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Notizie 1-15 ottobre 2018


Alla giornata europea della cultura ebraica, Arpad Weisz rivive in una graphic novel

di Nathan Greppi

 
"Ci tenevo a presentare quest'ultimo appuntamento di questa giornata che è stata lunga, ricca, molto interessante e piacevole": queste le parole di Alberto Jona, tra gli organizzatori della Giornata Europea della Cultura Ebraica. Ha aggiunto che anche in altre città italiane è stata un successo, in particolare a Bologna e a Genova. Al termine degli eventi a Milano, ha introdotto la presentazione della graphic novel Arpad Weisz e il Littoriale (Minerva Editore) di Matteo Matteucci, sulla vita dell'allenatore dell'Inter e del Bologna Arpad Weisz, che perdette il lavoro a seguito delle leggi razziali, avvenuta al Museo Nazionale della Scienza e della tecnologia.
  "Guardo l'editore (Roberto) Mugavero, della Minerva Editore, che mi ha spinto e stimolato, facendo di tutto perché organizzassimo questa giornata," ha spiegato Jona, "e vi dico la verità, non l'ha fatto per il libro, l'ha fatto perché crede nel progetto." Ha aggiunto che per la prossima primavera sta organizzando una mostra a Milano sul tema della graphic novel in collaborazione con Minerva Editore e il Museo Ebraico di Bologna.
  Introducendo il libro, ha detto che "non volevamo parlare di memoria, c'è già un altro giorno, il Giorno della Memoria. Noi volevamo trovare nuove modalità di comunicazione e andare a cercare un nuovo target, un modo per confrontarsi col mondo non ebraico su certe tematiche." Ha aggiunto che questa graphic novel è stata candidata al Premio Bancarella per lo Sport. "C'è il fatto di usare stili nuovi, metodi nuovi, e l'idea di usare una graphic novel che ha la capacità di usare poco testo e far afferrare i contenuti attraverso le immagini, per mirare a un target di ragazzi. Il secondo merito di questa operazione è di rivolgersi a chi di solito segue lo sport."
  Dopo la sua presentazione, è salito sul palco l'ex-presidente dell'Inter Massimo Moratti, il quale ha dichiarato che Weisz "è stato un orgoglio per la storia dell'Inter, un eroe come sono stati eroi tutti quelli che hanno subito quell'infamia." È stato proiettato di un breve video animato che sintetizza la trama del fumetto.

 Dialogo tra l'autore e il giornalista Alessandrini
  Dopo il filmato ha preso la parola Guido Alessandrini, giornalista di Tuttosport esperto di atletica leggera, il quale ha iniziato con una battuta: "Spesso a Torino, quando dico che scrivo di sport, mi chiedono 'ti occupi di Juve o di Toro?' E io un po' per scherzo e un po' per provocare dicevo 'no, non mi occupo di calcio, mi occupo di sport.' Il punto è che, avendo lavorato anche nel calcio, mi rendo conto che la situazione sia ancora più difficile, andare a scoprire le persone oltre i personaggi, nel calcio è molto difficile, mentre in altri sport i personaggi erano facilmente avvicinabili."
  Parlando dell'opera, ha detto che "la storia di Weisz capita in un momento molto delicato e importante: in questi giorni sono esattamente 80 anni dalle leggi razziali, quando Mussolini le annunciò a settembre e il Re le firmò a novembre. Da quei due momenti ne deriva la parte più tragica della storia di Weisz, che Matteo Matteucci ha splendidamente raccontato avvalendosi di immagini. Oltre ad averle illustrate con grande maestria, e attraverso i toni dell'acquerello ho immaginato che avesse voluto usare certi toni di azzurro per trasmettere i sentimenti che suscita questa terribile storia." A questo punto, ha chiesto a Matteucci come gli è venuta l'idea di raccontare questa storia.
  "Il lavoro nasce da una suggestione personale," ha risposto questi, "ho iniziato a disegnare questa storia mi è venuta leggendo un libro che è stato scritto da Matteo Marani (vicedirettore di Sky Sport, ndr). Questo libro è un'indagine approfondita sul caso di Arpad Weisz, e si intitola Dallo scudetto ad Auschwitz. L'ho letto nel 2010, e in poco tempo sono rimasto molto impressionato da questa storia, e quindi ho iniziato a disegnare questo racconto. E la scelta dei colori deriva da una citazione di Marani, che descrive l'estate del 1938 come un'estate cupa, gelida, per dire ciò che storicamente è avvenuto. Piuttosto che usare i colori caldi che ricordino le fotografie d'epoca, ho preferito virare verso una gamma forse un pochino più dura, ma che richiamasse quell'atmosfera, e quindi la scelta definitiva è stata quella."
  In seguito Alessandrini ha dato la parola a Gianfelice Facchetti, attore teatrale e ospite fisso al programma della RAI La Domenica Sportiva (anche perché suo padre, Giacinto Facchetti, era un difensore dell'Inter, ndr), il quale ha raccontato che "abbiamo dedicato una sera un racconto in quella trasmissione che è La Domenica Sportiva, proprio in occasione dell'anniversario della pubblicazione del suo libro Il manuale del gioco del calcio, scritto nel 1930. Weisz ha ancora oggi un primato, è stato l'allenatore più giovane a vincere uno scudetto in Italia, lo Scudetto dell'Inter Ambrosiana. Quando poi arrivano le leggi razziali è costretto ad andare in Francia con la famiglia, e poi in Olanda. La sua storia si ferma, e con essa la storia dei suoi cari, e dopo c'è l'oblio."

 Il commento di Luciano Fontana del Corsera
  Prima della presentazione, il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana ha voluto portare i suoi saluti: "È un onore essere qui, e volevo esserci perché i rapporti tra il giornale e la Comunità sono intensi, e poi è particolarmente importante il tema di quest'anno: 'Le storie siamo noi', è un po' anche il racconto di quello che un giornale dovrebbe essere, raccontare le storie in maniera oggettiva, fattuale e indipendente." Ha aggiunto che, in un periodo in cui sui social c'è un confronto fazioso e violento, "io credo che iniziative che sappiano capire come fare cultura, perché la cultura ebraica è la nostra cultura, e farlo nel rispetto del pluralismo, è qualcosa che fa bene e allontana da un onda che non ci piace." Ha concluso affermando che "il Corriere della Sera è il giornale dell'Italia, di Milano, ed è il vostro giornale."

(Bet Magazine Mosaico, 15 ottobre 2018)


Di chi è la colpa dei morti di Gaza

I calcoli cinici di Hamas e dell'Autorità palestinese

di Ugo Volli

A Gaza i disordini continuano e stanno diventando più frequenti e più violenti. Ormai i terroristi inquadrati da Hamas non si limitano a bruciare copertoni, mandare in giro arnesi incendiari volanti, cercare di tagliare la rete di confine con strumenti manuali. Usano le bombe e assaltano in massa con le armi i difensori dell'esercito israeliano, provano a sfondare anche per mare e minacciano di usare i tunnel d'attacco che restano loro ancora (quindici sono stati distrutti dall'aviazione negli scorsi mesi) per uccidere e rapire gli abitanti dei villaggi subito al di là della frontiera. I soldati israeliani sono schierati a difesa e stroncano questi attacchi con gravi perdite per gli assalitori, che non fingono neanche più di essere pacifici manifestanti: sono orde d'assalto che riproducono con meno ordine le scene delle trincee della prima guerra mondiale.
   Sui giornali, quasi tutti ipocriti e mentitori, leggiamo di "scontri fra Israele e palestinesi", ma non è vero. Gli "scontri" avvengono solo dove e quando Hamas manda all'assalto i suoi gruppi di terroristi, Israele non va mai oltre al confine e non inizia mai, si limita a difendersi dagli attacchi dei terroristi e uccide solo quelli che minacciano di sfondare la linea di confine. I morti sono quasi tutti da una parte sola, perché la tattica di Hamas, che non ha forze corazzate, è quella del 1916: manda i suoi all'assalto allo scoperto armati di bombe e armi leggere. Contro una difesa ben organizzata possono solo sperare in un caso fortunato (per loro) di confusione. Ma l'esercito israeliano è ben coordinato e sa come contrastarli.
   Si parla dunque di scontri, e non ci si chiede perché ci sono. Non si dice neanche che Hamas li organizza e dichiara pubblicamente di volerli continuare fino a che avrà raggiunto i suoi obiettivi politici immediati, cioè la fine del blocco congiunto israeliano ed egiziano che controlla le importazioni nella striscia, impedendo che arrivino armi o materiali per la loro fabbricazione. Vale a dire che per Hamas una cessazione della violenza è possibile solo a condizione di porre le premesse per una guerra futura, in cui sarebbe meglio armato e più dannoso per Israele (e naturalmente di riflesso anche per gli abitanti di Gaza).
   O si risponde genericamente che a Gaza sono disperati. Ma perché sono disperati? Israele ha fatto qualcosa di grave negli ultimi mesi? No, non è cambiato nulla. Anche nei momenti degli scontri più gravi, Israele ha fatto passare rifornimenti, acqua, cibo, merci varie, perfino carburante. Di recente c'è stata una spedizione di benzina organizzata dal Qatar, che Israele ha fatto passare nonostante il parere contrario dell'Autorità Palestinese.
   Questo parere contrario è parte di un punto essenziale su Gaza, che nessuno racconta. Da un anno circa la dirigenza dell'Autorità Palestinese ha deciso di strangolare economicamente Gaza. Ha messo in atto sanzioni economiche, ha smesso di pagare gli stipendi ai suoi stessi dipendenti che vi abitano, ha rifiutato di concedere i permessi sanitari per le persone che devono andare in ospedali israeliani e quelli di studio per gli studenti che cercano di frequentare una scuola fuori dalla striscia, ha cercato in tutti i modi di sabotare le trattative mediate dall'Egitto e dal Qatar per diminuire la tensione al confine, ha perfino dichiarato persona non grata l'inviato dell'Onu perché si era permesso di stimolare queste trattative. Tutto questo è possibile perché negli accordi di Oslo, mal concepiti e dannosi anche sotto questo profilo, l'Autorità Palestinese è riconosciuta come "unica rappresentante del popolo palestinese" e dunque ad essa sono affidati i posti di confine, è essa che emette passaporti e certifica condizioni economiche e di salute, insomma per Israele è l'interlocutore giuridicamente obbligatorio.
   Ovviamente Abbas, il dittatore dell'Autorità Palestinese, incapace o non disposto a condurre negoziati di pace, vuole piegare Hamas al suo comando per essere più forte, questo è forse l'ultimo obiettivo rilevante della sua vita politica declinante come la sua salute; ma sul piano militare e del consenso interno Hamas è assai più forte e rifiuta di sottomettersi. Per questa ragione le trattative di "riconciliazione nazionale" condotte dall'Egitto sono sempre fallite. Questa è la ragione per cui l'Autorità Palestinese e non Israele ha stretto un vero e proprio assedio economico a Gaza, sperando in una rivolta contro Hamas, che non avviene, o almeno in disordini che coinvolgano Israele, come invece sta accadendo, con il risultato se non di fare danni militari allo stato ebraico, almeno di danneggiarlo nell'immagine e di avere argomenti propagandistici da sfruttare ("i bambini di Gaza", "la crudeltà dell'esercito israeliano" ecc. ecc.).
   Insomma chi cinicamente sta affamando gli abitanti di Gaza, con il progetto di danneggiare Hamas o Israele o tutti e due è l'Autorità Palestinese. E' una responsabilità pesante, condivisa con Hamas, che ha scelto di reagire a questa situazione mandando non solo i suoi terroristi, ma il più possibile della popolazione comune, donne e bambini compresi, a farsi ammazzare nell'impossibile tentativo di sfondare un confine internazionale difeso da un esercito bene armato. Se per caso riuscissero a fare qualche danno, a rapire o uccidere qualche civile o soldato rimasto isolato, sarebbe per loro un grandissimo successo. Se non ci riescono sono carne da cannone da far pesare nella propaganda. Anche questo è un cinismo insopportabile, veramente inaudito, non denunciato da nessuno dei "pacifisti", degli "amici dei palestinesi", dei "progressisti" che trovano comodo attingere al grande serbatoio dell'antisemitismo e prendersela con gli ebrei.

(Progetto Dreyfus, 15 ottobre 2018)



Gli "amici" di Israele che scelgono il silenzio

di Emanuel Segre Amar

Mercoledì scorso durate una conferenza di un istituto di studi iraniani tenutosi alla Camera dei Deputati, sono state pronunciate queste parole:
    "Israele ha un ruolo distruttivo nella nostra regione, il regime israeliano osteggia il patto nucleare, Israele è un paese che ha occupato la Palestina e con la guerra vuole mantenere la sua esistenza. L'Occidente invece di ascoltare Israele può ascoltare l'Iran. Israele è una falsificazione, Israele è una cosa costruita, non è una cosa vera, originale. E' un'ingiustizia contro l'umanità e ha praticato violenza anche contro di noi (????). Nella nostra zona ci sono state molti errori ma il primo errore è stata la creazione di Israele. Speriamo che farete caso a questo."
Solo un deputato, Andrea Orsini, di FI, ha scelto di non ascoltarle. E solo un deputato, che non sto a nominare, ha obiettato qualche parola in difesa degli omosessuali perseguitati in Iran. Laura Boldrini ha ascoltato in religioso silenzio. E Piero Fassino, anche lui presente? Il silenzio è stato pari. Vorrei spendere qualche parola su questo parlamentare di lungo corso considerato uno dei più vicini a Israele tra i parlamentari ex PCI, ex DS, oggi PD. Uno dei più "vicini" a Israele, e tuttavia…
   Nel 2014 quando mi invitò a partecipare ad un viaggio in Israele, egli accettò che dal Medio Oriente giungesse l'intimazione che a me e solo a me, in quanto rappresentante della Comunità Ebraica non fosse concesso, di andare agli appuntamenti organizzati oltre la linea verde col presidente dell'ANP e coi suoi "ministri", nonché con mons. Twal. Me ne dolsi.
   Quando si riferiva ad Abu Mazen come: "il mio amico Abu Mazen", gli feci notare che era un negazionista. Non lo sapeva e, quando gliene fornii le prove, non reagì che con un: "Non è molto carino". Mi stupii. Quando, in consiglio comunale a Torino venne votata una mozione di condanna di Israele votata all'unanimità tranne che dal consigliere della Lega Fabrizio Ricca, scelse di uscire dall'aula piuttosto che esprimersi a proposito delle menzogne contenute nella mozione voluta da un vicesindaco vicino al BDS. Non mi stupii più, e nemmeno potei più dolermene.
   Ma adesso che ascolta alcuni iraniani che vilipendono Israele in una sede istituzionale senza profferire parola, la mia reazione è di indignazione profonda e devo purtroppo dire, riprendendo volutamente la parole usata in un ignobile articolo di Barbara Spinelli del 2001 apparso su La Stampa, in cui chiedeva all'ebraismo italiano di discolparsi per le "colpe" di Israele, Fassino, discolpati. Ma potrà farlo?
   Se questi sono i politici di sinistra "vicini" a Israele non può che venire in mente il detto, "Con amici come questi, chi ha bisogno di nemici"?

(L'informale, 15 ottobre 2018)


«Torna l'antisemitismo. Ogni ebreo che va via una ferita per l'Europa»

Tajani alla Giornata della cultura ebraica. L'allarme del rabbino: «La storia si ripete»

di Alberto Giannoni

 
Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano
«L'antisemitismo ritorna». La Giornata europea della Cultura ebraica è dedicata alle narrazioni («storytelling») e il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib non ama le narrazioni di comodo. Nella sinagoga di via della Guastalla, dunque, dice la verità senza infingimenti di circostanza: «Stiamo assistendo al ritorno dell'antisemitismo in Europa. Venti anni fa non ci avremmo ceduto, credevamo di essere vaccinati». Ad ascoltarlo in prima fila Antonio Tajani, ospite d'onore delle celebrazioni della giornata milanese che prevede incontri, mostre e presentazioni di libri. Il presidente dell'Europarlamento è appena intervenuto: «Le nostre radici sono giudaiche e cristiane - ha detto - Ci siamo battuti per impedire che possa succedere che qualche ebreo possa abbandonare l'Europa per paura dell'antisemitismo». «Ogni ebreo che lascia Europa è una perdita - ha detto - è una tessera che si stacca dal mosaico della nostra identità. Più la difendiamo, più possiamo aprirci». Tajani ha ricordato i motivi più rilevanti di questa identità giudaico-cristiana, e il contributo degli ebrei italiani alla causa della patria, a partire dal Risorgimento che li ha visti in prima linea: «Se l'Italia è unita lo si deve anche agli ebrei italiani e sono oltre 700 quelli decorati per aver servito la patria con dedizione». Da presidente dell'Europarlamento, Tajani ha indicato le iniziative assunte dalle istituzioni europee contro l' antisemitismo, ha difeso il diritto all'esistenza e alla sicurezza dello Stato ebraico e ha confermato il suo sì alla storica proposta che vuole Israele nell'Unione europea. Infine ha ammonito: «Non esiste Europa senza identità e questa identità è giudaica e cristiana».
  Nel tempio milanese, per la diciannovesima edizione della Giornata, è presente una nutritissima delegazione di Forza Italia, con la capogruppo alla Camera Mariastella Gelmini ci sono i deputati Lara Comi e Andrea Orsini, storico amico di Israele. La Regione ha dato un sostegno importante all'evento e il governatore Attilio Fontana è mancato solo per la concomitanza con la visita milanese del premier Giuseppe Conte. Il presidente del Consiglio regionale Alessandro Fermi ha inviato un messaggio e il sindaco Beppe Sala si è fatto rappresentare dal suo capo di gabinetto e dall'assessore Marco Granelli. Presente anche il capogruppo regionale del Pd Fabio Pizzul, ma non solo politici. Ci sono il viceprefetto della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Pierfrancesco Fumagalli, e Yahya Pallavicini insieme ai rappresentanti della Coreis, la comunità religiosa islamica.
  É il giornalista Paolo Del Debbio a condurre e rivela la storia della sua particolare amicizia con gli ebrei, che risale alla prigionìa del padre, recluso per due anni di carcere militare vicino a Buchenwald. Il critico Philippe Daverio incanta con una ricostruzione storica che riconduce l'ascesa del «sovranìsmo» alla ricorrente tensione fra la vocazione inclusiva degli «imperi» e quella esclusiva delle «monarchie» nazionali.
Il co-presidente Raffaele Besso ricostruisce la storia della Comunità milanese, la cui storica peculiarità sta nell'aver accolto gli ebrei cacciati o in fuga dai paesi arabi. Ad Arbib tocca ricordare che nella storia dell'Europa c'è anche l'antisemitismo. E in quella dell'Italia le leggi razziali. E così come ci sono stati i giusti, e gesti straordinari di solidarietà, non vanno sottaciuti l'indifferenza, o peggio ancora le delazioni e le complicità attive con le discriminazioni. E prima ancora i ghetti, o i falsi come il Protocollo dei savi di Sion, patacca antisemita e antisionista insieme, molto prima di Israele, oggi pretesto del nuovo odio. «L'antisemitismo non è stato inventato negli anni Trenta - ricorda - in Europa ha una lunga e dolorosa storia. Se non capiamo le radici di tutto questo e non ci facciamo i conti - avverte - è inutile dire che una storia non deve ripetersi. Se le radici restano quelle, la storia si ripete».

(il Giornale - Milano, 15 ottobre 2018)



Khashoggi scomparso è un caso diplomatico: l'Occidente contro Riad

Francia, Germania e Regno Unito: «Indagine vera» Pressioni su Trump. Mal' Arabia minaccia ritorsioni

1 - L'arrivo al consolato
Il 2 ottobre all'ora di pranzo Jamal Khashoggi si reca al consolato per ritirare dei documenti necessari al suo matrimonio con Hatice Cengiz. Alla sua promessa sposa dice di aspettarlo fuori: se non esco dai l'allarme. Dopo qualche ora Hatice chiama un consigliere del presidente turco
2 - I veicoli sospetti lasciano il palazzo
Alle sedici del 2 ottobre due veicoli, compreso un furgone, lasciano la sede diplomatica e si fermano alla residenza del console, poco distante. In mattinata da Riad era arrivato un volo privato con a bordo nove persone che poi hanno raggiunto la rappresentanza saudita. Erano forse gli .esecutori del delitto?
3 - Le microspie e le urla
Fonti ufficiose turche hanno confermato al Washington Post di avere la prova dell'omicidio grazie a delle microspie: audio e forse immagini che hanno registrato l'uccisione dell'esule. L'oppositore sarebbe stato aggredito in una stanza da almeno due persone, si sentirebbero voci concitate e grida
4 - Le reazioni di Usa e Europa
La presunta uccisione del giornalista saudita ha causato una crisi internazionale. Gli Usa hanno ventilato una «punizione severa» per Riad. Ieri Gran Bretagna, Francia e Germania, in una dichiarazione congiunta, hanno chiesto «un'indagine credibile per stabilire l'identità dei responsabili».

di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON - Tutti contro l'Arabia Saudita. La crisi innescata dalla scomparsa del giornalista Jamal Khashoggi ha ormai una scala internazionale. In un'intervista alla rete Cbs, Donald Trump ha alzato i toni: «Andremo fino in fondo e ci sarà una grave punizione» se verrà provato l'assassinio di Khashoggi, sparito dopo essere entrato nel consolato saudita a Istanbul, lo scorso 2 ottobre. Intanto il re saudita Saiman ha «garantito» al presidente Erdogan che le relazioni bilaterali restano «solide».
   Si muovono anche Gran Bretagna, Francia e Germania, con un comunicato congiunto firmato dai tre ministri degli Esteri, Jeremy Hunt, Jean-Yves Le Drian e Heiko Maas: «È necessaria un'indagine credibile per stabilire la verità e per identificare i responsabili della scomparsa di Khashoggi e assicurarsi che siano giudicati per questo. Appoggiamo gli sforzi condotti da turchi e sauditi e ci aspettiamo che il governo saudita fornisca una risposta completa e dettagliata». Poi un particolare importante sul piano politico-diplomatico: «Abbiamo trasmesso questo messaggio direttamente alle autorità saudite». Come dire: questo è un passo ufficiale, che può incidere sulle nostre relazioni.
   La risposta di Riad è rabbiosa, anche se affidata alla voce anonima di «un alto funzionario» riportata dalla Saudi Press, l'agenzia di stampa ufficiale: «Il Regno (dell'Arabia Saudita, ndr) afferma che se subirà una qualsiasi azione, risponderà con un'azione ancora più grande» e sottolinea «che l'economia del Regno ha un'influenza e svolge un ruolo vitale nell'economia globale». L'allusione al petrolio è chiarissima. A scanso di equivoci, Turki Aldakhil, proprietario del canale tv saudita Al Arabiya, precisa: «L'imposizione di sanzioni potrebbe indurre l'Arabia Saudita a venire meno alla produzione di 7,5 milioni di barili (al giorno, ndr). Il prezzo del petrolio a 80 dollari ha già suscitato la rabbia di Trump, ma nessuno dovrebbe escludere che la quotazione possa balzare a 100 dollari a 200 o persino a 400 dollari».
   La politica americana si sta confrontando con questo rischio. I senatori, anche repubblicani, chiedono misure punitive pesanti. Qualcuno, come Jeff Flake dell'Arizona, sollecita il taglio delle forniture militari. Intanto il Segretario al Tesoro, Steven Mnuchin potrebbe annullare la partecipazione alla «Davos del deserto», il meeting di finanza e affari in programma questa settimana a Riad.
   Ma i consiglieri dello Studio Ovale sperano ancora di poter circoscrivere il caso. La soluzione potrebbe essere quella di adottare il «Global Magnitsky Human Rights Accountability Act», la legge del 2016 che consente di sanzionare gli esponenti di governi stranieri accusati di gravi violazioni.
L'amministrazione Trump l'ha già usata per colpire gli oligarchi di Mosca e gli agenti del Gru, il servizio segreto militare russo. Potrebbe farlo anche con i sauditi implicati nella scomparsa di Khashoggi. Ma c'è un problema: che fare se risulterà un coinvolgimento diretto del principe ereditario, Mohammed bin Salman? Il genero-consigliere Jared Kushner continua a difendere Bin Salman. Il presidente oscilla, in attesa di prove più certe.

(Corriere della Sera, 15 ottobre 2018)


*


Questo assassinio cambierà il destino del Medio Oriente

di Fiamma Nirenstein

 
Jamal Khashoggi
L'assassinio di Jamal Khashoggi in Turchia il 2 di ottobre, come in una tragedia Shakespeariana, ha i colori del destino: ha protagonisti fiammeggianti e avversi l'uno all'altro fino alla morte, errori, vantaggi, immense conseguenze psicologiche e politiche. In una parola, può cambiare il destino del Medio Oriente, e paradossalmente nella direzione che il povero assassinato, vittima di tanta crudeltà, avrebbe desiderato. Difficile capire come i sauditi, in particolare il riformista principe della corona Mohammed bin Salman, abbiano potuto fare un errore stratosferico come eliminare il nemico sul territorio a loro più ostile, quello di una Turchia che di fatto è alla pari dell'Iran è contro il reame sunnita. L'Iran, perché è sciita, e la Turchia ( che di fatto in un empito improbabile di passione per i diritti umani, è alla testa delle accuse ali' Arabia Saudita), leader del mondo legato alla Fratellanza Musulmana, sono stati avvantaggiati dall'eliminazione del nemico di bin Salman. Erdogan ieri ha ricevuto un primo segnale di mutamento di rotta americano nelle calde, anzi vibranti, parole di ringraziamento per aver liberato, dopo due anni di crudele reclusione, il pastore americano Andrew Burnson. Nel passato l'Arabia Saudita, che non è una organizzazione benefica, e anzi è un leader nella violazione dei diritti umani, era già stata mostrata a dito per sparizioni, rapimenti, incursioni all'estero, e i sauditi sono in larga compagnia per supposti delitti e sparizioni: ma gente che scompare durante viaggi in plaghe lontane, aerei che si perdono, personaggi che vengono drogati e rapiti, non è la stessa cosa di un giornalista del Washington Post, anche se era stato, si legge, amico della famiglia di Bin Laden, anche se la sua simpatia per la Fratellanza Musulmana era estrema nonostante la sua intima commistione col suo regime, anche se in parallelo era visto come un confidente degli americani. Un personaggio complicato, ma certo non meritevole di quella orrida fine. E niente spiega come i sauditi abbiano potuto infilarsi in un guaio che fa deviare l'America da un' amicizia speciale, colonna di un disegno strategico. Essa era andata a diretto detrimento del rapporto con i due nemici dei sauditi, gli iraniani e i turchi, e adesso in Israele ci si chiede cosa può succedere se l'asse delle alleanze si sposta: per esempio se ne avvantaggia il Qatar, fin' ora messo al bando dai sauditi, amico di Hamas e anzi suo fornitore di beni, benzina, danaro insieme all'Iran.
   I sauditi, insieme agli egiziani e ai giordani, hanno costituito una sorta di barriera contro l'espansione in Medio Oriente del fronte iraniano e di quello turco, tanto che non hanno mai aderito alla guerra contro i curdi che è una specie di lasciapassare presso Erdogan. Adesso le cose sono destinate a spostarsi, e anche il piano di Jarret Kushner per una pace fra Israele e i Palestinesi fortemente voluta da partner regionali si indebolisce alquanto. Israele certo non gioisce dell'eventuale spostamento strategico, la Turchia gli è opposta, l'Iran lo vuole distruggere. Questo, mentre Hamas cerca in questi giorni di sfondare il confine con esplosivo, migliaia di guerriglieri armati, l'esercito israeliano schierato in sofferenza, immobile sul bordo, con l'ordine di sparare solo in casi estremi dato che Hamas manda ragazzi e donne in prima fila. Così Netanyahu, che ha mostrato di volere evitare la guerra, adesso sembra raccogliere un senso di esasperazione fra le volute nere dei campi incendiati. E ha lanciato ieri una specie di ultimo appello: vi abbiamo rifornito di benzina e beni di consumo, ora basta, ha detto, smettete di aggredire, o vi faremo smettere in modo che farà male, molto male.

(il Giornale, 15 ottobre 2018)


Il giallo di Capri, si muove Israele per lo skipper sparito m mare

Decine di mezzi per le ricerche, finora senza esito. E sull'isola arriva anche il viceambasciatore.

di Conchita Sannino

Doron Nahshony
Israeliano, 62 anni, lo skipper si è allontanato da Marina Piccola la sera del 10 ottobre a bordo di un gommone. Faceva parte di una comitiva arrivata da Procida su quattro barche a vela.
NAPOLI - Un piccolo tender grigio che si allontana da Marina Piccola. A bordo c'è un uomo solo, appena sceso dalla barca a vela che divideva con i colleghi. Lui si infila la camicia bordeaux, aziona il motore e parte. Senza dire dove vada, senza portare con sé né un cellulare, né una mappa, né un documento. Ed è l'ultima immagine che resta, per ora, della sua traversata in Italia. La scomparsa nelle acque di Capri dello skipper israeliano Doron Nahshony, 62 anni, è un rompicapo che dura da cinque giorni.Un mistero che sguinzaglia decine di mezzi navali, elicotteri e sommozzatori tra Guardia costiera, carabinieri, polizia, Finanza. «Ogni giorno, almeno quattro tra battelli e motovedette. Oltre ai voli e ai controlli via terra», confermano alla Guardia costiera guidata dall'ammiraglio Arturo Faraone. Un mistero che spinge, ieri, il viceambasciatore in Italia a lasciare Roma per raggiungere l'isola, incontrare alcuni esperti e partecipare alle ricerche. La denuncia approda alla procura di Napoli, e il sindaco di Capri Gianni De Martino chiede massima collaborazione ai suoi cittadini: «Confidiamo che qualcuno avvisti quel gommone, siamo dispiaciuti e vogliamo sperare». Il team con il quale viaggiava Nahshony - che lavora presso la società Galil Engineering nella città di Ramat - è formato da quattro barche a vela. Complessivamente, circa 30 persone. Le imbarcazioni vengono noleggiate a Procida, con tutto l'equipaggio, all'inizio della scorsa settimana, presso la Sail Italia srl, e quel mercoledì pomeriggio sono ormeggiate a Marina Piccola, a Capri. Sono le 19.45 quando lo skipper scende in acqua col piccolo gommone, 4 cavalli appena: è un tender «grigio chiaro con motore, lungo meno di 4 metri», registreranno gli atti. Quel giorno, le condizioni meteo sono ideali: mare e venti calmi. L'unico problema è la visibilità: l'uomo naviga al crepuscolo. E ora, tra le altre, si fa strada la tesi che l'uomo abbia voluto far perdere le proprie tracce: ma gli amici non ci credono. Era sorridente, sereno, ribattono. Anche se qualcuno ipotizza che Nahshony avesse qualche problema di salute, «ma nulla di serio». Un altro dei colleghi del velista aveva pensato che Doron volesse raggiungere un'altra delle imbarcazioni del gruppo. Ma occorrevano pochi minuti per quel tratto. Invece passano due ore. E alle 22, parte la telefonata alla capitaneria di Capri. «Non ha detto dove sia andato», si allarma il capo-gruppo di velisti. La prima strada sarebbe la geolocalizzazione: ma l'uomo non ha con sé lo smartphone, Quindi: cercare in ogni direzione, non escludere nulla. Si cerca caletta dopo caletta, ma si punta anche al largo. Da Napoli scattano segnalazioni anche in Sicilia e Sardegna. Intanto sul profilo Facebook dell'ambasciata israeliana campeggia l'appello. Le ricerche riprendono all'alba, anche oggi. Per capire cosa è stato dell'esperto velista inghiottito dal dolce autunno caprese.

(la Repubblica, 15 ottobre 2018)


Ala, in tre anni raddoppiato il fatturato. L'aerospazio campano punta su Israele

L'azienda ha aperto una sede a Tel Aviv. L'amministratore delegato Di Capua: «Step strategico per il nostro asset»

di Luciano Buglione

 
I numeri sono davvero significativi: 2500 fornitori in tutto il mondo e ben 130 milioni di dollari di fatturato, il doppio rispetto a soli 3 anni fa, di cui oltre il 40% sviluppato al di fuori dell'Italia. Come le sedi, tutte prestigiose. Oltre a quelle nazionali, Torino, Novara (all'interno dello stabilimento Leonardo di Cameri), Pozzuoli e Brindisi, più una sede di rappresentanza a Roma, ci sono postazioni direttamente nel mercato nordamericano, a New York e Seattle, e in Europa, nel Regno Unito (Londra) e Francia, a Tolosa e Mont de Marsan.
   Tra il 2016 e il 2017 ha altresì attivato dei Sales Desk (ovvero i banchi vendita) regionali e partnership commerciali a Dallas, Los Angeles, Shanghai e Bangalore. Ha infine uffici commerciali a Roma, Varese, Parigi, Seattle, Shanghai. Stiamo parlando di Ala, Logistica Avanzata per l'Aerospazio, una azienda nata a Napoli nel 2009 dalla fusione di Avio Import e Aip Italia, sorte rispettivamente 23 e 14 anni prima. Dal capoluogo partenopeo è partita, con il quartiere generale presso il Teatro Mediterraneo all'interno del parco monumentale ed espositivo della Mostra d'Oltremare, alla conquista del mondo. La presenza nella Mostra è valsa il restauro di uno degli edifici del corpo centrale del teatro, con un investimento di 2 milioni, su una superficie di 1500 metri quadri. Oggi occupa il quarto posto assoluto a livello internazionale nel suo settore, ma non intende fermarsi, al punto che l'anno scorso ha creato nuove partnership commerciali in Cina e India, ed ora punta in modo deciso sul mercato israeliano, con una nuova sede a Tel Aviv, in Israele, e una joìnt-venture con il gruppo locale Yail Noa.
   Questo accordo combina i punti di forza di Ala e Yail Noa, facendo leva sull'expertise e sulla specializzazione geografica di entrambi. Ala Israel integra la profonda conoscenza del mercato israeliano della distribuzione di Yail Noa con l'esperienza e la competenza di Ala come service provider di parti aeronautiche per i maggiori costruttori e player del settore. «Nel 2010 - commenta il ceo di Ala Gennaro Di Capua - gli azionisti, il presidente Fulvio Scannapieco e il vice Vittorio Genoa, hanno intrapreso un percorso di crescita internazionale attraverso acquisizioni, joint-venture, crescita organica e alleanze commerciali».
   Poi aggiunge: «Ala Israel è uno step fondamentale per la nostra strategia. Con questa nuova sede vogliamo essere sempre più prossimi ai nostri clienti attuali e potenziali in Israele e nell'area».
   Il progetto è particolarmente ambizioso. L'obiettivo è fornire una gamma sempre più ampia e variegata di servizi rafforzando la società come punto di riferimento nel mercato per attori fondamentali quali Iai, Elbit, Rafael, altri colossi simili. Ala Israel si candida in tal senso a dimostrare la capacità di mettere sul campo i più alti livelli di servizio e la costruzione di soluzioni disegnate sulle esigenze del mercato nel settore. Ala è leader nella distribuzione di fissaggi e materiali aerospaziali, e nella fornitura di servizi di logistica integrata e gestione della catena di approvvigionamento; serve i più importanti programmi aeronautici, con particolare focus su F-35, Atr A220 (ex C-Series ), C130, M346, GEnx e V2500 direttamente e diversi altri programmi Boeing e Airbus come B787 e A350 indirettamente. L'azienda rappresenta un esempio di work in progress virtuoso, con una trasformazione da una originaria intuizione imprenditoriale ad una gestione manageriale per competere con determinazione e successo nei mercati internazionali. Un processo che però ha mantenuto salde le radici italiane, e soprattutto le origini napoletane, di cui l'attuale gruppo dirigente, come i predecessori, vanno molto fieri.
   Insomma, un «fiore all'occhiello» per la tanto vituperata industria meridionale. E la conferma che quando i progetti hanno salde intuizioni decollano a prescindere dalle pur importanti (e da noi sfavorevoli) condizioni e convenienze.

(L’Economia, 15 ottobre 2018)


Tutto cambia, quando sei tu nel mirino

Talvolta in Europa sembra di sentir dire: "Svegliamoci, perché qui non sono più solo gli ebrei in pericolo, ma anche tutti noi".

Alcuni la chiamano ipocrisia. Altri, meno sentenziosi, la definiscono una carenza di empatia successivamente corretta dall'esperienza. Io la chiamo più semplicemente la sindrome di "chi è nel mirino". Un certo evento, una politica, un'ideologia vengono visti in modo assai diverso a seconda del grado di coinvolgimento degli interessi personali dello spettatore.
Sorprendentemente semplice e ovvio, il criterio "chi è nel mirino" è un utile filtro attraverso cui guardare la politica mondiale. Basta scorrere le notizie per trovare sempre nuovi esempi di come cambia il senso dei fatti e di come vengono riconsiderate le priorità a seconda di chi si trova nel mirino....

(israele.net, 15 ottobre 2018)


"Gli ebrei nello spazio ligure e provenzale", convegno a Sanremo a 80 anni dalle leggi razziali

Studiosi provenienti da atenei italiani e stranieri parleranno di antisemitismo e del rapporto che si è sviluppato nel corso dei secoli tra la Liguria e le comunità ebraiche

di Veronica Senatore

 
Villa Ormond a Sanremo
SANREMO - "Gli ebrei nello spazio ligure-provenzale". É il titolo del convegno che si terrà sabato 20 ottobre a Villa Ormond e promosso da Comune, Università di Genova (Dipartimento di Antichità, Filosofia, Storia - Dafist), Istituto Internazionale di Studi Liguri e il Centro studi "Anna Maria Nada Patrone" (CeSA).
  A 80 anni dalla promulgazione delle leggi razziali il primo provvedimento approvato dal fascismo e che aprì anche l'Italia all'orrore della Shoah, vedrà salire in cattedra 18 studiosi, tra docenti e ricercatori provenienti da atenei italiani e straniere che approfondiranno il tema dell'antisemitismo (e non solo) nel contesto ligure.
  Con un comitato scientifico composto dai professori dell'Università di Genova Paolo Calcagno, Alessandro Carassale e Andrea Zappia ; dalla professoressa dell'Università di Torino Irma Naso e da Claudio Littardi del Centro studi e ricerche per le Palme - Sanremo, il convegno sarà suddiviso in due sessioni. La prima si aprirà alle 9.30 e con moderatore Calcagno verterà sul lungo rapporto che si è sviluppato nei secoli medievali e moderni tra le comunità ebraiche italiane e nord-europee con lo spazio geografico della Liguria, del Ponente, e della Provenza da un punto di vista economico, finanziario e commerciale.
  Gli studiosi metteranno inoltre in evidenza la presenza di piccoli nuclei ebraici a Genova, Nizza e in altri centri della costa, nonché la loro funzione e il loro ruolo nelle società locali. Non mancheranno due interventi sull'antico ed esclusivo commercio dei cedri e palme coltivati a Sanremo e Bordighera e spediti fino alle soglie della Seconda Guerra Mondiale agli ebrei di nazionalità nordeuropea in occasione delle loro feste rituali. Una tradizione plurisecolare di cui cui si sono perse le tracce ma che offre molti spunti di approfondimento e riflessione, soprattutto in relazione al possibile riconoscimento e recupero della pianta di agrumi.
  Nell'ampia sessione pomeridiana, che sarà moderata dal professor Graziano Mamone dell'Università di Genova, gli interventi verteranno sulla presenza ebraica nella Provenza e nell'Italia contemporanea con ampi riferimenti alla realtà ligure. Chiuderà la giornata un approfondimento sul tema delle leggi razziali del 1938 e delle conseguenti persecuzioni, nel nizzardo e nel ponente, dove la frontiera di Ventimiglia rappresentava per molti una via verso la salvezza.
  Aggiunge l'assessore Barbara Biale che ha presentato la giornata di studi insieme all'assessore Eugenio Nocita e al professor Alessandro Carassale : "Nell'ambito del convegno, in concomitanza alla Giornata internazionale del patrimonio ambientale, riceveremo l'attesto di partecipazione all'edizione 2018 del Concorso FICLU "La Fabbrica nel Paesaggio". Il Museo del Fiore è stato selezionato dal Club Unesco e ha ricevuto una menzione speciale. La consegna avverrà alle 17. Ne siamo molto orgogliosi".
  Come annunciato, il convegno sarà suddiviso in due parti. La prima vedrà prendere la parola: Anna Esposito (Università di Roma La Sapienza) che discuterà di "Gli ebrei in Italia tra '400 e '500: una presenza "tollerata""; Antonio Musarra (Università di Firenze) che parlerà di "Gli ebrei a Genova nel Medioevo: problemi e prospettive di ricerca"; Marco Cassioli (UMR TELEMMe, Aix-Marseille Université - CNRS), che approfondirà il tema "Ebrei nelle Alpi Marittime. Presenze stanziali, migrazioni, transiti alla fine del medioevo"; Angelo Nicolini (Società Savonese di Storia Patria) il cui incontro si intitola "Presenze ebraiche a Savona fra Quattro e Cinquecento." Si passerà quindi al primo Coffee break con: Andrea Zappia (Università di Genova) "Di padre in figlio: affari e parentele all'interno della comunità ebraica di Genova tra Sei e Settecento"; Andrea Zanini (Universita di Genova) "Fonti fiscali e stime patrimoniali. Gli ebrei di Genova nella prima metà del Settecento;" Alessandro Carassale (Università di Genova) "Cedri e palme all'hebrea". Produzione e commercio nell'estremo Ponente ligure in età moderna"; Simonetta Tombaccini (Storica - archivista) "Gli ebrei di Nizza marittima nell'economia ligure-provenzale (XVII e XIX secolo").
  Il lavori proseguiranno così alle 15. La sessione pomeridiana del convegno avrà come relatori: Guri Schwarz (Università di Genova) "Gli ebrei nell'Italia contemporanea e il contesto ligure: stato degli studi e prospettive di ricerca"; Luciano Maffi (Università di Genova) "Banchieri privati nell'Italia del XIX secolo. Reti miste nel sistema creditizio e finanziario: i Parodi di Genova;" Alberto Guglielmi Manzoni (Storico) "Considerazioni sugli ebrei del barnabita Giovanni Semeria in odore di modernismo agli inizi del Novecento"; Claudio Littardi (Centro Studi e Ricerche per le Palme - Sanremo) "Cedri e palme del Ponente ligure nella tradizione ebraica". Il secondo Coffee break avrà invece come protagonisti gli studi di Alberto Cavaglion (Università di Firenze) che dialogherà su "Interdizioni vecchie e nuove: gli ebrei in Italia dall'emancipazione alle leggi razziali (1848-1938)"; Jean Louis Panicacci (professore onorario, Universite Nice Sophia Antipolis) "La persecuzione degli ebrei nel Nizzardo dal regime di Vichy all'occupazione tedesca (luglio 1 940-agosto 1944)"; Paolo Veziano (Istituto Storico della Resistenza - Imperia) ""Ci sentiamo abbandonati". Ebrei stranieri alla frontiera di Ventimiglia (1938-1940)"; Gian Paolo Lanteri (Storico) "I salvati di Creppo e di Bregalla. 1943-1945".

(Riviera24, 15 ottobre 2018)


Lieberman, obbligati a colpire Hamas

Vane le altre opzioni. La violenza al confine è arma strategica

''Siamo giunti al punto in cui dovremo assestare a Hamas il colpo più duro possibile. Nei mesi scorsi non abbiamo lesinato sforzi per verificare tutte le altre opzioni. Ora sarà il Consiglio di difesa del nostro governo a decidere'': questo l'avvertimento odierno del ministro della difesa Avigdor Lieberman, dopo che venerdì 16 mila palestinesi si sono nuovamente lanciati da Gaza contro le linee di confine con Israele. In quegli scontri (che hanno visto anche l'apertura di una breccia sul confine e l'attacco ad una postazione militare in territorio israeliano) sono rimasti uccisi 7 palestinesi. ''Due di loro - ha precisato Lieberman, in un'intervista al sito Ynet - erano membri del braccio armato di Hamas''.
Lieberman ha spiegato che venerdì Israele sperava in un ritorno alla calma avendo autorizzato l'ingresso a Gaza di forniture di combustibile per la centrale elettrica. ''Ma ormai Hamas ha trasformato la violenza al confine in un'arma strategica per logorarci'', ha aggiunto.

(ANSAmed, 14 ottobre 2018)


La donna che ha salvato 2.500 bambini ebrei dall'eccidio nazista

La bellissima figura di Irena Sendler. Sopravvissuta alla Gestapo, è morta nel 2008 a 98 anni. Con i pargoli sempre nel suo cuore

Irena Sendler
Ci sono storie che non possono non essere raccontate.
Soprattutto se si tratta di donne che stampato nel loro Dna hanno coraggio, responsabilità, umanità. In modo particolare se, poi, hanno aiutato a cambiare il mondo, a evitare, nel suo piccolo, una tragedia ancora più immane.
Le parole chiave sono Seconda guerra mondiale, Tedeschi, ebrei, Polonia, Ghetto di Varsavia, 1942. E lei, al secolo Irena Krzyzanowska, ma meglio conosciuta come Irena Sendler.
Ebbene, questa signora ha fatto qualcosa che soltanto a dirlo mette i brividi: socialista, libera ed emancipata, ha salvato circa 2.500 bambini ebrei durante l'occupazione tedesca della Polonia. Ha portato via i piccoli dal ghetto della capitale polacca, Varsavia, li ha collocati in famiglie e conventi, li ha forniti di documenti falsi, con nomi e cognomi diversi da quelli veri.
E, come se non bastasse, ha anche tenuto un registro di questi bambini, in modo che, una volta finita la guerra, potessero tornare alle loro prime e vere identità.
La grandezza di tutto, però, sta nel fatto che lei, questa donna che aveva l'aspetto mite, vestita all'antica e modestamente, calzava grosse e comode scarpe nere, parlava poco, sorrideva molto, e non si alzava dalla poltrona (presto capiremo perché), non si è mai considerata una eroina, perché convinta che potesse fare molto di più.
Ma chi è stata veramente questa Irena, le cui gesta per decenni sono praticamente sconosciute e improvvisamente fiorite negli ultimi anni grazie anche due bellissimi libri a lei dedicati?
Nasce nel 1910 nella capitale polacca, e fin dai primissimi anni entra in contatto con gli ebrei lì presenti. Sia perché, dopo la morte del padre (Irena ha sette anni), alcuni responsabili della comunità ebraica si offrono nel pagare gli studi di Irena come segno di gratitudine. Sia perché, durante il periodo universitario, si oppone alla ghettizzazione degli studenti ebrei e, come conseguenza, è sospesa dall'Università di Varsavia per tre anni.
Allo scoppio del conflitto, e alla devastante invasione tedesca nel settembre 1939, lavora nei Servizi sociali, iniziando da subito a proteggere gli amici ebrei a Varsavia e, aiutata da altri collaboratori, riesce a procurare loro circa 3mila falsi passaporti.
La svolta si ha quando ottiene un permesso speciale per entrare nel Ghetto alla ricerca di eventuali sintomi di tifo. È il suo successo: la libertà di entrare e uscire dal Ghetto le permette di convincere i genitori ad affidarle i bambini. E così, insieme ad altri membri della Resistenza, organizza la loro fuga: i neonati li nasconde nelle casse del suo furgone, i bambini più grandi in sacchi di juta.
Non tutti sono prelevati da quell'inferno, molti sono anche negli orfanotrofi, e Irena fornisce loro una nuova identità con nomi cristiani e li affida a famiglie e preti cattolici.
L'anno successivo è catturata dalla Gestapo: torturata, frattura di gambe e braccia (ecco perché non si alzava dalla poltrona), ma lei non rivela il segreto.
É persino condannata a morte, ma la resistenza polacca riesce a salvarla.
Permettendole di completare il suo capolavoro. Al termine del conflitto.
I nomi dei bambini sono consegnati a un Comitato ebraico, ma solo un piccolo numero si è ricongiunto alla famiglia, perché la maggior parte, comunque, ha trovato morte nei lager.
Ben presto, però, si aggiunge un altro problema, seppur meno grave.
Anche lei, la donnina eroina, è dimenticata, addirittura minacciata dallo stesso partito comunista nella quale era iscritta, fatta eccezione per il riconoscimento nel 1965 di essere una "Giusta tra le Nazioni".
Soltanto a fine anni '90 e inizio del nuovo Millennio, quando ormai Irena è molto anziana, accade quello che doveva accadere.
Nel 1999 un gruppo di studenti del Kansas scopre la sua storia e la rende nota con uno spettacolo "Life in a Jar" (La vita in un barattolo), un libro e un dvd.
Nel 2007, un anno prima di morire, è proclamata eroe nazionale dal Senato polacco, ed è addirittura candidata per vincere il premio Nobel della pace, senza però vincerlo.
La motivazione? Le sue gesta erano troppo antecedenti.

