme. Varcare l'entrata della mostra Twilight over Berlin - La notte scende su Berlino - significa incontrare 50 opere d'arte delle circa 700 che il regime nazista mise al bando considerandole "degenerate".
   Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, arrivò ad organizzare una mostra itinerante nella Germania pre-guerra per mostrare a milioni di tedeschi la "degenerazione" di tali opere, contrapponendola alla presunta perfezione della cultura ariana. «Grazie all'impegno di singoli cittadini molti di questi quadri non sono stati distrutti, sono arrivati alla fine della guerra, la Nationalgalerie li ha restaurati ed oggi è possibile osservarli qui a Gerusalemme - ha detto il direttore Udo Kittelmann presentando la mostra assieme a James Snyder - in un evento che ci dice quanto è importante resistere alla barbarie che vuole distruggere la Cultura». Ovvero, al nazismo di allora in Europa come allo Stato islamico del Califfo oggi in Medio Oriente.
   Fra i quadri esposti vi sono quelli di Otto Dix, George Grosz, Paul Klee, Lotte Larestein ed Ernst Ludwig Kirchner. Le altre mostre che legano idealmente cultura tedesca ed ebraica riguardano le stampe del Rinascimento tedesco, lo sviluppo dei caratteri tipografici ebraici nella Palestina del mandato britannico grazie all'opera dei designer Franzisca Baruch, Henri Friedlander e Moshe Spitzer, l'esposizione di opere d'arte contemporanea sull'identità individuale e collettiva - da Dahn Vo a Wolfgang Tillman - e il Viaggio dalla Matematica a Shakespeare attraverso le opere dell'artista multimediale Man Ray.
   Fra le opere che più attraggono l'attenzione del pubblico ci sono gli studi grafici di Franzisca Baruch, che arrivò nel 1949 a disegnare lo stemma del Comune di Gerusalemme richiamandosi graficamente all'Aquila di Weimar, il quadro antimilitarista I giocatori di Skat dipinto da Otto Dix nel 1920 e Pomeriggio su Potsdam con cui Lotte Larestein nel 1930 raffigurò la malinconia di una Germania avviata verso il precipizio.

(La Stampa, 23 ottobre 2015)


Tra Italia e Israele vicinanza politica e commerciale

Intervento del Sen. Michele Boccardi.

"Ho incontrato l' ambasciatore d' Israele a Roma, Naor Gilon, per esprimergli i sentimenti di vicinanza e di amicizia che accomunano il popolo italiano a quello israeliano. Israele continua ad essere un presidio irrinunciabile di democrazia in Medio Oriente nonché un alleato indispensabile nella lotta ad ogni tipo di terrorismo". Lo dichiara in una nota il senatore pugliese di Forza Italia, Michele Boccardi. "Anche dal punto di vista economico - aggiunge Boccardi - sono molte le sinergie possibili tra lo Stato d' Israele e l' Italia, in particolare con regioni come la Puglia in settori come l' agricoltura, le nanotecnologie, il turismo e l' industria aereospaziale. Il nostro impegno è quello di aumentare e consolidare gli scambi commerciali per portare nuove e concrete occasioni di sviluppo e crescita per le nostre aziende".

(TuriWeb, 24 ottobre 2015)


 Ora Isis minaccia Israele in ebraico: «Arriviamo»

«Verremo a sgozzarvi, Gerusalemme e il Paese saranno ripuliti da voi»

BEIRUT - «Ripuliremo Gerusalemme e il Paese dagli ebrei». È questa la minaccia lanciata in quello che è considerato il primo video dello «Stato islamico» in lingua ebraica, la cui fonte non è ancora nota.
Il sito di notizie palestinese «Sama News» ha pubblicato un video attribuito all'Isis in cui un miliziano incappucciato che parla fluentemente ebraico ed arabo minaccia di uccidere e sgozzare gli ebrei in segno di vendetta per quanto sta accadendo in Palestina.
   Il miliziano esordisce in arabo dicendo che sta inviando un messaggio agli ebrei, che poi definisce nella loro lingua «il nemico numero uno dei musulmani». «La guerra vera non è ancora iniziata», afferma, promettendo «nel futuro immediato che non resterà un solo ebreo a Gerusalemme o nei suoi dintorni». «Continueremo fino a che non avremo debellato questa malattia da tutto il mondo», prosegue il miliziano, che avverte utilizzando un linguaggio di estrema brutalità: «A decine di migliaia arriveranno da tutto il mondo per sgozzarvi e gettarvi nell'immondizia».
   «I confini che vi proteggono non dureranno. Così come li abbiamo rimossi tra Iraq e Siria - aggiunge il miliziano - li rimuoveremo anche tra Siria e Giordania e tra Siria e Palestina, se Dio vuole. Stiamo avanzando verso di voi da ogni parte, da sud e da nord, dal Sinai e da Damasco e da ogni parte del mondo. Stiamo arrivando per distruggervi. Nemmeno una goccia di sangue dei musulmani che avete ucciso e che uccidete ogni giorno sarà versata invano», afferma ancora. «Il conto in sospeso tra noi si allunga sempre più», ma la vendetta arriverà «molto presto». Il video è sottotitolato in arabo, lingua in cui il miliziano pronuncia anche diversi incisi, tra cui versetti del Corano.

(il Giornale, 24 ottobre 2015)


«Il che - come diceva Giovannino Guareschi - è bello e istruttivo».


A Expo arriva il cantante palestinese che incita a uccidere gli israeliani

L'ambasciatore dell'Unrwa è una star araba che canta i "martiri" e invita a liberare Gerusalemme. Niente da dire?

di Giulio Meotti

 
Mohammed Assaf, la star palestinese che canta i "martiri" e invita a liberare Gerusalemme.
ROMA - Mohammed Assaf è l'"ambasciatore di buona volontà" dell'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Oltre a essere noto come "il Tom Cruise del medio oriente", Assaf è una star della musica nel mondo arabo, vincitore due anni fa del concorso "Arab Idol", il popolare talent show del mondo arabo. Pochi giorni fa, Assaf ha diffuso la canzone "Ya Yumma", in cui incita i palestinesi a continuare nella guerra a Israele e a "liberare al Aqsa". Nel videoclip, in cui Assaf canta i "soldati" di Palestina, coloro che "combattono gli occupanti", si susseguono immagini di scontri fra palestinesi e soldati israeliani a colpi di molotov. Assaf canta la "perseveranza a Gerusalemme e Afula", teatro di numerosi attentati. Nella sua pagina Facebook, Assaf ha anche postato le foto dei "martiri", i terroristi palestinesi uccisi dopo gli attentati contro lo stato ebraico. Domenica sera Assaf sarà protagonista all'Expo di Milano, ospite del Padiglione Palestina, per una raccolta fondi a nome dell'agenzia dell'Onu. Vogliamo sperare che Expo non fosse a conoscenza dell'incitamento all'odio di Assaf quando lo ha invitato.
   Il caso Assaf è solo uno dei tanti rivelati dalla ong Un Watch, che da oltre dieci anni monitora le attività delle Nazioni Unite e che sta distruggendo la reputazione dell'Unrwa, una delle più ricche e influenti organizzazioni umanitarie del Palazzo di Vetro. Da settimane, i suoi dipendenti incitano infatti agli attacchi terroristici contro i civili israeliani. Jaffar Ismail è fiero di mostrare nella sua pagina Facebook il "certificate completion", il diploma di insegnante per l'Onu rilasciato il 4 marzo 2013. Poi però come sfondo della stessa pagina sul social media, Ismail ha messo il terrorista palestinese che, armato di coltello e con la scritta "press", insegue un soldato israeliano a Hebron per accoltellarlo.
   Le scuole Onu in Libano domenica scorsa hanno organizzato una manifestazione congiunta a sostegno dell'"Intifada per Gerusalemme". Kamal Zuhairi è un insegnante dell'Onu in Giordania e su Facebook si vanta di come insegna ai suoi figli a combattere i soldati israeliani. Come Nidal Abu Ghneim, anche lui insegnante per conto dell'Onu, il cui logo su Facebook è una mappa della Palestina con un mitra Ak47: "Quello che è stato preso con la forza sarà ripreso con la forza", recita la didascalia. Se l'assistente ai progetti dell'agenzia Onu, Hani al Ramahi, invita a "pugnalare i cani sionisti", il dipendente Onu a Hebron, Ibrahim Ali, ha diffuso un video in cui si incita a sparare alle auto degli israeliani. E invece di denunciare inequivocabilmente la carneficina in corso a colpi di accoltellamenti, sparatorie, attentati e investimenti con l'auto scatenata dai palestinesi contro i vicini ebrei, la Unrwa ha denunciato Israele per "l'uso eccessivo della forza", ovvero per cercare di proteggere i suoi cittadini. Anche senza il caso Unrwa, sarebbe dovuto bastare il podio che il Consiglio dei diritti umani il 28 ottobre concederà ad Abu Mazen, presidente dell'Autorità Palestinese. Per la prima volta da quando è stato nominato, Abu Mazen interverrà alla commissione del Palazzo di Vetro di Ginevra. La stessa "Terza Intifada" è scoppiata proprio subito dopo il discorso di Abu Mazen all'Assemblea Generale dell'Onu. Sarebbe dovuta bastare la condanna del vicesegretario dell'Onu, Jan Eliasson, che ha scaricato su Israele la colpa per gli attacchi terroristici, spiegando che sono conseguenza dell'"occupazione". Oppure la risoluzione dell'Unesco di due giorni fa, che ha condannato "l'aggressione israeliana alla Spianata delle Moschee" e che ha attribuito ai palestinesi due siti fondamentali per la tradizione ebraica (la Tomba di Rachele e la Tomba dei Patriarchi a Hebron). Perché l'Onu, che nel 1948 accolse lo stato ebraico nella famiglia delle nazioni, oggi sembra diventata uno dei maggiori focolai di odio per Israele. La sua colonna sonora è quella di Mohammed Assaf, idolo delle folle e cantore dell'odio (speriamo) a insaputa dell'Expo.

(Il Foglio, 24 ottobre 2015)


Se la “Gerusalemme liberata” che canta Mohammed Assaf fosse “liberata” dallo stato islamico, la star palestinese probabilmente rientrerebbe nel numero di quelli che sono da sgozzare. Sarebbe meglio che cantasse a sostegno e in onore di Tzahal (si veda l'articolo che segue). M.C.


Ora l'lsis punta Israele (per scalzare Hamas)

Minacce in ebraico di un membro del Califfato: «Stiamo arrivando». Perché vogliono la leadership della guerra santa.

di Carlo Panella

L'Intifada dei coltelli apre un enorme spazio politico all'Isis in Palestina. Sul terreno della violenza omicida e dell' odio contro gli ebrei - non gli israeliani, gli ebrei - l'Isis è infatti in grado di surclassare ogni altra organizzazione. E questo è il terreno che Hamas ha deciso di riaprire, sponsorizzando vergognosamente gli accoltellamenti anche dei civili israeliani, e che Abu Mazen e la dirigenza moderata palestinese non hanno - al solito - il coraggio e la forza di sconfessare. In questo senso, la sfida ad Hamas - e ad Abu Mazen - è stata formalmente lanciata ieri dall'Isis, che ha postato in rete il messaggio di un suo miliziano, al solito incappucciato e armato, che ha parlato un perfetto ebraico - sicuramente è un arabo palestinese - con parole inequivocabili: «Questo è un messaggio importante per gli ebrei che hanno occupato la terra dei musulmani. La guerra vera e propria non è ancora iniziata. Quello che state provando adesso è solo un gioco da ragazzi rispetto a quanto vi attende nel prossimo futuro. Per ora fate quello che volete. Ma sappiate che vi faremo pagare il conto dieci volte per quanto avete fatto. Pensate un momento: cosa farete quando decine di migliaia da tutto il mondo verranno da voi per sgozzarvi e per gettarvi nell'immondezzaio? Noi continueremo fino in fondo, finché non avremo debellato la malattia. Ci stiamo avvicinando a voi ebrei dal Sinai e dal nord Golan. Il nostro scopo è cancellare per sempre i confini tracciati con gli accordi di Sykes-Picot».
   Ha così inizio formale e pubblico l'orrida gara tra Isis, Hamas e le Brigate di al Aqsa di al Fatah per «sgozzare e gettare nell'immondezzaio» gli ebrei israeliani. Una terribile e sanguinaria sfida che preoccupa la dirigenza israeliana, ma che preoccupa ancor più Hamas e la Olp, perché l'Isis è ormai saldamente radicato dentro Gaza, ha rapporti stretti con i jihadisti che seminano morte nel Sinai egiziano ed è anche riuscito a costruire una presenza sulle alture del Golan, a ridosso del confine siriano con Israele. L'impianto dell'Isis nella Striscia di Gaza è stato fulmineo, dopo che è passato ai suoi ordini il gruppo tribale palestinese che rapì il soldato israeliano Gilad Shalit, che costituisce la Brigate dello sceicco Ornar Khadir e che ha legami organici con l'Ansar Bayt al Maqdis (Organizzazione degli ausiliari dello Stato Islamico a Gerusalemme), che da tempo ha giurato fedeltà al Califfo abu Bakr al Baghdadi. Dalla primavera scorsa la sequenza del conflitto aperto con Hamas è frenetica: ad aprile in un video girato in Siria e indirizzato ai «tiranni di Hamas», l'Isis accusa Hamas di connivenza con Israele (in quella fase, una parte di Hamas trattava a Doha un'ipotesi di tregua, smentita però dall'ala militare del movimento): «Noi sradicheremo il regime degli ebrei, voi e al Fatah e tutti i laici non sono nulla per noi e voi sarete rovesciati dai nostri adepti infiltrati». Il 4 maggio militanti dell'Isis a Gaza lanciano da una moschea in costruzione una bomba contro agenti di Hamas, a cui seguono arresti di molti seguaci salafiti. A inizio giugno l'Isis rivendica l'uccisione a Gaza da parte di suoi 5 miliziani dell' alto dirigente di Hamas, Sabah Siamo Il 30 giugno, con un altro video, l'Isis accusa Hamas di essere diventato un movimento laico che non fa rispettare la sharia:
   "La legge della sharia verrà instaurata a Gaza, a dispetto vostro. Vi promettiamo che quello che sta accadendo in Siria, in particolar modo nel campo palestinese di Yarmouk a Damasco che è sotto il nostro comando, succederà anche a Gaza". Poi si passa alla guerra per bande "stile Chicago" con uno scontro a colpi di mitra tra tre auto di miliziani di Hamas e due di miliziani dell'Isis nella strade di Gaza city.
   Ieri è dunque partita la sfida aperta ad Hamas nell'orrenda gara a chi "sgozza" più ebrei. Il tutto nell'agghiacciante silenzio di Abu Mazen che, come sempre, non sconfessa questa demenziale Intifada dei coltelli e sarà ancora una volta travolto dagli avvenimenti. Con l'unica variante che ora anche Hamas ne sarà travolta.

(Libero, 24 ottobre 2015)


Bernard-Henry Lévy contro la lingua menzognera sul terrorismo palestinese

Dallo sgozzamento di Daniel Pearl alla barbarie di oggi

di Ermes Antonucci.

Bernard-Henry Lévy
ROMA - Macché "lupi solitari", macché "disperazione", macché "spirale della violenza". L'ondata di accoltellamenti di ignari e innocenti passanti israeliani da parte di estremisti palestinesi - ieri una famiglia di cinque persone (tre bambini) è stata attaccata con una molotov lanciata nella loro automobile in corsa - rappresenta una vera e propria "barbarie" che meriterebbe di essere condannata senza se e senza ma, e non invece con i soliti tentennamenti dell'informazione e della politica mainstream.
  A parlare, con durezza, è Bernard-Henri Lévy sulle pagine dell'Algemeiner, giornale di New York specializzato in notizie dal mondo ebraico. A essere impropria, secondo il filosofo francese, è innanzitutto la terminologia utilizzata dai media di tutto il mondo: "E' difficile definire 'lupi solitari' le manciate - che probabilmente domani diventeranno dozzine e dopo ancora centinaia - di assassini di ebrei che ricevono migliaia di 'like' dai loro 'amici' su Facebook, che sono seguiti da decine di migliaia di follower su Twitter, e che mantengono legami con una costellazione di siti (come l'al Aqsa Media Center, con la sua pagina dedicata alla "terza intifada di Gerusalemme") che, in parte, sta contribuendo a orchestrare questa danza sanguinaria".
   Doloroso, scrive Lévy, è ascoltare la solita manfrina sui "giovani palestinesi che sono fuori da ogni controllo", soprattutto "se si guarda alle omelie pubblicate dal Middle East Media Research Institute, dove predicatori da Gaza appaiono in video con un pugnale in mano, esortando i propri adepti a scendere in strada e menomare più ebrei possibili, infliggere più dolore possibile e spargere più sangue possibile".
  "Doppiamente doloroso", prosegue il filosofo, è constatare che questo "ritornello" è usato anche dallo stesso presidente palestinese Abu Mazen, il quale, prima che prendesse avvio questa tragica catena di eventi, definì "eroica" l'uccisione da parte di alcuni palestinesi del rabbino Eitam Henkin e di sua moglie, in presenza dei loro figli, e che nell'esprimere indignazione per il modo con cui "gli sporchi piedi degli israeliani" avevano dissacrato la moschea di al Aqsa benedisse "ogni goccia di sangue versata dai martiri a Gerusalemme".
  Dolorose, "intollerabili e inapplicabili", sono per Lévy le frasi pre-confezionate sulla "disperazione politica e sociale" dei palestinesi, utilizzate per minimizzare, se non addirittura giustificare, questi atti criminali; oppure le espressioni "serie" o "spirale" di violenza, le quali, ponendo sullo stesso piano i terroristi suicidi e le loro vittime, "alimentano confusione e si trasformano in incitamento a ulteriori azioni".
  Intollerabili sono gli appelli retorici alla "moderazione" o gli ipocriti inviti a "non infiammare gli animi", che finiscono "per invertire l'ordine di causalità insinuando che l'atto di auto-difesa compiuto da un soldato, un poliziotto o un civile israeliano costituisca un'ingiustizia pari a quella di chi decide di ammazzarsi dopo aver prodotto il massimo del terrore possibile".
   Piuttosto discutibile, inoltre, è che lo stesso appellativo di "intifada" possa essere correttamente usato per qualificare degli eventi che invece, scrive Lévy, "sembrano mirare più che altro all'installazione di un regime jihadista mondiale, in cui Israele rappresenta solo una delle tappe".
  Per questi motivi, sorprende la timidezza con cui nelle ultime settimane sono state condannate le aggressioni nei confronti di molti cittadini israeliani. Condanne, si dice sicuro Lévy, che "sarebbero state meno ambigue se questi atti fossero avvenuti nelle strade di Washington, Parigi o Londra". Ed è questa vaga noncuranza, in fondo, ad aver permesso che potesse diffondersi persino una "mitologia" sull'utilizzo dei pugnali da parte dei terroristi ("l'arma dei poveri" si sostiene). Eppure, Lévy, quando vede questi coltelli, vede quelli usati per uccidere Daniel Pearl, reporter del Wall Street Journal rapito e ucciso in Pakistan nel 2002, vede le decapitazioni più recenti di Hervé Gourdel, James Foley e David Haines.
  "Credo - conclude il filosofo francese - che i video dello Stato islamico abbiano chiaramente conquistato un seguito, e che siamo di fronte a una forma di barbarie che deve essere denunciata incondizionatamente, se non vogliamo che questi metodi siano esportati ovunque. E sottolineo ovunque".

(Il Foglio, 24 ottobre 2015)


Israele - Incredibile gol da dietro la linea di porta

Autore della prodezza Dolev Haziza, ventenne attaccante della formazione israeliana Bnei Yehuda. Qualche palleggio oltre la linea di fondo, in prossimità della bandierina, e poi la rabona al volo: la palla finisce in rete.

(la Repubblica, 24 ottobre 2015)


Buon sangue non mente

di Dimitri Buffa

Se Arafat ha sognato fino all'ultimo di marciare su Gerusalemme alla testa di un milione di "shaid" per cacciare gli ebrei nel mare, suo zio sognava di avvelenare le falde acquifere di Tel Aviv. Lo spiega l'interessantissimo saggio di Stefano Fabei su "Studi piacentini" a proposito delle manovre dell'ex Gran Muftì di Gerusalemme Haji Amin Ali al Husayni per terrorizzare la popolazione ebraica di Palestina e i soldati britannici. Infatti quel muftì era zio per parte di padre del defunto Yassir Arafat, nato al Cairo ma mandato a vivere proprio a Gerusalemme all'età di sei anni, e cercò di convincere Mussolini per quasi tutta la seconda metà degli anni Trenta della bontà dei propri progetti terroristici, incluso quello di avvelenare l'acqua dell'acquedotto di Tel Aviv.
   Lo stato d'Israele all'epoca era ben al di là da venire ma i despoti palestinesi già possedevano una rodata fede anti-semita che li metteva in sintonia con i nazisti e, ma questo più che altro se lo auspicava lo zio di Arafat, anche con i fascisti nostrani. Il Duce in compenso, che aveva tutti i difetti del mondo ma non quello di essere avventato in politica estera, sebbene avesse ovviamente grossi interessi a fomentare la rivolta arabo palestinese in Medio Oriente, si guardò bene dal fornire ad al Husayni tutti quei soldi e quelle armi che lui gli chiedeva insistentemente, fino a "mettere in dubbio che gli italiani fossero così amici degli arabi come proclamavano".
   Per di più, e questo dimostra come i palestinesi non abbiano mai imparato le lezioni storiche, a "tradire" le aspirazioni genocide dello zio di Arafat fu proprio il vecchio re dei sauditi, Ibn al Saud, che doveva mettere a disposizione i propri soldi e le proprie istituzioni affinchè il regime fascista salvasse la faccia, almeno a livello ufficiale, nell'appoggio a quella che oggi molti retoricamente ricordano come "la prima intifada palestinese", ma che sarebbe più giusto definire una rivolta anti britannica fomentata dal fascismo e dal nazismo. Fomentata però non fino al punto di sporcarsi troppo le mani, cosa che i rais dell'epoca ritenevano invece indispensabile per proseguire la lotta contro le guarnigioni britanniche. I contatti diplomatici con il muftì zio di Arafat vennero tenuti dallo psichiatra Carlo Alberto Enderle, nome islamico Ali Ibn Jafer, in realtà rumeno, naturalizzato italiano e di genitori musulmani. Il ministro degli esteri era ovviamente Galeazzo Ciano.
   Ieri come oggi i palestinesi chiedevano soldi in continuazione, più precisamente volevano 75 mila sterline dell'epoca ogni anno, più armi, munizioni e agenti per l'addestramento alla guerriglia. Il regime fascista da parte sua non intendeva finanziare direttamente e pretendeva che fosse il re Saud ad acquistare armi in Italia perchè con il ricavato si potesse pagare indirettamente la rivolta e il terrorismo. Il tira e molla su questo punto tra sauditi, fascisti e il gran Muftì di Gerusalemme si risolse in una sorta di dialogo tra sordi.
   Le trattative che erano andate avanti dal 1933 al 1939 un bel giorno si interruppero per sempre con un nulla di fatto. Il gran Muftì da parte sua si accontentò di quelle 140 mila sterline di assaggio che il Duce era riuscito a fargli avere sottobanco. Probabilmente incassandole piuttosto che devolverle alla causa arabo-palestinese. Si badi bene: il progetto di avvelenare l'acquedotto di Tel Aviv aveva ricevuto l'approvazione di Mussolini, ma la condizione per fare decollare economicamente questi progetti era che i feddayn palestinesi del gran Muftì ricevessero ben altri finanziamenti e soprattutto armi leggere e pesanti. Di fatto il fascismo, probabilmente operando una sorta di gioco delle parti con il regime saudita, usando lo spauracchio della rivolta araba come arma di pressione sugli inglesi, non spinse mai sull'accelleratore.
   E quando il 30 marzo 1938 l'ambasciatore italiano comunicò al sottopancia di al Husayni, tale al Alami, l'intenzione dell'Italia di interrompere ogni ulteriore finanziamento, il prozio di Arafat non potè che prendere atto del fatto che tutto era abortito per il voltafaccia del re saudita. Che a suo tempo, cioè un anno prima, si era rifiutato di fare passare da Ryad le armi e le munizioni, nonchè i soldi che gli italiani avevano accumulato. Nella primavera del 1938 tutte quelle armi erano ancora chiuse nelle casse di alcune navi che stavano nel porto di Taranto. Benché nei propri colloqui con la diplomazia fascista lo zio di Arafat avesse fatto di tutto per convincere l'asse Roma- Berlino che la formazione di un enclave ebraico, "o peggio di uno stato", sotto il mandato e la protezione britanniche, sarebbero stati una jattura per tutta l'Europa, con toni anti-semiti che sorpresero non pochi interlocutori (in fondo, molti scetticamente ragionavano così, anche questi palestinesi come tutti gli arabi sono pur sempre popolazioni semite!), Mussolini alla fine bloccò tutta l'operazione. Magari non perché amasse gli ebrei in quanto tali. Anzi è certo che il 7 di luglio 1937 la Commissione reale aveva pubblicato un documento in cui si spiegavano i pericoli che potevano giungere per l'Italia dell'epoca dalla creazione di uno stato ebraico come era nei progetti inglesi fin dalla dichiarazione di Balfour nel 1917. Probabilmente però la real politik di allora deve avere suggerito a Mussolini che il gioco non valeva la candela: terroristi di quel tipo, come gli armati dello zio di Arafat, potevano anche mettere in crisi i britannici e frustrare le ambizioni territoriali sioniste, ma alla fine non sarebbero potuti più venire controllati da nessuno. Almeno non una volta che fossero stati armati, finanziati e istruiti di tutto punto.
   E la stessa cosa deve avere pensato anche re Saud. E questo, se non altro, a ulteriore riprova e spiegazione del perché ieri come oggi i peggiori nemici dell'ideologia e delle ambizioni pan arabe e indipendentiste dei palestinesi siano spesso stati gli stessi regimi arabi. Perchè se è vero, ad esempio, che la dinastia saudita avrebbe fatto carte false per evitare che un domani, dopo la guerra, gli ebrei avessero avuto il loro stato nel cuore della "umma" araba, è altrettanto certo che quella stessa corte di sceicchi (che di lì a poco sarebbero diventati super ricchi con il petrolio) vedeva come il fumo agli occhi la creazione di uno stato indipendente palestinese. Magari laico e con obblighi di riconoscenza nei confronti dell'Europa nazi-fascista.

(L'Opinione, 24 ottobre 2015)


Perché nessuno parla della giovane soldatessa israeliana accoltellata da un palestinese?

di Massimo Montebove *

Dikla Mikdash bat Chava, la ragazza pugnalata al collo
Un vasto e trasversale substrato culturale italiano nasconde un profondo antisemitismo mascherato da critiche feroci nei confronti di uno Stato, Israele, circondato da Paesi che vogliono distruggerlo e che negano il suo diritto all'esistenza.
Un aspetto che molti, con coscienza e volontà, tendono a sottacere. Un antisemitismo odioso soprattutto quando si parla di morti, che meriterebbero eguale rispetto. Se un bambino palestinese perde la vita, giustamente ci indigniamo e magari c'è pure chi scende in piazza ad esprimere rabbiosamente il proprio sdegno, bruciando bandiere con la Stella di David.
Se a morire o a restare ferito è un israeliano, le cose sono molto diverse. Penso - ma è solo l'ultimo di una lunga serie - al caso della ventenne Dikla Mikdash bat Chava, pugnalata al collo da un palestinese nei giorni scorsi e ora ricoverata in gravissime condizioni. Sui media italiani la notizia praticamente non è apparsa, ha viaggiato un po' sui social, ma comunque nessuno si è stracciato le vesti.
Qui il problema è doppio: non solo si tratta di una israeliana colpita da un palestinese, ma soprattutto parliamo di un militare. Non è un caso che in Italia molto di coloro che guardano con simpatia ad Hamas e all'intifada siano anche allergici alle divise.
Il nostro è uno strano paese. Che avrebbe ed ha molto da imparare da una grande nazione come Israele.

* Portavoce nazionale sindacato polizia Sap

(L'Huffington Post, 23 ottobre 2015)


Il gran Muftì di Gerusalemme e l'antisemitismo palestinese

Risposta ad un articolo di Dino Messina sul Corriere della Sera

di Massimo De Angelis

Caro Messina,
le scrivo a proposito del suo articolo di ieri su Al Husseini. Non so se Al- Husseini possa esser definito "ispiratore" di Hitler riguardo l'Olocausto. Mi sembra senz'altro riduttivo, però, definirlo suo "seguace". Più giusto qualificarlo come alleato quale egli indiscutibilmente fu. La ricca monografia di Klaus Gensinke sul Mufti e i suoi rapporti col nazionalsocialismo (1988) non lascia adito a dubbi. Da essa risulta che egli, sin dal 1939, fu un alleato di Hitler. Egli si impegnò a creare una Legione araba, famosi sono i suoi discorsi in lingua araba trasmessi via radio ai musulmani del vicino Oriente e dell'India. Egli collaborò strettamente con Himmler nella formazione delle divisioni musulmane, in particolare la divisione Handschar, alla quale, pure il professo Canali accenna nel suo articolo. Egli inoltre non solo fu al corrente dell'Olocausto ma prese parte alla sua realizzazione pratica impedendo in tutti i modi che gli ebrei raggiungessero "illegalmente" la Palestina.
E d'altra parte sarebbe da aggiungere che a differenza di tante altre personalità arabe (ad esempio il futuro rais Anwar Al-Sadat) che attesero con trepidazione l'arrivo di Rommel al Cairo per liberarsi dell'oppressione straniera, Al Husseini era ben altrimenti legato ideologicamente a Hitler sulla base dell'antiebraismo. E d'altra parte egli è universalmente stato riconosciuto come un leader storico dei palestinesi oltre che del panarabismo. Al di là dunque delle parole pronunciate da Ben Netanyahu ( e ignorando se esse si fondino su ricerche storiografiche recenti) resta legittima e anzi comprovata da fatti la tesi della presenza di un antisemitismo palestinese assai prima del ritorno in Medio oriente del popolo ebraico.

(Corriere della Sera, 23 ottobre 2015)


Roma - Un calcio al pregiudizio

Per vincere il pregiudizio reciproco, per abbattere barriere e incomprensioni, poche strade portano a risultati tangibili come lo sport. È il convincimento che ha animato gli ideatori delle Olimpiadi interreligiose per la pace in programma domenica a Roma (Parco della Madonnetta, il via alle 9).
Corsa, Calcio a 5, Pallavolo, Basket, Burraco, Tennis, Cricket. Sono le discipline in cui giovani sportivi di diverse sensibilità religiose e culturali si confronteranno per lanciare, singolarmente e collettivamente, un messaggio di amicizia.
A tenere le redini del torneo, tra gli altri, il neo presidente della Comissione Sport della Comunità ebraica romana Amos Tesciuba. "Siamo un gruppo di amici, che credono nel valore dello sport come ponte tra i popoli. Una sfida che - afferma - vorremmo alimentare e riempire di nuovi significati".
Si è partiti lo scorso anno, su impulso dello stesso Tesciuba oltre che di Giuseppe Scicchitano e Hassan Batal. Duecento i partecipanti allora. Per domenica l'obiettivo è raddoppiare questo numero, a testimonianza di una crescita di interesse che - spiega Amos - "fa ben sperare".
L'iniziativa, che si protrarrà lungo l'intera giornata per concludersi con la proiezione di Fiorentina-Roma, big match della prossima giornata di Serie A, ha ricevuto appoggi e sostegni trasversali. Tra gli altri quello della Comunità ebraica, che ha concesso il proprio patrocinio.

(moked, 23 ottobre 2015)


Bibi ha ragione

Incolpando il Mufti, Netanyahu indica l'origine dell'Intifada: non l'"occupazione", ma l'antisemitismo.

di Giulio Meotti

ROMA - Tranquilli, Benjamin Netanyahu non è diventato un negazionista. Giovedì il premier israeliano ha preso lezioni di storia da tutti i commentatori italiani, gli stessi che, miracolosamente, perdono la parola ogni volta che l'ayatollah iraniano Ali Khamenei o l'imam egiziano al Tayeeb minacciano una nuova Shoah contro il popolo ebraico. La "bombshell" di Bibi è aver portato all'attenzione dell'opinione pubblica internazionale la figura di Haj Amin al Husseini, la massima autorità palestinese tra le due guerre mondiali, il Mufti di Gerusalemme fino a oggi conosciuto solo a pochi addetti ai lavori. Netanyahu ha indicato qualcosa di inaccettabile per gli storici, i politici e i giornalisti: la radice del conflitto non è l'"occupazione", ma il jihad, la guerra santa che dura da novant'anni. Per l'esattezza dal 23 agosto 1929, quando il Mufti ordì un salasso di ebrei a Hebron e Gerusalemme, le città anche oggi maggiormente colpite dalla Terza Intifada, quando gli arabi diedero la caccia agli ebrei, li uccisero come animali, quasi sempre con il coltello, come oggi. I rapporti tra il Mufti e il nazismo non furono tattici. Hitler era invocato, da Rabat a Ramallah, come "il redentore" che avrebbe spazzato via inglesi ed ebrei. Al processo di Norimberga, Dieter Wisliceny, uomo chiave nella Soluzione finale, testimoniò che il Mufti "era uno dei migliori amici di Eichmann e lo aveva costantemente istigato ad accelerare le misure di sterminio. Gli sentii dire che, accompagnato da Eichmann, egli aveva visitato in incognito le camere a gas di Auschwitz".
   I giornali hanno volutamente trascurato questa e altre vicende che riguardano il Mufti. Ma non è una discussione storica, quanto super politica. "Netanyahu ha ragione nel dire che il Mufti ebbe un ruolo attivo nell'eliminazione degli ebrei", dice al Foglio Raphael Israeli, professore emerito di Storia all'Università ebraica di Gerusalemme, che ha pubblicato un libro sul Mufti nella Shoah, "Death Camps in Croatia". "Per il Mufti, Hitler doveva fare la sua parte nell'eliminare gli ebrei europei, mentre i palestinesi si sarebbero occupati degli ebrei in medio oriente. Ogni venerdì nelle moschee si ripete questo odio per gli ebrei, "i figli di maiali e scimmie". La Terza Intifada è la manifestazione di quest'odio antico che risale al Corano". Non a caso Netanyahu a Gerusalemme ha personalmente seguito la demolizione dello Shepherd Hotel, che fino al 1967 ha ospitato la villa del Mufti, il creatore di questa spina antisemita nella mentalità araba rigirata nella ferita fino a diventare il maggiore motore di infezione. La menzogna "gli ebrei minacciano al Aqsa", che da settimane rimpalla sui media palestinesi, è un'invenzione del Mufti.
   Come nel 1929, i terroristi che oggi uccidono gli ebrei vivono fra di loro, nel lato "buono" della barriera, hanno carte di identità israeliane e un lavoro alla Bezeq, la compagnia telefonica israeliana. Basta chiederlo al padre palestinese che ha postato su Facebook il video della figlia, Rahf. Ha in mano una mannaia, lui le chiede: "Perché vuoi uccidere gli ebrei?". Lei risponde: "Hanno rubato la mia terra". E' questo che Netanyahu ha detto a un'Europa sorda e ipocrita. Che il messaggio che l'Intifada rivolge agli ebrei israeliani è scritto a lettere maiuscole, inconfondibili, rosso sangue: noi non vogliamo vivere insieme a voi, vogliamo uccidervi, vi vogliamo fuori di qui.

(Il Foglio, 23 ottobre 2015)


Per chi volesse sapere qualcosa di più sul personaggio "palestinese" che Netanyahu ha osato denunciare, consigliamo "Adolf Hitler e il Muftì di Gerusalemme".