(da Bitonto, 14 ottobre 2018)



Il cantico di Maria

E Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore,
e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore,
perché Egli ha riguardato alla bassezza della sua serva.
D'ora in poi tutte le età mi chiameranno beata,
perché grandi cose m'ha fatto il Potente.
Santo è il suo nome;
e la sua misericordia è d'età in età
su quelli che lo temono.
Egli ha operato potentemente col suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha detronizzato i potenti,
e ha innalzato gli umili;
ha colmato di beni gli affamati,
e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
Ha soccorso Israele, suo servitore,
ricordandosi della sua misericordia,
di cui aveva parlato ai nostri padri,
verso Abraamo e verso la sua progenie per sempre».

Dal Vangelo di Luca, cap. 1 

 


Accordo tra ONU, Siria e Israele per la riapertura del valico di frontiera

Nikki Haley, la rappresentante permanente degli Stati Uniti alle Nazioni Unite, ha dichiarato che l'ONU, Israele e la Siria hanno raggiunto un accordo sull'apertura del valico di frontiera "Quneitra" sul confine siriano-israeliano lunedì 15 ottobre, segnala la missione permanente americana.
"Le Nazioni Unite, Israele e la Siria hanno accettato di riaprire il valico di frontiera di Quneitra tra Israele e Siria sulle alture del Golan a partire dal 15 ottobre", si afferma nel comunicato.
La Haley ha sottolineato che gli Stati Uniti apprezzano l'apertura del valico di frontiera ed auspica che "sia Israele che la Siria assicureranno alle forze di pace delle Nazioni Unite il necessario accesso e le garanzie di sicurezza".
All'inizio di ottobre il generale Sergey Kuralenko, vice comandante del contingente russo in Siria, aveva dichiarato che il valico di confine di Quneitra tra la Siria ed Israele era pronto per essere aperto dalla parte siriana. In precedenza il ministro della Difesa dello Stato ebraico Avigdor Lieberman aveva dichiarato che Israele era disposta all'apertura di questo valico, l'unico punto di attraversamento ufficiale del confine con la Siria, osservando che "la palla è dalla parte della Siria".
Le condizioni per la ripresa del valico di frontiera sono emerse con il ripristino del controllo delle truppe governative sulle regioni meridionali della Siria e con il ritorno delle forze di pace delle Nazioni Unite sulla linea di demarcazione con Israele.

(Sputnik Italia, 13 ottobre 2018)


La donna che si sta prendendo la destra israeliana

Si chiama Ayelet Shaked, ha 42 anni, non è religiosa ma è molto nazionalista: si parla di una sua candidatura alle prossime elezioni.

Da diverso tempo la destra israeliana è in subbuglio. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, leader del partito conservatore Likud, è coinvolto in una serie di scandali di corruzione che hanno spinto sempre di più alcuni suoi sostenitori a farsi una domanda che sembrava inconcepibile fino a poco tempo fa: Netanyahu è ancora la persona giusta per guidare il Likud alle prossime elezioni politiche, che si terranno nel novembre 2019? Per il momento la posizione prevalente sembra appoggiare l'attuale primo ministro, ma le cose - scrivono alcuni osservatori - potrebbero cambiare nel corso del prossimo anno; e c'è una donna che sta emergendo con grande efficacia nel frammentato panorama della destra israeliana. Si chiama Ayelet Shaked, ha 42 anni ed è l'attuale ministra della Giustizia del governo Netanyahu.
   Shaked è una figura politica davvero inusuale per Israele: è una degli esponenti più in vista del partito La Casa Ebraica - sionista nazionalista e molto di destra - nonostante non sia religiosa; è contraria a qualsiasi evacuazione delle contestatissime colonie israeliane in Cisgiordania, nonostante non viva in un insediamento e sia nata e cresciuta a Tel Aviv, la città più liberale di Israele. Shaked ha posizioni molto di destra praticamente su tutto: considera sia il progetto di creazione di uno stato palestinese sia gli Accordi di Oslo, quelli firmati tra governo israeliano e Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) nel 1993, una catastrofe nazionale per Israele. Ritiene che tribunali, media e mondo accademico israeliano siano tutti di sinistra e negli ultimi anni da ministra della Giustizia ha cercato di cambiare le cose.
   Il giornalista Yonit Levi ha scritto sull'Atlantic che le opinioni su Shaked sono molto contrastanti: alcuni la ammirano profondamente per la sua abilità politica, altri la considerano un pericolo per la democrazia di Israele. Quasi tutti sembrano però concordare che Shaked sia oggi il personaggio che più sta emergendo nel panorama politico israeliano.
   La cosa per certi versi più sorprendente di Shaked è l'ampio appoggio che è riuscita a ottenere dai diversi gruppi nazionalisti e religiosi israeliani, che sono spesso in competizione tra loro. Shaked ha raccontato all'Atlantic di avere avuto idee di destra fin da giovane e di essersi avvicinata al sionismo religioso durante gli anni della leva obbligatoria. Secondo Shiloh Adler, un importante leader degli insediamenti israeliani, il fatto che non venga da un particolare gruppo nazionalista-religioso ha aiutato Shaked a mantenersi lontana dalle divisioni e a farsi accettare e rispettare praticamente da tutti.
   Allo stesso tempo Shaked non è completamente estranea alla destra israeliana rappresentata dal Likud, una destra meno radicale e meno religiosa di La Casa Ebraica. Nel 2006, infatti, lavorò come manager dell'ufficio di Netanyahu, quando il Likud era un partito dell'opposizione con soli 12 seggi al Parlamento israeliano: se ne andò pochi anni più tardi quando lei e Naftali Bennett, leader di La Casa Ebraica e attuale ministro dell'Economia, si inimicarono la potente e influente moglie di Netanyahu, Sara, per motivi rimasti poco chiari.
   Alle ultime elezioni, quelle del marzo 2015, La Casa Ebraica prese solo il 7 per cento dei voti, ma l'estrema frammentazione della politica israeliana permise a Bennett e a Shaked di fare un accordo con il Likud di Netanyahu ed entrare nel governo.
   Negli ultimi tre anni la centralità di Shaked all'interno della destra israeliana è aumentata parecchio, soprattutto per alcune decisioni molto controverse che però hanno ricevuto grande appoggio dagli ambienti più conservatori d'Israele: tra le altre, le nomine sui nuovi giudici della Corte Suprema israeliana - molto conservatori e militanti - e il suo deciso appoggio alla legge sullo "Stato della nazione ebraica", una controversa norma approvata lo scorso luglio che ribadisce il carattere ebraico di Israele a discapito di quello democratico. Allo stesso tempo anche gli avversari di Shaked hanno cominciato a vederla con occhi diversi: non più solo una giovane donna senza alcuna esperienza di governo e nota per le sue «idee nazionaliste unidimensionali», ma una politica ambiziosa, pericolosa e sempre più popolare tra gli ebrei ortodossi.
   Oggi uno dei progetti politici più importanti di Shaked è l'annessione formale a Israele dell'Area C, cioè quella parte della Cisgiordania (circa il 60 per cento) che è sotto il controllo israeliano. Shaked ha detto che il piano prevederebbe l'estensione della cittadinanza israeliana a circa 100mila palestinesi che abitano i territori che sarebbero oggetto dell'annessione e che passerebbero sotto la sovranità completa di Israele: «Processi di questo tipo richiedono tempo per maturare. Oggi il piano di annessione sembra fantascienza, ma penso che lentamente e gradualmente le persone vedranno cosa sta succedendo in Medio Oriente e si renderanno conto che una cosa del genere potrebbe succedere per davvero», ha detto Shaked.
   In un articolo pubblicato su Haaretz lo scorso anno, la giornalista Allison Kaplan Sommer scriveva che Shaked sarebbe in grado di diventare la donna israeliana di maggior successo dopo Golda Meir, storica prima ministra d'Israele dell'inizio degli anni Settanta, e a diventare la seconda donna a ricoprire il ruolo di capo del governo d'Israele. Per ora Shaked ha sempre sostenuto che dovrebbe essere Bennett a prendere il posto di Netanyahu, quando l'attuale primo ministro lascerà l'incarico, ma molti credono che la popolarità raggiunta da Shaked negli ultimi anni tra gli elettori della destra israeliana potrebbe anche cambiare le cose.

(il Post, 13 ottobre 2018)


Calcio - Palestina-Israele, una sfida anche sul rettangolo da gioco

 
Nel mondo vi è una questione irrisolta che si protrae da tantissimo tempo purtroppo. Stiamo parlando della terra contesa fra israeliani e palestinesi, teatro e luogo di tensioni e violenze fra arabi ed ebrei fin dai tempi del mandato britannico, che nel 1917 pose fine a 400 anni di dominio ottomano. Con la dichiarazione di Balfour il governo inglese di Londra dichiarò di appoggiare una"patria nazionale ebraica in Palestina", sostenendo gli ideali sionisti di Theodor Herzl. La dichiarazione diede una ulteriore spinta ad un movimento di immigrazione in Palestina già in atto fra gli ebrei della diaspora, causato dalla dispersione del popolo ebraico durante i regni di Babilonia e sotto l'impero romano. Al termine della Seconda Guerra Mondiale e in seguito al tragico stermino di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti tedeschi, l'Assemblea generale dell'Onu approvò un piano di partizione della Palestina, con la costituzione di uno stato ebraico e di un altro arabo. Da qui nacque il celebre conflitto israelo-palestinese che ha delle ripercussioni violentissime tuttora nella Striscia di Gaza, territorio palestinese che confina con l'Israele e l'Egitto, nei pressi della città di Gaza. Nel 1987 inizia la prima Intifada, una ondata di violente proteste palestinesi nei territori amministrati da Israele. Da allora il conflitto ha avuto periodi altalenanti fatti di tentativi di pace che in realtà non si sono mai tramutati in realtà con la pace diventata sempre più un miraggio.
  La rivalità tra Israele e Palestina si è spostata anche sul piano sportivo e nello specifico in quello calcistico. A Novembre del 2017 vi è stato lo storico sorpasso, per la prima volta, della Palestina su Israele. Nel ranking FIFA a livello mondiale di nazionali, la Palestina è arrivata all'ottantaduesimo posto mentre Israele, a causa della mancata partecipazione ai Mondiali del 2018 in Russia, è scesa al novantottesimo posto della graduatoria. La formazione palestinese è salita in maniera esponenziale nel ranking grazie alle ottime prestazioni fornite e alle numerose vittorie ottenute in vista della Coppa d'Asia. Jibril Rajoub, il presidente della federazione palestinese ha dichiarato in proposito "Andiamo oltre le misure dell'occupante israeliano e le molestie quotidiane da parte sua". Inoltre Rajoub ha esultato per un "successo storico". La federazione israeliana ha replicato in maniera diplomatica affermando "Auguriamo a loto ogni soddisfazione", dicendosi pronti a giocare una partita amichevole con la Palestina.
  La speranza e l'auspicio per quanto concerne il futuro sono che attraverso il processo sportivo si possa cercare di agevolare almeno parzialmente un conflitto ricco di violenza, di morti e di atrocità, che dura da troppi anni ormai. Purtroppo gli ultimi avvenimenti non vanno in tale direzione. Il 9 Giugno del 2018 è stata annullata l'amichevole che si sarebbe dovuta disputare il 9 Giugno a Gerusalemme tra Israele e l'Argentina di Lionel Messi. Vi sono state tante polemiche e mobilitazioni per la gara e la nazionale argentina, minacciata anche in caso di eventuale disputa della gara, ha deciso di rinunciarvi. Il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman ha dichiarato "Le star sudamericane hanno ceduto a chi ci odia". La federazione calcistica della Palestina ha denunciato l'uso politico e strumentale della scelta da parte della federazione israeliana di giocare a Gerusalemme invece che ad Haifa.
  Attualmente purtroppo il conflitto procede ancora con scontri e morti e per il momento anche il mondo sportivo, a differenza di altri episodi accaduti nel mondo, non riesce ad agevolare il processo di pace tra le due fazioni.

(vivoperlei.calciomercato.com, 13 ottobre 2018)


Probabili formazioni Israele-Albania: le scelte di Herzog e Panucci

Domenica 14 ottobre, al Turner Stadium, andrà in scena la sfida tra Israele e Albania, match valido per la Nations League. Ecco le probabili formazioni.

 Probabili formazioni Israele-Albania
 
Il Turner Stadium a Be'er Sheva
  Domenica 14 ottobre, al Turner Stadium, con fischio d'inizio alle 20.45, Israele sfiderà l'Albania in un match valido per la Nations League.
  La nuova competizione introdotta dalla UEFA, dunque, torna a disputarsi, con molte sfide davvero interessanti. Si tratta di partite ufficiali e non più delle solite amichevoli che generavano scarso interesse. Oggi, invece, con la nascita della Nations League, c'è il tentativo di restituire seguito alle partite della Nazionali che non riguardino esclusivamente i grandi eventi come Europei o Mondiali.

 Israele-Albania, le ultime news
  Israele si presenta alla sfida contro l'Albania con 3 punti in classifica nel Girone 1 della Lega C, frutto di una vittoria ed una sconfitta. La squadra di Herzog ha debuttato in Nations League sul campo dell'Albania, perdendo 1-0, con il gol dei padroni di casa che è stato realizzato da Xhaka. Nel secondo impegno, invece, Israele ha battuto 2-1 la Scozia tra le mura amiche, grazie al gol messo a segno da Peretz e all'autogol di Tierney.
  Anche l'Albania si presenta alla sfida contro Israele con 3 punti in classifica, frutto di una vittoria ed una sconfitta. La squadra di Panucci ha debuttato con una vittoria in Nations League, battendo 1-0 Israele grazie al gol messo a segno da Xhaka. Nel secondo match, l'Albania ha perso 2-0 sul campo della Scozia: il primo gol del match è stato un autogol messo a segno da Djimsiti, mentre la rete del definitivo 2-0 è stata realizzata da Naismith. Nel girone 1 della Lega C, dunque, c'è una situazione di grande equilibrio, con Scozia, Israele e Albania che hanno 3 punti e 2 partite disputate.

(Sportnotizie24, 13 ottobre 2018)


Odio contro gli ebrei, la storia si ripete

Lettera al direttore di Varese News

Caro Direttore,
Per l'Europa si aggira ancora una volta uno spettro che si credeva e si voleva eradicato : l'antisemitismo. Gli atti di violenza contro ebrei e contro luoghi ebraici (sinagoghe in particolare) aumentano e si verificano in quasi tutti i paesi europei. Queste infamie stanno costringendo parecchi nuclei ebraici a fuggire dall'Europa e rifugiarsi in Israele o in USA.
   L'ebreo viene di nuovo indicato da fascisti e comunisti come il nemico da combattere a causa della sua avidità e del suo potere economico mondiale. A queste infami accuse si aggiunge l'odio per Israele indicato come corpo estraneo e stato razzista in un Medio Oriente che non lo vuole e del quale non farebbe parte in alcun modo. Gli ebrei in quanto amici di Israele sono quindi da combattere in tutti i modi. Si tratta di una nuova forma di Shoah. . Viene pubblicato ancora un falso documento dal titolo "Protocolli dei Savi di Sion o degli Anziani di Sion.
   Si tratta di un falso documento creato dall'Okhrana, la polizia segreta zarista, con l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei nell'Impero russo. Fu realizzato nei primi anni del XX secolo nella Russia imperiale, in forma di documento segreto attribuito a una fantomatica cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo sarebbe impadronirsi del mondo. In Italia si ricordano le infami leggi razziali volute fortemente da Mussolini e firmate da un re fellone, leggi emanate 80 anni or sono. Gli italiani le subirono, le accettarono, le respinsero? Come al solito vi fu chi le respinse e continuò a considerare gli ebrei come amici e compatrioti, ma vi furono tanti, troppi, che le accettarono e le applicarono respingendo chi fino al giorno prima era stato amico, compagno di scuola, socio in affari o in studi professionali.
   Durante l'occupazione nazista molti nascosero ebrei, li aiutarono a fuggire, rischiando la vita. Ma altrettanti vilmente li denunciarono condannandoli ad una morte atroce nei lager nazisti, per odio, viltà, denaro. Piero Suber ha prodotto un documentario "1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani". Suber ha intervistato vittime, ma anche delatori.
   Sarebbe, a mio parere, necessario e utile proiettarlo in tutte le scuole di ogni ordine e grado, e in tale occasione, proporre una chiara e sincera discussione sul dramma di chi a causa di queste leggi vergognose si trovò da un giorno all'altro senza amici, senza lavoro, senza identità. Erano italiani ebrei, poi furono solo ebrei e come tali furono trattati dal fascismo e successivamente dai nazisti.
   Cordiali Saluti, da un amico di sempre del popolo ebraico
Dr CM Passarotti, Gallarate

(Varese News, 13 ottobre 2018)


Israele: cacciatorpediniere USA attracca ad Ashdod

Netanyahu visita il cacciatorpediniere
USS Ross nel porto di Ashdod
Il cacciatorpediniere USS Ross, una nave da guerra della Marina statunitense, ha attraccato nel porto di Ashdod, città israeliana mediterranea situata nel Distretto Meridionale del Paese, a circa 70 chilometri da Gerusalemme, lunedì 8 ottobre. Tale evento, il primo del genere in quasi 20 anni, è stato salutato dai funzionari statunitensi e israeliani come un segno della profonda e rafforzata alleanza tra i due Paesi di fronte ad avversari comuni, ma risponde altresì a interessi securitari per Israele e strategici per gli Stati Uniti.
   La visita dello USS Ross nel porto di Ashdod è un evento raro, dal momento che le navi delle Marine straniere che devono attraccare in Israele generalmente preferiscono il porto di Haifa, importante centro industriale e portuale, situato nel nord del Paese. Pertanto, la scelta di Ashdod come porto di attracco da parte della Marina statunitense ha un significato importante, tanto sul versante israeliano, quanto su quello americano.
   Sul versante israeliano, il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha espresso soddisfazione in merito all'arrivo della nave americana ad Ashdod. "Questa visita ha un significato. Simboleggia la profonda alleanza tra Israele e gli Stati Uniti", ha dichiarato Netanyahu, parlando dal ponte della nave insieme alla moglie e all'ambasciatore americano in Israele.
   Il Paese mediorientale vede la presenza delle navi da guerra americane come una garanzia contro le minacce derivanti dall'Iran, da Hezbollah e dalla Palestina. Al rischio per la sicurezza di Israele derivante dalla presenza di truppe iraniane in Siria Netanyahu ha fatto espresso riferimento. "Siamo determinati a difenderci dal trinceramento militare iraniano in Siria. Il presidente Trump ha dato pieno sostegno a questa nostra politica e il fatto che questo cacciatorpediniere sia giunto qui oggi è un'espressione di tale sostegno", ha spiegato il leader israeliano.
   Tuttavia, il Paese e, in particolare, Haifa per ragioni di vicinanza geografica, temono altresì i razzi di Hezbollah, l'organizzazione paramilitare sciita libanese che alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, considerano un gruppo terroristico. Del resto, il Partito di Dio, traduzione della parola araba Hezbollah, è nato nel 1982 proprio come movimento di resistenza contro l'occupazione israeliana del Libano meridionale. Nel tempo, si è evoluto in un partito politico locale ma i rapporti con Israele sono rimasti cattivi. L'ultimo conflitto armato tra le due parti risale al secondo conflitto israelo-libanese, scoppiato il 12 luglio 2006 e terminato il 14 agosto dello stesso anno. In anni più recenti, tuttavia, i contingenti militari israeliani hanno ripreso a bersagliare depositi di armamenti dell'organizzazione in Siria, dove il gruppo combatte dal 2013 in supporto del regime di Bashar al-Assad, al fianco di Russia e Iran, il cui sostegno ha consentito una crescita significativa della sua ala paramilitare.
   Infine, Israele e, in particolare, Ashdod, di nuovo per ragioni di vicinanza geografica, temono i razzi palestinesi dalla Striscia di Gaza, il territorio gestito dall'organizzazione politica e paramilitare palestinese di Hamas, considerata da alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, un gruppo terroristico. Hamas, del resto, è nata nel 1987 come braccio operativo del movimento egiziano dei Fratelli Musulmani per combattere con atti terroristici lo Stato Ebraico nell'ambito della Prima Intifada, la prima sollevazione palestinese di massa contro il dominio israeliano.
   Sul versante americano, invece, il portavoce del comandante della Sesta Flotta statunitense, Kyle Raines, non ha menzionato alcuna minaccia specifica ma ha dichiarato che la visita in porto dello USS Ross "rafforza la solida e duratura collaborazione tra le nostre due Nazioni". Un comunicato diffuso dalla Sesta Flotta sottolinea che visite navali come quella dello USS Ross ad Ashdod "illustrano la stretta cooperazione tra gli Stati Uniti e Israele", dimostrano il loro "obiettivo condiviso di garantire la stabilità in Medio Oriente" e "contribuiscono alla sicurezza regionale nell'area operativa del Mediterraneo orientale". La Sesta Flotta statunitense è un ramo della Marina americana stanziato principalmente nel Mar Mediterraneo, ma operativo anche nell'Atlantico occidentale, nei mari circostanti il continente africano e nei mari del nord Europa. L'arrivo del cacciatorpediniere USS Ross ad Ashdod, pertanto, potrebbe segnalare l'interesse di Washington per l'ampliamento delle opzioni di attracco per la Sesta Flotta.

(Sicurezza Internazionale, 13 ottobre 2018)


Dal ghetto di Roma ad Auschwitz

A Ulisse il tragico percorso di morte di migliaia di ebrei. Focus sul rastrellamento del ghetto di Roma, avvenuto il 16 ottobre di oltre settant'anni fa.

di Rossella Pastore

 
Alberto Angela racconta il rastrellamento e lo sterminio nazista
Un viaggio senza ritorno, quello di donne, bambini e uomini ebrei costretti a lasciare Roma a seguito dei rastrellamenti. Il tragico anniversario cade il 16 ottobre prossimo: sono trascorsi 75 anni dalla cattura nel ghetto della Capitale, cui seguì la partenza del convoglio verso Auschwitz e altri campi di sterminio. Questa sera, Alberto Angela ripercorre a Ulisse il percorso di morte di migliaia di persone. L'appuntamento è alle 21.25 su Rai 1: ospiti della puntata, Sami Modiano e la neosenatrice a vita Liliana Segre. Allora erano bambini: entrambi scamparono alla razzia per pura fatalità o grazie all'aiuto di qualche sodale non ebreo. Con loro c'erano zingari, omosessuali, oppositori del regime che subirono la stessa sorte. Pochi scamparono alla cattura, e ancora meno sopravvissero all'orrore di Auschwitz. Liliana Segre salì a bordo di un treno merci al binario 21 della stazione di Milano. Similmente, Sami Modiano partì su un battello salpato a Rodi e usato fino a quel momento per il trasporto del bestiame.

 Olocausto, la macchina della morte
  La loro storia converge in più punti: furono ben sei milioni gli ebrei europei sterminati dai nazisti. Il luogo-simbolo della Shoah è il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. È da lì che Alberto Angela racconta l'olocausto, in un triste reportage tra Germania e Polonia. I reduci dal viaggio vivevano in condizioni disumane. La situazione era critica per tutti, tanto più per i più deboli, che all'arrivo nel campo erano destinati alle camere a gas. "Lo dicono cieco, ma l'odio ha la vista acuta di un cecchino", scriveva la poetessa polacca Wislawa Szymborska. L'assunto vale in particolar modo per gli ebrei: i nazisti, spietati e calcolatori, studiavano nei minimi dettagli le strategie di morte della loro macchina (im)perfetta.

 Da Auschwitz a Berlino
  Per concludere, le telecamere di Ulisse faranno tappa a Berlino. La capitale tedesca fu centro sistemico dell'assurdo progetto di Hitler. La genesi della "soluzione finale" è da ricercarsi proprio nella dimora del Führer, in quella città dal passato difficile che più di tutte ne ha sofferto. Ancora oggi, Berlino fa da sfondo a monumenti e musei ispirati allo sterminio, come il Memoriale per gli ebrei assassinati d'Europa e il Museo ebraico. Nel centro informativo visitato da Ulisse, spicca un aforisma di Primo Levi: "È accaduto, quindi può accadere di nuovo", si legge. Un promemoria quanto mai appropriato per tutta l'umanità.

(ilsussidiario.net, 13 ottobre 2018)


Striscia di Gaza: di cosa ha paura Israele?

In Israele crescono le critiche al Governo per la "cattiva" gestione delle violenze lungo il confine con la Striscia di Gaza e sempre più persone chiedono un intervento armato definitivo contro Hamas.

ISRAELE - Striscia di Gaza (Rights Reporter). Ieri è stato l'ennesimo venerdì di follia a causa di quella che i palestinesi chiamano "marcia del ritorno", in realtà una vera e propria strategia di sfinimento che vorrebbe spingere Israele verso un conflitto vero e proprio con Hamas.
Il fatto più grave è avvenuto quando circa 20 terroristi palestinesi hanno prima piazzato un ordigno lungo la barriera di confine e poi, una volta fatto esplodere e aperto un varco, si sono introdotti in Israele con l'intenzione di rapire un soldato israeliano. A quel punto l'IDF ha reagito uccidendo tre terroristi che erano quasi arrivati ad una postazione del IDF e messo in fuga gli altri...

(Rights Reporters, 13 ottobre 2018)


Ben Gurion sbaglia la profezia nella tipografia dei pionieri sionisti

La Grande Guerra vista da un ufficetto di Gerusalemme, in un viavai di ideologi, utopisti, strateghi. Nella Palestina, che è parte dell'Impero Ottomano, gli ebrei russi sono diventati "nemici".

di Elena Loewenthal

E' straordinaria, la galleria di personaggi che il lettore incontra e pian piano conosce come un parente prossimo, come un amico fidato, nel primo romanzo della trilogia su Gerusalemme pubblicata da Aharon Reuveni nel 1919, della quale esce ora in traduzione italiana la prima parte, con il titolo In principio, confusione e paura (nella traduzione dall'ebraico di Luca Colombo). Volti e storie si avvicendano in queste pagine, creando un affresco che non ha nulla di statico: tutto è sempre in movimento, tutto sta cambiando.
   Quando in Europa scoppia la Prima Guerra Mondiale, infatti, il progetto sionista sta prendendo forma, è carico di ideali e slancio attivo. Ma è chiaro sin dall'inizio che quanto sta succedendo al di là del Mediterraneo cambierà ben presto e radicalmente le cose in Palestina, che a quell'epoca è ancora una pigra e marginale provincia del grande Impero Ottomano: ha i giorni contati. Le cose sono come sempre ancor più complicate per gli ebrei, i sionisti che, provenendo in gran parte dalla Russia, sono automaticamente diventati cittadini di un paese nemico.
   Che fare, dunque? Non bastavano i problemi interni al movimento di risorgimento nazionale ebraico, a rendere la vita una faccenda complicata? Come spesso è capitato negli ultimi duemila anni, i figli d'Israele si trovano di fronte alla necessità di prendere decisioni difficili. Alcuni di loro lasciano il paese. La maggioranza decide di restare, di stare a vedere che succede. Nel frattempo, si lavora, si discute. Il protagonista del romanzo di Reuveni, ad esempio, si chiama Aharon Tziprovitch, lavora in una tipografia ebraica che pubblica a Gerusalemme un giornale sionista-socialista. Lui sarebbe anche «intellettualmente dotato», ma si tiene sempre in disparte, durante !e discussioni dei veri sionisti. E una creatura che ha fatto della marginalità la propria cifra esistenziale. Assiste al crescere dell'incertezza per tutti: la guerra in Europa imperversa, presto tutto cambierà anche a Gerusalemme e nel mondo ebraico di Palestina. Ma, come tanti altri eroi della letteratura ebraica e contemporanea, anche Aharon preferisce, o meglio si trova costretto, a stare in disparte dalla grande storia, e provare a tirare avanti. Già è difficile così, con tutte le avversità che lo incalzano, e poi ci si mette pure una fidanzata che si chiama Menia, è infermiera di mestiere ed è fin troppo determinata. Lei sì che sa quello che vuole.
   Ma In principio, confusione e paura è tutt'altro che un romanzo esistenziale. Reuveni ha un talento straordinario nel narrare sempre un mondo e mai soltanto dei personaggi. E così, proprio come Aharon dal suo loculo-ufficio, anche noi finiamo per trovarci in quella posizione appartata che se per il nostro eroe (si fa per dire) è la macchia di un'emarginazione sociale e culturale, per il lettore diventa uno sguardo privilegiato su quel mondo fatto di ideologi e utopisti, strateghi e rivoluzionari. Molti dei personaggi che compaiono in tipografia, che vanno e vengono per Gerusalemme, sono ispirati quando non calcati su figure storiche: Ghivoni, ad esempio, è Ben Gurion, che propugna la necessità di una «Turchia forte perché solo all'interno di un grande Impero ottomano, che comprende al suo interno molti popoli, tribù, ed etnie, c'è posto anche per noi e per il nostro futuro». Di lì a poco la storia gli darà torto, ma qualcuno dei suoi colleghi lo attacca già qui nel romanzo, dove tutto è sapientemente giocato fra l'atmosfera fumosa e angusta della tipografia e gli spazi aperti di Gerusalemme.
   Reuveni sarà davvero una scoperta per il lettore italiano, anche per quello più in confidenza con la grande letteratura ebraica contemporanea, da Agnon ad Amos Oz e Etgar Keret. Nato in Ucraina nel 1886, Reuveni ebbe una vita alquanto movimentata, se non altro in senso geografico: deportato in Siberia dalle autorità zariste, riesce a un certo punto a fuggire in Giappone. Viaggia a lungo per l'Estremo Oriente, per qualche mese fa il traduttore alle Hawaii. Approda in Palestina nel 1910. Inizia a scrivere durante la Grande Guerra, è da subito attivo nel movimento sionista, ma quasi sempre entra in conflitto con il pensiero dominante. Tuttavia non si può non definirlo uno dei padri della patria, tanto in senso letterario quanto in quello politico. Suo fratello Ben Tzvi diventerà il secondo presidente dello stato d'Israele.
   In Principio, confusione e paura è in sostanza una lettura imprescindibile per chi vuol capire quella storia, politica e intellettuale. E' prima ancora, un romanzo avvincente e malinconico, pieno di vita.

(La Stampa, 13 ottobre 2018)


Consiglio di Stato: non possono essere le leggi razziali a decidere oggi se una persona è ebrea

di Antonello Cherchi

I benefici riconosciuti dallo Stato agli ebrei perseguitati dal fascismo non possono essere accordati rifacendosi alle leggi razziali, come invece riteneva di fare la Presidenza del consiglio e il ministero dell'Economia. Lo ha affermato con una sentenza sintetica ma assai chiara il Consiglio di Stato.

 Il caso
  Tutto nasce dal ricorso di una signora che, bambina di quattro anni all'epoca dei fatti, aveva dovuto dividersi dal padre perché quest'ultimo, medico ebreo all'Ospedale Le Molinette di Torino, era stato costretto a lasciare il lavoro e fuggire. L'allora bambina aveva vissuto con la madre italiana, della quale aveva adottato il cognome, abbandonando quello paterno. In anni a noi più vicini, la signora aveva chiesto allo Stato di poter ricevere i benefici riservati ai perseguitati dal fascismo. La Presidenza del consiglio glieli aveva, però, negati sostenendo che non risultava che all'epoca delle leggi razziali l'interessata fosse stata considerata dall'apparato statale come appartenente alla razza ebraica e che, dunque, fosse stata oggetto di persecuzione.

 I ricorsi
  La signora non si è data per vinta e ha presentato ricorso al Tar Lazio, che le ha dato ragione. Palazzo Chigi e il ministero dell'Economia, però, sono convinti delle loro ragioni e si appellano al Consiglio di Stato. Per i giudici della quarta sezione di Palazzo Spada (decisione 5896/2018, presidente Filippo Patroni Griffi, relatore Daniela Di Carlo) non ci sono dubbi: la disposizione che ha riconosciuto i benefici ai perseguitati dal regime «scolpisce in maniera netta il significato da dare al concetto di "ebraicità" del soggetto richiedente, che è legato all'origine dello stesso richiedente e non al possesso di ulteriori (e non previsti dalla legge) requisiti».

 Le leggi razziali
  Dunque, la pretesa della Presidenza del consiglio e dell'Economia di legare l'"ebraicità" di una persona a quanto stabilito dalle leggi razziali (il regio decreto legislativo 1728 del 1938, che considerava di razza ebraica chi, tra l'altro, «appartenga alla religione ebraica o sia, comunque, iscritto a una comunità israelitica, ovvero abbia fatto in qualsiasi altro modo, manifestazione di ebraismo») è «un'operazione logico-giuridica scorretta».

 Non si può guardare al passato
  E questo per due motivi: perché la legge 17 del 1978, che ha esteso i benefici anche ai perseguitati ebrei, è «perfettamente auto-applicativa» e non ha bisogno di altri puntelli normativi, tanto più se vecchi di 80 anni e ormai cancellati dal sistema legislativo. Inoltre, perché «è irragionevole e sproporzionata la pretesa dell'amministrazione di far dipendere (in senso sfavorevole al richiedente) i l possesso di un requisito per l'accesso a un beneficio di legge, dall'applicazione di una norma razziale lesiva dei diritti fondamentali della persona e, soprattutto, rispetto alla quale le leggi post-razziali (...) hanno inteso porre rimedio . Viene tradito, nella sostanza, lo spirito stesso della nuova disciplina».

 Per l'origine ebraica non conta la religione
  Insomma, la signora era indiscutibilmente di origine ebraica e lo ha ampiamente provato. E questo a prescindere dal fatto che avesse o meno abbracciato la religione ebraica o fosse formalmente iscritta alla comunità ebraica. Elementi, questi ultimi, che è «ben strano» richiamare oggi, tanto più se si considera - conclude il Consiglio di Stato - che all'epoca delle leggi razziali erano considerati «indice di disvalore giuridico solo laddove sussistenti e non, invece, mancanti».

(Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2018)



Leader di Hamas: stiamo cercando un'intesa con Israele

GERUSALEMME - Il movimento palestinese Hamas sta cercando di raggiungere un'intesa con Israele. Lo ha detto oggi il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, nel corso di una conferenza sull'islam a Istanbul. "Stiamo lavorando con un numero di parti, compreso l'Egitto, il Qatar e le Nazioni Unite, nel tentativo di raggiungere un intendimento che romperà l'assedio", ha affermato Haniyeh. Per il numero uno di Hamas, "l'intesa potrebbe portare alla calma in cambio della rimozione del blocco", imposto da Israele sulla Striscia di Gaza dal 2007, proprio quando il movimento ha assunto il potere nell'enclave. Infine, Haniyeh ha precisato che "la calma non deve essere raggiunta a scapito della riconciliazione palestinese". Il riferimento è alla mediazione di alcuni attori regionali per la riconciliazione tra i due principali partiti palestinesi: Hamas e Fatah. Quest'ultimo, anima dell'Autorità nazionale palestinese (Anp), ha criticato la possibile intesa tra Hamas e Israele, affermando che il movimento che amministra Gaza non ha l'autorità per raggiungere accordi con altri Stati.

(Agenzia Nova, 12 ottobre 2018)


Un attentato diverso dagli altri in Israele

La settimana scorsa un uomo palestinese ha ucciso misteriosamente due civili israeliani nell'insediamento di Barkan, e da allora sembra scomparso senza lasciare tracce.

Domenica scorsa un uomo palestinese ha ucciso due civili israeliani sparando loro con una mitragliatrice all'interno dell'insediamento di Barkan, in Cisgiordania. Lo sparatore è stato identificato come il 23enne elettricista Ashraf Na'alowa. Per molti versi sembra un attentato terroristico come molti altri, da quelle parti, ma il caso ha una particolarità che lo rende notevole: Na'alowa è scappato senza lasciare tracce. I palestinesi che compiono un attacco terroristico vengono spesso uccisi sul posto - a volte anche dopo che sono stati neutralizzati - oppure catturati in breve tempo grazie alla conoscenza capillare del territorio e dei gruppi armati palestinesi da parte delle forze israeliane. Stavolta non è successo, e da sei giorni le forze di sicurezza israeliane stanno conducendo una imponente "caccia all'uomo", come raramente si vede in territorio israeliano.
   La ricerca di Ashraf Na'alowa è complicata per diversi motivi. Non apparteneva ad alcuna fazione politica o militare, non ha diffuso alcuna rivendicazione e durante l'attentato non ha urlato frasi che facciano pensare a motivazioni religiose. Come molti altri palestinesi, Na'alowa lavorava all'interno del complesso industriale dell'insediamento, ma non è chiaro se l'attacco sia legato al suo lavoro o alle condizioni dei suoi colleghi. Fra l'altro, gli investigatori israeliani non hanno ancora capito come abbia fatto a portare una mitragliatrice all'interno del complesso industriale dell'insediamento.
   Poco dopo l'attacco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato che Na'alowa sarebbe stato presto arrestato, ma da allora sono passati diversi giorni e di lui non si sa ancora niente. Giovedì mattina l'esercito israeliano aveva arrestato una delle sue sorelle, ma non è ancora chiaro se abbiano degli elementi che la leghino all'attacco.
   Secondo una fonte di Al Monitor, alle ricerche stanno collaborando anche le forze di sicurezza palestinesi, controllate dal partito moderato Fatah, altra cosa non scontata. I palestinesi hanno buone ragioni per collaborare: nel complesso industriale di Barkan lavorano più di tremila palestinesi, che potrebbero essere danneggiati da eventuali restrizioni imposte dagli israeliani. Il complesso industriale è citato da alcuni come un esempio di pacifica convivenza fra lavoratori israeliani e palestinesi, mentre per altri dimostra soltanto il bisogno di numerosa manodopera a basso costo da parte da parte dell'industria tecnologica israeliana. Prima dell'attentato della scorsa settimana, comunque, a Barkan non c'erano mai stati attacchi o episodi di violenza paragonabili a questo.
L'attentato è stato fonte di imbarazzo anche per le forze di sicurezza israeliane, e un brutto colpo per un approccio che finora si era rivelato efficace. Scrive Al Monitor:
La linea era stata tracciata dal capo di gabinetto dell'esercito, dall'ex coordinatore delle attività nei territori palestinesi e dall'intelligence interna israeliana, e si basava su una sola premessa: non era praticamente mai successo che un palestinese dotato di un permesso di lavoro facesse un attentato. Questa premessa ha permesso ai servizi di sicurezza israeliani di convincere i politici - soprattutto quelli di estrema destra che siedono al governo - a non scombinare più di tanto la vita dei palestinesi [che lavorano negli insediamenti israeliani], la loro libertà di movimento e il rilascio di nuovi permessi.
Non è ancora chiaro se il governo stia pensando a restrizioni o maggiori controlli per i palestinesi che lavorano negli insediamenti. Nel frattempo, le ricerche di Na'alowa stanno continuando: parlando col Times of Israel, alcuni funzionari israeliani hanno detto che potrebbe aver lasciato un messaggio suicida e che l'esercito si sta preparando a un'eventuale sparatoria nel caso dovesse trovarlo.

(il Post, 12 ottobre 2018)


Crisi dei rapporti russo - israeliani?

di Riccardo Lancioni

L'abbattimento del Il-20 da ricognizione lo scorso 17 settembre è stato un evento grave. Dopo la perdita di un aereo e soprattutto di 15 militari la postura russa nel teatro siriano non poteva non cambiare. Putin ha smorzato i toni dopo la prima furente dichiarazione del ministro Shoigu ma nonostante le migliori intenzioni del presidente si è verificata una rottura tra Russia e Israele. Su Rossija 1, tv di stato moscovita, si reputano insincere e non convincenti le giustificazioni israeliane. L'area già travagliata dalla guerra civile rischia ora di divenire lo scenario di un confronto russo-israeliano che si era cercato per anni di evitare.

 La risposta del Generale
  La realtà nel teatro siriano è molto complessa. Israeliani, statunitensi, francesi e inglesi hanno dato prova di poter colpire ovunque con armi stand-off senza timore di ritorsioni. Il Generale Sergei Kuzhugetovich Shoigu, ministro della difesa della Federazione Russa, ha deciso di modificare gli equilibri di teatro giustificandosi con la recente perdita. Non vi sono dubbi riguardo l'appoggio presidenziale alle iniziative dei militari ma Putin ha scelto di non farsi carico personalmente, almeno a livello d'immagine, di tali responsabilità. La prima e più immediata mossa, è stata procedere al jamming dei radar, dei sistemi di navigazione e di comunicazione satellitare di qualsiasi velivolo, che si trovi nello spazio aereo siriano o nel Mediterraneo nord orientale diretto ad effettuare strike in Siria. Non bisogna sottovalutare l'importanza di questa misura di guerra elettronica infatti le forze russe possono limitare molto l'efficacia delle aviazioni alleate grazie a questo strumento. Di gran lunga più importante a livello strategico è però la concessione ad Assad del sistema S-300. Il complesso missilistico è tecnologicamente allo stato dell'arte e garantisce la difesa anti-aerea e anti-missile a lungo raggio. Secondo il ministro della difesa di Mosca i siriani sono equipaggiati con il sistema di controllo fuoco e identificazione friend/foe attualmente in uso nelle unità russe e mai esportato prima. Tale gesto è una rarità nella condotta di affari all'estero da parte di Mosca che ha spesso venduto armamenti ad uno standard tecnologico inferiore, e a volte di molto, a quello delle proprie forze armate. Già i complessi anti-aerei Pantsir S1 per la difesa a corto raggio avevano aumentato le capacità difensive di Damasco ma ora con un sistema tanto potente e avanzato gli si permette non solo di contrastare sciami di missili cruise ma anche di colpire aerei nemici a grande distanza. Shoigu ha concluso il suo breve secondo comunicato dicendosi fiducioso che le misure prese contribuiranno a tenere più al sicuro il personale militare russo calmando le "teste calde", non lasciando dubbi sul destinatario.

 Uno scacco a Israele?
  Quali sono le reali prestazioni degli S-300? Capaci di colpire aerei e missili nemici a più di 240 km una batteria schierata nei pressi di Damasco potrebbe ingaggiare bersagli ben oltre Nazareth, il lago di Tiberiade in quasi tutto il nord di Israele. Per la IAF il cielo siriano non sarebbe più un'area di semi-libero sorvolo e strike ma piuttosto proprio gli aerei con la stella di Davide verrebbero individuati e potenzialmente abbattuti ben al di qua dei propri confini nazionali. Limitazioni operative totalmente inaccettabili per lo stato ebraico. Il 10 febbraio scorso si verificò l'abbattimento di un F-16 israeliano da parte della contraerea siriana, in tale occasione il ministro della difesa di Israele, Avigdor Lieberman, aveva dichiarato: "Se qualcuno spara ai nostri aerei noi li annienteremo". Parole che vennero seguite da una notte di raid israeliani in tutta la Siria, particolarmente importanti furono le missioni di Suppression of Enemy Air Defences (SEAD). Eventi che visti in prospettiva fanno prevedere un'automatica e soverchiante risposta nel caso aerei israeliani vengano nuovamente ingaggiati dai siriani. Gli F-35 potrebbero essere la migliore risorsa di Israele contro gli S-300 in virtù della loro quasi nulla tracciabilità radar ma le missioni di SEAD sono sempre molto rischiose e con l'elettronica disturbata dai russi tali costosissimi aerei verrebbero a trovarsi in seria difficoltà.

 Cosa può succedere
  John Bolton, National Security Advisor di Trump, ha definito la consegna ai siriani del sistema russo una "significant escalation". Uno scontro è possibile, se non probabile, e Mosca sa di non poterselo permettere, per quanto concerne la scarsa capacità russa di alimentare un grande sforzo all'estero. Consegnare armi tanto potenti ad un attore come Assad sembra dunque una mossa folle. Un precedente storico potrebbe però fornire una chiave di lettura degli eventi così da non lasciarsi ingannare dalle apparenze. Durante la guerra d'attrito, 1967-1970, erano i "consiglieri" sovietici ad azionare i radar e i missili dell'esercito egiziano. Uno stratagemma che potrebbe rivelarsi altrettanto efficace al giorno d'oggi. Il Cremlino dunque controllerebbe direttamente gli S-300, decidendo quando e se ingaggiare gli aerei alleati ma assicurandosi allo stesso tempo la possibilità di negare il proprio coinvolgimento nell'azione e scaricando ogni responsabilità sui male addestrati siriani già colpevoli per l'abbattimento dell'Il-20. Non vi sono dubbi sulla pericolosità di un tale approccio da parte di Mosca infatti per quanto i missili si trovino già in Siria passerà ancora del tempo prima che diventino operativi.
  I leader dei due paesi sanno che per i rispettivi interessi strategici è vitale non ostacolarsi vicendevolmente e in ultima analisi risulta più probabile che la mossa russa sia volta a ristabilire la propria autorevolezza e non a sgretolare i buoni rapporti con Israele. È infatti vitale per il Presidente Putin mantenere alta la credibilità delle proprie forze armate soprattutto nel teatro siriano dove da esse dipende il mantenimento al potere di Bashar al-Assad. Per Netanyahu è invece necessario lo spazio aereo di Damasco per colpire gli iraniani e le loro basi nel paese, da qui la volontà reciproca di arrivare a "colloqui in tempi brevi" come annunciato negli ultimi giorni.

(Geopolitica, 11 ottobre 2018)



Inviato Onu per la pace in Medio Oriente persona non gradita ad Abu Mazen

“Mladenov ha ecceduto nel suo ruolo sull’intesa Hamas-Israele”

Nikolai Mladenov
L'inviato dell'Onu per la pace in Medio Oriente Nikolai Mladenov "non è più persona gradita" per i palestinesi. Lo ha detto il membro dell'esecuto dell'Olp Ahmad Majdalani confermando così ufficialmente le notizie sulla crescente opposizione palestinese al rappresentante Onu a causa della sua attività a favore di un "accordo tra Hamas e Israele".
Il rappresentante dell'Olp - citato dai media palestinesi - ha spiegato che della vicenda è stato informato lo stesso Segretario generale dell'Onu Antonio Guterres.
Mladenov, secondo Majdalani, lavorando per un'intesa tra Hamas e Israele, con mediazione egiziana, ha "ecceduto nel suo ruolo" mettendo a rischio "la sicurezza nazionale palestinese e l'unità del popolo palestinese". Il presidente Abu Mazen ha più volte detto di essere contrario a trattative indirette che non coinvolgano il governo dell'Autorità nazionale palestinese, l'unico ad essere riconosciuto internazionalmente. Al momento non si hanno reazioni da parte dello stesso Mladenov o dell'Onu.

(ANSAmed, 12 ottobre 2018)


«Negazionisti alla Camera». Lo Stato ebraico solleva il caso

La comunità ebraica di Roma insorge e l'ambasciatore israeliano Ofer Sachs consegna a una nota durissima il suo disappunto dopo l'audizione, in Commissione Esteri della Camera, di membri di un Istituto di studi iraniano accusato di ispirarsi alle tesi che negano la Shoah. «Un episodio inaccettabile», lo ha definito Sachs, secondo il quale «il Parlamento italiano simbolo della democrazia del Paese non può ospitare chi promuove idee negazioniste, antisemite e antisioniste». Un «fatto di una gravità inaudita» per la Comunità ebraica.
   La presidente della Commissione Esteri Marta Grande (M5S) difende la scelta, precisando che le audizioni hanno «finalità esclusivamente conoscitive» e «in nessun modo equivalgono a prese di posizione passive a favore delle tesi di chi è audito». Non è affatto dello stesso parere la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, che parla di «una grave sottovalutazione»: «Penso che la commissione Esteri non avrebbe dovuto dare spazio alcuno agli esponenti di una organizzazione iraniana che in passato ha già avuto accenti negazionisti e antisemiti». Anche il vicepremier Matteo Salvini invita ad una maggiore prudenza: «Da noi vige la separazione dei poteri ed il Parlamento ha le sue prerogative che naturalmente rispetto. Detto questo non si scherza sulla Shoah». Nei giorni scorsi alla Camera erano state approvate cinque mozioni contro l'antisemitismo.

(Corriere della Sera, 12 ottobre 2018)


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Israele si indigna per gli iraniani alla Camera

Carfagna: «Chiederò al presidente Fico come sia potuta accadere una cosa simile»

di Gabriele Carrer

Ha fatto rumore il caso, raccontato mercoledì (e prima di tutti) dalla Verità online, della delegazione iraniana invitata quel giorno a parlare in commissione Esteri della Camera.
   Mentre si celebrava la giornata mondiale contro la pena di morte, in Parlamento veniva data la parola a rappresentanti dello Stato che nel 2017 ha eseguito più della metà delle condanne a morte nel mondo. A preoccupare la comunità ebraica e l'ambasciata israeliana a Roma è stata la presenza di Morteza Damanpak Jami e Ali Reza Bikdeli, rispettivamente vicepresidente e membro vicepresidente dell'Institute for political and international studies, il centro studi di Teheran che nel 2006 organizzò nella capitale iraniana una conferenza sul negazionismo dell'Olocausto con ospite David Duke del Ku Klux Klan.
   L'ambasciatore israeliano in Italia, Ofer Sachs, ha condannato l'episodio definendolo «inaccettabile» e sottolineando che, «se sul tema dell'accordo nucleare è possibile non condividere una comune visione, ciò su cui non ci si può invece dividere è sulle invettive della Repubblica islamica contro Israele e il suo diritto a esistere pronunciate durante l'audizione». Infatti, come riportato dal nostro giornale, la delegazione iraniana ha attaccato duramente lo Stato ebraico davanti ai membri della commissione. Bikdeli ha avvertito i membri della commissione che «ci sono stati molti errori dopo il primo errore, che è stato la creazione di Israele». Di quest'audizione informale trasmessa sulla web tv della Camera però, stranamente, non c'è il resoconto stenografico della commissione. Come se si preferisse non lasciar traccia negli archivi.
   La scorsa settimana la Camera aveva votato una serie di mozioni per contrastare le vecchie e nuove forme di antisemitismo. Proprio per questo la Comunità ebraica di Roma ha parlato di «un fatto di una gravità inaudita», aggiungendo che il Parlamento, simbolo della democrazia in Italia, «dovrebbe servire per promuovere i valori di libertà e rispetto e non fornire accoglienza a chi nega la storia».
   Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia, si rivolgerà alla presidente della commissione Marta Grande e al presidente della Camera Roberto Fico «per capire come sia potuta accadere una simile grave sottovalutazione» della presenza della delegazione iraniana alla Camera. Altri due forzisti sono intervenuti: Alessandro Cattaneo ha parlato di «fatto grave» mentre, Andrea Orsini, che è anche membro della commissione, ha spiegato di non aver ritenuto opportuno partecipare all'incontro, «in contraddizione con l'impegno tante volte ribadito dalla Camera contro l'antisemitismo». Lucio Malan, forzista e presidente dell'associazione interparlamentare di amicizia Italia-Israele, ha condannato il fatto che la Camera sia stata sfruttata dagli iraniani per «lanciare prevedibili minacce contro gli Usa, Israele e i Paesi occidentali, minacce che hanno incluso anche il possibile proseguimento dello sviluppo di armi nucleari».

(La Verità, 12 ottobre 2018)


L'attore ebreo e la reporter araba: il matrimonio che turba Israele

Sposi in segreto, minacce dagli estremisti. Lui star della serie tv, lei celebre giornalista: da quattro anni si amano in segreto.

di Davide Frattini

 
Tzachi Halevy e Lucy Aharish
GERUSALEMME - Ha imparato l'arabo in famiglia - padre di origine marocchina, madre yemenita - e ha dovuto perfezionare la parlata palestinese quando è stato arruolato nel Duvdevan, l'unità speciale che opera sotto copertura in Cisgiordania. Gli stessi raid che ha interpretato davanti alle telecamere nella serie tv Fauda.
   L'attore Tzachi Halevy ha voluto mantenere clandestina anche l'ultima missione: sposare la giornalista televisiva Lucy Aharish. Lui ebreo, lei musulmana. La cerimonia di mercoledì sera è rimasta segreta fino a dopo il sì, perché la coppia immaginava quel che è successo all'annuncio pubblico: proteste della destra al governo in Israele, rischio di minacce tra gli estremisti arabi. Tzachi e Lucy sono stati fidanzati per quattro anni, lo sapevano solo pochi amici e i parenti, adesso rappresentano le prime celebrità israeliane a formare una famiglia, l'unione - non hanno alternativa - è civile. La notizia è stata divulgata dal presentatore Guy Pines nel suo programma serale, uno dei primi condotti da Lucy. Anche la rivelazione è stata gestita attraverso persone fidate.
   A Halevy i deputati o ministri conservatori non sembrano perdonare di aver prima incarnato per gli spettatori locali e in tutto il mondo (su Netflix) un massiccio a volte brutale ufficiale del Duvdevan - che in ebraico significa ciliegia - e poi di aver sputato il nocciolo nazionalista sposando un'araba-israeliana. Che è stata accusata via Twitter dal deputato Oren Hazan di «aver sedotto un ebreo»: «Sono sicuro che il suo obiettivo non sia danneggiare la nostra nazione e prevenire la progenie ebrea dal prolungare la dinastia. Quindi è benvenuta: la invito a convertirsi». A Halevy dice di volersi «islamizzare» e avverte tutti e due: «Basta con l'assimilazione».
   Anche Aryeh Deri, ministro dell'Interno e leader del partito religioso Shas, incita la giornalista alla conversione: «Non dobbiamo incoraggiare queste unioni nonostante l'amore. I loro figli avranno problemi in Israele. L'assimilazione ci mette in pericolo, sta consumando il nostro popolo: nello Stato di New York ormai vivono meno ebrei che subito dopo l'Olocausto». Hazan può essere solo un parlamentare in cerca di notorietà o che prova a far dimenticare agli elettori perché ricordano il suo nome: ha gestito casinò in Bulgaria ed è sospettato - lui smentisce - di aver fatto girare prostitute e cocaina assieme alla roulette. Ma le sue frasi sono condannate anche da colleghi nella coalizione al potere («Disgustoso, in questo giorno la coppia si ricordi solo delle benedizioni e degli auguri», dice Meirav Ben Ari di Kulanu) e sono viste come il segno di un razzismo radicato: «Rivelano il lato oscuro del Likud al governo», commenta Yoel Hasson, mentre Shelly Yachimovich condanna i fanatici del «sangue puro».
   Lucy Aharish è stata la prima araba israeliana a condurre un telegiornale all'ora di punta. I genitori sono originari di Nazareth, lei è cresciuta nel Negev, dove il partito del premier Netanyahu ha sempre raccolto consensi. Si è ritrovata a essere «una musulmana di destra - ha raccontato -, tifavo perfino il Beitar Gerusalemme», i cui tifosi ultranazionalisti e razzisti non vogliono permettere a calciatori arabi di giocare. Da allora dice di essersi spostata a sinistra.
   Come Lior Raz, l'ideatore e protagonista di Fauda, Tzachi Halevy è stato arruolato nelle forze speciali proprio perché parlava già l'arabo come lingua madre. E in arabo canta con il suo gruppo musicale.

(Corriere della Sera, 12 ottobre 2018)


"Se vince Corbyn me ne vado". Sebag Montefiore suona l'allarme antisemitismo

"Mi ricorda la demonizzazione degli ebrei sotto Stalin"

ROMA - Simon Sebag Montefiore, oltre che essere uno dei più grandi storici della Russia, è una superpotenza intellettuale. Lui e la moglie scrittrice, Santa, sono amici del principe del Galles e di David Cameron, sono stati invitati al matrimonio del duca e della duchessa di Cambridge e le sue biografie internazionali (Stalin, i Romanov) sono state consigliate al grande pubblico da Bill Clinton, Tony Blair, George W. Bush e Vladimir Putin. Adesso però Simon Sebag Montefiore vede a rischio il suo futuro in Inghilterra, a causa dell'antisemitismo.
   "Non vorrei rimanere in Inghilterra e vedere i miei figli vivere in un ambiente ostile agli ebrei", ha detto mercoledì al Times. La comunità ebraica inglese è in un vero e proprio stato di angoscia e di assedio, tanto che a settembre è uscito un sondaggio secondo cui il 40 per cento di loro "sta seriamente pensando di emigrare" in caso di vittoria di Corbyn alle prossime elezioni. Pochi giorni prima, l'ex rabbino capo britannico, Sir Jonathan Sacks, in un'intervista alla Bbc ha detto che con l'ascesa di Corbyn gli ebrei stanno affrontando una "minaccia esistenziale" in Gran Bretagna e che molti stanno pensando di lasciare la nazione. "Non conosco altre occasioni in questi 362 anni in cui gli ebrei - la maggior parte della nostra comunità - si sono chiesti 'questo paese è sicuro per allevare i nostri figli?"', ha detto Sacks.
   Sebag Montefiore ha appena curato un'antologia di grandi lettere, fra cui la celebre epistola di Émile Zola al presidente francese Félix Faure sul caso Dreyfus. "La storia è stata insegnata al fine di evitare questo vomito di veleno antisemita. La mia famiglia ne ha discusso: i miei figli mi hanno fatto domande al riguardo". I Montefiore sono inglesi dal 1790, arrivati dall'Italia, dal Portogallo e dalla Spagna, e i Sebag sono venuti dal Marocco negli anni Venti dell'Ottocento.
   "La famiglia di mia madre sfuggì ai pogrom russi nel 1904, quindi non sottovalutate come ci si sente", dice lo storico al Times. "È un'agonia per noi: amiamo la Gran Bretagna, siamo britannici e siamo ebrei, una piccola comunità, e non vogliamo andare da nessuna parte. Ma la storia dimostra che devi sempre avere pronte delle valigie psicologiche. Gli ebrei quando sono insieme ne discutono (del nuovo antisemitismo, ndr). Non aspettiamo che accada". Dove andrebbe? "In Europa, a N ew York o in California". Lo storico nell'antisemitismo corbyniano vede tracce di quello stalinista. "Sento che considerano gli ebrei una classe ostile, sfruttatrice, coloniale-capitalista". In una lettera al Times, Sebag e altri due eminenti scrittori ebrei un anno fa hanno accusato il Partito laburista di Corbyn di "diffuso" antisemitismo camuffato da critica a Israele. Il pluripremiato romanziere Howard Jacobson, Simon Sebag Montefiore e Simon Schama hanno scritto di una "demonizzazione del sionismo: il diritto del popolo ebraico a una patria e l'esistenza stessa di uno stato ebraico. Le critiche costruttive dei governi israeliani si sono trasformate in qualcosa di più vicino all'antisemitismo sotto il mantello del cosiddetto antisionismo. Noi crediamo che l'antisionismo, con le sue caratteristiche di antisemitismo, non abbia spazio nella società civile". Perché, a forza di sdoganare antisemitismo a sinistra, tanti ebrei inglesi anche blasonati ora mettono in discussione il proprio di spazio in Inghilterra.

(Il Foglio, 12 ottobre 2018)


"Lord, è ora di affrontare il veleno antisemita"

Rav Jonathan Sacks
"Mi addolora dover parlare di antisemitismo, l'odio più antico del mondo. Ma non posso tacere. Gli ebrei, come religione, come razza o come Stato di Israele, sono diventati il capro espiatorio di problemi di cui tutte le parti sono responsabili. Questa è la strada che porta alla tragedia". È Il chiaro monito pronunciato ai suoi colleghi Lord da rav Jonathan Sacks, protagonista di un'audizione alla camera alta britannica sul pericolo attuale dell'antisemitismo. una minaccia che in Gran Bretagna tocca oggi in particolare la leadership laburista, con il capo del partito Jeremy Corbyn accusato di recente di fomentare l'antisemitismo e l'odio contro Israele. "L'antisemitismo, o qualsiasi odio, diventa pericoloso quando accadono tre cose - ha spiegato rav Sacks, già rabbino capo di Gran Bretagna -.
   Primo: quando si sposta dai margini della politica a un partito tradizionale e alla sua leadership.
   Secondo: quando questo partito non vede la sua popolarità presso il grande pubblico danneggiata.
   Terzo: quando coloro che si alzano e protestano sono diffamati e maltrattati per averlo fatto. Tutti e tre i fattori esistono ora in Gran Bretagna.
   Non avrei mai pensato di vederlo nella mia vita. Ecco perché non posso rimanere in silenzio. Perché non sono a rischio solo gli ebrei. Lo è anche la nostra umanità". Un allarme che ha trovato indirettamente conferma nell'atteggiamento di Corbyn poche settimane dopo l'intervento di rav Sacks alla Camera dei Lord. Nonostante l'approvazione della definizione dell'IHRA di antisemitismo da parte del Labour, l'atteggiamento del leader della sinistra britannica non è sembrato quello di chi vuole fare i conti con le proprio responsabilità.
Il problema del mondo ebraico con Corbvn, ha scritto sul Guardian Jonathan Freedland, non è legato alla difesa del diritti palestinesi. "Si oppongono a lui - scrive Freedland - per fare un esempio, per Il suo attacco del 2013 a un gruppo di 'sionisti' «termine usato da Corbyn in senso spregiativo» che aveva affrontato non sulla base delle loro argomentazioni, ma per motivi etnici, osservando che, nonostante 'abbiano vissuto in questo Paese per molto tempo, non capiscono l'ironia inglese'. L'implicazione di questa osservazione è chiara e non ha nulla a che fare con la difesa dei palestinesi. È che Corbyn vede gli ebrei come fondamentalmente alieni, stranieri che possono anche vivere qui da molto tempo, possono anche essere nati qui, ma sono ancora essenzialmente altri. Persone che non saranno mai veramente inglesi".

(Pagine Ebraiche, ottobre 2018)


Chelsea, viaggio ad Auschwitz per chi fa cori antisemiti

I Blues pagheranno dei corsi di formazione che prevedono anche la visita al campo di concentramento in Polonia

ROMA - La punizione non basta, bisogna rieducare. Si può sintetizzare così l'operazione che il Chelsea ha deciso di varare come provvedimento contro i tifosi che si sono resi protagonisti di cori antisemiti. La società londinese ha stabilito che i colpevoli dovranno sottoporsi a dei corsi di formazione che prevedono un viaggio al campo di concentramento di Auschwitz. Chi non accetta, rimane fuori da Stamford Bridge. Un anno fa l'episodio che ha portato i Blues al giro di vite. "Morata viene dal Real Madrid e odia gli ebrei" furono le parole di un coro dei tifosi per Alvaro durante la gara con il Tottenham, squadra del quartiere omonimo con un elevato numero di ebrei. «Smettete di cantarlo, il linguaggio non è per niente accettabile» scrisse in un comunicato il Chelsea che però ha scelto di non fermarsi a una dura condanna di facciata.

 Le parole di Buck
  «Se ti limiti a impedire loro l'accesso allo stadio, non cambierai mai il loro comportamento - ha annunciato al "The Sun" il presidente del Chelsea Bruce Buck -. Questa iniziativa invece permette di far capire loro quello che hanno fatto, così da portarli a comportarsi meglio. In passato li avremmo cacciati dagli stadi per tre anni, ora invece il messaggio è: "Hai sbagliato, ma puoi scegliere: o non entri allo stadio o puoi passare del tempo con persone del club che si occupano della gestione delle diversità, in modo da capire cosa hai fatto di sbagliato e perché". E' difficile fare qualcosa quando hai a che fare con un gruppo di 50 o 100 persone che cantano ed è praticamente impossibile bloccarli o cercare di trascinarli fuori dallo stadio. Ma se riusciamo a identificarli individualmente, allora possiamo fare qualcosa».

(Tuttosport, 11 ottobre 2018)


"Tunnel del terrore di Hamas, Israele li smantellerà tutti

 
L'interno di un tunnel di attacco di Hamas penetrato nel territorio israeliano e distrutto dall'esercito israeliano l'11 ottobre 2018
L'esercito israeliano ha scoperto e distrutto un tunnel costruito dal movimento terroristico di Hamas che si infiltrava in Israele per 200 metri. L'imbocco del cunicolo sotterraneo si trovava nell'area di Khan Younis, nella zona meridionale della Striscia di Gaza. Si tratta del quindicesimo tunnel distrutto dall'esercito dall'ottobre del 2017: una minaccia quindi ancora presente nonostante l'imponente operazione fatta nel 2014 proprio per distruggere questa rete sotterranea, costruita da Hamas per infiltrarsi al di là del confine e colpire soldati e civili israeliani. Quest'ultimo cunicolo era stato scoperto già mesi fa. "La decisione sulla tempistica dei lavori per neutralizzare il tunnel ha a che fare con considerazioni operative, così come con il fatto che il tunnel si collega a una rete di gallerie di combattimento interno alla Striscia", ha dichiarato il portavoce dell'esercito Ronen Manelis. "Abbiamo studiato i tunnel per migliorare le nostre capacità di risposta di fronte alla minaccia della rete sotterranea costruita da Hamas all'interno della Striscia. Lo sforzo contro questo pericolo continua ininterrottamente ed è guidato dalla divisione di Gaza con particolari competenze tecnologiche e ingegneristiche. Aver trovato questo ultimo tunnel mostra uno sviluppo delle nostre capacità di localizzazione", ha aggiunto Manelis, che ha spiegato che l'esercito è riuscito a prendere il controllo di alcuni tunnel che Hamas stava progettando di utilizzare per un attacco terroristico all'interno dei confini israeliani.
L'esercito ha detto di aver stimato che il tunnel è costato "3 milioni di dollari di cemento, materiale elettrico e ore di lavoro". Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha promesso che Israele continuerà a combattere questa minaccia. "Il tunnel del terrore che abbiamo distrutto questa mattina è un altro tunnel che Hamas non avrà nella prossima guerra. Ogni giorno ci avviciniamo alla distruzione dell'arma dei tunnel", ha detto Lieberman.

(moked, 11 ottobre 2018)


Da Trionfo a Luzzati, la storia in cammino degli ebrei genovesi

Domenica la Giornata della cultura ebraica con il capoluogo ligure in prima fila: visite guidate, cibo di strada, laboratori per bambini, concerti e spettacoli.

di Ariela Piattelli

ROMA - "Noi ebrei non siamo dei pittori. Non siamo capaci di dipingere le cose staticamente. Le vediamo in continua transizione, in movimento, come mutamenti. Noi siamo narratori". Così scriveva Franz Kafka, per spiegare come l'arte del raccontare appartenga al Dna del popolo ebraico. Perché la Torah, la Bibbia, è il primo vero racconto che ogni ebreo ascolta e impara a conoscere, seppur mai abbastanza, e perché la narrazione è l'unico modo per poter tramandare, tener viva un'identità e soprattutto per elaborare la storia e trasformarla in memoria. "Storytelling. Le storie siamo noi" è il tema della Giornata europea della cultura ebraica che in Italia si tiene domenica 14 ottobre in ben 87 città distribuite in 15 regioni, con Genova capofila. Centinaia di attività, tra visite guidate a sinagoghe, musei e quartieri ebraici, concerti e mostre d'arte, spettacoli teatrali e incontri di approfondimento, eventi per bambini e percorsi enogastronomici kosher. «Per noi ebrei il racconto equivale alla nostra identità - dice la presidente delle comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni - Perché l'identità si costruisce attraverso la narrazione di noi stessi. Questa caratteristica che ci appartiene vogliamo condividerla con tutti. Per noi raccontare è un dovere, una responsabilità».

 Un messaggio di speranza
  Genova è stata designata capofila prima della tragedia del crollo del Ponte Morandi, ed è stata confermata per lanciare un messaggio positivo, di ripartenza: «Dopo la tragedia che ha colpito la nostra città ci siamo confrontati con il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti e con il sindaco Marco Bucci - spiega il presidente della Comunità ebraica genovese Ariel Dello Strologo -. Assieme a loro abbiamo deciso di non rinunciare, anche come segno che la città reagisce alla tragedia. Ci sembrava giusto e doveroso però dedicare una parte della giornata al ricordo delle vittime, come forma di partecipazione al lutto». E così nel segno del ricordo domenica si inizia nella sinagoga di Via Bertora con una preghiera e un momento di raccoglimento. Continuano poi le visite della Genova ebraica «che abbiamo inaugurato domenica scorsa. È stato un grande successo, e presto diventeranno un appuntamento fisso - spiega Dello Strologo, che a proposito dello Storytelling sottolinea che «se proprio c'è una storia difficile da raccontare è quella degli ebrei di Genova. Non è stato permesso, lungo i secoli, un insediamento ebraico stabile, principalmente per motivi di concorrenza economica, spesso accompagnata da motivi religiosi. Solo in alcuni casi i governanti hanno ammesso una presenza ebraica stabile. Come per esempio con la peste del 1630, quella raccontata da Alessandro Manzoni, che aveva decimato la popolazione e reso necessario la chiamata di famiglie di ebrei da Livorno per aiutare a ricostituire il tessuto economico e commerciale della città. Siamo in possesso di una lettera accorata in cui questi ebrei lamentano alle autorità cittadine di allora di essere discriminati, insultati e respinti, e per questo hanno deciso di andarsene altrove». Poi però l'ebraismo genovese rinasce. «Direi che nasce piuttosto. Quando la città diventa importante grazie al suo porto, molti ebrei decidono di trasferirsi, costituendo così una componente socio culturale forte e ben integrata. Da 200 cittadini diventano 3.000».

 I narratori liguri
  Tra i contributi culturali che l'ebraismo ha donato a Genova c'è proprio quello dei narratori, come Aldo Trionfo, Alessandro Fersen ed Emanuele Luzzati, che, con una fortissima identità ebraica, hanno costruito assieme a molti altri il teatro italiano moderno. «Con gli eventi in programma declineremo il tema del racconto in molti ambiti - continua Dello Strologo -. Non potevamo però dimenticare l'anniversario degli 80 anni dalle leggi razziali. Ospitiamo infatti la mostra prodotta dalla Fondazione Museo della Shoah e a cura di Marcello Pezzetti e Sara Berger titolata "La razza nemica. La propaganda antisemita e fascista", che affronta la forma più odiosa di narrazione. Con un pomeriggio letterario cercheremo poi di capire quali sono i tratti comuni tra gli scrittori per definire una letteratura ebraica. Abbiamo invitato anche la regista teatrale Andrée Ruth Shammah e l'attrice Miriam Camerini che parleranno dello Storytelling nel mondo dello spettacolo, dal teatro al cinema». Infine due spettacoli, "Il Bignami di Mosè", ovvero la storia delle tradizioni orali e musicali del popolo ebraico, di e con Eyal Lerner, accompagnato alla fisarmonica da Julyo Fortunato e dal coro genovese Shlomot, e un grande classico, "Il violinista sul tetto" diretto da Paolo Pignero, lo storico musical composto da Jerry Bock su libretto di Sheldon Hamick, ambientato in un villaggio ebraico in Russia, tratto dai racconti di Sholem Aleichem. -
Programma delle manifestazioni

(Il Secolo XIX, 11 ottobre 2018)


Conflitto israelo-palestinese: torna la soluzione a due Stati

Ely Karmon. Ricercatore senior all'Istituto internazionale per il controterrorismo di Herzliya, Israele

Testo raccolto da Chiara Clausi

 
Ely Karmon
Il presidente Usa Donald Trump ha cambiato strategia sul conflitto israelo-palestinese: ora vuole appoggiare una soluzione a due Stati. E ha promesso di presentare il suo tanto atteso piano di pace entro quattro mesi. Una svolta, rispetto alla sua precedente posizione. «È un mio sogno riuscire a farlo prima della fine del mio primo mandato» ha dichiarato. L'accordo non dipenderà tanto dall'amministrazione Trump, ma dai tre attori principali sulla scena: Fatah (che controlla la Cisgiordania), Hamas (al potere nella Striscia dal 2007) e Israele. Ogni player ha una strategia. Senza dimenticare i Paesi arabi, che giocano un ruolo chiave, elargendo fondi ai palestinesi. Egitto, Arabia Saudita e Qatar fanno pressione su Hamas e Fatah affinché si arrivi a una soluzione, che resta però molto difficile da ottenere. E poi ci sono Qatar e Turchia, che finanziano Hamas per la ricostruzione.
   Il problema è che Fatah e Hamas continuano a odiarsi e a competere per garantirsi il controllo dei Territori. Per aumentare la pressione su Hamas, Abu Mazen ha preso una serie di misure nella Striscia, tagliando i salari di migliaia di ex dipendenti governativi e i sussidi per il carburante, per pagare l'elettricità. Purtroppo una reale intesa con Israele non sarà possibile finché Hamas controllerà Gaza. Se questa inizierà una escalation, a Israele non rimarrà altro che entrare nella Striscia e distruggerla militarmente. Hamas ha due nemici: Israele da una parte e l'Autorità palestinese dall'altra.
   Ma è anche vero che il governo israeliano vuole piena libertà nel costruire gli insediamenti nella West Bank. E ciò non è compatibile con i piani di Fatah e Hamas. Dal canto suo, Abu Mazen crede che non ci possano essere progressi significativi a Gaza senza un accordo di riconciliazione che lo riporti al potere. I suoi colloqui con Hamas sono ripetutamente falliti sul rifiuto di quest'ultima di disarmarsi. Ora Abu Mazen gli ha inviato un ultimatum, che scadrà a fine ottobre, e prevede l'accettazione del pieno controllo dell'Anp su Gaza.
   In realtà finché l'Autorità Palestinese non controllerà Gaza, Hamas non sarà disarmato e Israele e i palestinesi non scenderanno a compromessi sulle loro richieste massimaliste. non sarà possibile trovare una soluzione. E non mi riferisco all'accordo finale, ma a una soluzione più modesta a breve termine.

(Panorama, 11 ottobre 2018)


Presentato il docu-film «La razzia. Roma 16 ottobre 1943»

di Paola Parlset

ROMA - Chi era quel bambino impaurito, riparatosi in un deposito dei tram, nella mattina del 16 ottobre 1943 a Roma? Era, ma adesso è, Emanuele Di Porto, che racconta 75 anni dopo, come - diffusosi in un lampo il terrore dei tedeschi, che stavano arrivando innumerevoli nel Ghetto, la madre gli gridò di fuggire a Testaccio. Lui invece, a piazza Mastai - da loro chiamata «delle tartarughe» (lì scolpite sulla cinquecentesca fontana, dal Bernini) - vide che la madre veniva caricata su un camion: ella gli urlò di scappare, ma un tedesco lo tirò su. Emanuele riuscì a buttarsi dal camion, riparando nel deposito dei tram: li rimase due giorni, lo nutrirono gli autisti e si salvò. Ma delle circa 1200 persone rastrellate, ne tornarono 16.
   La più violenta manifestazione dell'applicazione delle Leggi Razziali in Roma, quest'anno sarà ricordata dal film del regista Ruggero Gabbai «La razzia. Roma 16 ottobre 1943», su testi dello storico Marcella Pezzetti e Liliana Picciotto. Esso raccoglie rari documenti del periodo e testimonianze ancora inedite di testimoni oculari, allora bambini, sulla cui retina le immagini dei terribili fatti restarono incollate per sempre.
   Ieri, nella Casina dei Vallati al Portico d'Ottavia, è stato presentato uno specimen del film, che verrà proiettato il 16 ottobre alla Camera dei Deputati, per volontà della vice presidente Mara Carfagna - «Ho voluto ciò, perché il Parlamento rappresenta la sovranità popolare», ha detto - con il volere della Fondazione Museo della Shoah presieduta da Mario Venezia: il film è già incluso nella prossima Festa del Cinema di Roma. Vedremo gli occhi, sentiremo la voce (oggi rotta dalla commozione) del dodicenne Nando Tagliacozzo, vedremo la monaca oggi novantasettenne, che apri le porte del convento ai bambini terrorizzati: e la musica di Mauro Piacentini si unirà alla dolcezza delle preghiere ebraiche.

(Il Tempo, 11 ottobre 2018)



I complici del terrorismo "a bassa intensità"

di Ugo Volli

I palestinisti chiamano "resistenza popolare" gli attacchi terroristi di piccola dimensione e già il nome è un programma, perché implica l'appoggio e l'approvazione sociale che l'Autorità Palestinese fornisce a questi crimini, oltre all'istigazione sui suoi media convenzionali e social e gli stipendi forniti ai terroristi e ai loro famigliari. Altri parlano di "lupi solitari", "mini-terrorismo", "terrorismo fai da te" o "a bassa intensità" , ma la sostanza è quella: sono atti criminali che non mettono a rischio la sicurezza strategica di Israele, ma uccidono persone innocenti, devastano famiglie, esprimono l'odio ma anche lo moltiplicano.
   Chi dovrebbe preoccuparsene non sono dunque tanto i militari, che per mestiere devono badare innanzitutto ai grandi rischi, che in questo momento si chiamano Iran e Hezbollah, con la preoccupante complicità russa; ma invece coloro che proclamano di essere nel "campo della pace", di voler "costruire ponti e non muri", di essere contrari al bellicismo e alle misure militari, insomma la sinistra, i cattolici, i media che non amano essere chiamati "buonisti" ma lo sono. Eppure sono proprio loro che stanno zitti, che evitano di condannare, o parlano genericamente di "violenza", come ha fatto ieri l'ambasciatore europeo in Israele suscitando scandalo. Se i paesi europei, che si preoccupano così tanto dello smantellamento di un insediamento beduino illegale e inquinante e dello spostamento dei suoi abitanti in un villaggio decente qualche chilometro più in là, alzassero la voce contro i palloni esplosivi lanciati da Hamas (la cui ultima versione comprende anche dei giocattoli riempiti di esplosivo, nella cinica speranza che qualche bambino li prenda in mano e ne sia ucciso o mutilato), se avessero protestato contro l'accoltellamento o gli investimenti automobilistici di civili ammazzati a caso solo perché hanno l'aria di essere ebrei, oggi sarebbero certamente più credibili. Se fossero poi riusciti a convincere i loro amici palestinisti che assassinare delle persone qualunque non è un mezzo accettabile di lotta politica, forse l'idea della pace sembrerebbe meno assurda agli israeliani comuni di quanto appaia oggi dai sondaggi. E invece no, di fronte ai crimini contro passanti inermi il papa e Mogherini e Bonino, il Pd e Macron, gli intellettuali le femministe e i moralisti che difendono il sindaco di Riace non trovano parole, o proprio non gli interessa. In fondo si tratta di ebrei, non di immigrati clandestini.
   Prendete l'ultimo caso di Barkan, una zona industriale dove israeliani e arabi dell'Autorità palestinese convivono da molti come lavoratori - esattamente con gli stessi diritti e lo stesso stipendio. Il dipendente arabo di un'impresa, che da qualche tempo era assente, è tornato in fabbrica, è entrato senza difficoltà, ha ammanettato una sua giovane collega (fra l'altro madre di un bambino di un anno e mezzo, e le ha sparato a sangue freddo. Poi ha ucciso un altro collega accorso al rumore, ha ferito una donna ed è scappato. Sembra ancor più un esecuzione in stile nazista che un attentato normale. C'è qualcosa di eroico, di "resistente" nell'ammazzare a sangue freddo una donna dopo averla sorpresa e immobilizzata? Ci sono dei valori nell'azione dell'assassino? Merita di essere indicato a esempio (l'Autorità Palestinese lo sta già facendo)? Merita di ricevere uno stipendio vita natural durante (l'Autorità Palestinese glielo pagherà)? Certamente no, il suo è un atto barbaro, selvaggio, contrario a ogni principio di umanità. Lui ne è responsabile, ma ne sono corresponsabili tutti coloro che hanno esaltato atti analoghi in precedenza, che li hanno stipendiati, che li festeggiano con dolcetti per strada e slogan sui social. Il primo responsabile è il presidente a vita, cioè il dittatore dell'Autorità Palestinese, che ancora di recente all'Onu ha vantato l'eroismo degli assassini e che continua a finanziarli nonostante le pressioni internazionali. Diciamolo chiaro, è un complice degli assassini.
   E sono politicamente complici anche coloro che hanno taciuto o hanno a loro volta esaltato gli istigatori. Chi ha chiamato l'istigatore degli assassini Abbas, "angelo della pace" (di mestiere fa il papa); chi l'ha baciato nella sede dell'Unione Europe (di mestiere fa l'"Alto Rappresentante" della stessa UE per gli affari internazionali); chi ne ripete gli slogan, chi usa l'arte i giornali la politica contro Israele, sentendosi virtuoso come dovevano sentirsi tali le SS quando "ripulivano" i ghetti polacchi dai "relitti umani" che vi avevano rinchiuso. E naturalmente è complice la stampa che ha taciuto, cioè praticamente tutti i giornali italiani salvo "La Stampa", che poi moraleggiano a tutto spiano sulla perfidia dei "sovranisti" che non sono accoglienti, ma dell'esecuzione mafiosa palestinista non parlano. Tutti costoro hanno una responsabilità politica precisa. Se avessero agito secondo i loro principi pacifisti, se avessero fatto capire con energia ai palestinisti che non si ammazzano i civili disarmati, se non avessero ricevuto con cordialità Abbas e quelli come lui, Kim Levengrond-Yehezkel e Ziv Hajbi, le due vittime di Barkan, sarebbero probabilmente ancora vive.

(Progetto Dreyfus, 10 ottobre 2018)



Angola, il paradiso dei finanzieri di Hezbollah

Chi poteva mai pensare che in Angola si potessero rifugiare i terroristi ricercati di Hezbollah e che il Paese africano diventasse il centro più importante per i finanzieri del terrorismo islamico da dove, attraverso ditte di comodo, accumulano miliardi di dollari con traffici illegali di ogni tipo che vanno dal traffico internazionale di droga a quello dei diamanti insanguinati.
Eppure è così. I servizi segreti occidentali monitorano da diverso tempo le attività di Hezbollah in Angola e quello che ha scoperto non solo è alquanto inaspettato ma dimostra come il terrorismo del gruppo libanese legato all'Iran sia un terrorismo di carattere internazionale, cosa che per altro noi di RR avevamo denunciato più volte svelando come i terroristi libanesi usassero il Sud America per i loro loschi traffici.
Ma quello che sta accadendo in Angola supera addirittura quello che gli Hezbollah e l'Iran stanno facendo in Sud America perché qui non hanno nemmeno bisogno di nascondersi, qui le loro attività sono alla luce del sole e vengono ben viste dal Governo locale...

(Rights Reporters, 10 ottobre 2018)


Germania - Nasce un Centro federale contro l'antisemitismo

In Germania gli incidenti antisemiti vengono registrati dalla statistica criminale della polizia, che però si rivela distorta a causa di varie imprecisioni, tanto che, una serie di ong come il Centro di ricerca e informazione sull'antisemitismo di Berlino, Rias, sono dovute intervenire.
   Come riportato da Die Welt, è stato per ovviare al problema di un sistema nazionale che coordina diverse hotline in Germania. Il progetto è ancora privo di nome ed è previsto per l'inizio di novembre. Il ministero degli Affari Familiari finanzierà alcuni progetti.
   Le cifre ufficiali non coincidono con le esperienze di molti ebrei tedeschi. Secondo le statistiche sulla criminalità della polizia, il 90% di tutti i crimini antisemiti sono commessi da estremisti di destra. Per il commissario antisemitismo del governo federale, Felix Klein: «L'antisemitismo musulmano è più forte di quanto non sia manifestato nelle statistiche». Ci sono diverse ragioni per cui le statistiche sulla criminalità sono soggette a errori. Se, ad esempio, nessun colpevole concreto viene trovato in un reato di propaganda, finisce nella statistica nella categoria dell'estremismo di destra. Il fatto che una scritta "Juden raus" possa avere i più diversi autori non viene fuori nella raccolta dei dati e quindi non è mostrato.
   Secondo il Comitato Ebraico Americano, anche il saluto hitleriano, cioè il saluto romano, fatto dai sostenitori della milizia libanese Hezbollah è stato classificato come estremista di destra alla manifestazione di Al-Quds a Berlino.
   A tutto ciò, poi, si aggiunge la riluttanza degli interessati a presentare una denuncia. Secondo gli esperti, molti evitano di recarsi alla polizia per paura di ritorsioni o diffidenza nei confronti delle autorità preposte all'applicazione della legge. Inoltre, ci sono molti reati che si trovano al di sotto del limite di punibilità. Se qualcuno viene chiamato "Tu Ebreo" in modo minaccioso, questo non è ancora un fatto punibile e di conseguenza non appare nelle statistiche della polizia criminale.

(AGC Communication, 10 ottobre 2018)


La Russia contesta la sovranità di Israele sulle alture del Golan

Il cambiamento dello status delle alture del Golan da parte di Israele "senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe una violazione degli accordi esistenti", ha affermato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov.

di Jack Gold

Il Presidente Vladimir Putin e il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov
Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha respinto le richieste di sovranità di Israele sulle alture del Golan quando ha dichiarato mercoledì che "cambiare lo status delle alture del Golan senza l'approvazione del Consiglio di sicurezza dell'ONU sarebbe una violazione degli accordi esistenti", hanno riportato le notizie di Ynet.
Lavrov ha risposto lunedì alle dichiarazioni del primo ministro Benjamin Netanyahu, secondo cui la presenza di Israele sulle alture del Golan è "una garanzia di stabilità nell'area circostante".
"Le alture del Golan rimarranno sempre sotto la sovranità israeliana perché altrimenti avremmo l'Iran e Hezbollah sulle rive del Kinneret [lago di Galilea]", ha affermato Netanyahu.
La presenza di Israele "è una solida realtà basata su antichi diritti" e "un fatto che la comunità internazionale deve riconoscere", ha affermato.
Mentre "Iran e Hezbollah stanno cercando costantemente di stabilire una forza opposta a noi che opererebbe contro le alture del Golan e la Galilea", Israele sta "contrastando questo fatto e per quanto dipende da me continuerà a farlo", ha sottolineato il primo ministro.
"Continueremo ad agire con determinazione contro i tentativi dell'Iran di aprire un fronte addizionale contro di noi sulle alture del Golan, e in Siria agiremo contro tutti i tentativi di trasferire armi letali a Hezbollah in Libano", ha aggiunto.

 "Putin capisce l'importanza che Israele attribuisce al Golan"
  Netanyahu ha in programma di incontrare il presidente russo Vladimir Putin in un prossimo futuro per discutere gli ultimi sviluppi nella regione, in particolare dopo l'abbattimento, il 17 settembre, di un aereo da ricognizione russo da parte delle forze siriane che stavano rispondendo a un attacco aereo israeliano - un incidente di fuoco amico che ha alimentato le tensioni regionali.
"Ho deciso con il presidente Putin sull'importante coordinamento della sicurezza tra l'esercito israeliano e l'esercito russo, e ovviamente insieme abbiamo sviluppato buone relazioni tra Russia e Israele", ha dichiarato Netanyahu lunedì.
"So che il presidente Putin comprende il mio impegno per la sicurezza di Israele e so che capisce anche l'importanza che attribuisco alle alture del Golan, che noi tutti attribuiamo alle alture del Golan e all'eredità di Israele", ha sottolineato il premier israeliano.
Parlando all'inizio della riunione settimanale di governo di domenica, Netanyahu ha detto di aver parlato con Putin.
"Abbiamo deciso di incontrarci presto per continuare l'importante coordinamento della sicurezza inter-militare. Israele agirà sempre per impedire all'Iran di stabilire una presenza militare in Siria e per impedire il trasferimento di armi letali a Hezbollah in Libano ", ha dichiarato.
Israele ha ripetutamente rivendicato il suo diritto alla sovranità sulle alture del Golan, citando i legami antichi e storici e le necessità di sicurezza come ragione per la sua presenza lì.
Parlando ad aprile 2016 durante la prima riunione di gabinetto israeliana sulle alture del Golan, tenutasi in onore del primo anno del 34o governo in carica, Netanyahu ha dichiarato che Israele non si ritirerà mai dalle alture del Golan.
"Le alture del Golan sono state parte integrante della Terra di Israele sin dai tempi antichi; le dozzine di antiche sinagoghe nella zona intorno a noi lo attestano", ha affermato Netanyahu. Le radici storiche di Israele sul Golan risalgono a oltre tre millenni.
Netanyahu ha detto di aver scelto di tenere questo incontro festivo del Gabinetto sulle alture del Golan "per portare un messaggio chiaro: le alture del Golan rimarranno per sempre nelle mani di Israele. Israele non scenderà mai dalle alture del Golan".
Le alture del Golan sono cruciali per la sicurezza di Israele al confine settentrionale e quindi "è giunto il momento per la comunità internazionale di riconoscere la realtà", ha affermato.

(World Israel News, 10 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


"Ebrei liberali di tutto il mondo", unitevi! Sinistra israeliana e liberalismo americano

Accorato appello di un giornalista ebreo liberal per far uscire l’ebraismo di sinistra, israeliano e americano, dalle angosce e le ambasce in cui oggi si trova. NsI

di Chemi Shalev

 
Chemi Shalev
Gli ebrei americani liberali e gli israeliani del centro-sinistra, nel tempo di Donald Trump e Benjamin Netanyahu, dovrebbero confluire insieme, nonostante le reciproche differenze. Entrambi i gruppi si sentono minacciati dalla svolta anti-democratica e di destra dei loro paesi ed entrambi sono mortificati a causa della direzione altrettanto minacciosa presa dall'altra nazione che amano.
   Gli ebrei americani sono ancora sotto shock per l'elezione di Trump e per i suoi turbolenti primi due anni in carica. Il loro disagio si fa più profondo di giorno in giorno, incluso quel sabato quando il Senato degli Stati Uniti ha confermato la nomina della Corte Suprema di Brett Kavanaugh, le cui opinioni sulla Costituzione degli Stati Uniti sono un anatema per i loro valori fondamentali. Non solo: questi vecchi ebrei statunitensi sono disillusi anche da Israele.
   Allo stesso tempo, gli ebrei americani non solo contestano, come molti israeliani, le politiche globali di Netanyahu su questioni come l'occupazione, la democrazia e lo stato di diritto, ma si sentono anche specificamente presi di mira e personalmente respinti dal monopolio israeliano ortodosso. Sono ancora furiosi per la decisione di Netanyahu del giugno 2017 di revocare l'accordo firmato sulle preghiere al Muro occidentale.
   Gli israeliani che si oppongono a Netanyahu, d'altra parte, non hanno motivo di sentirsi respinti da Trump. Al contrario, anche se Trump riceve il suo più forte sostegno dalla destra israeliana, l'apprezzamento per le sue politiche su Israele e Medio Oriente include parti significative del centro e del centro-sinistra. Secondo un recente sondaggio pubblicato dall'Università di Tel Aviv, meno del 30% degli ebrei israeliani ritiene che i negoziati con i palestinesi possano portare a un accordo di pace. Il campo di pace israeliano potrebbe non gradire il duro atteggiamento di Trump nei confronti dei palestinesi, ma non lo biasima per lo stallo stagnante nei rapporti tra Israeliani e Palestinesi.
   Allo stesso tempo, tuttavia, è chiaro a tutti gli israeliani che Trump è il principale promotore sia della coalizione iper-nazionalista ed etnocentrica di Netanyahu che eleva gli ebrei israeliani sopra tutti gli altri, come evidenzia la recente legge dello stato-nazione, sia dei suoi sforzi per soffocare il dissenso demonizzando la sinistra.
   L'indifferenza generale di Trump per le violazioni dei diritti umani e civili e l'ammirazione per i "leader forti" sono distruttivi di per sé, ma sono doppiamente criticabili quando si parla di Israele e di Netanyahu. Persino gli israeliani che non erano entusiasti delle politiche di Barack Obama nei confronti di Israele, ora possono apprezzare la sua vigilanza nel frenare gli impulsi oscuri di Netanyahu.
   Mentre il liberalismo di una maggioranza di ebrei americani non è in alcun modo sinonimo della sinistra israeliana - questi ultimi sono meno impegnati, ad esempio, per i diritti degli immigrati e delle minoranze - entrambi i gruppi sentono che le loro democrazie così come le loro convinzioni fondamentali sono sotto assedio. Entrambi temono che i loro paesi stiano attraversando le linee rosse definite dalla Costituzione. Entrambi temono che, prima o poi, essi stessi saranno presi di mira dai loro governi e, ancor più, dalle folle il cui odio i loro leader "ispirano e incitano regolarmente.
   Entrambi i gruppi sono diventati sempre più sospettosi e perfino ostili nei confronti delle proprie comunità. Gli ebrei americani guardano con sgomento la loro piccola, ma vocale e impegnata sezione di destra che si schiera con Trump e sussurra nel suo orecchio, come dimostra la stretta relazione tra il presidente e Sheldon Adelson. La sinistra israeliana, d'altra parte, è sempre più consapevole che una minoranza fanatica di destra religiosa non solo dirige le politiche di Netanyahu, ma sta attivamente cercando di sopprimere la sinistra israeliana e di metterla a tacere.
   Tuttavia, nonostante il loro programma comune e le paure condivise, i due gruppi rimangono distanti l'uno dall'altro. La sinistra israeliana segue la sua lunga tradizione, originata dai fondatori socialisti dell'Europa dell'Est e dai primi leader del paese, per cui ignora gli ebrei americani e ne sminuisce il contributo per la propria sicurezza. Gli ebrei americani, d'altra parte, si sono distanziati dalla sinistra israeliana, scoraggiati dalla tesi secondo la quale la destra è riuscita a legarsi al patriottismo del campo di pace. Così, pur criticando le politiche israeliane, i cui valori spesso disprezzano, non puntano a formare una coalizione con i loro avversari, di cui condividono la visione del mondo, almeno in parte.
   Gli israeliani di sinistra, naturalmente, potrebbero non essere di grande aiuto agli ebrei americani nel resistere a Trump, ma possono servire come un'ancora di salvezza vitale nel mantenere i loro legami con Israele per coloro che sperano in tempi migliori. Gli ebrei americani, da parte loro, non garantiranno il cambio di regime in Israele, ma potrebbero fornire un assistenza cruciale, sia materiale che mentale, che potrebbe sollevare la sinistra israeliana dalla sua attuale stasi e rafforzare la sua capacità a resistere a Netanyahu e alla sua politica.
   La richiesta di una nuova alleanza liberale non è nuova. Io, insieme a molti altri, l'ho fatta in passato, ma ora è più urgente e vitale che mai. Stabilire una nuova partnership tra le fazioni liberali delle due più grandi comunità ebraiche del mondo non può più essere relegato agli sforzi casuali di singoli individui ben intenzionati o di gruppi marginali. Un quadro formale che possa rappresentare entrambi i gruppi, favorire i legami tra di loro e formulare politiche comuni da perseguire, potrebbe essere l'unico modo per affrontare le preoccupazioni e le aspirazioni condivise.
   Tale gruppo non dovrebbe includere rappresentanti del governo israeliano, la cui unica missione sarebbe quella di difendere Netanyahu e le sue politiche e di sabotare gli sforzi per contrastarlo. Allo stesso modo non dovrebbe includere rappresentanti dell'establishment ebraico americano, specialmente di gruppi come la Conferenza dei presidenti delle maggiori organizzazioni ebraiche, il cui scopo principale è di incartare le differenze tra Israele e gli Stati Uniti e servire da apologeti per entrambi.
   Una nuova Coalizione di liberali americani e israeliani non solo potrebbe dedicarsi a coltivare i legami tra i due gruppi assediati, ma anche tracciare i valori liberali condivisi, compreso il sostegno per la democrazia, l'uguaglianza, la libertà di parola e lo stato di diritto e adottare programmi congiunti. Un simile partenariato potrebbe sollevare i ribelli israeliani dal loro crescente senso di abbattimento e isolamento e fornire agli ebrei americani, che devono ancora voltare le spalle a Israele, una nuova ancora per il loro continuo attaccamento allo stato ebraico.
   I liberali ebrei del mondo devono unirsi, perché l'unica cosa che devono perdere è la loro frustrazione e il loro dolore. Una nuova partnership tra israeliani dalla mentalità simile e tra ebrei americani potrebbe aiutare entrambi i gruppi a sopravvivere ai loro travagli attuali.
   Il primo compito di questa nuova struttura ebraica completamente liberale consisterebbe nel formulare una dichiarazione di indipendenza condivisa, sposando i propri valori, denunciando quelli che vogliono indebolirli impegnandosi a lavorare insieme per mantenerli. Entrambe le parti farebbero bene ad ascoltare la famosa ammonizione di Benjamin Franklin alla vigilia della firma della Dichiarazione di Indipendenza americana nel 1776: "Dobbiamo, infatti, stare tutti insieme o sicuramente saremo tutti appesi separatamente."