Hitler e il Gran Muftì la «strana coppia» che cominciò da Bari

L'alleanza durante la guerra per sterminare gli ebrei. Nel 1941 molti gerarchi fascisti accolgono nel capoluogo pugliese il leader medio-orientale.

di Armando Fizzarotti

 
Il Gran Mufti di Gerusalemme con i volontari bosniaci delle Waffen-SS nel novembre 1943
Bari fu un nodo importante della cappa mortale anti-sionista intessuta dal Gran Muftì Amin al-Husseini (Gerusalemme, 1895 circa - Beirut, 4 luglio 1974) con Hitler. Un'alleanza pro-Olocausto negli anni della Seconda Guerra mondiale che ha indotto il premier israeliano Benjamin Netanyahu ad affermare - spinto dall'urgenza tutta politica de inuovi scontri in atto con i palestinesi - a ipotizzare che lo sterminio degli ebrei su scala mondiale sia stato in realtà «ispirato» a Hitler dall'allora leader dei nazionalisti arabi radicali. Ipotesi suggestiva se non «esotica», che però è stata subito smentita dagli storici più autorevoli. Alleanza ci fu, ma l'«ispirazìone» non sembra corroborata dalla cronologia dei rapporti fra i gerarchi di Berlino e il Muftì.
   Lo scenario di fondo della tesi del premier di Tel Aviv comunque c'è tutto e vede proprio Bari in primo piano. Fu un piano jihadista su larga scala che, di pari passo con lo sterminio degli ebrei, prevedeva lo sfruttamento delle risorse petrolifere in Medio Oriente. Fu finanziato dopo una serie di incontri a quattr'occhi, si stima dal 1938, con l'ammiraglio Wilhelm Franz Canaris, capo dei servizi segreti del Fuhrer; che poi pochi giorni prima dell'ingresso delle truppe sovietiche a Berlino pagò con il patibolo l'ideazione dell' attentato dinamitardo che nel 1944 avrebbe dovuto uccidere Hitler. Complotto deciso dopo aver visto cadere in pezzi «l'impero» nazifascista sotto le bombe degli Alleati.
   Tre anni prima vediamo il Gran Muftì in fuga dall'Iraq dopo un fallito colpo di Stato per rovesciare il governatore filo-britannico (nonostante i continui finanziamenti ricevuti da Berlino e da Roma), con un falso passaporto diplomatico intestato a «Giuseppe Rossi». Al-Husseìni riparò prima nell'attuale Iran per giungere in porto a Bari, attraversando la Turchia, nell'ottobre 1941.
   Apriamo qui un flash sulla tesi-Netanyahu. L'evento tradizionalmente riconosciuto come la prima grave espressione della politica anti-ebraica del nazismo è la «notte dei cristalli» (9-10 novembre 1938), seguita poi dalle prime grandi uccisioni di massa di civili nella Polonia invasa (1939).
   In questi anni è attestata una serie di contatti fra il leader arabo e il Reich, ma niente di più che una «comunanza di intenti», la cui credenziale più forte per il Muftì era il massacro degli ebrei compiuto a Hebron nel 1929.
   Una folta delegazione di gerarchi fascisti accolse quindi sul molo barese - riferisce lo storico Moshe Pearlman - Amin al-Husseini, che il 27 ottobre 1941 incontrò il Duce per poi essere ricevuto da Hitler a fine novembre e installare il suo quartier generale a Berlino, da dove coordinò una serie di attività di reclutamento e propaganda anti-ebraica, culminata con la formazione nel 1943 della Divisione musulmana delle Waffen SS (la Divisione da montagna Handschar, reparto combattente delle Schutz-staffeln) in Bosnia: una scimitarra (la «Handschar», disegnata nello stemma di stoffa che i militari si cucivano sulle maniche) a servizio dei nazisti. Fu impiegata in Yugoslavia, con atrocità ai danni delle popolazioni civili.
   Il 17 giugno di quell'anno fu Radio Bari - attesta un numero della rivista «Oriente Moderno» del 1943 - a trasmettere un lungo messaggio antisemita con il quale Amin al-Husseini intese suggellare la «santa alleanza» fra il suo Islam (in Medio Oriente ebbe comunque non pochi oppositori interni) e il nazismo.
   Una propaganda progressivamente sempre più martellante che aveva l'obiettivo di bilanciare le prime notizie negative sui cedimenti dell'Asse sui fronti di guerra. Ma «quale» Radio Bari trasmetteva l'istigazione antisemita?
   «Nel periodo della dittatura fascista - riferisce lo storico Vito Antonio Leuzzi, collaboratore della "Gazzetta" e direttore dell'Istituto pugliese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea - a Bari non esisteva una redazione locale. Qui in città erano solo installati ripetitori che ritrasmettevano notiziari e bollettini confezionati direttamente a Roma. Invece dopo l'8 settembre 1943 la nuova Radio Bari, voce della liberazione dal nazifascismo, fu dotata di una redazione autonoma che trasmetteva in proprio».
   Uno dei capitoli meno noti della «soluzione finale» contro gli ebrei è anche l'esportazione delle camere a gas mobili dell'Einsatzkommando Agyptenal (squadre di sterminio anti-ebraiche miste fra SS e Gestapo, la polizia segreta) al seguito dell'Afrika Korps del generale Erwin Rommel, la «volpe del deserto», per far stragi di ebrei in Palestina, come attestato da due storici tedeschi, Klaus-Michael Mallmann e Martin Cuppers. Un destino comune quello di Rommel e di Canaris. Entrambi coinvolti nell'«alleanza» con il Gran Muftì, ma poi entrambi giustiziati (Rommel fu costretto al suicidio per evitare la corte marziale) per il fallito attentato ad Hitler.

(La Gazzetta del Mezzogiorno, 23 ottobre 2015)


Haj Amin al Hussein, il palestinese

"La Shoah fu suggerita a Hitler da un palestinese; la Shoah è stata ispirata dai palestinesi; Hitler non voleva sterminare gli ebrei, fu il Muftì palestinese a convincerlo; Hitler non voleva uccidere gli ebrei, fu convinto dai palestinesi; il Mufti palestinese di Gerusalemme ha ispirato l'Olocausto". Una valanga di espressioni come queste sono state messe in bocca a Netanyahu nei titoli e nel corpo di tanti articoli circolanti nei media in questi giorni. E' chiaro che cosa s'intendeva dire con queste sottolineature: Netanyahu ha voluto mettere in cattiva luce i palestinesi, e allora colpendo il Gran Mufti di Gerusalemme li ha colpiti tutti perché - e questo è l'aspetto interessante della cosa - il Gran Mufti Haj Amin al Hussein dev'essere visto come il rappresentante di tutti i palestinesi, anche quelli di oggi. Bisognerà allora che qualcuno vada a dire amichevolmente a Netanyahu: "Caro Bibì, riconosci di aver sbagliato: i palestinesi del Mufti non hanno suggerito a Hitler di bruciare gli ebrei, hanno soltanto manifestato il loro entusiasmo al pensiero che qualcuno lo faccia. Ed è così che si comportano anche oggi i palestinesi, da te ingiustamente colpiti nella persona del loro grande Mufti: non chiedono esplicitamente a qualcuno di sterminare gli ebrei, si limitano soltanto ad esprimere il loro grande desiderio che qualcuno lo faccia accoltellando quanti più ebrei riescono a raggiungere. Caro Bibì, dovrai convincerti che non è la stessa cosa." M.C.

(Notizie su Israele, 23 ottobre 2015)



Due categorie di scrittori

Gli scrittori si dividono in due categorie:

1) quelli che scrivono per informare o istruire gli altri;
2) quelli che scrivono per far sapere agli altri quanto sono bravi loro.

I primi fanno un servizio,
i secondi fanno carriera.

Anche sul tema “Israele”, i secondi abbondano, i primi scarseggiano.

 


Se l'Unesco requisisce i patrimoni della storia ebraica

di Fiamma Nirenstein

Ci provano e ci riprovano a cancellare il legame millenario del mondo ebraico con la sua più certificata e indispensabile origine nella terra d'Israele, anche se alla fine i palestinesi hanno dovuto rinunciare a presentare la mozione con cui chiedevano all'Unesco di riconoscere il Muro del Pianto come parte integrante della Moschea di Al Aqsa.
   Sì, avete capito bene, avevano pianificato di incamerare il più grande monumento al passato degli ebrei, il maggiore simbolo del loro attaccamento a Gerusalemme in territorio di dominio islamico. Non è cosa da
 
poco: si tratta della conquista simbolica del luogo più santo alla tradizione religiosa ebraica, un'aggressione culturale e morale di prima grandezza. E anche di una mossa intelligente dato che fin'ora il voto dell'organizzazione dell'Onu per l'educazione scientifica e culturale è stato sempre molto compiacente. Infatti per il Muro del Pianto non è andata e all'ultimo momento la mozione è stata corretta perché si sono tirati indietro persino Russia, Cuba e Cina, gli abituali alleati dell'offensiva che disegna i palestinesi come eredi legittimi della tradizione dell'area.
   Tuttavia con 26 voti favorevoli, 5 contro e 23 astenuti sono stati attribuiti ai palestinesi due siti fondamentali per la tradizione ebraica. Il primo è la Tomba di Rachele, un piccolo, elementare monumento commovente fuori di Betlemme: Rachele è una delle quattro madri d'Israele, e la casa che funge da sepolcro un luogo ancora più caro agli ebrei perché secondo la tradizione ogni donna che desidera un bambino deve compiervi un fruttuoso pellegrinaggio. Il secondo sgarro storico e religioso l'Unesco lo fa con la Tomba dei Patriarchi a Hebron, dove si venera da millenni la memoria di Abramo, Isacco e Giacobbe, di cui niente di più biblico si può immaginare. Oltre a queste fantasiose attribuzioni dell'Unesco, la mozione contiene una serie di condanne allo Stato ebraico, che propalano una quantità di bugie e di pretese di legare le mani agli archeologi e ai restauratori di Israele. Vi si bacchettano scavi archeologici e interventi di ogni genere a Gerusalemme, come se Israele non avesse nessun diritto a agire dentro la Città Vecchia, e soprattutto quando è noto che volontariamente e con malizia per via dei lavori ordinati dall'Waqf sono stati spazzati via con le ruspe a quintali reperti che avrebbero potuto ricordare la storia dei Templi di Gerusalemme, quello di Salomone e quello di Erode, retaggio ebraico mille volte descritti nei testi antichi e riconosciuto in altri tempi dall'Waqf stessa.
   Lo Stato d'Israele ha respinto con sdegno la risoluzione del comitato esecutivo dell'Unesco spiegando che «la risoluzione si propone di trasformare il conflitto israelo-palestinese in uno scontro religioso» e che il comitato «si è unito ai piromani che hanno dato fuoco ai uno dei luoghi più sensibili dell'umanità». Anche il direttore generale dell'Unesco Irina Bokova aveva avvertito che una presa di posizione così estremista avrebbe «alimentato tensioni» ma i pompieri sono riusciti a spegnere solo una parte delle fiamme che possono davvero portare a un disastro. Infatti quanto più i palestinesi gioiscono perché agli ebrei viene negato persino il diritto di poter almeno visitare, e in numero limitato, il luogo più sacro, Il Monte del Tempio, tanto più si sentiranno rafforzati nella loro tecnica negazionista circa la storia a Gerusalemme. Netanyahu ha dichiarato comunque che «i profondi legami ebraici ai luoghi santi di Gerusalemme e delle sue vicinanze (ci si riferisce a Betlemme e a Hebron, ndr) sono innegabili, e nessuna decisione dell'Unesco potrà cambiarli».
   La fallita richiesta dell'annessione del Muro del Pianto ai beni islamici dà la misura di chi attui la sovversione dello status quo: è la tecnica infatti di chi nega il rapporto legittimo fra gli ebrei e lo Stato d'Israele. Il Muro del Pianto, costruito 800 anni prima delle Moschee per contenere il terrapieno del Secondo Tempio non è solo una grande audace costruzione di pietre rosate: è la casella postale del Padreterno in cui, piangendo, la gente di tutto il mondo, e non solo gli ebrei, ficca bigliettini che chiedono aiuto per una guarigione miracolosa, un amore impossibile, il pane, la pace. Chi non ricorda papa Woytila col suo biglietto infilato con mano tremante in una fessura? Chi non conosce i singhiozzi delle folle ebraiche che si riuniscono al tempio nella ricorrenza di Tisha be Av quando si ricorda la caduta del Tempio nel 70 dC? Quale ebreo non ha sognato, a New York e a Roma come nello shtetl e anche nel campo di concentramento,che almeno una volta la sua mano toccasse quelle pietre? È barbarico trasformare la storia ebraica in territorio di conquista, fa il paio con la distruzione islamista di Palmira.

(il Giornale, 23 ottobre 2015)


Tutti pazzi per il cibo kosher: mangiare non è solo un atto di fede

Carne senza sangue e sale senza additivi. l'alimentazione che segue i dettami della religione ebraica si fa strada anche tra i non ebrei. così le aziende italiane si adeguano e si fanno certificare dai rabbini.

di Marino Niola

ROMA - Kosher is better. È il nuovo credo alimentare planetario. Che sta riempiendo i supermercati di tutto il mondo di cibi prodotti secondo i dettami della religione e della tradizione ebraica. E proprio questo significa la parola kosher (o kasher), adeguato, corretto, conforme alla kasherut, cioè alla legge. Una legge che è scritta nella Bibbia e che da tremila anni viene osservata dagli Ebrei di tutto il mondo. Ma adesso non più solo da loro, perché la kasherut sta conquistando milioni di consumatori di tutti i Paesi, che si convertono al pane azzimo e al falafel, alla carne privata del sangue, e perfino al sale certificato kasher; cioè senza alcun additivo.
    Il boom planetario di questi prodotti ha diverse ragioni. E nessuna religiosa. Tranne che per gli Ebrei, of course. La maggior parte dei consumatori, in realtà, dice di preferirli per motivi che si potrebbero definire a metà fra etica e dietetica. Sicurezza alimentare, salubrità, tracciabilìtà. Per esempio il rigore della shechitah, la legge che regola scrupolosamente le modalità di macellazione e di trasformazione delle carni, aumenta la credibilità dei marchi certificati kasher presso quella fascia sempre più estesa di salutisti e di persone sensibili ai trattamenti-maltrattamenti riservati agli animali. Così pure la bedikà e il nikur, cioè le regole rituali che disciplinano il controllo sanitario, il taglio e l'eliminazione dei grassi vietati, esercitano un'attrazione sempre maggiore sui vegetariani e sui vegani che trovano nel doppio marchio Kosher Parve la garanzia che il loro cibo non contiene né carne né latte né i loro derivati. Ma il decalogo alimentare risalente alla Torah conquista anche i lattofobi, che crescono in tutto il mondo. E che si sentono tutelati dalla regola biblica secondo cui il latte e la carne vanno tenuti rigorosamente separati. Per cui il paté di tradizione ebraica sarà sicuramente privo di lattosio. Analogamente, i celiaci trovano una soluzione ai loro problemi negli alimenti certificati Kosher Passover, quelli prodotti per la Pesach, la Pasqua ebraica, in cui lieviti, frumento e altri tipi di cereali sono oggetto di prescrizioni e di verifiche particolarmente meticolose, anche per quanto riguarda gli addensanti adoperati. E tutti insieme, questi consumatori, un po' choosy e un po' diffidenti e comunque in cerca di sicurezza, si sentono garantiti dallo sguardo vigile del rabbino. Risultato, la domanda cresce del 15 per cento annuo per un fatturato che solo nel Nord America sfiora i 400 miliardi. Menachem Lubinsky, presidente della potentissima Lubicom Marketing Consulting e fondatore della Kosherfest, la più importante fiera di settore al mondo, sottolinea la straordinaria capacità dei certifìcatori USA di fidelizzare una fascia sempre più ampia di consumatori in larga parte non ebraica.
    Uno studio del governo canadese - i cui risultati si trovano sul sito ufficiale www. ats-sea.agr.gc.ca - rivela quali sono le motivazioni che spingono ad acquistare cibi con certificazione religiosa. Il 62 per cento dei consumatori li ritiene di qualità superiore, il 51 per cento pensa che facciano bene alla salute e il 34 per cento li considera più sostenibili.
    Molte scelte sono dettate da una sorta di aggiustamento tra abitudini alimentari e tradizioni confessionali. Per esempio islamici, avventisti del settimo giorno, induisti, che sarebbero sottomessi a tabù piuttosto simili a quelli ebraici, quando non riescono a trovare prodotti che rispettino in toto la precettistiea imposta dal loro credo, ricorrono ai cibi kosher quali approssimazioni dietetiche, equipollenze etiche. Con un compromesso accettabile tra le esigenze del corpo e quelle dell'anima. Ma anche quelle dell'ambiente. Di fatto il modello di sostenibilità scelto dall'Europa attraverso la certificazione dei prodotti biologici finisce per convergere con quello che sta alla base della kasherut. Uno dei comandamenti del decalogo kosher vuole, infatti, che il cibo non contenga nulla che possa risultare dannoso per la salute.
    Il risultato è un affare colossale di cui la giornalista americana Sue Fishkoff ha descritto luci e ombre nel libro Kosher Nation.
    E adesso Elena Toselli ha pubblicato Le diversità convergenti. Guida alle certlficazioni alimentari. (Franco Angeli; pp.2-50, euro 32). Le cifre delle due autrici parlano da sole. Se nel 1977 i prodotti certificati erano 2.000, oggi sono 135.000. E ogni anno vengono immessi sul mercato 8.000 nuovi alimenti a marchio kosher. E adesso le aziende convenzionali si mettono in coda per fare analizzare i loro prodotti dalle autorità religiose. Le sole che abbiano il potere di certificare che una pasta, un caffè, un filetto, una scatoletta di tonno, una bottiglia di vino sono prodotti come Dio comanda.
    Lo hanno già fatto marchi italiani come Barilla, Ferrarelle, Olio Sasso, De Cecco, Lazzaroni, Bonomelli e tanti altri. La prima al mondo fu la Procter & Gamble, che nel lontano 1911 ottenne di poter pubblicizzare come kosher il Crisco, un grasso vegetale per pasticceria. E adesso organizzazioni come la potentissima Orthodox Union, la più grande holding di certificazione ebraica del pianeta, dispensa il logo OU come una benedizione. Impartita da cinquecento rabbini che monitorano quattrocentomila alimenti e seimila fabbriche operanti in ottanta Paesi. Nella sola sede centrale di Broadway, è al lavoro un imponente board rabbinico coadiuvato da una schiera di tecnologi alimentari e analisti del sapore, in uno scenario da film di Woody Allen.
    Siamo in pieno cortocircuito tra religione e alimentazione, tra salute del corpo e salvezza dell'anima. Tra fiducia e fede. Al punto che crediamo più nell'autorità religiosa che nell'authority alimentare. Finendo per caricare la religione di funzioni improprie. Come la tracciabilità dei nostri alimenti. Garantita da un'autorità percepita come superiore, al di sopra delle parti, al riparo da conflitti di interesse. E così chiediamo ai rappresentanti dell'Altissimo di proteggerei dal male. Lo aveva capito in anticipo la Hebrew National che nel 1960, per lanciare il suo celebre hot dog, scelse lo slogan Rendiamo conto ad un'autorità superiore. Come dire, il nostro è un panino da padreterno. Parola di Dio.

(il venerdì di Repubblica, 23 ottobre 2015)


Da Israele all'Italia: così coltiveremo pareti di pomodori

Il brevetto della tecnica vista all'Expo è stato acquistato da uno studio di architettura di Milano.

di Alex Saragosa

 
Il padiglione di Israele all'Expo di Milano è uno dei più ammirati, in particolare per il suo straordinario «campo verticale»: una parete che è, appunto, quasi perpendicolare al suolo e divisa in settori, dove i tecnici israeliani, nei mesi dell'esposizione che chiuderà il 31 ottobre sono riusciti a far crescere varie piante, fra le quali riso e granturco. Il tutto, in apparenza, senza irrigazione.
   Adesso sarà possibile replicare in Italia questo prodigio tecnologico praticamente ovunque, grazie a uno studio di architettura milanese, Plinio63, che ha acquistato l'uso del brevetto dalla società Vertical Field.
   «Il sistema impiegato all'Expo impressionava anche per le dimensioni, ma è in realtà scalabile in qualsiasi taglia: dalle pareti di un intero condominio, usando in questo caso piante ornamentali a ridotta manutenzione, fino a pochi metri quadri per coltivare fiori o ortaggi su un balcone» spiega l'architetto Piero Airato.
   Il segreto della grande flessibilità del campo verticale è nel metodo di realizzazione: vasi in plastica rettangolari di una trentina di centimetri di lato, incastrati l'uno sull'altro, la cui particolare forma trattiene all'interno il terriccio. Sul retro dei vasi un impianto di irrigazione goccia a goccia a controllo elettronico mantiene la terra sempre alla giusta umidità impedendo che si sbricioli e garantendo la crescita ottimale delle piante con minimi consumi d'acqua.
   «Il sistema è nato per la decorazione e l'isolamento termico delle facciate dei palazzi» aggiunge Airato, «ma quanto si è visto all'Expo, con piante di granturco lunghe quasi due metri che crescevano tranquillamente dalla parete, dimostra che si presta perfettamente alla realizzazione di orti urbani. Quindi chiunque potrà coltivare pomodori e insalate in città. Senza occupare spazio calpestabile».

(il venerdì di Repubblica, 23 ottobre 2015)


L'Iran offre alla Russia la partecipazione a progetti per 28 miliardi di dollari

Lo ha detto il ministro dell'energia russo. L'impegno delle aziende di Mosca è nel settore dei trasporti e nell'edilizia.

MOSCA - L'Iran ha offerto alla Russia di partecipare a progetti nel settore dei trasporti e dell'edilizia per un valore di oltre 25 miliardi di euro, o quasi 28 miliardi di dollari: lo ha detto il ministro dell'energia russo Alexander Novak. Parlando ai giornalisti dopo un incontro con il ministro iraniano dei Trasporti e dell'edilizia abitativa Abbas Ahmad Akhoundi, Novak ha dichiarato che Akhoundi aveva consegnato "21 progetti del valore di oltre 25 miliardi di euro, che saranno attuati in Iran." "Le aziende russe - ha aggiunto Novak - sono interessate a partecipare a progetti che saranno attuati in Iran, inclusi quelli relativi allo sviluppo delle infrastrutture ferroviarie, porti, relativi alla fornitura di equipaggiamenti navali e di autovetture, oltre a macchine per impieghi speciali". Secondo il ministro russo, i due paesi si sono già accordati di firmare documenti vincolanti entro la fine dell'anno sulla elettrificazione delle ferrovie iraniane.

(il Velino, 22 ottobre 2015)


Putin: il problema Iran è finito, lo scudo antimissile Usa non ha più scuse

"La minaccia da parte di Teheran non c'era e non c'è"

SOCHI (Russia), 22 ott. - "Con il pretesto della minaccia nucleare iraniana è stato distrutto il sistema di sicurezza internazionale", ma ora gli Usa non hanno più "scuse" per lo scudo antimissile che da tempo la Russia definisce rivolto contro di sè. Lo ha detto il presidente russo Vladimir Putin al Valdai club, riunito a Sochi, al quale partecipa askanews.
Secondo Putin, la questione nucleare iraniana è stata risolta, "la minaccia da parte di Teheran con c'era e non c'è". Ma ora la Russia "ha il diritto di aspettarsi" che gli Stati Uniti dopo la soluzione della questione nucleare iraniana, pongano fine all'attuazione del programma di difesa missilistica.

(askanews, 22 ottobre 2015)


Questo Iran piace troppo

Ecco s'avanza il grande party dell'appeasement con l'Iran pre-atomico. La festa potrebbe essere magnifica, la location scelta è Roma e il grande officiante nientemeno che Francesco. Ieri una fonte diplomatica ha detto a Reuters che il presidente iraniano Hassan Rohani tra meno di un mese sarà in Italia per il suo primo viaggio nell'Unione europea, e incontrerà anche il premier Renzi e il presidente Mattarella. A Teheran c'è un gran viavai di occidentali, soprattutto di manager d'impresa che corrono a sfruttare la fine annunciata delle sanzioni e la riapertura di un paese intero al mercato internazionale. Ma questa è la prima volta che il presidente scelto dalla leadership iraniana per diventare il volto del grande deal con l'occidente arriva in Europa. Rohani in questi anni s'è accreditato come un riformista illuminato, per una di quelle ipersemplificazioni giornalistiche che trasformano una menzogna in senso comune, e anche perché chiunque in confronto al suo predecessore, Mahmoud Ahmadinejad, farebbe la figura dello squisito diplomatico.
Rohani ha chiuso con l'occidente un accordo sul nucleare che sembra ogni giorno più problematico - si scoprono decine di punti deboli, a partire dal fatto che in certe occasioni saranno gli iraniani a farsi da soli le ispezioni. Tutto questo non importa. Per Rohani e per tutta la leadership iraniana è arrivato il momento di godere i frutti delle loro trattative spietate a Ginevra e della debolezza americana. Quale migliore esordio sulla scena di una visita ufficiale in Vaticano? Impossibile non vedere sin d'ora che rischia di essere trasformata, per eccesso di benevolenza nazionale e per equivoco storico, in una passerella trionfale. Un riferimento da parte italiana e vaticana a Israele, al suo diritto all'esistenza, potrebbe addolcire la pillola.

(Il Foglio, 22 ottobre 2015)


Il riferimento al “diritto all’esistenza” di Israele in Occidente ormai lo fanno tutti: è un patentino per poter continuare a dire a Israele quello che non deve fare per difendere la sua esistenza. Sarà strano, ma Israele non s’accontenta del diritto all’esistenza: vuole proprio l’esistenza. E questo a molti pare troppo. “Tu hai il diritto ad esistere - dicono a Israele le nazioni buone - te lo diciamo noi che ti siamo amiche, quindi devi esserci grata e ubbidirci in tutto quello che ti ordiniamo di fare per il tuo bene.” Sulla valutazione di questo bene però ci sono spesso divergenze notevoli tra Israele e le nazioni amiche. Come sarà che tutte le nazioni amiche di Israele sanno sempre meglio di Israele qual è il vero bene di Israele? M.C.


Prosegue la visita del Presidente israeliano Rivlin a Praga

PRAGA, 22 ott - Il Presidente israeliano Reuven Rivlin prosegue la sua visita in Repubblica Ceca. Secondo il portale "Eurozpravy.cz," Rivlin ha visitato stamane il campo di concentramento di Terezin, successivamente ha visitato il parlamento e discusso con il presidente della camera Jan Hanacek (Partito socialdemocratico ceco - Cssd). Le discussioni sono state incentrate soprattutto sul tema della sicurezza nel vicino oriente. Formalmente, Rivlin ha auspicato la possibilità di creare una lega tra Israele e Arabia Saudita per creare una situazione stabile nel medio oriente. Infine, Rivlin ha confermato gli ottimi rapporti tra il suo paese e la Repubblica Ceca.

(Agenzia Nova, 22 ottobre 2015)


Hamas pronto a colpire Israele

 
MILANO - L'organizzazione terroristica Hamas ha ordinato ai suoi seguaci di riprendere gli attentati suicidi contro gli israeliani dopo l'ondata di violenza e terrore in tutto il paese ebraico degli uomini di Abu Mazen.
   Citando fonti israeliane anonime, Ynet ha riferito che ai terroristi di Hamas a Hebron e Nablus è stato ordinato di svolgere missioni suicide in aree affollate di Gerusalemme, in Giudea e in Samaria.
   Un funzionario della sicurezza dell'Autorità Palestinese ha anche rivelato che le forze di polizia dell'ANP ha recentemente arrestato delle cellule di Hamas a Hebron, trovando in loro possesso grandi quantità di denaro e di esplosivi. Sei dei membri della cellula del terrore hanno ammesso sotto interrogatorio il loro desiderio di morire da "martiri".
   Hamas ha lodato i recenti attacchi terroristici in Israele, e tramite i funzionari del gruppo terroristico legato ai Fratelli Musumani ha richiesto una resistenza armata contro Israele. Domenica, Mahmud al-Zahar, un leader di Hamas, ha detto che l'attuale "Intifada popolare" dovrebbe trasformarsi in un conflitto militarizzato.
   La scorsa settimana, Ismail Haniyeh, leader di Hamas a Gaza, ha esortato il rafforzamento e l'aumento dell'intifada. Durante un sermone tenutosi venerdì in una moschea di Gaza, Haniyeh ha dichiarato che la resistenza armata è "l'unico percorso che porterà alla liberazione".
   Nelle ultime due settimane, Hamas ha chiesto due "giorni di rabbia" contro Israele, invitando i palestinesi a compiere attacchi terroristici contro gli israeliani e contro i soldati dell'IDF.
   Il nuovo invito a attentati suicidi arriva dopo che un rapporto ha rivelato che alcuni dirigenti della sicurezza palestinesi credono che i terroristi di Hamas stiano pianificando un grande attacco terroristico a larga scala contro gli israeliani in Giudea e Samaria.
   Dall'Europa tutta, dalla Casa Bianca e dai richiedenti pace in Medio Oriente, intanto, non arriva alcuna parola di condanna, al contrario, il flusso di denaro verso l'ANP e le ONG operanti nell'area, pare inarrestabile. Se si volesse davvero la pace in Medio Oriente le strade non possono essere che le seguenti: costringere Abu Mazen a riconoscere Israele, lo Stato Ebraico; bloccare il flusso di denaro verso le ONG e riconoscere il falso storico dell'esistenza dello stato palestinese e se stato sovrano deve per forza essere che sia! Se non altro i milioni di Euro che affluiscono in Palestina sarebbero sottoposti a controlli e, in qualità di paese sovrano, dovrebbe presentare un bilancio in cui si giustificano sia le entrate che le uscite. Sino ad ora tutto il denaro che arriva in Palestina viene speso in modo incontrollato sia dai politici palestinesi sia dalle centinaia di ONG operanti in quei luoghi e servono solo ed esclusivamente a finanziare il terrorismo e a far costruire ad Abu Mazen una villetta unifamiliare della modica cifra di 13 milioni si dollari (persino Villa San Martino costa meno).
   Perché i politici europei non dicono che buona parte dei soldi, dei contribuenti europei, strozzati dall'austerity serve a finanziare il terrorismo arabo? Perché l'Unione Europea non dice che quel denaro sottratto agli italiani, ai francesi, agli spagnoli ed ai greci serve ad organizzare un nuovo olocausto, una grande truffa nonché un grande falso storico: la Palestina?

(Milano Post, 22 ottobre 2015)


Non una sommossa contro l'occupazione, ma una sommossa contro Israele

Il messaggio scritto a sanguinosi caratteri cubitali è: non vogliamo vivere accanto a voi, vogliamo uccidervi.

Dicono che questo non è un terrorismo "orchestrato" e "organizzato", e invece lo è. In un certo senso è più ampiamente "orchestrato" degli attentati suicidi della seconda intifada. All'inizio degli anni Duemila i terroristi di Hamas e Fatah addestravano, armavano e infiltravano in Israele attentatori suicidi per colpire i nostri autobus, i centri commerciali, i ristoranti uccidendo 10, 20 o 30 persone per volta. Il nostro Ministero della difesa ci assicura che oggi in Cisgiordania non esiste più una "infrastruttura" terroristica in grado di replicare quelle ondate di attentati esplosivi. Speriamo che sia vero. Ma quello che abbiamo di fronte oggi è un numero imprecisato di potenziali aggressori, spronati al fervore omicida da una campagna ben orchestrata di odio contro di noi. Il messaggio secondo cui "gli ebrei stanno complottando contro la moschea di Al-Aqsa" viene diffuso e inculcato da mesi dai capi politici palestinesi, dai leader spirituali, da tutti i principali mass-media e social network, dallo stesso presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) nei discorsi al suo popolo (dove ha perso infine ogni terreno comune con Israele quando la scorsa settimana ha ripetuto la calunnia che Israele aveva "giustiziato" per la strada l'accoltellatore adolescente di Pisgat Zeev), dai volantini e messaggi Facebook di Fatah, dai video di Hamas, dalle esagitate manifestazioni all'interno di Israele del Movimento Islamico israeliano, dai parlamentari arabo-israeliani della Knesset: tutti costoro, e altri, hanno continuato a gettare benzina sul fuoco. Come undici o quindi anni fa, il risultato è che ci aspettiamo ogni giorno un attentato. Per il momento sono generalmente costretti a ricorrere a metodi meno devastanti di allora. Ma, potenzialmente, sono molti di più. E sono qui in mezzo a noi, non dall'altro lato di quella barriera che costruimmo appunto per fermare gli attentatori esplosivi della seconda intifada. Sono uomini, donne e persino ragazzi poco più che bambini. Il lavaggio del cervello è stato così efficace che vengono da noi pronti e disposti a morire nell'atto di uccidere l'Ebreo: l'ebreo maligno che sono stati persuasi in modo così efficace a pensare che non abbia alcun diritto di essere qui, che non abbia alcun legame con questo paese e con Gerusalemme....

(israele.net, 22 ottobre 2015)


Peter Trawny, “Heidegger e il mito della cospirazione ebraica”

Ed. Bompiani, 149 pp., 13,00 euro

In un testo del 1940 - dunque tardo e in piena guerra - Martin Heidegger (1889-1976) chiarì definitivamente che il problema dell'ebraismo non va posto sul piano delle contingenti polemiche razziali, ma su quello della metafisica: "La questione del ruolo dell'ebraismo mondiale (…) indaga la specie di umanità che, in assoluto svincolata, sia in grado di farsi carico dello sradicamento di tutto l'ente dall'essere, come 'compito' di portata storica mondiale".
   L'ebraismo mondiale, afferma insomma il filosofo di Friburgo, si renderebbe responsabile di un "crimine globale", in quanto punta ad allontanare l'uomo (l'ente) da ciò che lo sostanzia, cioè il "radicamento" nell'essere. Il "radicamento" è per lui un concetto fondamentale. Il "radicamento" di un popolo alla sua terra, al suolo, è il contrassegno - positivo - della razza. Solo grazie al "radicamento", un popolo-razza (i due termini, in Heidegger, hanno spesso valenza ambigua) ha la possibilità di accedere alla storia dell'essere (Seinsgeschichte, contrapposta alla mera storiografia, Historie). Tanto più quando il popolo è quello tedesco, al quale è affidato il compito di incarnare quella storia e dunque, nell'oggi, di contrastare la tendenza allo "sradicamento" dei popoli richiesto dalla "macchinazione" della modernità. Costei sradica i popoli dalla terra perseguendo la sua vocazione per quella "vuota razionalità" e quel "carattere calcolante" - in cui gli ebrei sono maestri - che negano e odiano la filosofia e la poesia, per Heidegger le due sole forme del pensare pienamente partecipi del disegno storico-ontologico dell'essere.
   Questo antisemitismo non si limita a essere, avverte Peter Trawny, accademico dell'Università di Wuppertal nella Renania Settentrionale-Vestfalia, studioso del filosofo di "Essere e Tempo", "un pregiudizio antisemita", quello dell'ebreo mercanteggiatore, avido, avaro, ben dentro alle trame politico-economiche che avvolgono il mondo. No, per Heidegger l'ebreo è figura (nel linguaggio heideggeriano) onto-storica, metafisica: forse, alla fin fine, lui stesso travolto dal "mammonismo", la schiavitù a Mammona, l'idolatria del denaro che gli viene comunemente imputata.
   Heidegger prese a un certo punto le distanze da Hitler. Attraverso una accurata esegesi dei testi - in particolare dei famosi "Quaderni neri" - Trawny ricorda come il filosofo fosse venuto via via convincendosi che i tedeschi del suo tempo, insomma i nazisti, non fossero in grado di adempiere con la purezza necessaria ai compiti assegnati al popolo tedesco, ormai divenuto anche esso vittima della "macchinazione" della modernità tecnologica, espressa in primo luogo dall'"americanismo" e la sua "cultura di massa nichilista". Nei confronti di Hitler Heidegger avrebbe anzi provato una "delusione" presto seguita da una "reazione filosofica vera e propria". Trawny ipotizza che il filosofo possa aver manifestato contrarietà e avversione per le leggi razziali emanate nel 1933 a Norimberga. Non manca comunque di notare il carattere ambiguo di un pensiero che oscilla tra l'assolutezza del rigore metafisico e l'occasionalità della considerazione meramente storico-storiografica.
   Abbia aderito o meno al nazismo, sia stato o meno influenzato dai vergognosi "Protocolli dei Savi di Sion" - il pamphlet che è alla base di molto antisemitismo perfino contemporaneo - Heidegger partecipa pienamente al collasso irrazionalista dell'Europa continentale del suo tempo, con il suo sostanziale totalitarismo e odio contro la democrazia e gli ebrei: se non è antisemitismo, come vorremmo chiamarlo?

(Il Foglio, 22 ottobre 2015)


Bibi il revisionista, anzi il negazionista

Ecco alcuni titoli di articoli e note d’agenzia di oggi, 21 ottobre:
  • Netanyahu revisionista: Shoah 'suggerita' a Hitler da palestinese
  • Il revisionismo di Netanyahu: «Shoah ispirata dai palestinesi»
  • Netanyahu: "Hitler non voleva sterminare gli ebrei. Fu il muftì palestinese a convincerlo"
  • Netanyahu: "Hitler non voleva uccidere gli ebrei: convinto dai palestinesi"
  • Netanyahu: la Shoah voluta dai palestinesi
  • Erekat: Netanyahu assolve Hitler, i palestinesi furono con gli Alleati
  • Netanyahu: «Hitler non voleva sterminare gli ebrei. Fu il muftì palestinese a convincerlo»
  • Netanyahu: "Hitler non voleva la Shoah, fu convinto dal muftì palestinese". Esplode la polemica
  • "Il Mufti palestinese di Gerusalemme ha ispirato l'Olocausto"
  • Shoah, Netanyahu: "Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli"
  • Netanyahu: «Hitler non voleva la Shoah, i palestinesi sì», è bufera in Israele
  • Netanyahu: fu il muftì palestinese a indurre Hitler all'Olocausto
  • Bibi il negazionista.
Che le parole di Netanyahu siano una scivolata su una buccia di banana è fuor di dubbio. Un politico esperto come lui avrebbe dovuto capire subito che le sue parole sarebbero state stiracchiate e strumentalizzate fino all'inverosimile. E probabilmente adesso lui è il primo ad esserne convinto. In un’altra sede e in un altro momento si sarebbe potuto chiedergli: “Ma che intendi dire?” e forse si sarebbe potuto mettere a punto le frasi e il riferimento ai fatti. Si rileggano invece alcuni titoli con cui si è data la notizia e si dica se non c’è menzogna e mala fede. Dopo quello che ha detto, Netanyahu secondo i titoli sarebbe un revisionista, un negazionista, uno che ha assolto Hitler dicendo che non voleva la Shoah, che non voleva sterminare gli ebrei e che invece è tutta colpa dei “palestinesi”. Si noti quante volte invece di dire Hussein si tirano in ballo i “palestinesi”, termine che in tutto questo non c’entra niente perché al tempo del Mufti non indicava soltanto gli arabi ma anche gli ebrei. Invece di una doverosa precisazione c’è stata una reazione scandalizzata come se Netanyahu avesse detto che ad ammazzare gli ebrei è stato Palmiro Togliatti, cioè uno che non c’entra niente. Certo, certo, gli ebrei Hitler li avrebbe gasati anche senza l’imbeccata di Hussein, ma è fuor di dubbio che il Gran Mufti in ogni caso era perfettamente d’accordo e consenziente. Si è giocato sporco volendo far apparire Netanyahu non come uno che mette in risalto la criminale corresponsabilità di Hussein, ma come uno che assolve Hitler. Chi può credere sinceramente questo? Chi può credere che secondo Netanyahu i tedeschi nella Shoah non c’entrino per niente? Che poi un giornale come il Sole 24 Ore arrivi a titolare “Bibi il negazionista” è una cosa semplicemente vergognosa.
Diciamo allora che lo scivolone di Netanyahu è servito da una parte a mettere ancora una volta in evidenza il generale accanimento astioso contro Netanyahu che - lo capiscano o no anche gli ebrei - non esprime altro che lo stabile, diffuso rancore contro lo Stato ebraico d’Israele; dall’altra ha fatto di nuovo emergere il desiderio nascosto, ma non troppo, di difendere a tutti i costi la sacralità dei palestinesi. Che sono sacri per un semplice ed unico motivo: di essere lo strumento attraverso cui si veicola, sotto moralistica specie, l’antico odio verso gli ebrei, oggi indicati nella la forma dello Stato ebraico d’Israele. M.C.

(Notizie su Israele, 21 ottobre 2015)


Israele-Palestina, c'è l'Isis dietro l'Intifada dei Coltelli?

di Emanuele Rossi

La Palestina, per il leader dell'Isis al-Baghdadi, non è altro che una landa amministrativa: non c'è nessun interesse a Raqqa, credono diversi osservatori, di creare uno Stato palestinese, di alzare la bandiera a quattro colori, di avere un'indipendenza nazionale. Sotto il sedicente Califfato, non solo non esistono elezioni, non esistono nemmeno nazioni: lo Stato è unico, i territori sono province amministrate dai vari waliy. La rivolta palestinese serve a schiacciare il nemico esistenziale ebreo, Israele.

 I filmati
  È sotto quest'ottica che vanno letti i vari filmati di incitamento prodotti da diversi dipartimenti dell'Isis in questi giorni: non come un interessamento nei fatti che accompagnano "l'identità palestinese". Da notare che questi video sono una rarità, perché di solito lo Stato islamico non si espone sulla questione israelo-palestinese, se non condannando Israele, incitando all'odio contro gli ebrei e dichiarando tra gli obiettivi ultimi la conquista di Gerusalemme (la stessa cosa fatta più volte per Roma).

 La scelta dell'Isis
  Quello che succede in questi giorni è diverso: in quei filmati di incitamento a quella definita l'Intifada dei coltelli, l'Isis s'attribuisce la paternità degli attacchi e invita il popolo palestinese a lasciar perdere i leader dei partiti locali (Hamas e Fatah, ma anche gruppi come il Jihad palestinese) e a combattere solo in nome dell'Islam. Ci sono immagini in cui manifestazioni di protesta con le bandiere palestinesi alzate vengono coperte da una croce rossa, come a dire "non va bene". È questo il segnale che il sedicente Califfato vuole trasmettere: la vostra battaglia va avanti da anni nel modo sbagliato, è troppo politica, troppo nazionalistica, troppo legata a quei partiti, a quella bandiera che per la prima volta meno di un mese fa ha sventolato tra le altre al Palazzo di Vetro. Abu Mazen e Benjamin Netanyahu sono inquinati dall'Occidente, i gruppi di Gaza e del West Bank dall'Iran, sciita e dunque nemico contaminante tanto quanto l'America o l'Europa. Voi, dicono i media del Califfo rivolgendosi ai palestinesi, dovete mirare ad altro: una volta mollati i partitini palestinesi e presa la via della lotta in nome di Maometto e Allah, distruggerete Israele e poi creerete una provincia dello Stato islamico.

 La diffusione mediatica
  È una campagna organizzata dai "baghdadisti", che sta portando buoni risultati. Ora siamo nella fase di diffusione mediatica, ma da diversi mesi Hamas e i gruppi palestinesi si trovano in posizione di difesa, costretti ad arginare l'attecchimento interno delle istanze del Califfato. Ci sono gruppi interni particolarmente radicali e filo Isis che non hanno ancora lo spessore di ufficialità raggiunto in altre parti del mondo, solo perché sono sottoposti ad una dura campagna di repressione e arresti da parte proprio della polizia di Hamas. Lo Stato islamico (come prima faceva al Qaeda) considera l'organizzazione di Gaza composta da "mollaccioni poco radicali", perché accettano le elezioni, cioè un potere sugli uomini diverso da quello di Allah (tra l'altro, come più volte ribadito, l'Isis non si capacita di come i palestinesi possano vivere così vicini agli ebrei e avere fasi di pace e tregua nella lotta armata).

 La competizione
  C'è un tentativo di mettere un cappello sull'attuale situazione da parte dei partiti locali. Però è difficile mettersi in concorrenza con il Califfo. L'hashtag che circola di più su internet è #sgozzagliebrei ed è "made in Raqqa". Lo Stato islamico "punta a una rieducazione" del jihad palestinese secondo i propri precetti, ha scritto Daniele Raineri sul Foglio, utilizzando una forte campagna mediatica iniziata sommessamente tra i cittadini mesi fa e ora esternata con i video. Sostituire il pugno alzato trionfante dei guerriglieri di Fatah con il dito verso il cielo della tashahud (unico gesto consentito dal radicalismo califfale, perché indica l'unicità di Dio) sarà una missione complicata, perché quei partiti hanno una radicazione storica nei Territori, ma in questo momento niente sembra impossibile al jihad globale dell'Isis.

 Fase diplomatica
  Oggi è giornata di incontri diplomatici. Il segretario di Stato americano John Kerry incontrerà a Berlino il premier israeliano Netanyahu, mentre a Tel Aviv il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon si vedrà con il capo dell'Autorità palestinese Abu Mazen. Il tema di entrambi i vertici (al netto delle ultime uscite di Bibi) sarà di cercare un modo per bloccare le violenze. E chissà se l'argomento verrà affrontato tenendo conto della nuova realtà fomentata dall'Isis.

(formiche.net, 21 ottobre 2015)


Attentati in Israele, fiaccolata della Comunità ebraica milanese

MILANO, 21 ottobre 2015 - Una fiaccolata in solidarietà a Israele, organizzata dalla Comunità ebraica milanese al Tempio Centrale di via Guastalla. A riunirsi davanti alla sinagoga sono state un centinaio di persone che, a partire dalle 18.30, hanno acceso le torce. "Terroristi", "Tagliagole", "Martiri inutili" gli appellativi assegnati al popolo palestinese dal podio montato all'ingresso della sinagoga.
   Una decina le bandiere dello Stato di Israele, sventolate da ebrei italiani e dalle diverse personalità della politica milanese che hanno preso parte alla manifestazione. A partire dall'ambasciatore israeliano di Milano, Naor Ghilon, secondo cui parte della colpa del fiorire di un odio contro gli ebrei proviene dal mondo dell'informazione: "I media internazionali mettono sullo stesso piano terroristi e vittime palestinesi", ha affermato Ghilon, che aggiunge: "E' di questi giorni il supporto dato dai portavoce dell'Isis alla campagna terrorista palestinese in atto. I giovani arabi di Gerusalemme sono stati invitati a decapitare gli ebrei".
   Dal podio dell'ingresso della sinagoga, il rabbino di Milano, Rav Alfonso Al Bib, ha ricordato un passo dell'Esodo, uno dei cinque libri della Torah: "Faraone, re d'Egitto, si rivolse a chi aveva sete di sangue, e chiese di uccidere i bambini ebrei. Il parallelismo con l'oggi è semplice: l'Isis chiede di sgozzare gli ebrei. E il mondo si sta chiudendo in se stesso non dando peso alla rinascita dell'odio antisemita". Ha partecipato alla fiaccolata anche Andree Ruth Shammah, registra del teatro milanese Franco Parenti. "Ogni volta che ci riuniamo per una manifestazione pubblica, al 25 aprile con la Brigata Ebraica o oggi ai piedi della sinagoga, ci sono numerosi uomini della polizia a difenderci. Leggo notizie sui giornali che incitano a trucidare gli ebrei - dichiara la regista - Noi siamo diversi, e l'Occidente che aveva urlato 'mai più' alle critiche di Israele resta in silenzio di fronte a questa vergogna". Anche Ruggero Gabbai, consigliere comunale Pd, presidente della Commissione Expo del Comune di Milano, era in prima fila: "Noi ebrei siamo sotto attacco in Israele e in Europa: dobbiamo difenderci. Abbiamo l'obbligo di appigliarci all'esigua minoranza araba che vuole la pace. In Israele abbiamo un esercito e oggi è facile cadere nella violenza: dobbiamo mantenere la vigilanza molto forte, pur tentando di aprire un dialogo - sottolinea Gabbai - Sono contento che qui ci sia la bandiera italiana al fianco di quella israeliana. Non c'è popolo più vicino a Israele dell'Italia, e del premier Matteo Renzi".
   In fiaccolata, oltre al centrosinistra, c'è anche il centro destra comunale e regionale. Per il 31enne Daniele Nahum, consigliere della comunità ebraica e responsabile Cultura del Pd, "difendere Israele è una questione di civiltà, non di destra e sinistra A proposito della trasversalità Nahum dichiara: "Ringrazio la politica milanese qui presente oggi, a partire da Riccardo De Corato, consigliere regionale di Fratelli d'Italia. Israele è l'unica democrazia sostenibile con forza, a prescindere dallo schieramento politico di ciascuno". Per Ada Lucia De Cesaris, ex vicesindaco di centro sinistra della Giunta Pisapia, anche lei in sinagoga a fianco della Comunità Ebraica Milanese, alla base dell'odio c'è l'indecisione a parteggiare per Israele. "Non può esserci pace se non superiamo il pregiudizio, quel 'si ma Israele'. Quel pregiudizio contro gli ebrei che non fa combattere alle persone, italiane, di combattere il terrorismo. Milano - dichiara De Cesaris - deve ergersi a esempio della comunità internazionale per la difesa di Israele".

(il Giorno, 21 ottobre 2015)


"Non c'è niente di meglio di un pugnale piantato nella testa di un ebreo"

Ecco i toni e i contenuti della incessante campagna web palestinese per l'intifada jihadista.

I social network stanno funzionando come una delle principali fonti di istigazione agli attacchi terroristici in corso in Israele. Lo documentano due recenti rapporti redatti dal Middle East Media Research Institute (MEMRI).
Diversi hashtag come "l'intifada è iniziata", "terza intifada", "l'intifada di Gerusalemme", "l'intifada dei coltelli", "avvelena il coltello prima di pugnalare" e "macellare gli ebrei" sono stati lanciati di recente nella sui social network in lingua araba allo scopo di diffondere propaganda e incoraggiare ulteriori attentati. "Molti account Twitter utilizzano questi hashtag per esprimere gioia dopo gli attentati definendo invariabilmente "eroi" i loro autori, per minacciare imminenti nuovi attacchi e per incoraggiare altri a realizzare accoltellamenti analoghi", si legge in uno dei due rapporti che comprende anche una serie di esempi dei post descritti....

(israele.net, 21 ottobre 2015)


Intifada dei coltelli. Arpino: "Escalation? Non conviene né a Fatah né ad Hamas"

di Marco Petrelli

Israele: siamo di fronte ad una terza intifada? Malgrado l'ondata di ferimenti di militari e civili israeliani ad opera di giovani palestinesi, secondo il generale Mario Arpino non esistono le basi per una nuova campagna contro Tel Aviv. Lo dimostra, spiega l'ufficiale, "sono stati uccisi subito. Fosse stato un movimento spontaneo voluto dai 'capi' qualcuno avrebbe dato loro un giubbotto esplosivo", aggiungendo anche che ad "Hamas che si propone come forza di governo certo non conviene, né tanto meno a Fatah". Azioni isolate, di giovani esaltati come quelli che, dall'Europa e non, tentano di arrivare in Siria per arruolarsi nelle file del Califfato islamico.

- Attacchi all'arma bianca contro soldati israeliani. Strana tattica, di cosa si tratta?
  "Si tratta per lo più di giovani frustrati e arrabbiati, ragazzi e ragazze a suo tempo educati nelle madrasse, e quindi predisposti al martirio. Accoltellare un israeliano in pubblico significa fasi uccidere subito dopo. O durante. Infatti sono stati uccisi quasi tutti e le loro case rase al suolo. Se non fosse stato un movimento spontaneo, fastidioso per la stessa Hamas, ma voluto dai "capi", qualcuno avrebbe dato loro un giubbotto esplosivo, che non si trova in commercio come un qualsiasi coltello da cucina. Sono paragonabili ai giovani europei che vanno in Siria ad arruolarsi nell'Isis, sapendo che difficilmente ne usciranno vivi".

- Siamo di fronte a una terza intifada?
  "Assolutamente no, ad Hamas che si propone come forza di governo certo non conviene, né tanto meno a Fatah. E' pericoloso far studiare i ragazzi da martiri e poi non finalizzarli, perdendone il controllo. Finiranno per combinare dei guai, ed è esattamente ciò che stanno facendo".

- Può essere ipotizzabile una connessione fra gli attacchi a Israele e la scelta palestinese di schierarsi con Putin e Assad?
  "Non credo proprio. Questo presupporrebbe una strategia ed un' organizzazione che in questo caso non esistono. Certo, Israele resta il nemico, ma è proprio questa scelta palestinese a sconsigliare a Putin e ad Assad di favorire un allargamento del fronte. Al momento, Israele bada alla propria sicurezza interna ed evita di intervenire all'esterno. Osserva le mosse, ma non si muove, lasciando la coppia russo-siriana libera di concentrarsi nella direzione che le è più utile. Questi giovani accoltellatori fai-da-te, invece di aiutare, stanno rompendo le uova nel paniere a chi una strategia precisa la sta gia' seguendo da anni".

- Palestina contro Isis, ma al fianco di Damasco, nemico giurato di Israele. Nell'ottica di una piu' ampia campagna contro il Califfato, quali saranno le mosse, diplomatiche e militari, di Tel Aviv a Gaza?
  "Il Medioriente è la terra dei paradossi, ma in questo caso non è cosi. Hamas e Fatah sono contro l'Isis, sunnita, esattamente cosi come lo e' l'Arabia Saudita. Gli estremisti, specie quelli religiosi, non tollerano che quello che considerano il proprio campo d'azione venga invaso da altri estremisti, ancora piu' motivati e convinti. Sarebbe, in primo luogo, una erosione di potere, oltre che uno spostamento di obiettivi. E' vero che l'odio per Israele accomuna, ma solo fino a quando non fa collidere gli interessi di ciascuno. In questo quadro, sia Israele che i palestinesi "ufficiali" detestano e puniscono gli accoltellatori. Il fatto che, innaturalmente, i sunniti di Hamas e Fatah fiancheggino in qualche modo lo sciita Assad e il suo padrino Putin contro i sunniti dell'Isis a Israele non può che far piacere. Meglio avere per vicino un nemico conosciuto, ma controllabile, come il regime alauita di Assad, piuttosto che dei fanatici tagliagole. Martiri per vocazione e per precetto".

(Barbadillo, 21 ottobre 2015)


Chi è Hassan Yousef, il capo di Hamas arrestato da Israele

di Rossana Miranda

 
Lo sceicco Hassan Yousef
L'esercito israeliano ha arrestato ieri il leader di Hamas in Cisgiordania, lo sceicco Hassan Yousef. Nato a Ramallah nel 1955, l'uomo è uno dei fondatori dell'organizzazione terroristica islamica. È considerato dai suoi seguaci anche una guida spirituale. Si dice moderato, ma è contro il dialogo tra israeliani e palestinesi. Ai media ha giustificato l'occupazione di Al Aqsa e le violenze palestinesi delle ultime tre settimane.

 Gli ideali
  "Yousef ha istigato e incitato al terrorismo, ha giustificato pubblicamente gli attacchi contro gli israeliani", ha spiegato con un comunicato l'esercito di Israele. Non è la prima volta che il leader è arrestato dalle autorità di Gerusalemme. Dal 1993 è un volto noto della Seconda Intifada. Al quotidiano spagnolo El Mundo ha detto di non aver paura di tornare dietro le sbarre, perché lì ha trascorso 18 anni: "Non temo tornare in prigione, perché sono stato quasi più tempo dentro che fuori. Sono un palestinese animato da un nazionalismo profondo. Farò tutto quello che posso per liberare la mia terra dall'occupazione". Quando nel 2005 si trovava in carcere, è stato candidato a rappresentare Hamas alle elezioni di quell'anno.

 Il figlio spia
  Sposato con Sabba Abu Salem, Yousef ha nove figli. Anche Mosab Yousef, suo primogenito e stretto collaboratore, è un personaggio pubblico. Attualmente vive in California, negli Stati Uniti, e si è convertito al cristianesimo. Nel libro Figlio di Hamas (Gremese Editore, 2011), ha confessato di aver lavorato per i servizi segreti israeliani. Mosab Yousef ha conosciuto dall'interno Hamas e ha riconosciuto la responsabilità del gruppo in numerosi attentati contro Israele.

 I lussi di Hamas
  Ma gli esponenti di spicco di Hamas sono anche oggetto di critiche. Uno dei capi, Khaled Meshaal, appartenente alla fazione siriana dell'organizzazione, è al centro di polemiche per il lusso in cui vive, mentre la popolazione soffre la fame. La rivista egiziana Rose al-Yusuf ha denunciato che l'ex primo ministro Ismail Haniyeh, nato nel campo profughi di Shaty, ha speso quattro milioni di dollari per acquistare una casa di 2500 metri quadri a Rimal, un quartiere per ricchi a due passi dal mare di Gaza City. Un altro fondatore di Hamas che non risparmia quando si tratta del suo stile di vita è Ayman Taha. Nel 2011 ha comprato una villa di tre piani in centro a Gaza per 700mila dollari. "Dov'è il vostro spirito eroico?", ha scritto l'editorialista egiziano Jaled Mash'al. E ha aggiunto: "Uscite dagli alberghi di Doha dove tanto avete goduto e scendete nel campo di battaglia a lottare contro il nemico sionista che uccide i frutti dei nostri alberi… Non moriremo di fame mentre voi assaggiate delizie".

(formiche.net, 21 ottobre 2015)


Il vero volto del boicottaggio d'Israele

Capire l'odio per gli ebrei spulciando sulla pagina Facebook del Bds.

"Boicotta Israele". Gruppo pubblico su Facebook con ben 3.822 membri. Un autentico fiume d'odio si è riversato sugli ebrei italiani dopo la bellissima manifestazione in solidarietà con Israele che la comunità ebraica ha organizzato domenica scorsa a Roma.
Parte l'utente Scintilla Rossa: "Lo stato nazista di Israele va cancellato dalla carta geografica". Fino a qui lo scrivono anche tanti giornalisti e intellettuali. Prosegue Vito Introna: "Si fottano queste merde ebree". Tale "Kox Ludwig": "Guardate il lato positivo, centinaia di sionisti per strada tutti insieme vogliono la Palestina? Cominciamo dall'odore di carne bruciata". Allora Emanuele Dionisio propone una soluzione pratica: "Portate il napalm". Nizar Bhiri: "Fanno anche le vittime ipocriti assassini ladri e vigliacchi". Nino Brigante de Cristofaro vuole una soluzione più rapida: "Basta con i forni… al rogo direttamente". Marasciuolo Nicola: "Sicuramente la stampa e tv faranno pubblicità a questi maiali, del resto il tumore sta dilagando". Cipollone Gianluigi fa l'elogio della Terza Intifada: "I palestinesi si stanno difendendo dai carri armati con pietre e coltelli! Mi sembra sia legittimo, no?". Chiude in eleganza tale Sandro Odorico: "Se continuano così prima o poi avranno un'altra diaspora". L'ayatollah Ali Khamenei sta gettando ponti nella nutrita e schizzata comunità di Facebook.
Ieri il premier israeliano Netanyahu ha detto che l'incitamento palestinese all'odio è "Bin Laden che incontra Mark Zuckerberg". Questi forum sono la dimostrazione che il vero volto del Bds, il boicottaggio di Israele, non è quello interessato alla "pace", ma quello che vive e vibra di un odio patologico e trasversale nei confronti del popolo ebraico.

(Il Foglio, 21 ottobre 2015)


Gli immigrati italiani in Israele: «La paura si sente, siamo all'erta»

Il terrore «si sente". I nuovi emigrati ebrei italiani in Israele (in ebraico sono chiamati "Olim hadashim") non hanno difficoltà ad ammettere la paura che deriva dalla nuova ondata di violenza palestinese nel Paese.
Concentrati soprattutto nelle città a nord di Tel Aviv, - a differenza della vecchia emigrazione che scelse in prevalenza Gerusalemme - gli ebrei italiani sono giunti in gran numero negli ultimi anni (nel 2014 un boom: circa 300 persone, ovvero più dell'1% di tutti gli ebrei italiani). "Sono cresciuto a Roma e sono arrivato in Israele con mia moglie a gennaio», racconta Aron Fabio Lotardi da Netanya. «Non ero abituato a tutto questo, al contrario di mia moglie che aveva già vissuto in Israele. Non rimaniamo chiusi in casa. Ma quando accompagno mio figlio a scuola gli occhi sono vigili: osservo ogni faccia, ogni mano". Alberto Moscati (45 anni), anche lui romano, emigrato più di 3 anni fa, vive invece a Gerusalemme: "La paura è naturale. Ma - sottolinea - è la terra in cui ho scelto di vivere e nessuno mi farà mai cambiare idea su questo. Tra gli altri motivi per cui ho lasciato l'Italia c'era anche il fatto che in quel momento i miei figli non potessero portare liberamente la kippà in testa", il copricapo rituale ebraico.
Per Avigail Sereni, romana da tre anni in Israele prima a Gerusalemme e poi a Netanya, «negli ultimi giorni si è vissuto nel terrore. Ci guardiamo continuamente le spalle. Eppure io non ho nessun problema a vivere con persone di una religione diversa dalla mia. La convivenza è possibile, basta volerlo»,

(Avvenire, 21 ottobre 2015)


Israele, un ristorante fa lo sconto (del 50%) ad arabi ed ebrei che mangiano allo stesso tavolo

di Elmar Burchia

L'hummus servito dal bar di Kfar Vitkin
Israele e i territori palestinesi sono nuovamente teatro di scontri, attacchi terroristici e rappresaglie. L'Autorità nazionale palestinese parla di 44 arabi morti e 1800 feriti dall'inizio di ottobre; sette sono invece gli israeliani rimasti uccisi. Impressionato dall'ondata di terrore che ha investito il Paese un ristorante israeliano ha deciso di dare un contributo per il ritorno alla calma. È un messaggio di riconciliazione che, perlomeno sui social network, ha già riscosso un notevole successo.
   Kobi Tzafrir, il proprietario dell'Hummus Bar di Kfar Vitkin (una città lungo la costa, a nord di Tel Aviv) offre infatti un notevole sconto se ebrei ed arabi pranzano allo stesso tavolo. «Avete paura degli arabi? Avete paura degli ebrei? Da noi non ci sono arabi, e nemmeno ebrei. Da noi ci sono solo persone e un hummus arabo (pasta di ceci), originale ed eccellente», si legge sul profilo Facebook del locale. «Anche il nostro falafel ebraico (polpette vegetali) è prelibato. A chi restasse affamato gli riempiano il piatto gratis: sia questi arabo, ebreo, cristiano, indiano o quant'altro».
   Ebrei ed arabi che decidono di sedersi e pranzare allo stesso tavolo hanno dunque diritto ad uno sconto del 50%. Con un'unica avvertenza: il locale serve fra l'altro birra, che potrebbe infastidire gli avventori islamici. La cosa è lasciata in definitiva al tatto dei clienti ebrei che, in un gesto di amicizia, possono comunque ordinare per l'occasione bevande non alcoliche. «Sono rimasto sorpreso quando ho visto che la notizia ha fatto il giro del mondo», ha raccontato Kobi Tzafrir. Nel frattempo, aggiunge, sono arrivate tante persone nel ristorante per sostenere quest'iniziativa. «Se c'è qualcosa che può davvero unire questi due popoli, quella cosa è l'hummus», sottolinea il proprietario parlando con il Times of Israel.
   Di cosa si tratta? Denso e saporito, dal gusto che ricorda la nocciola tostata, l'hummus è infatti uno dei piatti più tipici di Israele - anche se è parecchio diffuso in tutti i Paesi arabi. Il modo migliore per gustarlo: spalmato sulla pita, un pane particolare tipico del Medio Oriente, irrorato di olio extravergine di oliva e con qualche foglia di prezzemolo fresco.

(Corriere della Sera, 21 ottobre 2015)


Arabi e israeliani uniti nella paura: "L'Intifada distrugge le nostre famiglie"

Appena 12 km di distanza, ma la stessa angoscia tra Ramallah e Gerusalemme-

di Fabio Scuto

GERUSALEMME - Tra il quartiere arabo di Beit Hanina - a nord della città verso Ramallah - dove vive la middle class araba della Città Santa e quello ebraico di Amona, dove abita la media borghesia gerosolimitana, ci sono 12 chilometri. Fatte salve le differenze stilistiche, le palazzine - forse anche per quella pietra bianca di Gerusalemme usata per le coperture esterne degli immobili e obbligatoria fin dai tempi del mandato britannico - che ne definiscono il profilo urbano si somigliano. Come si somigliano in questi giorni le ansie delle famiglie che le abitano. Tv e radio in ebraico o in arabo con i loro continui online, filmati di scontri e di attentati, diffondono quell'inquietudine che si è impadronita delle strade di Gerusalemme, a Est come a Ovest. Scuole, mercati, stazioni di bus, shopping center. L'imprevedibile - com' è accaduto - può succedere ovunque.
  Allarmi veri e falsi in questi giorni si mescolano ma è l'elicottero in volo sulla città a dare il senso che qualcosa di grave è accaduto. «Quando lo sento il battito del cuore mi arriva in gola e penso subito mio figlio Fadhi», racconta Leila, una dentista palestinese che abita con Ismail, il marito architetto, a Beit Hanina. Fadhi, il loro unico figlio, è la loro ansia. Ha 15 anni ed è probabilmente un "lanciatore di pietre", «Sta sempre su Internet, traffica sullo smartphone, ci dice un sacco di bugie», si sfoga la madre seduta nel moderno salotto borghese con il maxi-schermo. Ma Leila racconta di più, sono venuti meno anche quei legami familiari che in un ambito sociale tradizionale e conservatore come quello palestinese sembravano saldi. Dice a voce bassa, quasi con vergogna: «Non rispetta più nemmeno il padre, sbatte la porta, entra e esce quando vuole».
  Sono migliaia le famiglie di Gerusalemme che vivono nella paura che i loro figli possano essere accoltellati da un "lupo solitario" palestinese, oppure uccisi, feriti o arrestati durante scontri con l'esercito israeliano. Nella parte araba della Città Santa i genitori li vedono uscire al mattino di casa e non sanno se stanno veramente andando a scuola, con gli amici del "muretto", protestare davanti a un checkpoint o peggio attaccare qualcuno con il coltello. Ogni famiglia palestinese sa che se il figlio sarà fermato, arrestato o coinvolto in qualche fatto grave la loro casa sarà demolita, i fratelli o i genitori verranno arrestati, verranno schedati come "pericolosi" e in un futuro potranno anche perdere il diritto di residenza a Gerusalemme e essere espulsi verso Gaza o la Cisgiordania. Questi giovani - slegati da Hamas e da Fatah - rappresentano la generazione perduta di Oslo", secondo una felice definizione della giornalista e scrittrice Amira Hass: non hanno lo Stato indipendente promesso, non partecipano alla vita politica, non hanno una leadership credibile a cui guardare. non hanno né futuro né lavoro.
  Renata e Ariel, con i loro figli Ariela di 13 anni e Gilad di 10 abitano ad Arnona, all'altro estremo della città, sono 12 chilometri esatti dalla casa di Leila e Ismail. Il condominio bianco nel quale abitano si affaccia sopra i quartieri arabi di Abu Tor, Silwan e il famigerato Jabal Mukaber. Negli ultimi giorni i loro figli sono andati in classe poco o nulla. «ll ministero del Tesoro non stanziava i fondi per la security fuori delle scuole», spiega Ariel, «e con quel che sta succedendo era meglio tenere a casa i ragazzi». «Le volte che sono andati a scuola, poi è sempre successo qualcosa ed io o il padre siamo corsi a prenderli con la macchina», interviene Renata, «e poi comunque stavo con l'angoscia». I ragazzi, tablet in mano, non sembrano interessati. Invece no. Gilad racconta che a scuola l'altro ieri hanno fatto training simulando un attacco contro l'edificio, certo non una lezione come un' altra per un ragazzino di 10 anni. Ariela è invece più scocciata che preoccupata. Quel piccolo margine di autonomia dalla famiglia che si lascia agli adolescenti è stato spazzato via dalla paura per "l'intifada dei coltelli". I ragazzi accettano la situazione ma sembrano inconsapevoli delle angosce dei genitori. Da venerdì scorso il checkpoint dell'esercito che "filtra" l'uscita dal confinante quartiere di Abu Tor è ben visibile dalle finestre perché è all'angolo della strada. Road bloc di cemento, i soldati sotto l'ombrellone di giorno per il sole ancora cocente durante il giorno, le fotoelettriche illuminano invece la notte.
Hanno portato la guerra sotto casa nostra, guarda...», dice amareggiato Ariel. «Quanto durerà ... come andrà a finire?», chiede Renata, cercando una risposta impossibile da dare.

(la Repubblica, 21 ottobre 2015)


L'intifada in una frase di Golda Meir

Lettera a "il Giornale"

I palestinesi non hanno approfittato di tutto il lavoro fatto dagli israeliani nella Striscia di Gaza, anzi, in spregio odiatore, l'hanno rasa al suolo. Gli israeliani si difendono e, purtroppo, frequentemente sono obbligati a uccidere. E i capi palestinesi, mentre il loro popolo soffre, continuano a spendere milioni in armamenti per compiere attentati. Ricordo una drammatica frase di Golda Meir: «Potremo perdonarli per aver ucciso i nostri figli, ma non li perdoneremo per averci costretto a uccidere i loro».