(Israele-Palestina: testimonianze in attesa, 9 ottobre 2018)


Le donne la vogliono subito alla Difesa. E in futuro candidata alla Casa Bianca

L'ambasciatrice apprezzata per le sue posizioni contro il conformismo e a favore di Israele. Per Trump sarà decisiva per il voto di Midterm

di Fiamma Nirenstein

Nikki Haley
Magari è vero quello che si mormora, ovvero che sia già suo il posto di segretario della Difesa, dove oggi siede Jim Mattis, e che Trump vorrebbe occupasse prima del voto di novembre per riparare l' opinione pubblica femminile dopo il caso Kavanaugh. Oppure che nel 2020 invece di Pence sarà lei il vice presidente. C'è anche chi dice che fosse stufa perché Baiton e Pompeo, due grossi calibri in politica estera, le facevano troppa ombra. O che nessun ambasciatore americano all'Onu dura più di due anni, o che fosse malata, e che suo marito Michael la volesse un po' per sé. Non si sa, ma, soprattutto, non importa: dispiace comunque. Perché Nikki ha rovesciato l'Onu come un calzino vecchio, ha messo a nudo il perbenismo che consente, nella nebbia di una burocrazia malata, allo schieramento non allineato islamico e anche europeo di dominare le assemblee e la vita del dinosauro newyorchese. Ha sferzato il menefreghismo di chi usando i soldi americani poi odia gli Usa, di chi ha trasformato l'Onu in una palestra antisraeliana. Ha tolto la maschera che ha travestito da diritti umani l'odio antiamericano e antisemita.
   È l'urbano volto umano dell'America di nuovo forte e in primo piano, avvocato della democrazia nel mondo che si impone con la rosa e la spada. Quanto la gestualità e lo stile di Trump è escoriante, altrettanto il suo è ragionevole. Placa e convince questa 48enne indiana la cui famiglia proviene dal Punjab, che segue sia il rito metodista sia quello sikh, una bella signora decisa e modesta, originariamente Nimrata Nikki Randhawa. Nella conferenza stampa di congedo, ha dichiarato che alle prossime elezioni non intende fare nient'altro che sostenere Trump, mentre già si pensava da tempo che sarebbe stata un ottimo candidato repubblicano. Ma magari nel 2024.
   Nikkì, che è stata un bravo governatore del Sud Carolina, nel 2016 teneva pubblicamente per Marco Rubio e si era dichiarata, al momento della nomina di Trump: «A suo favore, ma non una fan». Aveva dichiarato fin dall'inizio di accettare l'Onu a condizione di essere membro del National security council, e di poter dissentire, alzare il telefono, parlare direttamente col presidente. A volte ha dissentito pubblicamente, come quando Trump minacciava il bando religioso sull'immigrazione: là Nikki ha sostenuto che tutte le religioni sono uguali e ha detto che non avrebbe sostenuto il presidente. Ma in genere ha fatto da battistrada in battaglie fondamentali, le sanzioni alla Russia per l'Ucraina, il bando alle armi chimiche di Assad, la sfida all'Iran e agli hezbollah, il sostegno per Israele e per la scelta di Trump di portare l'ambasciata a Gerusalemme. «Prenderemo i nomi» degli Stati che hanno votato contro. Non ha esitato a ritirare gli Stati Uniti dall'Unesco e dal Consiglio per i Diritti Umani una volta verificato che il loro lavoro è basato solo sul pregiudizio indotto dal lavorio dei Paesi islamici contro Israele. L'Onu ha tremato per il suo lavoro, adesso che lascia non è facile immaginare un ambasciatore determinato come lei.

(il Giornale, 10 ottobre 2018)


Vittorio Putti e l'eroico gesto «Mise in salvo medici ebrei»

di Federico Del Prete

A ottant’anni dall'emanazione delle leggi razziali in Italia, c'è una storia dimenticata che lega due luminari della medicina bolognese nella prima metà del secolo scorso. Il primo è Maurizio Pincherle, direttore della cattedra di Pediatria del Sant'Orsola dal 1924 al 1938, quando, appunto a seguito delle norme contro gli ebrei, fu costretto a lasciare quel prestigioso ruolo. Il secondo, invece, è Vittorio Putti, alla guida dell'Istituto Rizzoli dal 1915 al 1940, quando morì. Fu proprio Putti uno dei pochissimi colleghi (se non l'unico) a dare solidarietà pubblica a Pincherle, costretto a fuggire dalla città e a nascondersi nelle Marche fino all'arrivo degli anglo-americani nel 1944. In una drammatica riunione, dove venne formalizzata la cacciata dei professori di origine ebraica, Putti si alzò in piedi e protestò coraggiosamente contro quella decisione.
A raccontare quanto avvenuto fu proprio Pincherle, che mise in versi quella solitaria ribellione:
  «Nell'aula della Scienza quella sera
  emblemi impallidivano di sdegno
  contemplando gli scanni che deserti
  rese una folle ondata di barbarie.
  Ma Vittorio non volgesti il pollice
  sotto l'antica pendola instancabile
  che scandiva i minuti di un secolo».
Un episodio tanto significativo, quanto dimenticato, anche perché di prove certe non ne sono arrivate: «Per forza, è ovvio che a verbale non venne scritto nulla. Sicuramente di fronte a un personaggio della grandezza di Putti nel mondo scientifico e accademico, le autorità fasciste preferirono far finta di non aver sentito», spiega Angelo Rambaldi, memoria storica del Rizzoli, che recentemente ha voluto nuovamente ricordare Putti. Quello verso Pincherle non fu l'unico atto di coraggio del professore: «Avendo tra i suoi allievi un eccellente medico ebreo, Putti si adoperò per farlo emigrare in un Paese del Sud America dove alla fine fondò la scuola ortopedica», rivela ancora Rambaldi, ricordando che «Putti cercò di differenziarsi non appena vide che il fascismo aveva imboccato la strada dell'antisemitismo, una storia che meriterebbe maggiore conoscenza».

(il Resto del Carlino, 10 ottobre 2018)


«Era de maggio»? Preghiera sefardita

Raiz pubblica un nuovo album con i Radicanto: «Neshama» è dedicato alla produzione paraliturgica della tradizione degli ebrei di origine spagnola: ancora musica «spuria», come quella degli Almamegretta.

di Federico Vacalebre

Può la voce italiana meticcia per eccellenza affrontare un disco dedicato a canti sacri? Può, se si tratta di musica e testi paraliturgici della tradizione sefardita, quella tracciata dagli ebrei che, approdati nella penisola iberica dopo la distruzione di Gerusalemme da parte romana nel 70 dc, furono espulsi dopo 1400 anni di permanenza, da Isabella la Cattolica disperdendosi in Nord Africa, Italia, Grecia e Turchia, ma mantenendo un legame fortissimo, sia linguistico che culturale, con la «seconda madrepatria».
   E «Neshama», l'album che, dopo «Casa», vede di nuovo Raiz con i Radicanto su etichetta Arealive con il contributo di Puglia Sounds, è insieme un lavoro identitario e cosmopolita e multikulturale, visto che tiene insieme lingue (l'ebraico, l'arabo, lo spagnolo) e melodie che uniscono il Mediterraneo dall'Andalusia alla Grecia passando per il Sud Italia fino al Levante, dimenticando divisioni e conflitti che proprio in Israele trovano il loro cuore dolente. Il singolo di lancio «Jerusalern», impreziosito dalla presenza del violino di Mauro Pagani, è una cover di Alpha Blondy, reggaeman ivoriano, ma ora guarda a un Mediterraneo senza frontiere facendo mostra di sé in un disco che è sintesi acustica di un pensiero antirazzista che si fa suono. O forse viceversa.
 
   Intanto noi, orgogliosamente profani e laici («and no religion too» ci avrebbe raccomandato John Lennon, che ieri avrebbe compiuto 78 anni) scopriamo le storie di Moshe ben Maimon (Maimonide), per gli arabi Musa ibn Mimun, di Shelomo ibn Gabirol, di lbn Ezra, autori di «piyutim», poemi paraliturgici rimusicati nei secoli dai fedeli, riadattati anche nei versi, ormai riecheggianti solo nelle sinagoghe. E capiamo come possa sefardizzarsi un capolavoro verace come «Era de maggio», già adattato in ebraico da Noa, ma qui sdraiato sotto le preghiere di «El adon», liturgia del sabato mattina, delle feste. Accanto ci sono canti funebri che si adagiano su successi canori di Zohar Ardog, detto «il re» («Ydal/Marlen»): ragazze che si fanno belle per il moroso («Mi pudra», in ladino, come «Una matika de ruda»): richieste di perdono per il giorno di Yom Kuppur; «Astrigneme» che era nella colonna sonora di «Luna rossa» di Antonio Capuano e ora diventa «Hir hashirim 7/7», testo dal «Cantico dei cantici», Rita Marcotulli al pianoforte; inni nuziali («Yshmah hatani») e per l'osservanza dello shabbat («Ki eshmera shabbat», proposto sulla melodia di una famosa canzone araba).
   Il canto appassionato di Raiz, ugola dei due mondi, trova complicità rispettosa nel gruppo guidato da Giuseppe De Trizio, che suona chitarra e mandolino, ma soprattutto firma tutti gli arrangiamenti. Con lui Adolfo La Volpe (oud, cumbus, saz), Giorgia Santoro (flauto contralto e traverso, ottavino, bansuri, xiao), Giovanni Chiapparino (fisarmonica) e Francesco De Palma (tar, cajon, zarb, darbuka, doumbek, daf, riq, udu).

(Il Mattino, 10 ottobre 2018)


Iran: "Israele non è in grado di colpire l'S-300 in Siria"

Il capo del parlamento iraniano, Ali Larijani, ha dichiarato a RT che Israele non è in grado di colpire i sistemi S-300 schierati in Siria.

In precedenza i media israeliani hanno comunicato che il Ministro della cooperazione regionale Tzachi Hanegbi ha dichiarato che la fornitura di sistemi missilistici antiaerei S-300 alla Siria non pregiudicherà l'efficacia dei caccia americani F-35 dell'aviazione israeliana.
"Non credo che gli israeliani siano in grado di condurre una qualche azione seria e credo che la Russia abbia il diritto di schierare i sistemi di difesa aerea S-300 in Siria e proteggere i suoi interessi, specialmente dopo l'attacco di Israele ad un aereo russo, è un diritto legittimo della Russia", ha detto Larijani. commentando la dichiarazione sull'intenzione di Israele di colpire gli S-300, che Mosca ha fornito alla Siria dopo l'abbattimento dell'Il-20.
Il 24 settembre, il Ministro della Difesa russo Sergei Shoygu ha annunciato misure per migliorare la sicurezza dell'esercito russo in Siria in risposta all'abbattimento dell'Il-20, per il quale la Russia ritiene responsabile Israele. Il Ministro ha osservato che nel 2013, su richiesta di Israele, la Russia aveva sospeso le consegne degli S-300 in Siria, ma che ora la situazione è cambiata, e non per colpa della Russia. Più tardi, Shoygu ha riferito della fornitura alla Siria degli S-300 e di altre attrezzature. Secondo lui, sono stati forniti quattro lanciatori in tutto e si prevede di addestrare l'esercito siriano in tre mesi.

(Sputnik Italia, 9 ottobre 2018)


Gerusalemme: city destination che piace agli italiani

L'Italia si riconferma uno dei mercati chiave in termini turistici per Gerusalemme. Da gennaio a luglio sono state 11.393 le presenze italiane nella città, pari ad un incremento del +53%

L'Italia si riconferma uno dei mercati chiave in termini turistici per Gerusalemme. Da gennaio a luglio sono state 11.393 le presenze italiane nella città, pari ad un incremento del +53% rispetto allo stesso periodo nel 2017 (7.442 in termini assoluti). "E' un dato che riflette il grande appeal della città che attrae per gli inediti contrasti che la caratterizzano: storia millenaria e design contemporaneo; musei d'arte e bistrot all'aria aperta; ristoranti stellati e street food di tendenza." ha dichiarato Elisa Eterno, rappresentante Jda in Italia.
Gerusalemme si sta affermando sempre più come una "city destination" in continua evoluzione. Da poco il Jerusalem Development Authority in collaborazione con la società Otipass, Zuzu e altri partner, ha realizzato il City Pass; la nuova card che consente di vivere la vacanza a Gerusalemme in modo ancora più accessibile, semplice e conveniente. La card è acquistabile anche prima dell'arrivo in Israele attraverso il portale dell'Ente del Turismo a partire da poco più di 30 euro. A questo si aggiunge il nuovo treno ad alta velocità che collega Gerusalemme al resto dello Stato. Un importante tassello che rende più semplici e comodi gli spostamenti all'interno del Paese; con una velocità massima di 160 km/h il treno è infatti in grado di raggiungere l'aeroporto di Ben Gurion in soli 20 minuti.

(Guida Viaggi, 9 ottobre 2018)


Su una pietra di duemila anni fa la parola "Gerusalemme", scritta come si scrive oggi

È la prima incisione nota della parola "Yerushalaim", che è il modo in cui il nome della città viene pronunciato oggi in ebraico

Una rara scritta in caratteri ebraici del nome esteso di Gerusalemme (Yerushalaim), nello stesso modo in cui è scritto oggi, incisa su una pietra cilindrica e datata duemila anni fa. La scoperta risale all'anno scorso ma solo oggi è stata presentata ufficialmente alla stampa.
Alta quasi un metro e lavorata in apparenza all'epoca del re Erode, la pietra era stata asportata dall'edificio originale e riutilizzata poi per la costruzione di un edificio romano. Il testo contiene la dicitura: ''Hanania figlio di Dodlos di Gerusalemme''. Secondo gli archeologi è presumibile che Hanania fosse un artigiano del posto e che 'Dodlos' fosse un riferimento di ossequio alla figura di Dedalo.
La scoperta è ancora più stupefacente se si pensa che la scritta di duemila anni fa "è chiaramente decifrabile oggi da qualsiasi bambino israeliano'', come ha spiegato il direttore del Museo Israele, prof. Ido Bruno, e che è estremamente raro trovare in reperti di quell'epoca la scrittura completa del nome di Gerusalemme. La maggior parte delle scritte di quel periodo utilizza infatti la versione abbreviata Yerushalem o Shalem. Nella stessa Bibbia in cui la città è menzionata 660 volte, solo in cinque casi si legge la forma estesa.

(RaiNews, 9 ottobre 2018)


Una storia d'amore e di vita, di lotta e d'intelletto: nel Pardes di Rabbi Akivà

di Ugo Volli

Delle molte centinaia di saggi del Talmud (solo il trattato Berakhot ne nomina quasi quattrocento), alcuni sono più autorevoli e noti degli altri: Hillel e Shammai, Jochanan ben Zokai e Jehuda haNassì, Rav e Ravà, per fare solo qualche nome. Ma il grande protagonista del Talmud, il maestro in assoluto più citato e ammirato è Rabbi Akivà. In quella grande arena di discussione intellettuale che è il Talmud ciò che conta sono soprattutto la conoscenza, la lucidità intellettuale e la capacità di ragionamento: queste sono le ragioni profonde della predominanza di Rabbi Akivà che ne fa con Rashi, il Maimonide e pochi altri il maestro del pensiero ebraico, da studiare innanzitutto per il suo contributo creativo alla halachà, la norma di vita che regola l'esistenza ebraica. Ma oltre alle sue decisioni e ai suoi ragionamenti, la tradizione riporta anche alcuni episodi della sua vita - sia perché anche questi sono fuori dall'ordinario, sia perché la sua grandezza dà loro carattere esemplare.
   Si racconta per esempio che a differenza della gran parte dei maestri Rabbi Akivà non iniziò a studiare da piccolo, ma solo a quarant'anni, colpito d'improvviso dalla necessità di conoscere le leggi della Torà. Si tramanda anche la sua grande storia d'amore con la moglie, che per lui, povero, abbandonò una famiglia prospera e fu diseredata, ma lo mantenne agli studi sfidando anch'essa la miseria fino a quando non fu riconosciuto come un grande rabbino ed ebbe numerosi allievi. Si dice che migliaia di questi allievi morissero misteriosamente tutti assieme, ed è forse un modo per far capire che perirono nella resistenza all'occupazione romana, dato che Akivà sostenne attivamente la rivolta di Bar Kochbah. Allo stesso contesto va attribuito il ricordo della sua morte, causato da un'esecuzione romana particolarmente atroce, ma coronato da un esemplare pubblico atto di fede. Nel Talmud vi è anche una rara testimonianza di una tensione mistica, con la storia misteriosa o metaforica dell'ascesa al "giardino del Pardes" di quattro grandi saggi, da cui solo Akivà poté uscire senza danno.
   Mentre la vita di Rabbi Akivà appartiene alla seconda generazione dei saggi della Mishnà, essendo egli nato venti o trent'anni prima della distruzione del Tempio, cioè verso l'anno 50 e morto probabilmente a Cesarea (ma la sua tomba è a Tiberiade) nel 135, la maggior parte di quel che sappiamo di lui è riportato nel Talmud, che si chiude mezzo millennio dopo. Non abbiamo documenti diretti o coevi della sua vita. Questo rende difficile distinguere i fatti dalla cornice agiografica e leggendaria che inevitabilmente il tempo accumula intorno a una figura così importante.
   Per questo è un'impresa problematica scriverne una biografia (sua, come di tanti altri personaggi della tradizione ebraica antica) che risponda ai criteri storici del nostro tempo. Ci ha provato Barry Holz, in un libro appena edito da Bollati Boringhieri (Rabbi Akivà, l'uomo saggio del Talmud). Non ci sono fatti nuovi, naturalmente, ma c'è una rassegna approfondita delle fonti, delle differenze e delle assonanze fra le loro testimonianze e c'è uno sforzo importante di capire sia l'uomo Akivà, immerso nel suo tempo, sia la grande testimonianza esemplare che la sua vita è venuta assumendo nella storia dell'ebraismo. È una lettura affascinante, un libro di pensiero che è anche la storia di una ricerca storica e il riconoscimento di una dimensione identitaria centrale. Ed è anche un invito ad andare a ritrovare nel testo del Talmud le tracce del suo insegnamento.

(Bet Magazine Mosaico, 9 ottobre 2018)


Israele, studentessa americana bloccata da sette giorni in aeroporto a Tel Aviv

«Vuole boicottarci, non entrerà»

Una studentessa statunitense iscritta all'Università ebraica di Gerusalemme è bloccata da 7 giorni all'aeroporto di Tel Aviv. A riportarlo sono diversi media israeliani. Le autorità israeliane le impediscono l'ingresso nel Paese perché ritenuta un'attivista del movimento per il boicottaggio dello stato ebraico (Bds). La 22enne — Lara Alqasem, di origini palestinesi — ha per questo denunciato le autorità e si trova in attesa di una decisione della magistratura israeliana.

 La vicenda
  Secondo quanto riportato dall'agenzia Ap, Alqasem — che è l'ex presidente del gruppo Studenti per la giustizia in Palestina dell'Università della Florida, ma che non farebbe più parte del gruppo — è atterrata lo scorso martedì all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv con un visto regolare. Dopo essere stata fermata, un tribunale israeliano ha ordinato che, nell'attesa dell'appello, venga tenuta in custodia. La detenzione, giunta al settimo giorno, è la più lunga mai registrata per un caso legato al boicottaggio di Israele, secondo la Ap. L'università di Gerusalemme ha espresso il suo supporto all'appello della ragazza.

 «Se rinuncia al boicottaggio, potrà entrare»
  Il ministro degli Affari Strategici e della Pubblica Sicurezza, Gilad Erdan, ha detto che la ragazza è libera di lasciare il paese in qualsiasi momento: e, secondo il Times of Israel, ha aggiunto che se la studentessa dovesse rinunciare alle sue attività passate e dichiarare pubblicamente che gli sforzi di boicottaggio non sono legittimi, il ministero potrebbe riconsiderare il suo caso. La ragazza è in possesso di un visto di studio concesso dal consolato israeliano a Miami per un master presso l'Università ebraica di Gerusalemme. Da martedì scorso risulta trattenuta in un centro di detenzione aeroportuale.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2018)


Più di tre milioni di turisti in Israele

Circa 3,1 milioni di turisti hanno visitato Israele nei primi nove mesi di quest'anno. Il 15 percento in più rispetto allo stesso periodo del 2017. Circa 1,6 milioni di persone provenivano dall'Europa. Più di 700.000 turisti sono venuti dal Nord America e circa 300.000 dall'Asia. Questo potrebbe stabilire un nuovo record nel 2018: nel 2017, il Ministero del turismo ha registrato un totale di 3,8 milioni di visitatori, nel 2016 erano quasi 3,1 milioni.

(israelnetz, 9 ottobre 2018)


Cade la maschera: la Russia si rivela essere un nemico di Israele

di Di Marc

 
Putin, amico di Israele?
Un anno fa, la maschera della Russia di non ostilità nei confronti di Israele era ancora in vigore, sotto forma di coordinamento strategico con Israele per i suoi attacchi in Siria. Questo le ha permesso di nascondere che si era schierata con i nemici di Israele: Siria e Iran. Anche se la Russia si è astenuta dal tentare di impedire a Israele di bombardare obiettivi iraniani in Siria - come se potesse impedirlo - ha consentito e sostenuto allo stesso tempo l'espansione dell'Iran in Siria.
  Un articolo che ho scritto un anno fa ha presentato fatti impeccabili sul sostegno della Russia all'espansione dell'Iran in Siria a scapito della sicurezza nazionale israeliana. In esso si diceva che la presenza delle forze iraniane in Siria rappresenta una minaccia esistenziale per Israele. Si spiegava anche, a beneficio di coloro che non potevano concepire Putin come un anti-israeliano - che dopotutto aveva fatto del primo ministro israeliano Netanyahu un ospite d'onore alla parata del Victory Day a Mosca, nella Piazza Rossa a maggio - niente di personale contro Israele, ma, come si dice nella mafia, solo un caso collegato alla rivalità tra Russia e Stati Uniti. In verità, il coordinamento strategico russo dei bombardamenti israeliani in Siria ha servito gli interessi russi: Israele ha dichiarato che avrebbe continuato a bombardare e che un'escalation militare israelo-russa non poteva che attirare gli Stati Uniti nella mischia ed esporre la Russia ad essere una semplice potenza regionale senza confronti con gli Stati Uniti.
  Dopo il 18 settembre, quando i missili siriani abbatterono un aereo Ilyushin-20, la maschera della Russia è caduta e il vero volto anti-israeliano della sua politica è stato completamente svelato. In effetti, Putin ha cercato dapprima di nascondere la cosa astenendosi dall'accusare interamente Israele della tragedia, ma presto si è unito ai suoi subordinati nell'incolpare Israele e ha annunciato che la Russia avrebbe equipaggiato la Siria con i sistemi missilistici S-300, destinati, tra le altre cose, a proteggere le forze iraniane in Siria dagli attacchi israeliani.
  La situazione è ora perfettamente chiara: i russi, che inizialmente hanno permesso e sponsorizzato l'espansione dell'Iran in Siria come misura anti-americana, proteggeranno anche gli iraniani in Siria dagli attacchi israeliani. Questo è un atto di guerra non dichiarata contro Israele da parte di un nemico, la Russia, perché non saranno i siriani ad usare gli S-300 contro gli aerei israeliani, dal momento che devono ancora allenarsi a lungo per poterlo fare; e per un periodo indefinito dovranno farlo degli ufficiali russi che saranno ai comandi.
  Ma con l'equipaggiamento della Siria nel S-300 e con la loro inevitabile manipolazione da parte degli ufficiali russi contro gli aerei israeliani, i russi rischiano una grave debacle militare e tecnologica. Impareranno, se non sono ancora usciti dalla tragedia Ilyushin, che la tecnologia USA-Israele è di gran lunga superiore a quella della Russia - e questo è vero non solo per gli S-300 attualmente spediti ai siriani, ma anche per l'S-400 che la Russia ha già creato in Siria per la propria difesa. Solo un'indagine militare interna russa può forse mostrare che cosa stavano facendo questi sistemi quando l'Ilyushin fu abbattuto.
  Il ministro della Difesa russo Sergei Shoygu rifiuta la versione israeliana degli eventi, secondo cui gli aerei israeliani erano già tornati su Haifa quando Ilyushin fu abbattuto. I russi sostengono che l'immagine radar mostrava un aereo israeliano che usava Ilyushin come scudo. Una possibile spiegazione di questo, rivelata dal quotidiano israeliano Haaretz, è che l'immagine radar disponibile per i russi non era reale, ma era solo un prodotto della guerra elettronica israeliana. Poiché questo tipo di tecnica continuerà a far parte di qualsiasi futuro bombardamento israeliano, i sistemi avanzati di difesa missilistica russa non saranno più commercializzabili. È forse per questa ragione che i russi, annunciando l'intenzione di consegnare gli S-300 in Siria, hanno annunciato contemporaneamente la loro disponibilità a negoziare con gli Stati Uniti in merito a tale consegna al fine di evitare ogni possibile conflitto con Israele e le sue conseguenze.
  Il vero volto della Russia si rivela non solo nell'area strategica militare - fornendo S-300 alla Siria - ma anche con il ritorno al vecchio russo-sovietico antisemitismo che anche le "relazioni speciali" del presidente russo Putin con Chabad non può camuffare. L'ex ambasciatore israeliano in Russia, Zvi Magen, ha dichiarato: "I media hanno accusato Israele nel giorno della crisi, in maniera ben orchestrata e tempestiva, piena di elementi antisemiti. Non è stata una coincidenza." Vista l'attuale politica della Russia nei confronti di Israele, questo non dovrebbe sorprenderci.

(JForum.fr, il portale ebreo francofono, 9 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


La Città eterna degli ebrei

Ventidue secoli di aperture e feroci conflitti raccontati da Riccardo Calimani

di Gian Antonio Stella
    «Lunedì i soliti 8 ebrei corsero ignudi il palio loro favoriti da pioggia, vento et freddo degni di questi perfidi, mascherati di fango al dispetto delle gride. Dopo queste bestie bipede correranno le quadrupede domani».
Rileggiamo: «queste bestie bipede». Bastano queste righe pubblicate negli «Avvisi di Roma» del 16 febbraio 1583 per capire quanto fossero radicate le ostilità anti-ebraiche nella Città eterna che ottant'anni fa si adeguò silente, per non dire di peggio, alle leggi razziali del 1938 che avrebbero aperto la strada, cinque anni dopo, alla retata nazista.
   Per oltre due millenni, infatti, come documenta lo storico Riccardo Calimani nella Storia degli ebrei di Roma. Dall'antichità al XX secolo appena edita da Mondadori, i rapporti tra i romani e «li giudii» erano stati segnati da periodi di conflitti e aperture, aperture e conflitti. Dalla lettera del 325 di Costantino a tutte le Chiese dell'impero («Vi esorto pertanto a non serbare nulla in comune con l'odiosissima turba giudaica») all'ordine agli ebrei di portare una «rotella gialla» sul petto, dalla bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum che istituì il Ghetto di Roma alle «prediche coatte», dalle feste per la Breccia di Porta Pia (vista da qualche ebreo come «il Giorno in cui il Signore ha tratto il suo popolo fuori dal crogiolo delle sofferenze, portandolo da schiavitù in libertà») fino alle virtuose solidarietà e alle odiose complicità negli anni della «Difesa della Razza».
   Nulla però spiega cosa rimestasse per secoli nella pancia del popolino quanto le infami bravate del carnevale romano, cancellato per i troppi eccessi solo da Clemente IX nel 1667- Bravate dedicate in larga parte, come ricordano quelle del marchese del Grillo, agli ebrei. «Giudate», le chiama Giovanni Mario Crescimbeni, fondatore dell'Accademia dell'Arcadia, nell'Istoria della volgar poesia:
    «Giudate perciocché in esse non si tratta d'altro che di contraffare e schernire gli Ebrei in istranissime guise, ora impiccandone per la gola, ora strangolandone e facendone ogn'altro più miserabil giuoco».
 
Ed ecco «l'ebreo dentro la botte rotolato dalla plebaglia» raffigurato nella celebre incisione di Bartolomeo Pinelli. Il rito umiliante del calcio nelle natiche al Gran Rabbino prostrato davanti al «Senatore». La sommossa che scoppia, raccontata nel Meo Patacca, alla notizia (falsa) degli ebrei alleati dei turchi nell'assedio a Vienna:
    «Sul mezzo dì, pe' la città si sparze
    sta nova appena, e la sentì la plebbe
    ch'arrabbiata de collera tutt'arze
    e li Giudii già lapidà vorrebbe ... ».
«Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto», dice il «Manifesto degli scienziati razzisti» pubblicato il 5 agosto 1938 nel primo numero de «La Difesa della Razza»: «Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani».
   In realtà, spiega Calimani, «gli ebrei vivevano a Roma probabilmente ben prima della seconda metà del II secolo a.e. quando, in particolare tra il 161 e il 165, Roma e Gerusalemme cominciarono ad avere i primi contatti politici ufficiali». Molti altri si aggiunsero dopo le campagne di Pompeo con «l'arrivo di numerosi ebrei ridotti in schiavitù, sia a causa delle annessioni romane di territori dell'Asia minore, della Siria e dell'Egitto, dove esistevano comunità ebraiche molto numerose, sia a causa dell'occupazione della stessa Giudea». In città, «molti dei nuovi arrivati andarono a vivere in quartieri assai popolosi: gli ebrei erano numerosi nell'isola Tiberina, tant'è che al ponte Cesti o fu dato il nome di pons Iudaeorum ... ».
   E non c'era solo il Ponte dei Giudei. Via via, infatti, come ricorda lo storico capitolino Claudio Rendina, si aggiunsero Piazza Giudia, l'Ortaccio degli Ebrei («detto anche de' Giudei, sprezzante definizione del cimitero israelita alle falde dell'Aventino»), un altro Campo Giudeo a Trastevere, la Piazza delle Scòle, dove avevano sede ben cinque scuole ebraiche ...
   Già ai tempi del consolato di Marco Tullio Cicerone, scrive Calimani, «secondo alcune fonti gli ebrei che vivevano in città erano circa 50-60.000, su una popolazione di quasi un milione di abitanti». E insomma tutta la storia degli ebrei, quando il fascismo scelse di cavalcare il razzismo, era intrecciata da oltre ventidue secoli con la storia della città Caput Mundi.
   Di famiglia ebraica era Tito Flavio Giuseppe, nato col nome di Yosef ben Matityahu, lo storico che dopo esser finito a Roma come prigioniero entrò nelle grazie di Vespasiano, di cui prese il nome gentilizio, per vivere fino alla morte alla corte imperiale. E così Pietro Pierleoni, eletto Papa (ma considerato antipapa) nel 1130 col nome di Anacleto II contro Innocenzo II imposto dai Frangipane. E Sidney Sonnino, romano d'adozione, più volte ministro nonché presidente del Consiglio del Regno. E il grande sindaco capitolino Ernesto Nathan che a settant'anni fu il più vecchio dei volontari decisi a combattere nella Grande guerra. Alla quale parteciparono non solo patrioti di famiglia ebraica ma addirittura dei «rabbini militari» mandati al fronte per tener su il morale ai soldatini fedeli al Talmud ...
   Ne avevano passate tante, gli ebrei romani, già prima del 1938. Ma in quell'annus horribilis tirava un'aria davvero fetida. Scrive Calimani: «Sui giornali, per esempio sul "Popolo" di Torino, si potevano leggere articoli in cui comparivano affermazioni come: "Diecimila volontari ebrei nelle file dei rossi spagnoli". Oppure sulla "Sera" di Milano si poteva trovare un titolo di questo tipo: "I figli dei matrimoni misti con gli ebrei sono predisposti alla tubercolosi". Il 12 gennaio, sul "Regime Fascista", Roberto Farinacci aveva scritto: "Chiediamo che i 43 milioni di italiani cattolici abbiano in tutti i centri più delicati dello Stato e della vita della Nazione i propri legittimi rappresentanti; essendo gli ebrei quasi la millesima parte della popolazione, bisognerebbe concludere che su mille posti uno spetterebbe agli ebrei, novecentonovantanove ai cattolici"». Va da sé che nella piccola comunità israelita montasse di giorno in giorno la paura.
   Pio XI, certo, non era d'accordo con questi sedicenti «cattolici» fascisti. Basti rileggere la parole nette che usò il 28 luglio 1938 davanti agli alunni del Pontificio collegio urbano De Propaganda Fide, che erano più di duecento e arrivavano da trentasette Paesi: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c'è posto per delle razze speciali. .. La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana.
   Questo è il pensiero della Chiesa». Non bastasse, fece pubblicare sull' «Osservatore Romano» una chiusa: «Ci si può chiedere quindi come mai, disgraziatamente, l'Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania». Il Duce, arrogante, rispose nel discorso a Trieste del 18 settembre: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni (di Hitler), sono dei poveri deficienti...». Cinque anni dopo dalla Tiburtina partivano i vagoni per Auschwitz.

(Corriere della Sera, 9 ottobre 2018)


Beverly Barkat. Sabbia, sassi e conchiglie delle 12 tribù di Israele

di Francesca Nunberg

Beverly Barkat
ROMA - Beverly Barkat è partita da lontano: ha girato per Israele raccogliendo terra, sabbie, sassi e conchiglie nei luoghi in cui abitavano le 12 tribù bibliche, le ha tritate e mescolate con pietre preziose, acrilici e pastelli e con questi pigmenti ha dipinto 12 grandi dischi in pvc. È nata così After the Tribes, installazione site-specific per il Salone delle Vedute del Museo Boncompagni Ludovisi che sarà aperta da giovedì fino alla fine dell'anno, voluta dall'Ambasciata di Israele in Italia per i 70 anni dello Stato. Come racconta la Genesi, Asher figlio di Zilpah viveva nelle terre tra il monte Carmelo e il fiume Leonte, la sua era una tribù di olivicoltori, la loro gemma l'acquamarina; Gad, figlio di Zilpah, viveva con i suoi a est del fiume Giordano, erano allevatori e la pietra l'ametista ... «Ho riprodotto in maniera astratta sui miei dischi le loro storie, riportate sul pettorale indossato dai sommi sacerdoti - spiega Beverly Barkat, 52 anni, moglie del sindaco di Gerusalemme che l'ha accompagnata in questa trasferta romana - Ho ricreato il paesaggio israeliano facendolo dialogare concettualmente con gli splendidi affreschi di Villa Ludovisia. Ho lavorato sulla stratificazione in un viaggio che affonda le radici nella storia millenaria del popolo ebraico per chiedersi quale sarà il futuro». «Nei suoi 12 dodici dipinti l'artista fa un lavoro alchemico, concentrandosi sul colore e sulla materia», aggiunge la curatrice Giorgia Calò». L'anno scorso l'artista firmò Evocative Surfaces a Palazzo Grimani durante la Biennale di Venezia.
Museo Boncompagni Ludovisi,
Roma, via Boncompagni 18.
Dall'11 ottobre

(Il Messaggero, 9 ottobre 2018)


Giornalista ucciso. Cresce la tensione tra Turchia e Arabia Saudita

di Giordano Stabile

I funzionari sauditi devono dimostrare che Jamal Khashoggi è davvero uscito vivo e libero dal consolato a Istanbul altrimenti «non si salveranno». A dare l'ultimatum è il presidente turco Recep Tayyip Erdogan in persona, che segue sin dall'inizio il caso e che ritiene «una responsabilità politica e umanitaria» arrivare alla verità. Erdogan ha parlato da Budapest, dove ha incontrato il premier ungherese Viktor Orban, e si è rivolto al personale della legazione: «Perché non mostrate i filmati delle telecamere? Le informazioni che trapelano ci danno molto da pensare». I nuovi dettagli riguardano i movimenti nel giorno della scomparsa, il 2 ottobre, di «quindici individui arrivati dall'Arabia Saudita che sono entrati e usciti dall'aeroporto di Istanbul». Il sospetto è che Khashoggi sia stato ucciso e poi portato via all'interno di un'auto diplomatica. L'attenzione degli inquirenti è concentrata su due vetture, uscite ore dopo che l'editorialista del Washington Post era entrato nell'edificio. Le autorità turche sono convinte che il commando sia arrivato con il compito di eliminare il giornalista, uno dei più acuti critici del principe Mohammed bin Salman, e hanno chiesto di poter perquisire il consolato.
   A una settimana dalla scomparsa, senza che ci sia alcun segno di vita, ogni altra ipotesi è da scartare. Resta da capire perché Bin Salman abbia autorizzato un'operazione così plateale, uno schiaffo alla Turchia, ma anche all'alleato americano, in quanto Khashoggi era stimato negli ambienti di Washington. Con Ankara i rapporti sono pessimi da oltre un anno, quando Erdogan ha deciso di appoggiare il Qatar contro il blocco economico e commerciale imposto dagli ex alleati del Golfo. Il caso Khashoggi si inserisce così nella lotta fra potenze sunnite che sostengono i Fratelli musulmani, Qatar e Turchia in testa, e altre che li considerano il peggior nemico, in primo luogo Arabia Saudita ed Emirati arabi.
   Khashoggi era su posizioni vicine alla Fratellanza. Ma soprattutto era vicino al precedente principe ereditario, Mohammed bin Nayef, caduto in disgrazia l'anno scorso. L'eliminazione del giornalista, che con i suoi commenti offuscava l'immagine positiva di Bin Salman in Occidente, potrebbe essere anche un aspetto della repressione dell'opposizione religiosa, che ha visto l'arresto il 23 agosto del più noto predicatore della Grande moschea della Mecca, Sheikh Saleh al-Talib, e il processo a uno dei più importanti ulema, Salman al-Awda, che rischia la decapitazione per «intelligenza con il nemico», cioè il Qatar.

(La Stampa, 9 ottobre 2018)


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Giornalista dissidente scomparso nel consolato saudita, Trump: "Sono preoccupato"

La Casa Bianca interviene sul caso Khashoggi. Pompeo: "L'Arabia Saudita apra un'inchiesta vera"

di Giordano Stabile

Anche il presidente americano Donald Trump, questa notte, è intervenuto sul caso di Jamal Khashoggi, l'editorialista del Washington Post, critico nei confronti della Casa reale saudita, scomparso al consolato di Istanbul una settimana fa. Trump si è detto «preoccupato» per il giornalista, che le autorità turche ritengono sia stato ucciso dai servizi di Riad all'interno della legazione e poi fatto sparire: «Non mi piace quello che sento a proposito di questa vicenda», ha detto il presidente Usa ai reporter che chiedevano un commento. È intervenuto anche il segretario di Stato Mike Pompeo che ha chiesto all'Arabia Saudita di appoggiare «un'inchiesta a tutto campo» e di «essere trasparenti».
   Ieri era intervenuto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che da Budapest, dove ha incontrato il premier ungherese Viktor Orban, si è rivolto al personale della legazione: «Dire semplicemente che Khashoggi è uscito dal consolato non vi salverà». E ha continuato: «Perché non mostrate i filmati delle telecamere? Le informazioni che trapelano ci danno molto da pensare».
   I nuovi dettagli riguardano i movimenti nel giorno della scomparsa, il 2 ottobre, di «quindici individui arrivati dall'Arabia Saudita che sono entrati e usciti dall'aeroporto di Istanbul». Il sospetto è che Khashoggi sia stato ucciso e poi portato via all'interno di un'auto diplomatica. L'attenzione degli inquirenti è concentrata su due vetture, uscite ore dopo che il giornalista dissidente era entrato nell'edificio. Le autorità turche sono convinte che il commando sia arrivato con il compito di eliminarlo e hanno chiesto di poter perquisire il consolato.

(La Stampa, 9 ottobre 2018)


Gerusalemme, la scelta del sindaco

di Daniel Reichel

 
Zeev Elkin - Nella scritta: "Anch'io con Elkin! Per Gerusalemme più forte"
 
Moshe Leon
 
Ramadan Dabash
Il 30 ottobre i cittadini di Gerusalemme saranno chiamati a eleggere il proprio sindaco. Tante le candidature - nove quelle iniziali, ma a fine settembre erano già quattro i ritirati - con due frontrunner Zeev Elkin, ministro per gli Affari di Gerusalemme e dell'Ambiente dell'attuale governo Netanyahu, e Moshe Leon, collaboratore sia del ministro della Difesa Avigdor Liberman, leader del partito Yìsrael Beitenu, sia del ministro dell'interno Aryeh Deri, leader del partito religioso Shas. Dietro di loro nella corsa il vice sindaco di Gerusalemme, il candidato haredi Yossi Deutsch, 50 anni, e Ofer Berkovich, 35 anni, candidato laico e membro del consiglio comunale. L'unica donna in corsa era la candidata di Kulanu Rachel Azaria, la cui presenza aveva attirato molta attenzione ma le cui possibilità di successo erano quasi pari allo zero, essendo osteggiata dal mondo haredi. "Sono orgogliosa dell'opportunità di essere stata una donna candidata a sindaco e di aver rotto quel soffitto di vetro. Ritiro la mia candidatura per un senso di responsabilità nei confronti di Gerusalemme'', ha detto Azaria. Non aveva in ogni caso possibilità perché senza il voto dei haredim a Gerusalemme non si diventa sindaci: l'ex primo ministro e sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert ha vinto grazie a loro nel 2003; dopo di lui è stato un sindaco haredi, il primo e unico fino ad ora, Uri Lupolianski a guidare la città; l'attuale sindaco Nir Barkat, esponente laico, ha vinto nel 2008 e 2013 con l'aiuto di un accordo con i haredi. Senza di loro non si vince.
   Secondo le statistiche, Gerusalemme è la città più grande d'Israele per popolazione e conta 882.700 abitanti. Di questi, il 62% sono ebrei (536.600), circa il 36% sono musulmani (322.600) e circa il 2% sono cristiani. La popolazione haredi rappresenta il 34% degli ebrei della città con circa 182.000 residenti, e, a differenza del mondo arabo, da tempo fanno sentire il proprio peso alle elezioni. Anche se non sono un blocco omogeneo, chi riesce a stabilire un accordo con la loro leadership si trova decisamente in vantaggio: per questo Elkin ha accolto con preoccupazione la notizia del patto siglato dal suo avversario Leon con Shas e Degel Hatorah mentre Agudas Yisrael - altro partito religioso - sostiene sin dall'inizio il citato Yossi Deutsch. Il fatto che Leon sia appoggiato da una parte di haredim ha un impatto sulla politica nazionale: sembra infatti il segnale che lo strappo tra questo mondo e Lieberman - di cui Leon è il candidato - si stia ricucendo. Il ministro della Difesa è arrivato più volte allo scontro con gli ultra-ortodossi, ma ora il patto per il sindaco di Gerusalemme potrebbe facilitare un riavvicinamento. "La domanda ora è - spiega la giornalista israeliana Mazal Mualem, - Netanyahu getterà tutto il suo peso e il suo prestigio in favore di Elkin, dato che i legami un tempo caldi tra loro si sono raffreddati nell'ultimo anno? Non è sicuro". Non lo è, sottolinea Mualem, perché lo stesso Netanyahu ha e probabilmente avrà ancora bisogno del sostegno del mondo haredi a livello nazionale per cui potrebbe non esporsi a favore di Elkin, che rappresenta la destra nazional religiosa vicina al partito di Naftali Bennett HaBayt Ha Yehudi.
   A rimanere fuori dall'arena politica di Gerusalemme, è il mondo arabo. "Mentre i haredim sanno usare il loro potere per agire come attori centrali nella politica locale di Gerusalemme, il che ha un impatto anche sulla politica nazionale, - scrive sull'Al Monitor Mualem - gli arabi di Gerusalemme Est siedono volutamente fuori da questa arena. Dalla guerra dei Sei giorni del 1967 e dall'unificazione della città, gli arabi di Gerusalemme Est hanno boicottato le elezioni comunali, sostenendo che se partecipassero alle elezioni accetterebbero de facto l'occupazione, Nelle elezioni del 2013, meno del 2% ha partecipato alle elezioni". Per legge, i residenti di Gerusalemme Est (la maggior parte dei quali non sono cittadini israeliani) hanno il diritto di voto alle elezioni comunali, ma non alle elezioni della Knesset. Mentre un residente a Gerusalemme Est non può essere eletto sindaco ma può essere eletto nel consiglio comunale. Gli aventi diritto arabi a Gerusalemme sono poco più di 180.000. Un numero importante ma nessuno è mai riuscito a portarli alle urne. Avrebbe voluto farlo Aziz Abu Sarah, con il suo partito Al-Quds Lana (Gerusalemme è nostra): con permesso di residenza a Gerusalemme Est e senza cittadinanza israeliana, aveva dichiarato che avrebbe chiesto all'Alta Corte di cambiare la legge per consentirgli di candidarsi a sindaco. Abu Sarah aveva proclamato il suo sostegno ai palestinesi, ma la risposta araba è stata tutt'altro che di sostegno: alcuni palestinesi hanno interrotto, con il lancio di uova, la conferenza stampa in cui annunciava di voler correre per diventare primo cittadino. La pressione affinché si ritirasse era alta, e così Abu Sarah - che si occupa di turismo e vive tra Gerusalemme e gli Stati Uniti - ha deciso di fare un passo indietro. La notizia che le autorità israeliane stanno valutando di ritirare il suo permesso di residenza perché considerano che il centro della sua vita non sia Gerusalemme ha facilitato la decisione. "Sono frustrato - ha dichiarato alla stampa israeliana - Ma penso che siamo riusciti a creare un dialogo. Abbiamo fatto pensare, rimesso Gerusalemme sul tavolo e fatto parlare di quello che sta succedendo qui. Molti israeliani mi hanno scritto che non sapevano che il 40% dei residenti della città sono palestinesi senza diritti. Le cose a Gerusalemme devono cambiare. Le persone che cercano di mantenere lo status quo non vinceranno. Questa potrebbe non essere la fine, ma la fine dell'inizio".
   Chi invece ha scelto di rimanere in corsa è un altro palestinese, Ramadan Dabash, che punta a un posto nel consiglio comunale. "Dabash non è un uomo di sinistra - racconta il giornalista del New York Times Matti Friedman che ha dedicato un articolo al candidato palestinese -. Ha citato il Corano durante tutta la nostra conversazione e ha parlato calorosamente dei suoi 12 fìgli e delle sue quattro mogli. Non sembrava uno che si sarebbe trovato a suo agio in una conferenza sulla coesistenza finanziata dalle ong europee, ma piuttosto come un uomo che vorresti gestisse il tuo sindacato - un brusco maneggione che sa creare difficoltà a un negoziatore avversario. Al New York Times Dabash spiega che se verrà eletto non avrà problemi a collaborare con un sindaco come Elkin, un uomo molto di destra. ''A maggio, il governo ha stanziato 560 milioni di dollari per progetti a Gerusalemme Est. Se tutto quel denaro andrà dove previsto, sarà il più grande investimento singolo nella Gerusalemme palestinese da quando Israele ne ha preso il controllo mezzo secolo fa", spiega Friedman e Dabash vuole essere della partita. Il 30 ottobre si saprà se potrà partecipare e chi sarà a guidare la squadra vincente.

(Pagine Ebraiche, ottobre 2018)


Ai ferri corti fra loro, Hamas e Autorità Palestinese giocano col fuoco sulla pelle di Gaza

Ma i territori palestinesi non sono che uno dei fronti da cui Israele deve guardarsi

Furibondo per il proposito del Qatar di inviare aiuti alla striscia di Gaza, il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha fatto sapere sabato che intende tagliare completamente il flusso di fondi verso l'enclave controllata da Hamas. Alte fonti della difesa israeliana hanno riferito a Hadashot che Abu Mazen è infuriato in particolare con il coordinatore speciale dell'Onu, Nikolay Mladenov, che avrebbe favorito il trasferimento di fondi dal Qatar nonostante la dura opposizione dell'Autorità Palestinese.
Secondo le fonti della difesa israeliana, il blocco dei circa 96 milioni di dollari che l'Autorità Palestinese invia ogni mese alla striscia di Gaza potrebbe mettere talmente in difficoltà Hamas da spingerla a scatenare un nuovo conflitto con Israele per uscire dall'angolo, e le violenze potrebbero facilmente allargarsi alla Cisgiordania...

(israele.net, 9 ottobre 2018)


"Oasi di pace" sotto attacco. Caccia al killer di due israeliani

di Giordano Stabile

Due impiegati di una fabbrica, di 29 e 35 anni, uccisi, una donna ferita e un palestinese ancora in fuga, braccato da centinaia di militari in Cisgiordania. Quello di ieri mattina è stato uno dei più gravi attacchi terroristici da mesi e preoccupa ancor più le autorità israeliane perché per la prima volta è stata colpita una «oasi di pace», un grande parco industriale che dà lavoro a migliaia di persone, ebrei e palestinesi, e finora era stato risparmiato dal conflitto. In più, dai primi elementi, sembra che il terrorista volesse rapire almeno una delle vittime, la ventinovenne poi assassinata. Segno di una azione più complessa rispetto agli attacchi improvvisati che hanno caratterizzato la cosiddetta «Intifada dei coltelli», cominciata giusto un anno fa.

 La fuga del killer
Il killer in fuga ripreso dalle fotocamere
Il killer, Ashraf Walid Saliman Neloah, sui vent'anni, era un ex operaio della fabbrica di Barkan, un complesso industriale sorto accanto all'insediamento di Ariel. È arrivato alle sette del mattino, dopo una assenza di un paio di settimane. È salito prima nell'ufficio dove lavoravano le vittime. Poi è sceso in officina a prendere fascette di plastica che si usano per legare i pacchi. È risalito nell'ufficio e ha aggredito la prima vittima, Kim Yehezkel, 29 anni, l'ha immobilizzata e legata con le fascette. Un collega, Ziv Hajbi, 35 anni, è però entrato nell'ufficio e li ha visti. Il terrorista gli ha sparato alla stomaco, un colpo mortale. Lo sparo ha attirato l'attenzione di un'altra impiegata, 54enne, che ha cercato di fuggire ed è stata ferita.
Il killer si è dato a questo punto alla fuga. Una guardia dell'officina, armata, ha cercato di fermarlo ma ha mancato il bersaglio. Il palestinese ha risposto al fuoco, la sua pistola si è inceppata ma è riuscito comunque a lasciare la fabbrica e a dileguarsi. È cominciata una gigantesca caccia all'uomo. L'esercito israeliano ha classificato i fatti come «attacco terroristico grave» e dispiegato centinaia di uomini. Sembra escluso il movente della vendetta. I militari, nella tarda serata di ieri, hanno circondato il villaggio di Beit Lib, vicino a Tulkarm, e hanno cominciato a setacciarlo.
Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha condannato l'attacco «non solo contro persone innocenti ma anche alla possibilità della coesistenza pacifica fra israeliani e palestinesi». Un concetto ribadito anche dall'ambasciatore americano David Friedman: «La zona industriale di Barkan è un modello di convivenza fin dal 1982, ora scossa da un brutale assassinio».