Riccardo Dietrich
Milano

(il Giornale, 21 ottobre 2015)


Palestina e Occidente, mani insanguinate

Anche se la leadership dell'Autorità palestinese è la principale responsabile dell'istigazione a uccidere, i leader occidentali hanno le mani sporche di sangue.

di Richard Kemp (*)

 
Il segretario di Stato americano John Kerry giustifica sorprendentemente l'ultima campagna omicida palestinese in Israele. I suoi commenti di questa settimana espressi in un intervento alla Harvard University incoraggeranno la continuazione della violenza e porteranno a nuove morti di israeliani e palestinesi.
   Quanto asserito da Kerry è particolarmente preoccupante perché non si poteva immaginare che avrebbe fornito una giustificazione del genere per l'uccisione degli israeliani. La sua spiegazione per gli accoltellamenti a catena, gli attentati suicidi, gli scontri a fuoco, gli incendi dolosi, gli attentati dinamitardi, gli attacchi agli autoveicoli e il lancio letale di pietre è ingenua e mendace, o forse entrambe le cose. Secondo Kerry, la frustrazione per le attività edilizie negli insediamenti israeliani è la causa del comportamento omicida dei palestinesi. Ovviamente, questo è assurdo.
   La verità è che questa nuova ondata di uccisioni è un prosieguo delle aggressioni contro gli ebrei che sono in corso da molti decenni nei Territori palestinesi - da molto prima del 1948 e anteriori ai primi insediamenti israeliani in Cisgiordania, che Kerry definisce ingiustamente illegali. La violenza è motivata dallo stesso zelo razzista e settario che guida lo Stato islamico, numerosi governi arabi e i gruppi jihadisti che cercano di sradicare la presenza degli "infedeli" che siano ebrei, cristiani o yazidi, dalla terra che considerano come un esclusivo appannaggio dei musulmani.
   Da anni, il popolo palestinese è tradito dalla propria debolezza, da una leadership discorde e ostile che ha costantemente rifiutato di cogliere ogni opportunità di rappacificarsi con i vicini israeliani. Cercando di distogliere l'attenzione dai loro grossi fallimenti, ciò che ha motivato l'attuale campagna omicida sono state le accuse infondate mosse dal presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas e da altri sobillatori contro Israele di voler cambiare lo status quo del Monte del Tempio, a Gerusalemme - un luogo santo tanto per gli ebrei quanto per i musulmani.
   Ma ciò che ha permesso di preparare senza difficoltà la diffusione della violenza, in modo rapido e con effetti devastanti, sono stati gli anni di istigazione all'odio contro gli ebrei da parte della leadership palestinese, compreso il presidente Abbas. Come nella propaganda che avrebbe inculcato lo stesso ministro nazista Josef Goebbels, i bambini palestinesi vengono indottrinati all'odio verso gli ebrei e lo Stato ebraico fin da piccoli. Nei testi scolastici, in televisione e nelle moschee, viene loro insegnato che l'intera terra di Israele, Gaza e la Cisgiordania sono territori arabi, rubati a loro dagli ebrei. Viene loro insegnato che gli ebrei discendono dalle scimmie e dai maiali e devono essere accoltellati, fatti saltare in aria e lapidati a morte prima che i loro "piedi sporchi" possano profanare i luoghi santi dell'Islam - come dice il presidente Abbas.
   Fu questo tipo di continuo incitamento all'odio promosso dal governo, che ridusse l'oggetto del suo veleno alla condizione di un essere inferiore, a fare in modo che fosse facile per i tedeschi abbandonarsi all'orgia di violenza che permise di perpetrare il più grande genocidio della storia umana.
   Anche se la leadership dell'Autorità palestinese è la principale responsabile dell'istigazione a uccidere, i leader occidentali hanno le mani sporche di sangue. Gran parte del materiale di odio che ispira i bambini palestinesi è finanziato dagli Stati Uniti, dall'Europa e da altri paesi occidentali e arabi.
   Anziché cercare di rabbonire i perpetratori accusando le vittime del loro destino, il segretario di Stato Kerry dovrebbe scoraggiare ulteriori atti di violenza con una ferma condanna e minacciando significative sanzioni contro la leadership dell'Ap. Invece, egli adotta una posizione moralmente relativista che ha le più oscure conseguenze. Considerato che, come è successo spesso in passato, gli Stati Uniti e l'Occidente simpatizzano con la loro barbarie fascista contro uno Stato democratico occidentale, i palestinesi intensificheranno la loro violenza.
   Questo è lo stesso fallimento morale che ha incoraggiato tre guerre a Gaza da quando Israele nel 2005 si ritirò. I governi occidentali, gli organismi internazionali come le Nazioni Unite e l'Unione Europea, nonché i gruppi per i diritti umani si sono sempre rifiutati di condannare gli attacchi missilistici di Hamas contro i civili israeliani. Solo quando Israele è stato costretto a reagire per legittima difesa essi si sono dati da fare. Ma il più delle volte è stato solo per giustificare le aggressioni terroristiche di Hamas, così come il segretario di Stato Kerry ha giustificato questa settimana la violenza palestinese. Incoraggiati prima da una mancanza di interesse nazionale e poi da una condanna internazionale della risposta difensiva di Israele, Hamas e i compagni terroristi di Gaza hanno continuato ripetutamente ad attaccare Israele. Non c'è dubbio che questo accadrà ancora in futuro.
   In ciascuna delle guerre di Gaza, la comunità internazionale ha incoraggiato l'uso illegale da parte di Hamas di scudi umani che ha causato così tante vittime e sofferenze a Gaza e in Israele. Nella migliore delle ipotesi, limitandosi a criticare i crimini di guerra di Hamas, i leader internazionale hanno rimproverato fermamente lo Stato ebraico per essersi difeso e per aver causato vittime tra i civili, che in realtà erano l'inevitabile conseguenza dell'aggressione immotivata di Hamas e del suo modo di combattere dall'interno di abitazioni private, delle scuole, degli ospedali e delle moschee.
   Questo incoraggiare la violenza di Hamas, in particolare l'efficacia della sua strategia degli scudi umani, non è sfuggito agli altri gruppi terroristici islamisti. Il libanese Hezbollah, ad esempio, ha collocato 100mila razzi - tutti puntati contro Israele - tra le città e i villaggi nel sud del Libano. Molte case hanno una cucina, un salotto e una stanza per i missili. Se Israele dovesse difendersi da questi missili che minacciano la sua popolazione civile, molte centinaia - forse migliaia - di civili libanesi rimarrebbero inevitabilmente uccisi. Questo non lo vuole solo Hamas, ma anche Hezbollah: la strage del suo popolo come fondato motivo per esercitare una pressione internazionale contro Israele.
   Ed è su questo che il segretario di Stato Kerry dovrebbe focalizzare le sue energie - sulla rimozione di questa minaccia, che di certo si materializzerà se la comunità internazionale non interviene. Ma naturalmente non lo farà. Perché questi missili sono sotto il controllo dell'Iran. Oggi, infatti, l'Iran ha intenzione di rafforzare la capacità offensiva di Hezbollah contro Israele. E Kerry e il presidente Obama hanno investito troppo capitale politico nell'accordo sul nucleare con l'Iran. Catastrofico per la regione e per il mondo, l'accordo è comunque l'eredità di cui entrambi sono orgogliosi e non possono permettersi di far adirare gli ayatollah e rischiare che se ne vadano.
   Le Nazioni Unite e l'Unione Europea non muoveranno un dito per impedire l'inevitabile futuro conflitto e le morti nel sud del Libano e a Gaza. Come Kerry, l'Onu, l'Unione europea e l'industria dei diritti umani continueranno a giustificare e incoraggiare l'aggressione contro Israele, dedicando i loro sforzi al ripudio dello Stato ebraico e perpetuando le attuali e future ondate di violenza e morte.


(*) Il colonnello Richard Kemp ha trascorso trent'anni della sua carriera prestando servizio come comandante di truppe in prima linea nella lotta contro il terrorismo e le insurrezioni in punti caldi come l'Iraq, i Balcani, l'Asia meridionale e l'Irlanda del Nord. È stato comandante delle forze britanniche in Afghanistan, nel 2003. Dal 2002 al 2006, ha guidato il team preposto alla lotta al terrorismo internazionale del Joint Intelligence Committee, collocato in seno al Gabinetto britannico.

(L'Opinione, 21 ottobre 2015 - trad. Angelita La Spada)


Pontecorvo (Dreyfus): "Muftì e Hitler condividevano non solo le idee"

di Marta Moriconi

Mentre cresce lo "scandalo" per le affermazioni del premier Benjamin Netanyahu secondo cui Hitler all'epoca non voleva "sterminare" gli ebrei, ma "espellerli" e fu convinto alla Soluzione finale dal Muftì di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini, IntelligoNews ha intercettato il co-fondatore del Progetto Dreyfus Gianluca Pontecorvo, anche giovane membro della Comunità ebraica per commentare la "nuova storia" che coinvolgerebbe il leader palestinese all'epoca della II Guerra Mondiale.

- Per Netanyahu "Hitler all'epoca non voleva sterminare gli ebrei ma espellerli". Il Muftì andò e gli disse "se li espelli, verranno in Palestina". Parole forti lanciate mercoledì dal Congresso Sionista. Come commenta?
  "Sicuramente Netanyahu, prima di esprimersi in questo modo, si sarà avvalso di importanti storici e consulenti. Quello che rimane certo è la connivenza tra i nazisti ed il gran muftì, i quali condividevano non solo idee in comune ma anche molto altro".

- Per Herzog è una pericolosa distorsione. Per lei?
  "La storia è storia. Al di là della questione oggettiva, così come avviene in qualsiasi Paese credo che Herzog stia cercando uno spiraglio politico per poter emergere e ritornare ad avere un minimo di visibilità".

(intelligonews, 21 ottobre 2015)


Occhi su Israele

"Fauda" mette d'accordo spettatori tra loro diversissimi. E' la magia delle storie raccontate bene.

di Mariarosa Mancuso

Occhi puntati su Israele. Da lì è arrivata la serie "In Treatment", originale "BeTipul": lo showrunner Hagai Levi ha poi adattato il format per l'America (da qui il remake italiano diretto da Saverio Costanzo, con Sergio Castellitto). Non che ci fosse granché da sistemare, a parte la guerra di riferimento, la nostra era contro la mafia. Da lì è arrivata "Homeland - Caccia alla spia", titolo originale "Hatufim" (saggiamente lo showrunner Gideon Raff si è fermato dopo le prime due stagioni, la quantità di doppigiochi sensati non è infinita). Per entrambe, pioggia di Emmy e spettatori che discutono dei personaggi e dei colpi di scena alla macchinetta del caffè (al boccione d'acqua, per gli americani: entrambi i luoghi di passaparola ormai sono superati dai social, ma l'immagine resta).
   La prossima serie israeliana da riproporre in terra americana potrebbe essere "Fauda". Arabo per "caos", con particolare riferimento - non da parte degli arabi, ovviamente - alla Cisgiordania e alla striscia di Gaza. Viene inoltre adoperata come parola in codice per le operazioni sotto copertura da interrompere immediatamente, quando l'infiltrato è stato scoperto.
   Accade già nella prima puntata, con due agenti che durante un matrimonio palestinese si fingono addetti al servizio dolci (l'intera serie, dodici puntate, era in programma alla Festa di Roma). Passano con i vassoi (per una svista di regia nessuno prende neppure un dolcetto, non è possibile che tutti già sospettino di loro) e intanto cercano di individuare un feroce terrorista parente dello sposo. Si chiama Abu Ahmed, detto la Pantera, ha sulla coscienza 116 israeliani, gli agenti dell'antiterrorismo erano convinti di averlo ucciso già due anni prima. Sbagliato: è ancora vivo e in grado di far danni. Al matrimonio, in effetti, ci stava arrivando travestito da vecchietto. Uno degli agenti in precipitosa ritirata - "fauda fauda" dicono al centro comandi - scende dall'auto per inseguirlo. Solo e in territorio ostile, senza più la copertura pasticciera.
   Hanno ideato la serie - già rinnovata per la seconda stagione, va in onda sulla tv via cavo Yes - Avi Issacharoff e Lior Raz. Un giornalista specializzato in medio oriente, e un attore che durante il servizio militare aveva fatto parte di un mista'arvim, i reparti antiterrorismo che si mimetizzano tra gli arabi. Nella serie ha la parte di Doron Kavillio, appunto l'agente che credeva di aver ucciso il terrorista, si è ritirato a produrre vino, ora deve rifare il lavoro da capo. Racconta che scrivere la serie lo ha liberato dagli incubi - è anche diventato famoso e tutti lo riconoscono, ma all'inizio voleva un altro attore - e assieme al collega si stupisce per il successo della serie.
   "Pensavamo che la sinistra ci avrebbe accusati di razzismo, e la destra ci avrebbe accusati di troppa bontà verso i palestinesi". Queste secondo gli showrunner le previsioni della vigilia, ampiamente smentite. "Fauda" sembra aver messo d'accordo spettatori tra loro diversissimi, che la guardano e la commentano a dispetto del clima non proprio pacificato. Non è strano, come non è strano che una serie sul terrorismo abbia successo tra spettatori che per il terrorismo soffrono. E' la magia delle storie raccontate bene, che mettono in ordine il mondo - e lo rendono accettabile - più di quanto riescano a fare i politici.

(Il Foglio, 21 ottobre 2015)

"Il Giorno della Memoria": Resistenza e Brigata ebraica

di Furio Colombo

Lettera
Caro Furio Colombo, due deputati Pd (Emanuele Fiano e Lia Quartapelle) hanno presentato alla Camera una proposta di legge per riconoscere, con una medaglia d'oro, la partecipazione alla guerra di liberazione contro fascismo e nazismo della Brigata ebraica. Ma allora bisognerebbe dare la stessa medaglia a ciascun Paese (dal Brasile alla Nuova Zelanda) che ha combattuto nella guerra contro Hitler e Mussolini.
Luigi


Risposta
I lettori di questa pagina sanno che sono in favore dell'iniziativa dei due deputati Pd, non solo dal giorno in cui qualcuno, privo di orientamento e di notizie storiche, ha tentato di escludere da manifestazioni per la Liberazione italiana la bandiera della Brigata ebraica. Ma anche per reintrodurre nella parte migliore della storia italiana (Resistenza e guerra di Liberazione) un pezzo troppo a lungo mancante. Qualcuno ricorderà che, durante tutta la tredicesima legislatura (1996-2001) mi sono impegnato per una legge detta "Istituzione del Giorno della Memoria" dedicata alla Shoah (la legge è stata approvata dalle due Camere del 2000, ha stabilito che "il Giorno della Memoria" è il 27 gennaio, data della liberazione di Auschwitz). La ragione era che uno strano vuoto di memoria impediva ai miei concittadini di ricordare che leggi razziali erano anche italiane, che la Shoah è stato un delitto italiano, con attiva partecipazione italiana al progetto di sterminio del popolo ebraico.
Ricordare adesso, con una medaglia, la Brigata ebraica (che ha liberato molte parti delle Marche, della Romagna, dell'Emilia, nella fase "Linea gotica" della Liberazione) vuol dire ricordare che giovani ebrei già insediati nel territorio del "mandato britannico" (parole di allora) della Palestina, si sono uniti come volontari in un corpo militare che non aveva Stato ma aveva e voleva avere una forte identificazione contro chi, in Italia, in Germania, in tutta Europa, li aveva privati di cittadinanza e di ogni diritto. Ricordano Fiano e Quartapelle che "c'erano già ebrei di tutti i Paesi liberi impegnati a combattere contro Germania e Italia" (quel che restava della Repubblica di Salò). Ma la Brigata ebraica ha voluto esistere e combattere per la nostra libertà prima ancora che i giovani volontari fossero cittadini di uno Stato ebraico. Questa parte della storia della seconda guerra mondiale, della guerra di liberazione italiana e della storia di lsraele, mancava (formalmente manca ancora) nella storia italiana. Ed è giusto rimettere al posto giusto un importante tassello di storia comune.

(il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2015)


Hamas rilancia gli attacchi suicidi

L'aggressione a Israele. Gli integralisti islamici alzano il livello dello scontro. Mentre Kerry invita con dubbia imparzialità «israeliani e palestinesi» a fermare «la violenza senza senso».

GERUSALEMME - Il segretario di Stato americano John Kerry sbarca in Europa con l'intenzione (oltre che di intavolare colloqui con russi, sauditi e turchi sulla crisi siriana) di avviare incontri utili a sbloccare la drammatica situazione in Israele, dove continuano le aggressioni ai civili che gli estremisti islamici palestinesi chiamano «intifada dei coltelli». Il parallelo con le rivolte anti-israeliane del passato appare molto forzato, ma Hamas - dalla Striscia di Gaza che controlla in armi - continua a parlare di queste vigliacche aggressioni a coltellate contro civili che portano a spasso i bambini in passeggino come di eroiche azioni di resistenza. E non solo non ascoltano minimamente gli inviti alla pacificazione, ma anzi rilanciano alzando il livello dello scontro.
   «Intifada fino alla liberazione della Palestina», è lo slogan lanciato da Gaza, al quale si aggiunge il sinistro «Allah è grande e il coltello vincerà». L'invito di Hamas ai «resistenti» è di riprendere gli attacchi suicidi in Cisgiordania. L'ordine è stato impartito, in particolare, ai miliziani nelle zone di Hebron e Nablus, che possono più facilmente raggiungere obiettivi anche a Gerusalemme. Una fonte palestinese ha poi rivelato a un quotidiano israeliano che le forze di sicurezza palestinesi hanno recentemente arrestato a Hebron sei membri di Hamas, trovati in possesso di denaro ed esplosivi, e che hanno confessato di voler morire «per la causa».
   Tutto questo alla faccia dell'appello di Kerry, che ieri a Madrid ha chiesto la fine di «violenze che non hanno senso». Peccato che in un primo tempo lo abbia fatto rivolgendosi a israeliani e palestinesi», dando la spiacevole di mettere sullo stesso piano aggressori palestinesi e aggrediti israeliani. Solo dopo il ministro degli Esteri di Obama ha precisato che Washington sostiene il «diritto degli israeliani a difendersi dagli attacchi portati dai lupi solitari».
   Kerry progetta di organizzare un incontro a tre con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e con il presidente (sempre meno autorevole e influente) dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen. Ma Netanyahu ha espresso ieri l'intenzione di disertare, in mancanza di improbabili sviluppi positivi, questo meeting in quanto non intende in questo momento fare alcuna concessione ai palestinesi.
   Il segretario di Stato americano ha preso anche posizione nella diatriba scoppiata ieri tra Israele e Francia. Parigi aveva sostenuto l'opportunità di inviare a Gerusalemme una forza internazionale per garantire la sicurezza sulla Spianata delle Moschee, suscitando la reazione immediata del governo di Netanyahu, che ha convocato l'ambasciatore francese al ministero degli Esteri per ribadire che quel compito spetta solo a Israele: Kerry ha dato ragione a Netanyahu.
   Dolore ed emozione ha suscitato infine in Israele la notizia dell'uccisione da parte delle forze di sicurezza di un innocente cittadino eritreo, scambiato per un terrorista palestinese nelle concitate fasi della reazione a un attacco nella stazione centrale degli autobus di Beer Sheva, nel sud del Paese. Il terrorista era in realtà uno solo, ed è stato anche lui ucciso. Ma Mila Haftom Zarhum, 29 anni, ha pagato con la vita il fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, e forse il colore scuro della sua pelle ha tratto in inganno i soldati che gli hanno sparato.

(il Giornale, 20 ottobre 2015)


Palestina, da sempre è guerra di religione

Fulcro la negazione islamica dell'esistenza del Tempio degli ebrei.

di Carlo Panella

Il Tempio degli ebrei non è mai esistito. Questa è l'incredibile certezza palestinese e islamica, la scintilla che ha fatto deflagrare l'ennesima Intifada, l'ennesima, da 90 anni in qua in qua. A questa incredibile negazione dell'evidenza, dall'immenso rilievo politico e religioso, che accomuna la componente nazionalista palestinese con quella islamista, bisogna andare per comprendere il reiterato attacco con bombe Molotov alla "tomba di Giuseppe" di Nablus, quello alla "tomba di Patriarchi" di Hebron e tutti gli altri attacchi contro luoghi santi dell'ebraismo come del cristianesimo e dell'Islam. Novità sconvolgente, al solito non compresa dai media italiani ed europei che non comprendono perché musulmani attacchino monumenti da sempre oggetto di culto anche per i musulmani.
  Culto motivato da un fatto determinante: Giacobbe e Giuseppe sono ampiamente citati e ammirati quali Patriarchi dal profeta nel Corano (Sura numero IX). La realtà è dunque esattamente rovesciata rispetto a quel che credono tanti sprovveduti commentatori: questi monumenti sacri sono attaccati proprio perché oggetto di culto anche dei musulmani, perché sono considerati Idoli, luoghi che eccitano l'idolatria, in deroga al più rigido monoteismo. I giovani palestinesi che li vogliono distruggere sono animati dalla stessa furia iconoclasta che anima gli jihadisti dell'Isis a Mosul e Palmira, i Talebani contro i Buddha di Bamyan, i qaidisti contro i sepolcri dei Sufi di Timbuctù.
  Ennesima prova che ormai la deriva salafita si impone con sempre maggior forza non solo a Gaza (dove l'Isis si rafforza di giorno in giorno), ma anche in Cisgiordania. E non è una svolta, una novità. È il portato obbligato di un movimento palestinese che nasce e si sviluppa sul "rifiuto di Israele", da sempre motivato innanzitutto con motivazioni religiose, e solo in seconda istanza, in subordine, nazionaliste. E la Spianata delle Moschee o di al Aqsa sono l'epicentro di questo rifiuto arabo di Israele.
  Per l'islam, per tutto l'Islam, infatti qualsiasi presenza ebraica sulla Spianata delle Moschee, ma anche davanti al Muro del Pianto, è una profanazione, un insulto uno sfregio, perché non ha ragion d'essere. Perché in quel sito, per l'Islam, non c'è mai stato il Tempio di re Salomone, né quello di Erode. Pregare in ebraico sulla Spianata è considerato dai musulmani quindi blasfemia pura, perché significa riconoscere all'ebraismo la sacralità di un sito che è sacro e santo solo e unicamente per l'Islam. Su quella spianata l'Islam pretende diritto sacro ed esclusivo di culto perché al centro della Cupola della Roccia-Qubbat al-?akhra, peraltro costruita da architetti bizantini con strutture che replicano ovunque la croce latina- è custodito e esposto il masso su cui Abramo doveva sacrificare Isacco e da cui soprattutto iniziò il viaggio di Maometto nell'Empireo, verso "l'ultimo Cielo", in sella al cavallo alato al Buraq.
  Il fatto incredibile, ma che spiega molte cose, è che John Kerry non ha la minima idea del peso determinante che tutto questo ha nella crisi israelo-palestinese tanto che ha appena definito "senza senso" questa ennesima Intifada nata per e sulla la Spianata delle Moschee. Il "senso" è spiegato bene da Dayut Tamimi, maggiore autorità islamica dell'Autorità palestinese, che non solo sostiene che "il Tempio di Gerusalemme non è mai realmente esistito", ma anche che "il Muro del Pianto era solo il luogo dove Maometto legò il suo cavallo al Buraq". Affermazioni avallate da un Congresso islamico mondiale convocato dal filo nazista Gran Muftì di Gerusalemme nel 1931, prova provata della predominante essenza religiosa del movimento palestinese ab initio.
  Nel 1929, dunque, il Gran Mufti di Gerusalemme Haji al Hussein prese a pretesto l'incauta decisione degli chassidim ebrei, non avallata dai sionisti, di costruire un muretto esile che dividesse le donne dagli uomini davanti al Muro, per scatenare una campagna mondiale contro la profanazione ebraica della Spianata delle Moschee. Il pretesto era specioso, perché l'inopportuno muretto nulla aveva a che fare con la Spianata, era ben lontano, alla base della collina, perpendicolare al Muro. Ma la provocazione ebbe uno straordinario e sanguinoso successo: il Gran Mufti denunciò la profanazione ebraica, chiamò i fedeli al jihad contro i giudei, organizzò tre squadre di un migliaio di uomini armati che razziarono gli ebrei di Gerusalemme. Pogrom anche a Giaffa, Tel Aviv, Gaza, Lydda e Motza. In pochi giorni i seguaci del leader palestinese massacrarono 133 ebrei e ne ferirono 339. Vittime di una guerra di religione.
  Sull'onda del successo di quel massacro e dell'indignazione che quell'inesistente sfregio ebraico alla Spianata provocò in tutto il mondo islamico, il Gran Mufti lanciò una campagna diretta alla Umma islamica denunciando la volontà degli ebrei di distruggere la Spianata delle Moschee e diffuse nelle moschee di tutto il mondo fotomontaggi in cui fiamme voraci divoravano la moschea della Roccia. Nel dicembre del 1931 organizzò un Congresso islamico mondiale, presieduto da Muhammad Iqbal, famoso poeta pachistano (grande ammiratore del nazifascismo), i cui 139 delegati condannarono formalmente il sionismo come antislamico (dunque una formale apertura della guerra di religione), proclamarono che non solo la Spianata delle Moschee, ma anche il Muro del Pianto che la sorregge, sono luoghi santi dell'islam, negando in maniera decisa il suo carattere sacro per gli ebrei e attribuirono al Graln Mufti la leadership islamica mondiale.
  A quella fatwa si riferisce ancora oggi Dayut Tamimi, come il laico Saeb Erekat, plenipotenziario "laico" di Yasser Arafat come di Abu Mazen per le trattative con Israele, quando negano l'esistenza passata del Tempio a ridosso del Muro. Dunque, secondo l'Islam, gli ebrei non hanno alcun diritto di pregare davanti al Muro, tanto è vero, che dopo l'indipendenza di Israele, dopo il 1948 e sino al 1967, quando il Muro e la Spianata erano sotto sovranità della Giordania, agli ebrei era stato proibito non solo di pregare, ma anche solo di avvicinarsi al Muro. Esempio indicativo, di "tolleranza" islamica. Un sopruso che cessò solo con la "Guerra dei 6 giorni". Al contrario Israele, conquistata quella parte di Gerusalemme nel giugno del 1967 e sino ad oggi, ha dato segno di reale tolleranza, perché in vari accordi con la Giordania (che riconosce ufficialmente quale "Custode della Spianata") accettò di inserire il divieto degli ebrei di pregare sulla Spianata e riconobbe la continuità della gestione della Spianata alla stessa Fondazione (Waqf) musulmana che l'ha storicamente gestito.
  Per questo, è stata sciagurata la violazione di quell'accordo sullo Status quo da parte di un ministro di Netanyhau, qualche settimana fa. Il nodo della componente irrisolvibile del conflitto israelo-palestinese è dunque in questa negazione islamica della Storia, di fatti scientificamente acclarati, indubitabili, nella negazione della sacralità ebraica di Gerusalemme. E questa negazione è parte, componente essenziale, del rifiuto della modernità, del prevalere delle verità apocalittiche sul pensiero razionale. Motore della pretesa di egemonia dell'Islam su tutte le altre fedi, conseguenza di una lettura letterale, non sottoposta a esegesi e non interpretata del Corano (in nome della "negazione del rapporto tra Fede e Ragione" evocata da papa Ratzinger a Ratisbona).
  L'Islam nega che siano mai esistiti sull'attuale Spianata, né il Tempio di Salomone (costruito nel IXo secolo e distrutto dai babilonesi nel 586 avanti Cristo) e poi il Secondo Tempio ( riconsacrato nel 515 e poi ampliato da Erode nel 19 avanti Cristo), perché rifiuta di separare la Rivelazione coranica, dalla narrazione del Profeta, cioè dal testo letterale. L'Islam, negando la storicità del Tempio ebraico di Gerusalemme, nega l'evidenza della Storia, la ribalta in una "meta-storia" che vede nella Città Santa solo ed esclusivamente il terzo luogo santo dell'Islam, la terza "pòlis" di Maometto, che tollera la presenza dei luoghi santi della cristianità, ma nega - da sempre - l'evidenza di un diritto ebraico alla terra di Israele. Una Palestina che l'Islam considera terra degli arabi (che vi giunsero invece solo dopo la morte di Maometto), da sempre, dai tempi di Abramo, che da 3.000 anni subirebbero le "invasioni" degli ebrei. Questa tesi della presenza araba millenaria in Palestina - incredibile, astorica, del tutto inventata - è stata formalmente consegnata dall'Arabia Saudita alle Nazioni Unite nel documento che motiva il rifiuto del regno di firmare la Carta dei Diritti umani dell'Onu del 1948. Il trucco banale di questa storiografia araba è semplice: si afferma che i Cananei erano arabi, là dove invece erano di ceppo fenicio con nulla da spartire quanto a lingua, tradizioni, cultura e religione con le popolazioni arabe preislamiche (presenti solo in misura esigua nel Negev).
  Sia chiaro, non si intende qui per nulla negare la forte, enorme, componente "nazionalistica" del movimento palestinese contro l'occupazione israeliana dei Territori. Men che meno si intendono negare gli errori compiuti dai premier di Israele - con l'eccezione di Ehud Barak nel 2000 e di Ariel Sharon nel 2005 - nel gestire la questione palestinese. In particolare sono evidenti quelli di Bibi Netanyahu che era ed è impossibilitato ad un accordo con i palestinesi dalla egemonia avventurista, bellicista e islamista esercitata da Hamas sullo stesso Abu Mazen, ma che si è limitato a usarla nell'evidente intento di prolungare all'infinito lo status quo. Strategia palesemente inadeguata.
  Ma è indubbio che la ragione per la quale quello palestinese è l'unico movimento nazionalista nato nel '900 che non ha trovato una soluzione positiva, va individuata proprio nel suo indissolubile intreccio con un "a priori" islamico che elimina ogni possibilità di mediazione. "A priori" che ha appunto nella Spianata delle Moschee il suo fulcro. Si legga la fatwa con cui nel maggio del 1941 il Gran Muftì di Gerusalemme proclamò il Jihad contro l'Inghilterra a fianco dell'Asse nazi-fascista (pubblicata integralmente nel mio Libro Nero del Califfato) e si ritroverà, come già nel 1920, nel 1929, nel 1936 e nel 1939 l'accusa di "avere profanato al Aqsa (la Spianata delle moschee, appunto) e contaminato il Corano sia determinante in una proclamazione di Guerra Santa che già allora aveva indubbia, ma di minor peso, valenza nazionalista: "In Palestina gli inglesi hanno commesso barbarie inaudite, hanno profanato, tra l'altro, la moschea di al Aqsa e hanno contaminato il Corano. Gli inglesi hanno dichiarato la più tenace guerra contro l'Islam coi fatti e con le parole.
  L'allora primo ministro Gladstone dichiarò che il mondo non avrebbe potuto avere pace finché fosse esistito il Corano. È lo stesso Gran Muftì che nel 1920, 1930 e 1939 rifiutò tutti i "Libri Bianchi" per la ripartizione della Palestina proposti dagli inglesi e che 1937 rifiutò persino la proposta della "Commissione Peel" per una ripartizione che assegnava agli ebrei un territorio minimo, a macchia di leopardo, indifendibile dalla Haganah e che pure i sionisti avevano accettato.
  Ma il fatto più grave, centrale, non compreso in Occidente, è che questo ostacolo religioso e islamico ad una mediazione, ad una trattativa, con gli ebrei, quella definizione del sionismo come "nemico dell'Islam" definita dal Congresso islamico del 1931, oggi ribadita da Hamas nel suo Statuto e nelle sue sciagurate gesta, risale ad una lettura del Corano in cui non si separa Rivelazione dalla narrazione. In cui domina il testo letterale, la struttura del racconto, la meccanica degli episodi e si nega il senso più profondo, allegorico o mistico che li motiva e li regge.
  Maometto, come è noto, si percepiva in perfetta continuità con la Rivelazione ebraica e cristiana e considerava il Cristo ultimo Profeta prima di lui, tanto che pose il Mihrab che indicava la direzione della preghiera nella sua prima moschea alla Medina, in direzione di Gerusalemme.
  Ma il rifiuto di seguire la sua profezia da parte degli ebrei della Medina - allora componente più consistente nella città - come pure dei cristiani, modificò radicalmente il forte afflato ecumenico nei loro confronti espresso nelle prime Sure, dettate alla Mecca e venne sostituito da versetti feroci nei loro confronti. In sostanza gli ebrei furono accusati nel Corano medinense di "avere ucciso i loro Profeti", di avere disobbedito alla Legge di Dio e di essere stati per questo "trasformati in scimmie e maiali". Tra le tante si legga l'esaustiva quinta Sura, nei versetti dal 59 al 64:
  "Oh gente del Libro, di che altro potete biasimarci se non di credere in Dio e in quel che ha rivelato a noi e in qual che ha rivelato prima di noi? Per certo i più di voi sono perversi - Dì: "posso forse annunciarvi peggior ricompensa da parte di Dio? Quella di coloro che Dio ha maledetto, coi quali si è adirato, che ha trasformato in scimmie ed in porci, coloro che hanno adorato Tagut l'idolo". Costoro hanno il luogo più turpe e più lungi errano dalla via piana del Vero - Quando vengono da voi dicono: "crediamo". Ma entrarono pieni di miscredenza e uscirono pieni di miscredenza. Dio sa meglio quel che essi celavano. Tu vedi molti di loro precipitarsi nel peccato e nell'ingiustizia, nello sfruttar beni illeciti: quanto è turpe quello che fanno. Perché i loro maestri e i loro dottori non proibiscono loro di dire il peccato e di sfruttare beni illeciti. Quanto è turpe quel che essi operano. Dicono i giudei: "La mano di Dio è ora chiusa". Siano le loro mani chiuse e incatenate e siano maledetti per quello che hanno detto".
  Un minimo di esegesi del testo coranico, porta ad una storicizzazione di tante feroci condanne e di tanto disprezzo nei confronti degli ebrei, espressi da un Profeta in armi, che combatteva duramente contro le tribù della Mecca e che disprezzava le tre tribù ebraiche della Medina perché, non solo non l'avevano aiutato (le prime due furono mandate in esilio), ma che - secondo Maometto - avevano complottato con gli avversari della Medina (gli ebrei Banu Quraizah nel 627, dopo la Battaglia del Fossato, vennero assediati dal Profeta, si arresero, ma i 650 maschi vennero decapitati e le moglie e i figli fatti schiavi).
  Il disastro è che quando uno dei più lucidi e innovativi teologi islamici del secolo scorso, il sudanese Mohammed Taha, propose appunto di separare le Sure meccane da quelle medinensi, intrise di elementi bellici contingenti e storici, a seguito di una fatwa di "apostasia" emessa dalla "moderata" al Azhar, venne impiccato a Karthoum nel 1985.
  Viene allora da sorridere, se non da piangere, quando si legge in questi giorni che "si rischia una deriva religiosa del conflitto israelo-palestinese". Il rifiuto non arabo, ma islamico di Israele è infatti radicato sin dal primo momento, sin dai moti del 1920 e fu codificato formalmente dal movimento palestinese e dalla Umma mondiale - lo ripetiamo - nel 1931. Da allora, permettere che gli ebrei esercitino sovranità sulla parte più santa del Dar al Islam il territorio dell'Islam, Gerusalemme, è considerato formalmente Haram, impuro.
  Solo nel breve periodo - sul metro storico - dal 1969 al 1993, sotto la disastrosa leadership di Yasser Arafat, l'influenza della Guerra Fredda, ha apparentemente sottolineato il carattere di "guerra di liberazione nazionale della parte palestinese. Ma in realtà, il destino politico dei due leader arabi che hanno esercitato la loro leadership in questo senso, smentisce la preminenza di questo aspetto, pur fondamentale. Anwar al Sadat siglò nel 1979, non solo la pace, ma il riconoscimento di Israele quale Stato legittimo, riconquistò la sovranità egiziana sul Sinai, ma pagò con la vita questo suo oltraggio all'Islam - fu anche espulso dalla Lega Araba - ad opera di un nucleo di islamisti che germinerà in seguito al Qaida.
  Abu Mazen, si oppose alla leadership avventurista di un Arafat che rifiutò nel 2001 a Taba la restituzione del 90% dei territori concordata a Camp David con Ehud Barak e lanciò la Intifada delle Stragi. Ne divenne l'erede, ma non ha mai risolto - anzi - il conflitto con un Hamas che "crede che il nazionalismo sia un elemento legittimo del credo religioso" e che proclama:
  "La terra di Palestina sia un sacro deposito (Waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell'Islam fino al giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re e presidenti messi insieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo di essa, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni dell'islam sino al giorno del giudizio. Chi, dopo tutto, potrebbe arrogarsi il diritto di agire per conto di tutte le generazioni dell'islam fino al giorno del giudizio?"
  Come si vede, un intrico inestricabile, difficilmente contenibile. Un primo passo, indispensabile, sarebbe comunque quello di un Occidente - e sperabilmente del debole Islam razionalista - che iniziasse a porre con forza all'Islam, a tutto l'Islam, e soprattutto alla dirigenza palestinese di Abu Mazen, l'evidenza storica - fermiamoci pure a quella - di un Tempio ebraico sulla Spianata delle Moschee.
  Se si arrivasse con calma e animo di pace a convincere finalmente la leadership palestinese moderata a smettere di sostenere che il Tempio ebraico non è mai esistito, si farebbe un enorme passo avanti. Non è una proposta stravagante. Nel 2000, durante le trattative di Camp David, Saeb Erekat, capo delegazione palestinese disse beffardo: "Il Tempio? Ma io non vedo nessun tempio!". Saeb Erekat è ancora il capo delegazione palestinese nelle trattative col governo di Gerusalemme. Se si decidesse ad ammettere che sulla Spianata, prima del viaggio mistico di Maometto, sorgeva il Tempio sacro degli ebrei, si sarebbe fatto un passo enorme.

(L'Huffington Post, 20 ottobre 2015)


Carlo Panella è uno dei pochi commentatori che dà la giusta importanza alla componente religiosa delle questioni mediorientali, ma da laico integrale pensa che i problemi di quel tipo possano avviarsi a soluzione se da fatti religiosi si riesce a trasformarli in fatti politici. Da qui proviene il sorprendente giudizio positivo sulle concessioni politiche ai palestinesi di Ehud Barak e Ariel Sharon, e anche la timida speranza che con Abu Mazen Israele possa arrivare a una qualche forma di accordo reale. Una tremolante politicizzazione del contrasti sembra essere parzialmente riuscita negli accordi di Israele con Egitto e Giordania, ma allo stato attuale delle cose è pura illusione sperare che qualcosa del genere si possa ottenere con nemici di Israele come Hamas, Hezbollah e Iran. Il conflitto è inesorabilmente religioso, il che significa che tutte le analisi esclusivamente razionali e apparentemente ragionevoli avanzate dai laici integrali sono destinate a cadere, una dopo l’altra. M.C.


Arrestato lo sceicco Hassan Yousef, leader indiscusso di  Hamas

Fondatore del movimento, più volte fermato dallo Shin bet

Lo sceicco Hassan Yousef, padre del "Principe Verde"
ROMA - L'esercito israeliano ha arrestato oggi a Ramallah il leader politico del movimento islamico palestinese Hamas in Giudea-Samaria, Hassan Yousef. "Nella notte le forze dell'esercito e lo Shin Beth (servizio segreto interno, ndr.) hanno arrestato Hassan Yusef, un leader di Hamas, a Beitunia, a sudovest di Ramallah", ha affermato Tsahal in un comunicato.
Yusef, 60 anni, è stato uno dei fondatori del movimento palestinese ed considerato l'uomo di punta di Hamas in Giudea-Samaria. Eletto nel 2006 al parlamento palestinese, mentre si trovava in prigione, ha sempre svolto una parte attiva nel braccio politico del gruppo radicale.
La sua cattura ha avuto luogo senza incidenti. I militari hanno fatto irruzione nella sua abitazione nel corso di un blitz che ha portato all'arresto di altre 34 persone in Giudea-Samaria. Lo sceicco palestinese, più volte arrestato in passato, "ha attivamente incitato al terrorismo e incoraggiato pubblicamente attacchi contro Israele", secondo le accuse mosse dallo Stato ebraico. L'ultima volta era uscito di prigione nello scorso giugno, dopo un periodo di detenzione amministrativa.
Proprio in quella occasione, Yusef dichiarò di non temere affatto la vita nelle galere israeliane, dove ha trascorso circa 18 anni della sua vita. "Non ho paura né mi preoccupo perché ho passato quasi più tempo dentro che fuori dal carcere. Sono un palestinese ed ho un forte sentimento nazionalista, farò tutto il possibile per liberare il mio paese dall'occupazione", dichiarò al quotidiano el Mundo.
Padre di nove figli, lo sceicco è particolarmente noto per avere diseredato uno di loro - Musab Hassan Yusef - che aveva ammesso di aver lavorato come informatore per lo Shin Beth, sotto il nome in codice "Principe Verde" durante la seconda Intifada. Musab si è poi convertito al cristianesimo e vive negli Stati Uniti, da dove non intrattiene più rapporti con la famiglia a Ramallah.
Commentando l'arresto di Yousef, il portavoce dell'esercito, Peter Lerner, ha spiegato che i leader di Hamas non possono pensare di far propaganda alla violenza e al terrore "standosene seduti nel loro salotto o dal pulpito delle loro moschee".

(askanews, 20 ottobre 2015)


«Io, cresciuta con un padre transessuale, vi chiedo di non approvare le nozze gay»

Denise Shick ha raccontato la sua storia terribile alla Corte Suprema americana: «Mio padre fu infelice fino alla morte, anche vestito da donna, e con lui tutti noi».

Denise Shick è cresciuta negli Stati Uniti con un padre "transgender" e il 24 marzo ha raccontato alla Corte Suprema americana «l'ossessione di mio padre transessuale» e la «sua infelicità anche quando ha ottenuto ciò che pensava di desiderare». Shick è stata chiamata a raccontare la sua storia ai giudici federali e si è opposta alla legalizzazione dei matrimoni tra persone omosessuali....

(Tempi, 11 aprile 2015)


Oltre ai coltelli, quegli orrendi titoli di giornale che incolpano Israele

Dalla Cnn al Daily Mail, i media linciano lo stato ebraico. La solita equivalenza morale tra assaliti e assalitori.

di Giulio Meotti

ROMA - Lunedì a Gerusalemme, durante la conferenza stampa con i media stranieri, il premier Benjamin Netanyahu ha interrotto l'inviata della Bbc: "Io e lei viviamo sullo stesso pianeta?". Evidentemente no. Tanto che nelle stesse ore l'ex presidente della Bbc, Michael Grade, si sentiva in dovere di inviare una lettera ai vertici della sua ex azienda, criticandola per come sta disinformando sulla "Terza Intifada" (domenica un attentato a Beersheba ha fatto un altro morto israeliano). "Devo oppormi al fatto che promuovete l'equivalenza tra gli israeliani vittime del terrorismo e i palestinesi che sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane nell'atto di compiere attacchi terroristici", scrive Grade che salì al comando della Bbc dopo il rapporto Hutton e che sarebbe poi passato a Channel 4.
  Ma non è un problema soltanto della "Baghdad Broadcasting Corporation", nomignolo con cui i detrattori la chiamavano durante la guerra in Iraq, il punto più basso nella sua capacità di schierarsi dalla parte dei nemici. Sono orrendi tutti i titoli dei maggiori media occidentali. O per dirla con Simon Plosker, direttore di Honest Reporting, "nessun giornale in Europa ha riconosciuto chi sta attaccando chi". Vittima israeliana e aggressore palestinese sono sempre sullo stesso piano, il terrorismo diventa "tensione" e il diritto d'Israele all'autodifesa una "esecuzione" a sangue freddo. Un meccanismo che riguarda media progressisti e conservatori senza distinzione. La tv pubblica olandese Nos ha trasmesso soltanto tredici dei cinquantadue secondi di video in cui si vede una donna di Nazareth mentre viene ferita dagli agenti israeliani. E' stata cancellata la prima parte in cui si vede l'attentatrice tenere in mano un coltello.
  Il quotidiano conservatore Daily Mail ha raccontato l'attentato di cui sopra sotto la headline: "Donna palestinese giustiziata ad Afula". Dopo le proteste, il verbo "executed" è stato modificato in "shot". Lo stesso vale per un altro media di destra, il Daily Telegraph: "Le forze di sicurezza israeliane uccidono altri quattro palestinesi". Il secondo maggiore giornale norvegese, Verdens Gang, ha titolato: "Palestinese ucciso a Gerusalemme est". Senza specificare che aveva appena accoltellato degli israeliani. Non da meno la Cnn che a proposito dell'attacco palestinese al terzo luogo santo per l'ebraismo ha titolato: "Incendio scoppia alla Tomba di Giuseppe", neanche si fosse trattato di autocombustione.
  Il New York Times il peggio di sé lo ha dato con un articolo sul Monte del Tempio, il luogo più santo per l'ebraismo e al centro della Terza Intifada, un simbolo che i palestinesi usano per incitare la popolazione a colpire gli ebrei. "Historical Certainty Proves Elusive at Jerusalem's Holiest Place", è il titolo del servizio del New York Times, che mette in dubbio, proprio come fanno i palestinesi, il legame fra l'area sacra e la storia ebraica.
  "Palestinese ucciso dopo un inseguimento della polizia a Gerusalemme", è il capolavoro di Msnbc. Tutti titoli tecnicamente corretti ma moralmente indecenti. "Gli israeliani uccidono un uomo col coltello a Gerusalemme", secondo la Reuters. L'Independent, giornale inglese di sinistra, affossa la verità in un'abbondanza di parole: "Ragazzo di sedici anni diventa la settima vittima palestinese dalle forze di sicurezza dopo un accoltellamento a Gerusalemme". E lo stesso quotidiano aveva dato prova già prima con un altro titolo: "Israele uccide una donna incinta e il suo bambino in una rappresaglia". L'americano Usa Today: "Israeliani uccidono quattro palestinesi".
  Su Sky News, l'emittente di Rupert Murdoch, la parola "palestinese" non compare neppure: "Polizia israeliana: gli attacchi di Gerusalemme fanno tre morti". Sempre la Cnn fa sfoggio di equivalenza morale: "Altri morti mentre la violenza affligge Israele e palestinesi". E un servizio del corrispondente della Nbc da Gerusalemme è stato così parziale che l'anchorman Jose Diaz-Balart è dovuto intervenire per rettificarlo durante la diretta.
  Una delle immagini più terribili della Seconda Intifada fu il linciaggio di due riservisti israeliani che avevano sbagliato strada a Ramallah. Quell'aggressione, con la folla che si deliziava nel fare scempio di corpi delle vittime, venne filmata da una troupe di Mediaset. Riccardo Cristiano, allora corrispondente Rai, scrisse una lettera di scuse all'Autorità Palestinese nella quale si prodigava per spiegare che non era stato il suo network, bensì quello concorrente, a diffondere il filmato. "Potete star certi che questo non é il nostro modo d'agire: noi non facciamo e non faremo cose del genere", scrisse Cristiano. Ovvero mostrare all'opinione pubblica cosa accade realmente agli israeliani sotto il terrorismo palestinese.
  Con la Terza Intifada si ripete lo stesso identico e orrendo copione. Dopo i coltelli e gli assalti col mitra arrivano puntuali le breaking news.

(Il Foglio, 20 ottobre 2015)


Vela - Quelle tavole indigeste fra Oman e Israele, un intrigo mondiale

Maayan Davidovich che corre come apolide e senza bandiera, due atleti israeliani che non sono stati fatti entrare nel Sultanato. Le evidenti responsabilità iniziali di Israele e l'empasse della federazione internazionale che si è fatta trovare spiazzata. Quando la burocrazia batte lo sport.

di Luca Bontempelli

 
Maayan Davidovich
Maayan Davidovich corre come apolide (RSX10) fra le due italiane Tartaglini (ITA46) e Linares (ITA11)
MILANO - Il campionato mondiale di RS:X di Al Mussanah, in Oman è oggi al suo secondo giorno di regate, dopo le prime tre prove disputate ieri. Alle quali non hanno potuto partecipare i velisti israeliani Sachar Zubari e Nimrod Mashiah (entrambi in passato sul podio) perché sprovvisti di visto d'ingresso nel Sultanato. Una terza atleta israeliana Maayan Davidovich (terza negli ultimi due mondiali) è invece in regata, entrata nel Paese, grazie a un secondo passaporto, austriaco, che non richiede formalità d'ingresso. E' diciannovesima (10-12-10), ma al posto della sigla della nazione in 3 lettere, nella classifica ufficiale accanto al suo nome non compare né ISR o tantomeno AUT, ma RSX, come la sigla della tavola a vela. Per il Mondiale ISAF della classe olimpica RS:X Maayan Davidovich è apolide.

 Pasticcio
  Un pasticcio internazionale del quale l'ISAF stessa non ha ancora incredibilmente dato una spiegazione, cioè come sia stato possibile che una delle nazioni con maggiori tradizioni al mondo nel windsurf come Israele non possa essere rappresentata in un campionato che si svolge in un Paese della penisola Arabica. Non un comunicato stampa, nessuna informazione. L'ultima disponibile l'ha messa on line il sito del quotidiano Jerusalem Post come "breaking news" il 14 ottobre scorso alle 22 e 45. In quei giorni il presidente dell'ISAF (e della Federazione Italiana Vela e del più importante circolo velico della penisola, lo Yacht Club Italiano di Genova) Carlo Croce era incidentalmente proprio in Israele, ad Haifa, per il campionato Mondiale 470. Questa la dichiarazione del Presidente al giornale di Gerusalemme, registrata martedì 13 ottobre: "The [Israeli] decision was taken at the wrong moment when they decided they could not go and then they changed their mind and it was far too late for the people in Oman to get them in. I tried again today to get a positive answer, but they said no way. We have to forget it and focus on next time. Traduzione: "avete sbagliato i tempi. Prima avete comunicato che non avreste mandato gli atleti, quando avete cambiato idea era troppo tardi per la burocrazia che l'Oman richiede per emettere visti d'ingresso. Ho personalmente provato anche oggi a mediare, ma sono stato respinto. Dimentichiamoci di quanto è successo e pensiamo al futuro".

 Errori
  Prima di chiarire quali siano stati gli errori che il presidente Croce attribuisce alle autorità sportive israeliane, non può sfuggire la tempistica. Martedì 13 ottobre Croce racconta di aver fatto l'ultimo tentativo in Oman per sbloccare la situazione, cioè ottenere tre visti d'ingresso per una regata, risposta testuale: "no way". Il 13 c'erano ancora 5 giorni disponibili per 3 timbri. La burocrazia del Sultanato dell'Oman, che rispettiamo a prescindere, avrà pure le proprie regole. Che forse dovrebbero essere più elastiche nelle eccezionali circostanze di una manifestazione come un campionato mondiale. Ma trattandosi appunto di 3 timbri in 5 giorni, diventa allora imprescindibile la considerazione che lo stato di tensione in quella parte del mondo tra Israele e i Paesi della penisola Arabica c'entri per forza, in qualche modo.

 Timbri
  Se in 5 lunghi giorni l'ISAF non è stata capace di spiegare alle severe autorità dell'Oman che la vela, lo sport, non può in nessun modo far intendere che i criteri di partecipazione tengano conto di considerazioni politiche e/o religiose, una grande occasione è stata persa. Una pessima figura è stata fatta. La Stella di Davide della bandiera israeliana coperta in una regata ufficiale in Oman è un pessimo, pessimo messaggio che la vela diffonde del mondo. Ci saremo aspettati una ben diversa presa posizione, dal niente assoluto che l'ISAF offre ancora sull'argomento. Qualcosa di meno scoraggiante dello "scurdammoce o passato" ("We have to forget it and focus on next time") che al momento è la sola posizione che il presidente Croce offre al mondo. Come sfuggire al pensiero che se ti rispondono "no way" per 3 timbri in 5 giorni, non si potrebbe adoperare la stessa rigidità per le assegnazioni di regate nel futuro? O magari arrivare a sospendere quelle in corso?

 Shin Bet
  l tono delle dichiarazioni al Jerusalem Post lo fanno pensare. In quanto agli errori commessi dalle autorità israeliane nella vicenda, sono indubitabili. Eccoli in breve. Da due mesi la Federvela israeliana si era preoccupata di iscrivere i propri atleti al campionato. Tutto liscio. Visti concessi. Poi è intervenuto lo Shin Bet. Il servizio di sicurezza israeliano che abitualmente accompagna gli atleti di quel Paese all'estero. Ovunque. (A Palermo al campionato europeo in giugno per esempio). La trattativa per il rilascio dei visti agli agenti non è andata liscia. Per niente. Al punto che 10 giorni fa lo Shin Bet ha comunicato all'autorità velica nazionale che non era in condizione di accompagnare i velisti in Oman. Senza guardie del corpo, la Federvela locale ha indetto una conferenza stampa, era lunedì 12, comunicando al mondo che non ci sarebbero stati israeliani al mondiale RS:X. Sciock. Dall'Oman fanno sapere, con i tempi di una volee di Federer, che i visti sono immediatamente decaduti. Una fretta sospetta, ma questo sarà chiaro tra pochissimo. I velisti la prendono malissimo. Si consultano e si dichiarano pronti a partire senza protezione, sotto la loro responsabilità. Ed è questa forse la parte migliore della storia. Nimrod, Sachar e Maayan sanno che quello della vela è un mondo sano. Ad una regata si sentono al sicuro, anche in Oman. Essere innamorati della vela è il riconoscimento di uno stato dello spirito, transnazionale per definizione. Tra velisti non c'è niente da temere e loro lo sanno. Dai burocrati però meglio non aspettarsi niente di buono. Infatti. In breve i tre ragazzi israeliani riescono a far sentire la loro voce e la loro delusione. Talmente forte che arriva in Parlamento prima e al membro israeliano del CIO, Alex Gilady, poi. La delusione diventa rapidamente indignazione e in meno di 24 ore la Federvela israeliana fa retromarcia, dichiarando ufficialmente: "d'accordo, che gli atleti vadano". Lo comunicano in Oman, e quelli rispondono: "ah ma adesso non ci sono i Visti". Gli stessi Visti repentinamente cancellati. Questo il maldestro agire israeliano. Che si conclude, 5 giorni prima del via del campionato. Quando era ancora tutto rimediabile. Da un presidente coraggioso.

(La Gazzetta dello Sport, 20 ottobre 2015)


Chi macella gli ebrei

Lo Stato islamico ai palestinesi: ribellatevi ai vostri leader e fate la guerra a Israele in nome dell'islam. Ora Baghdadi vuole "rieducare" i palestinesi a rinunciare all'identità nazionalista per lo Stato islamico.

di Daniele Raineri

Lo Stato islamico lancia in rete un messaggio ai palestinesi: ribellatevi ai vostri partitini e ai vostri capetti e fate la guerra a Israele in nome dell'islam e non più in nome di un'"identità palestinese". L'incitamento fa parte di una campagna ben orchestrata dal gruppo per glorificare su internet l'ondata di violenze palestinesi contro gli israeliani, che in questi giorni circola sotto l'hashtag #sgozzagliebrei. Il verbo arabo che compare nell'hashtag - nahara - è usato per la macellazione degli animali e indica nel linguaggio religioso islamico il taglio della gola durante i sacrifici. Tra domenica e lunedì sono usciti otto nuovi video-appelli, prodotti da diverse "amministrazioni locali" dello Stato islamico, e sono tutti variazioni sul tema.
  Si tratta a suo modo di una novità, perché il gruppo estremista che ha le sue basi più grandi in Iraq e Siria fino a due giorni fa si era tenuto ai margini del conflitto - anche se ovviamente citava Gerusalemme e l'odio contro gli ebrei nella propaganda. Gli speaker, alcuni in passamontagna e altri a volto scoperto, aizzano l'Intifada dei coltelli, si intestano la paternità spirituale degli attacchi e provano a scavalcare i leader dei partiti locali, al Fatah e Hamas. Abbondano gli spezzoni che mostrano Abu Mazen, capo dell'Autorità nazionale palestinese, assieme al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per screditarlo. Lo stesso trattamento è riservato ai capi di Hamas, Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal, mostrati in compagnia dei loro sponsor iraniani, che sono sciiti e quindi per gli ideologi dello Stato islamico hanno lo stesso "potere degradante" di Netanyahu, compromettono ciò che toccano. Il messaggio più interessante in questi video-appelli dello Stato islamico non è la propaganda di guerra contro Israele, che è piuttosto ovvia e fatta di soldati che piangono, bare avvolte nella bandiera biancazzurra, fotomontaggi con militari che bruciano tra le fiamme dell'inferno, Bush che riceve un gruppo di rabbini nella Sala Ovale della Casa Bianca e ride assieme a loro - tutta roba didascalica. Sono molto sfruttate anche le scene degli attacchi prese dalle telecamere e poi rilanciate dai telegiornali e dai siti di news.
  Piuttosto, il messaggio interessante è che lo Stato islamico si premura di rivelare ai palestinesi che per tutti questi anni hanno portato avanti la loro lotta in un modo sbagliato: troppo nazionalismo, troppi pugni alzati davanti ai fotografi o ancora peggio le dita a V nel segno della vittoria, troppe bandiere della Palestina oppure di partito - anche quando sono quelle verdi di Hamas con le citazioni del Corano e l'epica del martirio. La dottrina che arriva in video da Iraq e Siria punta a una "rieducazione" del jihad palestinese verso lo stesso islamismo di Raqqa e Mosul. Lo Stato islamico chiede agli arabi di Gaza e della West Bank di rinunciare all'antica "degenerazione nazionalista" e di agire secondo (quello che loro ritengono) il loro proprio modello di autenticità.
  Quindi bandiera nera con il sigillo di Maometto al posto della bandiera a quattro colori, unico segno consentito l'indice dritto (indica il monoteismo, pilastro dell'islam), soppressione della cosiddetta "hizbeya", vale a dire del partitismo e della fiducia nei partiti, considerata come eresia anti islamica. Dove c'è un califfo non ci sono elezioni e in definitiva la Palestina per Baghdadi non esiste, se non come regione amministrativa. E' ancora presto per dire se questo messaggio, che ha già dimostrato di essere seducente, sta penetrando tra i palestinesi. Hamas è sulla difensiva e da ormai un anno sta facendo la guerra ai gruppuscoli ultra estremisti e filo Baghdadi dentro la Striscia di Gaza; Abu Mazen per ora ha avuto meno problemi, ma il suo controllo si sta affievolendo.

(Il Foglio, 20 ottobre 2015)


Netanyahu chiede alla popolazione di evitare atti di giustizia sommaria

GERUSALEMME - Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha avvertito la popolazione israeliana a non compiere atti di giustizia sommaria, dopo la morte di un cittadino eritreo a Beersheba linciato ieri dalla folla perché scambiato per un terrorista palestinese. "Siamo un paese rispettoso della legge", ha detto il premier in una riunione del partito Likud, "nessuno deve prendere la legge nelle proprie mani". L'incidente avvenuto ieri nella città della provincia del Negev è giunto in seguito all'ennesimo attacco condotto da un giovane palestinese che armato di una pistola e di un coltello si è scagliato contro un gruppo di persone in attesa ad una fermata dell'autobus uccidendo un militare, Omri Levi, e ferendo altre 10 persone. Il giovane è stato identificato come Mohannad al Aqaby, cittadino israeliano di origine palestinese, il quale è stato ucciso dalla polizia poco dopo l'attacco.

(Agenzia Nova, 19 ottobre 2015)


 Milano - Fiaccolata contro il terrorismo, in nome della verità

Mercoledì 21 ottobre, alle ore 18, in via Guastalla.

Decine di civili morti e feriti, accoltellati per le strade di Israele, investiti deliberatamente e finiti a colpi di mannaia. Questo il quadro della recente ondata di violenze antiebraiche lanciata nel vicino paese mediorientale in nome di una interpretazione malata della religione islamica.
  Odio e invocazioni alla morte da martiri che spingono donne e bambini a immolarsi portando distruzione e lutti.

 Come è stato possibile tutto ciò?
  Innanzitutto con una forsennata campagna di odio supportata da menzogne di ogni tipo per cui si è effettuato un completo sovvertimento della realtà: Israele, l'unico paese democratico della regione, dove i diritti dell'uomo vengono rispettati e garantiti da una giustizia indipendente, dove la rappresentanza delle minoranze arabe è in parlamento, dove l'opposizione e i media hanno libertà totale di espressione e riunione, viene fatta passare per aggressore.
  È una lunga storia che affonda le radici nei millenni, ma che vede negli ultimi anni un inasprimento parallelo all'emergere delle più inaccettabili azioni dei gruppi islamisti. Da Hamas a Hezbollah alla galassia dei gruppi islamisti che si richiamano al Califfato e all'ISIS arriva l'attacco alla modernità, ai diritti delle donne, ai diritti delle minoranze, alle libertà fondamentali.
  Gli stessi attacchi, che tanto inorridiscono dalle tv quando colpiscono vittime cristiane o cittadini occidentali, vengono portati oggi in Israele al grido di "morte agli ebrei" senza che questo scandalizzi nessuno. È di questa settimana il supporto dato dai portavoce dell'ISIS alla campagna di terrorismo palestinese in atto, con l'invito ai giovani arabi di Gerusalemme a decapitare "gli ebrei".

 Perché?
  Per cercare una risposta e dare la propria solidarietà al popolo di Israele, la Comunità Ebraica, con la cittadinanza di Milano, rappresentata dalle varie associazioni per i diritti dell'Uomo, hanno indetto una fiaccolata con maratona oratoria di solidarietà con Israele sotto attacco terroristico.
Alle ore 18.00 di mercoledì 21 ottobre, di fronte al Tempio Centrale di Milano in via Guastalla.

(Mosaico, 19 ottobre 2015)


Le Nazioni Unite alleate del terrorismo palestinese?

Secondo un rapporto pubblicato da UN Watch di Ginevra, almeno dieci diversi dipendenti dell'ONU stanno usando la legittimazione della loro posizione ufficiale per incoraggiare i palestinesi ad accoltellare e colpire gli ebrei israeliani; uno di essi sulla sua pagina Facebook incita a «pugnalare i cani sionisti». UN Watch è un'organizzazione internazionale il cui mandato conferitole dal Palazzo di Vetro, consiste nel monitorare il rispetto dello statuto istitutivo da parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
UN Watch ha sottoposto il documento all'attenzione del segretario generale Ban Ki-moon, del direttore dell'UNRWA Pierre Krähenbühl e dell'ambasciatore americano all'ONU Samantha Power. Gli Stati Uniti, con 400 milioni di dollari annui, sono il principale finanziatore dell'UNRWA....

(Il Borghesino, 18 ottobre 2015)


Oltremare - Giudici

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Rav Benny Lau è un po' una celebrità, rabbinicamente parlando. Alle lezioni che tiene il sabato pomeriggio nel suo tempio di Gerusalemme bisogna arrivare in anticipo e si rischia regolarmente di restare fuori. E come tutti i rabbini-celebrità, non cala spesso in pianura. La prima volta che l'ho sentito parlare, alla fine della lezione ho avuto una rivelazione: i rabbini come quelli italiani, nel resto del mondo fanno strettamente accademia. Oppure sono Rav Benny Lau.
Non per incensare i rabbini italiani, che tendono a farsi trattare moderatamente male dalle loro comunità, ma basta farsi un giro anche breve per il mondo, per accorgersi che la profondità culturale, storica e filosofica che abbiamo a disposizione noi ebrei italiani, attraverso il nostro rabbinato, è qualcosa di completamente fuori dai criteri di insegnamento di cose ebraiche altrove nel mondo. E quando uno riesce a trovare il rav che si innalza lievemente dalla basilare tiritera della Parasha settimanale, come niente torna a casa fischiettando un "Halleluya" di Leonard Cohen, come me ieri sera.
Il fatto è che fra le feste ebraiche che hanno sfinito anche il più pio degli ebrei, e a ruota l'inizio della intifada dei singoli, come viene chiamata in ebraico, uscire di casa in modo non coatto per andare a sentire una lezione di Torà è un atto di rivoluzionario eroismo. E mentre a Beer Sheva l'ennesimo ebreo veniva ammazzato in un atto di terrorismo in una qualsiasi stazione centrale degli autobus, Rav Benny Lau iniziava il suo intervento dicendo che a lui, il libro dei Giudici, sta da sempre sullo stomaco. Per mezz'ora, i pensieri di tutti i presenti si sono concentrati sul problema del rapporto fra il popolo ebraico e la sua leadership (divina quanto umana), un tema portante nei Giudici, senza che si facesse mai neanche velatamente notare quanto contemporaneo sia il problema. E quanto, oggi come allora, il popolo ebraico libero di scegliersi i propri leader non sembra avere il dono della lungimiranza.


(moked, 19 ottobre 2015)


Non capire Israele significa non capire l'occidente

Appunti sul caso Boldrini-imam. Ci si può girare attorno, ma la sostanziale indifferenza che accompagna la notizia dell'invito in Parlamento di un imam che auspica la fine di Israele corrisponde a un'indifferenza più grande, che porta a osservare in modo pigro e quasi svogliato la violenza improvvisa di matrice terroristica con cui Israele si ritrova a fare i conti da due settimane.

di Claudio Cerasa

Ci piacerebbe molto dire che il problema riguarda solo Laura Boldrini e che il caso del presidente della Camera - e il suo invito a Montecitorio rivolto a un imam che professa la necessaria distruzione di Israele - sia un caso isolato, unico, raro e persino inimitabile. Ci piacerebbe molto dire che a parte Laura Boldrini esiste, in Italia, una sensibilità profonda, nella classe dirigente e nella classe politica, rispetto alla difesa dello stato ebraico; in un passaggio storico in cui il disimpegno dell'occidente nell'intero Medio Oriente ha coinciso con due fenomeni che solo apparentemente possono essere considerati separati l'uno dall'altro: il rafforzamento politico dell'Iran e l'isolamento politico di Israele.
  Ci si può girare attorno quanto si vuole ma la sostanziale indifferenza che accompagna la notizia dell'invito in Parlamento di un imam che auspica la fine di Israele, che giustifica gli attacchi suicidi dei terroristi palestinesi e che rifiuta il dialogo con il cristianesimo - invito che è venuto meno sabato scorso, anche dopo gli articoli del nostro giornale, che per primo è intervenuto sul tema, ma che è venuto meno in una forma surreale, con il presidente della Camera che ha fatto sapere non di aver ritirato l'invito ma semplicemente di aver ricevuto dall'imam la comunicazione del ritiro della sua presenza - questa sostanziale indifferenza, si diceva, corrisponde a un'indifferenza più grande, che porta a osservare in modo pigro e quasi svogliato la violenza improvvisa di matrice terroristica con cui Israele si ritrova a fare i conti da due settimane.
  Chiunque abbia degli amici tra Tel Aviv e Gerusalemme sa perfettamente che l'ondata di violenza che sta colpendo da giorni Israele è qualcosa in più di una semplice nuova intifada: è qualcosa che riguarda da vicino un fenomeno più grande e più corposo in cui il terrorismo è più simile a quello degli anni Trenta che a quello degli anni Novanta, e in cui l'odio per gli ebrei deriva non dalla spinta legata a un progetto politico (la Palestina libera) ma da una dimensione religiosa in cui al centro di tutto vi è l'islam radicale e il suo profondo e viscerale antisemitismo, unico grande collante tra tutti i fondamentalismi islamici, sia di matrice sciita sia di matrice sunnita. Ci piacerebbe dunque dire che la superficialità con cui si osservano gli accoltellamenti e i segnali di terrorismo a bassa intensità che colpiscono da giorni Israele riguardino solo Laura Boldrini e i suoi compagni che scambiano merende con gli imam radicali.
  Ma il disinteresse verso Israele - rafforzato anche dal fatto che a differenza delle ultime intifade quella di oggi è un'intifada praticamente senza immagini e senza icone, che colpendo il corpo dell'ebreo con un pugnale è come se riuscisse a circoscrivere il raggio del terrore solo dentro i confini di Israele - è un disinteresse più profondo e radicale che è maturato in un contesto politico in cui le grandi potenze occidentali hanno scelto in modo deliberato di allontanarsi da Israele nello stesso momento in cui hanno deciso di trasformare nel grande stabilizzatore del Medio Oriente l'Iran, ovvero uno stato le cui massime autorità religiose professano ancora oggi, e con estrema convinzione, la necessaria distruzione di Israele. L'accordo sul nucleare iraniano non sappiamo ancora se impedirà la costruzione di una bomba atomica per il regime degli ayatollah ma sappiamo già oggi che ha avuto l'effetto di lasciare detonare un'altra bomba che ha fatto saltare in aria quel piccolo schermo protettivo che l'occidente aveva costruito intorno a Israele per difendere lo stato ebraico da tutti i suoi vicini di casa che sognano la sua fine (Hamas, Hezbollah, l'Iran). E l'indifferenza che si registra oggi nell'osservare quotidianamente ebrei feriti o uccisi nelle città di Israele è la spia di un'indifferenza più grande che riguarda naturalmente una più grande disattenzione e una conseguente inazione dell'occidente di fronte alla minaccia del terrorismo islamico.
  Pochi giorni fa, come ha ricordato la scorsa settimana il nostro Giulio Meotti sul Foglio, un imam di Gaza ha brandito un coltello durante un sermone e ha invitato i fedeli dell'islam a seguire l'esempio di Khaybar, quando Maometto nel 627 partecipò di persona allo sgozzamento di ottocento ebrei della tribù Banu Qurayza. E' anche uno degli slogan più usati nelle strade palestinesi: "Khaybar, Khaybar, oh ebreo, l'esercito di Maometto tornerà". Laura Boldrini e Piergiorgio Odifreddi non saranno d'accordo ma mai come in questo momento per capire la superficialità con cui l'occidente osserva e combatte il fondamentalismo islamico - "le operazioni di martirio in cui i palestinesi si fanno esplodere sono permesse al cento per cento secondo la legge islamica", ha spiegato in modo illuminato l'imam Tayyeb - bisogna osservare lo spirito con cui l'occidente descrive le lame dei palestinesi come se fossero ogni giorno meno affilate e tutto sommato giustificabili, di fronte a questi signori che non hanno altra colpa se non quella di essere ebrei. E non capire oggi il dramma di Israele, e il suo oggettivo stato di assedio, significa non capire il dramma dell'occidente, e i rischi che si corrono ogni giorno nel rimandare nel tempo la nostra azione, militare e culturale, contro i fondamentalismi islamisti.

(Il Foglio, 19 ottobre 2015)


Intervista a un giovane palestinese

- Quando tu, per esempio, senti che c'è stato un attacco, un attacco col coltello in Israele, che ne pensi?
  Mi fa felice
- Ti fa felice?
  Sì
- Ti mette di buon umore
  Sì
- Perché?
  Perché qualcuno del mio popolo, dalla Palestina, è andato ad accoltellare ebrei. Abbiamo dato agli ebrei
  una lezione.
- Lo sai che sono un ebreo?
  No. Sei un ebreo?
- Sì, saresti contento se qualcuno mi accoltellasse?

(The Israel Project, ottobre 2015)


"Falsi, deboli, ipocriti: state distruggendo il futuro dei vostri ragazzi"

Giornalista arabo-israeliana a chi fomenta le violenze: "Ma quale Dio vorrebbe mai mandare donne e bambini ad assassinare persone innocenti?"

"Un Dio che accetta che i bambini escano ad assassinare persone innocenti?"
Circola "virale" sul web un video in cui si vede la giornalista tv arabo-israeliana Lucy Aharish che critica con veemenza coloro che sfruttano la religione come pretesto per fomentare attacchi e violenze contro cittadini ebrei.
Intervistata la scorsa settimana dalla tv israeliana Canale 2 sulla recente ondata di attentati palestinesi, la celebre conduttrice di i24news Lucy Aharish, 34 anni, si scaglia con passione contro i leader palestinesi e arabo-israeliani che istigano alla violenza....

(israele.net, 19 ottobre 2015)


Un muro a Gerusalemme per separare arabi ed ebrei

La barriera per isolare la zona da dove sono partiti più attacchi Israele: misura temporanea. Minacce dell'Isis: decapitate i sionisti.

di Maurizio Molinari

Israele inizia a costruire una barriera di cemento a Gerusalemme Est nel giorno in cui l'Intifada dei coltelli passa ai proiettili e Isis incita l'Intifada a «decapitare gli ebrei».

 I due quartieri
  I camion della polizia posizionano i primi blocchi di cemento poco dopo le 17. Il luogo è il confine fra il quartiere arabo di Jabel Mubaker e quello ebraico Amon HaNaziv. Nelle ultime settimane si è dimostrato il punto più vulnerabile del sistema di sicurezza: da qui sono passati almeno quattro terroristi che hanno causato due morti e 16 feriti. Sono lastre di cemento biancastre, alte quasi tre metri, con la scritta «Barriera temporanea». Micky Rosenfeld, portavoce della polizia, parla di «provvedimenti necessari per proteggere i cittadini» ed Emmanuel Nachshon, portavoce del ministero degli Esteri, li definisce «temporanei in aree limitate» per sottolineare che non si tratta di una marcia indietro rispetto al principio di Gerusalemme «città unica e indivisibile». Resta il fatto che nasce, per la prima volta dal 1967, una linea divisoria dentro la città. Parte dal cosiddetto «balcone», dove le abitazioni ebraiche quasi toccano quelle arabe, e corre verso Sud lungo i confini di Jabel Mukaber fino al posto di blocco con Talpiot Est, un altro quartiere ebraico. Per i palestinesi è «una divisione che ci renderà la vita impossibile - dice il 43enne Munir - perché andare a lavorare a Ovest sarà impossibile». Ma c'è anche chi reagisce diversamente come Isham, titolare di un piccolo negozio: «Meglio stare dalla parte dei palestinesi, è la nostra, preferisco non vedere più gli israeliani, come chi vive a Ramallah». La polizia non precisa se simili barriere sorgeranno in altri quartieri arabi ma l'Associazione israeliana per i Diritti Umani parla di «11 strade già chiuse» che potrebbero anticipare l'arrivo dei blocchi di cemento. Fra i deputati della destra che sostengono il governo di Benjamin Netanyahu serpeggia il timore di «concessioni su Gerusalemme» e il sindaco Nir Barkat, ribadisce: «Questi blocchi hanno l'unico fine di garantire la sicurezza». Fanno parte di misure «eccezionali» che includono la possibilità di «fermare e perquisire» chiunque sul modello della legge «stop and frisk» che Michael Bloomberg emanò da sindaco di New York.

 Il fronte jihadista
  L'operazione-barriera è iniziata da neanche 120 minuti quando due palestinesi attaccano la stazione degli autobus di Beer Sheva, nel Sud. Entrambi hanno coltelli, uno di loro strappa l'arma a un soldato e fa fuoco sulla folla. Il bilancio è di un morto e 7 feriti, di cui tre in gravi condizioni. Si spara anche a Qalandya, poco fuori Ramallah, e ciò suggerisce lo scenario di un passaggio dell'Intifada dai coltelli ai proiettili. Ad Abu Dis, quartiere arabo di Gerusalemme Est, la gente in piazza festeggia l'attacco di Beer Sheva. Un militante delle Brigate Al Aqsa, di Al Fatah, parla da Qalandya alla tv israeliana: «Questa terra vi è proibita». L'accelerazione militare è percepita dalle cellule dello Stato Islamico (Isis) che postano online un video «Messaggio ai Mujaheddin di Gerusalemme» celebrando gli attentati ed esortando «i martiri» a compiere un salto di qualità: «Dovete decapitare gli ebrei». Uno dei terroristi dell'attacco a Beer Sheva viene ucciso mentre l'altro è gravemente ferito: a fermarli è stato Ziad, sorvegliante arabo-israeliano che diventa seduta stante un eroe nazionale.