(La Stampa, 8 ottobre 2018)


Germania - Ora nasce l'Afd «ebraica». Nuova bufera sul partito

L 'estrema destra a caccia di nuovi consensi

di Daniel Mosseri

«Da noi non otterrete il timbro kasher». Con questo slogan circa 250 sostenitori della Jsud, l'unione degli universitari ebrei in Germania, ha protestato ieri a Francoforte contro la fondazione nella vicina Wiesbaden di JAfD, una sezione ebraica di Alternative für Deutschland. Fortissima all'est ma in crescita anche all'ovest, AfD è la formazione xenofoba accusata di connivenza con l'estremismo di destra nazionalista e antisemita. Nelle scorse settimane AfD ha manifestato a Chemnitz contro gli stranieri al fianco di hooligan e neonazisti.
   Mesi fa il suo leader Alexander Gauland ha liquidato l'esperienza del Terzo Reich paragonandola a «una cacca di uccello nella storia millenaria della Germania». Il numero uno di AfD in Turingia, Björn Höcke ha chiesto un'inversione nella politica di commemorazione dello sterminio degli ebrei, definendo «vergognoso» il memoriale alla Shoah eretto a Berlino.
   Con la nascita della sezione JAfD - 20 membri in tutto, alcuni dei quali si professano ebrei - si cambia, assicura il partito, facendo voto di lotta all'antisemitismo. II suo primo risultato è avere messo d'accordo 17 organizzazioni ebraiche tedesche secondo cui «AfD è un partito antidemocratico e largamente di destra radicale in cui l'antisemitismo e la negazione della Shoah sono di casa».
   Novità in politica sono giunte anche dal fronte moderato con il presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, che alla Bild am Sonntag ha infranto un tabù: «La democrazia è sufficientemente stabile per far fronte a un possibile ritiro del Spd dalla grande coalizione». Le elezioni il 14 ottobre in Baviera e il 21 in Assia si annunciano disastrose per i partiti al governo e Schäuble prepara un piano B per la traballante Merkel.

(il Giornale, 8 ottobre 2018)


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Gli ebrei in Germania si oppongono a AfD

Il sito ebraico tedesco haGalil si fa portavoce dell'opposizione degli ebrei in Germania a AfD

In una dichiarazione congiunta, le organizzazioni ebraiche in Germania prendono posizione contro l'AfD. L'AfD non è affatto un partito per ebrei né per i democratici, secondo il documento firmato da oltre 40 organizzazioni e associazioni. Le organizzazioni si oppongono al fatto che gli ebrei siano strumentalizzati dall'AfD per i suoi scopi.
"L'AfD è un partito in cui trova posto l'odio per gli ebrei e la relativizzazione fino alla negazione della Shoah", si legge nel testo comune. Con la sua politica, l'AfD rappresenta una minaccia per la vita ebraica in Germania.
Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, dr. Josef Schuster, ha dichiarato: "L'AfD è antisemita. Incita le minoranze e cerca di dividere la società. Questo è incompatibile con i valori ebraici. Per noi, l'AfD non è un'alternativa".
Nella dichiarazione firmata da haGalil si dice inoltre:
"Le organizzazioni e associazioni ebraiche sottoscritte invitano tutte le forze democratiche dentro e fuori la comunità ebraica a unirsi apertamente e visibilmente contro ogni forma di pensiero antidemocratico, antisemita, razzista e nazionalistico!"
Il testo della dichiarazione

(haGalil.com, 4 ottobre 2018 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


Netanyahu ai ministri: «Prepararsi per offensiva su Gaza»

C'è preoccupazione nel Governo israeliano per il taglio dei fondi per Gaza deciso dalla Autorità Palestinese. Si teme un ulteriore peggioramento delle condizioni umanitarie che potrebbero sfociare in violente proteste veicolate da Hamas e dalla Jihad Islamica.

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, durante la domenicale riunione del gabinetto dei ministri ha avvertito che Israele si sta preparando ad una campagna militare su Gaza nel caso le condizioni umanitarie peggiorino ulteriormente scatenando così ulteriori incontrollabili violenze.
La preoccupazione del Governo israeliano riguarda la decisione della Autorità Palestinese (AP) di tagliare completamente i fondi ad Hamas dopo che il leader della AP, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) si è sentito "scavalcato" dalla recente decisione del Qatar, in accordo con Israele, Egitto e Nazioni Unite, di inviare denaro per il pagamento del carburante necessario al funzionamento della centrale elettrica di Gaza....

(Rights Reporters, 8 ottobre 2018)


Quell'accordo fra Cipro ed Egitto che rivela il futuro del Mediterraneo

di Lorenzo Vita

Cosa hanno in comune Egitto, Cipro, Turchia, Israele e Unione europea? Tutti si affacciano sul Mediterraneo. Ma soprattutto hanno tutti un interesse enorme nel gas. L'Ue come importatore, gli altri come esportatori. E la competizione, così come gli accordi fra i diversi attori, cambiano radicalmente la politica e strategia delle parti coinvolte in uno dei mercato più ricchi e che decideranno (o stanno già decidendo) il futuro della regione.
  E c'è un accordo che, in questi ultimi giorni, dà un'idea abbastanza chiara di quanto possa incidere il gas nelle strategia del Mediterraneo. Il 19 settembre è stato siglato un patto fra Cipro ed Egitto per la costruzione di un gasdotto sottomarino che trasporterà il gas dal giacimento Afrodite, nei fondali delle acque cipriote, fino ai terminali di liquefazione egiziani . Il gas, una volta arrivato in Egitto, sarà poi esportato nel continente europeo.
  Il patto muta radicalmente il quadro delle politiche del gas del Mediterraneo. L'asse che si è instaurato fra Nicosia e Il Cairo di fatto assegna all'Egitto il ruolo di hub energetico per l'Europa nella parte orientale del Mare Nostrum. E in questo modo, il governo egiziano ha messo a segno un colpo di fondamentale importanza nella competizione per diventare il maggior esportatore di oro blu nell'Unione europea. Dal fronte sudorientale, è Abdel Fattah al-Sisi a vincere il primo match. Con buona pace della Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che sogna da tempo di diventare il Paese di transito per il gas verso l'Europa.
La competizione per adesso è vinta dall'Egitto. E molti esperti concordano sul fatto che la vittoria non sia temporanea: Il Cairo potrebbe aver messo in cassaforte definitivamente la posizione di leadership nell'esportazione di gas. E in questa competizione, un ruolo di primo piano lo ha avuto l'intreccio politico fra Cipro, Egitto, Israele e Turchia. Quest'ultima divenuta nel tempo invisa a tutti gli altri tre Stati coinvolti nell'area. E questo ha avuto un peso enorme nell'ascesa del Paese nordafricano.
  Come ha spiegato ad Al-Monitor Tharwat Ragheb, professore alla British University del Cairo, "la Turchia ha raggiunto un riavvicinamento con Israele a giugno del 2016 e i due Paesi hanno concordato la costruzione di gasdotti per trasportare il gas da Israele verso l'Europa attraverso la Turchia".
  Il problema è che per far arrivare il gas israeliano alla Turchia, c'era solo una strada percorribile: le acque di Cipro. Ma la zona economica esclusiva dell'isola non è posto accessibile ai turchi, visto il conflitto che dal 1974 divide non solo l'isola di Cipro, ma anche Nicosia da Ankara. E questo ha di fatto escluso che Erdogan potesse siglare un accordo con Benjamin Netanyahu per far arrivare il gas israeliano.
  Nel frattempo, mentre la via turca veniva interrotta, Israele ed Egitto hanno avviato una forte sinergia in campo politico, militare ed energetico. I due Stati hanno concluso accordi di fondamentale importanza proprio nel settore del gas: e questo ha permesso che Israele sponsorizzasse la buona riuscita dell'accordo fra egiziani e ciprioti.
  Se a questa sinergia fra Egitto, Cipro e Israele, si unisce il fatto che la Turchia non ha rapporti estremamente positivi con l'Unione europea e con gli Stati Uniti di Donald Trump, mentre l'Egitto sta consolidando la sua posizione sia in campo militare che nella lotta all'immigrazione clandestina, si intuisce perché tutto è andato nella direzione voluta dal Cairo.
  L'accordo, per l'Egitto, è senza precedenti. E fa capire anche quanto il governo di Al-Sisi sia entrato nelle grazie dell'Unione europea a tal punto da consegnargli, in buona sostanza, le chiavi dell'approvvigionamento di gas dal Mediterraneo orientale. Volendosi affrancare dal gas russo, Bruxelles ha puntato forte (insieme agli Stati Uniti) allo sfruttamento dei giacimenti mediterranei. E Il Cairo, per tutte le regioni viste sopra, è diventato il prescelto per il rifornimento di gas naturale all'Europa.
  Salah Hafez, ex capo della Egyptian Petroleum Corporation, ha ricordato anche l'importanza di questo accordo per la stessa industria del gas egiziana. Grazie alla liquefazione della materia in arrivo da Afrodite, l'Egitto beneficerà non solo degli introiti economici, ma anche della possibilità di riattivare i terminali chiusi per la scarsità di forniture nel 2012. Chiusura che ha condannato il Paese a importare gas (come fa con Israele).
  Dal momento che il gas è uno degli elementi-chiave per comprendere il presente e il futuro delle relazioni euro-mediterranee, va da se che questo accordo chiarisce una volta per tutte qual è la rotta che seguirà l'Europa sul Mediterraneo orientale. Quello che risalta in questi anni è la volontà di diversificare le fonti energetiche per svincolarsi dalla Russia.
  Per farlo l'Ue ha puntato sul fronte Sud e sulla costruzione di un asse fra Israele, Cipro e Grecia, con l'Italia interessata in maniera più o meno diretta. E per i Paesi extra europei che beneficeranno della diversificazione delle fonti, Bruxelles ha scelto l'Egitto. Al Sisi ora è il nuovo alleato dell'Europa in Nord Africa. Ma forse, in generale, lo è anche per il Medio Oriente.

(Gli occhi della guerra, 7 ottobre 2018)


Il discorso alla Camera di Mara Carfagna sull’antisemitismo

In tutta Europa l'antisemitismo rialza la testa. Il 4 ottobre scorso Forza Italia ha presentato alla Camera dei Deputati una mozione, di cui Mara Carfagna è la prima firmataria, con cui si impegna il governo a sviluppare azioni concertate con le comunità ed istituzioni ebraiche, ad incoraggiare gli scambi tra giovani di fedi diverse e varare e sostenere campagne di sensibilizzazione in proposito.
A fianco il video del discorso.

(Facebook di Mara Carfagna, 4 ottobre 2018)


Israele: il premier Netanyahu incontrerà Putin

di Chiara Romano

Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, domenica 7 ottobre ha dichiarato che incontrerà il presidente russo, Vladimir Putin, per la prima volta da quando un aereo-spia della Russia è stato abbattuto sulla Siria dalle forze locali mentre stavano attaccando un velivolo israeliano.
   Netanyahu ha comunicato la decisione durante un incontro di gabinetto tenutosi a Gerusalemme, sottolineando che i due leader discuteranno attività di coordinazione per la sicurezza in Siria. A settembre, le relazioni diplomatiche tra Israele e Mosca si erano incrinate dopo che Mosca aveva accusato Tel Aviv di aver abbattuto un aereo russo nei cieli siriani.
   Il ministero della Difesa della Federazione russa aveva perso i contatti con l'aereo russo IL-20 di ritorno nella base aerea di Khmeimim, in Siria, lunedì 17 settembre. Secondo Mosca, il velivolo, con un equipaggio di 14 persone a bordo, si trovava a circa 35 chilometri dalle coste siriane nel Mediterraneo; nello stesso momento, 4 caccia F-16 israeliani stavano bombardando alcuni obiettivi siriani nella città di Latakia. L'IL-20 era stato abbattuto, per sbaglio, dalle difese antiaeree siriane. L'affollamento dei cieli del Paese dilaniato dalla guerra civile ha altresì rischiato di danneggiare seriamente i rapporti tra Russia, Israele e la stessa Siria. Non a caso, l'incidente è stato considerato il peggior episodio di fuoco amico tra Mosca e Damasco, dall'intervento militare russo a sostegno delle forze del presidente Bashar al-Assad nel settembre 2015.
   Tuttavia, da quando l'aereo russo è stato abbattuto, non si sono verificati raid aerei israeliani. I media di Israele ritengono che tale pausa potrebbe essere avvenuta su richiesta di Mosca, oppure che il governo israeliano abbia sospeso gli attacchi temendo di aumentare le tensioni con la Russia.
   La Russia, da parte sua, ha annunciato nuove misure di sicurezza per proteggere il suo esercito in Siria. Mosca, infatti, ha fornito a Damasco il sistema di difesa missilistico S-300 e altre contromisure elettroniche per individuare gli aerei da guerra. Israele teme che i sistemi missilistici antiaerei russi non solo limiteranno la libertà d'azione dell'aviazione militare israeliana nello spazio aereo della regione, ma permetteranno anche ai siriani di controllare lo spazio aereo israeliano. La necessità di poter agire liberamente in Siria, secondo Israele, è necessaria per impedire all'Iran o alle milizie libanesi del gruppo Hezbollah di disporre e trasferire armamenti nell'area.

(Sicurezza Internazionale, 7 ottobre 2018)


Il governo israeliano approva la proposta di portare in Israele mille Falash Mura con i figli

ROMA - Il Consiglio dei Ministri israeliano, nella sua riunione settimanale di oggi, ha approvato la proposta del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro delle Finanze Moshe Kahlon di portare in Israele circa 1.000 membri della comunità di Falash Mura con figli in Israele.
   In base alla decisione, al ministro dell'Interno sarà assegnata la responsabilità di valutare e approvare l'ingresso di candidati che soddisfano il criterio di avere figli che sono entrati in Israele in base alle precedenti decisioni governative riguardanti la comunità di Falash Mura. Nel quadro della decisione, i genitori saranno in grado di portare con sé i loro partner e i loro figli non sposati che non hanno figli.
   Il Ministero per l'Aliya e l'Integrazione fornirà a coloro che entrano in Israele i diritti dovuti agli immigrati etiopici, come è stato fatto finora con le decisioni del governo riguardo alla Falash Mura. La Divisione Conversioni fornirà anche servizi di conversione.
   La presente decisione segue la decisione del governo n. 1911 dell'11 agosto 206 sull'ingresso in Israele per l'unificazione familiare dei membri della comunità di Gondar e Addis Abeba e la decisione n. 716 del governo del 15 novembre 2015 riguardante l'ingresso in Israele degli ultimi membri della comunità in attesa a Gondar e Addis Abeba.

(Agenparl, 7 ottobre 2018)


L'indagine di Silvia smaschera il nonno: «Non fu un eroe, massacrò gli ebrei»

Jonas Noreika è celebrato in Lituania come leader della resistenza anti Urss

di Paolo Salom

 
Silvia Foti
 
                                           Silvia Foti                                                                            Jonas Noreika
Il «generale Tempesta» - in lituano Generolas Vétra - è ancora oggi considerato un «eroe della nazione». Ma il cemento che assicura le tante placche di bronzo poste in giro per il Paese baltico in sua memoria si sta sgretolando, piano piano, grazie al coraggio e all'amore per la verità di un'insegnante di Chicago, Silvia Foti, 57 anni, che, a dispetto del nome italiano, è la sua nipote diretta.
   Il «generale Tempesta»: così era soprannominato Jonas Noreika, l'uomo che aveva guidato la rivolta antisovietica nei giorni precedenti l'arrivo delle truppe di Hitler, nel 1941, e che aveva lottato contro tutti e tutto per la Lituania. Per finire i suoi giorni in una prigione del Kgb, giustiziato con due colpi alla nuca e sepolto, ormai era il 1947, in una fossa comune. Per questo, a partire dalla ritrovata indipendenza, nel 1991, Noreika era stato celebrato come un uomo da cui prendere esempio, un martire della libertà. Come stupirsi se un busto in bronzo fa bella mostra di sé nella Biblioteca dell'Accademia delle scienze di Vilnius? «Mio nonno - dice al Corriere Silvia Foti - dopo l'arrivo dei nazisti ha guidato una parte del Paese per loro. E ha firmato ordini orribili: è il responsabile del massacro di migliaia di ebrei e del furto delle loro proprietà».
   Silvia Foti ha una voce gradevole, sicura. Parla al telefono da Chicago e non mostra la minima esitazione. Nata Silvia Kucenas, è diventata Foti sposando un italiano di cui si era innamorata a Buenos Aires e con il quale si è poi stabilita negli Stati Uniti. Da 18 anni questa donna coraggiosa, con un passato da giornalista, ha scavato nella storia della propria famiglia per dissotterrare una verità dolorosa. «Lo avevo promesso a mia madre sul letto di morte - dice -. Le avevo promesso che avrei raccontato la storia del nonno che allora vedevo anch'io come una figura immacolata, una specie di cavaliere coraggioso che dava lustro a tutta la famiglia».
   Per questo nonostante la contrarietà della nonna («Non scrivere un libro su tuo nonno!», le aveva ingiunto, senza darle altre spiegazioni), Silvia ha cominciato, nel 2000, a viaggiare tra gli Usa e la Lituania. In primo luogo per riportare le ceneri di mamma in Patria. E poi per capire come raccontare una storia di cui sapeva pochissimo. «Fui così sorpresa - racconta lei stessa in un articolo pubblicato da Salon che ha provocato grande sensazione in Lituania - di vedere l'allora presidente Landsbergis arrivare con la moglie al funerale nella cattedrale di Vilnius per conoscere la "nipote del generale Tempesta". Allora tutti mi guardavano con simpatia: "Sei una brava nipote, fai bene a raccontare la storia di tuo nonno, abbiamo bisogno di eroi come lui"».
   Un giorno, mentre si trovava con il fratello Ray a Sukoniai, la cittadina del Nord dove era nato il nonno, le parole del preside di un liceo intitolato all'eroe ruppero improvvisamente l'incanto. «Mi disse che la scelta di onorare Jonas Noreika aveva suscitato proteste. Che il nonno era stato accusato di essere un "assassino di ebrei". Ma che sicuramente erano bugie sovietiche».
   Silvia Foti cominciò allora a scavare. E ogni volta che entrava in un archivio, quello che trovava la lasciava a bocca aperta: «Mi bastava leggere gli ordini ufficiali firmati da mio nonno: era tutto vero». In quella carte, il generale Tempesta istruiva i suoi soldati su come portare gli ebrei residenti nell'area nei boschi, per far loro scavare delle fosse e ucciderli sul posto: «Poi venivano requisite case, mobili e proprietà per essere distribuite ai lituani "ariani". Anche la casa della famiglia del nonno era stata ottenuta così».
   Gli ebrei in Lituania, prima della guerra, erano 200 mila: il 95 per cento di loro fu massacrata dagli stessi lituani o dai nazisti. Il libro di Silvia Foti è stato «respinto tante volte» dagli editori. E Silvia ha ricevuto minacce di morte per la sua volontà di portare alla luce una verità che pochi, in Lituania, voglio sentire. E il busto del nonno? «E ancora al suo posto», purtroppo.

(Corriere della Sera, 7 ottobre 2018)


L'etica medica ebraica insegna il senso del limite

di Luciano Bassani

Da sempre l'umanità si è fatta domande sulla vita, sulla morte e sui problemi ad esse connessi. 'Le due più grandi sventure nella vita sono una cattiva salute e una cattiva coscienza», diceva Lev Tolstoj. Il medico, secondo l'etica ebraica, deve porsi nei riguardi del malato con rispetto e umiltà, con la consapevolezza dei propri limiti, sapendo che il loro superamento potrebbe essere di danno al malato. Così il medico e rabbino Mosè Maimonide scriveva: »Fa' che io possa riconoscere ciò che è visibile, ma non permetterle di arrogarsi il potere di vedere ciò che non può essere visto: delicati e infiniti sono infatti i confini di quella grande arte che è la cura della vita e della salute delle tue creature».
   Nel campo medico il problema di quando inizia e finisce una vita è sempre stato un argomento a cui ognuno ha cercato di dare risposte anche dettate dalla propria cultura e dal proprio credo.
   Quando inizia la vita? Secondo il pensiero moderno nel momento in cui l'uovo viene fecondato dallo spermatozoo, mentre secondo la tradizione ebraica solo dopo il quarantesimo giorno di gravidanza. Prima è solo acqua. Questo evidentemente ha delle ricadute sulle sperimentazioni sugli embrioni che per l'ebraismo non sono vietate nei primi 40 giorni. Se durante la gravidanza sussiste un pericolo di vita per la madre è imperativo tutelare lei rispetto al feto, il cui diritto non prevale.
   Se nella moderna etica medica ogni persona ha una sua autonomia di vita e quindi di scelte che lo riguardano, questa autonomia non è presente nell'etica ebraica che segue delle regole (halachà, legge indispensabile) che non possono essere disconosciute. Per l'ebraismo la vita è sacra e nessuno ha diritto di privarsene anche se in casi drammatici con poche speranze di sopravvivenza. Non solo, poiché il corpo è un dono divino nessuno ha diritto di offenderlo o danneggiarlo e questo è il motivo per cui non e consentita la pratica dei tatuaggi. È altrettanto vero che nell'etica medica ebraica non esiste il concetto di accanimento terapeutico per cui pur non essendo permessa l'eutanasia è concesso mettere dei limiti o addirittura interrompere le cure, se queste non hanno speranza di portare a miglioramenti o guarigioni.
   Come si pone l'ebraismo nei confronti dei trapianti d'organo? Poiché nell'ebraismo il valore della vita prevale su tutto non ci sono preclusioni ai trapianti d'organo, quando c'è la certezza assoluta che il donatore sia deceduto.
   Il medico e rabbino italiano, Rabbi Yacob Zabalon, nato a Roma nel1630, nella Preghiera del medico cosi scriveva: »Padrone del mondo, se mi consulterà un malato, la cui ora si avvicina per un male senza speranza, sia tua volontà che non sia io ad avvicinarne la fine neanche un momento solo, ma insegnami a dargli una medicina che lo sostenga fino a che verrà la sua ora».

(La Verità, 7 ottobre 2018)


Pesci nel Mar Morto, si avvera la profezia di Ezechiele: la fine è vicina?

ROMA - Nell'Antico Testamento, il profeta Ezechiele è il protagonista centrale del "libro di Ezechiele" con le profezie su ciò che considera l'avvicinarsi dei tempi finali. Una profezia messianica è che l'acqua scorrerà da Gerusalemme nel Mar Morto, le acque si riempiranno di pesci, riversando la vita nel deserto circostante. Evento considerato impossibile a causa dell'elevata salinità del Mar Morto che impedisce lo sviluppo della vita, esistendo solamente alcuni tipi di arcaebatteri e alghe ma il fotoreporter israeliano Noam Bedein ha riportato avvistamenti di pesci che nuotano in doline d'acqua dolce che si sono formate sulle rive del mare, scrive il Daily Star.
   Le foto diffuse, dal progetto Dead Sea Revival, mostrano minuscoli pesci che nuotano nell'acqua e sembra provengano dal bacino idrico. Bedein, che lavora al progetto Dead Sea Revival mirato a preservare il Mar Morto e altri "tesori idrici" israeliani, ha affermato che la presenza di pesci, dimostra che l'acqua è "tutt'altro che morta".
   Alcuni indicano questo evento come l'inizio della realizzazione della profezia di Ezechiele. La Bibbia afferma che dopo la distruzione di Sodoma e Gomorra, la terra fu trasformata in una sterile terra desolata, la stessa area in cui si trova il Mar Morto. Ma fu profetizzato che la vita sarebbe tornata nuovamente sulla terra, con pesci in abbondanza nell'acqua. "Arrivando al Mar Morto, il punto più basso sulla terra, ci si accorge che la profezia è una realtà", ha detto Bedein a Breaking News Israel.
   "In un luogo che era stato maledetto ai tempi della Bibbia, ora si possono esplorare le doline e, dove l'acqua si è ritirata, vedere i pesci così come detto nella profezia di Ezechiele, che annuncia inoltre il ritorno degli ebrei" e aggiunto: "La maledizione è finita e questo luogo, i suoi minerali, portano vita alle persone in tutto il mondo".

(blitz quotidiano, 7 ottobre 2018)



"Io sono il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe"

In quello stesso giorno vennero a lui dei sadducei, i quali dicono che non vi è risurrezione, e gli domandarono: «Maestro, Mosè ha detto: "Se uno muore senza figli, il fratello suo sposi la moglie di lui e dia una discendenza a suo fratello". Vi erano tra noi sette fratelli; il primo, ammogliatosi, morì; e, non avendo prole, lasciò sua moglie a suo fratello. Lo stesso fece pure il secondo, poi il terzo, fino al settimo. Infine, dopo tutti, morì anche la donna. Alla risurrezione, dunque, di quale dei sette sarà ella moglie? Poiché tutti l'hanno avuta». Ma Gesù rispose loro: «Voi errate, perché non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio. Perché alla risurrezione non si prende né si dà moglie; ma i risorti sono come angeli nei cieli. Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: "Io sono il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe"? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi». E la folla, udite queste cose, stupiva del suo insegnamento.

(Dal Vangelo di Matteo, cap. 22)

 


E Mussolini gridò: "C'è solo la razza ariana"

Il 6 ottobre 1938 il massimo organo del Fascismo emanò la "Dichiarazione della razza". Fu l'inizio delle persecuzioni degli ebrei

La persecuzione degli ebrei in Italia per legge ha una data d'inizio ufficiale: 6 ottobre 1938. Ottant'anni fa il Gran consiglio del fascismo emette la 'Dichiarazione sulla razza' - che viene successivamente adottata dallo Stato italiano con un regio decreto legge il 17 novembre 1938 - dove "dichiara l'attualità urgente dei problemi razziali e la necessità di una coscienza razziale. Ricorda che il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge un'attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti. Il problema ebraico non è che l'aspetto metropolitano di un problema di carattere generale", scrive il Gran consiglio.

 All'inizio fu un Manifesto
  Giunge così alle sue tragiche e infami conclusioni la campagna antisemita iniziata con il famigerato 'Manifesto della razza', pubblicato originariamente in forma anonima sul 'Giornale d'Italia' il 15 luglio 1938 col titolo 'Il Fascismo e i problemi della razza', quindi ripubblicato sul numero uno della rivista 'La difesa della razza' il 5 agosto firmato da 10 scienziati. Il 5 settembre, poi, la prima delle cosiddette leggi razziali col primo decreto che fissava "Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista" mentre è di due giorni dopo, il 7 settembre, il testo che fissava "Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri".

 I sommersi e i tollerati a metà
  Il 6 ottobre 1938 il Gran consiglio stabilisce i criteri per cui una persona si può considerare di razza ebraica (nel 1939 fu introdotta con un'integrazione la figura del cosiddetto 'ebreo arianizzato' verso il quale le leggi razziali furono applicate con alcune deroghe e limitazioni): è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei; colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera; colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica; non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all' infuori della ebraica, alla data del 1 ottobre 1938 (anno XVI dell'era fascista).

 Incroci e bastardi
  Nella 'Dichiarazione sulla razza' il Gran consiglio del fascismo "stabilisce: a) il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane; b) il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici - personale civile e militare - di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza; c) il matrimonio di italiani e italiane con stranieri, anche di razze ariane, dovrà avere il preventivo consenso del Ministero dell'Interno; d) dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territori dell'Impero".

 I nemici invisibili del fascismo
  Nel testo si giustificano le misure razziste nel seguente modo: si "ricorda che l'ebraismo mondiale - specie dopo l'abolizione della massoneria - è stato l'animatore dell'antifascismo in tutti i campi e che l'ebraismo estero o italiano fuoruscito è stato - in taluni periodi culminanti come nel 1924-25 e durante la guerra etiopica - unanimemente ostile al Fascismo. L'immigrazione di elementi stranieri - accentuatasi fortemente dal 1933 in poi - ha peggiorato lo stato d'animo degli ebrei italiani nei confronti del Regime, non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la politica, l'internazionalismo d'Israele. Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei; l'ebraismo mondiale è, in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona. Il divieto d'entrata e l'espulsione degli ebrei stranieri. Il Gran Consiglio del Fascismo ritiene che la legge concernente il divieto d'ingresso nel Regno degli ebrei stranieri, non poteva più oltre essere ritardata, e che l'espulsione degli indesiderabili - secondo il termine messo in voga e applicato dalle grandi democrazie - è indispensabile".

 Le poche eccezioni ammesse
  Dal 6 ottobre 1938 per tutti gli ebrei italiani vengono stabilite una serie di limitazioni personali e professionali, anche se alcune categorie vengono trattate diversamente. Come si legge nella 'Dichiarazione sulla razza', infatti, "nessuna discriminazione sarà applicata - escluso in ogni caso l'insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado - nei confronti di ebrei di cittadinanza italiana - quando non abbiano per altri motivi demeritato - i quali appartengano a:
  1. famiglie di Caduti nelle quattro guerre sostenute dall'Italia in questo secolo: libica, mondiale, etiopica, spagnola;
  2. famiglie dei volontari di guerra nelle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola;
  3. famiglie di combattenti delle guerre libica, mondiale, etiopica, spagnola, insigniti della croce al merito di guerra;
  4. famiglie dei Caduti per la Causa fascista;
  5. famiglie dei mutilati, invalidi, feriti della Causa fascista;
  6. famiglie dei Fascisti iscritti al Partito negli anni '19-20-21-22 e nel secondo semestre del '24 e famiglie di legionari fiumani; 7) famiglie aventi eccezionali benemerenze che saranno accertate da apposita commissione".
 Spogliati di tutto
  Per tutti gli altri, però, le discriminazioni sono tante e l'atto infame è compiuto in maniera definitiva: gli ebrei "non potranno: a) essere iscritti al Partito Nazionale Fascista; b) essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone; c) essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno; d) prestare servizio militare in pace e in guerra. L'esercizio delle professioni sarà oggetto di ulteriori provvedimenti. Il Gran Consiglio del Fascismo decide inoltre:
  1. che agli ebrei allontanati dagli impieghi pubblici sia riconosciuto il normale diritto di pensione;
  2. che ogni forma di pressione sugli ebrei, per ottenere abiure, sia rigorosamente repressa;
  3. che nulla si innovi per quanto riguarda il libero esercizio del culto e l'attività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti;
  4. che, insieme alle scuole elementari, si consenta l'istituzione di scuole medie per ebrei".
Inoltre il Gran consiglio decide che non saranno espulsi gli ebrei stranieri over 65 anni e chi ha contratto un "matrimonio misto italiano" prima del 1 ottobre 1938.

 "Vadano in Etiopia"
  Nella 'Dichiarazione sulla razza' viene anche affrontato un capitolo che riguarda l'immigrazione di ebrei in Etiopia. "Il Gran Consiglio del Fascismo non esclude la possibilità di concedere - si legge nel testo - anche per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina, una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell'Etiopia". Infine il Gran consiglio "prende atto con soddisfazione che il Ministro dell'Educazione Nazionale ha istituito cattedre di studi sulla razza nelle principali Università del Regno".

 Un Paese ufficialmente razzista
  Il 6 ottobre 1938 è una data che fa da spartiacque, prima e dopo. L'Italia civile e quella razzista. In quella data, infatti, il Gran consiglio del fascismo, rivolgendosi nelle considerazioni finali alle camice nere, "mentre nota che il complesso dei problemi razziali ha suscitato un interesse eccezionale nel popolo italiano, annuncia ai Fascisti che le direttive del Partito in materia sono da considerarsi fondamentali e impegnative per tutti e che alle direttive del Gran Consiglio devono ispirarsi le leggi che saranno sollecitamente preparate dai singoli Ministri". L'Italia è ufficialmente razzista.

(AGI, 6 ottobre 2018)


Vicini di casa ebrei venduti ai nazisti: le leggi razziali e quegli italiani complici

Il docufilm sul 1938. La sopravvissuta: «Per strada facevano finta di non conoscermi»

di Aldo Cazzullo

«L' ebreo che era in casa Monti Giosuè si trova nascosto dalla dott. Gentile in via di Doria al 9 che ha negozio di calze all'ingrosso a Milano».
Comincia così, con l'inquadratura su un terribile biglietto anonimo che costò una vita, il docufilm «1938. Quando scoprimmo di non essere più italiani» di Pietro Suber che il Corriere ha potuto vedere in anteprima. Una dura denuncia delle leggi razziali di ottant'anni fa e della persecuzione che seguì, raccontate da un punto di vista inedito. Non solo le sofferenze degli ebrei, ma le complicità degli italiani; in particolare dei delatori.

 I delatori
  Intendiamoci: come raccontano gli stessi testimoni, ci furono molti che rischiarono la propria vita per salvare ebrei che talora erano i loro vicini di casa, e talora non avevano mai conosciuto. Però ci furono anche italiani che denunciarono i compatrioti ebrei e li vendettero ai tedeschi. Per denaro. Per odio. Per obbedienza ideologica al fascismo e al nazismo. O per quella pulsione oscura che talora esiste in fondo all'animo umano.
«Pentito di cosa? Di essere fascista?» si sfoga il figlio dell'uomo che accompagnò le Ss dai vicini di casa, Vittoria Ottolenghi che abitava al piano di sopra e Davide Almagià «che stava al pianerottolo», per fortuna già fuggiti. E l'antisemitismo in quel luogo aleggia ancora: «Il giudeo avaro funziona sempre...».

 I neofascisti
  Sono inquietanti le interviste con gli esponenti neofascisti, che palesemente non sanno di cosa parlano quando commentano le leggi razziali. Ma sono ancora più inquietanti i racconti di chi c'era. Piangono di rabbia e di indignazione, gli ebrei del ghetto e i romani che tentarono di aiutarli, nel ricordare «Stella», Celeste Di Porto, la ragazza ebrea traviata dai fascisti che additò molti suoi correligionari. Ad Annita Mastroianni, che viveva al portico di Ottavia, lo zio Luigi Rosselli promise tremila lire per ogni donna e cinquemila lire per ogni uomo che avesse individuato; ma lei era innamorata di un giovane ebreo, Pacifico Di Consiglio detto Moretto, e non poteva certo consegnarlo. Lea Polgar racconta di come la sua famiglia a Fiume sia stata denunciata e sfrattata da un gerarca che aveva messo gli occhi sul loro appartamento. Goti Bauer denuncia di essere stata tradita dalle guide che gli ebrei ingaggiavano per essere portati in Svizzera, «ragazzotti che prendevano i soldi da noi ma poi ci vendevano ai tedeschi. Quanto tornai dai campi di concentramento mi mostrarono le case su lago, e mi spiegarono che erano state costruite con i ricavi di quel commercio vergognoso. Poi ci chiesero: "Voi come avete fatto a sopravvivere? Vi siete vendute?"». E poi il racconto a più voci dei ragazzi del 1938: «A scuola mi guardavano dietro perché erano convinti che avessi la coda», «se mi incontravano per strada fingevano di non conoscermi», «sulla pagella scrivevano "razza ebraica" ogni anno più grosso», «quando mi hanno cacciata nessun compagno mi ha mai telefonato».

 La dittatura
  È impossibile criminalizzare un popolo, senza distinguere, senza tentare di capire. Erano ragazzi cresciuti con la dittatura, non sapevano che un altro mondo fosse possibile. I principali responsabili furono coloro che quella dittatura insediarono. Non sarebbe giusto tacere né le aree di dissenso passivo, né quelle di antifascismo attivo, destinate a crescere con il disastro della guerra e l'occupazione nazista. Il quadro delle testimonianze, però, è univoco. Se la razzia del ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 fu opera dei tedeschi, nel resto del nostro Paese — a cominciare dal ghetto di Venezia — gli ebrei furono traditi, presi e consegnati alla macchina di sterminio nazista dagli italiani. E anche negli anni della Ricostruzione in pochi avevano voglia di ascoltare i racconti dei sopravvissuti, che infatti ora dicono: «A quel punto abbiamo smesso di parlare». È una colpa da cui ci siamo autoassolti, ma che l'eroismo dei Giusti tra le Nazioni, e dei tanti anonimi che nella storia non sono rimasti, non potrà cancellare. E quella frase terribile che tanti testimoni ripetono — «eravamo tutti convinti che in Italia non potesse succedere» — ci inchioda alle nostre responsabilità.

(Corriere della Sera, 6 ottobre 2018)


Il libro dello splendore. Filippo di Sambuy a Torino

di Federica Maria Giallombardo -

Lo Zohar - il Libro dello Splendore - rappresenta un fondamentale documento della spiritualità giudaica, il capolavoro della Qabbalah; non da considerare come una superstizione, ma da inserire in un più grande disegno di storia filosofica e delle religioni. Esso ha determinato lo sviluppo delle convinzioni religiose nell'ambito delle cerchie ebraiche più sensibili ai temi sacri; dal 1300 al 1800 ha costituito un fondamento di dottrina e rivelazione autorevole quanto la Bibbia e il Talmud.

Filippo di Sambuy Filippo di Sambuy Filippo di Sambuy Filippo di Sambuy Filippo di Sambuy lightbox gallery plugin by VisualLightBox.com v6.0m

Filippo di Sambuy (Roma, 1956) mette a punto dieci quadri (tecnica mista) non solo per celebrare nel loro incanto perpetuo i testi sacri, ma anche per offrire un'alternativa di teoria della narrazione ecclesiale, con una sintesi alle volte esasperatamente sentita - altre volte in apparenza rapida ma realmente fluente e vivificatoria. Con "profondo interesse intorno alla genesi dei simboli nelle varie religioni", Sambuy declina una personale idea di Dio come principio unificatore - la temerarietà del gesto rispetta la religione e al contempo ne indaga le cause, gli atteggiamenti, le mancanze, gli abbandoni e le remissioni. In un'astrazione "lirico-geometrica" - spesso combinata con affascinanti risonanze figurative classiche e post-prospettiche - l'artista raccoglie istantaneamente un rinnovato lessico divino primordiale: il vento, il respiro, il soffio.

(Artribune, 6 ottobre 2018)


E' il racconto che ci rende liberi

di Rav Roberto Della Rocca*

L'ebraismo ha una singolare caratteristica, e cioè quella di evocare innumerevoli definizioni - specialmente da chi ne ha scarsa conoscenza - e di non adattarsi pienamente a nessuna. Se fosse permesso, non già definire l'ebraismo, ma descriverne, alcuni atteggiamenti fondamentali, che corrono da Abramo al più umile personaggio di Singer, metterei in primo piano la propensione ebraica a far domande e a raccontare. Infiniti sono i racconti e i modi di raccontare nella tradizione ebraica. Da sempre i Saggi ebrei raccontano una "haggadah", una storia ricavata da quella strana e originale letteratura che è il Talmud.
   Più che una letteratura il Talmud è una Tradizione orale che scaturisce dal bisogno e dalla determinazione a estrarre dalla fissità e dalla polivalenza della parola scritta lezioni sempre nuove e costantemente cangianti, in modo da tener sempre vivo lo spirito di un testo plurisecolare con una stretta aderenza ai problemi contingenti e cercando di prevenire problemi futuri.
   Il Talmud sembra fra l'altro un'antologia del subconscio ebraico che guarda alla Bibbia come fonte di ispirazione continua, con quel suo metodo analogico e interrogativo che ricorre ai più strani espedienti interpretativi, a distorsioni a capovolgimenti di epoche e di episodi conformemente a quel principio ermeneutico. che indica che nella Torah "non c'è né un prima né un dopo" (non c'è una dipendenza dal criterio cronologico del ragionamento; il ragionamento tematico è privilegiato rispetto a quello cronologico). Non c'è parola, sillaba, accento della Bibbia che il Talmud non abbia scandagliato per estrarne Il succo più riposto.
   Se l'ebraismo ha conosciuto una sorte diversa da quelle altre civiltà per le quali la distruzione del "Santuario" ha determinato la loro scomparsa è perché un edificio invisibile, ma non meno importante, si è sostituito a quello di pietra, è come se l'edificio di pietra non fosse stato altro che l'immagine manifesta di un Tempio spirituale molto più vasto e indistruttibile.
   La Tradizione tramandata oralmente intesa nella sua accezione più larga diviene quindi l'ebraismo per eccellenza rappresentando quello sforzo ripetuto generazione dopo generazione all'edificazione di quel Tempio invisibile, una sorta di Tempio semovente che rappresenta la Torah nel suo senso più completo, come testimonianza vivente di una civiltà e come risposta significativa alla nostra esistenza.
   La perpetuazione di questa Tradizione vitale e antiapocalittica, saggia, libera fino al paradosso e all'humour, costituisce il segno tangibile di una volontà di sopravvivenza che le segregazioni e le persecuzioni non sono mai riuscite a contrarre.
   Si racconta che un tale chiese un giorno a un rabbino: "Perché voi ebrei rispondete sempre alle domande con altre domande?"
   E il rabbino di rimando: "Perché? Saprebbe forse consigliarmi risposte migliori?"
   Questa è una barzelletta, ovviamente, uno scherzo, ma non scherzava certo chi, scrivendo la Haggadah di Pesach - la narrazione dell'esodo degli ebrei dall'Egitto, divenuta l'Haggadah, la narrazione di una storia per eccellenza, - vi inserì la raccomandazione: "A chi non sa fare domande, incomincia tu stesso a suggerirne secondo quanto è detto nella Bibbia: E racconterai in quel giorno a tuo figlio ... " (Esodo, 13:8).
   È tanto poco uno scherzo, che viene spontaneo chiedersi per qual motivo un testo come la Haggadah si preoccupi di un individuo tanto insulso da non essere capace neppure di formulare un "perché".
   La storia istituzionalizza il ricordo, ma quasi sempre sottrae la memoria alla sua appartenenza individuale. La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei sono tutte forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla coscienza individuale. La memoria, viceversa, nell'insegnamento specifico della Haggadah di Pesach (narrazione dell'Esodo dall'Egitto) attualizza tuttora l'evento dell'Esodo attraverso la lettura di quel testo durante la cena pasquale che attorno al tavolo ci vede simultaneamente individui e componenti di una famiglia/comunità. In questo modo il ricordo è consegnato dal testo all'individuo e alla comunità in un meccanismo che non corre il rischio di una memoria istituzionalizzata. Questo significa scegliere la strada del raccontare che nel pensiero ebraico vuol dire anche riferirsi a una specifica idea di tempo, di redenzione e di libertà. Si è liberi dalla schiavitù solo se si ricorda, e la dimensione del racconto che è radicata nella memoria diventa in tal senso condizione fondante della propria identità.
   "Il racconto ha la stessa efficacia dell'azione". La narrazione dell'uscita degli ebrei dall'Egitto come è presentata nella Haggadah di Pesach, per esempio, è nel suo insieme un momento pedagogico, un atto di trasmissione di valori e di esperienze alle nuove generazioni.
   I genitori, stimolati dalle domande dei figli, cominciano a raccontare avvalendosi di elementi rabbinici e a volte - perché no? - di riflessioni personali. La narrazione si dipana e il figlio impara a conoscere la storia passata del popolo ebraico. Ma lo scopo della Haggadah non è culturale, o perlomeno non solo culturale: è esistenziale, esperienziale, e deve portare alla consapevolezza che "in ogni generazione dobbiamo sentirci come se noi stessi fossimo usciti dall'Egitto". Il testo non dice "dalla terra d'Egitto" ma "dall'Egitto", a significare che ciascuno, di generazione in generazione, deve liberarsi dal proprio Egitto e dalla concezione materialistica di cui l'Egitto era il simbolo. L'uscita dall'Egitto di ieri, di oggi e di domani diventa così la base, il punto di riferimento su cui misurare tutta la nostra esistenza e la nostra idea di libertà. È la narrazione che porta alla attualizzazione, al vivere e fare esperienza dell'uscita dall'Egitto e della libertà. E questo avviene tramite il raccontare dei genitori ai propri figli. Il passato diviene presente e in qualche modo si proietta nel futuro. Attraverso il racconto si rivive il passato di liberazione e si anticipa il futuro di redenzione. sembra che in questo senso essere liberi e sentirsi liberi significhi anche poter giocare, in senso forte, con il tempo.
   Il fatto è che, come scrive Elie Wiesel nel suo libro Celebration Biblique, la storia ebraica si svolge al presente e negando la mitologia influisce sulla nestra vita e sul nostro ruolo nella società. "Giove è un simbolo, ma Isaia è una voce, una coscienza. Zeus è morto senza essere vissuto, ma Mosè resta vivo. I suoi richiami lanciati un tempo a un popolo in via di liberazione, si ripercuotono anche oggi, la sua Legge ci impegna. La lotta di Giacobbe è la nostra stessa lotta e parlare di Mosè significa seguirlo in Egitto e fuori dall'Egitto, chiunque si rifiuti di parlarne si rifiuta di seguirlo". Tutti i personaggi biblici si esprimono attraverso ognuno di noi perché essi sono degli esseri viventi e non dei simboli, persone e non dei. Tutte le storie riferite dalla Bibbia ci riguardano, non dobbiamo fare altro che rileggerle per constatare la loro attualità sorprendente.
   Nella storia ebraica tutti gli avvenimenti sono collegati, è raccontandoli al presente, alla luce di certe esperienze di vita e di morte, che si possono comprendere.
   La storie che noi raccontiamo non iniziano con la nostra si inseriscono nella memoria che è la tradizione vivente del popolo ebraico. Le storie che noi raccontiamo sono quelle che noi stiamo vivendo. Ricollegando il passato con il futuro, l'ebraismo vuoi far sì che Il racconto, con i valori che gli si accompagnano, non resti, anche se vissuto emozionalmente con intensità fermo e relegato al presente. vuole proiettare in avanti il senso delle nostre azioni, responsabilizzare le nostre coscienze dell'importanza che assume trasmettere ai nostri figli l'eredità di idee che abbiamo con noi.
   Ecco perché ..... e lo racconterai a tuo figlio" non è solo un consiglio, ma costituisce un obbligo preciso per ogni ebreo di generazione in generazione. ..... Chi ascolta il figlio di suo figlio recitare la Torah, può ritenere di avere ascoltato la Torah direttamente dal Monte Sinai. Questa metafora rabbinica ci indica, fra le altre cose, come siano i nipoti a costituire il "Monte Sinai", la fonte dell'Insegnamento, per i nonni trasformati in discepoli che ascoltano e apprendono dalle nuove generazioni. una prospettiva rovesciata rispetto a ciò che appare a prima vista.
   Il Tempo del Dono della nostra Torah non è un "c'era una volta ..... , ma un tempo nel quale il passato diviene presente e si proietta in un futuro tutto da giocarsi.
* Direttore dell'area Formazione e Cultura Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

(Pagine Ebraiche, ottobre 2018)


Non entriamo quasi mai in colloquio diretto con la comunità ebraica che riflette su se stessa, per non rafforzare in lei quella tranquilla convinzione che la porta pensare che “tanto quelli di fuori non ci capiscono né mai ci capiranno”. Se tuttavia è possibile esprimere un’impressione che viene dall’esterno, si direbbe che nel mondo ebraico di oggi “Ascolta Israele” sia stato sostituito da “Parla Israele”, e a “Così parla l’Eterno”, ripetuto nella Bibbia più di duecento volte, sia stato sostituito “Così parliamo noi”. Sarà forse anche questa una conferma che quelli di fuori non capiscono niente, ma in qualche caso potrebbe anche non essere così. M.C.


A Sabbioneta Dody Bassani Vita parla delle sue "Memorie ebraiche"

Oltre a Mantova e a Sabbioneta, sono state documentate le Sinagoghe abbandonate di Viadana, Rivarolo Mantovano, Ostiano e Pomponesco e i cimiteri di Bozzolo, Viadana, Pomponesco ed Ostiano.