(La Stampa, 19 ottobre 2015)


Tg2 Dossier: per gli attentati palestinesi una giustificazione è sempre pronta

Commento alla trasmissione di Tg2 "Sarà la terza intifada?", andata in onda ieri.

di Deborah Fait

La confusione regna sovrana nella testa dei giornalisti italiani e ne dà un esempio Luca Salerno annunciando che "avremo una vera e propria diretta da Israele, Territori occupati, Palestina". Troppi, decisamente troppi! La trasmissione alla fine ha lasciato l'amaro in bocca anche se, a differenza dei tempi in cui facevano programmi su programmi, tavole rotonde, sul problema israelo-palestinese senza mai invitare un israeliano, questa volta hanno fatto un passetto avanti e l'israeliano c'era nella persona del prof. Sergio della Pergola, demografo.
Le parti più interessanti di tutto il programma, fatto sulla solita falsariga del dire e non dire, soprattutto nel totale occultamento della verità sia di cronaca che di storia, sono stati proprio gli scambi di opinioni, a volte battibecchi, tra Bassam Saleh e Sergio Della Pergola, il primo con i piagnucolamenti di sempre, le solite accuse e le perenni bugie. Il secondo, tranquillo e pacato, rispondeva a tono, rimettendo le cose al loro posto.
Saleh: "I nostri giovani sono disperati, non vanno a scuola, non possono uscire dal loro paesino.... non hanno futuro.... Hamas non c'entra, non è terrorista, lo dicono i mass media (Luca Salerno: No lo dice la comunità internazionale) ... quello non è Israele è Palestina".
Della Pergola ha risposto alle arroganti geremiadi del palestinese con una breve ma importante lezione di storia, importante perché la maggior parte degli italiani, giornalisti compresi, conosce solo la fantasiosa e antistorica versione araba.
Della Pergola: "Nel 1948 dovevano nascere uno stato arabo/palestinese e uno stato ebraico/israeliano...."
E Saleh, quasi gridando: "E allora perché state dalla nostra parte?"
Della Pergola, tranquillo: "Perché gli arabi hanno rifiutato quella possibiltà, Israele è stato invaso e ha vinto. Nel '67 Gerusalemme è stata bombardata dalla Giordania... io, a differenza di voi, ero qua... e purtroppo - ha aggiunto e ribadito con sarcasmo - purtroppo Israele ha vinto la guerra e conquistato dei territori... I giovani che oggi accoltellano sono sobillati.... Israele è una democrazia dove esiste libertà, dialettica, dove vi sono manifestazioni per la pace, anche in questi giorni, non succede tutto questo nei vostri territori ..."
Saleh: "Nooo, perché c'è la repressione".
Della Pergola: "Il terrorismo è incominciato ancora prima che esistesse Israele e molto prima dei "territori occupati".
Silenzio.
Grandioso il battibecco tra i due sulla scuola:
Saleh: "Non possono andare a scuola".
Della Pergola: "Bene, parliamone, cosa insegnate nelle vostre scuole? Dite che Israele esiste?..." (forse per evitare la rissa non ha aggiunto le scimmie e i maiali e le lezioni di sgozzamento).
E Luca Salerno rivolgendosi anche lui a Saleh: "Ecco ecco, giusto, ce lo dica, cosa insegnate nelle vostre scuole?"
Saleh, messo con le spalle al muro, naturalmente non ha risposto e ha contrattaccato: "Perché, voi, nelle vostre scuole forse parlate della Nakba?"
"SI" è stata la risposta, chiara, concisa e tranquilla.
Silenzio imbarazzato in studio.
Eric Salerno, notorio nemico di Israele, ha parlato poco e in modo del tutto anonimo, forse non era in vena, forse era pago perché Bassam Saleh esprimeva esattamente il suo pensiero, chissà!
Ciliegina velenosa sulla torta è stato l'intervento indecente di Monsignor Fouad Twal, patriarca di Gerusalemme: " ... poveri palestinesi senza speranza, dimenticati da tutti... il muro della vergogna..."
Seconda ciliegina velenosa, il brutto intervento dagli USA di Giovanna Botteri, che ha criticato le parole decise del nuovo ambasciatore israeliano all'ONU, Danny Danon, per aver rifiutato categoricamente una presenza internazionale sul Monte del Tempio. Chiede ancora la parola per ricordare che il New York Times ha riempito un'intera pagina per avvisare gli americani che quello che scrivono gli altri giornali non è vero e che in Israele i civili vengono accoltellati! Perché? Non è la verità?
Comunque più di quello che è stato detto quello che mi indigna di più in questo genere di trasmissioni sono le cose non dette: I palestinesi sono disperati e rinchiusi nei loro territori? Se non facessero terrorismo non sarebbero disperati né rinchiusi. I loro capi hanno sempre rifiutato uno stato palestinese quindi dovrebbero ribellarsi contro Fatah, OLP e Hamas, non contro Israele. La prima volta hanno rifiutato lo stato nel 1948. La seconda volta nel 1993 quando hanno risposto agli accordi di pace col terrorismo. La terza volta nel 2000 quando Arafat abbandonò Camp David rifiutando le generosissime offerte di Ehud Barak. La quarta volta nel 2005 quando Sharon fece trascinare tutti gli ebrei fuori dalla Striscia di Gaza dove vivevano da 45 anni. La quinta volta nel 2008 quando Ehud Olmert fece un'altra supergenerosa offerta, offrendo praticamente tutto e Abu Mazen rifiutò.
Già le cose non dette: il terrorismo senza fine, un terrorismo inutile e immotivato perché basterebbe sedersi e parlare senza precondizioni, seriamente. Nel momento in cui è arrivata, puntuale come i debiti, la solita accusa a Sharon e alla sua "passeggiata" sul Monte, ecco una perla di Della Pergola: "Sharon era solo il capo dell'opposizione, il Capo del governo era Barak, bastava parlare con lui invece di scatenare la guerra". (Seconda intifada 2000-2005). Il professore però ha dimenticato di aggiungere che quella visita, fatta in occasione di Rosh haShanà, era stata concordata dal governo israeliano con quello dell'ANP e col capo della polizia palestinese. I palestinisti hanno negato, mentito come sempre e hanno fatto l'unica cosa che sanno fare bene: terrorismo. Il resto null'altro che chiacchiere inutili, la solita intervista al solito arabo con moglie italiana ...i nostri figli....siamo come in prigione...ecc.ecc.ecc. Che uno, uno solo, invece di piagnucolare, avesse detto queste semplicissime elementari parole: Niente terrorismo, niente muri, niente occupazione.
Questa sera Papa Bergoglio ha invitato a pregare per la pace in "Terrasanta". Non ci servono le sue preghiere, ci servirebbe più comprensione, ci servirebbe sentirci meno soli. Inutile pregare adesso dopo che il Vaticano e tutti gli altri paesi del mondo occidentale si sono coccolati i terroristi, i loro angeli della pace, li hanno sempre giustificati, capiti, viziati, difesi, fatti fuggire dando addosso a Israele che doveva difendersi per continuare ad esistere. Non lasciateci soli, dicevamo, non aiutate i terroristi, non credete alle loro parole. Ci deridevano e ci condannavano. Adesso pregare è inutile. Adesso ci difendiamo, come sempre.

(Inviato dall'autrice, 19 ottobre 2015)


L'inganno palestinese in Israele
Articolo OTTIMO!


di Maurizio Del Maschio

In questi giorni stiamo assistendo ad un'offensiva politico-religiosa che sta infiammando Israele. Forse non si tratta di un'offensiva su larga scala ed è prematuro affermare che una terza Intifada è cominciata, ma certamente lo stillicidio di attentati a persone inermi nel cuore stesso di Israele non è frutto di fanatici che agiscono isolatamente. Sono episodi troppo simili e numerosi per ritenerli frutto di teste calde scalmanate. È evidente che si tratta di un fenomeno studiato accuratamente, un tentativo di indurre le forze di sicurezza israeliane a reazioni che possano essere strumentalizzate per generare ulteriori reazioni anti-israeliane anche in Occidente. È tempo che l'Occidente si svegli. Israele è il tappo che impedisce all'islam di iniziare una nuova offensiva anti-occidentale.
  Nonostante la reticenza, l'ostilità nei confronti di Israele e il sensazionalismo della maggior parte dei media, a poco a poco lo scenario dell'ondata di terrorismo "a bassa intensità" che ha colpito Israele in questi ultimi giorni diviene più chiaro. Innanzi tutto, appare evidente che non si tratta di un fenomeno di massa. Questa rivolta non ha gli stessi connotati delle precedenti sollevazioni popolari. Contrariamente alle precedenti Intifadaat, in Cisgiordania i negozi sono aperti, i mercati sono affollati e si respira un'atmosfera consueta. Non c'è la partecipazione di massa alle proteste che esplodevano improvvise con una partecipazione corale. Questo è un dato su cui riflettere. Forse le persone di buon senso hanno capito di vivere in un'isola di tranquillità in mezzo alle tragedie che infiammano il Medio Oriente e non vogliono trovarsi nella situazione dell'Iraq, della Siria o del Sinai. In altri termini, la gente normale sa per esperienza che questo tipo di violenze produce solo lutti e danni. In particolare lo sanno gli Israeliani di etnia araba che godono della migliore condizione economica, politica, sanitaria, civile di tutto il mondo arabo e che avrebbero molto da perdere se si aggregassero agli scalmanati fautori della cancellazione dello Stato ebraico dalla carta geografica.
 
                Ayman Odeh                                 Ali Salam
  Nei giorni scorsi c'è stata una polemica molto significativa fra il sindaco di Nazaret Ali Salam, una delle maggiori città arabe in Israele, e il leader della della "Lista Araba Unificata" Ayman Odeh che siede alla Knesset, il parlamento israeliano. In quella coalizione di partiti, infatti, c'è chi viene accusato di perseguire la distruzione della coesistenza con la sua demagogia incendiaria. Coloro che seguono questi incitamenti e che vanno a lanciare i sassi o ad accoltellare la gente sono in buona parte giovani e giovanissimi, che vengono da villaggi arabi israeliani o dai villaggi del sud di Gaza City. Si tratta di studenti indottrinati che sognano di diventare shahid, martiri premiati con il paradiso delle uri. L'incoscienza adolescenziale non sorprende, così come non meraviglia la scarsa sorveglianza di famiglie che dalla morte di un parente traggono onore e cospicui compensi pagati dall'Autorità Palestinese con i soldi degli aiuti occidentali che dovrebbero servire allo sviluppo economico e invece finanziano il terrorismo. Ma non è così per i giovanissimi e i giovani arabo-israeliani. Essi fanno la stessa vita dei loro coetanei ebrei, ma sono cresciuti guardando la tv palestinese, dove si indottrinano i bambini, fin dalla tenera età, inducendoli ad odiare gli ebrei, soprattutto gli Israeliani. Persino in internet si trovano siti in cui non solo si incita, ma pure si spiega come uccidere con i coltelli, usando anche sostanze velenose per decretare la morte delle loro vittime qualora le ferite non siano letali.
  È importante sapere che il fenomeno a cui stiamo assistendo in questi giorni è un inganno che ha queste radici ed è incoraggiato dalla propaganda di morte. A sud della città di Gaza, alcune centinaia di persone fra cui due ragazzi, sono state portate a tentare di sfondare la rete di protezione del confine fra la Striscia e il territorio israeliano, di fronte a una postazione militare. Si è trattato della risposta all'incitamento di un religioso islamico durante un sermone del venerdì, giorno della preghiera solenne settimanale islamica, nella vicina città di Rafah, nella parte meridionale della Striscia. Dietro i ragazzini e le altre vittime reclutate da Hamas c'erano i terroristi pronti ad entrare in territorio israeliano e quindi era necessario fermarli e respingerli. Non si può accusare il predicatore islamista di essere stato direttamente responsabile di quelle morti, ma certo ha fatto del suo meglio per provocarle, come fanno molti suoi colleghi ovunque in Medio Oriente e altrove.
  La carica di odio e di violenza è tanto esagerata da apparire anacronistica se non fosse portatrice di tante tragedie e del versamento di tanto sangue. Peraltro, va detto che è efficace, trova sempre nuovi adepti. Se c'è un coordinamento fra i diversi attentati, esso probabilmente non ha come regista l'Autorità Palestinese, la quale si limita a giustificarli, appoggiarli, esaltarli scaricando sempre la colpa su Israele, ma è fomentato dal movimento islamico, in particolare dal suo ramo settentrionale. Ciò non sorprende chi da anni segue la politica palestinista e ha visto come "gli ebrei" in generale e non solo lo Stato di Israele costituiscano i nemici giurati della causa arabo-islamista.
  Ciò deve indurre a riflettere. Contro un odio razziale epigono di quello nazista e aggravato dalla passionalità tipica delle popolazioni che abitano nelle terre calde e da continui incitamenti politico-religiosi, non c'è trattativa, compromesso, disponibilità alla pace che regga. È efficace solo l'autodifesa, la capacità di bloccare la violenza con la forza, nella consapevolezza della certezza del proprio buon diritto, dei valori di un popolo e di una democrazia che non ha paragoni in tutto il Medio Oriente (e oltre).

(Online News, 19 ottobre 2015)


Iniziata la visita in Israele del Capo di Stato maggiore Usa Dunford

Il Capo di Stato maggiore degli Stati Uniti, generale Joseph Dunford, ha iniziato stamane in Israele una visita ufficiale in cui affronterà questioni di rilevanza regionale, fra cui la situazione in Siria (anche alla luce dell'intervento militare russo).
Si affronterà inoltre anche il discorso delle ripercussioni dell'accordo internazionale sul nucleare iraniano.
Dunford - che affronta così la sua prima missione all'estero da quando, all'inizio di ottobre, ha assunto la carica - è stato ricevuto dal suo omologo israeliano, generale Gady Eisenkot. In parallelo a Uvda (Neghev) sono iniziate le esercitazioni aeree biennali 'Blue Flag', che vedono impegnate le aviazioni di Israele e degli Stati Uniti, nonché di altri Paesi alleati.
Intanto è giunto in Israele "in visita di solidarietà" anche il sindaco d New York Bill De Blasio. Ieri ha incontrato i sindaci di Tel Aviv, Ron Huldai, e di Gerusalemme, Nir Barkat, e ha visitato una scuola frequentata da bambini ebrei e musulmani. Ha anche incontrato alcune persone rimaste ferite nelle recenti violenze a Gerusalemme.

(swissinfo.ch, 19 ottobre 2015)


Lo psicoanalista Meghnagi: "La distinzione dei simboli cancella ogni spazio politico"

di Titti Marrone

"L'incendio della tomba di Giuseppe a Nablus è un atto criminale che dimostra come il fondamentalismo palestinese arrivi a perdere qualunque forma di rispetto per luoghi sacri ebraici che hanno una valenza anche per la tradizione islamica."
  David Meghnagi, psicoanalista, saggista, acutissimo analista dell'identità e della cultura ebraica, non ha esitazioni nel condannare il rogo: "Nel piccolo mausoleo nuovamente dato alle fiamme" dice Meghnagi "si addensa una miriade di simboli: Vicino Nablus, secondo una tradizione antica c'è la Tomba di Giuseppe. Secondo il racconto biblico a Hebron invece c'è quella dei patriarchi, la grotta che ospita il sepolcro è quella che Abramo acquistò per sé e per sua moglie Sara. Nella Bibbia la solitudine trova una consolazione. La voce della speranza non abbandona mai ed è di questo che tutti noi abbiamo bisogno: una speranza che non sia però facile illusione".

- Quella di Giuseppe, che ispirò la grandiosa tetralogia di Thomas Mann, è una delle figure più nobili della Bibbia. E anche nel Corano è presente un Yusuf: ha a che vedere con il Giuseppe del Vecchio Testamento?
  "Occorre avere anche presente che il racconto coranico non corrisponde a quello biblico. Per esempio Maria è allo stesso tempo madre di Gesù e sorella di Mosè. Siamo di fronte alla condensazione del racconto di storie distanti fra loro secoli. Cionondimeno, quel luogo è simbolico per le tre religioni monoteistiche. Per la tradizione ebraica, poi, la figura di Giuseppe è doppiamente significativa. Intanto non è arbitrario considerarlo il primo psicanalista, vista la sua abilità nell'interpretare i sogni addentrandosi nei meandri dell'inconscio, tant'è che Freud sulle prime s'ispirò proprio a lui. Giuseppe incarna inoltre l'immagine dell'ebreo diasporico che non perde mai i contatti con le sue radici. Anche quando è in esilio in Egitto, anche quando diventa Visir, resta legato alla sua gente e le chiede di preservare il suo sepolcro. Così, quando escono dall'Egitto, gli ebrei portano la sua tomba con sé".

- Il fatto che a essere protagonisti degli atti di violenza siano i cosiddetti "lupi solitari", palestinesi per lo più giovani, attesta un salto di qualità della tensione in Medio Oriente, e con quali caratteristiche?
  "Temo che si tratti di un doppio salto di qualità in cui il terrorismo di matrice islamica non risparmia luoghi che sono significativi anche per quella tradizione, travolgendo ogni limite. Userò un termine forte: è un atto criminale che prefigura il tipo di società alla quale si vorrebbe approdare".

- Dunque secondo lei sarebbe un atto paragonabile alla distruzione dei templi di Palmira in Siria da parte dell'Isis, o dei monumenti di Bamiyan in Afghanistan?
  
"Certo. La distruzione dei luoghi sacri ci dice che cosa toccherebbe domani agli ebrei e ai cristiani nella regione. Siamo di fronte a una messa in atto "scenografica" che ha ben poco a che vedere con l'idea di una composizione politica dei conflitti, dove "l'altro" non ha alcuna possibilità di sopravvivenza. Non dimentichiamo che è la seconda volta che il mausoleo viene incendiato. Avvenne nel 2000, dopo che l'esercito israeliano portò in salvo con gli elicotteri, un piccolo gruppo di soldati di guardia. Arafat si limitò a dire che sarebbe stato ricostruito, impegnandosi a proteggerlo dopo che gli israeliani lo avessero consegnato all'Autorità palestinese. Affermare come ha fatto Abu Mazen che si tratta di un gesto sconsiderato, è ben poco, tanto più se sostenuto da una retorica giustificazionista, che in arabo dice delle cose, e in inglese ne dice altre, più "accettabili" per il pubblico occidentale".

- C'è il pericolo che il Medio Oriente venga lasciato solo, visto che all'ultima assemblea generale dell'Onu, il presidente Obama non l'ha neanche citato?
  
"Tra i luoghi comuni più pericolosi vi è l'idea che il terrorismo sia la conseguenza del fallimento degli accordi di pace. È vero il contrario. Il terrorismo ha per obiettivo la distruzione di ogni possibilità di composizione politica. Il mondo islamico purtroppo non ha mai elaborato l'idea che al suo interno, possano esistere realtà politiche indipendenti. E' un dato su cui la storiografia e la politologia occidentale non ha adeguatamente riflettuto. Non è un caso che gli Stati arabi del Golfo, nonostante le loro enormi possibilità e pur essendo parte in causa del collasso sistemico che ha coinvolti i paesi della regione (Siria e Iraq) non muovano un dito per alleviare la tragedia delle centinaia di migliaia di persone che fuggono verso l'Europa. Ed è curioso che l'Europa, dilaniata da sfide fondamentali, non chieda a questi stati di fare la loro parte, per alleviare una tragedia umana che in parte li riguarda. E' su questioni del genere che l'Unione europea mostra i segni del suo fallimento".

(Il Mattino. 18 ottobre 2015)


"Insieme a Israele, per la vita"

di Adam Smulevich

Ruth Dureghello
Lo Stato di Israele non è solo e ha bisogno del sostegno di tutti i cittadini democratici, nessuno escluso, per segnare chiaramente il confine che separa le culture per la vita dalle ideologie di morte. È il messaggio che arriva da Roma, dove nelle scorse ore si è svolta una manifestazione di solidarietà alla popolazione israeliana davanti alla sua rappresentanza diplomatica nella capitale.
   Consapevolezza e unità, una duplice imprescindibile esigenza richiamata da Renzo Gattegna e Ruth Dureghello, presidenti rispettivamente dell'Unione delle Comunità Ebraiche e della Comunità ebraica romana. Significativa in questo senso la presenza al sit-in di delegazioni e leader delle diverse comunità territoriali (tra gli altri la presidente della Comunità fiorentina Sara Cividalli, la sua omologa napoletana Lydia Schapirer, il presidente anconetano Manfredo Coen - tutti intervenuti con un breve messaggio). "Assistiamo a una costante disinformazione su quanto accade. Ma Israele vincerà, perché la sua popolazione è forte e determinata nel suo istinto di sopravvivenza" assicura l'ambasciatore Naor Gilon. "La nostra forza, la forza di tutto il popolo ebraico, è anche in questo evento" conferma il vicepresidente della Comunità di Roma Ruben Della Rocca, che conduce la cerimonia.
   A portare un saluto esponenti di diverse forze politiche. Come spesso accade, non c'è invece traccia di organizzazioni che hanno fatto del pacifismo a senso unico una bandiera. "Dove sono?", si chiede il presidente dell'Unione. "Il lavoro che ci aspetta - incalza poi - quello di ristabilire la verità". Da Bruxelles a Parigi a Madrid (con cui viene imbastito un collegamento telefonico): le molte manifestazioni organizzate in contemporanea con Roma, sottolinea Dureghello, "rappresentano un chiaro segnale". Interviene a nome dell'Israel Jewish Congress Riccardo Pacifici, che denuncia la parzialità di alcuni organi di informazione.
   Diverse le testimonianze dal mondo istituzionale. Sul palco, tra gli altri, il presidente della Commissione Esteri della Camera Fabrizio Cicchitto (Nuovo Centrodestra), il senatore Lucio Malan (Forza Italia), il presidente del Pd romano Tommaso Giuntella, il presidente di Equality Aurelio Mancuso, il pd Umberto Ranieri, il dirigente di Fratelli d'Italia Marco Marsilio. Interviene anche Guido Guastalla, editore ed esponente della Comunità ebraica livornese. Un saluto a distanza invece per Marco Carrai, uomo di fiducia del premier Renzi.
   La manifestazione si chiude sulle note dell'Hatikva, l'inno dello Stato ebraico. Mentre dal cuore del presidio si leva con forza l'urlo "Am Israel Hai". Il popolo di Israele vive.

(moked, 18 ottobre 2015)


L'intifada è il suicidio dei palestinesi. I giovani sacrificati da una minoranza

di Carlo Panella

L'Intifada dei coltelli continua in Israele nella colpevole mancata condanna di un movimento insensato e dannoso per la causa palestinese da parte di Abu Mazen e dei leader arabi.
   Ieri, tre tentativi di accoltellamento, del tutto demenziali, da parte di tre giovani palestinesi che ovviamente sono stati uccisi. A Hebron, nelle vicinanze della «tomba dei Patriarchi» una ragazza - la prima donna a cimentarsi in questa sciagurata corsa verso la morte - ha tentato di accoltellare una soldatessa. Naturalmente, le soldatesse israeliane sono perfettamente addestrate anche nel combattimento corpo a corpo e quindi la vittima designata, feritasi alla mano per parare il colpo, ha reagito prontamente e ucciso l'aggreditrice.
   A Gerusalemme, tentativo ancor più privo di senso da parte di un giovane palestinese che si è avvicinato a una camionetta militare indossando il giubbotto a strisce gialle con la scritta 'Press" indossato dai giornalisti per garantirsi l'incolumità, si è avventato su un soldato isolato dalla sua pattuglia, l'ha atterrato e ferito, ma è stato ovviamente freddato dai commilitoni del ferito (la scena è ben visibile in Rete).
   Infine, nel quartiere di Gerusalemme Hamon ha Natziv, una pattuglia si è insospettita per il comportamento di un palestinese che si muoveva in modo palesemente goffo, come di chi prepara un agguato. Quando i soldati israeliani si sono avvicinati per chiedergli documenti il ragazzo ha estratto un coltello e ha tentato di colpire: ucciso.
   Dunque, questo insensato movimento chiamato pomposamente dai palestinesi «terza Intifada» non ha altro risultato che portare alla morte giovani fanatizzati. È chiaro che la popolazione israeliana, in cui tutti, uomini e donne hanno fatto tre anni di servizio militare super professionale e hanno combattuto in guerra, dopo la prima sorpresa, è allenata e non è più il facile bersaglio a sorpresa dei primi giorni (la prima vittima fu un vecchio e indifeso rabbino).
   Le cifre di questa corsa verso il suicidio parlano chiaro: 7 israeliani uccisi contro 39 palestinesi (tra i quali una decina sono morti nell'altrettanto insensato tentativo di abbattere la rete che segna il confine con Gaza, per una «invasione» individuale ovviamente bloccata dai militari israeliani).
   Pure Abu Mazen non ha la forza - morale e politica - per condannare questi accoltellamenti che portano alla morte certa gli aggressori e che sul piano politico non hanno alcuno sbocco. La sollevazione corale, di massa di decine di migliaia di manifestanti che contraddistinse negli anni '80 la prima «Intifada delle pietre» non si è verificata. Le manifestazioni palestinesi sono sì sparse per tutta la Cisgiordania, ma coinvolgono in ogni località poche centinaia di manifestanti. Hamas e Jihad islamica, ma anche le Brigate di al Aqsa, responsabili di centinaia di morti israeliani per kamikaze tra il 2001 e il 2004, filiazione di al Fatah (per questo Abu Mazen che ne è il leader mantiene il suo opportunistico silenzio), continuano a chiamare al jihad, emettono proclami di morte contro gli israeliani. Ma la sollevazione palestinese non si verifica e questa Intifada ogni giorno che passa si trasforma sempre più nel simbolo di una ennesima sconfitta ricercata.
   Intanto, i leader arabi, stanno a guardare. Non condannano questi gesti suicidi perché temono di apparire difensori di Israele, che continuano - al solito - a condannare perché ha la «colpa» di difendersi. E non fanno nulla, anche perché temono Hamas (membro della Fratellanza Musulmana) e le sue propaggini dentro i confini dei loro paesi.

(Libero, 18 ottobre 2015)


Roma - La «marcia silenziosa» senza Marino

Fiaccolata per non dimenticare la Shoah: assente il sindaco dimissionario, il vice Causi con la fascia tricolore.

di Erica Dellapasqua

 
C'erano il presidente della Regione Nicola Zingaretti, il prefetto Franco Gabrielli accompagnato da un figlio, il ministro per le Riforme Maria Elena Boschi e, con la fascia tricolore, Marco Causi, il vice del sindaco dimissionario Ignazio Marino, grande assente alla fiaccolata che, ogni anno dal 1994, la Comunità di Sant'Egidio organizza con la Comunità ebraica in ricordo del rastrellamento nazista degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Mille persone, prese e deportate nel campo di concentramento di Auschwitz, solo in sedici e solo una donna tornarono a casa.
   «Non c'è futuro senza memoria»: dietro lo striscione, trascorsi 72 anni dal giorno più buio, ieri sera si sono accodati in tantissimi, dai bambini delle scuole ai ragazzi della Comunità di Sant'Egidio, fino alle istituzioni. Perché tutti, «soprattutto le giovani generazioni - è stato il monito che ha aperto la fiaccolata -, non dimentichino la deportazione avvenuta durante l'occupazione nazista: la memoria del passato ci spinge oggi anche a riflettere sul dovere dell'accoglienza, di fronte all'arrivo in Europa di tanti uomini e donne che fuggono dalle guerre e dalla violenza».
   In rappresentanza della Comunità ebraica, il rabbino capo Riccardo Di Segni e la presidente Ruth Dureghello. Poi Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio. Ritrovo alle 19.30 in piazza di Santa Maria in Trastevere. Candele accese. Sussulti per la partita della Roma e schiamazzi della movida soffocati dal messaggio, più importante, comprensibile in tutte le lingue: «Dachau», «Mauthausen», «Bergen Belsen», «Auschwitz». Cartelli che hanno imposto il silenzio e il ricordo, anche ai turisti che attraversavano Trastevere per caso. Poi via della Lungaretta, viale di Trastevere e, tutti assieme, fino alla Sinagoga. Quasi tutti. Mancava Ignazio Marino, il Comune era rappresentato da Marco Causi, che indossava la fascia tricolore: «Siamo tutti qui in ricordo di uno dei momenti più drammatici della storia di Roma e d'Italia - ha detto il vicesindaco -. La memoria è importante, perché ci siamo lasciati alle spalle terribili ferite ma la storia potrebbe sempre ripetersi in male».
   E il sindaco? «Siamo qui per parlare di memoria, non di politica». Un'assenza, quella di Marino, che era forse nell'aria. I rapporti si sono fatti tesi, in via ufficiale, in occasione della manifestazione degli «urtisti» in piazza del Campidoglio ad agosto quando - per la prima volta - anche il rabbino capo scelse di stare al fianco dei venditori ambulanti di souvenir coinvolti nel trasferimento dei camion bar dall'area archeologica della città. «Marino hai tolto gli urtisti, hai lasciato gli abusivi», «TI sindaco offende la comunità ebraica con false promesse», «Cancellati 100 anni di storia di Roma», si leggeva sugli striscioni dei manifestanti mentre anche Di Segni ribadiva che «le promesse e i rinvii del Campidoglio sono intollerabili, vogliamo sostenere questa categoria a rischio».
   I mesi sono passati, ma almeno su quel fronte nessuna soluzione è stata trovata tanto che il 3 settembre, quando ancora Marino era nel pieno delle funzioni, si valutò da parte della Comunità l'opportunità di un invito formale al sindaco per la fiaccolata. Ieri sera è finita così, col futuro ex sindaco grande assente ed altri «reggenti» della Capitale, a partire da Gabrielli, a mantenere vivo il ricordo. «La memoria deve essere il sesto senso di tutti gli uomini e le donne, senza memoria non c'è cultura, la memoria è uno scudo contro il male - ha detto il ministro Boschi -. Certe tragedie non si possono spiegare, ma noi abbiamo il dovere di continuare a raccontarle».

(Corriere della Sera - Roma, 18 ottobre 2015)


Il manuale choc per accoltellare gli ebrei
Oggi è tutto "choc", mentre invece purtroppo non c'è niente di "choccante" in queste azioni assassine perché in realtà sono il frutto di una lunga azione "educativa" islamica ben nota e colpevolmente ignorata o minimizzata da chi riporta le notizie.


I palestinesi che insegnao sul web come accoltellare e uccidere gli ebrei: «Avvelenate le lame e colpite alla giugulare».

di Fiamma Nirenstein

È certamente peccato che Bian Asila, 17 anni, abbia tentato di colpire una soldatessa a Hebron, l'abbia ferita a una mano e poi sia rimasta uccisa quando la soldatessa ha reagito. É peccato, come lo è che un altro ragazzo abbia seguito la stessa sorte. Ma ieri sono stati di nuovo tre gli attentati terroristici, due a Hebron e uno a Gerusalemme: i giovani cercano di colpire chi gli capita a tiro, soldati o civili, e la reazione può essere letale. Molte volte non è così e allora, come nel caso di Shuria Dweyat, 17 anni, o di Feli Alloun o del tredicenne Ahmed Manasra (la cui vittima tredicenne anch'essa è ancora in gravissime condizioni) che Abu Mazen aveva dato per «giustiziato», i giovani vengono ricoverati all'ospedale e curati. E poichè tutti sono arabi israeliani, oltre alla doverosa cura che i soccorritori e i medici riservano loro, si attiva anche tutto il trattamento assicurativo che ogni israeliano paga con le tasse. E di fatto moltissimi dei giovani terroristi vivono come ogni israeliano, hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, salvo quello di votare alla Knesset e di fare il servizio militare. Ma se si guarda alle loro case e alle loro vite, si scorge una doppia immagine che complica molto la definizione semplicistica che si dà dei terroristi come di giovani senza speranza. Molti di loro sono studenti, molti proprio (come i loro genitori lamentano quando ne rivendicano l'innocenza) «guardano Tom e Jerry alla tv», molti hanno una moto, amano i vestiti, le ragazze si fotografano con allegri selfie. La loro vita, in cui c'è la musica e il cinema e si può parlare fra i ragazzi dei due sessi, è però avvelenata da quella che è la causa scatenante di questa guerra. Un bruco infame scava nella loro testa sin dai tempi dell'asilo infantile, quando la tv mostra loro Mickey Mouse ucciso dai soldati israeliani, o si applaude una bambina di cinque anni che dice che vuole diventare grande perchè così potrà uccidere un israeliano. L'incitamento ha distrutto il processo di pace, l'obiettivo di distruggere Israele è molto più presente, Abu Mazen può ringraziare la condiscendenza al fiume d'odio che lo ha portato a legiferare per uno stipendio fisso ai terroristi in carcere e a dare il loro nome alle piazze se ora questa Intifada ne mette a repentaglio il potere.
   In questi giorni sui social network troveremo una quantità di orrifiche indicazioni su come ammazzare. Zahrab Barbah spiega dove infilare il coltello sotto l'ashtag «stab», pugnala, e lo fa Yussuf con l'ashtag «uccidere gli ebrei». Si presenta uno schema scientifico del corpo umano e si indica bene la giugulare: «A destra, se colpita dà solo un minuto di vita». Si deve anche «colpire la testa, poi girare il coltello e dopo estrarlo».
   Karen da Gaza spiega: «Inzuppa il coltello nel veleno, così anche se il pugnale non uccide, il veleno lo farà». Altrove si scrive di badare che non ci siano vie di fuga, ma più che altro molti incitano a lasciare le armi grosse «perchè gli israeliani usano metal detector, basta una siringa caricata a veleno». Quale veleno? É facile: acido solforico o gas.
   La lista dell'incitamento è infinita, impossibile non conoscerla, ma lo è anche quella di chi sui mezzi di stampa ama definire i cittadini colpiti dal pugnale «settler», «coloni», «ebrei ultraortodossi» per privarli della loro identità di israeliani e per segnalare una connivenza con il politically correct che non considera esseri umani uguali i cittadini del West Bank. Non si ricorda che si tratta di territorio conquistato dalla Giordania durante una guerra, destinato dall'Onu a una trattativa che i palestinesi non vogliono affrontare. La verità è che sotto tutta questa ignominia c'è il sogno di vedere sparire lo Stato d'Israele. Netanyahu e Kerry stanno per incontrarsi a Berlino. Dopo le sue affermazioni avventate a quelle del portavoce del Dipartimento di Stato che accusavano Israele di costruire troppo (Netanyahu è il Premier che ha costruito meno di tutti nell'West Bank) e di usare forza eccessiva contro il terrore, Obama ha invece riconosciuto il diritto di Israele a difendersi. Finalmente. Chissà che lo studio forzato dei documenti non induca il modo intero a raccontarsi un giorno la verità.