SABBIONETA - L'Associazione Pro Loco di Sabbioneta ha inaugurato sabato scorso nella sala espositiva della Sinagoga la mostra fotografica tematica "Luce e tradizione nelle feste ebraiche". L'esposizione resterà aperta fino al 28 ottobre per essere visitabile anche in occasione della Giornata Europea della Cultura Ebraica che quest'anno si terrà domenica 14 ottobre. Le foto esposte sono state scattate da Dody Bassani Vita che negli ultimi anni si è anche dedicata al progetto di fotografare tutti i siti ebraici esistenti sul territorio dei Domini Gonzagheschi, partendo da quelli noti ed ancora attivi, come la Sinagoga barocca di Mantova e il cimitero israelitico della città, nonché la Sinagoga neo-classica di Sabbioneta, sempre aperta al pubblico dei visitatori. Ma non tutti i luoghi ebraici versano in buono stato e di qualcuno di questi resta solo la memoria, come il Ghetto di Mantova e l'antico cimitero del Gradaro.
   Da tali presenze ed assenze, dal silenzio e dall'abbandono, prende spunto il titolo di "Memorie ebraiche" dato dalla Bassani al grande archivio fotografico da lei raccolto e sintetizzato nella conferenza per immagini che si terrà sabato 6 ottobre, ore 21.00 nella Sala Rosa di Palazzo Forti a Sabbioneta. Saranno proiettate oltre cento fotografie originali da lei scattate con notevole impegno organizzativo, dato che i siti ebraici non sono spesso facilmente accessibili. Oltre a Mantova e a Sabbioneta, dove è stato inoltre fotografato il cimitero di via Borgofreddo, sono state documentate le Sinagoghe abbandonate di Viadana, Rivarolo Mantovano, Ostiano e Pomponesco e i cimiteri di Bozzolo, Viadana, Pomponesco ed Ostiano.
   Dody Bassani Vita, durante le sue visite, ha tentato, secondo il suo peculiare stile fotografico, di evitare l'immagine troppo didascalica, la cosiddetta "foto cartolina", entrando direttamente nell'atmosfera del sito, cercando sempre di cogliervi il "genius loci", lo spirito del luogo.
   Alla conferenza saranno presenti, con il coordinamento di Alberto Sarzi Madidini, i rappresentanti dei soggetti che organizzano e patrocinano l'evento: Massimo Gualerzi presidente della Pro Loco, Emanuele Colorni presidente della Comunità Ebraica di Mantova, Andrea Ranzato consigliere della Associazione di cultura ebraica Man Tovà, Aldo Vincenzi sindaco del comune di Sabbioneta. La conferenza rientra nelle iniziative organizzate per l'ottantesimo di fondazione della Pro Loco; la partecipazione è libera, gratuita e aperta a tutta la cittadinanza.

(OgnliPoNews, 6 ottobre 2018)


Israele: gli S-300 non sono in grado di abbattere gli F-35"

I sistemi antiaerei e antimissile russi S-300, inviati dalla Russia a Damasco, non sono in grado di abbattere i più recenti aerei israeliani, ritiene il Ministro della cooperazione regionale d'Israele Tzachi Hanegbi.
   Ha ricordato che Israele ha in servizio i cacciabombardieri di produzione USA F-35I Adir. A detta sua le batterie siriane di S-300 non sarebbero in grado di abbattere gli F-35I. Secondo lui gli S-300 non sono in grado di ridurre le loro capacità.
"Abbiamo dei caccia stealth, sono i migliori al mondo. Queste batterie non sono nemmeno in grado di rilevarli" scrive Gaarez citando citando Hanegbi.
Le consegne dei sistemi antiaerei russi S-300 dovrebbero terminare il programma di modernizzazione della Siria iniziato diversi anni fa, programma fermato su iniziativa della parte Israeliana.
La dotazione di Damasco con questi sistemi antiaerei cambia fortemente l'equilibrio delle forze nella regione e diventa un fattore di contenimento nei confronti di Israele, ha osservato l'esperto siriano Ali Maksud in una intervista con Sputnik Arabic.
La decisione di consegnare gli S-300 in Siria è stata presa dopo il 17 settembre, quando il ricognitore russo Il-20, in rotta verso la base aerea di Khmeymim, è stato accidentalmente abbattuto dalle difese aeree siriane durante l'attacco di quattro F-16 israeliani contro le strutture militari di Latakia. Di conseguenza, 15 soldati sono stati uccisi.
   Secondo il Ministero della Difesa, Israele ha informato la parte russa dell'attacco solo un minuto prima che iniziasse, non riferendo dove si trovassero i suoi caccia e dando informazioni erronee. Come dichiarato dalle forze armate russe, i piloti israeliani hanno usato l'aereo russo come copertura contro la contraerea siriana.

(Sputnik Italia, 6 ottobre 2018)


Addio a Barbareschi sacerdote e Giusto contro il nazismo

Il suo nome è scritto allo Yad Vashem, nascose ebrei e critici del regime (anche Indro Montanelli). Educatore alla Fuci, venne torturato dai tedeschi ma salvò il suo carnefice, che consegnò agli Alleati.

di Paolo Lambruschi

 
 
Con l'ultimo volo di don Giovanni Barbareschi, morto giovedì scorso a Milano a 96 anni, se n'è andato l'ultimo ribelle per amore. Erano sacerdoti e laici come il beato Teresio Olivelli, Carlo Bianchi, David Maria Turoldo, Mario Apollonio e Dino Del Bo, che fondarono il giornale clandestino "Il Ribelle" e al tempo stesso scrissero pagine eroiche non sempre note della Resistenza, quella dei cattolici. Barbareschi stesso, da diacono e sacerdote, ad esempio si prodigò con gli scout di Monza e Sesto San Giovanni - le "aquile randagie" (sulle quali è in lavorazione l'omonimo film con la regia di Gianni Aureli) che hanno tuttora base nella bellissima e impervia Val Codera - e con diversi sacerdoti ambrosiani e lombardi per far passare clandestinamente in Svizzera oltre 2.000 perseguitati, tra i quali ebrei, renitenti alla leva, ricercati sottratti all'arresto. Uno si chiamava Indro Montanelli. Per le vite salvate in quel tempo lo Yad Vashem lo ha riconosciuto Giusto tra le nazioni ed è stato insignito della Medaglia d'argento e al valore civile.
   Certo non si può legare la lunga vita di Barbareschi solo all'antifascismo. Fu anche educatore come assistente della Fuci milanese negli anni 50-60, nidiata dalla quale uscirono costituzionalisti, economisti e amministratori. Ha vissuto momenti decisivi della storia di Milano e non solo. Su richiesta di don Carlo Gnocchi all'arcivescovo di Milano Montini, nel 1956 condivise gli ultimi giorni fino alla morte dell'angelo dei mutilatini che aveva conosciuto nella città occupata dai nazisti. Fu il suo esecutore testamentario e, rischiando la galera perché in Italia i trapianti di organi erano fuorilegge, quando morì gli fece prelevare le cornee e trapiantare a due bambini come desiderava il futuro beato. Collaboratore del cardinale Martini per la Cattedra dei non credenti, realizzò una video- intervista con il presule nel 2012 per i cinquant'anni del Concilio.
   Ma per ricordarlo occorre tornare alla decisiva stagione della guerra in cui entra da antifascista convinto. Giacomo Perego, studioso e in passato responsabile della Fuci milanese, è uno dei tanti giovani affascinati dalla figura di monsignor Barbareschi: «Era nato nel centro di Milano in una famiglia cattolica che pagò con la povertà la scelta di opporsi al regime. Mi raccontò che quando lo portavano a messa in fez e moschetto da balilla, suo padre gli diceva che non era valida. Perché non ci era andato liberamente». Da diacono inizia la lotta al regime che dopo la ritirata di Russia vede impegnati tanti cattolici: «Dopo la rovinosa campagna di Russia e l'8 settembre - spiega Rolando Anni, docente e ricercatore dell'Archivio storico della Resistenza bresciana della Cattolica di Brescia - avvenne un ripensamento in molti cristiani. Una crisi prima di tutto personale, come quella di Teresio Olivelli, che li portò ad abbandonare il fascismo, poi a preoccuparsi per la patria occupata e infine a combattere come partigiani. Una scelta dolorosa».
   Dopo l'eccidio di 15 partigiani, tra cui un fucino, a piazzale Loreto nell'agosto del 1944 venne inviato-ancora diacono - dall'arcivescovo Schuster a benedire le salme. Si raccolse in ginocchio, quando si alzò vide che la gente aveva pregato con lui. Venne arrestato dai nazifascisti e torturato a San Vittore dal generale Dollman, ma non tradì i compagni. Liberato, Schuster si inginocchiò per dargli l'omaggio dedicato ai martiri. Fu partigiano e staffetta tra Alleati e nazisti per salvare Milano dalla catastrofe negli ultimi giorni di guerra. Poi salvò il suo persecutore dal linciaggio nascondendolo in casa e, su mandato del cardinale Schuster, consegnò lui e altri nazisti agli americani. Perché l'amore per la vita e la dignità umana e per la libertà e il coraggio sono stati la cifra di un grande uomo e di un grande prete del Novecento, autentico interprete della tradizione ambrosiana.

(Avvenire, 6 ottobre 2018)


Il comportamento doverosamente umano di alcuni cattolici non diminuisce la responsabilità teologica e morale di una istituzione religiosa che, in quanto tale nella sua dottrina, non poteva che coinvolgersi nella responsabilità storica e morale di movimenti come il fascismo e il nazismo. Si osservino le foto. M.C.


Medio Oriente: su Israele incombe la tempesta perfetta

Non è la prima volta che Israele si trova a dover combattere su diversi fronti per difendersi da coloro che ne vorrebbero la distruzione, la cancellazione dalle mappe geografiche. Ma questa volta è diverso, non solo perché i nemici sono molto agguerriti ma anche e soprattutto perché in quella che sembra prefigurarsi come una morsa a tenaglia contro il piccolissimo Stato Ebraico, una parte importante la giocano due grandi potenze come la Russia e l'Unione Europea.
Amos Yadlin sul quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth parla di una «sfida su sei fronti»:
  1. il programma nucleare iraniano;
  2. il radicamento iraniano in Siria e in Libano;
  3. la fornitura del sistema S-300 alla Siria;
  4. la minaccia di Hezbollah;
  5. l'escalation a Gaza;
  6. i disordini in Giudea e Samaria (Cisgiordania).
Nel Governo israeliano vi è la convinzione che i primi quattro fronti, peraltro uniti da un filo non proprio sottile, siano quelli più pericolosi e che quindi gli si debba dare una sorta di precedenza rispetto alle questioni che riguardano i palestinesi. In realtà i possibili sviluppi derivanti da un più che probabile collasso della Autorità Palestinese unito alla ripresa in grande stile delle ostilità con Hamas rischia di essere un pericolo ben più minaccioso e immediato di quello rappresentato dai primi quattro punti, anche perché è possibilissimo che a Teheran contino proprio su questo per poter portare a termine il loro piano in Siria senza troppi "disturbi"....

(Rights Reporters, 6 ottobre 2018)


Il Nobel per la Pace pro Israele. "Lo stato ebraico è un esempio per noi yazidi"

Cosi' Nadia Murad, l'ex schiava sessuale dell'Isis

di Giulio Meotti

Nadia Murad
ROMA - Il Premio Nobel per la Pace non è mai stata una istituzione considerata amica di Israele. Basta pensare all'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, a Yasser Arafat, all'ex presidente americano Jimmy Carter, al finlandese Martti Ahtisaari, per citare soltanto alcuni grandi avversari e critici dello stato ebraico. Ieri il Nobel è andato invece a una accesa sostenitrice e ammiratrice di Israele, l'ex schiava del sesso dell'Isis, la yazida Nadia Murad.
   "Gli ebrei e gli yazidi condividono una storia comune di genocidio che ha modellato l'identità dei nostri popoli" ha detto Nadia qualche mese fa proprio in visita in Israele, dove è stata accolta alla Knesset, all'Università di Tel Aviv e allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah. "La storia del popolo ebraico è una storia unica, eppure riecheggia nelle esperienze della mia stessa comunità. Come gli ebrei, gli yazidi hanno una storia antica millenaria. E nonostante la persecuzione, entrambi i nostri popoli sono sopravvissuti". Nadia è stata aiutata dall'organizzazione umanitaria IsraAID e dall'ufficio israeliano della Società per lo sviluppo internazionale (Sid), che aiuta gli yazidi a vedere riconosciuto come un genocidio quello che hanno attraversato in Iraq. Quella ong israeliana lsraAID che Nadia ha definito "più efficace di molti governi", e grazie alla quale Nadia è stata in grado di raccontare la sua storia al pubblico occidentale. È stato attraverso il lavoro di IsraAID con i rifugiati yazidi nel campo di Petra in Grecia, ora sgomberato, che il direttore dell'organizzazione Yotam Polizer ha capito che Israele poteva svolgere un ruolo importante per la causa yazida. "A differenza dei rifugiati siriani, che hanno visto il nostro logo con la stella di David e forse sono rimasti confusi, gli yazidi ci hanno accolto con un sorriso enorme. Hanno detto che per loro era una connessione naturale", ha detto Polizer.
   Nelle fonti ebraiche tradizionali, ci sono riferimenti a un gruppo noto come "Amgoshim". Sono gli stessi "Magi" delle fonti cristiane, come i tre Magi che visitarono Gesù dopo la nascita, identificati da molti studiosi come sacerdoti zoroastriani. Alcuni studiosi israeliani, come Idan Barir, hanno ipotizzato che gli Amgoshim siano gli yazidi e che il termine sia l'origine della parola "magico", perché sia gli zoroastriani sia gli yazidi sono considerati dei maghi. Gli yazidi ritengono poi che il pogrom antiebraico a Baghdad del 1941, il "Farhud", fu il precursore di quello che sarebbe successo in Iraq alle minoranze religiose. In Israele, Nadia hanno tenuto incontri con i legislatori della Knesset e si è incontrata con i vertici dell'Università di Tel Aviv insieme a Polizer, nel tentativo di portare gli studenti yazidi a studiare in Israele. Decisivo il ruolo della parlamentare Ksenia Svetlova, che è a capo alla Knesset dell'intergruppo per il rafforzamento delle relazioni tra lo stato di Israele e il popolo curdo. "Ho sempre desiderato venire qui in Israele, molte vittime volevano venire a chiedere aiuto al governo e al popolo di Israele" ha detto Nadia. E ancora: "Prima di questo genocidio, avevo poche informazioni sulla comunità ebraica perché non abbiamo molti ebrei in Iraq. Poi ho visto che le comunità ebraiche ci sostengono. Come gli ebrei, gli yazidi hanno mostrato resilienza di fronte all'oppressione. Mantenere la propria identità è una forza di resistenza. Rifiutiamo di consentire che gli oppressori siano più forti di noi". E' questa la storia dei 70 anni di Israele.

(Il Foglio, 6 ottobre 2018)


Gaza: da moschee appelli a manifestazioni sul confine

GAZA - Ripetuti appelli alla popolazione di Gaza affinché torni a manifestare lungo il confine con Israele sono stati rilanciati stamane dalle moschee della Striscia mentre automezzi sono stati messi a disposizione di quanti desiderino aderire a quella che Hamas definisce la "Grande marcia del ritorno".
Nelle ultime settimane dirigenti di Hamas hanno ribadito che queste manifestazioni continueranno senza sosta "fino alla rimozione definitiva del blocco israeliano della Striscia".
Ieri nel centro di Gaza il braccio armato della Jihad islamica ha intanto organizzato una parata militare in cui ha esibito gli armamenti a sua disposizione, fra cui missili.
Nel frattempo i media israeliani riferiscono che l'esercito ha rafforzato le proprie unità dislocate attorno alla Striscia e ha posizionato batterie di difesa aerea Iron Dome.

(Corriere del Ticino, 5 ottobre 2018)


Anche il governo approva il testo Carfagna sulla Shoa

Parere favorevole alla mozione sull'antisemitismo

 
Mara Carfagna
ROMA - «Siamo fieri di avere sollecitato una discussione su un tema così qualificante e solenne, a pochi giorni dalla ricorrenza del rastrellamento nel ghetto di Roma e nell'ottantesimo anniversario delle leggi razziali». Mara Carfagna, vicepresidente della Camera, deputata di Forza Italia e prima firmataria della mozione approvata dall'Aula contro l'antisemitismo - firmata insieme a Emanuele Fiano (Pd), Francesco Lollobrigida (FdI), Alessandra Carbonaro (M5S), Daniele Belotti (Lega) e Federico Fornaro (Leu) - gioisce per l'approvazione di questo atto parlamentare. «La Camera ha approvato cinque mozioni contro l'antisemitismo. Una vittoria sull'odio. Quella di Forza Italia impegna il governo, che ha espresso parere favorevole, a potenziare il contrasto e la prevenzione di atti antisemiti e a farlo in collaborazione con le comunità ebraiche», spiega. «Dobbiamo combattere contro l'intollerabile recrudescenza dell'antisemitismo in Europa, perché un conto è giudicare a posteriori gli esiti fatali della predicazione razzista, un altro captare i segnali e contrastarli per tempo».
   Unica nota stonata l'astensione del grillino Pino Cabras, deputato eletto in Sardegna. Un voto in controtendenza da parte di un parlamentare che sul suo sito e in un libro ha messo in discussione la versione ufficiale dell'11 Settembre e ha spesso attaccato, con toni durissimi, le politiche messe in campo dal governo di Israele e dalle sue forze armate.

(il Giornale, 5 ottobre 2018)


Gerusalemme decisa a porre fine "alla menzogna dei profughi palestinesi"

Il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, giovedì 4 ottobre, ha annunciato che intende rimuovere ogni organo dell'agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNWRA) dalla città per "porre fine alla menzogna del problema dei profughi palestinesi". Barkat ha inoltre dichiarato che scuole, cliniche, centri sportivi e gli altri servizi gestiti dall'Agenzia ONU per il Soccorso e il Lavoro a Gerusalemme Est saranno gestiti da autorità israeliane. Il comune non ha ancora fornito una cronologia esatta, ma ha comunicato che le scuole dell'organizzazione, le quali al momento ospitano 1.800 studenti, saranno chiuse entro la fine del corrente anno scolastico.
   Il sindaco, pronto a dimettersi dopo le elezioni comunali alla fine di ottobre, ha dichiarato che è stata la decisione statunitense di tagliare $ 300 milioni di aiuti all'agenzia ad indurre il provvedimento in questione. "La decisione degli Stati Uniti ha creato una rara opportunità di sostituire i servizi dell'UNRWA con i servizi della municipalità di Gerusalemme" ha affermato Barkat accusando poi il l'agenzia di operare illegalmente e promuovere l'incitamento contro Israele. "Stiamo mettendo fine alla menzogna del problema dei profughi palestinesi e ai tentativi di creare una falsa sovranità all'interno di una sovranità" ha continuato il sindaco Barkat, sostenendo che le scuole e le cliniche presenti a Gerusalemme erano illegali e che operavano senza una licenza israeliana.
   L'UNRWA non ha ancora risposto alla richiesta di commento avanzata dall'Associated Press.
   La fondazione della United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near Eas (UNRWA) risale al 1949 quando 700.000 palestinesi furono costretti a lasciare le loro case a causa dell'intervento dei paramilitari sionisti e il conseguente insediamento dello Stato di Israele. L'agenzia, ad oggi, fornisce servizi educativi, sanitari e sociali ad oltre 5 milioni di rifugiati palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, oltre che in Giordania, Libano e Siria.
   L'organo aiuta oltre la metà dei 2 milioni di abitanti della Striscia di Gaza, devastata da oltre 10 anni di blocco. Israele critica l'UNRWA per diverse ragioni. Una di queste è il modo in cui conta i rifugiati, l'agenzia dell'ONU comprende altresì nel suo calcolo anche i discendenti dei profughi, originariamente sfollati dalla creazione di Israele. A tal proposito, lo Stato Ebraico teme che il passaggio dello status di rifugiato da genitori a bambini possa minacciare il "carattere ebraico" del Paese, dal momento che i palestinesi rivendicano il diritto al ritorno.

(Sicurezza Internazionale, 5 ottobre 2018)


Beitar Gerusalemme, l’Inizio di una nuova fase

Giocatori musulmani del Bnei Sakhnin pregano in campo. In piedi un calciatore del Beitar di Gerusalemme
Ligat ha'al, la prima serie del calcio israeliano. Il Beitar di Gerusalemme che ospita il Bnei sakhnln, squadra a forte tradizione araba, in una serata di fine settembre. Per una volta solo buone notizie da dove non era scontato aspettarsele. E questo anche per la fortissima attenzione che è stata dedicata. su tutti i fronti. a un incontro che definire "a rischio" sarebbe un eufemismo. "Hope for soccer" titolava il Jerusalem Post qualche giorno prima, ricordando gli eclatanti episodi di violenza degli anni precedenti e auspicando un cambio di direzione. La curva del Beitar che nel 2008 offendeva a gran voce il profeta Maometto, la stessa che nel 2012 protestava veementemente per l'acquisto di due giocatori ceceni "colpevoli" di essere musulmani, gli scontri tra tifoserie sfociati in vera e propria guerriglia urbana, i calciatori ospiti costretti a lasciare lo stadio sotto la scorta della polizla. E la necessità di far disputare le successive partite a porte chiuse.
   Segnali inquietanti che le autorità di pubblica sicurezza non hanno sottovalutato, arrestando nel corso degli anni diversi esponenti della cosiddetta Familia, il gruppo più estremista dell'universo Beitar. E che anche al più alto livello istituzionale sono stati presi piuttosto sul serio. Come dimostra l'interessamento in prima persona del presidente israeliano Reuven Rivlin, che del club di Gerusalemme è un sostenitore. Nel 2012 l'inserimento in rosa dei ceceni Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev fece scoppiare un autentico putiferio: violenze. minacce, esaltazioni dell'integrità identitaria del Beitar. Una vergogna (con molti responsabili) rilanciata dalla stampa di mezzo mondo. "Il Beitar sarà per sempre puro" si leggeva in alcuni striscioni di protesta branditi da tifosi locali. Solo l'inizio di un clima gravissimo di intimidazione ricostruito nel documentario Forever Pure dell'israeliana Maya Zinstein. vincitore il Primo ottobre scorso di un Emmy Award.
   Nel 2017 l'ex allenatore Eli Cohen era tornato su quel duplice acquisto ceceno con queste parole: "È stato come spararsi in testa, bisogna essere completamente stupidi per fare una cosa del genere, perciò non prenderei più un giocatore musulmano. In passato ho allenato calciatori islamici in altre squadre, ma nel Beitar Gerusalemme non ne prenderò. Sono solo realista, non razzista". Poche ore e l'ex proprietario Eli Tabib, spalleggiato da Rivlln in persona, l'aveva destituito dal ruolo di Consigliere speciale del club. Nella sua prima conferenza stampa, la scorsa estate, il nuovo presidente Moshe Hogeg ha sottolineato: "Il Beitar non è un club razzista. Da oggi la religione non sarà più un fattore determinante nella scelta del giocatori". Parole che lasciando intendere una svolta lungamente attesa.

(Pagine Ebraiche, ottobre 2018)


Il capo di Hamas apre a una tregua. "Non voglio più guerre con Israele"

Sinwar favorevole ad un cessate il fuoco: "Ma a condizione che finisca l'assedio su Gaza". Ci troviamo di fronte ad un'opportunità storica per cambiare le cose.

di Davide Lerner

 
Yahya Sinwar
GERUSALEMME - Il leader di Hamas nella striscia di Gaza, Yahya Sinwar, ha rilasciato un'intervista senza precedenti ad un quotidiano israeliano dicendosi favorevole ad un cessate il fuoco di lunga durata con Israele. Sul fronte, però, il livello di allerta dell'esercito israeliano continua ad aumentare. «Non voglio più guerre con Israele», ha detto Sinwar. «Non è nel nostro interesse confrontarci con una potenza nucleare, non potremmo vincere, e una nuova guerra non è nemmeno nell'interesse di Netanyahu. La prossima sarebbe la quarta operazione su Gaza e non possono permettersi di concluderla come la terza, che già si è conclusa come la seconda, che già si è conclusa come la prima. Dovrebbero rioccupare Gaza (per impedire il lancio di missili verso Israele, ndr.). E non penso che Netanyahu, che sta tentando in tutti i modi di liberarsi dei palestinesi della Cisgiordania per preservare una maggioranza ebraica, desideri annettere un territorio con altri due milioni di arabi». Di regola, i politici palestinesi non concedono interviste ai media israeliani, temendo che la «normalizzazione» dei rapporti rischi di rafforzare lo status quo. Il quotidiano YediothAhronoth, il giornale a pagamento più diffuso del Paese, è stato infatti bersaglio di un comunicato polemico di Hamas dopo la pubblicazione. «La giornalista ha detto di essere di "Repubblica" e del "Guardian", non avremmo rilasciato a israeliani», ha accusato il movimento islamista, che però non ha smentito i contenuti dell'intervista, se non lamentando che «alcune affermazioni sono state distorte». Il tono del leader di Hamas, Yahya Sinwar, stupisce per l'inusitata moderazione, per uno che ha militato per una vita nelle frange armate di un'organizzazione votata alla distruzione d'Israele: «Ci troviamo di fronte a un'opportunità storica per cambiare le cose», dice, «ma il cessate il fuoco deve voler dire non solo nessun attacco da una parte e dall'altra, ma anche la fine dello stato d'assedio su Gaza, perché l'assedio è una guerra combattuta con altri mezzi», ha detto Sinwar a Yedioth Ahronoth. Israele mantiene un controllo fermissimo delle frontiere di Gaza, sia di terra che marittime, limitando radicalmente la possibilità di transito di merci e di persone.
   Israele accusa Hamas di ignorare le disastrose condizioni umanitarie della Striscia, per investire invece in tunnel sotterranei progettati per aggredire Israele: proprio attraverso uno di questi tunnel, Hamas rapì nel 2006 il soldato israeliano Gilad Shalit, che fu poi liberato in cambio di oltre mille prigionieri palestinesi, fra cui lo stesso Sinwar, che è stato oltre vent'anni in carcere, in quanto mandante di un'operazione terroristica. Ma per Sinwar i tunnel sono fondamentali, soprattutto perché garantiscono l'approvvigionamento di beni di prima necessità: «Per fortuna ci sono i tunnel: a volte gli israeliani non fanno passare per i valichi neppure il latte, non saremmo sopravvissuti altrimenti», dice. Se un cessate il fuoco tenesse, sostiene Sinwar, forse Gaza potrebbe diventare come Singapore e Dubai. «Se solo per un momento ci fermassimo e pensassimo a Gaza come era una volta - lei hai mai visto delle foto degli Anni Cinquanta? Quando d'estate tutti venivano in vacanza a Gaza?», dice Sinwar, riflettendo sullo scenario (improbabile) che un cessate il fuoco possa durare a oltranza. «Ogni sera i nostri ragazzi guardano il mare e si chiedono come sia il mondo al di là delle onde, mi spezza il cuore», racconta. Nel colloquio, Sinwar dice anche che il ritiro israeliano da Gaza nel 2005 fu solo un passaggio dall'occupazione dall'interno all'occupazione dai confini, che Oslo è stata una menzogna per compromettere le chances di creare uno stato di Palestina, che gli aquiloni infuocati che da Gaza vengono lanciati verso Israele non sono un'arma ma un messaggio: «Siete più forti ma non vincerete mai».

(La Stampa, 5 ottobre 2018)


Ma il negoziato su Gaza è bloccato e Israele rafforza l'esercito al confine

L'Egitto tenta una difficile mediazione. E resta da risolvere il nodo del rientro dell'Anp nella Striscia. Hamas ha in corso anche la difficile trattativa con Abu Mazen per le forniture di elettricità e acqua.

di Vincenzo Nigro

Allegro lancio di aquiloni incendiari in partenza da Gaza, direzione Israele
Nelle ultime settimane di questa che verrà ricordata come "l'estate degli aquiloni", una tregua, una "hudna" fra Israele e Hamas a Gaza era sembrata finalmente a portata di mano. Non è così, e forse non sarà così per molto tempo ancora. Ieri il portavoce dell'esercito israeliano ha detto che il capo di stato maggiore Gadi Eizenkot ha preso una decisione non più rinviabile: l'esercito schiererà altre truppe ai confini di Gaza. Per fermare gli aquiloni che incendiano i campi, per fermare le incursioni, i razzi, i nuovi possibili attentati. «Bisogna sventare operazioni terroristiche e impedire infiltrazioni in Israele dall'area della barriera di sicurezza, l'organizzazione terroristica di Hamas ha la responsabilità per tutto ciò che accade nella Striscia», dice l'esercito di Israele.
   Da maggio Hamas ha messo il suo cappello politico sulla "Grande Marcia del Ritorno": migliaia di cittadini di Gaza si sono affollati ogni venerdì alla barriera con Israele per protestare, incendiare copertoni, lanciare aquiloni esplosivi ma anche razzi e bombe verso Israele. Insomma per mantenere alta la pressione su Israele che tiene sotto assedio la Striscia.
   Per tutta l'estate questo negoziato segreto ma raccontato di continuo sui giornali è andato avanti fra Israele e Hamas con la mediazione dei servizi di sicurezza egiziani e del Qatar. Lo scopo di Hamas è quello di riuscire ad avere da Israele l'ossigeno necessario per governare la Striscia, far uscire la sua popolazione dalle condizioni di emergenza umanitaria in cui Gaza vive ormai da mesi. Israele ha interesse a una tregua per indurre Hamas a sospendere lo stillicidio di manifestazioni, il lancio di razzi e aquiloni incendiari che rendono furiosa la popolazione israeliana nel Sud, furiosa innanzitutto con il governo di Gerusalemme.
   Israele non ha nessun interesse a riconoscere alcunché ad Hamas, che continua a classificare semplicemente come "movimento terroristico". Non vuole cedere o concedere nulla a un movimento che utilizzando la lotta armata oltre che l'azione politica potrebbe sbandierare un allentamento della pressione su Gaza come una vittoria. Ma un negoziato mediato dall'Egitto che portasse appunto a una "hudna", una tregua lunga il più possibile, è un male minore rispetto a una situazione di continua tensione ai confini.
   Ieri dopo le anticipazioni dell'intervista di Yahya Sinwar in cui il capo di Hamas conferma l'interesse a una tregua, il premier Bibi Netanyahu ha rìvolto la sua attenzione a Mahmoud Abbas. Oltre all'assedio militare di Israele, Hamas nella Striscia è colpita dalle sanzioni politiche ed economiche dell'Autorità Palestinese. Dopo aver espulso Fatah con la violenza dalla Striscia, Hamas adesso tratta con Abu Mazen. Ma l'Anp non riesce ancora a rientrare a Gaza, e per questo non vuole che Hamas abbia successo nel negoziato con Israele. Riconoscendo la supremazia politica dell'Autorità Palestinese anche nella Striscia, Hamas riuscirebbe a ottenere forniture di acqua, elettricità, di medicine e di altri beni di prima necessità che oggi Israele, l'Egitto e la Anp fanno arrivare con il contagocce.
   Un blocco economico che ha reso le condizioni di vita nella Striscia insopportabili. Ma evidentemente Hamas non ha ancora intenzione di negoziare fino in fondo una condivisione del potere politico con l'Anp. Non ha intenzione di riconoscere nulla, neppure il diritto all'esistenza del nemico Israele. E l'assedio continua.

(la Repubblica, 5 ottobre 2018)


La strana idea che Hamas ha della pace

di Fiamma Nirenstein

Certo, pace! Hamas adesso vuole la pace, anzi, lo annuncia Yahya Sinwar, il suo capo. Lo fa in un'intervista a Repubblica che in realtà è poi Yediot Aharonot, giornale popolare israeliano, che l'ha pubblicata. Lui nega di averlo saputo, ma è chiaro: l'intervista è un messaggio politico a Israele che non contiene promesse di pace, ma semmai una minaccia di guerra. Se volete capire il Medio Oriente, dovete leggere bene quello che l'arciterrorista scelto nel febbraio del 2017 come capo di Hamas intende quando dice pace, proviamo a decifrarlo: «Voi sapete benissimo che cosa siamo capaci di fare, ne portate i segni sulla vostra pelle. Benissimo. Potrebbe interrompersi per un po', ma potrebbe peggiorare. I nostri terroristi sono pronti, i giovani che mandiamo a morire al confine con gli aquiloni e le bombe molotov, pure. Queste le condizioni: se non imponete ad Abu Mazen, voi che siete amici suoi, di fornirci i fondi che ci ha tagliato e di cui abbiamo estremo bisogno, se non lo costringete a consentire al Qatar, all'Iran, a tutti i nostri vari simpatici finanziatori di far convergere nelle nostre tasche i soldi e i beni che ci spettano ... qui esplode tutto. Altrimenti, almeno per un po', saremo degli agnelli, e bloccheremo gli attacchi terroristici e le "marce del ritorno" che possono diventare molto più violente».
   Sinwar dice nell'intervista, che naturalmente subito viene promossa a titolo strategico da tutti quelli che in fondo trovano simpatica un'organizzazione islamista dedita all'omicidio sistematico di innocenti: «Non dico che non vogliamo più combattere ma che voglio porre fine all'assedio»; ma questo significa semplicemente: fate capire a Abu Mazen di piantarla di chiederci le armi in cambio dei soldi, le armi ci servono, il potere sarà nostro. Sinwar è un intelligente inventore di strategie che combinano la violenza delle dimostrazioni lungo i confini con una pretesa di legalità; la fedeltà alla fratellanza musulmana con la richiesta di aiuto al suo peggior nemico al-Sisi; il terrorismo con la diplomazia.
   Sinwar, che è stato in galera 22 anni e che è uscito con lo scambio di terroristi con Gilad Shalit, è un tipo che ha ammazzato letteralmente con le sue mani quelli di cui ha sospettato connivenze con gli israeliani, che dice frasi tipo «Abbiamo deciso di fare dei corpi delle donne e dei bambini una diga per bloccare il collasso arabo». Adesso urbanamente di fronte alla mancanza di denaro e di accesso e alla decisione di Abu Mazen di chiudere i cordoni della borsa, poiché fronteggia il disagio dei suoi, tramite la Repubblica e Yediot, Sinwar chiede l'intervento israeliano per salvarlo, e usa come scudo l'idea di cessare l'assedio.

(il Giornale, 5 ottobre 2018)


Siria, la pace russa è più vicina

di Gian Micalessin

 
La riapertura di un valico tra Siria e Israele, il calo senza precedenti delle vittime del conflitto e i passi avanti per la smilitarizzazione della roccaforte ribelle di Idlib segnalano che il progetto negoziale di Mosca sta funzionando.
Qualcuno potrà anche storcere il naso, ma la realtà è sotto gli occhi di tutti. Dopo sette anni di guerra crudele e spietata, costata secondo le diverse stime dalle 365 mila alle 400 mila vittime, la Siria vede la pace in fondo al tunnel.
E a spingerla verso quell'obbiettivo è l'azione della Russia di Vladimir Putin. Almeno tre segnali indicano l'approssimarsi del traguardo. Il primo, assai sorprendente, è la disponibilità israeliana a riaprire un punto di passaggio tra i due paesi lungo la linea di demarcazione che attraversa le alture del Golan. Il secondo è il drastico ridimensionamento delle vittime del conflitto che a settembre hanno raggiunto il livello più basso dagli inizi della guerra. Il terzo rilevante anche se da confermare è la presunta disponibilità di Jabhat Al-Nusra, la costola siriana di Al Qaida, ad accettare gli accordi di smilitarizzazione raggiunti da Mosca e Turchia e a sgombrare, d'intesa con i servizi segreti di Ankara, la zona di Idlib.
Ma partiamo da Israele. Negli ultimi anni lo Stato Ebraico ha condotto, per sua stessa ammissione, almeno duecento operazioni aeree contro le infrastrutture militari di Hezbollah e dei pasdaran iraniani dislocate sul territorio siriano. Inoltre ha garantito il suo sostegno a una dozzina di gruppi ribelli operanti nel Golan. Israele è, dunque, difficilmente sospettabile di complicità con Bashar Assad. Eppure lo scorso 27 settembre il ministro della difesa di Gerusalemme Avigdor Lieberman ha annunciato l'imminente riapertura del valico utilizzato, prima della guerra, dalle popolazioni druse d'Israele per entrare e commerciare in Siria.
"Siamo pronti a riaprire il valico come un tempo. Dal punto di vista della sicurezza e della gestione tutto è pronto", ha detto Lieberman ai giornalisti convocati sul versante israeliano del cosiddetto Alpha Gate spiegando che "i caschi blu dell'Onu hanno incominciato ad operare e a pattugliare l'area con l'assistenza dei militari israeliani e questo significa che siamo pronti per la riapertura".
A convincere Israele ha contribuito l'opera dell'esercito russo, schierato sull'altro versante del valico. La presenza russa ha permesso, già ai primi di agosto, il ritorno delle forze dell'Onu ritirate nel 2014 in seguito al rapimento di 47 Caschi Blu per mano di Jabhat al Nusra, la costola siriana di Al Qaida. Secondo quanto spiegato dal generale Sergei Kuralenko — vice comandante delle forze russe in Siria — una buona parte del lavoro è stato condotto dalla polizia militare di Mosca che ha presidiato la zona e preparato lo sminamento. Il ritorno ad una situazione ante-guerra in una zona delicata come il confine con Israele, dove i gruppi ribelli sono stati egemoni per quasi sei anni, è il segnale più importante del ritorno alla normalità. E a confermarlo contribuisce il rapido calo nel numero dei caduti, soprattutto civili, registrato negli ultimi mesi. A settembre secondo i calcoli dell'Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, una fonte difficilmente accusabile di partigianeria nei confronti del regime di Bashar Assad o di Mosca, la guerra ha causato 1059 morti, tra cui 139 civili, 239 militari governativi e 675 ribelli, ovvero la cifra più bassa dal 2011 ad oggi.
Un bilancio comunque tragico, ma assai contenuto rispetto alle cifre da tregenda del maggio 2015 quando soltanto le vittime civili furono ben 6657. E a sorreggere le speranze contribuiscono le voci provenienti da Idlib, l'ultima roccaforte ribelle al confine nord occidentale con la Turchia. Secondo il quotidiano siriano Al Watan Jabhat Al-Nusra, la costola siriana di Al Qaida considerata la forza egemone della zona capace, grazie ai suoi diecimila combattenti, di dettare la linea agli altri gruppi ribelli, starebbe trattando con i servizi segreti di Ankara la consegna delle armi pesanti.
Il passo successivo potrebbe essere il ritiro di tutti i gruppi jihadisti e l'arrivo di unità russe e turche incaricate di dar vita, come previsto dall'intesa siglata a metà settembre da Putin e dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ad una zona smilitarizzata. La svolta di Idlib rappresenterebbe il passo decisivo verso la pace. Una pace raggiunta a poco più di tre anni dall'intervento militare russo e senza la collaborazione delle Nazioni Unite e delle potenze occidentali. Tempi da record se pensiamo ai fallimenti di Onu, Stati Uniti ed Europa non solo in Siria, ma anche in paesi come Somalia, Iraq, Afghanistan e Libia.

(Sputnik Italia, 5 ottobre 2018)


L'imprenditore ebreo che non può parlare di leggi razziali in una scuola in Puglia

Roberto Matatia, prima invitato e poi rifiutato

di Daniel Mosseri

Roberto Matatia
Siamo ebrei o caporali?". Si potrebbe risolvere con una battuta alla Totò l'incidente occorso a Roberto Matatia. Peccato però che la sua storia lasci molto poco spazio al sorriso, anche a quello a volte amaro del principe della risata. E' stata Ilaria Rym a raccontare per prima su Bet Magazine che un'insegnante del liceo classico Fiani-Leccisotti di Torremaggiore in provincia di Foggia aveva invitato l'imprenditore faentino Matatia a parlare ai ragazzi in occasione dell'80esimo anniversario delle Leggi razziali. Matatia lo fa da una decina di anni in tante scuole d'Italia: il provvedimento scellerato voluto dal duce, promulgato dal re e accolto nella sostanziale indifferenza all'italiana di tanti connazionali colpì duramente la sua famiglia. Lieto di accogliere l'invito a Torremagiore, Matatia si dice disponibile all'incontro e aspetta una conferma da parte dell'istituto. A parlare con lui sarà invece la stessa insegnante che lo aveva contattato che, mortificata, gli spiega la bocciatura ricevuta dal consiglio d'istituto. "Invitare un ebreo è fare politica, e a scuola non si fa politica". E' difficile capire quale parte della chiacchierata fra il figlio di due sopravvissuti e i ragazzi di un liceo classico dovrebbe afferire alla sfera della politica. Gli ebrei italiani furono messi in ginocchio dalle leggi razziali del 1938, e questa è storia. Chi intuì che le discriminazioni a scuola, all'università e al lavoro, che il divieto di possedere una radio o di essere sull'elenco del telefono erano solo l'anteprima di un destino spaventoso tentò da subito di mettersi in salvo. Altri non ci riuscirono, altri ancora tentarono la fuga a guerra iniziata. "La famiglia di mia madre, ebrei triestini, si salvò trovando rifugio in due parrocchie nelle Marche", racconta Matatia al Foglio. Parte della famiglia di suo padre, ebrei originari di Corfù, trovarono invece rifugio in Bolivia, "l'unico paese che concesse loro il visto". Se il nonno e il padre trovarono rifugio all'estero, il fratello del nonno fece una scelta diversa. "Lui e la sua famiglia restarono in Italia: furono deportati e uccisi". Lo stesso tragico destino colpì altri 8.000 ebrei in Italia durante la guerra: in gran parte erano cittadini del regno ma fra loro vi erano anche alcune centinaia di ebrei stranieri o apolidi. Anche questa è storia. "Non montiamo un caso: noi non abbiamo ritirato l'invito al signor Matatia", ha spiegato oggi al telefono al Foglio il dirigente scolastico del Fiani-Leccisotti. "Non c'è stato nessun rifiuto perché la cosa non era ancora stata formalizzata, siamo ancora nella fase preliminare". Insomma: non lo abbiamo disinvitato perché non lo avevamo mai invitato. "Vede, è come per le gite di classe: si discute, ci si confronta, si valuta se ci sono rimborsi da coprire". Una mezza smentita che non convince. Non certamente il diretto interessato: "In oltre dieci anni che giro per le scuole, una cosa del genere non mi era mai successa".
   Imprenditore del tessile, Matatia sente forte il bisogno di raccontare le vicende dei suoi genitori, e spiega che questa attività divulgativa è cominciata un po' per caso. "La mia è l'unica famiglia ebraica di Faenza, ed è capitato che in alcune occasioni istituzionali le scuole o il Comune mi abbiano chiesto di testimoniare". Tramite il passaparola la sua presenza è stata richiesta da altre scuole italiane "e io ho cominciato a fare approfondimento e ricerca sulla Shoah". Nel 2014 l'imprenditore si scopre scrittore e pubblica per la Giuntina "I vicini scomodi", la storia del ramo forlivese dei suoi parenti. Quelli che presero una casa al mare a Riccione proprio accanto a un'altra casa di due italiani più celebri: Benito Mussolini e donna Rachele. Fino al 1938 i piccoli di casa Matatia e i piccoli Mussolini giocheranno insieme, da vicini di casa. Con l'approssimarsi delle Leggi razziali il clima cambia e i "parassiti ebrei" - così li chiamò il regime - furono privati prima della casa al mare, poi della vita.
   E' chi si rifiuta di ascoltare la storia che fa politica attiva, non certo chi la storia si limita a raccontarla, col merito, poi, di rivolgersi ai ragazzi che quella storia non hanno vissuto sulla propria pelle. Resta solo da sperare che l'insegnante boicottata per aver invitato Matatia riceva la solidarietà, se non dei suoi colleghi, del presidente Mattarella che lo scorso gennaio ha nominato la sopravvissuta Liliana Segre senatrice a vita.

(Il Foglio, 5 ottobre 2018)


Passa alla Camera la mozione Carfagna

«In tutta Europa l'antisemitismo rialza la testa, come dimostrano i sempre più frequenti casi di cronaca».
Per contrastarlo Mara Carfagna, Forza Italia, ha presentato alla Camera una mozione, approvata dal governo, con cui si recepisce la definizione di antisemitismo proposta dall'Alleanza internazionale per la memoria dell'Olocausto.
La mozione è anche e contro l'antisionismo.

(La Stampa, 5 ottobre 2018)


Angela Merkel in Israele condanna l'antisemitismo

Nella visita allo Yad Vashem

«La Germania è impegnata a contrastare l'antisemitismo, l'odio e la violenza». E quanto ha affermato il cancelliere tedesco Angela Merkel durante la sua visita allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme.
«Quasi ottant'anni fa, nella notte dei pogrom del 9 novembre, il popolo ebraico in Germania si è trovato di fronte a odio e violenza di dimensioni inaspettate», ha affermato Merkel. «Quello che seguì furono i crimini senza precedenti della Shoah, una violazione della civiltà, ecco perché è responsabilità eterna della Germania commemorare questo crimine e opporsi all'antisemitismo, all'odio e alla violenza» ha sottolineato il cancelliere, che ha scritto le stesse parole nel libro dei visitatori dello Yad Vashem.
Merkel, giunta ieri in Israele, parteciperà oggi a una tavola rotonda di imprenditori tedeschi e israeliani e sarà ricevuta dal presidente israeliano Reuven Rivlin. A seguire, l'incontro ufficiale con il premier israeliano Netanyahu e la riunione dei rappresentanti dei due paesi; subito dopo il rientro in Germania. Secondo vari media, il confronto tra Netanyahu e Merkel dovrebbe incentrarsi sull'accordo nucleare con l'Iran, fortemente avversato da Israele e sostenuto invece da Berlino.
Intanto, la tensione in Israele resta molto alta. Tre miliziani palestinesi nella striscia di Gaza sono rimasti feriti ieri a causa di una esplosione avvenuta nei pressi di un avamposto vicino al confine con Israele. Lo riferiscono fonti locali, secondo cui uno dei feriti è grave.
Due giorni fa una novantina di palestinesi erano rimasti feriti o intossicati da lacrimogeni israeliani quando avevano cercato di forzare il confine con Israele nel nord della Striscia. Ieri un'altra folla di dimostranti palestinesi si è avvicinata al valico di Erez, da cui si accede a Israele, per tornare ad affrontare i soldati.

(L'Osservatore Romano, 5 ottobre 2018)


Le storie vergognose delle agenzie dell'Onu

UNRWA e AIEA disposte a qualunque fallimento pur di andar contro a Israele

di Ugo Volli

Le organizzazioni internazionali, molti pensano, avranno molti difetti, saranno inefficienti e magari corrotte, magari i loro dipendenti abusano della posizione per commettere crimini orribili che non sono puniti ma sono sopra le parti, hanno la fiducia della popolazione e fanno solo bene: dunque vanno sostenute. Sarebbe bello che fosse così, peccato che non sia affatto vero. Ci sono tante vecchie storie a questo proposito, dal brindisi del comandante delle truppe dell'ONU a Sebrenica fino al ruolo inglorioso dei presidi dell'Onu intorno a Israele. Ma vale la pena di citare due storie recentissime, che hanno avuto scarsa eco sulla stampa.
   La prima riguarda l'UNRWA, che ha appena fatto fuggire da Gaza la maggior parte dei suoi principali dirigenti a Gaza (dove è la sua sede centrale), perché essi avevano subito minacce alla loro vita. Dunque evidentemente l'agenzia non è tanto amata dai suoi clienti arabi e neppure dai suoi dipendenti (per lo più anch'essi palestinisti), salvo quando dispensa denaro e ospita le istallazioni terroriste. Evidentemente essa è identificata da questa popolazione che pretende di proteggere con i suoi nemici, inclusi gli Stati Uniti che le ha giustamente tagliato i fondi. E' un bancomat e un santuario per armi e posti di comando. Si capisce che serva ad Hamas per vari scopi, ma ha davvero un senso umanitario? Ma c'è un'altra domanda da porsi se si vuol capire come stanno davvero le cose sul campo: dove sono fuggiti i dirigenti dell'UNRWA? Ma in Israele, naturalmente, a casa del cattivo occupante, che dunque dà sicurezza anche a loro…
   Il secondo episodio riguarda un'altra agenzia dell'Onu, l'AIEA ancora più delicata perché è incaricata di vigilare sugli accordi nucleari compreso quello con l'Iran. Nel suo discorso all'Onu che potete leggere qui, Netanyahu non ha solo rivelato un nuovo deposito di materiale nucleare iraniano a Teheran, che rientra nel progetto degli ayatollah di realizzare la bomba atomica; ha anche detto di aver fatto conoscere da tempo inutilmente la sua esistenza e quello di altri luoghi segreti che fanno parte del progetto di armamento nucleare iraniano proprio all'IAEA e ha fatto appello personalmente al suo presidente Yukiya Amano perché provveda finalmente a fare le ispezioni necessarie a rivelare la trasgressione iraniana.
   "L'agenzia invia ispettori ai siti e alle sedi solo quando necessario […] L'agenzia utilizza tutte le salvaguardie rilevanti per le informazioni a sua disposizione ma non prende alcuna informazione al valore nominale … Tutte le informazioni ottenute, anche da terze parti, sono soggette a una valutazione rigorosa e valutate insieme ad altre informazioni disponibili per arrivare a una valutazione indipendente sulla base delle competenze proprie dell'agenzia. Al fine di mantenere la credibilità, l'indipendenza dell'agenzia in relazione all'implementazione delle attività di verifica è di fondamentale importanza"
   In sostanza un modo particolarmente intricato di dire "no, le vostre informazioni non le vogliamo". Perché no? Per "indipendenza". Come stiano poi i fatti, non conta. Perché come rileva una nota dell'ufficio del Primo Ministro di Israele, l'AIEA nei siti indicati da Israele non ci ha mai messo piede e non lo sta facendo neppure ora, mentre basterebbe andare da quelle parti con un misuratore di radiazioni. Ma la risposta, dopo questo dialogo pubblico, continua a essere no. Più che di svolgere il proprio lavoro, all'AIEA interessa non essere avvicinata a Israele. Come quegli atleti musulmani che si ritirano pur di non incontrare atleti israeliani. Chiamatelo, se volete, razzismo.