(il Giornale, 18 ottobre 2015)


Torino - Start-up, potenziale in crescita

di Emanuele Levi

Politecnico di Torino, Technion di Haifa. Molti gli spunti dalla seconda giornata di incontri nel capoluogo piemontese che hanno approfondito i risultati ottenuti dalla collaborazione tra le due prestigiose realtà accademiche. Ad inaugurare la sessione i saluti rettore del Politecnico, Marco Gilli. In sala tra gli altri il vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giulio Disegni.
   Brillante l'intervento di Rafi Nave, direttore del "Bronica Entrepeneurship Center" del Technion, che ha tracciato un parallelismo fra Israele, paese diventato immagine simbolo delle Startup Nation, e l'Italia, intesa come terra col potenziale di divenire un'altra nazione high-tech.
   Nave ha quindi accuratamente descritto i caratteri delle eccellenze israeliane, che secondo le sue analisi trovano radici nell'atteggiamento "I know better" (una forma di intrinseco rifiuto nel farsi dettare le regole dalle autorità culturali) e nella serenità che molti israeliani hanno, di fatto, nell'accettare i propri fallimenti e perseverare. L'intervento si è chiuso con alcune osservazioni sull'influenza dello Stato a proposito della politica del "do no harm", che consiste nello spronare le varie strutture sociali a investire senza, tuttavia, cercare eccessivamente di controllare lo sviluppo dei prodotti.
   Ha quindi preso la parola David Shem-Tov, ceo di T-Factor, Technion. Il discorso di Shem-Tov ha assunto dei toni tecnici nel tentativo di spiegare il complesso meccanismo degli incubatori e degli acceleratori nel campo delle start-up, descrivendo il ruolo dell'OCS (Office Chief Scientist) nello Stato d'Israele e dei sussidi dati dagli acceleratori, interni al Technion stesso, erogati agli emergenti. Ha poi spiegato il rapporto tra le varie parti del processo, nello specifico Kamim, Nofar, Meymad e Magneton, che hanno il carattere peculiare di unire i connotati del "saper fare" accademico alle domande dell'industria, in una lucida comunicazione delle reciproche necessità.
   Shem-Tov ha così descritto nel dettaglio i tratti dell'ecosistema israeliano dell'innovazione che, riepilogando, si dimostra essere una convergenza di interessi tra cultura, governo, accademia, industria e investitori.
   È poi intervenuto Paolo Pomi che, nella presentazione della sua startup Innova, ha illustrato il valore di un buon incubassero come PniCube sul suolo italiano. Dopo il breve intervento, Marco Cantamessa, presidente di PniCube e CEO di l3P, ha spiegato il funzionamento degli incubatori a Torino e sul suolo italiano. "L'Italia" - dice Cantamessa - non ha ancora sviluppato dei poli centralizzati capaci di attrarre start-up, come possono essere Tel Aviv, Haifa o pure la Silicon Valley, ma ci sono città che stanno iniziando a manifestare il ruolo di attrattori quali Milano, Roma e Torino". "La sfida - ha proseguito - sta nel comprendere se l'Italia è un paese fecondo, vergine o sterile per quanto riguarda gli investitori, ma l'ecosistema di Torino stessa si sta muovendo in una direzione promettente, pur mancando ancora un capitale d'investimento come c'è in Israele"
   Agli interventi è seguita una pausa caffè, con buffet e la possibilità per gli studenti di riflettere su quanto era stato detto, in un clima di grande interesse ed entusiasmo. L'ultima fase dell'incontro Torino-Politecnico è stata l'apertura di una tavola rotonda in cui si potessero discutere gli stimoli precedentemente posti e il clima generale della collaborazione.
   "Sarebbe interessante fare una conferenza del genere, ma con una variante. Sostituirei agli studenti degli imprenditori torinesi: la cosa potrebbe creare un clima interessante" ha affermato Giulio Disegni.
   Interpellato sulla collaborazione tra i due atenei, Shem-Tov ci ha risposto: "Riteniamo che il ruolo del Technion e di Israele in questo rapporto possa divenire, possibilmente presto, di scambio. L'Italia ha buone possibilità di emergere nel campo delle start-up e dell'high tech, tuttavia, come abbiamo notato, manca una buona dose di know-how, o saper fare, a chi desidera cimentarsi in tali attività e sicuramente servirebbe una base legale al fine di permettere ad essi una maggiore libertà di azione".

(moked, 18 ottobre 2015)


L'imam antisemita della Boldrini rinvia la visita dopo le critiche

Infiamma la polemica per la lectio magistralis alla Camera dell'imam del Cairo che vuole distruggere Israele. Tutti le chiedono di sospendere l'incontro, ma la Boldrini non ci sente.

di Sergio Rame

Avrebbe dovuto essere un intervento sulla pace, almeno sulla carta. Ma ha scatenato pesantissime polemiche nelle stanze della politica tra chi considera Ahmed al Tayyeb un pericoloso antisemita e chi invece ritiene sia il portavoce dell'islam moderato, interlocutore imprescindibile per combattere il terrore dello Stato Islamico.
   E, a pochi giorni dalla lectio magistralis avrebbe dovuto tenere alla Camera, l'imam di Al Azhar preferisce rinviare il viaggio in Italia.
   Su richiesta della commissione Esteri della Camera, la presidente della Camera Laura Boldrini aveva invitato il leader del più importante centro teologico sunnita del mondo a parlare il prossimo 21 ottobre alla Sala della Regina di Montecitorio sul tema Islam, religione di pace. Dopo le perplessità espresse giovedì dal presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello, secondo alcune fonti, la comunità ebraica ha segnalato direttamente alla Boldrini la figura e il pensiero dell'imam "in modo di consentire alle istituzioni un'esatta valutazione della vicenda in questione". Ma la presidenza della Camera è andata avanti a difendere l'imam antisemita a oltranza finché non è stato lo stesso Ahmed al Tayyeb a fare un passo indietro rinviando il viaggio in Italia.
   La miccia sulla lectio magistralis è stata accesa da un articolo del Foglio che accusava il teologo e filosofo egiziano di aver "invocato più volte la distruzione di Israele". Un'accusa involontariamente cementata oggi dallo stesso imam che, in un'intervista alla tivù egiziana, ha invocato "l'unità del mondo arabo e musulmano contro il comune nemico sionista". La levata di scudi è bipartisan. "Le parole dell'imam di Al Azhar - ha commentato il piddì Emanuele Fiano - sono di un tenore tale che andrebbe revocato il suo invito al parlamento italiano". Per l'azzurro Maurizio Gasparri la scelta di invitare Tayyeb è "a dir poco irresponsabile". "La Boldrini a casa sua può fare quello che le pare - ha attaccato il senatore di Forza Italia - ma non si usi il Parlamento italiano per esaltare il furore ideologico e antisemita scrivendo una pagina ignobile della storia delle nostre istituzioni. Mi auguro che almeno il presidente Grasso sappia difendere il ruolo del parlamento". Il presidente del Senato è stato tirato in ballo anche dai senatori Luigi Compagna (Ncd), Mario Ferrara (Gal) e Lucio Malan (Fi) che, in una lettera, hanno chiesto il suo intervento nei confronti di "un fiero militante del più fiero antisemitismo".
   Feroce antisemita o simbolo dell'islam moderato contro la barbarie dell'Isis? In passato l'imam, alla guida della più prestigiosa istituzione sunnita che tra i suoi compiti si prefigge "una formazione religiosa per l'islam moderato", si è distinto per una durissima condanna nei confronti dei tagliagole dello Stato islamico. A giugno, parlando alla Camera dei Lord britannica definì "ingiusto e inaccettabile giudicare le religioni dalle azioni di alcuni estremisti". Per l'imam Yahya Pallavicini, vicepresidente della Coreis (Comunità religiosa islamica italiana) e direttore per il Dialogo Interreligioso della Moschea di Roma, è "una delle voci tra le più qualificate del mondo sunnita e rappresenta un'istituzione millenaria". Ma il problema resta: è possibile dialogare con un imam che professa la distruzione di Israle?

(il Giornale, 17 ottobre 2015)


"E' possibile dialogare con un imam che professa la distruzione di Israele?" Certo, pensano molti, tra cui il Presidente della nostra Camera dei Deputati, Laura Boldrini. Il grande imam è per la pace - dice - e quindi bisogna lasciarlo parlare. E che fa se dice anche che Israele dev'essere distrutto: nel pensiero islamico le due cose non sono in contraddizione. Anzi, se sparisce Israele il mondo intero sarà certamente più tranquillo. La cosa è interessante - avrà pensato la Boldrini - parliamone. M.C.


Il chirurgo arabo: "Nel mio reparto vittime e carnefici sono solo pazienti"

Ahmed Eid, 65 anni, primario del maggiore ospedale ebraico di Gerusalemme: è solo una questione di volontà.

di Maurizio Molinari

Il chirurgo Ahmed Eid
GERUSALEMME - Le vite di attentatori e vittime dell'Intifada dei coltelli vengono salvate da un chirurgo arabo primario del maggiore ospedale ebraico di Gerusalemme, che con il suo lavoro sfida pregiudizi e ideologie di ogni matrice. Ahmed Eid, 65 anni, viene dal villaggio arabo-israeliano di Daburiyya, sulle pendici del Monte Tabor in Galilea, ed il Dipartimento di Chirurgia che guida nell'ospedale Hadassah di Mt Scopus è un microcosmo del Medio Oriente.
  Nella terapia intensiva c'è Naor, 13 anni, vittima a Pisgat Zeev delle coltellate del coetaneo palestinese Ahmed Manasra. Poco più avanti, fra i feriti in fase di recupero, c'è Yosef, 21 anni, a cui sempre Manasra ha causato tre profonde ferite. In fondo al corridoio c'è un divano nero dove per 48 ore di seguito si è seduto Walid Zreina, fratello della donna palestinese di 31 anni di Gerico che gridando «Allah hu-Akhbar» ha fatto esplodere la bomba che aveva nella propria auto ad un posto di blocco davanti all'insediamento ebraico di Maalein Adumim. La kamikaze palestinese ed il bambino israeliano di Pisgav Zeev sono stati operati nella stessa sala operatoria, dallo stesso team di medici che affiancano Ahmed Eid. Nel suo studio, al terzo piano dell'ospedale, Eid ha le lauree in Medicina e Matematica ottenute all'Università Ebraica di Gerusalemme appese a fianco alle immagini del villaggio arabo della Galilea da cui proviene.

 Doppia identità
  L'identità araba e quella israeliana si sovrappongono nella sua storia personale e professionale - è stato il primo chirurgo ad effettuare un trapianto di fegato nello Stato ebraico - e si sente a proprio agio all'Hadassah «perché in questo ospedale israeliano il 60 per cento dei pazienti ed il 20 per cento di dottori e infermieri sono arabi».
  Basta guardarsi intorno per accorgersene. Ci sono ambulanze della Mezzaluna Rossa e del Magen David Adom fianco a fianco davanti al pronto soccorso, ebrei ortodossi e donne arabe con i rispettivi figli nella sala giochi, pazienti arabi assistiti da dottori ebrei e viceversa. Ilanit Tal, direttrice delle infermiere di chirurgia, vive nell'insediamento ebraico di Maalei Adumim, in Cisgiordania, ed ha un team di 30 persone, cinque delle quali arabe musulmane della Galilea. Due di loro, Ruba di 24 anni e Rabia di 28 anni a causa dell'Intifada dei coltelli le hanno confessato di aver paura di prendere gli autobus e l'Hadassah gli ha trovato un posto dove dormire nei pressi dell'ospedale. «Arabi e israeliani, ebrei, musulmani e cristiani - dice Ahmed Eid - qui siamo tutti accomunati dalla missione di salvare vite, controlliamo le nostre opinioni e cooperiamo per aiutare il prossimo, senza chiederci chi è, cosa ha fatto o chi lo ha ferito». Sono due i fattori che, per Eid, distinguono l'Hadassah. Il primo è geografico: «Si trova assai vicino ai quartieri arabi di Gerusalemme come agli insediamenti ebraici in Cisgiordania e dunque i nostri pazienti vengono dagli estremi opposti del conflitto israelo-palestinese». E il secondo ha a che vedere con una scelta personale: «Chiunque lavora qui ha idee molto diverse sul conflitto ma le esprime in casa, con gli amici, senza farle entrare in ospedale».

 L'esperienza
  Il risultato è che Ahmed Eid somma esperienza e conoscenza delle ferite riportate tanto dalle vittime che dagli attentatori. Ecco come le descrive: «Una coltellata è molto più seria di quanto appare perché comporta nella vittima grandi perdite di sangue, shock in tutto il corpo e trafigge l'organismo causando danni potenziali in più luoghi», mentre i colpi sparati dagli agenti a distanza ravvicinata «possono uccidere se non si interviene in fretta». Uscendo dal suo studio, si prova la sensazione che esista un Medio Oriente diverso, dove i singoli riescono a dominare gli istinti per far prevalere l'interesse collettivo. «In fin dei conti, è solo una questione di volontà», parola di chirurgo.

(La Stampa, 17 ottobre 2015)


Napoli - Masterchef: i due cuochi israeliani si sfidano a fare la pizza

La serie televisiva di cucina più amata e seguita al mondo "Masterchef" sceglie il capoluogo partenopeo per una competizione molto particolare. I due temuti giudici di fama mondiale dell'edizione israeliana Eyal Shani e Yonatan Roshfels si sono dati appuntamento da Gino Sorbillo e suo fratello Antonio nella sede della storica pizzeria di Via Tribunali per sfidarsi ed essere valutati proprio dal pizzaiolo del centro storico di Napoli.
   "E' stata una sfida all'ultima pizza - racconta Gino - i due grandi Chef si sono esibiti nel prepararmi 3 pizze cadauno per ottenere la vittoria. Hanno comprato tanti prodotti presso i negozietti tipici della zona nell'incredulità di decine e decine di persone che li hanno riconosciuti".
   Protagonisti della puntata, ovviamente, il Pomodoro San Marzano Dop, la Mozzarella di Bufala Dop, l'Olio Evo Biologico ed il Pomodorino del Piennolo del Vesuvio Dop. L'impasto è' stato preparato con Farina Biologica Integrale e Farina Biologica Tipo 0 fornita da Gino Sorbillo. Ai due forni i famosi Chef avevano a disposizione 20 minuti.
   Fuori alla Pizzeria Sorbillo si è' formata una folla di curiosi che si è messa in fila per poter assistere dal vivo allo show. "Erano felicissimi, l'atmosfera dei vicoli di Napoli li ha praticamente stregati" racconta Antonio.
   "Abbiamo cominciato alle 8 e abbiamo finito alle 13:30 - prosegue Gino - Non è' stato facile decidere il vincitore. I giudici, poi, hanno confidato che per la prima volta in tanti anni si son ritrovati "dall'altra parte" ed hanno capito meglio lo stato d'animo dei concorrenti che loro sono abituati a giudicare"."Dopo abbiamo sfornato, continuano Gino e Toto, decine e decine di classiche Pizze Napoletane a tutti: Margherita, Marinara, Diavola, Piennolo del Vesuvio Dop ed anche tante variazioni".
   In chiusura tutta la troupe e gli ospiti israeliani hanno prima visitato la Casa della Pizza subito dopo di nuovo in strada per inaugurare la nuova "Sala Ferro di Cavallo" della nuova pizzeria a via Tribunali. "Non poteva esserci un'inaugurazione migliore" afferma Gino.

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(Il Mattino, 17 ottobre 2015)


Daniel Pipes: "Questa violenza in Israele non darà risultati"

Il direttore del think tank di destra Middle East Forum: "In questa situazione non c'è nulla di nuovo, da decenni i palestinesi seguono le stesse tattiche, ma senza alcun risultato: perché sono sbagliate, oltre a essere criminali".

di Arturo Zampaglione

NEW YORK - Accoltellamenti, incendi, sassaiole, sparatorie e soprattutto tanti morti: Daniel Pipes che cosa c'è dietro a questa ondata di violenze in Israele?
"Non c'è nulla di nuovo. Ormai da decenni i palestinesi seguono le stesse tattiche, ma senza alcun risultato: perché sono sbagliate, oltre a essere criminali".
Autore di decine di saggi e direttore del Middle East Forum, un think tank conservatore, Pipes non è mai stato tenero nei confronti dei palestinesi e tanto meno del presidente Abu Mazen, che definisce un "mostruoso bugiardo ". Parlando con Repubblica spiega come i falchi americani vedono questa crisi.

- Non pensa che le tattiche palestinesi cui si riferisce siano il prodotto della disperazione di un popolo?
  "E' l'inverso: la disperazione nasce dai ripetuti insuccessi di tattiche sbagliate".

- Quali sarebbero a suo avviso le tattiche "giuste"?
  "Se i palestinesi volessero veramente un loro stato indipendente, come dicono, dovrebbero lavorare assieme a Israele, non puntare alla sua distruzione".

- Vede un collegamento tra l'escalation russa in Siria e queste "giornate della rabbia"?
  "L'attenzione mondiale è tutta rivolta all'Is e alla Siria: i palestinesi stanno approfittando della distrazione internazionale".

- Ma John Kerry non è distratto e sta per tornare nella regione. Che cosa otterrà?
  "Niente, è solo un presuntuoso. Da quando è stato segretario di Stato non ha portato ad alcun risultato concreto".

(la Repubblica, 17 ottobre 2015)


Una Terra Promessa a troppi
Articolo ottimo!


di Stefano Magni

Nablus, una folla inferocita, ma ben organizzata, di palestinesi ha dato fuoco alla tomba di Giuseppe, uno dei luoghi più sacri all'ebraismo. L'immagine dell'incendio dell'antica tomba spiega, più di mille discorsi, la natura della nuova Intifada palestinese. Non si tratta di scacciare un esercito o di colpire uno Stato e i suoi simboli, ma di colpire gli ebrei e la loro religione. Si colpiscono i civili per strada, come quelli che per caso si trovano per strada a Gerusalemme ad attendere un bus e vengono travolti da un'auto in corsa, per poi essere finiti a colpi d'accetta dal terrorista che la guida.
  E' successo veramente, quattro giorni fa. Il fatto è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza e diffuso sul Web dall'IDF, giusto per far vedere al mondo che cosa gli ebrei debbano affrontare ogni giorno. Si colpisce la religione: per i palestinesi, secondo la storia che imparano sin da bambini, a Gerusalemme gli ebrei non sono mai esistiti. Il Tempio non è mai esistito sulla Spianata. Gesù non è mai stato ebreo. Qualunque ricerca archeologica che dimostri il contrario viene interpretata come una cospirazione ebraica per falsificare la storia. L'incendio della tomba di Giuseppe è solo l'ultimo dei tentativi di cancellare la storia ebraica dai luoghi della Terra Promessa.
  Ed è questo l'aspetto che troppo spesso viene confuso o ignorato (spesso e volentieri: deliberatamente ignorato) del conflitto mediorientale. Quando ci si accosta alla storia dell'ormai secolare guerra fra arabi ed ebrei in Medio Oriente, la si legge, su quasi tutti i libri di storia e gli articoli di approfondimento, come una delle tante lotte per l'indipendenza di un popolo (quello palestinese) da un occupante (Israele). Si applica al Medio Oriente lo stesso modello interpretativo usato per tutte le cause indipendentiste o irredentiste europee, come quella dei baschi, dei catalani, dei corsi, dei nord-irlandesi, ecc… La realtà mediorientale, però, è completamente differente. Non c'è un popolo che vuole l'indipendenza da uno Stato, ma ci sono due popoli che si contendono lo stesso identico territorio. La Palestina, così come viene raffigurata nelle mappe ufficiali dell'Autorità Palestinese, ha esattamente gli stessi confini che oggi appartengono a Israele. Non è un pezzo di Stato che se ne vuole andare, dunque, ma uno Stato che vuole sostituirsi a un altro. La questione dei confini, su cui la diplomazia delle maggiori potenze mondiali ha sempre lavorato, nel caso del Medio Oriente è completamente superflua. L'Autorità Palestinese può anche accettare temporaneamente una sistemazione entro i confini (tuttora da definire nei dettagli) della Cisgiordania e di Gaza, può anche accettare la formula, tutta occidentale, dei "due popoli in due Stati". Ma l'ammetterebbe solo come primo passo verso l'obiettivo finale. Che è la conquista di tutto il territorio israeliano. Non solo questo obiettivo è dichiarato e declamato da tutti i leader palestinesi, da Arafat in avanti, ma è reso esplicito dalle richieste della parte palestinese in ogni negoziato internazionale, prima fra tutte quella del "diritto al ritorno" di tutti i profughi palestinesi e di tutti i loro avi. Un atto che, da solo, sommergerebbe demograficamente Israele, trasformandolo di colpo in uno Stato a maggioranza araba e musulmana.
  Si parla molto spesso di "guerra asimmetrica" quando si cerca di descrivere il lungo conflitto mediorientale. Asimmetrica perché combattuta da un esercito regolare moderno, quello israeliano, contro movimenti di guerriglia o gruppi terroristici, armati di sassi, armi improprie, armi di contrabbando, razzi e cinture esplosive. E' però una guerra asimmetrica anche nei fini: Israele mira alla sua sopravvivenza, i palestinesi (e tutti i paesi arabi e islamici che li sostengono) mirano alla sua conquista e alla sua trasformazione in uno Stato a maggioranza araba e musulmana. In una guerra in cui questi sono i fini, ogni soluzione razionale è impossibile. Israele sarebbe anche disposta ad arretrare i suoi confini e a modificarli, ma non rinuncerebbe mai alla sua indipendenza, tantomeno al suo carattere di Stato ebraico, anche se laico, che lo rende unico al mondo. Dall'altra parte, la causa araba non sarà mai soddisfatta finché Israele non cesserà di esistere per come finora lo abbiamo conosciuto. E per la causa islamica, oggi prevalente nel mondo arabo, la guerra non finirà finché gli ebrei, con la loro religione, i loro monumenti e i loro luoghi sacri non saranno cancellati dal Medio Oriente, o ridotti a "dhimmi", sottomessi, come avviene già con le minoranze cristiane nei territori controllati da regimi islamici. Per entrambe le parti, la terra che include Gerusalemme è la Terra Promessa. Oggi è il premio finale, la promessa definitiva di ogni gruppo jihadista, da Hamas all'Isis.
  Questa è la posta in gioco. Dunque la guerra durerà ancora a lungo, rendendo illusorie le soluzioni all'occidentale, quelle che prevedono spartizioni di terre e accordi economici. La fine del conflitto non arriverà con niente di tutto questo. Ci sarà solo quando, come affermava a suo tempo Golda Meir (1898-1978): "Gli arabi ameranno più i loro bambini di quanto odino noi". A giudicare dai bambini di dieci, undici, dodici anni che in questi giorni rischiano la vita pur di pugnalare un ebreo, un ebreo qualunque purché sia ebreo, il tempo della pace è ancora lontanissimo. In ogni caso la via è quella. Dovrebbe affermarsi, nella leadership e nella cultura araba, l'idea che Israele ha diritto di esistere quale Stato indipendente, sovrano ed ebraico. Solo quando si diffonderà quell'idea, solo quando la maggioranza degli Stati arabi e islamici riconoscerà anche formalmente lo Stato di Israele, allora potrà finire il conflitto.

(L'Opinione, 17 ottobre 2015)


Palestina come il Califfato. A fuoco le tombe dei patriarchi

L'attacco al sepolcro di Giuseppe, luogo di culto pure per i musulmani, assomiglia alle gesta dell'Isis in Siria e Iraq. Una svolta nella strategia di Hamas di cui anche l'Onu è responsabile.

di Carlo Panella

 
L'assalto e l'incendio a colpi di molotov della tomba di Giuseppe a Nablus segna una svolta radicale nella scena palestinese e fornisce ancora maggiori ragioni al governo israeliano per usare il pugno di ferro. Prova infatti che ormai il movimento palestinese di protesta violenta vede emergere con forza al suo interno militanti che hanno la stessa ideologia salafita e fanatica dell'Isis, che distruggono monumenti sacri anche all'Islam, perché pervasi da odio iconoclasta che abbiamo già visto in atto in Siria e Iraq. La tomba di Giuseppe, figlio di Giacobbe e di Rachele, infatti è un luogo sacro anche per i musulmani che lo venerano come gli ebrei e i cristiani. Questo perché Maometto dedica un'intera Sura del Corano, la dodicesima, all'episodio biblico e Yusuf (nome comune nel mondo islamico) vi è definito «un grande profeta» (Maometto pretende di essere la continuazione della profezia narrata nella Bibbia e nel Vangelo e quindi se ne impadronisce).
   Quella tomba è stata quindi volutamente distrutta perché il centinaio di palestinesi che hanno partecipato all'azione intendeva distruggere l'idolatria, il culto degli oggetti da parte dei musulmani, non solo «combattere il nemico sionista». Il tutto a Nablus, in piena Cisgiordania, in una zona in cui non era presente l'esercito israeliano - che è presente solo una volta al mese quando arrivano i pellegrini ebrei - ma operavano le forze di sicurezza della Autorità Nazionale Palestinese in mimetica nera, armate di pistole e Kalashnikov, che naturalmente non hanno assolutamente difeso l'edificio sacro.
   Due notizie in una che si sintetizzano in un dato di fatto: il vuoto d'iniziativa, l'incapacità di trattare, l'estremismo delle pretese di Abu Mazen (che tra l'altro pretende il "ritorno" di milioni di palestinesi, figli dei profughi delle guerre dal 1948 in poi, in modo da sommergere una popolazione ebraica diventata minoritaria in Israele), danno spazio ad estremismi sempre più radicali. Aprono il terreno a gruppi ben più radicali, oltranzisti e feroci di Hamas e Jihad islamica. Organizzazioni che peraltro continuano a soffiare sul fuoco della rivolta che sinora è costata la vita a una decina di israeliani e a una quarantina di palestinesi.
   Da Gaza, il leader di Hamas ha esortato «a continuare l'Intifada a Gerusalemme e a intensificare la resistenza», avvertendo che «qualsiasi tentativo di sedarla deve essere impedito». Messaggio diretto anche, e forse soprattutto, ad Abu Mazen (che ha definito «irresponsabile» la distruzione della tomba di Giuseppe) che ha sinora chiesto di manifestare «senza violenza», che naturalmente non è stato ascoltato, e che comunque dispone di migliaia di uomini armati nelle forze della sicurezza palestinesi che non potranno che intervenire se la violenza aumenterà.
   Hamas, lo ricordiamo sempre, ha oggi suoi "ministri tecnici" nel governo palestinese e quindi se disgraziatamente fosse stato riconosciuto lo Stato di Palestina - come chiedono l'Onu, certa sinistra e le anime belle d'Europa - oggi questo Hanyeh che incita i palestinesi ad accoltellare alle spalle i civili ebrei sarebbe forse premier, ma sicuramente una figura chiave dello Stato. Abu Mazen, che mostra sempre più di non sapere a che santo votarsi e che vede la sua leadership consumarsi nel nulla in questa escalation di violenze palestinesi - perché non sa e non vuole fare la guerra a Israele - ma non sa e non vuole neanche fare la pace, si è ridicolmente limitato «a formare immediatamente una commissione d'inchiesta sull'incendio di Nablus» e ha dato disposizioni per riparare i danni. Gesto, che peraltro ha dato spazio alla parte più oltranzista e antipalestinese della società israeliana, che non senza ragione constata oggi che solo l'esercito di Israele vuole e sa garantire l'esercizio libero di tutti i culti, in primis quello musulmano, in tutti gli edifici sacri del territorio che controlla.
   La "giornata della rabbia" proclamata da Hamas e da Jihad islamica con manifestazioni in tutta la Palestina - con partecipazione scarsa in Cisgiordania- ha provocato nuovi scontri alla frontiera tra Gaza e Israele con le forze di sicurezza israeliane che hanno impedito ai manifestanti di entrare in territorio israeliano: tre i palestinesi morti al valico di Eretz. Gravissimo, inoltre, l'accoltellamento di un soldato israeliano a Kiryat Arba, alle porte di Hebron; l'accoltellatore palestinese infatti - subito ucciso - si è travestito da giornalista per avvicinare il soldato e esibiva un tesserino, vero, della Fpa, che permette agibilità alla stampa nei Territori. Un trucco infernale.

(Libero, 17 ottobre 2015)


Palestinesi nel caos: il fallimento della terza intifada

La terza intifada, che noi chiamiamo più correttamente "Jihad Palestinese", non riesce a decollare nonostante l'impegno profuso da Hamas, dalla Jihad Islamica e nonostante i tentativi di infiammare le folle da parte di Abu Mazen con l'uso sistematico di bugie. Al momento sembra più un qualcosa di mediatico a uso e consumo dei media occidentali perché quelli arabi non se ne stanno interessando più di tanto, tanto che la chiamano la "intifada dei giovani" quasi a rimarcare che dietro non c'è nessuna vera organizzazione.
   In realtà non è proprio così. La terza intifada, o Jihad Palestinese, nelle menti di chi ci sta lavorando da mesi, cioè la Jihad Islamica legata all'Iran, doveva essere prima di tutto uno schiaffo alla Autorità Palestinese (ANP) e ad Hamas rei di trattare segretamente con Israele, doveva essere cioè l'ariete di sfondamento di una faida interna ai movimenti palestinesi in un momento in cui tutti sono contro tutti, Hamas contro Fatah e la Jihad Islamica, la Jihad Islamica contro Fatah e Hamas e infine Fatah contro tutti con rotture persino nella OLP....

(Right Reporters, 17 ottobre 2015)


La star del terrore

Barghouti beniamino dei media. Strade con il suo nome in Francia. E intanto lui, dalla cella, continua a guidare la guerra a Israele.

di Giulio Meotti

 
Ecco l'uomo che le televisioni mostrano in manette, braccia alzate, dita in segno di vittoria, il volto cherubico.
L'uomo che le televisioni di tutto il mondo mostrano in manette, braccia alzate, dita in segno di vittoria, il volto cherubico. Sta scontando cinque ergastoli, con l'aggravante di altri quarant'anni di carcere, colpevole di dieci atti di terrorismo, tra cui l'attacco al Sea Food Market di Tel Aviv, l'uccisione di tre israeliani a Givat Ze'ev e la strage di Hadera, in cui morirono sei israeliani. Eppure, Marwan Barghouti è un idolo, un eroe, un'icona, il suo volto impresso ovunque nella barriera di sicurezza di Israele.
  La presenza di Barghouti a Ramallah è dominante. Già alla periferia della città, al checkpoint di Qalandiya, svetta in un graffito, in manette, con accanto le parole "Marwan Barghouti sarà rilasciato" in arabo, inglese ed ebraico. La sua grande foto è anche sui leoni di pietra in piazza Manara. Alcuni giorni fa il Guardian ha ospitato un suo editoriale di sostegno alla Terza Intifada che sta terrorizzando lo stato ebraico e che ha causato sette morti.
  Barghouti è un nemico di Israele persino più astuto di Hamas, perché gode di una immensa popolarità in
Dal Tìme alla Stampa, molti gior- nali occidentali lo paragonano a Nelson Mandela. Ma il leader sudafricano non aveva i kamikaze.
Europa. La stampa occidentale tutta lo adora e lo paragona sempre a Nelson Mandela: "The Question of Barghouti: Is He a Mandela or an Arafat?" (Time Magazine); "Il Mandela palestinese" (Il Sole 24 Ore); "Il Mandela di Ramallah" (La Stampa); "A Mideast Mandela" (Newsweek) e "A Nelson Mandela for the Palestinians" (Herald Tribune). "Barghouti e gli altri Mandela" (Il Fatto Quotidiano). L'ambasciatore Sergio Romano lo ha proposto come candidato ideale per sostituire Abu Mazen.
  La città francese di Valenton ha pensato bene di intitolargli una strada e questa estate una piazza in suo nome è stata inaugurata anche a Coulounieix Chamiers: "Barghouti il resistente". Quest'ultimo comune socialista ha votato a larga maggioranza la proposta di nominare il piazzale del Castello di Izards in onore del pluriterrorista palestinese. L'Ufficio nazionale di vigilanza contro l'antisemitismo ha condannato il gesto, perché "gli argomenti in base ai quali la pace si fa con i nemici non ha senso. La Francia fece pace con la Germania, ma non ha intitolato le strade delle sue città a Klaus Barbie, a Hitler, Pétain, Lavalle e altri nemici".
  Venti città francesi hanno concesso la cittadinanza onoraria all'arciterrorista palestinese. Il primo comune a farlo è stato quello di Pierrefitte-sur-Seine, periferia nord di Parigi: "Questo riconoscimento onorifico per l'ingiustizia subita da Barghouti è stato votato dalla maggioranza assoluta dei rappresentanti della città", ha spiegato il consiglio comunale. Poi è stata la volta della città di Stains, dove un'immagine di Barghouti è stata appesa sulla parte anteriore del municipio - presente una grande folla, che comprendeva dipendenti dell'amministrazione locale, parlamentari e sindaci - accanto alla bandiera francese e al motto "Liberté, égalité, fraternité" (e Stains ha fatto cittadini onorari, tra gli altri, Nelson Mandela e l'ex ostaggio francese delle Fare colombiane Ingrid Betancourt). Quindi sono arrivate le città di Vitry-sur-Seine, La Verrière e Montataire. Alla cerimonia di consegna della cittadinanza della città di La Courneuve, nella periferia di Parigi, ha preso parte il sindaco Gilles Poux.
  In Italia, parlamentari come Lapo Pistelli e Vincenzo Vita del Partito democratico hanno partecipato a una giornata che chiedeva la scarcerazione di Barghouti presso la sede dell'Unione europea a Roma. Quando è andato in Israele, il leader di Sei Nichi Vendola ha chiuso il suo viaggio con queste parole: "Totale vicinanza con Marwan Barghouti". E anche la città di Palermo, per iniziativa del sindaco Leoluca Orlando, gli ha concesso la cittadinanza onoraria. Lo scrittore israeliano Amos Oz gli ha inviato i suoi romanzi in carcere e Barghouti in aula è stato difeso da un avvocato ebreo, Shamai Leibowitz. Amnesty International chiede la sua liberazione. Barghouti è il politico palestinese più popolare, sempre in testa a ogni sondaggio: una figura carismatica di sacrificio e abnegazione in grado di comandare una rivoluzione da dietro le sbarre.
  L'uomo che era noto come "l'ingegnere dell'Intifada", oggi si trova nel carcere di massima sicurezza di Hadarim, dove ha un televisore con dieci canali, può leggere qualsiasi giornale pubblicato in Israele ma
Nel carcere di Hadarim ha scritto tre libri, ha preso un Phd e prega cinque volte al giorno.
non può avere un computer. Divora dieci libri al mese, soprattutto libri di Karl Marx, del filosofo antisraeliano Yeshayahu Leibowitz e testi sul colonialismo in Algeria. Ha fatto uscire una pagina per volta il suo libro (ne ha scritti tre) sui prime mille giorni trascorsi in carcere. Sua moglie lo vede ogni martedì per poco meno di un'ora e attraverso un vetro: l'ultima volta che si sono toccati è stato nel 2006. Dal carcere, Barghouti ha conseguito un Phd all'Università del Cairo. Ed è stato rieletto al Consiglio legislativo palestinese nel 2006. La sua tesi di dottorato è intitolata "Il Consiglio legislativo palestinese e il suo contributo al processo democratico in Palestina dal 1996 al 2008". Si allena come un atleta nel cortile del carcere e prega cinque volte al giorno rivolto verso alla Mecca.
  Barghouti parla correntemente l'ebraico, imparato in vent'anni trascorsi nelle carceri israeliane (centinaia di prigionieri palestinesi sono attualmente iscritti come studenti con la Open University di Israele, che facilita i loro studi. consentendo loro di sostenere esami in carcere). La sua è una famiglia in guerra con Israele: Abdallah Barghouti era il leader militare di Hamas che fabbricava le cinture esplosive dei kamikaze (sconta una condanna per quaranta omicidi); Ahmed Barghouti era uno dei capi militari di Fatah, mentre Ornar Barghouti è il fondatore del Bds, il movimento per il boicottaggio di Israele.
  Marwan Barghouti deve la sua popolarità alla campagna condotta dalla moglie, Fadwa, tenace avvocato che distribuisce volantini e baklava. A quattordici anni la donna ricevette una lettera dal carcere. "Aspettami", le aveva scritto Marwan, che a quindici anni era già stato condannato alla galera. Sono nati nello stesso villaggio, Kobar, a nord di Ramallah. Il padre di lei era un ufficiale di polizia durante il mandato britannico e possedeva proprietà, terreni e frutteti. Il padre di Marwan era un operaio che lottava per mantenere la sua famiglia di nove figli. I Barghouti vivevano nelle grotte.
  Nel 1983 Barghouti viene scarcerato. Continua a studiare all'Università di Bir Zeit e diventa il capo del consiglio degli studenti. Fadwa all'epoca studiava matematica al college. Nel 1987 Barghouti viene deportato in Giordania. Solo nel 1993, dopo gli accordi di Osio, ottiene il permesso di tornare a casa. E' stato come un cavallo di Troia, per Israele. Al suo ritorno si è laureato in Relazioni internazionali e Fadwa ha completato un master in Diritto. Barghouti ha anche tenuto un corso di laurea sulle relazioni tra la Francia e l'Università al Quds. Dei suoi quattro figli, molti sono finiti in carcere per attacchi all'esercito israeliano.
  All'inizio della Seconda Intifada, è diventato il patrono dei "Martiri di al Aqsa''. Nell'agosto del 2001, l'esercito israeliano tenta di eliminarlo. A Ramallah, dopo pranzo, Barghouti esce di casa, lo attendono due auto. Sale nella seconda macchina. Avvia i motori e dal cielo arriva un razzo Apache dell'aviazione. Sfiora
Fece credere a Israele di essere
un pacificatore, ma quando il negoziato fallì lanciò l'ordine ai suoi: "Spalancate le porte dell'inferno".
la prima auto, colpisce l'asfalto davanti al cofano. Poi un secondo missile centra in pieno la macchina. Dietro, Barghouti assiste impotente all'attacco. Da allora inizia una caccia al topo. Barghouti sfugge più volte all'arresto. Nel gennaio 2002, dopo che Raed Karmi, comandante delle Brigate di Tulkarem, viene eliminato da Israele, Barghouti dà il via libera per compiere attacchi suicidi all'interno di Israele. "Se non c'è sicurezza per i residenti di Tulkarem, non c'è nessuna sicurezza per i residenti di Tel Aviv", dice ai suoi. E ancora: "Sono state aperte le porte dell'inferno". Quelle porte sono ancora spalancate su Israele.
  Nell'aprile 2002 l'esercito israeliano, dopo il terribile attentato di Netanya che aveva lanciato l'operazione Muro di Difesa, aveva trovato negli uffici di Fatah molti documenti che provavano il passaggio di denaro e di ordini da Arafat a Barghouti, e in su fino a tutta la catena del terrore. Soldi, cinture di tritolo, fucili, tutto era annotato in lettere. Barghouti è responsabile, fra gli altri, dell'assassinio di Yoela Cohen, che aveva l'unica "colpa" di fare benzina a una pompa scelta come obiettivo; di un monaco greco e di tre ragazzi che cenavano in un ristorante di Tel Aviv.
  Eppure, una parte dell'establishment israeliano negli anni ha coltivato l'ipotesi di rilasciarlo e fargli assumere la guida palestinese per stringere un accordo pragmatico. "Barghouti può unire i palestinesi e condurli a una vera pace" ha scritto Alon Liel, ex direttore generale del ministero degli Esteri israeliano. "Non è una persona di pace", gli ha risposto Jonathan D. Halevi, un tenente colonnello in pensione che ha avuto rapporti con Barghouti nel 1990, quando faceva parte del reparto militare in Cisgiordania. "Non riesco a trovare nulla che supporti l'ipotesi che possa essere pronto per qualsiasi concessione". Dopo la firma degli accordi di Oslo, Barghouti si era fatto la reputazione di aspirante pacificatore. Fu coinvolto in numerosi incontri con i politici israeliani provenienti da tutto lo spettro politico. Ma quando i negoziati entrarono in crisi, lanciò la lotta armata. Millecinquecento israeliani avrebbero pagato con la vita.
  Benjamin Pogrund, il giornalista che tenne molti incontri segreti con il leader sudafricano della lotta anti apartheid, rifiuta qualsiasi confronto tra Mandela e Barghouti: "I bianchi non dovevano preoccuparsi di attentati suicidi e sparatorie". Resta dunque il disonore su come un arciterrorista che ha ordinato l'uccisione di decine di ebrei israeliani inermi e innocenti sia diventato un apostolo della pace e un beniamino dei media. Ci sono tante via Barghouti in quest'Europa imbelle.

(Il Foglio, 17 ottobre 2015)


La voce degli ebrei in Italia

Domenica, 18 ottobre, alle ore 11, davanti all'Ambasciata israeliana, manifestazione di vicinanza e solidarietà allo Stato d'Israele.

di Ruth Dureghello
Presidente della Comunità Ebraica di Roma

Tra poco entrerà Shabbat. Per noi romani uno Shabbat differente, non servono parole per descrivere quanto questa giornata che volge al termine significhi per noi, cittadini di questa città da 2000 mila anni, Ebrei. Abbiamo vissuto ciascuno di noi giorni di tensione, ansia ed angoscia per gli sviluppi in Israele, per l'ennesima ondata di terrore che i nostri fratelli, cittadini di Gerusalemme, Tel Aviv, Raanana ed altre città israeliane stanno vivendo; per questo con grande coraggio, abbiamo ragionato insieme per organizzare e manifestare la nostra vicinanza a tutto lo Stato d'Israele, davanti l'Ambasciata israeliana, domenica alle ore 11.00. Un'occasione che ci permetterà, oltre che a far vedere al mondo il nostro incondizionato amore per i nostri fratelli, di mostrare la verità su ciò che davvero sta accadendo lì; con enorme orgoglio, siamo riusciti a far mobilitare altre capitali di Europa: Madrid, Barcellona, Brussels e altre città che ci stanno in queste ore dando la conferma; queste Comunità faranno la stessa manifestazione, nello stesso luogo, lo stesso giorno. Noi da Roma abbiamo dato l'impulso, loro i nostri fratelli ebrei di Europa hanno risposto: siamo con Voi, siamo con Israele! Ieri sera mentre ero al Tempio, durante la cerimonia, ho notato molti dei nostri ragazzi, piccoli - giovani e meno giovani - commuoversi nel sentire i canti e nel vedere i nostri sopravvissuti. Bene, credo fino a quando quelle lacrime, che solo noi possiamo capire, scenderanno dai nostri volti, il Popolo Ebraico sarà al sicuro, esisterà e durerà per le generazioni avvenire. Shabbat Shalom.

(Kol Israel, 16 ottobre 2015)


Chi è disgustato dalle espressioni di odio assassino contro gli israeliani che si stanno vedendo in questi giorni ed è indignato per il silenzioso compiacimento con cui questi fatti sono osservati, può manifestare la sua vicinanza a Israele unendosi, se ne ha la possibilità materiale, agli ebrei di Roma che manifesteranno domenica prossima davanti all’Ambasciata israeliana.


Scritte antisemite per l'ambasciatore d'Israele in ateneo a Teramo

Inaugurate le lezioni sulla Shoah, D'Amico condanna "le brutte pagine vissute sul tema da questa università"

di Chiara Di Giovannantonio

Le scritte sul muro dell'Università
TERAMO. La presenza di scritte antisioniste e pro Palestina, prontamente cancellate, sui muri esterni dell'università di Teramo ieri mattina ha messo in moto le forze dell'ordine, che hanno presidiato l'ateneo in occasione della visita dell'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon. Il diplomatico ha presenziato all'apertura della quarta edizione del corso di storia e didattica della Shoah, un'iniziativa organizzata dall'università di Teramo e dalla rete universitaria "Giorno della Memoria" in collaborazione con il ministero dell'Istruzione e con l'ambasciata d'Israele in Italia.
   «Cari docenti, cari ragazzi tutti, prima di tutto voglio dirvi che sono enormemente dispiaciuto di essere qui solo dopo tre anni e mezzo come ambasciatore in Italia, in un posto così amichevole con tanti studenti israeliani», ha detto l'ambasciatore Gilon, riferendosi anche ai 21 giovani israeliani iscritti alla facoltà di veterinaria a Teramo. «Non c'è altro da aggiungere circa l'importanza assoluta di iniziative come questa odierna e quelle della rete universitaria, soprattutto alla luce del fatto che molti ancora oggi hanno il coraggio di negare la Shoah», ha poi aggiunto l'ambasciatore, «proprio martedì scorso il vostro parlamento ha approvato una legge contro il negazionismo della Shoah, un ulteriore segno del fermo impegno delle istituzioni italiane nella lotta all'antisemitismo».
   Nessun accenno quindi alle scritte contro Israele e a favore della Palestina, fatte con vernice nera e rossa e poi nascoste con il colore bianco. La giornata di studi è stata aperta anche dai saluti del presidente della Provincia Renzo Di Sabatino, del sindaco Maurizio Brucchi, del consigliere regionale Camillo D'Alessandro, del deputato Florian Kronbichler, coordinati dalla docente Raffaella Morselli. In particolare il rettore Luciano D'Amico nel suo intervento ha accennato ad alcuni fatti di cui è stato protagonista, suo malgrado, l'ateneo teramano in tema di "negazionismo", condannando quanto avvenuto in passato. «Quelle pagine decisamente brutte che questa università ha dovuto sopportare oggi con forza le vogliamo cancellare, le vogliamo condannare», ha detto il rettore, «il mancato rispetto dei protocolli di ricerca non solo non qualifica le conclusioni erronee a cui si perviene come possibili teorizzazioni, ma le qualifica per quello che sono, cialtronerie, che hanno l'unico effetto di creare confusione e che devono essere, proprio per questo, semplicemente ignorate».ontrolli della polizia all'interno dell'ateneo
   In sala erano presenti, tra gli altri, anche il prefetto Valter Crudo e il professore Paolo Coen, ideatore della rete universitaria. Nel pomeriggio la giornata di studi è entrata nel vivo con la trattazione nelle memorie della storiografia contemporanea relative alla Shoah, non solo tramite la scrittura e i diari, ma anche con la musica e il disegno. Per il secondo e ultimo giorno del corso, le lezioni si sposteranno oggi a Civitella, nel convento di Santa Maria dei Lumi, dove furono ospitati i condannati alla deportazione nei campi di sterminio durante la seconda guerra mondiale.

(il Centro - Teramo, 16 ottobre 2015)




Medaglia d'oro al valore militare alla Brigata ebraica

Lettera al direttore del Foglio

Assegnare la medaglia d'oro al valore militare alla Brigata ebraica: questo prevede una legge presentata alla Camera da alcuni parlamentari (Lia Quartapelle, Fabrizio Cicchitto e Emanuele Fiano). Una iniziativa che ha un peso enorme per il momento in cui nasce e perché ripara un'incredibile amnesia della coscienza nazionale. Una medaglia che ci ricollega alle radici di Israele e della ragione sua e nostra perché esista. Furono 30.000 i sionisti che - senza alcun obbligo di fare il militare - partirono volontari dalla Palestina sotto mandato inglese per combattere in Europa e dare corpo alla parola d'ordine di Chaim Weizmann: "Israele dichiara guerra al nazi-fascismo". In quei giorni, invece, il Gran Mufti di Gerusalemme siglava il patto con Hitler e organizzava le SS bosniache. 5.000 volontari sionisti, inquadrati nella Brigata ebraica dell'esercito inglese, sbarcarono a Brindisi nell'ottobre del '44, combatterono sotto la Stella di Davide lungo la Linea Gotica e poi su, su, liberarono Ravenna (45 morti) e si fermarono a Tarvisio. Molti poi tornarono in Israele per combattere gli eserciti arabi comandati dal nazista Gran Mufti di Gerusalemme. Storia nota, ma occultata in un voluto oblio, tanto che ogni anno nei cortei per il 25 aprile, a Milano, idioti vari della estrema sinistra insultano e assaltano i superstiti della Brigata ebraica che sfilano, partigiani israeliani tra i partigiani italiani. E' ora giusto, indispensabile, che questa legge sia iscritta nel calendario (non sarà facile) e sia approvata, perché questa medaglia sigilla un patto d'onore, civiltà e coraggio che lega la nostra democrazia a Israele.
Carlo Panella


(Il Foglio, 16 ottobre 2015)


Il rabbino Di Segni: "Noi ebrei esempio di integrazione"

L'ondata di immigrazione cambierà l'Europa, si rischia un'altra Auschwitz. Il dialogo con papa Bergoglio.

di Stefania Rossini

 
Rav Riccardo Di Segni
"Io so' judio romano..." Quando il rabbino capo Riccardo Di Segni deve trovare una sintesi che renda al meglio la sua identità, il suo credo, l'amore per la sua città e il travaglio della sua gente, ricorre al verso di un sonetto di Crescenzo Dal Monte, considerato il Gioacchino Belli della Roma ebraica. È infatti con questo intreccio di sentimenti che la guida spirituale della più grande comunità ebraica italiana, la più antica della diaspora occidentale, osserva il mondo infiammato dai nuovi conflitti religiosi e dagli esodi smisurati.
Lo incontriamo nel suo studio blindato all'interno della Sinagoga, dove ci parlerà di sé e di quanto accade senza risparmiare giudizi e senza nascondere timori, stemperandoli semmai, quando i toni rischiano di farsi duri, in qualche battuta romanesca intrisa di umorismo ebraico.

- Rabbino Di Segni, di fronte alla doppia emergenza delle guerre di religione e delle migrazioni di popoli, quanto può aiutarci la millenaria esperienza degli ebrei?
  «Molto. Possiamo fornire modelli di integrazione perché sappiamo che si può essere cittadini o esclusi o partecipi o discriminati o diversi o uguali. Quanto accade è per noi un déjà vu. In quegli uomini e donne con valige e figli, fermati dalle polizie di frontiera o ammassati sui barconi, noi rivediamo noi stessi. E insieme all'identificazione scatta la solidarietà. Eppure...»

- Eppure?
  «È brutale dirlo, ma c'è una differenza sostanziale perché quantitativa. Anche la più forte comunità ebraica, come quella francese, conta al massimo 300 mila persone. È facile integrare un numero contenuto di profughi. Qui però si tratta di milioni, di uno spostamento di popoli che cambierà completamente i connotati dell'Europa».

- Ne ha paura?
  «La preoccupazione è molto forte. Per tradizione noi siamo solidali con chi scappa e vigili rispetto ai rischi. Che sono quelli del fanatico con la testa caricata da pensieri religiosi deviati, che scarica il suo mitra in un supermercato ebraico, ma sono anche quelli legati ad altri segnali».

- Si riferisce all'antisemitismo delle destre europee?
  «Anche a sinistra ci sono segnali, e non solo nei gruppi estremisti. Un massimo esponente democratico del comune di Roma, di cui non faccio il nome per carità civica, pensando di essere spiritoso ha detto un giorno che non dovremmo votare perché siamo israeliani. Ha capito il clima?»

- Posso però chiederle che cosa fate per sfatare questo pregiudizio? Anche persone meno superficiali vi rimproverano di essere sempre dalla parte dei governi israeliani.
  «Non dobbiamo certo giustificarci: siamo italiani come e più di molti altri e abbiamo contribuito a edificare questo Paese. Ma un'identità non si taglia con l'accetta. In ogni uomo sentimenti e passioni sono sempre distribuiti. Noi abbiamo un legame solido sia con questa nazione che con lo Stato di Israele. È nell'Islam che la religione implica la nazionalità. Per gli islamici l'ebreo non è dissociabile dallo Stato di Israele. Per questo con loro il dialogo interreligioso è difficile».

- Con il cattolicesimo va invece meglio. Le piace papa Bergoglio?
  «È un papa molto interessante con il quale si riesce a dialogare. Ma purtroppo il suo messaggio, che viene visto soprattutto come amore, è pericoloso per l'ebraismo».

- Perché?
  «Perché ripropone l'idea che, con l'arrivo di Gesù, il Dio dell'Antico Testamento è cambiato: prima era severo e vendicativo, poi è diventato il Dio dell'amore. Quindi gli ebrei sono giustizialisti e i cristiani buoni e misericordiosi. È un'aberrazione teologica molto antica, che è rimasta una sorta di malattia infantile del cristianesimo».

- Ne ha parlato con il papa?
  «Sì e gli ho anche detto che continuare a usare, come fa lui, il termine "farisei" con una connotazione negativa può rinforzare il pregiudizio in un pubblico non preparato».

- Che cosa gli ha risposto?
  «Mi ha detto: "Capisco benissimo. Io sono gesuita e anche la parola "gesuita" fa un brutto effetto". Ho visto che poi ci è stato più attento».

- Cogliamo l'occasione perché ci spieghi la differenza sostanziale tra un prete e un rabbino.
  «È semplice: il prete è un sacerdote, il rabbino no. Il rabbino è un maestro che deve insegnare e deve far applicare la tradizione».

- E la religione?
  «Il rabbino è responsabile del fatto che i riti siano officiati secondo le regole. Si occupa, per esempio, del controllo degli alimenti perché una parte considerevole del rito ebraico riguarda appunto quello che si può e non si può mangiare, ed è sempre più difficile fare distinzioni in una società di cibi industrializzati. È il mio campo di specializzazione. E poi saprà che i rabbini prendono moglie».

- Lei quando si è sposato?
  «Presto, a 25 anni con una ragazza di 19. Mi ero laureato in medicina e da un po' mi ero lasciato alle spalle la mia stagione movimentista».

- Quindi ha fatto il Sessantotto?
  «Sì, ne fui sedotto ed è stato molto interessante, perché c'era l'occasione di far vacillare il mondo baronale, patetico e autoreferenziale che guidava l'istruzione in Italia. Ma non ero un leader, ero un gregario: assemblee, cortei, occupazione dell'Istituto di Igiene e poco altro».

- È ancora di sinistra?
  «Perché, c'è ancora una sinistra?»

- Le piacerebbe che ce ne fosse una?
  «Mah, bisognerebbe vedere, potrebbero esserci molti drammi. Pensi a noi ebrei: siamo figli ripudiati dal padre, anzi padri ripudiati dai figli. Certe cose le abbiamo inventate noi e poi ci hanno cacciato via».

- Lei è anche vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica. Con le sue idee come ha fatto ad aderire all'ultimo Family day?
  «Io non ho aderito, ho mandato una lettera che invitava a una discussione non ideologica. Ma loro ne hanno fatto, appunto, un uso strumentale e ideologico».

- Ci dica allora la sua posizione sulle unioni omosessuali.
  «Penso che potremo arrivare al contratto civile, che è una cosa ben diversa dal matrimonio».

- Non crede che siamo comunque in ritardo sul resto del mondo occidentale? Israele, per esempio, riconosce da tempo i matrimoni omosessuali celebrati all'estero.
  «Israele è uno Stato democratico che non applica la legge rabbinica, ma quella del Parlamento».

- Che ne pensa della scelta di designare un'italiana, Fiamma Nirenstein, come ambasciatrice di Israele in Italia?
  «È ancora in corso una procedura di approvazione. Mi chiedo, però, se sia lecito che una persona che è stata deputata al Parlamento italiano venga ora a rappresentare uno Stato estero».

- Siamo quasi alla fine del nostro incontro e non abbiamo ancora parlato della Shoah.
  «Ne dobbiamo parlare?»

- È strano che me lo chieda. Non è un elemento essenziale dell'identità ebraica moderna?
  «Ho conosciuto la Shoah con il latte materno da una madre sfuggita alla razzia degli ebrei romani perché si era rifugiata con i miei fratelli in un casolare delle Marche, vicino a mio padre partigiano, medaglia d'argento della Resistenza. A 5 anni ho ascoltato il primo racconto sui campi nazisti da una cugina di mio padre sopravvissuta ad Auschwitz. Le pare che non m'interessi?»

- Sta dicendo che ne teme la retorica?
  «Insieme alla banalizzazione. La mia preoccupazione è sempre stata quella che l'identità ebraica basata soltanto sulla Shoah sia un'identità avvelenata, un'identità di morte non di vita. È un discorso che fatico a fare anche nella mia comunità».

- Le hanno fatto effetto quei numeri segnati sulle braccia dei profughi siriani?
  «Mi ha fatto effetto che si usassero parole come deportazione per un semplice accorgimento di triage. Nella medicina delle catastrofi, la prima cosa che si fa è quella. E poi un conto è il pennarello su un ferito o un profugo e un conto il tatuaggio sul prigioniero. Anche questo uso delle parole fa parte della banalizzazione. La Shoah è un unicum che ci deve far ricordare soprattutto l'importanza della convivenza con il vicino e con il diverso. Qualcuno dice che l'Europa nasce da Auschwitz. Non vorrei che finisse con un'altra Auschwitz».

- Non ci spaventi, rabbino. Che cosa intende?
  «Provi a pensare a quei milioni di persone di cui abbiamo parlato e li immagini tra vent'anni. Lei riesce a vedere un futuro di convivenza pacifica?».

(l'Espresso, 16 ottobre 2015)


Firmato a Gerusalemme un accordo di cooperazione spaziale tra Stati Uniti e Israele

di Raffaele Pugliese

 
Il 13 ottobre la NASA e la Israel Space Agency (ISA) hanno firmato un accordo per la cooperazione civile in ambito aerospaziale. Evidente la soddisfazione di Ofir Akunis, Ministro della Scienza, Tecnologia e Spazio israeliano: «Le implicazioni di questo accordo per Israele e per la comunità scientifica sono tremende - ha infatti affermato poco dopo la firma - l'accordo ci fornisce una piattaforma per la reciproca collaborazione, e questo permetterà alle comunità scientifiche di entrambe le nazioni di accedere a progetti che offrono significativi sviluppi nei prossimi anni». Fa eco al Ministro il Direttore Generale dell'ISA, Menachem Kidron: «Entrambi abbiamo intenzione di implementare l'accordo lavorando insieme su progetti di ricerca e tecnologia di reciproco interesse».
   Anche dal lato statunitense si respira aria di soddisfazione. L'Amministratore della NASA Charles Bolden ha infatti salutato così l'intesa raggiunta: «Le nostre due nazioni hanno una lunga storia di cooperazione nell'esplorazione dello spazio, nelle scoperte scientifiche e nella ricerca, e noi guardiamo avanti alle opportunità che questo nuovo accordo ci fornisce».
   In effetti, l'ultimo accordo di cooperazione in ambito spaziale tra Israele e Stati Uniti fu firmato nel 1996 e rimase in vigore fino al 2005. Nelle intenzioni delle due parti questo nuovo accordo, firmato in occasione della sessantaseiesima edizione dell'International Astronautical Congress che si è tenuto a Gerusalemme nei giorni scorsi, apre le porte a un nuovo periodo di stretta collaborazione tra le due agenzie spaziali. I principali ambiti di collaborazione saranno: scambi di personale e di informazioni, comunicazioni spaziali, workshop e riunioni congiunte, strutture di ricerca, e la possibilità di effettuare missioni.
   In particolare, quest'ultimo punto riapre una delle più grandi ambizioni di Israele: mandare nello spazio un proprio astronauta. Un sogno che stava per avverarsi nel 2003, ma che fu bruscamente spezzato: l'astronauta Ilan Ramon morì durante la drammatica esplosione dello Space Shuttle Columbia (nella foto). Ora, con questa nuova intesa, sembra di nuovo realistica la possibilità che entro il 2020 Tel Aviv riesca a mandare nello spazio il suo primo astronauta. «La perdita di Ilan Ramon è stata una terribile tragedia che non abbiamo ancora superato - ha dichiarato ai microfoni di The Times of Israel il Direttore Kidron - ma la speranza rimane eterna, e noi speriamo che questo accada prima piuttosto che dopo, magari prima della fine della decade».
   «Noi abbiamo in mente di essere molto propositivi con questo accordo - ha concluso il Direttore dell'Agenzia Spaziale Israeliana - abbiamo già organizzato un primo incontro con la NASA su specifici progetti e proposte, e abbiamo molte idee per progetti congiunti».
   
(Fly Orbit News, 16 ottobre 2015)


Shoah: inaugurata sede Fondazione Museo Roma

ROMA, 16 ott. - In attesa che si realizzi il progetto del 'Museo della Shoah' di Villa Torlonia, a Roma, l'omonima Fondazione ha inaugurato oggi la nuova sede di Casina dei Vallati, accanto alla Sinagoga, destinata a diventare un centro dedicato alla memoria, all'attivita' scientifica e didattica e alla ricerca relative alla tragedia dell'Olocausto degli ebrei.
   La sede della Fondazione Museo della Shoah e' stata aperta alla presenza di Samuel Modiano e Andra Bucci, sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, in occasione del settantaduesimo anniversario del 16 ottobre 1943, giorno del rastrellamento nazifascista di oltre mille ebrei romani. Alla cerimonia hanno anche partecipato, tra gli altri, il presidente della Fondazione Mario Venezia, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, il presidente dell'Unione delle comunita' ebraiche italiane Renzo Gattegna, la presidente della comunita' ebraica romana Ruth Dureghello, l'assessore regionale alla Cultura Lidia Ravera e l'assessore capitolino alla Scuola Marco Rossi Doria. "La fondazione ha gia' accumulato una patrimonio di 7.000 volumi e 5.000 titoli video, di cui solo una minima parte potranno essere ospitati in questo luogo", ha spiegato Venezia precisando quindi che, in attesa del museo vero e proprio, "questo e' l'inizio di un percorso che ci portera' a svolgere attivita' in favore del pubblico, mettendo a disposizione di ricercatori e studenti una parte del nostro materiale". Attivita' partite questa stessa mattina con lo svolgimento di un Corso nazionale di formazione alla storia e didattica della Shoah, organizzato in collaborazione con il Miur, dedicato a un ristretto numero di insegnanti di Roma e del Lazio e ad alcune guide italofone austriache che si occupano del tema. "Un'opera di formazione importantissima", l'ha definita Gattegna, perche' "coinvolge le guide che poi dovranno illustrare, durante le visite ai campi di sterminio, la storia di quegli anni terribili".
   Parlando anche a nome di altri sopravvisuti, Sami Modiano ha ribadito la speranza coltivata negli anni, che "anche qui a Roma ci fosse un Museo della Shoah: quello che speravamo ora si sta realizzando, come e' gia' accaduto in altre parti del mondo, e questa per noi e' una grandissima soddisfazione anche se forse non riusciremo a vedere quel museo". La Fondazione intende comunque completare al piu' presto l'allestimento della Casina dei Vallati, concessa in uso dal Comune di Roma come sorta di sede temporanea del Museo della Shoah. Ma quest'ultimo "va realizzato in tempi brevi - avverte la presidente Dureghello - affinche' si possa proseguire con completezza quel lavoro di trasmissione della memoria che oggi iniziamo in questa sede".

(AGI, 16 ottobre 2015)


Masterchef Israele, a Napoli i giudici del talent show

Gli chef Eyal Shani e Yonatan Roshfeld "beccati" con la troupe in giro per i vicoli del centro storico. Tappa anche alla Galleria Umberto per gustare una squisita sfogliatella.

di Massimiliano Di Matteo

Eyal Shani (a sinistra), da molti considerato il più grande chef del Paese mediorientale e uno dei più grandi al mondo, e Yonatan Roshfeld sono stati "beccati" a fare un giro nei quartieri di Napoli, uno sguardo ai vicoli, qualche battuta con i passanti, e poi una lunga tappa da Mary, nella galleria Umberto, per assaporare la famosissima sfogliatella. "Bisogna per forza vivere vicino al mare per fare un dolce del genere: ha proprio la forma di una conchiglia" ha commentato entusiasta Shani. Tanta la gente accorsa incuriosita dalle telecamere e dai tanti uomini della troupe.
Sono sbarcati a Napoli i giudici del talent show culinario "Masterchef Israele". Probabilmente, scrive Francesco Ungaro sul sito de La Repubblica di Napoli, allo scopo di girare una nuova puntata del noto programma.
Una folla di curiosi si è radunata attorno ai grandi chef Eyal Shani e Yonatan Roshfeld. I due giudici, secondo quanto si legge, hanno fatto un giro per il centro storico e una tappa alla galleria Umberto. Ovviamente, non si sono fatti scappare l'occasione di gustare una meravigliosa sfogliatella.
Insieme a Shani e Roshfeld, giudici del talent in Israele sono anche Haim Cohen e Michal Ansky. I due chef probabilmente sono anch'essi in giro per la città all'ombra del Vesuvio, alla scoperta delle bellezze del territorio e delle sue ineguagliabili prelibatezze.
Intanto, una piacevole "curiosità" da sottolineare è che a vincere l'edizione israeliana della gara per aspiranti chef è stato un italiano: il 40enne abruzzese.

(Napoli Today, 16 ottobre 2015)


Altro che moderato: Abu Mazen è un leader bugiardo

di Fiamma Nirenstein

Alla fine il «Ministero per le trattative» dell'Olp ha fornito una «piena traduzione del discorso di Abu Mazen» che in realtà è una toppa alla sua bugia, troppo grossa per essere sostenuta. Adesso, in inglese, Abu Mazen, nella versione edulcorata, dice che «gli israeliani sparano a freddo ai bambini come hanno fatto con Ahmed Manasra». Ma nel discorso autentico, in arabo, Abu Mazen di fronte a un popolo infiammato di passione islamista, non solo è rimasto fedele alle sue stesse false affermazioni che la Moschea di Al Aqsa sia minacciata ma ha anche inventato una menzogna propagandistica esagerata. Si è guardato bene dal chiedere ai suoi di recedere dalla violenza omicida, ha rincorso i social media che ripetono che i giovani accoltellatori sono bravissimi ragazzi cui la polizia e l'esercito danno la caccia per ucciderli e ha citato un nome: Ahmed Manasra. Ha detto di questo ragazzo di 13 anni che «ci sono state esecuzioni di bambini come Ahmad Manasra». Peccato che un film mostri Ahmad con un lungo coltello in mano: a Pisgaat Zeev, a Gerusalemme, ha accoltellato un bambino israeliano ora gravissimo. Il terrorista minorile è stato fermato, ma non è stato affatto ucciso: ferito, è ricoverato all'ospedale.
   Abu Mazen avrebbe potuto almeno interessarsi alle condizioni del ragazzo prima di denunciarne «l'esecuzione». Ma il luogo comune del bambino ucciso con crudeltà dagli israeliani è da sempre uno dei preferiti: anche il primo ministro Rami Hamdallah ripete che i «bambini vengono assassinati a freddo». Abu Mazen ha fatto uso della taqiyya, la bugia consentita dalle leggi islamiche per un bene maggiore. È già successo tante volte: basta pensare al potentissimo mito di Mohammed Al Dura. Accanto alle bugie, il pregiudizio internazionale si accanisce su Israele: il portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby ha ripetuto che «Israele fa uso di forza eccessiva». Ma cos'è la «forza eccessiva» contro un terrorista col coltello che cerca vittime? In Francia certo nessuno rimprovera l'eliminazione dei terroristi di Charlie Hebdo, e negli Usa ai terroristi armati si spara. Ma per Israele, mentre nei dintorni si uccidono per niente migliaia di persone e nessuno dice nulla, c'è sempre una sensibilità speciale. Sarà mica antisemitismo?
   
(il Giornale, 16 ottobre 2015)


Sì, è antisemitismo, ma è talmente diffuso che quasi più nessuno se ne accorge.


Israele isola i quartieri palestinesi di Gerusalemme

Israele isola i quartieri palestinesi di Gerusalemme e rafforza i cordoni di sicurezza come risposta all'ondata di attacchi contro cittadini israeliani. Il premier Benjamin Netanyahu ha criticato il governo palestinese accusandolo di incitare la violenza fra i giovani per infiammare gli animi. Il segretario di Stato americano John Kerry ha annunciato una sua visita in Medio Oriente per cercare di riavviare un dialogo che possa smorzare la tensione.
"Israele - ha detto il primo ministro - sta usando esattamente la stessa forza legittima che qualsiasi governo, città o forza di polizia userebbe di fronte a gente che impugna coltelli, mannaie e asce per uccidere gente sulla strada. Cosa credete che succederebbe a New York se ci fossero persone che si gettano nella folla per uccidere? Cosa credete che farebbero?"
Anche in Cisgiordania continuano gli scontri tra palestinesi e forze dell'ordine israeliane. A Betlemme, manifestanti hanno lanciato sassi contro i militari che hanno reagito con lancio di lacrimogeni. L'ondata di violenza conta già otto morti tra gli israeliani e 31 tra i palestinesi.

(euronews, 16 ottobre 2015)


Roma - Rastrellamento nel Ghetto 72 anni fa. Oggi il ricordo

Il sindaco assente alle celebrazioni Apre Casina dei Vallati

di Gabriele Isman

Quel sabato nero furono deportati in 1.259 dalle Ss di Kappler. Era il 16 ottobre 1943. Di sopravvissuti al rastrellamento del Ghetto ne sono rimasti solo due attualmente in vita Alberto Sed - da poco commendatore - e Lelo Di Segni. Oggi la comunità ebraica ricorderà quel giorno maledetto di 72 anni fa.
   Alle 9 il Comune, la Regione e la Comunità deporranno corone di alloro davanti al Tempio maggiore. Non ci sarà il sindaco Marino: eppure dopo la manifestazione degli urtisti a cui avevano partecipato il rabbino capo Di Segni e il presidente della Comunità Dureghello e la rottura dei rapporti tra ebrei romani e sindaco, Marino e Di Segni tre settimane fa si erano incontrati per 40 minuti in Campidoglio, scegliendo di mantenere riservato il colloquio e il franco chiarimento. Dopo le sue dimissioni, il sindaco aveva cercato un secondo incontro con il rabbino e Dureghello che non si è mai tenuto. Oggi a rappresentare il Campidoglio davanti alla sinagoga e mezz'ora dopo a Palazzo Salviat i, ci sarà l'assessore (dimissionario) alla Scuola e alla Memoria Marco Rossi Doria. Alle 10.15 per la corona al reparto ebraico dei Verano ci sarà Luigina Di Liego.
   E se domani alle 19.30 sfilerà la marcia della memoria promossa dalla Comunità di Sant'Egidio, oggi alle 11.45 la Casina dei Vallati, sede provvisoria della Fondazione Museo della Shoah in attesa di Villa Torlonia, si aprirà ai giornalisti. E anche qui Marino non è annunciato.

(la Repubblica - Roma, 16 ottobre 2015)


La ricerca del cedro perfetto rinsalda i legami con gli ebrei

Rabbini e contadini sulla costa tirrenica la raccolta è un rito. Sulle colline che digradano verso il mare fra Tortora e Cetraro, un pellegrinaggio inusuale ogni fine agosto per la Festa di Succoth.

di Paolo Salom

Un frutto, un legame antico, il nuovo pellegrinaggio. Il cedro — agrume noto più per le sue virtù salutari che per il suo sapore (il limone è certamente più popolare) — è il motivo che spinge, quando l'estate comincia a spegnersi, numerosi rabbini italiani ed europei in terra di Calabria, lungo la «riviera dei cedri». I maestri (questo è il significato proprio del termine che indica gli amministratori del culto mosaico) si spingono giù, lungo lo Stivale, per scegliere i frutti migliori che saranno poi utilizzati durante la Festa di Succoth, o Festa delle Capanne, uno dei momenti più sentiti e importanti del calendario ebraico, che cade tra settembre e ottobre.
   La ricerca del cedro perfetto è un rituale che risale alla notte dei tempi, quando gli ebrei — così come prescritto nel Pentateuco, i cinque libri della Torah — sono tenuti a portare in processione in sinagoga quattro vegetali: mirto, salice, palma e, appunto, il cedro. E una festa, quella di Succoth, dalla doppia valenza, agricola (celebra la fine del raccolto) e identitaria (ricorda i 40 anni trascorsi nel deserto dopo la fuga dall'Egitto). E in qualche modo, grazie alla qualità e alla bellezza dei cedri di Calabria, ha permesso la riscoperta da parte degli ebrei di una terra nella quale vissero per secoli, fino al (disgraziatissimo) arrivo degli spagnoli. I quali, come da editto del 1492, provvedevano a cacciare i discendenti di Mosè da qualunque luogo loro si trovassero a governare.
   Ma ecco che la natura e la particolarità del clima calabrese, nella sua costa tirrenica, da Tortora a Cetraro, ha costellato le colline che digradano verso il mare del verde intenso di alberi la cui origine si perde nella notte dei tempi. Forse sono arrivati al seguito dei soldati di Alessandro Magno o, addirittura, durante la colonizzazione ellenica del Metaponto, quando molti dei nuovi abitanti erano ebrei. Una storia antichissima dunque. Un legame rinnovato grazie alla tradizione che da decenni spinge a un pellegrinaggio forse un po' fuori dal comune. Ma osservato senza più curiosità dai residenti, ormai abituati all'arrivo dei rabbini con i loro copricapo (le kippoth) che non si tolgono mai per ricordarsi «che in Cielo c'è qualcuno più importante di nob .
   Il rituale della scelta dei «cedri più belli dell'albero più bello» è semplice e complesso allo stesso tempo. Il rabbino precede l'agricoltore che lo segue reggendo un cesto di vimini. Prima di tutto osserva i tronchi, perché l'albero non deve essere cresciuto da innesto di talea. Quando si trova finalmente di fronte al «principe» della tenuta, il religioso si sdraia sul terreno, per osservare i frutti dal basso, schivando le spine dei rami. Poi indica al suo compare di «caccia» i cedri migliori che, prima di entrare nella cesta, devono superare tuttavia un ultimo esame visivo: la loro buccia non deve presentare macchie o imperfezioni e anche la forma deve avere un andamento armonioso.
   A quel punto, l'agrume, che è ancora di colore verde intenso, può prendere la strada delle diverse comunità ebraiche del nostro Paese e d'Europa per fare da protagonista durante le festose celebrazioni di Succoth. Naturalmente, il cedro non viene coltivato soltanto per l'uso nelle sinagoghe. È un frutto dalle celebrate qualità fitocosmetiche e ormai fa la parte del leone nell'industria alimentare, in particolare nella produzione dolciaria, dei liquori e delle bevande (chi non ha mai gustato una cedrata?).
   Tuttavia, a noi piace pensare che il ruolo più importante — e inconsueto — sia quello rituale. Se non altro perché ha riportato un popolo a riscoprire una terra, la Calabria, che le è stata amica per secoli.
   
(Corriere della Sera, 16 ottobre 2015)


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