(Progetto Dreyfus, 4 ottobre 2018)



Medaglia d'oro al valor militare alla Brigata Ebraica

Consegnata dall'ambasciatore in Israele, presenti i veterani sopravvissuti. Un eccezionale contributo alla Liberazione dell'Italia"

di Fabiana Magrì

NETANYA (Israele) - Asher Dishon e Gideon Gilboa, 95 anni ciascuno, hanno posato fieri in alta uniforme nel cortile di «Ber Hagdu dim» (il Museo dei Battaglioni) nei pressi di Netanya, per una foto che passerà alla storia. «Oggi celebriamo l'eccezionale contributo della Brigata Ebraica alla liberazione dell'Italia dall'oppressione nazifascista» ha affermato ieri l'ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti durante la cerimonia per la consegna della medaglia d'oro al valore militare, il più alto riconoscimento militare della Repubblica italiana, al battaglione che dall'ottobre del 1944 tenne testa all'esercito tedesco nel Nord Italia. Accanto a Dishon e Gilboa, ma in abiti civili, anche l'italiano Gualtiero Cividalli (92 anni) con gli altri - pochi - veterani sopravvissuti e con il comandante delle forze di terra dell'esercito israeliano, il generale Kobi Barak. La medaglia è stata appuntata sull'insegna della 7a Brigata corazzata di «Tzahal», erede di quella Ebraica.
   «Nonno, padre, zii e cugini: sono il settimo della famiglia in questa brigata», sorride Yedaaya Epstein, 21 anni. «Sono fiero di essere in questo battaglione», aggiunge Daniel Sztulman, 25 anni: «Sono cresciuto in Israele ma la mia cultura è italiana. I miei nonni vivono in Italia e sono molto legati a Israele e Gerusalemme». Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, ribadisce che questa medaglia «mette al riparo da strumentalità e mortificanti distorsioni che ogni 25 aprile, festa della Liberazione, puntualmente si ripropongono per iniziativa di gruppi accecati dall'odio».

(La Stampa, 4 ottobre 2018)


Betlemme, attacco nella città divisa. Aggredito e sfregiato il sindaco cristiano

Il primo cittadino colpito da un ambulante a cui avevano appena sequestrato la merce a pochi passi dalla Chiesa della Natività.

di Giordano Stabile

 
Anton Salman, sindaco di Betlemme
La ferita sul volto brucia ancora, un taglio di oltre dieci centimetri, ma per Anton Salman, sindaco di Betlemme, quella coltellata è anche un colpo ai cristiani di Terra Santa, sferrato in un luogo simbolo, la piazza della Mangiatoia, a pochi passi dalla Chiesa della Natività. L'aggressore, un venditore ambulante al quale il Comune aveva appena sequestrato la merce, è stato arrestato e non sembra avesse motivazioni, religiose o politiche. «Probabilmente non voleva uccidermi - racconta il sindaco - ma soltanto sfregiarmi». Il gesto sembra legato alla battaglia che da una anno Salman conduce contro gli abusivi che affollano il centro storico. «La nostra è una battaglia per la legalità, per tutti, musulmani e cristiani. Senza legalità non ci può essere sviluppo, lavoro».
   Anton Salman, avvocato, è stato eletto sindaco a maggio, alla testa della lista civica Kullna Bethlehem. È cristiano, in base a una legge del 1997, anche se la percentuale di cristiani è in drammatico calo. «Negli ultimi vent'anni si è dimezzata». Ormai a Betlemme i cristiani sono 11mila, soltanto il 12 per cento della popolazione, contro l'86 per cento nel 1950, mentre nella Terra Santa sono rimasti in circa 200 mila, l'1,3 per cento degli abitanti di Israele e il 2 per cento della Cisgiordania, dal 5 per cento del 1970. «Ma noi cristiani palestinesi non spariremo - ribatte Salman -. Siamo parte della Palestina, siamo i testimoni della nascita di Cristo ed è un nostro dovere rimanere qui. Io voglio il dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, per rendere Betlemme ancora più bella».
   La sindrome dell'assedio però rimane. «È un fenomeno che riguarda tutto il Medio Oriente ma che in Terra Santa ha motivazioni più complesse - spiegano fonti diplomatiche. Oltre alle tensioni fra musulmani e cristiani ci sono quelle indotte dal conflitto araboisraeliano, e poi ci sono ragioni economiche, che spingono i giovani palestinesi a cercare lavoro all'estero. E i giovani cristiani, per le reti famigliari più sviluppate che hanno in Europa, America, Australia hanno più occasioni per farlo». L'esodo preoccupa anche l'Autorità Palestinese. La protezione delle minoranze è punto di forza per ottenere sostegno internazionale e la legge sui sindaci cristiani, voluta da Arafat, è solo un esempio: «Il presidente Abu Mazen racconta spesso di essere l'unico capo di Stato a partecipare alle messe non di uno, bensì di tre Natali diversi, cattolico, greco-ortodosso, armeno ... ».
   L'Autorità palestinese deve però fronteggiare tensioni sempre più forti, alimentate anche dai movimenti islamisti. Il patriarca greco-ortodosso è stato aggredito lo scorso maggio, sempre a Betlemme, perché accusato di vendere proprietà della Chiesa agli israeliani. Anche l'Isis si è infiltrato in Cisgiordania. In una città dalle risorse sempre più scarse, che vive di turismo, i jihadisti possono trovare un terreno fertile. I negozietti attorno alla Basilica della Natività sono quasi tutti in mano alle famiglie cristiane, rendono bene, ma devono fronteggiare la concorrenza degli ambulanti, musulmani, che reclamano la loro fetta di business.
   Per questo l'aggressione al sindaco è un segnale d'allarme, anche per l'Italia, che dall'epoca della guerra di Crimea ha un ruolo storico a tutela dei luoghi santi cristiani. La Basilica è stata restaurata da una ditta toscana, la Piacenti, mentre l'Italia, tramite il nostro Consolato a Gerusalemme, supporta progetti a sostegno delle piccole e medie imprese e di sviluppo, tra cui una scuola di formazione per mosaicisti. Il sindaco Salman ne è consapevole. Nel 2002 è stato lui a condurre, per 39 lunghissimi giorni, le trattative fra l'esercito israeliano e i militanti palestinesi asserragliati nella Basilica con 200 monaci. Ne uscirono tutti vivi. Nel 2020 Betlemme sarà capitale della cultura del mondo arabo. Si può ricominciare da lì.

(La Stampa, 4 ottobre 2018)


La doppia morale dei baroni

L'Università di Pisa, il Cem e l'Istituto di fisica sospendono Strumia per "sessismo". Ma da anni l'Accademia tace sulle centinaia di propri boicottatori di Israele. "Etica e diversità" non sono in gioco con chi attacca lo stato ebraico?

dii Giulio Meotti

ROMA - L'ha pagata cara, il fisico italiano Alessandro Strumia. "La fisica è stata inventata e costruita dagli uomini", aveva detto questo scienziato e docente nel workshop organizzato dal Cern di Ginevra lo scorso 28 settembre. "C'è una cultura politica che vuole sostituire competenza e merito con una ideologia della parità". La reazione del mondo accademico non si è fatta attendere.
   Strumia si è visto sospendere dall'Istituto nazionale di fisica nucleare: "L'Infn - ha detto l'ente di ricerca - ha deciso di procedere alla sospensione immediata con la motivazione che il professor Strumia ha fatto, per di più in un contesto pubblico internazionale, affermazioni lesive dell'immagine dell'Ente e, cosa ancor più grave, discriminatorie e apertamente lesive della reputazione di ricercatrici e ricercatori dipendenti e associati all'Infn, in violazione delle norme del codice etico e del codice di comportamento per la tutela della dignità delle persone dell'Istituto". Fernando Ferroni, presidente dell'Infn, ha detto che la vicenda "è stata sottoposta al nostro collegio di disciplina e ai nostri controllori del codice etico". Misura disciplinare analoga contro Strumia da parte del Cern. La "diversità", recita il comunicato da Ginevra, è uno "dei valori principali del Cern, che è impegnato a promuovere diversità e uguaglianza a tutti i livelli". Anche il rettore dell'Università di Pisa dove insegna Strumia, Paolo Mancarella, ha disposto un "procedimento etico" contro il fisico. A Pisa si riunirà la commissione etica "valutando eventuali violazioni delle norme che devono guidare la condotta dei professori universitari".
   Senza entrare nel merito delle discutibili tesi di Strumia, qui c'è un doppio standard che le stesse università applicano a un caso che da anni investe davvero l'etica accademica, la discriminazione dei colleghi e i princìpi di "diversità" su cui dovrebbero fondarsi le università. Si tratta del boicottaggio di Israele. Nell'appello di trecento accademici italiani per ostracizzare l'università israeliana del Technion, fucina di quattro premi Nobel, compaiono quattro docenti e ricercatori della stessa università di Pisa, dove insegna Strumia. L'ateneo ha forse avviato nei loro confronti gli stessi procedimenti disciplinari? E il rettore ha preso una posizione pubblica contro di loro? "Non accetteremo inviti a visitare istituzioni accademiche israeliane; non parteciperemo a conferenze finanziate, organizzate o sponsorizzate da loro, o comunque non collaboreremo con loro", recita l'appello. Nessuna delle università italiane dove insegnano quei docenti risulta che li abbia giudicati né biasimati. E sono appelli, a differenza del workshop di Strumia, che intendono avere effetti "pratici": impedire che ricercatori israeliani ottengano fondi di ricerca all'estero, fare pressione sulle facoltà per interrompere le relazioni con i dipartimenti israeliani, convincere i docenti a non visitare lo stato ebraico, non invitare gli israeliani alle conferenze all'estero, prevenire la pubblicazione di articoli firmati da accademici israeliani, negare raccomandazioni agli studenti che intendono fare ricerca in Israele (c'è appena stato un caso importante all'Università americana del Michigan) e creare un cordone sanitario attorno alle riviste accademiche israeliane. Una lettera aperta indirizzata al rettore di Torino, Gianmaria Ajani, da parte di cento intellettuali, giornalisti e politici di recente ha denunciato che "all'Università di Torino si dibatte e si mostrano documenti falsi contro lo stato di Israele, diffondendo analisi e informazioni menzognere su sionismo, nazismo e su presunte forme di apartheid da parte degli israeliani. Il tutto nell'indifferenza generale". A oggi, il rettore Ajani è ancora "non pervenuto" rispetto alle richieste di mettere un freno all'ostracismo accademico antisraeliano nel suo ateneo. E mentre il "sessismo" costituisce un reato d'opinione, sull'antisionismo l'università italiana in teoria si è impegnata fattivamente.
   L'International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), l'organizzazione intergovernativa composta da 31 paesi, a giugno ha tenuto una delle sue due riunioni plenarie annuali proprio a Roma e per il 2018 è proprio la delegazione italiana, che fa capo al nostro ministero dell'Istruzione, ad avere la presidenza, guidata dall'ambasciatore Sandro De Bernardin. Ora, la definizione ufficiale di antisemitismo dell'Ihra, fatta salva la critica a Israele, prevede "manifestazioni che prendono di mira collettivamente lo stato ebraico". Il boicottaggio rientra fra queste. O forse il "reato" di sessismo è più grave dell'antisionismo accademico, e se per il primo vigono censura e serrata dei ranghi, per il secondo valgono la libertà di espressione e l'accondiscendenza dei baroni?

(Il Foglio, 4 ottobre 2018)


Merkel in Israele: economia, tecnologia e innovazione (si parlerà anche di Iran?)

Parte dell'establishment politico israeliano vede nelle posizioni della Germania indirizzi contrari alle dichiarazioni politiche. I due principali motivi di scontro: la visione tedesca del conflitto coi palestinesi e la posizione di Berlino sull'Iran

di Giovanni Quer

 
L'arrivo di Angela Merkel all'aeroporto di Tel Aviv
Dieci anni fa, nel marzo 2008, Angela Merkel parla alla Knesset israeliana. Nel lungo discorso che è iniziato in ebraico, si è svolto in tedesco e si è concluso in ebraico, la Cancelliera ha parlato delle ragioni storiche che legano Germania e Israele, cioè la Shoah, e delle relazioni politiche, culturali e scientifiche che continuano a intensificarsi. "La sicurezza di Israele fa parte della raison d'état della Germania", disse allora Merkel, ma in molti si chiedono il significato di questa frase alla luce della politica tedesca verso l'Iran.
   Il tradizionale rifiuto pubblico verso tutto ciò che è o suona tedesco è in Israele superato. La diplomazia pubblica della Germania è riuscita a creare una nuova immagine del Paese. Gli studi di lingua e letteratura tedesca si diffondono; le opportunità di studio e ricerca in Germania aumentano ogni anno; i finanziamenti a ricerche congiunte tra università israeliane e tedesche in diversi settori aumentano; e la comunità israeliana a Berlino conta numerosi giovani e meno giovani, intellettuali e artisti che importano in Israele nuovi stili e mode.
   Non solo relazioni culturali. Le relazioni militari tra Berlino e Gerusalemme sono state per decenni discrete. Due anni fa, uno scandalo politico in Israele fa parlare dei 6 sottomarini costruiti in Germania per Israele e altri 3 ancora da fornire, classe Dolphin - con 16 siluri e missili da crociera. Nel 2016 per la prima volta la stampa israeliana e tedesca parla di esercitazioni militari congiunte, rompendo un tabù culturale che all'ombra del Shoah faceva vedere con sospetto ciò che era sia esercito sia tedesco.
   La Repubblica Federale è il primo Stato europeo che ha preso con serietà il fenomeno del nuovo antisemitismo, cioè quello che ha a che vedere con Israele e il sionismo. Solo di recente: un giudice che non ha ritenuto antisemita un attacco a una sinagoga come segno di protesta alla politica militare israeliana; gli allarmi delle agenzie di intelligence sul sentimento antisemita che si diffonde con l'importazione del conflitto arabo-israeliano; l'inquietudine di fronte al rafforzamento dell'estrema destra; un arabo israeliano preso a cinghiate perché portava una kippah per le strade di Berlino.
   La Germania si è dotata di un esperto di antisemitismo, Felix Klein, un commissario nominato ad aprile di quest'anno che ha un'agenda molto chiara: un database di episodi antisemiti, inasprimento delle pene per crimini a motivo antisemita, lotta al movimento di boicottaggio contro Israele.
   Ma parte dell'establishment politico israeliano vede nelle posizioni della Germania indirizzi contrari alle dichiarazioni politiche. I due principali motivi di scontro: la visione tedesca del conflitto coi palestinesi e la posizione di Berlino sull'Iran.
   Dopo la prima visita di Merkel nel 2008, Netanyahu sperava di trovare nella Germania un alleato che appoggiasse Israele nei fora internazionali. Tranne rare occasioni - come l'opposizione a che l'Autorità Palestinese divenisse membro dell'UNESCO com'è Stato di Palestina - la Germania ha sempre allineato il voto alla politica di Bruxelles, sia al Consiglio dei Diritti Umani sia all'Assemblea Generale - comprese le risoluzioni di condanna dopo l'operazione militare Margine Protettivo nel 2014 e la risoluzione contro la decisione USA di spostamento dell'Ambasciata a Gerusalemme.
   Nel 2015 Netanyahu esprime il proprio disappunto, e Merkel critica la politica degli insediamenti, sostenendo che Israele non fa abbastanza per avanzare la pace. Da Israele sono allora aumentate le campagne contro i finanziamenti delle "Stiftungen", le fondazioni legate ai partiti politici. Una serie di report dell'istituto NGO Monitor ha criticato le scelte delle Stiftungen in Israele e nei Territori Palestinesi, evidenziando i finanziamenti a gruppi che avanzano il boicottaggio o l'anti-normalizzazione (l'opposizione al dialogo e alla cooperazione con Israele). Di recente, Merkel sarebbe stata avvicinata da diversi gruppi politici per impedire il trasferimento del campo beduino Khan al-Ahmar nell'area Jahalin West costruita dalle autorità israeliane - decisione criticata perché favorirebbe gli insediamenti attorno a Gerusalemme.
   Nel 2017, il Ministro degli Esteri tedesco in visita in Israele incontra il gruppo politico "Breaking the Silence", che attraverso testimonianze anonime di soldati vuole dimostrare come la violazione del diritto internazionale umanitario si pratica diffusa tra i ranghi dell'IDF. Netanyahu cancella l'incontro e critica la scelta, che però viene difesa da Merkel.
   Il vero punto di disaccordo tra i due governi è la questione iraniana. Merkel ha appoggiato l'accordo generale sul nucleare iraniano e con la Francia sta tentando ora di trovare una soluzione per evitare le sanzioni americane continuando a fare affari con gli iraniani.
   Il primo caso: un trasferimento di 300 milioni di EUR da una banca iraniana con sede ad Amburgo a Teheran - in esame le potenziali sanzioni americane che si applicherebbero al bonifico più grande della storia bancaria tedesca. Berlino si trova poi in questi giorni in una posizione assai delicata: ha in custodia uno degli operativi iraniani (a quanto pare un diplomatico con sede in Austria) che avrebbero pianificato l'attentato contro l'opposizione iraniana in Francia, sventato sulla base di informazioni passate dal Mossad israeliano.
   Merkel riceverà il terzo dottorato ad honorem, dall'università di Haifa che segue Gerusalemme e Tel Aviv nei titoli onorifici alla Cancelliera. Incontrerà Netanyahu, il Presidente Rivlin e visiterà il Memoriale della Shoah Yad Vashem, cui seguiranno incontri G2G.
   Il tentativo di Gerusalemme è convincere Merkel che l'Iran è il primo pericolo per Israele e che le decisioni della Casa Bianca sono efficaci per contrastare la demonizzazione di Israele. Merkel vorrà concludere solo ulteriori accordi economici e scientifici o tenterà di mitigare i timori israeliani verso Teheran, cui vuole continuare a esportare i propri prodotti, e modificare la politica sugli insediamenti, che ritiene, com'è la linea di Bruxelles "l'ostacolo alla pace"?

(formiche, 4 ottobre 2018)



Trek-Selle San Marco alla scoperta della Epic Israel

Una nuova frontiera per il Team Trek-Selle San Marco, in attesa del gran finale di stagione con Roc d'Azur e La Tramun in rapida successione.
La squadra veneta è in Israele per prendere parte da domani a sabato alla Epic Israel, con la coppia formata da Damiano Ferraro e Gioele De Cosmo.
La Epic Israel è una gara internazionale a tappe, sulle pendenze che circondano Gerusalemme; la prima frazione di domani è lunga 85 km e ha un dislivello di 1.900 metri. Oltre 500 i team attesi al via, con Ferraro e De Cosmo che non vedono l'ora di mettersi alla prova in un emergente contesto internazionale.

(Solo Bike, 3 ottobre 2018)


Lucca - Domenica la prima edizione del 'Festival della cultura ebraica'

Domenica 7 ottobre a partire dalle ore 11.00 a Palazzo Boccella a San Gennaro si svolgerà la prima edizione del "Festival della cultura ebraica" promosso da Comune di Capannori, Regione Toscana, Rete Toscana Ebraica e Cooking in Toscana.
Al centro dell'iniziativa la vita, le attività, le tradizioni, la cultura ebraica in Toscana. Un'opportunità importante per conoscere più da vicino usi, costumi e tradizioni degli ebrei che abitano nella regione e quelli di Capannori e Lucca, che appartengono alla comunità ebraica di Pisa.
   Il festival della cultura ebraica inizierà alle ore 11 con i saluti delle autorità e dei rappresentanti della Rete Toscana Ebraica e proseguirà alle ore 11.30 con l'iniziativa 'Un matrimonio ebraico' che prevede la celebrazione del rito della 'chuppà' con canti della tradizione ebraica toscana; corteo di musicisti per accompagnare "chattàn e kallà" nelle vie del paese fino allo splendido giardino di Palazzo Boccella. Alle 12.30 è in programma un intervento di Carlotta Ferrara degli Uberti (University College London) sul tema "Ebrei italiani, italiani ebrei:cenni di storia". L'intervento offrirà alcuni elementi di ricostruzione storica e di riflessione sui temi dello scambio e dell'integrazione. Alle 13.00 ci sarà una grigliata e specialità ebraica a cura di Cooking Toscana. Il festival proseguirà alle 15.00 con un intervento di Tze'ela Rubinstein intitolato 'La Cucina Kosher-cos'è?" che illustrerà le principali regole della cucina ebraica. Alle ore 16.00 si terrà lo spettacolo 'Gan Eden Restaurant' di e con Giuseppe Burschtein e Ugo Caffaz. Sul palco Burchstein e Caffaz parlano, discutono, commentano e attraverso la cucina raccontano e "si raccontano". In qualche modo si sfidano cercando, con toni leggeri di rappresentare al meglio le squisitezze delle proprie radici. Musiche della Balagan Cafè Orkestar.
   In programma anche degustazioni vini kosher a cura di Cantina Giuliano, esposizione del tavolo dello Shabbat, bookshop e jewishop a cura di CoopCulture, 'Tracce ebraiche in provincia di Lucca: personaggi di arte, musica e cultura' presentazione a cura di Silvia Angelini, Isrec Lucca. Sarà possibile anche assistere a proiezioni sugli ebrei in Italia, l'umorismo ebraico e la cucina kosher.

(La Gazzetta di Lucca, 4 ottobre 2018)


La Cina che sta per rilevare il porto più grande di Israele

Potrebbe minacciare le operazioni navali statunitensi

 
Il porto di Haifa
Un alto funzionario dell'esercito e dell'energia israeliano ha messo in discussione Israele e i crescenti legami economici della Cina, proprio nel momento in cui una compagnia cinese si appresta a gestire il porto di Haifa, come parte di un importante contratto venticinquennale precedentemente concluso nel 2015.
   [Come] il Generale di Brigata israeliano Shaul Horev ha iniziato questa settimana in un'intervista con la fonte nazionale di notizie, Arutz Sheva, "Quando la Cina acquisisce i porti,lo fa con il pretesto di mantenere una rotta commerciale dall'Oceano Indiano, attraverso il Canale di Suez verso l'Europa, come ad esempio il porto del Pireo in Grecia. Un orizzonte economico come questo ha un impatto sulla sicurezza? "
   Il generale Horev, che ha anche servito come Capo della Marina e Presidente della Commissione per l'energia atomica, ha continuato a lanciare l'allarme per una rilevazione cinese: "Non stiamo valutando sufficientemente questa possibilità. Una delle personalità senior americane alla conferenza ha posto la questione se la Sesta Flotta degli Stati Uniti possa considerare Haifa come porto sicuro: alla luce del rilevamento cinese, la questione non è più all'ordine del giorno."
   Chiede [Shaul Horev] una procedura di sicurezza israeliana che visioni ed esamini gli investimenti cinesi in Israele e nel Mediterraneo, per assicurare che non danneggino gli interessi di sicurezza di Israele o dei suoi partner, come gli Stati Uniti.
   La Shanghai International Port Group (SIPG) gestirà il più grande porto israeliano ad Haifa, come parte di un contratto che sarà introdotto nel 2021 della durata di 25 anni. Nel frattempo,una società cinese distinta ha recentemente ottenuto un contratto per la costruzione di un nuovo porto nella città meridionale israeliana di Ashdod.
   Secondo vari rapporti, la Cina ha speso circa 150 miliardi di dollari all'anno nei Paesi coinvolti nella sua grande Nuova via della seta, che cerca di collegare Asia, Europa e Africa in una vasta infrastruttura di libero scambio sottoscritta dalla Cina. Gli avamposti del Mediterraneo, come Haifa, sono un collegamento chiave in questo corridoio, un corridoio che la Cina spera sarà pienamente costituito,entro il 2049, come "Via della Seta del XXI secolo".
   Ma, come abbiamo notato di recente, importanti progetti infrastrutturali multimiliardari nelle provincie ospitanti potrebbero comportare un costo, ovvero aprire la porta allo spionaggio cinese e all'influenza crescente dei suoi servizi di sicurezza.
   I rappresentanti della Shanghai International Port (Group) Co Ltd (SIPG) si uniscono alle autorità portuali israeliane durante una cerimonia per firmare un accordo che autorizza la compagnia cinese a gestire un nuovo porto nel nord di Israele per 25 anni. 29 maggio 2015
   I rappresentanti della Shanghai International Port (Group) Co Ltd (SIPG) uniscono le mani con le autorità portuali israeliane, durante una cerimonia il 29 maggio 2015 per firmare un accordo che autorizza la compagnia cinese a gestire, per 25 anni, un nuovo porto nel nord di Israele.
   Le dichiarazioni del funzionario militare israeliano arrivano dopo una delle principali conferenze sulla difesa, ospitate nella città di Haifa il mese scorso, dove è stata discussa e dibattuta la questione dell'espansione economica cinese in Israele.
   Secondo Haaretz di Israele:
   La conferenza di Haifa si è svolta in concomitanza con l'Hudson Institute di Washington [di orientamento] conservatore. Molti dei partecipanti americani erano ex ufficiali del Pentagono e della Marina. Le citate osservazioni di Horev, figura di alto livello, erano più acute del tono educato che ha usato. Gli Americani che erano presenti alla conferenza pensano che Israele abbia perso la testa, quando ha dato ai Cinesi le chiavi del porto di Haifa. Una volta che la Cina è entrata nel contesto, hanno detto, la Marina israeliana non potrà contare sul mantenimento degli stretti rapporti che ha avuto con la Sesta Flotta.
   Le voci critiche dei rapporti più stretti di Israele con la Cina hanno rilevato che le decisioni, come l'affare del porto di Haifa con la SIPG, sono state prese esclusivamente sotto la supervisione del Ministero dei Trasporti e dell'Autorità dei porti, ma che, secondo quanto riferito, non ha coinvolto il Consiglio di Sicurezza Nazionale o la Marina israeliana.
   Questo è preoccupante, dicono i critici, poiché il Presidente Trump ha aumentato la sua retorica sulla minaccia cinese agli affari e agli interessi americani in patria e all'estero.
   Le forze armate statunitensi, ad esempio, conducono regolarmente esercitazioni con le Forze di difesa israeliane (IDF) e attraccano navi e vettori nei porti israeliani, incluso il porto di Haifa, che presto sarà gestito da una compagnia cinese. Questo è anche inquietante, se si considerano gli accresciuti legami della Cina con l'Iran e il rifiuto di attenersi alle sanzioni della Casa Bianca su Teheran e la richiesta di Trump ai Paesi di fermare l'importazione di petrolio iraniano.
   La Cina ha colto l'occasione per essere un motore primo nell'economia iraniana, da quando le sanzioni internazionali sono state revocate nel gennaio 2016, come parte dell'accordo nucleare del 2015, negoziato da Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Russia, Cina e Germania, ma dal quale, lo scorso maggio, la Casa Bianca di Trump ha ritirato gli Stati Uniti.
   Le relazioni tra Cina e Iran hanno iniziato a disgelare dal momento in cui il Presidente cinese Xi Jinping è entrato in carica nel 2012 e, al gennaio 2016 - al momento in cui le sanzioni sono state revocate - Xi ha visitato Teheran, incontrando il leader supremo Ali Khamenei e il Presidente Hassan Rouhani; ciò ha segnato la prima volta che in 14 anni un Presidente cinese ha visitato l'Iran.
   I critici del rilevamento del porto di Haifa da parte cinese dicono che questo diventerà sempre più imbarazzante per Tel Aviv, che sostiene la posizione ufficiale che l'Iran cerca di cancellare Israele dalla mappa.
   Il Presidente iraniano Rouhani e Xi hanno, sin dall'accordo Israele-Cina per il porto di Haifa, firmato accordi relativi alla Nuova via della seta. Ciò includeva 17 affari multimiliardari che coprono il settore dell'energia,della finanza, delle comunicazioni, delle banche, della cultura, della scienza, della tecnologia e della politica, con un'ulteriore road map decennale di più ampia cooperazione tra Cina e Iran. In totale, ciò potrebbe vedere miliardi di dollari pompati nell'economia iraniana nei prossimi decenni, mentre fisicamente collega [la Nuova via della seta] la Cina con l'Europa e l'Africa a livello infrastrutturale e in un rapporto commerciale in espansione.
   E tutto questo riporta le domande iniziali: se la Cina deve atteggiarsi d'ancora di salvezza cruciale per l'Iran, dal momento che tenta di sopravvivere alle aggressive sanzioni statunitensi, e se Israele sta crescendo economicamente più vicino alla Cina, un simile allineamento non sarà pericoloso per la sicurezza a lungo termine di Israele e per le sue strette relazioni con Washington?
   O forse il commercio e i mercati liberi produrranno l'effetto opposto: attenueranno le tensioni, allontaneranno le nazioni dalla guerra e le indirizzeranno verso il pragmatismo e porteranno una maggiore stabilità territoriale.

(Monimega Shop, 3 ottobre 2018)


L'Israel Securities Authority utilizzerà la blockchain per migliorare la sicurezza dei suoi sistemi

 
Stando a quanto riportato dal quotidiano online Times of Israel, l'Israel Securities Authority (ISA) ha iniziato ad utilizzare la blockchain per migliorare la sicurezza informatica del suo sistema di telecomunicazioni.
Secondo l'articolo, il regolatore ha incorporato la tecnologia in un sistema denominato "Yael", utilizzato per fornire messaggi e altre informazioni a entità che rientrano nella supervisione dell'ISA.
L'ISA ha inoltre in programma di implementare la tecnologia blockchain in altri due sistemi: un sistema di voto online che consente agli investitori di partecipare a riunioni ISA da remoto, e un sistema chiamato "Magna" che memorizza tutte le segnalazioni archiviate dalle entità regolamentate dall'ISA. Secondo il Times of Israel, la soluzione blockchain utilizzata dall'ISA sarebbe stata sviluppata dalla società IT Taldor.
La tecnologia potrebbe rappresentare un'ottima soluzione per contrastare le frodi, in quanto può essere utilizzata per verificare l'autenticità delle comunicazioni e per evitare l'editing post-facto.
Il regolatore sostiene che il passaggio alla tecnologia blockchain "aggiunge un ulteriore livello di protezione per garantire la credibilità delle informazioni trasmesse agli organismi supervisionati". Inoltre, un sistema blockchain può dimostrare o confutare che un messaggio è stato effettivamente inviato dall'ISA.
Natan Hershkovitz, direttore del Dipartimento Sistemi Informativi dell'ISA, ha affermato l'integrazione della tecnologia blockchain è in linea con "il trend, in crescita in tutto il mondo e in particolare nel settore finanziario, di incorporare tecnologie innovative e rivoluzionarie".
Come riportato il mese scorso, la Svizzera e Israele hanno concordato di condividere la loro esperienza sulla regolamentazione dell'industria blockchain. A tal proposito, il Segretario di Stato svizzero Joerg Gasser preparerà una relazione contente delle raccomandazioni generali per il governo israeliano.
Il Ministero delle finanze israeliano, da parte sua, ha dichiarato che entrambi i paesi hanno concordato di condividere le proprie scoperte sul regolamento fintech, comprese le linee guida sulle criptovalute e sulle norme antiriciclaggio (AML).

(Cointelegraph Italia, 3 ottobre 2018)


Gli 007 francesi: "L'Iran mandante di un attentato sventato a giugno"

di Leonardo Martinelli

Segnali duri sono arrivati ieri da Parigi all'Iran, con il rischio di una crisi diplomatica. Al centro della polemica, un attentato (sventato all'ultimo momento) lo scorso 30 giugno, a Ville pinte, alle porte di Parigi. Lì si teneva il raduno di un movimento di opposizione al regime degli ayatollah, i Mojahedin del popolo, i cui dirigenti vivono da anni in esilio in Francia. Chi voleva metterci una bomba? Ieri fonti diplomatiche francesi hanno rivelato alla France Presse che «è stato il ministero iraniano della sicurezza e dell'intelligence a dirigere le operazioni». A questa conclusione sono giunti i servizi segreti di Parigi al termine di una lunga inchiesta.
  L'annuncio ha coinciso con altre iniziative della Francia, che ha voluto mostrare i muscoli agli iraniani. Ieri mattina, all'alba, oltre 200 poliziotti hanno perquisito un centro islamico sciita (Zahra France) a Grande-Synthe, cittadina del Nord. Lì hanno sede varie associazioni, come il Partito antisionista, che secondo la prefettura locale assicurano un «forte sostegno a diverse organizzazioni terroristiche». Le forze dell'ordine sono andate anche a casa dei leader di queste associazioni e tre di loro sono stati fermati per detenzione illegale di armi da fuoco. Per entrare nel centro ZahraFrance bisogna pulirsi i piedi su uno zerbino che riproduce la bandiera israeliana. E ieri Jamel Tahiri, responsabile religioso del centro, pur respingendo le accuse di appoggio al terrorismo, ha detto di «sostenere Hamas. Siamo sciiti e contro l'Isis».

 Congelati i beni del ministero
  Un legame diretto tra il centro Zahra France e l'attentato di Villepinte non è stato esplicitamente stabilito dalle autorità francesi. Ma queste hanno proceduto ad altre iniziative. Hanno sequestrato e congelato beni in Francia del ministero iraniano responsabile dell'intelligence. E pure quelli detenuti nel Paese da due cittadini iraniani. Si tratta di Saeid Hashemi Moghadam, viceministro di quel dicastero, che le stesse fonti diplomatiche francesi hanno indicato come «il mandante dell'attentato progettato lo scorso 30 giugno». L'altro è Assadollah Assadi, già diplomatico iraniano presso l'Austria, arrestato in Germania nel quadro dell'inchiesta internazionale che ha portato a evitare l'attentato a Villepinte. Ieri Teheran ha rigettato ogni accusa, scagionando Assadi.
  Le fonti diplomatiche francesi hanno giustificato questa risposta di Parigi a 360 gradi «perché non possiamo tollerare alcuna minaccia terroristica sul nostro territorio», pur specificando di non voler sostenere i Mojahedin del popolo contro Teheran. L'organizzazione, a matrice marxista, si definisce «musulmana, democratica e laica» ed è diretta da una donna, Maryam Radjavi.

(La Stampa, 3 ottobre 2018)


Attenzione a Trump in Siria

Costringere gli iraniani a sloggiare, costringere Bashar el Assad a firmare la Costituzione che sarà la sua fine. The Donald ha in testa un cambiamento a Damasco

"Faremo del nostro meglio per rendere la vita il più miserabile possibile a quel cadavere strisciante di regime" "Le truppe americane rimarranno nella regione fino a quando le forze iraniane saranno fuori dai confini dell'Iran"
Obama era molto cauto perché non voleva far saltare l'accordo con gli iraniani, quello che Trump ha fatto saltare quasi subito Trump ha chiesto per mesi ai suoi generali se è possibile eliminare il rais siriano. L'idea gli è rimasta appiccicata in testa

di Daniele Raineri

A metà agosto l'Amministrazione Trump ha nominato un inviato speciale per la Siria, James Jeffrey, di 72 anni, un ex militare con una carriera diplomatica lunga 35 anni durante la quale è stato ambasciatore in Turchia e in Iraq. Jeffrey parla in modo molto diretto e pochi giorni fa ha detto che l'America prepara una "strategia dell'isolamento contro il presidente siriano Bashar el Assad", Washington vuole forzare il rais siriano a cambiare la Costituzione del suo paese prima delle prossime elezioni in modo da aprire il sistema politico e così evitare le solite "elezioni" farsa che Assad vince con un voto popolare che sfiora il 99 per cento e l'applauso del suo rivale di paglia di turno. Un'opposizione vera, partiti veri, candidati veri, regole vere, una chance vera di eleggere qualcuno che non sia Bashar el Assad o perlomeno la possibilità di creare un contropotere. In Siria chi prova a chiedere che il Sistema sia riformato finisce nelle prigioni della polizia politica, adesso l'America ne ha fatto un obiettivo dichiarato della sua politica estera -almeno per i prossimi due anni di mandato dell'Amministrazione Trump, "Se il regime non lo farà - dice Jeffrey - allora lo colpiremo come facevamo con l'Iran prima del 2015 con sanzioni internazionali molto dure. E anche se il Consiglio di sicurezza dell'Onu (dove siede la Russia con potere di veto) non approvasse le sanzioni, allora lo colpiremo assieme all'Unione europea e ai nostri alleati asiatici. Faremo del nostro meglio per rendere la vita il più miserabile possibile per quel cadavere strisciante di regime e faremo in modo che i russi e gli iraniani, che hanno fatto questo casino, lascino il campo".
  L'inviato speciale Jeffrey ha una visione chiara di quello che succede in Siria e a luglio quando il presidente americano Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin si erano incontrati a Helsinki aveva detto: "Putin ha intenzione di compromettere l'intero sistema di sicurezza statunitense in medio oriente e Trump continua a lasciarglielo fare, come faceva Obama ma in modi diversi". Si riferiva al fatto che la Siria è diventata un territorio dove le forze militari dell'Iran e della Russia possono fare quello che vogliono e che questa è una nuova realtà molto minacciosa per gli alleati storici dell'America in quell'area, a partire da Israele. Il fatto che un mese dopo le critiche l'Amministrazione abbia nominato Jeffrey alla guida di un dossier cruciale come la Siria indica che in questa fase ha bisogno di una testa che parla chiaro. E infatti adesso siamo passati a "il regime siriano è un cadavere strisciante e deve cambiare la Costituzione" - parole che non sentirete mai da un qualsiasi altro diplomatico occidentale.
  L'annuncio di Jeffrey a proposito di una strategia dell'isolamento per punire Bashar el Assad e costringerlo a mollare la presa sulla presidenza colpisce molto perché arriva a scoppio ritardato in una fase cosiddetta di normalizzazione, in cui il resto del mondo ormai cercava di capire cosa fare e come regolarsi dato che il presidente siriano contro ogni previsione fatta nel 2012 è rimasto al suo posto grazie all'intervento del presidente russo Vladimir Putin nella guerra civile. Ci sono aree del paese quasi completamente distrutte e per la ricostruzione c'è bisogno di somme di denaro enormi che i due stati-sponsor di Assad, l'Iran e la Russia, non hanno - anzi, hanno problemi a far quadrare i conti di casa. Sembrava quindi inevitabile che ci sarebbe stato un riavvicinamento progressivo tra il governo Assad e gli altri. Le voci di contatti tra il regime siriano e i governi europei e la Casa Bianca per negoziare il ritorno alla normalità nelle relazioni erano sempre più frequenti - inclusa per esempio la visita discreta del capo della sicurezza siriana, il generale Ali Mamlouk, in una base dell'intelligence italiana a sud di Alghero nel febbraio 2017 in violazione delle sanzioni europee. Adesso però l'America ha parlato: tutto questo riavvicinamento non s'ha da fare se il presidente siriano resta al suo posto - o per essere più precisi se continua a tenere chiuso il Sistema (gli arabi usano questa parola: nizam, per indicare l'organizzazione dello stato) con quelle regole da stato di polizia che proteggono la dinastia Assad fin dal golpe fatto da suo padre Hafez nel 1971. E' interessante: sono le stesse richieste delle folle di manifestanti siriani che nella primavera 2011 scendevano nelle piazze prima che scoppiasse la guerra civile.
  Pochi giorni prima della dichiarazione di Jeffrey a Reuters il consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, aveva detto che "le truppe americane rimarranno nella regione fino a quando le forze iraniane saranno fuori dai loro confini e questo include anche le loro forze irregolari e le loro milizie". "Le truppe americane" è un'espressione vaga, ma il consigliere si riferisce soprattutto al corpo di spedizione di duemila soldati americani che in questo momento è sparso in alcune basi della Siria orientale ed è impegnato nelle ultime battute della campagna contro lo Stato islamico (ultime battute nel senso che lo Stato islamico controlla ancora alcune piccole sacche di territorio nel deserto: dopo che le perderà continuerà a esistere come gruppo terrorista per decenni). E quando Bolton dice "forze iraniane, incluse quelle irregolari e le milizie", si riferisce all'apparato gigantesco di gruppi armati creato per volontà del generale iraniano Qassem Suleimani con lo scopo di allargare il raggio d'azione di Teheran in tutto il medio oriente senza coinvolgere ufficialmente il suo governo e le sue forze armate. Dal Libano, dove c'è Hezbollah, alla Striscia di Gaza fino all'Iraq dove proliferano decine di milizie. Oggi pochi lo ricordano, ma dieci anni fa durante la guerra americana in Iraq il Pentagono considerava i "gruppi iraniani" più efficienti e pericolosi di al Qaida.
  Bolton è considerato un falco fissato con l'Iran fin da quando faceva parte dell'Amministrazione Bush con il ruolo di ambasciatore alle Nazioni Unite e adesso, come scrive Foreign Policy, "is living the dream": non gli potrebbe andare meglio perché si occupa di una linea politica molto ostile a Teheran. E' una cosa garantita che le sue parole "noi non ci ritireremo finché non lo fanno loro" abbiano fatto saltare sulla sedia i governi che sono coinvolti nelle faccende del medio oriente, anche se non sono state registrate dall'opinione pubblica del mondo. E' come se le parole molto bellicose dell'Amministrazione Trump in questa fase fossero pronunciate a frequenze udibili soltanto da un pubblico selezionato.
  L'inviato Jeffrey non parla di una guerra per far sloggiare gli iraniani, ma di "pressione". Per esempio, la Siria orientale in questo momento è in mano alle forze curde sponsorizzate dagli americani che negli ultimi tre anni hanno sostenuto il grosso dei combattimenti contro i fanatici dello Stato islamico e per risultato si sono trovati a controllare un pezzo enorme del paese. Fino a pochi mesi fa sembrava che i curdi avrebbero presto trovato un accordo con Assad, un minimo di autonomia e di garanzie di libertà in cambio della restituzione del territorio, ma i negoziati sono saltati perché gli americani non vogliono. Non hanno sostenuto i curdi per tutto questo tempo per poi assistere alla loro integrazione nell'esercito assadista. Se accadesse, dovrebbero chiudere le basi e andarsene e come abbiamo visto non ne hanno intenzione finché ci sono gli iraniani. Inoltre la Siria orientale in mano ai curdi contiene i pozzi di greggio - i pochi del paese. Quale migliore pressione contro il regime, pensano a Washington, che non dargli ancora indietro l'accesso all'energia?
  Secondo un diplomatico occidentale che tre giorni fa ha parlato al Washington Post in forma anonima, l'Iran ha speso decine di miliardi di dollari in Siria e ha perso in combattimento migliaia di uomini a sostegno del regime di Assad. Se gli Stati Uniti sono intenzionati a mantenere una presenza militare in Siria fino a quando gli iraniani non se ne andranno, ci vorranno "almeno decenni". Anche a Damasco c'è aria di sfida per quel che riguarda il cambiamento della Costituzione e delle regole. Il motto degli assadisti fin dai primi mesi di guerra civile è "Assad o bruciamo il paese" - cosa che in effetti è successa - non vedono perché cedere ora che il peggio è alle loro spalle.
  Ci si aspettava quindi che la politica di Trump in Siria fosse - per motivi diversi - la continuazione della politica dell'Amministrazione Obama. Fedele al principio "Don't do stupid shit", non fare stupidaggini, Barack Obama aveva depotenziato sempre di più la sua posizione a proposito della guerra civile in Siria. Nella primavera 2011 le centinaia di migliaia di siriani che riempivano le piazze pacificamente per chiedere una riforma del sistema politico siriano che da quasi mezzo secolo mantiene al potere la dinastia Assad erano convinte di essere appoggiate dall'America. Obama aveva accettato che il presidente egiziano Hosni Mubarak si dimettesse davanti alle proteste di massa nelle piazze - la diceria vuole che abbia risposto no al sovrano saudita Abdallah che gli chiedeva di appoggiare Mubarak e che il saudita per la rabbia abbia avuto un malore - e aveva mandato gli aerei a bombardare Gheddafi in Libia, e il suo ambasciatore Robert Ford era andato in mezzo ai manifestanti di Hama coperto da lanci di rose, perché non avrebbe dovuto aiutare anche i siriani? Invece Obama aveva poi deciso di limitare al massimo il suo coinvolgimento, fino al grande voltafaccia dell'agosto 2013, quando sconfessò una dichiarazione che aveva fatto l'anno prima a proposito dell'uso di armi chimiche come "linea rossa che Assad non deve valicare se non vuole causare l'intervento americano". L'uso di armi chimiche arrivò ma l'Amministrazione Obama preferì scegliere una soluzione diplomatica. Il presidente puntava a un accordo di pace con l'Iran a proposito del programma di ricerca nucleare e temeva che ogni intervento in Siria avrebbe fatto saltare i negoziati, prima clandestini e poi pubblici, con Teheran.
  La Casa Bianca di Donald Trump ha invece deciso di fare per quel che riguarda il medio oriente e la Siria una rivoluzione in politica estera. Del resto, se la maggior preoccupazione dell'Amministrazione precedente era preservare intatti i negoziati con gli iraniani per arrivare a un accordo storico, questa Amministrazione l'accordo storico lo ha fatto saltare via quasi subito, quindi non ha più ragione di sentirsi vincolata. E' una rivoluzione che passa quasi inosservata perché questa Amministrazione è molto scandalosa e naturalmente ci concentriamo tutti su altre notizie e sugli aspetti più teatrali del presidente americano. I racconti di consiglieri economici che rubano lettere dalla scrivania dello Studio Ovale, la deposizione del giudice Kavanaugh e le memorie della pornostar Stormy Daniels che ebbe una relazione con lui - soltanto per citare le news di settembre - sono troppo avvincenti per essere lasciati cadere.
  Ed è una rivoluzione non soltanto rispetto a Obama, ma anche rispetto al Trump prima maniera della campagna elettorale e di inizio mandato. Nel 2016era scontato che il candidato Trump guardasse con simpatia al presidente siriano Bashar el Assad perché "elimina terroristi, quindi secondo me bisogna lasciarlo stare" e questo apprezzamento era esteso ad altri uomini forti come l'iracheno Saddam Hussein e il libico Muammar Gheddafi. Trump in politica estera era (è ancora, in teoria)un sostenitore forte della dottrina dell'"America first", l'America viene prima di tutto e questo si traduce in una minore presenza militare all'estero o, come dicono i sostenitori della dottrina, in un minor impegno come poliziotto del mondo. La Siria brucia? Fatti loro, non possiamo occuparci di tutti. Il suo consigliere e ideologo, Steve Bannon, crede molto in questo approccio e quando ad aprile Trump ha deciso di bombardare la Siria dopo avere visto le immagini di bambini soffocati dal cloro lui girava per le stanze della Casa Bianca deciso a fermare tutto: "Se sono le foto che vi impressionano - diceva al resto dello staff- posso portarvene di altrettante impressionanti da altri paesi, bambini del Congo e del Guatemala. Perché non interveniamo anche lì?". Inoltre Assad è alleato con la Russia del presidente Putin e quindi sembrava scontato che Trump sempre molto debole su quel lato avrebbe lasciato cadere ogni pretesa di esercitare un'influenza su quello che succede in Siria. I suoi fan scrivevano che Trump, al contrario di Hillary, "non era legato ai sauditi e non era un guerrafondaio".
  E invece a Bashar el Assad è toccato in sorte di essere il nemico d'elezione del presidente americano, quello che se la storia dell'Amministrazione dovesse scriversi ora ha fatto da unico antagonista e da bersaglio per i missili. Mentre Trump scambia lettere amorose con il leader della Corea del nord, il siriano è diventato "Animal Assad". Sappiamo grazie al libro di Bob Woodward che per mesi il presidente americano s'è fissato sull'eliminazione fisica del rais siriano e ha continuato a chiedere ai suoi generali come fare. Come la guerra al libero commercio internazionale e l'inimicizia con il clan dei Clinton, sembra una di quei pochi concetti destinati a restare e dominare nella testa di The Donald.

(Il Foglio, 3 ottobre 2018)


Al Municipio 4 ciclo di incontri sulla cultura ebraica

di Giulia Di Leo

«In una società come la nostra, sempre più multiculturale e multireligiosa, è necessario conoscere chi ci vive accanto». Questo il monito del presidente del Municipio 4, Paolo Guido Bassi e del giornalista ed ex assessore alla Cultura della Comunità ebraica Davide Romano, sulla rassegna organizzata dalla circoscrizione cittadina e dall'associazione «Amici di Israele». La Sinagoga Beth Shlomo di corso Lodi, infatti, ospita questa sera alle 20,45 l'evento «Luci e ombre di una storia sconosciuta», un vero e proprio viaggio «per capire meglio il presente e concepire un futuro migliore». Chi sono gli ebrei e chi sono i musulmani sono solo due delle domande, accanto a un prezioso approfondimento sulla storia degli ultimi vent'anni che mostra come quanto succede oggi in Medio Oriente abbia ricadute anche altrove. Ecco perché, come sottolineano Bassi e Romano, è importante capire. Il ciclo di incontri «Ebraismo, Cristianesimo e Islam: luci e ombre di una storia sconosciuta» vuole, quindi, fornire delle risposte, in funzione di un'analisi dei quattordici secoli di convivenza tra islam ed ebraismo. Si parlerà dell'attuale situazione in Medio Oriente, di Trump e Putin e della storia degli ebrei che combatterono per l'Italia nella Prima guerra mondiale. Si studieranno i diversi modelli di integrazione applicati in Europa e si approfondirà cosa sta succedendo nella Turchia di Erdogan.
   Ad arricchire il percorso di dibattito culturale, il luogo stesso degli incontri: tre dei cinque eventi complessivi si terranno, infatti, nella sinagoga Beth Shlomo. E proprio questo elemento fungerà da pretesto e strumento per conoscere direttamente la comunità ebraica presente in Italia da più di duemila anni.
   Tra giornalisti, docenti universitari e altri ospiti, ogni evento vedrà interventi di prima qualità e anche qualche sorpresa: in occasione della serata dedicata alla Prima guerra mondiale, per esempio, sarà inaugurata in anteprima una mostra dedicata ai combattenti ebrei. Nel corso degli altri eventi, invece, ci saranno assaggi di prodotti alimentari tipici del popolo ebraico per aiutare i presenti a comprendere meglio i temi affrontati.

(il Giornale, 3 ottobre 2018)


L'intervista a Ovadia. Israele non è razzista

Lettera al Corriere della Sera

Le dichiarazioni, pubblicate il 2 ottobre, di Moni Ovadia su Israele (in un'intervista rilasciata a Giuseppina Manin) sono «vergognose» in senso letterale: ovvero suscitano vergogna. Il muro in Israele non è stato costruito per «tenere fuori i palestinesi», come sostiene Ovadia, ma per impedire l'ingresso ai kamikaze che si fanno esplodere uccidendo civili innocenti (arabo-musulmani compresi). Gli israeliani non se la prendono con i «palestinesi inermi», ma solo con gli aggressori che mirano a una Palestina «Judenfrei». Israele non è affatto razzista, poiché vi convivono varie minoranze di etnie, religioni e le lingue più diverse. Ovadia è liberissimo di lasciare la comunità ebraica, ma non di stravolgere, la storia, la geografia, la cronaca e la verità dei fatti.
Alessandro Lltta Modlgnanl
Associazione milanese pro Israele

(Corriere della Sera - Milano, 3 ottobre 2018)



E lo Stato si piegò alla razza

L'espulsione dei dipendenti pubblici ebrei nel 1938 fu la tomba del diritto. Hanno un nome gli statali ebrei buttati fuori dal lavoro nel '38.

di Gian Antonio Stella

Pace Raffaele, usciere. Minerbi Fernando, magistrato. Haim Massimiliano, operaio giornaliero. De Angelis Guido, vicedirettore del Tesoro. Luzzatto Mario, archivista. Foà Giovanna, professoressa. E via così ... Hanno finalmente un nome gli ebrei che, sulla base delle leggi razziali del 1938, furono buttati fuori dallo Stato italiano per il quale lavoravano e nel quale credevano spesso con mal riposta devozione. Ottant'anni hanno dovuto aspettare perché fosse loro riconosciuto il primo dei diritti umani: la dignità di un nome. Una identità. Quella che i nazisti cancellarono tatuando sulla pelle dei deportati un numero. Come quello impresso sul braccio della senatrice a vita Liliana Segre: n. 75190.
  Nomi recuperati uno ad uno, con infinita, minuziosa, infaticabile pazienza da Annalisa Capristo e Giorgio Fabre, che firmano Il registro. La cacciata degli ebrei dallo Stato italiano nei protocolli della Corte dei Conti 1938-1943 (in libreria per il Mulino dall'11 ottobre). Un volume nel quale tutti quei nomi, recuperati appunto sui registri dei decreti di cessazione e di liquidazione di tutti i dipendenti pubblici ebrei, «ci si fanno davanti», come scrive Adriano Prosperi nella postfazione, «riscattati dal silenzio».
  All'esterno, scrivono i due storici, «quei grandi volumi di protocollo "in folio" sembrano normali registri tipici dell'epoca, magari solo molto voluminosi e poco maneggevoli. Ma basta aprirne uno e, a seguire, gli altri, e con un colpo d'occhio viene fuori immediata la grande e cupa sorpresa. Le pagine - molte pagine, talvolta, per intero - sono costellate di righe rosse, in corrispondenza di alcuni dei nomi presenti nel registro. Le righe rosse sottolineano le parole "Razza Ebraica", "Ebreo", "Ebrea"».
  Nomi, storie, tragedie. Come quella dell'impiegata del ministero delle Comunicazioni Lidia Della Riccia, che il 18 novembre di quell'autunno nero scrive, «orfana e sola», a Vittorio Emanuele III una lettera gonfia di delusione e di sconcerto. Dove spiega non solo di esser stata battezzata, ma di essere entrata di ruolo con un decreto del 20 settembre 1938 e a partire dal 28 ottobre 1938. Cioè «dopo» l'inizio dell'offensiva razziale fascista: «Ero felice di essermi assicurata ( ... ) un posto che mi avrebbe permesso di lavorare onestamente tutta la vita, quando le recenti disposizioni di legge in materia di appartenenti alla razza ebraica sono venute a togliermi quel posto così faticosamente guadagnato ed a respingermi nella miseria non avendo io diritto, data la mia limitata anzianità di servizio, a pensione o a indennità di alcuna specie».
  E parlando di miseria la poveretta non esagerava. Le leggi sul lavoro, spiegano gli autori della ricerca, «spaccarono la comunità ebraica in due o addirittura in più segmenti, per cui una piccola parte comunque rimase protetta, e un'altra fu tremendamente impoverita». Qualcuno, in qualche modo, se la cavò. Come Paolo Vita Pinzi che aveva 21 anni di servizio, era console a Sydney, sede disagiata per l'enorme distanza da casa, e «passò da uno stipendio medio di 21.262 lire a 8.141 di pensione», ma «probabilmente riuscì a vivere dignitosamente perché rimase all'estero, a Buenos Aires». A migliaia di chilometri da Roma e dalle persecuzioni antiebraiche in arrivo.
  Molto peggio andò ad altri. Come il commissario Guido Cammeo che, vedovo con sette figli, venne espulso dalla polizia e dal ministero dell'Interno il 5 settembre 1938, il giorno stesso della firma apposta dal re alla prima delle leggi fasciste. Non vedeva l'ora, Benito Mussolini che firmò il decreto, di buttar fuori quel funzionario con una pensione di 11.840 lire, la metà di quanto guadagnava prima. Non vedeva l'ora.
  Figlio del rabbino di Modena, Guido Cammeo aveva agli occhi del Duce due colpe imperdonabili. La prima: nel 1923, a dispetto del regime già al potere, era stato assolto nel processo (aveva rifiutato l'amnistia: voleva il giudizio in tribunale) per una sparatoria nel 1921, a Modena, in cui erano morti otto fascisti (tra cui un ebreo, Duilio Sinigaglia) che «intendevano assaltare la Camera del Lavoro». La seconda colpa: era ebreo.
  Reintegrato in servizio dopo l'assoluzione, per Cammeo era «iniziato un calvario in varie prefetture d'Italia: dopo qualche tempo che arrivava in una nuova sede, qualcuno capiva chi era e incominciava una sarabanda contro di lui e doveva venir trasferito». L'espulsione, corredata da un «ritocco» alle date ( anche l'infamia ci tiene ai timbri in regola), fu insomma per il Duce il coronamento di una vendetta. Covata per anni.
  «Il totale minimo dei dipendenti statali "in pianta stabile" licenziati perché "di razza ebraica"», spiega nella prefazione Michele Sarfatti, «fu di oltre 720. Assieme ad essi furono estromessi coloro che avevano (anche allora) un rapporto di tipo precario o che rientravano in situazioni normative complesse». Una umanità di «maestre, operai della Zecca, chimici, ragionieri, professori universitari, direttori di carceri, insegnanti di violino ... » senza differenze di classe. Tutti «collettivamente e più o meno simultaneamente licenziati, esonerati, allontanati, espulsi, estromessi, reietti, banditi; insomma, dissolti». Dissolti mentre, «parallelamente, altrettanti dipendenti, nati di "razza giusta", vennero assunti o fecero uno scatto di carriera». Magari compiaciuti della «botta di fortuna».
  Il registro, scrive Prosperi, «non è un libro su Mussolini o su qualcuna delle sue vittime, è un libro su come muore uno Stato.( ... ) Basta sfogliare gli atti amministrativi scoperti e pubblicati in questo volume per vedere come, pagina dopo pagina e persona dopo persona, lo Stato cancelli la legge e faccia straccio delle regole con le quali era costruito il reticolo di rapporti che lo costituivano». Derubando i dissolti, a capriccio, anche delle liquidazioni e delle pensioni cui avevano, per legge, diritto.
  Questo furono allora «lo Stato, i suoi ministeri, la sua magistratura contabile: tanti corvi dal solenne aspetto impegnati a saccheggiare quel che spettava ai "liquidati" sotto il segno dell'arbitrio e della prepotenza». A ottobre, pochi giorni dopo le leggi razziali, riaprirono le scuole. Con «vuoti fra i banchi degli allievi e nelle file del corpo docente». Eppure, accusa Prosperi, «Non ci furono reazioni. Chi mancava era entrato nell'ombra di percorsi privati, silenziosi e sofferti. Tra compagni e colleghi fu pronunziata a bassa voce la parola "ebreo". E tutto finì lì».

(Corriere della Sera, 3 ottobre 2018)


A Gerusalemme la commemorazione della deportazione degli ebrei dall'Italia

GERUSALEMME - La Hevrat Yehudé Italia Be-Israel organizza anche quest'anno la commemorazione annuale della deportazione degli ebrei dall'Italia. La cerimonia si terrà il 16 ottobre, dalle 16.00, allo Yad Vashem, Monte della Rimembranza, a Gerusalemme.
Dopo l'inizio della cerimonia nell'Ohel Yizkór, nell'Auditorium di Yad Vashem - alle 16.30 - si parlerà di "Eroismo, storia, memoria: i Giusti delle Nazioni in Italia".
Presieduti da Beniamino Lazar, Presidente del Comites Gerusalemme, i lavori proseguiranno con il saluto di Gianluigi Benedetti, Ambasciatore d'Italia in Israele, e le testimonianze di Leone Paserman, Daniel Nissim e Sergio Del Monte.
Di "Dilemmi e responsabilità nel lavoro della Commissione di Yad Vashem per i Giusti" parleranno invece Sergio Della Pergola, Istituto per l'Ebraismo Contemporaneo, Università Ebraica di Gerusalemme, Membro della Commissione; e Iael Orvieto-Nidam, Direttore dell'Istituto Internazionale per la Ricerca sulla Shoah, Yad Vashem, Membro della Commissione.
Gli interventi saranno in italiano e in ebraico.

(aise, 2 ottobre 2018)


La fiducia dei tedeschi nel cancelliere Merkel su scala mondiale supera quella in Trump e Putin

BERLINO - È in Israele che il presidente degli Usa ottiene il massimo del gradimento, con il 69 per cento degli intervistati che si è espresso in suo favore. Nel 2017, il dato era del 56 per cento. Il maggior apprezzamento di Trump da parte degli israeliani è per la "Frankfurter Allgemeine Zeitung" legata alla decisione del capo dello Stato degli Usa di trasferire l'ambasciata degli Stati Uniti in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Annunciato da Trump il 6 dicembre 2017, il trasferimento della legazione statunitense in Israele è stato completato il 14 maggio scorso con l'inaugurazione della nuova sede diplomatica degli Stati Uniti a Gerusalemme. In questo modo, gli Usa hanno riconosciuto ufficialmente la città come capitale di Israele.

(Agenzia Nova, 2 ottobre 2018)


Germania-Israele: settima sessione di colloqui intergovernativi a Gerusalemme

BERLINO - Il 4 ottobre, il cancelliere Merkel si recherà presso l'Università di Haifa per ricevere un dottorato honoris causa e terrà un incontro con gli studenti dell'ateneo. Successivamente, è previsto un convegno dedicato all'economia. All'evento prenderanno parte il ministro dell'Economia e dell'Energia tedesco, Peter Altmaier, ed esponenti dell'imprenditoria di Germania e Israele. Seguirà una colazione in onore del capo del governo tedesco offerta dal presidente israeliano, Reuven Rivlin.
Nel pomeriggio, Merkel e Netanyahu avranno un colloquio bilaterale, cui seguirà una conferenza stampa. Sono previsti, inoltre, incontri tra i ministri tedeschi e israeliani. Infine, i capi di governo di Germania e Israele presiederanno la riunione congiunta degli esecutivi dei due paesi.
In un videomessaggio sulla pagina Twitter del governo tedesco, Merkel ha affermato che "Germania e Israele condividono una relazione unica, possiamo essere molto grati di essere oggi stretti partner e amici".

(Agenzia Nova, 1 ottobre 2018)


Alta tensione in Sassonia, arrestati sei neonazisti: «Preparavano attentati»

Avevano partecipato agli scontri di Chemnitz, quando la Merkel parlò di «caccia allo straniero»

di Daniel Mosseri

28 agosto 2018 - Migliaia di neonazi in piazza: tensione a Chemnitz
BERLINO - La Germania non deve abbassare la guardia. «Il rischio di un attacco terroristico è sempre alto e le operazioni di queste ore riflettono la "tolleranza zero" verso l'estremismo di destra». Lo ha detto il ministro degli Interni tedesco Horst Seehofer commentando gli arresti condotti dalla polizia su impulso della procura federale. A seguito di una serie di perquisizioni in Sassonia e in Baviera, la polizia ha fermato sei cittadini tedeschi di età compresa fra i 20 e i 31 anni nella notte fra domenica e lunedì. I sei sono accusati di fare parte di «Rivoluzione Chemnìtz», un gruppo eversivo di estrema destra fondato in concomitanza con le manifestazioni a sfondo xenofobo delle scorse settimane a Chernnitz, in Sassonia. La Procura federale ha rivelato che i sei stavano organizzando attacchi contro stranieri e contro giornalisti e politici considerati avversari.
   Le azioni violente sarebbero dovute scattare domani, mercoledì 3 ottobre, nel ventottesimo anniversario della riunificazione tedesca, festa nazionale in Germania. Due settimane fa, cinque dei sei fermati avrebbero partecipato ad attacchi contro alcuni stranieri a Chemnitz e tentato, nei giorni scorsi, di procurarsi armi semiautomatiche. Lo scorso 14 settembre era già stato arrestato il 3lenne Christian K., considerato il capo del gruppo vicino agli hooligan della terza città della Sassonia. La cancelliera è diventata l'obiettivo principale dei manifestanti in strada, accusata di essere responsabile di un presunto aumento della criminalità a seguito dell'arrivo in Germania di oltre un milione di richiedenti asilo nel 2015 e 2016 grazie alla sua «politica delle porte aperte». Angela Merkel aveva denunciato le «cacce allo straniero» per le strade di Chemnitz affermando che non c'era spazio per questo nello Stato di diritto tedesco. Il 7 settembre la smentì l'allora capo dell'intelligence interna BN, Hans-Georg Maassen, finito poi per questo nella bufera e infine rimosso.
   Non è solo l'eversione a preoccupare il governo federale. All'avvicinarsi delle elezioni in Baviera (il 14 ottobre) e in Assia (il 28),aumentano i segnali di disaffezione degli elettori verso i grandi partiti popolari tedeschi, uniti in grande coalizione dal 2013. Secondo l'ultima rilevazione condotta da Enmid, la Cdu di Angela Merkel e suoi alleati bavaresi sono al 27%, un livello catastrofico per il fronte moderato. Con il 16% dei voti, l'Spd otterrebbe il risultato più basso di sempre, scivolando al terzo posto dietro ai populisti di AfD avvistati al 17% a livello federale. Una ricerca diffusa dalla Fondazione Bertelsmann conferma infine che il centro dello schieramento politico in Germania si sta disgregando sotto la spinta di pulsioni populiste sempre più forti. Condotto fra maggio e agosto su un campione di 3400 elettori, lo studio ha rilevato una crescita di 4 punti percentuali delle «tendenze anti-establishment, anti pluralismo e della voglia di "maggiore sovranità"».

(il Giornale, 2 ottobre 2018)


In Siria si rischia lo scontro diretto tra Russia e Israele

La Russia ha reso noto che, come promesso, sta trasferendo una batteria di missili S-300 in Siria. Aumenta quindi il rischio di uno scontro diretto tra Russia e Israele perché a Gerusalemme non hanno intenzione di fermare i raid contro obiettivi iraniani in Siria.

Secondo i media russi e iraniani in queste ore la Russia starebbe trasferendo una batteria di missili antiaerei S-300 in Siria, così come promesso solo pochi giorni fa, con l'obiettivo di mettere un freno ai raid israeliani in territorio siriano dopo che la contraerea siriana aveva abbattuto "per errore" un aereo russo durante un raid israeliano....

(Rights Reporters, 2 ottobre 2018)


Eutanasia: il no della Torah (e della legge naturale)

In una recente dichiarazione pubblicata dai Jews for Torah Values, una cinquantina di rabbini hanno preso una posizione dura e netta contro l'eutanasia. Tutte le religioni legittime, dicono i rabbini, dovrebbero rispettare il divieto di "spargere sangue innocente": in base a questo principio bisognerebbe opporsi alla legalizzazione dell'eutanasia e del suicidio assistito (e dell'aborto, aggiungiamo noi).
Nel documento che hanno sottoscritto, spiegando le loro conclusioni alla luce della Torah, cioè della legge divina, i rabbini sottolineano la responsabilità di tutti coloro che votano per persone favorevoli a questo "spargimento di sangue".
Combattere l'eutanasia e il suicidio assistito è un'esigenza prioritaria rispetto anche a qualsiasi considerazione di natura economica, o ad altre scelte in campo politico e sociale. Gli ebrei osservanti, quindi, non devono votare per coloro che sostengono l'eutanasia e il suicidio assistito e dovrebbero invece sostenere coloro che si adoperano per abrogare le leggi in materia laddove siano già state adottate: gli elettori sono responsabili in prima persona delle leggi emanate da coloro che hanno eletto.
È interessante questa presa di posizione degli Ebrei contro l'eutanasia e il suicidio assistito: essa dimostra che i principi della legge naturale, del resto, sono principi talmente intrinseci all'uomo da manifestarsi in tutte le religioni.
L'uomo è naturalmente portato alla vita e a preservare la vita, e a rifuggire e contrastare la morte. L'uomo che cerca e procura la morte va contro la sua stessa natura, a prescindere dal motivo e dalle giustificazioni che adduce nel farlo.

(Pro Vita, 2 ottobre 2018)


Gaza - Via dieci impiegati Unrwa per minacce

L'Unrwa, l'Agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi, ha fatto uscire da Gaza 10 propri top impiegati internazionali dopo che questi sono stati "minacciati di violenza e morte" dai dipendenti palestinesi. Lo riferisce il sito Ynet secondo cui le minacce sono cominciate dopo gli annunci dei tagli e dei licenziamenti programmati dall'Unrwa a seguito della decisione Usa di non finanziare più l'Agenzia. L'uscita dalla Striscia è avvenuta tramite il valico di Erez con Israele nonostante questo sia chiuso per le festività ebraiche che terminano stasera. Per ora a Gaza sono rimasti il capo dell'Agenzia e il suo vice anche se Ynet non esclude - in base a diverse fonti - che anche loro possano essere fatti uscire in un prossimo futuro.

(ANSAmed, 1 ottobre 2018)


Stipendio, mutua e sostegno alle famiglie dei martiri palestinesi

Il sostanzioso contributo alla violenza da parte di Hamas e Anp

La famiglia di Khalil Yusef Ali Jabarin, il terrorista di Hebron autore dell'omicidio del 45enne Ari Fuld, avvenuto il 16 settembre scorso, riceverà 1.400 shekel al mese per i prossimi tre anni dall'Autorità nazionale palestinese, come parte della sua politica di finanziamento e sostegno destinata a quelli che l'Anp definisce "martiri" della causa palestinese.
   Ma il caso di Jabarin non è isolato, anche nella Striscia di Gaza le "eroiche gesta" dei candidati al martirio vengono premiate dalle autorità che, nel caso di Gaza, si identificano nei vertici di Hamas. Nello scorso mese di giugno, l'organizzazione non ha esitato a ordinare l'assassinio di Walid al - Duheini, un giovane arabo di Rafah poiché aveva osato pubblicare su Facebook le prove dell'indebita appropriazione di Hamas delle donazioni internazionali inviate a Gaza per il supporto alla popolazione. Non solo, aveva voluto circostanziare come l'organizzazione islamista agisca come fomentatrice dei giovani gazani allo scopo di utilizzarli come scudi umani contro le forze di sicurezza israeliane.
   Negli ultimi mesi ha fatto scalpore anche il caso della piccola Layla al-Ghandour, la bimba palestinese di otto mesi la cui morte era inizialmente stata attribuita all'inalazione dei lacrimogeni esplosi lungo il confine del Striscia di Gaza dalla sicurezza israeliana in occasione degli scontri avvenuti la scorsa primavera per il trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. La realtà dei fatti si è rivelata completamente diversa. La bimba era in realtà affetta da una grave patologia che ne aveva provocato la morte. Ma il padre, recando il piccolo cadavere all'ospedale di Gaza e affermando che il decesso era avvenuto per colpa dei gas israeliani, intendeva lucrare sul decesso della piccola per ricevere i 3.000 $ spettanti alle famiglie dei martiri caduti per la causa palestinese.
   Il budget contributivo per le ricompense del terrore dell'Autorità Palestinese per il 2017 e il 2018 ammonta a 1,2 miliardi di shekel annuali, dato reso noto dal ministero delle Finanze dell'Anp. Mentre il gruppo radicale palestinese Hamas, al potere nella Striscia di Gaza, è arrivato a offrire un premio da 3.000 dollari per chi sia disposto a sposare e mantenere - anche come seconda moglie - la vedova di uno "shahid" (martire). Nell'ottica del rispetto assoluto dei diritti umani e dell'uguaglianza tra i sessi, le condizioni per ottenere l'incentivo prevedono che i candidati sposi debbano mostrarsi in grado di mantenere almeno due mogli, essere fedeli devoti dell'Islam e moralmente irreprensibili, possedere una casa dignitosa e dichiarare di voler trattare la nuova arrivata alla pari di altre eventuali consorti.
   Secondo recenti stime, alle famiglie dei cosiddetti martiri spetterebbe un sussidio fisso di 350 dollari al mese, una categoria che include tutti coloro siano rimasti uccisi o feriti nel conflitto con Israele, compresi terroristi e omicidi. E tale sussidio viene aumentato nel caso dei padri di famiglia che, in caso di decesso sul "campo di battaglia" garantiscono agli eredi 50 dollari a figlio e un aumento di 100 dollari per il "sacrificio". In totale sarebbero circa 36.000 le famiglie palestinesi che ricevono tali compensi dall'Anp per un budget stimato di circa 170 milioni di dollari l'anno.
   Risale al 2016 la notizia che anche l'Iran avrebbe devoluto un risarcimento di 5000 dollari in contanti alle famiglie dei "martiri "palestinesi uccisi nella sanguinosa spirale di violenza con Israele. Tanto venne stabilito durante un incontro tra Mohammad Fathali, ambasciatore iraniano in Libano, con alti esponenti di Hamas, Jihad islamica ed Hezbollah. Inoltre, risulta che l'Iran si sarebbe reso disponibile a offrire 20.000 dollari per ricostruire le case dei palestinesi distrutte dai raid israeliani.
   A fronte della situazione, da parte israeliana l'esecutivo si è mosso con colpevole lentezza, ma recentemente è stata approvata una legge, sostenuta dalla maggiorana della Knesset, che prevede la deduzione delle somme di denaro che l'Anp concede ai terroristi e alle loro famiglie, dalle tasse e dalle tariffe delle utenze che Israele raccoglie per l'Autorità su base mensile.
   Successivamente all'approvazione della nuova normativa, il ministero della Difesa ha istituito l'Ufficio nazionale per il finanziamento dell'antiterrorismo, responsabile dell'attuazione della nuova legge, oltre al coordinamento delle forze dell'ordine e delle agenzie di sicurezza incaricate per il fenomeno del terrorismo e la sua proliferazione.
   Sulla scorta dei provvedimenti israeliani, anche il presidente degli Usa, Donald Trump, ha annunciato severe misure contro l'Autorità palestinese che vanno dall'annullamento dello stanziamento annuale di 25 milioni di dollari per le spese sanitarie dei palestinesi nelle strutture di Gerusalemme est, il taglio dei 360 milioni destinati all'agenzia Unrwa, quello dei 200 milioni per i progetti umanitari nei territori occupati a cui, nei giorni scorsi, si è aggiunta la chiusura della sede diplomatica dell'Olp a Washington.

(ofcs.report, 1 ottobre 2018)


Bionda, bellissima e intelligente: Sara Copio e i versi da leggenda

di Alberto Toso Fei

Sara Copio Sullam
Bionda, bellissima, capace di comporre musica e versi e di dare vita a una accademia letteraria nella sua casa in Ghetto aperto a chiunque ebreo o gentile volesse dialogare e mettersi in ascolto; profonda conoscitrice di storia, filosofia, teologia, astrologia e letterature classiche ma anche dell'Antico Testamento e della religione ebraica la sua religione e in grado di leggere testi nelle versioni in spagnolo, ebraico, latino e italiano. Sara Copio fu senza dubbio una delle donne più colte del suo tempo, ma anche un insolito miscuglio di femminilità, creduloneria, coraggio nell'affermare le proprie convinzioni.
   Nata a Venezia tra il 1588 e il 1590 da Rebecca e Simone Copio, allora una delle famiglie più ricche e ragguardevoli della comunità ebraica lagunare, fu probabilmente istruita dal celebre letterato e rabbino Leone Modena (che nel 1619 le dedicò la tragedia Ester), che le fu amico per tutta la vita; intorno al 1613 sposò Giacobbe Sullam, ma i due non riuscirono ad avere una discendenza: alla morte della prima figlia Rebecca, di soli 10 mesi, seguì nel 1618 un parto abortivo. Non risulta che la coppia abbia avuto altri figli.
   Malgrado le sue dichiarate ambizioni letterarie, oggi non rimane quasi nulla dei suoi scritti, e in qualche modo questo entra a far parte dell'aura di mistero che aleggia sul suo personaggio, descritto anche da Giorgio Bassani nel celebre romanzo Il giardino dei Finzi-Contini come una gran donna: onore e vanto dell'ebraismo italiano in piena Controriforma.
   È rimasta celebre la sua lunga corrispondenza col letterato genovese Ansaldo Cebà, durata quasi quattro anni; Sara Copio Sullam era rimasta molto colpita da un suo poema eroico, La Reina Ester, e decise di scrivergli. Ne nacque un carteggio incentrato perlopiù sui tentativi dell'uomo di convincerla a convertirsi al cristianesimo, respinti al mittente con un diniego fermo e convinto.
   Peraltro l'iniziativa di Cebà divenne nota a Venezia, dando il pretesto ad altri di cimentarvisi: come Baldassare Bonifacio, frequentatore assiduo dell'accademia della donna (e destinato a divenire vescovo di Capodistria), che in un volume del 1621 intitolato "Dell'immortalità dell'anima" accusò Sara Copio di negare l'immortalità dell'anima.
   L'ebrea rispose immediatamente con un Manifesto, seguito da una Risposta al Manifesto, nella quale Bonifacio insinuò che non tanto la Copio Sullam quanto Leone Modena fosse l'autore del manifesto e di una lettera indirizzatagli dalla donna, contenente delle fini osservazioni teologiche e filosofiche in relazione alle due religioni (così come era avvenuto con Cebà).
   Gran parte del carteggio con Cebà è oggi perduto (l'uomo, forse per evitarsi problemi con l'inquisizione, visto che a Venezia Sara era stata accusata di ateismo, pubblicò solo le sue risposte), ma il riverbero che rimanda questo epistolario smezzato regala la sensazione di una donna dall'intelligenza vivace, fiera della propria appartenenza alla religione e alla comunità ebraica, della quale sottolinea coraggiosamente la situazione di discriminazione.
   Non manca però una certa civetteria tutta femminile: il compiacimento per l'amicizia importante, le sollecitudini gentili per lo stato di salute del corrispondente, la capacità di poetare, suonare, cantare, ma anche prendere in mano ago e filo per ricamare.
   Nel 1624 Sara Copio fu vittima di un singolare raggiro da parte di un letterato romano che aveva assunto come precettore, Numidio Paluzzi (secondo alcuni autore di parte dei sonetti attribuiti alla donna): l'uomo le fece credere di avere la casa infestata di spiriti che la stavano derubando, e nel contempo con alcuni complici iniziò davvero a compiere dei furti.
   Le scrisse inoltre una falsa lettera di un suo innamorato francese, facendole credere che uno spirito stabiliva rapidissimi collegamenti con Parigi, e truffandola ulteriormente. Ne seguì una denuncia della donna e una serie di squallide satire vendicative contro di lei.
   Sara Copio Sullam morì il 15 febbraio 1641. La sua tomba si trova ancora oggi nell'antico cimitero ebraico del Lido.

(Venezia-Mestre, 1 ottobre 2018)


A proposito di rifugiati: la Svizzera e l'Olocausto

Lettera al direttore del periodico Gazzetta Svizzera

Gentile direttore,
prendendo spunto dalla tematica molto attuale dei profughi richiedenti asilo, potrebbe forse essere utile riproporre - con i dovuti distinguo naturalmente! - la passata politica della Svizzera in tema di rifugiati (ebrei e non) all'epoca del Terzo Reich.
   Indispensabile, ovviamente, è la lettura di quanto pubblicato dalla Commissione Indipendente d'Esperti (CIE) presieduta dal professor Bergier e reperibile con facilità all'indirizzo internet. Tra le pubblicazioni, segnalo soprattutto il rapporto iniziale del dicembre 1999 ("La Svizzera e i profughi all'epoca del nazionalsocialismo") e quello finale del 22 marzo 2002.
   Il quadro che ne emerge, e che qui accenno soltanto rimandando tutti gli interessati alla lettura dei documenti ufficiali della CIE, è ricco di chiaro-scuri. Da un lato la consolazione che la Svizzera, nonostante le circostanze difficili che dovette affrontare nel cuore di un 'Europa abbandonata alla barbarie, seppe comunque rimanere un'oasi di libertà e di democrazia dato che la stragrande maggioranza della popolazione respinse l'ideologia razzista dei nazisti e si aprì all'accoglienza dei profughi. Si calcola che ne furono accolti complessivamente più di 51'000, provenienti da vari Paesi europei come Italia, Francia, Polonia, Germania e anche Unione Sovietica. Di questi civili accolti (uomini, donne e bambini), 21'000 circa erano ebrei, 22'000 cattolici, 2'600 protestanti e 2'300 ortodossi.
   Allo stesso tempo, però, l'accurato lavoro della CIE ha evidenziato che in questo fosco periodo della storia dell'umanità la Svizzera non ha tuttavia ottemperato fino in fondo come avrebbe potuto e dovuto alla sua tradizione umanitaria e che la sua politica di allora è stata anche contrassegnata da errori, da omissioni e soprattutto da compromessi. Basti ricordare l'antisemitismo di Heinrich Rothmund, capo della divisione di polizia degli stranieri dal 1919 al 1955, l'apposizione del timbro con la "J" (Jude) sui passaporti degli ebrei tedeschi dopo l'Anschluss del 1938 e, infine, la chiusura delle frontiere, a partire dall'agosto 1942, a coloro che erano perseguitati solo per motivi razziali. Durante tutto il periodo della seconda guerra mondiale è comprovato il rinvio alla frontiera di 24'000 persone. La percentuale di profughi ebrei tra i respinti e allontanati non è nota ma è certamente molto elevata dal momento che le direttive 1942/43 di chiusura delle frontiere erano esplicitamente indirizzate contro di loro. Luci ed ombre, quindi, peraltro già accennate alcuni anni fa dalla Gazzetta Svizzera (no 10, ottobre 2010) nel ricordare la controversa figura di Henri Guisan, "anima della resistenza, salvatore della patria" ma anche estimatore di Mussolini, del collaborazionista Pétain e di un ordine autoritario che non avrebbe disdegnato l'introduzione di una censura preventiva sulla stampa.
   È pertanto da apprezzare fortemente l'operato della CIE, istituita con Decreto Federale il 13.12.1996: un doveroso atto di memoria non solo per le vittime della Shoah ma anche per la stessa Svizzera che proprio dalla dolorosa consapevolezza degli errori passati e grazie alla sua politica neutrale al di fuori di NATO e UE, può validamente collaborare all'immenso compito di promozione del rispetto della dignità umana e della pace tra i popoli.
Cristiano Giusti
(Gazzetta Svizzera, N. 8/9 agosto/settembre 2018)


La democrazia israeliana minata da Bruxelles

La Ue ostacolo alla pace in medio oriente. Sta prendendo decisioni contro Israele e a favore dei suoi "protetti".

Scrive Israel Hayom (20/9)

Paesi membri dell'Unione europea, compresi alcuni di quelli che affermano di essere i più grandi amici di Israele, hanno deciso di schierarsi con il rappresentante della politica estera dell'Unione, Federica Mogherini, e hanno rilasciato una dichiarazione che contraddice completamente i presunti principi della stessa Ue", scrive Eldad Beck. "Sollecitando il governo israeliano a non rispettare una sentenza dell'Alta corte di Giustizia, che autorizza la demolizione delle baracche abusive del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, Germania, Francia, Italia, Spagna e Gran Bretagna hanno violato la politica estera della stessa Ue, che riconosce Israele come stato sovrano e sostiene il raggiungimento della pace sulla base degli accordi di Oslo del 1993-95. Secondo quegli accordi, Israele è pienamente responsabile dell'Area C fino a quando non saranno raggiunti nuovi accordi diplomatici in merito. Ma l'Ue ha agito sistematicamente in violazione del diritto internazionale e degli accordi di Oslo quando ha creato e incoraggiato insediamenti illegali beduini nell'Area C senza coordinarsi con Israele.
   Come è noto, l'Unione europea si precipita abitualmente a condannare qualsiasi attività edilizia ebraica in insediamenti che reputa 'illegali' per il fatto di sorgere al di là della ex linea armistiziale in vigore dal 1949 al 1967 ('linea verde'). Evidentemente per l'Ue l'insediamento illegale - ma non ebraico - di Khan al-Ahmar è questione totalmente diversa. E' proprio la posizione dell'Ue su Khan al-Ahmar che rende le sue abituali contestazioni degli 'insediamenti illegali' ebraici molto difficili da digerire.
   Non basta. La decisione dell'Unione mette in discussione una sentenza dell'Alta corte di Giustizia israeliana circa una questione su cui il sistema giudiziario israeliano ha investigato e deliberato per anni. La pretesa che il governo israeliano ignori una sentenza dell'Alta corte non è solo un'insolente interferenza senza precedenti negli affari interni di Israele. E' anche un palese tentativo di minare le fondamenta della democrazia israeliana, giacché costituisce di fatto una presa di posizione che misconosce e delegittima l'indipendenza del sistema giudiziario israeliano.
   In un periodo in cui l'Amministrazione americana, con un approccio più realistico alle questioni fondamentali al centro del conflitto arabo-israeliano, sta mostrando ai palestinesi che c'è un prezzo da pagare per chi si ostina a rifiutare il negoziato e pone continui ostacoli sulla via di un accordo di pace con Israele, l'Europa ha scelto di difendere i suoi protégés palestinesi in modo tale da convincerli del contrario, e impedire così qualsiasi possibilità realistica di arrivare a un accordo. A questo punto l'Europa si configura come uno dei maggiori ostacoli al raggiungimento di un accordo di pace regionale.
   Quando poi, come è avvenuto il mese scorso, rappresentanti ufficiali di paesi dell'Unione europea presenziano a una mostra di protesta a Khan al-Ahmar che espone propaganda dai toni schiettamente antisemiti, l'Europa non può continuare a scandalizzarsi se viene accusata di pregiudizio antiebraico".

(Il Foglio, 1 ottobre 2018)


Milano - Viaggio al cimitero Maggiore: tombe divelte e lapidi distrutte

Degrado fra i luoghi di sepoltura della comunità ebraica

 
Tombe vandalizzate e in altri casi abbandonate all'interno del Cimitero Maggiore nell'area riservata alla sepoltura dei membri della comunità ebraica milanese
MILANO - Mistero al Cimitero Maggiore, dove aleggia lo spettro inquietante di un raid sacrilego. Difficile non pensare alla peggiore delle ipotesi, sebbene non sia stata ancora verificata, di fronte allo scenario apparso ieri mattina nel campo VIII dentro il cimitero che sorge all'estrema periferia nord occidentale. Decine di lapidi pesantissime, di una bellezza antica e austera, risalenti agli inizi del '900, sono state divelte e sistemate poi in modo sconnesso. Da chi? Spesso mancano lettere e numeri in ferro battuto: sono stati rubati? Una lastra di marmo spaccata a metà: con quale oggetto? Cippi con la Stella di David sono inclinati o buttati a terra. E poi monumenti e vasi funebri giacciono frantumati al suolo.
Dentro il cimitero più grande della città non sono sepolti solo cittadini ebrei e non è da confondersi con il Cimitero Ebraico all'esterno del Musocco e che ieri era chiuso perché vigilia di un'importante festività del popolo ebraico. Domande e ancora domande: davvero qualcuno ha profanato quell'area del Maggiore? C'è l'ombra dell'antisemitismo? Intorno non si vedono né simboli né rivendicazioni. È successo nel weekend o giorni fa? Milo Hasbani, copresidente della Comunità ebraica di Milano, interpellato da Il Giorno, dice di non essere al corrente della situazione e precisa: «Non ci risultano denunce di vandalismo. Avremmo avvertito subito le famiglie e la Questura. Quel campo è molto antico, risistemato alcuni anni fa a spese della comunità ebraica. Quindi è stato consegnato al Comune perché curasse la manutenzione e fosse conservato in modo dignitoso. Io però non ho visto in quale stato versa attualmente». Il Maggiore, cimitero più grande di Milano, fu inaugurato nel 1895 e progettato dagli ingegneri Mazzocchi. Le tombe più antiche risalgono a fine '800. Alcune tombe sono invase completamente dai rovi. Ma quando negli spazi comuni ci sono erbacce e troppe foglie nessun dubbio: in quel caso è solo mancata la manutenzione umana.

(Il Giorno, 1 ottobre 2018)


Abu Mazen usa Hamas contro Israele

I palestinesi continuano a essere usati come carne da cannone nella faida interna fra fazioni e nella insensata guerra contro lo stato ebraico.

Scrive Amos Harel: Lo spargimento di sangue di venerdì scorso ai confini fra la striscia di Gaza e Israele (sette palestinesi morti) è stato il peggiore da quasi due mesi. Questa nuova esplosione di violenza ha tutta l'aria d'essere il risultato diretto di una decisione di Hamas. E' da settimane che i capi dell'organizzazione islamista minacciano di intensificare gli scontri lungo il confine con Israele a causa dell'impasse nelle trattative per un cessate il fuoco, per la riconciliazione fra fazioni palestinesi e per la ricostruzione della striscia di Gaza. In tutto questo periodo, la frequenza delle manifestazioni violente è aumentata quasi ogni giorno, e lo stesso vale per i tentativi di sfondare la barriera di confine. Venerdì scorso decine di manifestanti sono riusciti a superare la barriera, finché l'intervento dei soldati israeliani non li ha costretti a ripiegare. Secondo le Forze di Difesa israeliane, circa 20mila attivisti palestinesi hanno preso parte alle manifestazioni di venerdì, quasi il doppio della settimana precedente. Durante gli assalti, i palestinesi hanno lanciato più di 100 granate e ordigni esplosivi (in almeno due casi velivoli israeliani hanno attaccato gruppi che lanciavano granate, mentre continuano i lanci palestinesi di aerostati incendiari oltreconfine: una decina gli incendi appiccati solo nella giornata di domenica). Questi dati attestano una evidente pianificazione a tavolino degli incidenti....

(israele.net, 1 ottobre 2018)


È l'ipertesto che ha ispirato la Rete, ma solo ora il Talmud va su Internet

L'opera imponente e faticosa di Joshua Foer: pubblicare le migliaia di pagine del pilastro dell'ebraismo.

di Fabrizio D'Esposito

All'inizio di questo millennio, nel 2001, uscì per Einaudi un originale volumetto sul parallelo tra il Talmud e Internet, scritto dall'americano Jonathan Rosen. "Quando guardo le pagine del Talmud - si legge - e vedo tutti questi testi uno vicino all'altro, intimi e invadenti come bambini di immigrati che devono dormire nello stesso letto, mi viene comunque in mente la cultura frammentaria e caleidoscopica di Internet".
   Il Talmud è uno dei due pilastri dell' ebraismo - l'altro è la Bibbia, la Torah - ed è l'ipertesto più antico di sempre, compilato entro il V secolo. Di qui intrecci, rimandi, collegamenti che ne fanno una rete di link ante litteram. Per questo, l'acuto parallelo con Internet fatto da Rosen nel 2001. Solo che finora, paradosso notevole, del Talmud non v'era traccia nella Rete dei nostri tempi proprio a causa della sua sterminata redazione: migliaia di pagine che formano una sorta di enciclopedia di trenta volumi, unendo il Talmud di Gerusalemme e quello Babilonese.
   In pratica, è una raccolta vastissima, il cosiddetto "mare del Talmud", che comprende gli insegnamenti del maestri dell'ebraismo, con domande e risposte, sul significato e l'applicazione dei precetti biblici. Una casistica immensa che affronta tutti gli argomenti possibili.
   Portare quindi questo "mare" su Internet era considerata un'impresa proibitiva, finché non ci ha provato Joshua Foer, fratello di Jonathan Safrar Foer, lo scrittore di Ogni cosa è illuminata. Fondatore del sito Atlas Obscura, Foer insieme con un ex ingegnere di Google ha realizzato un sito non profit, Sefaria, dove il Talmud è finalmente accessibile dalla Rete.
   Secondo Linkiesta.it, che ha pubblicato la notizia in Italia, il lavoro è stato faticoso non solo per la mole dei volumi pubblicati (con la traduzione in inglese dall'aramaico e dall'ebraico) ma anche per le trattative sostenute per i diritti delle fonti interpretative più rilevanti. E così oggi il Talmud e Internet diventano due mondi che s'incontrano, non più paralleli.

(il Fatto Quotidiano, 1 ottobre 2018)


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Un mezzo della tecnologia moderna che riecheggia un mezzo antico

Spesso, riflettendo sulle pagine del Talmud, ho pensato che mostrino una strana somiglianza con le home page di Internet in cui non vi è nulla che sia completo. Le icone e i riquadri che le costellano sono come porte attraverso cui il visitatore può accedere a una infinità di conversazioni e testi che rimandano l'uno all'altro. Prendiamo una pagina del Talmud. Vi sono alcune righe tratte dalla Mishnah, le conversazioni che i rabbini hanno portato avanti (per centinaia di anni prima che venissero codificate intorno al 200 dell'Era Volgare) intorno a una vasta gamma di questioni giuridiche che per lo più scaturiscono dalla Bibbia ma che vanno a toccare una miriade di altri argomenti. Sotto queste righe vi è poi la Ghemarah, che comprende le conversazioni che altri rabbini di un'epoca successiva hanno portato avanti intorno alle conversazioni dei rabbini dell'epoca precedente incluse nella Mishnah. Dal momento che sia la Mishnah che la Ghemarah si sono sviluppate oralmente per centinaia di anni prima di essere codificate, accade che, nel breve spazio di poche righe, rabbini di periodi diversi partecipino al dialogo, e questo avviene sia all'interno di ciascun frammento che nella giustapposizione dei frammenti sulla pagina, dando l'impressione che i rabbini conversino direttamente gli uni con gli altri. Oltre alle norme giuridiche, il testo include anche racconti fantastici, frammenti di storia e di antropologia e interpretazioni bibliche. All'interno della pagina si estende poi una sottile striscia verticale in cui si trovano i commenti dell'esegeta medievale Rashi, che interpretano sia la Mishnah che la Ghemarah, e i brani della Bibbia (elencati anche in un altro punto della pagina) all'origine di suddette riflessioni. Sull'altro lato rispetto alla Mishnah e alla Ghemarah vi sono poi gli scritti dei discepoli e discendenti di Rashi, i tosafisti, che commentano l'opera del loro maestro e i commenti che a sua volta Rashi espone nel suo testo. Inoltre la pagina è costellata di rimandi ad altri brani del Talmud, a svariate codificazioni della legge ebraica (come ad esempio quella di Maimonide) e al Shulchan Arukb, la famosa codificazione cinquecentesca della legge ebraica a cura di Yosef Qaro. A questo miscuglio naturalmente bisogna aggiungere il punto di vista dello studente intento a leggere la pagina, il quale si trova inevitabilmente a prendere parte a una conversazione che si estende nell'arco di oltre duemila anni.
   Indubbiamente tutto questo è molto lontano dall'immensa mole di ricette, notizie telegrafiche, bollettini meteorologici, chat rooms, biblioteche universitarie, foto pornografiche, riproduzioni di Rembrandt e verbosità promozionali d'ogni tipo che fluttua indisturbata nel cyberspazio. Il Talmud è frutto dell'imperativo morale della legge ebraica, del libero pensiero di grandi menti, delle oppressioni dell'esilio, del cosciente bisogno di tenere unita una cultura e del forte desiderio di capire e seguire la rivelazione della parola di Dio. Non vi era nessuno che cercasse di acquistare un biglietto aereo o di darsi un appuntamento galante. Inoltre il Talmud fu redatto dopo centinaia di anni di trasmissione orale, e fu messo per iscritto da redattori (per lo più) sconosciuti, maestri dell'erudizione e dell'invenzione che vagano come fantasmi di area in area offrendo i loro suggerimenti anonimi, sollevando quesiti, suggerendo risposte e confutazioni, e a causa della loro molteplicità si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di un'intelligenza organizzatrice al lavoro.
   Eppure, quando guardo le pagine del Talmud e vedo tutti questi testi uno vicino all'altro, intimi e invadenti, come bambini di immigrati che devono dormire nello stesso letto, mi viene comunque in mente la cultura frammentaria e caleidoscopica di Internet. Per centinaia d'anni, norme relative a quasi tutti gli aspetti della vita ebraica si sono spostate in volo avanti e indietro, da ebrei dispersi in un angolo remoto del mondo ad altrettanti centri di studi talmudici. Anche Internet è un universo pervaso da un illimitato desiderio di sapere, fatto di informazioni e dispute, in cui chiunque sia dotato di modem può girovagare per un po' e, lasciandosi alle spalle il caos del mondo, fare domande e ricevere risposte. Mi conforta pensare che un mezzo della tecnologia moderna riecheggi un mezzo cosi antico.

(Da "Il Talmud e Internet" di Jonathan Rosen)

(Notizie su Israele, 1 ottobre 2018)


Gal Gadot interprete di "Assassinio sul Nilo"

La nuova pellicola di Kenneth Branagh dedicata ad Agatha Christie

Gal Gadot
L'attrice israeliana Gal Gadot sarà la protagonista della nuova trasposizione cinematografica di 'Assassinio sul Nilo' di Agatha Christie che si appresta a girare Kenneth Branagh. Lo riportano i media israeliani secondo cui 'Wonder Woman' (attualmente sul set per il sequel della pellicola sull'eroina) interpreterà la parte della ricca ereditiera Linnet Ridgeway che è uccisa in Egitto in viaggio di nozze dopo aver sposato - contro il volere della madre - lo spiantato Simon Doyle. Ovviamente toccherà ad Hercule Poirot/Kennet Branagh risolvere il mistero della sua morte.
Nella versione del film girata nel 1978, il detective belga era appannaggio di Peter Ustinov attorno al quale girava un cast stellare: da David Niven a Bette Davis, Maggie Smith, Olivia Hussey, Jane Birkin. Quella di Branagh - dopo 'Assassinio sull'Orient Express' - è la seconda volta con le opere di Agatha Christie.

(ANSA, 1 ottobre 2018)


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